anno IV | n. 1 | giugno 2016
Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)
anno IV | n. 1 | giugno 2016
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Gli articoli pervenuti sono sottoposti a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendenti da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicati agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accettare ai fini della pubblicazione. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. In caso di giudizi fortemente contrastanti ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scientifico. Il Board, tuttavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noti nel primo numero dell'annata successiva.
DIRETTORE RESPONSABILE Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) COmITATO SCIENTIFICO Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Anna maria Favorini (Università Roma Tre) Carlo Fratini (Università di Firenze) Francesco Gatto (Università di Messina) maura Gelati (Università Milano Bicocca) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) michele mainardi (SUPSI, Svizzera) margherita merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) maurizio Sibilio (Università di Salerno) Darja Zorc-maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COmITATO DI REDAZIONE mauro Carboni (Università del Foro Italico, Roma) Catia Giaconi (Università di Macerata) Annalisa morganti (Università di Perugia) Stefania Pinnelli (Università del Salento, Lecce) marina Santi (Università di Padova) Tamara Zappaterra (Università di Firenze)
ELENCO REFEREE N. 1/2015 Giuditta Alessandrini Alessandro Bortolotti Elena Bortolotti Maria Teresa Cairo Andrea Canevaro Lucia Chiappetta Cajola Alessia Cinotti Lucio Cottini Piero Crispiani Roberto Dainese Paola Damiani Heidrun Demo Anna Maria Favorini Cesare Fregola Antonella Galanti Patrizia Gaspari Elisabetta Ghedin Catia Giaconi Filippo Gomez Paloma Alain Goussot Angelo Lascioli Vanessa Macchia Silvia Maggiolini Angela Magnanini Annalisa Morganti Antonello Mura Daniela Olmetti Peja Stefania Pinnelli Carlo Ricci Patrizia Sandri Francesco Zambotti Elena Zanfroni
N. 2/2015 Dimitris Argiropulos Andrea Canevaro Marco Catarci Lucio Cottini Piero Crispiani Roberto Dainese Luigi D’alonzo Heidrun Demo Giuseppe Elia Massimiliano Fiorucci Patrizia Gaspari Elisabetta Ghedin Catia Giaconi Alain Goussot Dario Ianes Silvia Maggiolini Pasquale Moliterni Annalisa Morganti Antonello Mura Stefania Pinnelli Pier Giuseppe Rossi Marina Santi Francesco Zambotti Elena Zanfroni Tamara Zappaterra
indice /summary
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Editoriale / LUIGI D’ALOnZO
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LUCIO COTTInI Alain Goussot
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SCRITTI DI EnRICO GOUSSOT, AnGELO ERRAnI, DIMITRIS ARGIROPULOS In ricordo di Alain Goussot Presentazione di Roberta Caldin I. RIFLESSIONE TEORICA
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FABIO BOCCI I medici Pedagogisti. Itinerari storici di una vocazione educativa
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AnDREA FIORUCCI Dalla dialettica diversità-differenza alla significazione e rappresentazione dell’Alterità II. REvISIONE SISTEmATICA
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SAVERIO FOnTAnI Interventi educativi Evidence Based per la diminuzione delle stereotipie nei Disturbi dello Spettro Autistico III. ESITI DI RICERCA
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PAOLA DAMIAnI, HEIDRUn DEMO Il Rapporto di Autovalutazione (RAv) e l’Index per l’Inclusione: una sinergia possibile
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FELICE COROnA, TOnIA DE GIUSEPPE Il mutismo selettivo e la didattica flipped in ottica sistemica
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SIMOnE VISEnTIn Facilitatori e barriere nella pratica sportiva di atleti con disabilità fisiche: uno studio esplorativo
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AnTOnELLA COnTI, VALERIA CAPPELLInI Dalla logogenia all’extensive reading: riflessioni e proposte per l’alunno sordo e per tutta la classe
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ELEnA BORTOLOTTI, CATERInA BEMBICH L’inclusione nei servizi educativi per la prima infanzia: un’esperienza di formazione
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ELISABETTA GHEDIn, DEBORA AqUARIO Collaborare per includere: Il co-teaching tra ideale e reale
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ALESSIA CInOTTI, FRAnCESCA BASILE Il coinvolgimento paterno nella cura dei figli con/senza disabilità. I territori comuni dell’educare
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Recensioni
Iv. ALTRI TEmI
Editoriale / Viviamo tempi difficili. Il mondo a cui apparteniamo e che tutti noi desideriamo rendere migliore appare colpito da una crisi generale irreversibile che dura oramai da decenni. L’aspetto economico è forse la cosa più lampante, la crisi mondiale finanziaria e commerciale ci tocca molto da vicino perché vediamo molti dei nostri giovani in Italia, ad esempio, non trovare lavoro. Le banche, segmento storico e assai solido del nostro ordinamento civile e finanziario sembrano improvvisamente in crisi profonda, alimentando un’incertezza quotidiana che si riflette anche in altri contesti politici. L’uscita della Gran Bretagna dall’unione europea appare come un elemento devastante che improvvisamente rompe gli ideali di unitarietà e di appartenenza culturale e sociale che fondavano l’Unione europea. Molti guardano con sgomento un mondo in preda a movimenti migratori inarrestabili con il pericolo che tutto ciò provochi una reazione di chiusura nella mentalità comune e ciò spaventa. non si cresce culturalmente e socialmente arroccandosi su posizioni di privilegio sociale ed individuale e d’altronde i primi morti in Italia di violenza razzista ci indicano la pericolosità di un cammino sempre più arduo da capire e solcare.
In questo numero della nostra rivista apriamo con uno spazio dedicato ad un nostro collega improvvisamente deceduto pochi mesi fa: Alain Goussot. Una persona squisita, un docente universitario dotto, un caro amico appassionato di pedagogia speciale e di didattica speciale. Un intellettuale raffinato che soffriva per gli altri, che amava gli altri e soprattutto i più deboli. quando recentemente sono accaduti i fatti terroristici all’aeroporto di Bruxelles, immediatamente inviò a tutta la comunità della SIPeS una lunga lettera in cui esprimeva tutto il suo dolore per il Belgio, un piccolo Paese Europeo ma con grandi idee culturali, Paese natio di pedagogisti illustri e soprattutto di Decroly, a cui Alain aveva dedicato molto tempo e molto spazio nelle sue ricerche. Alain Goussot credeva nella forza dell’incontro, “molti bambini autistici tracciano movimenti con le mani, gesti che possono sembrare inutili e incomprensibili eppure gesti che per loro hanno un senso. Allora bisogna imparare a partire da questi movimenti e gesti per creare delle situazioni in cui sia possibile il contatto e quindi lo spazio dell’incontro” (Autismo: una sfida per la pedagogia speciale, Aras edizioni, Fano, 2012, p. 249). Alain credeva nella forza della relazione, amava dialogare, parlare, confrontarsi, aprirsi agli altri. Caratteristiche che ultimamente questo mondo sembra rifiutare, sempre più chiuso e preda di appetiti egoistici incontrollabili. Aiutaci Alain a resistere e a proseguire nel nostro cammino aprendoci allo spazio dell’incontro. anno IV | n. 1 | 2016
LUIGI D’ALOnZO
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La rivista prosegue nella parte dedicata alla riflessione teorica con due articoli dedicati il primo a ripercorrere un itinerario storico pedagogico speciale solcato dal lavoro di illustri medici educatori (Fabio Bocci) e il secondo dedicato alla dialettica diversità-differenza (Andrea Fiorucci). nella sezione denominata di revisione sistematica si affrontano le tematiche delle stereotipie nei Disturbi dello Spettro Autistico (Saverio Fontani) mentre nella parte dedicata agli esiti delle ricerche abbiamo i contributi originali sul rapporto di Autovalutazione (RAv) e l’Index per l’Inclusione (Pola Damiani e Heidrun Demo), sul mutismo selettivo e la didattica flipped (Felice Corona, Tonia De Giuseppe), sul co-teaching come pratica collaborativa inclusiva (Elisabetta Ghedin e Debora Aquario) sui facilitatori e sulle barriere nella pratica sportiva di atleti con disabilità fisiche (Simone Visentin), sulla logogenia (Valeria Cappellini e Antonella Conti), sull’inclusione nei servizi educativi per la prima infanzia (Elena Bortolotti e Caterina Bembich) e sul coinvolgimento paterno nella cura dei figli con/senza disabilità (Alessia Cinotti, Francesca Basile). Si tratta di contributi interessanti che segnalano la vivacità della rivista e della nostra comunità scientifica.
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Editoriale
Alain Goussot Charleroi, 01.06.55 – Pescara 25.03.2016 di Lucio Cottini
Nel 1978 consegue la Licence en histoire et philosophie (Université libre de Bruxelles) e successivamente l’Agrégé en pédagogie appliquée (Université libre de Bruxelles). Completa infine gli studi conseguendo il Dottorato di Ricerca in Storia (Istituto Universitario Europeo, Fiesole - Firenze). Il percorso di vita e di lavoro di Alain Goussot è costellato di significative esperienze nei diversi campi dell’educazione che lo hanno portato nel corso del tempo a essere professore di Storia e filosofia presso il Liceo di Charleroi (1978-1980), ricercatore presso il dipartimento di Storia dell’Istituto Universitario europeo di Fiesole (1982-1986), docente a contratto in diverse Università e Enti, Coordinatore di innumerevoli progetti nel campo educativo e del sociale, consulente per progetti inerenti i flussi migratori, collaboratore di Associazioni di familiari, Organizzazioni non Governative e così via. Il tutto in continuità con il suo impegno accademico quale Professore Associato di Didattica, Pedagogia Speciale e Ricerca Educativa presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna Alma Mater (sede di Cesena). In modo particolare va rimarcato il fatto che, in piena continuità con la tradizione della Pedagogia Speciale, Alain Goussot – seguendo in questo l’esempio del suo maestro Andrea Canevaro − ha sempre praticato una pedagogia attiva, militante, accanto ai più deboli, ai più vulnerabili, fossero essi disabili, migranti, poveri o socio-culturalmente deprivati. La qual cosa lo ha portato a spendersi in ogni dove, con una straordinaria generosità e rara umiltà che gli è oggi testimoniata da più parti, non solo i Italia. Alain Goussot, infatti, ha incarnato pienamente lo spirito del vero studioso intessendo rapporti di collaborazione a livello nazionale e internazionale. Socio fondatore della SIPeS (Società Italiana di Pedagogia Speciale) è stato membro della RICE - Rete Internazionale delle Città dell’Educazione (Università di MonsBelgio), del LISIS - Laboratorio Internazionale sull’inclusione Scolastica (HEPHaute Ecole Pedagogique, Losanna- Svizzera), dell’AIFREF - Associazione internazionale di formazione e ricerca in educazione familiare, del CREAS - Centro Ricerca Educazione e Azione Sociale (Charleroi-Belgio). Tra le sue collaborazioni internazionali si segnalano anche quella con la Cattedra sulle Identità professionali e l’innovazione nell’ambito delle disabilità intellettive e dei disturbi pervasivi dello sviluppo (Facoltà dell’educazione, Università di Sherbrooke, Canada), con l’Institut Pierre Janet (Parigi), con il gruppo di ricerca su Resilienza, attaccamento e culture dell’Agenzia medica Cervier di Parigi (coordinato dal prof Boris Cyrulnik), © Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
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con la Fondazione Françoise Minkowska (Centro di ricerca e formazione sui processi transculturali di Parigi), con il Centro ricerca e clinica transculturale (Bobigny-Parigi), con la cattedra sull’Handicap intellettivo e mentale dell’Università del Quebec (prof. J. M. Bouchard), con il Centro di ricerca sui disturbi della comunicazione Brown University-Stati Uniti (prof. Barry Prizant). Proficua è stata anche in tal senso la collaborazione con il prof. Charles Gardou docente di Antropologia e pedagogia presso l’Università di Lione, del quale ha curato la traduzione e l’introduzione del recente volume Nessuna vita è minuscola. Per una società inclusiva (Milano, Mondadori Università). Da non trascurare è anche il suo impegno nel campo dell’editoria scientifica. In questo campo è doveroso segnalare almeno la direzione delle collane Pedagogie attive: educatori antichi e moderni (Edizioni Il Rosone, Foggia), Paideia e Alterità (Aras, Fano), Disabilità, prevenzione dell’handicap e umanizzazione della cura (Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna) e le sue collaborazioni a vari comitati scientifici e riviste, tra le quali Educazione democratica (Edizioni Il Rosone, Foggia), L’Autre - Ricerca clinica tansculturale (La Pense Sauvage, Grenoble), Educazione interculturale (Erickson, Trento), l’Integrazione scolastica e sociale (Erickson, Trento). Questo impegno a trecentosessanta gradi, sostenuto da uno studio amplissimo e al tempo stesso rigoroso e accuratissimo nei diversi campi delle scienze dell’uomo e da una consapevolezza politica sul ruolo dell’intellettuale nel tessuto sociale e nei diversi contesti di azione di matrice gramsciana, lo ha portato a una prolifica produzione scientifica, coerente con un disegno scientifico culturale ben preciso e un discorso originale unitario e ben riconoscibile. Ne sono testimonianza le opere che sono qui di seguito riportate solo a titolo emblematico di una bibliografia vastissima.
A. Canevaro, A. Goussot, La difficile storia degli handicappati, Carocci, Roma, 2000. A. Goussot, La Scuola nella vita. Il pensiero pedagogico di Ovide Decroly, Erickson, Trento, 2005. A. Goussot, Epistemologia, tappe costitutive e metodi della pedagogia speciale, Aracne, Roma, 2007. A. Goussot (a cura di), Il Disabile adulto(a cura di Alain Goussot), Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2008. A. Goussot, L’approccio transculturale di Georges Devereux, Aracne, Roma, 2009. A. Goussot, Bambini «stranieri» con bisogni speciali: saggio di antropologia pedagogica, Aracne, Roma, 2010. A. Goussot, Pedagogie dell’uguaglianza, Edizioni Il Rosone, Foggia, 2011. A. Goussot (a cura di), Disabilità complesse, sofferenza psichica, presa in carico e relazione di cura, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2011. A. Goussot, Autismo: una sfida per la pedagogia speciale, Aras, Fano, 2012. A. Goussot, Pedagogie et resilience, L’Harmattan, Paris, 2014. A. Goussot, L’approccio transculturale nella relazione di aiuto: il contributo di Goerges Devereux tra psicoterapia e educazione, Aras, Fano, 2014. A. Goussot, L’Educazione nuova e la scuola inclusiva, Edizioni del Rosone, Foggia, 2014. A. Goussot, La pedagogia speciale come scienza delle mediazioni e delle differenze, Fano, Aras, 2015.
Alain Goussot
A. Goussot, R. Zucchi, La pedagogia di Lev Vygotskij. Mediazioni e dimensione storico-culturale in educazione, Mondadori Education, Milano, 2015. A. Goussot, Autismo e competenze dei genitori. Metodi e percorsi di empowerment, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2016.
Alain Goussot lascia, seppur ancora giovane, una testimonianza e soprattutto una eredità scientifica, culturale e umana ricchissima della quale è doveroso fare tesoro. Ha saputo, come pochi, intessere una trama unitaria tra impegno scientifico, accademico, sociale, culturale e politico all’insegna dell’attenzione all’altro, soprattutto a coloro i quali sono maggiormente esposti e vulnerabili alle ingiustizie e alle iniquità sociali. Il tutto a partire da una concezione dell’educazione come chiave salvifica dell’uomo come soggetto individuale e sociale. La pedagogia italiana, non solo la pedagogia speciale, possono trarre da questo studioso un esempio di impegno, di rigore e di passione per lo studio dell’uomo e dell’educazione come dimensione propriamente umana che umanizza anche laddove prevalgono ancora le logiche del conflitto e della diseguaglianza.
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LUCIO COTTINI
Scritti di Enrico Goussot, Angelo Errani, Dimitris Argiropulos
In ricordo di Alain Goussot Presentazione
di Roberta Caldin Università di Bologna
Bologna, 26 giugno 2016 Sono debitrice ad Alain Goussot di molte cose e mi ritengo fortunata per averlo incontrato, conosciuto e ascoltato, fino al giorno in cui è scomparso. Alain amava la vita in tutte le sue forme e amava l’essere umano, in un senso così rousseauiano che mi strabiliava ogni volta. Soprattutto, cercava ed amava la verità, con modalità così totali, genuine e assolute da suscitare tenerezza e ascolto rispettoso. Perché, indubbiamente, Alain era un grande utopista, che rafforzava le sue istanze e le sue argomentazioni con tutte le motivazioni possibili e impossibili, razionali e irrazionali che esistevano. In questo, era un utopista bulimico, incontenibile e impareggiabile, che adornava i suoi discorsi di ogni raffinatezza argomentativa – di fronte alla quale io soccombevo regolarmente – con citazioni che venivano da una cultura nella quale si era formata la sua irrinunciabile identità di figlio di migranti. Credo di non aver mai avuto l’ultima parola, discutendo con lui; neppure quando gli chiedevo (anche per iscritto) dei quesiti semplici e lui mi rispondeva, argomentando ampiamente e in modo ineccepibile quello che io consideravo un tema “conciso e lapidario”. Aveva una profondità pervasiva rara e prendeva tutto seriamente; soprattutto, esigeva da se stesso il massimo, senza risparmiarsi mai. Ricordo il suo impegno – in quest’ultimo anno – nel discutere, a livello nazionale e in ogni sede che lo chiedeva, della spinosa controversia riguardo alla formazione dell’insegnante specializzato per il sostegno: con la sua intensa e contagiosa responsabilità, Alain ha contribuito ad aprire degli squarci non previsti nelle granitiche indicazioni ministeriali, andando a misurarsi anche sul terreno – geografico e concettuale - dello stesso Sottosegretario di Stato del MIUR, Davide Faraone. Era impavido: se fosse vissuto molto tempo fa, sarebbe stato “un cavaliere senza macchia e senza paura”; la sua arma sarebbe stata un libro aperto (di Rousseau? di Itard? di Gramsci?); il suo cavallo, l’eredità culturale e educativa che aveva avuto dalla sua famiglia; il suo orizzonte, la ricerca della verità e l’uguaglianza delle opportunità. Meglio di me, diranno di lui le testimonianze e i ricordi che seguono: quella di Enrico Goussot, uno dei figli di Alain; quelle di Angelo Errani e di Dimitris Argiropoulos, due grandi amici di Alain. Le loro parole tratteggiano Alain nelle sue evidenze pubbliche e nelle pieghe meno conosciute, costantemente dentro ad un orizzonte di verità, libertà e fraternità che ha reso unica la sua cifra stilistica di stare nel mondo. © Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
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Poiché Alain e io stavamo preparando insieme la venuta di Ph. Meirieu in Italia, voglio ricordare alcune sue indicazioni per questo incontro, che ho ricostruito anche grazie al figlio Enrico: Alain aveva a cuore il tema delle similitudini nei processi inclusivi, che reputo uno degli insegnamenti più originali che mi abbia dato e che mi ha accompagnato anche nelle ricerche sugli alunni disabili migranti che abbiamo condotto. Gli sono grata anche di questo e lo conservo con cura.
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L’approccio transculturale c’invita a rispettare le differenze partendo dalle similitudini: solo dove si crea lo spazio per l’incontro e il dialogo diventa possibile il riconoscimento del fatto che siamo effettivamente diversi gli uni dagli altri … bisogna partire dalle similitudini per costruire lo spazio per l’incontro e il riconoscimento reciproco. In questo senso, la mediazione pedagogica, intesa come mediazione interculturale, deve costruire delle situazioni che producano delle possibilità di conoscenza, di comprensione e, quindi, di riconoscimento. È necessario partire dalle similitudini (che sono molto più numerose di quello che immaginiamo, prigionieri come siamo dei nostri pregiudizi) per costruire delle situazioni dove l’incontro, lo scambio diventa possibile; quindi, anche il riconoscimento delle differenze. Questo significa educarsi non alla diversità (la parola diversità crea barriere, separazioni, il concetto di diversità ha anche talvolta qualcosa di rigido e unilaterale, nonché autoreferenziale), ma al sentimento dell’uguaglianza (quello che sostengo nel mio libro “Pedagogie dell’uguaglianza”), cioè al riconoscimento che l’altro sente come me, ma esprime i suoi sentimenti tramite dei codici e linguaggi particolari (che provengono dalla sua educazione e dal contesto culturale dove è cresciuto), che ne fanno qualcuno anche di diverso. Nell’attività didattica, l’insegnante dovrebbe collegare similitudine e differenza, partendo dai punti di contatto: perché non pensare ad un laboratorio didattico sul viaggio, la storia dell’emigrazione italiana tramite i racconti, le testimonianze e gli scrittori? Questo può aprire uno spazio enorme di comunicazione e comprensione reciproca tra figli di migranti e alunni italiani. Facciamo anche notare che molti alunni italiani, nelle scuole del Nord, provengono da famiglie meridionali e hanno avuto, attraverso i genitori, l’esperienza diretta del viaggio oppure del racconto della migrazione dal Mezzogiorno d’Italia, con tutte le sue aspettative e le sue sofferenze. Mi ha sempre colpito che questo aspetto venisse come rimosso nelle scuole italiane; eppure, la storia della migrazione italiana da Sud a Nord come verso l’estero costituisce una grande fonte di racconti, storie e esperienze che può fungere da mediatore attivo per favorire l’incontro, lo scambio tra alunni figli di migranti non italiani e alunni italiani. Alain Goussot - Pescara, marzo 2016
Scritti in ricordo di Alain Goussot
Messaggio di ricordo di Enrico Goussot1 Carissimi e stimatissimi colleghi e studenti di Alain,
siete stati in tantissimi a farci sentire la vostra vicinanza in questo momento così difficile per la nostra vita e sono qui, a nome di tutta la mia famiglia, a ringraziarvi dal profondo del cuore per la stretta vicinanza e per la grande umanità che ci avete e che ci state dimostrando. Il Babbo, che per qualcuno di voi era il professore o il collega, per altri l’amico e il compagno di strada, lascia un segno profondo nei nostri cuori. Un segno che ci stimola a seguire strade difficili e non battute, ma che portano inevitabilmente a stare dalla parte degli ultimi, interrogando continuamente la nostra coscienza sui concetti di giustizia ed eguaglianza. Mio padre è stato oltre che un papà straordinario, un uomo profondamente libero e in continua ricerca. Non si è mai accontentato di ricette pronte, né tantomeno di formule prestabilite, ma ha sempre avuto insito nel suo cuore un forte desiderio di ricerca tutto personale. Ricerca della verità, ricerca di se stesso, ricerca dell’uomo. Ha letto e studiato una quantità inverosimile di libri, mio padre me lo ricorderò sempre con un libro un mano. Sembrava un vulcano della conoscenza. La sua figura di uomo engagé mi fa pensare a un intellettuale di rarissima portata, forse uno degli ultimi della nostra epoca contemporanea. In tutto ciò che faceva non ha mai esitato a schierarsi dalla parte dei più deboli, anche quando questo lo ha posto in situazioni scomode. Ha indagato con passione, ma anche con tanta sofferenza le rughe più buie della nostra società, entrando con coraggio nell’inferno degli ultimi e degli oppressi e facendosi amico dell’umanità, come amava lui stesso definirsi. Non a caso era molto legato a figure come Victor Hugo e Jean-Jacques Rousseau, che considerava il Maestro. Il suo amore per la disabilità nasce proprio da questo desiderio di mettersi dalla prospettiva degli ultimi. Ricorderò per sempre la sua gioia quando è stato pubblicato il suo libro Pedagogie dell’uguaglianza. Credo che lì ci sia la chiave per capirlo davvero. Non ha mai giudicato nessuno, e la testimonianza più bella che ci lascia è la libertà. A noi figli ci ha lasciati liberi di scegliere, nonostante a volte le nostre scelte non fossero in linea con il suo pensiero, ma non ci ha mai impedito o ostacolato nella costruzione della nostra personalità. Era felice della nostra realizzazione come persone umane e il suo unico desiderio era la nostra felicità. Una felicità che non vedeva nella posizione sociale, né tantomeno nel guadagno, ma nel fare della nostra vita un autentico capolavoro. Quando mio fratello ha scelto di entrare in seminario, da uomo profondamente laico ha accettato con gioia questa scelta con queste parole che non dimenticherò mai: Roberto sono molto contento, il Babbo ti vuole bene. Ricordati di stare sempre dalla parte degli ultimi. Da cittadino del mondo, proprio per la sua triplice origine (francese, belga e italiana), credeva nel concetto di transculturalità che ci ha continuamente trasmesso in famiglia. Per noi era uno stimolo costante, non amava la banalità e quando discutevo con lui sentivo dentro che dovevo essere preparato intellettualmente 1
Figlio di Alain. Gli altri sono: Marcel, Roberto, Giovanna.
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ENRICo GoUSSot
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per tenergli testa. Penso che anche per voi la sua presenza sia stata una fonte di ricchezza inestimabile e nonostante ci abbia lasciato improvvisamente in quella notte tanto buia e senza una motivazione né razionale, né scientifica, sono certo che il suo contributo continuerà a essere visibile, anche nella vostra comunità scientifica, agendo nei cuori di quanti gli hanno voluto bene. Ancora un grazie di cuore a tutti voi. Pescara, 7 aprile 2016
Il ricordo di Angelo Errani
Università di Bologna
Abbiamo perso Alain
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Mattina presto della vigilia di Pasqua, in quegli orari in cui, quando suona il telefono, non si può fare a meno di preoccuparsi. È Dimitris Argiropoulos che esita un po’ e poi mi dice “Angelo, abbiamo perso Alain”. Perdere, restare privi, restare senza, senza speranza di poter ritrovare. Sono seguiti giorni difficili. C’è voluto l’ultimo saluto a Pescara e la forza e la dignità della meravigliosa famiglia di Alain per riuscire a collegare la perdita dell’amico, compagno di studi e di lavoro, a quello che lui lasciandoci ci affida, la sua eredità. La sua testimonianza di vita ci insegna che l’eredità di chi ci lascia è prima di tutto un valore da vivere e non un feticcio da omaggiare. È un capitale da far fruttare e non solo un patrimonio da custodire. Le persone che ci lasciano ci identificano, potremmo dire che ci fondano. Cioè noi siamo inevitabilmente un po’ di loro e loro un po’ di noi. Un’eredità, sia essa storica, culturale, politica, personale, di cui tutti deteniamo le azioni, anche se poi tante volte non siamo capaci di farle fruttare. Che eredità ci lascia Alain? Alain ci ha insegnato che le parole sono importanti. Parlare, scrivere, non tacere davanti a qualsiasi ingiustizia è un insegnamento di Alain che a volte ho capito con difficoltà, forse mi è capitato di attribuirlo al suo carattere non sapendo sempre coglierne la forza del pensiero critico, della dignità, della ribellione al “pensiero unico”, al conformismo delle mode, spesso spacciate per cambiamento. È un insegnamento che rimpiangerò, anche se a volte è avvenuto che mi stancasse, come quando, ad un certo punto di una serata in cui per ragioni di lavoro non poteva rientrare a Pescara e si fermava a casa mia, è accaduto che gli dicessi: “Alain, andiamo a dormire”. Alain ci ha insegnato a rivolgere lo sguardo ed i passi verso il futuro, cioè a far nostra la consapevolezza, testimoniata dalla sua vita, che siamo al mondo per conoscerlo e, conoscendolo, per cambiarlo nella direzione di una progressiva umanizzazione, da realizzarsi attraverso l’inclusione, a partire da chi non ha voce. Così come Francesco Gatto negli ultimi anni della sua vita ci insegnava che nella vita c’è la morte, Alain ci ha insegnato che nella vita c’è la disabilità. Uno dei suoi libri, “Il disabile adulto”, ha un Prologo: “Storia di una madre che diventa disabile”. È la storia della sua mamma, storia che si collega a quella di tutte le persone con disabilità, persone che hanno una vita con interessi, Scritti in ricordo di Alain Goussot
competenze, sentimenti e che Alain non accetta che vengano considerate – ricorro alle sue parole – “come categorie nosografiche o come oggetti diagnostici”. Anna Maria Favaretto che da treviso emigra a Chatelet, nei dintorni di Charleroi in Belgio, seguendo il fratello Ferruccio, minatore. Alain racconta che “gli occhi le luccicavano di ammirazione”, ricordando di aver visto toscanini, “la cui musica amava tanto e artista che aveva osato dire di no a Mussolini”. Racconta, anche la capacità della mamma, nell’occasione della sua nascita, di gestire il dolore del parto, per “partorire con dignità” di fronte ad infermiere che sostenevano che “le italiane urlano come animali”. Ricorda poi che, quando aveva tredici anni, la mamma gli disse: “Alain devi studiare, non per diventare una persona importante, ma per difendere i tuoi diritti, per capire il perchè delle cose ed essere un uomo onesto” e aggiunge “Questa frase risuona continuamente dentro di me”. Alain, in tempi come questi nostri in cui vengono introdotti, paradossalmente in nome dell’inclusione, logiche di nuove separazioni e rischi di nuove marginalità scolastiche e sociali e in cui la cura della legalità, delle istituzioni e dei valori costituzionali appare rivoluzionaria, ci dona un corpo di studi scientifici in cui la pedagogia, oltre che con le altre scienze sociali, è inscindibilmente connessa con la politica e la morale. Fondamentali sono i suoi contributi recenti sul tema dei BES, su quello della pericolosa introduzione della separazione fra competenze specializzate e competenze disciplinari degli insegnanti e sulle migrazioni e il disconoscimento del rapporto fra emarginazione sociale ed esistenziale nelle periferie delle città europee e il terrorismo che ha ferito in particolare il Belgio, il suo paese d’origine che amava tanto: “piccolo paese” che, “transculturale per storia” e per collocazione, riferimento fondamentale del processo di integrazione politica e culturale dei popoli europei. Fondamentale, per mezzo di una ricca serie di pubblicazioni, è il suo richiamare la comunità scientifica all’attualità della pedagogia di Lev Vygotskij, delle pedagogie attive, Makarenko, M. Montessori, J. Dewey, o. Decroly, R. Cousinet, C. Freinet, della pedagogia istituzionale di F. oury e delle testimonianze di Mario Lodi e Lorenzo Milani. Sono studi che contraddicono la logica corrente della competitività e della misura della qualità secondo criteri quantitativi, pretese come naturali. Sono studi che smentiscono che una persona con disabilità, come scrive Andrea Canevaro, “debba avere una vita con sostegno e che il sostegno sia individuale, affidato ad un operatore dedicato”. tutti i suoi contributi sottolineano che ciò che accomuna ogni essere umano è la fragilità e, insieme con la vulnerabilità, la presenza di potenzialità. “I bisogni educativi – argomenta Alain in un’intervista rilasciata a Micromega il 26/11/2013 – sono universali: ogni alunno ha proprie caratteristiche e particolarità, ma anche diritto all’uguaglianza delle opportunità... Sono ormai due decenni che il mondo della scuola e dell’educazione è colonizzato dallo sguardo clinico-terapeutico... L’alunno con difficoltà di apprendimento non è più considerato come soggetto significante di una condizione sociale, culturale, familiare, ma come un soggetto portatore di problemi e come destinatario di interventi “curativi” che lo devono riportare alla normalità... Si perde di vista che l’insegnamento/apprendimento è anzitutto relazione, un processo complesso che fa dello spazio classe un laboratorio interattivo permanente... Si perde di vista che la stessa pedagogia e anno IV | n. 1 | 2016
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didattica speciale è per tutti... Si va sempre più nettamente verso una scuola a due velocità: quella di élite dei quartieri alti e quella dei figli del nuovo proletariato nelle periferie della società... Compito della comunità scientifica è diffondere fra gli insegnanti e gli operatori dell’educazione i risultati della ricerca e anche il confronto fra i diversi orientamenti... Penso che sarebbe utile fornire una formazione plurale agli insegnanti: è la base per fare delle scelte consapevoli e non farsi “colonizzare” dall’ultima moda, spacciata per verità scientifica... Penso che le Società pedagogiche dovrebbero fare un’opera di recupero del patrimonio pedagogico ricco e vario del passato, metterlo a disposizione... Inoltre, la comunità scientifica e i diversi ricercatori nell’ambito pedagogico e psicopedagogico devono accompagnare il mondo della scuola e gli insegnanti in un lavoro di elaborazione delle proprie esperienze”.
Alain ci dona certamente tanti altri insegnamenti ancora. Insegnamenti che ciascuno che l’abbia incontrato nel lavoro o nei suoi contributi scritti potrà scoprire ricordando, rileggendo e fermandosi in silenzio a riflettere. Bologna, 8 aprile 2016
Il ricordo di Dimitris Argiropoulos
Università di Parma
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! Foto Collegamento delle frazioni Barletta e Castellino con Guiglia, provincia di Modena, 1959
Scritti in ricordo di Alain Goussot
Alain Goussot Icone di presenza di un amico La perdita di Alain non è la creazione di un vuoto. La sua presenza fra di noi continua attraverso le sue parole, dette e scritte, i suoi insegnamenti, le amicizie vissute nei corsi, negli interventi educativi, nel territorio e nei legami più intimi con tanti di noi, colleghi, compagni di strada, interlocutori di ricerche, questioni, problemi, indirizzi di studio. Condivisioni che attraversano gli anni della sua presenza a Bologna e che continuano ad esserci e a interessarci. Per evocare la sua presenza, parto da voi (corsisti del Corso di specializzazione per il “sostegno”) e dai messaggi che mi avete indirizzato in questi giorni. Da uno in particolare, poiché nasce dalla nostra ricerca, il nostro interrogarsi sui mediatori utili nella scuola, e arriva a diventare un tema collegato ai nostri rapporti e a segnare in un certo modo la presenza di Alain, ora che non c’è, contribuendo a non farla diventare una assenza. Nei nostri incontri e lezioni, lo sforzo comune di pensare le mediazioni ci ha portato ad evocare immagini di mani che si stringono, i ponti, i delta dei fiumi, la meccanica degli ammortizzatori dell’auto, il cerchio e la sua periferia, l’istmo (soprattutto di Corinto) e, ora, la Corda tesa che porta i bambini appesi ad una carrucola, e accompagnati ad attraversare il fiume Panaro, per poter arrivare a frequentare la loro scuola. Sicuramente Alain l’avrebbe considerata e ammirata questa foto, avrebbe pensato e scritto evocazioni ed emozioni sul contesto del territorio e della scuola, sicuramente si sarebbe lasciato trascinare da qualche ricerca per capire se qualcun altro ha scritto cose e cosa; sicuramente avrebbe contribuito a mantenere la Corda tesa, dando continuità ad una funzione di mediatore trasversale nei tempi e nel pensare la corda tesa dell’importanza dell’educazione. Sicuramente ci saremmo lasciati con una “litigata”, cercando di capire se la donna della foto, che accompagna i bambini appesi a scuola, sarà stata una madre o la loro insegnante. Sicuramente gli avrei proposto, anche per fargli piacere, che forse si trattava di una partigiana della zona (Appennino modenese), in attività di accompagnamento per contribuire alla realizzazione della Costituzione italiana. La Corda tesa è il mediatore che ci permette di pensare Alain e le cose che ci ha lasciato. La corda tesa diventa Intesa, in-tesa, Interesse convergente e accordo per attraversare con dignità e curare l’incontro in educazione e nelle amicizie. Diventa inter-essere per potere vedere, intra-vedere le cose del nostro mondo, esercitando lo sguardo in direzione, di causa e documentata, forse “ostinata e contraria”, nello stare con chi è disegnato senza possibilità: gli ultimi. La passione educativa, dello storico Alain, nasce in Piazza Giovanni da Verrazzano dove ci conosciamo e lavoriamo come educatori gestendo una Comunità residenziale (coop CSAPSA, fine anni ‘80). Ci accorgiamo che non sappiamo cosa fare e i nostri ragazzini sono “duri”, provengono dalle famiglie di migranti italiani del sud, portano con loro esperienze traumatiche e difficilmente si lasciano “imbastardire” dagli altri e cercano di proteggerci. Proteggere noi educatori da una realtà che non conosciamo. Avevano capito che non conoscevamo, e per questo non capivamo, che cosa fare con loro e con loro nelle periferia e nella città di Bologna. Certo i progetti c’erano, le carte ben scritte descrivevano azioni e mansionari, le relazioni arrivavano puntualmente all’USL ma non c’era l’intesa (la corda anno IV | n. 1 | 2016
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tesa) e non si sapeva rispondere ad una domanda molto amata da Alain, il “che fare?”. Eravamo educatori nominati e spaventati dal groviglio e dalla quantità delle questioni affrontate e che richiedevano risposta. Personalmente, avevo una certa destrezza con il marciapiede, “perdevo” tempo, conoscevo e mi facevo conoscere in strada. Alain leggeva molto, “perdeva” tempo sui libri e conosceva bene la storia, la storia del ‘900 e i suoi elementi particolari. Siamo diventati amici perdendoci in strada e nei libri. Ho letto molto, grazie ad Alain e lui ha imparato molto dei movimenti in strada, ascoltandomi. Si rievocava la storia e la Rivoluzione Francese. Alain era attratto da Jean-Jacques Rousseau, a me affascinava Danton: discussioni, ma anche liti, per riscoprire e citare Maximilien-FrançoisMarie-Isidore de Robespierre, l’incorruttibile, oppure Rigas Ferraios, rivoluzionario greco e pan balcanico. Abbiamo riletto il Poema pedagogico di Makarenko e ci siamo “confrontati” pesantemente sulla soggettività individuale dei contadini e la perdita di questo bisogno “alienante”, nel processo di industrializzazione, per litigare poi sulla pronuncia del nome: si dice “Anton Makarenko”, oppure “Antòn Makarenkò”? Alain metteva l’accento all’ultima sillaba anche per pronunciare il nome di Lenin che diventava Lenìn; così, ho cominciato a chiamare Makarenko, Makarenkopoulos: per un po’ mi ha tenuto il muso e poi ha smesso, anch’ io ho smesso. Si studiava per cercare di capire, con i nostri ragazzi descritti come soggetti a “rischio di devianza”, e siamo arrivati, interessati e in accordo, alla figura di Gavroche e ci siamo ricreduti dando ascolto ai nostri, i ragazzi della comunità. Nascono amicizie profonde e ricordo il rapporto di Alain con Ruggero Baraldi, morto giovanissimo. Alain ne parla nella Prefazione del suo libro, Pedagogie dell’Uguaglianza, Edizioni il Rosone Foggia 2011. Negli anni ’90, Alain fonda l’Associazione “Gavroche”, cercando di mettere insieme altre solitudini, nelle sfide del dopo la “caduta del muro” Dall’ascolto, parte la passione per i contesti più grandi ed estesi e, forse per questo, inavvicinabili, forse ritenuti immodificabili. In ogni nostra uscita, e ogni volta che si incontrava la Polizia, i nostri adolescenti, esperti del territorio, si fermavano e alzavano preventivamente le mani, segno di resa e di “buona condotta” nonché di “riconoscimento” verso quelli superiori della “pula”. Ci invitavano a fare altrettanto e a nostra volta chiedevamo loro di smetterla. ovviamente, gli agenti, quasi sempre meridionali, scrutando gli accompagnatori dei ragazzi, erano più interessati alle nostre persone che a loro. E, infatti, scoprivano che si trattava di “due che si dichiarano educatori, uno belga e l’altro greco. Il belga vestito di loden color verde pino e con il cappello Besilo Coppola, e il greco…”. Puntuale il fermo per accertamenti, sempre indirizzato a noi, “favorisca i documenti”, “Permesso di soggiorno”. È su queste due espressioni, emblematiche e ripetute, che nasce la passione per l’Europa, continente in divenire per la convivenza, la mescolanza, la liberazione dalle appartenenze strette. È da queste espressioni che nasce la passione di Alain per l’intercultura e la transculturalità. Passione e sogno. Europa come Buona Apertura attraverso la reciproca conoscenza. Apertura alla conoscenza. È stato sempre un credente, con me si dichiarava cattolico. L’ho visto stare “sospeso” in momenti di una certa importanza e spesso, chiedendogli se aveva qualcosa, mi rispondeva che pensava e, timidamente, che stava pregando. Lo lasciavo pregare, cercando di rispettare la sua “sospensione”. Ha avuto e maturato Scritti in ricordo di Alain Goussot
una grande e importane amicizia con Pietro Barcellona, si sono frequentati e discusso molto. Ha recitato con i miei figli, spostandoli dai miti di Esopo, il “Padre Nostro”. Cercava nella figura e negli insegnamenti di Gesù quella prospettiva rivoluzionaria, necessità impellente del nostro mondo; erano frequentissimi i suoi riferimenti a tolstoj e a Dostoevskij ed era saggiamente orientato a quella irriducibile laicità che segnò il suo “incontro” con Raffaelle Laporta: “La laicità è un accordo reciproco di libera convivenza”. L’ultima nostra condivisione è stato il testo “La lotta per un linguaggio colto” di Lev Davidovic trotzky, 1923 dalla “Pravda”, 16 maggio 1923 (ora in Leon trotsky, La vita è bella, Chiare lettere, 2015), libro curato da David Bidussa, edito in occasione dei 75 anni dalla morte di trotzky, ipotesi di lavoro da meditare e sviluppare come una delle chiavi per rileggere la sconfitta del comunismo novecentesco. Alain citava: Il linguaggio scurrile e la volgarità sono un lascito della schiavitù, dell’umiliazione e della mancanza di rispetto per la dignità umana, la propria e quella degli altri”; ancora: “Voi supponete che un uomo abbia il diritto di plasmare gli altri uomini come egli stesso vuole. Dimostratemi pure la legittimità, di questo diritto, ma non con l’argomentazione che l’abuso del potere esiste ed è esistito da sempre. Non siete voi i querelanti ma noi, e voi dovete rispondere.
Ho cercato di ragionare con Alain sul lavoro di Giavanna Axia, ma non abbiamo avuto il tempo; ci siamo contrapposti e gli ho risposto citando il filosofo Emile-Auguste Chartier, meglio conosciuto come Alain (sic!): I modi volutamente gentili non sono gentilezza. Per esempio, un uomo realmente beneducato potrà trattare duramente e perfino con violenza una persona spregevole o cattiva…
da Alain, Propositi di felicità, edito da Elliot, 2013. Alla fine mi è scappata una espressione “volgare”, “che Trosky!”. Mi prende la rabbia per la sua “perdita” e la ripeto spesso. A metà degli anni novanta, un pomeriggio tranquillo e, forse a corto di citazioni, mi chiese all’improvviso cosa facevo il giorno 11 giugno 1984. Non era tranquillo e il suo viso mostrava apprensione. Una strana inquietudine. Ho risposto che non ricordavo: si sorprese. Gli ho risposto che, vista la situazione, forse mi trovavo al mare, davanti ad un bicchiere, forse accompagnato, pienamente in situazione di ozio. All’epoca, mi preoccupavano ancora domande di questo tenore: cosa facevi il tal giorno? mi spiegò che il giorno 11 Giugno 1984 morì Enrico Berlinguer e lui tornò a casa e si mise a piangere con Patrizia, sua moglie. E da questo racconto iniziò a spiegarmi la storia del PCI e dell’Emilia. Mi fece amare Gramsci. Si presentava sempre, mostrando le sue origini. Il suo accento francese diventava più pronunciato ogni volta che si riferiva a sua madre, immigrata trevigiana, suo padre parigino e lo zio materno partigiano, caduto per la liberazione del Paese. Nasceva ancora una conversazione sui nonni e le nonne. tutti e due avevamo e abbiamo affetti lontani e i nostri figli e figlie hanno vissuto e goduto poco e a distanza i nonni. Riscopriamo Victor Hugo, L’arte di essere nonno, pubblicato nel 1877 in Francia e in Italia, in una sola edizione che risale al 1929, ora di nuovo reperibile nelle edizioni Le ombre, 2013: “Ah! i figli dei nostri figli c’inanno IV | n. 1 | 2016
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cantano, sono delle giovani voci mattutine che trillano. Sono nella nostra lugubre abitazione il ritorno delle rose, della primavera, della vita, del giorno! Il loro riso ci fa spuntare una lacrima sulle pupille e fa trasalire le pietre della nostra vecchia casa; il loro sguardo radioso disperde i terrori della tomba semi-aperta e degli anni gelidi e gravi; essi riconducono la nostra anima ai primi anni; fanno riaprire in noi tutti i nostri fiori secchi; e ci ritroviamo dolci, semplici, felici di nulla; il cuore sereno s’empie di un’onda aerea; vedendoli si crede veder sbocciare se stesso; sì, diventar nonno, è ritornare all’aurora” e Alain ha avuto splendidi genitori, ha radiosi figli e anche un bellissimo nipote. Nel riscoprire e ritornare e tornare ancora a Victor Hugo si incontra Margherita Zoebeli, nella prassi (Buona e Amabile) del suo saper soccorrere le persone, i singoli della città di Rimini, nei mesi immediatamente dopo la Liberazione della città, ad opera delle truppe alleate, in particolare greche. Il suo dispositivo, manufatto di legno dalle sembianze di un armadio, che si trasforma in tavolo e sedie e in letto, permette, nella città distrutta, di ricostruire la famiglia, i legami: diventa l’armadio mediatore per ricostruire la famiglia e la comunità. Questo mediatore è stato scelto per creare resistenza agli sgomberi subiti dalle famiglie rom del lungo Reno a Bologna (anni 2000): il sindaco sindacalista dichiarava che a Bologna non occorreva la mediazione e ordinava di implementare continuamente gli sgomberi. Ho chiesto ad Alain notizie e aiuto bibliografico, non ha potuto aiutarmi. Conoscevo gli scritti di Margherita Zoebeli. Ho scoperto la passione di Alain per la Resistenza. Io, noi, rigorosamente pochi, sottraevamo materiale domestico, ovunque reperito, appassionatamente, stoviglie e generi da cucina, dando seconda vita alle cose, ridando vita allo scarto, ripristinando l’utilità del mobilio per la casa. tutto è stato donato alle famiglie sgomberate, come tutto è stato insegnato: piste e modalità di reperimento, con meticolosa e rigorosa attenzione. Centotrentasei famiglie di rom rumene hanno potuto avere il materiale, non avevano la casa ma hanno potuto avere e hanno avuto; piatti e posate, pentole, sedie, tavoli e altro materiale, come se avessero la casa (“fare come se” direbbe Albert Camus). Hanno potuto resistere alla violenza istituzionale e, alla fine, hanno avuto pure una abitazione. Alain non ha partecipato direttamente all’azione, non sapeva guidare la macchina e non aveva la patente, però ha partecipato, era presente e contento, ha tenuto la conta ed è stato coinvolto con la promessa del silenzio. Ha sofferto. Ha sofferto nel non poter dire e, soprattutto, nel non poter scrivere, ma si incantava a vedere che questa mediazione - resistenza funzionava. Intraprese il gusto del silenzio. Una leggera passione. Una sera mi telefonò e mi chiese “a che numero siamo?”. Risposi, “siamo a 68”; “dai, non prendermi in giro”; eppure era così e siamo riusciti ad arrivati a 136. Per Alain è stato importante resistere alla resa, all’ impossibilità. Scrive per voi, corsisti, Coltivare la capacità di sognare: Oggi come oggi tutti vi dicono che bisogna essere realisti. Manifestare, indignarsi, criticare il conformismo del pensiero unico dilagante, opporsi ai poteri forti (quelli veri della finanza), pensare che sia possibile un altro mondo più giusto e umano, rigettare il carrierismo degli opportunisti della professione o dell’accademia, schierarsi con i vinti e gli ultimi, amare, essere solidale con i sofferenti, dare senza chiedere nulla in cambio, mettere i principi etici al centro dell’azione umana e politica, sarebbe vecchio e non adeguato al mondo moderno della competitività e della competenza tec-
Scritti in ricordo di Alain Goussot
nica. Sembra che l’utopia e la speranza in una rivoluzione culturale delle coscienze per cambiare le strutture d’ingiustizia in strutture di giustizia sia qualcosa d’irrealistico e fuori dalla storia che non avrebbe più un futuro se non quello della società attuale con la trasformazione degli esseri umani in nuovi schiavi. Eppure più forte di tutte le strutture e di tutti i fatalismi c’è l’anima dell’uomo e il suo potere d’immaginazione, la sua capacità di sognare e di continuare a fare vivere lo spirito d’utopia, quello spirito che sorprende sempre i governanti e i potenti; lo spirito d’utopia che vive nell’infanzia, nell’adolescente che rinasce e scopre le grandi passioni, nello sfruttato che si mette in piedi, negli innamorati, nella solidarietà tra le persone, nel malato che combatte per la sua dignità, nell’educatore che crede ancora che l’educazione è emancipazione e non sono tecnica. L’epoca del cinismo pragmatico è il mondo morto dei morti vivi che tentano di addormentarci, sta a noi ascoltare dentro di noi e tra di noi lo spirito d’utopia e farlo vivere in ogni momento!
Personalmente, non so fare memoria per un amico che ci ha lasciato pochi giorni fa. Mi è presente. Sento il bisogno di piangerlo e non di condividerlo. Mi è presente e vi presento le sue parole, indirizzate e confidate per voi. Che fare? Convincere, e in questo trovo molto le tracce di Franco Basaglia, Convincere. Con-vincere! i corsisti, gli educatori di... • rivedere, riflettere e rivisitare con rigorosità il proprio lavoro; • aggiornarsi, studiare e ri-cercare l’esperienza degli altri, mettere insieme; • resistere, perche tutti possono.
La presenza di Alain consiste nel tenere la corda tesa e aver cura di non allentarla e neppure di spezzarla.
Bologna, 8 Aprile 2016
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Foto da Nigrizia, Eidomeni Grecia, Marzo 2016
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I Medici Pedagogisti. Itinerari storici di una vocazione educativa
Key-words: Medical Pedagogists, Special Pedagogy, Science of Education, History of Education, History of Pedagogy
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
By relying on the assumption that there are some missing, unknown, or omitted pieces in the History of Pedagogy and Education that are traceable in the History of other contiguous sciences, such as Medicine and Psychology, the author of this paper focuses his attention on the important role played by Medical Pedagogists. Among them we find such renowned names as Itard, Séguin, Montessori, Montesano, Bollea, but also lesser known ones such as Tamburini, Morselli, Pizzoli or Ferrari. These women and men devoted their attention to the education of people with disabilities, redefining the concept of education itself. For this reason, they should not be placed in a separate area- such as a supposed clinical pedagogy - or outside Science of Education, but ought to be identified as part of a historical path regarding education. A path that, by unfurling in the many Stories that constitute it, eventually leads to multiplicity, which is one of the distinctive traits of Special Pedagogy.
abstract
Fabio Bocci / Università Roma Tre / fabio.bocci@uniroma3.it
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A Francesco Gatto e Alain Goussot con la convinzione che i loro sentieri di studio e di vita non si siano affatto interrotti, ma alberghino nel cuore e nell’impegno di chi concepisce l’educazione come la risposta più ricca e umanizzante nei confronti delle barbarie di ieri e di oggi
Introduzione
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I pedagogisti speciali hanno da sempre rivolto la loro attenzione alla dimensione storica dell’educazione, in modo particolare all’educazione dei disabili. Accanto a lavori organici – si pensi a Gatto (1977), Crispiani (1998), Canevaro e Gaudreau (1998), Canevaro e Goussot (2000) – quasi tutti i manuali di Pedagogia Speciale contengono capitoli o sezioni di natura storico pedagogica (Caldin, 2001; Gelati, 2004; Trisciuzzi e Galanti, 2001; Trisciuzzi, Fratini e Galanti, 2007; Pavone, 2010). Recentemente, si è assistito – come non ha mancato di evidenziare Francesco Gatto nel 2012 a Lecce, in un intervento nell’ambito del II Convegno Nazionale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SIPeS) – a un significativo incremento delle produzioni scientifiche in questo ambito. Basti pensare ai lavori di Zappaterra (2003), Goussot (2007; 2015), d’Alonzo (2008), Bocci (2011a), Mura (2012) e alla recentissima e imponente opera collettiva Storia della Pedagogia Speciale curata da Piero Crispiani (2016). Proprio a partire dal titolo di questo volume (al quale abbiamo partecipato) emergono alcune suggestioni e questioni in merito alla possibilità che si possa definire una Storia della Pedagogia Speciale che non sia al tempo stesso parte integrante della Storia della Pedagogia (in quanto storia del pensiero sull’educazione e degli autori ad essa riconducibili) e della Storia dell’Educazione (come storia delle pratiche, ovvero dell’inverarsi nella storia dei pensieri e delle idee sull’educazione, in tutte le sue possibili espressioni). Suggestioni e questioni che ci invitano a proseguire nell’impegno a indagare la dimensione storica dell’educazione dei disabili e che cerchiamo di essenzializzare qui di seguito.
1. Partendo dalla riflessione di Andrea Canevaro (2000), il quale rileva come il rinvenire le tracce (le storie) dei disabili nella Storia porti alla molteplicità, è necessario far emergere e introdurre nella Storia della Pedagogia e nella Storia dell’Educazione quelli che sono dei veri e propri pezzi mancanti, in quanto misconosciuti o, addirittura, tradizionalmente non contemplati come appartenenti a questa/e Storia/e. 2. Comprendere che tali pezzi sono mancanti (ossia misconosciuti o esclusi), in quanto ubicati nelle storie e nella Storia di altre Scienze contigue alla Pedagogia, come la Psichiatria e la Neuropsichiatria Infantile, la Psicologia o l’Antropologia. Parafrasando ancora Canevaro (2006), è dunque necessario riconfigurare le logiche dei confini e dei sentieri che ci legano a queste scienze e per fare questo occorre ridefinire la posizione occupata dalla Pedagogia Speciale all’interno della Scienza dell’Educazione – esserne al tempo stesso nel cuore e ai confini (Pavone, 2014) – e apprendere sempre meglio non tanto e non solo ad essere I. Riflessione teorica
interdisciplinari ma, come ci piace dire, ad abitare l’interdisciplinarietà (Bocci, 2011b; Bocci, 2013a). 3. Dal nostro punto di vista la capacità di abitare l’interdisciplinarietà si offre anche come un ottimo deterrente nei confronti di alcuni rischi che la Pedagogia Speciale corre quando agisce ai confini della Scienza dell’Educazione; in modo particolare quando ha a che fare con la clinica. Come abbiamo avuto modo di dire altrove (Bocci, 2007) – e ci sembra doveroso ribadirlo qui parlando di Medici Pedagogisti − il nodo centrale della pedagogia (tout court, non solo speciale considerato quanto abbiamo appena detto nei punti 1 e 2) nel suo rapportarsi al campo della cura e della salute non è tanto quello di farsi, di divenire o di essere riconosciuta come clinica. Si tratta piuttosto di: a) concorrere, nell’ambito della ricerca e della riflessione ermeneutica che gli è propria e con i propri saperi specifici pedagogici, alla comprensione di ciò che può e deve essere definito clinico; b) contribuire, in virtù di una conoscenza diretta dei fenomeni osservati e indagati (si pensi allo studio della didattica e della gestione della classe, delle relazioni educative a scuola o in famiglia), alla comprensione di ciò che la clinica spesso deve inferire, oppure osservare e valutare da una prospettiva non pedagogica.
E tutto ciò all’interno (e non all’esterno o ai margini) e in ragione degli intrecci epistemologici che – in quanto Scienza dell’Educazione – è chiamata a intessere con altri ambiti scientifici nel momento in cui è impegnata a perseguire al meglio la definizione del proprio oggetto (che è e resta l’educazione). Ecco, allora, farsi incontro in tutta la sua fecondità questa ulteriore argomentazione di Andrea Canevaro in merito al senso e al significato della Pedagogia Speciale. Ci ricorda infatti lo studioso che Pedagogia Speciale non è «una sola persona, una sola azione, un solo progetto, un solo punto di vista… ma è una continua composizione di rapporti, di azioni, di progetti, di punti di vista. È soprattutto molte domande […]. E le domande nascono dagli incontri con soggetti che hanno punti di vista diversi, o vite diverse. Pedagogia Speciale vive bene negli incontri, e vive male nel narcisismo e nella chiusura in sé stessa» (Canevaro, 2013). Uscire dal narcisismo e aprirsi con curiosità alle domande che gli intrecci e le relazioni ci sottopongono è dunque un buon viatico per andare alla ricerca di quei pezzi mancanti a cui facevamo precedentemente riferimento e come fattore protettivo dai rischi di ometterli dal palinsesto delle storie che connotano e denotano la Storia della Pedagogia, che se è tale non può che essere una, organica e non frammentata in piste conosciute e rivoli sconosciuti. Assumendo questa prospettiva, dal nostro punto di vista gioca un ruolo di rilievo il rapporto che la Pedagogia Speciale – in quanto modo di essere della Scienza dell’Educazione – ha intessuto con la Medicina, in modo particolare con la Psichiatria e la Neuropsichiatria infantile, con la Psicologia applicata e con l’antropologia. Come abbiamo cercato di evidenziare in un nostro lavoro (Bocci, 2011a) che ha preso le mosse da un contributo di Valeria Paola Babini (1996), la quale ha analizzato la nascita della Psicologia scientifica nel nostro Paese, da questo intreccio nasce storicamente quella che Piazza (1998) chiama la via italiana all’handicap, la quale si è nutrita – e non poteva essere altrimenti – del contributo di studiosi di altre nazioni, in modo particolare di quelli francesi, ieri come oggi nostri interlocutori privilegiati (Goussot, 2014a). anno IV | n. 1 | 2016
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In questa sede, ci soffermeremo a descrivere e ad analizzare la figura dei medici pedagogisti, studiosi che hanno segnato con la loro presenza il campo dell’educazione dei disabili (un tempo frenastenici, idioti, imbecilli, cretini, spastici, handicappati, ecc.) e hanno apportato, talvolta anche dialetticamente, un contributo alla nascita e allo sviluppo della Pedagogia Speciale.
1. I medici pedagogisti: un primo excursus
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Se vogliamo individuare una delle prime e più significative figure di medico pedagogista possiamo certamente risalire a Vincenzo Chiarugi (1759-1820), al quale si deve, presso l’Ospedale pei dementi di Bonifazio a Firenze, la sperimentazione di metodi curativi innovativi che hanno aperto la strada all’umanizzazione del trattamento di soggetti dementi. Un processo che trova un assoluto protagonista nel francese Philippe Pinel (1745-1826), il quale, sospinto dai princìpi dell’illuminismo e della Rivoluzione francese, concepisce il superamento della mera custodia e del contenimento dei folli mediante la costruzione di un rapporto terapeutico. Pinel, noto per aver conquistato sul campo (presso l’asilo di Bicêtre e nel complesso psichiatrico della Salpêtrière) l’appellativo de liberatore dei folli, introduce l’uso del colloquio con il paziente dando vita a una terapia morale che anticipa la psicoterapia. L’opera di Pinel è determinante anche in quella prospettiva nosografica di classificazione delle malattie mentali che sviluppa nel Trattato medico-filosofico sull’alienazione mentale del 1801. A lui si deve, infatti, l’identificazione e la definizione di stati patologici quali la melancolia, la mania, la demenza e l’idiotismo. Un’opera di classificazione che trova ulteriore sistematizzazione nel suo allievo Jean-Ètienne Dominique Esquirol (1772-1840). In una serie di opere che hanno un’ampia risonanza anche a livello internazionale – tra le quali Des Passions considérées comme causes, symptômes, et moyens curatifs de l’aliénation menta (1805), Des établissements des aliénés en France et des moyens d’améliorer le sort de ces infortunés (1819), Annales d’hygiène publique et de médecine légale (1829) – Esquirol divulga le proprie idee innovative, approfondendo anche la dimensione sociale della follia. Particolare attenzione è posta al ruolo fondamentale della medicina e dei medici: a lui è da attribuirsi l’ideazione di uno dei primi corsi di formazione per i medici psichiatri. A questo studioso si deve anche la redazione del regolamento psichiatrico del 1838 (rimasto in vigore fino al 1990) e una nuova categorizzazione delle forme della follia, illustrata nel trattato Des maladies mentales considées sous le rapport médical, hygiénique et médico-legal del 1838, che hanno influenzato la scienza psichiatrica del XIX e del XX Secolo. Grande tra i grandi, Jean-Marc Gaspard Itard (1774-1838) è la figura a cui si fa maggiormente riferimento quale artefice della nascita della Pedagogia Speciale. Vi sono diverse ragioni per le quali Itard e gli altri protagonisti della storia del ragazzo selvaggio dell’Aveyron hanno assunto il ruolo di archetipi della Pedagogia Speciale. Ne evidenziamo tre (Bocci, 2011):
1) con Itard, per la prima volta, si prende in considerazione la possibilità di educare un individuo ritenuto dalla società scientifica dell’epoca come ineducabile. Com’è noto, lo stesso Pinel non nutriva speranze in questa direzione I. Riflessione teorica
avendo formulato sul conto di Victor una diagnosi e una prognosi decisamente infauste (Goussot, 2007); 2) Itard nutre una fiducia incondizionata per la perfettibilità umana e tale atteggiamento rappresenta un mutamento determinante in ambito educativo. Se accostiamo la figura di Itard a quella di studiosi che tanto hanno influito sul pensiero pedagogico di tutti i tempi (Comenio, Diderot o Rousseau), notiamo il grado di innovazione che egli ha apportato alla riflessione intorno all’idea che l’educazione riguardi tutti gli esseri umani, nessuno escluso; 3) con Itard nasce la Pedagogia Speciale nella misura in cui viene a configurarsi un modo di intendere la Pedagogia in quanto scienza. Leggendo le Memorie sul ragazzo selvaggio si evince come egli imposti il processo educativo sulla base di un solido quadro teorico, agisca sulla base di precise ipotesi di partenza e persegua degli obiettivi chiaramente definiti.
Come rileva Giovanni Genovesi, si pongono così le basi dello sperimentalismo in pedagogia. Itard è «soprattutto colui che rimette in moto il cammino della pedagogia come scienza» (Genovesi, 2000, p. 146). Un cammino che prosegue con maggior vigoria grazie all’opera di Edouard Séguin (1812-1880). Figura complessa e imponente per peculiarità intellettuali e caratteriali, Séguin è colui che ha portato a sistematizzazione, grazie al suo metodo, l’educazione degli idioti. osteggiato dalla scienza medica del tempo (vedi Esquirol e Voisin), a Séguin va attribuito il merito di aver problematizzato il rapporto tra didattica speciale e didattica generale e tra pedagogia e medicina (Séguin, 1970, pp. 29-30): prima consigliato da Itard, poi da Esquirol, abbandonato poi alle mie sole forze ho dovuto cercare in me stesso le risorse che altri prendono a prestito dalla scienza bell’e pronta nei libri. Da questa posizione davvero eccezionale è risultato un lavoro completamente nuovo, non soltanto sull’idiozia, ma anche sull’educazione; e si capisce: proponendomi come scopo la cura dei giovani idioti ero incessantemente portato, dalla forza stessa del mio soggetto, a informarmi dei metodi, a ponderare le teorie, a discutere la pratica dell’insegnamento.
Séguin ha saputo intravedere alcuni nodi critici che hanno trovato terreno fertile in Maria Montessori e, successivamente, in Giovanni Bollea che così lo tributa nella sua introduzione all’edizione del Trattato del 1970: «è stato veramente grande non solo per quel che ha fatto, ma per quello che ha saputo intravedere, e come tutti i grandi era perfettamente cosciente del nuovo che affermava» (Bollea, 1970, p. 10). Sempre restando all’interno del panorama francese richiamiamo l’attenzione su altri tre studiosi di questo periodo. Il primo è Désiré-Magloire Bourneville (1840-1909). Allievo di Charcot, ha esercitato presso Bicêtre e alla Salpêtrière, interessandosi ai fanciulli idioti e a quelli epilettici. A lui si deve la scoperta della Sclerosi Tuberosa (all’epoca Sindrome di Bourneville), una malattia genetica che porta ritardo mentale, epilessia, tumori benigni e a una serie di complicanze dermatologiche. Ma, soprattutto, a lui va attribuito il merito di aver riscoperto e valorizzato in Francia (dopo un periodo di oblio) il lavoro di Séguin, consentendo tra l’altro a Maria Montessori di anno IV | n. 1 | 2016
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leggerlo e tradurlo durante il suo soggiorno di studio a Bicêtre e di introdurlo nel panorama scientifico italiano. Tra le opere di maggiore rilievo vanno segnalate Recueil de mémories, notes et observations sur l’idiotie (1772-1784) del 1895, nel quale ripercorre il lavoro di Itard, Belhomme e Séguin, e Le manual pratique de l’infirmière et de la garde malade dove postula i fondamenti di quella che è stata la prima scuola per infermieri. Il secondo studioso è Paul Robin (1837-1912), il meno conosciuto tra quelli sino ad ora citati, solitamente non menzionato tra gli interlocutori della Pedagogia Speciale. Diversamente, come abbiamo avuto modo di sostenere altrove (Bocci, 2011a; 2012; 2013b), a nostro avviso Robin va annoverato nella schiera dei medici pedagogisti che hanno contribuito a delineare modalità di intervento educativo-didattico rispettose delle differenze individuali e aperte alla partecipazione di tutti. Allievo della tradizione pedagogica anarchica, a partire da Fourier, Robin ha applicato sul campo i principi dell’educazione integrale (poi ripresi anche da Marx). In modo particolare ciò si è realizzato nell’esperimento pedagogico dell’orfanotrofio di Cempuis (l’Orphelinat Prévost), dove tra il 1880 e il 1894 Robin e i suoi collaboratori hanno seguito con notevole successo oltre seicento fanciulli e fanciulle. In anticipo sui tempi, infatti, la proposta educativa di Robin è stata rivolta contemporaneamente a maschi e femmine (Robin, 1870, p. 12):
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les hommes et les femmes étant destinés à vivre ensamble dans la société, doivent s’y habituer par la vie, les études et les travaux en commun pendant toute leur jeunesse.
Ma non è solo la coeducazione tra generi diversi a rappresentare il cardine della pedagogia di Robin. La sua educazione è pionieristicamente inclusiva, in quanto prevede il coinvolgimento diretto anche di bambini e di ragazzi con difficoltà nell’apprendimento e con deficit cognitivi. Esperto tra l’altro di scienze dell’alimentazione, di fisiologia e auxologia, Robin concepisce la scuola come un museo della scienza e le innumerevoli attività che propone sono organizzate in centri di apprendimento o in centri risorse, dove i giovani partecipano attivamente a laboratori di letto-scrittura1, matematica, fisica, chimica, fotografia, metallurgia, meteorologica, arte e ecologia. Un modus agendi che conduce al terzo studioso chiamato qui in causa: ovide Decroly (1871-1932), una figura di elevato spessore intellettuale e morale (Goussot, 2005). Specializzato in neuropsichiatria, Decroly rivolge primariamente la sua attenzione alla ri-educazione dei bambini balbuzienti, afasici, sordi, con problemi psichici e di apprendimento, che accoglie nella propria abitazione trasformata in un centro di educazione. Con l’aiuto della sua famiglia e con il supporto di due maestre Decroly sperimenta metodi educativi originali, come quello rinomato dei Centri d’interesse. Da questa prima esperienza nascono l’École pour enfants irreguliers e, nel 1907, la celebre Scuola dell’Ermitage, immaginata dal suo fondatore come una scuola per la vita attraverso la vita. Quello di Decroly è un 1
Per la letto-scrittura Robin impiega il metodo della tipografia poi ripreso e divulgato da Celestin Freinet (Trasatti, 2004; Goussot, 2016).
I. Riflessione teorica
approccio che Alain Goussot definisce di tipo ecologico, per la grande rilevanza assegnata all’ambiente (naturale e sociale) e alle relazioni, dimensioni che incidono significativamente nel processo di apprendimento e di sviluppo dei soggetti. Fortemente critico nei confronti del determinismo derivante dall’uso dei test intellettivi, Decroly ha sviluppato una metodologia osservativa che rileva l’attività pedagogica in atto, avvalendosi delle biografie individuali a lungo termine che consentono una «osservazione costante dell’evoluzione piscogenetica del fanciullo o della fanciulla» (Goussot, 2005, p. 104). Un approccio scientifico apprezzato a livello internazionale, come testimoniano i suoi viaggi in l’Inghilterra, in Spagna, negli Stati Uniti e in America latina.
2. La prima generazione di medici pedagogisti in Italia
Rientrando sul territorio italiano, sono da considerare in questa breve analisi due generazioni di medici pedagogisti che hanno esercitato un grande ascendente sulla Pedagogia Speciale, tanto da essere considerati i pionieri della via italiana all’educazione dei disabili. La prima generazione contempla studiosi quali Andrea Verga, Augusto Tamburini, Clodomiro Bonfigli, Enrico Morselli, Sante De Sanctis, Giuseppe Sergi2. Nel 1901 Augusto Tamburini (1848-1919) aprendo i lavori dell’XI Congresso della Società Freniatrica Italiana, tributa Chiarugi e Pinel quali apostoli della psichiatria, per aver introdotto nei manicomi l’aria, la luce, l’ordine, il lavoro, la libertà, l’affetto, le cure amorose. A seguire annovera tra le figure più autorevoli Andrea Verga, per lo studio del cervello e delle sue lesioni nelle più grandi psicosi, e Clodomiro Bonfigli per l’impegno prestato alla nascita della Lega Nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti. Andrea Verga (1811-1895) assume un ruolo di assoluto rilievo nella nostra trattazione per aver pubblicato nel 1877 l’articolo Frenastenici e imbecilli, un contributo che costituisce per oltre un ventennio il «punto di riferimento obbligato per la letteratura scientifica sulla questione dei frenastenici» (Babini, 1996, p. 9). Proprio a Verga, infatti, si deve la definizione clinica di tale condizione. L’alienista lombardo – già studioso di anatomia – utilizza l’espressione frenastenia per sottolineare la debolezza delle funzioni cerebrali del soggetto, determinata da una infermità congenita o da una affezione dell’encefalo che ne ha ostacolato il normale sviluppo organico e funzionale. Il frenastenico, pertanto, deve essere distinto dal pazzo o dal folle: se quest’ultimo manifesta un delirio derivante da una ragione smarrita o traviata, il frenastenico è soggetto a una ragione debole e inevoluta. La sua, afferma Verga rifacendosi a Pinel, è una sorta di sonnolenza di tutte le funzioni dell’intelletto e delle affezioni morali. Ne consegue che il frenastenico non deve essere trattato all’interno dei manicomi ma in speciali stabilimenti. Quella che, a tutti gli effetti, è una operazione di differenziazione clinica dettata dall’esigenza della nascente psichiatria di «delimitare, in modo quanto 2
Del quale, trattandosi di un Antropologo, non tratteremo. Si tratta tuttavia di una figura di grande rilievo come evidenzia Furio Pesci (2002).
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più possibile preciso, il proprio oggetto scientifico e le pratiche oggettivanti tale disciplina» (Bocci, 2011a, p. 114), si rivela un passaggio cruciale sul piano dell’educazione dei disabili. La proposta di Verga, infatti, è accolta con entusiasmo da diversi colleghi, tra i quali Bonfigli e lo stesso Tamburini. Clodomiro Bonfigli (1838-1919) ha il grande merito di aver intravisto la possibilità di trasformare l’intuizione di Verga in realtà. Un progetto che lo studioso delinea fin dal 1893, quando in occasione del discorso inaugurale dell’insegnamento di Psichiatria e Clinica psichiatrica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di Roma, stigmatizza lo scarso interesse e i pregiudizi della medicina nei confronti dell’educazione, evidenziando i rischi derivanti dal presupposto determinismo che ne consegue. Contro tale atteggiamento Bonfigli rimarca la fondamentale funzione dell’educazione quale «base di qualsiasi intervento di prevenzione delle malattie mentali» (Pesci, 2002, p. 101). La presenza in aula di Maria Montessori, all’epoca studentessa, lascia immaginare la ricaduta scientifico-culturale del pensiero di Bonfigli, che trova concretezza nella fondazione della Lega nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti. Questa nasce ufficialmente nel Gennaio del 1899 con l’emanazione dello statuto e costituisce un momento cruciale nella storia dell’educazione in quanto preludio alla fondazione del primo Istituto MedicoPedagogico italiano, che avviene il 2 Luglio 1899 a San Giovanni in Persiceto (Bologna) grazie all’instancabile opera di Tamburini. Il quale Tamburini occupa un posto di assoluto rilievo tra i medici pedagogisti italiani. È un precursore e un punto di riferimento ineludibile per la generazione di medici che lo ha avuto come maestro (i vari Pizzoli, Ferrari ecc…). Allievo di Carlo Livi nel manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia, gli succede nel 1877 aprendo una stagione intensa di sperimentazioni con la collaborazione di Eugenio Tanzi, Luigi Luciani e, soprattutto, di Enrico Morselli. Per merito di Tamburini l’istituto manicomiale si trasforma da mero luogo di contenimento ad ambiente di studio per la nascente psichiatria italiana. Autore di numerosi contributi che ottengono una vasta risonanza a livello nazionale e internazionale (tra questi, Tamburini, 1879; 1900), si impegna con passione per porre in evidenza la necessità di una significativa modificazione dell’impostazione terapeutica e per dare, come detto, ai frenastenici una opportunità per essere educati e avere una istruzione che consenta loro di avere un ruolo nella società. Così si esprime nell’appello lanciato nel 1899 per raccogliere fondi e adesioni per la neonata Associazione Emiliana per la protezione dei fanciulli deficienti: Di tutti i modi di beneficenza il più commendevole è quello che, soccorrendo l’individuo, arreca maggiori vantaggi alla società. Su questa oggi incombe, funesto aggravio, la degenerazione; né mai come ora fu sentito il bisogno di una remora che ne impedisca o rallenti il corso fatale. Ma la degenerazione dell’adulto purtroppo è irreparabile; le sue varie forme, vagabondaggio, criminalità, prostituzione, pazzia, costituiscono un corteo di miseria che può deplorarsi, ma non si cura, una gangrena ormai troppo profonda per essere recisa: si comprende perciò quanto sia umano il tentativo di togliere ai fanciulli deficienti, a questi piccoli candidati del tralignamento, quei gravi difetti che lasciati a sé divengon vizi, quelle imperfezioni che non emendate divengon gravi difetti, di utilizzare quanto di personalità psichica è in loro rimasto, di render men triste il loro avvenire.
I. Riflessione teorica
Tale è lo scopo che si è posto la nostra Associazione: e noi facciamo appello al cuore dei buoni, perché, aderendo, vogliano confortarci del loro aiuto, sorreggere e rendere feconda l’opera sancita dal nostro statuto.
Tuttavia Tamburini non si accontenta di divulgare inviti alla filantropia caritatevole. Chiede con forza, non senza qualche tono polemico, anche alla pedagogia di fare in modo di contribuire alla educazione dei deficienti (Tamburini, 1901, p. 9): La Psichiatria [...] ha dimostrato su quali basi informi ed erronee fossero fondati sinora i sistemi e i metodi della Pedagogia, e il dimostrare quale indirizzo razionale e scientifico essa debba d’ora innanzi seguire...
Nel 1905 subentra ad Ezio Sciamanna (a sua volta successore di Bonfigli) come professore di Psichiatria all’Università di Roma e assume l’incarico di Presidente della Società Freniatrica Italiana. Di grande rilievo è anche il suo apporto alla divulgazione scientifica, con la direzione della Rivista sperimentale di freniatria, la fondazione (con Morselli e Tanzi) della Rivista di patologia nervosa e mentale e la traduzione di numerosi autori stranieri (quali Kraepelin e James). La sua concezione della medicina è ben illustrata nel Trattato di medicina sociale, curato con Angelo Celli nel 1908 per l’editore Vallardi di Milano. Accanto al nome di Tamburini va certamente accostato quello di Enrico Morselli (1852-1929). Libero docente di Psichiatria a partire dal 1877, assume la direzione dei manicomi di Macerata e di Torino introducendo innovazioni nella pratica clinica e l’eliminazione di qualsiasi mezzo contenitivo o procedura coercitiva. Morselli è uno studioso che rivolge l’attenzione ad ampi campi delle scienze dell’uomo: Psichiatria (anche forense), Antropologia, Filosofia, Psicologia (teorica e applicata), Neuropatologia, Medicina legale e Pedagogia. Le sue note critiche rivolte a certe posizioni del mondo della scuola sono estremamente dirette e chiare. L’istituzione scolastica, a suo dire (Morselli, 1896)3: coi suoi programmi sopraccarichi di esigenze pressoché inutili, con le sue materie disparate, con le sue lezioni ininterrotte, coi compiti in classe e a casa, con gli esami nella stagione meno propizia
è troppo spesso causa di un esagerato dispendio di energie mentali da parte del fanciullo, con il conseguente progressivo indebolimento del sistema nervoso. Si tratta di un tema molto sentito, come si evince dalle sollecitazioni di Paolo Mantegazza, il quale era giunto a definire l’ottocento quale secolo nevrosico, ponendo in evidenza i rischi derivanti dal sistematico e incessante stress al quale è sottoposto l’individuo dall’infanzia alla vita adulata (Mantegazza, 1866). Morselli, seguendo in questo l’amico e collega Tamburini, pone l’accento sull’inadeguatezza del sistema formativo scolastico che si palesa in modo ancora più evidente allorquando si ha a che fare con allievi che manifestano difficoltà di apprendimento (Morselli, 1880, p. 13):
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Su questo passaggio di Morselli si vedano anche Bonetta (1990); Babini (1996).
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i mezzi adunque per educare gli idioti [...] non possono essere gli ordinari: la pedagogia conviene che cangi il suo indirizzo, riformi il suo metodo, si adatti ai suoi nuovi allievi.
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Tra le sue opere più significative vi sono Critica e Riforma del metodo in Antropologia (1881), Antropologia generale (1887), Psicanalisi (1926) e Manuale di Semeiotica delle Malattie Mentali (1885), probabilmente la più conosciuta. Un’altra figura statuaria nell’alveo dei medici pedagogisti è quella di Sante De Sanctis (1862-1936), la cui presenza nella scena scientifica del suo tempo rappresenta una sorta di snodo per la straordinaria capacità di compendiare, in un disegno organico, la psichiatria, la psicologia sperimentale, l’antropologia e la pedagogia. La formazione scientifica di De Sanctis si compie in diversi luoghi prestigiosi della capitale: il Laboratorio di Anatomia patologica dell’ospedale Santa Maria della Pietà diretto da Mingazzini; la Clinica Psichiatrica diretta da Sciamanna; l’Istituto di Fisiologia diretto da Luciani; il Laboratorio di Psicologia sperimentale dell’antropologo Sergi. Forte di questo bagaglio esperienziale, completa la sua formazione all’estero: a Zurigo (dove accede allo studio dell’ipnotismo con Auguste Forel) e a Parigi, alla Salpêtriere, dove approfondisce gli studi sull’attività onirica in relazione alle malattie mentali a partire dall’opera di Charcot. Si tratta di informazioni non secondarie per comprendere il portato scientifico di De Sanctis e per inquadrare la sua propensione interdisciplinare che si articola lungo quattro direttrici. La prima è quella inerente la ricerca psichiatrica e psicologica, che trova esito in alcuni lavori di assoluto rilievo quali I sogni e il sonno nell’isterismo e nell’epilessia del 1896 e I Sogni: studi clinici e psicologici di un alienista (un contributo citato nientemeno che da Sigmund Freud e Carl Gustav Jung). Un percorso che lo porta alla direzione di diversi istituti manicomiali e a ottenere prestigiosi incarichi di docenza: in Psicologia (Facoltà di Filosofia, 1901); in Psicologia Fisiologica e Clinica psichiatrica (Facoltà di Medicina, 1903 e 1904). Nel 1905, infine, gli è assegnata la cattedra di Psicologia Sperimentale sempre presso la Facoltà di Medicina. La seconda direttrice è quella che fa riferimento agli studi in ambito antropologico, un interesse orientato dall’opera di Giuseppe Sergi e Cesare Lombroso, che De Sanctis considera due grandi maestri. Infatti, se «dal primo eredita la passione per la psicologia fisiologica e per gli studi etnografici», dal secondo «attinge l’interesse per gli studi morfologici e criminologici»» (Cenci, 2004, pp. 12-13). La terza direttrice è quella inerente l’educazione, soprattutto nella prospettiva medico pedagogica. Da un lato De Sanctis riflette, sulla base di analisi teoriche e contributi sperimentali, sulle implicazioni derivanti dall’educazione dei deficienti, in particolare per quel che concerne il rapporto tra Pedagogia e Scienze applicate (De Sanctis, 1915, pp. XIV-XV): Io riconosco l’originalità dei fini della pedagogia e quindi la fondamentale autonomia di questa scienza; non vedo però il perché essa debba appartarsi dal movimento del pensiero moderno, quando essa ha sviluppato e sta sviluppando rigogliosamente, appunto, al contatto delle scienze sperimentali. Ci vuole elasticità nelle applicazioni, ben s’intende, ma i punti di partenza debbono essere sicuri, e chi li applica non deve perderli mai
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di vista [...] Così soltanto si potrà uscire dal vago, dall’incerto, dal personale, per entrare nell’ambito del determinato, del preciso e dell’obbiettivo. La cifra è una cosa rigida e, appunto per la sua rigidezza, spesso è inesatta; ma essa, mentre forma la mente, segna la strada, trattiene la fantasia, abbatte i pregiudizi, premunisce contro il pessimismo e l’ottimismo di maniera.
Dall’altro lato si dedica con passione a creare strutture per i fanciulli anormali o per la formazione degli insegnanti. Nel 1899 apre in Via Tasso l’Asilo scuola pei deficienti poveri, dove applica il suo Reattivo per la valutazione dei fanciulli, adotta la Carta biografica suggerita da Sergi e inaugura una serie di attività educativo-didattiche innovative realizzate, come non manca di sottolineare Tamburini (1899), secondo criteri psicologici degni di molta considerazione. Nel 1906 istituisce il Seminario di psicopedagogia annesso al laboratorio di Psicologia sperimentale (con la collaborazione di Luigi Credaro e Giuseppe Sanarelli) e avvia con l’immancabile Sergi una serie di lezioni di Psicologia sperimentale applicata alla pedagogia per il Corso di perfezionamento per licenziati della Scuola. L’ultima direttrice, che compendia le precedenti, è quella della Neuropsichiatria Infantile. Sua, infatti, è la prima trattazione organica di questa disciplina con la pubblicazione nel 1925 del volume Neuropsichiatria infantile. Un testo fondamentale che va ad aggiungersi agli altrettanto basilari La mimica del pensiero del 1904 e al poderoso Trattato di Psicologia Sperimentale del 1930.
3. La seconda generazione di medici pedagogisti in Italia
La seconda generazione vede come protagonisti Giulio Cesare Ferrari, Ferruccio Montesano, Ugo Pizzoli e Maria Montessori. Giulio Cesare Ferrari (1868-1932) si specializza con Tamburini presso il manicomio di Reggio Emilia, un luogo dove si intrecciano, con una visione che oggi definiamo multi-inter-transdisciplinare, la psichiatria, la psicologia, l’antropologia e la pedagogia. Spinto da vivo interesse per la conoscenza scientifica, si reca a Parigi ed entra in contatto con studiosi di fama internazionale, tra i quali Binet. Rientrato in Italia, prosegue gli studi sperimentali di Buccola dirigendo il Laboratorio di psicologia del manicomio emiliano. Diviene amico di William James, tra i padri della psicologia statunitense, e cura la traduzione di Principles of Psychology (1901). Conduce una serie di ricerche originali sui Lettori di Pensiero, sui Calcolatori Prodigio e sulla Memoria Musicale dei frenastenici. A partire dal 1903 dirige l’Istituto Medico Pedagogico trasferitosi a Bertalia, introducendo un approccio sperimentale che consolida l’impostazione medico-educativa dei frenastenici su base scientifica e valorizza la presenza delle insegnanti quale componente essenziale. Lo testimoniano questi due passaggi della sua relazione ispettiva del 1903 redatta per il Comitato Emiliano per la protezione dei fanciulli deficienti (si tratta di un documento dattiloscritto che abbiamo reperito negli Archivi Storici della Provincia di Bologna). Nel primo si fa riferimento alla partecipazione del personale ai corsi di formazione tenuti a Crevalcore da Ugo Pizzoli:
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ma sarà opportuno che si faccia sempre più ampia la partecipazione del personale tecnico dell’Istituto medico-pedagogico a questi corsi annuali, onde mantenere allo Stabilimento quel carattere scientifico che non deve perdere mai e che deve anzi accrescersi di più.
Nel secondo passo Ferrari suggerisce di corroborare la dimensione pedagogico-didattica dandole maggiore visibilità (aspetto questo a cui darà effettivamente seguito divenendo Direttore dell’Istituto) allo stesso modo in cui nell’anno testé decorso si è curata, a prezzo di qualche sacrificio, la parte pedagogica dal lato medico-scientifico, nell’anno che sta per cominciare, pur continuando a curare questo elemento, si dovrebbe dare il necessario sviluppo alla parte pedagogica propriamente detta.
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Nel 1905 fonda la Rivista di psicologia applicata alla pedagogia e alla psicopatologia (ancora attiva con il nome di Rivista di Psicologia) e nel 1907 consegue la libera docenza di Psicologia sperimentale presso la Facoltà di Filosofia di Bologna. Inizia ad interessarsi di marginalità e devianza e apre nel manicomio di Imola la Colonia Libera per i giovinetti criminali. Diviene membro della Commissione Reale per il Codice dei Minorenni e dal 1921 partecipa ai lavori della Commissione incaricata di redigere il nuovo Codice Penale. Nominato Direttore dell’ospedale Psichiatrico Roncati di Bologna prosegue nella sua instancabile opera di studioso e di educatore assumendo incarichi prestigiosi a livello internazionale, quali Segretario Generale della Commissione Internazionale per lo studio delle cause delle malattie mentali e della profilassi e membro del Comitato Direttivo della Lega Mondiale di Igiene Mentale, un organismo che contribuisce a fondare e del quale è attivo sostenitore. Collega e grande amico di Ferrari è Giuseppe Ferruccio Montesano (18681951). Dopo un’esperienza di studio presso l’Istituto di Igiene diretto da Angelo Celli, Montesano a partire dal 1896 frequenta la Clinica Psichiatrica di Roma entrando in contatto con De Sanctis, Sergi, Bonfigli e, naturalmente, Maria Montessori, con la quale intesse anche una contrastata relazione sentimentale dalla quale nascerà il figlio Mario. Grazie all’opera congiunta di questi studiosi si apre una stagione di indagini sperimentali sui frenastenici, ricerche che portano Montesano a operare una loro macro suddivisione (incompleti, irregolari e tardivi) che presenta al Congresso di Napoli del 1901. L’interesse per la formazione di insegnanti competenti rispetto alle caratteristiche degli alunni deficienti lo porta alla direzione della Scuola Magistrale Ortofrenica, esperienza che segna la sua carriera. Nel 1913 fonda la Rivista L’assistenza ai minorenni anormali, soppressa nel 1940 dal regime fascista che non gli perdona l’adesione al Manifesto degli intellettuali antifascisti. Tra le sue opere più significative figura certamente la voce “Anormali psichici” del 1928, presente nel Dizionario delle Scienze Pedagogiche diretto da Giovanni Battista Marchesini, nella quale, dopo un’accurata disamina delle questioni cliniche, Montesano si sofferma sulle diverse problematiche inerenti l’educazione speciale e ne ripercorre le tappe salienti da Itard agli anni Venti del XX Secolo. Interprete anche delle vicende politiche del suo tempo (con l’assunzione di incarichi istituzionali presso il Comune di Roma), Montesano nel 1948 fonda la I. Riflessione teorica
Società Italiana per l’Assistenza Medico-psico-pedagogica all’Età Evolutiva (S.I.A.M.E.) che accoglie numerosi studiosi di grande livello (tra i quali il giovane Giovanni Bollea). Tra i pionieri di quella che oggi è definita la prospettiva d’intervento multidisciplinare, Montesano ha indubbiamente lasciato un segno longevo sulla concezione medico-psico-pedagogica sviluppatasi in Italia a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Meno noto tra i protagonisti qui citati, Ugo Pizzoli (1863-1934) è una figura davvero prestigiosa nel panorama dei medici pedagogisti. Medico mandamentale a Crevalcore, luogo privilegiato del suo impegno scientifico, si interessa alle questioni della scuola e all’apprendimento degli allievi, in particolare dei frenastenici, con una dedizione encomiabile. Allievo dei grandi maestri dello sperimentalismo clinico (Tamburini, Buccola, Morselli, Sergi, ecc.), a lui si deve la fondazione in Italia del primo Laboratorio scientifico di pedagogia (tra il 1898 nel 1899) nel quale inventa una serie di strumenti da applicare allo studio oggettivo della persona e delle sue funzioni (Gandini, 1995). Nel 1902 inaugura un corso estivo di pedagogia sperimentale (anche detto di pedagogia scientifica o emendativa) destinato ai maestri, ai professori, ai direttori e agli ispettori scolastici. Fondamentale, dal nostro punto di vista, è l’intuizione che tutti (insegnanti e operatori scolastici) debbano essere formati per affrontare le difficoltà degli allievi e che tale preparazione non debba limitarsi a coloro che si occupano dei frenastenici (Bocci, 2011a, 2016). Nell’idea di Pizzoli, dunque, ricerca (su solide basi sperimentali) e formazione degli insegnanti costituiscono polarità inscindibili per dare corpo a una circolarità virtuosa. Ecco come egli stesso descrive questa sua intuizione (Pizzoli, 1901): Il mio laboratorio, dovrà essere adunque come una scuola di preparazione tecnica ai maestri e sarà una vera e propria scuola, nella quale agli insegnamenti teorici di psicologia pedagogica faranno seguito lezioni pratiche intorno alla tecnica sperimentale.
Di particolare rilievo è anche il sodalizio con Ferrari che si concretizza con la direzione didattica dell’Istituto Medico Pedagogico di San Giovanni in Persiceto. Autore di oltre 170 opere, molte delle quali di grande attualità, Pizzoli è ingiustamente stato obliato nella storia della pedagogia e pertanto è doveroso riscoprire il valore e il senso della sua opera4. Di segno diametralmente opposto, per quel che concerne la fortuna, Maria Montessori (1870-1852) è indubbiamente la studiosa più nota a livello nazionale e internazionale, anche tra i non addetti ai lavori. Figura complessa per la straordinaria dotazione intellettuale e creativa, la giovane Maria (Catarsi, 1995) dopo la laurea in medicina5 con il prof. Sciamanna, entra in contatto e diviene allieva dei grandi clinici della prima generazione, in particolare Sergi, Bonfigli e De Sanctis. Grazie a questi studiosi viaggia in Europa, in modo particolare a Parigi e a
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Chi scrive ne sta facendo già da tempo oggetto di studio. Maria Montessori non è stata però, come si crede, la prima donna medico. Prima di lei altre due donne avevano conseguito il titolo nell’Ateneo romano. Vero è che dopo di lei e fino ai primi del Novecento nessun’altra donna ha intrapreso la carriera medica (cfr. Babini & Lama, 2000).
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Londra, per acquisire informazioni sui sistemi di trattamento e di educazione degli idioti adottati all’estero. Di rilievo è il soggiorno parigino presso l’istituto diretto da Bourneville, dove viene a conoscenza delle opere di Itard e di Séguin. È un incontro folgorante, quello che segna l’esistenza e la carriera scientifica della studiosa. Non ci sarebbe stata la Montessori conosciuta in tutto il mondo per il suo Metodo senza questa esperienza, come del resto non manca di ricordare lei stessa (Montessori, 1999, pp. 22-24): Il sistema educativo delle Case dei Bambini, infatti, non nasce senza più lontane origini […] proviene da precedenti esperienze pedagogiche fatte sui bambini anormali, e come tale rappresenta un assai lungo lavoro del pensiero. Alcuni decenni fa, essendo dottore assistente alla Clinica Psichiatrica nell’Università di Roma, ebbi occasione di frequentare il manicomio per lo studio dei malati da scegliersi a scopi di Didattica clinica – e in tal modo m’interessai ai bambini idioti ricoverati nel manicomio stesso [...] Fu così che, interessandomi degli idioti, venni a conoscere il metodo speciale di educazione di questi infelici bambini ideato da Edouard Séguin […] Fin da quando, negli anni 1898, mi dedicai all’istruzione dei fanciulli deficienti, credetti d’intuire che quei metodi non erano soltanto un tentativo per educare gli idioti, ma contenevano principi di educazione più razionale di quelli in uso […] Questa intuizione divenne la mia idea dopo che ebbi abbandonato la scuola dei deficienti: e a poco a poco acquistai il convincimento che metodi consimili applicati ai fanciulli normali avrebbero sviluppato la loro personalità in modo sorprendente.
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Come rileva Giovanni Genovesi, l’azione di Maria Montessori è orientata alla sistematizzazione di una mappa scientifica della pedagogia sostenuta da una solida teoria (a sua volta sostanziata dalla ricerca) in cui la diversità sia contemplata come elemento strutturale. In funzione di ciò devono attivarsi tutte le azioni educative e didattiche che generano «il divenire, la trasformazione e il cambiamento» (Genovesi, 2005, p. 99). Si tratta di una impostazione ben presente anche per quel che riguarda la formazione degli insegnanti, sia che debbano occuparsi di bambini frenastenici (come dettato dal Ministro Baccelli in una Circolare del 1899) sia che rivolgano la loro azione magistrale a tutti. L’apertura nel 1907 della prima Casa dei bambini (in via dei Marsi 58, nel quartiere San Lorenzo di Roma) diviene il segno tangibile della sua vocazione pedagogica, come testimonia il volume del 1909 Il Metodo della Pedagogia Scientifica applicato all’educazione infantile nelle Case dei Bambini, testo tradotto in tutto il Mondo che la consacra tra le grandi educatrici di tutti i tempi. Di assoluto interesse, in questa più che essenziale trattazione, è la menzione dell’esperienza compiuta da Maria Montessori in India (dove soggiorna dal 1939 al 1946). Gli incontri con Gandhi e Tagore e lo stretto legame intrapreso con la Società Teosofica per tramite di George Arundale e la moglie Rukmini Devi aprono la strada all’elaborazione del concetto di Educazione Cosmica, tra gli aspetti più interessanti dell’opera montessoriana, che rappresenta la chiusura di un cerchio virtuoso già presente nell’anima e nel pensiero della studiosa, come testimonia in questo scritto la sua allieva Maria Maccheroni (1953):
I. Riflessione teorica
Il 10 novembre 1910 Maria Montessori solennemente proclamò la finalità della sua opera: proteggere i bambini. opera di giustizia e insieme di carità, ossia d’amore. Quanto grandioso fu quest’invito! Proteggere qualunque bambino: - di qualunque razza e colore; - di qualunque nazione; - di qualunque ceto sociale. - Proteggere il “bambino”.
4. Altre figure
Uscendo dal panorama italiano sono due le figure di medici pedagogisti sulle quali ci soffermiamo brevemente: Janusz Korczak e Hans Asperger. Korczak (nome d’arte di Henryk Goldszmit, 1878-1942) è un personaggio straordinario, sia per la sua versatilità (è stato anche un grande scrittore di storie per ragazzi) sia per la sua statura morale, che ha trovato compimento nella tragica scelta di morire nel campo di sterminio di Trzeblinka con i suoi ragazzi deportati dai nazisti dal ghetto di Varsavia pur avendo la possibilità (offertagli dagli stessi nazisti che volevano evitare di eliminarlo tanto era noto e rispettato) di salvarsi. La concezione pedagogica di Korczak è racchiusa nel suo libro più celebre, Come amare il bambino, dove sono raccolte una serie di riflessioni suscitate dalla sua trentennale esperienza medico-educativa svolta presso la Casa degli Orfani di Varsavia e in numerosi altri orfanotrofi. Alcuni passi del libro sono degni di attenzione e di analisi per chi si appresta al compito educativo e per chi lo studia. Afferma Korczak (1979, pp. 120-124): Come medico e come educatore non conosco cose di nessun conto e attentamente seguo ciò che sembra casuale e privo di valore.
E ancora:
Un educatore dice: “Il mio metodo, il mio punto di vista”. Anche se avesse una scarsa preparazione teorica, pochi anni di lavoro alle spalle, sarebbe autorizzato a parlare così. Ma egli deve sempre ricordarsi che questo metodo o punto di vista gli è stato suggerito dall’esperienza di lavoro in certe condizioni, in un certo luogo, con un certo materiale umano. Dovrebbe motivare la sua posizione, produrre degli esempi, sostenerli con una casistica. Gli concedo pure il diritto di inoltrarsi sul terreno più difficile e rischioso: pronosticare, congetturare cosa ne sarà di un dato bambino. Ma che sia sempre consapevole di potersi sbagliare. Nessun parere deve diventare una convinzione assoluta o una convinzione per sempre […] Solo a queste condizioni il lavoro dell’educatore non sarà né monotono, né privo di speranza. ogni giorno gli porterà qualcosa di nuovo, di inaspettato, di eccezionale, ogni giorno sarà più ricco di un nuovo contributo [...] E solo allora egli amerà ogni bambino di un saggio amore, si interesserà della sua vita spirituale, dei suoi bisogni, del suo destino. Più si avvicinerà al bambino, più si accorgerà di caratteristiche degne di attenzione. Nella ricerca troverà sia la ricompensa che lo stimolo per ulteriori ricerche, per ulteriori sforzi.
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Come evidenzia Lamberto Borghi – altra figura che andrebbe restituita a chi intende occuparsi di questioni pedagogiche – quella espressa da Korczak è una prospettiva antiautoritaria dell’educazione, che ha per fulcro «la conoscenza come prerequisito del pensiero, cioè del dubbio, dell’ipotesi che lo rimuova, di un sapere logoro fatto di “idee inerti” che si trasforma, ad opera dell’esperienza e della ragione, in sapere che costantemente si arricchisce di inedite prospettive» (Borghi, 2000, p. 102). Ha ragione Alexander Lewin quando afferma che Korczak è da annoverarsi tra i grandi della pedagogia, come Comenio, Pestalozzi, Tolstoj, Makarenko, Freinet, in quanto al pari loro è stato un pedagogista e un uomo di azione, capace «di realizzare la cosa più difficile in educazione: attuare le proprie idee pedagogiche» (Lewin, 1979, p. 28). Il nome di Hans Asperger (1906-1980) è indissolubilmente legato al suo celebre studio del 1943 su quattro giovani – V. Fritz, L. Harro, K. Ernst, L. Hellmuth – che manifestavano comportamenti atipici clinicamente rilevanti, quali assenza di empatia, modalità relazionali e comunicative bizzarre, difficoltà nei processi di astrazione, ecc. Pubblicato nel 1944 con il titolo Die “Autistische Psychopaten” im Kindesalter sul n. 117 della rivista Archiv für Psychiatrie und Nervenkrankheiten – Asperger non ha incontrato – per ragioni storiche legate al periodo bellico e alla lingua con i quali i due hanno pubblicato le loro opere − la stessa fortuna di Leo Kanner. Il nostro interesse per Asperger non risiede solo nell’accurata descrizione dei casi studiati, quanto per il suo modo di intendere l’approccio clinico, l’osservazione e l’intervento educativo. Il contesto scientifico in cui si concretizza l’azione di Asperger, infatti, è il Reparto di Heilpädagogik (Pedagogia curativa) della Clinica Pediatrica dell’Università di Vienna che frequenta a partire dal 1932 e che dirige dal 1946. Asperger interpreta questa prospettiva scientifica in termini precisi: il trattamento pedagogico deve essere centrale anche in ambito sanitario, non va confuso con la pratica rieducativa, tantomeno deve essere concepito come una sintesi semplificata della pratica medica o, peggio, ridotto a mero strumento applicativo. Per Asperger la Pedagogia curativa è da intendersi come un’attitudine mentale che fornisce allo studioso, così come all’educatore, una lente per osservare e comprendere il soggetto nella sua globalità, concezione che espone nel volume Heilpädagogik del 1952 che fa parte della sua cospicua produzione scientifica che conta oltre 350 pubblicazioni. Ci sono poi altri studiosi del panorama internazionale che meritano almeno una citazione: lo psichiatra e psicoterapeuta di origine catalana Francesc Tosquelles (1912-1994) è certamente tra questi. Ideatore del movimento della psicoterapia istituzionale, che prende forma nell’esperienza presso l’ospedale psichiatrico di Saint-Alban, Tosquelles ha influito notevolmente in quell’opera di riconfigurazione della concezione clinica ed educativa che ha preso le mosse soprattutto a partire dagli anni Sessanta. A lui si deve la concettualizzazione della dialettica dell’istituito e dell’istituente (sviluppata in Italia da Andrea Canevaro) e la nascita di un modo altro di agire nei contesti che trova sviluppi interessanti in alcuni studiosi a lui contigui, quali Jean oury (1924-2014) e Félix Guattari (1930-1992) che a loro volta danno applicazione a questi principi presso l’ospedale di La Borde. Come rileva Alain Goussot, è il fratello di Jean oury, Fernand, che applica alI. Riflessione teorica
l’azione pedagogica «l’approccio della psicoterapia istituzionale e mette insieme la psicanalisi e la pedagogia spostando, come afferma Guattari, il concetto di inconscio dall’individuo ai soggetti collettivi, e alle organizzazioni, nel nostro caso la scuola» (Goussot, 2014b, p. 20). Siamo, continua Goussot, all’interno del concetto di deterritorializzazione, di una logica pedagogica nuova (che Guattari chiama ecologica) tale per cui si vengono a trasformare le dimensioni culturali, procedurali e organizzative. È facile intravedere in questo i prodromi dell’inclusione così come si sta delineando nell’attualità, che va oltre il problema del singolo e si palesa come questione di politica sociale che interessa tutti.
5. L’ultima generazione di Medici Pedagogisti
Rientrando definitivamente in Italia, prendiamo in considerazione quattro figure di medici pedagogisti di notevole spessore: Giovanni Bollea, Adriano Milani Comparetti, Giorgio Moretti e Marcello Bernardi. Giovanni Bollea (1913-2011) è probabilmente con Maria Montessori lo studioso più noto al grande pubblico. Allievo del prof. Cerletti presso la clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, Bollea è il punto di raccordo più avanzato di quella parte della storia della medicina, della psicologia e della pedagogia che ha interessato la presa in carico dei disabili. Una eredità di cui è estremamente consapevole (Bollea, 1970, pp. 7-8): Se cerchiamo di intravedere, rapidamente, l’evoluzione dei concetti scientifici e dell’impostazione pedagogica sull’insufficienza mentale negli ultimi due secoli, noi possiamo considerare due linee evolutive. La prima che va da Esquirol a Bourneville, Doll, in parte Sante De Sanctis, sino alla psichiatria classica attuale. Un’ altra che da Pereire, Itard, Séguin, Montessori, Lewis, va sino ad alcune scuole moderne fra cui la nostra. La prima linea evolutiva partendo dal concetto di Esquirol dell’insufficienza mentale, come uno stato irreversibile, giunge a quello di addestramento di Bourneville, di educabilità di De Sanctis fino a quello di socializzazione della scuola di Wineland (Doll). La seconda linea partendo dal concetto dell’insufficienza mentale come malattia o disarmonia strumentale e perciò teoricamente recuperabile, giunge, attraverso la psicologia sensista di Pereire, Itard a quella funzionale -fisiologica di Séguin e poi attraverso la Montessori, Lewis, a quella causale e motivazionale nostra.
È dunque questo lo sfondo integratore della sua dedizione alla creazione di un modello medico-psico-pedagogico in grado di comprendere globalmente il soggetto, con una lettura multidimensionale della situazione che lo riguarda. Una prospettiva che trova applicazione nel primo centro oNMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia) e nel primo CMPP (Centro Medico Pisco-Pedagogico), entrambi aperti a Roma nel 1948 (il secondo anche con il contributo di Adriano ossicini). Conseguita nel 1956 la libera docenza in Neuropsichiatria Infantile, nel 1959
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gli viene conferito l’incarico per tale insegnamento che si trasforma in Cattedra nel 19656. Neuropsichiatria Infantile che, in linea di continuità con quelli che lui riconosce come suoi maestri – Montessori e Montesano – nella concezione di Bollea ha uno stretto rapporto con la pedagogia (Aldini, 2004): Per diventare educatore non è mai troppo tardi, in fondo in fondo deriva dalla Scienza dell’Educazione; infatti il Neuropsichiatra deve pur sempre educare, i figli ma anche i genitori e soprattutto deve saper parlare con loro.
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E lo stesso Bollea è stato a sua volta un grande maestro, capace di dare vita a una scuola (che ha trovato sede nell’istituto di Via dei Sabelli a Roma, poco distante dalla Casa dei bambini di Maria Montessori) e di intessere significativi contatti a livello internazionale; si pensi, ma non è che uno dei possibili esempi, a quello con Donald Winnicott del quale Bollea ha contribuito a diffondere il pensiero in Italia. Un altro nome che non può mancare in questa breve rassegna è quello di Adriano Milani Comparetti (1920-1986). Fratello del più noto Don Lorenzo, Comparetti ha rappresentato a lungo il maggiore punto di riferimento scientifico nell’intervento riabilitativo delle Paralisi Cerebrali Infantili (Besio & Chinato, 1996; Trisciuzzi & Galanti, 2001; Zappaterra, 2003). Di particolare rilievo, dopo l’opera prestata presso l’ospedale Meyer, è l’esperienza compiuta a partire dal 1957 come direttore del Centro di Educazione Motoria Anna Torrigiani di Firenze. Qui Milani Comparetti sperimenta e porta a compimento la propria vocazione di medico pedagogista, affiancando con dedizione i bambini con disabilità e le loro famiglie. Come evidenzia Marisa Pavone, quella di Comparetti è «una vita dedicata al recupero non solo medico, ma anche educativo e sociale dell’infanzia colpita da problemi neurologici e motori» (Pavone, 2010, pp. 46-47). Milani Comparetti è un sostenitore, nella teoria come nella pratica, dello slittamento dell’attenzione dalla malattia alla salute, dalla cura (cure) all’avere cura (care). In altri termini è un anticipatore di quella visione bio-psico-antropologica oggi promulgata dall’oMS tramite l’ICF. Il tutto sostenuto da una visione ecologica e relazionale in cui tutti gli attori in gioco devono avere voce (celebri le sue riunioni del venerdì mattina al Centro Torrigiani alle quali partecipavano anche gli addetti alle pulizie e i manutentori). Ideatore della Cartella Neuroevolutiva per lo screening dello sviluppo motorio del bambino, accolta fin dalla sua pubblicazione nel 1967 con grande favore tra i pediatri sia in Italia sia all’estero, sostenitore convinto della deistituzionalizzazione, Comparetti ha anche il merito di aver contribuito alla nascita e alla diffusione dell’Associazione Italiana Assistenza Spastici (AIAS), delle prime Scuole dei Genitori e dell’Associazione Internazionale per le Paralisi Cerebrali (I.C.P.S.) della quale è stato presidente. Al nome di Comparetti va accostato quello di Giorgio Moretti (1934-1999), neuropsichiatra infantile di notevole spessore, a lungo direttore dell’Istituto di 6
La prima Cattedra in Italia di NPI è stata conferita nel 1963 al prof. De Franco presso l’Università di Messina.
I. Riflessione teorica
Ricerca Medea associato al Centro di cura e riabilitazione La Nostra Famiglia. Moretti, oltre al ruolo accademico presso l’Università di Genova e l’Università Cattolica di Milano, si è interessato alle questioni inerenti l’integrazione dei disabili e ha svolto attività formativa nei corsi di specializzazione per gli insegnanti di sostegno. La sua visione medico-pedagogica emerge con chiarezza in questo passo, presente in un libro postumo, nel quale lo studioso rifiuta quello che definisce (Moretti, Cannao & Moretti, 2006, p. 118): l’ingenuo abbinamento di una disabilità con un intervento specifico: ad esempio di un disturbo dello sviluppo linguistico con la logopedia, di un disturbo dello sviluppo motorio con la kinesiterapia, ecc.
Moretti, in altri termini, suggerisce che l’esito non è correlato alle caratteristiche della tecnica riabilitativa (e per mutuazione potremmo dire al metodo di insegnamento), quanto alla comprensione della situazione su base globale. Come evidenzia ancora Marisa Pavone, questa operazione consente di superare il determinismo di un certo modo di intendere l’intervento (diagnosi, prognosi, piano terapeutico, ecc…) introducendo un nuovo parametro: «quello del rilevamento dei “bisogni” che permette sia un giudizio sulle capacità residue individuali, sia sulle possibilità e le esigenze dell’ambiente in cui vive il soggetto» (Pavone, 2014, p. 50). Un modus agendi che Moretti applica, tra i pochi, anche alle disabilità gravi (o complesse come preferiamo dire), aspetto che argomenta nel volume Educare il bambino disabile del 1992. Desideriamo infine concludere questo excursus menzionando Marcello Bernardi (1922-2001). Medico Pediatra, docente di Puericultura all’Università di Pavia e di Auxologia all’Università di Brescia, il nome di Bernardi è particolarmente legato alla sua attività come presidente del Centro di Educazione matrimoniale e prematrimoniale e al volume Il nuovo bambino pubblicato nel 1972 (un bestseller con oltre un milione e mezzo di copie vendute). Come rileva Antonio Vigilante, Marcello Bernardi è stato il «rappresentante isolato di una pedagogia controcorrente, perfino scandalosa per la fermezza con cui metteva in discussione le idee correnti sull’autorità, sulla relazione educativa, sugli scopi dell’educazione […] I suoi paradossi e le sue provocazioni, che servivano a scuotere, a suscitare dibattiti e prese di posizione, a scardinare luoghi comuni, erano sempre sorretti ed accompagnati da analisi lucidissime, portate avanti con uno stile limpido, e da una profonda consapevolezza della complessità dei problemi, non riducibile a schemi né riconducibile ad ideologie» (Vigilante, 2013, p. 146). La sua riflessione e azione educativa, infatti, è stata il frutto di una personalissima rielaborazione da un lato delle teorie pedagogiche libertarie – con riferimenti puntuali al pensiero, alle opere e alle esperienze di William Godwin, Leone Tolstoj, Francisco Ferrer y Guardia, Ivan Illich e altri –, dall’altro degli studi di Winnicott. Una miscela scientifica, culturale e politica che ha avuto un grande influsso – anche se non con la divulgazione che avrebbe meritato e meriterebbe − su diverse generazioni di padri e di madri, così come di insegnanti e di operatori nel campo dell’educazione. Il suo interessarsi alla libertà, all’assenza di competizione soprattutto tra pari,
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ai rischi di una educazione centrata sulla prestazione, sull’abilismo, sulla normatività (tutti temi oggi molto sensibili per chi si occupa di scuola e di società in ottica inclusiva) rendono Marcello Bernardi un interlocutore validissimo da rileggere e riscoprire. Abbiamo deciso di concludere questo nostro itinerario sui medici pedagogisti con la figura di Bernardi non solo per una questione cronologica ma soprattutto perché riteniamo che egli rappresenti l’eredità e l’esempio, ancora attuale, di quella spinta all’istituente (quindi alla problematizzazione dell’esistente e all’impegno per il cambiamento) che è propria della pedagogia speciale. Senza mai dimenticare che tale impegno è finalizzato a rendere sempre più umana e umanizzante la relazione educativa, che riguarda tutti, nessuno escluso. Cosa della quale era ben consapevole Marcello Bernardi (2002, p. 40): Mi sembra degna di considerazione l’ipotesi che la presenza di una persona umana sia sempre educativa e credo che lo sia nei confronti di tutti coloro che con quella persona hanno a che fare.
Riferimenti bibliografici
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I. Riflessione teorica
Dalla dialettica diversità-differenza alla significazione e rappresentazione dell’Alterità
The paper examines the dialectic diversity-difference as a tool of signification and representation of alterity looking for, primarily, to reconstruct the etymological origins and the semantic fields of terms that identify this dialectic. In the current language, often, these two terms tend to get confused, while in disciplinary languages they have specific meanings (differens entitas, deviance etc.). Specifically, the paper, highlighting the links between language, social representations and actions, proposes a pedagogical reflection on the role that such terms play to describe and to mean, according to inclusive perspective, the ample field of alterity within the educational field.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: Diversity, difference, alterity, inclusion, special education
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Andrea Fiorucci / Università del Salento / e-mail andrea.fiorucci@unisalento.it
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1. Diversità e differenza: impasse terminologica e sviluppo semantico
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Il tema della diversità/differenza ha da sempre rappresentato per il mondo della conoscenza un Leitmotiv, una mole consistente e significativa di riflessioni che ha interessato molteplici ambiti di ricerca con il fine di dare senso e significato alla percezione dell’alterità e di esprimere il discostamento e la divergenza da un modello ipotetico e ideale: la norma(lità). Difatti, i termini diversità e differenza rappresentano delle categorie epistemiche ed ermeneutiche finalizzate, cioè, a qualificare-classificare e a interpretare, secondo un criterio di dissomiglianza, gli oggetti di conoscenza, in questo caso gli esseri umani, in relazione alle proprie caratteristiche e peculiarità distintive e divergenti, siano esse riconducibili a fattori di ordine socio-culturale che fisico-biologico. Le origini etimologiche dei due termini rivelano significati per nulla coincidenti (Cfr. Cortelazzo, Zolli, 1999), mentre nel linguaggio corrente essi finiscono per avere un significato così adiacente da essere utilizzati e percepiti come sinonimi, ossia lessemi con molti punti di intersezione e sconfinamento. Proviamo a ricostruirne, seppur in grandi linee, gli sviluppi semantici cercando, successivamente, di individuarne l’orizzonte di senso che la scienza pedagogica può contribuire a perseguire. Il termine diversità, in latino dīversĭtās, deriva dai verbi dīvertĕre e dēvertĕre composti da vertĕre (volgere) e dis (altrove) che indicano il volgere in altra parte, ma anche l’allontanarsi, il deviare, il cambiare direzione. L’aggettivo dīversus e il sostantivo dīversum che ne derivano indicano una qualità e un modo di essere che rimanda a un’idea di separatezza, di contrarietà, di lontananza. In tal senso, il lemma dīvertium (divorzio), sempre un derivato del medesimo verbo, esprime ancora di più, e con una maggiore intensità semantica, questo senso di scissione e di contrasto. Il richiamo a parole come avversione (ad-vertĕre), perversione (per-vertĕre), ma anche deviazione, devianza, divergenza (dēvertĕre), fa sì che, sempre di più, il verbo vertĕre si colori di significati che richiamano alla mente non solo l’allontanamento e il diniego, ma, soprattutto, una sorta di deragliamento. Di contro, però, non può essere trascurato il senso figurato, che poi è quello più vicino all’italiano corrente, che rimanda al significato di distogliere, di distrarre, di volgere i propri pensieri altrove. Il sostantivo differenza in greco antico διαφορά (diafora) e in latino diffĕrentĭa, ha un’origine comune: deriva dal verbo fero (φέρω e fĕro) portare, che preceduto dal prefisso verbale dis (qua e là) determina il verbo greco διαφέρω (diafero) e quello latino diffĕro col significato di portare altro in varie direzioni. È interessante notare come il verbo latino fĕro preceduto dal lemma rēs (cosa) determini il verbo rĕfĕro che al participio passato (relatum) costituisce l’etimo della parola relazione (res-latum) col significato di portare qualcosa verso qualcuno. Nei termini diversità e differenza, il prefisso verbale dis non fa riferimento come, sovente, avviene nella lingua corrente, ad una privazione (disamore, disarmo), ma esprime, soprattutto, un movimento, una direzione che nel caso di
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divertĕre richiama una digressione (dīversĭo) – letteralmente l’atto di voltarsi come allontanamento –, mentre in quello di diffĕro esprime un dono, un portare qualcosa (se stesso) verso l’altro. L’etimologia dei lemmi diversità e differenza, dunque, dà contezza della complessità che caratterizza il tema della significazione dell’alterità; tuttavia, però, non consente di fare inferenze precise circa l’influenza che questi etimi esercitano sul linguaggio corrente, poiché le parole hanno una storia e un contesto che ne determinano/influenzano il significato, fanno parte, così come asserisce Bruner (1992), dei sistemi simbolici della cultura che rappresentano per l’individuo la “cassetta degli attrezzi” per la ricerca di significati. Esse, come afferma Wittgenstein (1953), sono gli strumenti di questa cassetta degli attrezzi: “un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni di queste parole. (E ci sono somiglianze qui e là)” (p. 11). Di fatto, se dovessimo spostare l’attenzione sul lessico contemporaneo, ci accorgeremmo che i significati dei termini presi qui in esame non solo sono notevolmente variati, ma, si con-fondono: hanno steccati semantici porosi e, quindi, accezioni complementari e interscambiabili. Così come evidenzia la consultazione di una pluralità di dizionari della lingua italiana (Fig. 1) ogni lemma riporta l’altro come suo sinonimo più prossimo, ma entrambi richiamano una condizione, un tratto, un aspetto, una qualità che indica e descrive la dissomiglianza come prodotto di una comparazione. Anche il Dizionario di Pedagogia e scienze dell’educazione di Bertolini (1996) riporta i due lemmi come sinonimi e, nello specifico, definisce la differenza come “ciò che distingue, fa diversi, discrimina cose e soprattutto persone”. !"#"$%&'"$(
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Fig. 1. Significati dei lemmi “diversità” e “differenza” riportati in alcuni dizionari della lingua italiana
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Questo accade anche nel linguaggio parlato. Tuttavia, ancora oggi, il sostantivo diversità, al contrario di differenza, è soggetto ad un processo di disambiguazione e di depurazione semantica poiché, sebbene abbia oramai assunto nel linguaggio corrente una connotazione positiva, o meglio, neutra rappresenta, sempre e comunque, anche se in forma più debole, un alone semantico fortemente caratterizzato e stigmatizzato dall’etimo latino che attribuisce a questo lemma un significato di discostamento e deragliamento dalla norma. Il lemma diverso richiama, ancora oggi, un senso di allontanamento e di distacco; infatti, seppur oramai in forma desueta, esso deriva dal participio passato del verbo divergere col significato conseguente – qui torna l’etimo latino – di allontanato, mosso, volto in e verso altre direzioni. oggi, il participio passato di questo verbo ha assunto, prevalentemente, una funzione nominale, cioè di aggettivo e di sostantivo. A tal proposito, sarebbe interessante capire come e perché l’aggettivo e il sostantivo che oggi maggiormente designano la dissomiglianza si siano formati dal participio passato invece che, come accade nel verbo differire, da quello presente. Di solito, il participio passato indica il subire l’azione, mentre quello presente esprime l’azione stessa. Difatti, sebbene il participio presente divergente rimandi ad un’idea di azione e abbia un significato molto vicino a quello del participio passato, esso è stato poco utilizzato per designare l’alterità, mentre ha assunto specifiche accezioni in alcuni ambiti specialistici (ottica, fisica etc.). In ambito psicologico Guilford (1950) ne ha fatto largo uso per designare una forma creativa di pensiero, che egli ha appunto definito divergente proprio perché tale forma giunge per altre vie e in altri modi (questo è il senso originario del verbo divergere) alla conoscenza. Il termine, così, ha assunto, sempre di più, una connotazione positiva finendo per rappresentare e significare, anche nell’uso corrente, la creatività stessa. Al contrario, il lemma differente deriva dal participio presente del verbo differire dal quale in forma nominale derivano il sostantivo e l’aggettivo. Esso indica colui che agisce e vive la differenza, colui che, qui ricompare nuovamente l’etimo latino, porta la sua differenza, mentre il participio passato del verbo differire assume, oggi, tutt’altro significato: indica qualcosa che ha subito o subisce un rinvio, uno spostamento, ma anche una dilatazione (ad es. pagamento differito) oppure, come accade nel linguaggio televisivo, ciò che non si svolge in diretta (vedere una programma in differita). Di contro, però, non bisogna dimenticare che, nel linguaggio matematico, tale lemma veicola un significato rischioso, ossia quello di sottrazione. Facciamo un esempio: 3-2=1. Il risultato (l’1) rappresenta la differenza tra il minuendo (il 2) e il sottraendo (il 3) e, al contempo, indica quanto serve, o meglio, manca al minuendo per essere uguale al sottraendo. Non a caso, infatti, il suggestivo libro curato da Sola e Terrus (2009) riporta come titolo La differenza non è una sottrazione, proprio per rimarcare l’idea che la differenza, nel caso specifico la disabilità, non deve mai designare una mancanza, uno scarto, ma una relazione. Sullo stesso piano – torniamo al verbo divergere – si colloca il significato che in ambito statistico assume il termine deviazione. Infatti, con deviazione standard si intende un indice statistico con il quale è possibile quantificare il discostamento I. Riflessione teorica
medio – la divergenza – dei valori di una distribuzione dalla loro media, ossia da un modello ipotetico e prevalente che designa la norma(lità). Ancora una volta, anche se in questo caso il discostamento può essere sia positivo che negativo, ritorna il significato di dissomiglianza come scarto. Potremmo proseguire con la Teoria dei sistemi (pensiamo al concetto di differenza e intersezione), oppure parlare delle forze divergenti in fisica e, ancora, delle onde divergenti in nautica e così via. Ma non è questo il senso dell’operazione. Ciò che interessa è che le sfumature di significato che offrono i diversi ambiti della conoscenza circa i lemmi presi, qui, in esame rappresentano degli elementi che, sebbene siano semanticamente autonomi, da una parte raccontano la gestazione dei significati, dall’altra concorrono a definire il senso generale che, meglio, descrive i termini diversità e differenza. Di fatto, la con-fusione relativa a questi due termini non è solo una caratteristica del lessico italiano, ma è presente in moltissime lingue (Fig. 2), siano esse di origine latina, germanica o greca. Tale dialettica, pur con una moltitudine di sinonimi affini, origina, sempre e comunque, un lemmario preminentemente binario, caratterizzato, cioè, da due termini morfologicamente dissimili, ma che semanticamente tendono a con-fondersi.
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Fig. 2. Tabella dei lemmi diversità e differenza tradotti in diverse lingue
Inoltre, un altro problema è rappresentato dall’estensione della loro sfera semantica. I due lemmi oltre a confondersi tra loro, abbracciano campi di significato troppo vasti e, quindi, poco specifici. Diversità e differenza, infatti, sono degli iperonimi – termini sovraordinati – che, pur riferendosi ad un largo spettro di elementi, corrono il rischio, così, di essere a-specifici e depistanti. rimandano ad un’idea, anche se sembra un paradosso, di omogeneità artificiosa. Difatti, hanno sempre bisogno di essere affiancati da aggettivi qualificativi (ad esempio sociale, animale, sessuale etc.) i quali, assolvendo una funzione restrittiva e distintiva, circoscrivono con maggiore dettaglio il loro significato e, di conseguenza, delimitano un campo di riflessione che altrimenti, per estensione e complessità, rischierebbe di essere poco intellegibile. Tuttavia, l’estensione del campo semantico che connota questo tema indica anno IV | n. 1 | 2016
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una necessità linguistica e, quindi, culturale di avere un lemmario articolato e attento ad intercettare quelle sfumature di senso, spesso impercettibili, finalizzate a fare la differenza nel momento stesso in cui la veicolano. Secondo il filosofo francese Jacques Derrida, così come spiega Vattimo (2001) “non c’è mai stata e non ci sarà mai una parola unica, perché la differenza è prima di tutto” (p. 153), “è più vecchia dell’essere stesso” (Derrida, 1972, p. 56). Ad oggi, sebbene i significati dei due termini siano equipollenti, la parola differenza sembra maggiormente polarizzata in senso positivo. Parallelamente, il termine diversità si sta progressivamente depurando dai significati negativi o, quantomeno, torbidi che lo hanno connotato. Infatti, negli ultimi tempi ha preso avvio un processo socio-linguistico di derubricazione di tale lemma dal novero dei significanti che concorrono a rappresentare il campo semantico dell’anomalia e dell’anormalità.
2. L’Alterità come differens entitas e come devianza.
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Non esiste in letteratura una definizione unica e univoca di diversità o di differenza. Tali termini appaiono ancora troppo porosi e camaleontici (Lumby e Coleman, 2007), sfuggono, cioè, a una chiara definizione (Wieviorka, 2007), o meglio, assumono accezioni specifiche rispetto allo sfondo epistemologico che li accoglie e li ri-significa. In filosofia è soprattutto il termine differenza a designare l’alterità. Essa, così come evidenzia il filosofo Warner Beierwaltes (1989), affonda le radici nel Platonismo e nel Neo Platonismo (Platone, Plotino, Proclo), passando dal pensiero tardoantico cristiano e medioevale (Agostino, Eckhart) e, successivamente, rinascimentale (Cusano, Bruno) per, poi, trovare una forte accoglienza in tutto l’idealismo tedesco (Shelling, Hegel) e finendo, così, per esplodere nel pensiero contemporaneo (Adorno, Nietzsche, Heidegger) nel quale si ritaglierà un proprio cantuccio di riflessione: la filosofia della differenza (Derrida, Deleuze, Lyotard, Lacan, Foucault). In realtà, il tema della differenza nel suo rapporto con l’identità affianca, o meglio, congloba la riflessione sulla dialettica sé-altro che ha caratterizzato, e continua ancora oggi a farlo, una parte preminente della filosofica contemporanea (Sartre, Lévinas, Buber, ricoeur, Arendt, Gadamer, Habermas). La dialettica identità-differenza indica un rapporto di co-appartenenza e di reciproca implicazione nel senso che, scrive Ponzio (2007), “l’identità è l’identità di un differente, e la differenza è la differenza di un identico. Affermare l’identità di qualcosa è affermare la differenza, e viceversa” (p. 12). Per Heidegger, che ha dedicato a questa dialettica una parte preminente della sua riflessione, l’essere “è pensato a partire dalla differenza” (1957): l’identità è differenza. Di contro, la differenza come “mancanza di identità” è molto rara e singolare in filosofia, ma non assente. Pensiamo al concetto di non-identico teorizzato da Adorno (1986). Tuttavia sono i filosofi post-strutturalisti e post-moderni (Derrida, Deleuze, Lyotard, Lacan, Foucault) che, rifacendosi al pensiero di Nietzsche e di Heidegger, invitano a considerare la differenza come una differens entitas, ossia una dissomiglianza che si pone sempre come soggetto e non come oggetto. Come ente: I. Riflessione teorica
lemma connesso al participio presente del verbo essere (essente) che indica ciò che è, l’esistente. Secondo il filosofo Gilles Deleuze (1968) la differenza, al contrario della diversità che indica un dato, è l’essere, mentre Jacques Derrida (1972), in modo ancora più radicale, sostituisce all’essere la differenza: la différance, così la chiama il filosofo della decostruzione giocando su una distorsione del significante (differenza in francese si scrive différence, mentre il termine différance in francese indica un gerundio) è “il dispiegamento storico ed epocale dell’essere o della differenza ontologica. La a della différance marca il movimento di questo dispiegamento” (p. 50). Il tema è molto complesso e difficile: tracciare un percorso della differenza implicherebbe affrontare un viaggio gravoso in tutta la storia della filosofia, ma non è questo il fine della riflessione. È importante, tuttavia, registrare come, in epoca (post)moderna, la dialettica identità-differenza esploda nella necessità di dare un volto – il lemma non è casuale – alla significazione dell’alterità. occorre, riprendendo il pensiero di Lévinas (1961, 1974), pensare alla differenza come alterità, come apertura all’altro, come una differenza non in-differente alla relazione; ritorniamo all’etimo res-latum, ad un portare qualcosa, una differens entitas che nella nudità del suo volto – concetto cardine della riflessione levinassiana – tenta di costruire un io accogliente, aperto ad un altro che mi fa visita. Permette, cioè, di pensare ad una vera e propria pedagogia del volto (Curci, 2002): un sapere che avverta la necessità di formare persone che siano veramente in grado di incontrarsi e di guardarsi, consapevoli che l’altro li ri-guarda (Baccarini, 2002). È proprio la polisemia del verbo riguardare che ci restituisce la complessità della dialettica identità-differenza che altro non è se non un invito ad un guardare di nuovo e con maggiore attenzione, ma, soprattutto, ad occuparsi dell’alterità, cioè ad interessarsi agli e degli altri, dove la forma riflessiva del verbo interessare indica da una parte il mostrare interesse, dall’altra il prendersi cura. Questa è la differenza: la significazione dell’alterità secondo un’ottica di incontro e di relazione. Donati (2008), che in Italia rappresenta la svolta relazionale della sociologia, definisce “la differenza (lo scarto, lo spazio che separa Ego e Alter) come relazione” (p. 82). La relazione rimanda ad un’idea di condivisione, aspetto che non avviene “fra due rispecchiamenti (due entità che sono una lo specchio dell’altra), ma fra due unicità; le quali, mentre mantengono la loro impenetrabilità senza sintesi (anche perché continuano a vivere le loro appartenenze ad altri mondi sociali e culturali), si rivelano come differenti in riferimento ad una realtà che le accomuna, per esempio, al genere umano” (Ivi, p.84). Parallelamente, il termine diversità ha avuto maggiore riverbero nelle scienze sociali subendo, però, un forte e negativo processo di stigmatizzazione che lo ha reso sinonimo di anomalia, anormalità, devianza, marginalità sociale e, in taluni casi, di condotte criminose (Santambrogio 2003, Bartholini 2007). Al contrario, nello stesso ambito di riflessione, Corsini (2011) ha formulato un’interessante ipotesi secondo la quale il termine diversità indica una esperienza conoscitiva che si declina nelle differenze. La diversità rappresenta una (e sola) struttura sovra-categoriale (livello di astrazione maggiore), mentre le diffeanno IV | n. 1 | 2016
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renze (livello di astrazione minore) sono le specifiche possibilità che ha l’oggetto di conoscenza di manifestare la propria diversità. Questo aspetto è molto evidente nel lessico inglese: pur esistendo una forma plurale distinta del lemma diversità, ossia diversities, il dibattito scientifico continua a ricorrere, nella maggior parte dei casi, alla forma singolare (diversity).
3. Differenza e diversità. Lo sguardo pedagogico
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Il tema della significazione e della rappresentazione dell’alterità e, quindi, della diversità e della differenza rappresenta per il sapere pedagogico una delle categorie fondative: “il sistema di relazioni con se stesso, con l’Altro e con il mondo – scrive Pinnelli (2015) – costituisce la cornice di significato all’interno della quale la riflessione pedagogica organizza il suo agire, i suoi modelli e strategie, in ordine allo sviluppo integrale della persona” (p. 183). In ambito pedagogico i termini presi qui in esame, sebbene siano largamente presenti, trovano una specifica espressione nel campo dell’educazione inclusiva (lato sensu), ossia nelle riflessioni e nelle pratiche finalizzate alla relazione con l’Altro in quanto diverso/differente. Nello specifico, essi sono largamente presenti nel vocabolario dell’educazione speciale, di quella interculturale e, negli ultimi anni, di quella inerente al pensiero femminile e delle, cosiddette, questioni di genere. In questo ambito sono state le riflessioni sulla costruzione dell’esistenza di Giovanni Maria Bertin (Bertin e Contini, 1983; 2004) a focalizzare l’attenzione sulle potenzialità che il termine differenza offre alla rappresentazione e alla significazione dell’alterità. Bertin, infatti, definisce la differenza come il “superamento dei condizionamenti che intrappolano noi stessi, i nostri progetti, le nostre possibilità” (Bertin e Contini 2004, p. 15) e come “un progetto, caratterizzato dallo slancio creativo verso il possibile, cioè dall’originalità esistenziale” (Bertin e Contini 1983, p. 68). La prospettiva problematicista che fa da cornice e da sfondo alle riflessioni di Bertin ha rimarcato il senso positivo del termine differenza, intravedendo in esso uno strumento per leggere l’alterità secondo un’ottica di possibilità e potenzialità dell’essere come strumento per venir fuori dalla paura dell’omologazione e della indifferenziazione delle esistenze umane (identità). La differenza “costituisce un principio supercategoriale che ordina intorno a sé altre categorie; è volontà di differenza del soggetto da se stesso, dagli altri, e dall’umanità nei riguardi del suo grado attuale di sviluppo; e perciò si protende al mondo del possibile (del futuro)” (ivi, p. 82). E continua: è il principio per il quale ogni uomo ha diritto a non essere considerato elemento indistinto da un pluralismo uniforme e/o mezzo per funzioni che lo necessitano trascendendo la sua consapevolezza e soprattutto dal suo contesto. Ha diritto, invece, ad essere considerato, come potenziale portatore di una trascendenza, da rendere, anziché utopica, volontà lucida e audace di individui e di gruppi e di sfidare il mare – sconfinato e tumultuoso, ma aperto alla speranza del possibile (ivi, p. 67).
I. Riflessione teorica
Tale prospettiva non poteva che sollecitare l’ambito pedagogico ad assumere questo concetto quale lente attraverso cui esplorare l’ampio spettro delle pluralità esistenziali sempre secondo un’ottica di inclusione e senza mai perdere di vista l’educabilità della persona umana (Caldin, 2001). L’educabilità, dunque, come diritto all’essere e, soprattutto, al diventare con e grazie agli altri, come gli altri dove la congiunzione come, con valore comparativo-relativo, schiude il senso e il valore che la pedagogia speciale attribuisce all’educabilità umana, ossia la possibilità di riconoscere alle persone con difficoltà, disabilità e svantaggio, così come avviene per le altre persone, il diritto allo sviluppo e alla crescita personale e culturale del Sé. In questo senso, il come gli altri significa riconoscere a tutti, nessuno escluso, il diritto all’educabilità che è ancora più antico del diritto all’educazione e all’istruzione stabilito dalle leggi sull’inclusione scolastica e sociale. Educabilità è il processo grazie al quale la vita umana non si ferma ad osservare ciò che è alla sua nascita, ma è sollecitata a riflettere (qui interviene l’educazione) su ciò che può e vuole diventare valicando, così, anche i confini del possibile. In tal senso, il possibile non indica un traguardo, ma piuttosto la direzione verso cui tutti devono tendere. Così l’educabilità diventa, per la pedagogia speciale, “il rischio e la sfida di contribuire a far evolvere l’umanità positivamente” (Pavone, 2014, p. 11) e il diritto inalienabile a “considerare l’Altro più capace di quello che il suo passato” (Gaudreau, 2009, p. 128) e, si potrebbe aggiungere, la natura fanno supporre. Pertanto, si può e si deve essere come gli altri pur preservando la differenza. Infatti, secondo diversi autori (Angori, 1998; Caldin, 2013; Pavone, 2001; 2015; Sannipoli, 2015) la differenza rappresenta una conquista culturale, ma anche un’inversione di rotta, poiché essa, invece che concentrarsi sulla mancanza, sulla compromissione, sul comportamento che appare deviante, rimanda sempre ad un’idea di possibilità e progettualità. Secondo roberta Caldin (2013) diversità e differenza, pur conservando grandi terreni di intersezione, sono due aree concettuali non del tutto coincidenti. La diversità nella persona rappresenta l’insieme “dei fattori genetici, bio-psicologici, socioculturali e razziali che non vanno negati, né rimossi, ma progressivamente e gradualmente accettati per non avviare processi di classificazione e di gerarchizzazione, né attività di segregazione e di estromissione di altri soggetti umani, spesso celate dietro la maschera di presunti valori o avvallate da logiche di potere e di violenza nobilitate da falsi ideali” (Caldin, 2001, p. 105). Ma la differenza invita a fare un ulteriore passo in avanti. riconoscere alla persona il suo statuto di differenza significa comprenderla, ovvero prenderla accanto a sé: conoscerla e ri-conoscerla nella sua differens entitas senza avere il diritto di accettarla o di tollerarla. Difatti, nonostante per il sapere pedagogico i termini accettazione e tolleranza abbiano assunto una connotazione positiva indicante la reciprocità e l’apertura incondizionata verso Altro, essi corrono il rischio di designare una interazione asimmetrica fondata, cioè, sul potere che l’accettante, il tollerante esercita nei confronti dell’accettato e del tollerato. Chi agisce l’azione? Chi la subisce? Secondo quale criterio si decidono questi ruoli? Non si mette in discussione il significato di questi termini, quanto il fatto che essi si riferiscano ad una azione – il prendere in carico l’alterità – secondo un’otanno IV | n. 1 | 2016
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tica più vicina alla subordinazione che alla relazione: chi agisce l’azione può scegliere di accettare o tollerare qualcosa o qualcuno, ma allo stesso tempo, può anche scegliere di non farlo. Questo aspetto appare decisamente pericoloso quando ad essere sottoposte al vaglio ontologico dell’Altro sono le altrui identità o, in generale, degli aspetti che le caratterizzano. Difatti, anche il Libro bianco sul dialogo interculturale (2008) redatto dai Ministri degli Affari Esteri del Consiglio d’Europa ribadisce quanto la tolleranza e lo spirito di apertura possano non essere sufficienti: “è necessario adottare misure proattive, strutturate e ampiamente condivise, in grado di gestire la diversità” (p. 14). Al contrario la relazione comporta, sempre e comunque, un portare vicendevolmente qualcosa (il sé) all’Altro – torna l’etimo latino res-latum –; indica, cioè un processo dialettico che si attiva nell’incontro e che si alimenta di reciproco rispetto. Pertanto, aprirsi e rendersi disponibile alle differenze non vuol dire solo accettarle o tollerarle, ma soprattutto significa averne rispetto ricordando il duplice significato che l’etimo latino originariamente attribuiva al verbo respĭcĕre (riguardare): guardare con più attenzione e avere riguardo (Cfr. Cortelazzo, Zolli, 1999). Entrare in relazione con gli altri, con delle persone differenti da noi, significa negoziare parti di sé, mettersi in gioco, riconoscere i propri e gli altrui limiti, le proprie e le altrui fragilità. La differenza, pertanto, diviene una lente pedagogica attraverso cui è possibile guardare nuovamente e con più attenzione l’altro lasciando in filigrana l’assenza o la compromissione di abilità che per troppo tempo hanno finito per identificare la persona stessa. La diversità, sovente, ha rappresentato questo ultimo aspetto. Ha indicato, così come suggerisce l’etimo, sempre e comunque, un allontanamento e un deragliamento dalla norma. Ne consegue, come asserisce Sannipoli (2015), che alla parola diversità hanno fatto seguito “interventi compensativi che riducano il gap tra la performance esibita e la competence richiesta, tra l’azione e la norma, tra ciò che è accettato e condiviso e tra ciò che devia ed è inusuale” (p. 52). Al contrario, la differenza fa riferimento alla complessità e alla ricchezza umana (Angori, 1998) e rappresenta una dimensione pedagogica che indica il passaggio da ciò che esiste già al sempre possibile (Caldin, 2013). Indica, cioè, in che direzione deve andare lo sguardo pedagogico, ossia mostrarsi critico e dissenziente rispetto alla stigmatizzazione e patologizzazione della divergenza e, al contrario, attento a promuovere la pluralità delle espressioni dell’essere sostenendo chi, a causa di svariate ragioni, si trova alcuni passi indietro. Tornando, così, alla dialettica diversità-differenza possiamo affermare che oggi anche l’ambito pedagogico sembra intravedere maggiori opportunità nel termine differenza. Questo aspetto appare evidente soprattutto nelle riflessioni inerenti all’intercultura e in quelle inerenti ai temi del genere e dell’orientamento sessuale. Di fatto, in ambito educativo il tema della differenza si sta progressivamente sviluppando, tanto da costituire un cantuccio di riflessione autonomo, ma ancora in costruzione. La Pedagogia della differenza, appunto. Tuttavia, non esiste uno steccato epistemologico definitivo che la caratterizza, I. Riflessione teorica
poiché di volta in volta essa assume varie identità e molteplici finalità di riflessione e di ricerca. Talvolta fa riferimento alla dimensione interculturale e relazionale (Perucca, Simone; 2012), altre ai temi del genere e della differenza sessuale (Ulivieri, 1992; Cambi e Ulivieri, 1994; Beseghi e Telmon, 1992) e, solo di recente, congloba anche le riflessioni inerenti ai temi dell’identità e dell’orientamento sessuale (Burgio, 2008; Batini, 2011). Pertanto, in pedagogia il termine differenza sembra offrire una moltitudine di opportunità e schiudere varchi riflessivi che intravedono in tale termine lo strumento per significare l’alterità al di là delle comparazioni riduttive tra l’“io” e il “tu” che, troppo spesso, sembrano abbiano preso vita nel termine diversità. Ad esempio Ulivieri (1992), riferendosi agli studi di genere, asserisce che “all’emancipazione va sostituita la differenza come concetto-guida, come categoria progettuale, poiché non si tratta solo di liberare le donne dentro un universo ancora e tutto maschile, ma di affermarne la specificità, di consolidarla e di farla vivere dialetticamente nel sociale, nella cultura, introducendovi il dualismo conflittuale dei generi” (pp. 51-52). Graglia (2012), ancora in maniera più esplicita, riferendosi alla significazione degli orientamenti sessuali ribadisce che il paradigma della diversità genera una opposizione e una subalternità rispetto ad una presunta (etero)norma(lità). Così scrive: forse un paradigma delle differenze ci può aiutare a riconoscere la policromia dell’essere umano: prendendo atto della molteplicità delle esperienze e delle forme cangianti delle soggettività (…). Il termine differenza presuppone una dimensione comune, come quando indichiamo due esemplari della stessa specie. Nel paradigma della differenza prendiamo atto che ci sono molti colori, un arcobaleno di sfumature (p. 99).
Parallelamente, l’ambito pedagogico è altrettanto caratterizzato dall’uso del termine diversità tanto da annoveralo tra le categorie fondative dell’educazione stessa (Bellatalla, 2007). Morin (2001) definisce la Persona una unitas multiplex: “un’unità che porta in sé i principi delle sue molteplici diversità” (p. 56). All’educazione, di conseguenza, spetta il compito di illustrare e preservare questo equilibrio senza mai arrestarne la dialettica: “l’unità in seno alla diversità, la diversità in seno all’unità” (Morin, 2000: p. 20). La diversità diviene, così, per la riflessione pedagogica “uno dei tesori più preziosi” (ivi, p. 58), ma, al contempo, rappresenta una sfida che richiede impegno e responsabilità (Gabrielli, 2013). Nello specifico, è soprattutto la Pedagogia speciale quale “scienza della complessità e della diversità” (Gaspari, 2013) a promuovere e valorizzare l’“unicitàdiversità di ogni individuo” (p. 36). Secondo de Anna (1998), infatti, “il ruolo della pedagogia assume un valore significativo nei confronti della persona, concentrandosi sulla sua specificità e diversità, contemplando le diverse problematiche culturali, personali e sociali, alimentando la sua crescita formativa” (p. 13). Ma occorre considerare che, sia in ambito più generale sia in quello più specifico quale può essere quello della pedagogia speciale, non esiste una connotaanno IV | n. 1 | 2016
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zione così netta e, quindi, esplicita dei due termini. Sovente sono utilizzati come semplici sinonimi e con accezioni adiacenti. Pertanto, in pedagogia, il termine diversità col significato di disvalore o di assalto all’identità (Montobbio e Grondona, 1988) è assai raro, se non estinto. Esistono nell’ambito della pedagogia speciale innumerevoli contributi che ricorrono al termine diversità per descrivere gli aspetti propositivi della significazione dell’alterità. Ad esempio, Gardou (2012) parla di società inclusiva come una società permeabile alla diversità; oppure Larocca (1999) afferma che “può incontrare la ricchezza del diverso solo chi è assetato di ulteriorità” (p. 37). oppure chi, come fa Gelati (2004), vede in questo termine un vero e proprio progetto politico: “solamente in una società in cui tutte le forze concorrano a creare la convinzione del valore della diversità vi potrà essere spazio per una convivenza che realizzi il pluralismo e ammetta, dunque, a pieno diritto il diverso” (p. 151). Anche in ambito internazionale i due termini risultano altamente interrelati, anzi, nel campo della Inclusive and Special Education il termine maggiormente ricorrente è diversità. A tal proposito, rimanendo in ambito internazionale, è molto interessante il recente numero monografico della prestigiosa rivista canadese Education Francophonie dedicato alla Valorisation de la diversité en éducation: réflexion sur l’inclusion (Prud’Homme et. al., 2011). L’intento dei contributi scientifici presenti in questo numero è quello di riflettere intorno ad una epistemologia della diversità in educazione e, conseguentemente, di favorire un riconoscimento positivo e costruttivo della diversità in ambito scolastico e socio-culturale. Nello specifico, Prud’Homme, ramel e Vienneau (2011) elaborano un modello educativo che colloca la diversità al centro del sistema formativo, quale segmento della società. Il modello prende in considerazione tre diversi assi.
– L’asse etico, che evidenzia la presa di posizione dell’educazione nei confronti della diversità, ossia credere, sempre e comunque, nel potenziale di ogni studente e, quindi, nella “éducabilité universelle” (ivi, p. 10). – L’asse epistemologico. La diversità è concepita come un fenomeno che emerge e si esprime nell’incontro tra lo studente e il contesto. Alla base di questo modello vi è una posizione epistemologica socio-costruttivista secondo la quale è il contesto socio-culturale inteso come una costellazione di simboli e di significati che rimanda una precisa idea di diversità. Nell’ambiente di apprendimento vi è la necessità di fornire una vasta gamma di modelli culturali e rappresentazionali della diversità. – L’asse ideologico. Il tema della diversità, nell’ambito di un progetto educativo e scolastico di successo, educa tutti alla giustizia sociale e all’equità, ma, al contempo, esso ha bisogno di un riconoscimento e una legittimazione sociale, altrimenti rischia di diventare un intervento vano. Quindi c’è bisogno di una cultura di scambio e di interdipendenza che garantisca la piena legittimità alla sua espressione. I. Riflessione teorica
Solo così la diversità può esprimersi liberamente e, inoltre, può arricchire tutto il contesto scolastico e, quindi, sociale. Il tema della diversità così si estende in un progetto ancora più grande rappresentato dall’educazione all’inclusione e alla cittadinanza democratica (Galichet, 2002). Questo contributo non è isolato, poiché l’ambito internazionale è caratterizzato da una moltitudine di contributi scientifici che si riferiscono alla diversity as an asset at school1 (Borrero et al., 2010). Anche nei documenti internazionali cosiddetti di “indirizzo politico” sull’inclusione il termine diversity “fa da sovrano”. Anzi, molto spesso, è utilizzato come sinonimo di difference. E qui torniamo alle premesse del nostro ragionamento. Facciamo degli esempi. Nelle Conclusions and recommendations of the 48th session of the International Conference on Education (UNESCo, 2008) è riportato che “it will require a change in attitudes of all people, throughout the system, to welcome diversity and difference and see these as opportunities rather than problems”2 (p. 29). oppure nel Profile of Inclusive Teachers redatto dalla European Agency for Development in Special Needs Education (2012) il primo dei quattro valori che dovrebbe possedere l’insegnante inclusivo è la “Valuing Learner Diversity – learner difference is considered as a resource and an asset to education”3 (p. 7). E ancora, nella Convention on the Rights of Persons with Disabilities (oNU, 2006) l’articolo 3 cita “respect for difference and acceptance of persons with disabilities as part of human diversity and humanity”4 (p. 5). Gli esempi mostrano come, sovente, sia difficile isolare i significati dai loro referenti, soprattutto, quando i significati appaiono così vicini da correre il rischio di con-fondersi. Questo perché i significati sono frutto di una complessa processualità sociale e sono fortemente connessi alle rappresentazioni sociali, poiché esse si strutturano e manifestano all’interno degli scambi conversazionali evidenziando, così, il ruolo fondamentale del linguaggio. Le parole rimandano a costellazioni di significato che non aleggiano su di noi quasi fossero un platonico iperuranio, ma sono in mezzo a noi, con noi. Sono noi. Fanno parte della cultura che rappresenta e significa, secondo un continuo processo dialettico, noi e l’alterità. Dove l’alterità diventa, sebbene, spesso, in forma contrastiva e oppositiva, il fondamento stesso dell’identità.
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Diversità come una risorsa per la scuola. Sarà necessario un cambiamento sociale in tutto il sistema rivolto ad accogliere la diversità e la differenza e vederle come opportunità piuttosto che come problemi. Valorizzare la diversità dell’alunno – la differenza è da considerare una risorsa e una ricchezza. Il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa.
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4. Il trinomio linguaggio-rappresentazioni-agire sociale. Le parole seguiranno…
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Le parole sono pietre, così Carlo Levi ha titolato il suo romanzo (1955), proprio per indicare che le parole hanno un peso e che il loro uso implica una responsabilità e manifesta una intenzione. Veicolano, cioè, significati che, secondo Bruner (1992), si riferiscono ad “un’attività interpretativa socialmente condivisibile” (p. 96). Il linguaggio, così, appare una forma di comunicazione interpersonale che permette, attraverso l’interazione sociale, di acquisire e di produrre significati: è un suono dotato di significato socialmente riconosciuto e connotato, direbbe Vygotskij (1954). Le parole, cioè, non rappresentano e designano solo la realtà, ma servono a compiere delle vere e proprie azioni in ambito comunicativo (Austin,1962) e, a loro volta, esercitano un particolare influsso sul mondo circostante. Esse, cioè, danno vita alle cose, concorrono alla costruzione della realtà sociale (Searle, 1969, 1995) hanno un carattere performativo, diremmo. Nello specifico, questa idea ha trovato accoglienza, sebbene sia stata ribaltata (Searle, 1998), nel costruzionismo sociale (Gergen 1985; Coulter 1979; Shotter e Gergen, 1989; Berger e Luckmann, 1969) secondo il quale la realtà viene costruita socialmente attraverso il linguaggio che, a sua volta, è frutto di una costruzione sociale. Il linguaggio, affermano Shotter e Gergen (1994), “non si riferisce a una realtà interna, già esistente, di rappresentazioni mentali, bensì consiste in asserti (claims) formulati sulla base della propria posizione in un contesto conversazionale” (p. 24) e, continua Mininni (2003), “ogni impianto conoscitivo degli esseri umani è vincolato alla pratica negoziata e culturalmente situata dei linguaggi, anche la conoscenza del Sé” (p. 38). Il linguaggio non nomina sic et simpliciter le cose, ma fa le cose, ovvero dà vita alla nostra percezione e rappresentazione del mondo (Bourdieu, 1987); è in esso che si formano e si reiterano le rappresentazione sociali (Moscovici, 1969). Col linguaggio condividiamo le rappresentazioni e, allo stesso modo, attraverso esso le modifichiamo e ne interiorizzammo delle altre, in un gioco incessante che ci vede sempre soggetti e oggetti della conoscenza. Le rappresentazioni sociali sono il prodotto di una cultura e condizionano le percezioni, gli atteggiamenti e l’agire degli individui; sono strumenti funzionali all’economia cognitiva – semplificano i processi di conoscenza – e all’interazione, poiché rappresentano un aggregante sociale. Di contro, però, quando esse sono sottoposte ad un processo di dogmatizzazione/estremizzazione possono produrre non processi di comprensione e indirizzamento del proprio e altrui comportamento sociale, ma di prescrizione, etichettamento. In tal senso, da strumenti di guida del comportamento diventano diktat, da strumenti di conoscenza dell’alterità diventano succedanei identitari, ossia vi è una sovrapposizione tra rappresentazione e identità, nella misura in cui l’idea che abbiamo di una persona secondo una categoria culturale soppianta la persona stessa. Questi processi di deragliamento si acuiscono maggiormente in presenza di gruppi sociali percepiti come minoritari, laddove il contatto e, quindi, la conoscenza dell’altro è inibita dal pre-giudizio e dalle resistenze.
I. Riflessione teorica
Tuttavia, le rappresentazioni sociali, non sono strumenti di significato prescritti, sono piuttosto frutto della processualità e della comunicazione sociale. Infatti, ciò che regola il trittico linguaggio-rappresentazione-agire sociale è un processo circolare. In tal senso, focalizzando l’attenzione sull’oggetto specifico di questa riflessione, possiamo intravedere nella con-fusione dei lemmi diversità e differenza un cambiamento positivo che sempre di più investe le rappresentazioni dell’alterità; una possibilità di ri-semantizzare l’Altro secondo un’ottica di relazione e di incontro. Pertanto, se primariamente si abbraccia questa visione, allora entrambi i termini possono divenire dei validi strumenti di lettura dell’alterità, ma soprattutto strumenti di progettazione e di sviluppo di percorsi culturali finalizzati a promuovere e a tutelare le pluralità esistenziali in un’ottica, sempre e comunque, di inclusione e partecipazione sociale. Nello specifico, alla pedagogia spetta il compito di “non aver paura” di utilizzare parole scomode e, a volte, derubricate a causa del dilaniante polically correct. Piuttosto, ad essa spetta il compito di educare e di indirizzare gli sguardi, il comportamento e, quindi, le rappresentazioni verso il riconoscimento e la tutela del valore dell’alterità come differenza e come diversità proponendo riflessioni e progettando interventi che non si muovano solo nel campo dell’accoglienza, ma che diventino operazioni finalizzate da una parte a offrire una cornice di senso al tema delle pluralità esistenziali in ambito formativo e no, dall’altra a proporre degli strumenti culturali in grado di offrire delle risposte orientate a sviluppare il potenziale e ad intravedere, sempre e comunque, anche nelle situazioni più complesse, l’educabilità della persona. Questo significa che la riflessione pedagogica deve porsi come un sapere che incoraggia, in un’ottica di promozione e valorizzazione, un’educazione all’alterità, anche e soprattutto, a prescindere dalle richieste emergenziali che provengono dal mondo delle formazione e no. Uscendo, infatti, dal paradigma dell’integrazione ed entrando in quello dell’inclusione è possibile pensare all’educazione all’Altro non solo in risposta alla presenza di una differenza e una diversità incarnata – quella del disabile, del migrante, dell’omosessuale che, di volta in volta, viene “integrata” –; ma, soprattutto, essa deve rappresentare un modello di inclusione che investe e permea i contesti e la progettazione educativa e che, quindi, ri-guardi (nella polisemia che questo verbo comporta) tutte le alterità. Deve rappresentare uno sfondo integratore che non si attiva solo quando si incontra una difficoltà, ma diviene parte integrante e permanente dell’educazione stessa. L’educazione alle differenze e alle diversità, pertanto, richiama a sé sempre un approccio inclusivo capace di educare all’alterità in un’ottica di relazione e di rispetto. Essa ha bisogno, però, e questo richiede impegno e competenza, di sostanziarsi nelle pratiche, nelle metodologie, negli strumenti e, soprattutto, nelle replicabilità di buone prassi. Pensiamo al contesto scolastico quale crocevia di una moltitudine di alterità che si in-contrano e scontrano e che per entrare in relazione e, soprattutto, per non diventare emergenza e svantaggio necessitano di attenzioni specifiche, di uno sfondo educativo che sia pre-parato e non intimorito dall’inquietante figura dell’inatteso. anno IV | n. 1 | 2016
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L’unica via che l’educazione può percorrere per vincere questo timore è trasformarlo in certezza, in risorsa, preparando il contesto non per la battaglia e nemmeno per l’incontro. Prepararlo e basta. Significa, cioè, non cadere nella tentazione di progettare interventi-spot, cioè, rispondenti esclusivamente a specifici obiettivi o bisogni. L’idea di una scuola simile ad uno sportello front-office o, ancora peggio, a un jukebox tradisce la sua stessa identità e gli obiettivi per la quale è stata concepita, quale agenzia educativa. Pensare al bisogno, in questo caso, speciale, secondo un semplice meccanismo stimolo-risposta/causa-effetto (ho fame, mangio) è altamente riduttivo, ma anche pericoloso, perché chi legge e analizza il bisogno rischia di esserne fagocitato e di offrire risposte più vicine a un piano di reazione che di accoglienza e di elaborazione critica. Questo è il significato profondo dell’inclusione: essa non si esaurisce nella risposta al bisogno, alla necessità, all’impellenza, ma interroga i contesti affinché essi siano sempre pronti a relazionarsi all’alterità: “la vera sfida – scrive Nussbaum (1999) – non è quella di cogliere e accettare le differenze, ma quella di creare un ambiente di apprendimento, nella diversità, che sia significativo per tutti. Si tratta di costruire una scuola atta a formare cittadini empatici, flessibili, aperti alle diversità, capace di coltivare al massimo grado, in ultima istanza, l’umanità di ciascuno” (p. 56). La scuola dovrebbe, pertanto, dotarsi di nuovi strumenti ermeneutici ed epistemici diventando, così, un luogo di costruzione di un sapere non solo contenutistico e disciplinare, ma soprattutto relazionale finalizzato, cioè, a generare e a sollecitare incontri e ad intessere relazioni con le alterità. Essa dovrebbe porsi come contesto simbolico-relazionale e culturale nel quale abbia spazio e voce la cultura dell’inclusione quale strumento di valorizzazione e tutela delle diversità e delle differenze: espressioni dell’unicità dis-omologante della persona umana, di quell’unitas multiplex che, allo stesso tempo, (ri)volge il suo sguardo al frammento e all’intero. L’inclusione dunque, come afferma Dovigo (2008), “non è semplicemente «fare posto» alle differenze – in nome di un astratto principio di tolleranza della diversità – ma piuttosto affermarle, metterle al centro dell’azione educativa in quanto nucleo generativo dei processi vitali che si sviluppano proprio attraverso lo scarto di prospettiva derivante dalle molteplici differenze di cultura, abilità, genere e sensibilità che attraversano il contesto scolastico” (p. 17). In tal senso, com’è abbastanza chiaro, il tema della alterità permea e caratterizza tutta la riflessione pedagogica, ma, aspetto ancora più preminente, le permette di pensarsi come un sapere sempre aperto e lungimirante capace, cioè, di intercettare i bisogni e le necessità prima del loro manifestarsi e, soprattutto, prima del loro dirsi. Le differenze e le diversità, in termini di bisogni, infatti, esistono prima delle loro etichette e delle loro formalizzazioni, poiché hanno a che fare con l’inarrestabile evoluzione socio-culturale dei contesti di vita. Faloppa (2004) afferma che alterità “è, al pari dell’identità, una costruzione culturale che si serve di immagini, simboli, stereotipi e, appunto, di parole” (p. 19). Pertanto, lasciando il campo dei significanti, ma non dei significati ciò che appare urgente per la nostra riflessione è rimarcare il valore incontrovertibile dell’alterità assegnandole, così, un ruolo centrale nella riflessione pedagogica affinché essa, al di là delle singole parole, si mostri, sempre di più e con forza, I. Riflessione teorica
un tenace e intelligente oppositore a ciò che Lascioli (2001) definisce “la cultura dello scarto”. Le parole poi, seguiranno.
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I. Riflessione teorica
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Interventi educativi Evidence Based per la diminuzione delle stereotipie nei Disturbi dello Spettro Autistico
Key-words: Autism spectrum disorders, special education, stereotypies, social inclusion.
II. Revisione sistematica
Saverio Fontani, psicopedagogista, insegna nel CDL in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Firenze. Si interessa dei processi di Educazione speciale per le disabilità evolutive, con particolare riferimento ai Disturbi dello Spettro Autistico. Tra le sue pubblicazioni: Il Disturbo da Deficit di attenzione con Iperattività (2012); La Sindrome di Williams. Dalla ricerca all’intervento psicoeducativo (2012); I disturbi dello Spettro Autistico. Percorsi per la didattica inclusiva (2014); La Comunicazione Aumentativa Alternativa. Proposte differenziate per interventi educativi, scolastici e abilitativi inclusivi (2016).
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Verbal and motor stereotypies are frequently associated with the Autism Spectrum Disorders, and may represent an obstacle for student inclusion. This paper presents the results of the most significant international systematic reviews, which show that the techniques derived from the perspective of the Applied Behavior Analysis are those most effective for the reduction of the stereotypies.
abstract
Saverio Fontani / Università di Firenze / saverio.fontani@unifi.it
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1. Introduzione
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I Disturbi dello Spettro Autistico (Autism Spectrum Disorders- ASD) rappresentano attualmente una quota sempre più consistente delle disabilità evolutive complesse. L’aumento della loro incidenza nella popolazione scolastica giustifica quindi la necessità di risposte adeguate, da parte dei sistemi formativi, alle esigenze educative specifiche a essi correlate (Trisciuzzi, 2003; Trisciuzzi, Fratini & Galanti 2003). L’avvento della prospettiva della Evidence Based Education (EBE), secondo la quale deve essere garantita la diffusione di pratiche educative la cui efficacia è stata convalidata in base a procedure sperimentali, ha influenzato significativamente la ricerca e l’implementazione dei modelli educativi tesi all’inclusione sociale degli allievi con Disturbi dello Spettro Autistico (Schreibman, 2005; SIPeS, 2008; Cottini, 2011; Guldberg et al., 2011; Fein et al., 2013; Cottini & Morganti, 2015). In tempi relativamente recenti si è registrato un progressivo abbandono degli approcci educativi la cui efficacia viene considerata dubbia o minima, a favore dei modelli basati su evidenze sperimentali, e in particolare di quelli validati su disegni sperimentali che prevedono il confronto tra le prestazioni di un gruppo sperimentale e di un gruppo di controllo (Hammersley, 2007; Calvani, 2012; Cottini & Morganti, 2015). Il rispetto di questa condizione, secondo la prospettiva della Evidence Based Education, rappresenta uno dei paradigmi fondamentali per la verifica della effettiva efficacia di un intervento educativo, in analogia con le metodologie di verifica degli interventi chemioterapeutici o psicoterapeutici da tempo utilizzate negli approcci biomedici e psicoeducativi (Chambless & Hollon, 1998; Odom et al., 2005; Hammersley, 2007; Calvani, 2012; Cottini & Morganti, 2015). Nonostante il dibattito retrostante l’opportunità di considerare l’efficacia delle pratiche educative sullo stesso piano dell’efficacia dell’intervento farmacologico (cfr. per una rassegna Calvani, 2012), è presumibile che la selezione degli approcci educativi in base alla loro efficacia nella promozione dei comportamenti adattivi e nella diminuzione di quelli disadattivi influenzerà progressivamente l’implementazione degli interventi orientati all’inclusione scolastica e sociale degli allievi con disabilità evolutive complesse. I Disturbi dello Spettro Autistico possono rappresentare un efficace esempio di disabilità evolutiva implicante la mobilizzazione delle risorse educative, sanitarie e familiari (Trisciuzzi, 2003; Parsons et al., 2011; Fein et al., 2013), ai fini dello sviluppo di interventi orientati alla modificazione dei comportamenti disadattivi che ostacolano lo sviluppo delle competenze prosociali e di autonomia personale (Odom et al., 2010; Flynn & Healy, 2012; Fein et al., 2013). Per questo motivo nel presente contributo viene presentata una rassegna, non esaustiva ma comunque rappresentativa, dei modelli di intervento educativo che presentano i livelli di efficacia più apprezzabili in base alle principali ricerche internazionali condotte in questa area.
II. Revisione sistematica
2. I comportamenti disadattivi nei Disturbi dello Spettro Autistico
I Disturbi dello Spettro Autistico sono stati recentemente ridefiniti nel principale repertorio diagnostico internazionale, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders-DSM 5(APA, 2013). I criteri del DSM 5 sono basati su due indicatori, rappresentati dai deficit della comunicazione sociale e dalla restrizione/ripetizione dei comportamenti. I criteri per il deficit comunicativo sono i seguenti:
a. Approccio sociale anormale. Ridotto interesse nella condivisione degli interessi e delle emozioni. b. Deficit nei comportamenti non verbali usati per l’interazione sociale. Anormalità nel contatto oculare e nel linguaggio del corpo. Deficit nella comprensione e nell’uso della comunicazione non verbale. Assenza di espressività facciale e gestualità. c. Deficit nello sviluppo e mantenimento di relazioni appropriate: Difficoltà nel regolare il comportamento rispetto ai diversi contesti sociali. Difficoltà nella condivisione del gioco immaginativo e nel fare amicizie. Apparente mancanza di interesse verso le persone.
I deficit connessi alla restrizione e alla ripetizione dei comportamenti sono invece indicati dai seguenti criteri:
a. Linguaggio, movimenti motori o uso di oggetti stereotipato o ripetitivo. Presenza di stereotipie motorie, ecolalia o uso ripetitivo di oggetti. b. Aderenza alla routine con eccessiva resistenza ai cambiamenti. c. Fissazione in interessi ristretti con intensità anormale. Eccessivo attaccamento o preoccupazione per oggetti inusuali. d. Interessi anomali con pervasiva manipolazione degli oggetti e attrazione verso luci o oggetti rotanti. e. Alterazioni della reattività agli stimoli sensoriali, con apparente indifferenza al caldo, al freddo e al dolore.
I livelli di gravità del disturbo sono infine rappresentati da una scala a tre livelli (Rilevante, Lieve e Moderato) che rappresentano la funzione della quantità di supporto richiesto all’ambiente (APA, 2013). L’analisi dei criteri permette di comprendere il ruolo significativo dei comportamenti stereotipizzati nelle alterazioni dello Spettro Autistico, dato che essi sono rappresentati da una intera classe di indicatori. I comportamenti ripetitivi compongono una quota rilevante del profilo comportamentale comunemente associato al disturbo, e risulta evidente come la loro presenza pervasiva sia in grado di ostacolare l’adattamento dell’allievo ai contesti sociali, didattici o domestici (Murphy et al., 2009; Langen et al. 2011a; 2011b). La presenza dei comportamenti stereotipizzati sembra rappresentare una caratteristica peculiare dei Disturbi dello Spettro Autistico; comportamenti disa-
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dattivi di tale ordine sono presenti anche in varie altre tipologie di disabilità cognitive, ma il tipico profilo associato all’ASD ne risulta influenzato in misura massiva, come viene evidenziato dagli studi condotti sulla base del confronto con altre tipologie di disabilità intellettiva (Bodfish et al., 2000; Rapp & vollmer, 2005; Langen et al. 2011a; Boyd, McDonough & Bodfish, 2012). Forme di comportamento stereotipizzato e ripetitivo sono osservabili nella maggioranza delle manifestazioni del disturbo. Nonostante la variabilità della stima della loro incidenza, risulta significativo il dato riportato da Murphy et al. (2009) in relazione ad uno studio condotto su un campione di 157 bambini con ASD, secondo il quale il 72% dei bambini con ASD presenta repertori comportamentali stereotipizzati. I comportamenti ripetitivi coinvolgono varie aree comportamentali dell’allievo, risultando presenti sotto forma di stereotipie vocali e di linguaggio perseverativo, con la presenza di domande ripetitive e, talvolta, di incessanti discussioni afinalistiche (Trisciuzzi, 2003; Zappaterra, 2010). Sono comuni modelli comportamentali di affaccendamento con oggetti di interesse specifico, di sbattimento delle mani, di rotazione del corpo e di strofinamento del volto (Murphy et al., 2009; Sigafoos et al., 2009; DiGennaro Reed, Hirst & Hyman, 2012; Mulligan et al., 2014). Nelle forme a bassa funzionalità cognitiva, simili comportamenti possono rappresentare l’attività prevalente del bambino, con evidenti riflessi negativi sulle sue capacità adattive e sulla comprensione delle istanze ambientali (Rapp & vollmer, 2005; Sigafoos et al., 2009; Boyd, McDonough & Bodfish, 2012; DiGennaro Reed, Hirst & Hyman, 2012). Risultano presenti anche quote significative di comportamenti autolesionistici che, in alcuni casi, possono rappresentare un fattore di rischio per la sicurezza personale dell’allievo (DiGennaro Reed, Hirst & Hyman, 2012; Mulligan et al., 2014). Il dibattito sulle cause e sulle funzioni dei comportamenti stereotipizzati nel disturbo ha coinvolto numerosi autori i quali hanno indicato vari fattori esplicativi di ordine ambientale, neurologico e farmacologico (cfr. per una rassegna DiGennaro Reed, Hirst & Hyman, 2012; Mulligan et al., 2014), in grado di favorire l’interpretazione dei comportamenti stereotipizzati. Un ruolo significativo, in questa prospettiva, risulta quello rivestito dalla deprivazione sociale e dai contesti ambientali poveri di stimolazioni (Rapp & volmer, 2005; Langen et al. 2011a; 2011b; Mulligan, 2014). Lo sviluppo di comportamenti ripetitivi e limitati è osservabile infatti negli animali allevati in ambienti ristretti e poveri sul piano della stimolazione ambientale (Langen et al. 2011a); analogamente, anche i bambini allevati in ambienti socialmente deprivati, come quelli rappresentati dagli orfanotrofi (Langen et al. 2011b), risultano significativamente impegnati in comportamenti motori stereotipizzati, come originariamente osservato da Spitz (1945) nel suo pionieristico studio sui bambini ospedalizzati. Anche il ruolo rivestito dallo stress fisiologico viene considerato un fattore in grado di favorire l’interpretazione dei comportamenti stereotipizzati. Elevati livelli di stress risultano infatti in grado di aumentare la frequenza dei comportamenti ripetitivi sia negli animali, sia negli esseri umani (Rapp & vollmer, 2005; Langen et al. 2011b). Il coinvolgimento nel comportamento stereotipizzato, in questa prospettiva, potrebbe essere considerato come una conseguenza degli elevati livelli di stress ai quali il bambino con ASD viene sottoposto, soprattutto nei casi di modifiche impreviste della sua routine quotidiana (Rapp & vollmer, 2005). Non mancano II. Revisione sistematica
interpretazioni alternative, secondo le quali il coinvolgimento nelle stereotipie potrebbe fornire al bambino rinforzi derivati dall’aumento delle pulsazioni cardiache. Le stereotipie motorie, in altri termini, potrebbero essere utilizzate dal bambino con ASD per la ricerca di stati di benessere e di attivazione in seguito all’aumento della sua frequenza cardiaca (Lydon, Healy & Dwyer, 2012; Mulligan et al., 2014). Un filone interpretativo alternativo risulta quello riferibile al ruolo dei mediatori neurochimici coinvolti nella produzione di stereotipie: l’assunzione di farmaci dopaminergici risulta in grado di aumentare comportamenti stereotipizzati negli animali, mentre l’iniezione di farmaci agonisti della dopamina diminuisce la frequenza dei comportamenti di tale ordine (Langen et al., 2011a; Langen et al., 2011b). Deve infine essere considerato il ruolo del fattore esplicativo rappresentato dall’Analisi Funzionale del Comportamento (Applied Behavior Analysis, ABA, Lovaas, 1987) per la comprensione dei comportamenti stereotipizzati nei Disturbi dello Spettro Autistico. Una simile prospettiva, derivata dalla teoria del condizionamento operante di Skinner, potrebbe risultare in grado di favorire la comprensione della funzione del comportamento ripetitivo attraverso la considerazione del rinforzo da esso fornito al bambino. L’approccio ABA non deve essere considerato come un modello di intervento specifico, ma piuttosto un programma di ricerca teso alla individuazione dei fattori che motivano un comportamento, adattivo o disadattivo (Lovaas, 1987; 1993). L’identificazione dei fattori motivanti risulta preliminare all’adozione di interventi tesi alla modificazione del comportamento, anche se frequentemente tale analisi preliminare viene tralasciata (DiGennaro Reed, Hirst, & Hyman, 2012; Matson et al., 2012; Mulligan et al., 2014). Le informazioni ottenute dall’analisi comportamentale permettono di identificare il comportamento disadattivo e di sostituirlo con comportamenti adattivi, fondati sullo sviluppo delle competenze di richiesta ambientale da parte del bambino con ASD. L’approccio ABA risulta particolarmente significativo per gli interventi educativi rivolti agli allievi con alterazioni dello Spettro Autistico, se viene considerato il dato relativo alla sua efficacia nella modificazione dei comportamenti disadattivi ripetitivi tipici del profilo comportamentale associato al disturbo (Matson et al., 2012; Mulligan et al., 2014; Cottini & Morganti, 2015). L’approccio dell’Analisi Funzionale si fonda sulla ricerca dei fattori che influenzano il mantenimento dei comportamenti non adattivi; risultano determinanti, in questa prospettiva, i processi di analisi degli antecedenti e delle conseguenze del comportamento, processi dai quali derivano sia le esigenze di misurazione della frequenza dei comportamenti, sia le esigenze di analisi contestuale dell’ambiente nel quale si sviluppa il comportamento bersaglio dell’intervento. L’individuazione del contesto, del momento e delle persone coinvolte nell’evento risulta determinante per l’identificazione delle funzioni del comportamento disadattivo presentato dall’allievo (Lovaas, 1987; 1993; Cottini, 2011; Matson et al., 2012). L’approccio risulta orientato verso l’insegnamento di competenze specifiche per il miglioramento della comunicazione e verso la sostituzione del comportamento disadattivo con altri più adattivi, attraverso l’insegnamento di competenze di richiesta socialmente condivise. Secondo questa prospettiva il comportamento disadattivo, rappresentato da stereotipie verbali, motorie o da agiti autolesionianno IV | n. 1 | 2016
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stici, viene mantenuto nel repertorio dell’allievo a causa del rinforzo automatico da esso prodotto, o dalle sue conseguenze sull’ambiente sociale, come quelle rappresentate dall’orientamento dell’attenzione delle persone presenti sulle necessità dell’allievo (Lovaas, 1993; Boyd et al., 2012; Wilke et al., 2012; DiGennaro Reed, Hirst & Hyman, 2012).
3. Modelli Evidence Based per l’intervento educativo nelle stereotipie
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La prospettiva della Evidence Based Education è caratterizzata dalla necessità della validazione empirica in base a confronti tra i punteggi pre e post-training di gruppi sperimentali e gruppi di controllo con assegnazione randomizzata (Chambless & Hollon, 1998; Odom et al., 2005; Hammersley, 2007; Calvani, 2012; Cottini & Morganti, 2015). Uno dei primi tentativi di sviluppo di un modello gerarchico dell’efficacia dei modelli educativi nei Disturbi dello Spettro Autistico secondo la prospettiva EBE risulta quello ascrivibile ai contributi di Schreibman (2005). Secondo l’autrice i numerosi modelli di intervento educativo sviluppati negli ultimi decenni possono essere raggruppati in quattro grandi macrocategorie. Nella prima macrocategoria sono considerati tutti i programmi di intervento derivati dalla prospettiva comportamentista; sono riconducibili a questo raggruppamento i modelli che hanno dimostrato la presenza di maggiori livelli di efficacia in base alle evidenze sperimentali (Odom et al., 2005; Lequia, Machalicek & Rispoli, 2012; Fein et al., 2013; Mulligan et al., 2014). In questa macrocategoria sono compresi sia i modelli basati sull’approccio ABA (Lovaas, 1993), che risultano situati al vertice, sia quelli derivati da tale prospettiva. Il Discrete Trial TrainingDTT (Lovaas, 1987), il Denver Model (Rogers, 1996) e il Pivotal Response Training – PRT (Koegel, 2000), risultano infatti caratterizzati da elevati livelli di efficacia per il cambiamento dei comportamenti disadattivi. La seconda macrocategoria di modelli comprende i programmi derivati da modelli teorici diversificati; sono a essa riconducibili i programmi di Comunicazione Alternativa e Aumentativa- CAA (Beukelman & Mirenda, 2013) e il Picture Exchange Communication System - PECS (Bondy & Frost, 1994). Questi programmi presentano obiettivi relativi al superamento del deficit comunicativo e al miglioramento della comprensione delle stimolazioni sociali, e risultano fondati sulla diminuzione dei comportamenti disadattivi in seguito all’acquisizione delle competenze comunicative. Nonostante tali interventi non siano ancora stati validati in base alla prospettiva fondata su evidenze, è presumibile un loro ruolo significativo nella diminuzione dei comportamenti stereotipizzati. Lo sviluppo delle competenze comunicative, in analogia con la prospettiva ABA, renderebbe infatti marginale il riferimento al comportamento disadattivo, dato che il risultato relativo alla richiesta di attenzione può essere conseguito attraverso la richiesta verbale o attraverso l’indicazione di un simbolo (Wetherby & Prizant, 2000; Mirenda &Iacono 2009). Il ricorsivo riferimento ai sistemi di Comunicazione Alternativa e Aumentativa nei sistemi di linee guida internazionali per il trattamento del disturbo (SIGN, 2007; ISS, 2011; BPS, 2012) testimonia la
II. Revisione sistematica
loro presumibile efficacia nella diminuzione dei comportamenti ripetitivi e stereotipizzati. La terza macrocategoria comprende gli interventi di ordine psicodinamico, che hanno conosciuto ampia popolarità sino agli anni Novanta, ma che attualmente sembrano rivestire solo un ruolo documentario per la ricostruzione delle tappe che hanno caratterizzato l’evoluzione degli interventi (Schreibman, 2005; SIPeS, 2008; Fein et al., 2013). Gli interventi di tale ordine sono prevalentemente documentati da studi di casi singoli, che non soddisfano i requisiti di validazione empirica richiesti dalla prospettiva evidence based. Alla quarta macrocategoria sono infine ascrivibili i modelli di ordine farmacologico e nutrizionale, secondo le quali il disturbo sarebbe causato da fattori farmacologici o dietetici (Schreibman, 2005). L’efficacia di interventi di ordine dietetico è presumibilmente dubbia, mentre gli interventi di ordine farmacologico trascendono i limiti del presente contributo, che si fonda sull’analisi dei modelli educativi. Tuttavia, nella prospettiva di Schreibman (2005), anche gli interventi di ordine farmacologico sono documentati da studi di casi singoli; non mancano comunque evidenze sperimentali in grado di considerare l’efficacia degli interventi chemioterapici (DiGennaro Reed, Hirst, & Hyman, 2012; Mulligan et al., 2014). In base a tali considerazioni, nel presente studio saranno considerati solo i programmi di intervento la cui efficacia è stata validata in base alle evidenze sperimentali. Secondo le recenti rassegne, un ruolo determinante per la riduzione delle stereotipie comportamentali nei Disturbi dello Spettro Autistico è quello rivestito dagli interventi di Analisi Funzionale, e in particolare da quelli integrati dall’analisi preliminare delle funzioni del comportamento ripetitivo. La rassegna di DiGennaro Reed, Hirst, & Hyman (2012), in particolare, si basa sull’analisi degli studi sull’efficacia degli interventi condotti dal 1980 al 2012, mentre quella curata da Mulligan e coll. (2014) analizza i risultati di 71 studi condotti dal 1990 al 2014. I criteri utilizzati da Mulligan e coll. per la definizione di trattamento efficace si basano sulla selezione di studi che hanno utilizzato scale di valutazione standardizzate per la rilevazione dell’intensità e della frequenza delle stereotipie motorie, e che hanno utilizzato campioni con almeno un soggetto con ASD. La valutazione dell’efficacia degli interventi è stata calcolata in base alla percentuale di riduzione del comportamento ripetitivo; per essere considerato efficace un intervento deve avere determinato una riduzione di almeno il 50% della frequenza/intensità delle stereotipie (Mulligan et al., 2014). In base a tali analisi sono stati identificati i modelli di intervento caratterizzati dai maggiori livelli di efficacia per il trattamento delle stereotipie comportamentali. Una quota consistente dei modelli risulta riconducibile all’approccio ABA, come intuito originariamente da Schreibman (2005) e confermato dalle successive meta analisi (Rapp & vollmer, 2005; Boyd, McDonough & Bodfish, 2012; DiGennaro Reed, Hirst, & Hyman, 2012; Mulligan et al., 2014). I modelli più efficaci per la riduzione dei comportamenti disadattivi stereotipizzati, in questa prospettiva, sono quelli basati sull’analisi degli antecedenti (Antecedent Treatments), sull’analisi delle conseguenze (Consequence-Based Treatments) e quelli basati sull’insegnamento delle competenze (Skills- Based Treatments).
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4. Modelli basati sugli antecedenti
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I modelli di intervento relativi all’analisi degli antecedenti rappresentano uno dei principali ambiti di intervento dell’approccio ABA; essi sono caratterizzati dall’analisi preliminare delle funzioni della stereotipia e dalle modifiche del contesto educativo (Matson et al., 2012; Wilke et al., 2012). La manipolazione del contesto ambientale secondo linee guida fornite dall’analisi dei fattori antecedenti allo sviluppo del comportamento non adattivo risulta infatti uno dei principali fattori in grado di incidere sull’emissione della stereotipia. Un esempio di intervento basato sugli antecedenti è rappresentato dalla modifica del contesto in base all’arricchimento delle stimolazioni, che viene permesso con il libero accesso a stimoli preferiti dall’allievo (ad esempio giocattoli o oggetti di interesse specifico). L’accesso continuo agli stimoli preferiti permette di identificare gli elementi che possiedono le stesse capacità rinforzanti della stereotipia; in questa linea possono inserirsi gli interventi basati sulle tecniche di interruzione e ridirezionamento della risposta (RIRD, response interruption and redirection), che prevedono l’interruzione della stereotipia vocale o motoria e la sua sostituzione con esercizi di risposta a semplici domande concernenti le regole sociali o le modalità di richiesta di un oggetto (Ahearn et al., 2007). Nella letteratura le meta analisi hanno identificato sei studi, per la maggioranza basati sull’analisi di casi singoli, che hanno dimostrato riduzioni significative delle stereotipie attraverso interventi basati sugli antecedenti (Boyd, McDonough & Bodfish, 2012; Mulligan et al., 2014). Lo studio di maggiore rilevanza risulta quello di Ahearn et al. (2005), nel quale le tecniche di accesso continuo a oggetti di interesse erano applicate con due allievi con Disturbi dello Spettro Autistico di 11 e 13 anni di età. I risultati hanno evidenziato come l’identificazione di un oggetto che presenta le stesse proprietà di rinforzo della stereotipia possa favorire la diminuzione dei comportamenti disadattivi (percentuale di riduzione della stereotipia: 78,04%). Dovrebbe essere notata la relativa facilità di esportazione della tecnica nei contesti educativi della Scuola Primaria o Secondaria del nostro Paese. La regolazione dell’accesso agli oggetti di interesse specifico dell’allievo potrebbe rappresentare una componente di base delle strategie educative per gli allievi che presentano evidenti stereotipie motorie o verbali. Anche lo studio condotto da Sidener et al. (2005) risulta rappresentativo per gli interventi basati sull’analisi degli antecedenti. In questa analisi, gli autori hanno identificato uno stimolo in grado di competere con le funzioni delle stereotipie in due bambine di 6 anni di età con gravi Disturbi dello Spettro Autistico. Le stereotipie erano rappresentate da grattamenti continui delle superfici delle porte e delle pareti. In questo caso la tecnica utilizzata era quella dell’arricchimento ambientale: nella stanza erano posizionati giocattoli che erano stati identificati in grado di competere con le stereotipie. L’accesso continuo ai giocattoli determinava una riduzione significativa delle stereotipie osservate in entrambe le partecipanti (percentuale di riduzione della stereotipia: 67,45%). Anche la tecnica di arricchimento ambientale potrebbe presentare opportunità per l’inclusione di allievi della Scuola Primaria nel contesto nazionale, a condizione che i giocattoli o gli oggetti utilizzati siano presentino un potere rinforzante paragonabile a quello presentato dalla stereotipia. L’insegnante potrebbe realizzare una II. Revisione sistematica
gerarchia degli oggetti o dei giocattoli preferiti dall’allievo e posizionarli nella classe in modo che essi siano facilmente visibili e raggiungibili. Nei momenti di intensa manifestazione della stereotipia gli oggetti potrebbero essere indicati o addirittura presentati all’allievo da parte dell’insegnante o dei compagni, che potrebbero tentare di coinvolgere l’allievo in comportamenti di manipolazione o di gioco sociale, in funzione delle possibilità di condivisione presentate dall’oggetto (Sidener et al., 2005). Deve infine essere considerata anche l’analisi condotta da Love et al. (2012), nella quale le tecniche di interruzione e ridirezionamento (RIRD) sono state applicate su due partecipanti di 8 e 9 anni con Disturbi dello Spettro Autistico associati a stereotipie vocali. In questo studio alle tecniche RIRD erano combinate tecniche di accesso continuo alle stimolazioni preferite. Ai due bambini veniva permesso l’accesso continuo a giocattoli che producevano stimolazioni uditive. Quando compariva la stereotipia vocale, l’insegnante toglieva il giocattolo e chiamava l’allievo per nome, coinvolgendolo in un processo di domande e risposte basate sulle competenze possedute dal bambino. La combinazione delle tecniche RIRD con quelle di accesso continuo alle stimolazioni preferite ha determinato significative riduzioni delle stereotipie in entrambi i partecipanti (percentuale di riduzione della stereotipia: 67,45%).
5. Modelli basati sulle conseguenze
Le principali meta analisi condotte sul tema hanno individuato 10 studi basati sull’analisi degli effetti di interventi condotti secondo l’analisi delle conseguenze (DiGennaro Reed, Hirst, & Hyman, 2012; Mulligan et al., 2014). Gli interventi considerati sono quelli relativi all’utilizzo delle tecniche di interruzione e riorientamento della risposta (RIRD), sul costo della risposta e sulle tecniche di Overcorrection. Le tecniche RIRD, come precedentemente accennato, sono state sviluppate da Ahearn et al. (2007); esse presuppongono il coinvolgimento di un insegnante che presenta domande in linea con il repertorio verbale posseduto dall’allievo, ogni volta che compaiono stereotipie verbali o comportamentali, sino a quando l’allievo risponde consecutivamente per almeno tre volte alle domande invece di utilizzare la stereotipia; a ogni risposta corretta seguono immediatamente l’approvazione e la lode dell’insegnante (Ahearn et al., 2007; Love et al., 2012). Nel disegno sperimentale originariamente sviluppato da Ahearn et al. (2007) per l’applicazione delle tecniche RIRD, sono state osservate riduzioni significative delle stereotipie vocali in un campione di quattro bambini con alterazioni dello Spettro Autistico di età compresa tra i 3 e gli 11 anni e un’età media di 7 anni. Il disegno sperimentale prevedeva l’interruzione delle stereotipie vocali non appena esse comparivano, e il coinvolgimento da parte dell’insegnante in vocalizzazioni che comprendevano il nome del partecipante ed il riferimento a semplici domande alle quali il bambino era considerato capace di rispondere (Ad esempio: Cosa è questo? Come mi chiamo?). Alle risposte appropriate seguivano immediati comportamenti di approvazione sociale e di lode da parte dell’insegnante. I risultati indicavano una significativa riduzione delle stereotipie vocali in tutti i soggetti e un aumento delle vocalizzazioni adeguate in tre dei quattro partecipanti. anno IV | n. 1 | 2016
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La percentuale di riduzione del comportamento stereotipizzato era compresa nel range 78-85%, con una media dell’81% (Ahearn et al., 2007). In uno studio successivo (Ahrens et al., 2011) l’utilizzo delle tecniche RIRD è stato condotto su due bambini di 4 e 6 anni con diagnosi di Disturbi dello Spettro Autistico associato a stereotipie verbali e motorie. I partecipanti erano sottoposti ad un trattamento alternativo preliminare, allo scopo di verificare la differenza con il trattamento sperimentale. In questo studio la ridirezione avveniva attraverso due modalità: la ridirezione vocale e la ridirezione motoria. La ridirezione vocale consisteva nell’interruzione della stereotipia e nel coinvolgimento nella vocalizzazione, mentre il ridirezionamento motorio avveniva interrompendo la stereotipia e coinvolgendo il bambino nello svolgimento di semplici esercizi motori. Entrambe le modalità sono risultate efficaci per la riduzione del comportamento stereotipizzato. In particolare, il ridirezionamento motorio è risultato più efficace per la riduzione delle stereotipie verbali (percentuale di riduzione della stereotipia: 94,11%) rispetto a quelle motorie (percentuale di riduzione della stereotipia: 80,47%). Il ridirezionamento vocale, invece, presenta la stessa efficacia sia per la riduzione delle stereotipie vocali (percentuale di riduzione della stereotipia: 86,28%), sia per la riduzione delle stereotipie motorie (percentuale di riduzione della stereotipia: 86,45%). Anche il confronto con il trattamento alternativo preliminare ha dimostrato una differenza significativa a favore delle tecniche RIRD (Ahrens et al., 2011). Anche le possibilità offerte dalle tecniche RIRD potrebbero essere quindi considerate nello sviluppo di programmi educativi individualizzati per allievi con ASD caratterizzati da massiva presenza di stereotipie vocali. L’insegnante potrebbe togliere il giocattolo o l’oggetto di interesse quando l’allievo risulta coinvolto nell’emissione della stereotipia, chiamarlo per nome e tentare di coinvolgerlo in processi dialogici, in funzione delle sue competenze di comprensione e di produzione linguistica. Il giocattolo o l’oggetto di interesse potrebbero essere ripresentati quando la stereotipia vocale diminuisce. Le tecniche RIRD presentano opportunità meritevoli di considerazione, poiché oltre alla diminuzione della stereotipia possono risultare in grado di stimolare le competenze di comunicazione funzionale dell’allievo (Ahearn et al., 2007; 2011; Love et al., 2012; Mulligan et al., 2014). Di particolare interesse, in questa prospettiva, risulta anche lo studio condotto da Liu-Gitz & Banda (2010), nel quale le tecniche di ridirezionamento della risposta erano applicate in un contesto naturalistico rappresentato dalla classe nella quale era inserito uno studente di 10 anni di età, con Disturbi dello Spettro Autistico associati a gravi stereotipie vocali. Appena lo studente emetteva la stereotipia verbale, l’insegnante lo interrompeva immediatamente (interruzione) e poneva una domanda (ridirezionamento) in linea con le competenze dell’allievo (ad esempio: Cosa hai fatto l’estate scorsa?). Durante l’intervento RIRD, le stereotipie vocali presentavano un decremento dal 41% al 10% del tempo utilizzato dall’allievo per la loro emissione. In questo studio la tecnica di interruzione e ridirezionamento favoriva un’elevata diminuzione delle stereotipie vocali (percentuale di riduzione della stereotipia: 96,79%). La riduzione del coinvolgimento dell’allievo nelle stereotipie vocali permetteva inoltre maggiori tempi di attenzione nello svolgimento dei compiti scolastici assegnati. II. Revisione sistematica
Lo studio di Anderson & Le (2011) ha invece valutato gli effetti del costo della risposta in un bambino di 7 anni con diagnosi di Disturbi dello Spettro Autistico e consistenti stereotipie vocali. La tecnica del costo della risposta prevede la rimozione di uno stimolo rinforzante (ad esempio l’ascolto della musica o la visione di un video) al verificarsi della stereotipia. Nonostante l’assenza di una registrazione del livello di baseline iniziale, l’utilizzo della musica nella tecnica del costo della risposta non si è dimostrato efficace per la riduzione della stereotipia, mentre l’interruzione della visione del video si è dimostrata efficace per la diminuzione della sua frequenza. Considerazioni analoghe possono essere espresse in merito all’utilizzo della procedura di Overcorrection, che in questo caso prevedeva la ripetizione di uno specifico comportamento da parte dell’allievo ogni volta che si presenta il comportamento stereotipizzato. L’utilizzo delle tecniche di overcorrection ha ridotto la frequenza delle stereotipie sino alla loro quasi totale scomparsa dal repertorio vocale dell’allievo (Anderson & Le, 2011).
6. Modelli basati sulle capacità
I modelli di intervento educativo basati sull’insegnamento delle competenze rappresentano un’ulteriore famiglia di tecniche derivate dall’Analisi Funzionale del Comportamento in grado di favorire da un lato il decremento dei comportamenti stereotipizzati e, dall’altro, di migliorare le competenze di comunicazione funzionale dell’allievo. Risulta quindi evidente la loro rilevanza per l’intervento educativo nei Disturbi dello Spettro Autistico caratterizzati dalla presenza di stereotipie vocali o motorie pervasive e dalla compromissione delle competenze comunicative (Boyd, McDonough & Bodfish, 2012; DiGennaro Reed, Hirst, & Hyman, 2012; Mulligan et al., 2014). Sono ascrivibili a questo raggruppamento gli interventi educativi basati sui Training di Comunicazione Funzionale, sull’insegnamento delle competenze autoregolative e sulle strategie di Rinforzo Differenziale. Uno dei primi studi relativi all’approccio basato sulle capacità è quello di Kennedy (1994), nel quale un allievo di 10 anni con stereotipie motorie multiple fu sottoposto a un Training di Comunicazione Funzionale orientato all’insegnamento delle competenze comunicative necessarie per ottenere un oggetto desiderato attraverso modalità comunicative condivise. L’apprendimento delle modalità di richiesta, in questa prospettiva, rende marginale il ricorso al comportamento disadattivo utilizzato per avanzare la richiesta (Bondy & Frost, 2002; Mirenda & Iacono, 2009; Boyd, McDonough & Bodfish, 2012). Di interesse analogo risulta lo studio di Mancina et al. (2000), basato sullo sviluppo delle competenze di automonitoraggio e di autoregolazione. Nello studio, condotto su un allievo di 12 anni con gravi stereotipie vocali, il partecipante seguiva un training per monitorare, registrare e autorinforzare il proprio comportamento; il training veniva condotto dall’insegnante della classe nella quale era incluso l’allievo. Lo sviluppo delle competenze di automonitoraggio presentava effetti positivi sulle competenze di autoregolazione, dato che le stereotipie vocali erano significativamente diminuite (percentuale di riduzione della stereotipia: 80,64%). anno IV | n. 1 | 2016
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Uno studio segnalato da tutte le principali meta analisi risulta quello di Lang et al. (2010), nel quale 4 allievi con Disturbi dello Spettro Autistico di età compresa tra i 5 e gli 11 anni, caratterizzati dalla presenza di massicce stereotipie di ordine motorio e manipolativo, sono stati sottoposti all’insegnamento di adeguate capacità di gioco. In questo disegno sperimentale, la fase di intervento era preceduta da una fase di intervento alternativo generico, allo scopo di verificare il confronto sulla diminuzione delle stereotipie. Mentre l’intervento alternativo non presentava effetti significativi sulla loro riduzione, l’insegnamento di capacità di gioco appropriate ha determinato un decremento dei comportamenti ripetitivi e manipolativi (percentuale di riduzione della stereotipia: 78, 39%). Tecniche di tale ordine potrebbero presentare elevate opportunità inclusive per allievi con ASD nel contesto nazionale. La possibilità dell’insegnamento di competenze ludiche da parte dell’insegnante di sostegno o dei compagni in eventuali microgruppi di apprendimento cooperativo potrebbe comporre parte integrante delle strategie educative orientate all’inclusione dell’allievo, particolarmente nella Scuola Primaria, con riflessi positivi sulla diminuzione dei comportamenti ripetitivi. Anche le strategie di Rinforzo Differenziale di altri comportamenti (Differential Reinforcement of Other behaviors, DRO) presentano elevati livelli di efficacia nella riduzione del comportamento stereotipizzato (Boyd, McDonough & Bodfish, 2012; Mulligan et al., 2014). Le tecniche di Rinforzo Differenziale si configurano come tecniche educative non aversive, basate sul rinforzo dei comportamenti diversi da quelli disadattivi. Il rinforzatore, rappresentato dall’accesso alle attività o ai giocattoli preferiti dall’allievo, viene erogato solo quando non è presente la stereotipia; durante la comparsa di episodi di comportamenti disadattivi, il rinforzo non viene mai erogato (Matson et al., 2012). Le tecniche DRO si sono dimostrate efficaci per la riduzione dei comportamenti stereotipizzati di ordine vocale e motorio. Una valida dimostrazione della loro efficacia è desumibile dallo studio di Nuernberger et al. (2013), nel quale l’obiettivo dell’intervento educativo era rappresentato dalla riduzione del comportamento di continua manipolazione dei capelli da parte di una ragazza di 19 anni con Disturbi dello Spettro Autistico. Il rinforzo differenziale ricorsivo dei comportamenti diversi da quelli associati alla stereotipia, realizzato attraverso l’accesso ad oggetti in grado di competere con il comportamento disadattivo, ha determinato la sua estinzione quasi totale (percentuale di riduzione della stereotipia: 98,8%). Una ulteriore dimostrazione dell’efficacia delle tecniche DRO proviene infine dallo studio di Lanovaz & Argumedes (2010), nel quale era coinvolto un bambino di 3 anni con stereotipie motorie di introduzione di oggetti nella bocca. Il rinforzo selettivo dei comportamenti diversi da quello disadattivo ha determinato una sua riduzione significativa (percentuale di riduzione della stereotipia: 50,67%). L’effetto si attenuava rapidamente se le tecniche di Rinforzo Differenziale erano sospese, determinando la ricomparsa massiva del comportamento disadattivo (percentuale di riduzione della stereotipia: 9,94%).
II. Revisione sistematica
7. Considerazioni conclusive
La presente rassegna, sebbene non esaustiva, potrebbe fornire opportunità riflessive sul coinvolgimento delle tecniche derivate direttamente dall’approccio ABA nei programmi di intervento educativo che i sistemi formativi sono tenuti ad implementare nei confronti di allievi con Disturbi dello Spettro Autistico associati a comportamenti stereotipati e ripetitivi di ordine vocale e motorio (Zappaterra, 2006; 2010). La massiva presenza di tali comportamenti nel profilo comportamentale dell’allievo può rappresentare un fattore in grado di ostacolare sia i processi di inclusione scolastica (Trisciuzzi, 2003), sia le opportunità di sviluppo cognitivo presentate dalla partecipazione a programmi di insegnamento individualizzato (Murphy et al., 2009; Langen et al., 2011b). La relativa facilità di esportazione delle tecniche nei contesti educativi della Scuola Primaria e Secondaria attraverso la regolazione dell’accesso ai giocattoli o agli interessi specifici dell’allievo, oppure attraverso l’insegnamento delle competenze ludiche da parte dei compagni, presentano infatti evidenti opportunità inclusive. Le tecniche indicate non dovrebbero quindi essere considerate solo ai fini della diminuzione dei comportamenti ripetitivi, ma anche nella duplice prospettiva della condivisione delle esperienze di gioco con i compagni e dello sviluppo delle competenze comunicative funzionali. Lo sviluppo delle competenze comunicative e sociali risulta infatti un obiettivo comune a tutti i modelli di intervento educativo orientati ad allievi con Disturbi dello Spettro Autistico. Il riferimento alle tecniche che presentano i più elevati livelli di efficacia nei confronti delle stereotipie presenta, in altri termini, opportunità inclusive che potrebbero essere considerate nella realizzazione di ogni intervento educativo individualizzato. Il ricorso alle tecniche di tale ordine potrebbe quindi rappresentare una componente non marginale delle competenze dell’insegnante di sostegno impegnato nei processi di Educazione Speciale rivolti ad allievi caratterizzati dalla presenza dei comportamenti disadattivi tipici del disturbo.
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SAvERIO FONTANI
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Il Rapporto di Autovalutazione (RAV) e l’Index per l’Inclusione: una sinergia possibile
Key-words: Inclusive education; Self evaluation; School development; inclusive values
III. Esiti di ricerca
L’articolo è frutto di una riflessione comune e della collaborazione tra le autrici che insieme hanno progettato contenuti e struttura della pubblicazione. Per quel che riguarda la stesura del testo, Paola Damiani ha curato la prima parte introduttiva e i paragrafi dedicati alla descrizione e analisi del potenziale del RAV, Heidrun Demo ha invece curato la seconda parte sui rischi del RAV e sul potenziale di una integrazione con l’Index.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno IV | n. 1 | 2016
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
L’ articolo intende aprire uno spazio di riflessione sul rapporto tra processi di autovalutazione e processi di inclusione, a partire dall’analisi del modello del Rapporto di Autovalutazione (RAV) recentemente introdotto in tutte le scuole. In particolare, ci proponiamo di identificare punti di forza da potenziare e criticità da mitigare insiti nel RAV, al fine di supportare i processi inclusivi in atto nelle scuole, favorendo l’assunzione di uno sguardo consapevole, critico e proattivo, da parte dei docenti impegnati nel suo uso. Il quadro entro il quale ci muoviamo è quello della pedagogia speciale. La riflessione pedagogica pone fondamentali interrogativi, a partire dall’idea stessa di inclusione, che ci orienteranno nell’esplorazione critica dei contenuti e dei processi correlati all’utilizzo del RAV. Più in particolare, il lavoro qui presentato esplora le possibili sinergie fra il Rapporto di Autovalutazione e l’Index per l’Inclusione (Booth e Ainscow 2009; 2014), che rappresenta il modello di inclusione da noi assunto come riferimento concettuale e metodologico. Nello specifico, analizzeremo il modello di autovalutazione e la struttura sottostanti il RAV, evidenziandone punti di forza e criticità rispetto all’idea di inclusione proposta dall’Index. Illustreremo poi come alcuni elementi, sia concettuali che metodologici, dell’Index possano essere integrati nel RAV con la finalità di rafforzarne un’ applicazione in chiave inclusiva.
abstract
Paola Damiani / Ufficio Scolastico Regionale di Torino, paola.damiani@usrpiemonte.it Heidrun Demo / Libera Università di Bolzano, heidrun.demo2@unibz.it
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1. Introduzione
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In riferimento ai recenti orientamenti culturali ed istituzionali (D.M. 254, 16 novembre 2012 – Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo; DPR 28 marzo 2013, n. 80 – Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione; Circolare Ministeriale 6 marzo 2013, n. 8; Legge 13 luglio 2015, n. 107 ), che identificano il tema dell’inclusione e il tema della valutazione/miglioramento della qualità dei processi formativi come obiettivi prioritari e strategici della scuola attuale e futura (Commissione Europea, 2014 – Europa 2020), risulta essenziale riflettere sulle politiche e sulle pratiche recentemente avviate in questo senso in tutte le scuole, a livello nazionale. In particolare, i processi di autovalutazione, introdotti con il Rapporto di Autovalutazione (RAV) a livello ministeriale a partire dall’anno scolastico 2014-15, e i relativi processi di miglioramento (previsti per gli anni scolastici 2015-16; 201617), offrono un’importante occasione di ripensamento e di attualizzazione dei processi di insegnamento-apprendimento, e del sistema formativo in generale, finalizzata al miglioramento dei livelli di apprendimento e di partecipazione di tutti gli allievi, anche e soprattutto quelli “più fragili” e/o in difficoltà . La relazione tra autovalutazione e inclusione promossa dalle politiche ministeriali, in accordo con la normativa relativa ai Bisogni Educativi Speciali (BES) che prevede, tra l’altro, il monitoraggio delle scuole rispetto all’inclusione (si veda ad es. l’introduzione del Piano Annuale per l’Inclusione – PAI, Cir. min. 6 marzo 2013, n. 8), costituisce un elemento centrale che apre interessanti piste di ricerca, concettuali ed applicative. Tra queste, pare prioritaria la riflessione sui modelli di valutazione/autovalutazione e la problematizzazione dell’idea e dei processi di inclusione che documenti e pratiche in uso possono veicolare, secondo una prospettiva proattiva di miglioramento “sostenibile” per ciascun singolo contesto scolastico.
2. Breve storia del Rapporto di Autovalutazione (RAV)
Nel 1999, Il Ministero della Pubblica Istruzione, con l’emanazione del DPR 8 marzo 1999, n. 275 – Regolamento recante norme in materia di Autonomia delle istituzioni scolastiche, ha identificato metodi e tempistiche per compiere rilevazioni periodiche finalizzate alla verifica del raggiungimento degli obiettivi di apprendimento e degli standard di qualità del servizio della “nuova scuola dell’autonomia”. Oltre un decennio dopo, con il DPR 28 marzo 2013 n. 80 e l’istituzione del regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione (SNV), vengono introdotte in modo sistematico e formalizzato cultura e pratiche valutative presso tutte le istituzioni scolastiche. Il SNV deve valutare l’efficienza e l’efficacia del sistema educativo di istruzione e formazione, al fine di migliorare la qualità dell’offerta formativa e degli apprendimenti. Per realizzare tale mandato, docenti e dirigenti (e, indirettamente, studenti e famiglie) sono chiamati a confrontarsi sistematicamente con un organismo, il SNV, dotato di tre articolazioni forti e strutturate: INVALSI (Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione e formazione), INDIRE (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca
III. Esiti di ricerca
educativa), Contingente Ispettivo. In particolare, la prima di queste (L’INVALSI) da alcuni anni sollecita significativamente le scuole, proponendo azioni di monitoraggio e di miglioramento degli esiti degli apprendimenti in un’ottica valutativa comparativa. In effetti, dal 2008, l’INVALSI, accogliendo le raccomandazioni europee per l’attuazione di un Sistema di Valutazione, è impegnato nell’identificazione di un modello di valutazione delle scuole in grado di rilevare gli assetti organizzativi e le pratiche didattiche che favoriscono un migliore apprendimento degli studenti. Il processo di valutazione è un processo composito che deve contemplare differenti prospettive (interne ed esterne); nel DPR 80 (art. 6), viene esplicitata la sequenza complessa del procedimento di valutazione finalizzato al miglioramento (art. 2), che risulta così articolata: autovalutazione delle istituzioni scolastiche; valutazione esterna; azioni di miglioramento; rendicontazione sociale delle istituzioni scolastiche. La dimensione autovalutativa, acquisita piena rilevanza e dignità all’interno del processo di valutazione complessivo previsto a livello ministeriale, deve essere realizzata in tre passaggi: autoanalisi, elaborazione del Rapporto di Autovalutazione (RAV) e definizione del Piano di Miglioramento. L’introduzione di uno strumento specifico per l’autovalutazione (il RAV), dapprima proposto in forma sperimentale e dall’anno scolastico 2014-15 portato a regime presso tutte le istituzioni scolastiche, sancisce in modo sistematico e formalizzato il passaggio verso i processi autoriflessivi – autovalutativi e l’assunzione di un modello completo, articolato e condiviso di valutazione. La legge 107 del 2015 sulla “Buona scuola” ribadisce il ruolo centrale della valutazione nel processo di cambiamento per il miglioramento dei sistemi scolastici attuali e lo correla al tema sostanziale e fondamentale dell’autonomia scolastica; come evidenzia Previtali (2014), non può esserci vera autonomia senza responsabilità e non c’è responsabilità senza valutazione. In tal senso, il disegno di cambiamento tracciato dal regolamento sull’autonomia (DPR 8 marzo 1999, n. 275) può considerarsi veramente realizzato nel 2015, a ben quindici anni dalla sua emanazione, proprio in virtù dell’introduzione sistematica del processo di valutazione delle istituzioni scolastiche.
3. Il modello di autovalutazione del RAV
Come ribadito nel comunicato del MIUR del 3 novembre 20152, il RAV è anche e soprattutto uno strumento di lavoro per le scuole. Esso contiene, infatti, gli obiettivi di miglioramento che ciascun istituto si è dato a seguito della propria autovalutazione. Conoscere il modello di autovalutazione alla base dello strumento, comprenderne la filosofia, i linguaggi e le finalità, risulta quindi essenziale per utilizzarlo in modo consapevole e adeguato, al fine di avviare autentici ed efficaci processi di miglioramento. Il modello concettuale a fondamento del RAV è quello della valutazione orientata al cambiamento, secondo il quale gli esiti del processo valutativo rappresentano lo stimolo per realizzare azioni di sviluppo e promuovere forme di 2
http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/ministero/cs031115bi
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apprendimento organizzativo. Il quadro di riferimento assunto è il risultato di studi e sperimentazioni che l’INVALSI ha attuato negli anni, anche in collaborazione con le scuole, alla luce dei contributi della letteratura e delle esperienze di diversi Paesi “Il suo aggiornamento costante ha la funzione di adattarsi all’evolversi normativo del contesto scolastico, di recepire le evidenze della letteratura di settore e della ricerca in ambito educativo e organizzativo, di raccogliere le sollecitazioni provenienti dalle scuole e dagli esperti” (Inquadramento teorico del RAV, 2014, p. 6). Entro tale framework, l’autovalutazione acquisisce una doppia funzione: fornisce una rappresentazione della scuola attraverso un’analisi del suo funzionamento e costituisce la base per individuare le priorità di sviluppo verso cui orientare il piano di miglioramento. L’impianto concettuale e metodologico del RAV è fondato sul confronto e sulla condivisione. La riflessione comune da parte dei soggetti direttamente coinvolti nella sua elaborazione diventa un passaggio essenziale del processo valutativo. All’interno di ciascuna istituzione scolastica viene costituito un gruppo di lavoro che si occupa specificatamente del RAV denominato “Nucleo Interno di Valutazione”(NIV), presieduto dal dirigente scolastico e composto dal referente della valutazione e da docenti scelti dal Collegio (soltanto una piccola percentuale di scuole, circa il 7%, ha inserito all’interno dei NIV anche personale esterno alla scuola, come esperti o genitori). Il quadro del SNV offre possibilità di comparazioni e cornici comuni di riferimento per conferire significatività ai dati e alle informazioni, attraverso la dialettica tra valutazione esterna e interna. I Nuclei di Valutazione Interna hanno a disposizione differenti fonti informative dalle quali trarre le informazioni per la compilazione del RAV: sono considerate fonti interne tutti i dati e le informazioni reperite della scuola, mentre le fonti esterne si riferiscono a dati comparabili resi disponibili dall’INVALSI e dal MIUR, come ad esempio i risultati delle prove INVALSI e i dati di “Scuola in Chiaro”. In tal senso, le informazioni contenute nei questionari INVALSI vanno a comporre una parte del RAV. I componenti dei NIV devono quindi analizzare i dati forniti dal SNV e leggerli criticamente, anche tenendo conto degli indici di comparazione, al fine di poter effettuare un confronto sia a livello territoriale che nazionale, alla luce delle conoscenze concrete sul contesto, delle scelte operate e delle pratiche d’uso3. La ratio è sostanzialmente quella di “far parlare i dati” fornendoli di chiavi di lettura valide e condivise e valorizzando la loro dimensione di “agentività” intrinseca. I numeri diventano informazioni per le azioni di miglioramento attraverso la contestualizzazione, la categorizzazione, l’elaborazione, la correzione e la sintesi, tipiche dei processi autovalutativi e compartecipativi (Previtali, 2014).
Il modello teorico del RAV si fonda sulla valorizzazione delle relazioni tra Esiti, Processi, Contesto e Risorse. Occorre evidenziare che la finalità del processo autovalutativo dichiarata dal SNV riguarda esplicitamente il miglioramento degli Esiti, definiti all’interno del RAV come risultati scolastici, risultati nelle prove standardizzate, competenze chiave e di cittadinanza, risultati a distanza. Le dimensioni e le aree in cui si articola il quadro di riferimento individuano 3
(http://www.invalsi.it/snv/docs/271114/Gli_indicatori_del_RAV.pdf).
III. Esiti di ricerca
gli ambiti di contenuto considerati rilevanti per la riflessione interna delle scuole (si veda la Tab. 1), mentre i criteri generali rappresentano i principi trasversali che orientano la riflessione nelle varie aree di contenuto. I criteri individuati per l’autovalutazione, esplicitati nei documenti INVALSI, sono: equità, partecipazione, qualità e differenziazione (Inquadramento Teorico del RAV, 2014, p. 6). Tali criteri-principi risultano di particolare interesse ai fini della nostra indagine, in quanto coerenti e funzionali ai principi fondativi del modello dell’inclusione. Nel quadro del RAV, l’equità rimanda all’esigenza di garantire a tutti gli studenti dei livelli essenziali di competenze e si riferisce principalmente alla dimensione degli Esiti; la partecipazione è rapportata alla capacità della scuola di assicurare le condizioni affinché ciascuno studente, indipendentemente dalle situazioni di partenza (disabilità, provenienza, difficoltà personali e sociali, indirizzo di scuola o plesso frequentato, classe o sezione, ecc.), possa usufruire dei servizi e degli interventi e partecipare alle attività della scuola; la qualità riguarda le caratteristiche delle attività e dei processi attivati che dovrebbero essere qualificati dalla presenza di elementi o aspetti che assicurano la migliore riuscita degli stessi; la differenziazione, infine, interessa la capacità della scuola di modulare in maniera flessibile i processi, gli interventi e le attività a partire dai bisogni e dalle caratteristiche specifiche dei singoli studenti e di gruppi di studenti.
4. Struttura del RAV e processo di autovalutazione
Il Rapporto di Autovalutazione deve essere redatto da tutte scuole di ogni ordine e grado. Si tratta di un documento reperibile on line attraverso l’inserimento di credenziali inviate a tutti i dirigenti scolastici delle scuole statali e a tutti i coordinatori delle scuole paritarie. L’oggetto di autovalutazione del RAV è l’ intero istituto scolastico; il dirigente e i docenti membri del nucleo di valutazione interno devono verificare la situazione dei singoli plessi associati all’istituto e compilare il documento. Nel modello attuale del RAV – articolato nelle tre dimensioni di Contesto, Esiti e Processi – la dimensione dei Processi è stata suddivisa in due sezioni, quella delle Pratiche educative e didattiche e quella delle Pratiche gestionali e organizzative. Come esplicitato nel documento INVALSI per l’inquadramento teorico, nell’ambito delle pratiche educative e didattiche sono stati inseriti aspetti ritenuti significativi e rilevanti sia dalla letteratura internazionale sia dalla tradizione del nostro sistema scolastico, tra i quali la continuità didattica (in relazione alla progressiva generalizzazione degli istituti comprensivi) e le pratiche con una lunga storia nella scuola italiana, come l’inclusione degli studenti con bisogni educativi speciali. Vengono inoltre identificati come nuclei tematici caratterizzanti la gestione e la valorizzazione delle risorse umane ed economiche, la pianificazione delle azioni e il monitoraggio, la condivisione dei valori all’interno della comunità ed il coinvolgimento degli stakeholder. Nella tabella seguente, viene sinteticamente illustrata la struttura complessiva del RAV:
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Tab. 1: Struttura del RAV
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La prima sezione, contesto e risorse, permette alle scuole di esaminare il loro contesto e di evidenziare i vincoli e le leve positive presenti nel territorio per agire efficacemente sugli esiti degli studenti. Gli esiti degli studenti rappresentano la seconda sezione. La terza sezione è relativa ai processi messi in atto dalla scuola. La quarta sezione invita a riflettere sul processo di autovalutazione in corso e sull’eventuale integrazione con pratiche autovalutative pregresse nella scuola. L’ultima sezione consente alle scuole di individuare le priorità su cui si intende agire al fine di migliorare gli esiti, in vista della predisposizione di un piano di miglioramento…Per ciascuna area vengono forniti degli indicatori, i quali “rappresentano un utile strumento informativo, se utilizzati all’interno di una riflessione e interpretazione più ampia da parte della scuola. Gli indicatori consentono alla scuola di confrontare la propria situazione con valori di riferimento esterni... (Guida alla compilazione del RAV, 2014, pp. 3-4).
L’area delle competenze chiave e di cittadinanza non presenta indicatori predefiniti; trattandosi di dati qualitativi complessi e contestuali, difficilmente misurabili e comparabili, le scuole possono provvedere autonomamente alla loro individuazione. Viene precisato che nella scelta di questi indicatori occorre considerare la loro validità in termini di capacità di rappresentare ciò che dovrebbero indicare, garantire la loro affidabilità e verificare la facilità di acquisizione, tenendo presente la possibilità di comparazione anche con dati esterni.
III. Esiti di ricerca
Nel modello del RAV, il percorso di autovalutazione risulta articolato nei seguenti quattro passaggi: lettura e analisi degli indicatori; riflessione attraverso le domande-guida; individuazione dei punti di forza e di debolezza; espressione del giudizio attraverso rubriche di valutazione. La sua compilazione è finalizzata alla fase proattiva, ovvero la fase conclusiva del percorso autovalutativo che consiste nell’ individuazione delle priorità strategiche e degli obiettivi per conseguirle. Le priorità sono riferite agli esiti degli studenti e gli obiettivi ai processi riferibili al piano formativo triennale (PTOF). La realizzazione sistematica del Piano di Miglioramento è iniziata nell’anno scolastico 2015-2016, secondo il cronoprogramma indicato nella Direttiva n. 11/2014 e nella C.M. n.47/2014. Per facilitare la conoscenza del RAV e il suo corretto utilizzo, è stato avviato un processo di accompagnamento, da parte del SNV e del MIUR, che prevede azioni di vario tipo (guida alla compilazione on line e incontri in presenza con esperti, consulenze e seminari, supporto tecnico…). Con nota 18 dicembre 2015, prot. n. 4877, il Miur rende noto che, attraverso il portale rinnovato di “Scuola in Chiaro”, è possibile consultare il Rapporto di Autovalutazione pubblicato dalle singole istituzioni, al fine di fornire una rappresentazione della qualità del proprio servizio scolastico.
5. Il RAV e L’inclusione
La sezione dedicata esplicitamente all’inclusione è l’area 3 A, Processi – “Pratiche educative e didattiche” – sotto-area 3.3 “Inclusione e differenziazione”. Essa viene così definita: “Strategie adottate dalla scuola per la promozione dei processi di inclusione e il rispetto delle diversità, adeguamento dei processi di insegnamento e di apprendimento ai bisogni formativi di ciascun allievo nel lavoro d’aula e nelle altre situazioni educative”. Tale area è suddivisa in due sotto-aree: Inclusione (modalità di inclusione degli studenti con disabilità, con bisogni educativi speciali e degli studenti stranieri da poco in Italia. Azioni di valorizzazione e gestione delle differenze) e Recupero e Potenziamento (modalità di adeguamento dei processi di insegnamento ai bisogni formativi di ciascun allievo). Il SNV fornisce come indicatori comuni le attività di inclusione reperibili dai questionari dell’INVALSI e lascia uno spazio per l’individuazione di ulteriori indicatori ad opera di ciascuna scuola. Come in tutte le altre aree, vengono riportate domande-guida dettagliate e articolate, per facilitare la riflessione e l’ individuazione dei punti di forza e di debolezza sui processi inclusivi in atto. In esse, sono presenti espliciti riferimenti ai soggetti (studenti con bisogni educativi speciali; studenti stranieri;…), alle azioni (prendersi cura; accoglienza; scelta di metodologie;…), agli strumenti (Piani Educativi Individualizzati; Piani Didattici Personalizzati) per l’inclusione. Il criterio di qualità esplicitato in questa area rilancia l’attenzione alle differenze degli allievi e la centralità dell’azione inclusiva della scuola, sia attraverso la promozione di culture e di pratiche di accoglienza sia attraverso la didattica (“La scuola cura l’inclusione degli studenti con bisogni educativi speciali, valorizza le differenze culturali, adegua l’insegnamento ai bisogni formativi di ciascun allievo attraverso percorsi di recupero e potenziamento”). anno IV | n. 1 | 2016
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Occorre rilevare che il RAV non consente un’ analisi dei processi a livello di singola classe e di singoli allievi. Per l’ inlusione sono stati esplicitati alcuni indicatori, ma non vi è alcuna distinzione tra l’ inclusione all’interno della classe e l’inclusione all’ interno della scuola. Il RAV, infatti, osserva e descrive esiti e processi riferibili all’istituto scolastico nel suo complesso e non ci informa, se non in modo indiretto e generale, su esiti e processi di singole classi e sulle azioni più o meno inclusive adottate dai singoli docenti o consigli di classe.
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Pur trattando in modo esplicito il tema dell’ inclusione soltanto nella sezione Processi, al punto 3.3, una lettura più attenta del RAV consente di rinvenire “tracce di inclusività” distribuite in altre sezioni. In linea di principio, nel RAV si tratta in modo diffuso (e un po’ generale) di una scuola che deve promuovere efficacemente il rispetto delle diversità e deve garantire i diritti costituzionali a tutti gli studenti. Più in particolare, come abbiamo già rilevato, i criteri per l’autovalutazione delle scuole esplicitati nel quadro dell’INVALSI (equità, partecipazione, qualità e differenziazione) descrivono principi, idee, strategie e azioni che possiamo riconoscere come inclusivi, in linea con le tre dimensioni fondative dell’Index (culture, politiche e pratiche), anche se nel RAV tali aspetti – e le loro implicazioni a scuola – andrebbero ulteriormente approfonditi, anche in relazione alla dimensione dell’intenzionalità e all’esplicitazione del quadro valoriale pedagogico assunto. Occorre ricordare che il modello teorico di autovalutazione del RAV è centrato sugli Esiti e non sui Processi (almeno non in modo diretto ed esplicito), nell’ambito dei quali viene trattato il tema dell’inclusione. In questa ottica, il miglioramento dei Processi non rappresenta una priorità a sé stante, ma lo diventa soltanto in rapporto agli Esiti degli apprendimenti. Risulta di particolare importanza tenere conto di tale centratura per comprendere la natura del processo di inclusione contemplato nel RAV e le relative implicazioni e ricadute culturali, pratiche e politiche per le scuole, anche in termini di rischi e derive. Per quanto concerne gli Esiti degli apprendimenti, nella sotto-area dei Risultati nelle prove standardizzate nazionali, il criterio di qualità afferma che la scuola assicura l’acquisizione dei livelli essenziali di competenze per tutti gli studenti, mentre il criterio di qualità relativo ai risultati a distanza riconosce che la scuola deve favorire il successo degli studenti nei successivi percorsi di studio e di lavoro, spostando il focus oltre la scuola e oltre i processi di apprendimento in senso stretto, nell’ottica del progetto di vita. In tal senso, le idee e le pratiche autovalutative promosse dal RAV possono fornire una spinta e un supporto concreto, anche se non pienamente dichiarato, alla progettazione e alla realizzazione dei processi di inclusione scolastica e sociale. Ci sono vari dati presenti nel RAV – anche di ordine generale – che possono essere usati per meglio comprendere e valutare i processi di apprendimento e di partecipazione degli studenti e le dinamiche inclusive (o esclusive) in atto. Ad esempio, i dati relativi al contesto, pur non riferendosi in modo esplicito al tema dell’inclusione, possono essere trattati come informazioni significative per conoscere criticità e risorse residuali e prossimali – della scuola e del territorio – e per vedere e comprendere alcune situazioni di “bisogni educativi speciali” (secondo la tripartizione OCSE assunta dal MIUR nel 2012-2013 con le disposizioni sui BES), soprattutto per quanto riguarda l’area dello svantaggio socioeconomico, III. Esiti di ricerca
culturale e linguistico. Le domande guida sul contesto socio-economico di provenienza degli studenti, sull’incidenza degli studenti con cittadinanza non italiana e sui gruppi di studenti che presentano “caratteristiche particolari” (come studenti nomadi o provenienti da zone particolarmente svantaggiate…) offrono una fotografia aggiornata, attendibile e comparabile che consente di contestualizzare, relativizzare e correggere eventuali misconoscenze e/o percezioni di docenti e famiglie poco aderenti alla realtà. Inoltre, la riflessione su questi dati, condotta in relazione agli esiti e ai processi in atto nella scuola, , costringe a confrontarsi con il ruolo degli elementi contestuali (ambientali e personali) nei processi di insegnamento-apprendimento, in un’ottica ecologica e biopsicosociale.
6. Le potenzialità del RAV
Come già rilevato, il RAV costituisce sostanzialmente uno strumento in grado di rendere visibili e utilizzabili delle evidenze, “facendo parlare i dati” attraverso chiavi di lettura valide e condivise e stressando la loro dimensione di “agentività” intrinseca. I docenti, nello svolgimento della loro professione, acquisiscono molti dati sugli allievi e sui processi in atto, ma non sempre li “vivificano” dotandoli di significati in grado di orientare pensieri e azioni in modo adeguato, mirato ed efficace, per promuovere sviluppo, apprendimento e partecipazione. Al contempo, le numerose e impegnative attività proposte alle/dalle scuole non sempre risultano collegate in modo coerente e funzionale agli elementi presenti (fatti, dati, risorse, limiti, potenzialità e priorità…) riferibili agli specifici studenti e contesti. Si corre così il rischio di perpetrare dinamiche disfunzionali, antieducative ed antievolutive (quali ad esempio le logiche dei “progettifici” o della delega agli esperti), impegnando studenti e docenti in attività scollegate o aggiuntive poco efficaci, che facilitano il rischio di affaticamento /demotivazione degli studenti e di stress e burnout dei docenti (Blandino, 2008; Damiani, 2013). Il Sistema Nazionale di Valutazione intende accompagnare le scuole verso una cultura della qualità e del miglioramento, attraverso la “cultura dei dati”, nell’ambito di un framework complesso e articolato – ma tutto sommato economico – che può promuovere processi di cambiamento partecipativo profondi, significativi ed efficaci. La dialettica tra interno ed esterno, tra dati e informazioni, tra soggetti e contesti offre importanti elementi di conoscenza e riflessione, in grado di problematizzare idee e pratiche e di orientare le azioni secondo logiche “innovative e inclusive” evidence based, ancora poco frequentate dalle scuole. Da questa prima analisi sull’introduzione del RAV possiamo quindi identificare alcuni elementi di valore pedagogico e di vantaggio per le scuole, sia di ordine generale, sia di ordine particolare, riferiti all’inclusione, che andrebbero potenziati nell’utilizzo concreto dello strumento da parte delle scuole. Per quanto riguarda il livello generale, il RAV può costituire un aiuto per vari aspetti, tra il locale e il globale, a livello micro e macro, che riportiamo sinteticamente di seguito. – Vantaggi di metodo: il RAV può consentire la generalizzazione, la sistematicità e la comparazione dei processi valutativi; esso, inoltre, può favorire la conoscenza del contesto specifico e il coinvolgimento di tutta la comunità scola-
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stica, per la realizzazione di un’“autonomia consapevole” da parte di ciascun istituto. – Vantaggi di contenuto: il RAV puó contribuire al miglioramento della qualità delle scuole, in linea con le indicazioni e gli standard sovranazionali, per l’attualizzazione e l’internazionalizzazione dei sistemi scolastici. – Vantaggi per il miglioramento della professionalità dei docenti con particolare riferimento alle loro competenze didattiche e di gestione della classe. L’utilizzo del RAV può favorire lo sviluppo di competenze professionali essenziali, non soltanto legate alla valutazione in senso stretto, ma riferibili a capacità trasversali, quali quelle di osservare, rilevare, documentare, leggere e utilizzare dati, operativizzare, progettare, comparare, ecc… In effetti, un ricorrente motivo di fatica dei docenti è riferibile alla scarsa attitudine a documentare in modo comparabile e trasferibile azioni e risultati del proprio lavoro – causa di dispersione, frammentazione e sovrapposizione delle esperienze – che costringe a ricominciare sempre da capo, senza riuscire a capitalizzare i numerosi saperi, le pratiche e i materiali prodotti ogni anno.
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Anche a livello specifico, spostando il fuoco sui processi inclusivi, il RAV pare offrire alcuni significativi elementi di vantaggio che possiamo provare ad identificare, tenendo conto che alcuni di essi sono già presenti in modo esplicito, altri paiono in nuce e dovrebbero essere meglio esplicitati, altri ancora potrebbero essere potenziati ed estesi, poiché in continuità con i quadri del RAV e con quelli di Index. Per quanto riguarda la promozione e il miglioramento dell’inclusione a scuola, ci pare innanzitutto importante evidenziare il contributo del RAV al riconoscimento della necessità di riflessione e di monitoraggio delle pratiche e dei processi e l’introduzione di una metodologia di autovalutazione attraverso l’utilizzo di domande aperte ed euristiche che mobilitano sguardi, attivano pensieri, problematizzano le pratiche e ne favoriscono la decostruzione. L’approccio per domande costituisce, infatti, il metodo principe proposto dall’Index, che esploreremo nei prossimi paragrafi. Inoltre, da questa prima (e certamente non esaustiva) analisi del RAV e dei processi connessi alla sua realizzazione ed elaborazione, abbiamo individuato alcuni elementi che possiamo definire “potenziale per l’inclusione”, ai quali abbiamo già fatto cenno nei precedenti paragrafi, ma che riportiamo sinteticamente di seguito:
– Il processo autovalutativo condiviso: l’accento sulla riflessività della comunità scolastica e sulla cultura partecipativa. L’autovalutazione nel quadro del RAV rappresenta un processo riflessivo volto all’automiglioramento (che rispetta e valorizza la dimensione dell’autonomia e dell’unicità di ciascuna scuola), fondato sulla comunicazione e condivisione delle informazioni. Tale percorso non va considerato in modo statico, bensì come uno stimolo alla riflessione continua, con il coinvolgimento di tutta la comunità scolastica, sulle modalità organizzative, gestionali e didattiche messe in atto. La promozione della cultura della comunicazione, condivisione e partecipazione (che in Index diventa com-partecipazione), in un’ottica di scuola come comunità di apprendimento, favorisce la costruzione di reti, sinergie e aperture, in linea con i trend degli organismi nazionali (Legge 107, MIUR) e internazionali (OECD; UNESCO). III. Esiti di ricerca
– L’orientamento del processo autovalutativo verso il miglioramento della qualità degli esiti e dei processi, non a fini di ranking, ma per il cambiamento. – La messa in relazione di esiti/risultati e di processi inclusivi per il superamento di una ideologica spaccatura fra scuola efficace in fatto di risultati di apprendimento e scuola inclusiva. – La possibilità di lettura dei risultati scolastici in ottica inclusiva. – Il passaggio dalla scuola inclusiva alla società inclusiva e lo sguardo allargato sulla persona globale dello studente: centralità degli esiti declinati anche come competenze chiave e di cittadinanza, non soltanto degli esiti come prove standardizzate legate a competenze “cognitive”. Le competenze chiave rendono conto della globalità della persona dell’allievo e sono intrinsecamente inclusive, in quanto sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personale, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale, che la scuola deve promuovere e garantire, ma che si realizzano anche dopo e oltre la scuola (Raccomandazioni Europa 2006). – L’emergenza di un’idea di inclusione che sembra superare la concezione fortemente ancorata alle categorie “speciali”, frutto anche dell’attuale legislazione italiana in ambito inclusivo. In effetti, nel RAV, le categorie di allievi e di bisogni educativi restano, ma sono poco definite, talvolta confuse (per scelta o per errore?) e oltrepassate: in alcuni punti, si fa strada un’idea “ampia” di inclusione. Nella sezione dedicata all’inclusione si parla infatti anche di didattica inclusiva, di intercultura e di eccellenze. – La promozione e valorizzazione di alcune fondamentali competenze pedagogiche dei docenti, particolarmente significative per l’inclusione. Tra queste, la capacità di leggere e di intervenire sui fenomeni e sui contesti, in modo intenzionale e sistematico, ponendo attenzione all’ osservazione anche dei punti di forza e alla valorizzazione delle potenzialità. Vengono favorite la complessità della funzione dei docenti e la loro capacità di essere intellettuali in azione (Goussot, 2015), entro un quadro che facilita la valorizzazione delle differenze di ciascun allievo, fondato sul principio di equità. – La concretezza e il richiamo all’operativizzazione e al controllo degli obiettivi di apprendimento, di personalizzazione e di individualizzazione. Il RAV è uno strumento euristico che ha in sé le potenzialità per “uscire dal RAV” in quanto documento della scuola e di oggettivarsi come strumento per l’ azione nella scuola: il RAV con il Piano di Miglioramento diventa riflessione sull’azione – progettazione – azione – riflessione sull’azione, entro una circolarità virtuosa di apprendimento dall’esperienza. – La raccolta sistematica di dati, la descrizione e la mappatura dei fenomeni di contesto favorisce una lettura complessa e globale dei fenomeni e dei problemi che può consentire l’individuazione di risorse prossimali e residuali, personali e materiali, dei “facilitatori” oltre che delle “barriere”.
Concludendo, ci pare che il rapporto tra autovalutazione e inclusione attraverso il RAV possa essere letto secondo una duplice prospettiva: una “prospettiva forte” e una “prospettiva debole”. L’idea forte identifica l’inclusione come una dimensione essenziale per l’autovalutazione, per l’osservazione critica delle pratiche e per la riflessione finalizzata al miglioramento della qualità della scuola; l’idea debole si riferisce alla
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visione dell’inclusione come mero processo al servizio degli esiti scolastici e non come valore in sé, facilitando il rischio di una visione “strumentale o efficientistica” dell’ educazione, della didattica e della valutazione, per lo sviluppo di competenze intese in senso utilitaristico e riduttivo (cfr. Margiotta, 2006; Baldacci, 2010). Noi sosteniamo una lettura del RAV secondo la “prospettiva forte” e, proprio in questa ottica, proponiamo nella seconda parte dell’articolo l’integrazione di alcuni aspetti dell’Index per l’Inclusione che possano alimentare e rinforzare il suo potenziale inclusivo.
7. I rischi del RAV
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Dopo aver analizzato i potenziali che il RAV con l’introduzione di un processo di autovalutazione e automiglioramento obbligatori e costanti attiva anche per lo sviluppo dell’inclusione a scuola, affrontiamo ora la discussione dei possibili rischi che alcune interpretazioni del RAV o alcuni modi di applicarlo potrebbe comportare. Il primo aspetto che solleva qualche preoccupazione è la mancanza di un orientamento valoriale esplicito. La finalità primaria che il RAV e il relativo rapporto di miglioramento perseguono è il miglioramento degli esiti. Al centro di tutto vi è quindi una valutazione dell’efficacia dell’offerta formativa della scuola misurata sulla base dei risultati di apprendimento degli alunni. Pur condividendo il valore dell’efficacia e riconoscendo che sia un aspetto importante anche per una valutazione degli esiti dell’inclusione scolastica, ci pare che questa possa assumere significati pedagogici molto diversi fra loro se collocata in riferimenti valoriali diversi (Alulli 2008; Demo in Brugger-Paggi et al. 2013). Se, per esempio, l’efficacia è collocata in un contesto teso alla comparazione concorrenziale dei risultati che implica un ranking delle scuole cui facilmente segue una fuga di studenti e insegnanti da quelle collocate in posizioni più basse, andiamo ad incentivare una spirale negativa di abbassamento della qualità di alcuni contesti più sfidanti. Se, invece, l’efficacia è collocata in una scuola che condivide valori di equità e giustizia, allora sarà chiaro che la lettura degli esiti andrà “relativizzata” rispetto al contesto della scuola e ai singoli soggetti che fanno parte della comunità e che dovrà sempre essere affiancata da dati che documentano anche processi per esempio di partecipazione. Il primo rischio che individuiamo è quindi la centratura sull’efficacia senza esplicitare quali siano i valori entro quali questa efficacia va interpretata e letta: questo lascia infatti spazio a derive comparative e concorrenziali e che poco contribuiscono allo sviluppo di un sistema scolastico inclusivo. La lettura “relativizzata” dei risultati delle prove standardizzate che considera il background delle scuole, proposta recentemente dall’INVALSI, certamente rappresenta già un buon correttivo in questo senso, anche se ancora non tiene conto di tutte le differenze individuali significative. Un secondo elemento di rischio si ritrova a nostro avviso nella definizione di “esiti” che il RAV propone. Gli elementi che vengono considerati sono: i risultati scolastici, i risultati delle prove standardizzate, le competenze chiave e di cittadinanza e infine i risultati a distanza. È apprezzabile il tentativo di non ridurre la valutazione degli esiti ad una sola valutazione di performance cognitive e/o disciplinari, come ci pare fondamentale il tentativo di non valutare gli effetti solo III. Esiti di ricerca
a breve, ma anche a lungo termine. Rispetto all’inclusione, però, la forte importanza attribuita ai risultati delle prove standardizzate risulta problematica. E questo non per sostenere una posizione ideologica che non condividiamo per cui valutazione standardizzata e inclusione sarebbero di per sé in contraddizione; ma invece perché l’INVALSI tradizionalmente esclude dalle sue analisi tutti gli studenti con una qualche forma di bisogno educativo speciale, pur restituendo ai singoli istituti scolastici i risultati di prove anche in cosiddetto formato speciale (prove in formato elettronico o audio). Ci pare che questo, per un istituto di valutazione di un sistema scolastico che si definisce come uno dei più inclusivi di Europa, rappresenti un forte limite, certamente da affrontare ed evolvere. Entrando ora nel modo in cui nel RAV viene affrontato il tema dell’inclusione, nella sezione 3.3 dedicata a “inclusione e differenziazione” convivono, a nostro avviso in modo non del tutto chiaro, due letture del termine inclusione. Da un lato si punta ad una generica valorizzazione della diversità e ad ancora generici bisogni formativi di ognuno che sembrerebbero suggerire una visione “ampia” di inclusione, in cui si pensa a politiche rivolte a tutti e nel rispetto delle caratteristiche individuali di ciascuno. Dall’altro lato, vi si trova anche una centratura su alcune categorie come Bisogni Educativi Speciali, disabilità, stranieri. Se quindi in alcuni passaggi il RAV sembra voler superare una visione dell’inclusione intesa come politica riservata ad alcune categorie di alunni, in altri la ribadisce. Resta quindi una certa confusione concettuale che non aiuta le scuole a definire con chiarezza quali siano gli aspetti da considerare. Un altro aspetto problematico per l’inclusione è la forte attenzione alle attività di recupero e potenziamento. Pur condividendo la necessità di differenziazione in una didattica inclusiva, i concetti di recupero e potenziamento sono di per sé problematici perché suggeriscono l’idea che l‘offerta didattica possa essere omogenea per la maggior parte degli alunni e richieda poi alcuni adattamenti di recupero o potenziamento per alcuni. Una didattica inclusiva intesa come attenta alle differenze (Demo 2014) richiede invece la predisposizione di contesti di apprendimento all’interno dei quali sia prevista la convivenza di percorsi di apprendimento diversi per tutti, pur all’interno di una stessa cornice organizzativa di spazi e tempi condivisi. Questo è possibile adottando una serie di metodologie come l’apprendimento cooperativo, la didattica per le intelligenze multiple oppure la didattica aperta. In una visione di questo tipo si supera a priori l’idea che vi sia un’omogeneità nell’apprendimento. Infine un’ultima questione appare problematica. Nel RAV l’inclusione viene considerata in modo separato dagli altri elementi della didattica. Questo è certamente il frutto di un recepimento della tradizionale distinzione anche in campo accademico della pedagogia e didattica speciale, al cui interno si è sviluppato il concetto di inclusione, e della didattica generale. Diviene però sempre più evidente che l’inclusività, per essere davvero tale, debba necessariamente andare a collocarsi come un aspetto trasversale, che caratterizza tutte le decisioni didattiche nella loro interezza e non come un elemento aggiuntivo, da affiancare ad altre scelte. Questo è esattamente il modello che propone, per esempio, l’Index per l’inclusione (Booth e Ainscow 2009; 2014), dove l’inclusione fa da lente per valutare e migliorare tutti gli aspetti della scuola. Ribadisce quindi che non si tratta di una serie di politiche aggiuntive che richiedono attenzioni particolari per alcuni gruppi di alunni, ma invece di un impegno generale della scuola per anno IV | n. 1 | 2016
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rispondere alle diversità di ognuno perché possa raggiungere i migliori risultati possibili in fatto di apprendimento e partecipazione.
8. L’Index per l’inclusione
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L’Index per l’Inclusione (Booth e Ainscow 2009; 2014) si presenta come un testo con una duplice funzione: offre una definizione articolata di che cosa sia l’inclusione a scuola e si propone come uno strumento per la sua realizzazione nella pratica, attraverso un processo di autovalutazione e progettazione condivisa del miglioramento. Si tratta di una proposta che circola nel panorama europeo da ormai quasi 15 anni. La sua prima versione è il risultato di tre anni di collaborazione di un gruppo di docenti, genitori, amministratori e ricercatori che a diverso titolo condividevano un impegno e una competenza nello sviluppo dell’inclusione a scuola. Anche istituti scolastici pilota hanno contribuito allo sviluppo dei primi materiali. La prima edizione è stata pubblicata nel 2000 e vedeva co-protagonisti gli autori Mel Ainscow, con la sua competenza nell’ambito dello sviluppo e miglioramento della scuola, e Tony Booth, con la sua idea di inclusione basata su un sistema educativo comunitario e capace di dare continuità fra i diversi ordini del sistema scolastico. Questa prima edizione è stata rivista nel 2002, soprattutto per divenire più accessibile nel linguaggio. Poi l’Index è stato tradotto in oltre 30 lingue e si è diffuso ben oltre i confini britannici. Nel 2011 Tony Booth ha fortemente voluto l’attuale terza edizione, che rispecchia i cambiamenti e gli sviluppi generati da 10 anni di confronti che l’autore ha avuto con colleghi di tutto il mondo che nei loro Paesi si sono attivati per l’utilizzo dell’Index. Per quel che riguarda l’Italia, la traduzione dell’edizione del 2002 è stata pubblicata nel 2008 da Erickson. Questa versione è consultabile gratuitamente online. L’edizione del 2011 è invece disponibile in lingua italiana dal 2014 nel catalogo di Carocci. La concettualizzazione di inclusione che l’Index propone è molto ampia. Supera l’idea di integrazione degli alunni con disabilità e anche quella di Bisogno Educativo Speciale. Al centro ci sono tutte le differenze individuali che tutte le persone che fanno parte della comunità scolastica portano con sè – tutti gli alunni, tutti gli insegnanti e tutte le famiglie. Non riguarda quindi un piccolo gruppo di alunni, ma le possibilità di tutti di trovare a scuola un luogo in cui crescere e svilupparsi fino a raggiungere il massimo del proprio potenziale e in cui poter sentirsi parte attiva di una comunità. Alla base di questa idea vi è un forte orientamento valoriale che proprio nella terza e ultima edizione dell’Index ha trovato un rafforzamento. I valori sono visti come “guide fondamentali e un impulso per lo sviluppo. Ci spronano in avanti, indicano una direzione e definiscono una destinazione” (p. 49). È solo attraverso una chiara esplicitazione dei valori che si può pensare di lavorare ad un miglioramento della scuola perché proprio questi indicano la direzione verso cui tendere. L’Index la esplicita: uguaglianza, diritti, partecipazione, comunità, sostenibilità, rispetto per la diversità, non violenza, fiducia, empatia, onestà, coraggio, gioia, amore, ottimismo e bellezza (p. 50). La culla teorica dell’Index è il modello sociale dell’inclusione (Oliver 1990; III. Esiti di ricerca
Barton 2006) che vede l’esperienza della disabilità come fondamentalmente generata da contesti che non sono in grado di accogliere la differenza e che quindi si pongono come una barriera per alcune persone con alcune caratteristiche individuali specifiche. Questo approccio genera un’idea di inclusione scolastica concepita come processo che mira ad individuare e superare le barriere del contesto e ad incentivare l’attivazione di facilitatori che sostengano l’apprendimento e la partecipazione di tutti. Gli autori dell’Index hanno formulato una serie di indicatori di inclusione scolastica che mirano a descrivere gli aspetti concreti della vista scolastica che possono essere considerati una messa in pratica dell’idea di inclusione delineata nel paragrafo precedente. Dal punto di vista metodologico, l’Index propone alle scuole la realizzazione di un percorso di ricerca-azione diviso nelle 4 fasi tradizionali: autovalutazione iniziale, progettazione degli obiettivi di cambiamento (priorità) e strategie per raggiungerli, realizzazione delle strategie, autovalutazione finale. Gli indicatori fanno da guida nel processo di autovalutazione e automiglioramento della scuola. Diventano gli item dei questionari autovalutativi a cui tutti i membri della comunità scolastica sono chiamati a rispondere e fanno da guida nella riflessione sulle priorità di sviluppo della scuola. Gli indicatori (in tutto circa 60) sono accompagnati da domande che orientano la riflessione su alcuni possibili risvolti nella pratica dell’indicatore e offrono alcuni spunti concreti per le possibili azioni di miglioramento da attivare. Il processo è coordinato dal cosiddetto Index Team che ha il compito di definire la cornice pratica di realizzazione del percorso di autovalutazione, facendo in modo che la partecipazione non sia solo uno degli obiettivi a cui tendere, ma che diventi caratteristica del percorso attivato dall’Index in sé, costruendo momenti in cui il collegio docenti possa sperimentare direttamente modalità di condivisione, negoziazione e decisionalità partecipata.
9. Il potenziale di un’integrazione fra RAV e INDEX per l’inclusione
Cogliendo e riconoscendo il potenziale di un’autovalutazione e un automiglioramento obbligatori e costanti per la qualità della scuola in generale, crediamo che un’integrazione di alcuni aspetti dell’Index nel RAV possa contribuire a dare una chiara direzione a questi processi. In alcuni casi si tratta di aspetti concettuali dell’Index che, se condivisi all’interno di una comunità scolastica, possono portare a collocare anche le azioni di autovalutazione del RAV in una cornice più fortemente inclusiva. In altri casi, l’apporto dell’Index può essere collocato più su un piano metodologico e procedurale, pensando ad esempio ad una integrazione di alcuni strumenti dell’Index (es. questionari per famiglie) a quelli già previsti per il RAV. In questo senso ci pare che si possa considerare interessante l’ipotesi di costruire una sinergia, sia concettuale che metodologica, fra RAV e Index. Uno degli aspetti che più appare rischioso nello strumento del RAV è l’assenza di un riferimento valoriale. L’Index con il suo forte fondamento valoriale può essere un ottimo supporto in questo senso. Una scuola che condivide i valori del-
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l’inclusione sarà anche una scuola che monitora le possibili derive concorrenziali e selettive del processo valutativo e saprà orientarlo invece in una direzione che miri ad un accrescimento degli esiti, ma non a costo di singoli alunni appartenenti a gruppi più svantaggiati nella nostra società. In modo implicito, per altro, il RAV stesso suggerisce di dare una particolare attenzione all’equità quando propone di pensare ai risultati delle prove standardizzate anche domandandosi se “le disparità a livello di risultati tra gli alunni meno dotati e quelli più dotati sono in aumento o in regressione nel corso della loro permanenza a scuola”. Index può certamente alimentare una sensibilità in questo senso. Un altro elemento interessante che introduce l´Index è la raccolta di dati esplicitamente soggettivi. Le domande dei questionari autovalutativi che l’Index fornisce per famiglie, alunni e insegnanti non raccolgono dati che fanno riferimento all’ “osservato”, ma invece al “percepito”. Si tratta di domande che raccolgono dati fattuali sulla realtà della scuola e per cui non esiste una risposta giusta o sbagliata (per esempio: quante ore di compresenza sono previste per la classe?), ma piuttosto domande che permettono di dare una fotografia di quello che ognuno dei membri della comunità scolastica vive e percepisce nella propria realtà. A differenza quindi di dati di prove standardizzate, su cui si basa buona parte della riflessione sugli esiti proposta dal RAV, l’Index suggerisce dei dati che esprimono il loro massimo valore nella valutazione interna, che richiederebbe di essere fortemente contestualizzato e relativizzato in una lettura comparativa di valutazione esterna. L’uso dei questionari dell’Index fra gli strumenti di autovalutazione accentua quindi l´importanza attribuita ad una raccolta dati che funge da base per una progettazione del miglioramento autogestita e condivisa internamente alla scuola. Per quel che riguarda il modo in cui il RAV definisce l’ inclusione, è già stata messa in evidenza una certa vaghezza concettuale, per cui si alternano passaggi in cui si parla di inclusione intesa in senso ampio ad altri in cui questa viene associata a concetti più ristretti come le disabilità, i talenti, i Bisogni Educativi Speciali o altro. Su questa questione, l´Index offre un interessante contributo. In primo luogo fa una chiara scelta per cui supera e critica, come diviene esplicito nel capitolo “Ostacoli, risorse e sostegno” del nuovo Index (Booth e AInscow 2014, pp. 74-81), l’attenzione ai BES e suggerisce di sostituirla con un’attenzione agli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione di tutti. Propone quindi una lettura che supera le categorizzazioni. In secondo luogo sostiene anche una lettura critica delle politiche specifiche di integrazione/inclusione legate alle varie categorie di alunni (etichettamento, insegnante di sostegno, PEI e PDP, …). Senza mettere in discussione la “buona fede” che ispira queste politiche, Index aiuta ad individuarne anche rischi che possono portare a micro-esclusioni (D’Alessio; Ianes e Demo 2015), anche come “effetto collaterale”. In sostanza, quindi, l’Index si offre come una lente che permette di riflettere criticamente anche su esperienze e pratiche tradizionalmente riconducibili all’inclusione, verificandone anche eventuali derive non inclusive. Un ulteriore aspetto di sfida interessante che Index pone alla scuola è il superamento dell’idea di didattica inclusiva costituita da una proposta per un ideale alunno medio (la maggior parte degli alunni della classe) e poi una serie di adattamenti pensati per gli alunni che per motivi diversi hanno Bisogni Educativi Speciali. Nella descrizione delle pratiche di apprendimento e insegnamento che III. Esiti di ricerca
l’Index descrive viene proposta un’altra idea, quella cioè di una didattica che possa assumere forme differenti, individualizzate, per ogni alunno grazie ad un approccio che fa leva su tre fondamentali caratteristiche: cooperazione, metacognizione e attivismo. Questi approcci prevedono che i bambini e i ragazzi divengano nel tempo capaci di fare scelte individuali e consapevoli per i propri percorsi di apprendimento. Imparano infatti a vedere i compagni come risorse che in unabuona interazione si attivano e possono dare vita a percorsi di apprendimento che da soli non sarebbe stato possibile attivare. Imparano a riflettere su di sé e sul proprio apprendimento, diventando via via sempre più capaci di gestire in autonomia i propri percorsi. Ecco che allora i contesti di apprendimento devono essere setting in cui sia possibile fare attività diverse all’interno dello stesso spazio e dello stesso luogo, affermando con decisione l’idea che i processi di apprendimento di un gruppo di alunni siano per loro natura eterogenei, e questo per tutti non solo per quelli con BES. Integrare l´Index con il RAV permetterebbe quindi di arricchire le diverse sezioni della didattica con aspetti legati alla differenziazione e all’inclusione, senza relegarla in uno spazio dedicato e chiuso. Dal punto di vista metodologico, il RAV vuole essere per le scuole “uno stimolo alla riflessione continua, con il coinvolgimento di tutta la comunità scolastica” (MIUR 2014, p.2). Allo stesso tempo però la responsabilità del processo è esplicitamente assegnata al dirigente scolastico che potrà costituire una unità di autovalutazione (MIUR 2014, p.2). A più riprese i documenti che descrivono il lavoro con il RAV ribadiscono la fondamentale importanza di un coinvolgimento di tutta la comunità, il rischio però che questo non avvenga nel momento in cui la responsabilità è in capo ad una sola persona che può costruire un gruppo di lavoro dedicato è quantomeno reale. In questo senso Index propone una metodologia di autovalutazione e automiglioramento fondata sulla partecipazione come tratto costitutivo del processo e non solo come meta da raggiungere. Inoltre la metodologia dell`Index prevede la presenza di un gruppo di coordinamento (Index Team), ma definisce i suoi compiti in modo che non sia ammessa una delega delle scelte in fatto di cambiamento al gruppo, ma che questo abbia la funzione di creare occasioni di decisionalità condivisa e democratica. Potrebbe quindi essere interessante adottare alcuni elementi della metodologia dell’Index per realizzare l’auspicato coinvolgimento di molti alla riflessione e poi alla partecipazione alla creazione del Piano di Miglioramento.
10. Conclusioni e prospettive
Sintetizzando le riflessioni sviluppate in questo articolo, riteniamo di poter evidenziare almeno tre aspetti fondamentali che sostengono una possibile sinergia possibile fra il RAV e l’Index per l’Inclusione. Il primo aspetto è il riferimento valoriale che l’Index per l’Inclusione propone con forza e chiarezza. Questo permette di condividere nella comunità scolastica un chiaro orientamento che protegge da eventuali derive concorrenziali che un’autovalutazione basata sugli esiti può generare. Un secondo aspetto interessante è dato dal fatto che l’Index per l’Inclusione proponga una metodologia di autovalutazione e automiglioramento fortemente partecipata e che porta un collegio docenti a sperimentarsi come comunità con delle risorse interne e compeanno IV | n. 1 | 2016
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tente nel generare cambiamento. Infine, l’integrazione dell’Index per l’inclusione nel processo di autovalutazione e automiglioramento proposto dall’INVALSI potrebbe sostenere anche uno sviluppo del significato che in alcune scuole viene assegnato all’inclusione. Infatti se l’inclusione trovasse una sua collocazione nella riflessione sulla qualità generale della scuola, questa diventerebbe sempre più un elemento trasversale e sostanziale per tutti, superando la visione che la riduce a politica per alcuni. Questo avrebbe conseguenze sulla contrapposizione fra azioni di didattica generale e disciplinare e, invece, quelle della didattica speciale degli adattamenti e sui rischiosi fenomeni di delega che sono spessi connessi con questa distinzione. Alla luce di queste interessanti sinergie, l’argomento merita certamente di essere esplorato ulteriormente. Una interessante pista indagine è rappresentata dai RAV che gran parte delle scuole del territorio nazionale ha pubblicato su Scuola in chiaro in novembre 2015. Dalla lettura e analisi di questi si potrebbe indagare ora non solo il potenziale “teorico” del documento, ma invece il modo in cui è stato recepito nelle scuole, valutando quanti dei rischi per l’inclusione si siano avverati e quanto le scuole abbiano saputo indirizzare anche in senso inclusivo le loro analisi. Inoltre, sarebbe interessante esplorare possibili integrazioni nella pratica. Si tratterebbe cioè di capire in che modo alcuni elementi dell’Index potrebbero trovare un posto nel processo di autovalutazione e automiglioramento obbligatori e continui proposto dall’INVALSI. Alcune idee sono già emerse nel corso di questa prima riflessione: proporre al collegio docenti alcune attività di condivisione di valori inclusivi come suggeriti dall’Index, utilizzare alcuni elementi della metodologia descritta nell’Index che proteggono da una eventuale delega ad un gruppo di lavoro specifico proponendo invece incontri in cui la valutazione e la progettazione vengano condivisi oppure ancora integrare alcuni/e indicatori/domande dell’Index fra gli/le indicatori/domande proposte dal RAV. Ma si intuisce che la tematica è complessa e merita un approfondimento dedicato.
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III. Esiti di ricerca
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Il Mutismo selettivo e la didattica flipped in ottica sistemica
Selective mutism is a not well-known and seemingly rare disorder which strikes during childhood, but that, without a didactic intervention, can result in a chronic degenerative process. The educational action occurs as part of an anamnestic and psychoeducational evaluative analysis, a systemic plan for a didactic-pedagogical intervention aimed at the co-construction of inclusive social settings. The flipped inclusion, model of the didactic-transformative inclusiveness, enabling specific systemic paths to follow, drives a procedure of semantic and symbolic recognition, of logical and computational inferences, which transform the data into ontology and the intersubjectivity into rel-a(c)tion, in order to re-construct individual and contextual sense and meanings. The proposed socio-educational model, based on the ethical triad made of self-esteem, solicitude and communities/institutions, proves itself useful for the social multi-dimensional and multi-relational advancement of the person, especially when communicative specialties are there to be considered, understood and supported in a vicarious modality.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: Mutism, flipped, vicariance, system, inclusion
III. Esiti di ricerca
Felice Corona ha curato la parte “Mutismo tra elettività e selettività in un eziologico processo di riconoscimento inclusivo” – Professore Associato, Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione/DISUFF. Tonia De Giuseppe ha curato la parte “Mutismo selettivo e flipped inclusion, tra prospettive ecologico-sistemiche e modellizzanti capovolgimenti inclusivi.– PhD Student presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione/DISPSC.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Felice Corona / Università di Salerno / fcorona@unisa.it Tonia De Giuseppe / Università di Salerno / tdegiuseppe@unisa.it
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1. Mutismo tra elettività e selettività in un eziologico processo di riconoscimento inclusivo
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Il termine mutismo, coniato da Kussmaul nel 1877, descrive la decisionale condizione di chi, selettivamente sceglie di parlare o rinchiudersi in un volitivo mutosilenzio. Lo psicofisiologo tedesco, convinto della scelta volontaria, attribuì al disturbo la definizione di Aphasia voluntaria (Kussmaul, 1877). Tale denominazione, in primis superata dal termine mutismo “elettivo” (Tramer, 1934), conferito da Tramer, fu successivamente declinato in mutismo selettivo (Hasselman, 1983) da Hasselman, nel 1983, allo scopo di evidenziare la volontarietà di un esprimersi interconnesso a circostanze selezionate. Il DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) e il DSM-IV-TR determinano una ridefinizione del disturbo nell’ottica di superamento dell’originaria accezione di rifiuto con il riconoscimento di una vera e propria incapacità da disturbo comportamentale: “costante incapacità di parlare in situazioni sociali peculiari, nonostante il parlare sia possibile in altri ambiti (DSM-IV TR). L’ICD-10, che definisce il Mutismo selettivo quale “marcata selettività nel parlare, emozionalmente determinata, per cui il bambino mostra la sua competenza linguistica in alcune situazioni, mentre non parla in altre (World Health Organization, 1992), lo inserisce nella categoria dei disturbi del funzionamento sociale, con esordio nell’infanzia e nell’adolescenza, insieme al Disturbo reattivo dell’attaccamento dell’infanzia e al Disturbo disinibito dell’attaccamento dell’infanzia. Il pattern di comunicazione nel Mutismo selettivo, è variabile da contesto a contesto (Wilkens, 1985, pp. 198-203), così come sottolineato dal DSM III-R e dall’ICD-10. Essi evidenziano l’intrinseca correlazione del disturbo, tra componente intenzionale e selettiva. La quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5) (American Psychiatric Association, 2012), presenta il mutismo selettivo quale disturbo d’ansia dalla marcata selettività nel parlare, connessa all’emotività. Si tratta di strategie di difesa, generate da un disagio relazionale, connesso al contatto con contesti sociali, altri da quelli familiari. Già nel 1985, Wilkins propose una distinzione tra mutismo elettivo “persistente” e mutismo elettivo “transitorio”, inquadrandoli nell’ambito dei disturbi emotivi di personalità nevrotiche, in presenza di una condizione familiare disturbata, particolarmente nel rapporto madre-bambino (Welkins, 1985). Infatti, sono state individuate caratteristiche ricorrenti, con la “taciturnità” (Steinhausen, Adamek, 1997), quale tratto comune di personalità, così come emerge da uno studio svizzero condotto su 38 famiglie di bambini con Mutismo Selettivo. Inoltre, interessanti dati emersi dallo studio pilota di Black e Uhde (Black, Uhde, 1995, pp. 847-856), evidenziano una prevalenza del disturbo di 3-8 persone su 10.000 nella popolazione generale, con maggiore frequenza nel sesso femminile ed esordio precoce tra i 2-4-7 anni, spesso in coincidenza con l’inizio della scuola materna. Così come è emerso il ruolo fondamentale della psicopatologia genitoriale nell’eziologia del disturbo, con tendenza all’isolamento da ansi/rifiuto, come tratto caratteristico delle famiglie di bambini con Mutismo Selettivo (Remschmidt, et al., 2001, pp. 248-296), in presenza di sintomi di tipo depressivo, disturbi di tipo nevrotico e di personalità del 60% delle madri. Tuttavia, ad oggi è ancora difficile stabilire una stima precisa da cui si rilevi
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l’incidenza del disturbo, a causa di eterogenei modelli eziologico-diagnostici e ad interconnessioni multifattoriali neuro-biologiche e genetico-ambientali (Cohan, Chavira, Stein, 2006, pp. 1085-1097). Nell’osservazione del comportamento mutacico va considerata anche la possibilità di eventuali cause organiche, come complicazioni che coinvolgono specifiche parti del cervello, quali il cervelletto, al fine di una diagnosi differenziale (Gordon, 2001). Recenti studi sembrano dimostrare la base biologica del mutismo selettivo, che ha le sue radici nell’ansia, ma è necessaria ancora cautela nel considerare certa la presenza di fattori neurobiologici. Di fronte ad una eterogenea eziologia del disturbo, si rende necessario un approccio diagnostico multimodale e flessibile di tipo sistemico, per giungere ad una raccolta di informazioni sul funzionamento-adattamento, insegnanti sulle competenze e abilità sociali, in relazione ai vari contesti di vita, per coglierne differenze (www.istitutobeck.com/valutazione-trattamento-eta-evolutiva.html). Le differenze di contestualizzazione e delle tipologie di disturbo, sono state rese esplicite dall’analisi differenziata effettuata in studi del 2010 (Carbone, et al., 2010, pp. 1057-1067) su 44 bambini con mutismo selettivo, 65 bambini con problemi di ansia mista e 49 bambini di controllo non clinici. Da ciò emerge la necessità per i professionisti dell’educazione di accertare la presenza di selettività del comportamento, ossia che almeno in un contesto il bambino parli, perché questo è l’elemento che discrimina il mutismo selettivo da altre patologie. Circa il 90 % dei bambini con mutismo selettivo risponde ai criteri diagnostici del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) della fobia sociale che è una paura persistente delle situazioni e prestazioni sociali. Secondo il DSM-IV, i criteri diagnostici per individuare un bambino selettivamente muto sono i seguenti: Il bambino non parla in determinati luoghi, come la scuola o altre situazioni sociali; Il bambino parla normalmente nelle situazioni in cui si trova a suo agio, come nella propria casa; L’incapacità del bambino di parlare interferisce con la sua capacità di “funzionare” nel contesto scolastico e/o nelle situazioni sociali; Il mutismo dura almeno da un mese; Non sono presenti disturbi della comunicazione e altri disturbi mentali. Recenti studi mostrano che le persone con mutismo selettivo presentano elevati livelli di ansia sociale rispetto ai bambini con fobia sociale (Yeganeh, Beidel, Turner, 2006, pp. 117-123). Nel mutismo selettivo si evidenzia il timore d’accettabilità sociale e la consequenziale processualità d’emotivo ipercontrollo dello scambio verbale. Tali comportamenti autotutelativi non sono da considerarsi manipolatori, piuttosto l’espressione difensiva della difficoltà di fronteggiare le richieste dell’ambiente estraneo. Oltre ai problemi di linguaggio, si riscontrano deficit nelle abilità sociali verbali e nell’affermazione sociale. Per questo motivo, vi è una forte tendenza nella letteratura a considerare il mutismo selettivo come una forma particolare di fobia sociale. La scarsa letteratura medica e la poca conoscenza sull’argomento possono dar luogo a falsi miti e credenze, al punto da alimentare la confusione e proporre interventi didattici inadeguati. Tra questi vi sono errate convinzioni sul mutismo selettivo, quali: grave forma di timidezza risolvibile con la crescita; uno degli aspetti proprio dei disturbi dello spettro autistico; volontario silenzio, espressione di aggressività oppositiva/sfida ad input. anno IV | n. 1 | 2016
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Il rischio di confondere l’eccessiva timidezza con il mutismo selettivo, è connessa al distinguo tra il tratto non patologico, perché non paralizzante della personalità, propria della caratteristica della timidezza, e l’ansietà. Di per sé l’ansia non è patologica ma, lo diventa nei casi in cui le reazioni sono spropositate rispetto all’evento, oppure la reazione d’ansia è presente nella gran parte del giorno o della notte. L’ansia è un particolare stato fisico e mentale, che sopravviene nel momento in cui si è sollecitati da avvertiti input di pericolo o di incertezza, esterni o interni. Per input esterni si intendono le situazioni percepite come reale pericolo, da rischio di incolumità, generate da un contesto ostile. Per input interni si intende una situazione pericolosa, immaginaria o reale, un pensiero negativo, un dialogo interno negativo. Il disturbo d’ansia, diviene patologico quando è caratterizzato da sentimenti pervasivi di preoccupazione, che sfociano in angoscia, sotto forma di sintomi somatici, difficili da controllare attraverso il corpo. Connesso ad una scarsa autostima, consapevolezza di sé ed al timore del giudizio altrui, il mutismo selettivo non controllato, generatore di inibizione comportamentale (http://www.necessitaeducativespeciali.it/), rischia di degenerare in processi a catena di disagio emotivo, motivazionale, sociale/prosociale, con conseguenze sul piano delle competenze cognitive e metacognitive. Atteggiamenti sociali complici di comportamenti disadattavi perduranti, che contribuiscono all’isolamento sociale, sono rappresentati da punizioni, atteggiamenti minatori, emarginazione/abbandono, legati all’assenza di interlocuzione, al rifiuto di parlare, ai silenzi. Il tratto caratteristico della personalità di persone con selettivo mutismo, con volontari silenzi in relazione alla percezione della minaccia contestuale, resta la selettività comunicativa, soprattutto verbale. Infatti, l’indotta incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche, non corrisponde ad assenza di comunicazione, perfettamente esternata in ambienti familiari, in cui non avverte disagio. Nei contesti sociali stranieri non sempre è presente l’isolamento totale, ma una parziale comunicazione limitata a cenni interlocutori, gesticolazioni o alla scrittura. Infatti, il rifiuto di parlare innesca l’utilizzo consequenziale di compensatorie strategie prossemiche e non-verbali, quali la mimica, la gestualità, i movimenti corporei, il segno grafico o la parola scritta, che divengono indispensabili per esprimere bisogni e ricevere riscontri. La prima fase e fondamentale, da cui far derivare gli interventi pedagogico didattici, riguarda l’individuazione ed analisi dei comportamenti problema. Per individuare il disturbo, ci si può avvalere di strumenti di rilevazione psicoclinici basati sulla rilevazione dei:
1) Fattori biologico-temperamentali (Shipon Blum, 2010), indicatori della prima infanzia (da 0-3 anni): quali: Difficoltà di addormentamento; Disturbi del sonno; Difficoltà nell’alimentazione; Irrequietezza; Ansia da separazione; Episodi di enuresi/encopresi. 2) Fattori cognitivo-affettivi (Strepparava, Iacchia, 2012) quali: Vulnerabilità: il bambino nelle situazioni sociali esterne, vive un’attivazione costante di disagio, sentendosi minacciato; Inadeguatezza: il bambino avverte di essere incompetente; Paura del giudizio altrui; Vergogna: si ha il timore di perdere la propria immagine sociale; Metavergogna: il bambino ha paura di mostrare la propria vergogna. III. Esiti di ricerca
3) Fattori socio-culturali e familiari (http://www.necessitaeducativespeciali.it/) quali: Scarsa socializzazione della famiglia; Stile educativo ansioso ed introverso; Dipendenza genitoriale del bambino.
Un valido strumento psicoclinico, che consente di valutare il livello d’ansia ! del bambino nella comunicazione, relativamente al setting di interazione, è la Scala di Comunicazione ideata da Elisa Shipon Blum. Consta di tre livelli corrispondenti rispettivamente ad un’assenza di comunicazione dove il bambino non reagisce, non prende iniziative ed è privo di espressione, una comunicazione non verbale in cui risponde indicando o gesticolando e, infine, una comunicazione verbale dove si rileva una reazione con conseguente produzione di suoni tra cui gemiti, sussurri da parte del bambino.
La Blum, delinea, inoltre, aspetti caratteristici delle persone selettivamente mute, come il bisogno di sviluppare le proprie competenze sociali e la presenza di tratti posturali ed inespressività, che tende a sfociare in specifiche sintomatologie. La spina dorsale diritta, la testa e spalle lievemente curvate in avanti, uno sguardo evasivo e evitante verso il basso o fisso nel vuoto, volto poco incline al sorriso, braccia irrigidite lungo il corpo, rappresentano l’esternazione di un forte imbarazzo e disagio sociale. La frustrante percezione di avvertita inadeguatezza relazionale, favorisce l’innalzamento del muro difensivo, che rischia di far assumere le caratteristiche di sintomatologie psicosomatiche, come agitazione, nausea, cefalea, vomito, dolori addominali, alterata respirazione e battito cardiaco, con sentimenti di paura (Shipon Blum, 2010). Tra i vari contesti sociali, sicuramente problematico risulta l’ambiente-scuola per il livello di ansia/fobia sociale che genera. È proprio qui, nel nuovo microcosmo sociale che il disturbo si esplicita con evidenza. Da ciò si evince l’urgenza di immediata consapevolezza da parte dei docenti, nei contesti scolastici, in cui il disturbo si esterna sin dai primi anni di inserimento. L’organizzazione dell’ambiente e la relazione sociale costituiscono risorse strategiche d’investimento didattico. La strutturazione di ambienti accoglienti ed inclusivi, rappresenta il luogo-simbolo di socio/relazioni contestualizzate, in cui ciascuno scelga di esprimersi come vuole, motivato, stimolato e rispettato nelle individuali specialità.
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2. Mutismo selettivo e flipped inclusion, tra prospettive ecologico-sistemiche e modellizzanti capovolgimenti inclusivi
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La multiprospetticità del mutismo selettivo è connessa alle relazioni disfunzionali ambientali e alle dinamiche anche familiari (Anderson, Reiss, Hogarty, 1986), su cui didatticamente bisogna intervenire con approcci integrati e multimodali (Moldan, 2005, pp. 291-306). Il termine flipped inclusion, locuzione idiomatica complessa, costituisce un modello didattico di trasformazione trasposizionale di metodologie socio-psicopedagogiche, dall’impianto didattico di promozione delle competenze sociali e prosociali. Attraverso l’inclusione di aspetti inerenti le implicazioni pedagogiche socio-costruttiviste, da Dewey/Montessori a Siemens, anche per il contrasto al mutismo selettivo, la FI (= Flipped Inclusion) investe sulla Persona, nella strutturazione di percorsi inclusivi, comunicativo-relazionali, e sulla costruzione co-partecipata di conoscenze. Metodologia di base della flipped inclusion applicata al mutismo selettivo è il problem solving, nelle sue fasi di problem finding- Esplorare; problem setting/analysis – Ideare; problem solving – creative thinking – Progettare; decision taking – Sperimentare, finalizzata alla gestione dei conflitti e alla risoluzione delle situazioni problematiche con competenze prosociali. A garanzia di una progressiva socializzazione, le azioni educative in flipped inclusion con impianti metodologici comportamentisti, cognitivisti (Fung, Manassis, Kenny, Fiskenbaum, 2002, pp. 112-113), psicodinamici (Meyers, 1984), socio costruttivisti e confessionisti, accolte da genitori e insegnanti (Tatem, Del Campo, 1995, pp. 177-194), gradualmente vanno ad agire sulla predisposizione di setting formativi. Reali e virtuali, d’aula e oltre l’aula, i nuovi setting formativi multimediali consentono azioni autoregolative per tempi, modalità d’intervento e spazi d’azione; agevolano la riflessività nei rispetti delle individuali diversità e sono qualitativamente improntati all’inclusivo ben-essere, preventivamente risolutivo di sintomatologie emarginanti. L’utilizzo sistematico delle tecnologie crossmediali e delle classi virtuali su piattaforme free appositamente create, si facilita un processo di superamento delle difficoltà da eccesso di emotività incontrollata, alla base del socio-fobico mutismo selettivo. In tal modo, si garantisce la relazionalità e la compartecipazione, nel rispetto dei personali tempi e degli spazi individuali, per la progressiva acquisizione di fiduciosa reciprocità. L’impianto metodologico didattico monitorante e strutturato anche con la predisposizione di classi virtuali d’interazione e confronto online, è incentrato alla gestione dei rinforzi, alla desensibilizzazione sistematica, all’attivazione di comportamenti modellizzanti, attraverso lo stimulus fading, che attraverso stadi di overlapping facilita graduali processi d’incremento emotivo motivazionale incentrati su comunicazione verbale e non verbale, virtuale e aumentata. L’accettazione consapevole di ogni possibile feedback degli studenti, va interpretato alla luce di una valutazione anamnestica in ingresso, che va, anche in presenza di mutismo selettivo, ad orientare l’agire didattico. A tal proposito, dunque, emerge l’urgenza di una valutazione che tenga conto di parametri e strumenti psico-clinici di rilevazione trasposti sul piano pedagogico-didattico. Nella fase esplorativa iniziale, basata sulla valutazione analitica, ci si avvale
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dell’osservazione sistematica, a due stadi: a) il primo stadio, incentrato nella valutazione del livello di comunicazione; b) il secondo stadio, utile per valutare il livello contestualizzato d’ansia nella comunicazione. a) La Scala di Comunicazione (Shipon Blum, 2010) di Elisa Shipon Blum, consente di analizzare gli stadi di comunicazione, attraverso un analisi su tre livelli: 1) assenza totale di comunicazione e reazione, iniziativa ed espressione; 2) presenza di una comunicazione non verbale con un’interlocuzione gestuale e mimica; 3) comunicazione reattiva verbale, espressa da suoni, gemiti, sussurri. b) il secondo stadio di analisi tiene conto dei fattori biologico, cognitivo-affettivo (Strepparava, Iacchia, 2012), approfonditi in psicopatologia cognitiva dello sviluppo e relativizzati ai contesti di vita. Da essi è possibile rilevare e valutare: la vulnerabilità, l’attivazione di disagio contestualizzata, il senso di inadeguatezza e percepita incompetenza, la paura del giudizio altrui e la vergogna basata sul timore di perdere la propria immagine sociale e culturale. Pertanto, la valutazione iniziale include un’osservazione globale del bambino, che si avvale dei fattori di natura biologica, cognitivo-affettiva e socio-culturale. Connettendo ai fattori così rilevati, la fase dell’ideazione vengono ideati i possibili assessment progettuali pedagogico/didattici, che tengono conto delle quattro aree d’intervento, inerenti la sfera personale ed interpersonale, quali: l’area senso percettivo-psicomotoria, l’area della comunicazione, l’area cognitiva e socio affettiva. La fase successiva, della progettazione è organizzata per ambienti d’apprendimento, e per area d’intervento, strutturata in sezioni di valutazione, programmazione, verifica, e autovalutazione. L’ambiente d’apprendimento va progettato tenendo conto di individuali elementi di partenza: lo spazio e il tempo. Essi, alla luce delle individuate difficoltà personali, anche di comunicazione, nel caso del mutismo selettivo, vanno pianificati, strutturati e sequenzializzati consapevolmente, al fine di: a) una massima condivisione e consapevole accettazione dell’iter programmato, che garantisca la co-costruzione consapevole e partecipata ai percorsi; b) uno sviluppo delle individuali conoscenze e abilità, attraverso la promozione delle competenze sociali e prosociali. La progettazione generale per area d’intervento è strutturata in sezioni di valutazione, programmazione, verifica e autovalutazione. Prevede l’acquisizione di competenze pro-sociali inclusive e trasversali alle quattro aree, puntando ad una progressiva e strutturata diminuzione dell’ansia, attraverso l’investimento nello sviluppo/potenziamento dell’autostima, fiducia, direttamente proporzionali alle capacità di comunicazione. La successiva fase strutturale di Sperimentazione, prevede gli aspetti programmatici declinati alla luce della progettazione generale, dalla modalità topdown, in bottom up. Le attività in FI, procedono gradualmente per fasi, per superare la difficoltà da contatto sociale, connesso al contesto, e giungere allo step di sperimentazione sociale in aula, basata sull’interscambio in presenza. Si avvale dell’associazione di play e game in fasi di role playing e role-game, che consente di associare training e metodologie cooperative, al fine di favorire la gestione dell’ansia e contribuire ad un accrescimento dell’autostima. Attraverso l’acquisizione della consapevolezza del sé, simulando azioni di capovolgimento
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di ruoli e azioni, in modalità cooperativa, vengono promosse interventi didattici che favoriscono il superamento del senso di insicurezza, attraverso situazioni stimolo controllate. Nella fase di ideazione dell’intervento didattico ci si può avvalere dei fattori contestualizzabili, biologico, cognitivo e affettivo (Strepparava, Iacchia, 2012), nei quali si sperimenta il pervasivo senso di disagio, vulnerabilità, inadeguatezza, paura del giudizio altrui, percepiti come lesiva dell’immagine del sé. Legati a tali fattori vengono ipotizzate quattro aree d’intervento programmatico, inerenti la sfera personale: l’area senso percettiva-psicomotoria, l’area della comunicazione, l’area cognitiva e socio-affettiva. Per ogni area d’intervento viene progettata un’area di valutazione, di programmazione, di verifica, nonché uno spazio riservato all’autovalutazione dell’alunno (es. Tab. 1). La valutazione iniziale include un assessment incentrato sull’osservazione globale del bambino basandosi sui fattori di natura biologica, cognitivo-affettiva e socio-culturale.
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Tab. 1: area della valutazione – in ingresso, in itinere e finale.
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Gli interventi d’impianto pedagogico cognitivo-comportamentale, sono finalizzati all’acquisizione delle competenze sociali e prosociali: la capacità di risoluzione delle problematiche da fronteggiare, grazie ad abilità di ordine elevato, viene facilitata da rinforzi positivi, che favoriscono la gestione dei comportamenti, dall’aggressiva o isolante asocialità. Attraverso il controllo delle conseguenze dei comportamenti, è opportuno procedere per stadi sistemici di gratificazione, secondo i principi skinneriani del condizionamento operante, tramite rinforzo posiIII. Esiti di ricerca
tivo. Intenti ad incrementare la probabilità di comparsa dei comportamenti-scopo, essi hanno inizio da: situazioni-stimolo/prompting, per garantire performance positiva. Si tratta di partire da una situazione positiva per il bambino e incoraggiarlo in altre circostanze simili (D’Ambrosio, Coletti, 2002, pp. 97-103). Lo shaping successivo rinforza le approssimazione al comportamento desiderato, attraverso un evolvere graduale fatto di performance ludiche, strutturate, finalizzate all’interazione verbale. La conquista di spazi comunicativi verbali determina il passaggio alla fase di generalizzazione, quale estensione, ampliamento a nuovi stimoli comunicativi, e progressivamente puntare alla ridurre della frequenza di un comportamento attraverso la sottrazione di rinforzi ad esso associato. La fase finale, infine, consiste nell’auto rinforzo e prevede la valutazione positiva dei bambini stessi ogni qual volta riescono a parlare con una persona nuova. Il processo educativo, d’iniziale impianto comportamentista, deve coinvolgere nelle scelte operative anche le figure di contesto incluso i genitori, per una condivisione di linguaggi conversazionali, dai codici misti, alternati e alternativi, che garantiscano scambio emotivo con canali diversificati. Si tratta di esplorare codici, iconici, musicali, fino al codice verbale, per giungere a simbolizzazioni di significati da condividere. Il processo di ideazione delle possibili relazioni tra rumori e suoi effetti concatenati, in uno scambio di sonorità a cui assegnare significati, è un interessante percorso in fase che consente il graduale passaggio dall’ utilizzo dei suoni all’utilizzo delle sillabe e delle parole. La fase successiva della progettazione d’azioni implica l’input del docente ad intepretare tramite racconti vissuti di rabbia paura che sollecitino l’emersione di emozionalità nascoste, avvalendosi di strutturazioni per step attraverso la tecnica del Jigsaw. In tali attività viene utilizzato un approccio psicoanalitico incentrato sull’ ascolto attico e proattivo dei singoli messaggi. L’attenzionare prossemica e verbalità, consente di cogliere sintomi; l’attribuire al simbolico e intrinsecamente relazionale silenzio comunicativo significati condivisibili premette di riorganizzare azioni e relazioni attraverso una centralità valoriale assegnata alla singolare emotività, espressa in comportamenti ed atteggiamenti. L’impiego del cooperative learning rappresenta l’azione incentivo di potenziamento delle creatività individuali nel rispetto delle differenze. Mantenendo la struttura del condizionamento operante per le singole attività, esse vanno sviluppate in una logica bronfenbrenneriana di prospettiva ecologico sistemica. Tutto questo può realizzarsi attraverso il coinvolgimento comunicativo non verbale, la creazione di una rete sociale che favorisca lo stabilirsi di relazioni con i coetanei, ma anche grazie ad una pianificazione delle attività in piccoli gruppi (Ibidem), che favorisce le interazioni senza subire la pressione di un gruppo più numeroso (Shipon Blum, 2010). Le azioni inizialmente individuali, rassicurative, generate da input, vanno implementate per gradi di socializzazione in logiche di micro, meso e macro sistemagruppo, per rendere progressivamente predisposti a socializzazioni crescenti in difficoltà e interrelazioni comunicative. Per aumentare il livello di difficoltà è possibile avvalersi dello stimulus fading ovvero una tecnica di apprendimento senza errori, basata sulla messa in rilievo dello stimolo discriminativo, quale guida facilitata alla risposta di scelta, aiuti progressivamente eliminati man mano che la fiducia nelle proprie capacità comunicative diviene più sicura.
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Pertanto, sono previste fasi individuali di esplorazione, ideazione, progettazione sperimentazione, nell’ottica dell’analisi del Frame Goffmaniana. Viene presentata una attività stimolo, che nella logica della teoria del condizionamento operante costituisce il prompting iniziale. Lo studente seleziona, in base ad una scelta personale, la sua Key, da cui prende avvio la fase esplorazione individuale (active learning). Il successivo graduale passaggio prevede l’individuazione del frame, (parola-concetto personale), frutto di un’individuale elaborazione semantica: questa è la fase dell’ideazione (flipped learning). Sempre proseguendo per logica computazionale, la parola concetto viene ulteriormente indagata, per giungere alla definizione del campo d’indagine conoscitiva. Si prevede infatti, l’inserimento del problema o della sfida educativa al centro della personale ricerca/indagine (inquiry learning). In tal modo la parola + il concetto + la sfida/problema d’indagine, costituiscono il framing, che corrisponde alla fase della progettazione. Infine, la parola+concetto+sfida/problema + l’ipotesi di risoluzione del problema, rappresentano il framework, fase che coincide con la sperimentazione vera è propria su cui ciascuno incentrerà la sua azione (experential learning). Ogni fase di lavoro, individuale, in micro gruppo in meso gruppo e in macro gruppo, corrisponde a step di difficoltà progressive, che puntano alla gestione della complessità in modalità semplessa. Tra una fase e l’altra delle attività si colloca un’azione di feedback retroattivo, che è finalizzato ad una rivisitazione della ricognizione metacognitiva, espressa in framework. C’è da dire che, il framework rappresenta l’interconnessione tra fasi, il link procedurale, da cui prende avvio il processo ristrutturato della fase successiva, espressione semplessizzata di più framework, rimodulati in una nuova key. Si tratta di un processo sistemico ciclico- tassonomico basato sulla rimodulazione trasformativa di visione e mission. La fase di progettazione generale prevede l’acquisizione di competenze sociali inclusive e, in maniera trasversale alle quattro aree, punta ad una diminuzione dell’ansia del bambino, allo sviluppo di autostima, fiducia e capacità di comunicazione. Nella tabella 2, viene proposto, relativamente all’area della comunicazione, un esempio di Micro Progettazione Contestualizzata Inclusiva (MIPCI), in strutturazione sinottico- progettuale, con declinazione in modalità bottom up degli obiettivi specifici, dei tempi di svolgimento delle attività, delle metodologie da utilizzare, gli strumenti e le attività didattiche programmate.
Dal punto di vista didattico, la scheda presenta per ogni area d’intervento tre items analizzati in corrispondenza dei mesi di inizio, metà e fine anno scolastico. Riporta gli obiettivi generali della relativa area, indicando anche una descrizione delle attività che si propongono.
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Tabella 2- Microprogettazione constestualizzata inclusiva
Tra le attività inerenti l’area della comunicazione, che facilitano l’interscambio e comunicativo, risulta utile l’impiego dell’in-book1 e della Comunicazione Aumentativa e Alternativa2. Si tratta di un libro costruito su misura, con il testo completamente tradotto in simboli affinché il bambino possa appassionarsi alla voce narrante, al ritmo, al calore, alla ricchezza delle emozioni. Tutto questo va ideato attraverso la metodologia del Cooperative Learning e lezioni interattive (Tab. 3). 1 2
Strumento d’intervento sviluppato dal Centro Sovrazionale di Comunicazione Aumentativa e Alternativa di Milano. La Comunicazione Aumentativa e Alternativa (CAA) rappresenta un’area della pratica clinica che cerca di compensare la disabilità temporanea o permanente di persone con bisogni comunicativi complessi.
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Tab. 3: Esempi di attività didattiche
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Nel percorso inclusivo occorre non tralasciare l’autovalutazione del bambino, e un automonitoraggio costante con il tramite di schede d’osservazione relazionale, progettate alla luce di strutture punteggio da test sociometrico di Moore (Moreno, 1980). Lo strumento autovalutativo è necessario applicarlo nel tramite di attività in svolgimento, allo scopo di promuovere comportamenti pro attivi e di critica costruttiva, a cui il singolo studente è indotto attraverso l’invito a produrre autovalutazioni e valutazioni consapevoli circa i prodotti e i processi esperiti. Il valore didattico di risorse osservative e di rilevazione valutativa, agevolano la dimensione relazione, attraverso azioni co-costruttive di facilitazione comunicativa e favoriscono opportunità di abbattimento delle barriere, pur in una tutela degli spazi personali (Tab. 4).
Tabella 4 – Esempio di scheda autovalutativa
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La verifica del raggiungimento degli obiettivi, inerenti l’area progettuale viene svolta dal docente. La suddivisione delle azioni valutative per trimestri, prevede la creazione di una scheda ex ante, in itinere ed ex post, per livelli, tratti dalla Scala di Comunicazione: ad un livello 0 corrisponde l’assenza di comunicazione, al livello 1 attiene la sfera della comunicazione non verbale, ad un livello 2 si fa riferimento ad una presenza di comunicazione verbale (Tab. 5).
115 Tab. 5: Esempio di scheda di valutazione
Il Mutismo selettivo necessita di un’adeguata analisi dei fattori che caratterizzano la complessità relazionale, da gestire attraverso la promozione di un’azione didattica incentrata sulla conoscenza della Persona: nel riconoscimento dei sé e nella consapevole, condivisa attribuzione di valore alle diversità, risiede la forza per fronteggiare la complessità. L’agire didattico, per un divenire di socio-inclusività globale, deve, pertanto, sostanziarsi nell’attivazione di percorsi vicarianti, atti a promuovere la conoscenza delle differenze, in un processo sistemico di valorizzazione e potenziamento delle peculiari, individualità speciali.
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III. Esiti di ricerca
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FELICE CORONA, TONIA DE GIUSEPPE
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Facilitatori e barriere nella pratica sportiva di atleti con disabilità fisiche: uno studio esplorativo
Key-words: well-being, sport participation, paralimpic sport, ICF, life design
III. Esiti di ricerca
Simone Visentin è ricercatore presso il Dipartimento FISPPA dell’Ateneo di Padova. È docente di Pedagogia Speciale in vari corsi di laurea triennale e magistrale, nonché in corsi di specializzazione Post Lauream. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente il tema del progetto di vita, il binomio sport-disabilità, la prospettiva inclusiva nei servizi socio-educativo-sanitari, ambiti che sviluppa attraverso studi e ricerche sul campo.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
This paper assumes the ICF system as theoretical framework and It focuses on facilitators and barriers on sport for persons with physical disabilities. The scientific literature has shown a lack of this type of works in national contest and the presence of international survey based on heterogeneous theoretical frameworks. After a short introduction about well-being construct, the work presents part of scientific literature that describes sport as personal well-being factor. Subsequently, the empirical phase: the outcomes highlight that the motivational aspects (firstly, desire of fun) are preponderant in determining the start and the continuation of agonistic practice. Instead, the environmental factors play a barriers role (firstly, the poor usability of existing sport facilities). Sport supports the growth of personal autonomy and It helps the development of a rewarding life design. At level of care network, It is necessary to improve the usability of sport facilities, the efficacy of economic incentives and the educational and cultural sensitivity toward the Paralympic sport. Therefore we have to expand the survey and to socialize the outcomes with different stakeholders, in order to re-project the sport opportunities for people with physical disabilities.
abstract
Simone Visentin / Università degli Studi di Padova / simone.visentin@unipd.it
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1. Tra ben-essere e disabilità: una lettura sistemica di partenza
Il costrutto del ben-essere ha trovato notevole diffusione in differenti ambiti delle scienze sociali e ha accompagnato lo sviluppo di una lettura positiva dei processi di adattamento delle persone nei vari contesti di vita1. Pensare al ben-essere significa impegnarsi a comprendere perché, come, quando, dove, grazie a chi una persona sta bene. Quando una persona è felice ed è soddisfatta della sua vita, significa che sta bene nei contesti di vita e con le persone con cui si relaziona. Infatti Ghedin (2009), richiamandosi ad autori come Diener (2000), fa notare che ci sono differenti fattori che contribuiscono al benessere: – da un lato quelli individuali: ad esempio il ben-essere soggettivo, l’ottimismo, la felicità, la perseveranza, l’autodeterminazione; – dall’altro quelli contestuali, come il supporto sociale, il senso di appartenenza, l’armonia con il proprio ambiente di vita.
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L’OMS stessa, quando parla di salute, la definisce una condizione di ben-essere fisico, psicologico e sociale. Nello specifico della nostra riflessione, ciò che ci interessa enfatizzare non è tanto il fatto che la qualità di vita dipende da differenti fattori – esogeni ed endogeni – quanto l’importanza di considerare la valutazione soggettiva (l’auto-percezione) che una persona fa della sua esperienza esistenziale. Questa lettura, che mette al centro dell’analisi la prospettiva soggettiva, mette in scacco quei processi valutativi lineari che si soffermano esclusivamente su elementi oggettivi per misurare la qualità di vita di una persona. Questa idea di ben-essere, presentata nei suoi aspetti generali, è in sintonia con il modello bio-psico-sociale e il sistema dell’ICF ad esso collegato, secondo il quale la condizione di disabilità di una persona è l’esito dell’intreccio tra le caratteristiche personali e quelle del contesto. Questo accostamento ci porta ad affermare che non si è né felici né disabili a prescindere dall’ambiente. E che una persona in situazione di disabilità non è, a priori, condannata ad una vita infelice proprio perché il costrutto del well-being pone sempre al centro l’interrogativo cruciale: qual è la percezione che la persona ha della sua situazione di vita? Dunque, se il contesto è implicato nei processi di promozione del ben-essere, il compito di una comunità – a partire dalla rete informale di prossimità per arrivare ai soggetti istituzionali – è di nutrire buone reti di cura che promuovono lo stare bene delle persone, in sintonia e non a scapito del bene comune. Lo stare bene soggettivo è in funzione anche della possibilità, per una persona (disabile), di fare esperienza di inclusione: è nel reciproco riconoscimento e sostegno che ciascuno cresce e matura in modo soddisfacente un’identità adulta e autentica (Mancuso, 2009). 1
Per un approfondimento sul costrutto del well-being si rimanda a: Ghedin E., 2004, Quando si sta bene. Educazione alla salute e adolescenza, Milano: FrancoAngeli; Ghedin E., 2009, Benessere disabili. Un approccio positivo all’inclusione. Napoli: Liguori.
III. Esiti di ricerca
Si conferma il fatto che ben-essere e contesti inclusivi sono elementi sistemici che interagiscono tra loro e che vediamo puntualmente richiamati anche tra i principi della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, dove si ricordano l’impegno a favore di una piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società delle persone disabili, rispettandone l’autonomia e l’indipendenza individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, salvaguardando la parità di opportunità e l’accessibilità. Per questa via, si palesa la necessità di un impegno collettivo finalizzato a costruire opportunità – sotto forma di risorse materiali e immateriali – di ben-essere per le persone con disabilità, dando loro modo di poter scegliere, autodeterminandosi, le dimensioni di ben-essere da sviluppare e attraverso quali modalità2. Nel nesso inscindibile tra lo sviluppo individuale e l’empowerment sociale cogliamo, a nostro avviso, una valenza educativa: tutti abbiamo la possibilità di ben-essere e ben-diventare e un impegno in chiave educativa si traduce nel “permettere l’attivarsi di questo potenziale attraverso la creazione di un ambiente “facilitante” in cui gli attori coinvolti possano essere in grado di co-evolvere insieme nella direzione di uno sviluppo positivo” (Ghedin, 2009, p. 11). Non a caso ciò che ha contraddistinto la parte empirica del nostro lavoro è stato il cercare di comprendere quali fossero i facilitatori e le barriere ambientali che co-partecipavano alla scelta dei partecipanti di praticare sport.
2. Lo sport tra potenzialità educative ed opportunità di ben-essere
Così, quanto abbiamo scritto finora va declinato sul versante sportivo. Come vedremo in modo più dettagliato nelle pagine che seguiranno, la letteratura sta facendo emergere quanto la pratica sportiva sia un fattore di ben-essere personale; nello stesso tempo, l’accessibilità ai contesti sportivi non è scontata per le persone disabili. Passo dopo passo, gli interrogativi di fondo che ci accompagnano si precisano: quali opportunità di fare sport hanno le persone in situazione di disabilità? Quali sono i fattori contestuali che facilitano o impediscono la pratica agonistica? Quali dimensioni personali sono influenzate dallo sport? Sullo sfondo, oltre agli interrogativi, non può non esserci un’idea di sport: essa rappresenta la sua visualizzazione ideale. Averla in mente permette di rinforzare la convinzione che una ridotta accessibilità allo sport si traduce in una povertà di opportunità per nutrire le esperienze di socializzazione e per crescere 2
Tra le righe si può cogliere un riferimento, non esplicito, all’approccio delle Capability (Sen, 1999). Non è obiettivo del contributo soffermarsi sull’approccio di Sen. Tuttavia, risulta interessante tenere a mente il significato di ricchezza proposto dall’economista indiano: una persona è tanto più ricca quanto più è libera (quante più opportunità ha) di fare ed essere ciò che ha valore per sé. Per un approfondimento si rinvia a: Biggeri M., Bellanca N. (2010). Dalla relazione di cura alla relazione di prossimità. L’approccio delle capability alle persone con disabilità. Napoli: Liguori; Visentin S. (2016). Progetti di vita fiorenti. Storie di atleti paralimpici dialogano con il Capability Approach. Napoli: Liguori.
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sul piano identitario. Autori come Isidori (2009), ad esempio, mettono in luce come lo sport sia progetto con varie sfaccettature:
– ludico-ricreativo, in quanto progetto d’inclusione, gratificazione e libero accesso di tutti i cittadini, senza discriminazione, a pratiche che migliorano le loro condizioni di vita; – personale e di vita: azione umana che è innanzitutto personale e sociale (quindi interpersonale) per il miglioramento della propria vita e di quella degli altri; – istituzionale: disegno politico globalizzato che richiede impegno economico e sforzi sociali sostenuti congiuntamente da tutti gli enti sociali ed educativi per essere attuato.
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L’atteggiamento presente in questo scritto considera lo sport come evento sociale che le persone realizzano interagendo tra di loro e con l’ambiente (Aranda, 2012): intendiamo cioè focalizzarci sulla componente relazionale della pratica sportiva, che tra l’altro si manifesta anche oltre lo spazio-tempo agonistico, in quello che in gergo rugbistico viene chiamato “terzo tempo”. Guardare ad un ideale sportivo non significa trascurare i rischi che sono sempre presenti: senza un’assunzione di responsabilità alla base – traducibile in cura relazionale, rispetto di sé e degli altri, riconoscimento dei propri limiti – lo sport può conoscere le derive che l’attualità stessa ci rimanda: esasperazione della vittoria a tutti i costi, così che valori come impegno, rispetto, fiducia, solidarietà, lealtà, umiltà lasciano il posto a disvalori come dominio, imbroglio, prevaricazione, furbizia (Farné, 2008). Il paradosso è che proprio in questo degrado lo sport si connota, purtroppo, come esperienza capace di rispecchiare “le ambivalenze delle attività umane. Esso oscilla tra gioco e lavoro, piacere e tensione, loisir e agonismo, rendimento e rendita, competizione, dilettantismo, partecipazione e spettacolarizzazione, fino alla possibile sua mercantilizzazione e al desiderio di mantenere alto il rendimento, ricorrendo a sostanze doping, con gli evidenti danni sulla salute personale e sull’immagine dello sport come valore” (Moliterni, 2013, p. 236). Lo sport, quindi, proprio per il suo essere esperienza sociale, si rivela anche potenziale dispositivo iniziatico e di crescita, permettendo il riconoscimento e l’espressione delle emozioni: la paura e la gioia, i sentimenti di amore e odio, il mettersi alla prova e l’esser giudicati, l’altruismo e il protagonismo, fanno dello sport una palestra di vita (Mantegazza, 1999; Ghirlanda 2003). Non da ultimo, vanno considerate le suggestioni che possono arrivare da documenti come il Libro bianco dello sport (Commissione Europea 2007) e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (2006), che ribadiscono come lo sport sia essenziale tanto per la realizzazione personale delle persone disabili, quanto utile a diffondere una nuova e più convincente cultura inclusiva nella società. Lo sport quindi incide sia sulle persone con disabilità che lo praticano (azione sull’empowerment della persona), sia sulle rappresentazioni sociali della comunità, contribuendo potenzialmente a ridurre lo stigma e le discriminazioni associate alla disabilità (azione sul contesto).
III. Esiti di ricerca
3. Lo sport e gli atleti con disabilità fisica: uno sguardo d’insieme
Se guardiamo alla realtà delle persone con disabilità fisica, vari studi presenti in letteratura confermano che l’attività agonistica ha delle ricadute positive tanto sulla sfera fisica, quanto in quella psicologica e relazionale degli atleti. In particolare, la pratica motoria sviluppa le strutture e le funzioni corporee della persona (Wetterhanh et al., 2002), che sono un irrinunciabile requisito per poter successivamente migliorare l’autonomia personale anche al di fuori del contesto sportivo, a livello di cura di sé, gestione degli impegni domestici, mobilità negli spazi pubblici, lavorativi e così via (Martin Ginis et al., 2010). Il rapporto con il corpo, tuttavia, non è uniforme tra gli atleti: gli atleti con un’amputazione rivelano più spesso una migliore confidenza con la propria corporeità, mentre gli atleti con una paraplegia o una menomazione più grave (anche di natura congenita) incontrano maggiori fatiche fisiche, annesse alla specifica paura del dolore, variabile sovente decisiva nella scelta di praticare o meno sport (Martin Ginis et alii, 2010; Bragaru et al., 2011). La qualità delle relazioni è un tema ricorrente nelle motivazioni che giustificano sia l’inizio della pratica sportiva, sia la scelta di dare continuità a tale esperienza. L’effetto più immediato è che fare sport permette di allargare i contatti sociali e amicali. Inoltre, sentirsi parte di un team aumenta l’autostima e incoraggia la pratica agonistica (Crawford et al., 2014). L’incontro con altre persone disabili risulta probabilmente il fattore più potente nelle biografie degli atleti, perché permette di confrontarsi, di ricevere e dare consigli, di vivere un senso di normalità in quanto membri di un gruppo di persone con caratteristiche simili alle proprie (Martin Ginis et al., 2012). La correlazione tra ben-essere psicologico e pratica sportiva è forse quella maggiormente ambigua, soprattutto se consideriamo come terza variabile interveniente il livello agonistico: quanto più sale tale livello, tanto più si aprono scenari contraddittori; se da un lato può crescere l’identità agonistica e l’orgoglio, ad esempio, nel rappresentare il proprio Paese nelle competizioni paralimpiche, dall’altro possono aumentare anche i valori di stress e di ansia (Jefferies et al., 2012). La forza dello sport consiste nell’essere fattore che agevola il consolidamento dell’autoefficacia e dell’empowerment personali, che non rimangono caratteristiche circoscritte al contesto agonistico ma si allargano anche agli altri spazi di vita: l’atleta cresce nella convinzione di potercela fare, si dà sempre di più il permesso di provare nuove esperienze. Grazie allo sport, quindi, si sviluppa l’adattamento creativo, uno dei sintomi più rilevanti del ben-essere personale: crescono la capacità di ridefinire le priorità di vita e l’attitudine nel cercare nuove strategie per raggiungere gli obiettivi personali (Visentin, 2016). Tali esiti sono supportati anche dagli studi sulla resilienza (Machida et al., 2013), che ribadiscono anche la necessità di avere sempre uno sguardo sistemico e complesso quando si prova a comprendere se e come lo sport sia positivo per il ben-essere della persona. L’esperienza sportiva è occasione per mettere in gioco e/o scoprire talenti personali, ma per fare ciò deve attivarsi una serie di fattori ambientali, tra i quali il sostegno
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della famiglia e degli amici è quello maggiormente decisivo. A questo, faticano ad aggiungersi i contributi che potremmo definire istituzionali, legati all’organizzazione dei servizi e alle politiche sociali: non c’è sistematicità nei contatti tra la realtà medico-riabilitativa e il contesto sportivo, per quanto sia evidente che la continuità del percorso di cura è una caratteristica assolutamente qualificante lo stesso. Continuità che va pensata e attuata anche per gli atleti che abbandonano lo sport e vedono calare il loro ben-essere personale se, nel frattempo, non sono stati accompagnati nel costruirsi delle alternative. A tutto ciò possiamo aggiungere gli ausilii di cui possono disporre gli atleti, spesso costosi e/o poco idonei alla pratica fisica. Oppure le strategie che dovrebbero informare sulle strutture presenti e sulle opportunità per la pratica agonistica, tutt’altro che efficaci.
4. Un approfondimento: gli studi su facilitatori e barriere alla pratica agonistica
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Favorire la partecipazione delle persone con disabilità fisica allo sport è dunque la sfida da abbracciare, che rientra in quella più ampia questione di giustizia che si traduce nel garantire uguali dignità e opportunità di ben-essere alle persone, disabili inclusi (Nussabaum, 2001). L’urgenza del tema è confermata anche da recenti statistiche dell’ISTAT (2013) sulla sedentarietà delle persone disabili: se tra le persone normo tipiche gli sportivi sono il 47,7 % e i non sportivi il 52,3 %, tra le persone disabili coloro che praticano sport scendono nettamente all’11,3 % e in non praticanti salgono all’88,7%. Sono numeri che disegnano una realtà ancora distante da quanto sancito nell’articolo 30 (Partecipazione alla vita culturale e ricreativa, agli svaghi ed allo sport) della Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili: al punto 5 si parla, tra i vari aspetti, di:
– incoraggiare e promuovere la partecipazione più estesa possibile delle persone con disabilità alle attività sportive ordinarie a tutti i livelli; – garantire che le persone con disabilità abbiano la possibilità di organizzare, sviluppare e partecipare ad attività sportive e ricreative specifiche per le persone con disabilità e, a tal fine, incoraggiare la messa a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, di adeguati mezzi di istruzione, formazione e risorse.
Di fronte a questa situazione negativa, viene spontaneo interrogarsi su quali siano i fattori che incidono, in termini di facilitatori e di barriere, sulla partecipazione allo sport. A questo proposito, le indagini presenti in letteratura possono essere suddivise in due gruppi:
– da una parte le ricerche empiriche nelle quali si parla in termini generali di facilitazioni e di difficoltà alla pratica sportiva, che assumono ciascuna framework teorici differenti; – dall’altra gli studi che si rifanno alla prospettiva del modello bio-psico-sociale
III. Esiti di ricerca
e del sistema ICF (2001), nel quale troviamo espressamente definiti i concetti di fattori contestuali, declinati in facilitatori e barriere3.
Della prima sezione si possono segnalare ad esempio i lavori di Rimmer e collaboratori (2004), Kehn e Kroll (2009), Wu e Williams (2011), Martin Ginis e collaboratori (2012), nonché di Bragaru e collaboratori (2013). Secondo tali indagini, i seguenti fattori ambientali rendono difficile la pratica sportiva:
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scarsità di trasporti; mancanza di risorse economiche per pagare l’attività sportiva; ignoranza dei benefici dell’attività sportiva; inadeguatezza delle infrastrutture; assenza di informazioni relative alle realtà sportive per disabili nella propria zona di residenza; difficoltà a coniugare i tempi familiari e lavorativi con l’impegno sportivo; atteggiamento poco inclusivo delle persone normodotate; mancanza di supporto dagli amici e dalla famiglia; scarsa autostima; pigrizia e paura di infortunarsi. Tra gli aspetti facilitanti, che funzionano come motivazionali, ci sono: desiderio di divertirsi; miglioramento della propria salute; creazione di nuovi contatti sociali.
Questo filone di studi evidenzia che, se praticato con continuità, lo sport concorre alla riduzione della depressione, dello stress e della paura del dolore. Al contempo, contribuisce all’aumento della qualità della vita, innalzando il divertimento, l’autonomia e l’indipendenza personali. Inoltre vede il miglioramento di alcuni parametri a livello cardiovascolare, di controllo motorio e sul piano della forza fisica. In aggiunta, le indagini comparative hanno rilevato che la maggior differenza tra chi pratica sport e chi no, si ha nelle strategie di problem solving: gli atleti sembrano maggiormente proattivi nel cercare soluzioni e appaiono 3
Queste le definizioni riportate nell’ICF: Facilitatori: «Nell’ambito dei fattori ambientali di una persona, sono dei fattori che, mediante la loro assenza o presenza, migliorano il funzionamento e riducono la disabilità. Essi includono aspetti come un ambiente fisico accessibile, la disponibilità di una rilevante tecnologia d’assistenza o di ausili e gli atteggiamenti positivi delle persone verso la disabilità, e includono anche servizi, sistemi e politiche che sono rivolti a incrementare il coinvolgimento di tutte le persone con una condizione di salute in tutte le aree di vita. L’assenza di un fattore può anche essere facilitante, come ad esempio l’assenza di stigmatizzazione o di atteggiamenti negativi. I facilitatori possono evitare che una menomazione o una limitazione dell’attività divengano una restrizione della partecipazione, dato che migliorano la performance di un’azione, nonostante il problema di capacità della persona.» Barriere: «Sono dei fattori nell’ambiente di una persona che, mediante la loro assenza o presenza, limitano il funzionamento e creano disabilità. Essi includono aspetti come un ambiente fisico inaccessibile, la mancanza di tecnologia d’assistenza rilevante e gli atteggiamenti negativi delle persone verso la disabilità, e anche servizi, sistemi e politiche inesistenti o che ostacolano il coinvolgimento delle persone con una condizione di salute in tutte le aree di vita.»
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meno scoraggiati dai fallimenti. E questo tratto aiuta le persone non solo in quanto atleti ma nella vita di tutti i giorni.
5. Sport e fattori ambientali: letture attraverso l’ICF
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Gli studi più significativi che hanno specificatamente utilizzato l’ICF sono stati la ricerca di Saebu e Sørensen (2011) e l’indagine di Jaarsma e collaboratori (2013). Come evidenziato nel paragrafo precedente, sembra che i fattori personali motivazionali siano più importanti rispetto a quelli ambientali nel determinare la partecipazione alla pratica sportiva. I fattori personali che, secondo questi due studi, hanno aiutato gli atleti ad iniziare l’esperienza sportiva e li ha sostenuti nel dare continuità alla stessa, sono stati soprattutto il divertimento, il desiderio di tenersi in forma e il gusto della competizione. In particolare, all’inizio della pratica sportiva, ci sono aspetti legati all’accettazione della disabilità, all’aspirazione di imparare nuove abilità, nonché al desiderio di aumentare l’indipendenza. Il dipendere da altre persone, il non sentirsi a proprio agio in presenza di altri atleti, la paura di infortunarsi, il non essere in grado di allenarsi a causa della disabilità sono fattori che, se non adeguatamente superati, rischiano di impedire e/o limitare la pratica sportiva, soprattutto se a questi si aggiunge un’altra criticità: il non essere in grado di ricavarsi dello spazio per l’attività fisica perché troppo impegnati in altre attività. A queste caratteristiche personali facilitanti e/o barrieranti, si somma una serie di fattori ambientali che incoraggiano o meno la persona con disabilità a praticare sport. Tra le barriere ambientali nell’iniziare e nel continuare la pratica sportiva si segnalano: la scarsità di opportunità sportive accessibili nel territorio dove si abita; la mancanza di personale qualificato; le difficoltà di trasporto; il materiale sportivo troppo costoso; la scarsa conoscenza sulla dislocazione di strutture sportive. A fare da contraltare alle barriere, i seguenti facilitatori contestuali: il supporto familiare, del partner e/o degli amici; il contributo informativo del personale medico.
6. La ricerca sul campo
6.1 Domanda di ricerca e obiettivi
Lo stato dell’arte presentato nei primi paragrafi è servito a focalizzare l’oggetto di ricerca: la pratica sportiva degli atleti con disabilità fisica e la sua ricaduta sul ben-essere personale. Da questo, i dati statistici sopra riportati hanno sollecitato la domanda di ricerca, peraltro già anticipata nelle pagine precedenti: “Quali sono i fattori personali e ambientali che incidono, sotto forma di barriere e facilitatori, sulla scelta di iniziare, e successivamente continuare, a praticare sport?”. A motivare una simile indagine, la mancanza di studi empirici nel contesto italiano che, sulla base del sistema ICF, abbiano già indagato sui facilitatori e le barriere alla pratica sportiva delle persone con disabilità fisica nel nostro Paese. Alla luce di quanto esposto, gli obiettivi principali del presente lavoro sono stati: – ottenere un quadro complessivo dei facilitatori e delle barriere che concorrono a descrivere la pratica sportiva di atleti con disabilità fisica; III. Esiti di ricerca
– verificare se esistono delle differenze, a livello di fattori ambientali, tra atleti amputati, con paraplegia o altri tipi di menomazione fisica; – comprendere se e come sono cambiati nel corso dell’esperienza agonistica i fattori facilitanti e limitanti la stessa; – raccogliere delle proposte operative per incentivare la pratica sportiva per le persone con deficit fisico. 6.2 Partecipanti
Nella ricerca sono stati coinvolti 39 atleti di basket in carrozzina, che militano in sei squadre presenti nel nord est d’Italia, la maggior parte dei quali (23 su 39, 59%) ha subito una lesione spinale (quattro atleti invece hanno una disabilità congenita; cinque con amputazione e sette con altro tipo di disabilità). Sono tutti atleti tesserati per la Federazione Italiana Pallacanestro in Carrozzina, una delle ventuno federazioni appartenenti al Comitato Paralimpico Italiano4. A livello di titolo di studio, due atleti su tre sono in possesso del diploma d’istruzione di secondo grado, il 25% ha il titolo di scuola secondaria di primo grado, mentre i restanti atleti sono laureati. Sul piano professionale, la maggior parte di loro (38%) lavora come dipendente, sette (18%) vivono con la pensione d’invalidità e non mancano studenti (tre atleti), artigiani/imprenditori (cinque partecipanti), cinque liberi professionisti e quattro atleti in cerca di occupazione. Il 13% pratica altri sport oltre al basket in carrozzina. Solo uno degli atleti è convocato nella rappresentativa nazionale, mentre nove atleti (23%) partecipano col proprio club a competizioni internazionali. Un atleta su 3 ha dichiarato che non conosceva lo sport paralimpico prima di iniziare a frequentarlo. Per chi già lo conosceva, le principali fonti sono state internet (13%) e persone con disabilità (11%). 6.3 Strumento e risultati
Nel rispetto delle regole della metodologia quantitativa (Cohen et alii, 2011), abbiamo strutturato un questionario che rappresenta una versione adattata dello strumento utilizzato nell’indagine di Jaarsma e collaboratori (2013). Le domande aperte del questionario originale sono state convertite in quesiti strutturati con l’utilizzo di scala likert a 4 punti5. A parte la sezione iniziale relativa ai dati sociodemografici, le domande centrali del questionario volevano rilevare i fattori motivanti personali e i facilitatori che hanno sostenuto le scelte di iniziare e continuare l’attività sportiva, nonché i fattori personali ed ambientali che sono intervenuti come barriere nell’iniziare e continuare lo sport6. Inoltre, sono stati aggiunti due quesiti finali: 4 5 6
Si consulti il sito del Comitato Italiano Paralimpico: www.comitatoparalimpico.it (1 = “per niente”; 2 = “poco”; 3 = “abbastanza”; 4 = “molto”) Le opzioni di risposta sono state costruite attingendo alle numerose categorie che caratterizzano tre delle quattro componenti presenti nell’ICF: Funzioni corporee, Attività e Partecipazione, Fattori Ambientali.
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– il primo intendeva monitorare gli aspetti della propria persona influenzati dallo sport; – il secondo voleva raccogliere dei suggerimenti che potessero contribuire a migliorare e facilitare la pratica di sport paralimpici.
I dati statistici, elaborati attraverso il software SPSS, hanno evidenziato le seguenti tendenze. Per quanto riguarda l’inizio della pratica sportiva, le motivazioni personali più importanti sono state:
– desiderio di divertirsi (media: 3,6); – incrementare il benessere fisico (media: 3,3); – passione per lo sport in generale (media: 3,3 – in particolare per coloro che hanno raggiunto i più alti livelli agonistici: chi-quadrato 0,035); – desiderio di allargare le proprie relazioni (media: 3 – in particolare per chi ha una disabilità acquisita, chi-quadrato 0,016; e per chi pratica sport ad alto livello: chi-quadrato 0,036).
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Mentre le motivazioni meno significative sono state il voler imparare ad utilizzare meglio gli ausilii (media: 2,1), l’accettare la disabilità (media: 2) e l’obiettivo di perdere peso (media: 1,9 – correlazione significativa con chi ha acquisito la disabilità da più di 20 anni: chi-quadrato 0,026). Tra i fattori ambientali che più di tutti hanno facilitato l’inizio dell’esperienza sportiva ci sono il sostegno degli amici (media: 2,4), dei conoscenti e della famiglia (entrambi con media: 1,9 – correlazione significativa per gli atleti con età compresa tra 20 e 30 anni: chi-quadrato 0,029; e per coloro che hanno una disabilità congenita: chi-quadrato 0,009), nonché del fisioterapista (media: 1,8). La continuità nella pratica sportiva invece è incentivata dai seguenti aspetti:
– a livello personale: si conferma al primo posto l’importanza del divertimento (media: 3,6); a seguire la passione per lo sport praticato (media: 3,6), l’obiettivo di mantenere il ben-essere fisico (media: 3,3), il gusto per la competizione (media: 3,2 – in particolare per chi fa sport ad alto livello: chi-quadrato 0,027), il coltivare le relazioni sociali (media: 3) e il migliorare le abilità sportive acquisite (media: 3 – in particolare per chi ha iniziato sport da meno di cinque anni: chi-quadrato 0,046); – sul piano dei fattori ambientali: i compagni di squadra (media: 2,5), i risultati sportivi ottenuti (media: 2,4), gli amici (media: 2,3) e il coach (media: 2,3).
L’analisi dei dati fa emergere il maggior peso attributo agli aspetti motivazionali, a dispetto dei fattori ambientali, nello spiegare sia l’iniziare che il continuare la pratica agonistica. Se passiamo a considerare le barriere, l’inizio dell’attività agonistica è reso difficile dai seguenti fattori:
– sul fronte individuale: la difficoltà ad allenarsi a causa della disabilità (media: 2), la paura di infortunarsi (media: 1,7 – in particolare sono i più giovani che vivono questa paura: chi-quadrato 0,050) e la difficoltà a trovare tempo per allenarsi perché troppo occupato in altre attività (media: 1,7 – difficoltà riscontrata in particolare da chi frequenta l’università: chi-quadrato); III. Esiti di ricerca
– sul fronte ambientale: gli ausilii per la pratica sportiva troppo costosi (media: 2,4), l’assenza di realtà sportive per disabili nella propria zona di residenza (media: 2 – in particolare per chi è atleta di alto livello: chi-quadrato 0,003) e l’inadeguatezza delle infrastrutture (media: 1,9 – in particolare per chi ha una lesione spinale: chi-quadrato 0,029). Considerando invece la fase della continuità, i dati rivelano le seguenti tendenze:
– aspetti individuali: difficoltà a trovare tempo per allenarsi perché troppo occupato in altre attività (media: 2,1), la paura di infortunarsi (media: 1,6), la mancanza di sostegno del personale medico (media: 1,5); – fattori ambientali: ausilii per la pratica sportiva troppo costosi (media: 2,1), l’impossibilità di praticare sport con atleti non disabili (media: 1,6 – in particolare per chi ha un titolo di studio elevato: chi-quadrato 0,002), la disomogeneità fisica e funzionale tra gli atleti (media: 1,5), la scarsa competenza dell’allenatore (media: 1,4 – in particolare per gli atleti di alto livello: chi-quadrato 0,032).
Permane la maggiore incidenza dei fattori individuali, ma si attenua decisamente la differenza di peso tra le motivazioni personali e i facilitatori di contesto. Se si analizzano le risposte relative agli aspetti della persona influenzati dalla pratica sportiva, la sezione del questionario dedicata alla componente “Funzioni corporee”7 ha evidenziato i seguenti punteggi: tolleranza all’esercizio (media: 3,1), mobilità articolare, forza e resistenza muscolare (media: 3), giovialità (media: 2,8) ed estroversione (media: 2,7). Gli aspetti meno influenzati, seppure con punteggi che non si discostano molto dai più alti, sono stati: l’immagine corporea (media: 2,6) e la coscienziosità (media: 2,2). Sul versante della componente “Attività e Partecipazione”, lo sport ha migliorato soprattutto la capacità di gestire:
– il proprio tempo e le proprie attività (media: 2,5 – in particolare per chi ha acquisito la disabilità da meno di 5 anni: chi-quadrato 0,018); – lo stress (media: 2,5); – la cura della propria persona (media: 2,4).
Punteggi intermedi li ottengono dimensioni come il creare e mantenere relazioni familiari (media: 2,1), relazioni romantiche, coniugali e sessuali (media: 2 – soprattutto per chi ha più di 40 anni: chi-quadrato: 0,032), la gestione della vita domestica (media: 1,9). Lo sport ha invece un minore impatto sull’autosufficienza economica (media: 1,6) e la spiritualità (media: 1,4). Infine, la domanda che si è soffermata sugli elementi da migliorare per accrescere la pratica paralimpica ha evidenziato dei punteggi elevati per tutte le opzioni proposte, per questo riportiamo integralmente i dati:
7
Ci si è rifatti ad una delle componenti che caratterizzano l’ICF.
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Tab. 1: Aspetti dello sport da attivare e/o incrementare
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Di fatto, gli atleti intervistati ritengono che tutti i fattori proposti siano da migliorare in modo decisivo. Si tratta di intervenire strutturalmente sulla rete sociosanitaria attuale, favorendo l’accessibilità alle strutture e riducendo la frammentazione del percorso di cura, o facilitando la fruibilità della pratica sportiva anche attraverso incentivi economici. Ma uguale valore è riconosciuto alle azioni a carattere educativo e di sensibilizzazione culturale (diffusione della conoscenza sul mondo paralimpico nei mass media, nelle scuole…). Seppure ultimo in graduatoria, non sembra trascurabile l’importanza attribuita alle competenze professionali delle figure tecniche. 6.4 Riflessioni conclusive
L’indagine presentata in queste pagine può essere pensata come primo step di un lavoro più esaustivo che mira ad allargare il raggio d’azione dal punto di vista geografico, a livello di discipline praticate e per quanto riguarda le tipologie di menomazioni degli atleti coinvolti. La condivisione dei risultati emersi con la sezione del Veneto del Comitato Paralimpico Italiano manifesta l’ambizione di dare continuità al lavoro in questo senso8. In ogni caso, per quanto circoscritta, la ricerca ha permesso di ricavare interessanti dati sulla capacità dello sport di sostenere il ben-essere degli atleti. Risultati che sono in linea con lo stato dell’arte descritto nelle prime pagine. Il divertimento è un elemento indispensabile per la pratica sportiva, sia nell’iniziarla che nel continuarla, come già riscontrato dagli autori Kehn e Kroll (2009), Bragaru et alii (2013) e Jaarsma et alii (2013). L’obiettivo di incrementare il benessere fisico è un altro essenziale fattore personale che motiva gli atleti, dato riscontrato anche da Jaarsma et alii (2013) e prima ancora da Saebu e Sørensen (2011), Kehn e Kroll (2009), nonché Wu e Williams (2001). 8
Nel mese di maggio 2016 è stato dato il via alla seconda fase dell’indagine che sta coinvolgendo atleti di discipline individuali e anche coloro che hanno un deficit sensoriale.
III. Esiti di ricerca
Il desiderio di allargare e/o aumentare le relazioni è più importante nella fase iniziale della pratica sportiva che nella continuazione; dato emergente comunque anche nelle ricerche di Wu et Williams (2001), Saebu e Sørensen (2011) e Bragaru et alii (2013). Nel lavoro di Jaarsma et alii (2013) invece questo fattore si è rilevato meno importante di quanto sia emerso nel nostro lavoro. Per quanto riguarda le dimensioni ostacolanti iniziali, la paura di infortunarsi è un dato che anche le indagini di Bragaru et alii (2013) e Jaarsma et alii (2013) avevano messo in luce. Inoltre, come sottolineato già da quest’ultimo studio, una dimensione barrierante significativa è la difficoltà nell’allenamento a causa della disabilità. La dimensione ostacolante “difficoltà a trovare il tempo per allenarsi” era stata invece evidenziata da Kehn e Kroll nel 2009. A differenza degli studi recuperati in letteratura, la nostra indagine ha precisato in termini temporali l’influenza dei fattori personali e ambientali nella pratica sportiva: questo ha permesso di notare che i fattori personali sono più determinanti della scelta di iniziare lo sport, momento nel quale i principali fattori barrieranti sono di tipo ambientale. Nella fase di continuazione, i fattori ambientali acquisiscono maggior peso anche come facilitatori. Complessivamente, molto c’è da fare per rendere più fruibile la pratica sportiva se, come abbiamo visto, tutte le opzioni di risposta hanno ottenuto punteggi elevati: dall’accessibilità fisica degli impianti e strutture sportive, all’aumento degli incentivi economici per la pratica sportiva, fino ad arrivare ai progetti di sensibilizzazione nelle scuole, nonché alla necessità di accrescere le competenze professionali degli istruttori/ allenatori. Si tratta davvero di dare visibilità allo sport paralimpico come opportunità di ben-essere perché, come ricorda spesso Imprudente nei suoi interventi, una realtà che non si vede è una realtà che non esiste. Anche nella nostra indagine, il 60% dei partecipanti non conosceva lo sport paralimpico prima del trauma, mentre il 25% l’ha conosciuto attraverso altre persone disabili, il 15% grazie ai mass media (internet, giornali…). Sono percentuali che ci sollecitano a domandarci se coloro che non praticano sport non lo facciano appunto perché non sanno dell’esistenza di questa opportunità. Sarebbe davvero opportuno, magari in collaborazione con le strutture socio-educativo-sanitarie, aprire un fronte di ricerca con coloro che ancora non hanno fatto alcuna esperienza di pratica sportiva. La necessità di arricchire le opportunità agonistiche per le persone con disabilità fisica si fa ancora più urgente se consideriamo che anche la nostra ricerca ha confermato la capacità dello sport di nutrire varie dimensioni di ben-essere personale: non solo quelle riconducibili allo specifico ambito motorio – tolleranza all’esercizio; mobilità articolare, forza e resistenza muscolare – ma anche componenti di personalità più ampi come la giovialità e l’estroversione, che sostengono la capacità di creare e mantenere relazioni familiari, romantiche, coniugali e sessuali. Dunque, i dati ci dicono che il contesto sportivo contribuisce alla crescita identitaria della persona e di sicuro consolida le capacità legate all’autonomia personale (la gestione del proprio tempo e delle proprie attività; la gestione dello stress; la cura della propria persona; la gestione della vita domestica). Tutte dimensioni che hanno quella risonanza educativa richiamata nelle prime pagine del contributo: lo sport arricchisce le occasioni di crescita perché allarga le rete amicale, offre spazi per provare a fare da sé e permette di “scoprire un modo anno IV | n. 1 | 2016
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nuovo di narrare se stessi e conoscersi attraverso l’espressione del corpo” (De Anna, 2013, p. 10). Al contempo, siamo consapevoli che una maggiore sensibilità educativa sia presente nei cosiddetti sport unificati, che promuovono la partecipazione tra atleti con e senza disabilità. Tuttavia anche gli sport adattati, come lo è il basket in carrozzina (oggetto della nostra ricerca), sono capaci di concretizzare – e questo è stato confermato sia dalla ricognizione bibliografica sia dagli esiti del nostro lavoro – quella dimensione inclusiva che Canevaro (2008) traduce in senso di appartenenza. Per chi è impegnato a sviluppare una riflessione pedagogica, lo sport ha il potenziale per essere un contesto verso cui deve aprirsi il processo di cura in termini di progetto di vita (Pavone, 2009; Barbuto et alii, 2011): ancora troppo spesso i progetti educativi si focalizzato molto sui contesti scolastico e familiare. Qui si è trovata conferma di come sia davvero generativo allargare l’attenzione ad altri contesti sociali – com’è appunto la realtà sportiva – anche per la loro capacità di sollecitare competenze universali, che appartengono alla persona nella sua globalità. Dunque lo sport come componente che fa, di un progetto di cura, un percorso finalizzato a promuovere un progetto di vita fiorente (Visentin, 2016). È dentro la prospettiva del progetto di vita che anche gli sport speciali, cioè praticati solo da atleti con disabilità come il basket in carrozzina, acquisiscono legittimazione perché si propongono come opportunità di ben-essere tra le quali scegliere, agenti di socializzazione e strumento a sostegno dell’indipendenza personale. Accanto all’azione di ricerca che continuerà per farsi più esaustiva, si dovrà aprire un tavolo di confronto con altri stakeholders coinvolti nel processo, primo tra tutti il Comitato Italiano Paralimpico, per iniziare a riflettere su concrete ipotesi di intervento nell’ampia rete che si occupa della partecipazione sociale delle persone con disabilità.
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III. Esiti di ricerca
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Dalla logogenia all’extensive reading: riflessioni e proposte per l’alunno sordo e per tutta la classe
Nowadays some deaf students still have poor linguistic competence: the use of cochlear implants and digital hearing devices on one side and the use of sign language on the other side have improved but not solved all the problems of full language acquisition. Logogenia involves immersion in the written language paying specific attention to the morphosyntactic features in order to improve comprehension. The aim of the present study is to assess the benefits of combining logogenia with extensive reading, the latter being an approach to reading used for foreign language acquisition, and to suggest the use of it for both the deaf student and the whole class. The study illustrate a didactic application used with a deaf student and an extensive reading proposal for the class in an inclusive approach.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: Deaf, Extensive Reading, School library, Logogenia, Inclusion
III. Esiti di ricerca Antonella Conti, pedagogista, psicometrista e consigliere di orientamento. Docente di Problematiche educative per le persone non udenti, cultore di Pedagogia Speciale, Collaboratrice CeDisMa, Fac. di Scienze della Formazione UCSC. Consulente pedagogico scolastico: processi di insegnamento/apprendimento, inclusione alunni con disabilità e DSA, orientamento scolastico. Valeria Cappellini, docente abilitata all’insegnamento della lingua inglese e specializzata per il sostegno. Per alcuni anni si è occupata di reporting e analisi dati presso RCS Editori. Dal 2008 docente di inglese e sostegno in diverse scuole secondarie di primo grado della provincia di Milano.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Antonella Conti / Università Cattolica di Milano / antonella.conti@unicatt.it Valeria Cappellini / I.C. Marzabotto / Sesto San Giovanni (MI) / fegiova@tiscali.it
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1. L’educazione linguistica degli alunni sordi
È sorprendente quanto poco sappiamo sulla sordità, che Samuel Johnson definì una delle più disperate tra le calamità umane” Oliver Sacks, 1989
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La storia dell’educazione delle persone sorde è caratterizzata da due fattori: l’invisibilità del deficit con conseguente sottostima del problema da parte della società e per molto tempo la relegazione ai margini dei sordomuti considerati incapaci, poiché la mancata acquisizione del linguaggio ha comportato per secoli l’impossibilità di supportare delle facoltà intellettive potenzialmente integre. Tra le due disabilità sensoriali quella uditiva ha un’incidenza all’incirca doppia rispetto a quella visiva in età evolutiva, dato poco noto che anche le scuole italiane registrano: nell’a.s 2014/15 gli alunni con disabilità visiva tra l’infanzia e le secondarie sono stati l’1,6% del totale; quelli con problemi di udito il 2,7 (ISTAT, 2015, p. 20). La sordità è una delle cause più comuni di invalidità dell’uomo se si considera tutto l’arco di vita. Approssimativamente un bambino ogni 1000 nati è affetto da una sordità profonda, uno ogni 300 presenta un qualche tipo di ipoacusia (Nadol Jr, Merchan, 2001, p. 1). Una stima dell’OMS del 1995 conta 120 milioni di persone con problemi di udito nel mondo, di cui la metà nei Paesi in via di sviluppo (Trevisi, Prosser, 2004, p. 85). Per i piccoli sordi la sfida rimane l’acquisizione piena della lingua, strumento simbolico di cui si nutre il pensiero, attraverso cui si veicolano emozioni, relazioni, partecipazione, in una parola vita nel senso più profondamente umano del termine. “La lingua è la nostra frontiera necessaria, la condizione senza la quale nessuna cittadinanza è possibile” (Chiricò, 2014, p. 22)”. Senza una piena competenza linguistica si rimane relegati nel campo dell’incapacità mentale, dell’incomunicabilità, dell’isolamento. L’apprendimento della lingua orale non è condizionato soltanto dalla gravità del deficit, ma anche dalla sua insorgenza, dalla tempistica della diagnosi/protesizzazione e successiva riabilitazione (De Filippis, 2002; Martini, Schindler, 2004): per comprendere appieno la disabilità di una persona in ottica etologica vanno considerati inoltre i microsistemi a cui il soggetto appartiene, la sua famiglia, la scuola, l’interazione dei vari sottosistemi tra loro fino ad arrivare al macrosistema, la cultura dominante entro la quale il soggetto è inserito; nello specifico come viene considerato questo deficit o quale riconoscimento ha la Comunità Sorda se il soggetto è segnante (Zand, Pierce, 2011; Bronfenbrenner, 1979). Anche gli studi di taglio psicologico sottolineano come l’analisi del comportamento di un bambino sordo sia possibile con un modello di complessità che inglobi dati medico-riabilitativi, processi cognitivi, affettivi, linguistici e di personalità, oltre alle modalità relazionali dei genitori e ai fattori socio ambientali (Bacchini, Valerio, 1994, pp. 15-18). Nella storia delle Pedagogia Speciale l’educazione delle persone sorde, ha da sempre puntato all’obiettivo di far acquisire la lingua; così i primi istruttori a partire dal ’500 cercarono, in modi diversi, di istruire nobili sordi per renderli giuridicamente capaci, in grado di ereditare titoli e beni. Molti puntavano sulle potenzialità della lettura e della scrittura: per esempio Girolamo Cardano nel III. Esiti di ricerca
1553 sosteneva si potessero istruire i sordomuti insegnando attraverso la lettura e facendoli esprimere per iscritto; altri vedevano la scrittura come la modalità per trascrivere quanto captato attraverso la lettura labiale (Bocci, 2011). Nel periodo illuminista si aprono gli istituti per sordomuti, a partire da quello parigino dell’abate dell’Epée che, similmente ad Itard, concepisce l’insegnamento ai bambini sordi come una vocazione, diventando strenuo difensore della loro educabilità attraverso le potenzialità integre dei canali visivi e cinestesici; anch’egli ritiene fondamentale proporre la lettura (Canevaro, Goussot, 2000). Le strade percorse per l’educazione dei sordi sono, come noto, due: la lingua orale ripresa in particolare da Heinicke e quella segnata epeana, allora chiamata gestuale (d’Alonzo, 2008, p. 191). Queste due vie si scontrano durante il famoso congresso di Milano del 1880 che si conclude con la vittoria dell’oralismo che nel nord Italia aveva come esponenti di spicco Tarra a Milano e Provolo a Verona (Ferreri, 1920; Gaspari, 2005, pp. 43-47; Bocci, 2011). Da allora la diatriba tra le due metodologie ha universalmente condizionato la letteratura sul tema. Le lingue segnate hanno visto una rinascita grazie agli studi di Stokoe in ambito statunitense (1960) riprese in Italia da Virginia Volterra (1987); la linguistica ha evidenziato come i segni presentino una struttura grammaticale e morfosintattica equivalente alle lingue orali. Negli anni successivi sono esplosi gli studi su queste forme della comunicazione umana che viaggiano sul canale visivo-gestuale (Guasti, 2007). Con l’ipotesi che un positivo apprendimento della prima lingua segnata, possibile con l’esposizione a modelli efficaci e programmi scolastici ben organizzati, possa garantire un miglioramento cognitivo e di flessibilità linguistica, si attivano programmi bilingui (Cummins, 1981). A partire dagli anni ’70 nasce il concetto di Comunità Sorda come minoranza linguistica, mentre i protocolli strettamente oralisti lasciano intravedere diversi insuccessi (Lane, 1992). A livello di realizzazione pratica in Europa partono programmi bilingui in Svezia e in Danimarca negli anni ’70, seguiti dal Regno Unito, gli Stati Uniti e l’Australia. L’ipotesi è che anche i figli di genitori udenti, quindi ben il 90-95% (Frederickson, Cline, p. 505; Marschark, Hauser, 2008, p. 441), possano avere come prima lingua i segni veicolati dalla Comunità. Il primo obiettivo è la promozione e diffusione della lingua segnata; il secondo l’incorporazione di tale lingua e della Cultura Sorda entro i programmi, per sviluppare un’adeguata identità dei bambini sordi. Terzo obiettivo: migliorare i risultati nella letto/scrittura. Dopo 30 anni dall’attivazione di tali programmi viene messo in discussione il modello di Cummins poiché l’interdipendenza delle sue ipotesi non trova riscontro nei fatti (Mayer, Wells, 1996). Allo stesso tempo, tuttavia, diversi studi hanno indicato che le competenze nella lingua dei segni sono correlate con la competenza in lettura. Ma, d’altro canto, ci sono indicazioni che la competenza nella lingua orale è correlata, più che la lingua segnata con le performance in lettura in ragazzi sordi bilingui e che il tranfer tra segni e lingua scritta è possibile solo dopo che il soggetto ha superato una certa soglia di competenza nei segni (Knoors, Tang, Marschark, 2014, p. 16). L’impianto cocleare ha significato una grande svolta nella percezione uditiva delle persone sorde profonde poiché ha consentito l’accesso anche alle frequenze acute e una discriminazione del parlato maggiormente efficace. Questo ha avuto come conseguenza l’abbandono dei programmi bilingui in paesi come anno IV | n. 1 | 2016
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Norvegia, Svezia, Danimarca e Regno Unito. L’impianto cocleare sta effettivamente cambiando la vita dei ragazzi sordi, ma purtroppo non è una panacea, in particolare se c’è stato un periodo significativo di deprivazione sonora che ha alterato lo sviluppo cognitivo del bambino (De Filippis, 2002; Marschark, Hauser, 2008; Knoors, Tang, Marschark, 2014). I ragazzi sordi, inoltre, maturano identità più fluide e profili linguistici flessibili invece che distintamente separati tra prima e seconda lingua. (Marschark, Tang, Knoors, 2014; pp. 15-16; Leigh, 2009). In questo quadro variegato la questione focale dell’apprendimento pieno della lingua rimane tutt’oggi un problema diffuso. Negli Stati Uniti solo il 20% dei ragazzi sordi soddisfa o supera il test per inglese e lettura nelle prove d’ingresso ai college (American College Test, ACT, anni 2002-2006); il 10 % quelli di scienze e il 15% le prove matematiche. Spesso gli studenti sordi non comprendono il significato di quello che dicono gli altri, anche se esiste una grande variabilità (Marschark, Hauser, 2008, p. 338). Rimane complesso garantire loro un uguale accesso alla grande quantità di informazioni trasmesse in classe; questo non solo quando si usa la lingua orale, ma anche se è presente l’interprete o si fornisce una sottotitolatura in “real time” (Spencer, Marschark, 2010) Diversi autori da tempo sottolineano la necessità di andare oltre la diatriba storica tra oralisti e segnanti e non distrarsi dal focus: come aiutare effettivamente questa varietà di studenti sordi nell’apprendimento e nel miglioramento dei loro livelli di istruzione e integrazione (Marskark, Hauser, 2008, p. 338). Il periodo sensibile o ottimale per l’acquisizione di una lingua sembra concludersi con l’inizio della pubertà e questo vale anche per le L2 (Guasti, 2007, pp. 46-49). In questa logica uno dei punti fermi a cui aderiscono autori di schieramenti differenti riguarda il ruolo fondamentale del testo scritto, della lettura e della scrittura da proporsi e attivare il prima possibile. Oggi, solo per citare alcuni esempi italiani, in linea con le teorie di Ferreiro-Teberoschy (1985) l’anticipazione della letto/scrittura è presente nei testi della linguista Teruggi (2003) che si occupa di progetti scolastici bilingui per alunni sordi in Italia e nei manuali di logopedia della De Filippis (1998), indiscussa esponente dell’oralismo italiano.
2. La Logogenia di Bruna Radelli
Dalla grammatica generativa chomskiana partono le riflessioni di Bruna Radelli, una linguista italiana trapiantata in Messico, che 30 anni fa fondò la Logogenia, una disciplina di linguistica applicata a persone in condizione di sordità e che da 10 anni è oggetto di insegnamento alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il termine Logogenia® è anche un marchio registrato che indica il metodo elaborato dalla Radelli applicato dai logogenisti della Cooperativa Logogenia fondata dalla stessa autrice nel 2000. L’opera della Radelli prende avvio all’Istituto Nazionale di Antropologia e Storia del Messico durante il quale negli anni ’80 passa dagli studi e docenze di linguistica teorica all’applicazione di strategie in grado di permettere a bambini sordi di classi primarie di acquisire la lingua. Successivamente negli anni novanta opera all’istituto Magarotto di Padova, frequentato da adolescenti ipoacusici. Presenta la logogenia a tutti i ragazzi sordi prelinguali, oralisti o segnanti, profondi o gravi, che non hanno avuto pieno accesso alla lingua verbale, hanno acquisito III. Esiti di ricerca
la letto/scrittura ma presentano deficit di comprensione; la disciplina ha in sé una flessibilità tale da adeguarsi ad un ampio spettro di livelli, dai più deficitari, fino alle difficoltà più sottili e ristrette. Ovviamente la precocità dell’intervento offre maggiori possibilità di efficacia. (Radelli, 1988, pp. 31-33). Il presupposto è che se bambini udenti acquisiscono la lingua grazie al fatto che sono immersi in un flusso di informazioni linguistiche, i piccoli sordi spesso non riescono a discriminare in modo chiaro l’input fonetico e l’acquisizione della lingua rimane superficiale; “la stragrande maggioranza di loro non capisce la differenza che c’è tra queste due frasi «Ho paura di morire. Ho paura da morire» (Radelli, 1988, introduzione). È assodato che la comprensione dalla lettura labiale per chi ha scarsi residui uditivi si può considerare parziale e da completare con altri supporti visivi, uditivi o cognitivi (Masci, 2006; Conti 2008a; Conti 2008b). Incrementare la comprensione del bambino sordo solo attraverso il classico approccio lessicale non consente di affrontare il problema principale: le informazioni sintattiche. La maggior parte di esse sono invisibili e veicolate attraverso elementi minimi che non si riescono a discriminare attraverso la lettura delle labbra né con il canale uditivo (Radelli, 1988, p. 22). Stiamo parlando ad es. di particelle grammaticali, concordanze, pronomi. Lo studio della grammatica è inutile, dal momento che i manuali sono di tipo metalinguistico, pensati per persone che già conoscono la lingua (Bosco, 2013, p. 122): l’assenza di autonomia nella comprensione dell’italiano scritto è fondamentalmente dovuta ad una carenza del modulo morfosintattico che di fatto non si insegna; i bambini udenti lo riconoscono semplicemente entrando in contatto con la lingua. In sintesi gli interventi che puntano all’ampliamento lessicale, all’apprendimento della grammatica in modo esplicito e al chiarimento mediante semplificazioni o immagini possono risultare di una certa utilità al sordo, ma non lo portano ad un’autonomia di comprensione (Franchi, Musola, 2011a). Tale acquisizione si raggiunge attraverso l’immersione nella lingua: solo l’esposizione alla lingua, non le spiegazioni o l’insegnamento esplicito, attiva l’acquisizione della competenza linguistica. È proprio da questi presupposti teorici che proviene la principale caratteristica della logogenia: la sostituzione dell’immersione nella lingua orale con l’immersione in quella scritta. La logogenia non intende insegnare l’italiano al ragazzo sordo, che si presuppone in parte già veicolato da altri interventi, come quello logopedico e scolastico, ma vuole “sensibilizzarlo” sugli aspetti sintattici della frase, attraverso una stimolazione grammaticale naturale rappresentata prevalentemente dalle coppie minime scritte, frasi identiche che differiscono per un unico dettaglio che modifica il significato. Tale contrasto è proprio la chiave di volta che permette di mostrare il significato di ogni singolo elemento della frase (Radelli, 1988; pp. 19-49). Vediamo alcuni esempi: Stefania disegna Sara e mangia un gelato Stefania disegna Sara che mangia un gelato Voglio parlarle Voglio parlarne Sei sicuro? Sei al sicuro?
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La logogenia si effettua con un’attività a due, logogenista-allievo, spesso di un’ora, in cui si dialoga solo attraverso lo scritto; l’obiettivo è portare l’alunno a leggere e comprendere dei libri di suo interesse e, una volta raggiunto lo scopo, riportare nell’ora di logogenia le parti non comprese. Le spiegazioni sono sostituite da esempi scritti; il primo livello di proposte riguarda comandi come: “Toccati il naso”- “Toccami il naso”, richiedendo l’esecuzione pratica quale modalità immediata per verificarne la comprensione (Radelli, 1988, p. 34). Se questa non avviene si forniscono altri esempi o la logogenista esegue l’azione stessa. Si passa poi a frasi grammaticalmente inesatte con la richiesta di individuare l’errore; si usano indovinelli, sostituzioni di unità. Come un fisioterapista fa esercitare un arto o un muscolo, così la logogenia allena il procedimento naturale di acquisizione della lingua (Radelli, 1988, pp. 31-51). Si può arrivare ad un livello davvero alto, come la comprensione delle frasi incisive (Radelli, 1988, copertina): 1) I vecchi, che si stancano molto, vanno a letto presto. 2) I vecchi che si stancano molto vanno a letto presto. Significano la stessa cosa o no?(.... ) “Attento anche le virgole significano qualcosa!”
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I presupposti teorici da cui parte la logogenia sono quelli della grammatica generativa di Noam Chomsky. L’autore ha evidenziato come i bambini acquisiscono la grammatica di una lingua, una struttura molto complessa, in tempi brevi rispetto ad altre abilità. Il tutto appare ancora più eccezionale se si considera il forte sbilanciamento tra la quantità limitata di parlato a cui è esposto il bambino e la capacità di produrre enunciati mai sentiti. A partire da questo argomento sulla povertà dello stimolo ha ipotizzato l’innatismo di tale funzione collocandolo in un organo specifico del cervello il LAD (Language Acquisition Device, Chomsky, 1957); ha supposto inoltre che tutte le lingue condividano un’unica struttura comune, la Grammatica Universale e dei parametri di variabilità fissati dall’esperienza. (Chomsky, 1988, p. 62.). La Grammatica Universale è un sistema aperto che si chiude nel momento in cui viene fissato il valore dei suoi parametri, all’interno di una limitata serie di alternative (Brugé, 2000, pp. 42-60). Rispetto alla lingua Chomsky ha introdotto due importanti nozioni: la competenza che è la conoscenza interiorizzata dei principi e delle regole di una lingua e l’esecuzione, che è l’uso effettivo della lingua in un contesto concreto, la produzione di un enunciato (Chomsky, 1970, p.45). Le conseguenze significative sono le seguenti: ciò che caratterizza il processo di funzionamento del linguaggio non può essere appreso, ma l’ambiente è determinante per il suo sviluppo; senza stimoli adatti non vengono assegnati valori ai vari parametri e la facoltà di sviluppare un tipo particolare di linguaggio si blocca o rimane incompleta. Successivamente Bruner fornisce un ulteriore dato illuminante: la leva motivazionale che spinge ad utilizzare il linguaggio è la necessità insopprimibile di ogni individuo di comunicare bidirezionalmente con il mondo sociale nel quale è inserito. Per Bruner è la funzione a creare l’organo, quindi accanto al LAD posiziona un altro sistema che ne consente l’attivazione: il LASS, Language Acquisition Support Sistem (Sistema di Acquisizione Linguistica di Supporto). Il bisogno comunicativo proprio dell’uomo risulta l’elemento propulsivo, motivazionale che spinge all’uso della lingua e all’utilizzo pieno del LAD (Bruner, 1984; d’Alonzo, 2002).
III. Esiti di ricerca
3. Stephen Krashen e l’Ipotesi della Lettura
L’intervento di logogenia si rivolge all’alunno sordo e serve ad innescare uno sviluppo che, secondo il suggerimento di Bruna Radelli, si completerà con la lettura dei libri (Radelli, 1988, p.39). Rispetto alla lettura, l’autrice fornisce alcuni suggerimenti: Infine bisogna che ci siano tanti libri attraenti sempre a portata di mano, immediatamente accessibili, che si possano prendere, sfogliare e lasciare senza dover firmare e senza doverli rimettere in un precisissimo misterioso posto. Va detto purtroppo che è difficile guidarli nella scelta dei libri e si deve procedere per tentativi. Bisogna comunque chiedere pochissimo sui libri letti perché la lettura non deve mai diventare una tortura scolastica con relative interrogazioni: deve diventare un piacere (Radelli, 1988, p. 47).
Queste indicazioni hanno molto in comune con i programmi di extensive reading fondati sulle riflessioni del linguista Stephen Krashen, uno degli studiosi che ha influenzato le più moderne teorie sull’apprendimento di una seconda lingua. Egli presenta cinque ipotesi (Krashen, 1982, pp. 9-30):
1. Ipotesi dell’Acquisizione e dell’Apprendimento. Accogliendo la distinzione di Chomsky, Krashen ha sviluppato l’opposizione tra acquisition, un processo che si realizza in modo spontaneo e produce la competenza linguistica, la comprensione e la produzione automatica e learning, un processo razionale e volontario, basato sulla memoria a breve termine. 2. Ipotesi del Monitor. L’abilità di produrre frasi proviene dalla competenza della lingua acquisita, mentre il Monitor si basa sulla competenza della lingua appresa, la quale funziona solo come controllo e correzione della produzione linguistica, scritta o orale. 3. Ipotesi dell’Ordine Naturale. Le regole della lingua vengono acquisite secondo un ordine naturale che non dipende dalla loro difficoltà e certamente non coincide con i syllabus grammaticali. 4. Ipotesi dell’Input Comprensibile. L’acquisizione avviene quando il soggetto è esposto ad un input comprensibile che deve anche implicare un certo livello di difficoltà rispetto all’attuale competenza. Da qui il concetto di i + 1, dove i rappresenta ciò che il soggetto capisce, in sintonia con la teoria della zona di sviluppo prossimale (Vygotskij, 1962). L’input comprensibile è necessario, ma non sufficiente. 5. Ipotesi del Filtro Affettivo. Affinché l’input i+1 sia interiorizzato è necessaria la presenza di determinate condizioni emotive: l’apprendente deve essere interessato e motivato, non sotto stress o ansia da prestazione altrimenti attua un blocco di autodifesa alzando un filtro affettivo. Solo se il filtro affettivo è basso, e quindi il soggetto che apprende non è preoccupato per i possibili errori, ci sarà acquisizione.
Negli ultimi anni la ricerca di Krashen si è concentrata prevalentemente sul tema della lettura estensiva; infatti nel 1994 l’autore, sulla scia degli studi dello psicolinguista Frank Smith, ha aggiunto l’Ipotesi della Lettura, che è un caso spe-
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cifico dell’Ipotesi dell’Input. Essa afferma che l’ipotesi dell’input comprensibile nella forma della lettura stimola anche l’acquisizione della lingua, dato che la lettura favorisce una competenza grammaticale avanzata, un ampliamento del lessico e un miglioramento dell’ortografia. Secondo Krashen, il testo per essere appropriato deve soddisfare due criteri: deve essere interessante per il lettore e deve avere un grado adeguato di complessità (Krashen, Terrell, 1983, pp. 132-134). Sebbene i due casi non possano essere sovrapponibili c’è un’analogia tra l’alunno sordo e l’alunno che apprende una lingua straniera: entrambi hanno un’esposizione alla lingua estremamente limitata, cioè l’ambiente non fornisce stimoli spontanei. Per tale motivo si ritiene utile attingere ad alcune riflessioni di linguistica applicata all’apprendimento delle lingue straniere e Stephen Krashen ha avuto il merito di aver evidenziato la rilevanza dell’input scritto nel processo di acquisizione di una lingua. Tale input è significativo non solo per il ragazzo con disabilità uditiva, ma per tutti gli alunni, tenuto conto che difficoltà linguistiche sono frequenti tra gli alunni di origine straniera, quelli con disturbi specifici di apprendimento e con funzionamento cognitivo limite o provenienti da situazioni di svantaggio socio-culturale. Secondo Krashen l’input scritto deve essere proposto nella modalità specifica dell’extensive reading, conosciuta anche come Sustained Silent Reading o Free Voluntary Reading. I benefici dei programmi di extensive reading sono stati ampiamente documentati e sono caratterizzati dai seguenti aspetti (Day, 2011; Nation, 1997):
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– gli studenti devono leggere libri che si collochino nell’ambito della reading confort zone: lo studente deve poter comprendere facilmente il significato generale del testo e non preoccuparsi per la presenza di molte parole sconosciute1; – gli allievi hanno a disposizione un gran numero di libri su un’ampia varietà di argomenti. La chiave dell’extensive reading è di permettere loro di selezionare ciò che intendono leggere; – i ragazzi sono liberi di interrompere la lettura di ciò che non trovano interessante o ritengono troppo difficile; – uno degli elementi più cruciali nell’imparare a leggere è la quantità di tempo che gli allievi dedicano alla lettura2. Al di là di valutazioni specifiche relative a reading targets è estremamente importante dare agli studenti opportunità e abbastanza tempo a scuola per leggere in modo autonomo e silenzioso, non meno di due ore a settimana; – poiché l’insegnante è un modello di comportamento, quando gli alunni leggono anche il docente dovrebbe farlo per dare l’esempio e per ispirarli con la sua passione. Sappiamo infatti che le azioni hanno un enorme impatto sui ragazzi e vengono ricordate maggiormente rispetto agli insegnamenti espliciti. 1 2
Relativamente al tema della densità di vocaboli sconosciuti e comprensione di lettura, Hu e Nation suggeriscono che gli studenti devono conoscere almeno il 98 per cento delle parole di un testo per poterlo leggere senza usare il vocabolario. Hu M., Nation P. (2000), p. 403-423. In alcuni paesi vengono richiesti dei reading targets agli studenti. Per esempio, un libro a settimana per i principianti. Questo è un obiettivo realistico dal momento che la letteratura per principianti è per lo più formata da testi brevi. Alcuni insegnanti pongono i loro reading targets in termini di tempo, chiedendo ai loro studenti di leggere 60 minuti al giorno
III. Esiti di ricerca
Nelle nostre scuole si privilegia una lettura intensiva, collettiva e a voce alta. Si tratta di letture scelte dall’insegnante o proposte dal libro di antologia per esemplificare alcuni aspetti della lingua o di uno stile. Il docente controlla tutta l’attività; tutti lavorano sullo stesso compito. In tale contesto è difficile andare incontro alle diverse necessità: l’alunno dislessico non leggerà ad alta voce, quello straniero faticherà a seguire la lettura del compagno, come pure quello con deficit di attenzione. L’amante dei libri terminerà la sua lettura dopo pochi minuti, mentre probabilmente lo studente sordo nemmeno si sarà accorto di chi sta leggendo. Nessuno legge allo stesso modo, ma ogni alunno sarà richiamato dall’insegnante se, interpellato, non riuscirà a dimostrare di aver seguito la lettura continuando a leggere dal punto esatto in cui il compagno si è fermato. Infine, vi è l’abitudine di associare la lettura del testo ad analisi e sintesi scritte, ulteriore elemento che provoca la disaffezione alla lettura stessa. Le attività di lettura nella classe hanno poco a che fare con l’autonomia di scelta e risultano spesso noiose. Le esperienze di extensive reading puntano invece a motivare gli alunni a leggere in quantità testi scelti tra soggetti, generi molto diversi e di difficoltà linguistica graduata. Gli studenti individuano il proprio livello iniziale nella biblioteca da soli e progrediscono secondo il loro passo, sperimentando sicurezza e competenza (Prentice, 2012).
4. Un’esperienza sul campo: storia di Sabrina
Sabrina è una ragazzina di 11 anni affetta da sordità profonda bilaterale e deficit cognitivo di grado lieve; frequenta la classe I di una scuola secondaria di I grado. La sordità è stata diagnosticata all’età di 10 mesi. La riabilitazione logopedica è iniziata molto tardivamente, soltanto a 6 anni e si è conclusa a 10 anni. La sua competenza linguistica è scarsa; le difficoltà riguardano sia l’ambito lessicale sia il modulo morfologico e sintattico. L’espressione orale manca di chiarezza fono-articolatoria e il tono di voce è spesso così basso da risultare incomprensibile. Il temperamento personale è socievole, curioso e desideroso di sapere, ma senza alcun supporto Sabrina dopo un po’ perde interesse e sbadiglia, limitandosi ad imitare diligentemente il comportamento dei compagni (copiare dalla lavagna, sottolineare un testo, scrivere i compiti sul diario) senza che questo abbia per lei un particolare significato. Dopo un periodo di osservazione volto a identificare, nell’ambito della scrittura, i punti di maggiore criticità, è iniziato un intervento di stimolazione linguistica ispirato ai principi della logogenia. L’intervento è durato circa 7 mesi (da novembre 2014 a maggio 2015) con una frequenza di due ore settimanali, fuori dal contesto classe, durante le ore di grammatica. L’appuntamento settimanale di conversazione scritta è sempre stato accolto con grande entusiasmo e spesso Sabrina ha chiesto di anticiparlo rispetto alla programmazione delle altre attività. Il lavoro si è basato essenzialmente su coppie minime, ma grande spazio è stato dato anche alla creazione di storie stravaganti e alla correzione di frasi sbagliate. Si è lasciato anche spazio ad una conversazione scritta spontanea in occasione della quale Sabrina ha mostrato di riuscire a scrivere lunghi brani con grande slancio, se pur non corretti. Le ore di logogenia e i dialoghi scritti proposti con anno IV | n. 1 | 2016
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compagni di classe hanno rappresentato l’unico momento in cui Sabrina ha scritto con entusiasmo. Riportiamo di seguito un estratto dai dialoghi scritti con l’insegnante per illustrare il tipo di lavoro svolto. Già da questa breve conversazione emergono alcuni tratti significativi:
– l’interpretazione di frasi a partire dal contesto: ad es. alla richiesta di indicare se la frase “il libro è nella borsa, prendile” sia corretta, Sabrina dice che è sbagliata perché la borsa - quella dell’insegnante che si trovava in quel momento sul banco – è piccola e il libro è grande; – difficoltà a separare o unire alcuni elementi della frase (addesslosa, al cune, loso, vuoldire); – errori ortografici degli elementi fonologici che a livello di percezione labiale e uditiva risultano difficili da decodificare: cansone (canzone), lungando (allungando), cappa (scappa), tormentata (addormentata). Dialoghi logogenici con Sabrina
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V. Ho messo i tappi nelle orecchie. Non sento. Vuoi chiedermi qualcosa? S. Si perché hai messo i tappi? V. Perché per fare questa attività dobbiamo usare solo l’italiano scritto. Come stai? S. Bene tu. V. Bene però ho un po’ di mal di pancia. S. Questo po’cosa vuoldire? V. È l’abbreviazione di un poco (po’). Non ho tanto mal di pancia, solo un poco. Guarda queste frasi. – La mamma prepara la bistecca – Mangio la bistecca – Ho comprato una bistecca – Questa bistecca non mi piace – Adesso fai tu 4 frasi con la parola libro. S. – oggi ho comprato un libro – leggo il libro V. Non hai più idee? S. Non loso Non c’è più spazio. V. C’è spazio, questi non sono fogli di carta. S. Lo so che non sono i fogli di carta,ma cosa sono? V. Si chiamano fogli elettronici e possiamo usarne tantissimi. Manca l’ultima frase con il libro. S. Il libro è gustoso. Si può dire? Non si puio’dire V. Non si può dire perché gustoso vuol dire buono ma quando parliamo di cibo. Il pollo è gustoso, il libro non può essere gustoso. Manca ancora una frase con il libro. S. Questo libro non mi piace V. Benissimo, brava. Adesso inventiamo una storia insieme. Vuoi iniziare tu? III. Esiti di ricerca
S. V. S. V. S.
V. S. V. S. V. S. V.
S. V. S. V. S. V. S. V. S. V. S.
V. S. V. S. V. S.
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Si dopo tu. Dobbiamo iniziare con il titolo? Direi di no. Lo mettiamo alla fine. Ok. Cera una volta Niente altro..? Una principessa che … (Sabrina inizia a parlare) Non sento, devi scrivermelo. Guarda che la storia si scrive lungando la frase. Allungando. Va bene allora: una principessa che si era persa nel bosco. Poi era arrivato il principe e sentiva una cansone. Canzone. E poi? Bellissima e dolcissima Era il canto della principessa. Il principe si avvicinò alla ragazza, ma lei si spaventò perché il principe era molto brutto. Il principe era molto gentile ma anche bello non era brutto? Va bene, il principe era bello. All’improvviso arrivò una strega che lo trasformò in un gatto. Chi si trasforma in un gatto? Il principe. Giusto. Allora adesso cosa succede? Che la principessa Che fa la principessa? Cappa Si dice SCAPPA Scappa verso una casa dopo aver messo il gatto nella sua borsa. Dentro la casa trova una fata. E? Ti sono finite le idee? Sii!!!!!! Che cosa fa la fata? La magia? Sì certo, la magia. E cosa succede con questa magia? Che si strasforma in una persona che dice alla principessa che questo gatto era un principe. Ma la principessa già non lo sapeva? no. ma la fata fa ritornare il gatto in principe la principessa addesslosa e vissero tutti felici e contenti. Come chiamiamo questa favola? La principessa tormentata nel bosco. Scrivo una frase: C’è un libro nella mia borsa. Prendile. Va bene questa frase? No Perché? C’è un errore? Si E dov’è questo errore? La borsa La borsa? La tua borsa è piccola. Il libro è grande.
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Parallelamente all’intervento di dialoghi ispirati alla logogenia, Sabrina ha seguito un programma di extensive reading dal mese di novembre 2014 a maggio 2015. La scelta dei libri si è rivelata più impegnativa del previsto. La biblioteca scolastica non disponeva di testi di narrativa adatti alle sue competenze linguistiche e i libri per alunni con disabilità, oltre ad essere sparsi nei vari locali scolastici, e quindi obiettivamente difficili da trovare, erano spesso di contenuto elementare e perciò inadeguato agli interessi di una ragazzina di 11 anni. Per tali motivi i libri sono stati reperiti presso la biblioteca comunale, dove comunque si è resa necessaria un’indagine preliminare finalizzata alla scelta di testi con un adeguato bilanciamento tra forma linguistica e contenuto. Tale difficoltà è comune per alunni con disabilità uditiva; basta citare il dato che il 50% degli studenti sordi americani diplomati ha un’abilità di lettura uguale o inferiore alla quarta classe primaria. (Marschark, Hauser, 2008, p. 239). Pur lontani dall’abbondanza di libri prevista dai fautori dell’extensive reading, Sabrina ha sempre potuto beneficiare di una sufficiente quantità di libri e operare una scelta in base ai suoi interessi o ad alcuni elementi del testo che di volta in volta catturavano la sua attenzione: il titolo, l’immagine della copertina, il numero di pagine, la percezione della difficoltà dopo una breve lettura. L’alunna ha accolto con grande entusiasmo la lettura dei libri. Nel corso della scuola primaria si era limitata alla lettura di brani semplificati tratti da antologie. L’approccio alla lettura era di tipo intensivo con analisi dei vari elementi del testo ed una focalizzazione prioritaria sugli aspetti lessicali. La validità di tale metodo di lettura non è stata messa in discussione, la lettura estensiva è stata integrata a quella intensiva, non si è sostituita ad essa. Per quanto riguarda le tematiche, Sabrina ha mostrato di prediligere inizialmente le avventure di animali, storie già conosciute come Cappuccetto Rosso o storie tratte dai film della Disney. Nel secondo quadrimestre l’interesse si è spostato su narrazioni ambientate in ambito scolastico con ragazzi coetanei come protagonisti. Le letture hanno inoltre favorito l’alfabetizzazione emotiva dell’alunna che ha iniziato a dare un nome al suo vissuto. Non ci è sembrato il caso di stabilire dei reading targets, ma si è instaurata in modo naturale la consuetudine alla lettura di un libro a settimana. Alla lettura dei testi non sono seguiti esercizi di comprensione e di analisi, ma frequenti sono state le conversazioni spontanee su alcuni aspetti del libro considerati degni nota o non ben compresi, perfettamente in linea con le indicazioni della logogenia. Di tanto in tanto Sabrina ha chiesto di condividere la lettura in classe e di poter leggere alcuni brani ad alta voce. Per documentare l’attività di lettura e lasciare una traccia del percorso svolto, si è avvalsa di una semplice tabella che è stata chiamata “Diario delle mie letture”: titolo del libro, numero di pagine, data inizio lettura, data fine lettura, tempo impiegato per leggerlo, livello (3 possibilità: troppo facile, giusto livello, troppo difficile), voto (3 possibilità legate e 3 emoticon: molto soddisfatto, soddisfatto, non soddisfatto), ulteriori commenti. All’inizio di febbraio, Sabrina ha guardato con orgoglio la prima pagina del “Diario delle mie letture”, aveva completato tutte le righe a sua disposizione: 14 libri! All’interno del gruppo classe questo ha favorito la costruzione di un’immagine positiva dell’alunna come “grande lettrice”. III. Esiti di ricerca
La lettura è stata un’esperienza contagiosa: volutamente, e in accordo con i docenti curricolari, la classe non è stata coinvolta esplicitamente con discorsi o presentazioni di questo percorso di educazione alla lettura previsto per Sabrina. Si è preferito accendere l’interesse dei ragazzi operando in modo allusivo, quasi misterioso. I compagni hanno visto l’insegnante di sostegno arrivare a scuola con molti libri e hanno chiesto di visionarli e prenderne in prestito qualcuno. I più audaci in tal senso sono stati gli alunni con difficoltà di lettura che si sono sentiti attratti da testi accessibili che la scuola normalmente non propone.
Riflessioni conclusive
Il libro è un importante alleato per il ragazzo con disabilità uditiva e può diventare una fonte di stimolazione linguistica che rimedi ai limiti di esposizione all’input determinati dalla disabilità. L’approccio ispirato alla logogenia non può risolvere tutte le problematiche di un ragazzo con problemi di udito e di linguaggio, ma può dare un suo significativo contributo nell’implementare la competenza linguistica, punto focale da cui, a cascata, discendono una serie di benefici cognitivi e relazionali. Il presente lavoro ha evidenziato come la ricerca glottodidattica abbia riflettuto sulla necessità di una forte esposizione all’input linguistico attraverso la lettura. Tale esposizione se pur non completa perché priva dell’aspetto fonologico, consentirebbe, se praticata secondo le modalità dell’extensive reading delineate da Krashen, un accesso all’informazione linguistica, grammaticale e soprattutto sintattica. La pratica della lettura estensiva è inclusiva perché pone al centro del processo i ragazzi con le loro specifiche abilità e i loro interessi. Tutti possono essere protagonisti e interpreti della lettura e la biblioteca scolastica deve diventare il luogo inclusivo per eccellenza della scuola. E per concludere: l’intento generale di questo articolo è stato quello di suggerire che l’orientamento di una riflessione teorica finalizzata ad un intervento didattico può essere interdisciplinare. La nostra sperimentazione ha riguardato una classe di scuola secondaria di I grado con un’alunna con disabilità uditiva; si auspica che l’esperienza possa essere estesa ad un numero maggiore di casi per verificare l’efficacia di questo tipo di lavoro.
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L’inclusione nei servizi educativi alla prima infanzia: un’esperienza di formazione
Key-words: Inclusion, Index for Inclusion, Early Childhood Education, Vocational education, Action Research
III. Esiti di ricerca Bortolotti E. è docente di didattica e pedagogia speciale presso il dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste. Gli interessi di ricerca sono relativi ai temi della disabilità e dell’inclusione, in un’ottica che valorizzi l’apporto delle diverse competenze professionali nel promuovere il lavoro di rete quale presupposto per l’inclusione.
Bembich C. è psicologa e psicoterapeuta, Phd in scienze psicologiche e della formazione; collabora da alcuni anni con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste, in particolar modo per quanto riguarda attività di ricerca e di formazione sui temi della disabilità e dell’inclusione.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
This article presents a summary of inclusion training for teachers. Particular attention was paid to the importance of guaranteeing inclusion via practical analysis and the resulting issues which helped or hindered the construction of an inclusive community. The training was given to teachers and assistants working in ECS (aged 0-6). The Index For Inclusion (Booth e Ainscow, 2008) was introduced as a tool to support the process of self-analysis and change. The tool highlighted some recurring themes which are commonly found and which are of interest for all educational contexts.
abstract
Elena Bortolotti / Università degli Studi di Trieste, ebortolotti@units.it Caterina Bembich / Università degli Studi di Trieste, cbembich@units.it
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1. Introduzione
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Da alcuni decenni si assiste in Europa all’affermarsi del concetto d’inclusione. La parola inclusione fa emergere innanzitutto il tema della disabilità, che ha a che vedere con un’ampia “fetta” di popolazione che per lungo tempo è rimasta esclusa dalla partecipazione ad ogni livello della vita sociale e che ad oggi consegue innanzitutto la riaffermazione di diritti umani (convenzione ONU sui Diritti delle Persone con disabilità, 20061). Affermare diritti umani è fondamentale per favorire il passaggio concettuale da un modello medico-individuale, che identifica la persona con la sua patologia, confinandola in una prospettiva di assistenza, a modelli interpretativi che richiamano il “significato stesso della vita”, ovvero le opportunità che in essa ognuno trova attraverso la partecipazione (Medeghini, 2015; D’Alessio, 2015; Oliver, 1981). Il modello proposto dalla classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health, 2002), considera la disabilità il risultato dell’interazione tra individuo, il suo funzionamento, e i diversi fattori ambientali che possono ostacolarne la partecipazione. La disabilità, quindi, non riguarda solo un deficit o una mancanza di una persona in particolare, ma chiama in causa l’ambiente, fisico e sociale, in cui ogni persona vive ed interagisce. In relazione a ciò, il concetto di inclusione si espande a tutti gli esseri umani e al loro diritto ad ambire a una vita di qualità (Schalock, 2002, 2008). Pensare ai contesti come luoghi di “primo livello inclusivo” implica un cambiamento concettuale che porta attenzione agli ambienti fisici e sociali e alla loro organizzazione; un cambiamento che può, e deve, iniziare proprio dal mondo dei servizi educativi e scolastici. L’European Agengy for Special Needs and Inclusive Education ha sviluppato un profilo dell’insegnante inclusivo, individuando alcuni punti fermi che riguardano le competenze generali che servono per interagire con una varietà di alunni/allievi nella classe, e non solo con le disabilità specifiche. Alcune capacità fondamentali, quali il saper valutare la diversità degli alunni, il saperli sostenere, il saper lavorare con gli altri e l’aggiornamento professionale continuo, divengono competenze irrinunciabili per ogni docente. Nella relazione del convegno del novembre 2013, intitolato “Putting theory into practice”, si evince molto chiaramente che il problema dell’inclusione è sentito e che, se le scuole non riescono a tenere in considerazione le differenze tra studenti, l’inclusione rimarrà confinata in un dibattito tra esperti e responsabili politici. Se non avviene effettivamente un coinvolgimento nella formazione pratica, se gli insegnanti “mancano di abilità e competenze e non hanno attitudine all’inclusione” (pp. 8-9) non sarà mai possibile implementare un vero processo inclusivo. Nel documento relativo ai “Cinque messaggi per l’educazione inclusiva” (2014), si sottolinea inoltre che il dibattito attuale non si concentra più sulla definizione di inclusione e sul perché sia necessaria, bensì sulle modalità per ottenerla (p. 7), un’affermazione che chiede molto chiaramente di portare all’attenzione i processi inclusivi e le variabili che, nel mondo reale, li ostacolano o li agevolano. Si evince quindi la necessità che la ricerca contribuisca alla co1
http://www.lavoro.gov.it/AreaSociale/Disabilita/Documents/Libretto_Tuttiuguali.pdf
III. Esiti di ricerca
struzione di un patrimonio di conoscenze utili ad approfondire ciò che nella realtà avviene, perché è solo partendo da essa, dall’analisi seria e profonda delle dinamiche che la caratterizzano, che si potranno individuare nuove idee e strategie per formare gli attuali e futuri cittadini ad un mondo più inclusivo. Alessandro Bortolotti richiama la virtuosità delle comunità professionali che mettono in comune e in discussione le proprie pratiche. La formazione in-service pone il problema di dover operare “in vivo” (Bortolotti A., 2013, p. 179) all’interno dei servizi stessi, dove spesso ci si trova ad affrontare realtà complesse e dove la comunità, nonostante il bisogno di cambiamento, pone difficoltà nell’affrontarlo. Fare formazione e affrontare il tema dell’inclusione all’interno dei servizi educativi presenta la necessità di allargare la visione verso tutte le diversità, facendo incontrare le pratiche con la ricerca. Le sfide che la disabilità pone vanno portate ad un livello che vede coinvolti tutti, nessuno escluso (Canevaro, 2013). Lavorare per l’inclusione significa porsi nella prospettiva di agire con un’ottica molto ampia, portando all’attenzione non solo tutte le condizioni di fragilità che investono il mondo sociale, ma anche tutte le azioni che quotidianamente si mettono in campo al fine di creare contesti orientati all’accoglienza e al benessere di tutti. Il problema dell’inclusione non scaturisce infatti solo da situazioni economiche e di competenze specialistiche, vi è una crisi del sistema formativo in generale, per cui non si è in grado di rispondere non solo ai bisogni educativi speciali, ma ai bisogni educativi di tutti (Bocci, 2015). Ad oggi si può affermare che vi sia sostanziale accordo sul fatto che parlare di educazione inclusiva porti ad affrontare molte questioni all’interno di un processo complesso. Fondamentale si rivela la capacità di ragionare in termini di rete, di crescita comune, di collaborazione tra le istituzioni e le figure che vi partecipano, di progettazione condivisa. Per arrivare a ciò non bastano vocazioni e sensibilità personali, sono necessarie competenze specifiche e multidisciplinari, che vanno costruite e promosse in tutti coloro che si cimentano nel lavoro educativo (Smeriglio, 2014). L’ottica con la quale si vuole affrontare in questa sede il tema dell’inclusione riprende questi concetti. L’importanza dello scambio tra ricerca e prassi quotidiana è il filo conduttore di questo lavoro, la cui finalità è supportare il mondo educativo nella costruzione di società inclusive, dove tutti coloro che ne fanno parte possano sentirsi accolti e benvenuti, dove coloro che erogano servizi scolastici e socio-educativi possano sentirsi stimolati e sensibilizzati (Booth e Ainscow, 2002, 2008).
2. L’Index per l’Inclusione: uno strumento di analisi per i servizi educativi
L’index per l’inclusione è uno strumento che si rivolge alle istituzioni educative che hanno come obiettivo la trasformazione della loro cultura e delle loro pratiche per divenire scuole e servizi per tutti. È stato inizialmente proposto e realizzato da Tony Booth e Mel Ainscow (2002) per il Centre for Studies on Inclusive Education, con l’obiettivo di individuare e raccogliere degli indicatori che potessero aiutare le scuole a valutare i propri punti di forza e di debolezza rispetto alla
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capacità di essere inclusive, e facilitare in questo modo un processo di crescita e miglioramento (Booth; Ainscow, 2002; Dovigo e Ianes; 2008). Nel quadro italiano, l’attuale Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 (“Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”) e la successiva Circolare n.8 del 6 marzo 2013 (circolare n.8 del 6 marzo 2013), identificano l’Index per l’Inclusione come uno degli strumenti utili per la rilevazione, il monitoraggio e la valutazione del grado di inclusività delle scuole. Le esperienze già pubblicate in Italia da alcuni gruppi di lavoro (Brugger-Paggi et al, 2013; Ianes, 2008; Demo, 2013) fanno emergere le potenzialità dell’Index quale strumento utile per accrescere la consapevolezza della comunità scolastica sulla centralità e la trasversalità dei processi inclusivi e ricavare indicatori realistici sui quali fondare piani di miglioramento organizzativo e culturale (D.M. 27 dicembre 2012). Perseguire l’obiettivo dell’inclusione significa garantire a tutti gli alunni che presentano bisogni educativi (ossia particolari condizioni di difficoltà dovute a disabilità, disturbi specifici, svantaggio sociale culturale o linguistico, condizioni transitorie ecc.), di avere pieno accesso agli apprendimenti (Ianes, 2013). Secondo Booth & Ainscow includere significa far sì che tutti possano sentirsi apprezzati e che la propria partecipazione sia gradita (Centre for Studies on Inclusive Education2; Booth, Ainscow, 2008). Affinchè ciò avvenga bisogna creare le condizioni per cui ogni membro di una comunità possa essere valorizzato per le proprie caratteristiche, possa partecipare in modo pieno e soddisfacente alla vita scolastica e sociale. L’Index pertanto non intende la difficoltà come qualcosa che sta dentro al bambino (Emanuelsson, 2001), ma come un ostacolo all’apprendimento e alla partecipazione che può dipendere dal contesto educativo o dall’ambiente, e quindi in qualche modo prodotto dal sistema. L’inclusione è da perseguire quindi in tutte le situazioni in cui possa verificarsi qualche forma di esclusione (a causa di differenze culturali, linguistiche, socio economiche, di genere…). In tutte questi casi il problema comune da risolvere è quello di individuare strategie e percorsi che facilitino il superamento dei possibili ostacoli all’apprendimento e che garantiscano la partecipazione di ogni alunno. In quest’ottica, il significato di inclusione può ampliarsi ulteriormente, guardando non solo ai bambini e ai ragazzi, ma anche agli altri soggetti che fanno parte di un’istituzione educativa, quali insegnanti ed educatori, e alla comunità e al territorio. Significa cioè porsi l’obiettivo di valorizzare in modo equo tutti i membri appartenenti ad un contesto scolastico, e perseguire in senso ampio l’obiettivo di creare comunità inclusive, che si allarghino ai contesti sociali nei quali l’istituzione è inserita. L’index, nato in origine come strumento per favorire l’inclusione nei contesti scolastici, è stato proposto da Booth, Ainscow e Kingston nel 2006, in una versione adattata per i servizi educativi dedicati all’infanzia. I principi dello strumento restano invariati, anche se riformulati con lo scopo di essere applicati in
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http://www.csie.org.uk/
III. Esiti di ricerca
contesti educativi diversi da quelli scolastici. L’obiettivo è lavorare sulla cultura dell’inclusione e la diffusione di pratiche inclusive, nei contesti educativi rivolti a tutto l’arco di vita del bambino. Si parte dai primissimi contesti in cui il bambino può venir inserito (servizi 0-3), passando per la scuola dell’infanzia, per poi proseguire lungo tutto il percorso scolastico istituzionale.
3. Quale metodologia propone l’Index?
L’index propone una metodologia che si prefigura come ricerca-azione, con l’obiettivo di introdurre graduali modifiche nel contesto, partendo dai bisogni rilevati dai membri che ne fanno parte. La metodologia proposta segue un percorso che si struttura in diverse fasi con obiettivi specifici (Booth e Ainscow, 2008):
1. Iniziare ad utilizzare l’Index Il lavoro con l’Index inizia dal primo approccio allo strumento, nel momento in cui i membri di un’istituzione scolastica-educativa cominciano a condividere contenuti e metodologia. È importante che il gruppo di lavoro sia eterogeneo, al fine di perseguire la partecipazione dell’intera comunità scolastica.
2. Conoscere la situazione e analisi della scuola/servizio Il primo obiettivo che l’Index si propone di raggiungere è approfondire la conoscenza della situazione e del contesto. Il concetto di inclusione viene esplorato attraverso tre dimensioni, per ognuna delle quali vengono individuate due sezioni, che contengo degli indicatori e delle domande esplicative dei contenuti. Le dimensioni servono ad orientare la riflessione della scuola sull’inclusione e forniscono un quadro di riferimento per organizzare e progettare il percorso che l’istituzione si porrà come obiettivo. Nello specifico, esse si suddividono in: – Dimensione A: Creare culture inclusive (Sezioni: A.1 costruire comunità; Sezioni: A.2 affermare valori inclusivi); – Dimensione B: Produrre politiche inclusive (Sezione B.1 sviluppare la scuola per tutti; Sezione B.2 organizzare il sostegno alla diversità); – Dimensione C: Sviluppare pratiche inclusive (Sezione C.1 coordinare l’apprendimento; Sezione C.2 mobilitare risorse); Ogni dimensione è dettagliata da un certo numero di indicatori, che definiscono possibili obiettivi che l’istituzione può porsi come meta da raggiungere, nel percorso di lavoro che andrà a strutturare. Per facilitare il processo riflessivo, ogni indicatore è sviscerato attraverso una serie di domande, che ne chiarificano il significato e che servono a guidare la scuola nell’individuare le proprie priorità di cambiamento. Le domande servono quindi per sollecitare una riflessione e rimettere in gioco diversi punti di vista. È una metodologia che richiede un cambiamento nel modo in cui spesso viene percepito un approccio esplorativo, vissuto alle volte come un giudizio o una valutazione del proprio operato. In realtà l’obiettivo è quello di sviluppare il più possibile un approccio autoriflessivo rispetto al proprio contesto lavorativo, che aiuti il gruppo a mettere in luce come stanno veramente le cose.
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3. Elaborazione del progetto In questa fase dovrebbero essere individuate le priorità sulle quali costruire un progetto di lavoro. È importante che da una parte siano esplicitati chiaramente gli indicatori su cui il servizio è o non è adeguatamente inclusivo, e che dall’altra siano individuati i temi problematici e definite le priorità per il cambiamento.
4. Realizzare le priorità individuate Individuate le criticità sarà utile definire le strategie per avviare il cambiamento. È molto importante che le esperienze e i progetti attivati vengano documentati, al fine di rendere accessibile l’esperienza a tutti, anche ad altre istituzioni, facilitare la diffusione di buone prassi e ridurre le differenze e disomogeneità rispetto all’inclusione. 5. Revisione del processo La documentazione del processo e delle proposte attivate sarà utile anche nella fase finale, quando a conclusione del lavoro, dovranno essere valutati gli effetti ottenuti dopo l’introduzione dei cambiamenti adottati.
4. Il progetto formativo nei servizi educativi 0-6
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Il tema dell’inclusione è attualmente oggetto di un percorso formativo che è iniziato nell’anno scolastico 2013-2014 presso alcuni servizi educativi del Comune di Trieste ed è ancora in fase di svolgimento (è previsto un piano triennale, da concludersi nell’anno 2016). La formazione coinvolge i coordinatori, gli insegnanti/educatori e lo staff di supporto impiegato nei servizi educativi comunali (4 Nidi dell’Infanzia e 6 Scuole dell’Infanzia) per un totale di 111 dipendenti (46 per il nido; 65 per le scuole dell’infanzia). Durante il primo anno di attività sono stati organizzati diversi incontri formativi. Gli incontri sono serviti a condividere innanzitutto il concetto di inclusione. È stato poi presentato l’Index for Inclusion quale strumento per una ricerca-azione. La formazione è stata presentata come l’opportunità per avviare un processo che deve innescare un cambiamento dall’interno, attraverso il coinvolgimento e la partecipazione diretta di tutti gli operatori. Non si voleva quindi proporre una soluzione dall’alto, ma avviare la riflessione sul funzionamento della propria scuola o servizio educativo, per individuarne limiti e risorse, e porsi di conseguenza obiettivi di miglioramento, crescita e sviluppo (Reason e Bradbury, 2001). Lo scopo era fornire alla scuola e/o servizio educativo uno strumento per far emergere il sommerso, rompere la routine e gli schemi rigidi non più utili, e portare alla luce elementi innovativi dall’interno. Importante è stato innanzitutto condividere l’idea che i cambiamenti non sono improvvisi, ma avvengono lungo un processo graduale che passa attraverso la modificazione delle rappresentazioni, degli atteggiamenti e, infine, delle pratiche. Si è proposta l’ottica del coinvolgimento, della ricerca condivisa di soluzioni e della riflessione, nel principio che la formazione in servizio possa garantire un vero percorso di crescita e di ampliamento delle competenze. Chi si forma diventa attore protagonista di questo processo e corresponsabile, assieme agli altri, di un processo evolutivo del servizio.
III. Esiti di ricerca
Il ricorso ad uno strumento consolidato come l’Index si è rilevato fin da subito un’opportunità per attivare questo processo: esso permette di raccogliere dei dati e fotografare una realtà in maniera più oggettiva. In questo modo si facilita la differenziazione tra quelle che sono le sensazioni comuni rispetto al proprio operato, costruite sulla base delle proprio percezioni, e quelle che sono invece le evidenze oggettive, che sono identificabili solamente attraverso delle indagini che seguano una metodologia strutturata. Si tratta pertanto di passare dalla rappresentazione soggettiva di buona o cattiva prassi, alle evidenze che possono confermare o disconfermare queste sensazioni. In collaborazione con i partecipanti si è deciso pertanto di partire dagli indicatori individuati nella Sezione A.1: Costruire comunità inclusive (Creare comunità accoglienti, cooperative e stimolanti). Nel secondo anno di attività si è lavorato sugli indicatori e le domande previste nello strumento, anche prevedendo ulteriori approfondimenti, che permettevano di riportare eventi/azioni/esempi dalla pratica quotidiana. Sulla base degli indicatori che il gruppo di lavoro ha ritenuto prioritari da mettere in discussione, è stato elaborato un questionario che poi il personale ha compilato individualmente e in forma anonima, e che riguardava le seguenti dimensioni-chiave dell’inclusione:
1. SENTIRSI ACCOLTI E BENVENUTI (Accogliere le diversità; Fruibilità delle informazioni sull’offerta educativa; Accogliere i bambini nuovi arrivati; Accogliere i colleghi nuovi arrivati). 2. COLLABORAZIONE TRA EDUCATORI-INSEGNANTI (Rispetto reciproco; Condivisione del progetto educativo; Condivisione dei problemi; Innovazione educativa). 3. RISPETTO E CURA (Cura dell’ambiente; Cura dei bisogni degli altri; Bambini e cura dell’ambiente; Ascolto dei bambini). 4. COLLABORAZIONE CON LE FAMIGLIE (Comunicazione con la famiglia; Coinvolgimento della famiglia; Comunicazione con la famiglia quando ci sono difficoltà; Comunicazione alla famiglia delle conquiste negli apprendimenti). 5. COINVOLGIMENTO COMUNITA’ LOCALI NELL’ATTIVITA’ DELL’ISTITUZIONE
Per quanto riguarda l’ultimo anno di formazione si prevedeva una fase di incontri a piccoli gruppi (secondo la modalità del focus group) che avessero l’obiettivo di discutere gli aspetti critici emersi dall’uso dell’Index, al fine di proporre elementi innovativi nella pratica del servizio di appartenenza del gruppo.
5. Primo e secondo anno di formazione con l’Index: alcune evidenze
Riportiamo qui di seguito alcune riflessioni raccolte alla fine del secondo anno di formazione. Già in questa prima fase, le domande proposte e i temi toccati nel questionario, hanno sollevato discussioni e riflessioni tra educatori, personale e coordi-
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natori. Queste prime reazioni sono state interpretate come segnali positivi, indicativi del fatto che lo strumento ha messo in luce questioni e aspetti importanti, che probabilmente non venivano affrontati da molto tempo e per diversi motivi. L’Index quindi ha rappresentato un’occasione per trovare dei momenti di confronto e per aprire questioni, definite dagli stessi partecipanti come “calde”, quindi non sempre affrontate con la necessaria apertura, serenità e, soprattutto, in un’ottica di superamento delle difficoltà. A seguito della compilazione dei questionari, è stato organizzato un incontro con i coordinatori che hanno riportato la loro prima impressione sui risultati emersi dall’utilizzo dello strumento. I dati che facevano riferimento alle esperienze nei diversi servizi, sono apparsi fin da subito disomogenei da servizio a servizio. Interessante riportare che questi risultati riflettevano condizioni di lavoro già denunciate dai coordinatori stessi, che avevano presente alcuni servizi dove tutto sommato il clima poteva definirsi positivo e inclusivo, e altri servizi dove il clima di lavoro presentava maggiori criticità. In questa esposizione riteniamo interessante innanzitutto richiamare l’attenzione su alcuni temi ricorrenti che accomunano i servizi, e che possono rappresentare interessanti spunti di riflessione per tutti i contesti educativi. Ad esempio, rispetto all’indicatore “sentirsi accolti e benvenuti, accogliere la diversità” è emersa la condivisione del valore dell’accoglienza dei bambini e della diversità, che si ritiene debba essere perseguito in quanto fondante la propria missione educativa. Quando però si fa riferimento alla pratica quotidiana, si evince che non sempre tale valore riesce a tradursi in azioni concrete; emergono ad esempio difficoltà nel riportare esempi di azioni tipiche e consolidate che vengono messe in pratica e che potrebbero essere oggetto di documentazione dell’accoglienza. In certi casi vengono riportati episodi che fanno emergere una certa resistenza all’accoglienza. Un altro tema interessante riguarda l’indicatore “sentirsi accolti e benvenuti, accogliere nuovi colleghi” che ha evidenziato molte divergenze di opinioni e diversi episodi di disagio e difficoltà nell’inserirsi, da parte di nuovi arrivati, nel gruppo degli educatori e/o insegnanti. Anche in questo caso sono emerse difficoltà nell’individuare strategie positive per accogliere colleghi nuovi, vengono riportati episodi di vissuti spiacevoli ed emerge la necessità di organizzarsi rispetto a queste situazioni.
6. Il terzo anno di formazione: le proposte di cambiamento
Quest’anno è stato avviato il terzo anno di formazione. Gli aspetti critici sopradescritti sono stati selezionati in quanto argomenti di discussione nella fase di incontri a piccoli gruppi (focus group). Gli argomenti selezionati dai gruppi fanno riferimento all’analisi di alcune esperienze sperimentate, che vengono ritenute significative da affrontare ed approfondire, anche con la stesura di una proposta finale e condivisa di documentazione. Rispetto all’accoglienza centrata sul bambino il personale ha ritenuto utile
III. Esiti di ricerca
mettere in discussione i possibili ostacoli che determinano le difficoltà ad accogliere la diversità e le motivazioni che stanno alla base di alcune azioni di resistenza. L’intenzione è proporre una discussione approfondita su eventuali fattori che potrebbero essere stati causa delle difficoltà emerse e possibili strategie di soluzione che non sono state considerate e/o messe in atto. Un esempio di una situazione oggetto di discussione (fattore denominato “Superficialità”). IL FATTO PORTATO IN DISCUSSIONE - A settembre era previsto l’arrivo, nella scuola, di un bambino che si spostava con la sedia a rotelle. Essendo la scuola organizzata su due piani, il primo piano è stato destinato all’accoglienza del bambino stesso, la sua classe, la mensa ecc. sono stati oggetto di analisi per l’accessibilità. Per accedere al secondo piano era presente un ascensore non utilizzato da anni, quindi fermo e bloccato anche da alcuni mobiletti che ne nascondevano l’entrata. La proposta di una educatrice di ripristinare l’utilizzo del mezzo non è stata all’inizio accolta, in quanto non si è vista la necessità di rendere accessibile il secondo piano anche a “quel bambino”. Durante l’anno scolastico tale necessità si è resa reale per alcune attività di scambio tra classi e la mancanza di un mezzo di trasporto ha posto il problema in tema di emergenza, e non di prassi. Si è pianificato un “trasporto manuale” della carrozzina al secondo piano e l’annullamento di alcune iniziative. LA RIFLESSIONE PER IL FUTURO - Il gruppo si è interrogato sul fatto che così facendo, ovvero affrontando con superficialità il problema fin dall’inizio, tralasciando l’accesso ad una parte dell’edificio, si è violato un diritto al libero movimento di “quel bambino”. L’arrivo di un soggetto con “bisogni diversi” deve quindi essere affrontato con maggiore sensibilità e attenzione e con il coinvolgimento di tutto il team. Una strategia potrebbe essere porsi le domande necessarie per l’accoglienza tenendo presente, come ad esempio nella situazione qui analizzata, i “bisogni diversi” dal punto di vista degli spostamenti e l’utilità di pianificare, fin dall’inizio, il maggior numero di soluzioni possibili che rendano l’ambiente accessibile in tutti i suoi spazi e non solo in uno spazio limitato. Si ritiene al contempo importante valorizzare, e documentare, alcune prassi di accoglienza ritenute positive, in modo da poterle condividere. Quel che emerge, ed è particolarmente importante, riguarda il fatto di poter affrontare i nodi problematici in un’ottica di sereno confronto e di sospensione di giudizio. Rispetto all’accoglienza centrata sui colleghi si è deciso di approfondire il tema della comunicazione, in quanto ritenuto un aspetto centrale e strategico per favorire il lavoro in team. Affrontare le difficoltà relazionali che possono rendere difficili e problematiche le interazioni tra adulti, e lavorare sui rapporti interpersonali tra colleghi, è ritenuto un aspetto chiave e fondante la costruzione di un ambiente inclusivo. Al di là delle singole problematiche individuali, si ritiene che la professionalità degli educatori debba innanzitutto manifestarsi con la capacità di individuare strategie e prassi che permettano di condividere serenamente il proprio lavoro, e quindi il fine prioritario di creare un ambiente confortevole, accogliente ed inclusivo per tutti. Lo star bene in team, la possibilità di condividere, con una do-
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cumentazione scritta, almeno alcuni principi base con obiettivi strategici da raggiungere, sembra essere un’opportunità molto sentita. Anche in questo caso i gruppi hanno deciso di partire da una serie di domande che aiutano ad interpretare i bisogni di tutti, come ad esempio “Cosa mi fa piacere che accada quanto entro per la prima volta in un servizio nuovo?” cercando di darsi risposte che facciano riferimento a buone prassi di accoglienza “Mi fa piacere che … 1) tutto il team si presenti”, 2) mi vengano date alcune indicazioni sulle routine consolidate, 3) mi si dimostri volontà di coinvolgermi in ciò che stanno facendo di diverso rispetto alle routine, ecc. Si è deciso quindi di approfondire il significato di comunità accogliente, cercando di sviscerare a fondo quelli che sono i principi che regolano l’organizzazione e l’appartenenza ad una comunità, discutendo l’importanza di esplicitare, e condividere con l’esterno, il tema della libertà individuale in rapporto al tema del rispetto dell’altro e del contesto.
7. Conclusioni
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In questa fase del percorso di formazione possiamo certamente affermare che l’Index for Inclusion si è rivelato uno strumento utile per avviare il processo di inclusione. Dall’esperienza fatta finora nei servizi educativi comunali 0-6, abbiamo potuto constatare come esso solleciti, fin dall’inizio, un dibattito, dei dubbi, metta in luce dei nodi problematici, ma anche rafforzi i punti di forza di un contesto. Evidentemente i temi trattati sono argomenti che toccano dei punti sensibili e delle esigenze sentite come importanti all’interno di un’istituzione, suscitando una reazione nei gruppi in cui lo strumento è introdotto. Questi effetti mettono in luce proprio l’aspetto di processualità di un cambiamento, che non avviene mai in modo improvviso, o entro scadenze prefissate, ma segue un percorso fatto di piccoli cambiamenti, nei pensieri, nelle percezioni, nelle credenze, che poi gradualmente si traducono in evoluzioni delle pratiche. Immettersi quindi in un processo di crescita di questo tipo, significa innanzitutto innescare il processo, consapevoli che non si concluderà al termine del periodo di lavoro previsto, ma che avrà una sua continuazione nel tempo. L’Index inoltre mette chiaramente in evidenza il fatto che l’inclusività non possa essere intesa in modo ristretto, e cioè pensata solo nei confronti della disabilità o dei bambini con bisogni educativi speciali, ma che lavorare per l’inclusività significa abbracciare una visione molto più ampia del concetto, abituarsi ad avere un approccio che sia globale all’interno del servizio, e cioè che guardi a tutti i membri che ne fanno parte. È importante quindi sviluppare un’ottica inclusiva anche nei confronti del gruppo di colleghi con cui si lavora, e con la comunità in cui il servizio è inserito. In tutto questo l’aspetto della documentazione dell’esperienza e dei dati messi in luce da questo processo conoscitivo e di auto-miglioramento, è fondamentale, e deve essere inserita come parte integrante del percorso. Documentare significa non disperdere il valore formativo che una ricerca partecipata e costruita può generare: le conoscenze sviluppate nel percorso non sono soltanto un patrimonio di quella comunità, ma possono rappresentare una risorsa preziosa per tutti. Attraverso la documentazione dell’esperienza si può contribuire III. Esiti di ricerca
alla costruzione di modelli di riferimento sempre più inclusivi e alla diffusione di una cultura sempre più condivisa. La documentazione dovrebbe sempre arricchirsi di una riflessione su quelli che potrebbero essere i fattori inclusivi considerati essenziali per un servizio educativo, quelli che potrebbero essere degli standard minimi auspicabili, quelle che sono le buone prassi da diffondere, in un’ottica che “si può fare”.
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III. Esiti di ricerca
Collaborare per includere: il co-teaching tra ideale e reale
The co-teaching as a shared practice in which two teachers work together with groups of students sharing the planning, organization, delivery and assessment of instruction, as well as the physical space, represents a positive inclusive practice based on collaboration (Ghedin et al., 2013; Conderman et al., 2008; Nevin et al., 2009; Villa et al., 2004). Based on these statements, it became necessary to investigate the meanings and perceptions of teachers in order to bring out the ‘’collaborative ethos “(Rytivaara, 2012) that characterizes their daily practices. The research is an exploratory study aimed to investigate the teachers’ perceptions of co-teaching (Ghedin et al., 2013; Friend & Cook, 2007; Murawski, 2003) from an ideal and a real point of view, considering these research questions: what is the importance given to the collaborative dimension in teaching? Which collaborative practices (co-planning, co-teaching, co-assessment) are predominantly implemented in teachers’ daily work? Do exist differences in collaborative practices perceived and realized by curricular teachers and special education teachers in different school levels? Research results suggest paths of study to design training courses for teachers in order to implement collaborative practices in the classroom.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: Collaboration, co-teaching, inclusion
III. Esiti di ricerca
I §§ “Il valore della collaborazione per promuovere il co-teaching”, “Analisi dei dati. Dati qualitativi” sono stati scritti da Elisabetta Ghedin. I §§ “Premesse della ricerca”, “Domande di ricerca”, “Partecipanti”, “Strumenti”, “Analisi dei dati. Dati quantitativi” sono stati scritti da Debora Aquario. Il § “Discussione” è frutto del lavoro condiviso di Elisabetta Ghedin e Debora Aquario. Le autrici desiderano ringraziare Gaia Caprara e Claudia Caserotti per il loro contributo nella raccolta dei dati.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Elisabetta Ghedin / Dipartimento FISPPA, Università di Padova / elisabetta.ghedin@unipd.it Debora Aquario / Dipartimento FISPPA, Università di Padova / debora.aquario@unipd.it
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1. Il valore della collaborazione per promuovere il co-teaching
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Il termine collaborazione deriva dal latino con- e labōrare che significa letteralmente “lavorare con”. Il vocabolario italiano Treccani definisce questo termine come: “Partecipare attivamente insieme con altri a un lavoro per lo più intellettuale, o alla realizzazione di un’impresa, di un’iniziativa, a una produzione, e sim.”. Ma cosa significa realmente collaborare a scuola? La riflessione su questa “partecipazione attiva” viene qui sviluppata partendo da una nuova prospettiva di buona pratica inclusiva che trova nel co-teaching la sua manifestazione più esemplare. Il co-teaching inteso come pratica di co-progettazione, co-insegnamento e co-valutazione condivisa tra docente curricolare e docente di sostegno che insegnano insieme in un unico ambiente di apprendimento può essere considerato come un intreccio tra attività di apprendimento e quindi può condurre ad attivare processi dove si alternano cambiamenti nelle credenze, nella conoscenza, e nelle abilità oltre che nelle pratiche (Opfer & Pedder 2011). Riprendiamo qui una delle prime idee che L. S. Vygotskij espone quando analizza i rapporti tra apprendimento e sviluppo, ed è l’esigenza di rivalutare l’imitazione. “[...]Per imitare bisogna possedere qualche possibilità di passare da ciò di cui sono capace a ciò di cui non sono capace”1 (Vygotskij, 1934, p. 248). Se le cose stanno così la collaborazione è un contesto utile per l’avanzamento delle proprie capacità. Lo stesso J. Bruner, riprendendo il pensiero di L. S. Vygotskij in prospettiva pedagogica, a proposito della concezione di un soggetto che riflette, afferma che la funzione dell’insegnante è quella di collaborare e il suo ruolo è quello di una sorta di collega che favorisce processi interpretativi in colui che apprende. Bruner, nel sottolineare l’importanza di una concezione educativa come processo intersoggettivo e quindi sociale, auspica che la scuola diventi un forum per negoziare e rinegoziare continuamente i significati, un luogo per costruire, in maniera collaborativa, prodotti culturali (Bruner, 1986, p. 151). Il co-teaching2 di per sé potrebbe allora essere considerato un processo di insegnamento-apprendimento (Roth e Boyd, 1999) nel quale e attraverso il quale gli insegnanti costruiscono conoscenza pratica. Il processo infatti che si mette in moto attraverso la pratica del co-teaching comporta l’imparare a negoziare e condividere i differenti ruoli tra docenti nella classe. Ma il co-teaching richiede, ad esempio, l’acquisizione di nuovi ruoli che mettono in relazione i docenti l’uno con l’altro ma anche con gli studenti. Da questo punto di vista il co-teaching richiederebbe l’acquisizione di nuove abilità per attuarlo in modo da renderlo una 1
2
In questo caso potremmo creare anche un collegamento con il concetto di capacità che viene descritto nel Sistema di Classificazione del Funzionamento (ICF-CY) in cui la capacità viene intesa come “l’abilità dell’individuo di eseguire un’azione o un compito. Questo costrutto serve ad indicare il più alto livello di funzionamento che una persona può raggiungere in un dato ambito in uno specifico momento”. (ICF-CY, OMS, 2007, p. 225). Il co-teaching si configura come pratica in cui due o più insegnanti, uno curricolare e uno per il sostegno, co-progettano (co-planning), co-insegnano (co-instructing) e co-valutano (co-assessing) per un gruppo eterogeneo di studenti all’interno della medesima aula, nella stessa realtà scolastica, con differenti approcci (Ghedin et al., 2013, p. 160).
III. Esiti di ricerca
pratica flessibile e di successo. Infatti quando due insegnanti mettono in pratica il co-teaching per la prima volta, essi sono coinvolti in un processo in cui imparano non solo la pratica del co-teaching, ma anche rispetto all’insegnamento in generale. Allo stesso modo essi costruiscono una nuova conoscenza pratica condivisa nel contesto della propria classe, anche se questo può comportare delle sfide (Conderman & Hedin, 2012). La conoscenza pratica relativamente al co-insegnamento non riguarda esclusivamente la conoscenza relativa ai ruoli che quotidianamente si ricoprono e alle pratiche didattiche abitualmente adottate, ma comporta anche una riflessione su come essere in una relazione di reciprocità, intenzionalità e di trascendenza tra colleghi e con gli studenti (potremmo dire quasi un aver cura; Mortari, 2006). Il co-teaching contribuisce cioè a creare una identità professionale condivisa con un altro collega. Alla luce della visione dialogica dell’identità professionale (Akkerman & Meijer, 2011), l’identità condivisa che si creerebbe attraverso la pratica del co-teaching potrebbe costituire una delle identità professionali degli insegnanti. Questo offrirebbe la possibilità di passare in modo flessibile tra setting in cui si è da soli e setting in cui si pratica il co-teaching. Il contesto in cui si pratica il co-teaching è dove gli insegnanti costruiscono e condividono l’identità professionale, e dove non solo “apprendono l’un l’altro” ma costruiscono nuova conoscenza condivisa, e dove lavorano concretamente nella classe di cui sono titolari, secondo il nuovo ambiente educativo che hanno creato. Il rapporto Talis (2013), a questo proposito, mette in evidenza l’importanza della collaborazione tra docenti nel momento in cui si afferma che i docenti che partecipano alle attività di apprendimento professionale condiviso, almeno cinque volte all’anno riportano di essere significativamente più esperti nella consapevolezza delle loro abilità. Questo tipo di pratica inoltre dimostra essere anche coerente con una migliore qualità della soddisfazione personale (Talis 2013 Results, p. 3). Inoltre un positivo ambiente di classe si coltiva quando gli insegnanti lavorano con i loro studenti per sviluppare un ambiente sicuro, rispettoso e supportivo che facilita la motivazione e l’apprendimento degli studenti, laddove un positivo ambiente di classe riflette una buona atmosfera e la qualità delle reti sociali a scuola (Loukas and Murphy, 2007; Woolfoolk, 2010) e si concretizzerà in una minor frequenza di comportamenti a rischio e maggior tempo dedicato all’insegnamento e all’apprendimento (Guardino and Fullerton, 2010; Martella, Nelson and Marchand-Martella, 2003). La collaborazione tra insegnanti può facilitare la condivisione delle risorse, che include anche lo scambio di idee (Clement, and Vandenberghe, 2000; Murawski e Swanson, 2001). L’OECD nel 2009 ha messo in evidenza che gli insegnanti che hanno una formazione più approfondita sono anche maggiormente disponibili alla collaborazione con i colleghi per favorire il supporto professionale e migliorare l’insegnamento. Con il termine “gestione della classe” ci si riferisce a tutte le azioni che gli insegnanti intraprendono per organizzare la didattica e le classi in maniera efficace per facilitare l’apprendimento degli studenti (Emmer and Everston, 2009; Everston and Emmer, 2009; Everston and Wienstein, 2006; Moore, 2014; Woolfolk, 2010)3. A 3
Cit. in OECD (2014), Talis 2013 Results: An International Perspective on Teaching and Learning, OECD Publishing. http://dx.doi.org/10.1787/9789264196261-en
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questo proposito molti studi hanno analizzato gli effetti di una produttiva collaborazione tra insegnanti e tra studenti (DuFour, 2004; DuFour and Brunette, 2002; Murawski and Swanson, 2001; Slavin, 2013). In particolare, DuFour (2004) usò il termine “comunità di apprendimento professionale” per descrivere un gruppo di educatori che lavoravano “together to analyse and improve their classroom practice…engaging in an ongoing cycle of questions that promote deep team learning” (p.9). In ogni caso alcuni ricercatori confermano che l’efficacia delle pratiche collaborative tra colleghi dipenda dalla struttura stessa della collaborazione (Clement and Vandenberghe, 2000). McLaughlin’s (1994, p. 48)4 a questo proposito usa il termine “sane comunità professionali” le quali a tutti i livelli incontrano la diversità. La collaborazione rappresenta una dimensione importante del co-teaching per la co-costruzione di ulteriore conoscenza come pure è utile come repertorio condiviso di memorie attuali e conoscenza condivisa (Rytivaara, 2012). Quindi in un contesto collaborativo, gli insegnanti dovrebbero avere più conoscenza da mettere in pratica di quando lavorano da soli. A tal proposito Villa et al. (2004) affermano “quello che un insegnante può fare con l’assistenza di un altro insegnante è ancora più indicativo della sua capacità di fare da solo” (Villa, Thousand, Nevin, 2004, p. 61). La collaborazione tra gli insegnanti include: valutazione, pianificazione, sostegno emotivo, problem solving e supporto didattico nella relazione con i bambini (Huffman et al, 2002; Puchner & Taylor, 2006)5. Questa enfasi sulle forze di ciascuno è anche un principio dell’educazione inclusiva per insegnanti e bambini: non tutti necessitano di conoscere ogni cosa se l’apprendimento è diffuso (Rytivaara & Kershner, 2012)6. Alcune indagini (Nelson et al. 2008) evidenziano che la collaborazione tra insegnanti può migliorare l’efficacia nell’insegnamento, che a sua volta può migliorare il successo scolastico per gli studenti e sostenere comportamenti positivi da parte degli insegnanti (Liaw, 2009; Puchner and Taylor, 2006). In una meta-analisi condotta da Cordingley et al. (2003)7, gli autori hanno evidenziato che lo sviluppo professionale collaborativo è collegato a un impatto positivo sulla gamma delle pratiche e strategie didattiche e alla capacità degli insegnanti di collegarle con i bisogni degli studenti e la promozione della loro autostima e autoefficacia. Tale sviluppo professionale collaborativo è collegato anche ad una ricaduta positiva sui processi di apprendimento, di motivazione, e sugli esiti per gli studenti (Ianes e Cramerotti, 2015).
2. Premesse della ricerca
La ricerca che si intende presentare in questo saggio rientra in un quadro complessivo più ampio che si pone l’obiettivo di esplorare il co-teaching come pratica 4 5 6 7
Cit. in M. Clement, R. Vandenberghe (2000). Teachers’ professional development: a solitary or collegial (ad)venture?, Teaching and Teacher Education, 16, p. 87. Cit. in M.T. Gray (2001). Co-teaching in Inclusive Classrooms: The Impact of Collaboration. Bibliobazaar, p. 10. Per un significativo approfondimento della relazione tra co-teaching e didattica inclusiva si rimanda a Ianes e Cramerotti (2015; Ghedin et al., 2013). Cit. in OECD (2014), Talis 2013 Results: An International Perspective on Teaching and Learning, OECD publishing http://dx.doi.org/10.1787/9789264196261-en, p. 198.
III. Esiti di ricerca
didattica per l’inclusione. Negli ultimi anni sono state diverse le piste di indagine avviate, tra cui la dimensione collaborativa tramite interviste esplorative (Ghedin, 2012, 2013), l’osservazione della pratica didattica tramite video-ricerca in due classi di una scuola primaria (Ghedin, Di Masi, Aquario, 2014), la progettazione collaborativa (Di Masi, Aquario, Ghedin, 2014), la dimensione specifica del coassessment (Aquario, Ghedin, Di Masi, 2013; Aquario, 2015)8. I risultati ricavati da queste ricerche suggeriscono da un lato l’importanza di tutte e tre le dimensioni del co-teaching nel dare senso ad una pratica che non si esaurisce nella prassi d’aula e, dall’altro, la necessità di approfondire i significati e le percezioni dei docenti (Beamish et al., 2006; Austin, 2001) al fine di far emergere l’ “ethos collaborativo” (Rytivaara, 2012) che caratterizza le loro pratiche quotidiane. Partendo da questi presupposti, obiettivo specifico che questa ricerca si prefigge è quello di indagare i significati che i docenti attribuiscono al co-teaching (Ghedin et al., 2013; Friend & Cook, 2007; Murawski, 2003) da un punto di vista ideale e reale. Lo scopo della ricerca è giustificato da una riflessione nata nel contesto delle ricerche precedenti su quello che possiamo definire come il co-teaching paradox, la contraddizione cioè spesso esistente tra ciò che un docente ritiene importante e auspicabile a livello ideale e ciò a cui attribuisce importanza su un piano di realtà, piano che frequentemente costringe a rivedere le attese in considerazione di alcuni aspetti legati alla concretezza del quotidiano e a vincoli contestuali di diversa natura. Lo scopo che ci siamo posti con la presente ricerca è dunque esplorare proprio questo divario e ciò che lo produce, in modo da raccogliere dati rilevanti su cui costruire ulteriori piste di ricerca e azioni di miglioramento mirate.
3. Domande di ricerca
Le domande di ricerca che hanno guidato lo studio sono le seguenti:
• Qual è l’importanza attribuita dagli insegnanti alla dimensione collaborativa nell’insegnamento? • Tra le dimensioni del modello di co-teaching (co-progettazione, co-insegnamento, co-valutazione) quali sono quelle maggiormente implementate nel lavoro quotidiano? • Si possono evidenziare differenze nelle pratiche collaborative percepite e realizzate da insegnanti curricolari e specializzati per le attività di sostegno didattico e nei diversi gradi scolastici?
8
Si tratta di ricerche presentate nell’ambito di convegni. In particolare: D. Aquario, E. Ghedin, D. Di Masi (2013). Promoting Inclusive Education: Creative and innovative co-assessment practices for co-teachers, ECER 2013, Istanbul, 10-13 september 2013. D. Di Masi, D. Aquario, E. Ghedin (2014). Pratiche di co-insegnamento in una scuola primaria: uno studio di caso per la progettazione collaborativa, III Convegno Nazionale “Didattica e inclusione scolastica”, Bolzano, 28-29 novembre 2014.
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Per rispondere a queste domande, si è scelto di realizzare uno studio esplorativo in cui potersi avvalere di dati di natura sia quantitativa sia qualitativa. Nello specifico, come si vedrà di seguito, si è ipotizzato che un questionario a risposta chiusa potesse dar conto della percezione di importanza delle dimensioni che compongono il co-insegnamento, e che le stesse dimensioni potessero essere approfondite tramite alcune interviste semi-strutturate realizzate con 20 docenti (curricolari e specializzati per le attività di sostegno). ! !"#$%$&$'()*! !
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Partecipanti
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I partecipanti alla ricerca nella sua parte quantitativa sono 159 insegnanti di un Istituto Comprensivo del Lido di Venezia e di un Istituto Tecnico Alberghiero di Venezia (130 sono donne e 29 uomini), di cui 47 hanno un’età inferiore ai 40 anni, come da tabella sottoriportata. !
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Il periodo di servizio dei docenti a cui è stato proposto il questionario è stato diviso in tre fasce principali: chi insegnava da meno di un anno, chi aveva da 1 a 3 anni di servizio e chi lavorava da più di 3 anni. La maggioranza degli insegnanti (145), che corrisponde al 90,6% delle persone coinvolte, è in servizio da più di tre anni. Per quanto riguarda la qualifica, solo 30 insegnanti sono di sostegno, 3 ricoprono sia il ruolo di docente specializzato per le attività di sostegno che curricolare e i rimanenti 126 insegnanti sono curricolari. Le maestre della scuola dell’infanzia sono 5, le maestre della scuola primaria 57 (il 35,6% dei partecipanti), 50 (pari al 31,3%) sono professori della scuola secondaria di primo grado, 46 (28,8%) sono professori della scuola secondaria di III. Esiti di ricerca
secondo grado e solo in un caso un insegnante lavora sia nella scuola secondaria di primo che di secondo grado (Tab. 2). ! +,4$&"*,$(59$&#"! !
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Tab. 3: Scuole coinvolte
I docenti coinvolti nella fase qualitativa sono invece 20. La pratica del co-insegnamento è stata approfondita attraverso lo sguardo di insegnanti curricolari e specializzati per le attività di sostegno afferenti alla scuola dell’infanzia e primaria. L’indagine ha coinvolto gli insegnanti in due fasi differenti: 1. In un primo momento sono stati incontrati 4 insegnanti ai quali è stata chiesta la disponibilità ad esprimere il proprio punto di vista in qualità di testimoni privilegiati per la valutazione dell’adeguatezza, della chiarezza e della comprensibilità dello strumento costruito: due insegnanti curricolari (uno scuola dell’infanzia e uno scuola primaria) e due insegnanti di sostegno (uno scuola dell’infanzia e uno scuola primaria). 2. In un secondo momento sono state intervistate 20 insegnanti provenienti da 6 scuole della provincia di Padova: 10 insegnano nella scuola dell’infanzia e 10 nella primaria (come riportato nella tabella sottostante). Anche a questo gruppo di insegnanti è stata chiesta la disponibilità a far parte di uno studio esplorativo sull’insegnamento.
Insegnanti curricolari
Insegnanti di sostegno
Tot.
Scuola dell’infanzia
5
5
10
Scuola primaria
5
5
10
Tot.
10
10
20
Tab. 4: Distribuzione insegnanti intervistati
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4. Metodo
Gli strumenti
Come accennato precedentemente, gli strumenti utilizzati per la raccolta dati sono un questionario a risposta chiusa e un’intervista semi-strutturata. Il questionario utilizzato per la raccolta dei dati quantitativi è stato tradotto (con successiva somministrazione ad un piccolo gruppo per testarne la comprensibilità) a partire da due diversi strumenti: il Co-teaching Rating Scale (Gately & Gately, 2000) e il Colorado Assessment of Co-teaching (Adams et al., 1993), per raccogliere informazioni sul co-insegnamento relativamente alle pratiche sperimentate in classe (reale) e all’importanza attribuita dagli insegnanti alle dimensioni prese in considerazione dal questionario (ideale). Lo strumento è composto da due parti: la Parte A raccoglie i dati generali del rispondente e la Parte B include 24 item, a ciascuno dei quali sono associate due domande: – Quanto l’affermazione descrive il suo punto di vista? – Quanto l’affermazione descrive realmente la situazione che lei ha vissuto in aula?
172
Entrambe le risposte sono state date in base a una scala a 4 punti, da “assolutamente no” a “molto”. In particolare, lo strumento prende in esame le seguenti otto dimensioni: la comunicazione interpersonale, l’organizzazione dell’ambiente (aula scolastica), la familiarità con il curriculum, la flessibilità negli obiettivi curricolari, la progettazione didattica, le attività di insegnamento, il management della classe e la valutazione. Nello specifico, le dimensioni del questionario sono le seguenti:
1. Comunicazione interpersonale: questa dimensione riguarda non solo la comunicazione verbale ma anche quella non verbale e paraverbale. Le componenti più importanti sono il senso dell’umorismo, la condivisione sincera e l’interpretazione silenziosa degli indizi non verbali. Gli item che compongono questa dimensione sono i seguenti: 1, 9 e 17. Gli stessi autori scrivono : “Teachers also begin to give and take ideas, develop respect for a different communication style, increase their appreciation of the humor of some classroom situation, and increase their own use of humor in communication. […] The teachers use more nonverbal communication, and they often develop nonverbal signals to communicate ideas.“ (Gately e Gately, 2001, p. 41) 2. Organizzazione dell’ambiente: in questa dimensione la parola ambiente non indica solo il setting della classe ma tutto il contesto scolastico ed extrascolastico che ruota attorno allo studente, come evidenzia l’ICF. Le tre affermazioni riconducibili a questa dimensione riguardano il sentirsi a proprio agio nel muoversi liberamente nella classe (item 2), il condividere con il partner tutti i materiali (item 10) e il disporsi in modo “fluido” nello spazio d’aula (item 18). 3. Familiarità con il curricolo: ”Acquiring a knowledge of the scope and sequence and developing a solid understanding of the content of the curriculum, however, are essential in progressing to the collaborative stage.” (Gately e Gately, III. Esiti di ricerca
4.
5.
6.
7.
8.
2001, p. 43). Conoscere e utilizzare con competenza il curricolo di insegnamento è fondamentale per entrambi gli insegnanti e gli item compresi in questa dimensione si riferiscono al comprendere gli obiettivi di apprendimento relativi ai contenuti disciplinari (item 3), avere familiarità con i metodi e i materiali propri dell’area disciplinare (item 11) e sentirsi sicuro della propria conoscenza dei contenuti curricolari (item 19). Flessibilità negli obiettivi curricolari: lo scopo di questa dimensione è sottolineare quanto gli insegnanti siano disposti ad essere flessibili non solo per gli alunni in situazioni di disabilità o che presentano bisogni educativi speciali ma per tutti gli studenti, rendendo la scuola realmente inclusiva. Le affermazioni coinvolte riguardano il concordare le finalità didattiche della classe (item 4), prevedere e includere modifiche agli obiettivi per gli studenti che ne necessitano (item 12) e nel momento della progettazione, tenere conto degli obiettivi di individualizzazione o personalizzazione (item 20). Per mettere in pratica tutto questo “the teachers need to discuss goals, accomodations, and modifications that will be necessary for specific students to be successful.” (Gately e Gately, 2001, p. 43). Progettazione didattica: questa dimensione rappresenta il primo momento di dialogo e responsabilità condivisa nel processo di co-insegnamento. Progettare comporta essere flessibili anche con cambiamenti durante la lezione (item 5), progettare la lezione è una responsabilità condivisa (item 13) e dedicare tempo alla progettazione (item 21) sono le tre affermazioni riconducibili alla quinta dimensione. Attività di insegnamento: il co-teaching prevede che la seconda fase sia proprio il co-insegnamento in senso stretto. Gately & Gately descrivono questa dimensione dicendo: “[...] both teachers participate in the presentation of the lesson, provide instruction, and structure the learning activities.” Le affermazioni relative a questa dimensioni riguardano lo scambiarsi spesso i ruoli anche nella gestione della lezione (item 6), il passarsi liberamente il gesso (item 14) e aiutare gli studenti a far riconoscere entrambi i docenti come partner di pari importanza (item 22). Management della classe: dimensione che riguarda la gestione della classe, le relazioni con i colleghi, gli alunni ma anche le loro famiglie e la dirigenza scolastica. Individuare congiuntamente insieme al partner di insegnamento le regole e le abitudini della classe (item 7), utilizzare una varietà di tecniche di gestione della classe per migliorare l’apprendimento (item 15) e condividere la responsabilità della gestione del comportamento (item 23) sono i tre item relativi a questa dimensione. Valutazione: dimensione che riguarda il processo valutativo e in particolare, la necessità di avvalersi di molteplici procedure (item 8), il fatto che si possano apportare modifiche anche in itinere (item 16) e la questione riguardante gli obiettivi individualizzati e personalizzati (item 24).
L’intervista è stata costruita tenendo presenti le stesse otto dimensioni appena descritte e, come affermato in precedenza, ha avuto lo scopo di approfondire il dato quantitativo ricavato tramite il questionario.
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Analisi dei dati
Dati quantitativi
Una prima analisi effettuata sui dati del questionario ha avuto l’obiettivo di confrontare le medie di risposta rispetto ai due piani, ideale e reale, tenuti in considerazione per ciascun item dello strumento. Ciò al fine di esplorare il divario tra i due piani e tentare di comprendere quanto scarto esista tra il grado di importanza attribuito alle dimensioni che caratterizzano la pratica del co-teaching e il livello di effettiva implementazione dei comportamenti e delle pratiche descritti nel questionario. Dalla tabella sottostante, che riporta i dati aggregati per dimensioni, è possibile constatare che, in riferimento a tutte e otto le dimensioni del questionario, le medie delle risposte ideali sono più alte di quelle reali. Le prime, infatti, si collocano su un livello della scala che va da “abbastanza” e “molto”, mentre le medie delle risposte reali si posizionano tra “abbastanza” e “poco”. Come ipotizzato, l’importanza attribuita a livello ideale alle componenti del co-teaching risulta più elevata rispetto a quanto è sperimentato quotidianamente nella realtà della situazione didattica. Questo dato suggerisce che per i docenti coinvolti la collaborazione nell’insegnamento viene percepita nella sua rilevanza e che di conseguenza, se supportati, potrebbero mettere in pratica nella situazione didattica quotidiana gli aspetti che ne consentono la realizzazione.
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Si è quindi proceduto con l’elaborazione di un’analisi che ci permettesse di comprendere se alcune variabili, raccolte nella parte iniziale del questionario, come il genere, il grado scolastico in cui i docenti insegnano, l’età e il ruolo (curricolare o specializzato per le attività di sostegno), potessero aver influito sulle risposte evidenziando differenze statisticamente significative in riferimento alle otto dimensioni del co-teaching. Le analisi sono state condotte separatamente per le risposte sul piano ideale e per quello reale. Di seguito saranno presentate le analisi in cui sono emerse tali differenze. Considerando la variabile “grado scolastico”, sono emerse differenze in due delle otto dimensioni, relativamente al livello reale. Le due dimensioni sono: ProIII. Esiti di ricerca
gettazione didattica (F=3.895; Sig.=0.010) e Attività di insegnamento (F=4.408; Sig.=0.005). In particolare, dai confronti post-hoc è possibile evidenziare che le differenze si riscontrano tra la scuola primaria e la secondaria di secondo grado, per entrambe le dimensioni coinvolte. Come si può constatare dalla tabella sottostante, le medie relative alla scuola primaria sono in entrambi i casi più alte rispetto alla scuola secondaria suggerendo quindi come le attività di progettazione e insegnamento condivisi rappresentino una realtà molto più frequente nella scuola primaria. Si tratta di un dato “atteso”, se si pensa anche alle ore dedicate alla progettazione condivisa in questo grado scolastico, al contrario di quanto avviene nella secondaria. !"#$%&'&()%*#&+,#-%+./,#&0&1#"2)#"./&3#+.&4#,&5&!"#$"! 6/78"+/#"/&& 1#098%,:/";&! 3)#;8..%>/#"8& */*%../,%!
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Un altro dato interessante riguarda il ruolo dei docenti coinvolti nella ricerca (curricolari vs. specializzati per il sostegno). Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative in base a questa variabile, è stato utilizzato il t di Student, che ha permesso di evidenziare differenze significative: le risposte degli insegnanti specializzati per il sostegno presentano medie più alte rispetto ai colleghi curricolari nelle stesse due dimensioni del co-teaching emerse nelle analisi precedenti, ossia Progettazione didattica e Attività di insegnamento. A livello ideale, gli insegnanti specializzati per il sostegno (M= 8.533) percepiscono in misura maggiore l’importanza di una progettazione condivisa rispetto ai docenti curricolari (M=7.579), così come per un’attività congiunta di insegnamento (M=7.766; M=6.968). Una possibile spiegazione di questo dato è da ricercare probabilmente nel ruolo stesso del sostegno, che in misura maggiore rispetto all’insegnante curricolare, sente il bisogno di condividere una progettualità e un’attività didattica per il bambino e per la classe. Anche in altre indagini, tra cui Canevaro et al. (2011), è stata messa in luce non solo l’importanza che per i docenti assumono dimensioni come la condivisione e la partecipazione in una proanno IV | n. 1 | 2016
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spettiva inclusiva, ma anche il fatto che se tali valori diventano un patrimonio comune, acquistando importanza per tutti e non solo per alcuni, ciò rappresenta un vantaggio per l’intera classe. Dati qualitativi
176
Le analisi9 delle interviste fanno emergere in particolare che dimensioni considerate significative per facilitare la realizzazione di tale pratica siano da attribuire all’instaurarsi di una relazione positiva tra colleghi basata sulla comunicazione interpersonale. Tale dimensione è caratterizzata da rispetto reciproco, apertura all’altro, condivisione, collaborazione, conoscenza e sinergia nelle azioni in stretta relazione con la famiglia e gli altri interlocutori della scuola. In tal modo si riesce ad instaurare una relazione con il collega in cui vi è armonia e schiettezza, nel rispetto di ciascuno. È necessario avere la capacità di mettersi in discussione, determinazione e pazienza, disponibilità e umiltà. La costruzione di una relazione positiva in cui i docenti possano sentirsi a proprio agio necessita di un fattore importante quale è il tempo. A tal proposito alcune insegnanti (7/20) affermano che il turn-over degli insegnanti di sostegno rappresenta una barriera: “ogni anno arriva un’insegnante diversa per i bambini. Non c’è continuità e quindi è difficile creare rapporti, bisogna ripartire sempre da zero per creare la relazione col collega e con i bambini”. Proprio per questo motivo le insegnanti (5/20) lamentano come sia difficile creare un rapporto con una nuova insegnante per il sostegno. Rispetto alla relazione tra colleghi, le difficoltà maggiori sono di tipo relazionale (7/20), oppure di estrema chiusura rispetto alle colleghe (5/20) e dovute alla mancanza di sinergia nelle azioni (5/20). Può capitare quindi di trovarsi in situazioni in cui “l’insegnante non ti calcola, le sei di peso, non riesce e non vuole condividere l’attività”, “l’insegnante curricolare non lascia spazio per agire”, “le insegnanti non si capiscono tra di loro”, “se le insegnanti si scontrano, non collaborano, non si capiscono, non fanno le attività insieme, questo va a discapito dell’intera sezione”. Tutte queste variabili confluiscono nella difficoltà di collaborare con un collega con cui inizialmente è necessario creare una relazione positiva per costruire pratiche condivise. Una dimensione fondamentale del co-teaching, insieme al co-insegnamento e alla co-valutazione, riguarda la co-progettazione didattica da parte dell’insegnante curricolare e di sostegno per i bambini con disabilità e per l’intera classe: “io come insegnante di classe mi metto d’accordo con l’insegnante per il sostegno per realizzare un percorso con i bambini che sia adeguato alla loro capacità, ossia si riducono gli obiettivi, si adatta il programma, si semplifica il linguaggio o si usano mediatori più efficaci”. In essa gli insegnanti definiscono i ruoli, e le responsabilità, durante la gestione della lezione, e tutto questo permette di creare un ambiente favorevole per il co-teaching e facilitare l’attenta considerazione delle esigenze individuali e di gruppo per garantire benefici a ciascun bambino all’interno del contesto inclusivo. Di nuovo la dimensione del tempo risulta fondamentale su due livelli: non solo vi è bisogno di una pianificazione a livello di classe, ma
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Le interviste sono state analizzate attraverso il software Atlas.ti.
III. Esiti di ricerca
questo è un processo essenziale che deve avvenire anche a livello di istituzione scolastica. In questo caso l’istituzione scolastica può fornire risorse adeguate destinate a supporti e servizi per favorire il co-teaching, può creare un calendario degli orari per l’insegnamento che risultino gestibili ed efficaci e attuare un sistema di supporto per affrontare i problemi che si presentano. Questo sistema di pianificazione a più livelli consente un maggiore input nella creazione di un ambiente più inclusivo da parte di tutto il personale scolastico condivisibile anche dalle famiglie e dai membri della comunità. Inoltre, una progettazione collaborativa permette di essere flessibili nell’individuazione degli obiettivi curricolari. Diviene importante “essere flessibili nell’individuazione dei percorsi, di cambiarli e modificarli in base alle variabili che possono entrare in classe, perché anche il bambino con disabilità è una variabile che porta del positivo se tu sai coglierla, mentre porta del negativo se non sai coglierla”. Per quanto riguarda le attività di insegnamento alcuni insegnanti (6/20) sostengono che il co-teaching si verifica quando vi sono due insegnanti presenti nella stessa classe con lo stesso gruppo di bambini e quando le insegnanti si suddividono rispettivamente i ruoli e il lavoro: “in classe deve esserci non una divisione ma una collaborazione per cui ci si suddivide gli argomenti da trattare e in che modo ci si può anche scambiare i ruoli in modo che l’insegnante per il sostegno spieghi una parte di programma mentre l’insegnante di classe resti vicino al bambino con disabilità”. Questo offre agli studenti che possono beneficiare della pratica del co-insegnamento, la possibilità di fruire di un ambiente organizzato in modo tale da offrire esempi di collaborazione: “il bambino che vede due insegnanti che lavorano insieme impara a diventare a sua volta collaborativo e a mettersi in discussione rispetto al fatto di lavorare cooperativamente con un compagno”. La presenza in classe di due insegnanti (uno curricolare e l’altro di sostegno) viene considerata da molti insegnanti come una risorsa in più per la classe perché entrambi insieme possono rappresentare un punto di riferimento per i bambini, possono intervenire indistintamente per risolvere un problema, possono offrire aiuto per gestire la situazione in classe, possono vedere quello che l’altro insegnante non riesce a vedere, “essere in due al posto di uno: due teste, quattro occhi, quattro orecchi, quattro mani, fanno sicuramente meglio di una”. È necessaria particolare attenzione da parte degli insegnanti affinché la spiegazione contemporanea dei due docenti non determini nei bambini distrazione e disorientamento e soprattutto è fondamentale, per favorire questi momenti, la possibilità che gli insegnanti siano fisicamente presenti in classe nello stesso momento. Poter condividere le attività di insegnamento significa anche condividere le pratiche di insegnamento tra colleghi in modo tale da evitare che alcuni docenti non siano disponibili a modificare il proprio stile di insegnamento considerato da altri, tradizionale. Impegnarsi tra colleghi nella pratica del co-insegnamento permette di favorire l’apprendimento reciproco tra insegnanti. A tal proposito, un insegnante riporta: “Ognuno se porta la propria esperienza, i propri saperi e le proprie conoscenze, diventa insegnante a sua volta dell’altro insegnante. È una cosa reciproca. Tu insegni a me e io insegno a te”. In riferimento alla gestione della classe, alcuni aspetti considerati positivi sono la suddivisione dei ruoli e del lavoro, e la possibilità di avere supporto nei momenti in cui si incontrano delle difficoltà. “Lavorare assieme, avere due punti di vista, scambiarsi le competenze, arricchire quello che da solo non sei in grado di fare, avere un anno IV | n. 1 | 2016
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supporto pratico e alleggerire il lavoro dell’altro perché così ci si può dividere il lavoro tra gli alunni”. Diventa significativo per gli insegnanti condividere quindi, una comunione di intenti per la realizzazione delle attività che coinvolgono anche il bambino con disabilità (collaborazione tra insegnanti nella gestione del bambino con disabilità). Al contrario, quando gli insegnanti non riescono a collaborare tra loro in modo efficace, essi fanno percepire all’intera classe che l’insegnante per il sostegno non è l’insegnante della classe e li sottopongono ad una gestione della lezione non condivisa e collaborativa in cui gli insegnanti possono contemporaneamente fare cose diverse e fornire spiegazioni diverse provocando disorientamento e confusione. Un insegnante curricolare della scuola dell’infanzia a tal proposito afferma: “Se non c’è collaborazione e non ci si capisce tra le insegnanti questo va a svantaggio dei bambini che possono essere inseriti in un brutto clima di classe e, soprattutto, del bambino con disabilità che non è inserito nella classe e nelle attività che fanno i compagni”. Infine, la co-valutazione, intesa come il mezzo tramite il quale i docenti che praticano il co-insegnamento possono essere attivamente coinvolti nella discussione e nella condivisione delle loro concezioni e delle corrispondenti pratiche riguardanti la valutazione (Ghedin et al. 2013; Aquario, 2015) è una delle dimensioni del coteaching che viene lasciata sullo sfondo. Sembra quasi che questa dimensione non venga considerata come parte integrante del co-insegnamento e rimanga al contrario una pratica che gli insegnanti, curricolare da un lato e di sostegno dall’altro, svolgono autonomamente senza la previsione di momenti di collaborazione e condivisione delle visioni, delle pratiche e delle metodologie valutative implicate per favorire l’apprendimento di tutti gli studenti.
5. Discussione
Il co-teaching si basa sul presupposto che gli insegnanti non devono essere responsabili individualmente per gli alunni e per il loro apprendimento. Un senso di sicurezza e di fiducia può incoraggiare gli insegnanti a sviluppare da un punto di vista professionale la condivisione delle conoscenze e delle pratiche favorendo l’apprendimento gli uni dagli altri e in comune. Gli esiti della nostra indagine, in accordo con quella di Gately e Gately (2002), ci fanno propendere per l’individuazione di tre stadi di expertise che riguardano la realizzazione della pratica del co-teaching ma che offrono anche una visione più generale sulle concezioni e sulle pratiche degli insegnanti. Gli stadi individuati sono i seguenti:
– stadio del “principiante”, caratterizzato da una comunicazione superficiale, una scarsa attenzione nei confronti dell’organizzazione dell’ambiente, un management della classe affidato ad un solo docente e modalità di valutazione che si potrebbero definire “tradizionali”; – stadio del “compromesso”, in cui la comunicazione diventa più aperta e interattiva e vi è un’attenzione all’organizzazione dell’ambiente classe, tuttavia sembra che gli insegnanti in questo stadio debbano rinunciare a qualcosa per poter ottenere qualcos’altro in cambio; – stadio della “collaborazione”, che rappresenta lo stadio più avanzato, caratIII. Esiti di ricerca
terizzato da una comunicazione e un’interazione autentiche tra colleghi, un alto grado di ben-essere nella relazione, e una situazione in cui i partner lavorano insieme e si completano a vicenda, a tal punto che risulta spesso difficile distinguere tra i due ruoli, curricolare e sostegno.
I nostri risultati suggeriscono che i docenti interpellati mettono in luce il fatto che sul piano ideale una pratica di insegnamento collaborativo possiede numerosi aspetti positivi, attribuendo importanza ad elementi come la comunicazione aperta e sincera tra i co-docenti, il riconoscimento come partner di pari importanza da parte degli studenti e la sensazione di agio nel muoversi liberamente nello spazio dell’aula (item che hanno ricevuto le più alte frequenze di risposta al livello massimo della scala ideale: questo significa che circa l’80% dei docenti ha risposto “molto” a questi item). Tuttavia, le cose cambiano quando ci si sposta su un piano di realtà: l’importanza di questi aspetti viene riconosciuta ma cala il livello di riscontro in una situazione reale. Le analisi delle interviste confermano la percezione di importanza data a questi stessi aspetti e aiutano anche a comprendere le ragioni di questa distanza tra ideale e reale. Il tempo, le risorse strutturali messe a disposizione dalla scuola, il turn-over sono solo alcuni degli elementi messi in luce dalle insegnanti intervistate e che possono aiutare a spiegare alcuni vincoli di natura contestuale che rendono impegnativa la messa in atto di un processo di collaborazione significativo e fanno sì che in molti casi ci si fermi allo stadio del “principiante”. Nella pratica molti esempi di co-insegnamento non possiedono queste caratteristiche collaborative, o produttivamente creative, e ciò è probabilmente dovuto al fatto che alcuni modelli hanno un carattere top-down e imposto. Come alcuni studi sostengono (Friend et al., 2010; Gurg & Uzuner, 2011), numerose possono essere le barriere rispetto all’implementazione di pratiche di co-teaching, come conflitti tra stili di insegnamento e problemi strutturali e pratici nello stabilire una utile progettazione e incontri di riflessione. A questo proposito, anche dai nostri dati è emerso che una barriera particolarmente difficile da superare riguarda il turn-over degli insegnanti per il sostegno che rende difficile l’instaurarsi di tutta quella serie di dimensioni considerate importanti per la realizzazione di tale pratica come la fiducia nell’altro, la collaborazione, l’apertura, che sono aspetti di una relazione che necessitano probabilmente di tempo per poter essere messi in campo. Tale barriera poi compromette altri fattori come la difficoltà di collaborare, la maggiore programmazione necessaria per la sua realizzazione e il non riconoscimento del ruolo di co-docente. Murray (2004) infatti sottolinea come la chiusura degli insegnanti e lo scarso tempo disponibile per la collaborazione siano alcuni dei possibili ostacoli all’implementazione di tale pratica. Sia dalle interviste sia dai questionari è possibile inoltre dedurre un ulteriore spunto di riflessione, che riguarda la collaborazione nella sua essenza meno concreta: non la collaborazione in aula che si esprime con la condivisione dei materiali, con il passarsi il gesso, con l’uso di tecniche didattiche specifiche, ma la condivisione di una “filosofia del collaborare”: quando due insegnanti adottano la pratica del co-teaching dovrebbero condividere una filosofia comune sui concetti di educazione e di co-teaching. La filosofia comune sul co-teaching dovrebbe essere quella di favorire una pratica inclusiva come mezzo per valorizzare i funzionamenti (ICF-CY, OMS, 2007) di ogni alunno promuovendone la partecipazione anno IV | n. 1 | 2016
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alle diverse attività, attraverso la possibilità di fare esperienza di un ambiente di apprendimento in cui gli insegnanti collaborano tra loro per favorire il ben-essere di tutti gli studenti (Bauwens & Hourcade, 1995; Ghedin et al., 2013). A questo proposito, proprio in riferimento alla “filosofia del collaborare” e in riferimento al fatto che la scuola rappresenta una comunità educante, possiamo evidenziare come un limite di questa ricerca il mancato coinvolgimento di altri attori importanti nella scena scolastica, che pure potrebbero, tramite l’esplicitazione del loro punto di vista, contribuire a fornire elementi utili per il dibattito. Proprio per questa ragione, si ritiene che le piste future di ricerca debbano essere necessariamente orientate verso il coinvolgimento di altri interlocutori che sostengono le azioni del co-progettare, co-insegnare e co-valutare nella prassi, come i Dirigenti scolastici (attraverso un’indagine sulla loro capacità di fare rete, della corresponsabilità e della collaborazione) e le famiglie, che possono contribuire a creare un clima positivo e favorevole alla messa in pratica di un’azione didattica basata sulla collaborazione. I risultati della ricerca suggeriscono, quindi, numerose e interessanti piste di approfondimento per progettare percorsi di formazione / aggiornamento di tipo riflessivo allo scopo di implementare pratiche collaborative in classe (Profilo dei Docenti inclusivi, European Agency for Development in Special Needs Education, 2012). Il co-teaching rappresenta una opportunità per gli insegnanti di apprendimento e di crescita nella prassi. I docenti, infatti, aumentano il proprio repertorio di azioni virtuali a loro disponibili in ogni momento, e in modo immediato, e tale repertorio di azioni virtuali fornisce loro il necessario spazio di manovra nella prassi (Roth et al., 1999). La collaborazione diventa in questo modo un mezzo sia per costruire ulteriore conoscenza sia come repertorio condiviso (Rytivaara, 2012) sul quale i docenti possono contare per avviare e favorire uno sviluppo inclusivo della classe a loro affidata. Ecco allora che potrebbe diventare utile individuare un repertorio di buone prassi orientate a favorire e realizzare la pratica del co-teaching a cui gli insegnanti possano attingere. L’essenza di questa visione è che ogni scuola dovrebbe diventare un luogo in cui non solo gli alunni, ma anche gli insegnanti possono crescere al massimo delle loro possibilità. Perché ciò si realizzi, il contesto professionale dovrebbe essere sviluppato in modo tale da rendere chiaro che la collaborazione comporta sfide significative per lo sviluppo professionale, senza che questo implichi per gli insegnanti essere costretti ad abbandonare la loro autonomia (Clement, Vandenberghe, 2000). La possibilità di seguire un percorso di buone prassi è quindi la necessità di mettere in moto progressivamente la costruzione di un modello più reale e che si perfeziona in itinere, un modello che, come sostiene A. Canevaro, ha anche una portata sociale perché la buona prassi si misura dal ben-essere dell’intero contesto socio-culturale in cui ad esempio le pratiche di co-teaching si promuovono e sviluppano. Quello che diventa significativo è la contaminazione che tale pratica può favorire creando, come abbiamo già avuto modo di esplicitare, contesti di imitazione positiva di relazione di cura, che promuovano il fiorire di bambini e professionisti verso il ben-essere comune.
III. Esiti di ricerca
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III. Esiti di ricerca
Il coinvolgimento paterno nella cura dei figli con/senza disabilità. I territori comuni dell’educare
This article describes the results of the study “Being fathers, today: a research on paternal involvement in the child care”, that represents the second phase of a previous research “The educational role of fathers with children with disabilities”. Particular attention will be paid to the issue of “paternal evaporation”, seeking however also to underline which important peculiarities the “male” can bring to parental education, starting from the experience of 59 fathers with little children (some with disabilities and others without disabilities). Fathers, through their own eyes, offered their impressions on the so-called “new father”, the main educational tasks characterising everyday life and the impacts of their son on themselves in order to underline the “ordinary territories” in education parental.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: Fathers, care, educational tasks, disability.
III. Esiti di ricerca
Il contributo è stato interamente condiviso dalle due autrici, tuttavia i paragrafi 1, 2, 3, 5 e la bibliografia sono stati scritti interamente da Alessia Cinotti, mentre il paragrafo 4 è stato scritto da entrambe le autrici, Alessia Cinotti e Francesca Basile.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Alessia Cinotti / Università di Bologna/ alessia.cinotti2@unibo.it Francesca Basile / Laureata in Pedagogia/ francesca.basile4@studio.unibo.it
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1. Introduzione
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Il presente lavoro2 va considerato come un segmento del più ampio progetto di ricerca triennale3, dal titolo La figura del padre nelle famiglie con un figlio disabile4, volto ad indagare l’apporto educativo che la figura paterna può portare nell’educazione familiare. Tale lavoro ha offerto una prospettiva sull’educare parentale che potremmo indicare al “maschile”, attraverso il coinvolgimento di novanta padri che ci hanno consentito di tracciare le principali caratteristiche della paternità, oggi. La ricerca si è mossa attorno ad alcuni interrogativi – “chi” sono i padri dei bambini disabili? Quali compiti educativi caratterizzano la figura paterna? Come si delineano le funzioni genitoriali nelle situazioni di disabilità? – che hanno indirizzato il nostro lavoro verso la “scoperta” di uno dei temi meno indagati nell’ambito della Pedagogia Speciale. I dati della ricerca5, sempre temporanei e soggetti a continue revisioni, ci hanno lasciato intravedere che quello che accade tra un padre e un figlio disabile ha certamente dei “territori comuni” rispetto a ciò che caratterizza la paternità nei confronti di un figlio non disabile, seppur con delle specificità proprie di ogni situazione. Questa suggestione è diventata l’ipotesi di partenza di una seconda fase di lavoro, più circoscritta, che ha previsto la partecipazione di un gruppo misto di padri (con figli con e senza disabilità). Partendo, dunque, dall’esperienza dei padri che si confrontano con la disabilità di un figlio (e da quello che ci insegna la letteratura), abbiamo messo a “confronto” padri che hanno figli disabili con quelli che non vivono la medesima situazione, al fine di cogliere, innanzitutto, le analogie dell’educare parentale, a partire dal coinvolgimento paterno nel lavoro di cura. La letteratura sull’argomento mette, infatti, in luce un padre sempre più attivo e partecipe nella crescita dei figli, mostrando un inedito coinvolgimento affettivo nel rapporto educativo (Lamb, 2010; Argentieri 1999). Questi sono i se2 3 4
5
Essere padri, oggi: una ricerca sul coinvolgimento paterno nella cura dei figli. Coordinamento Dott.ssa Alessia Cinotti; Supervisione scientifica: Prof.ssa Roberta Caldin. La ricerca è stata condotta insieme alla dott.ssa Francesca Basile, laureata in Pedagogia con il massimo dei voti (Laurea Magistrale presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione – Università di Bologna). Condotto dalla Prof.ssa Roberta Caldin e dalla Dott.ssa Alessia Cinotti – Università di Bologna. La ricerca nasce e si sviluppa in partenariato con l’Università di Roma Tre (Prof. Fabio Bocci e Dott.ssa Francesca Maria Corsi), l’Università di Padova (Dott. Simone Visentin) e l’Université Catholique de Lyon in Francia (Prof.ssa Margherita Merucci). Il gruppo di ricerca, con un approccio olistico e longitudinale, ha scelto di indagare la figura del padre attraverso angolature differenti, individuando come criterio “spartiacque” l’età dei figli: infatti, l’Università di Bologna si è occupata dei padri con figli 0-6 anni; l’Università di Roma Tre ha coinvolto i padri con figli 6-10 anni e l’Università di Padova ha approfondito il ruolo dei padri con figli adolescenti e/o giovani adulti. L’Université Catholique de Lyon ha, invece, rappresentato l’elemento dell’interdisciplinarietà, mediante una dimensione clinica alla tematica. Cfr. Cinotti, A., Caldin, R. (Eds.). (2016). L’educare dei padri. Teorie, ricerche, prospettive e disabilità. Napoli: Liguori (in corso di stampa); Cinotti, A. (2015). Il ruolo educativo dei padri. Disabilità e nuove sfide a sostegno della genitorialità. Formazione & Insegnamento, 2, 191-200; Cinotti, A. (2013). Essere padri: inclusi o esclusi? Uno sguardo sulla funzione paterna nella disabilità. Formazione & Insegnamento, 1, 53-62; Caldin, R., Cinotti, A. (2013). Padri e figli/e disabili: vulnerabilità e resilienze. Studium Educationis, 3, 93-102; Cinotti, A., Corsi, F.M. (2013). L’educare dei padri con figli/e disabili. Riflessioni pedagogiche e progetto di ricerca. Italian Journal of Special Education for Inclusion, 2, 133-145.
III. Esiti di ricerca
gnali più significativi che riguardano i mutamenti dell’identità paterna, che si raccordano ad una rarefazione del valore simbolico del padre – come la norma, la legge, l’iniziazione alle macro-regole sociali, la separazione – con importanti ricadute sull’educazione (Recalcati, 2014; 2011; Risé, 2003).
2. I padri: a che punto siamo arrivati?
Parecchi studiosi ritengono ancora particolarmente interessante l’affermazione di Mitscherlich (1970) che, agli inizi degli anni Settanta, alludeva ad un “impallidire dell’immagine paterna” che – in termini pedagogici – si raccorda(va) ad un impallidire educativo, in un momento storico caratterizzato da un generalizzato ripensamento dei ruoli e delle funzioni genitoriali. È indubbio che dallo scritto di Mitscherlich molte cose siano cambiate; ma non possiamo non cogliere l’attualità del suo pensiero, considerando che i mutamenti che hanno coinvolto il ruolo paterno sono andati nella direzione preannunciata dallo psicologo tedesco. Della sua analisi, è importante ricordare, in questa sede, ai fini di una riflessione a carattere educativo, la preoccupazione di Mitscherlich nei confronti di una società orizzontale, non più di “padri” e “figli”, ma di “fratelli”. La “società orizzontale” si può raccordare alla difficoltà educativa che i genitori esprimono nel presidiare le funzioni normative – che sembra essere l’area più fragile dell’educare parentale – tendendo ad assumere uno stile educativo “orizzontale”, “amicale” e “fraterno”. Dal “padre autoritario” al “nuovo padre”, il passaggio è alquanto evidente: i genitori, oggi, sembrano osservatori molto attenti e protettivi, ma passivi; curiosi, ma prudenti e diffidenti; premurosi e amorevoli, ma insicuri nell’effettuare scelte educative “impopolari” – come il diniego, il limite, la frustrazione – nel diffuso convincimento, tra i genitori, che si è amati nella misura in cui, con i figli, si “cede” e si “dà” (Caldin, 2015; Recalcati, 2011). Gli adulti non appaiono più “minacciosi”, autarchici e invulnerabili, bensì vulnerabili e fragili che hanno bisogno di essere amati e riconosciuti dai loro figli. Recalcati (2011) afferma che il padre sembra, oggi, molto più preoccupato di farsi amare dal figlio piuttosto che di educarlo: il suo “compito” – o forse il suo bisogno – primario consisterebbe nel nutrire e nel farsi nutrire, attraverso un rapporto intersoggettivo basato su una relazione affettiva: […] questa esigenza è inedita e ribalta la dialettica del riconoscimento: non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli. In questo modo la dissimmetria generazionale viene ribaltata. Per risultare amabili è necessario dire sempre “Sì”, eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudodemocratico del dialogo […] È un nuovo mito della nostra civiltà: dare tutto ai figli per poter essere amati (pp. 108-110).
In tal senso, l’investimento affettivo (e psicologico) nei confronti del figlio è molto forte, il quale viene visto come parte costitutiva dei genitori e come prolungamento della propria identità con una funzione di ri-conferma di se stessi
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nel tempo e nel mondo esterno (Miller, 1996). I genitori, in questo senso, sono molto ansiosi di proteggere i figli da ogni forma di fallimento che coinciderebbe, in un certo senso, con il proprio scacco personale, andando a limitare le attese narcisistiche genitoriali. La disabilità è un avvenimento che tende ad amplificare l’insicurezza educativa dei genitori: la costante necessità di cure rischia di accentuare i toni dell’impallidire educativo, non permettendo al padre di intravedere nessun’altra funzione se non quella “accudente” (to care) e “curante” (to cure). In tali modelli familiari, soprattutto se caratterizzati da una situazione complessa, il padre sembra essere “appiattito” in un travestimento materno che non gli permette di giocare altri ruoli se non quello di alter ego della madre. L’autorità paterna si è così trasformata, nel corso del tempo, in cura paterna (Covato, 2002); attraverso questa, il padre è riuscito a trovare un “modo nuovo” di stare in famiglia, dovendo, però, necessariamente perdere spazio sul piano normativo. È all’interno di tale processo che possiamo collocare quello che qualche studioso indica come il fenomeno del cosiddetto “padre materno” (Argentieri, 1999) che indica:
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uomini capaci di rivoltare abilmente il neonato da cambiare, disponibili ad alternarsi con la madre al biberon o ad accorrere se il piccolo si sveglia di notte; sensibili e gentili, sono in grado di assolvere a tutte le funzioni del ‘maternage’ con grande naturalezza […] e – soprattutto – senza lo scompiglio emotivo che contraddistingueva i padri di un tempo, imbarazzati solo a tenere in braccio un neonato, in grado di comunicare con i figli solo che avessero imparato sport e congiuntivi (p. 7).
Tale fenomeno si esprime in una sostanziale omogeneizzazione genitoriale dove i padri e le madri sembrano ben “disponibili” a soddisfare tutti quei compiti indispensabili per la crescita di un bambino – come nutrirlo, lavarlo, vestirlo, metterlo a letto, coccolarlo ecc. – che si manifesta, nella prassi educativa, in una eccedenza di valori di “area materna”. Ciò si identifica con la capacità del genitore – indipendentemente dal genere – di accogliere, nutrire, curare, proteggere, sostenere, soddisfare i bisogni e i desideri dei figli, attraverso modalità educative che tendono a favorire le situazioni di dipendenza (Chirico, 1985). Come si evince, la letteratura di area psico-educativa tende a proclamare con forza la presenza di un padre accudente, ampiamente coinvolto nella cura dei figli, con delle modalità educative e relazionali che vertono maggiormente sull’area “materna”. Si intravede una figura paterna molto più poliedrica e complessa rispetto a quella del passato; forse meno definibile, ma senz’altro più reale (invece che simbolica), seppur più fragile da un punto di vista educativo. Per contro, invece, gli studi di ambito sociologico si mostrano maggiormente cauti nel ritrarre l’immagine di un padre così partecipe nella gestione dei figli, anche se, indubbiamente, “gli uomini stanno progressivamente iniziando a ritagliarsi un posto all’interno delle mura domestiche, contribuendo attivamente alla gestione familiare” (Crosta, 2008, p. 50). Questi studi indicano che ci troviamo di fronte a “segnali positivi, ma deboli”: se le disuguaglianze tra padri e madri – in termini di responsabilità legate alla cura – potrebbero risultare più contenute rispetto al passato, la crescente partecipazione femminile nel mercato del lavoro non è ancora stata accompagnata da un’alIII. Esiti di ricerca
trettanto significativa partecipazione maschile nei compiti di cura. In tal senso, secondo i sociologi, il tempo che i padri dedicano alla cura dei figli è tendenzialmente discontinuo, limitato ad alcune attività (come, ad esempio, mettere a letto i bambini alla sera) e, soprattutto, esercitato in situazioni di “emergenze” e/o quando non si può ricorrere ad aiuti esterni (Zajczyk, Ruspini, 2008; Tanturri, 2005).
3. La metodologia della ricerca
La ricerca “Essere padri, oggi: una ricerca sul coinvolgimento paterno nella cura dei figli” è stata realizzata negli anni 2015/16, attraverso il coinvolgimento di padri con figli piccoli, con o senza disabilità. Come già scritto in apertura di questo contributo, il presente lavoro va considerato come un approfondimento (fase 2) della ricerca “La figura del padre nelle famiglie con figli disabili”, che si è conclusa nel mese di dicembre 2014. La seconda fase di ricerca si è mossa attorno ad una principale ipotesi che afferma: l’idea di padre accudente potrebbe indicare una realtà diffusa, nel senso che riguarda tutti i padri (con figli disabili o con figli senza disabilità). A partire dalla presenza, sulla scena familiare, dei “nuovi padri” e analizzando le modalità con cui i padri si prendono cura dei figli, ci domandiamo: quali sono i compiti di cura che tutti i padri svolgono con maggiore regolarità? Quali sono i “territori comuni” dell’educare parentale? Per rispondere a questi interrogativi, abbiamo predisposto un questionario semi-strutturato composto da domande chiuse (con opzioni di risposta su scala “mai”, “raramente”, “qualche volta”, “spesso” e “sempre”), semi-chiuse (che prevedono delle modalità di risposta pre-codificate) e aperte. Complessivamente, il questionario è stato suddiviso in tre sezioni: nella prima sezione sono state raccolte le informazioni socio-anagrafiche relative ai partecipanti della ricerca e, in generale, a tutti i membri della famiglia; nella seconda sezione è stato indagato il ruolo paterno nella gestione quotidiana, nella condivisione del lavoro di cura con la partner e nella partecipazione alle attività domestiche; e, infine, la terza sezione è servita a raccogliere il personale punto di vista dei padri sulla propria esperienza soggettiva (Per me, essere padre significa ….) e sulla propria idea di “disabilità” (Per me, la disabilità è...)6. I padri che hanno partecipato alla ricerca sono stati individuati grazie alla collaborazione di alcune strutture (sia pubbliche che private) della città di Bologna (Emilia Romagna) e della provincia di Pescara (Abruzzo), quali due ambulatori pediatrici, un centro di riabilitazione, una scuola di danza per bambini/e, un nido e una scuola dell’infanzia che ci hanno permesso di contestualizzare il nostro progetto di ricerca all’interno di cornici istituzionali ben definite. In riferimento alla scelta del nostro metodo di indagine, che predilige uno sguardo esplorativo, attraverso l’utilizzo di un questionario semi-strutturato, preferiamo parlare di “gruppo di riferimento” che appare essere la terminologia più appropriata con le nostre scelte metodologiche (Weiss, 1994). 6
Quest’ultima domanda è stata rivolta anche ai padri con figli senza disabilità.
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Per la formulazione del nostro “gruppo di riferimento” abbiamo stabilito alcuni parametri che ci hanno permesso di distinguere in modo chiaro “chi” potesse far parte dell’indagine, come avere un figlio o una figlia:
– con un’età compresa tra i due e i sette anni; – con disabilità o senza disabilità; – con una certificazione di integrazione scolastica (C.I.S.), nei casi di disabilità.
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In totale, sono stati distribuiti 70 questionari, 35 a padri con figli disabili e 35 a padri di figli senza disabilità. Di questi 70 questionari, 11 non sono stati restituiti alle ricercatrici, nei tempi e nelle modalità concordati. Quindi, il “gruppo di riferimento” relativo al questionario è composto da 59 padri in totale, di cui: 27 padri con figli disabili e 32 padri con figli senza disabilità. Complessivamente, per quanto concerne le informazioni socio-anagrafiche relative ai padri, vediamo che la distribuzione di frequenza dell’età è compresa all’interno di un range che varia dai 31 ai 54 anni, di cui: il 51% dei padri ha un’età tra i 41 e i 50 anni; il 42% ha un’età tra i 30 e i 40 anni e il restante 5% ha un’età oltre i 51 anni (una piccola percentuale di padri, cioè il 2%, non ha fornito la risposta relativa all’età). Rispetto al “titolo di studio”, le percentuali vengono così distribuite: il 45% dei padri ha conseguito il diploma di “scuola secondaria superiore”, il 32% possiede la licenza di scuola media inferiore, il 17% ha conseguito la laurea e, anche in questo caso, il 2% non ha fornito indicazioni circa il titolo di studio. Per quanto concerne le informazioni socio-anagrafiche dei figli, possiamo osservare che tutti i bambini sono nati tra il 2009 e il 2014: in particolare, il 15% nel 2009, il 30% nel 2010, il 19% nel 2011, il 17% nel 2012, il 13% nel 2013 e il 7% nel 2014. Quindi, l’81% dei bambini ha un’età compresa tra i quattro e i sette anni; mentre il restante 19% dei bambini ha due oppure tre anni. Infine, per quanto riguarda il sesso, il 53% è maschile e il 47% è femminile.
4. Padri “a confronto”
In questo paragrafo, riportiamo alcuni dei dati più significativi – in relazione agli interrogativi del presente contributo – focalizzandoci principalmente sul lavoro di cura paterno. Per esplorare questa dimensione dell’educare, abbiamo individuato tredici attività che riguardano, in senso ampio, la gestione e la cura dei figli, attraverso una suddivisione in tre categorie:
– attività di cura primaria, ossia quelle attività che vengono svolte quotidianamente e che potremmo definire come essenziali per il soddisfacimento dei bisogni fisiologici dei bambini (alimentazione, sonno, igiene personale ecc.); – attività ludiche e relazionali, ossia quelle attività che non definiamo essenziali per i bisogni primari e fisiologici, ma altrettanto importanti, e che si situano nell’area dei bisogni dell’appartenenza (giocare, fare le coccole, condividere esperienze ecc.); – attività di cura pratiche, ossia quelle attività legate maggiormente all’organizzazione della sfera familiare, che prevedono (o meno) il coinvolgimento III. Esiti di ricerca
dei bambini (accompagnare i figli al nido, prenotare delle visite, acquistare vestiti e altri oggetti ecc.). Tali attività sono volte a soddisfare i bisogni di “sicurezza” e “benessere” individuale e familiare.
Per ognuna delle tredici attività, sono state formulate cinque modalità di risposta (mai, raramente, qualche volta, spesso, sempre) per consentire ai padri di scegliere l’opzione più vicina alla propria esperienza. 35 30 25 20 15 10 5 0
Dare llaa D Dare Dare are da ssveglia veglia mangiare man ngiare
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Vestire Vestire
Far F ar aaddorddormentare m entare
Qualche Q ualche h volta volta
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Giocare G iocare
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Guardare G uardare Fare Fare llee llaa T TV V ccoccole occole
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Graf. 1 – Attività che i padri svolgono con i figli in una “settimana tipo” (distribuzione di frequenza).
Per quanto riguarda la modalità di risposta “sempre”, si evince che le tre attività che i padri svolgono regolarmente, in una settimana tipo, sono: fare le coccole (con il 39%), giocare (con il 31%) e dare la sveglia (con il 29%). Ciò significa che, eccetto “dare la sveglia” che possiamo valutare come un’attività maggiormente “pratica”, ossia legata anche all’organizzazione dei tempi familiari, la dimensione ludica e relazionale (nel nostro caso: giocare e fare le coccole) appare quella con le percentuali più alte. I dati suggeriscono l’immagine di una figura paterna senz’altro giocosa attraverso attività ludiche e di svago, ma soprattutto aperta al registro della tenerezza (Stramaglia, 2009; Corsi, Stramaglia, 2009). La dimensione ludica e relazionale è quella che ottiene le percentuali più alte anche per quanto riguarda la modalità di risposta “spesso”; difatti: il 58% dei padri dichiara di guardare “spesso” la tv con il proprio figlio (area del tempo libero), il 51% dichiara di fare le coccole con una certa continuità al figlio (area affettivo-relazionale); mentre il 49% dichiara di giocare e di stare all’aperto (area ludica) regolarmente durante il tempo libero che la famiglia ha a disposizione. La crescente presenza della figura paterna nelle dimensioni ludiche e, soprattutto, in quelle affettivo-relazionali è certamente il segnale di maggiore rottura con i “padri di ieri”, nonché l’area abitata dai padri in maniera rilevante (sia quantitativamente che qualitativamente). Ma dai dati risulta anche che, in una “settimana tipo”, gli stessi padri sono spesso coinvolti in attività legate alla cura
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primaria. Infatti, come si evince dal grafico 1, le attività che riguardano il “vestire” (41%), il “lavare” (37%) e il “dare da mangiare” (36%) ottengono delle percentuali medio-alte. Queste tre attività vengono, poi, seguite da altri due compiti, sempre legati alla cura primaria, come “cambiare i pannolini” (29%) e “far addormentare” (29%). Non bisogna, quindi, pensare che i padri siano soltanto coinvolti in quelle attività che possono sembrare più piacevoli e/o meno gravose (es. stare all’aperto, guardare la tv ecc.); ma, anzi, le percentuali restituiscono anche una significativa presenza paterna nel lavoro di cura. In questa ricerca, la quantità di tempo che gli uomini dedicano alle attività di routine non è così inferiore al tempo che dedicano per il gioco e per lo svago: in tal senso, questi dati ci consentono di andare oltre a quell’idea che intende il coinvolgimento maschile assai più significativo nelle attività di tipo relazionale rispetto a quelle di cura (Borlini, 2008, p. 62). Risulta, invece, che l’azione in cui i padri sono meno impegnati, durante una settimana tipo, è “andare a prendere al nido/a scuola” il figlio, che abbiamo collocato nella terza categoria delle cure (le “cure pratiche”): le modalità di risposta più indicate per questa attività sono state, con la stessa percentuale (24%), raramente e qualche volta. Subito dopo, segue “accompagnare al nido/ a scuola” il figlio; il 17% dei padri dichiara di essere raramente impegnato in questa azione. Potremmo, quindi, provare ad avanzare l’ipotesi che la presenza dei padri nelle attività legate alla gestione e all’organizzazione familiare (in relazione ai figli) non sia ancora molto pregnante e, verosimilmente, l’onere di questi compiti (conciliare tempi di cura, tempi familiari, tempi lavorativi ecc.) ricada ancora in larga misura sulle madri. Inoltre, a partire dai dati che riguardano una “settimana tipo”, abbiamo indagato quali sono, invece, le attività che i padri preferiscono svolgere – al di là della reale frequenza – nel rapporto educativo con il figlio. Ai padri abbiamo riproposto le medesime tredici attività poc’anzi menzionate, chiedendo loro di indicare le tre “preferite”. 50 40 30 20 10 0 a
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Graf. 2 – Attività che i padri preferiscono o preferirebbero svolgere (distribuzione di frequenza).
osservando il grafico 27 e considerando il totale delle attività specificate dal gruppo di riferimento, i padri hanno scelto le seguenti attività come quelle in cui 7
Ricordiamo che le tre attività tra cui i padri potevano scegliere sono le stesse della domanda precedente, dunque: a) dare la sveglia, b) dare da mangiare, c) lavare, d) vestire, e) far addormentare, f) cambiare il pannolino, g) accompagnare al nido/ a scuola, h) andare a prendere all’uscita dal nido/ da scuola, i) giocare, l) stare all’aperto, m) leggere, n) guardare la tv, o) fare le coccole.
III. Esiti di ricerca
preferiscono o preferirebbero essere impegnati: “giocare” (26% di preferenze), “fare le coccole” (23% di preferenze) e “stare all’aperto” (15% di preferenze). Al contrario, le attività, che hanno ricevuto un minor numero di preferenze sono state: “cambiare il pannolino” (attività che non è stata indicata da nessun padre), “vestire” (1%), “accompagnare al nido/a scuola” il figlio (1%) e “andare a prendere il figlio all’uscita dal nido/da scuola” (1%). Le attività che i padri preferiscono svolgere – giocare, fare le coccole, stare all’aperto – rispecchiano quelle in cui i padri appaiono realmente impegnati in una “settimana tipo”: le percentuali tendono a confermare l’idea di un padre che ha oltrepassato l’autorità e la norma e che si è aperto ad una relazione genitoriale corporea e ludica, nonché affettuosa e empatica, in una vicinanza prossemica con il proprio figlio (Stramaglia, 2009; Cambi, 2008). I nuovi stili paterni si esplicitano attraverso una parentalità che si gioca prevalentemente sul piano della presenza affettiva: in questo senso, emerge una relazione improntata all’intimità, alla vicinanza e alla condivisione. Allo stesso modo, i compiti in cui i padri sono realmente meno impegnati corrispondono anche a quelle attività che gli stessi padri hanno indicato tra le “meno” preferite, ossia “cambiare il pannolino” (nessun padre ha dichiarato di preferire questa attività), “vestire”, “accompagnare al nido/a scuola” e “andare a prendere al nido/a scuola” (ognuna di queste tre attività ha ricevuto l’1% di preferenza). Passiamo, ora, all’analisi dei dati disaggregati, mettendo a confronto il gruppo dei “padri con figli disabili” con quello dei “padri senza figli disabili”.
191 Lavare Lavare
Dare D are da mangiare mangiare
Far Far aaddormentare ddormentare
Vestire Vestire
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Padri P adri di figli figli con con disabilità disabilità
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Padri P adri di figli figli senza senza disabilità disabilità
Graf. 3 – Attività di cura primaria (distribuzione di frequenza).
Come si evince dal grafico 3, per quanto riguarda le attività di cura primaria – dare da mangiare, vestire, far addormentare e cambiare il pannolino – non ritroviamo delle differenze significative tra i due gruppi, dato che le percentuali sono pressoché le medesime, soprattutto nelle modalità di risposta “spesso”. Ad esempio, i padri con figli disabili (41%) vestono i propri figli con la stessa frequenza dei padri con figli senza disabilità (sempre il 41%). Inoltre, i padri con figli disabili “cambiano il pannolino” (con il 30%), con una continuità di poco maggiore rispetto ai padri con figli senza disabilità (con il 28%). Anche per quanto riguarda l’attività “dare da mangiare”, ritroviamo delle percentuali affini: il 37% dei padri con figli disabili sono “sempre” impegnati in questa azione, contro il 34% dei padri con figli senza disabilità (ossia con una differenza del 3%). Anche per quanto anno IV | n. 1 | 2016
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concerne la modalità di risposta “sempre”, mettendo a confronto i due gruppi di padri, non osserviamo delle differenze rilevanti ai fini della nostra riflessione: le percentuali oscillano entro un range del 7% (in media). Accompagnare A ccompa p gnare al ni al nido/ do/ a scuola scuola
Dare D are llaa sveglia sveglia
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Padri P adri di figli figli senza senza disabilità disabilità
Graf. 4 – Attività pratiche (distribuzione di frequenza).
Anche per quanto riguarda le attività “andare a prendere il figlio al nido o alla scuola dell’infanzia” e “accompagnare il figlio al nido o alla scuola dell’infanzia” (grafico 4), ritroviamo delle percentuali analoghe, senza importanti “distacchi” tra i due gruppi. Giocare G iocare
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S Stare tarre all'aperto all'aperto
Guardare Guardarre llaa tv tv
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Padri P adri di figli figli senza senza disabilità disabilità
Graf. 5 – Attività ludiche e relazionali (distribuzione di frequenza).
Infine, come si evince dal grafico 5, per quanto riguarda le attività ludiche e relazionali – giocare, fare le coccole, stare all’aperto e guardare la tv – il 56% dei padri con figli disabili dichiara di giocare “spesso” con il proprio figlio, a differenza di un 44% di padri di figli non disabili. Per quanto concerne l’area affettiva, il 56% dei padri con figli disabili afferma di coccolare il figlio “spesso”, contro un 47% dei padri con figli non disabili. In relazione alle attività di svago, il 45% dei padri con figli disabili indica di “stare regolarmente all’aperto” e/o di guardare la tv con il figlio con una certa continuità, mentre il 69% dei padri con figli non disabili dichiara di guardare regolarmente la tv insieme al figlio e il 53% afferma di trascorrere con una certa frequenza del tempo “all’aperto” in compagnia del figlio. Anche in questo caso, le analogie tra i due gruppi sono chiare: cambia la frequenza, ma le differenze tra le percentuali non sono particolarmente significative. Tuttavia, possiamo provare ad affermare che i padri con figli disabili siano mag-
III. Esiti di ricerca
giormente attenti alla sfera del gioco (con un 12% in più) e alla dimensione della tenerezza (con un 9% in più), avvalorando l’immagine di un padre giocoso e affettivo (Maggioni, 2000). È interessante che la sfera del gioco abbia ottenuto percentuali alte, a testimonianza degli elementi di ordinarietà che possiamo ritrovare nella relazione intersoggettiva genitore-figlio disabile. Attraverso i dati di questo lavoro abbiamo confermato l’indicazione teorica che rileva che i padri, oggi, abbiano saputo abbracciare un nuovo modello di paternità, peraltro molto distante dal modello di padre che ha prevalso a lungo nella società occidentale (Pellai, 2010). Sono uomini che hanno preso le distanze dal modello dei propri padri e che provano a costruire una relazione educativa più affettiva, puntando non solo sulla quantità del tempo, ma anche sulla qualità dello stare insieme. Inoltre, questi padri tendono ad accettare di buon grado un nuovo stile di paternità, traendo evidenti guadagni sul piano emotivo, personale e in relazione alla partner (Zajczyk, Ruspini, 2008).
5. Brevi riflessioni conclusive
A conclusione di questo contributo, proviamo a confermare l’idea di padre accudente come uno stile paterno diffuso, nel senso che può riguardare tutti i padri (di figli con o senza disabilità). Non solo: si tratta di un fenomeno alquanto ricorrente in tutte le fasce d’età (non soltanto tra i padri più giovani), che coinvolge sia i padri più istruiti (ad esempio, i padri laureati) e con una posizione lavorativa medio-alta (ad esempio, dirigenti, imprenditori ecc.) sia quelli con un livello di istruzione più basso e/o che provengono da un contesto socio-culturale svantaggiato (Cinotti, Caldin, 2016). Ciò significa, innanzitutto, che possiamo intravedere delle costanti nel modo di essere padre (essere accudenti, essere coinvolti nella cura dei figli, essere affettivi ecc.) che non cambiano, in modo significativo, in base a “variabili” quali l’età, il titolo di studio e l’occupazione. Questi dati sulle “costanti paterne” confermano la letteratura – come abbiamo scritto nella parte teorica introduttiva – in merito alla presenza del “nuovo padre”, ovvero una figura paterna che si caratterizza per aspetti relazionali tipici della figura materna; un padre più presente nella vita dei figli, più coinvolto nel lavoro di cura e maggiormente dedito anche a momenti e gesti d’affetto (Zoja, 2000). Secondariamente, anche la variabile “disabilità” non pare avere un’influenza così significativa nell’esercizio del compito paterno, soprattutto quando mettiamo a confronto padri di figli con o senza disabilità, in un range d’età compreso tra i due e i sette anni. Anche se i dati disaggregati non ci restituiscono delle significative differenze nel modo in cui i padri si prendono cura dei figli, a nostro avviso, è importante sottolineare che, nelle situazioni di disabilità, il padre “accudente” rischia di avere delle tonalità più accentuate. Se, infatti, il coinvolgimento paterno nelle situazioni di assenza di disabilità può diminuire, con una certa “rapidità”, mano a mano che il figlio cresce e acquisisce delle autonomie (es. il controllo degli sfinteri), in un’ottica di co-apprendimento (Pourtois, Desmet, 2000); nelle situazioni di disabilità questi passaggi co-evolutivi (Canevaro, 2006) potrebbero essere più lenti e/o protrarsi nel tempo e richiedere, pertanto, al padre (come alla madre) una maggiore presenza e continuità nei compiti di cura. anno IV | n. 1 | 2016
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Per queste ragioni, nei modelli familiari dove è presente un bambino disabile, il processo di cambiamento del ruolo paterno verso il “materno” può essere più sostanzioso rispetto a quello che possiamo rilevare nelle famiglie con figli senza disabilità. La complessità della situazione (come la necessità di cure costanti ecc.) può condurre a forme di parentalità più paritarie e condivise tra madri e padri (“non esistono compiti esclusivi”, “io e mia moglie siano intercambiabili”) piuttosto che riferite a caratterizzazioni più tradizionali. Accanto agli evidenti vantaggi legati ad un maggiore equilibrio nel rapporto di coppia, sotto il profilo educativo, si può nascondere, però, il pericolo di una sostanziale omogeneizzazione dei ruoli parentali che appiattirebbe la realizzazione delle funzioni educative, di entrambi i genitori, su modalità prevalentemente di area materna (MacDonald, Hastings, 2010). Con questo intendiamo dire che la variabile “disabilità” può dilatare i tempi della cura paterna dato che i padri con figli disabili sembrano coinvolti – rispetto ai padri con figli senza disabilità – nelle dimensioni dell’area materna per un tempo più lungo (anche quando i figli crescono), dedicando un tempo considerevole a questo tipo di compiti (“occorre condividere tutti i compiti”), talvolta anche a scapito di altre dimensioni della sfera familiare.
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1. Recensione
Valentina Pennazio, Didattica, gioco e ambienti tecnologici inclusivi, Franco Angeli, Milano, 2015, pp. 239 di Giusi Zamarra, Dipartimento di Scienze dell'Educazione, Università degli Studi di Bologna, giusi.zamarra2@unibo.it
Il volume apre ampi orizzonti di riflessione riguardo il tema dell’attività ludica vissuta e costruita in un ambiente tecnologico inclusivo. Lo fa adottando un originale “taglio multidisciplinare”, che l’autrice stessa dichiara di voler dare al suo lavoro, aiutando il lettore a orientarsi in un ambito di cui si colgono appieno la complessità e le potenzialità. Complessità che risiede nell’ampiezza del focus di analisi, la quale va oltre la descrizione del gioco per i bambini con disabilità, e la sua eventuale modifica o adattamento. La prospettiva adottata guarda, infatti, al bambino con disabilità, con gli altri, in un contesto specifico, in cui i professionisti dell’educazione sono chiamati a modificare il proprio impegno e la propria presenza, effettuando delle scelte estremamente specifiche in ambito progettuale e gestionale. Tali scelte vanno strutturate a partire dal riconoscimento della centralità del “gioco” nella vita del bambino, soprattutto se si tiene conto che, come l’autrice stessa sottolinea, “[…] la complessità, la molteplicità e l’urgenza dei problemi da affrontare nel campo delle disabilità in genere, spesso concentra o limita gli interventi esclusivamente sul fronte sanitario-riabilitativo, finendo con il trascurare un significativo impegno sul versante educativo. Non solo: al bambino con disabilità viene negata o fortemente ridotta la dimensione ludica e piacevole del gioco, poiché troppo spesso questo viene utilizzato […] come strumento nel percorso di recupero fisico e intellettivo, mentre tale funzione, seppure importante, dovrebbe restare sullo sfondo dando maggiore spazio alla gratuità, alla libertà, alla spontaneità del gioco” (pp. 14-15). Sono queste le considerazioni su cui si struttura il volume, i cui capitoli vanno a costituire tasselli di un percorso il cui obiettivo principale sarebbe quello di accompagnare il lettore o, più specificatamente, i professionisti dell’educazione, nella “progettazione e […] sperimentazione pragmatica di “attività ludiche” tecnologicamente connotate (intese sia nel senso di giocattoli che di scenari e contesti ludici) che siano in grado di rispondere ai bisogni di tutti i bambini” (p.16). Proprio per la significatività di questo percorso dai forti risvolti concreti e realistici, l’autrice non manca di dotare ciascun tassello di un proprio fondamento teorico, a partire dagli elementi necessari per impostare un piano d’intervento ludico/tecnologico, fino ad arrivare alle elaborazioni teoriche realizzate nel tempo intorno al discorso gioco-giocattolo. Tutto questo persegue anche la finalità di condurre il lettore verso “la maturazione di un’approfondita consapevolezza circa il significato intrinseco al concetto di gioco e alle principali teorie prodotte nel tempo in seno ai vari ambiti disciplinari congiuntamente all’ampia conoscenza dei metodi, delle tecniche e degli strumenti disponibili […]” (p. 33). È un approccio che richiama anche le responsabilità che il professionista delItalian Journal of Special Education for Inclusion
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l’educazione ha nel momento in cui intraprende una specifica scelta progettuale che comprenda delle strategie ludiche. Particolarmente interessante, a tal proposito, è l’approfondimento che l’autrice fa della disabilità motoria e dell’autismo, scelte per le problematiche che si riscontrano nell’accesso al gioco; tale approfondimento fa chiarezza sul concetto di “responsabilità” rispetto al modo in cui vengono proposte determinate attività in ambito scolastico e non solo. Nel caso specifico della disabilità motoria e dell’autismo, l’autrice ci tiene a evidenziare come esse vadano intese come “due condizioni” che determinano in maniera differente quelle stesse modalità e, dunque, “solo avendo ben chiare le compromissioni ma soprattutto le potenzialità presenti nelle due tipologie di disabilità […] diventa possibile progettare e strutturare ambienti tecnologici realmente inclusivi, orientati allo sviluppo globale del bambino” (p. 61). L’adeguatezza di un determinato intervento didattico/educativo va inoltre “misurata” e, a tal proposito, l’autrice pone un quesito centrale: “[…] che cosa deve essere osservato prima di agire pragmaticamente? E come deve essere valutato?”. I riferimenti, a tal proposito, sono all’ICF e, in particolare, all’ICF-CY, in cui la dimensione ludica diventa un’area di funzionamento che consente di osservare e descrivere in un’ottica multifattoriale e multidimensionale la crescita e la salute dell’individuo in età evolutiva. Il metodo dell’osservazione, come metodo utile e valido per progettare e valutare un intervento ludico in ambienti tecnologici inclusivi, va dunque a costituire un ulteriore tassello significativo nella progettazione di un intervento. Progettazione cui fa seguito, sempre secondo una logica pragmatica, l’individuazione di quegli interventi e/o strategie atte a rendere il gioco o il giocattolo accessibile a tutti; strategie che, nell’ottica di un continuo e aperto confronto con le altre discipline coinvolte (didattiche, pedagogiche, psicologiche, sociologiche) prevedono anche risposte che afferiscono al settore delle tecnologie. Settore che l’autrice esplora abilmente mostrandone le differenti caratterizzazioni. Lo fa presentando dapprima delle interessanti proposte operative di adattamento dei giochi analogici, sia dal punto di vista “fisico” che dal punto di vista delle modalità di presentazione e gestione del gioco stesso, i cosiddetti interventi di tecnologia povera (con riferimento al bambino con disabilità motoria nel primo caso e al bambino con autismo nel secondo). L’autrice prosegue focalizzando l’attenzione sull’uso di applicazioni di alta tecnologia (tecnologia assistiva), utili per consentire l’accesso a giocattoli elettronici e digitali, fino ad arrivare alla Tecnologia robotica con degli interessanti e innovativi esempi di alcune esperienze ludiche mediate da robot, in contesti scolastici e di riabilitazione in ambito nazionale. Attraverso quest’ultimo capitolo, l’autrice rileva come diversi sistemi robotici possano soddisfare anche le esigenze complesse e differenti delle persone con disabilità, a ogni età; attraverso la presentazione dello studio condotto, emerge con ancor più chiarezza come sia necessario e inevitabile progettare attentamente un intervento mediato da tecnologie e robot. Progettare attentamente adottando una visione critica è il messaggio che emerge con forza, soprattutto quando i principali destinatari del progetto sono i bambini con disabilità e il principale obiettivo rimane quello di creare ambienti di apprendimento realmente inclusivi. Recensioni
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Il volume pone in luce l’importanza dello studio e della ricerca di soluzioni per superare la condizione di disabilità come fasi essenziali nell’operatività di insegnanti o educatori. Ed è a loro che l’autrice si rivolge principalmente, ai professionisti dell’educazione, che dovrebbero dotarsi delle conoscenze e competenze necessarie per fornire risposte adeguate a bisogni ludici speciali, in un ambiente di condivisione inclusivo. Anche il mercato e i servizi potrebbero trarre interessanti spunti di riflessione dal volume qui presentato, ampliando le realtà che nel panorama nazionale pongono attenzione alle svariate potenzialità del rapporto gioco-disabilità.
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anno IV | n. 1 | 2016
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