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Quaderni di studi semiotici Luglio-Dicembre 2012 July-December 2012 L’albero e la rete Ricognizione dello Strutturalismo a cura di Cosimo Caputo
Cosimo Caputo
Introduzione. Lo Strutturalismo fuori moda
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Daniele Gambarara
Strutturalisti senza saperlo? Saussure contro Saussure
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Emanuele Fadda
Luís J. Prieto: uno strutturalista “analitico”?
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Sémir Badir
De quoi sont faits les systèmes sémiotiques
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Cosimo Caputo
Glossematic Semiotics
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Francesco Galofaro
Structural Reason, Metalanguage and Infinity
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Francesco Bellucci
Peirce’s Chemistry of Concepts
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VERSUS Quaderni di Studi Semiotici Nuova serie VS-Quaderni di studi semiotici è una rivista internazionale di semiotica, filosofia e teoria dei linguaggi fondata da Umberto Eco nel 1971. VS ha cadenza semestrale con numeri monografici e miscellanei. La collaborazione avviene attraverso call for papers o invio di manoscritti alla redazione. Ogni contributo viene sempre sottoposto a un processo di double blind referee. VS accetta contributi in inglese, francese e italiano. VS is an international journal of Semiotics, Philosophy and Theory of Language, founded in 1971 by Umberto Eco. It is published twice yearly as monothematic or miscellaneous issues. Contributions may be submitted directly to the editorial board, either in response to a call for papers, or on the initiative of individual authors. All contributions will be subject to double blind peer review. Contributions are accepted in English, French and Italian. Direzione / Direction: Umberto Eco Comitato scientifico internazionale / Scientific Board Massimo Bonfantini, Omar Calabrese, Giovanna Cosenza, Cristina Demaria, Umberto Eco, Paolo Fabbri, Jacques Fontanille, Anna Maria Lorusso, Jorge Lozano, Patrizia Magli, Giovanni Manetti, Costantino Marmo, Gianfranco Marrone, Hermann Parret, Jean Petitot, Isabella Pezzini, Maria Pia Pozzato, Patrizia Violi e Ugo Volli. Redazione / Editorial Board Cristina Demaria, Anna Maria Lorusso, Claudio Paolucci Contatti /Contacts: cristina.demaria2@unibo.it; annamaria.lorusso@unibo.it; c.paolucci@unibo.it http://versus.ddc.unibo.it Registr. Tribunale di Milano n. 80 del 5-3-1973
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Rubrica a cura di Patrizia Violi Hanno collaborato: Stefano Traini, Emanuele Dell’Atti, Claudio Paolucci Maria Pia Pozzato, Foto di matrimonio e altri saggi, Milano, Bompiani 2010, pp. 341. L’ultimo libro di Maria Pia Pozzato raccoglie vari saggi scritti dall’autrice negli ultimi anni su fenomeni di costume, sul consumo, sulla televisione, sui luoghi urbani. Gli oggetti di analisi sono: le foto di matrimonio, che da etnografiche diventano estetizzanti, fino ad assumere nuove forme nel vasto e indistinto campo di Internet e delle nuove tecnologie; gli aspetti estesici ed estetici del leader carismatico, da cui emergono alcuni caratteri inquietanti dei nuovi totalitarismi mediatici; l’esercizio fisico nelle palestre (paleolitiche) di oggi, dove sembra di ritornare ai ritmi e alla fisicità di una savana in vitro; il velo islamico in relazione al nude look occidentale; le testate che parlano della cucina al maschile; la spesa al supermercato, intesa come forma narrativa fatta di programmi, attanti, tensioni e distensioni; due packaging di prodotti per il bucato, che ricollocano in primo piano una certa concezione della corporeità; i modelli femminili in alcune serie televisive (che l’autrice considera le grandi e popolari forme di narrazione contemporanea); il programma Affari tuoi (la “saga dei pacchi”). Un saggio è dedicato all’analisi di tre chiese che si sono succedute nell’arco degli ultimi decenni nella periferia nordovest di Modena: dall’analisi degli spazi architettonici e di alcune pratiche emerge un passaggio dall’impegno religioso e politico verso la dimensione del divertimento-consumo. L’autrice riconosce nell’introduzione l’eterogeneità dei testi analizzati, scelti talora per ragioni contingenti, ma tenta comunque di tracciare delle linee di tendenza generalizzanti a partire dalle sue microanalisi. La cornice teorica di Maria Pia Pozzato è quella della semiotica di matrice strutturale. Rispetto alla relazione che deve sussistere tra teoria e oggetto di analisi, la posizione è ancora quella hjelmsleviana: la teoria deve essere arbitraria (quindi indipendente dai dati d’esperienza), ma nello stesso tempo adeguata, quindi ancorata alla realtà che viene sottoposta ad analisi. E sempre seguendo la lezione di Saussure e di Hjelmslev, l’autrice assume una posizione radicalmente costruttivista: l’oggetto di analisi non è ontologicamente dato, ma è costruito in tutte le fasi della ricerca, da quando si seleziona il corpus a quando si ricostruisce l’organizzazione
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formale, e quindi immanente, dei testi da analizzare. Assumendo tutte le implicazioni teoriche della semiotica strutturale, Pozzato ritiene che le pratiche non abbiano uno statuto ontologico differente rispetto ai testi, ma che siano a tutti gli effetti dei testi, e a questo proposito ricorda opportunamente che in entrambi i casi si tratta di ritagliare e delimitare di volta in volta un corpus di analisi. Questa assunzione dovrebbe aprire la via a una semiotica più antropologica (e infatti sono numerosi i rimandi all’antropologia interpretativa di Clifford Geertz), attenta al “brulichio delle interazioni umane” e ai “luoghi vissuti”, e anche più rischiosa e innovativa rispetto a quella che – nei “tempi felici” – si è dedicata molto all’analisi dei testi letterari ed etnoletterari, di certo assai più rassicuranti. Ma perché una semiotica più antropologica, attenta alle pratiche della quotidianità, ha stentato e stenta ancora a imporsi? Al di là delle problematiche teoriche (si pensi al lungo dibattito su testi e pratiche che ha impegnato la comunità semiotica negli ultimi anni), l’autrice denuncia la persistenza di quel pregiudizio endemico secondo il quale bisogna occuparsi necessariamente di opere “serie” e “nobili” (come i testi letterari appunto), o di questioni storico-filosofiche millenarie, mentre si ritengono poco seri e molto pop oggetti di analisi come un sacchetto di pasta, un programma televisivo popolare, l’etichetta di un ammorbidente. E questo nonostante le analisi pionieristiche di Roland Barthes (si pensi a Mythologies o all’analisi della pubblicità Panzani) e di Umberto Eco (si pensi a Apocalittici e integrati) di ormai cinquant’anni fa. L’autrice riflette anche sulle procedure per la costituzione del corpus. Si tratta di un problema cruciale per la semiotica perché per le caratteristiche dei suoi strumenti e per la sua necessità di partire da manifestazioni testuali, essa si muove meglio in una dimensione micro, ed è quindi necessario – come fa l’autrice – chiedersi quanto siano effettivamente generalizzabili i risultati che si ricavano da analisi parziali. Lo stesso problema si pone del resto anche nella storiografia, e l’autrice ricorda come Ginzburg individui la soluzione ideale nella via tracciata da Marc Bloch, il quale auspica “un continuo andirivieni fra micro e macro storia”: un “andirivieni” che per la semiotica è possibile se si accetta una concezione sistemica della cultura, come per esempio quella propugnata da Lotman. Per quanto riguarda la metodologia, l’autrice utilizza per le analisi autori e teorie diverse, adottando quello che lei stessa definisce un “bricolage interdisciplinare ragionato”. A questo proposito è vero che nella ricerca semiotica ci sono importanti precedenti (l’autrice cita alcuni lavori di Floch), ed è anche vero che questa sembra essere la tendenza della semiotica contemporanea (archiviate ormai le analisi estremamente tecniche della prima semiotica), tuttavia non si può non rilevare che seguendo questa linea si corre il rischio di mettere definitivamente in crisi quella “vocazione scientifica”(uso di un linguaggio interdefinito, controllo intersoggettivo dei risultati, ecc.) che dovrebbe caratterizzare proprio la semiotica di matrice strutturale entro la quale l’autrice si colloca. A proposito
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dello stile, invece, Pozzato ricorda che occupandosi scientificamente di fenomeni di costume si deve fare attenzione a non adottare un registro giornalistico, nell’intenzione di compiacere il lettore con trovate brillanti. Le analisi semiotiche possono – e forse devono – essere noiose, come capita spesso alle analisi che hanno ambizioni di scientificità: del resto, come scrive brillantemente l’autrice, “i report etnografici non sono dépliant turistici, e ognuno può scegliere liberamente fra gli uni e gli altri”. S.T. Charles Morris, Scritti di semiotica, etica e estetica, trad. it. e cura di S. Petrilli, Lecce-Brescia, Pensa MultiMedia 2012, pp. 235. Dopo la ripubblicazione dei Lineamenti di una teoria dei segni (2009), con i ritocchi all’introduzione e al commento apportati dal suo curatore e traduttore, Ferruccio Rossi-Landi, all’edizione italiana del 1963 (ricordiamo che la prima edizione italiana è del 1954 presso Paravia), la collana “Il Segno e i suoi Maestri”, diretta da Cosimo Caputo, Susan Petrilli e Augusto Ponzio, ripropone ora altri scritti di Morris. Il volume è corredato di una bibliografia delle opere del semiotico americano, aggiornata con l’indicazione delle più recenti traduzioni italiane, e di un’appendice di scritti morrisiani di Rossi-Landi. Gli scritti qui raccolti vanno oltre il Morris più noto dei Lineamenti e di Segni, linguaggio e comportamento. Si tratta di “L’estetica e la teoria dei segni” del 1939, “Segni di segni di segni” del 1948 (dove Morris, rispondendo alle diverse critiche rivolte al suo Segni, linguaggio e comportamento, dichiara i suoi debiti con Mead prima che con Peirce e poi con Ogden, Richards, Tolman e Hull, a proposito della sua “comportamentistica”), “I simboli dell’uomo-cosmo” (1956), “Il misticismo e il suo linguaggio” (1957), “Estetica, segni e icone”(1965). Tema centrale di questi saggi è quello dei rapporti dell’estetica con la semiotica e della semiotica con l’assiologia. L’arte, essendo legata sia al significato (nel senso di significazione) sia al valore (nel senso di significanza) rappresenta un decisivo banco di prova per una teoria generale dei segni e dei valori (p. 79). La differenza specifica del segno estetico, o opera d’arte in senso stretto, è costituita dalla percezione estetica e l’analisi estetica diventa un caso speciale dell’analisi segnica, sicché l’estetica diventa a sua volta la scienza dei segni estetici, o scienza della percezione estetica, e un settore della semiotica (pp. 82-83). Se la teoria dei segni è uno dei fondamenti su cui erigere questo tipo di estetica, la teoria del valore è fondamento altrettanto necessario, dato che “i designata dei segni estetici sono valori” e “un valore è una proprietà relativa a un interesse di un oggetto o situazione”, non essendo localizzato in un oggetto o situazione al di fuori degli interessi. “C’è un interesse
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per il cibo fin quando si dà un’attività che cerca oggetti che fan cessar la fame”(pp. 85-86). Alla questione della differentia dei segni estetici ci si accosta “distinguendo due classi principali di veicoli segnici: quelli che sono simili a [...] ciò che denotano e quelli che non lo sono”, ossia, rispettivamente, i segni iconici e i segni non-iconici (p. 89). Nel suo “Su alcune questioni post-morrisiane”, qui ripubblicato in Appendice, Rossi-Landi, riguardo al nesso tra segni e valori, scrive: “Le attuali discussioni sui limiti dello strutturalismo, sulle differenze fra analisi e valutazione e sulle relazioni fra sistemi di segni e sistemi di valori o ideologie tendono a indicare che nessun sistema semiotico, e a maggior ragione nessun testo, può essere pienamente compreso e adeguatamente valutato, senza che anche i valori da cui necessariamente nasce, e che trasmette, siano presi in considerazione (per dare qualche esempio, cfr. i lavori di Corti, Eco, Kristeva, Rastier, Rossi-Landi, Segre, Veron e Bachtin-Vološinov)”(p. 166). L’interesse di Rossi-Landi per Morris, con il suo libro del 1953 (Charles Morris, Milano, Bocca; ripubblicato con aggiunte e col titolo Charles Morris e la semiotica novecentesca, Milano, Feltrinelli 1975) e la sua traduzione nel 1954 dei Lineamenti di una teoria dei segni, come si è detto all’inizio, oltre che con la traduzione italiana, a cura di Silvio Ceccato, di Segni, linguaggio e comportamento, Longanesi, Milano 1949, mostrano come sia limitativo far iniziare la semiotica italiana a partire dalla seconda metà degli anni ’60 del Novecento, con riferimento alla traduzione degli Elementi di semiologia di Barthes. Secondo Rossi-Landi, l’interesse in Italia per Morris “era favorito da una tradizione locale, di cui i rappresentanti principali sono Cattaneo, Peano, Vailati, Calderoni, Enriques e Colorni [...]; questa tradizione ha certamente contribuito alla prima formazione della scuola semiotica italiana” (p. 157). E. D. Maria Giulia Dondero et Jacques Fontanille, Des Images à problèmes. Le sens du visuel à l’épreuve de l’image scientifique, Limoges, PULIM, pp. 260. La sfida epistemologica di questo libro è semplice quanto fondamentale per la riflessione semiotica: secondo gli autori, l’immagine scientifica è uno di quegli oggetti che, se affrontato attraverso i concetti e le procedure di analisi della così detta “semiotica visiva”, ne mette alla luce i limiti e conduce inevitabilmente a ridefinirne i concetti, a proporne di nuovi, così come a ridefinire in ultima istanza le procedure stesse dell’analisi semiotica (p. 239). Proprio per questo il libro non si interroga tanto sul significato dell’im-
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magine scientifica né sui suoi effetti di senso, come ci si aspetterebbe da un libro scritto da una coppia di semiotici, ma ha la ben più importante ambizione di provare a rispondere alla domanda: “che ruolo ha l’immagine nella ricerca scientifica?” e, di conseguenza, alla domanda: “che cosa serve alla semiotica e alla sua metodologia per essere in grado di disimplicare e rendere visibile questo stesso ruolo?”. Per questo il libro segue di fatto un doppio binario: da un lato si mostrano le singolarità semiotiche che sono proprie dell’immagine scientifica rispetto ad altri tipi di immagine che la semiotica del visivo ha storicamente analizzato (fotografia, arte etc.). Così facendo, si analizzano sì diversi tipi di immagine scientifica attraverso una metodologia che si vuole semiotica, ma lo si fa attraverso una serie di strategie di analisi che non si sovrappongono e non replicano mai le classiche procedure della semiotica del visivo (ben esemplificativo in questo senso, tra i molti esempi che si potrebbero fare, è l’ultimo capitolo sul ruolo narrativo delle curve nei problemi matematici). Allo stesso tempo, dall’altro lato, si mostra come questo tipo particolare di oggetti, che si sono dimostrati eretici per le consuetudini semiotiche, richiedano un affinamento e un ripensamento anche radicale di alcune categorie descrittive, proprio al fine di interpretarle adeguatamente. É proprio in questo secondo momento che il libro mostra tutta la sua forza, visto che le soluzioni che propone mi sembrano difficilmente ignorabili dal dibattito semiotico futuro, che dovrà a mio parere fare i conti con questo lavoro di Dondero e Fontanille. Un esempio significativo in questo senso (tra gli altri) è dato dalla nozione di enunciazione. Dondero e Fontanille negano con forza che le classiche categorie della teoria dell’enunciazione semiotica (debrayage/ embrayage e le relazioni deittiche che ne derivano), importate dalla linguistica al fine di rendere conto simulacralmente del punto di vista nei testi visivi, possano in alcun modo essere applicate euristicamente al dominio del visibile e all’immagine scientifica in particolare. Infatti, l’enunciazione dell’immagine scientifica (lastra, scintigrafia, risonanza magnetica, ecografia etc.) non presenta affatto una natura visiva, essendo costituita da una serie di trasduzioni tra differenti sostanze della manifestazione. Al fine di renderne conto, la teoria dell’enunciazione semiotica dovrà allora definire un vero e proprio modus operandi della produzione segnica capace di convertire il visibile (di natura non necessariamente visiva) in visivo. Con l’unica eccezione della teoria dei modi di produzione segnica del Trattato di semiotica generale di Umberto Eco (per altro inspiegabilmente ignorata da Dondero e Fontanille) si tratta di una vera e propria “prima volta” per la teoria semiotica dell’enunciazione: ritrovare le condizioni, i percorsi e il modus operandi della produzione semiotica, capaci di “cambiare il livello di pertinenza della teoria dell’enunciazione, che si sposta dal livello del testo visivo a quello della pratica di visualizzazione”. (p. 240) Dopo aver fatto chiarezza su questi punti fondamentali, il libro parte allora da un paradosso che è costitutivo dell’immagine scientifica: ra-
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dicalmente allotopa rispetto alla percezione del mondo naturale, essa è dotata però di uno statuto veridittivo e referenziale fortissimo: sebbene l’immagine sia del tutto costruita tecnicamente attraverso macchinari tecnologici e forme complesse di trasduzione di segnale ed energia, essa non solo pretende di “dire la verità”, ma, ben più profondamente, ha l’ambizione di mostrare tutta una serie di cose a cui il normale meccanismo della percezione non ha accesso. Tuttavia, e si tratta a parere di chi scrive di una delle analisi in assoluto più interessanti del libro, affinché questo potenziale rivelatore di una stato di cose venga dispiegato, l’immagine scientifica necessita di un processo di familiarizzazione da parte dell’interprete, che sia capace di rendere i formanti plastici dell’immagine il piano dell’espressione di un contenuto mirato. Come notano giustamente gli autori: “è compito del semiotico rendere conto di questo momento liminare in cui l’immagine acquista senso, momento in cui le sue forme si stabilizzano in vista dell’espressione di un qualche contenuto ancora da fissare” (p. 65). Momento paradigmatico di ciò che per Eco era il rapporto di ratio difficilis tra espressione e contenuto, Dondero e Fontanille chiamano “momento di iconizzazione” questa stabilizzazione di una funzione semiotica e ci restituiscono alcune analisi magistrali della sua strutturazione, mostrando come esso sia costituito dal filtraggio e dall’elaborazione in parallelo di una serie di dimensioni non scientifiche (etiche, estetiche etc.) che “ben lungi dal distrarre l’attenzione dalla verità delle immagini preparano in sordina il loro riconoscimento automatizzato“ (p. 66). Un ulteriore aspetto di grande interesse del libro, a cui è dedicata l’intera seconda parte, riguarda le analisi che vengono fatte a proposito del passaggio dall’articolo di ricerca scientifico alla sua divulgazione a un pubblico di non specialisti. Dondero e Fontanille identificano con grande rigore tutte le numerose trasformazioni retoriche dettate dalla preoccupazione di adattarsi a differenti tipi di pubblico, mostrando in che modo “uno stesso oggetto di ricerca possa essere comunicato all’interno di generi discorsivi molto diversi, ognuno con una propria maniera di mettere in relazione l’argomentazione verbale e visiva” (p. 107). L’oggetto scelto per questo tipo di analisi, il buco nero, è senza dubbio paradigmatico di tutte le complessità semiotiche che ruotano attorno all’idea di immagine scientifica, dal momento che, per definizione, si tratta di un oggetto che non può essere né fotografato né filmato (una sorta di “non-immagine” scientifica) e la cui esistenza non è che il risultato di una serie di ipotesi formulate a partire da altri fenomeni di topologia cosmica. E tuttavia, nella letteratura scientifica, i buchi neri sono costantemente visivamente rappresentati, e lo sono in quanto traduzione di un certo numero di equazioni matematiche in dispositivi spaziali, che mettono in scena i percorsi enunciativi che ci consentono di costruirli in quanto oggetti visivi attraverso manipolazione di relazioni astratte. Di fatto, è la proposta degli autori, immagini di questo tipo hanno un’esistenza diagrammatica in senso
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peirceano, cioè incarnano in un supporto sensibile un insieme di relazioni logiche (matematiche) espresse in un sistema di equazioni. Proprio alla nozione di diagramma è allora dedicato un ruolo centrale all’interno del libro, che del diagramma fa un vero e proprio fulcro teorico della semiotica dell’immagine scientifica, tanto da dedicargli la quasi interezza della terza parte (“L’immagine scientifica e la schematizzazione”). Secondo Dondero e Fontanille le immagini scientifiche “possono, e in alcuni casi devono funzionare come dei diagrammi peirceani” (p. 174). Questo perché un diagramma è un segno incarnato in un’evidenza percettiva che è al contempo espressione di una rete di relazioni generali. Manipolando il diagramma è allora possibile rendere visibili delle relazioni che non erano immediatamente visibili nell’oggetto di cui il diagramma è il segno. Questo è esattamente lo statuto che, secondo gli autori, le immagini scientifiche finiscono spesso per assumere, essendo capaci di rivelare delle “verità” inattese a proposito dei loro oggetti. Dondero e Fontanille mettono in relazione queste riflessioni peirceane sul diagramma con le idee goodmaniane sui regimi autografici e allografici, e finiscono per dare vita a tutta una serie di proposte teoriche e applicative molto originali, capaci di rendere conto del ruolo costitutivo delle immagini scientifiche, e cioè della loro capacità di rappresentare, spiegare e risolvere casi precisi e singolari, non cessando con questo di essere trasponibili ad altre esperienze e oggetti del tutto differenti rispetto a quelli di cui quell’immagine scientifica è localmente il segno (p. 190).
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