Giornale Italiano della Ricerca Educativa 6/2011

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Giornale Italiano di Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno IV numero 6 Giugno 2011


Direttore LUCIANO GALLIANI - Università degli Studi di Padova Condirettore PIERO LUCISANO - Università “Sapienza” di Roma Comitato Scientifico ROBERTA CARDARELLO - Univeristà degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA - Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE - Université Catholique di Lovanio FRANCO FRABBONI - Università degli Studi di Bologna ALESSANDRA LA MARCA - Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI - Università degli Studi di Roma 3 ACHILLE M. NOTTI - Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV - City University di Mosca Comitato dei referee Il Comitato dei referee è composto da 15 studiosi di chiara fama italiani e stranieri. I nomi dei revisori di ogni annata vengono resi pubblici nel primo numero dell’annata successiva. Il responsabile della procedura di referaggio è il condirettore scientifico della Rivista Piero Lucisano. Procedura di referaggio Ogni articolo, anonimo, è sottoposto al giudizio di due revisori anch’essi anonimi. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso un giudizio positivo. I giudizi dei revisori vengono comunicati agli autori, comprese eventuali indicazioni di modifica. In tal caso, gli autori devono provvedere a modificare i propri contributi sulla base delle indicazioni ricevute dai revisori. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non vengono pubblicati. Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Abbonamenti Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com

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SOMMARIO editoriale 7

PIETRO LUCISANO Valutare per quale società?

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MARYSE BIANCO Developpement precoce du langage et acquisition de la lecture/comprehension ANTONIO CALVANI • GIOVANNI BONAIUTI • BERNARDINO ANDREOCCI Il microteaching rinascerà a nuova vita? Video annotazione e sviluppo della riflessività del docente ORLANDO DE PIETRO • CARMELO PIU Dalla ricerca indagine alla ricerca sperimentazione: individuazione dello stile cognitivo negli ambienti di apprendimento in rete CESARE FREGOLA • ANGELA PIU Simulandia. Giochi di simulazione e ambienti di apprendimento della matematica DANIELA FRISON Il Progetto PARIMUN, un’esperienza di University-Business Dialogue STEFANIA NAPOLI L’insegnante competente e le competenze dell’insegnante FRANCESCA PEDONE La promozione della capacità di analisi di situazioni educative complesse nei futuri insegnanti di scuola primaria LOREDANA PERLA La ricerca didattica sugli impliciti d’aula. Opzioni metodologiche

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VII CONGRESSO SCIENTIFICO NAZIONALE Università e scuola: valutare per quale società? Padova 1-2-3 dicembre 2011


hanno collaborato PIETRO LUCISANO Professore ordinario, Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma • lucisano.studiericerche@gmail.com MARYSE BIANCO Maitre de conference, Laboratoire des sciences de l’éducation, Université Pierre Mendès, Grenoble (France) • maryse.bianco@upmf-grenoble.fr ANTONIO CALVANI Professore ordinario, Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, Università degli Studi di Firenze • antonio.calvani@unifi.it GIOVANNI BONAIUTI Ricercatore di Didattica generale, Dipartimento di Scienze Pedagogiche e Filosofiche, Università degli Studi di Cagliari • g.bonaiuti@unica.it BERNARDINO ANDREOCCI Insegnante scuola secondaria, dottorando di ricerca in Telematica e Società dell’Informazione, Università degli Studi di Firenze • bernardino.andreocci@gmail.com ORLANDO DE PIETRO Ricercatore, Dipartimento di Economia e Statistica, Università della Calabria • depietro@unical.it CARMELO PIU Professore ordinario, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università della Calabria • carmelopiu@yahoo.it CESARE FREGOLA Professore a contratto di Didattica della Matematica per l’integrazione e del Laboratorio di Pedagogia sperimentale, Università degli Studi dell’Aquila • fregola@uniroma3.it ANGELA PIU Professore associato di Pedagogia sperimentale, Dipartimento di Storia e Metodologie comparate, Università degli Studi dell’Aquila • angela.piu@cc.univaq.it DANIELA FRISON Dottoranda in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Padova • daniela.frison@unipd.it STEFANIA NAPOLI Università degli Studi di Salerno, Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione • napolistefania@gmail.com FRANCESCA PEDONE Ricercatore di Didattica e Pedagogia speciale, Dipartimento di Psicologia, Università degli Studi di Palermo • francescapedone@unipa.it LOREDANA PERLA Professore associato di Didattica generale, Dipartimento di Psicologia e Scienze pedagogiche e didattiche, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro” • l.perla@sc-form.uniba.it


editoriale PIETRO LUCISANO

“Non lasciarti influenzare, verifica tu stesso! Quel che non sai tu stesso, non lo saprai. Controlla il conto, sei tu che lo devi pagare. Punta il dito su ogni voce, chiedi: e questo, perché?” Bertold Brecht

Valutare per quale società? Gli incidenti che hanno accompagnato le indagini del sistema nazionale di valutazione della scuola, le prove per gli esami di scuola media, le polemiche che ogni anno seguono le prove di accesso universitarie, testimoniano che in tema di valutazione è il caso di muoversi prudentemente. Punta il dito su ogni voce, chiedi: e questo, perché? La cosiddetta cultura della valutazione è cresciuta, in particolare nel nostro paese, a partire da un taglio netto con le radici della ricerca scientifica nelle scienze sociali, e certamente con quelle della ricerca educativa e docimologica. Questa cultura della valutazione sembra piuttosto essere frutto della tecnocrazia informatica che cullandosi sull’illusione (quanta storia andrebbe studiata e insegnata) di possedere finalmente tecnologie in grado di misurare tutto e di mettere tutti sotto controllo, aspira a un centralismo illimitato basato sulla valutazione e sui controlli informatici. Forse è possibile, anche se molto difficile, lavorare alla valutazione delle competenze degli studenti, della qualità dei processi formativi, della produzione scientifica dei docenti universitari, ma certo è possibile solo a patto che prima ci sia una altrettanto rigorosa valutazione delle competenze di coloro che valutano e questo, per ora, sembra lontano dai nostri orizzonti. Ricordo che Visalberghi parlava continuamente della necessità di formare giovani alla ricerca educativa e alla ricerca valutativa, sottolineando la necessità che questi giovani venissero formati attraverso un lungo apprendistato di ricerca. Si è proceduto in altro modo e si è pensato che togliendo di mezzo i pedagogisti, i sociologi e gli psicologi e prendendo

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ora un fisico, ora un matematico, ora un economista, scelti con criteri politici, si potesse costruire la squadra necessaria per impiantare un sistema di valutazione per la scuola e per l’università. Servono persone competenti. Tutti gli incidenti di percorso citati sopra: prove mal concepite e mal tarate, errori nelle chiavi, item che mancano di validità, prove che misurano solo metà della popolazione testata, biseriali che non esistono, test di cultura generale, concetto che con buona pace di apocalittici e integrati non è né univoco né operazionalizzabile. L’esperienza ci conferma che non basta sapere tutto di botanica per coltivare carote, né sapere tutto di pedagogia per crescere bene i propri figli. Il concetto di competenza come ha avuto modo di sottolineare Pellerey, richiama l’idea di un knowing how, virtuoso, che non si improvvisa, che richiede anni di lavoro, elaborazione dei concetti, di validazione, di sperimentazione e taratura degli strumenti, di sofisticate analisi statistiche, di prove ed errori e aggiungerei di tanto ascolto e di tanta prudenza. C’è una storia di studiosi di area pedagogica impegnati sul tema della valutazione e della misura (Becchi, Borghi, Calonghi, Corda Costa, De Bartolomeis, Domenici, Gattullo, Tornatore,Vertecchi,Visalberghi), e non sono mancati esperti di altre aree disciplinari, penso a Ornella Andreani Dentici e a Lucia Boncori, a Enzo Barbagli, Anna Laura Fatiga Zanatta, Luciano Benadusi. In questa storia avevamo imparato tante cose sul sistema formativo sui voti e sulle misure di rendimento scolastico. Abbiamo imparato di valutazione anche da maestri come Mario Lodi o Alberto Manzi, da preti come Don Milani, ma anche da tanti colleghi insegnanti che hanno contribuito a fare uscire l’Italia dall’analfabetismo.Tutto quello che abbiamo imparato sembra in via di cancellazione. E non basta: per valutare bisogna conoscere i contesti considerare i fini in relazione ai mezzi, comprendere gli esiti, ma soprattutto avere chiaro qual è lo scopo che ci si prefigge. È inutile moltiplicare le misure sugli effetti rinunciando a capire le cause, così come è inutile confrontare esiti di situazioni completamente diverse e poi realizzare graduatorie e politiche su queste graduatorie, a meno che queste attività di ricerca siano solo copertura ben pagata di politiche che vogliono solo una giustificazione di facciata. Yale: 11.000 studenti, 3.500 docenti, 9.000 unità di personale tecnico e amministrativo. La Sapienza: 130.000 studenti, 4.000 docenti, 4.000 unità di personale tecnico amministrativo. Potremmo continuare confrontando l’età media dei ricercatori, i finanziamenti della ricerca, le borse di dottorato, le borse di studio per studenti meritevoli e bisognosi. Ha senso questo confronto? Quando propongo questi dati a qualche collega intriso della cultura della valutazione si sfila affermando che confrontare questi dati non ha senso perché a Yale gli studenti pagano molto… Ma se questo confronto non si può fare, è anche improponibile confrontare la produzione scientifica di un docente che svolge per necessità tante attività amministrative o didattiche. E’ ancora più difficile valutare la produzione scientifica della maggior parte delle sedi italiane in cui si dovrebbe fare ricerca educativa dato che non hanno ricevuto finanziamenti (ma in questo caso dobbiamo prenderla con filosofia). Dicevo ascolto e prudenza: un insegnante spesso sa di un ragazzo molto più di quanto ricaviamo da una manciata di item e forse in alcune parti del nostro paese i problemi sono ben più gravi di quanto non emerga dai dati dell’indagine PISA. Quando nel 1991 analizzammo con Silvana Ferreri i dati della prima indagine IEA sull’alfabetizzazione venne fuori che in alcune aree del paese i ragazzi avevano una alimentazione insufficiente e che questo dato, che faticavamo ad accettare, correlava con i cattivi esiti alla prova. Per quale società? Per quale mondo nuovo? L’orientamento attuale è di ridurre gli investimenti là dove si diagnosticano problemi, di far piovere sul bagnato, invece di cercare di

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far seguire alle diagnosi la cura necessaria. Maria Antonietta è stata condannata alla storia perché consigliava di dare delle brioches al popolo affamato eppure l’idea era meno sciocca di quella di tagliare le mense scolastiche o di aumentarne il costo. Per questo merita sottolineare il titolo del nostro convegno di dicembre. Valutare per quale società? Infatti a partire dalla valutazione delle politiche generali, delle condizioni strutturali, della puntualità degli adempimenti centrali, della coerenza delle direttive, dell’entità e delle modalità di distribuzione dei finanziamenti, delle condizioni per lo sviluppo dell’autonomia, c’è molto da valutare. Se la società che vogliamo costruire è quella disegnata dalla nostra Costituzione, c’è molto da valutare e molto più da fare. C’è un fare che non dovrebbe richiedere valutazioni, le scuole e le residenze universitarie dovrebbero essere solide, sulla necessità delle sedie c’è poco da discutere, così come sugli insegnanti di sostegno. Poi ci sono anche costi sociali da valutare: ad esempio il combinato di tanti provvedimenti ha portato tutte le università a ridurre l’offerta formativa così a settembre resteranno lasciare per strada decine di migliaia di ragazzi che avrebbero voluto o provato a studiare, e intanto siamo tra i paesi industrializzati il paese con meno laureati e intanto questi dispersi di sistema non avranno poche possibilità di trovare lavoro con i tempi che corrono. Quale società? Quale società forma gli insegnanti a costo zero? C’è una nostra responsabilità nella scomparsa di una visione educativa della valutazione. Troppo divisi, troppo dispersi, in difficoltà di fronte all’urto di un sistema mediatico che non dà spazi alla riflessione, in difficoltà nel trasformare il rapporto con le scuole e con gli insegnanti in una leva per il cambiamento, in difficoltà ad inseguire e commentare tutte le stravaganze e gli annunci di un sistema di governo che cambia continuamente le carte in tavola. Bisogna poi per parlare di valutazione non solo discutere di mezzi, ma anche di fini anche della triade a cui Gardner ha dedicato il suo ultimo lavoro: il buono, il bello e il vero. Il nostro convegno parte dalla consapevolezza della nostra responsabilità e si propone come momento di confronto per trovare una maggiore condivisione del ruolo dei nostri settori di ricerca, della necessità di una maggiore condivisione delle esperienze e dei risultati della ricerca, della necessità di un progetto di società buona, bella e verosimile in cui l’educazione sia un moltiplicatore di crescita e di coesione, e se questo progetto può sembrare azzardato o oneroso, valutate che abbiamo veramente poco da perdere, vale la pena.

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ricerche Developpement precoce du language et acquisition de la lecture/comprehension Sviluppo precoce del linguaggio e acquisizione della lettura/comprensione MARYSE BIANCO Questo articolo esamina le relazioni tra sviluppo precoce delle lingue (sia le abilità legate al codice sia le capacità di comprensione) e acquisizione della lettura, a livello di asilo nido e scuola dell’infanzia. Si tratta di una ricerca longitudinale di quattro anni che ha contemplato un campione di 1273 bambini francesi, che sono stati seguiti per quattro anni e che avevano quattro anni al momento dell'inizio dello studio. I bambini di età prescolare hanno partecipato ad uno dei due programmi di formazione, a quello sulla comprensione o sulla consapevolezza fonologica. I due programmi di formazione previsti hanno esplorato la possibilità di migliorare la comprensione orale dei bambini piccoli in un ambiente educativo. Il primo era incentrato sulle abilità di comprensione dei componenti, il secondo riguardava un setting di lettura di favole. La consapevolezza fonologica e la capacità di comprensione orale sono stati misurati più volte nel corso dello studio. I risultati hanno mostrato che è possibile migliorare la comprensione orale se la formazione si concentra sulle competenze dei componenti e si estende su due semestri. Quando queste condizioni sono state soddisfatte, gli effetti della formazione persistevano ancora dopo nove mesi dalla fine del programma. Inoltre, le competenze fonologiche e le abilità di comprensione si sono evolute in modo relativamente indipendente; come la formazione fonologica migliorato la consapevolezza fonologica, ma non la comprensione, così la formazione alle abilità di comprensione migliora la comprensione orale, ma non la consapevolezza fonologica. Infine, la modellizzazione strutturale (SEM) evidenzia che la performance relativa alla comprensione della lettura, misurata quando i bambini avevano 8 anni (grado 3), è significativamente prevista dalla capacità di comprensione orale al 5°/6° grado e dal grado in cui essi hanno migliorato la loro performance in età prescolare, indipendentemente dalle abilità di comprensione e di decodifica misurate in prima elementare. Questi risultati sottolineano l’importanza che uno sviluppo precoce della abilità di comprensione del linguaggio assume nell’aiutare l’acquisizione della lettura e della comprensione della lettura. Essi mostrano anche che è davvero possibile insegnare precocemente le abilità di comprensione in precisi contesti educativi.

This paper examines the relationships between early language development (both code-skills and comprehension skills), early training at pre-kindergarten and kindergarten, and reading acquisition. A four years longitudinal study is reported in which a sample of 1273 French children who were four years old at the onset of the study were followed for four years. During the preschool years, the children participated in one of two comprehension training programs, or in phonological-awareness training.The two comprehension programs explored the possibility of improving young children’s oral comprehension in an educational setting.The first focused on the component skills of comprehension; the second was a storybook reading setting. Phonological awareness and oral comprehension skills were measured repeatedly in the course of the study.The results showed that it is indeed possible to improve oral comprehension if the training focuses on its component skills and extends over two semesters. When these conditions were met, training effects still existed nine months after the program had ended. Moreover, phonological skills and comprehension skills evolved relatively independently as phonological training improved phonological awareness but not comprehension, and comprehension-skill training improved oral comprehension but not phonological awareness. Finally, structural modelling (SEM) showed that reading comprehension performance, measured when children were 8 years old (grade 3), is significantly predicted by oral comprehension skills at 5;6 and by the degree to which they improved their performances during the preschool years, independently of comprehension and decoding skills measured at first grade. These results underline the importance of the early development of language comprehension skills to help reading acquisition and reading comprehension.They also show it is indeed possible to teach very early those comprehension skills in explicit educational settings.

Parole chiave: linguaggio precoce, comprensione scritta, comprensione orale, studio longitudinale, formazione alla comprensione

Key words: early language; reading comprehension; oral comprehension; longitudinal study; comprehension training.

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1. Introduction La compréhension en lecture, son apprentissage et son enseignement sont devenus depuis quelques années des questions cruciales, objets d’une attention grandissante de la part des responsables des politiques éducatives. En effet, les grandes enquêtes internationales cherchant à évaluer l’efficacité des systèmes éducatifs des pays de l’OCDE ont montré que les élèves de 15 ans de nombreux pays obtiennent dans ce domaine des performances peu satisfaisantes (OECD, 2006). Il s’agit là d’un enjeu social considérable car si le but ultime de la lecture est bien de comprendre ce qui est imprimé, c’est aussi la condition d’études réussies. La lecture est un outil essentiel de l’acquisition de connaissances nouvelles et de l’adaptation sociale ultérieure des jeunes générations. Quelques travaux avaient montré, il y déjà une vingtaine d’années, que les différences interindividuelles à la fin de l’école primaire (11 ans) étaient largement attribuables aux performances en compréhension des élèves plutôt qu’à des difficultés de maîtrise du code (ou décodage) (Oakhill,Yuill, 1996). Pourtant la grande majorité des recherches en psychologie se sont focalisées sur la description des mécanismes qui conduisent à la maîtrise du code alphabétique ; il s’ensuit que l’on sait aujourd’hui assez bien décrire l’apprentissage de l’identification des mots, les difficultés auxquelles peuvent être confrontées les jeunes enfants et les moyens de les prévenir et/ou d’y remédier. C’est loin d’être cas pour la compréhension en lecture. Le développement de cette activité complexe reste mal décrit et son enseignement relève encore trop souvent de préconisations reposant sur la conviction des pédagogues pluôt que sur un étayage empirique solide. Des recherches récentes et en plein essor ont cependant apporté quelques résultats saillants montrant que 1) les mécanismes de la compréhension de textes ne sont pas spécifiques à l’écrit (Gernsbacher et al., 1990; Kendeou et al. 2008), 2) il existe une relation étroite entre le développement du langage oral précoce et les performances en lecture et compréhension des textes quelques années plus tard (Catts et al., 1999; Kendeou et al., 2009; NICHD, 2005, Cain, Oakhill, 2009; Vellutino et al., 2007) et 3) certains dispositifs d’enseignement de la compréhension se sont révélés efficaces pour améliorer la compréhension des élèves de l’école primaire et secondaire (Bianco et al., 2004, 2010; Connor et coll., 2004, 2006; Rosenshine & Meister, 1997; Trabasso, Bouchard, 2002). La présente communication s’inscrit dans cette perspective. Son objectif est de présenter quelques travaux ouvrant des pistes de réflexion et proposant quelques critères pour un enseignement précoce efficace des habiletés de compréhension. Après avoir donné une définition de l’activité de compréhension de textes et dressé un bref panorama de ce qu’on sait des relations entre le développement langagier précoce (avant 5 ans) et l’acquisition de la lecture au cours des premières années de l’école élémentaire, nous présenterons un ensemble de données empiriques montrant que l’on peut très tôt améliorer la compréhension des textes à partir d’un enseignement structuré et explicite, reposant sur des activités clairement spécifiées sur le plan théorique.

1. Qu’est ce que comprendre un texte? On s’accorde aujourd’hui pour considérer que la compréhension approfondie d’un texte consiste à élaborer progressivement au cours de la lecture ou de l’audition, une représentation mentale cohérente de la situation décrite (ou modèle de situation, Van Dijk et Kintsch, 1983). Celle-ci garantit l’intégration des informations, lues ou entendues, aux connaissances antérieures de l’individu. Autrement dit, à partir de la masse des données linguistiques pré-

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sentes dans un texte, tout lecteur doit extraire l’essentiel de ce qui est énoncé et intégrer les informations nouvelles à ses propres connaissances. Cette élaboration implique un ensemble complexe de structures et mécanismes propres au langage et des structures et mécanismes plus généraux, comme l’illustre la figure 1. En considérant que l’activité de compréhension démarre à partir du moment où les mots imprimés sont identifiés et leurs significations activées dans notre mémoire lexicale, on peut considérer que 3 grandes composantes organisent la description théorique de la compréhension: • Les mécanismes propres au traitement du langage eto des mécanismes plus généraux . t qui d garantissent l’intégration des informations. Au-delà de l’analyse syntaxique et sémantique r la formation d’une représentation p p et globalement de chacune des phrases, localement cohérente suppose en effet, le repérage des relations de sens qui transitent d’une phrase x q (ou d’une proposition) à l’autre. La compréhension de ces relations nécessite souvent la mise en œuvre d’inférences qui permettent de combler les fréquentes lacunes présentes dans les textes. • Les mécanismes stratégiques ou attentionnels qui permettent au lecteur d’exercer un contrôle de sa propre compréhension et de remédier, le cas échéant, aux difficultés rencontrées. Cette activité de contrôle et de régulation est essentielle à l’élaboration de la cohérence de l’interprétation et les meilleurs compreneurs sont plus habiles à cet exercice que les moins bons compreneurs. q De plus, cette dimension stratégiquep représente un point d’ancrage important des entraînements permettant d’améliorer la compréhension s s Bressoux, l’intégration 2004; des modèles de situation connaissances elle garantit (Bianco, 2009; McNamara, McNamara, Magliano,aux 2009; Rosenhine,s p Meister 1997; Trabasso, Bouchard, 2002). • La mémoire, qui permet de mettre en correspondance les connaissances dont dispose le lecteur avec les informations qui lui sont déjà connues ou nouvelles présentées dans les textes; elle garantit l’intégration des modèles de situation aux connaissances préalables du lecteur, autrement dit, l’acquisition de connaissances nouvelles lors de la lecture.

Figure 1: Mécanismes et structures de la compréhension

t q n Au-delà de cette présentation générale, trois catégories d’habiletés sont systématiquement désignées comme étant spécifiques à la compréhension des textes et expliquant chacune une part significative et indépendante des différences interindividuelles, une fois contrôlées les habiletés d’identification des mots, des capacités cognitives générales et des connaissances d s s lexicales (vocabulaire). Il s’agit de 1) la capacité à établir par inférence les relations implicites

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dans et entre les énoncés, 2) l’habileté à contrôler ce que l’on comprend ou non et à mettre en œuvre, le cas échéant, des procédures de régulation et 3) la gestion la structure textuelle (récit, texte argumentatif…) qui dépend en partie de la familiarité des lecteurs avec chaque type de texte. C’est de la mise en œuvre dynamique, souple, et souvent simultanée de ces traitements que dépendent la cohérence et la richesse de l’interprétation finale du texte. La compréhension n’est donc pas un phénomène unitaire mais relève toujours d’une interaction entre un lecteur, les habiletés et connaissances dont il dispose et les objectifs qu’il poursuit, et un texte doté de caractéristiques propres. La compréhension des textes peut donc être considérée comme une activité de construction qui aboutit à une représentation intégrée et cohérente de la situation décrite par le texte. Les modèles actuels se distinguent toutefois dans la manière de concevoir les mécanismes cognitifs sous-jacents à ces habiletés. Certains auteurs envisagent la compréhension comme une activité de perception et de mémorisation, très automatisée et reposant essentiellement sur des mécanismes élémentaires d’activation/inhibition des connaissances (Gernsbacher, 1990, Kintsch, 1998, Van den Broek et al., 1996). D’autres auteurs conçoivent la compréhension comme une activité cognitive attentionnelle comparable à une activité de résolution de problèmes. Dans cette perspective l’individu qui comprend un texte, le fait intentionnellement en fonction d’un objectif précis. Il met alors en œuvre des stratégies de traitement qui reposent sur des règles ou procédures d’analyse explicites et plus ou moins automatisées (Graesser et al., 1994; van Dijk, Kintsch, 1983). Finalement, il faut savoir lire pour comprendre mais il ne suffit pas de lire pour comprendre. Encore faut-il que l’on dispose d’une mémoire efficace et de mécanismes plus ou moins automatiques, également efficaces.

2. Le développement du langage oral et de la lecture Les recherches sur le développement de la compréhension sont en plein essor et si l’on ne dispose pas encore de modèle unifié dans ce domaine, quelques points saillants permettent de résumer les connaissances actuelles. Tout d’abord, les 3 habiletés citées ci-dessus (inférences, contrôle et maîtrise de la structure des textes), non spécifiques à l’écrit, expliquent chacune une part de la variabilité interindividuelle en matière de compréhension à l’oral, comme en lecture, indépendamment des capacités générales de traitement (mémoire de travail et intelligence verbale) et des habiletés de décodage. Cain, Oakhill, Bryant (2004) ont par exemple montré qu’à 8, 9 et 11 ans, les habiletés d’inférences et d’intégration, les capacités de contrôle ainsi que la connaissance de la structure des histoires (schémas de récit), mesurées à l’oral, expliquent chacune environ 10% de la variance observée en compréhension écrite. La part explicative des mécanismes d’inférence reste constante (ils expliquent à eux seuls environ 8 points de variance) alors que le poids du contrôle et de la connaissance des structures de récit, bien que demeurant significatif, diminue avec l’âge (de 7% à 3% et de 10 à 3% respectivement à 8 et 11 ans). De plus, les habiletés d’inférences et de contrôle mesurées à 9 ans et la connaissance des structures de récits à 7 ans prédisent chacune significativement les performances en compréhension observées à 11 ans (Cain, Oakhill, 2009).Ces résultats ont été récemment étendus aux enfants plus jeunes. Kendeou et ses collaborateurs (2008) ont en effet montré que dès l’âge de 4 ans, les habiletés d’inférences des enfants expliquent très significativement leur compréhension orale des récits indépendamment de leur niveau de vocabulaire et de leur capacité d’analyse du code oral (conscience phonologique). Les habiletés langagières de

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haut niveau se développent donc très tôt et sont directement utilisées par les jeunes enfants lorsqu’ils comprennent des textes (Kendeou et al., 2008, 2009). Par ailleurs, de nombreuses études longitudinales ont montré que les habiletés de haut niveau impliquées dans la compréhension et acquises précocement prédisent très fortement les performances de compréhension en lecture quelques années plus tard (Catts, Fey, Zhang, Tomblin, 1999; De Jong, Van der Leij, 2002; Dickinson, McCabe, Anastasopoulos, PeisnerFeinberg, Poe, 2003; Kendeou, van den Broek,White, Lynch, 2007; Leppänen, Niemi, Aunoa, Nurmi, 2006; Lesaux, Rupp, Siegel, 2007; Muter, Hulme, Snowling, Stevenson, 2004; NICHD, 2005;. Schatschneider, Fletcher, Francis, Carlson, Foorman, 2004; Storch, Whitehurst, 2002; Vellutino, Tunmer, Jaccard, Chen, 2007). Ces études convergent vers un relatif consensus que l’on peut résumer de la manière suivante. Le développement du langage oral, mesuré à 3 ou 4 ans sert de fondation à la différenciation de deux grands types d’habiletés : • Les habiletés d’analyse du code oral d’une part c’est-à-dire la capacité à analyser et manipuler les sons constitutifs de la langue (capacités phonologiques) et d’une manière générale les unités sonores (dénomination rapide, mémoire phonologique). Ces habilités, associées à l’acquisition des premières connaissances alphabétiques (connaissances des lettres, émergence de l’écriture) sont les précurseurs essentiels de l’acquisition de la lecture dans sa dimension décodage • Les habiletés langagières de haut niveau d’autre part, telles que la taille du lexique, les connaissances morphosyntaxiques, les capacités textuelles et d’inférences, jouent également un rôle fondamental et sont plus précisément impliquées dans la compréhension en lecture ; elles prédisent ensemble les performances qu’obtiennent les élèves en compréhension en lecture dès le CP (Bianco et al., en révision, Muter et al. 2004) et plus encore à partir du CE2, une fois les difficultés liées à l’acquisition du code alphabétique surmontées. Ces études montrent enfin que les habiletés langagières liées au code et celles liées à la compréhension peuvent être théoriquement et empiriquement distinguées. Elles se développent de manière relativement indépendante mais simultanée pendant la période préscolaire et toutes concourent à la construction d’un lecteur accompli (Gough, Tunmer, 1986, Vellutino et al., 2007), même si elles sont impliquées à des moments différents de l’apprentissage de la lecture. En définitive, ces travaux démontrent l’importance de développement langagier précoce pour l’apprentissage ultérieure de la lecture, dans sa dimension de maîtrise du code linguistique mis aussi dans la dimension de compréhension. Plus encore, en mettant l’accent sur la précocité du développement des habiletés langagières de haut niveau et leur implication dans les acquisitions scolaires ultérieures, ils indiquent que l’enseignement précoce du langage ne peut se réduire à un enseignement structuré quasi-exclusivement centré sur le code (code skills) au risque de susciter chez les enfants des représentations erronées du langage et de la lecture et d’être à l’origine de difficultés dans le développement de la compréhension des textes, une fois les difficultés liées au décodage dépassées par les jeunes élèves. Ces travaux incitent donc aussi à penser qu’un enseignement précoce de la compréhension doit être intégré dans les pratiques d’enseignement dès le début de la scolarité, avant et en même temps que l’apprentissage de la lecture.

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3. Apprendre et enseigner la compréhension On oppose toujours et traditionnellement deux formes d’enseignement de la compréhension, à l’oral comme en lecture : un enseignement caractérisé par l’imprégnation dans lequel le contact répété avec de nombreux textes constitue le moteur essentiel des progrès, à un enseignement direct et explicite, fondé sur l’analyse des habiletés et mécanismes sous-jacents à la compréhension des textes. Des travaux empiriques récents ont estimé l’efficacité de ces deux approches dans le développement de la compréhension à l’école primaire; les résultats montrent que si les deux approches présentes chacune un intérêt, l’enseignement explicite est l’approche la plus efficace pour enseigner la compréhension à l’école primaire, notamment avec les élèves, les plus jeunes et les plus faibles. 3.1 Pratiques d’imprégnation (Stanovich et al., 1986-1997) Les pratiques d’enseignement de la compréhension des textes reposant sur l’imprégnation répondent à des postulats théoriques souvent implicites mais très forts. Ceux-ci peuvent être résumés comme suit: La compréhension des textes, oraux ou écrits, n’est pas une activité spécifique mais ressort des capacités générales de l’individu. Il s’agit donc d’une capacité générale unitaire (ou difficilement décomposable) assimilable aux fonctions de perception et de mémorisation (Kintsch, 1998). Les mêmes mécanismes généraux d’activation et d’inhibition des connaissances qui sous-tendent la cognition humaine sont à l’œuvre dans la compréhension des textes. Cette activité ne s’enseigne et ne s’apprend donc pas explicitement. Son développement relève d’un apprentissage implicite, autrement dit d’un entraînement des mécanismes par la pratique; C’est donc le contact répété avec les textes qui permet l’intégration des mécanismes de la compréhension du simple fait que chaque individu porte attention aux textes qu’il lit ou entend. A son extrême, cette conception suggère que fournir aux élèves des occasions nombreuses d’être confrontés à des textes riches et variés est une condition nécessaire et suffisante au développement de la compréhension. Cette perspective est d’ailleurs la perspective classique adopté par nombre d’enseignants proposant en abondance à leurs élèves des activités pédagogiques de type «lecture silencieuse». Les effets des pratiques d’imprégnation sur le développement de la compréhension peuvent tout d’abord être illustrés par une série de travaux conduits par Stanovich et son équipe entre 1986 et 1997. Ces auteurs ont étudié les effets de l’imprégnation définie comme l’exposition à l’écrit, sur la compréhension et le développement des connaisssances sémantiques. La quantité d’exposition à l’écrit était définie comme la quantité de lecture pratiquée par un individu, hors obligation scolaire. Cunningham et Stanovich (1997) ont rapporté les données issues du suivi longitudinal de 30 enfants, sur une période de 10 ans. Ces données indiquent que l’exposition à l’écrit à 17 ans est prédite par les performances de lecture et de compréhension mesurées à 7, 8 et 10 ans. De plus, l’exposition à l’écrit et les performances en lecture à 7 ans prédisent significativement les performances en vocabulaire et en culture générale des élèves de 17 ans. Enfin, à la fin de l’école primaire, l’exposition à l’écrit explique en moyenne 10% de la performance des élèves de 11 et 12 ans en compréhension en lecture et en vocabulaire et 20% de leur niveau de culture générale (Stanovich et al., 1996). Autrement dit, le contact répétée avec les textes est un outil puissant du développement de la lecture et d’acquisition de connaissances. Cette pratique renforce le vocabulaire, les connaissances générales nécessaires à la compréhension et les mécanismes propres à la lecture. La propension à lire est en outre déterminée très tôt par la réussite en lecture puisque les

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performances mesurées à 7 ans déterminent encore partiellement l’exposition à l’écrit 10 ans plus tard! Les résultats ci-dessus ne vont pas sans soulever un problème de poids pour l’enseignement: en effet, ce que montrent aussi les recherches de Stanovich, c’est que ce sont les meilleurs lecteurs qui ont le plus tendance à s’exposer à l’écrit, les plus faibles fuyant ces situations; ce sont donc les meilleurs au départ qui bénéficient le plus des effets d’entraînement et d’intégration des mécanismes liées à la pratique de la lecture des textes de sorte que les écarts entre les meilleurs et les plus faibles s’accentuent au fil du temps (effet Matthieu). En d’autres termes, les pratiques d’enseignement de la compréhension fondées sur l’imprégnation, dans lesquelles le lecteur est l’acteur principal de sa lecture, risquent donc d’être peu bénéfiques pour ceux qui ont le plus besoin d’améliorer leurs performances: les enfants jeunes et/ou faibles lecteurs. C’est d’ailleurs ce qu’ont récemment montré Connor et ses collaborateurs (2004-2009) dans une série de recherches mettant en relation les pratiques des enseignants avec les progrès de leurs élèves. 3.2 Pratiques d’enseignement et performances des élèves (Connor et al., 2004-2009) Quelles sont les dimensions de l’enseignement qui favorisent l’apprentissage des élèves ? C’est à cette question que Connor et ses collaborateurs (2004-2009) ont cherché à répondre dans une série de recherches mettant en relation le contenu et la forme des activités langagières et/ ou de lecture- écriture proposées par des enseignants de maternelle et des premières années de l’école primaire avec l’apprentissage de l’apprentissage de la lecture. Nous présenterons ici les résultats observés dans les progrès en compréhension d’élèves de «grade 3», entre le début et la fin de l’année scolaire (Connor et al., 2004). 73 enfants de 8; 6 ans en moyenne en début d’année scolaire ont été sélectionnés aléatoirement au sein de 43 classes de «grade 3». Les activités scolaires dans lesquelles ces enfants étaient engagés ont été observées tout au long de l’année scolaire et une observation d’1/2 journée a été filmée en milieu d’année pour chaque classe. Les performances en compréhension en lecture, en identification de mots, en vocabulaire et en culture générale ont été évaluées en automne et au printemps de la même année scolaire. Les activités pédagogiques observées ont été codées selon quatre dimensions: • Le style pédagogique adopté par l’enseignant au cours d’une activité; l’activité est dite «teacher managed, (TM)», lorsque l’enseignant dirige l’activité et prend en charge la centration l’attention de l’élève; c’est essentiellement lui qui parle (lecture d’une histoire par l’enseignant). L’activité est dit «teacher/child managed, (TCM)», lorsque la centration de l’attention de l’enfant négociée dans une interaction active enfant/enseignant (lectures à haute voix interactives, enseignement de stratégies, par exemple). Enfin l’activité est codée «child managed, (CM)» si l’enfant est seul responsable de la centration de son attention (exercice individuel ou activité réalisée avec des pairs). • Le type d’activité langagière, centrée sur l’acquisition du code (CC) ou centrées sur le sens (CS). • Le type d’approche de l’activité, qui peut être explicite (E) lorsque l’activité est clairement désignée pour viser un aspect précis du développement du langage et /ou de la lecture (activité de résumé, de prédiction, d’analyse du vocabulaire, de discussion et d’argumentation, enseignement de stratégies); l’activité peut au contraire être implicite (I) lorsque le langage n’est pas l’objectif visé (jeu, cuisine, rédaction d’un invitation, lecture silencieuse…).

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• Le type d’enseignement; celui-ci est centré sur la classe (COL) si tous les élèves font la même chose en même temps, même s’ils travaillent individuellement; il est au contraire centré sur l’élève (IND) lorsque les enfants réalisent une activité spécifique, seuls ou en petits groupes. Chaque activité observée a été codée selon ces quatre dimensions. Ainsi par exemple, une séance de lecture silencieuse est caractérisés de la manière suivante (CM – E – CS – IND) alors qu’une leçon centrée sur l’utilisation d’une stratégie de compréhension ou une leçon de vocabulaire seront toutes deux codées (TM/TCM – E – CS – COL). Connor et al. (200*) ont analysé les effets du temps passé à chaque type d’activité sur les progrès des élèves. Un des résultats saillants a été de montrer que les progrès en compréhension en lecture sont liés au caractère explicite de l’activité et au fait que le maître orchestre l’activité, seul ou avec les élèves. Ce résultat est très marqué pour les élèves les plus faibles au départ. A l’inverse, et comme l’illustre la figure 2 ci-dessous, beaucoup d’activités de compréhension dans lesquelles les élèves doivent prendre en charge eux-mêmes le déroulement de l’activité, creusent les écarts entre les plus faibles et les meilleurs en début F d’année.

Activités Activitéés CME, CM ME, type type yp lectu lecture re silencieuse) si lencieuse)

Activités Activitéés TME, TM ME, E type type st stratégies rattégies

Figure2 : Evolution des scores en compréhension en lecture en fonction du temps passé en activité (CM-E-CS vs TM/TCM-E-CS) et du niveau des élèves en début d’année (d’après Connor et al., 2004)

En définitive, l’observation des pratiques scolaires confirment les résultats de Stanovich et de ses collaborateurs en montrant que plus les élèves sont faibles et plus ils passent de temps à des activités qu’ils doivent gérer eux-mêmes, même lorsque celles-ci sont explicitement focalisées sur le sens (lecture silencieuse par exemple), moins leurs performances sont bonnes en fin d’année scolaire alors que les activités explicites dirigées par le maître sont favorables aux apprentissages. 3.3 Enseignement explicite précoce de la compréhension (Bianco et al. (2010) Depuis une vingtaine d’années, de nombreux travaux de didactique expérimentale ont exploré la voie de l’enseignement direct et explicite de stratégies et ont montré que cette approche était efficace pour améliorer la compréhension des élèves de fin d’école primaire et de collège (Paris et al., 1984; Rosenshine et Meister, 1997; Trabasso et Bouchard, 2002). Au

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contraire de l’enseignement par imprégnation, l’enseignement direct et explicite repose sur une conception multidimensionnelle de l’activité de la compréhension, conçue comme une activité de résolution de problèmes. Dans cette perspective le lecteur est acteur de sa compréhension et cherche activement à établir la cohérence de ce qu’il lit en fonction des objectifs (ou standards de cohérence, Graesser et al., 1994) qui sont les siens. Il dispose pour cela de stratégies qui reposent sur des règles ou procédures d’analyse, explicites et plus ou moins automatisées. La compréhension des textes peut donc être théoriquement analysée en un ensemble de dimensions essentielles et l’enseignement doit attirer l’attention sur ces dimensions et permettre le développement des procédures de traitement qui les sous-tendent. L’enseignement de stratégies a donc pour objectif de désigner explicitement les dimensions essentielles de la compréhension (contrôle, habilités d’inférence, traitement détaillé et organisation des informations) et de faire appel à l’activité réflexive et délibérée des «compreneurs» afin de les aider à construire les procédures complexes de traitement des textes. L’enseignement explicite des stratégies de compréhension repose sur un enseignement direct dans lequel le maître joue un rôle central: il met l’accent sur les difficultés inhérente à la compréhension des textes, analyse et segmente la difficulté pour la rendre maîtrisable par les élèves, énonce les objectifs et les raisons de l’importance de la maîtrise de ces habiletés en question, guide l’apprentissage et donne enfin à voir, un modèle de l’expertise à acquérir par les élèves (Lima et al., 2006; Bianco, Bressoux, 2009). Cette approche de l’enseignement de la compréhension adopte donc une perspective opposée à celle de l’enseignement par imprégnation, et comme cela a été dit plus haut, de nombreux travaux empiriques ont attesté de l’intérêt de cette approche avec des élèves d’école primaire et de collège. Bianco et ses collaborateurs (2010, en révision) ont étendu ces résultats avec des enfants d’âge préscolaire en montrant qu’un enseignement explicite pouvait être adapté pour des enfants non lecteurs âgés de 4 à 6 ans et permettait d’améliorer significativement leurs performances en compréhension orale mais aussi en lecture quelques mois plus tard. La recherche réalisée par Bianco et al. avait pour objectif de répondre à un triple questionnement: 1. Les relations entre le développement du langage oral et l’apprentissage de la lecture d’une part, et de la compréhension en lecture d’autre part, mises en évidence dans les recherches anglophones sont-elles spécifiques à la langue anglaise ou peuvent-elles être étendues à d’autres langues (le français, en l’occurrence). 2. Si le développement précoce des habiletés de langage oral est effectivement un prédicteur important de la compréhension ultérieure en lecture, peut-on mettre en place dès 4 ans, des entraînements à la compréhension susceptibles d’améliorer les performances des élèves et de faciliter les apprentissages scolaires ultérieurs, comme cela a été montré pour les habilités liées au code (conscience phonologique notamment). 3. Si la réponse à la question précédente est positive, quel type d’enseignement est-il susceptible d’aider les jeunes enfants et quelle est la durée optimale de ces entraînements? Une cohorte de 1170 élèves, âgés de 4;6 ans au début de l’expérimentation, a été suivie pendant 4 ans. Les enfants étaient scolarisés en deuxième année d’école maternelle au début de l’étude et commençaient l’année de CE2 (grade 3) lors de la dernière évaluation. Au cours des deux premières années de l’étude, alors que les enfants suivaient l’école maternelle, les élèves ont bénéficié d’interventions pédagogiques ce qui a permis d’estimer l’influence des interventions sur le développement du langage oral d’une part et sur l’apprentissage de la lecture deux ans tard d’autre part. Ces programmes pédagogiques étaient destinés à améliorer précocement, les habiletés de traitement du langage oral avant que les enfants ne soient engagés dans l’apprentissage formel de la lecture. Trois entraînements ont été mis en place et étudiés:

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1) Deux entraînements étaient centrés sur le sens et avaient pour objectif de développer les habiletés de compréhension orale des jeunes enfants. Le premier était un programme d’analyse approfondie d’albums (programme AA). Il consistait en la lecture répétée du même album afin d’analyser précisément l’histoire et de permettre la discussion autour de celle-ci entre les enfants et le maître. Ce programme est très proche des pratiques pédagogiques relatives à l’enseignement du langage à l’école maternelle française où la lecture d’albums par l’enseignant est une pratique quotidienne. Le programme AA est un renforcement de cette pratique par le travail avec de petits groupes d’élèves afin de permettre la discussion autour du texte et l’analyse approfondie de celui-ci, grâce à des lectures répétées. Le second programme est un programme d’enseignement direct des habiletés fondamentales de la compréhension des textes (contrôle, inférence, connaissance de la structure des textes). Ce programme (programme «comprehension skills» – CS) était composé d’un ensemble d’exercices destinés à travailler chacun, une habileté spécifique impliquée dans la construction d’une interprétation partagée des textes. Ces exercices ont été conçus en collaboration avec un groupe d’enseignants expérimentés de l’école maternelle (Bianco, Coda, Gourgue, 2002, 2006). La dimension du contrôle par exemple, était introduite par des exercices dans lesquels les enfants devaient détecter et corriger des anomalies ou incohérences présentes dans une illustration ou entre un texte et son illustration (la figure 3A donne un exemple de ce type d’activité). L’objectif de ces séances était de faire prendre conscience aux enfants que des difficultés de compréhension peuvent exister dès lors que le langage est utilisé à d’autre fins que la conversation quotidienne, que l’on doit faire attention à ces difficultés et qu’il existe des moyens de les surmonter. Un autre ensemble d’activités était focalisé sur la réalisation des inférences nécessaires et des inférences logiques (traitement des anaphores, des connecteurs et de la causalité). Ces séances étaient destinées à enseigner les stratégies qui permettent de réaliser ces traitements et la résolution des éventuelles difficultés; elles étaient aussi destinées à mettre l’accent sur l’importance de l’interprétation des marques linguistiques de la cohésion et de la cohérence. Un troisième ensemble de séances était centré sur le raisonnement déductif et était destiné à apprendre aux enfants à utiliser des procédures de raisonnement logique pendant le traitement de matériel verbal. Enfin, l’ensemble de ces habiletés étaient ensuite intégrées dans des séances focalisées sur la construction de modèles de situation et de compréhension de la structure des histoires (La figure 3B donne un exemple d’une séance liée à la compréhension d’un modèle de situation). A- A nomalie de situation situation Anomalie

B laboration d’un modèle modèle de situation situation B- E Elaboration

Figure 3: Deux exemples d’exercices du programme CS (d’après Bianco, Coda & Gourgue, 2006)

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L’objectif de ces deux entrainements était de conduire les enfants à adopter une attitude active et réflexive par rapport aux interprétations qu’ils font des énoncés, en présentant l’activité langagière comme une activité de résolution de problème. Autrement dit, l’objectif était d’amener les enfants à considérer le langage est comme un objet de leur activité intellectuelle. 2) le troisième programme était un programme classique d’entraînement à la conscience phonologique (programme PHO, Lambert, Doyen, 2005) focalisé sur l’entrainement à analyser les unités sonores de la langue. Les programmes ont été administrés par les enseignants responsables des classes. Les entrainements étaient donc intégrés dans le curriculum des classes qui ont participé à cette étude. Les entrainements étaient réalisés avec des petits groupes d’élèves (5 à 7 élèves par groupes) ayant un niveau de compréhension ou de conscience phonologique homogène. L’objectif didactique fixé aux enseignants était de créer des débats au sein des groupes afin que les enfants adoptent une attitude active et réflexive face au langage. Ils devaient veiller à donner la parole à chaque enfant pour qu’il argumente et confronte son raisonnement à celui de ces camarades. Chaque élève a bénéficié d’une séance hebdomadaire de 30 minutes environ pendant une ou deux semestres en fonction des conditions expérimentales. Au total, chaque élève a participé à 14 ou 16 séances par semestre, soit 7 ou 8 heures d’enseignement par année. Les 1170 élèves étaient scolarisés dans 44 classes de 44 écoles différentes (une classe par école a participé à ce programme chaque année). Ils ont été répartis en 4 groupes expérimentaux en fonction des entrainements dispensés: le premier groupe a bénéficié de l’entrainement spécifique aux habiletés de compréhension (programme CS, 312 élèves), le second groupe a reçu l’entrainement de compréhension par l’analyse d’albums (programme AA, 221 élèves) et le troisième groupe a reçu un entrainement à la conscience phonologique (programme PHO, 386 élèves). Le quatrième groupe était un groupe témoin (354 élèves). Les trois groupes expérimentaux ont encore été scindés en deux sous-groupes: les trois premiers ont été entraînés pendant deux semestres, un semestre au cours de la première année de l’étude (les enfants étaient âgés de 4 à 5 ans et fréquentaient la classe de «moyenne section» de l’école maternelle française) et un semestre au cours de la seconde année (les enfants étaient âgés de 5 à 6 ans et fréquentaient la classe de «grande section» de l’école maternelle française). Ces groupes sous-groupes forment les groupes CS1, AA1 et PHO1 respectivement. Les trois autres sous-groupes ont été entrainés un seul semestre au cours de la deuxième année de l’étude (les enfants étaient âgés de 5 à 6 ans et fréquentaient la classe de L «grande section» de l’école maternelle française) et correspondent aux groupes CS2, AA2 et PHO2 respectivement. Les performances des élèves ont été évaluées à 5 reprises pendant les quatre années de l’étude comme l’indique le tableau 1. T1. 4ans novembre

T2

4;6 ans Mai

T5

6 ans Mai

T4. 6;6 ans mars/avril

T5. 8 ans septembre

Comp. orale

Comp. orale

Comp. orale

Comp. orale

Conscience phonologique

Conscience phonologique

Conscience phonologique

Lecture

Lecture

Comp. en lecture

Comp. en lecture

Tableau 1: planning des évaluations réalisées au cours des années et âge moyen des élèves

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Des modèles multiniveaux de croissance ont tout d’abord été construits pour étudier l’évolution des acquisitions langagière des élèves en compréhension orale estimée à 4 reprises (T1 à T4) et en conscience phonologique (T1 à T3) en fonction des groupes expérimentaux auxquels ils appartenaient. Ces modèles permettent de prendre en compte non seulement le niveau d’acquisition des élèves mais aussi le rythme de leur progression (Bianco, Bressoux, 2009, Bianco et al., 2010). Les résultats obtenus pour la compréhension orale sont illustrés à la figure 4 et les résultats obtenus en conscience phonologique sont illustré dans la figure 5. La figure 4 montre l’évolution moyenne des scores de compréhension orale des 7 groupes d’élèves entre la première évaluation (T1) et la dernière évaluation en milieu de cours préparatoire (grade1, T4), en tenant compte des résultats de chacun d’eux aux évaluations intermédiaires. On observe tout d’abord que les groupes expérimentaux ont des évolutions bien différentes. Sur la période de l’école maternelle, les groupes de compréhension entrainés aux stratégies (CS) progressent plus que les élèves du groupe contrôle et des groupes entraînés à la lecture approfondie d’albums (AA) qui évoluent de manière comparable au groupe contrôle. Les groupes entraînés à la phonologie (PHO) et le groupe entrainé à la compréhension pendant un seul semestre(CS2) présentent un profil en U inversé montrant des progrès importants en début de période puis une décroissance. En fin de période T4, les performances en compréhension orale des élèves entrainés à la phonologie ne se distinguent L plus de celle des élèves des groupes témoin et AA. Ceux du groupe CS2 obtiennent des performances supérieures mais les progrès liés à l’entraînement ne durent pas au-delà de l’exposition à l’entraînement. Le profil du groupe qui a suivi l’entrainement CS pendant deux semestre est bien différent puisqu’on observe pour ce groupe une évolution linéaire et une progression nettement supérieure à celle des autres groupes, progression qui est maintenue plusieurs mois après la fin des entraînements (l’évaluation en T4 a eu lieu 9 mois après la fin des entraînements). L’entraînement centré sur les habiletés spécifiques de la compréhension a donc produit des effets positifs et durables sur la compréhension orale. Ces résultats permettent de répondre aux questions 2 et 3 posées à l’origine de cette recherche: il est possible d’entraîner très tôt les habiletés spécifiques impliqués dans la compréhension des textes à partir de dispositifs d’enseignement explicite, proposant des activités ciblées sur les mécanismes. Ces entraînements doivent en outre être réguliers et s’inscrire dans le long terme pour être efficaces. Les résultats sont ici tout à fait compatibles avec les données de Connor et al. 2004) décrit au paragraphe précédent et renforcent l’idée selon laquelle un enseignement explicite et direct est une condition de l’amélioration des performances de compréhension orale des jeunes enfants. CS

CS CO CONT/ NT/ AA 1 &

PH O1& PHO

Figure 4: Courbes de croissance des performances en compréhension orale comme une fonction des groupes expérimentaux et contrôle (d’après Bianco et al. 2010)

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En ce qui concerne l’évolution des performances en conscience phonologique, les résultats sont très comparables à ceux qui viennent d’être décrits pour la compréhension. La figure 5 montre l’évolution moyenne des scores de conscience phonologique des 7 groupes d’élèves entre la première évaluation (T1) et la troisième, réalisée en fin d’école maternelle à l’issue de la période d’entraînement (T3). On observe là encore que les groupes expérimentaux ont des évolutions bien différentes. Les groupes entrainés à la phonologie (PHO) progressent plus que le groupe contrôle et les groupes entraînés à la compréhension (AA et CS) qui évoluent de manière comparable au groupe contrôle. Les deux groupes entraînés à la phonologie se distinguent également l’un de l’autre, puisque seul le groupe entraîné pendant les deux années de l’étude montre une progression régulière et positive sur la période. Là encore, l’entraînement régulier et inscrit dans la durée est une condition essentielle du progrès des élèves. Ce résultat corrobore en outre, les données de l’abondante littérature relative au développement de la conscience phonologique avant l’apprentissage de la lecture et les conditions de l’efficacité de ces entraînements (Ehri et al., 2001). PHO

PHO

CO CONT/ NT/ AA 1/ 1/CS CS 1 &2

Figure 5: Courbes de croissance des performances en conscience phonologique comme une fonction des groupes expérimentaux et contrôle (d’après Bianco et al. 2010)

Les effets des entraînements sont donc très convergents. Ils montrent nettement que l’amélioration des habiletés de langage oral par l’enseignement, passe par des dispositifs explicites, réguliers et s’inscrivant dans la durée. Les résultats montrent en outre que les entrainements ont des effets spécifiques: l’entrainement à la conscience phonologique améliore les capacités de conscience phonologiques des élèves mais pas leur compréhension orale. A l’inverse, le programme de compréhension centré sur les habiletés (CS) a permis d’améliorer la compréhension orale mais pas la conscience phonologique. Autrement dit, ces données renforcent l’idée selon laquelle les habiletés langagières liées au code et les habiletés de compréhension orale représentent deux aspects fondamentaux mais distincts du langage, qui se développement de manière relativement autonome au moins à partir de 4 ans. Afin d’étudier les relations existant entre les aspects du langage oral étudiés dans cette recherche et l’acquisition de la lecture, nous avons spécifié des modèles structuraux (SEM) mettant en relation les performances de langage oral en fin de grande section et le rythme des progrès de chaque élève (estimés par des modèles de croissance) avec les performances en lecture à 6;6 ans (grade1,) et à 8 ans (grade3). Le modèle1 qui explique le mieux nos

1 Paramètres d’ajustement du modèle présenté : GFI= .998, RMSEA= 0 and Chi2 (ddl=6) = 2.42, p=.877.

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données est détaillé dans la figure 6. On observe que les niveaux atteints en fin d’école maternelle (5; 6 ans) ont une influence directe sur les performances observées à 6; 6 and mais aussi au 8; Les analyses structurales confirment que les habiletés liées au code sont déterminantes dans l’apprentissage initial de la lecture. Elles confirment également que les habiletés liées au code et les habiletés langagières précoces de plus haut niveau convergent pour exe pliquer le niveau de compréhension en lecture à 9 ans (grade 3). Elles soulignent enfin l’importance p du développement précoce des habiletés de compréhension: p p celles-ci expliquent non seulement une part indirecte et importante de la variance observée en compréhension s les performances de compréhension orale à 6; 6 ans, mais elles expliquent écrite à 8 ans, via aussi de manière indépendante et directe une part significative de cette même variance. Le poids des performances en compréhension et celui de la dynamique des progrès à l’école maternelle influencent directement et indépendamment les performances observées à 8 ans. Ces résultats renforcent le sentiment que former de bons décodeurs ne suffit pas, dans bien des cas, à former des lecteurs/compreneurs compétents. La formation de lecteurs compétents passe aussi, semble-t-il, par l’enseignement très précoce des habiletés de compréhension.

Figure 6: Poids des performances langagières précoces et de la dynamique des progrès I dans les performances ultérieures en compréhension écrite (d’après Bianco, 2010)

r u

r

4. Conclusion

o

d

Apprendre aux enfants à lire de manière fluente les mots imprimés est nécessaire mais ne suffit de toute évidence par à former des lecteurs compétents capables de comprendre ce qu’ils lisent. Les recherches longitudinales récentes ont montré que les habiletés de compréhension de langage oral sont intimement liées à la compréhension en lecture. Elles montrent aussi qu’il existe une relation très forte entre le développement précoce de ces habiletés et l’apprentissage de la lecture d’une part et de la compréhension en lecture d’autre part. Ces travaux mettent l’accent sur enfants à construire ces u d la nécessité d’aider les tous jeunes à mécanismes à l’oral, bien avant et tout au long des années de l’école primaire afin d’aider les plus faibles à devenir des lecteurs compétents. Par ailleurs, les recherches qui ont proposé et évalué des dispositifs pour enseigner la compréhension, mais aussi les recherches qui ont analysé les effets des modes d’enseignement sur les performances des enfants, apportent des données convergentes montrant que quelques conditions doivent être réunies pour que les

s

o

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p

n


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dispositifs d’enseignement permettent une amélioration sensible de la compréhension des textes. L’enseignement doit être explicite (ou direct), c’est-à-dire qu’il doit être délibérément centré sur les habiletés fondamentales qui sous-tendent la compréhension des textes. L’enseignant y joue un rôle central; c’est lui qui fixe les objectifs, qui étaye et supervise; c’est lui qui guide et montre les stratégies (ou procédures); c’est lui enfin, qui encourage les élèves à adopter une attitude active et réflexive et qui centre l’attention sur les difficultés. L’enseignant est donc celui qui «orchestre» les apprentissages et qui conduit les élèves à coopérer à l’appropriation des stratégies de compréhension par l’entraînement et par la discussion et le débat. Enfin comme nous l’avons montré, l’enseignement de la compréhension peut et doit démarrer très précocement et s’inscrire sur le long terme afin que les élèves les plus en difficulté puissent construire à l’oral les procédures qui leur permettront de comprendre les textes qu’ils liront quelques années plus tard. Les quelques pistes tracées ici laissent entrevoir le travail qu’il reste à accomplir pour proposer des curricula, théoriquement étayés et empiriquement validés, susceptibles d’accompagner le développement des habiletés de compréhension des enfants tout au long de leur scolarité. C’est probablement au prix de cette réflexion que les systèmes éducatifs pourront conduire une majorité d’enfants à la lecture maîtrisé et experte.

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ricerche Il microteaching rinascerà a nuova vita? Video annotazione e sviluppo della riflessività del docente The microteaching reborn to new life? Video annotation and development of teacher reflectivity ANTONIO CALVANI – GIOVANNI BONAIUTI – BERNARDINO ANDREOCCI Lo sviluppo del pensiero riflessivo è sempre più al centro del dibattito relativo alla formazione degli insegnanti. Una possibilità per favorirlo può essere rappresentata oggi dall’impiego dei video digitali che in virtù della loro flessibilità ed amichevolezza d’uso ripropongono, con funzioni e modalità del tutto nuove, metodologie ed esperienze svolte negli anni passati con la tecnica del microteaching. In questo ambito una funzionalità interessante è rappresentata dalla video annotazione, ovvero dalla possibilità di inserire commenti testuali sincronizzati a specifici momenti della registrazione di una lezione, rendendo altresì condivisibile, in rete, l’esperienza individuale all’interno di una comunità di tirocinanti in formazione. Il presente lavoro è indirizzato a valutare se l’impiego della video annotazione si differenzi da altri strumenti di supporto (scaffold) nel promuovere la riflessione degli insegnanti. A questo scopo vengono comparati tre gruppi di giovani insegnanti chiamati a riflettere e commentare una propria lezione con dispositivi diversi: il primo senza scaffold, il secondo con l’ausilio di un questionario orientativo, il terzo con l’ausilio aggiuntivo di una revisione del video della lezione e della video annotazione. I dati raccolti mostrano significative differenze nella tipologie dei commenti in rapporto ai diversi dispositivi preposti all’autoriflessione ma anche come queste differenze non si conservino quando i gruppi sono ricollocati nella condizione originaria.

Increasing the quality of reflective practice in teacher training is a focal point in the current educational debate. A new opportunity has been opened up by the use of digital videos offering highly innovative functions according to procedures resembling the microteaching experiences of recent decades. An interesting tool in this context is video annotation, a function offered by various software programmes allowing the user and/or observers to add comments to the digital videos of the lessons and to share them in a community of practice This work intends to examine how video-supported reflection techniques influence teachers’ capacity for self-analysis, revealed by means of written comments, and will focus, in particular, on how the video annotation tool may influence the type of comments made. The study compared three groups of young teachers, who were asked to reflect and comment on one of their lessons in three different sets of conditions: the first without scaffolding, the second with the help of a questionnaire, the third with the additional support of a review of the lesson video using the video annotation tool. The data collected showed that types of comments made varied significantly depending on the self-reflection technique adopted but that these differences were not maintained when the groups reverted to the original conditions.

Parole chiave: formazione degli insegnanti, pensiero riflessivo, video annotazione, microteaching

Key words: teacher training, reflective practice, video annotation, microteaching

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1. Introduzione Come noto, sulla scia di una tradizione che parte dal pensiero di Dewey (1961, ed. or. 1933), ripreso più recentemente da Schön (1993; 2006), la riflessività – intesa come attitudine del docente ad analizzare e riflettere ricorsivamente sulle proprie pratiche1 – è ritenuta fondamentale per il raggiungimento del successo educativo e per lo sviluppo di un sapere professionale specifico. Se esiste ormai un prevalente interesse sul fatto che la riflessività meriti di essere considerata una componente essenziale nei programmi di formazione degli insegnanti è pur vero che non risulta una univoca definizione di questo concetto (Freese, 1999; Rodgers, 2002) e che resta da affrontare il problema di renderla operazionalizzabile (Rodgers, 2002) in modo da consentire la definizione di strategie mirate per arricchirne lo sviluppo (El-Dib, 2007). Relativamente al concetto di riflessività, in letteratura possiamo individuare due accentuazioni prevalenti, anche se non reciprocamente escludentesi: • una prima processuale, volta cioè a rappresentare la riflessività come processo di natura, esperenziale, problemico-critica e ricorsiva (sulla scia di Dewey, Schön, e di modelli applicativi quali quelli di Kolb e Fry, 1975); questo tragitto che integra dialetticamente teoria e pratica si caratterizza per alcuni passaggi cruciali quali il richiamo alla mente di un’esperienza vissuta, la consapevolezza di aspetti o problemi critici in essa presentatisi, una situazione di incertezza e di sospensione del giudizio, una fase di esplorazione ed indicazione di metodi alternativi di azione; • una seconda gerarchica che tende a distinguere i livelli di qualità diversa dell’attività cognitiva impegnata, con una differenziazione fondamentale tra un livello di descrittivismo superficiale ed acquiescente al dato (commenti osservazioni banali e generici, constatazioni ovvie) e livelli superiori che comportano attività di interpretazione, argomentazione, esplicazione, fino a coinvolgere speculazioni teoriche che mettono in discussione il proprio ruolo e la propria identità professionale sul piano etico e sociale (Van Manen, 1977; Zeichner, Liston, 1996; Hatton, Smith, 1995). Oggi, sul piano applicativo, per favorire la riflessività si è soliti allestire interventi che prevedano attività di affiancamento del soggetto da parte di un mentore e/o la supervisione di tutor (Tauer, 1996), la discussione tra pari, il confronto all’interno di un gruppo collaborativo (DuFour, 1998) eventualmente nell’ambito di un processo di ricerca azione (Costello, 2011). L’attività può essere accompagnata da vari strumenti di supporto, in genere basati su resoconti scritti sull’esperienza: portfolio (Seldin, 1991; Hamm e Adams, 1992; Zubizarreta, 1994; Borko et al., 1997; Adamy, 2008), report e autobiografie (Powell, 1985; Pak, 1985),

* Il lavoro è stato realizzato collaborativamente dai tre autori: Antonio Calvani ha curato prevalentemente l’impianto teorico e la metodologia sperimentale; Giovanni Bonaiuti l’esame della letteratura e dei sistemi di video annotazione; Bernardino Andreocci ha effettuato l’applicazione. 1 Per una visione aggiornata della letteratura internazionale sull’argomento si vedano Pultorak (2010) e Lyons (2010). Anche nel nostro paese il dibattito sulla riflessività negli ultimi anni si è arricchito su diversi fronti: quello della dimensione esperenziale (Striano, 2001; Mortari, 2003; Montalbetti, 2005), quello dei saperi dell’insegnante e della sua autoconsapevolezza (Damiano, 2008), quello relativo al ruolo delle comunità di pratiche (Fabbri, 2007; Fabbri et al., 2008), quello della valutazione delle competenze (Capperucci, 2007) e quello della progettualità (Cerri, 2002; Nuzzaci, 2009).

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diari e giornali riflessivi (Jarvis, 1992; McDonough, 1994; Francis, 1995;Tang, 2002; Spalding, Wilson, 2002). Inoltre, sulla scia della grande enfasi che assumono oggi i video digitali nell’ambito del cosiddetto Web 2.0 (si pensi a Youtube), si sta facendo strada un approccio basato sulla revisione di riprese video e che trova un suo antecedente nel classico microteaching (Allen, Clark, 1967; Johnson, 1967; Allen, Ryan, 1969; Cooper, Allen, 1970). Il microteaching è una tecnica nata negli anni ’60 all’Università di Stanford per l’addestramento di specifiche abilità didattiche e che vede la ripresa video dell’insegnante impegnato nello svolgimento di brevi lezioni davanti ad un ristretto numero di studenti e nella successiva revisione delle registrazione assieme ad uno o più supervisori. In quel periodo storico, l’interesse era, coerentemente con il frame culturale del momento, orientato al modellamento comportamentale. A partire dagli anni ’70 il dibattito si allarga sui metodi, sui presupposti teorici e sulle opportunità di tale tecnica (Klinzing, Floden, 1991). Dalla fine degli anni ’80, con lo spostamento dell’attenzione sui modelli cognitivi, la ricerca si orienta soprattutto su indagini relative al pensiero degli insegnanti e al processo decisionale (Rich, Hannafin, 2009). Esperienze significative sono svolte in quegli anni anche in Italia (Ballanti, 1975; Cerri, Gennari, 1984; Santagata, 2003). In generale si tende oggi ad un approccio più eclettico, articolato su piani diversi di riflessività: l’insegnante viene posto nella condizione di potersi “guardare allo specchio”, di poter valutare la “situazione pedagogica” nel suo insieme e produrre così un maggiore sviluppo della sua consapevolezza. L’insegnante, grazie alle videoregistrazioni, prende coscienza del grado di adeguatezza delle proprie azioni rispetto al contesto complessivo e può soffermarsi ad analizzare con un maggiore dettaglio aspetti specifici del proprio intervento didattico quali le decisioni assunte, il comportamento, la gestualità e lo stile comunicativo. Oggi, con il passaggio dalle tecnologie analogiche a quelle digitali, che rendono il processo più semplice, economico e versatile, si rendono disponibili inedite opportunità di impiego dei video nel campo educativo (Bonaiuti, 2010) e, in particolare, nella formazione iniziale dei docenti (Cannings et al., 2002; Liedtka, 2001; Lin, 2005; Llama et al., 2003). Una delle funzionalità più interessanti è la video annotazione (Preston et al., 2005), ovvero la possibilità di inserire commenti testuali sincronizzati con il video. Queste tecniche si sono rapidamente diffuse, in particolare nei paesi anglosassoni, nell’ambito della formazione iniziale degli insegnanti con lo scopo di facilitare il processo di riflessione e di autoanalisi (Rich, Hannafin, 2008) sulle proprie competenze comunicative e didattiche e favorire l’identificazione di dissonanze tra teoria e pratica, tra progettualità ideale e applicazione (Bryan, Recesso, 2006).

2. L’indagine Le diverse esperienze di utilizzo dei video nella formazione insegnanti, documentate in particolare nel Nord America, rivelano un forte interesse verso queste tecniche.Tuttavia, come osservano Rich e Hannafin “sebbene gli insegnanti abbiano usato i video per arricchire la propria riflessività per almeno venti anni, l’avvento della video annotazione è relativamente recente; sia i tool che l’evidenza di supporto stanno solo adesso cominciando ad affiorare” (Rich, Hannafin, 2009). Di fatto non esistono ancora ricerche sistematiche in grado di fornire solide ricerche evidence-based anche perché la ricerca empirica rimane per lo più vincolata alle valutazioni soggettive dei partecipanti. Tra le indagini più significative possiamo citare Wright (2008) che, comparando pratiche riflessive tradizionali basate su commenti scritti, evidenzia come il processo di analisi supportato dal video abbia un impatto positivo sulle abilità riflessive dei docenti dal momento che li aiuta a descrivere, analizzare critica-

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mente il loro insegnamento da diverse prospettive. Grazie alla video analisi i docenti si trovano ad essere maggiormente coinvolti e, conseguentemente, aumenta il volume dei loro commenti come pure la loro qualità (descrizioni più ricche e profonde). Una interessante conseguenza è, inoltre, rappresentata dal fatto che gli insegnanti hanno la percezione di una maggiore efficacia. Analogamente Snoeyink (2010) giunge ad affermare che l’auto analisi attraverso la revisione delle video lezioni può portare benefici nella riduzione di alcuni noiosi manierismi dell’insegnante e ad un miglioramento della capacità di gestione della classe, insieme ad una accresciuta consapevolezza del processo di riflessione-azione. Il presente lavoro si pone quindi l’obiettivo di verificare se, e in che misura, la video annotazione possa modificare la riflessività del docente e, in generale, se questa tecnologia possa risultare applicabile anche in un contesto culturale come quello italiano. Parlando di riflessività ci rifaremo alle due accezioni cui abbiamo precedentemente accennato (quella gerarchica e quella processuale): • la valutazione del livello di qualità cognitivo-riflessiva impegnata, attraverso indicatori volti a distinguere nei commenti un livello superficialmente descrittivo da livelli più alti (giustificativi, interpretativi, speculativi); • la ricerca di indicatori di consapevolezza problemica e progettuale, connessi alla rappresentazione della riflessività nella sua accezione di circuito teorico pratico. La ricerca qui presentata coinvolge insegnanti che svolgono una lezione e sono poi richiamati a formulare commenti scritti su di essa. Ha come oggetto il modo in cui supporti diversi (scaffold) possano favorire facilitare il processo di riflessione nelle accezioni sopra indicata. In particolare sono confrontati i risultati di tre diversi gruppi di docenti in tre diverse situazioni sperimentali, una delle quali esposta all’uso della video annotazione. Per la video annotazione ci si è avvalsi di VideoANT, applicazione web based sviluppata dalla University of Minnesota ed utilizzabile gratuitamente online.VideoANT, come la maggior parte degli ambienti di video annotazione, consente di scorrere il video e, contestualmente, inserire commenti testuali nei punti ritenuti opportuni. Il sistema tiene traccia delle diverse note mostrandole a lato del video, mentre una serie di bandierine sulla timeline informa circa la collocazione delle diverse annotazioni nel tempo (Fig.1). 2.1 Disegno sperimentale Il progetto di ricerca vede il coinvolgimento di tre gruppi di insegnanti della scuola primaria (ciascuno di 3 soggetti) all’inizio della carriera (con meno di 5 anni di insegnamento). I tre gruppi sono posti nella stessa condizione sperimentale, quella cioè, di tenere una lezione di venti minuti, videoripresa. Dopo la prima fase comune il primo gruppo (Gr.1) compila una scheda di commento sulla propria lezione senza avvalersi di alcun supporto, il secondo gruppo (Gr.2) compila la scheda dopo aver risposto ad un questionario orientativo (strumento di scaffold), il terzo gruppo (Gr.3) compila la stessa scheda dopo aver risposto al questionario orientativo (come il secondo gruppo) e, in più, aver rivisto e annotato il video. La telecamera viene impiegata in ognuno dei gruppi, ma solo il Gr.3 ha la possibilità, dopo tre giorni, di rivedere il video e di utilizzare lo strumento di video annotazione per inserire i propri commentare sui diversi frangenti del video.

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Figura 1. Le tre aree funzionali dello strumento di video annotazione impiegato dal gruppo 3. Lo strumento si chiama VideoAnt, è utilizzabile direttamente in rete, e prevede la possibilità di visualizzare il video (1), inserire dei commenti (2) in un determinato frangente dello scorrimento del video stesso (3)

Le fasi sono le seguenti: a) A tutti i maestri viene richiesto di preparare ed effettuare due lezioni partecipate (cioè atte a favorire il massimo dialogo con gli alunni) della durata di circa 20 minuti, secondo uno schema prefissato (presentazione del tema, attivazione delle preconoscenze, nuove informazioni, sintesi finale e consegne per approfondimento), per alunni di 8-9 anni su argomenti curricolari scelti dagli insegnanti stessi. Le due lezioni vengono tenute a distanza di una settimana di tempo l’una dall’altra. b) Al termine della prima lezione tutti i soggetti dei tre gruppi, in modo uniforme, compilano su carta una scheda in cui si chiede loro di inserire quanti più commenti possibili volti a segnalare sia aspetti positivi o criticità nei vari momenti della lezione appena effettuata (scheda S1, di primo inserimento o di “input”). c) Dopo tre giorni si introduce la variabile indipendente: agli insegnanti si chiede di compilare una seconda scheda (S2, scheda dei commenti aggiunti), analoga alla precedente, nella quale si chiede di aggiungere ulteriori commenti rispetto a quelli già inseriti in S1, operando però in condizioni diverse. In questo caso i maestri del primo gruppo inseriscono le aggiunte basandosi solo sulla rievocazione mnestica, quelli del secondo gruppo dopo aver preliminarmente risposto ad un questionario con domande orientative, quelli del terzo gruppo, dopo aver risposto allo stesso questionario ed aver anche rivisto e videoannotato la lezione (il questionario orientativo impiegato nei Gr. 2 e Gr. 3 è riportato in allegato 1). d) Dopo una settimana dalla prima i maestri effettuano la seconda lezione. In questo caso si riproduce la situazione iniziale: tutti i soggetti, in modo uniforme, compilano al termine

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in S1, operando però in condizioni

d

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della lezione una nuova scheda (S3, scheda finale o di “output”) senza passare dall’intermediazione di alcun scaffold. Questa applicazione, che ripristina la situazione iniziale, ha lo scopo di consentire di valutare se qualcosa che è cambiato permane nel tempo, ripriconsentire di v stinando la situazione iniziale di commento a caldo senza scaffold. Lo schema dell’esperimento può dunque essere così sintetizzato: Scheda

Quando

Come

Scheda S1 - input (primo inserimento)

Scheda S2 - commenti aggiunti (inserimento di ulteriori commenti)

Scheda S3 - output (compilazione finale)

Immediatamente dopo la prima lezione (la scheda raccoglie i commenti “a caldo”)

Compilata tre giorni dopo la prima lezione

Immediatamente dopo la seconda lezione (una settimana dopo la prima lezione)

Per tutti i tre gruppi, si compila in modo uniforme su carta appena finita la lezione (senza scaffold).

Viene compilata dopo aver messo i tre gruppi in condizione diverse (variazione dello scaffold che è la variabile indipendente dell’esperimento). GR 1: Si chiede di aggiungere commenti solo sulla base del ricordo GR 2: Si chiede di aggiungere commenti dopo aver risposto ad un questionario orientativo GR 3: Si chiede di aggiungere commenti dopo aver risposto ad un questionario orientativo ed aver rivisto e videoannotato il video della propria lezione

Raccoglie “commenti a caldo” nelle condizioni iniziali, ovvero senza il supporto di alcuno scaffold. Per tutti i tre gruppi si compila in modo uniforme su carta appena finita la lezione.

Tabella 1. Schema dell’impianto sperimentale. Le tre modalità di lavoro dei tre gruppi e funzione delle schede

3.2 Esame dei dati I dati emersi dalla rilevazione sono stati esaminati dal punto di vista quantitativo e qualitativo (Teddie e Tashakkori, 2009). Sul piano quantitativo abbiamo enumerato, per ognuno dei tre diversi momenti dell’esperienza, il numero di commenti inseriti dagli insegnanti2. Sul piano qualitativo abbiamo considerato i commenti dapprima in modo più globale per poi codificarli in modo più analitico. Dal punto di vista quantitativo si è riscontrato come nella condizione iniziale, laddove tutti e tre i gruppi si sono trovati nelle medesime condizioni (S1), non siano presenti rilevanti differenze tra i tre gruppi che hanno tutti inserito una media di circa 15 commenti per docente (con il caso eccentrico di un docente particolarmente produttivo, il T4).

2 Per l’analisi della significatività dei dati è stato impiegato il test statistico chi quadro.

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Gruppo 1

Gruppo 2

Gruppo 3

T1 T2 T3 Tot. T4 T5 T6 Tot. T7 T8 T9 Tot. S1 15 12 10

37 27 12 13

52 16 17 16

49

S2

3

4

4

11 10 13

29 20 24

9

53

S3

8

8

5

21 31

47 22 17 15

54

Totali 26 24 19

6

5 11

69 68 30 30 128 58 58 40 156

Tabella 2. Numero di commenti effettuati dai singoli insegnanti (teacher T1/T9) dei tre gruppi nelle tre distinte schede di autovalutazione e relativi totali per gruppo

La seconda scheda (S2), quella che raccoglie gli effetti relativi alla nostra variabile indipendente, mostra invece come i numeri dei commenti aggiunti ai primi siano sensibilmente diversi nel passaggio dal gruppo 1 al gruppo 2 e da questo al gruppo 3 con differenze statisticamente significative nel confronto tra Gr.3 e Gr.1 (p < 0.005) e, se pur più modestamente, tra Gr.3 e Gr.2 (p < 0.05). Tuttavia il confronto dei valori ottenuti all’ingresso (S1) con quelli ottenuti al termine della seconda lezione, in cui tutti i gruppi commentavano di nuovo senza alcun supporto (S3), rileva un alle condizioni iniziali, ovvero tecnico, sia que datisostanziale indicano ritorno cioè come un particolare dispositivo senza differenze significative dal punto di vista statistico. In breve i dati indicano cioè come g condizionare significativam un particolare dispositivo tecnico, sia questo una griglia osservativa, che un video da rivedere q e annotare, possa condizionare significativamente la quantità dei commenti espressi ma anche che, al venire meno dello scaffold, si torna ad una condizioni simile a quella di partenza. 3.3 Valutazione qualitativa L’analisi qualitativa dei commenti è stata condotta attraverso una triangolazione di metodi. In primo luogo si sono incaricati due osservatori indipendenti di procedere ad una lettura esplorativa dei commenti redatti dagli insegnanti nelle varie situazioni le situazioni al fine di comprendere la presenza di eventuali differenze immediatamente rilevabili. Il confronto incrociato ha fatto emergere come in tutti i tre gruppi le schede S1 si caratterizzassero, rispetto alle S2, per una più marcata connotazione descrittivistica o valutativo-globale con l’ attenzione più volta a riflettere in termini generali sul “come fosse andata” nel complesso o sul clima che si è manifestato (risposte tipiche del tipo “ho cercato di usare un linguaggio il più possibile semplice e comprensibile per gli alunni”, “mi sembra che complessivamente sia andata abbastanza bene”, “il clima è sempre stato sereno ed ognuno è riuscito ad intervenire con tranquillità”). Nel passaggio dalla S1 alla S2 invece in diversi casi gli stessi soggetti, in tutti i gruppi, aggiungono commenti più analitici e dettagliati, a volte più critici ed esplicativi o pragmatici e operativi. Questa diversa inclinazione si presenta tuttavia più accentuata nei Gr.2 e Gr.3, dove in qualche caso si trova anche qualche cambiamento di valutazione, rispetto al Gr.1, dove per lo più si ripresentano commenti di carattere astratto e generico-descrittivistico, tipici della S1. Per dare alcuni esempi, un docente del Gr.2 mentre in F1 rimane ancorato ai fatti (“ho iniziato con una domanda coinvolgendo subito i bambini. Ho chiesto loro i nomi per farli sentire più accettati come interlocutori…”), in S2 diventa più autocritico e propositivo (“ho iniziato molto velocemente catapultando i bambini nella lezione... potrei incuriosirli di più”); analogamente un docente del Gr.2 in S1 esprime una valutazione d’insieme, complessivamente soddisfa-

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cente (“penso di essere stata molto chiara nella spiegazione. Ho cercato di illustrare nel modo più semplice e sintetico la differenza tra fiaba e favola soffermandomi sugli aspetti più significativi”) mentre nella S2 lo stesso docente rivede e precisa il precedente giudizio (“avrei potuto valorizzare le osservazioni degli alunni inserendole in uno schema grafico fatto alla lavagna o mappa concettuale”). Nei commenti aggiunti del Gr.3 il rivedersi dall’esterno sembra permettere una sorta di decentramento autoriflessivo con riferimenti a criticità che non erano state precedentemente notate (“dal video ho notato la mia insicurezza nello spiegare l’esercizio loro assegnato, data da una preparazione parziale”) ma anche riflessioni sulle differenze tra dinamiche visibili e processi interni (“in un momento particolare mi ricordo di aver pensato: “Oh mio Dio! Non conoscono le fonti orali? Ma l’ho pensata allora questa lezione? Che faccio adesso?”.Vedendomi in video non si è assolutamente notato questo attimo di panico”). Oltre a ciò spicca – come era del resto ragionevole attendersi – una attenzione più accentuata verso gli aspetti prossemici o posturali (“ho notato un alto livello di partecipazione e una mia tendenza corporea e di postura a favorire commenti e interventi”), o verso comportamenti comunicativi disconosciuti (“rivedendomi ho notato che ripeto spesso bravissimi quando un alunno dà una risposta giusta”). Circa i commenti nella S3 (che ripristina le condizioni attuate nella S1), i valutatori non trovano tuttavia sensibili differenze sia tra i gruppi, sia rispetto alle tipologie dei commenti in S1. I valutatori hanno poi condotto un’analisi aggiuntiva sui commenti che gli insegnanti del Gr.3 hanno inserito direttamente sul video, prima di riempire la S2. La lettura di queste annotazioni fornisce interessanti indicazioni sulle aree di riflessione che il processo di video annotazione tende di per sé ad attivare. I connotati di questi commenti hanno caratteristiche diverse da quelli inseriti nelle schede dai Gr.1 e Gr.2: accentuano ancor più caratteristiche che in parte si ritrovano nella S2 del Gr.3. Appare cioè una più marcata attenzione alla comprensione, alla coerenza, all’andamento del tema con riferimenti contestualizzati alla dimensione comunicativa; in particolare si accentua l’attenzione ai dettagli circostanziati relativamente alla comunicazione linguistica ed extralinguistica, al clima d’aula, alle caratteristiche dell’interazione didattica e della discussione. Le annotazioni in questo caso, molto più che nelle schede, sono contestualizzate e fanno frequente riferimento diretto a momenti fisici e posturali: il gesticolare, il drammatizzare, il muoversi in un certo modo, (“mi alzo in piedi per dare maggiore enfasi a cosa sto dicendo”, “il gesticolare ed il drammatizzare mi sono serviti per tenere alta l’attenzione”), alla prosodica (“ho alzato la voce per ridurre il brusio”, “si fa una battuta simpatica che secondo me fa sempre bene”), ai tempi dell’esposizione (“qui faccio un attimo di pausa..”). 3.4 Codifica dei commenti Questa preliminare analisi esplorativa ha fornito le ipotesi guida per una codifica più analitica. Abbiamo provato a verificare quanto rilevato attraverso due controlli più analitici. Ci siamo avvalsi del sistema di classificazione proposto da Lee (2005) a cui abbiamo fatto seguire un conteggio più dettagliato di alcune espressioni usate. Lee (2005, p.703) suggerisce un modello articolato su tre diverse gradazioni: Recall level (R1), Rationalization level (R2), Reflectivity level (R3). Adattando tale modello sono state attribuite alla categoria R1 quelle frasi che si limitano ad una semplice descrizione-ricordo di come si sono svolte le cose: annotazione di fatti, osservazioni sull’andamento della classe, sul clima o anche sul comportamento dello stesso insegnante, ma in forma del tutto generale, non incisiva, senza l’individuazione di nessi causali o l’esplorazione di modalità alternative

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di svolgimento (“la classe si è mostrata poco attenta/interessata.”, “c’era molta confusione.”, “si è favorito lo scambio di informazioni e lo sviluppo di nuove idee”). La categoria R2, invece, ha accolto quelle frasi che, oltre a descrivere l’esperienza, si spingono ad interpretare la situazione, individuare nessi di causalità o principi di ordine generale capaci di spiegare l’accaduto (“per la grande partecipazione non sono riuscita a gestire bene tutti gli interventi”). La categoria R3, infine, è stata utilizzata per quelle affermazioni che rivelano un’analisi critica e dell’esperienza e che si spingono ad elaborare piani di miglioramento e ipotesi di cambiamento (“la fase di introduzione è stata troppo lunga [...] in futuro dovrò strutturare meglio le fasi della lezione e rispettare la tempistica”). L’applicazione del metodo citato (classificazione delle affermazioni R1/R2/R3) ha portato all’individuazione dei valori indicati nella seguente tabella3:

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Tabella 3. Classificazione dei commenti secondo Lee (2005). Nella tabella sono esposte le frequenze riscontrate e, tra parentesi, tali valori espressi in percentuale (le percentuali sono calcolate facendo 100 i totali delle tre categorie per ogni singola scheda e gruppo)

I tre gruppi dimostrano di essere piuttosto omogenei in ingresso (nessuna differenza statisticamente significativa). In accordo con l’analisi esplorativa nella S1 risulta una percentuale N elevata di affermazioni di tipo R1, una modesta presenza di osservazioni di tipo R2 ed assai una quasi assenza di affermazioni R3. Nei commenti aggiuntivi della S2 si nota in primo luogo che risultano più modeste – in rapporto a S1 – le percentuali di aggiunte di tipo R1 in confronto con le altre due tipologie (p N<0.05): i docenti di tutti i tre gruppi, avendo la possibilità di rileggere ciò che avevano scritto in S1, hanno provato a concentrarsi su altri aspetti come, appunto, la spiegazione di ciò che è successo e una riflessione sui perché (R2) o sulle possibilità di cambiamento (R3). Nella ricerca di eventuali differenze tra i gruppi, sempre nel passaggio dalla S1 alla S2, emerge una marcata frequenza di risposte connotabili come R2 nel Gr.3, con differenza statisticamente significativa rispetto al Gr.1 (p< 0.01). USe si valutano i dati in S3, si osserva come ripristinano fondamentalmente le percentuali di partenza di S1 (cioè si assiste nuovamente ad un forte rialzo di R1).a Unica riconducibili tre aree differenza semantiche:sic

nella S3 sidopo tornaaver a valori 3 La codifica riportata è il risultato del consenso raggiunto dai due valutatori indipendenti discusso i casi risultati ambigui dal loro confronto, Cohen’s Kappa = 0.44.

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gnificativa rimane nel Gr.3 per ciò che riguarda il rapporto tra R1 e R2: si mantiene una percentuale più alta di R2 in rapporto alle R1 (p< 0.05). Una ulteriore analisi si è ottenuta desumendola dal modello processuale di riflessività cui abbiamo all’inizio accennato: sono state conteggiate tutte le espressioni riconducibili a tre aree semantiche: constatazione del problema e della situazione di inadeguatezza/problematicità (“il tono qui non è efficace”), dichiarazione di presa di consapevolezza (“mi sono resa conto che”), proposito di cambiamento (“la prossima volta sarebbe meglio …”, “occorre che faccia...”). Anche in questo caso le frequenze riscontrate nella S1 mostrano come non esistano in partenza significative differenze tra i tre gruppi; nella S2 si assiste, invece, ad un significativo aumento nel Gr.3 di espressioni di consapevolezza (con significatività alta: p< 0.005); nella S3 si torna a valori non particolarmente dissimili da quelli risultanti nella S1, senza alcuna differenza statisticamente significativa rispetto a questa.

3. Conclusioni La nostra indagine ha avuto come obiettivo di valutare in quale misura dispositivi che inducono a riflettere al seguito di una lezione effettuata possano modificare la capacità di autoanalisi degli insegnanti. In particolare ci siamo chiesto quali effetti possano essere attribuiti all’influenza della video annotazione. Sul piano quantitativo abbiamo riscontrato una differenza statisticamente significativa nella produttività dei commenti a seconda dello strumento impiegato: l’impiego di una scheda orientativa già sollecita un aumento di commenti, e se si aggiunge anche la revisione video questo numero aumenta in modo significativo. Sul piano qualitativo le diverse angolature concorrono nel rilevare che in situazione di riflessività immediata, subito dopo la lezione e senza alcun tipo di supporto o orientamento, si ha una prevalenza di commenti di taglio descrittivo-generico mentre ritornando sulla riflessione a distanza di alcuni giorni si ha, qualunque sia la modalità di accompagnamento alla riflessione, uno spostamento verso commenti di taglio più analitico esplicativo. L’uso aggiuntivo di uno scaffold (questionario orientativo, ed ancor più questionario e video annotazione insieme) accresce significativamente il volume dei commenti (aspetto in linea con quanto riscontrato da Wright (2008). Oltre a ciò le osservazioni condotte su schede applicate dopo aver rivisto e annotato il video si caratterizzano per maggior decentramento riflessivo, una accentuazione della consapevolezza delle inadeguatezze e revisione dei precedenti giudizi, e per una più marcata attenzione verso aspetti concreti e specifici dell’interazione didattica, verso le caratteristiche del clima comunicativo, gli aspetti posturali extra e paralinguistici, elementi questi ultimi, che caratterizzano in modo ancor più evidente i commenti specifici di video annotazione. I nostri dati si aggiungono a quelli rilevati da altri autori che si sono occupati di indagini empiriche (Wright, 2008; Snoeyink, 2010); ragionando in termini di affordance possiamo affermare che la video annotazione rappresenta un dispositivo capace di orientare diversamente l’attenzione riflessiva; essa offre dirette opportunità per una accresciuta produttività ed analiticità dei commenti e in senso generale per una più articolata capacità di autoanalisi. Va però contestualmente sottolineato come anche una accresciuta capacità di autoanalisi non possa essere identificata tout court con una migliore capacità riflessiva: così, ad esempio, il fatto di aumentare i commenti od anche di diventare più attenti alle specificità contestuali dell’interazione didattica potrebbe accompagnarsi ad un sostanziale disconoscimento di fattori globali più basilari e significativi e quindi comportare anche un reale decremento della qualità riflessiva.

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Dobbiamo inoltre tener anche presente che una valutazione degli effetti delle diverse pratiche riflessive applicate nel tempo resta da fare e che, nel tempo breve, allorché gli strumenti di supporto all’auto riflessione vengono eliminati, le specifiche differenze connesse ai particolari scaffold tendono a decadere con ritorno sostanziale dei soggetti alle tipologie più generiche e descrittive proprie dei commenti non mediati; ciò induce a pensare come si sia di fronte a condizionamenti di portata effimera e strettamente connessi al momento d’uso dello scaffold. E del resto è anche ragionevole non esigere dalla tecnologia niente più della disponibilità di un trigger i cui effetti sono contestualmente condizionati, e che può diventare utile sono qualora venga riconosciuto e valorizzato all’interno di consapevoli interventi formativi finalizzati. Da questo punto di vista va anche sottolineato che la nostra ricerca si è soffermata a valutare la situazione in condizione di autoriflessivita individuale. Un ulteriore lavoro resta da fare per valutare le modalità migliori per sfruttare le affordance in contesto variamente supportato sul piano interpersonale (dialogo con mentore, con esperto, con pari, in coppia, piccolo gruppo, comunità). Anche il problema dell’utilizzo ottimale di questa tecnica in rapporto al livello di expertise già acquisito dal soggetto rimane un problema aperto; nel nostro caso i nostri partecipanti erano maestri con qualche anno di insegnamento alle spalle. Teoricamente possiamo supporre che la tecnica si possa estendere anche a livello precedente (ad esempio nel tirocinio universitario), purché a livello di tirocinio avanzato: un utilizzo troppo precoce potrebbe correre il rischio di una dispersione dell’attenzione su dettagli comportamentali in soggetti che non posseggono ancora una visione complessiva dell’azione didattica e dei problemi generali relativi alla gestione dell’interazione comunicativa. Ulteriori indagini sono infine da condurre per valutare (ed alleggerire) i fattori emozionali e di ansietà connessi all’essere visto-valutato, al fine di consentire all’insegnante in formazione di accettare più serenamente che il proprio comportamento sia reso osservabile, condizione indispensabile per la costituzione di una comunità di pratiche didattiche condivise.

Ringraziamenti Si ringrazia la Scuola primaria del III Circolo Didattico di Viterbo nella persona del dirigente scolastico Dott. Eugenio Rastrelli, le docenti che hanno partecipato con entusiasmo a questa ricerca.

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al fine di consentire all’insegnante in formazione di a

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Allegato 1 Questionario orientativo. Quesiti che hanno accompagnato il riesame della propria esperienza di lezione dialogica per gli insegnanti dei gruppi 2 e 3. Parte preliminare Richiesta di attenzione (eventuale) Richiami alle attività già svolte Dichiarazione di intenti della lezione Regole e criteri cui attenersi a. Dimensione didattico espositiva Padronanza e adeguatezza del contenuto Chiarezza del linguaggio Problematizzazione Qualità del feed-back agli alunni b. Dimensione comunicativa Ritmo, tono, espressione del volto e sguardo, postura c. Dimensione gestionale Relazione con la classe e clima complessivo Gestione del tempo Partecipazione degli alunni Parte finale: Richiami di sintesi Assegnazione di ulteriori attività

Si riesce ad ottenere l’attenzione e mettere la classe in condizione di attesa? Si richiamano attività e conoscenze già note? Si mette in risalto quale sarà l’oggetto della lezione? Si sottolineano criteri di comportamento per la partecipazione al dialogo didattico (quali alzare la mano, attendere il permesso dell’insegnante per parlare) Ci sono errori o imprecisioni nella presentazione? Il contenuto si presenta ben rispondente alle capacità cognitive e motivazioni degli alunni? Si impiegano eventuali strategie di semplificazione? Il linguaggio usato è alla portata degli allievi oppure si impiegano termini difficili o espressioni complicate? Si lasciano pause nell’esposizione e si pongono frequenti domande perché gli alunni intervengano attivamente nel dialogo? Si riprendono e valorizzano le osservazioni degli alunni? Tono della voce, orientamento dello sguardo e postura sono adeguati? Si riesce ad orientare su di sé l’attenzione degli allievi? Si evidenziano segni di noia, brusii o altri fattori di disturbo nella classe? Si tiene presente la gestione complessiva del tempo disponibile? Si riesce a favorire l’inserimento nella discussione (e partecipazione degli apporti) da parte di un numero ampio di alunni (riducendo eventuali accentramenti o emarginazioni)? Si richiamano sinteticamente, magari in uno schema o mappa grafica, i concetti emersi? Si assegnano attività di approfondimento pertinenti con la lezione e adeguate alle possibilità degli allievi?

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ricerche Dalla ricerca indagine alla ricerca sperimentazione: individuazione dello stile cognitivo negli ambienti di apprendimento in rete From survey research to experimental research: identification of cognitive style in learning environments in the network ORLANDO DE PIETRO – CARMELO PIU Il problema dell’identificazione delle caratteristiche di un utente on line in relazione alle differenze individuali riveste particolare importanza sia per conoscere meglio i soggetti sia per rapportare la proposta formativa alle diverse caratteristiche degli utenti. Il presente contributo illustra una ricerca che si pone l’obiettivo di verificare la possibilità di individuare gli stili cognitivi degli studenti durante l’interazione degli stessi con la piattaforma tecnologica. Dopo aver presentato il progetto di ricerca complessivo, il paper si sofferma ad illustrare l’impostazione, le fasi e i primi risultati dell’indagine effettuata sull’individuazione degli stili cognitivi negli ambienti di apprendimento in rete.

The problem of identifying the characteristics of an online user in relation to individual differences is especially important both to learn more about the subjects and to relate the training proposal to the users’ different characteristics.This paper describes a research that aims to explore the possibility of identifying the cognitive styles of students when they interact with the general technological platform. After having presented the whole and articulated project in which this research is part of, the paper illustrates the approach, the phases and the first results of the survey conducted on the identification of cognitive styles in learning environments in the network.

Parole chiave: stile cognitivo, profilo utente, metacognizione, e-learning, personalizzazione

Key words: cognitive style, user profile, metacognition, e-learning, personalization

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1. Introduzione* L’attuale concetto di formazione e le potenzialità formative assunte dalle nuove tecnologie dell’informazione e della conoscenza, considerate come strumenti di lavoro intellettuale e utilizzate sempre più invasivamente in campo formativo, richiedono che la formazione, dovendosi protrarre per tutto l’arco della vita e dovendosi tradurre in costruzione sociale di competenze, abbia di mira l’autonomia e la flessibilità cognitiva dei soggetti, in modo che siano in grado di rapportarsi ai nuovi saperi (De Pietro, 2008). Obiettivi questi che si possono conseguire a condizione che si sviluppi la dimensione metacognitiva degli studenti nello sviluppo e costruzione delle competenze, attraverso la creazione di condizioni, che favoriscano processi di autovalutazione e consentano l’individuazione degli stili cognitivi dei discenti; ciò per consentire di adeguare e rapportare l’erogazione delle informazioni e del percorso formativo alle loro diverse caratteristiche cognitive e socio-affettive (Piu C., 2009). Se, pertanto, l’importanza di considerare e di riconoscere le differenze individuali è indiscutibile per ogni contesto di attività formativa (Calvani, Rotta, 2000), significa allora che la conoscenza delle differenze individuali assume una rilevanza specifica negli ambienti e-learning, nel momento in cui si prefiggono di personalizzare e individualizzare la proposta didattica. In tali ambienti, infatti, la distanza che separa il formatore dallo studente e le condizioni psicologiche specifiche dell’essere in rete (Calvani, 2004) richiedono una didattica critica e problematica, attenta e in grado di prendersi cura effettivamente dello studente, accompagnandolo nel processo di apprendimento e coadiuvando la sua acquisizione di consapevolezza circa i progressi che va compiendo. In altri termini in condizioni di studio che si svolgono autonomamente, in quanto affidato alla sola responsabilità e al solo autocontrollo del soggetto, la possibilità di potergli fornire un continuo monitoraggio, a partire dalle sue caratteristiche cognitive e affettivo-motivazionali d’ingresso, assume un ruolo decisivo sia rispetto al successo o all’abbandono sia rispetto all’efficienza e all’efficacia della didattica (Piu C., 2006). Molti studiosi ed esperti di e-learning sostengono fortemente come sia proprio il sistema di monitoraggio e di valutazione formativa, oltre alla qualità e la natura degli stessi, a incidere sulla qualità della formazione on line (Moore, 1999). Questo significa, in altri termini: • avere consapevolezza che i soggetti, in relazione al loro modo di studiare e di apprendere, elaborano e organizzano le informazioni in maniera diversa, ossia presentano stili cognitivi, atteggiamenti, motivazione all’apprendimento diversi; • programmare strategie multiple e percorsi diversi d’apprendimento in modo che ogni studente possa autonomamente scegliere e decidere quale strategia e quale percorso seguire in modo da essere reso consapevole e in grado di organizzare il proprio processo formativo; • acquisire prima e gestire dopo le informazioni relative a ciascuno studente in termini di conoscenze e abilità iniziali, motivazioni, atteggiamenti, modalità di organizzare e memorizzare le informazioni e successivamente saper orientare lo studio e il percorso del processo di formazione on line; • elaborare e costruire strumenti adeguati e idonei per riconoscere, rilevare, elaborare e documentare tali informazioni. È necessario, pertanto, poiché il riconoscimento e la gestione delle differenze individuali

* Il presente lavoro è stato ideato, progettato, discusso ed approvato dai due autori. Ognuno ha poi elaborato, in base a indicazioni comuni, i paragrafi: 1 congiuntamente; 2, 2.1, 3 (Orlando De Pietro); 2.2, 2.3 (Carmelo Piu).

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siano due importanti fattori da considerare nella didattica in ambito e-learning, avviare in maniera preliminare, da parte dei ricercatori ma anche dei progettisti e degli esperti di e-learning, alcune riflessioni al fine di esplorare la possibilità delle tecnologie di fornire strumenti e risorse utili alla gestione dei processi di insegnamento/apprendimento in chiave individualizzata e personalizzata e delle attività di valutazione formativa e di monitoraggio. In particolare, si tratta di verificare: • come e in che termini le tecnologie possono essere di supporto alla conoscenza dello studente nei processi formativi; • quali caratteristiche è opportuno prendere in considerazione; • come rendere consapevoli i soggetti delle loro caratteristiche cognitive e socio-affettivomotivazionali e dei loro processi d’apprendimento; • come pianificare, monitorare e gestire i percorsi di personalizzazione e individualizzazione a partire dal riconoscimento delle differenze individuali. Si tratta di quesiti che rientrano in un’area di ricerca nuova che presenta molti nodi problematici sia sul piano degli approcci teorici sia dei modelli concettuali e della metodologia di ricerca (Piu A., 2009). Ciò evidenzia come tra le nuove tecnologie e le metodologie didattiche è necessario instaurare una continua interazione che porti ad allestire e costruire contesti ed ambienti di apprendimento, in cui il soggetto possa non solo agevolare la crescita delle proprie potenzialità intellettive, ma anche la propria autonomia cognitiva (Piu C., De Pietro, 2009). Le ricerche precedenti in campo nazionale ed internazionale, infatti, sono molto diverse tra loro, per via degli approcci teorici, e difficilmente comparabili o ripetibili vista la specificità del contesto di ricerca; inoltre presentano in alcuni casi solo l’impostazione della ricerca stessa su campioni poco numerosi, per cui i risultati sono difficilmente generalizzabili. È in tale ambito che si inserisce la ricerca presentata, considerate soprattutto: a. le implicazioni educative e formative che le differenze individuali in generale e gli stili cognitivi nella fattispecie rivestono nei processi d’insegnamento-apprendimento; b. l’analisi delle potenzialità delle tecnologie a partire dalle precedenti esperienze di ricerca e tenendo altresì conto del nuovo modello di società, centrato essenzialmente sulla comunicazione (Baldi, 2001), comunicazione mediata dalle tecnologie, che hanno trasformato radicalmente le modalità di erogazione, acquisizione e gestione delle conoscenze e dei saperi. Pertanto, al fine di poter allestire ambienti di apprendimento in rete personalizzati, il presente lavoro, tenendo conto dell’interazione soggetto-ambiente virtuale di apprendimento, si propone di definire le principali variabili ritenute critiche per la corretta determinazione del profilo utente in termini di stile cognitivo; più specificatamente, l’intento è di: • verificare se, attraverso il navigare in Rete, sia possibile rilevare lo stile cognitivo degli utenti/studenti, ossia se sia possibile profilare il loro stile cognitivo attraverso le tecnologie. La ricerca intende verificare, inoltre e successivamente, se: • attraverso l’erogazione di una migliore qualità di servizio formativo e attraverso diverse modalità di rappresentazione della conoscenza, sia possibile migliorare la capacità di studio e di comprensione degli utenti/studenti; ossia se, producendo una pluralità di materiali didattici e di strumenti variegati di rappresentazione della conoscenza e migliorando il percorso di formazione, si migliora anche la capacità di studio e di comprensione degli studenti; • attraverso i materiali erogati sia possibile favorire lo sviluppo metacognitivo degli studenti/utenti in direzione personalizzata, ossia se l’individuazione dello stile cognitivo agevoli lo sviluppo della dimensione metacognitiva e di ambienti personalizzati di natura virtuale. L’obiettivo, complessivamente, è quello di individuare il profilo cognitivo (user profile) (De

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Pietro et. al., 2006) dell’allievo/utente che interagisce con l’ambiente virtuale, al fine di erogare percorsi formativi personalizzati in linea con il suo stile cognitivo. La rilevazione dello stile cognitivo dell’utente consente di progettare, da un punto di vista tecnologico, ambienti e-learning (o piattaforme e-learning), in grado di offrire un valore aggiunto che sia significativo per lo sviluppo della dimensione metacognitiva dei discenti, finalizzata allo sviluppo ed alla costruzione di competenze. Il sistema e-learning, in tal modo, terrà conto della profilazione dei discenti e consentirà di erogare percorsi formativi personalizzati in linea con gli stili cognitivi dei soggetti fruitori, per cui si verrà a configurare un sistema di tipo adattivo/personalizzato.

2. La ricerca: impostazione e stili cognitivi L’identificazione delle caratteristiche di un utente on line in relazione allo stile cognitivo riveste particolare importanza sia per conoscere meglio i soggetti sia per rapportare la proposta formativa, in chiave individualizzata e personalizzata, alle diverse caratteristiche degli utenti. Gli stili cognitivi, in effetti, possono essere considerati importanti fattori nel determinare come un individuo opera e si “orienta” durante il processo d’apprendimento. Si parte dalla considerazione che la consapevolezza del proprio stile e un’adeguata strutturazione dei materiali e degli ambienti di apprendimento possano contribuire allo sviluppo di strategie di apprendimento che possono rendere più agevole, per lo studente, il compito di apprendere ed eventualmente compensare eventuali suoi punti di debolezza (Piu A., 2009). Al fine, poi, di rendere lo studente in grado di adattare il proprio stile alla situazione e al compito di apprendimento richiesto in modo flessibile in relazione agli obiettivi da conseguire, è preferibile rendere consapevole lo studente sia che la scelta del materiale di studio spesso è legato allo stile prevalente sia che può adottare alcune particolari strategie per agevolare e compensare il processo di apprendimento durante la fase di studio (Riding, Sadler-Smith, 1997). L’identificazione delle caratteristiche di un utente on line in relazione allo stile cognitivo, da effettuarsi attraverso l’analisi del comportamento che l’utente attiva durante il suo interfacciarsi con la piattaforma (Vygoeskij, 1978), rientra in un’area di ricerca nuova che richiede una serie di risposte ad interrogativi e nodi problematici sia sul piano dei modelli concettuali impiegati sia sulla metodologia impiegata. L’ipotesi riguarda se e come la tecnologia possa offrire vantaggi e supporti tecnici nella identificazione degli stili in modo da adattare tempestivamente, in modo veloce e automatico, i percorsi didattici alle esigenze degli utenti. Si tratta di verificare: 1) se sia possibile e in che modo identificare gli stili cognitivi esclusivamente dai dati di navigazione dell’utente online, ossia se possono ritenersi esaustivi i dati ottenuti attraverso l’interfaccia macchina-utente; 2) se vi sia un eventuale modello concettuale di riferimento della ricerca e quali possono essere i possibili indicatori delle caratteristiche di tali stili in un ambiente web (Price, 2006). L’intento è quello di elaborare strumenti e artefatti per l’e-learning che possano consentire l’individuazione, attraverso le tecnologie, dello stile cognitivo degli studenti. In particolare, dopo avere individuato gli stili cognitivi degli utenti che interagiscono con una piattaforma tecnologica, verranno analizzati: • quali strumenti didattici, nella fase di studio, vengono maggiormente utilizzati, in base al proprio stile cognitivo precedentemente individuato; • se esiste una relazione tra ciascuno stile rilevato nei soggetti e la preferenza per ciascuno/più tipologie di strumenti; • se esiste una relazione tra gli stili individuati nei soggetti e il tempo dedicato alla sezione di studio; • quali sono gli strumenti mai impiegati e quindi più graditi.

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In questo ambito la ricerca intende avviare e fornire elementi di riflessione sulla individuazione degli stili cognitivi degli studenti in ambiente e-learning. A tal proposito, il profilo discente, in merito al proprio stile cognitivo, individuato attraverso metodologie tradizionali (i questionari), viene anche poi determinato, trovando delle correlazioni tra lo stile individuato e i manufatti tecnologici utilizzati, che hanno l’intento di una rappresentazione strutturata della conoscenza, che tiene conto delle esigenze dello studente e dei suoi interessi personali ed erogando un servizio formativo di qualità in grado di migliorare la sua capacità di studio; ciò si può conseguire producendo una pluralità di materiali didattici e di strumenti di rappresentazione della conoscenza. Il problema, in effetti, con cui confrontarsi, è la relazione che si instaura tra il reale (un apprendimento dal testo/libro) e il virtuale (un apprendimento mediato da diversi manufatti tecnologici), dal momento che il virtuale allarga a dismisura le possibilità del reale anche se è una realtà appositamente allestita (Steuer, 1992). È necessario, perciò, affrontare il problema di come rappresentare la conoscenza e in quanti modi sia possibile rappresentarla sia in funzione della sua comunicazione che in quella della sua trasformazione in cultura personale, specie quando si utilizzano forme nuove di rappresentazione attraverso la multimedialità. La produzione diversificata di materiali e strumenti multimediali, messi a disposizione degli studenti, può consentire di personalizzare gli itinerari in base ad esigenze ed interessi specifici legati alla prevalenza dello stile cognitivo individuato. In virtù di tale estensione di opportunità e di strumenti, ognuno dei quali richiama una specifica strategia didattica, si è convinti che lo studente possa maturare una prospettiva globale di approccio ai problemi della conoscenza ed avere la possibilità di maturare ed acquisire un idoneo metodo di studio. La personalizzazione critica del percorso formativo, legato al processo di autovalutazione e di autoconsapevolezza delle proprie azioni cognitive e socioaffettive (Piu C., 2099a), si snoda attraverso lo sviluppo della propria dimensione metacognitiva, che si ritiene che venga agevolata proprio dall’uso di strumenti e materiali multimediali appositamente costruiti. Si rende necessario, perciò, una volta individuati gli stili, scegliere un argomento/tematica del normale programma del corso di studio e su questa scelta elaborare e progettare una diversità di strumenti, ognuno dei quali rappresenta, in modo specifico ma diverso, la medesima conoscenza. Questa diversità di rappresentazione e il diverso utilizzo di questi strumenti, da parte di ciascuno studente, consente di verificare e analizzare il modo diverso di comportarsi degli studenti e correlare tale loro comportamento allo stile cognitivo rilevato per ciascuno. 2.1. Fase preliminare della ricerca La fase preliminare si è caratterizzata per una iniziale indagine conoscitiva sulle tematiche oggetto della ricerca in modo da tracciare un primo scenario, lo stato dell’arte, ossia un’ampia disamina della situazione e dei risultati delle ricerche precedenti sugli argomenti (parole chiave) oggetto della ricerca, in modo da avere gli elementi conoscitivi utili per impostare, dal punto di vista teorico e metodologico, il lavoro. Sono state, pertanto, definite a grandi linee gli step di lavoro da sviluppare, e cioè: • Ricerca bibliografica e su Web riferita alle tematiche e parole-chiave della ricerca (ICT, weblearning, user profile, stili cognitivi, metacognizione, didattica individualizzata, didattica personalizzata, strumenti didattici coerenti e congrui con le finalità della ricerca); • Disamina della letteratura sugli stili cognitivi; • Scelta e individuazione del modello concettuale di riferimento; • Definizione, caratteristiche degli stili cognitivi e loro classificazione (due gruppi: Analitico/Globale;Verbale/Visuale);

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• Strutturazione e predisposizione dell’architettura web della piattaforma e-learning; • Analisi e definizione di alcuni questionari per l’individuazione degli stili (metodo Cornoldi e Felder); • Definizione e predisposizione, sulla piattaforma e-learning, della Unità didattica (Learning Unit - LU), ovvero di un segmento didattico o parte significativa di una disciplina strutturata in paragrafi, su cui verificare e analizzare il comportamento dei soggetti/utenti per correlarlo al loro stile cognitivo; • Predisposizione dei Materiali didattici di rappresentazione della conoscenza relativa ad ogni singolo paragrafo della LU. 2.2. Stili cognitivi Gli studi e la letteratura di settore presentano ancora una concettualizzazione poco unitaria del concetto di stile cognitivo. I differenti approcci e la varietà di denominazioni e tipologie degli stessi sono un chiaro esempio di come il concetto sia ampio e complesso e non possa essere riconducibile a semplici categorizzazioni. Molti autori sono concordi nel ritenere lo stile l’insieme delle caratteristiche cognitive globali, o perlomeno diffuse, che si rilevano non solo nel funzionamento cognitivo dell’individuo, ma anche nei suoi atteggiamenti, nel modo di rapportarsi agli altri o di reagire in situazioni inconsuete. Il concetto di stile cognitivo richiama, in effetti, dimensioni individuali, tendenzialmente misurabili, ed esprime caratteristiche che possono essere diffuse, costanti nel tempo, individuate come prevalenti, ma non esclusive, nelle diverse situazioni che un soggetto affronta e che sottolineano, soprattutto, la dimensione qualitativa nella elaborazione dell’informazione (Messik, 1994; Boscolo, 1997). La nozione di stile è stabile e, nello stesso tempo, flessibile, per cui, sostiene Cornoldi, il possesso di un determinato stile non esclude che il soggetto possa compiere anche i processi compatibili con lo stile opposto (Cornoldi, De Beni, 1993). Ai soggetti è richiesto flessibilità e ricerca intenzionale e consapevole delle proprie caratteristiche sia per valorizzarle, sia per comprendere che è possibile funzionare cognitivamente anche con modalità alternative (Piu C. et. al., 2009). In base a questo quadro concettuale, lo sviluppo della dimensione metacognitiva richiede di utilizzare, nella fase di studio, materiali secondo un’ottica non tanto di natura disciplinare ma in chiave metodologica e strumentale in direzione delle abilità e delle tecniche funzionali allo studio. Non si esaurisce, cioè, in un repertorio di tecniche, ma in un atteggiamento, in una forma mentis, ossia in una mente dialogica, riflessiva e critica (Piu C., 2008), per un continuo e costante atteggiamento autoregolativo, legato alla capacità, da parte del soggetto, di monitorare e controllare le proprie azioni, di regolare e coordinare il proprio approccio verso i problemi e le difficoltà da superare. Gli stili cognitivi suggeriscono tendenze, piuttosto che essere predittori, di comportamento. La propensione ad affrontare i compiti cognitivi in modo coerente ad un certo stile non esclude, infatti, la possibilità per il soggetto di compiere processi compatibili anche con lo stile opposto (Cornoldi, De Beni, 1993). Data, comunque, la complessità relativa al concetto di stile cognitivo, si è reso necessario effettuare una disamina delle diverse teorie proposte da diversi studiosi. Riding e Cheema (1991) hanno passato in rassegna 30 metodi per definire gli stili cognitivi e, sulla base delle correlazioni individuate tra alcuni di essi, hanno proposto una loro integrazione, concludendo che molti di essi possono essere raggruppati nella famiglia degli stili Globale/Analitico e in quella dello stile Verbale/Visuale. Gli stili, pertanto, possono essere integrati in due dimensioni, ortogonale e bipolare, che rappresentano rispettivamente il modo in cui l’informazione è processata e rappresentata: la globale-analitico e la verbale-visuale. Lo stile globale/analitico riflette la maniera in cui un individuo tende a processare le informazioni, o come un intero o in sin-

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gole componenti, mentre lo stile verbale/visuale considera la maniera in cui tende a rappresentare le informazioni servendosi di parole o di immagini. I due stili possono essere pensati come indipendenti, dato che la posizione di un individuo su una dimensione non ha effetti sulla posizione delle altre due dimensioni. Per esempio una persona può essere un visualizzatore e un globale e un’altra un visualizzatore e un analitico, o un verbalizzatore e un globale, mentre un’altra un verbalizzatore e un analitico (Riding, Cheema, 1991). 2.3. Fasi e Sviluppo della ricerca 2.3.1 Fase 1 – considerazioni iniziali Ai fini della sperimentazione, dopo aver individuato le categorie di stili cognitivi a cui riferirsi (cfr. 2.2), è stata predisposta, su una piattaforma e-Learning, una “unità didattica” (Learning Unit – LU), Fig. 1, ovvero un segmento didattico o parte significativa di una disciplina, strutturata in paragrafi, ognuno dei quali erogato mediante gli strumenti di presentazione: abstract, testo, mappa concettuale, video lezione, slide, Fig. 2 (De Pietro, 2009). 2.3.1.1. Il campione I partecipanti alla ricerca sono stati: 40 corsisti del Master Universitario di 2° livello Progettare e valutare la formazione1, 120 studenti frequentanti il corso di “Progettazione e valutazione nella formazione” del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione, Università della Calabria; 45 studenti frequentanti il corso di “Progettare e valutare le tecnologie” del Corso di Laurea Specialistica in Media Education, Università della Calabria; del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria (150). Il campione complessivo è, pertanto, di 355 studenti.

Figura 1 – Home page della Learning Unit “I Modelli didattici dell’apprendimento” della piattaforma GRIADLearn

1 Master “Progettare e Valutare nella Formazione”, a.a. 2008/2009, Direttore Prof. C. Piu, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università della Calabria.

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Figura 2 – I paragrafi e gli strumenti della Learning Unit

2.3.2. Fase 2. individuazione degli stili cognitivi degli utenti: questionari Cornoldi

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A seguito delle considerazioni fatte nella Fase 1, si è proceduto all’individuazione degli stili cognitivi mediante la somministrazione di questionari accreditati a livello internazionale, dal momento che, ad oggi, le modalità di valutazione degli stili cognitivi sono fondamentalmente di due tipi: self-report introspettivi (test di Cornoldi e Felder) e test delle performance che partono dalle assunzioni che la performance su singoli compiti, rappresentativi del processo in generale, è facilitata dallo stile (CSA di Riding e alcuni quesiti del test di Cornoldi). Per la profilazione dello stile cognitivo dei soggetti si è scelto di utilizzare il Questionario sugli Stili Cognitivi (QSC) di Cornoldi; questionario che mira a fornire indicazioni utili in direzione delle due dimensioni ipotizzate da Riding: la Globale-Analitica e la Verbale-Visuale. Il questionario utilizzato è di natura introspettiva e misura la posizione dell’individuo nelle due dimensioni, calcolando i punteggi positivi sulla dimensione Globale e Verbale, ed i punteggi negativi sulla dimensione dello stile Analitico e Visuale. 2.3.2.1 Struttura e somministrazione del questionario

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Il QSC è composto da due sub-test: il primo per la misurazione della dimensione GlobaleAnalitica e il secondo per la dimensione Verbale-Visuale (per i dettagli si rimanda a Molinaro F., 2009). Il test è stato somministrato contemporaneamente a tutti i soggetti in un’unica aula ma, ovviamente, distinti per tipologia: corsisti del master e studenti dei corsi; ha avuto una durata di circa 25 minuti. Per quanto riguarda il calcolo dei punteggi raggiunti, per definire l’appartenenza all’una o all’altra dimensione, vengono computati gli item contrassegnati dal simbolo + per quanto riguarda gli stili globali e verbali, e quello con il simbolo – per gli stili analitico e visuali. Nello specifico, per gli item contrassegnati con il segno - si assegna 1 punto per le risposte “5” (valore della scala Lickert assegnato dal soggetto a quell’item), 2 punti per le risposte “4”, e così via in maniera decrescente. Per quanto riguarda le risposte contrassegnate dal simbolo + si assegna 1 punto per le risposte “1”, 2 punti per le “2” e così via fino alle “5”.

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2.3.3. Fase 3. interazione utenti-piattaforma: preferenze strumenti La gestione dei dati dinamici, riferiti cioè alle operazioni che l’utente compie quando interagisce con la piattaforma tecnologica, è di fondamentale importanza per l’individuazione del profilo utente negli ambienti web-based; tali dati, quantitativi, sono stati opportunamente organizzati in un database per essere successivamente elaborati. La tipologia dei dati presi in considerazione fa riferimento principalmente a: • identificazione dell’utente a seguito della fase di autenticazione alla piattaforma; • memorizzazione di ogni evento attivato dall’utente; per evento in tale accezione si intende il click effettuato dal soggetto per visualizzare lo “strumento didattico” all’interno della piattaforma tecnologica; • memorizzazione di data e ora dell’evento attivato (clik-ato): ciò consente di rilevare L quanto tempo il soggetto si è soffermato sullo strumento o risorsa didattica; • memorizzazione del tipo di strumento analizzato. Alla base del sistema tecnologico, inoltre, è presente un modulo di tracciamento (tracking) che memorizza i logs dell’utente (ovvero l’indirizzo web dello strumento consultato o della risorsa svolta) in records che vengono correlati alla codifica degli strumenti in base all’URL di riferimento.

3. Analisi e risultati della ricerca 3.1. Ai fini della sperimentazione, in riferimento all’individuazione degli stili cognitivi, i dati rilevati dall’interazione utenti-piattaforma e dalla somministrazione dei questionari di Cornoldi, sono stati sottoposti a varie analisi statistiche e a calcoli aritmetici in base ai valori delle tabelle di riferimento. Si è poi proceduto ad una comparazione dei risultati ottenuti nelle due elaborazioni precedenti per individuare gli strumenti maggiormente utilizzati nelle diverse polarità di stili cognitivi. 3.1.1. Gli stili cognitivi rilevati con il metodo Cornoldi I risultati derivanti dall’elaborazione della somministrazione dei questionari cartacei utilizzati per la rilevazione dello stile cognitivo dell’utente, sono stati caricati all’interno della base di dati. Nella figura seguente sono mostrati i punteggi relativi ai primi otto utenti. N

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Per la determinazione dello stile sono stati effettuati i seguenti step: Attribuzione dei punteggi (positivi o negativi) per ciascuna domanda prevista dal questionario cartaceo, secondo lo schema di assegnazione punteggi previsto dal QSC di Cornoldi (v. par. 2.3.2); Calcolo della somma complessiva dei punteggi Positivi e Negativi, per ogni corsista (colonne Positivi e Negativi); Calcolo della Somma tra punteggi Positivi e Negativi (colonna Totale); Calcolo della deviazione standard (s) per misurare la variabilità all’interno dei valori presenti nella colonna Totale, mediante la formula:

x

Dove: xi è la Somma dei punteggi positivi e negativi di ciascun corsista; x¯ è la Media aritmetica di tutti i valori xi; n è il numero di corsisti. Calcolo del Valore Alto (VA) ottenuto da x¯ + s e del Valore Basso (VB) ottenuto da x¯ – s; Individuazione dello Stile Cognitivo in base alle seguenti condizioni: Se xi <= VB û Stile Analitico Se xi >= VA û Stile Globale Se (VB - 2) <= xi <= (VB + 2) û Stile Intermedio-Analitico Se (VA - 2) <= xi <= (VA + 2) û Stile Intermedio-Globale Altrimenti Stile Intermedio Stesso procedimento è stato seguito per l’individuazione dell’altra dimensione Verbale/Visuale; in particolare, sono stati elaborati i punteggi Positivi e Negativi riferiti a tale polarità.

In questo caso, le condizioni da soddisfare che portano alla determinazione dello stile Verbale/Visuale sono le seguenti: Se xi <= VB ûStile Visuale Se xi >= VA û Stile Verbale Se (VB - 2) <= xi <= (VB + 2) û Stile Intermedio-Visuale Se (VA - 2) <= xi <= (VA + 2) û Stile Intermedio-Verbale Altrimenti Stile Intermedio Come emerge dai risultati mostrati nelle due tabelle (riferite soltanto ai primi 8 corsisti), alcuni soggetti presentano uno stile esclusivo (es. solo globale, solo visuale etc.), altri invece rientrano in una categoria “Intermedia” ovvero si pongono al centro tra uno stile e l’altro.

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Altri ancora infine, sono Intermedi ma con tendenza verso una polarità. Tale risultato in effetti è in linea con le ipotesi di ricerca, secondo le quali un soggetto non presenta sempre uno stile esclusivo ma si pone in categorie che includono caratteristiche comuni a più stili.

preferenze strumenti 3 3.1.2. Analisi interazione utenti-piattaforma: i Inizialmente è stato opportuno riorganizzare i logs per eliminare quelli ritenuti poco signi-

3 ficativi perché effettuati (click-ati) i accidentalmente o perché brevemente visionati. L’indi-

catore utilizzato per l’individuazione degli eventi ritenuti significativi è stata la variabile “tempo di permanenza”; per ogni strumento è stata stabilita una “soglia minima” al di sotto della quale in termini di tempo espresso in secondi il contatto è stato considerato non significativo. Per la determinazione di tale “soglia” si è proceduti ad effettuare una serie di test di fruizione sui vari strumenti all’interno della piattaforma da parte di un campione scelto tra studenti, corsisti e tutor; il risultato di tale test ha portato ad individuare il tempo minimo necessario per la fruizionei di ogni strumento. o

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3.1.2.1. Calcolo del numero di contatti su ciascuno strumento per utente i o Al fine di ottenere per ogni utente il numero di contatti effettuati su ogni strumento durante d le fasi di studio on line, si è proceduto ad effettuare una query di selezione dal database in cui sono memorizzati i logs. A titolo di esempio si riportano, nelle figure seguenti, i risultati relativi all’utente 2890:

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3.1.2.2. Calcolo del numero di contatti e del tempo di permanenza su ciascuno strumento Al fine di rilevare quanto tempo ogni utente si è soffermato su ogni strumento, si è preso in considerazione un’altra variabile ritenuta significativa per la ricerca svolta, ovvero il tempo di permanenza impiegato sul singolo strumento, in modo da pervenire a due tipologie di calcolo (solo conteggio/conteggio con tempo di permanenza), al fine di tenere conto di due dimensioni: quantitativa e temporale. I risultati relativi all’Utente di esempio 2890, sono mostrati di seguito2.

3.1.2.3. Calcolo del numero complessivo di contatti su ciascuno strumento per utente Al fine di comprendere quali strumenti sono stati maggiormente utilizzati dai soggetti, sono stati elaborati i dati rilevati dall’interazione con la piattaforma durante lo studio della LU; è stato quindi calcolato complessivamente il numero di contatti per ogni strumento. Da tale analisi, così come si evince dal grafico seguente, emerge che gli strumenti preferiti sono in ordine di preferenza: mappa, abstract, video lezione, slides, testo.

2 Si fa presente che il tempo mostrato è espresso in secondi.

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Ciò dimostra, come riscontrato anche in precedenti sperimentazioni condotte, che gli strumenti maggiormente impiegati durante lo studio in ambienti di apprendimento on line, sono sempre di più indirizzati verso modalità di rappresentazione della conoscenza di natura multimediale. 3.1.3. Preferenze strumenti per stile cognitivo Dopo avere individuato le preferenze degli strumenti per ogni utente (v. par. 3.1.2), si è proceduto mediante una query di selezione a rilevare il tipo di strumento utilizzato nelle diverse polarità di stile cognitivo (v. 3.1). Questa elaborazione ha portato a definire le principali regolarità stile cognitivo/strumento. Di seguito vengono mostrati i risultati relativi a tali regolarità: RISULTATI POLARITÀ STILE GLOBALE/ANALITICO

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RISULTATI POLARITÀ STILE VISUALE/VERBALE:

Dall’analisi dei risultati si riscontra che i soggetti con stile globale preferiscono maggiormente gli strumenti di tipo mappa ed abstract mentre i soggetti con stile analitico tendono ad utilizzare in misura maggiore le slides ed il testo. I soggetti con stile visuale preferiscono i c ù l’abstract e le slides mentre i soggetti verbali utilizzano in misura maggiore le video lezioni ed il testo.Tali regolarità in effetti, sono in linea alle ipotesi di ricerca secondo le quali alcuni strumenti sono più di natura verbale-analitica (ad esempio il testo e le video lezioni) mentre altri sono più di natura visuale-globale (ad esempio le mappe e le slides). Altra regolarità può essere riscontrata nei soggetti con stile intermedio, sia intermedi in senso stretto sia intermedi ma tendenzialmente verso uno specifico stile (ad esempio intermedi-globali, intermedi-visuali etc.); tali soggetti utilizzano una maggiore varietà di strumenti durante le fasi di studio on line, si denota pertanto una distribuzione a volte quasi equa tra tutti gli :strumenti proposti. i

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3.1.4. Conclusioni: individuazione stili cognitivi Dai risultati della ricerca emerge che i globali preferiscono tendenzialmente processare le informazioni nella loro complessità ed interezza, per cui prediligono ambienti e strumenti in cui le informazioni si presentano in modo altamente strutturate e organizzate e quindi preferiscono nelle fasi di studio on line, le mappe concettuali, gli abstract e, in forma ridotta, le slide. Questo dato confermerebbe i risultati conseguiti dal gruppo di ricerca guidato da Ford (Ford, Chen, 2000; Ford, Chen, 2001). Gli analitici, invece, al contrario, sembrano preferire processare le informazioni in gruppi concettuali separati mirati alla comprensione dei dettagli. Dai dati si evince la tendenza ad utilizzare il testo suddiviso in paragrafi, le slides e le video lezioni. Anche quando hanno visionato le mappe concettuali o gli abstract, sono successivamente ritornati ad utilizzare il testo. Questo confermerebbe quanto sostenuto da Pillary (1998), dallo stesso Ford (2000) e da Graff (2003a; 2003b) e, cioè, che gli analitici prestano molta attenzione ai dettagli prima di combinarli e creare i collegamenti tra di loro. Anche rispetto alla dimensione Verbale/Visuale si è confermato quanto sostenuto da Riding e Cheema (1991) e da Pillary (1998). I verbalizzatori, infatti, preferiscono parole e associazioni di parole ed hanno maggiormente utilizzato strumenti in cui il numero dei testi rispetto alle immagini è più alto. I visualizzatori, invece, preferiscono immagini mentali (mappe e slide) sulle informazioni strutturate in forma testuale. In conclusione si può affermare che, in un ambiente di apprendimento in rete, presentare la conoscenza secondo una pluralità di strumenti è chiaramente più efficace; alcuni soggetti, secondo il proprio stile cognitivo indirizzeranno la scelta verso particolari strumenti in modo da personalizzare il proprio processo di apprendimento.Verso tali soggetti è possibile quindi personalizzare l’offerta formativa futura poiché il management didattico avrà a disposizione una serie di variabili in base alle quali potere offrire servizi formativi aggiuntivi. La ricerca presentata in questo lavoro ha portato all’individuazione dei principali strumenti utilizzati dai corsisti che appartengono ad una specifica polarità di stile. Ciò è fondamentale perché pone le basi per la progettazione di un ambiente di apprendimento in rete di tipo “adattivo”, in grado cioè di personalizzare l’offerta formativa on line ed i servizi aggiuntivi in linea agli stili cognitivi dei soggetti. Tale progettazione dovrà considerare le seguenti fasi: a) individuazione dello stile-corsista attraverso il questionario di Cornoldi, che potrebbe essere implementato anche on line; b) presentazione dei contenuti secondo gli strumenti più consoni allo stile del corsista; c) presentazione degli eventuali servizi aggiuntivi di approfondimento sempre attraverso gli strumenti più congeniali in linea allo stile cognitivo; d) disponibilità in ogni caso di tutti gli strumenti possibili lasciando la scelta al corsista, al fine di garantire in ogni caso il principale assunto della didattica personalizzata: la scelta da parte del soggetto. Pertanto, gli sviluppi futuri, che si prefigge il nostro gruppo di ricerca, riguarderanno la progettazione di un ambiente di apprendimento in rete che terrà conto dei risultati della ricerca qui presentata, con l’aggiunta altresì delle seguenti indicazioni: • possibilità di inserire nuovi tool, utili allo studente durante la fase di studio e che potrebbero fornire ulteriori e preziose informazioni sull’impiego che lo studente fa degli strumenti che vengono messi a sua disposizione. • fornire agli studenti strumenti di produzione on line per apportare loro stessi conoscenze da condividere con il resto del gruppo ma anche per fornire un feedback ai docenti ed ai tutor. • realizzazione di strumenti di authoring per consentire ai docenti ed in genere agli esperti di contenuto, di pubblicare in maniera semplice ed automatica gli strumenti che caratterizzano la stessa LU.

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ricerche Simulandia. Giochi di simulazione e ambienti di apprendimento della matematica Simulandia. Simulation games and learning areas of mathematics CESARE FREGOLA – ANGELA PIU Il contributo presenta una sperimentazione, nell’ambito di un articolato progetto di ricerca ancora in atto nella scuola primaria e secondaria di primo grado, che si prefigge di verificare se le caratteristiche strutturali dei giochi di simulazione possano promuovere il processo di astrazione, far pervenire alla rappresentazione dei concetti matematici e alla loro formalizzazione a partire dal linguaggio naturale, utilizzando il pattern della transcodifica, influenzare l’autoefficacia scolastica e sociale e la motivazione ad apprendere. La sperimentazione ha confrontato il gioco di simulazione (Gruppo Sperimentale) e la lezione frontale (Gruppo di Controllo) in due classi di scuola primaria, riguardo all’autoefficacia scolastica e sociale, alla motivazione, all’apprendimento e alla sua ritenzione. I risultati relativi all’autoefficacia scolastica e sociale dei GS in ciascuna classe risultano migliori rispetto a quelli dei CG; mentre riguardo alla motivazione una differenza significativa risulta a favore del GS di una sola classe. Per le altre variabili non si registrano differenze significative.

The paper introduces an experiment within an articulated research project still in action in the primary and secondary school of first degree. The research aims to verify if the structural characteristics of simulation games can promote the process of abstraction, can be comprehensable to the representation of the mathematical concepts and their formalization starting from the natural language and using the transcoding pattern, can influence the social and scholastic self-efficacy and the motivation to learn. The experiment is carried out in two classes of primary school and compares the game of simulation (Experimental Group) to classical face-to-face lesson (Control Group) concerning social and scholastic self-efficacy, motivation, learning and learning retention. The children of the GS groups of each class provide better results compared to the CG children in social and scholastic self-efficacy. While respect to the motivation a meaningful difference results for the GS of only one class. For the other variables meaningful differences are not recorded.

Parole chiave: giochi di simulazione, apprendimento della matematica, pattern di trancodifica, ambienti di apprendimento, motivazione all’apprendimento

Key words: simulation games, mathematical learning, the transcoding pattern, learning environments, motivation to learn

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1. Introduzione La sperimentazione si inserisce in una progetto di ricerca che ha lo scopo principale di ideare e sperimentare la progettazione e la realizzazione di ambienti dinamici di apprendimento che utilizzano i giochi di simulazione nella didattica della matematica nella scuola primaria e secondaria di primo grado. I giochi di simulazione sono visti nella prospettiva di rappresentare ambienti in cui la progettualità e la realizzabilità attingono alle più recenti acquisizioni della ricerca sulle teorie dell’apprendimento che riconoscono da un lato connessioni tra aspetti affettivo-motivazionali, cognitivi e di contesto e dall’altro la ricerca di relazioni con il pattern della transcodifica relativo al processo di matematizzazione della realtà, caratterizzato da modalità di codifica a più livelli di astrazione e che fa da guida al processo didattico. Il percorso della ricerca parte dall’ipotesi che le caratteristiche strutturali dei giochi di simulazione possano promuovere il processo di astrazione, far pervenire alla rappresentazione dei concetti matematici e alla loro formalizzazione, sostenere, da parte del bambino, un controllo meta cognitivo, che si sviluppa all’interno dell’ambiente di gioco che fa da guida al processo di sviluppo dell’autoefficacia scolastica e sociale per avviare un processo motivazionale che mantiene e sostiene nel tempo la conquista della padronanza del linguaggio matematico a partire dal linguaggio naturale. Il pattern della transcodifica ha guidato, così, il processo didattico relativo agli apprendimenti matematici previsti; mentre i costrutti relativi al processo di apprendimento, rispetto ai quali si è focalizzata l’attenzione, sono riferiti all’autoefficacia scolastica e sociale, alla motivazione rispetto agli apprendimenti geometrici insiti nel gioco di simulazione e alla ritenzione nel tempo degli apprendimenti realizzati. La nostra ricerca, riconoscendo incoraggianti i risultati verso cui convergono le ricerche precedenti sui giochi di simulazione, che risultano complessivamente migliori rispetto all’istruzione convenzionale nella ritenzione mnemonica, nel cambio di attitudine e nell’incremento di motivazione, vuole contribuire a rivisitare la centralità degli allievi che sono immersi in una realtà complessa e il loro atteggiamento verso gli apprendimenti matematici oltre che sulle relative influenze nella loro autoefficacia. Nell’articolo, dopo una illustrazione sintetica dell’impianto della ricerca, viene proposta una revisione della letteratura sui giochi di simulazione ed effettuata una esplorazione di quella relativa ad alcuni aspetti dell’insegnamento matematico da cui sono scaturite le ipotesi e la procedura di sviluppo della ricerca sul campo. In seguito vengono descritte le linee generali di una delle sperimentazioni, già conclusa nella scuola primaria, di cui vengono discussi i primi risultati, e presentati i futuri sviluppi.

1. La ricerca: scopi e obiettivi del progetto Simulandia Il progetto Simulandia si prefigge di avviare una riflessione funzionale a ricercare un repertorio metodologico efficace e motivante per una didattica generativa di apprendimenti matematici, che possono individuare ambienti di apprendimento che utilizzano i giochi di simulazione e aprono a specifici approfondimenti che prendono forma dalla ricerca di una ontologia dei giochi di simulazione stessi (Piu C., 2010). Lo scopo è quello di strutturare ambienti che, mediante i processi che si sviluppano con i giochi di simulazione, definiscano situazioni di apprendimento per immersione che sono propri degli ambienti virtuali integrandosi con gli ambienti di apprendimento caratteristici della

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didattica più tradizionale. Si ipotizza che ogni bambino possa così sviluppare conoscenze astratte, rielaborate e ricondotte al linguaggio matematico e sviluppare forme di pensiero che si evolve per costruire un sistema consapevole di pianificazione, conduzione e monitoraggio del proprio apprendimento. Nell’ambito della ricerca il gioco di simulazione viene proposto come esperienza relazionale e come occasione formativa che si realizza all’insegna della reciprocità e della condivisione, al fine di promuovere processi di apprendimento, partecipazione sociale, governo dell’affettività, modulazione delle emozioni nella prospettiva di intervenire su queste variabili con l’intenzionalità che deriva dalla struttura del gioco e dall’ambiente relazionale che le regole, le procedure e le modalità di conduzione del gioco richiedono da parte dell’insegnante. Il gioco di simulazione, infatti, crea un contesto dinamico, all’interno del quale si richiede alla comunità di partecipanti di fare esperienza, di problematizzare la realtà e di assumere decisioni nel rispetto delle regole e in relazione agli obiettivi da perseguire di comporre e dare origine a un processo di astrazione e di costruzione della conoscenza. Esso differisce dalle altre pratiche e strategie didattiche, in quanto si configura come un’attività molare, che si svolge in relazione con altre persone e si presenta costituita da una struttura finalistica e da un processo che permane nel tempo, e può riflettere un’espansione del mondo fenomenologico del soggetto, in quanto può portare nella situazione puntuale e immediata in cui il soggetto si trova elementi di altre situazioni ambientali funzionali al processo di insegnamento/apprendimento. Ogni gioco, con le sue peculiarità, rappresenta infatti un luogo in cui si determina l’integrazione fra libertà e costrizione in quanto all’interno di un insieme di condizioni, di vincoli e di regole si stimola la capacità di organizzare e integrare aspetti cognitivi, emotivi, relazionali, motori e conoscenze per combinarle creativamente con i processi di decisione che guidano le azioni attraversando una dimensione ludica capace di facilitare la comunicazione e la partecipazione. Il gioco viene inteso quale ambiente in cui il processo di matematizzazione della realtà, che porta alla scoperta di concetti, regole e strutture, così come alla rappresentabilità dei concetti complessi dell’aritmetica e della geometria, può trovare ulteriori raffigurazioni e consentire un avvicinamento graduale alla realtà stessa, allo scopo di giungere a una maggiore comprensione. L’approccio alla didattica della matematica è il pattern della transcodifica che, dal punto di vista didattico, si propone di organizzare il linguaggio, il luogo del compito e l’ambiente di apprendimento, definendo i percorsi organizzati su più livelli di astrazione allo scopo di facilitare la costruzione di un linguaggio che sia “fruibile” e da porre a fondamento della costruzione del linguaggio matematico formale. La ricerca si rivolge, cosi, alla progettazione, realizzazione e sperimentazione di giochi di simulazione applicati al processo di insegnamento-apprendimento della matematica con la prerogativa di: • sperimentare alcuni aspetti dell’evoluzione delle scienze dell’educazione o discipline pedagogiche che hanno reso disponibili modelli di apprendimento e schemi d’insegnamento che potrebbero trovare applicazioni, fare da guida, oppure essere messi sullo sfondo, all’interno dell’offerta didattica, in modo tale che si possa avviare un processo motivazionale che mantiene e sostiene nel tempo la conquista della padronanza dei contenuti matematici; • indagare su alcune caratteristiche strutturali e sulle dinamiche dei giochi di simulazione quando si applicano al processo di apprendimento e di costruzione del linguaggio matematico a partire dalla possibilità di astrazione e della sua formalizzazione;

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• promuovere un controllo metacognitivo che si sviluppi all’interno dell’ambiente di gioco e che faccia da guida al processo di sviluppo dell’autoefficacia. • individuare le variabili che possono incidere sulla qualità dell’istruzione, mettendo a confronto l’efficacia didattica di ambienti di apprendimento differenti, in modo da verificare l’efficacia di ciascun ambiente in relazione alle caratteristiche cognitive ed affettivo-motivazionali di ciascun bambino e individuare i criteri per agevolare le decisioni sulla spendibilità didattica di ciascun ambiente. L’ideazione, la progettazione e realizzazione di ambienti di gioco hanno tenuto presenti aspetti che, seppure si riferiscono alle caratteristiche dei giochi di simulazione, focalizzano l’attenzione in chiave metodologico-didattica, in particolare: • sui processi quali l’astrazione, la codificazione, la decodificazione, la transcodificazione e il transfer caratterizzanti l’apprendimento della matematica; • sui processi di costruzione delle relative rappresentazioni in un codice via via formalizzato all’interno del linguaggio logico-matematico; • sulla interazione tra gli aspetti cognitivi, affettivi, sociali e relazionali, che giocano un ruolo fondamentale nell’apprendimento della matematica. • più in generale, sullo sviluppo della dimensione meta cognitiva e relazionale. Tutto ciò si svolge con l’intento di promuovere processi di costruzione del pensiero matematico e di sviluppare un atteggiamento corretto verso la matematica (Domenici, Frabboni, 2007) che consenta di: • avviare la scoperta guidata di alcuni concetti matematici e l’acquisizione graduale del linguaggio matematico. I giochi di simulazione progettati, infatti, si prefiggono di far conseguire finalità educative significative per il curricolo di matematica in un ambiente protetto in cui vengono proposte situazioni problematiche il cui percorso di soluzione induce i partecipanti a rilevare le invarianze dei concetti matematici attraverso azioni visuo-percettive per agevolare i processi di astrazione e a definire simboli con i quali rappresentare i concetti per giungere alla loro formalizzazione; • promuovere un’adeguata visione della matematica come disciplina riconosciuta non come un insieme di regole da memorizzare e applicare, ma “apprezzata come contesto per affrontare e porsi problemi significativi e per esplorare e percepire affascinanti relazioni e strutture che si ritrovano e ricorrono in natura e nelle creazioni nell’uomo” (Domenici, Frabboni, 2007, pp. 228-229).

2. Esplorando la letteratura Le recenti ricerche di matrice psicopedagogica hanno riconosciuto la connessione tra gli aspetti affettivo-motivazionali, cognitivi e di contesto nell’ambito dei processi d’insegnamento/apprendimento della matematica. In particolare, il panorama internazionale della ricerca sui processi di apprendimento si è mostrato più attento alla complessità, alla specificità e alle caratteristiche della matematica (Pellerey, 1999) nell’ambito di una prospettiva generale fondata su una visione complessa e problematica dell’ambito dell’insegnamento e dell’apprendimento; tale prospettiva è caratterizzata da una interdipendenza tra soggetti e contesti culturali di riferimento nei processi di sviluppo e di costruzione di conoscenza (Semeraro, 1999). In tale ottica sono molteplici gli aspetti che hanno assunto particolare rilevanza e fra questi: il ruolo e le funzioni delle conoscenze di natura concettuale e procedurale e delle competenze strategiche e autoregolative, l’incidenza dell’ambiente e delle componenti af-

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fettive e motivazionali e delle convinzioni possedute dai soggetti in apprendimento (Pellerey, 1999), e inoltre la conoscenza dei propri processi cognitivi e le competenze strategiche riferite al controllo e alla gestione di questi ultimi in vista del conseguimento di obiettivi prefissati (Cornoldi, 1995). In altre ricerche si presume che i concetti matematici possono costruirsi solo sulla base di concetti già esistenti (Anderson, 1983) che costituiscono una rete concettuale grazie al legame esplicito con esperienze significative e socialmente condivise, che si avvalgono di supporti e strumenti di ogni genere e di cui i soggetti possono cogliere il significato e l’obiettivo che conseguiranno (Resnick, 1987). Nei processi di costruzione di ambienti di apprendimento, rivestono importanza le modalità che prendono avvio da aspetti concreti e operativi (Piaget, 1973; Dienes, 1971), definiti non solo in termini di caratteristiche fisiche del mondo reale, ma sulla base di connessioni significative che si possono scoprire, creare o applicare mettendo in relazione altri concetti matematici o situazioni. Da segnalare, a tal proposito, gli studi di Fischbain e di Vergnaud (1992) e i più recenti di Olmetti Peja (2010), Fregola (2007), oltre a quelli di Laeng (1991), di Sfard (1991), secondo i quali la costruzione di concetti può essere concepita in più modi differenti e complementari sia come processi sia come oggetti.

3. Uno sguardo alla letteratura sui giochi di simulazione La ricerca sui giochi di simulazione in ambito educativo formativo e didattico presenta a tutt’oggi risultati contraddittori, problemi e nodi ancora aperti. Introdotti in ambito educativo fin dagli anni Sessanta, almeno per ciò che riguarda l’ambito scolastico, i giochi di simulazione, proprio in quegli anni hanno vissuto il maggiore sviluppo orientando successivamente il loro campo di azione quasi esclusivamente verso la simulazione al computer. Da circa quarant’anni, si è così sviluppato un approccio che ha consentito alla simulazione di proporsi, oggi, in molti paesi, come metodologia consolidata che viene prevalentemente considerata e utilizzata come una valida strategia didattica. Tale impiego è confermato e avvalorato dal fatto che nei paesi in cui si è affermata, esiste una ricca e ampia letteratura sull’argomento e sono reperibili sul mercato molti giochi riferiti a tutti gli ambiti disciplinari. Nonostante questa lunga tradizione il panorama delle ricerche sull’impiego dei giochi di simulazione in ambito educativo risulta modesto, se si pone in relazione alla loro diffusione, e non risultano applicazioni estese nell’ambito di piani didattici dichiarati; anzi, si può rilevare frammentarietà e parzialità dettata da finalità più commerciali che con intenzionalità pedagogica in cui sono riconoscibili e dichiarate le strutture o i concetti, le conoscenze proposte o i processi di apprendimento che si intende stimolare. Di fatto i risultati cui si è giunti non sono univoci, a causa delle differenti caratteristiche degli studi condotti, del carattere eclettico della ricerca, che coinvolge diversi settori e ambiti, e della carenza di un’ontologia in grado di organizzare concettualmente il discorso scientifico. Molti studi sulla valutazione dei giochi, inoltre, presentano un carattere aneddotico; essi, infatti, descrivono i giochi di simulazione in modo dettagliato, soffermandosi spesso sulle loro caratteristiche e sulle esperienze condotte con gli studenti in modo entusiastico, piuttosto che sulla loro efficacia all’interno di un progetto educativo, formativo o didattico in cui sono esplicite le finalità e dichiarati gli obiettivi dell’apprendimento oppure le ipotesi di ricerca che guidano l’azione didattica.

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In letteratura vengono spesso identificate tre categorie di ricerche sui giochi di simulazione: • studi descrittivi, sugli effetti di un particolare gioco sui partecipanti; • exsplanatory studies, che mettono in relazione i risultati di particolari giocatori con altre variabili; • studi comparativi, che confrontano l’efficacia dei giochi di simulazione con altre modalità di istruzione (Fletcher, 1969 in Keach, Pierfy, 1972). Quest’ultimo gruppo, nella cui prospettiva si pone la ricerca presentata in questo articolo, contiene elementi degli studi sia descrittivi sia esplorativi, ma essenzialmente focalizza la propria attenzione ad investigare il valore dei giochi di simulazione rispetto alle altre modalità di istruzione. È difficile generalizzare i risultati ottenuti da tali ricerche sia per le differenze che li caratterizzano sia per alcuni errori individuati dagli studiosi che possono indebolire la qualità del procedimento sperimentale. Cherryholmes (1966 in Pierfy, 1977), nonostante sostenga che le differenze nei progetti di ricerca possono minare i tentativi di comparare i risultati, procede a generalizzare i risultati sull’efficacia dei giochi di simulazione. Molti altri autori hanno seguito il suo esempio e hanno lasciato interessanti resoconti della letteratura sugli studi comparativi. Un primo resoconto di comparazione emerge dal contributo di Pierfy (1977), che ha esaminato 22 ricerche che comparano i giochi di simulazione progettati per gli studi sociali con l’istruzione convenzionale. Egli è giunto alla conclusione che i giochi di simulazione non sono molto più efficaci dell’istruzione convenzionale. La comparazione è stata effettuata tenendo in considerazione: i risultati di apprendimento, la ritenzione, il cambio di attitudine e l’interesse. Le ricerche sembrano suggerire in generale che ci sono dei vantaggi nella ritenzione dell’informazione, sia nel cambio di attitudini e nell’incremento dell’interesse. In particolare rispetto ai risultati di apprendimento, desunti dalla somministrazione di test subito dopo il trattamento, non si evincono differenze significative. Il resoconto di Bredemeier e Greenblatt (1981) aggiunge a quelli di Pierfy, la cui revisione viene ripresa dagli autori assieme ai dati, i risultati di altre ricerche, che da un lato confermano le stesse conclusioni mentre dall’altro aggiungono ulteriori precisazioni ricavate dall’analisi di studi successivi. Rispetto ai risultati d’apprendimento, ad esempio, si conferma la carenza di differenze significative sui risultati d’apprendimento e migliori risultati a favore della ritenzione, così per il cambio d’attitudine e per la motivazione ad apprendere. Per il primo risultato gli autori precisano che la superiorità nel cambio di attitudine dipende dalle condizioni in cui il gioco si svolge e per alcuni studenti, mentre per il miglioramento rilevato nella motivazione aggiungono risultati di altre ricerche condotte successivamente al resoconto di Pierfy. Successivo a questo resoconto è quello della Randel et al. (1992), che copre un periodo di 28 anni, a decorrere dal 1963 fino al 1991. Nell’articolo compaiono solo 68 studi perché sono stati esclusi dalla comparazione tutti quelli in cui non erano presenti dati di ricerca ma si centrava semplicemente l’attenzione sugli aspetti descrittivi dei giochi e delle loro caratteristiche. Una differenza rispetto agli altri resoconti è che la Randel, insieme agli altri autori, nella sua analisi include sia i giochi sia i giochi di simulazione considerati quale sottocategoria dei giochi. Per cui i risultati dei 68 studi riportati riguardano la comparazione sia dei giochi, molti dei quali al computer, sia dei giochi di simulazione rispetto all’istruzione convenzionale impiegati nell’ambito di diverse discipline – scienze sociali, matematica, arte, fisica, biologia, logica – mentre sono stati esclusi i business game, perché riguardanti un ambito più accademico, e per l’analisi dei quali si rinvia ad altri contributi. I risultati riportati da Randel et al. sono i seguenti: il 56% non ha riscontrato alcuna differenza; il 32% è a favore dei giochi di simulazione e dei giochi; il 7% è a favore dei giochi di simulazione e dei giochi, ma ritiene i risultati discutibili; il 5% è a favore dell’istruzione tradizionale. Per quanto riguarda la ma-

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tematica, sette di otto studi hanno dimostrato che l’impiego dei giochi e dei giochi di simulazione ha determinato migliori risultati. Complessivamente, i giochi e i giochi di simulazione hanno determinato una ritenzione migliore rispetto alla istruzione convenzionale. In 12 di 14 studi, gli studenti hanno riportato maggiore interesse nei giochi e nei giochi di simulazione rispetto all’istruzione convenzionale. Dall’esame della letteratura relativamente ai giochi di simulazione impiegati nell’ambito della didattica della matematica, si rileva che l’applicazione si ritrova quasi esclusivamente a temi inerenti all’ambito economico, di gestione di denaro o di probabilità e comunque i giochi si configurano spesso solo come simulazioni al computer. I primi risultati di ricerca possono ritenersi sicuramente un incoraggiamento a procedere con la ricerca per confermare ulteriormente i dati cui sono giunti. La ritenzione, il cambio di attitudine e l’incremento di motivazione potrebbero essere un aspetto sicuramente da indagare considerata anche la stretta connessione tra gli aspetti affettivo-motivazionali e cognitivi ormai riconosciuta dalle recenti ricerche di matrice psicopedagogica e il bisogno di imparare per tutta la vita che richiede la nostra società contemporanea.

4. L’architettura generale Lo sviluppo del progetto ha comportato la definizione di uno Spazio di Idea-Azione all’interno del quale sono confluite da circa due anni, le esperienze e le provenienze professionali di un gruppo di ricerca1 nel quale si incontrano docenti universitari, insegnanti di vari ordini e gradi di scuola, studenti, lavoratori della curiosità di conoscere, comprendere e condividere2. La definizione di questo spazio si colloca nel progetto e ne rappresenta uno degli oggetti della stessa nostra ricerca. Il lavoro si muove così lungo due direttici primarie articolate su tre livelli e si colloca in due contesti organizzativi. Le direttrici sono determinate da: • i giochi di simulazione • la didattica della matematica. Il livelli di riferimento sono: • la ricerca • la sperimentazione

1 Si ringraziano per il prezioso contributo i membri del gruppo di ricerca: Prof. Carmelo Piu, Prof.ssa Daniela Olmetti Peja, Prof.ssa Anna Santoro, Dott.ssa Roberta Masci, Dott.ssa Eledia Mangia, Dott. Salvatore Fregola; gli alunni della classe V B della scuola primaria dell’ “Istituto comprensivo “M. Montessori” di San Giuliano Milanese (MI) e della classe IV A del II circolo di Genzano (Roma) seguiti magistralmente dalle loro insegnanti; il dott. Michele Di Lisio e l’insegnante Mauro Ciotti, che hanno contribuito a realizzare la fase di tryout del gioco di simulazione in una classe III della Scuola primaria “S. Foruli” di Scoppito, dell’istituto comprensivo “Comenio” L’Aquila. Si ringrazia, infine, per la collaborazione nelle fasi di impostazione e di elaborazione statistica dei dati la Dott.ssa Claudia Abundo. 2 Del gruppo di ricerca fanno parte: Carmelo Piu, Daniela Olmetti Peja, Anna Santoro, Annunziata Marsciano, Roberta Masci, Eledia Mangia, Salvatore Fregola, Barbara Barbieri.

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• l’azione didattica. I contesti in cui si sviluppa sono: • la ricerca scientifica in ambito accademico • la ricerca azione e il processo di decisione sulla costituzione di ambienti di apprendimento in ambito scolastico. Le analisi inevitabilmente si sovrappongono, sono a volte simultanee e non sempre facilmente riconducibili a un univoco contesto di riferimento e a un solo livello mentre, a volte, richiedono la specificazione situazionale per poter essere sostenute e indirizzate verso le direttrici tenendo conto dell’insieme dei vincoli organizzativi dei due contesti nei quali si opera ma, anche, delle risorse disponibili o accessibili con un po’ di impegno. In particolare le direttrici, che caratterizzano lo Spazio Idea Azione, sono due: una è costituita da Simulandia la città dove si svolge l’ideazione, la progettazione e si realizzano giochi simulazione; l’altra direttrice è definita dalla didattica della matematica nella società complessa, in quanto i risultati di apprendimento e la motivazione ad apprendere la matematica continuano ad essere critici mentre il bisogno di pensiero matematico, oltre che di abilità matematiche, è sempre più cogente. I livelli che caratterizzano lo Spazio Idea Azione sono tre: il primo livello si riferisce alla ricerca che si è focalizzata sulla letteratura concernente i giochi di simulazione con lo scopo di rilevare cosa è accaduto e sta accadendo in quest’ambito in una prospettiva internazionale e si è sviluppata un’ontologia per i giochi di simulazione e sulla letteratura relativa ai sistemi per una didattica della matematica; un primo rilevante risultato è che è stato possibile validare un pattern, la transcodifica, che sta orientando le logiche che guidano la costruzione degli ambienti di apprendimento per la didattica della matematica. Per ciò che si riferisce alla sperimentazione si sono definiti i protocolli relativi a “Cartolandia”, un primo gioco di simulazione, che dal punto di vista matematico affronta il tema geometrico delle isometrie e dal punto di vista psicopedagogico ha lo scopo di esplorare se, e in che misura, i giochi di simulazione possono intervenire su alcuni processi meta cognitivi, affettivi e relazionali e influenzare i criteri da porre a fondamento della costruzione di un sistema per la didattica rivolta ai bambini della società complessa. Per ciò che attiene l’azione didattica, questa si è strutturata a partire dal modello di progettazione didattica per obiettivi e la procedura di istruzione ha integrato più modelli d’apprendimento e più schemi d’insegnamento. Il percorso è corredato dei materiali di lavoro, delle schede operative, dei test diagnostici, delle prove di verifica dell’apprendimento, della guida per la gestione delle singole attività e del processo, di materiale multimediale per la formazione degli insegnanti che prendono parte alla fase di diffusione su grandi numeri della ricerca-azione. Infine i contesti che caratterizzano lo Spazio Idea Azione attualmente coinvolti sono: per ciò che attiene gli ambienti accademici le Università dell’Aquila, l’Università Roma Tre e l’Università della Calabria e per ciò che attiene la scuola sono coinvolte scuole elementari di alcune città quali: Milano, Roma, Genzano, Formia, Castrovillari.

5. I giochi nella ricerca: scelte metodologiche e pattern della transcodifica La progettazione dei giochi di simulazione per l’apprendimento della matematica, nella versione qui proposta, realizzata e sperimentata, privilegia alcune scelte metodologiche (Piu A., 2002) riferibili alla definizione di un contesto simulato che: • consenta agli allievi di fare esperienze che li inducano ad analizzare “modelli” di realtà

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quotidiane e a prestare attenzione sugli aspetti matematizzabili (Dienes, 1971). Si cerca, in tal modo, di stimolarli a tirar fuori dalla realtà percepita nel gioco di simulazione gli aspetti che si traducono in fatti matematici per favorire la scoperta guidata e la formazione dei concetti matematici; possa favorire attività di esplorazione in conformità con le regole del gioco e in relazione agli obiettivi da perseguire, in cui vengono predisposte situazioni percettivamente diverse di una stessa struttura concettuale cui l’allievo si avvicina anche attraverso la manipolazione di materiali strutturati. Grazie a tale attività esploratoria l’allievo può cogliere come invariante il concetto stesso; consenta lo sviluppo di processi di comprensione dei concetti matematici seguendo un percorso che procede verso la costruzione simbolica che esprime il concetto stesso, via via per astrazione fino alla sua formalizzazione. Il problema non è quindi solo di “fornire al bambino schemi adeguati, ma di avviare il bambino a una rappresentazione simbolica per lui significativa, facendo in modo che i simboli evochino un significato e che il bambino colga l’importanza del rappresentare sia per capire che per comunicare” (Vergnaud, 1994); faciliti la costruzione del linguaggio matematico, mediante la definizione di una zona prossimale fra il linguaggio di cui l’allievo ha padronanza e la sua evoluzione verso il linguaggio matematico, dando vita a codici intermedi tra il linguaggio naturale e il linguaggio matematico stesso, mediante un processo di transcodificazione; possa valorizzare in maniera simultanea, in un processo di apprendimento, gli aspetti cognitivi e sociali e quelli affettivi e relazionali (Montuschi, 1987; 1993), favorendo le attività di interazione con gli altri soggetti e quelli di “esplorazione con il pensiero bambino”.

5.1. Il Pattern della Transcodifica Il pattern della transcodifica è posto a fondamento della ricerca e dell’azione didattica di questo lavoro. Dal punto di vista didattico il pattern si propone di organizzare il linguaggio, il luogo del compito e l’ambiente di apprendimento definendo i percorsi organizzati su più livelli di astrazione allo scopo di facilitare la costruzione di un linguaggio che sia “fruibile” e da porre a fondamento della costruzione del linguaggio matematico formale. Come è noto, il linguaggio matematico è basato su un codice formale economico per rappresentare concetti, strutture, teorie semplici e ad alto livello di complessità formale ma i processi di comunicazione si basano comunque sulla sintonia che emittente e destinatario riescono a condividere utilizzando un codice comune. Se il codice è quello matematico, occorre che emittente e destinatario lo padroneggino entrambi per comunicare di matematica. Nella relazione di insegnamento-apprendimento ciò che per l’insegnante è codice già posseduto, per il bambino è codice da costruire e allora occorre prevedere momenti di scambio e di interazione per mediare fra il livello dei significati che emittente e destinatario, insegnate e bambini, intendono o attribuiscono, a partire dal proprio repertorio di conoscenza e di esperienza. Nel processo di transcodificazione si conserva l’oggetto della comunicazione, la sua struttura, il concetto che si vuole scoprire o formalizzare, la regola che si applica. Il codice, che presenta il massimo livello di astrazione possibile per il destinatario, può non coincidere con il codice specifico del linguaggio matematico e il grado di formalizzazione nel codice matematico può non essere accessibile al bambino affinché egli possa esprimere con consapevolezza e padronanza strutturale i significati sottesi. E allora si tratta di costruire codici intermedi che prendono avvio da quelli noti, magari basati sul linguaggio naturale e sui modi di rappresentare la realtà da parte del bambino, in

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modo che siano decodificabili i significati e pertanto i codici stessi utilizzati siano “in sintonia” con le competenze e capacità di astrazione, proprie della fase di sviluppo del pensiero matematico in cui si trova ciascun allievo. Questo approccio è vicino alla concezione sostanziale della matematica ma non trascura il fatto che la concezione formale della matematica debba necessariamente rappresentare un punto di arrivo del suo processo di insegnamento-apprendimento, almeno fino a quando non si è acquisito un primo livello di padronanza del codice che, a sua volta, si porrà a fondamento di nuovi livelli via via più formali. Si può dire che è necessario un rigore sostanziale da perseguire nell’approccio all’utilizzo di un codice intermedio durante il processo di costruzione del linguaggio matematico. Lo scopo è che questo codice possa fare da guida nell’atteggiamento da promuovere per favorire la possibilità di accogliere il rigore formale che caratterizza i codici che la matematica pone a fondamento del suo esprimersi. La transcodifica, così, può favorire le condizioni affinché il rigore sostanziale che si introduce abbia almeno due caratteristiche: • sia minimo necessario per evitare di introdurre livelli di approssimazione inopportuni nell’utilizzo dei codici intermedi; • riduca il rischio di determinare un apprendimento parziale, distorto oppure guidato da misconcezioni. Il processo di transcodifica trova un riferimento implicito nella Montessori quando proponeva di costruire oggetti e ambienti a misura di bambino. Il processo di transcodifica può essere definito, come una ricerca di parole per dire cose della matematica in modo tale che il repertorio di parole utilizzato ponga le condizioni affinché il bambino possa: a. sentire un senso di adeguatezza nell’accedere al codice che si utilizza e che si costruisce; b. cogliere la relazione che c’è fra le parole che si utilizzano e i significati intesi; c. conquistare la padronanza di utilizzare un codice via via più formale e sempre più vicino, sempre più prossimo, al codice matematico. “Transcodifica” dal punto di vista didattico può essere considerata una competenza dell’insegnante di costruire ambienti che rispettino le tre condizioni indicate e che siano accessibili, siano sfidanti e favoriscano i processi di astrazione finalizzati a cogliere e rappresentare i concetti, le regole e le relazioni matematiche oggetto del processo di insegnamento-apprendimento.

6. Ipotesi e metodologia della sperimentazione L’ipotesi del progetto di ricerca è che i giochi di simulazione da utilizzare come ambienti di apprendimento possano contribuire allo sviluppo dell’autonomia e dell’autoefficacia dei soggetti, nella misura in cui consentono di focalizzare l’attenzione su abilità matematiche agite in contesti significativi che, oltre a essere messi in relazione alla vita quotidiana, richiedono la ricerca di soluzione di problemi relativi a questioni autentiche, valide e significative dal punto di vista dei processi di apprendimento che si intendono sviluppare e possono essere messi in relazione a situazioni di azione sulla realtà grazie alla simulazione di situazioni isomorfe. L’ipotesi del progetto di ricerca, dunque, è che, rispetto ai percorsi tradizionali, i giochi di simulazione e gli ambienti del compito che li utilizzano possono influenzare sia l’apprendimento specifico di concetti matematici, sia alcune funzioni dell’apprendimento e alcune variabili che facilitano l’acquisizione, lo sviluppo e il consolidamento delle abilità che caratterizzano il pensiero matematico e la costruzione del suo linguaggio.

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L’ipotesi di ricerca è così articolata: Rispetto alla lezione tradizionale l’impiego del gioco di simulazione può:

H H

P

H(1) = facilitare l’apprendimento delle conoscenze e delle abilità del pensiero matematico H(2) = facilitare la ritenzione delle conoscenze e il consolidamento di abilità del pensiero matematico H(3) = migliorare la motivazione all’apprendimento della matematica H(4) = migliorare l’autoefficacia scolastica e sociale percepita. Dal punto di vista metodologico il progetto ha impiegato un approccio sperimentale. Sono stati coinvolti gruppi sperimentali (ai quali si propone il gioco di simulazione Cartolandia) e gruppi di controllo (ai quali si propone una lezione tradizionale), ambedue appartenenti alla stessa classe di provenienza. Ai gruppi così individuati sono stati somministrati: pre-test e post-test sull’apprendimento, sull’autoefficacia sociale e scolastica, sulla motivazione ad apprendere della geometria e un follow-up sull’apprendimento dopo 30 giorni. L’aspettativa è di verificare l’ipotesi di un cambiamento tra pre-test e post-test come effetto della realizzazione del progetto. I due gruppi hanno condiviso gli stessi curricola, mentre la conduzione delle due differenti proposte didattiche è stata affidata allo stesso insegnante di classe. Mediante apposite griglie sono stati valutati i materiali prodotti e/o impiegati dai gruppi nelle classi per affrontare le situazioni problematiche e la discussione sulle ipotesi di risoluzione prospettate dagli allievi. Prima di avviare la sperimentazione è stata sviluppata una fase di try-out di ciascun gioco, finalizzato alla validazione dei materiali e delle prove di verifica (Piu, Fregola, 2010), per poi procedere fino alla definizione dei protocolli di ricerca, quindi della procedura di sperimentazione, di descrizione, di analisi dei dati e di interpretazione dei risultati.

Fig. 1: Il processo sperimentale

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7. Cartolandia3 Cartolandia è un gioco di simulazione progettato da Angela Piu, Cesare Fregola e Anna Santoro4. È un gioco ambientato all’interno di una città di carta, in cui un giorno avviene un terribile furto, quello della prima carta geografica della città, il simbolo della città stessa, che si trovava nel museo cittadino.

Fig. 2: lo scenario di Cartolandia

L’obiettivo del gioco per i partecipanti è quello recuperare la carta geografica e cercare il colpevole sulla base degli indizi a disposizione. La ricerca del colpevole, che viene affidata ai carto-investigatori, avviene nel carto-laboratorio, luogo in cui è possibile analizzare il carto-tappeto, un lungo foglio su cui sono riportate le orme dei diversi visitatori del museo, e le sagome dei visitatori, ossia le fotografie di coloro che sono entrati nel museo e si sono avvicinati alla mappa.

3 I materiali di Cartolandia sono coperti da Copyright e disponibili presso gli autori agli indirizzi: angela.piu@cc.univaq.it; cfregola@uniroma3.it; 4 La Prof.ssa Anna Santoro è membro del gruppo di ricerca, nonché coautrice del gioco di simulazione. Insegna Scienze Matematiche Fisiche Chimiche e Naturali presso la scuola secondaria di I grado “L. Milani” dell’Istituto Comprensivo “M. Montessori” di San Giuliano Milanese (MI). Un contributo rilevante nella realizzazione di alcuni materiali è stato fornito dalla Dott.ssa Eledia Mangia che ha curato anche la sperimentazione presso la Scuola Primaria di Genzano.

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Fig. 3: la sezione speciale della “isometrie” del carto-laboratorio

La ricerca del colpevole avviene servendosi di lucidi sui quali si riportano orme e/o sagome che si sovrappongono attenendosi a delle regole precise, per verificare se coincidono. Si può effettuare questa operazione in diversi modi: 1. Si può lasciare “scivolare” lateralmente, in avanti e indietro, l’orma o la sagoma disegnata sul lucido, senza staccare il foglio dal pavimento 2. Si può far “ruotare” la figura puntando una puntina sull’angolo del lucido 3. Si può “ribaltare” il lucido mantenendo la stessa distanza del margine del foglio dalle rispettive figure (orme e sagome). 4. Si può lasciar “scivolare” lateralmente, in avanti e indietro, l’orma o la sagoma disegnata sul lucido e poi farla anche ruotare puntando una puntina sull’angolo del lucido. Non sempre è possibile utilizzare tutti i modi per confrontare le figure, per cui è necessario che i carto-investigatori discutano sulle diverse metodologie che di volta in volta è possibile utilizzare. Ogni volta che si eseguono le azioni suddette (punti 1, 2, 3 e 4), inoltre, è necessario che i partecipanti disegnino su un foglio in maniera sintetica, per poi comunicarlo al carto-generale, cosa è stato fatto. Si possono inventare uno o più simboli per ricordarsi cosa è stato fatto e cosa è cambiato nell’orma o nella sagoma dopo che è stato effettuato il lavoro con il lucido. Per iniziare il lavoro si può analizzare il tappeto con le orme e individuare quelle che hanno “percorso” tutto il tappeto. Si può effettuare questo lavoro nel carto-lab, seguendo tutte le istruzioni per utilizzare gli strumenti a disposizione e le regole alle quali attenersi. Una volta individuate le diverse tipologie di orme, se appartengono a diverse persone, per avere la certezza di non sbagliare, si può procedere ad analizzare anche le fotografie, ossia confrontare le sagome delle fotografie scattate dinanzi alla carta-geografica con quelle scattate all’ingresso del museo.

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Fig. 4: le fasi dello svolgimento del gioco di simulazione

Una volta individuato il colpevole, che dovrà riconsegnare la carta geografica, per essere certi di aver proceduto con rigore e scientificità si deve, necessariamente, dimostrare che il colpevole sia effettivamente quello individuato. Si devono, pertanto, sottoporre tutte le indagini al vaglio del carto-generale, al quale si deve comunicare il modo in cui sono state condotte le indagini nel carto-lab, nella sezione speciale delle “isometrie”. Il percorso e le attività seguite durante il gioco, nonché la discussione finale, si prefiggono di creare le condizioni affinché i partecipanti conseguano i seguenti obiettivi specifici d’apprendimento: individuare figure congruenti dirette e inverse, definire il concetto di isometria, definire/individuare le caratteristiche delle isometrie in relazione alla figura, al verso di percorrenza, al movimento, individuare figure congruenti dirette e inverse utilizzando la traslazione, la rotazione, la simmetria oppure la combinazione di traslazione e rotazione, inventare e utilizzare un “codice” economico condiviso dal gruppo per comunicare le caratteristiche delle isometrie, riportate in tabella.

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Tab. 1: le caratteristiche delle isometrie

8. La sperimentazione La sperimentazione pilota è stata condotta su due classi di scuola primaria, nelle quali l’argomento delle isometrie non era stato ancora affrontato (V B della scuola primaria “Istituto comprensivo “M. Montessori” di San Giuliano Milanese – Milano; IV A del II circolo di Genzano – Roma). In queste classi, dopo un primo periodo di formazione rivolto agli insegnanti sui contenuti matematici e sui processi relativi alla conduzione del gioco di simulazione e della lezione, è stata proposta l’esperienza di Cartolandia5. 8.1. La determinazione dei gruppi

n b r

Di seguito si descrive il dettaglio relativo alla formazione dei gruppi, alla conduzione della sperimentazione e ai risultati ottenuti: la V B della Scuola Montessori di San Giuliano Mii bambini suddivisi 11 alunni lanese è una classe a tempo pieno costituita da ventisei alunni,sono di etàstati compresa tra in: i nove e dieci anni. Ai fini dell’elaborazione dei dati (tenendo conto degli assenti), i bambini sono stati suddivisi in: 11 alunni nel gruppo sperimentale, 10 alunni in quello di controllo; la IV i A del II° Circolo Didattico di Genzano di Roma – Plesso De Amicis – è una classe modulare costituita da ventidue alunni, di età compresa tra gli otto e i nove anni. Ai fini dell’elaborasperimentale, al sono gioco disuddivisi simulazione, di controllo, zione dei dati (tenendo conto degli assenti),relativo i bambini stati in duee gruppi: 9 alunni in quello sperimentale, 9 alunni in quello di controllo. Per definire i gruppi sperimentale, relativo al gioco di simulazione, e di controllo, relativo alla lezione frontale classica,

L 5 Cartolandia è uno dei due giochi progettati nell’ambito del progetto di ricerca che si è sviluppato negli anni scolastici 2007-2008 e 2008-2009, anno scolastico in cui è stata svolta la sperimentazione.

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r

è stato somministrato a ciascun bambino il test sulle intelligenze multiple (Verbale,Visiva, articolata la lezione e il gioco e le Logica, Musicale, Cinestetica, Naturalistica, Esistenziale, Interpersonale, Intrapersonale) di Gardner elaborato da McKenzie W. (2006). Le risposte sono state successivamente analizzate attraverso una cluster analysis, una tecnica di riduzione dei dati che raggruppa casi o variabili in base a misure di similarità. Dai risultati ottenuti con tale metodo sono stati determinati per ognuna delle due classi il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo, costituiti con una struttura simile rispetto alle caratteriarticolata la lezione e il gioco e le stiche rilevate con il test. r In figura 5 e 6 sono riportate le fasi in cui si è, rispettivamente, articolata la lezione e il gioco e le relative funzioni.

Fig. 5: le fasi della lezione

Fig. 6: le fasi del gioco di simulazione

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8.2. I test I test utilizzati per studiare l’andamento dei fenomeni oggetto della sperimentazione sono i seguenti: • il test sull’autoefficacia sociale, di autovalutazione della capacità di agire all’interno della società, rispetto ad una scala numerica di capacità (Caprara, 2001) [range di variabilità da 13 a 52]. • il test sull’autoefficacia scolastica, di autovalutazione della capacità di apprendere ed organizzare lo studio delle varie materie scolastiche, rispetto ad una scala numerica di capacità (Caprara, 2001) [range di variabilità da 19 a 76]. • il test di motivazione all’apprendimento della geometria. Questo test, comprendendo critiche sia positive sia negative sulla materia, ma valutate con la stessa scala, viene ricodificato con una nuova scala al fine di trattare tutte le risposte contemporaneamente. (Rheinberg, 2006) [range di variabilità da 10 a 50]. • una verifica dell’apprendimento sulle isometrie realizzata in funzione degli obiettivi di apprendimento indicati nel progetto didattico [range di variabilità da 0 a 28]. La batteria di test è stata somministrata nella fase di pre-test insieme alla prova di verifica dell’apprendimento. Dopo la fase della partecipazione al gioco e alla lezione, sono stati nuovamente proposti agli alunni i test già somministrati nella fase iniziale e la stessa verifica di apprendimento è stata, inoltre, somministrata nuovamente dopo circa 30 giorni. 8.3. L’impostazione dell’analisi dei dati L’analisi comparativa tra i momenti pre e post test, con i due ambienti di apprendimento nelle singole classi, è stata effettuata con tecniche differenti a seconda che si tratti di singole classi o dello studio dell’intera scuola o del totale delle scuole in cui si è svolta la sperimentazione, per motivi metodologici. Per l’analisi comparativa tra i momenti pre e post test, per le due tipologie di ambienti di apprendimento, oltre ai classici indicatori sintetici (media, scostamento, campo di variazione …) si è utilizzata un’analisi della varianza (ANOVA) per misure ripetute così da determinare se esistono differenze statisticamente significative sui punteggi ottenuti sul test di apprendimento, prima e dopo, per le due tipologia di ambienti di apprendimento: lezione frontale e gioco di simulazione. Nell’approccio multivariato all’analisi dei dati i disegni che contengono sia fattori fissi che random sono disegni misti.Tra questi rientrano quindi anche i disegni in cui uno o più fattori sono confrontati ripetendo le misure sugli stessi soggetti. L’analisi comparativa del totale delle rilevazioni in diverse classi si sta effettuando con un modello lineare a effetti misti, in cui le classi sono codificate ed inserite nel modello come effetti aleatori.

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9. Discussione dei risultati Le analisi comparative per ciascuna classe hanno portato ad alcune evidenze significative di miglioramento nel confronto tra il gioco di simulazione e la lezione frontale. Di seguito vengono discusse nello specifico solo quelle variabili rispetto alle quali sono emerse differenze nel confronto tra il gruppo sperimentale e quello di controllo. V B - Scuola Montessori di San Giuliano Milanese Dall’analisi dei test dell’autoefficacia sociale, nella fase di pre-test emerge che il gruppo coinvolto nel gioco di Cartolandia ottiene punteggi leggermente più bassi dell’altro (i punteggi vanno da 33 a 52 per il gruppo lezione con valore medio pari a 44,1, da 34 a 47 per il gruppo sperimentale con valore medio 42,7). La differenza tra i due gruppi quasi si annulla nella fase post sperimentazione, post-test, pur rimanendo più alti i valori rilevati nel gruppo lezione (punteggi da 40 a 51 per il gruppo lezione, media 45,8, e da 33 a 50 per il gruppo sperimentale, media 45,5). Comunque si evidenzia un miglioramento delle prestazioni tra il pre e il post test in entrambi i gruppi, che risulta maggiore per il gruppo che ha partecipato al contesto di gioco. In particolare le differenze medie tra post e pre test, nella scala di riferimento, sono rispettivamente di 1,73 nel contesto classico e di 2,8 in quello di gioco. I livelli sono entrambi crescenti, ma sembrerebbe che il modello che descrive la situazione di gioco di simulazione, grazie a una didattica interattiva ed impostata sul gioco, possa essere considerato come un chiaro vantaggio per i bambini dal punto di vista delle competenze sociali. Per l’autoefficacia scolastica nei test iniziali il gruppo sperimentale ottiene punteggi leggermente più bassi dell’altro (punteggi da 53 a 74 e media 63,2 nel gruppo lezione, da 47 a 68 e media 59,7 per il gruppo sperimentale). La differenza tra i due gruppi diminuisce leggermente nella fase post test (con punteggi da 52 a 75 e media 63,6 per il gruppo lezione e da 52 a 75 con media 61,3 per il gruppo sperimentale). I risultati evidenziano poi che il gruppo sperimentale ottiene un miglioramento maggiore: in media le differenze tra pre e post test sono di 0,45 nella scala di riferimento per la lezione frontale e di 1,6 per il gioco di simulazione Cartolandia. Si evince che la partecipazione al gioco potrebbe avvantaggiare i bambini anche sulla autopercezione dell’autoefficacia scolastica. Per quanto riguarda poi il Test sulla Motivazione in Geometria dai risultati emerge una flessione dei valori fra pre e post test del gruppo della lezione frontale (la variazione media è di -2,5 punti). Mentre nel gruppo sperimentale la tendenza rimane sostanzialmente immutata (la variazione media è di soli -0,1 punti). Nella fase iniziale i due gruppi ottengono punteggi sostanzialmente uguali (da 26 a 44 con media 35,5 nel gruppo lezione, da 25 a 42 nel gruppo sperimentale con media 34,9), mentre si differenziano leggermente nella fase successiva alla sperimentazione con punteggi più elevati nel gruppo a cui è stato proposto il gioco Cartolandia (per il gruppo lezione i punteggi vanno da 28 a 41 con media 33, mentre per il gioco vanno da 27 a 45 con media 34,8).

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IV A del II° Circolo Didattico di Genzano di Roma – Plesso De Amicis Dall’analisi dei test sull’autoefficacia sociale i due gruppi, di controllo e sperimentale, presentano entrambi una crescita, con una significatività maggiore per il gruppo sottoposto all’esperienza Cartolandia: i valori medi infatti aumentano in valore assoluto rispettivamente di 0,5 e di 1,2 punti. Il gruppo sperimentale presenta, sia nei test iniziali che in quelli finali, punteggi più elevati di quelli ottenuti dal gruppo di controllo (nel pre test del gruppo sperimentale i valori vanno da 32 a 48 con media 41,9, mentre in quello del gruppo lezione da 30 a 45 con media 35,7; nel post test del gruppo sperimentale i punteggi variano da 35 a 49 con media 43,1, mentre quelli del gruppo lezione da 29 a 42 con media 36,2). Nei test sull’autoefficacia scolastica i punteggi ottenuti nel gruppo sperimentale sono maggiori di quelli ottenuti in quello di controllo (nel pre test del gruppo sperimentale i valori vanno da 55 a 63 con media 57,9, mentre in quello del gruppo lezione da 37 a 68 con media 50,5; nel post test del gruppo sperimentale i punteggi variano da 52 a 67 con media 60,2 e nel gruppo lezione da 44 a 63 con media 54,0). I due gruppi, presentano entrambi una crescita, che risulta leggermente più elevata per il gruppo di controllo: l’aumento del punteggio, in valore assoluto, rilevato per il gruppo lezione è di 3,5 punti e per il gruppo gioco è di 2,3. I dati relativi alla motivazione nello studio della Geometria indicano che la motivazione dei bambini allo studio della materia risente positivamente della lezione svolta in modalità di gioco, presentando risultati più elevati rispetto a quella svolta con la lezione frontale: infatti l’aumento in valore assoluto della media del gruppo sperimentale si attesta su 4,0 punti mentre quello del gruppo lezione rimane leggermene più basso (1,2 punti). Nella fase di pre test le prestazioni medie degli allievi, suddivisi tra i due gruppi, sono state molto simili (il gruppo sperimentale ha ottenuto un punteggio medio di 32,0 con min 26 e max 40, mentre il gruppo lezione media 32,2 con min 22 e max 39). Nella fase successiva i due gruppi si sono differenziati maggiormente a favore del gruppo sperimentale che ha fornito prestazioni migliori (per il gruppo sperimentale da 31 a 42 con media 36,0 e per il gruppo lezione da 27 a 38 con media 33,3). L’analisi dei dati relativa alle due classi ed elaborata sulla base delle ipotesi di ricerca ha portato a una conferma delle ipotesi inerenti i singoli costrutti presi in esame (autoefficacia sociale e scolastica, motivazione nello studio della geometria a favore del gruppo sperimentale di una sola classe). In particolare si ritiene che sia significativo il miglioramento riscontrato nei risultati ottenuti dai gruppi sperimentali e tale da suggerire di approfondire e verificare questa significatività, in termini di dimensioni campionarie più ampie, così come previsto dagli obiettivi della ricerca. Rispetto alle prime due ipotesi, si è rilevato che gli item a risposta chiusa, inseriti nella prova di apprendimento con l’intenzione di “misurare” i livelli di comprensione dei concetti matematici, non si sono rilevati efficaci per dare indicazioni sul pattern della transcodifica. In proposito è stato comunque possibile svolgere una ricognizione dei termini utilizzati dai bambini e la mappa dei significati da loro proposti nelle risposte agli item a risposta aperta, inseriti nella prova di verifica, è stata oggetto di un confronto grazie all’analisi di un filmato che è stato possibile realizzare e che ha consentito di rilevare l’utilizzo dei termini nel corso del gioco. Si è osservato che nella lezione tradizionale buona parte del processo di scelta dei termini per esprimere i concetti contiene o termini esatti o termini distanti dal significato

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da intendere, mentre i bambini che hanno partecipato al gioco utilizzano una varietà di termini più ampia. In altre parole, l’esigenza di comunicazione della “scoperta” dei singoli concetti sembra che possa favorire la costruzione del linguaggio matematico.Via via che scaturisce l’esigenza di una precisione sempre più accurata si introducono i termini in modo sempre più specifico riducendo l’ambiguità del linguaggio naturale pur mantenendo le relazioni fra le parole utilizzate dai bambini durante il gioco di simulazione e le parole dei matematici. Quanto osservato in via preliminare ha consentito una ulteriore fase di ricerca sugli strumenti di analisi che è in fase di elaborazione, che prevede l’utilizzo della logica fuzzy per la lettura e l’interpretazione dei dati relativi alle prime due ipotesi. La verifica delle ipotesi H(1) e H(2) ha fatto scaturire, dunque, la necessità di una rilettura del processo che si è sviluppato nel gioco di simulazione in relazione al pattern della transcodifica, aprendo un nuovo campo di esplorazione sulla costruzione del linguaggio matematico per mettere in relazione i vari livelli di astrazione con il linguaggio che li può rappresentare.

10. Considerazioni conclusive Come si evince dalla suddetta presentazione il gioco di simulazione si è dimostrato un ambiente significativo al confronto con quello della lezione frontale, che pure mantiene le proprie funzioni. Si ritiene che quest’ultima, dunque, più che essere messa a confronto con il gioco, possa costituire un ambiente che dal gioco può trarre spunti per meglio dare struttura al processo di apprendimento. Si possono, inoltre, già fare inferenze significative che sono state oggetto di ulteriore attenzione nella nuova fase della sperimentazione già in atto. Infatti, nell’esperienza di ricerca che si è svolta e che si sta conducendo si è dimostrato rilevante, e si sta confermando, il livello di consapevolezza di esigenze di conoscenza e di modelli integratori di conoscenze pedagogiche, della psicologia dell’apprendimento, matematiche che possano fare da guida alle decisioni metodologico-didattiche mettendo in relazione l’esperienza didattica consolidata o in formazione degli insegnanti e le possibilità che le innovazioni potrebbero offrire nella ricerca e costruzione di ambienti di apprendimento. A questa consapevolezza si affianca quella delle oggettive difficoltà che si presentano nella gestione dei vincoli organizzativi e suggerisce l’esigenza di costruire modalità di collaborazione fra i ruoli della scuola (dirigenti, insegnanti e figure di coordinamento) e i ruoli dei ricercatori, in modo tale da facilitare il coinvolgimento di ciascuno in un processo che richiede molteplici competenze che necessitano di confronto, scambio, integrazione e comunque di condivisione di finalità, obiettivi, metodologie che si muovono su direttrici differenti anche se con un unico orizzonte di scopo. Da un punto di vista più istituzionale, una considerazione che si è sviluppata dall’analisi è relativa all’incidenza che la scuola può avere nel variare gli ambienti di apprendimento con scopo di poter tenere conto dell’evoluzione dei modi di interagire dei bambini con il mondo reale e le sue trasformazioni per incidere sulla motivazione ad apprendere la matematica. Come dire nello spazio di ricerca azione si sta presentando una prospettiva di dinamica che oltre a confermare o confutare le ipotesi pone nella condizione di prendere in considerazioni i contesti e le relative culture organizzative e nello stesso tempo tenere sotto monitoraggio i risultati, gli obiettivi, le finalità e, oltre ai processi che si sviluppano, il sistema

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complesso che si va a costituire. Comunque, in questa complessità, la dimensione ludica che ha attraversato il gioco di simulazione con i bambini, con gli insegnanti e i ricercatori è riconoscibile in ognuna delle scuole in cui si è svolto il progetto.

11. Prossimi sviluppi Nell’ambito della ricerca il gioco di simulazione è stato proposto come esperienza relazionale e occasione formativa, al fine di promuovere processi di apprendimento, partecipazione sociale, governo dell’affettività, modulazione delle emozioni. I risultati ottenuti con la sperimentazione pilota hanno consentito di avviare un lavoro che sta coinvolgendo più classi. L’incremento di motivazione e di autoefficacia scolastica e sociale rappresentano un aspetto sicuramente da approfondire, considerata anche la stretta connessione tra gli aspetti affettivo motivazionali e cognitivi e il bisogno di imparare per tutta la vita in una molteplicità di ambienti di apprendimento formali e informali. L’aspetto più rilevante evidenziato dalla ricerca è proprio la dimensione dell’interdipendenza fra le azioni dei bambini che si strutturano con lo sviluppo del gioco. Si sta ipotizzando di questa sperimentazione in una prospettiva di analisi più ampia delle percezioni, delle emozioni che spingono un allievo a studiare e migliorarsi nell’apprendimento e dell’intervento di processi meta cognitivi che possono influenzare l’autoefficacia e l’autonomia dell’apprendere per tutta la vita. In proposito si è completata la progettazione dei protocolli per integrare il modello dell’Analisi Transazionale nella gestione dell’interazione didattica al fine di intervenire sulle variabili affettive che possono influenzare il processo di apprendimento, oltre che il miglioramento delle competenze relazionali già validato dal modello stesso in più contesti organizzativi ed educativi. Si sta svolgendo una ricerca in letteratura sui Giochi di Simulazione applicati ai casi di difficoltà di apprendimento; si è completata l’ideazione e la progettazione di un gioco di simulazione in ambiente algebrico, “La città delle percentuali”, e ha preso avvio la fase di sperimentazione. Si stanno mettendo a punto i protocolli per la sperimentazione di Cartolandia con bambini con deficit sensoriali. È in fase di svolgimento presso il I circolo di Formia De Amicis la formazione degli insegnanti che attueranno il percorso su Cartolandia in 7 classi quarte. Il pattern della transcodifica ha evidenziato l’esigenza di considerare gli apprendimenti matematici come risultato di più processi da esplorare e ha evidenziato alcuni limiti dell’utilizzo della logica tradizionale per ciò che attiene anche alla verifica dell’apprendimento. Per questo si è avviato un processo di analisi dei risultati che utilizza la logica sfumata, fuzzy, che consente di codificare una tassonomia di significati che possono rappresentare l’evoluzione della conquista della padronanza dei termini specifici del linguaggio matematico a partire dai termini della lingua che i bambini utilizzano nelle fasi di sviluppo del gioco. In particolare si vuole esplorare se l’ambiente di simulazione consente di: a) osservare alcuni processi di costruzione della conoscenza dei concetti proposti (relativi alle isometrie); b) fare da scaffolding alla messa in atto di fattori caratterizzanti l’autoefficacia scolastica e l’autoefficacia sociale, che hanno trovato riscontro nel coinvolgimento, nella partecipazione e nel clima che si è sviluppato durante e al termine del gioco; c) osservare come l’esigenza di comunicazione che la struttura del gioco stimola a porre in atto implica una necessaria forma di elaborazione del pensiero che si organizza grazie ai concetti che si vanno a costruire e a far propri.

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ricerche Il Progetto PARIMUN, un’esperienza di University-Business Dialogue: strumenti per la promozione della competenza epistemica PARIMUN Project: a University-Business Dialogue experience to improve epistemic skill DANIELA FRISON Il contributo presenta un’esperienza di University-Business Dialogue attiva presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova dal 2008. Si tratta del Progetto PARIMUN – Partenariato Attivo di Ricerca IMprese-UNiversità. La finalità dell’articolo è di evidenziare i tratti peculiari del Progetto, mettendone in risalto gli elementi distintivi propri di un’esperienza di collaborazione tra imprese e facoltà umanistica. In particolare l’articolo descrive gli strumenti adottati dal Progetto e finalizzati alla promozione di una postura riflessiva sul processo di costruzione della conoscenza implicato in una ricerca svolta in collaborazione tra università e imprese. Infine l’articolo evidenzia le potenzialità formative dell’esperienza presentata.

This paper presents a University-Business Dialogue experience placed at the Science of Education and Training Faculty of the University of Padua. The PARIMUN Project (Partenariato Attivo di Ricerca IMpreseUNiversità) started in 2008 and it supports experiences of collaboration between University (a humanistic faculty) and business organizations. The paper describes inquiry steps and instruments to promote a reflective attitude during the research process. Researchers are, in PARIMUN, students in Science of Education and Training who carry out a “junior research” started from a question asked by business organizations. Finally, the paper highlights possible relapses in students learning.

Parole chiave: university-business dialogue, ricerca, accompagnamento, competenza epistemica, postura riflessiva, esplicitazione

Key words: university-business dialogue, research, reflective thinking, epistemic skill, student’s guide and support, explicitation

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1. Introduzione La vocazione dell’Università alla ricerca scientifica e le sue relazioni con il mondo extraaccademico sono al centro, fin dalle origini di questa istituzione, di un articolato e controverso dibattito percorso da esperienze e contributi ispirati a differenti idee d’università (Newman, 2008). Nel corso della storia delle università stesse, questi diversi approcci hanno talvolta autorizzato, talaltra ostacolato, un differente rapporto con la ricerca e, in particolare, con le sedi in cui essa può rintracciare le questioni da cui prendere avvio o in cui trova applicazione. L’idea di università (Newman, 2008) di volta in volta sostenuta genera, dunque, riflessioni sulle finalità stesse di questa istituzione e sull’ampiezza delle sue responsabilità sociali e didattiche; e, così pure, sulle relazioni che essa può intrattenere con il mondo della “pratica”, sugli obiettivi della sua ricerca e sui luoghi che le è consentito abitare. Il titolo del presente articolo annuncia il tema del University-Business Dialogue, di un dialogo, dunque, tra Università e mondo economico e produttivo, tra Università e territorio definito, secondo l’accezione che l’Unione Europea ha dato di esso (CEC, 2009), nei termini di una collaborazione dell’università, e della sua ricerca, con il business. Tuttavia, ciò che qui maggiormente risulta di nostro interesse, non è il coinvolgimento dell’università in generale, quanto più delle sue “facoltà umanistiche”. Le facoltà scientifiche, infatti, hanno sviluppato, ormai da tempo, partenariati fruttuosi di ricerca con il mondo economico e produttivo, incontrando le sollecitazioni che, appunto, l’Unione Europea ha promosso a sostegno di una “modernizzazione delle università” e che ha formalizzato con un documento del 2009 dedicato specificamente al “forum dell’UE sul dialogo università-imprese” (CEC, 2009). Al contrario, assai meno diffusi appaiono gli esempi di dialogo tra facoltà umanistiche e mondo aziendale: anche un’accurata mappatura dei progetti di University-Business Dialogue (CEC, 2009) sovvenzionati da Fondi Europei evidenzia l’assoluta rarità di tali esperienze. È noto, infatti, che discipline quali la medicina e l’ingegneria, e più in generale le cosiddette “scienze dure”, hanno da sempre stretto con il territorio un solido rapporto di scambio, attingendo così, l’Università, alle opportunità di sperimentazione offerte dal territorio, e questo ultimo alle competenze di teorizzazione e riflessività proprie delle sedi accademiche. Anche l’economia e il management, hanno seguito questa via cogliendone i risvolti di proficuo sviluppo. Tuttavia, come sopra abbiamo annunciato, la ricerca di esperienze di University-Business Dialogue nella letteratura, quanto meno europea, resta piuttosto deludente: se, da un lato, è possibile reperire con estrema facilità approfondimenti sulla storia delle università europee (Del Negro, 2002; Sanz, Bergan, 2006; Stracca, 1979) o articoli, numerosi, che portano sulla ricerca applicata in ambito economico e produttivo (Olivier-Outard, 2003; Pestre, 1997;Trépanier, Ippersiel, 2003), dall’altro lato la ricerca di esperienze di cooperazione rimane piuttosto ardua, in particolare se l’oggetto della nostra ricerca è la cooperazione del tessuto economico con quelle che potremo definire, ampiamente, scienze umane. Non entreremo qui nel merito delle azioni intraprese per esplorare il campo della cooperazione; cercheremo piuttosto di esaminare una tra le possibili esperienze di UniversityBusiness Dialogue, promossa dall’Università di Padova, evidenziando le peculiarità che riteniamo possano contraddistinguere il dialogo tra facoltà umanistiche e territorio rispetto al più tradizionale e consolidato rapporto del mondo economico con i poli scientifico-tecnologici1.

1 L’esperienza presentata in questo articolo è oggetto di studio e di ricerca di un Progetto di Dottorato in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione presso l’Università di Padova, finanziato dalla

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L’esperienza che prendiamo qui in considerazione è quella del Progetto PARIMUN – Partenariato Attivo di Ricerca Imprese-Università, ove, con il termine “imprese” si intende fare riferimento alle organizzazioni in senso lato, siano esse aziende private, pubbliche amministrazioni, cooperative di servizi, istituti scolastici o altro. Si tratta di un’opportunità di partenariato tra il mondo accademico e quello delle organizzazioni e dei servizi attiva dal 2008 presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’ateneo patavino. PARIMUN propone, infatti, la collaborazione delle due realtà, accademica e aziendale, intorno alla sviluppo di tesi di ricerca (tesi di laurea magistrale o di dottorato) che prendano avvio da richieste e problematiche annunciate dall’impresa. La “domanda di ricerca”, posta dunque, dall’organizzazione, vede attivarsi intorno a sé uno specializzando seguito e supportato, come tradizionalmente avviene, da un direttore di tesi. È evidente che i tratti annunciati non costituiscono elemento di novità rispetto ad altre esperienze di partenariati sviluppate nei citati ambiti disciplinari in cui il rapporto con il territorio è già in essere. Che cosa, dunque, riteniamo distingua tale opportunità di dialogo università-impresa da altre esperienze di collaborazione?

1. La dimensione formativa della collaborazione tra Scienze Umane e Imprese In un partenariato promosso da una Facoltà di Scienze della Formazione l’interesse primario non è costituito né dal rapporto con l’impresa, né dai risultati di ricerca da esso conseguiti; l’attenzione è, piuttosto, rivolta alle possibili implicazioni formative di una simile esperienza. Ciò che ci interessa comprendere è, dunque, in quali termini il University-Business Dialogue possa dirsi formativo. E, ancora, come debba essere “allestita” un’esperienza di UniversityBusiness Dialogue per divenire esperienza formativa. A nostro avviso, infatti, sarebbe proprio questa preoccupazione volta all’”allestimento” e alla promozione di ricadute formative a dover connotare un’esperienza di partenariato tra imprese e facoltà umanistiche distinguendola dalle molteplici e consolidate opportunità di collaborazione tra poli scientifico-tecnologici e mondo produttivo, maggiormente orientate alla perfomance e ai risultati o ad un più generale trasferimento di conoscenze e tecniche da un settore all’altro. Questo sguardo oltre, oltre la sperimentazione e oltre il risultato, diventa, a nostro parere, imprescindibile nel caso di esperienze di collaborazione tra territorio e università che si propongano di co-costruire opportunità formative per gli studenti universitari, a qualunque facoltà essi appartengano. Nell’esperienza di PARIMUN, il protagonista del “dialogo”, come abbiamo sopra annunciato è lo specializzando dei corsi di laurea magistrale della Facoltà, chiamato a sperimentarsi attivamente in un lavoro di ricerca empirica, di ricerca-intervento precisamente, che lo condurrà all’elaborazione della propria tesi di laurea magistrale. Si tratta, evidentemente, di una ricerca ancora soggetta alla supervisione accademica e, per questo, inquadrata, dalla direzione di PARIMUN, sotto l’accezione di ricerca primaria. Allo stesso modo lo specializzando, che assume a tutti gli aspetti la postura di un ricercatore, viene definito ricercatore junior, poiché guidato ed accompagnato in ogni sua azione di ricerca da un senior. Oltre allo specializzando vi è, dunque, un secondo interlocutore più indirettamente, ma sempre atti-

Regione del Veneto e Fondo Sociale Europeo, sul tema “Strategie di ricerca/intervento nelle imprese per la formazione continua e lo sviluppo delle competenze”, triennio 2009-2011.

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vamente, coinvolto nel partenariato: il docente, direttore di tesi, garante della correttezza metodologica del percorso di ricerca avviato e supervisore del percorso. Il terzo, centrale, interlocutore del progetto promosso dall’università patavina, è, evidentemente, l’impresa. L’Università, incarnata nei suoi studenti, supervisionati, come abbiamo detto, da un direttore di tesi, e l’impresa, rappresentata da un membro della sua direzione, operano così sinergicamente, intorno ad un percorso di ricerca che intraprendono a partire da un comune e condiviso punto di partenza: la definizione di una domanda di ricerca. Il problema, la domanda per l’appunto, che dà il via al comune lavoro, assume nel Progetto PARIMUN, un tratto piuttosto innovativo rispetto alle esperienze di “avvicinamento” tra università e imprese che hanno connotato la storia delle università: tale problema viene proposto dall’impresa. È l’impresa che pone all’università un quesito, una curiosità, uno stimolo, solitamente esposti, nella fase di avvio, in termini nebulosi e astratti. È compito del ricercatore junior chiarire, definire, precisare e, soprattutto, tradurre un “problema aziendale” in un problema di ricerca che, trattandosi di una Facoltà di Scienze della Formazione, porta solitamente su tematiche inerenti, per l’appunto, la formazione, l’organizzazione e, più ampiamente, la gestione delle risorse umane. Si tratta di una fase cruciale del percorso che dovrà condurre gli interlocutori, grazie alla loro sinergia, ad una risposta valida per entrambi che soddisfi dunque: un criterio di “utilità” per l’azienda e un criterio di “scientificità” per lo specializzando/ricercatore, pur salvaguardando, sempre, la dimensione formativa dell’esperienza della ricerca. Il risultato (la performance) sarà inevitabilmente rilevante. Ma è nel processo di ricerca, ben più che nel suo risultato, che si situa tutta la potenzialità formativa del partenariato. È tramite le azioni che il ricercatore junior è chiamato a compiere e le reazioni che la realtà aziendale gli rimanderà che egli potrà formarsi (Munari, 2010). Svolgere una ricerca “vera” in un’organizzazione “vera”, così come la definisce Munari, lo condurrà, infatti, a scontrarsi con le resistenze della realtà, poiché, “semplicemente, la realtà è ciò che resiste” (Munari, 2010, p. 49). Ecco perché è nell’osservazione delle inter-azioni tra i due soggetti, università e impresa, che riteniamo di poter scorgere il valore formativo del partenariato. Ma come osservarle? Quali evidenze possiamo rintracciare di tali interazioni? È chiaro che non è possibile seguire ed osservare, marcandolo a vista, i movimenti che il giovane ricercatore compie all’interno dell’organizzazione e poi al suo “rientro” tra le mura accademiche. È, piuttosto, attraverso la promozione di una postura riflessiva che lo specializzando può essere sollecitato a rileggere azioni, reazioni e resistenze così come viene poi implicato in un esercizio di “esplicitazione sistematica di tutto ciò che normalmente rimane implicito” (Munari, 2010, p. 54). Questi due momenti, di riflessività e di esplicitazione del percorso di ricerca, costituiscono gli assi portanti del Progetto PARIMUN oltre che i fattori di promozione di tutta la sua potenzialità formativa. Lo sfondo teorico che sostiene l’allestimento del Progetto e, dunque, la promozione di una tale postura riflessiva, è il costruttivismo psicogenetico-piagetiano al quale ci ispiriamo per gli stimoli metodologici che ci offre ma anche per la sua ispirazione multidisciplinare e collaborativa che ha sostenuto le molteplici opportunità di incontro e dialogo promosse da Jean Piaget già a partire dagli anni ’40. A Piaget, infatti, va senza dubbio riconosciuto di aver promosso un clima di apertura e di confronto che ha alimentato l’esperienza pluriennale del Centre International d’Épistémologie Génétique di Ginevra, fondato sulla convinzione piagetiana che “la cooperazione soltanto realizzerà ciò che la costrizione intellettuale è incapace di compiere” (Piaget, cit. in La Rosa, 2008, p. 20). Lo stesso Bureau International d’Éducation, di cui Piaget fu fondatore e direttore e che fu organo di riferimento per l’UNESCO, poggiava sul suo sostegno ad “attività che si fondano e si esplicano in modo inter- e soprattutto multi-disciplinare” (Visalberghi, cit. in La Rosa, 2008, p. 20). E ancor prima l’Institut JeanJacques Rousseau fondato nel 1912 da Claparède, e di cui Piaget divenne direttore dopo la

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sua morte, aveva instaurato un dialogo propizio con il territorio e le sue istituzioni educative, costituendo una germinale esperienza di quello che, con parole attuali, avremmo definito University-Business Dialogue. È affidandoci, dunque, a questa lente psicogenetica-piagetiana che osserviamo la postura riflessiva del ricercatore PARIMUN ritenendo che essa venga esercitata dallo specializzando su due diversi livelli: una riflessione sulla pratica della ricerca, prima, e una riflessione sui processi cognitivi attivati dalla ricerca stessa, poi. Questa doppia riflessione ci spinge a farci guidare da due rilevanti contributi teorici: l’epistemologia della pratica di Schön (1983), con la sua reflective practice, e l’epistemologia della conoscenza di Fabbri e Munari (1985-2005), con la loro epistemologia operativa. Questi due approcci prendono forma negli stessi anni. Il lavoro di Schön, consulente di industrie, manager del settore tecnologico e docente in una università ad indirizzo professionale, prende il via, dunque, dalla pratica e dalla formazione professionale. Il suo focus è la riflessione sui processi della pratica, la riflessione nel corso dell’azione. Schön invita il professionista a conversare con la situazione poiché attraverso gli effetti non intenzionali dell’azione, la situazione replica. Ed è di fronte a situazioni sorprendenti o problematiche che il professionista ha l’opportunità di riflettere sulle modalità che attiva per rispondere alla situazione stessa (Schön, 1983). Scorgiamo nell’approccio di Schön una preoccupazione di performance, un’attenzione alla soluzione di problemi e al conseguimento di risultati che nel Progetto PARIMUN non costituisce il focus primario del lavoro del giovane ricercatore. Tuttavia l’epistemologia della pratica di Schön costituisce un solido riferimento a cui ricondurre la “pratica della ricerca”. Il lavoro di Fabbri & Munari emerge dalle esperienze al citato Centro di Epistemologia Genetica di Ginevra e prende forma, dunque, dall’esperienza clinica piagetiana. La rivisitazione di tale esperienza converge nella proposta della Psicologia Culturale e dell’Epistemologia Operativa che individuano nel rapporto con il sapere il luogo privilegiato in cui si realizza l’integrazione tra il nostro pensare e il nostro agire (Fabbri, D’Alfonso, 2003) e che hanno elaborato precise strategie di ricerca e di formazione che promuovano la riflessione sul sapere e sulla conoscenza (l’Epistemologia Operativa, appunto). Non è questa la sede per entrare nel merito dei due approcci ed identificare punti di connessione e di distanza, esplorazione ed approfondimento che rimandiamo ad altra riflessione. Tuttavia abbiamo ritenuto fondamentale esplicitare le guide teoriche che hanno orientato la messa a punto degli strumenti di ricerca e di accompagnamento che “allestiscono” il Progetto PARIMUN. Nell’opportunità formativa che PARIMUN intende proporre, abbiamo previsto, infatti, in linea con l’inquadramento teorico annunciato, l’adozione di strumenti di accompagnamento che incoraggino questa postura riflessiva e che obblighino il ricercatore junior a narrare, a se stesso, prima di tutto, il procedere della propria ricerca. La prima finalità di quello che abbiamo definito diario del ricercatore PARIMUN, il primo di questi strumenti, è la restituzione, da parte del ricercatore, del “fare” (e del “farsi”) della sua stessa ricerca. Il diario costituisce uno strumento tradizionale della Ricerca-Intervento, strumento al quale vengono affidate la memoria del ricercatore e la memoria collettiva del progetto di ricerca. Esso ha, infatti, la finalità di consentire la tracciabilità della ricerca, di ricostruire la sua cronografia, concorrendo così ad una garanzia di rigore e di analogazione dei risultati, come la definisce Garcia Hoz (cit. in Zanniello, 1993, p. 9). In PARIMUN l’adozione di un diario della ricerca ha, tuttavia, una finalità ulteriore e addirittura primaria rispetto a quella, che potremmo definire, di “mappatura della ricerca”: costituisce, innanzitutto, uno strumento di riflessione oltre che di indagine in quanto consente di esplorare, grazie alla viva voce dei ricercatori junior coinvolti, il divenire delle loro ricerche e delle implicazioni

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formative che riteniamo PARIMUN possa promuovere. Il diario garantisce, infatti, uno sguardo, sempre attivo e vigile, sui processi di costruzione delle ricerche, consentendo anche di collocare temporalmente, secondo un prima e un dopo, l’emersione di eventi ed evidenze che potremo connotare, appunto, come ricadute del dialogo università-impresa (Munari, 1998). Tuttavia non è tanto lo strumento “diario” ad esaurire la nostra attenzione quanto più la sua scrittura, una scrittura che diviene “metodo di esplicitazione epistemica” (Munari, comunicazione personale, 2011) e che trova sostegno, per quanto ci riguarda, nelle riflessioni e nelle applicazioni, per lo più francesi, di analyse des pratiques (Amalberti, De Montmollin, Theureau, 1991; Barbier, Clot, Dubet, 2000; Cnam-Crf, 2000) e, in particolare, di quel filone orientato alla production de savoirs e, dunque, sostenuto da preoccupazioni di carattere eminentemente epistemologico (Marcel, Olry et al., 2002) . Riprendendo Claudine Martinez (1995) si tratta di sollecitare gli specializzandi a mettere in parole la loro pratica di ricerca e di costringerli, mediante la scrittura, a esplicitare e visualizzare connessioni tra le azioni esercitate e gli insegnamenti teorici che, più o meno consapevolmente, li hanno guidati o ai quali la ricerca li conduce. La scrittura consente dunque un “ritorno” riflessivo sulla ricerca sia nei termine di una ricaduta del processo di ricerca, sia di un “ri-tornare” su di essa. E, si sa, per ri-tornare bisogna partire, e andare lontano, esperire la novità e l’alterità affinché al ritorno si possa riflettere sul viaggio compiuto e teorizzare su di esso. Non a caso, evidenzia Munari, “il fine ultimo della didattica universitaria dovrebbe essere quello di promuovere quella particolare competenza che consiste nel saper teorizzare” (Munari, 2010, p. 3). Una competenza, dunque, epistemica che consiste nel “teorizzare una realtà in modo critico e documentato, usando le risorse teoriche e metodologiche più appropriate e secondo le regole ammesse dal contesto della comunità scientifica” (Munari, 2010, p. 47). In questa direzione il diario, grazie alla postura riflessiva che promuove e alla quale obbliga il giovane ricercatore, lo sollecita, mediante stimoli ad hoc, ad osservare l’avanzare della propria pratica di ricerca messa in atto per trovare soluzioni coerenti al compimento di quella competenza di teorizzazione che l’Università gli richiede. La guida teorica di Schön con la sua epistemologia della pratica (1983) ci supporta, dunque, nel promuovere momenti di riflessione in corso d’opera; momenti che sostengono il giovane ricercatore nell’accomodamento della realtà. La centralità della riflessione epistemica è tale che la scrittura diviene opportunità riflessiva e di esplicitazione epistemica anche in un secondo strumento di accompagnamento previsto dal Progetto PARIMUN. Ciascun ricercatore è chiamato ad elaborare nella propria tesi di laurea, a conclusione, dunque, del proprio percorso di ricerca, un capitolo dedicato alla narrazione del proprio “viaggio nell’organizzazione” compiuto dal momento della definizione della domanda aziendale, nonché domanda di ricerca, fino al termine del lavoro. Una simile richiesta autorizza, evidentemente, all’interno di un documento istituzionale e scientifico per eccellenza, quale è una tesi di laurea, una riabilitazione del punto di vista del ricercatore, “non più fattore di svalutazione del percorso di ricerca intrapreso, ma risorsa” (La Rosa 2008, p. 56) responsabilmente e attivamente coinvolta nel percorso di ricerca e nel processo di costruzione della propria conoscenza. In una “ricerca PARIMUN” tale assunzione di responsabilità rispetto al proprio ruolo di ricercatore prende forma quasi spontaneamente germinando nel desiderio di affermare la maternità o la paternità del proprio lavoro, di un lavoro inevitabilmente impegnativo, lungo, complesso, che reca in serbo talvolta imprevisti frenanti, ma che coinvolge il soggetto conoscente tutto intero (Fabbri, 1994), implicato cognitivamente, psicologicamente, eticamente, operativamente, nella propria ricerca e nella costruzione della propria conoscenza. La stesura del “capitolo PARIMUN”, oltre a costituire, abbiamo detto, un’affermazione di titolarità del lavoro, promuove una seconda, nuova riflessione sul percorso svolto. Il giovane ricercatore è infatti supportato nella sua redazione

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dal proprio diario nel quale può rintracciare tutti gli eventi significativi e le fasi di sviluppo del lavoro di ricerca e, dunque, percorrerli nuovamente e riflettere nuovamente su di essi. Interviene, evidentemente, una distanza temporale dalla prima opportunità di riflessione a questo secondo momento di nuova riflessione sul proprio lavoro che risulta, ormai, concluso, definito, “teorizzato”. Il ricercatore è, dunque, in grado di spingersi ad osservazioni che potremmo definire sistemiche (Munari, 2009) in quanto alimentate dalle interazioni tra il ricercatore stesso e il suo “contesto di lavoro” così come esse vengono lette secondo il concetto di sistema che la cibernetica e la teoria dell’informazione hanno messo a punto (Varela, 20071985).Tra i presupposti teorici di PARIMUN emerge, dunque, chiaramente, un’ispirazione al pensiero complesso: la riabilitazione della posizione dell’osservatore e la sua centralità accanto al concetto di conoscenza che tale riabilitazione promuove ne danno evidenza. La sollecitazione della postura riflessiva poggia, infatti, su un concetto di conoscenza in movimento, che vede accentuate “le caratteristiche di evoluzione, di trasformazione contenute nel processo cognitivo e nel contesto che lo determina” (Fabbri, Munari, 2007-1985, p. 314). La promozione della postura riflessiva culmina, poi, in un terzo strumento, altrettanto centrale nella sollecitazione di una riflessione sul processo della ricerca. Al termine del percorso è prevista la conduzione, con ciascun ricercatore junior, di una intervista supportata dal metodo del disegno interattivo (Fabbri, Cavara Medioli,Vanelli, 1986). Si tratta, ancora una volta, di una strategia volta a sollecitare lo specializzando a ripercorrere, a lavoro terminato, il procedere della ricerca e a riflettere, dunque, su di esso, secondo gli stimoli offerti dal conduttore. Tale intervista si ispira inoltre all’intervista di esplicitazione elaborata e proposta da Vermersch (2005). Si tratta infatti di una tecnica che sollecita un “ritorno riflessivo sia sul funzionamento cognitivo nella realizzazione di un compito che sul vissuto di una pratica professionale” (traduzione nostra, Paquay, Sirota, 2002, p. 1); una tecnica portatrice di apporti differenti: dalla teoria della presa di coscienza di Piaget accanto alle tecniche di ascolto e di accompagnamento proprie del lavoro terapeutico oltre all’intento fenomenologico di descrizione dei vissuti soggettivi (Paquay, Sirota, 2002). L’intervista prevista in PARIMUN, preoccupandosi di ripercorrere l’intero lavoro di ricerca, si allontana dal focus su un singolo compito che costituisce, invece, la peculiarità dell’intervista di esplicitazione. Tuttavia si ispira ad essa, condividendone la stessa matrice piagetiana e interessandosi all’”azione della ricerca” cercando di “distinguere l’iter procedurale sia dai saperi teorici che gli sono idealmente collegati e dagli scopi che lo organizzano, che dalle informazioni collegate al contesto in cui si iscrive (ambiente, circostanze) e dai giudizi di cui il soggetto è portatore” (Vermersch, 2005, p. 34). Tre risultano dunque gli strumenti di accompagnamento previsti e tre i tempi nei quali essi vengono proposti. Il diario accompagna tutto il percorso dello studente costituendo una sorta di diario di viaggio che avanza con l’avanzamento stesso della ricerca e che vede contaminarsi fortemente l’iter procedurale della ricerca, per riprendere Vermersch, con il vissuto della ricerca stessa. Il cosiddetto “capitolo PARIMUN” viene elaborato dal ricercatore junior a conclusione del proprio lavoro, in vista del confezionamento definitivo della propria tesi di laurea, e costringe lo studente a rivedere il proprio percorso “a caldo”, non appena esso è terminato. L’intervista, infine, interviene da un minimo di uno ad un massimo di due mesi dalla discussione della tesi di laurea, quando il processo di ricerca risulta ormai “metabolizzato” e ha ottenuto l’approvazione della comunità scientifica. Questi tre strumenti si intersecano, proficuamente, in uno spazio ad hoc, a disposizione della Comunità dei Ricercatori PARIMUN, uno spazio allestito nella piattaforma Moodle di Facoltà, nella quale, al lavoro di riflessione individuale condotto da ciascun ricercatore si aggiunge lo scambio, il confronto, il dialogo, con i colleghi che sperimentano la stessa esperienza di ricerca-intervento.

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Essi, culminano poi, in un ulteriore momento di incontro e di intersezione tra il ricercatore PARIMUN e organizzazione di riferimento. A ciascuno specializzando viene, infatti, offerta l’opportunità di presentare il proprio percorso di ricerca agli interlocutori del Progetto PARIMUN: colleghi, quindi specializzandi dei due corsi di laurea magistrale coinvolti, ma anche referenti di impresa e docenti. La predisposizione della restituzione del lavoro di ricerca, introdotta dal referente dell’organizzazione in cui essa si è svolta, costituisce una nuova occasione di riflessione e riorganizzazione del processo stesso della ricerca, del suo vissuto ma anche delle sue “componenti” più metodologiche (step, strumenti, risultati, ecc.). Lo specializzando, per l’ennesima volta sollecitato ad esplicitare il proprio lavoro, lo rielabora, lo riordina, lo fa proprio nuovamente, predisponendone una sua presentazione ad altri e raccogliendo da essi nuovi stimoli, provocazioni, gradimenti o perplessità. Il referente aziendale introduce tale esposizione, presentando, a propria volta, il contesto organizzativo nel quale il lavoro si è inserito e precisando la domanda di ricerca inizialmente proposta all’Università e al ricercatore PARIMUN. Questa nuova opportunità di triangolazione, si verifica in occasione di un ciclo seminariale, sul tema “Ricerca-Intervento Nelle Organizzazioni”, finalizzato a fornire un supporto metodologico agli studenti ma anche a garantire un nuovo momento di collaborazione tra le tre istanze: ricercatori junior, docenti e referenti aziendali. Gli strumenti su cui il Progetto PARIMUN poggia perseguono, dunque, l’allestimento di un contesto formativo in cui il ricercatore junior possa tracciare, ripercorrere, esplicitare e valorizzare le interazioni con l’organizzazione ma, evidentemente, anche le interazioni con la propria “cassetta degli attrezzi”, ossia con le conoscenze, i metodi, i modelli con cui ha approcciato l’esperienza di ricerca. L’esperienza della ricerca empirica non può infatti “accontentarsi” della mera e circoscritta applicazione di metodi e strumenti acquisiti teoricamente nel percorso formativo universitario, secondo un’immagine pedissequa e lineare di passaggio dalla teoria alla pratica. Un’immagine che, ancora oggi, turba la potenzialità formativa delle esperienze di stage e di tirocinio che pur attivate con finalità di contaminazione tra il mondo delle studio e quello del lavoro, si riducono talvolta ad esercizi di frustrazione in cui lo studente o il neo-laureato sperimentano l’incompatibilità tra le conoscenze apprese all’Università e le conoscenze di cui avrebbero bisogno, ma che non hanno, nel mondo del lavoro. Ma è sempre davvero così? È davvero così netta la distanza tra ciò che si impara all’Università e ciò che invece si dovrebbe sapere per fare il proprio ingresso nelle organizzazioni del lavoro? PARIMUN intende andare oltre questa idea di conoscenza pre-confenzionata e votata alla trasferibilità dal contesto accademico a quello aziendale. Lo studente, nell’esperienza della ricerca empirica, è chiamato a ripensare in modo attivo la propria “cassetta degli attrezzi”, ad esplorarla nuovamente, a rimetterla in ordine, a ri-sistemarla: di fronte alle resistenze della realtà, egli non può che, attivamente e responsabilmente, estrarre da essa gli attrezzi necessari o ripensare ad un nuovo uso di attrezzi conosciuti. Solo così i saperi, le metodologie e le tecniche apprese nel corso dei suoi studi vengono rielaborate attivamente e lo studente può, consapevolmente farle proprie. Per questo lo studente è, dunque, passo a passo, invitato a riflettere sulle proprie pratiche (Schön, 1983), mediante il diario, prima, e il “capitolo PARIMUN”, poi, ma anche sui processi cognitivi messi in atto (Fabbri, Munari, 1985-2005), mediante l’intervista. Entrambi i focus di riflessione sono dunque sollecitati dalla ricerca ed entrambi portati all’attenzione del ricercatore junior grazie agli strumenti di accompagnamento. Tale successione temporale torna a giustificare i due approcci di riferimento del Progetto PARIMUN: la riflessione sulla pratica di Schön interviene nel corso del processo di ricerca e sono gli strumenti stessi contemplati in PARIMUN a promuoverla. La riflessione sui processi di conoscenza interviene, evidentemente in un momento successivo, anche in questo caso sollecitata dallo strumento dell’intervista mediata

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dal disegno interattivo. È proprio tale dispositivo di accompagnamento, che affianca e supporta il percorso di ricerca dello junior promuovendone una postura riflessiva, ad amplificare, a nostro avviso, tutta la potenzialità formativa dell’esperienza del partenariato tra università e impresa, di un partenariato, che nel caso di PARIMUN, si costruisce intorno alla ricerca e si traduce in competenza epistemica. Ecco perché ci aspettiamo che un simile approccio possa avere importanti ricadute non solo nella crescita formativa del ricercatore junior ma anche nella didattica universitaria, invitata da una simile pratica, a spostare la propria attenzione, ancora più di quanto già oggi non abbia fatto, dall’insegnamento all’apprendimento investendo in strategie di promozione di quel soggetto tutto intero, coinvolto cognitivamente, psicologicamente, eticamente, operativamente, nella costruzione della propria conoscenza al quale l’Epistemologia Operativa si rivolge. È proprio tale soggetto, tutto intero, ad essere coinvolto, in PARIMUN, in una ricerca di coerenza tra tutte le dimensioni citate: cognitiva, psicologica, etica, operativa ed evidentemente epistemica; tutte dimensioni inevitabilmente toccate dal ri-torno riflessivo che il giovane ricercatore compie a termine del proprio percorso, sollecitato dall’intervista. Tuttavia, in apertura del presente articolo, abbiamo annunciato la centralità dei tre attori coinvolti in PARIMUN: ricercatore junior, docente e referente aziendale. Abbiamo fin qui dedicato grande attenzione al giovane ricercatore al quale, in effetti, si rivolge la totalità degli strumenti presentati.Va, però, segnalato che anche direttori di tesi e referente aziendali vengono coinvolti, al termine del percorso, in un’intervista, sempre ispirata all’intervista di esplicitazione, che ha la finalità di promuovere anche in essi un ritorno riflessivo sul processo di ricerca, convinti che i concetti di consapevolezza epistemica e di competenza epistemica possono rivolgersi non esclusivamente al ricercatore PARIMUN, protagonista dell’esperienza di ricerca, ma evidentemente anche al mondo accademico e al mondo imprenditoriale. I referenti aziendali, poi, oltre ad essere intervistati come tutti gli altri interlocutori del Progetto, hanno l’opportunità, così come i ricercatori PARIMUN, di prendere parte al momento di restituzione del processo di ricerca contemplato nell’ambito del ciclo seminariale “Ricerca-Intervento Nelle Organizzazioni”. Se, come sopra abbiamo detto, lo specializzando ha così una nuova occasione di rivedere il proprio percorso, il referente aziendale ha, anch’esso, la possibilità di ripensare a se stesso “in ricerca”, come soggetto attivamente implicato in un’esperienza di collaborazione con l’Università che solo grazie alla compartecipazione di tutte le istanze chiamate in causa può condurre a dei risultati di ricerca condivisi tra l’Università stessa e le Organizzazioni. Il University-Business Dialogue, se adeguatamente sostenuto da strumenti di accompagnamento e promozione della riflessione, può infatti sollecitare anche in questi due attori, così apparentemente lontani e differentemente strutturati, un ripensamento di “sé-in-ricerca”. Il docente è costretto infatti a declinare operativamente i propri saperi e l’impresa a declinare teoricamente la propria operatività: ciascun interlocutore spinto, dunque, ad abbandonare temporaneamente il porto sicuro delle proprie, consuete, attività trova, inevitabilmente, nell’interazione un’opportunità di formarsi a sua volta. PARIMUN si inserisce, così, in un concetto di formazione universitaria intesa non certo come “messa in forma” ma come “morfogenesi” di conoscenze, ossia emergenza di nuove forme di organizzazione del sapere, a proposito della azioni effettuate, dei concetti a cui si riferisce, delle metodologie usate, delle strategie negoziali messe in atto (Munari, 2002); nuove forme di organizzazione che università e territorio possono reciprocamente contribuire a promuovere a partire da un’affermazione di disponibilità ad investire pariteticamente nella costruzione condivisa di conoscenza e da un autentico riconoscimento del contributo attivo e imprescindibile dell’altro soggetto coinvolto. L’esperienza di PARIMUN, evidenzia chiaramente come l’apporto di ciascuno dei tre interlocutori risulti imprescindibile per la buona riuscita del progetto stesso e per il buon allestimento, termine a cui abbiamo fatto ormai

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molte volte ricorso, di un’opportunità formativa che superi il solco, come lo definisce Schön (1983), tra università e professioni, fra ricerca e pratica, fra pensiero e azione. Un tale solco non può, tuttavia, essere varcato senza la partecipazione consapevole, del protagonista di una esperienza di University-Business Dialogue, rappresentato, nel caso di PARIMUN, dal ricercatore junior. Solo promuovendo in lui una postura riflessiva che reintegri, in un quadro di coerenza, le molteplici esperienze vissute in tutta la loro complessità, è possibile che università e impresa diventino sedi, paritetiche, di un esperienza unitaria: la ricerca.

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ricerche L’insegnante competente e le competenze dell’insegnante The proficient teacher and the proficiencies of teaching

STEFANIA NAPOLI Il corso di laurea in Scienze per la Formazione Primaria nasce come corso deputato alla preparazione di una categoria di professionisti ben definita, con l’obiettivo di fornire una preparazione teoricopratica necessaria per lavorare come insegnanti nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria. Per tale professione non sono necessarie esclusivamente conoscenze dichiarative, contestuali o procedurali, occorre, invece, che uno studente, un futuro docente, sia capace di mobilitare i suoi saperi per organizzare risposte efficaci a problemi complessi e rilevanti. Pertanto è necessario che durante il percorso universitario lo studente acquisisca specifiche competenze. La ricerca è andata ad indagare se e in che misura gli studenti, al termine del loro percorso formativo, ritengono di aver acquisito le competenze fondanti di questa professione.

The degree course in Sciences for Primary Education was born as a course intended to educate one definite category of professionals, with the purpose to provide theoretical and practical training, which is necessary to word as teachers in the Infant School and in Primary School. To do this kind of job you don’t need only proclaimed, circumstanced or practical knowledge and provide affective solutions to complex and important issues. Therefore it’s necessary for the student to acquire particular abilities, during his university studies.The research has investigated to understand until what extent students, at the end of their course, consider having acquired the fundamental skills for this job.

Parole chiave: competenza, insegnamento, formazione degli insegnanti, ricerca quantitativa

Key words: competence, teaching, education for teachers, quantity research

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1. La competenza Da circa un secolo il concetto di competenza è entrato a far parte dei lessici specifici della pedagogia, della psicologia e più in generale delle scienze dell’educazione. Grazie alla scuole attive, affermatesi fra la fine dell’ottocento e i primi del novecento il concetto di competenza ha acquisito sempre maggiore importanza in quanto, quest’ultime, propongono non solo l’apprendimento dei concetti ma anche la mobilitazione delle conoscenze e il saper applicarle in situazioni concrete. Numerosi studi sono stati realizzati sul tema della competenze che hanno contributo ad arricchire tale concetto, fra gli apporti maggiori ricordiamo quelli provenienti dalle seguenti discipline: psicologia, linguistica, sociologia, pedagogia (Coggi, 2005). La psicologia cognitiva ha centrato le sue ricerche sulle caratteristiche personali che facilitavano la riuscita personale e professionale mentre la psicologia del lavoro ha focalizzato i suoi sforzi sulle caratteristiche che contraddistinguono una specifica competenza, infine gli studi sull’expertise hanno posto l’accento sul problem solving. In sintesi possiamo affermare che gli psicologi definiscono la competenza come “la capacità di produrre condotte efficaci in un ambito (domaine) determinato” (Coggi, 2005). In ambito linguistico ricordiamo Chomsky (1965) opera una distinzione fra competenza, intesa come conoscenza che un individuo ha delle regole che permettono di utilizzare una lingua, e performance, ovvero, l’utilizzo che il soggetto riesce a fare della lingua in situazioni concrete. In sintesi, afferma che la competenza è rappresentata dal potenziale biologico di un individuo mentre la performance è la prestazione del soggetto, quindi l’unica componente osservabile delle potenzialità di un individuo. Nonostante il concetto di competenza elaborato da Chomsky è stato formulato in relazione alle ricerche sulla sintassi delle lingue naturali, questo è stato ampliato applicandolo ai processi cognitivi. La sociologia del lavoro si è concentrata sui saperi richiesti al lavoratore per poter risolvere problemi che pone la vita professionale. Insistendo sul concetto che la competenza non riguarda esclusivamente il singolo individuo ma anche la collettività, in quanto l’individuo deve essere in grado di mobilitare non solo le proprie risorse ma anche quelle provenienti dal proprio contesto di riferimento. In ambito pedagogico il termine competenza è frutto, sia dei contributi provenienti dalle altre discipline che, dei differenti cambiamenti epistemologici verificatesi nel corso del tempo. Pellerey (Montedoro, 2001) ha individuato tre approcci principali: il comportamentista, il cognitivista e l’approccio di tipo piagetiano. All’inizio degli anni Sessanta prevaleva la teoria comportamentista, che utilizza il termine competenza come sinonimo di comportamento, ovvero di performance che un soggetto riesce a manifestare in un determinato ambito e in specifiche condizioni, competenza, quindi come prestazione osservabile e misurabile. Di conseguenza il manifestare competenza diventava un processo lineare scomponibile nei suoi singoli elementi e realizzabile tramite algoritmi comportamentali. Dal momento in cui la competenza è stata definita come una semplice esecuzione di operazioni anche la formazione concentrava l’attenzione sulle attività che l’individuo metteva in essere al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati. In questo periodo abbiamo l’affermazione delle tassonomie comportamentali che razionalizzando gli obiettivi da raggiungere indicano i passi (osservabili, misurabili e valutabili) da seguire per svolgere un determinato compito. Il secondo approccio di tipo cognitivistico si sviluppa prevalentemente alla fine degli anni Sessanta. Queste teorie concettualizzano la competenza come “disposizione interna astratta”, governata per l’appunto da processi cognitivi interni che regolano, modificano e adattano le azioni messe in atto, ciò implica che i comportamenti osservabili sono secondari

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ai processi psichici dell’individuo. Possiamo sintetizzare la prospettiva cognitivista affermando che il soggetto elabora gli stimoli provenienti dall’esterno e risponde ad essi con un comportamento manifesto. Questo approccio sostiene che il concetto di competenza implica non solo il possesso di uno schema che preordina l’azione ma anche una molteplicità di elementi concernenti la sfera affettiva, cognitiva e motoria. Gli ambiti sopraccitati si spiegano in primo luogo perché bisogna considerare l’individuo nella sua totalità, in cui non si può escludere un elemento dall’altro, analizzando singolarmente le varie componenti della competenza possiamo affermare che non si può slegare l’apprendimento dalla sfera affettivo-emozionale che risulta essere la spinta motivazionale, dalla sfera motorio in quanto ogni soggetto è dotato di una fisicità che influenza lo sviluppo cognitivo (Varisco, 2004). L’ultimo approccio preso in esame da Pellerey, sviluppatosi in prevalenza negli anni ottanta, considera la competenza come una mobilitazione di schemi d’azioni. Un’ulteriore espansione del concetto di competenza si ha negli anni Novanta, periodo in cui il mondo del lavoro richiede agli individui di saper agire professionalmente, concetto che va oltre il saper svolgere delle mansioni in modo funzionale ricercando nel lavoratore la flessibilità e la capacità di adeguarsi a differenti ruoli.

2. Definizione di competenza Dopo un’attenta analisi sincronica e diacronica è possibile affermare che il concetto di competenza ha avuto diverse accezioni nel corso del tempo e a tutt’ora acquisisce significati differenti a seconda del quadro teorico di riferimento. Fra le definizioni recenti del concetto in oggetto è possibile citare Notti (2002) che indica la competenza “come la capacità di svolgere un compito in maniera soddisfacente, come la capacità di applicare le conoscenze acquisite sia nelle situazioni pratiche che negli studi successivi, come la capacità di risolvere situazioni problematiche e/o produrre soluzioni od oggetti nuovi”. In sintesi possiamo affermare che la competenza è la capacità di mobilizzare le proprie risorse interiori (affettive, cognitive e volitive) per far fronte ad una famiglia di problemi. Un efficace contributo è fornito dal Pellerey che definisce la competenza come “capacità di far fronte a un compito o a un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e a orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive e a utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo” (Pellerey, 2004). In questa breve trattazione è stata assunta come riferimento la competenza come: “un sistema di conoscenze (dichiarative, procedurali e contestuali o condizionali), organizzato, anche attraverso la metacognizione, in schemi operativi (o reti o piani) finalizzati a identificare e risolvere, autonomamente con rapidità e sicurezza, e con parziali adattamenti delle strategie, una famiglia di problemi con un azione efficace […] impegnandosi in una autoregolazione dell’attività cognitiva (metacognizione) e motivazionale (volizione)” (Coggi, 2005). Analizzando la definizione sopra esposta emergono numerose peculiarità, che meritano di essere approfondite con attenzione. In primo luogo, è possibile soffermarsi sul sistema di conoscenze possedute dal soggetto, definite conoscenze dichiarative quando utilizzano come unica fonte d’informazione la mente del soggetto, comprendono termini, concetti, teorie, etc., comprendono quindi esclusivamente quello che “il soggetto sa”; conoscenze procedurali che includono i processi moto-sensoriali inconsci, ovvero le modalità con cui si mette in atto un’azione, ovvero, quello che “il soggetto

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sa fare”; abbiamo, infine, le conoscenze contestuali o condizionali che concernono le situazioni in cui è opportuno mettere in pratica o meno una determinata azione. Per fornire delle conoscenze necessarie a strutturare delle competenze è utile che la scuola e l’università non si focalizzino su un apprendimento di tipo quantitativo, prettamente nozionistico, attento ai particolari, al fine di fornire un sapere organico che rischierebbe di far assimilare esclusivamente numerose informazioni a memoria; è opportuno che queste istituzioni operino una selezione dei contenuti base che siano il punto di partenza per la costruzione di nuove conoscenze e per la soluzione di problemi maggiormente versatili, che insegnino a gestire al meglio le conoscenze apprese. La conoscenza diviene quindi la base dell’agire e il primo passo per formare la competenza, oltre a ciò è necessario imparare a mobilitare le proprie conoscenze per trovare quelle pertinenti al problema incontrato che permettano di pianificare la risoluzione del problema, considerato nei suoi vari momenti. Altro aspetto che emerge dalla definizione sopra esposta concerne la metacognizione, intesa come “la conoscenza che il soggetto ha del proprio funzionamento cognitivo e di quello altrui; la maniera con cui egli può acquisire conoscenza del proprio comportamento e renderne conto sia a sé che agli altri” (Nuzzaci, Talamo, 2002). Questo implica la capacità di auto-osservarsi e di riflettere sui propri stati mentali e quindi di conoscere e dirigere il proprio apprendimento e di conseguenza le proprie azioni. La metacognizione è, quindi, la consapevolezza del lavoro svolto o che si sta per svolgere. La scuola può stimolare i processi metacognitivi stimolando gli allievi a lavorare per soluzioni alternative, non applicando strategie già consolidate. In questo modo gli studenti impareranno ad operare delle riflessioni sulle soluzioni proposte ai vari problemi rilevandone pregi e difetti, ricercando costantemente, attraverso un processo di ipotesi e verifica, soluzioni maggiormente valide. Matureranno, inoltre, la consapevolezza che esistono più soluzioni per lo stesso problema e che tutte possono essere espressione di competenza. Ulteriore elemento da analizzare è il concetto di schema d’azione ovvero dei piani operativi che si adoperano per giungere alla soluzione di un problema, questi devono caratterizzarsi per rapidità ed automaticità, potenza, originalità (Coggi, 2002). La rapidità e l’automaticità riguardano il tempo impiegato nella risoluzione di un problema. La risposta può essere immediata nel caso in cui, il soggetto è pienamente competente di conseguenza la mobilitazione delle risorse è stata automatizzata, o può essere lenta, quando l’elaborazione della risposta richiede un processo di riflessione, studio e pratica, in questo caso il soggetto si trova in un momento formativo, sta costruendo la sua competenza. La potenza di uno schema concerne la capacità di trovare soluzione efficace al problema in maniera autonoma, applicando sia strategie già apprese sia ricercando le informazioni mancanti per risolvere problemi nuovi o imprevisti. La creatività deriva dal fatto che una volta acquisito un modo di agire questo verrà perfezionato costantemente, sperimentando soluzioni innovative. Il tempo di risposta, la potenza e l’originalità dipendono dalla differenza che intercorre fra il principiante che ricerca attivamente strategie di soluzione e l’esperto che pur avendo una soluzione collaudata può scegliere di modificarla creativamente al fine di renderla più efficace ed efficiente. Come afferma la Coggi gli schemi d’azione devono essere: “chiari, sicuri, facilmente ripercorribili, costruiti da chi risolve il problema, non semplice applicazione di strategie apprese […]. Il competente per essere tale deve risolvere problemi rapidamente categorizzati: il competente, per essere tale, per risolvere le questioni, deve riconoscerle in certo senso come familiari” (Coggi, 2005). L’insegnamento tradizionale si caratterizza per fornire al soggetto una serie di apprendi-

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menti, lasciando al singolo la responsabilità di comprendere come utilizzarli. Un insegnamento per competenze deve andare oltre la semplice ripetizione nozionista, richiedendo agli studenti di dare significato a ciò che apprendono e di utilizzare le proprie conoscenze. Maggiormente gli studenti sfruttano le proprie conoscenze per risolvere problemi maggiormente affinano i propri schemi d’azione. Come afferma Perrenoud (2003) “gli schemi si costruiscono a seguito di allenamento, di esperienze rinnovate, ridondanti e strutturanti insieme, allenamento tanto più efficace quanto più viene associato ad un atteggiamento di riflessione”. Un ulteriore elemento caratterizzante la competenza è l’autonomia nella risoluzione dei problemi. Tutte le caratteristiche precedenti sono come i pezzi di un puzzle che solo riuniti insieme, secondo un ordine logico, danno al soggetto le informazioni e gli strumenti necessari per risolvere un problema in autonomia, in quanto anche se il competente necessita di ulteriori informazioni riesce a reperirle agevolmente ricorrendo a fonti autorevoli. Pertanto gli studenti che ambiscono a maturare una competenza devono abituarsi a trovare strategie di soluzione allo stesso problema che si presenta in contesti differenti e a reperire ulteriori informazioni per problemi che richiedono conoscenze ancora non apprese. Tutto quello affermato finora presuppone che il competente sia in grado di mobilitare le proprie conoscenze. La mobilitazione è processo che implica il riuscire ad utilizzare le conoscenze acquisite in maniera automatica, quasi istantanea, con rapidità e sicurezza e che si estende alle componenti motivazionali, sociali, emotive e metacognitive. Questo enunciato può essere spiegato semplicemente con l’esempio del chirurgo che nel corso di un intervento deve operare con rapidità e sicurezza senza pensare ad ogni azione quello che ha appreso dai libri di testo (l’ordine con cui eseguire le varie azioni, cosa fare in caso d’emergenza, etc.) e al diverso atteggiamento che mostra a seconda se deve operare un estraneo, un amico o un familiare. Dall’esempio emerge che il competente deve: • conoscere con precisione l’ordine in cui vanno eseguite le diverse azioni, che potrebbe essere diverso dall’ordine in cui sono state apprese. In teoria si apprendono le conoscenze seguendo un ordine ben definito, lineare ma nella pratica le conoscenze apprese vengono utilizzate nell’ordine in cui servono. Ad esempio uno studente di medicina imparerà, secondo un determinato ordine, l’utilizzo dei differenti strumenti chirurgici, ma nella pratica utilizzerà solo gli strumenti occorrenti e nell’ordine in cui si rendono necessari; • attivare la metacognizione così da avere il controllo costante dei processi messi in atto, per modificarli all’occorrenza. Chi acquisisce “adeguate conoscenze metacognitive, attiva strategie per fissare le informazioni essenziali che definiscono la situazione problematica, mobilità conoscenze dichiarative e procedurali per strutturare uno schema di soluzione adatto al contesto, pianifica il controllo sulla fase esecutiva, monitora le strategie adatte, verifica i risultati, corregge eventualmente i piani, ottenendo così prestazioni progressivamente di miglior qualità” (Coggi, 2005); • aver automatizzato gli schemi d’azione. Il competente non solo memorizza il processo e le conclusioni a cui perviene ma riesce ad eseguire i piani d’azione in “situazioni problematiche complesse”. Colui che decide di acquisire una competenza deve avere una perfetta consapevolezza del suo sapere, ampliare le sue conoscenze, per avere un progresso continuo al fine di risolvere una famiglia di problemi. Perrenoud (2002) evidenzia che “tra le risorse mobilitate da una competenza maggiore, si trovano in genere altre competenze, di portata più limitata. […] Il professionista gestisce la situazione globalmente, ma mobilita alcune competenze specifiche, indipendenti le une

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dalle altre, per trattare certi aspetti del problema”. Un ultimo e importantissimo aspetto della competenza sono i processi affettivi, volitivi e motivazionali. Da quanto argomentato fin ora si comprende che competenti si diventa preparandosi adeguatamente. Ogni grado di scuola deve formare per competenze, con particolare riferimento all’Università che deve interrogarsi su quali competenze deve possedere un laureato per esercitare una professione e a che livello sono necessarie. Ogni competenza può essere posseduta a diversi livelli: • il principiante applica le conoscenze apprese dai testi in maniera rigida; • il competente medio che ha maturato una certa esperienza ed inizia a risolvere problemi con una certa flessibilità; • l’esperto che ha strutturato un suo personalissimo modo di risolvere con schemi d’azione originali, efficaci e potenti. Nella strutturazione del curricolo l’Università deve esplicitare sia per i programmi che per le attività svolte le competenze a cui queste rimandano, inoltre deve favorire un bilancio delle competenze. Accanto al bagaglio culturale previsto, deve prevedere periodi di tirocinio diretti ed indiretti che abituano gli studenti a risolvere problemi collegati alla professione e che fanno leva su particolari aspetti della personalità quali: creatività, originalità, volontà, determinazione, etc. Formare per competenze implica una programmazione in cui sono indicati chiaramente i fini dell’insegnamento, gli obiettivi finalizzati a raggiungere il traguardo, che deve essere esplicitato sotto forma di comportamento oggettivamente osservabile.

3. Le competenze degli insegnanti Nessun ciclo di studi può offrire una formazione completa, così che, anche nella professione docente è centrale l’apprendimento per tutto l’arco della vita. Quindi dopo la formazione iniziale, il laureato deve essere disponibile ad aggiornarsi rapidamente per adeguarsi ai continui mutamenti della società e alle conseguenti richieste formulate al mondo della scuola. Gli insegnanti quotidianamente immersi in attività di diversa natura, devono essere in grado di adattarsi continuamente alle più svariate situazioni. In passato i docenti dovevano possedere le tradizionali competenze di tipo culturale e didattico, attualmente queste sono “necessarie ma non sufficienti” poiché nel corso degli anni si sono aggiunte numerose competenze, che il contesto storico in cui viviamo ha reso maggiormente evidenti. Si può parlare di una ridefinizione della funzione docente che “significa prendere atto dei mutamenti già avvenuti e di quelli in arrivo; degli obiettivi da assegnare alla formazione in servizio per il rafforzamento delle competenze maturate e per l’incentivazione delle competenze da sviluppare” (Notti, 2000). Numerosi gli studi effettuati in campo nazionale ed internazionale per individuare e classificare le competenze necessarie per insegnare, in Italia queste sono raggruppate nell’allegato A del Decreto Ministeriale n. 153 del 1998 intitolato “Criteri generali per la disciplina da parte delle università degli ordinamenti dei Corsi di laurea in scienze della formazione primaria e delle Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario“ che testualmente recita: “Costituisce obiettivo formativo del corso di laurea e della scuola il seguente insieme di attitudini

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e di competenze caratterizzanti il profilo professionale dell’insegnante, che possono essere integrati e specificati negli ordinamenti didattici: 1. possedere adeguate conoscenze nell’ambito dei settori disciplinari di propria competenza, anche con riferimento agli aspetti storici ed epistemologici; 2. ascoltare, osservare, comprendere gli allievi durante lo svolgimento delle attività formative, assumendo consapevolmente e collegialmente i loro bisogni formativi e psicosociali al fine di promuovere la costruzione dell’identità personale, femminile e maschile, insieme all’auto-orientamento; 3. esercitare le proprie funzioni in stretta collaborazione con i colleghi, le famiglie, le autorità scolastiche, le agenzie formative, produttive e rappresentative del territorio; 4. inquadrare, con mentalità aperta alla critica e all’interazione culturale, le proprie competenze disciplinari nei diversi contesti educativi; 5. continuare a sviluppare e approfondire le proprie conoscenze e le proprie competenze professionali, con permanente attenzione alle nuove acquisizioni scientifiche; 6. rendere significative, sistematiche, complesse e motivanti le attività didattiche attraverso una progettazione curriculare flessibile che includa decisioni rispetto a obiettivi, aree di conoscenza, metodi didattici; 7. rendere gli allievi partecipi del dominio di conoscenza e di esperienza in cui operano, in modo adeguato alla progressione scolastica, alla specificità dei contenuti, alla interrelazione contenuti-metodi, come pure all’integrazione con altre aree formative; 8. organizzare il tempo, lo spazio, i materiali, anche multimediali, le tecnologie didattiche per fare della scuola un ambiente per l’apprendimento di ciascuno e di tutti; 9. gestire la comunicazione con gli allievi e l’interazione tra loro come strumenti essenziali per la costruzione di atteggiamenti, abilità, esperienze, conoscenze e per l’arricchimento del piacere di esprimersi e di apprendere e della fiducia nel poter acquisire nuove conoscenze; 10. promuovere l’innovazione nella scuola, anche in collaborazione con altre scuole e con il mondo del lavoro; 11. verificare e valutare, anche attraverso gli strumenti docimologici più aggiornati, le attività di insegnamento-apprendimento e l’attività complessiva della scuola; 12. assumere il proprio ruolo sociale nel quadro dell’autonomia della scuola, nella consapevolezza dei doveri e dei diritti dell’insegnante e delle relative problematiche organizzative e con attenzione alla realtà civile e culturale (italiana ed europea) in cui essa opera, alle necessarie aperture interetniche nonché alle specifiche problematiche dell’insegnamento ad allievi di cultura, lingua e nazionalità non italiana”.

Il D.M. che ha definito le norme per l’attivazione in Italia del Corso di Laura in Scienze della Formazione Primaria, deputato alla formazione dei maestri, ha individuato numerose competenze di base. Sinteticamente il decreto prevede che gli studenti acquisiscano conoscenze disciplinari, che sappiano applicarle, integrarle e modificarle, nel corso della loro formazione permanente. Sintetizzando, il D.M. dopo aver posto l’accento sul possesso di adeguate conoscenze si sofferma sulle seguenti competenze: 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Progettazione didattica (punti 2, 6, 7, 8 del precedente elenco); Progettazione educativa (punti 2 e 3 del precedente elenco); Lavoro di gruppo (punto 3 del precedente elenco); Saper utilizzare le proprie conoscenze e competenze nei diversi contesti educativi (punto 4 del precedente elenco) Strategie di studio in profondità (punto 5 del precedente elenco); Saper fare ricerca (punto 5 del precedente elenco);

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Esposizione della lezione (punto 6 del precedente elenco); Abilità informatiche (punto 8 del precedente elenco); Abilità relazionali e comunicative (punto 9 e 10 del precedente elenco); Valutazione (punto 11 del precedente elenco); Capacità di realizzare un insegnamento di qualità anche con gli allievi di cultura non italiana (punto 12 del precedente elenco).

Ovviamente quelle elencate sono solo le competenze base di un docente, infatti, come si evidenzia dalla letteratura, con particolare riferimento ai lavori di Perrenoud (2002), gli insegnanti esperti sviluppano ulteriori competenze, ad esempio quella di “percepire simultaneamente i vari processi che si attuano nello stesso tempo nella classe”. Sottolineando l’importanza del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria che offre agli studenti una preparazione teorico-pratica, La Marca (Zanniello, 2008) sostiene che “lo sviluppo della competenza professionale di un maestro, come quella di qualunque educatore o formatore, può avvenire solo in contesti nei quali il soggetto è coinvolto, direttamente o indirettamente, in un’attività pratica di tipo professionale o comunque immediatamente preparatoria all’esercizio della professione”. Infine bisogna aggiungere, che come afferma Zanniello (2008) la competenza professionale necessita di un riconoscimento pubblico, per tale motivo un insegnamento di qualità è riconosciuto da studenti, genitori, etc. Per tali ragioni il corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria deve proporre ai futuri maestri un percorso che vada oltre lo svolgimento di un compito o di una mansione e che si apra al confronto con la complessità della gestione delle situazioni educative e didattiche nel quotidiano dell’esperienza scolastica.

4. La ricerca Caratteristica peculiare del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria è l’aspetto altamente professionalizzante, in quanto la sua finalità è la formazione di docenti di scuola dell’infanzia e di scuola primaria. Risulta essenziale quindi che gli studenti al termine del loro percorso universitario siano in possesso delle competenze caratterizzanti la loro professione. Numerose ricerche in campo nazionale ed internazionale si occupano della qualità della formazione degli insegnanti (Eurydice 2006) o della valutazione/autovalutazione delle competenze degli studenti (Ricchiardi,Torre, 2007), o di dar voce agli insegnanti stessi circa quei valori e quelle competenze che vengono ritenute specifiche del fare scuola (Cardarello, Martini, Antonietti, 2009). Questa ricerca mira a verificare in che misura gli studenti iscritti all’ultimo anno del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria ritengono di aver sviluppato le competenze fondamentali per l’insegnamento nella scuola dell’infanzia e nella primaria. In questo articolo sarà presentato lo stato dell’arte al termine del secondo anno di dottorato. Obiettivi specifici della ricerca sono: stimolare la riflessione degli studenti sulla qualità delle proprie competenze e sulle convinzioni, che hanno di se stessi in relazione alla professione di maestri/e che andranno a svolgere in un prossimo futuro, al fine di confrontarle con le competenze necessarie per la professione docente individuate dal quadro legislativo italiano; individuare metodologie per accrescere tale competenza operando anche una riflessione sui programmi di formazione, i laboratori ed i tirocini. Per conseguire gli obiettivi sopra esposti, il progetto è stato suddiviso in tre annualità:

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Il primo anno dedicato all’approfondimento del tema della ricerca, realizzato attraverso numerose e accurate ricerche bibliografiche al fine di reperire fonti per la costruzione del quadro teorico di riferimento. E’ stato approfondito il concetto di competenza, con particolare riferimento alle competenze necessarie ai futuri docenti e analizzate le normative relative alla formazione universitaria soffermando l’attenzione sull’allegato A del Decreto Ministeriale n. 153 del 1998.Tale legge definisce i Criteri generali per la disciplina da parte delle università degli ordinamenti dei Corsi di laurea in scienze della formazione primaria e delle Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario, e nel citato allegato A specifica l’insieme di attitudini e di competenze caratterizzanti il profilo professionale dell’insegnante. Il secondo anno ha visto la parte operativa con la strutturazione del questionario di percezione delle competenze e la somministrazione dello stesso al campione della ricerca, e l’elaborazione dei dati raccolti. Il terzo anno prevede l’individuazione di metodologie per colmare il divario esistente fra la competenza percepita e quella che dovrebbe essere posseduta operando anche una riflessione sui programmi di formazione, i laboratori ed i tirocini. Per il perseguimento dei fini sopra indicati si è scelto di indagare sulla percezione delle competenze individuate nell’allegato A del Decreto Ministeriale n. 153 del 1998. In particolar modo la ricerca si è soffermata sulle competenze effettivamente acquisibili in un contesto formativo universitario, tralasciando quelle che si possono acquisire con l’esercizio diretto della professione, quali la capacità di produrre un insegnamento di qualità anche con allievi di nazionalità non italiana. Sono state, pertanto, estrapolate dal succitato D.M. 9 competenze sulle quali costruire il percorso di ricerca: 1.

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Progettazione didattica, intesa come la capacità di formulare in maniera chiara le finalità, gli obiettivi e le competenze che si intendono far perseguire agli allievi; di giustificare le scelte didattiche; di personalizzare i percorsi formativi; di motivare gli alunni; di organizzare tempi, spazi e materiali utili per lo svolgimento dell’attività didattica; predisporre unità didattiche originali e stimolanti per i bambini; valutare l’intervento svolto. Progettazione educativa, ovvero l’essere in grado di fare un’analisi dei bisogni educativi degli allievi; il riuscire ad esplicare i traguardi educativi da raggiungere; strutturare strategie educative adeguate al raggiungimento degli obiettivi; predisporre attività di monitoraggio in itinere; predisporre attività di valutazione finale; capacità di riadattare l’intervento educativo ove si rendesse necessario. Lavoro di gruppo, inteso come il riuscire a lavorare in sinergia sia con i colleghi che con gli allievi, valorizzando le peculiarità di ognuno, l’essere in grado di offrire a tutti la possibilità di esprimersi; l’ascoltare attivamente e con interesse i vari membri del gruppo in cui si è inseriti; l’essere capaci di gestire i conflitti fra le persone; stimolare il gruppo a rimanere fedele al compito da svolgere; riuscire ad assumere ruoli differenti a seconda delle circostanze; essere in grado di sviluppare le potenzialità dei differenti membri del gruppo. Strategie di studio in profondità, ovvero l’essere capaci di esplicitare le proprie strategie di studio, il riuscire ad insegnare ad altri differenti strategie d’apprendimento; trovare relazione fra quello che si apprende e quello che già si conosce. Saper fare ricerca, inteso come il riuscire ad individuare un tema di ricerca; esplicitare il quadro teorico; individuare chiaramente le variabili; riuscire ad utilizzare adeguatamente le differenti tecniche di campionamento; individuare gli strumenti di rilevazione dei dati adatti alle variabili considerate ed essere capace di analizzare i dati

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raccolti. Esposizione della lezione intesa come la capacità di comunicare in modo efficace con gli studenti; di porre domande per sollecitare l’attenzione degli ascoltatori; di utilizzare frasi brevi e chiare; di far comprendere il significato dei nuovi termini; di verificare se gli allievi hanno compreso quanto loro comunicato; Abilità informatiche dalle più elementari quali creare, aprire, salvare, chiudere e rinominare un file oppure redigere un documento di testo, al riuscire ad utilizzare un foglio di calcolo elettronico, la posta elettronica e il saper utilizzare il web per effettuare delle ricerche. Abilità relazionali e comunicative intesa come l’essere in grado di individuare un problema e le strategie di soluzione adeguate; l’essere capaci di cogliere i segnali che provengono dalla comunicazione non verbale; il riuscire a comprendere le emozioni degli allievi; l’evitare comportamenti che ostacolano la comunicazione e l’essere in grado di osservare se stessi nella relazione educativa. Capacità di valutare gli studenti, ossia l’essere in grado di costruire uno strumento di valutazione, riuscire a scegliere la prova di profitto in relazione agli obiettivi da verificare, individuare svantaggi e vantaggi delle prove di profitto, capacità di predisporre modalità personalizzate di valutazione, riuscire a coinvolgere gli studenti all’atto della valutazione.

Sono stati coinvolti nella ricerca 128 studenti, ovvero tutti coloro che secondo i tabulati di presenza risultavano frequentare attivamente il quarto anno dell’anno accademico 2009/2010 del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria della Facoltà di Scienze della Formazione, dell’Università degli Studi di Salerno Strumento utilizzato per l’indagine è stato un questionario1 costruito con il duplice scopo di far riflettere gli studenti sulla qualità delle proprie competenze e sulle convinzioni che hanno di se stessi in relazione alla professione di docenti che andranno a svolgere in un prossimo futuro ed individuare gli ambiti in cui emergono maggiori incertezze. Il questionario, composto complessivamente da 71 domande, è stato suddiviso in quattro parti: la prima sezione di carattere introduttivo, costituita da 6 domande, ha lo scopo di rilevare i caratteri generali dello studente (età, sesso, esperienze lavorative, etc.), la seconda parte, costituita da 9 domande, è stata realizzata con la finalità di individuare il percorso universitario svolto, la terza parte, costituita da 50 domande, è volta alla rilevazione della percezione delle competenze secondo quando indicato in precedenza e l’ultima parte, di 6 item, propone una riflessione sulle esperienze che hanno contribuito maggiormente alla costruzione della propria professionalità. Il questionario strutturato ha previsto domande chiuse, proponenti una descrizione del proprio comportamento, con risposte chiuse organizzate su una scala graduata di quattro livelli (decisamente NO, più No che si, più SI che no, decisamente SI ). La scelta di una scala a quattro livelli è stata dettata dall’esigenza di far operare una scelta precisa ai soggetti evitando in tal modo risposte intermedie. Dalla lettura delle frequenze della tabella 1, relativa alle generalità degli studenti, emerge

1 Il questionario è stato formulato rielaborando quanto emerge da alcuni lavori presenti in letteratura: Pellerey M., Orio F., (2001), Il questionario di percezione delle proprie competenze e convinzioni, Edizioni Lavoro, Roma; Torre E. M., Ricciardi P. (2007), Le competenze dell’insegnante. Strumenti e percorsi di autovalutazione, Erikson, Gardolo.

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che l’83% dei soggetti rispondenti è di sesso femminile, in linea con le iscrizioni al corso di laurea, ove è minima la rappresentanza del sesso maschile. Il 49% del campione ha un età superione ai 28 anni, questo perché come emerge dai tabulati delle iscrizioni il 30% degli studenti è al secondo titolo accademico, mentre un’altra percentuale significativa proviene da altri corsi di laurea, rileviamo pertanto che solo il 25% degli studenti ha un età inferiore ai 25 anni, e che dopo il diploma ha seguito il tradizionale percorso di studi. Significativo inoltre è che il 90% dei rispondenti ha scelto l’indirizzo di scuola primaria, così come l’89% sceglie i corsi opzionali per il sostegno, dalle riflessioni orali degli studenti, all’atto della somministrazione del questionario, emerge una spiegazione a questi due dati, infatti, essi affermano che tali scelte dipendono dal voler incrementare le possibilità occupazionali preparandosi ad insegnare in un ciclo di scuola che dura 5 anni e non 3 come la scuola dell’infanzia. Per quanto riguarda nello specifico la scelta dei corsi opzionali per il sostegno, questa è favorita dalla possibilità di poter accettare in futuro differenti tipologie di incarichi. Inoltre il 79,9% degli iscritti proviene dai licei, una rappresentanza proviene sia dagli istituti tecnici (il 9,3%) sia dai professionali (l’8,5%). Infine è possibile costatare che una parte significativa dei rispondenti, il 41,4%, dichiara di svolgere un attività lavorativa coerente con il corso di studi, dato coerente con l’evidenza che il 49,2% ha un età superiore o uguale a 28 anni, che il 30% ha già una laurea, questo può far supporre che parte di essi svolga supplenze, progetti, lezioni private, attività di tutoraggio, etc. Dall’analisi della tabella 2, che documenta il percorso universitario degli studenti rispondenti al questionario, emerge che la maggior Tab. 1: Generalità parte degli studenti, il 58%, dichiara di frequenA1. Sesso N % tare sempre o quasi sempre le lezioni, sommanMaschi 12 9,3% do questo dato con chi afferma seguire spesso Femmine 107 83,5% le lezioni si ha l’85% degli studenti come freNon risponde 9 7,0% quentatori assidui dei corsi. La domanda B2 A2. Età prevede che gli studenti indichino quanti cre24< 32 25,0% diti hanno acquisito. Gli intervalli corrispondo24-25 20 15,6% 26-27 9 7,0% no ai crediti che si dovrebbero possedere >28 63 49,2% dall’inizio del percorso universitario al termine, Non risponde 4 3,1% ovvero nel corso del primo anno gli studenti A3. Indirizzo dovrebbero maturare 60 crediti, al termine del Scuola dell’infanzia 12 9,3% secondo 120, al termine del terzo 180 e l’ultiScuola primaria 114 89,0% mo anno 240, dall’analisi delle risposte si osserNon risponde 2 1,5% va che il 53% degli studenti ha maturato i A4. Sostegno crediti previsti in quanto si colloca nella fascia Si 115 89,8% No 10 7,8% che va da 181 crediti a 240, mentre soltanto il Non risponde 2 1,5% 12% dei rispondenti al questionario ha totalizA5. Diploma zato meno di 121 crediti. Liceo 102 79,6% La domanda B3 mira a conoscere il numero Tecnico 12 9,3% di esami sostenuto. Le risposte sono state scaProfessionale 11 8,5% glionate in 4 livelli: meno di 12, numero scelto Non risponde 3 2,3% perchè corrispondente al numero di esami che A6. Lavoro coerente con studi dovrebbe essere sostenuto entro il termine del Si 53 41,4% No 72 56,2% secondo anno; 12-18, ovvero l’intervallo che va Non risponde 3 2,3% dagli esami del termine del secondo anno al

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termine del terzo, 19-20 gli esami che dovrebbero essere svolti nel corso del quarto anno e l’ultimo scaglione comprende i 3 esami aggiuntivi per il sostegno. Il 50% degli studenti rientra nell’ultimo scaglione che sommato al precedente fornisce una percentuale del 71%, risulta alto il numero degli studenti con un numero di esami non superiore a 18, fra questi possono essere annoverati coloro che a causa di un cambio di corso di laurea o di un secondo titolo hanno visto la convalida di alcuni esami già sostenuti. Altro dato importante è fornito dalla domanda B5, che richiede il numero complessivo delle ore di tirocinio svolto, anche in questo caso le domande sono state suddivise in scaglioni, dato positivo emerge dal fatto che il 79% degli studenti è in regola con lo svolgimento del tirocinio. Le domande B6, B7 eB8 sono delle specificazioni della B5 e riguardano rispettivamente le ore di tirocinio svolte nella scuola primaria, nella scuola dell’infanzia o svolto attraverso attività differenti. L’ultima domanda di questa sezione, chiede agli studenti il numero di crediti raggiunto attraverso lo svolgimento di attività laboratoriali ed in questo caso emerge che 82,8% ha raggiunto i crediti previsti dal corso di studio. Tab. 2: Percorso universitario B1. Frequenza lezioni Mai o quasi mai 2 1,5% Qualche volta 14 10,9% Spesso 34 26,5% Quasi sempre o sempre 75 58,5% Non risponde 3 2,3% B2. Crediti acquisiti 60< 1 0,7% 60-120 11 8,5% 121-180 41 32,0% 181-240 68 53,1% Non risponde 7 5,4% B3. Esami sostenuti 12< 7 5,4% 12-18 25 19,5% 19-20 28 21,8% 21-23 65 50,7% Non risponde 3 2,3% B4. Media voti 22/30< 1 0,7% 22/30 – 24/30 8 6,2% 25/30 – 27/30 71 55,4% 28/30 – 30/30 46 35,9% Non risponde 2 1,5% B5. Ore complessive tirocinio 100< 3 2,3% 101-200 6 4,6% 201-300 14 10,9% 301-400 102 79,6% Non risponde 2 1,5% B9. CFU laboratoriali 3< 3 2,3% 3-6 5 3,9% 7-9 8 6,2% 10-12 106 82,8% Non risponde 6 4,6%

Oggetto principale indagato con il questionario è stato la percezione che gli studenti hanno delle proprie competenze. In questo paper, ai fini di rispettare il format prestabilito, sarà illustrata nel dettaglio l’analisi delle frequenze di una sola competenza, presentata nella tabella 3, dedicata all’analisi delle risposte relative all’area della progettazione didattica. Nella struttura del questionario sono stati selezionati 7 fattori componenti questa competenza. La prima domanda (C1) mira a definire se gli studenti si ritengono in grado di formulare in maniera chiara le finalità, gli obiettivi e le competenze che intendono far perseguire agli allievi. Suddividendo le risposte in negative e positive emerge che l’82,7% degli studenti risponde affermativamente mentre il 13,2% risponde negativamente, nel dettaglio osserviamo che soltanto il 19,5% dei rispondenti ritiene di non avere nessun incertezza relativamente a questo fattore mentre il 63,2% scegliendo la risposta “Più SI che no” fa capire che presenta ancora delle incertezze. Rispondono in maniera totalmente negativa, ed evidenziando in tal modo una grave lacuna soltanto il 2,3% degli studenti. La domanda C2 richiede agli studenti la capacità di giustificare le scelte didattiche anche in questo caso possiamo dividere le risposte in positive e negative evidenziando che l’85,9% risponde in maniera affermativa, mentre il 10,1% degli studenti risponde negativamente dettagliando le risposte è possibile affermare che una percentuale bassissima, 2,3%, risponde

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sostenendo di non essere in grado di giustificare le proprie scelte didattiche, il 7,8% tende al negativo evidenziando gravissime incertezze, mentre il 60,9% sostiene di avere qualche incertezza e il 25% afferma di non aver nessun problema a svolgere questo compito. La domanda C3 si prefigge di conoscere quanto gli studenti si ritengono in grado di personalizzare i percorsi formativi. Dall’analisi delle risposte emerge che il 76,4% degli studenti si ritiene in grado di svolgere questa mansione, anche se di questi il 54,6% afferma di avere delle titubanze, le risposte negative sono il 21,0% delle quali però solo l’1,5% ritiene

Tab. 3: Progettazione didattica C1. Sono in grado di formulare in maniera chiara le finalità, gli obiettivi e le competenze che intendo far perseguire agli allievi Decisamente No 3 2,3% Più No che si 14 10,9% Più SI che no 81 63,2% Decisamente Si 25 19,5% Non risponde 4 3,1% C2. Sono capace di giustificare le scelte didattiche Decisamente No 3 2,3% Più No che si 10 7,8% Più SI che no 78 60,9% Decisamente Si 32 25,0% Non risponde 5 3,9% C3. Sono in grado di personalizzare i percorsi formativi Decisamente No 2 1,5% Più No che si 25 19,5% Più SI che no 70 54,6% Decisamente Si 28 21,8% Non risponde 3 2,3% C4. Riesco a motivare gli alunni Decisamente No 2 1,5% Più No che si 6 4,6% Più SI che no 70 54,6% Decisamente Si 45 35,1% Non risponde 4 3,1% C5. So organizzare tempi, spazi e materiali utili per lo svolgimento dell’attività didattica Decisamente No 1 0,7% Più No che si 17 13,2% Più SI che no 68 53,1% Decisamente Si 36 28,1% Non risponde 5 3,9% C6. Sono capace di predisporre unità didattiche originali e stimolanti per i bambini Decisamente No 0 0 Più No che si 16 12,5% Più SI che no 80 62,5% Decisamente Si 27 21,0% Non risponde 4 3,1% C7. So come valutare adeguatamente l’intervento svolto Decisamente No 0 0 Più No che si 23 17,9% Più SI che no 73 57,0% Decisamente Si 25 19,5% Non risponde 6 4,6%

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di non essere assolutamente capace di personalizzare i percorsi formativi. Alla domanda C4, ovvero “Riesco a motivare gli alunni”, l’89,7% dei rispondenti al questionario si percepisce positivamente, soltanto il 6,1% risponde negativamente ed anche in questa domanda, come nella precedente l’1,5% ritiene di non essere capace di motivare gli allievi. La domanda C5, “So organizzare tempi, spazi e materiali utili per lo svolgimento dell’attività didattica”, l’81% ritiene di riuscire a svolgere queste attività anche se di questi solo 28,1%, è certo di riuscirvi senza andare incontro a particolari difficoltà, di contro rispondono negativamente il 13,9% degli studenti che affermano di non essere ancora autonomi nello svolgere queste mansioni. Alla domanda C6, “Sono capace di predisporre unità didattiche originali e stimolanti per i bambini”, l’83,5% è convinto di possedere tale capacità, a tendere verso il negativo vi è il 12,5% degli studenti anche se è osserviamo che nessuno dei rispondenti si reputa totalmente incapace in tal senso, in quanto nessuno ha optato per la risposta “Decisamente NO”. Ultima domanda di questa sezione, la C7, mira a conoscere se gli studenti si ritengono capaci di valutare adeguatamente l’intervento svolto. Rispondono positivamente il 76,5% degli studenti, di cui 19,5% ritiene di riuscirvi senza alcuna difficoltà, si collocano invece nella sfera negativa il 17,9% degli studenti, ed anche in tal caso nessuno dei rispondenti ha optato per la risposta Decisamente NO.

5. Conclusioni Dall’analisi delle competenze è emerso che gli studenti hanno scelto con maggiore frequenza l’alternativa “Più SI che no”, collocandosi pertanto nella fascia positiva delle risposte. Nella tabella 4 emerge che tale discorso può essere esteso alla quasi totalità competenze studiate, ad eccezione delle competenze che concernono il “saper fare ricerca” e la “valutazione” che hanno un accezione lievemente negativa, infatti alle domande proposte gli studenti si sono orientati sull’alternativa “Più NO che si”. L’ultima parte del questionario è andata a raccogliere le riflessioni degli studenti su quali esperienze sono risultate fondanti per l’acquisizione delle proprie competenze. Una notevole importanza è stata attribuita, con il 68,7% delle opzioni, alle attività extra universitarie svolte in gruppi, associazioni o come opere di volontariato. Di quasi ugual peso risulta essere il tirocinio, con il 68% che lo considera in senso positivo. A seguire a breve distanza troviamo le esperienze lavorative e i corsi con le rispettive percentuali del 65,7% e del 62,5%. Sempre nella sfera positiva si collocano i laboratori con il 54% degli studenti che gli attribuiscono una particolare rilevanza. In ultimo si situano i seTab. 4: Sintesi minari in quanto solo il Competenze Media Deviazione standard 45,4% dei partecipanti Progettazione didattica 3.10 0.70 Progettazione educativa 3 0,62 all’indagine lo annovera Lavoro di gruppo 3,32 0,57 fra le esperienze positive. Strategie di studio in profondità Saper fare ricerca Esposizione delle lezione Abilità informatiche Abilità relazionali e comunicative Valutazione

3,18 2,88 3,35 3,59 3,30 2,97

0,64 0,71 0,64 0,65 0,65 0,73

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Riferimenti bibliografici


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Decreto Legislativo 27 ottobre 2005, ai sensi dell’art. 5 della legge 53/2003: Norme generali in materia di formazione degli insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento.

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ricerche La promozione della capacità di analisi di situazioni educative complesse nei futuri insegnanti di scuola primaria The promotion of future primary school teachers’ ability for analysing complex educational situations FRANCESCA PEDONE Il tema della capacità di risoluzione di problemi educativi da parte di coloro che si accingono a svolgere la professione di insegnante, implica l’acquisizione di strategie per reagire in modo adeguato alla complessità dei problemi che connotano le situazioni educative. Si presentano i risultati di una ricerca triennale che ha coinvolto in totale 450 studenti del corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Palermo. Con la ricerca ci si è posti l’obiettivo di rilevare la capacità degli studenti di affrontare lo studio con un atteggiamento volto alla comprensione e alla soluzione dei problemi concreti con i quali ci si confronta nel lavoro educativo. Si è inteso promuovere nei futuri maestri la capacità di identificare e affrontare situazioni scolastiche problematiche in modo adeguato. La ricerca costituisce un esempio di come si possa sviluppare negli studenti quell’insieme di abilità che confluiscono nella capacità di identificare e risolvere situazioni educative complesse.

When approaching and solving educational problems, those who are about to start a teaching profession, need to involve strategies in order to appropriately answer problems complexity characterizing educational situations. In this paper we introduce the results of a three-year research that involved 450 students of the University of Palermo, Primary Education Degree Course. The work has been focused on the students’ ability for approaching their jobs with an understanding and solving attitude towards all practical problems raised in the educational area. The study has been oriented to promote in tomorrow’s teachers the ability for identifying and properly addressing any problem in school situations. The study is also an example of the development of students’ skills, oriented to identify and solve complex educational situations

Parole chiave: identificazione dei problemi, risoluzione di problemi, studio di caso, scuola primaria, situazioni educative complesse

Key words: problem finding, problem solving, case study, primary school, complex educational situations

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1. Introduzione Il presente lavoro riferisce i risultati di una ricerca condotta per tre anni accademici consecutivi, nell’ambito di un percorso didattico rivolto agli studenti universitari del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Palermo. Con una specifica attività di ricerca si è inteso verificare la validità di una metodologia formativa finalizzata al potenziamento della capacità di analizzare e risolvere situazioni educative problematiche, che rappresenta un aspetto fondamentale della competenza professionale del docente. Dopo aver richiamato brevemente le caratteristiche generali del problem solving, si evidenzieranno i processi di pensiero implicati nella risoluzione della tipologia di problemi che più frequentemente si manifestano in campo educativo, definiti problemi “mal strutturati” o che non hanno soluzioni ben definite; si descriverà, quindi, la metodologia formativa ritenuta più adatta per sviluppare negli insegnanti le tre abilità fondamentali per la risoluzione di questo tipo di problemi e che si articola in tre fasi: identificare, analizzare e risolvere una situazione educativa complessa. Si analizzeranno, infine, gli esiti delle attività formative finalizzate alla acquisizione, da parte dei futuri docenti, della capacità di analisi e risoluzione di situazioni educative problematiche simili a quelle che si riscontrano nella vita scolastica di tutti i giorni.

1. Il quadro teorico Quasi ogni aspetto della vita quotidiana implica la risoluzione di problemi; essa si configura in tal modo come una delle più importanti attività umane. Circa venti anni fa l’OMS ha posto la capacità di risolvere problemi tra le dieci competenze più importanti (Life Skills), una capacità ritenuta indispensabile come fattore di protezione e di adattamento critico alla realtà. Oggi la competenza in problem solving è uno dei tre domini principali dell’indagine PISA proposta periodicamente dall’OCSE (OCSEPISA, 2012), ed è definita come la «capacità di un individuo di mettere in atto processi cognitivi per comprendere e risolvere situazioni problematiche per le quali il percorso di soluzione non è immediatamente evidente. Questa competenza comprende la volontà di confrontarsi con tali situazioni al fine di realizzare le proprie potenzialità in quanto cittadini riflessivi e con un ruolo costruttivo». Con l’espressione problem solving si fa riferimento ad un insieme di abilità e di processi cognitivi atti a identificare, analizzare e risolvere efficacemente situazioni problematiche. Le abilità di problem solving riguardano i processi cognitivi ed affettivo-motivazionali che possono essere utilizzati per affrontare e risolvere in modo efficace una serie diversificata di difficili situazioni quotidiane. Risolvere un problema significa, in tal senso, trovare una strategia che consenta di individuare la risposta a una questione quando non se ne ha una immediata a disposizione. Più in generale si può dire che esiste un problema quando si ha in mente un obiettivo e non si è ancora trovata la strada per raggiungerlo (Gagnè, 1989, p. 177): la soluzione dei problemi implica una ricerca di un percorso dallo stato iniziale allo stato-meta. Secondo Lesgold (2000, p. 234) «una persona che risolve un problema deve anche conoscere quali passi sono possibili – come rappresentare un problema. Questi due aspetti nella soluzione di un problema, la rappresentazione e la ricerca, sono un buon inizio per la comprensione della soluzione dei problemi».

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La risoluzione di un problema è un’attività del pensiero messa in atto per raggiungere una condizione desiderata a partire da una condizione data. Per affrontare in modo efficace un problema complesso non si può procedere in modo improvvisato e casuale. Ciò è vero a maggior ragione quando ci si trova di fronte a situazioni educative complesse1, per affrontare le quali è necessario fornire una risposta professionale e adottare metodi adatti ed efficaci. Una persona impegnata nella risoluzione di problemi impara “come istruire se stesso a risolvere i problemi”. Questa capacità è composta di regole di ordine superiore dette “strategie” (Gagnè, 1992, p. 274). Il processo di problem solving sviluppa abilità metacognitive di controllo esecutivo del compito, di monitoraggio delle componenti cognitive e di autoregolazione cognitiva. Secondo Brown (1978) i processi metacognitivi di controllo implicati nella soluzione di un problema coinvolgono le capacità di previsione (prevedere se si è in grado di risolvere un problema); di progettazione (identificare un progetto di soluzione); di monitoraggio (tenere sotto controllo il processo risolutivo); di valutazione (valutare il risultato conseguito). Secondo Pellerey (1993, p. 284) la capacità di risolvere problemi è legata da una parte alla familiarità con il contesto esperienziale o concettuale considerato e, dall’altra, con l’avere a disposizione un repertorio di strategie cognitive. Quanto al primo aspetto, è rilevante la qualità dell’organizzazione concettuale raggiunta perchè questa permette di inquadrare correttamente il problema stesso e di rappresentarlo in maniera adeguata. La seconda componente deriva da un processo di “apprendistato cognitivo” che include un ciclo di operazioni descritte da Bransford e Stein (1993). In primo luogo è necessario rendersi conto che una certa situazione implica un problema (fase di identificazione del problema). In secondo luogo è necessario, per trovare la soluzione più efficace, definire e rappresentare il problema in modo adeguato; si tratta di una fase particolarmente delicata, poiché una rappresentazione inadeguata del problema può pregiudicare l’esito dell’intero processo di problem solving (fase di definizione e rappresentazione del problema). Un terzo passaggio consiste nella pianificazione di una strategia di soluzione (fase di formulazione di una strategia): in questa fase è necessario un primo momento di analisi, che prevede la scomposizione del problema in più parti e un momento di sintesi, complementare al precedente, che prevede la ricomposizione funzionale dei diversi elementi. Contemporaneamente questa fase implica anche l’esercizio del pensiero divergente, che tenta di generare il maggior numero di alternative possibili per la soluzione del problema, e del pensiero convergente, che orienta verso la strategia più adeguata e consente una verifica (De Beni et al., 2007, p. 80). Il ciclo di risoluzione dei problemi proposto da Bransford e Stein (1993) prevede ancora altre fasi: una fase di organizzazione delle informazioni e di allocazione delle risorse e una fase di monitoraggio e valutazione. Si procede con l’organizzazione delle informazioni raccolte e con la pianificazione del lavoro complessivo, focalizzandosi sul suo insieme, per arrivare alla soluzione più adeguata. Infine è necessario stabilire se la soluzione finale è efficace (fase di valutazione). Durante tutto il processo è necessario monitorare costantemente l’attività in corso; con

1 Si considerano complesse quelle situazioni riguardo alle quali le strategie di cui dispone il docente, comunemente impiegate nei contesti educativi, non consentono di conseguire esiti significativi e, al contrario, le lasciano inalterate o, peggio, tendono ulteriormente a complicarle. È necessario, pertanto, che quanti si preparano a diventare docenti o educatori acquisiscano un bagaglio di competenze basilari che consenta loro di comprendere in maniera adeguata le situazioni – problema per passare, poi, ad escogitare ed attuare delle opzioni di intervento efficaci (Amenta, 2009, p. 173).

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ciò si fa riferimento sia all’attuazione di verifiche frequenti per decidere se in effetti si sta raggiungendo l’obiettivo prefissato; sia alla capacità di autoregolazione che consiste nel rivedere il processo svolto per, eventualmente, modificarlo. È possibile che durante il monitoraggio e la valutazione si riconoscano nuovi problemi, emergano nuove strategie o si identifichino nuovi vincoli e risorse che danno origine ad un nuovo ciclo di problem solving. Possiamo affermare con Gagnè che quando la soluzione del problema è raggiunta, qualcosa viene appreso, nel senso che la capacità dello studente è cambiata in modo più o meno permanente. «Dal problem solving emerge una regola di ordine superiore, che entra quindi a far parte del repertorio individuale. […] il problem solving è dunque da considerare proprio una forma di apprendimento» (Gagnè, 1992, pp. 259-260).

2. Gli obiettivi e le ipotesi della ricerca Si è ritenuto che lo sviluppo della capacità di problem solving, nei termini appena descritti, costituisse la strada privilegiata per identificare e capire situazioni problematiche e per rispondere in modo professionale alla complessità dei bisogni educativi. Con una specifica attività formativa si è inteso promuovere e sviluppare negli studenti universitari del corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Palermo tre abilità connesse alla capacità di problem solving: l’identificazione, l’analisi e la risoluzione di un problema educativo. Si è ipotizzato che la metodologia formativa di seguito descritta avrebbe migliorato significativamente negli studenti universitari le seguenti abilità: • riconoscere le situazioni educative complesse; • analizzare situazioni educative complesse distinguendo i fatti dalle proprie valutazioni personali; • produrre strategie efficaci per affrontare situazioni reali complesse.

3. La metodologia formativa Il percorso formativo, proposto agli studenti a partire dall’a.a. 2008-09 per tre anni consecutivi, è stato finalizzato all’acquisizione della capacità di problem solving per gli studenti del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria2. Con tre differenti gruppi di studenti si è sperimentata una metodologia finalizzata al potenziamento delle abilità di identificazione, di analisi e di risoluzione di problemi educativi simili a quelli che si presentano più frequentemente in una classe di scuola primaria. Per la promozione della capacità di problem solving negli studenti che frequentavano le lezioni e il laboratorio di Pedagogia Speciale, ci si è avvalsi del metodo dello studio di caso3, che consiste nell’analisi della descrizione dettagliata di una situazione reale ed è finalizzato 2 Nell’a.a. 2008-2009 sono stati coinvolti in totale 165 studenti, 104 dei quali hanno seguito sia il corso sia il laboratorio di Pedagogia Speciale per una durata complessiva di 60 ore di formazione: 40 di lezioni e 20 di laboratorio. Nell’a.a 2009-2010 sono stati coinvolti 150 studenti, dei quali 98 hanno frequentato per 60 ore entrambe le attività. Nell’a.a 2010-11 sono stati coinvolti 140 studenti, 68 dei quali hanno frequentato sia il corso sia il laboratorio. 3 Si tratta di situazioni che possono considerarsi esemplari ma non rappresentative dell’intero insieme: i singoli casi, poiché strettamente legati allo specifico di riferimento, non sono di per sé generalizzabili (Sten-

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a favorire negli studenti lo sviluppo delle capacità analitiche necessarie per affrontare sistematicamente una situazione complessa desunta dalla vita reale. Si tratta di una tecnica didattica attiva che è stata messa in atto per promuovere negli studenti universitari un apprendimento più consapevole e partecipato. Il case study favorisce l’incontro delle opinioni e delle esperienze dei soggetti in formazione e, già solo per questo, si propone come metodologia privilegiata per la formazione dei futuri educatori ed insegnanti, i quali devono imparare a lavorare collegialmente (La Marca, 2009). Le finalità generali dello studio di un caso consistono nel rendere consapevoli i soggetti in formazione del fatto che, per affrontare una situazione complessa occorre una capacità di diagnosi che permetta di cogliere la situazione nella sua totalità e nel suo significato reale. Ciò richiede che la comprensione della situazione si estenda anche ai suoi aspetti meno visibili e tra di loro collegati. Per questa ragione si è ritenuto opportuno che gli studenti imparassero ad articolare l’analisi delle situazioni problematiche scindendo gli elementi oggettivi (fatti) da quelli soggettivi (cognizioni) e, allo stesso tempo, gestendo gli aspetti di natura emotiva che possono scaturire durante la discussione in gruppo. Concretamente, gli studenti, prima hanno imparato ad analizzare e risolvere delle situazioni problematiche (narrazioni scritte di episodi di vita scolastica o sequenze di film ambientati a scuola); poi, divisi in gruppi di 30, hanno prodotto un cortometraggio che doveva rappresentare una situazione educativa problematica, da loro stessi ideata, insieme ad un intervento risolutivo ritenuto efficace. Ciascun gruppo, con l’aiuto dei conduttori dei laboratori, per giungere alla realizzazione del cortometraggio (accompagnato dal testo del copione e da un diario di bordo) ha seguito quattro fasi. Fase 1: scelta della problematica In questa fase gli studenti, attraverso la discussione di gruppo, dovevano individuare il caso che intendevano proporre come situazione educativa problematica da analizzare e da risolvere. Tale scelta, che doveva essere condivisa da tutto il gruppo, doveva derivare dalle esperienze pregresse dei partecipanti. Questa prima fase si è articolata in due momenti: un primo momento, detto divergente, in cui è stata stimolata la produzione di idee a ruota libera; un secondo momento, detto convergente, in cui le idee sono state selezionate e vagliate al fine di individuare in modo più preciso e condiviso il problema (Tuffanelli, 2007, pp. 226-227). Per la costruzione del caso da rappresentare sono stati forniti ai gruppi alcuni criteri indicati da Tessaro (2002, p. 177): la coerenza del caso agli scopi dell’azione didattica progettata; la fedeltà a una situazione realmente accaduta; la capacità di stimolare la curiosità e l’interesse di tutti i colleghi; la complessità della situazione presentata, che doveva essere commisurata alle competenze analitiche presenti nel gruppo; la lunghezza del caso in relazione al tempo disponibile per la discussione in gruppo e la sua rappresentazione. Fase 2: analisi della problematica proposta Gli studenti sono stati invitati ad articolare l’analisi della situazione problematica precedentemente individuata distinguendo i fatti, le cognizioni e le emozioni come indicato nel seguente schema:

house, 1979). Quando si usa il case study ci si prefigge che i soggetti in formazione imparino il modo con cui si affrontano in generale i problemi che si presentano nell’attività professionale; ma non si intende assolutamente scendere nella casistica fornendo “istruzioni per l’uso”.

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FATTI

Identificare il problema (problem finding) Esaminare attentamente il problema Definire il problema nei suoi vari aspetti (problem setting) Individuare gli elementi caratterizzanti e i fatti significativi (problem analysis) Definire il contesto

COGNIZIONI

Spiegare il problema utilizzando le proprie conoscenze Individuare nuove conoscenze necessarie per comprendere

EMOZIONI

Identificare e condividere le emozioni suscitate dalla situazione problematica proposta

! Nell’analisi dei fatti, dopo una prima visione globale del problema, gli studenti sono stati sollecitati a scoprirne la struttura; per tale ragione si è chiesto loro di scomporre analiticamente la situazione problematica da loro costruita, al fine di affrontarne poi i vari aspetti senzaNell’analizzare però perderelediconoscenze vista l’insieme. costitutivi, senza però perdere dicostitutivi, vista l’insieme. gli studenti Ndovevano cercare di dare una coerenza unitaria agli elementi precedentemente analizzati. Gli studenti sono stati invitati a provare a spiegare la situazione problematica utilizzando le proprie conoscenze e individuando eventuali lacune da colmare per giungere ad una piena comprensione della situazione. Si è proceduto facendo leva sul ragionamento analogico e sul ragionamento combinatorio (Tuffanelli, 2006, pp. 230-232). Gli studenti sono stati anche sollecitati a identificare e condividere le emozioni suscitate dalla situazione problematica proposta, rendendoli consapevoli del fatto che ogni problema costituisce per chi lo deve risolvere una sfida, la cui accettazione comporta un controllo emozionale. In definitiva, nell’analisi di una situazione educativa problematica si è cercato di implementare negli studenti la capacità di distinguere ciò che è essenziale da ciò che è secondario o superfluo e la capacità di sapersi distanziare emotivamente dal vissuto personale o dai giudizi immediati considerandoli con la massima obiettività possibile, come opinioni o atteggiamenti “soggettivi” che possono essere messi in discussione, confrontati con altri colleghi ed eventualmente modificati (La Marca, 2009). Fase 3: proposta di soluzioni efficaci per la risoluzione del caso ideato Nella fase di risoluzione del problema individuato e analizzato precedentemente sono state stimolate sei differenti forme di pensiero (La Marca, 2009, pp. 40-41) con sei richieste fatte agli studenti. N • Formulare le ipotesi di risoluzione. Gli studenti in un brainstorming dovevano produrre quante più possibili soluzioni diverse, prescindendo momentaneamente dalla qualità e vagliandone poi separatamente la plausibilità e la efficacia. È questo un tipo di pensiero che può essere ritenuto preliminare alla soluzione dei problemi (e non di tutti i problemi), e va integrato in ogni caso con le altre modalità di pensiero citate di seguito. In questo modo si è agito sul “pensiero alternativo”. • Strutturare le ipotesi di soluzione in modo ordinato. Sollecitando il pensiero “strategico” gli studenti sono stati invitati a programmare passo per passo le strategie decisionali necessarie per raggiungere l’ obiettivo. • Discutere le possibili conseguenze. Ricorrendo al pensiero “sequenziale” gli studenti dovevano sforzarsi di prevedere le conseguenze di una certa decisione alternativa, ipotizzando e verificando di volta in volta l’efficacia della decisione (‘Se... allora... quindi...’). Il pensiero sequenziale consente una gerarchizzazione, su basi di inferenza logica, tra le pos-

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sibili decisioni in modo da sottoporre a verifica per prime quelle che si trovano ai posti più elevati nella gerarchia e che hanno maggiori probabilità di risultare efficaci. • Individuare le facilitazioni alla soluzione del problema. In questa fase gli studenti, avvalendosi del pensiero “analogico”, dovevano confrontare la situazione-problema in esame con una situazione problematica di cui avevano già sperimentato, durante le lezioni, una soluzione efficace. La capacità di cogliere agevolmente le analogie tra situazioni-problema simili costituisce una competenza professionale essenziale per l’insegnante . • Prendere una decisione esplicitandone le ragioni. Adoperando il pensiero “causale” gli studenti dovevano attribuire correttamente il rapporto causa-effetto, distinguendo le conseguenze provocate dalle decisioni assunte da quelle casuali. La corretta attribuzione della causalità è requisito essenziale per la soluzione dei problemi che implicano la produzione di effetti. • Valutare la decisione presa facendo ricorso al pensiero critico. Fase 4: realizzazione del cortometraggio Ogni gruppo è stato invitato a trasformare la storia ideata e analizzata in una piccola sceneggiatura, arricchita con dialoghi e impreziosita con dati non essenziali alla stretta comprensione del problema, ma rilevanti sul piano pedagogico. In questa fase è stato definito, inoltre, il ruolo che ciascun membro del gruppo doveva assumere.

4. Rilevazione e analisi dei dati Per la rilevazione dei comportamenti attesi ci si è avvalsi dell’osservazione sistematica degli studenti impegnati nelle attività laboratoriali; dell’analisi dei cortometraggi da essi prodotti; di una scheda di autovalutazione compilata dai partecipanti. Sono stati valutati tre differenti gruppi di studenti (suddivisi in 14 sottogruppi) in tre anni accademici consecutivi. Nel triennio sono stati valutati in totale 445 studenti. I risultati che si riportano in seguito sono riferiti ai 270 studenti che oltre all’attività laboratoriale, svoltasi nel secondo semestre di ciascuno dei tre anni accademici, avevano frequentato le lezioni del corso di Pedagogia Speciale, svoltosi nel primo semestre dello stesso anno accademico, nell’ambito del quale si era focalizzata l’attenzione sulle abilità di identificazione, analisi e risoluzione di situazioni educative problematiche. Sono osservati in maniera sistematica 14 gruppi di studenti per 20 ore; per tale osservazione ci si è avvalsi di tre check list appositamente predisposte: la prima finalizzata a rilevare comportamenti riconducibili alla capacità di riconoscimento di una situazione educativa problematica; la seconda atta a rilevare la frequenza dei comportamenti scelti come indicatori nella fase di analisi della situazione problematica da parte degli studenti; la terza predisposta per rilevare i comportamenti degli studenti stessi nella fase di risoluzione della situazione problematica precedentemente individuata e analizzata. Come si è detto, gli studenti hanno realizzato 14 cortometraggi, della durata di 15-20 minuti. Per valutare la capacità di problem solving degli studenti attraverso l’analisi dei cortometraggi ci si è avvalsi di alcuni indicatori. Si è valutato se il cortometraggio fosse coerente con la consegna fornita dal responsabile del laboratorio; se nel cortometraggio fossero rappresentate situazioni scolastiche verosimili; se fossero facilmente individuabili i fatti più significativi per inquadrare correttamente il problema; se la complessità della situazione problematica descritta fosse adeguata al livello possibile per i membri del gruppo. Infine, attraverso la compilazione di una scheda di autovalutazione relativa alla capacità di problem solving, è stata rilevata la percezione degli studenti circa l’acquisizione di tale capacità da parte loro.

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Si sintetizzeranno adesso i principali risultati della ricerca, articolandoli in riferimento a ciascuno dei tre obiettivi che si è inteso perseguire. L’analisi dei dati consente di affermare che complessivamente i risultati ottenuti dagli studenti al termine dell’attività sono buoni, anche se non si può affermare che essi dipendano esclusivamente dalle attività formative svolte e che sono state descritte in precedenza. D’altro lato la replica dei risultati positivi in tre diversi anni e con gruppi differenti offre una sufficiente garanzia di attendibilità. Sviluppare le capacità di riconoscere le situazioni educative complesse Dall’osservazione sistematica4 si ricava che nella quasi totalità dei casi (92%) gli studenti si sono sforzati di scegliere una situazione realmente accaduta e ambientata nella realtà da loro conosciuta. Maggiore difficoltà è stata invece riscontrata sia nella capacità di eliminare le informazioni che possono creare confusione (comportamento riscontrato solo nel 38% dei casi), sia nella tentazione di proporre casi strani o particolarmente eclatanti e complessi (66%) a discapito della coerenza del caso con gli scopi dell’azione didattica progettata. Quasi tutti gli studenti osservati si sono sforzati di commisurare la situazione proposta alle competenze analitiche presenti nel gruppo (72%) e di cercare di stimolare la curiosità e l’interesse di tutti i colleghi (89%). Frequentemente è stata rilevata la capacità di elaborare il materiale raccolto e di ordinarlo logicamente e sequenzialmente (75%). In tutti i cortometraggi analizzati si sono immaginate situazioni concrete che sono state accuratamente descritte. Dodici cortometraggi su quattordici sono stati coerenti con la consegna data e, nel 79% dei casi, si è riscontrata una complessità della situazione presentata nei lavori adeguata alle competenze analitiche presenti nel gruppo. Questi dati concordano con quanto espresso dalla maggior parte degli studenti nelle schede di autovalutazione compilate al termine dell’esperienza: alla domanda “So individuare i problemi?” l’85% degli studenti ritiene di aver acquisito pienamente tale capacità Sviluppare le capacità di analizzare situazioni educative complesse distinguendo i fatti dalle proprie valutazioni personali Dall’esame dei 14 protocolli di osservazione relativi alla fase di analisi della situazione educativa problematica è emerso che in relazione al momento di individuazione dei fatti problematici, gli studenti presentano molti punti di forza anche se non manca la presenza di qualche criticità: se da una parte quasi tutto il campione osservato è in grado di percepire ed identificare il problema (84%), di esaminare attentamente il problema spiegandone i fatti e preoccupandosi di osservare e utilizzare tutti i dati pertinenti (69%); dall’altra si è notato come la capacità di problem setting sia sensibilmente meno presente nei gruppi di studenti osservati: solo il 23% presta uguale attenzione ad ogni singolo aspetto del problema e solo il 28% evita di sanzionare il problema “etichettandolo”. Gli studenti osservati hanno dimostrato una buona propensione ad individuare gli elementi caratterizzanti e i fatti significativi: il 79% è in grado di distinguere i fatti dalle opinioni personali, il 68 % sa riconoscere ciò che è essenziale da ciò che è secondario o superfluo. Infine la maggior parte di loro è stata in grado di analizzare con precisione i protagonisti e il contesto. Il 65% degli studenti ha manifestato capacità di spiegare il problema utilizzando le proprie conoscenze, rappresentandolo correttamente, collegando i dati e manifestando così segni di flessibilità cognitiva.

4 In merito all’osservazione sistematica, le percentuali riportate indicano quante volte si è rilevato un determinato indicatore sul totale delle rilevazioni. I dati fanno riferimento ai 270 studenti osservati durante il triennio.

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Di contro si è riscontrata una bassa propensione al cambiamento: la maggior parte degli studenti tende a rimanere ancorata alle esperienze di risoluzione precedenti (67%). In riferimento al controllo delle emozioni, quasi tutti gli studenti osservati sanno individuare le emozioni negative (91%), controllare le risposte impulsive (77%) e distanziarsi emotivamente dal vissuto personale (79%). L’analisi dei cortometraggi ha confermato i dati dell’osservazione: la capacità degli studenti di individuare fatti significativi per inquadrare correttamente il problema è stata rilevata nell’80% dei cortometraggi. La stessa percentuale è stata rilevata per la corretta descrizione filmica di una situazione problematica evidenziando, con opportuni accorgimenti cinematografici, i fatti più significativi. Dalla lettura delle schede di autovalutazione alla domanda, “Seguendo le attività proposte ho sviluppato nuovi modi di agire per risolvere problemi educativi specifici?”, circa la metà degli studenti (47%) riconosce di non aver mai in precedenza riflettuto sistematicamente sulla necessità di attuare delle specifiche strategie nel processo di problem solving; altri (38%) indicano esplicitamente le fasi del training come una procedura trasferibile ad altre situazioni problematiche. Alla domanda “Come agirei, nella realtà lavorativa, in presenza di un problema analogo?” gli studenti hanno risposto affermando in diversi casi (34%) che il training al problem solving ha potenziato la loro capacità di apprendimento, e ciò può rendere più facile affrontare altri problemi analoghi a quello già risolto. Risposte analoghe sono state date alla domanda “Cosa ho imparato dal laboratorio?” il 66% degli studenti dichiara in modo inequivocabile di aver appreso una procedura cognitiva e metacognitiva da poter applicare per analizzare una situazione educativa problematica. Sviluppare le capacità di produrre strategie efficaci per affrontare situazioni reali complesse. Dall’analisi delle griglie di osservazione relative alla fase di ideazione di una risoluzione efficace al problema posto, molti studenti (72%) hanno dimostrato di sapere formulare le ipotesi di risoluzione producendo dapprima molte idee e strutturandole poi in modo ordinato. In questa fase quasi tutti gli studenti (87%) hanno previsto le possibili conseguenze alle soluzioni proposte. Qualche elemento di criticità è emerso in merito alla capacità di assumere una decisione esplicitandone le ragioni: sono molti gli studenti che passano alle conclusioni senza controllarle (45%) e che accettano più facilmente le conclusioni che concordano con le proprie opinioni (56%). Infine si è rilevata una buona capacità di valutazione delle decisioni prese (64%) attraverso il controllo dell’azione e l’elaborazione di eventuali piani alternativi, la ricerca delle ragioni di un possibile insuccesso del gruppo ed una attiva valutazione delle proposte, delle previsioni e dei prodotti. Dall’analisi dei cortometraggi prodotti dagli studenti si evince che, fatta eccezione per due casi, gli studenti hanno manifestato di aver compreso la consegna del responsabile del laboratorio. A conferma di quanto già rilevato con l’osservazione sistematica, in 11 filmati ci sono gli elementi necessari per motivare delle decisioni giuste e per giungere a conclusioni pertinenti. Nelle schede di autovalutazione analizzate, alla domanda-stimolo, “Seguendo il laboratorio e svolgendo le attività proposte ho capito che alcune delle mie strategie nel risolvere determinati problemi erano sbagliate?”, moltissimi studenti hanno risposto ammettendo che prima dell’esperienza formativa spesso reagivano alle situazioni educative problematiche lasciandosi trasportare da un forte coinvolgimento emotivo e agivano senza aver prima identificato e analizzato il problema stesso. Alla domanda, “So proporre soluzioni”, contrariamente a quanto rilevato dall’osservazione, gli studenti si autovalutano per lo più attribuendosi un punteggio medio (42%) o medio-basso (26%). I dati emersi dalle schede di autovalutazione coincidono con i dati rilevati tramite l’osservazione per quel che riguarda

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la capacità di prevedere le conseguenze della decisione presa (il 71% degli studenti dichiara di farlo sempre ed in modo corretto); mentre se ne discostano per ciò che concerne la capacità di prendere una decisione esplicitandone le ragioni: contrariamente a quanto emerso dall’osservazione sistematica, gli studenti, nel 78% dei casi, affermano di essere pienamente capaci di prendere una decisione esplicitandone le ragioni.

Conclusione Particolarmente positiva è la valutazione della valenza formativa della produzione dei cortometraggi che hanno consentito agli studenti di rendersi conto sia del dinamismo della professione dell’insegnante, sia della complessità che connota le situazioni educative. In tal senso il mettere in scena un film rappresentante una situazione educativa problematica ha aiutato gli studenti a comprendere cosa potrebbe accadere loro nella futura professione. La finzione narrativa, dunque, si è configurata come un “laboratorio mentale” nel quale analizzare i filmati dinamici della realtà viva (Damiano, 2007, p. 68). Per gli aspiranti docenti non si è trattato solo di fruire passivamente del racconto di una esperienza altrui: la valenza formativa si è manifestata nel rimando reciproco tra il mondo narrato e il mondo vissuto dallo studente. Dall’analisi di quanto emerso si evince come un training intensivo al problem solving possa generare negli studenti l’acquisizione di strategie e abilità funzionali a tale capacità. In una prospettiva di sviluppo del lavoro si potrebbero osservare gli stessi studenti durante il tirocinio, all’interno dei contesti educativi reali, per rilevare la ritenzione e il transfer della capacità di risoluzione dei problemi.

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ricerche La ricerca didattica sugli impliciti d’aula. Opzioni metodologiche Educational Research on Implicit Teaching. Methodological choices

LOREDANA PERLA L’articolo fa il punto sulle opzioni metodologiche della ricerca sulle pratiche educative d’aula. La tesi è che esista un sapere del pratico (insegnante) e delle pratiche (insegnanti) che ha valore di conoscenza teorica didattica a condizione che, per farlo emergere, si opti per approcci ermeneutico-fenomenologici. Lo statuto d’elezione proposto nell’articolo è quello della ricerca collaborativa. Essa prevede una coequal relationship (Day, 1996; Perla, 2010) fra ricercatore e insegnante; l’attenzione alla funzione migliorativa della ricerca (nel senso in cui lo sono le ricerche evidencebased); l’interrogazione sistematica del mondo proprio di impliciti del ricercatore al fine di temperare il rischio di derive interpretative sui materiali perlopiù narrativi della ricerca.

The article sums up the methodological alternatives on the research of the classroom educational practices. The hypothesis is that there is a practice knowledge which has a value of theoretical didactic knowledge, as long as, to make this evident, one choices hermeneutic phenomenological approaches. The elective statute proposed is collaborative research (Day,1996; Perla, 2010) between researcher and teacher; an eye for an improved function of research (meaning the evidence-based research); a systematic questioning of an own world of implicity of the researcher in order to avoid the risk of interpretative deductions on material which is mainly narrative research.

Parole chiave: analisi delle pratiche educative; didattica dell’implicito; formazione insegnanti; ricerca collaborativa; sapere pratico; pensiero dell’insegnante.

Key words: analysis of educational practices; implicit didactic; teacher education; collaborative research; practical knowledge; teachers’ thinking

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1. Introduzione Fra le linee della ricerca didattica che vanno acquistando crescente rilevanza nel panorama degli studi internazionali vi è l’analisi delle pratiche educative1. Ampio il ventaglio di prospettive di indagine da essa dischiuso, molteplici gli oggetti di studio illuminati dai suoi raggi di attenzione: fra questi l’implicito delle pratiche di insegnamento. Oggetto non facile da studiare, l’implicito delle pratiche di insegnamento rimanda ad un universo di variabili complesse, sfuggenti, ambivalenti (Perla, 2010, pp. 60-86). Anche per questo, esso pone al ricercatore una serie di ostacoli conoscitivi il superamento dei quali appare strettamente legato alle opzioni metodologiche che si effettuano al momento in cui si intenda accostarne lo studio. Della natura difficile di questo territorio e dei modi più efficaci per esplorarlo vorrei provare a scrivere non prima, però, d’aver richiamato il significato generale di analisi delle pratiche educative, anche per agevolare la perimetrazione di quello, più circoscritto, di analisi dell’implicito delle pratiche di insegnamento. Cosa è l’analisi delle pratiche educative? Se l’analisi in generale è il procedimento volto a descrivere e/o interpretare un oggetto o un’esperienza nei termini degli elementi più semplici appartenenti a quell’oggetto o a quell’esperienza, l’analisi delle pratiche educative è sintagma polisemico che, nato in area francofona per indicare le procedure di accompagnamento formativo dei docenti alla professione, ha finito col tempo per delinearsi come nuovo modello di ricerca indipendente dalla formazione: un modello multi-approccio (Marcel, Olry, Rothier-Bautzer, Sonntag, 2002, p. 140), rispettoso della pluridimensionalità delle pratiche educative di cui intende illuminare l’articolazione interna in variabili socio-affettive, cognitive, didattiche, psicologiche, valoriali. Fra gli obiettivi di tale linea di ricerca è infatti anche quello di giungere ad affermare la complementarietà scientifica dei diversi “sguardi di ricerca sulle pratiche” (Laneve, 2010, pp. 13-35). Un modello di lettura multi-approccio favorirebbe infatti, rispetto ad uno mono-angolato, il superamento del rischio di letture riduzionistiche delle pratiche educative, delle quali invece gli “sguardi plurali”, pur incrociandosi senza pervenire, come scrive C. Laneve, a un nodo unificatore, restituirebbero una conoscenza più profonda. A partire da questo quadro di riferimento teorico, la mia attenzione si rivolge da qualche tempo all’analisi dell’implicito/degli impliciti delle pratiche della vita d’aula e del “pensiero quotidiano” dell’insegnante2 (Balbo, 1993, p.16). Questo alla luce dell’opzione epistemologica che esista un sapere del pratico (insegnante) e delle pratiche (insegnanti) che ha valore di conoscenza in sé e che può costituire per la ricerca didattica un oggetto assai interessante per comprendere l’insegnamento se solo questa riesca a prendere le distanze dagli intellettualismi pedagogici che, in special modo in Italia, ne hanno influenzato il corso sino ad oggi3. 1 Il Gruppo APRED (Analisi Pratiche Educative) riunisce i ricercatori di varie Università italiane intorno ai temi, ai problemi, agli approcci e ai dispositivi di indagine delle pratiche educative. 2 Sono debitrice in questa definizione alla tradizione fenomenologico-sociale e in particolare a L. Balbo per la quale quotidiano “significa che assumiamo il punto di vista di un individuo nella sua vita reale e concreta.Quotidiano non è però l’ambito del “familiare”, nel senso della routine, di ciò che si dà per scontato, dell’irrilevante. È piuttosto la dimensione spazio-temporale di ciascun attore sociale che concepisce, articola e realizza strategie, sommando momenti inventivi ai momenti adattivi”. È una definizione che trovo particolarmente congruente con le istanze di uno studio sugli impliciti dell’insegnamento. 3 Lo sfondo epistemologico entro cui si muove l’analisi degli impliciti della vita d’aula è l’emancipazione della conoscenza prodotta dagli insegnanti sull’insegnamento e la rivalutazione della conoscenza pratica, con le implicazioni che toccano le funzioni della teoria (ovvero i rapporti fra ricercatori e operatori) e la formazione degli insegnanti novizi e in servizio.

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Mi interessano i modi pratici attraverso i quali gli insegnanti costruiscono il loro sapere e, di conseguenza, tutte quelle procedure che ne agevolano l’esplicitazione al fine di assumerli in funzione dello sviluppo di una teoria dell’insegnamento (Shulman, 1986, pp. 4-14). Tale sapere, prodotto nella pratica dai pratici, si situa dentro il pensiero, i gesti professionali, gli atti, le azioni, gli sguardi dell’insegnante e in gran parte non passa attraverso una comunicazione esplicita. E anzi. Potremmo dire che le variabili dell’insegnamento sono perlopiù tacite poiché il tratto che distingue la conoscenza del pratico da quella del teorico è proprio la sua caratterizzazione implicita. Cosa si intende per implicito? L’etimo del sostantivo rinvia al latino implícitus da implicatus, participio passato di implicare, che significa avviluppare, avvolgere. Esso indica ciò che è compreso e quasi avviluppato in altro, per cui si deduce per via di illazioni, allusioni, induzioni, sottintesi. In riferimento al lavoro specifico dell’insegnante, l’implicito designa l’insieme dei saperi pratici, orchestrati con particolare competenza traspositiva (magistralità) che sono al cuore di quella sapienza tacita dell’insegnante che chiamo, appunto, didattica dell’implicito. Nelle pratiche dell’insegnante c’è infatti una logica che non si lascia cogliere immediatamente, una didattica nascosta o, per dirla con le parole di P. Perrenoud (2001), un inconscio pratico4 fatto di repertori latenti di habitus, di congetture, di routine, di ragionamenti abduttivi che solo parzialmente accedono alla comprensione esplicita, restando nelle tracce di esperienze educative destinate all’oblio didattico o sullo sfondo dei resoconti narrativi che educatori di vaglia ci hanno lasciato a mò di testimonianze esemplari: troppo poco per rendere intelligibile la complessità dell’insegnamento, per comprendere cosa rende il compito prescritto dall’insegnante un apprendimento realizzato dall’allievo. Si tratta dunque di dare, attraverso l’analisi delle pratiche reali d’aula (dichiarate e agite), visibilità all’insieme di quelle variabili tacite “collocate” fra il compito prescritto dall’insegnante e l’apprendimento realizzato dall’allievo (variabili che sono alla base dei processi di gestione della classe e di didattizzazione dei saperi scientifici) e che, proprio perché per molti versi oscure anche alla consapevolezza di chi le agisce (Lam, 2000), pongono problemi non lievi nel momento in cui le si voglia far “emergere” alla formalizzazione e comunicazione scientifiche. Va precisato che la ricerca degli impliciti dell’insegnamento non si pone come una “dietrologia” interpretativa delle azioni di insegnamento. Non intende scrutare cause nascoste nel profondo della soggettività insegnante o far affiorare l’inconscio dell’anima5, ma piuttosto agevolare – con lo stesso insegnante – l’individuazione di un senso intersoggettivo del “non-ancora-noto” delle pratiche professionali e di quell’insieme di elementi non canonici, adattivi, trasgressivi che sono alla base del pensiero abduttivo del docente, facendoli emergere alla consapevolezza e alla comunicazione al solo scopo di migliorare l’azione dell’insegnante. L’implicito delle pratiche insegnanti si configura, entro questa cornice interpretativa, come il “materiale” primo di un’epistemologia del pensiero insegnante che “attende” l’emancipazione del pieno riscatto scientifico ma, anche, come l’obiettivo di una ricerca di-

4 Nozione che Ph. Perrenoud riprende da J. Piaget. 5 Gran parte di ciò che sappiamo e facciamo quotidianamente è inconscio ma non in senso psicoanalitico, bensì nel senso dell’essere radicato in saperi pre-riflessivi. La fenomenologia distingue fra coscienza pratica e coscienza discorsiva (o riflessiva). La prima è inconsapevole, cioè regola il nostro “fare senza riflettere” e inerisce al nostro essere-nel-mondo anzitutto come corpi eppoi come menti. La seconda è quella che sviluppiamo mediante l’uso del linguaggio: parlando, scrivendo, narrando. La prima, sostanziata dai saperi taciti, può essere illuminata dalla seconda, con l’avvertenza che non tutto ciò che è tacito accede al livello della riflessione, sia perché la vita stessa “eccede“ il linguaggio, sia perché umanamente non è possibile interrogarsi sempre sulle azioni che si compiono.

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dattica che abbia l’ambizione di dire l’insegnamento: dalla chiarificazione di questa epistemologia del pratico che si costruisce in situazione, negli intrecci delle attività sociali d’aula (e fuori dall’aula) e che è il risultato dell’appartenenza a un contesto e non il prodotto di uno standard prefissato culturalmente e acquisito fuori da quel contesto, non è più possibile prescindere. Entro questo quadro, le cui coordinate di fondamento in Italia sono state delineate dalla Nuova Ricerca Didattica6 (Damiano, 2006, p. 7), si comprende lo sforzo di individuare le metodologie più idonee per studiare gli impliciti dell’insegnamento attraverso la conoscenza pratica che di esso costruiscono gli stessi insegnanti. Due in particolare sono le domande per chi voglia accostare lo studio di tale territorio: quali sono gli “impliciti” delle pratiche di insegnamento accessibili allo sguardo dell’analisi? E quali opzioni metodologiche risultano maggiormente sintoniche con la “natura” del territorio da esplorare? Vediamo specificatamente.

1. Far diventare chiaro ciò che oscuro Per comprendere il senso di queste domande è utile richiamare due sollecitazioni, l’una sull’implicito” come dimensione costitutiva di un’epistemologia delle pratiche d’aula, l’altra sul metodo più efficace per accostarne lo studio. La prima è di Cosimo Laneve: non si deve lasciare alla casualità quello che ha, e non raramente, maggiore possibilità di avere successo, ovvero la ricerca sull’implicito della didattica. “Ciò che è oscuro” scrive Laneve, deve diventare chiaro all’insegnante, continuando invece a rimanere (anche se non necessariamente) “oscuro” all’alunno7 (Laneve, 1998, p. 58). L’invito è alla chiarificazione di quell’insieme di variabili dell’insegnamento che innervano le pratiche d’aula in modi incisivi ma nascosti. Rinunciare a studiarle equivale a mettere fra parentesi l’essenziale (della vita d’aula) dal cui studio passa la costruzione di una comprensione scientifica dell’insegnamento. A questa prima sollecitazione aggiungo quella di Luigina Mortari che mette a fuoco il problema metodologico di tutte le ricerche educative che pongano a proprio oggetto l’“oscuro” delle pratiche. Il metodo razionalizzato della scienza moderna, scrive Mortari, cerca la chiarezza, ma può raggiungerla solo a patto di evitare i luoghi opachi, le zone tenebrose. Ma tutta la vita è fatta di opacità, di lati oscuri, di zone stagnanti ove il pensiero inevitabilmente s’impantana. Per esplorare queste zone, scrive Mortari richiamando le “Note di un metodo” di M. Zambrano (2003), occorre cercare un metodo che però non si fermi alla rilevazione soltanto di ciò che è evidente “che ben presto diventerà l’ovvio, il banale… Il metodo da cercare è quello che viene dall’esperienza facendo esperienza” (Mortari, 2006, pp. 21-23). Lo sforzo del ricercatore andrebbe dunque orientato all’esperienza della vita d’aula, alla esplicitazione dei significati che gli insegnanti attribuiscono alle loro pratiche quotidiane, alla

6 È appena il caso di ricordare che con l’acronimo NRD (Nuova Ricerca Didattica) si intende, lo richiamo con le parole dell’autore, “un nome proprio” che si riferisce a specifiche modalità d’indagine finalizzate a rivalutare la conoscenza pratica come conoscenza “produttiva”, con proprietà distinte e soprattutto non deducibili da altre forme di conoscenza (che di solito viene detta “teorica”). Il programma di ricerca della NRD è stato avviato nei primi anni ’80, in polemica con la tradizione dei «modelli del prodotto», e attualmente si declina su tre direttrici fondamentali: a) la razionalizzazione delle procedure d’indagine, b) la sistematizzazione dei riferimenti epistemologici; c) la istituzionalizzazione delle pratiche corrispondenti nella formazione degli insegnanti. 7 Corsivo mio.

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chiarificazione dei modi e delle forme con le quali essi costruiscono le condizioni di realizzazione delle stesse pratiche. A tal fine occorrerebbe adottare un metodo che consenta l’“immersione” del ricercatore nell’esperienza d’aula così come viene vissuta, pensata, agita dai suoi protagonisti principali: insegnanti e allievi. Il conoscere della pratica, infatti, non è un processo di realismo ingenuo che chiama in causa una realtà oggettiva, indipendente da coloro che la conoscono, e che può essere “osservata” e “scoperta” da un ricercatore esterno, neutrale. Il conoscere della pratica è un’attività creativa, artistica, sociale, immaginativa (e infatti artistry è il nome ad essa attribuito da D. Schön e C. Argyris; Schön, 1999, p. 147), che chiama in causa l’insieme delle attribuzioni con le quali i soggetti danno senso e significato a se stessi, alle relazioni, ai loro mondi vitali. Di qui l’opportunità di ricorrere, nello studio degli impliciti della vita d’aula, ad approcci di ricerca paradigmaticamente qualitativi ma rigorosi nel metodo (Mortari, 2010), prossimi alle pratiche reali di insegnamento ma capaci anche di mettere-a-distanza-le-pratiche, di dar voce alle storie dei singoli, al loro modo di abitare relazioni e contesti. Approcci armchair walkthrough8 (Richards, Morse, 2009, p. 55) che però solo l’esperienza della ricerca e con la ricerca nelle pratiche pone al vaglio del veramente utile, nel rispetto di quattro criteri: a) lo sfondo ecologico, che tende a ri-guardare le pratiche d’aula in modi “comprensivi”, capaci di abbracciare (il Verstehen di K. Jaspers) la realtà studiata; b) la situatività, che fa contestualizzare procedure e interpretazioni ai luoghi di svolgimento della ricerca; c) il rigore, che mantiene “saldo” lo spessore dell’indagine al di là delle opzioni di metodo compiute dal ricercatore facendo decifrare-triangolare-intepretare9 sistematicamete i dati emergenti; d) la riflessività che fa luce sul problema etico (ed epistemico) del ruolo del ricercatore che, nell’indagine degli impliciti d’aula, va riletto non più in funzione interpretativa, ma collaborativa e co-autoriale (Caronia, 1997), seguendo l’appello della tradizione fenomenologica. Per un verso, infatti, occorre far emergere il ruolo attivo dell’insegnante, il suo intenzionare le pratiche della vita d’aula. Per altro verso il ricercatore non è un mero glossatore-interprete di quel “testo” che è la vita d’aula, ma ne diventa, che lo voglia o no, collaboratore e co-autore, il che implica un lavoro autoanalitico non lieve sul sé-inricerca e sul dialogo da saper costruire con l’insegnante-partner, da svolgere di pari passo con lo svolgersi della ricerca10 (Schutz, 1974), in modi distesi, solidali, non predatori. Ma quali “impliciti” delle pratiche di insegnamento sono accessibili allo sguardo dell’analisi?

8 Letteralmente “viaggio immaginario stando in poltrona”. È il processo mentale che il ricercatore sviluppa nel momento in cui ha deciso di accostare un certo ambito di studio e che consta nella sequenza di domande-risposte circa le opzioni metodologiche: se faccio questa domanda di ricerca allora avrò bisogno di usare questo metodo particolare, cercare questo tipo di informazioni e coinvolgere questi partecipanti, utilizzare questi dispositivi, trattare e analizzare i dati in questo particolare modo e presentare i risultati in questa forma. 9 Essenziale nella ricerca sugli impliciti è la triangolazione dei dati. Esiste una triangolazione delle fonti (impiego di più fonti di dati); una triangolazione fra ricercatori; una triangolazione metodologica (utilizzo di più metodi per indagare lo stesso oggetto);una triangolazione interdisciplinare (confronto fra letterature scientifiche di area affine sul medesimo oggetto). 10 È quell’essere-in-situazione del ricercatore che, all’interno della produzione scientifica delle scienze sociali e da qualche tempo anche pedagogiche, va acquistando dignità di testimonianza in forma di resoconti scritti sulla postura del ricercatore.

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Numerosi. Sono gli impliciti ascrivibili a quella forma di conoscenza non-cognitive11 (van Manen, 1999) emergente da ambiti specifici della vita ordinaria d’aula, il cui “tacito” viene reso “esplicito” per renderlo disponibile alla riflessività e alla trasmissione professionale. Si pensi, solo per fare un esempio, al peso delle credenze. La ricerca didattica italiana ha iniziato a occuparsene di recente rispetto alla tradizione anglosassone cognitivista che indaga invece da tempo il ruolo predittivo che tali costrutti esercitano sulla didassi d’aula e sui modi in cui il futuro insegnante valuta le parti del discorso didattico (Calderhead, Robson, 1991). Oppure si pensi al peso delle memorie biografiche dell’insegnante. Nel sapere implicito del pratico, un’influenza largamente inconsapevole viene esercitata dalla storia di vita del docente (che non è solo storia della sua “vita di Scuola”) che è frutto dell’educazione ricevuta, dei vissuti da studente, delle apicalità che ne hanno punteggiato l’esistenza. L’insieme di questi lasciti biografici, intesi come “intimità che non potrà mai essere del tutto detta” (Demetrio, 1998, p. 7), è un deposito “obliato” di impliciti (a volte scomodi da riconoscere) che intrecciano dal profondo l’identità professionale del docente. Un’ulteriore fonte di impliciti del sapere del pratico è il malessere non dichiarato ex cathedra: quel disagio che non trova facilmente parole né spazi di espressione nella cultura istituzionale attuale e che pure esiste, è oggettivo, e arriva, nei casi estremi, ad assumere il “volto” manifesto dei sintomi (Ammaturo, 2003; Portois, Mosconi, 2002). O ancora si pensi al peso degli impliciti della cultura di Scuola: la memoria-non-scritta dell’istituzione. Come gli studi practice-based di antropologia culturale (Clifford, Marcus, 1998) e di psicologia del lavoro e delle organizzazioni (Martin, 1992) evidenziano, la forza di un’istituzione risiede non solo nel valore personale dei singoli che vi operano ma anche nella “memoria” di quell’istituzione, nella sua “vita emotiva” (Rossi, 2010), in una storia fatta di miti, di riti, di valori fondanti (Levi-Strauss, 1990) che costituiscono l’aggregato informale del lavoro dei singoli che viene influenzato a loro stessa insaputa, senza costrizioni visibili. Ogni Scuola è, oltre che sistema, una comunità di pratica che ha per sfondo questo scenario simbolico (Wenger, 2006, p. 88) il quale, in modi e forme implicitamente pervasive, finisce con l’intrecciare le vite di insegnanti e allievi.

2. La costruzione co-autoriale del sapere sull’“implicito” della vita d’aula Lo studio dell’implicito della vita d’aula non è semplice perché gli impliciti sono nascosti nelle pieghe dell’ordinario “fare Scuola”, nelle routines, nella comunicazione non-verbale, nelle latenze affettive, nei gesti professionali, nell’ordine dei turni conversazionali spesso inconsapevolmente orientato. Quando si cerca “l’invisibile” in quel microcosmo opaco fatto di relazioni che è la vita di un’aula occorre pensare ad approcci metodologici che facciano apparire l’oggetto cercato dall’oscurità in cui si cela (Demetrio, 1992, p. 86). Approcci basati

11 M. van Manen definisce scrive non-cognitive knowing (conoscenza non-razionale) una particolare forma di sapere che risiede nelle azioni, nel corpo, nelle relazioni, negli universi di senso: “There are forms of knowledge that inhere so immediately in our body, in our actions, in the things around us, and in our relations with others that they seem invisible.This is how I try to make sense of the forms of noncognitive knowing. Noncognitive knowing: Knowledge resides in action as lived (in our confident doing, style, and practical tact; in habituated acting and routine practices); Knowledge resides in the body (in an immediate corporeal sense of things; in our gestures, demeanor); Knowledge resides in the world (in being with the things of our world; in situations of at homeness, dwellin); Knowledge resides in relations(in the encounter with others; in relations of trust, recognition, intimacy)”.

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su una razionalità comprensiva la quale, rispetto alla razionalità limitata (causa-effetto), non impone di isolare il particolare osservato dal quadro delle relazioni di insieme, da quel che C. Blanchard-Laville chiama il “campo pedagogico” in cui si muovono insegnanti e allievi. Gran parte degli impliciti delle pratiche educative è totalmente “impermeabile” ad approcci di tipo naturalistico-positivo che poggiano su modelli a razionalità limitata. La vita d’aula chiede “sguardi” ecologici sulla realtà e disegni di ricerca che “mettano alla prova” l’indagine con le luci e con le ombre del contesto d’aula, con l’immaginativo e l’estetico delle sue relazioni, con l’indizio e la “traccia” dell’insegnare e apprendere. Disegni che diano voce ai quattro “esistenziali” che attestano12 (Ricoeur, 1993) l’essere-nel-mondo dei protagonisti della vita d’aula: la temporalità (il tempo in aula); la spazialità (lo spazio dell’aula); la corporeità (il corpo in aula), la comunalità (le relazioni umane nell’aula). Non è l’analisi scientifica del “fatto”, dunque, che ha importanza nella ricerca dell’implicito, ma la ricaduta che il “fatto” esercita nelle rappresentazioni che se ne fanno i soggetti. Il problema metodologico è, dunque, quello di trovare i dispositivi più appropriati per dar voce alle modalità di percezione soggettiva delle esperienze della vita d’aula. Seguendo una prospettiva naturalistica13 (Sparti, 2002, p. 64), il focus sarebbe orientato su altro perché i naturalisti non si occupano né preoccupano del problema dell’individuazione degli eventi dal punto di vista di chi li vive ma guarderebbero solo i fatti14 (Schutz, 1979). Questa attenzione fondamentale alla soggettività dell’agente, al suo punto di vista sulle pratiche, alla comprensione di ciò che un certo fenomeno significa per il soggetto che lo esperisce, rende i paradigmi di ricerca fenomenologico-ermeneutico e clinico-critico particolarmente appropriati per lo studio degli impliciti delle pratiche d’aula. Essi offrono delle possibilità di indagine descrittiva, riflessiva e interpretativa che colgono l’essenza delle esperienze d’aula in modi ragionevoli più che razionalistici, caratterizzati da “distensione” (Scheler, 1999, pp. 167-8) piuttosto che dall’imperialismo conoscitivo di una razionalità analitica. L’implicito infatti si accosta con umiltà, si guarda con “occhi spalancati” (Stein, 1998), con una postura priva di pregiudizi e ricettiva, nel senso che non tende a dire ma piuttosto ad ascoltare, ad attendere pazientemente l’inatteso, a stupirsi di fronte all’impensato. L’“oggetto” osservato, infatti, non è “là fuori”, ma è il suo fenomeno, è la rappresentazione che ciascuno se ne fa. Oppure è l’invisibile, quanto si rivela solo a certe condizioni15 (Merleau-Ponty, 1999). La fedeltà al fenomeno è, dunque, particolarmente importante nella ricerca degli impliciti che sono sempre avviluppati in reti di rappresentazioni già date sulle quali occorre fare epoché per auspicare l’emergere del non-ancora-noto. L’atteggiamento di ricerca sarà dunque sensibile alla valorizzazione della persona (idiografico e personalista), attento alla sfumatura del fenomeno (qualitativo), senza però sfuggire l’onere del confronto per dare attendibilità all’interpretazione (analisi plurale, triangolazione dei risultati, restituzione plurima, co-esplicitazione). La riflessività clinico-critica risulta poi particolarmente adatta per agevolare il percorso di esplicitazione, “per riflettere, decostruire e interpretare significati,

12 L’attestazione, come è noto, è secondo Ricoeur l’impegno concreto di un sé che vive la situazione del suo essere-nel-mondo come iniziativa responsabile, come coscienza morale. 13 Assumiamo qui per ricerca naturalistica l’accezione che ne dà D. Sparti, ovvero di orientamento neo-positivistico di ricerca che non riconosce l’esistenza di altra realtà che non quella naturale e/o per estensione, sperimentalmente comprovata e riguardante fenomeni empirici che cadono sotto il dominio di leggi e regolarità naturali. 14 Scrive il celebre sociologo A. Schutz che in termini rigorosi non vi sono mai semplici fatti, ma sempre fatti interpretati, per cui della realtà noi riusciamo ad afferrare solo gli aspetti che sono rilevanti per noi. 15 Scrive Merleau-Ponty “La peculiarità del visibile è di avere una fodera di invisibile in senso stretto, che esso rende presente come una certa assenza”.

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destrutturandone le componenti simboliche e materiali” (Riva, 2000). Essa analizza le pratiche d’aula per de-costruirle16 (Isidori, 2005) e ri-costruirle attraverso una co-riflessione che viene attivata con gli stessi insegnanti. Queste le ragioni che giustificano la congruenza di tali paradigmi con uno studio degli impliciti delle pratiche d’aula: a) la primarietà accordata alla “cognizione diretta”, ovvero per acquaintance della pratica dell’insegnare. Atti di cognizione diretta sono il “sentire immediato”, la “percezione soggettiva” delle cose, l’intuizione, l’empatia. L’opera di esplicitazione, che la si chiami “chiarificazione” (Zambrano, 1993; 2003), “disfare” (Mortari, 2006, p. 43), “attendere che l’altro si presenti da sé” (Heidegger, 1989, p. 49), è basata in primo luogo su tali atti che permettono di cogliere le qualità dei fenomeni, sempre cariche di specifiche tonalità affettive, le cosiddette qualità terziarie (De Monticelli, 2003, pp. 69, 71); b) la centralità assegnata al “chi” insegnante, alla sua “voce”, alla sua intenzionalità nella ricerca. Centralità della voce insegnante non significa un privilegiare ingenuamente la soggettività insegnante come fondamento delle pratiche, ma valorizzare il suo pieno coinvolgimento nella ricerca (nessuna ricerca può dire l’implicito se l’insegnante non ne condivide meta e procedure, se non è partner attivo della ricerca e, dunque, né “destinatario”, né “fonte”17); c) l’attenzione per il sottobanco (Massa, Cerioli, 1999) del “fare scuola”; d) la condivisione del presupposto che in tutte le pratiche di insegnamento agisce la dinamica di un intreccio solidissimo fra la vita personale (e sociale) dell’insegnante e la sua vita professionale, fra il suo “fare Scuola” e il suo “modi-di-essere-nel-mondo” (Rogers, 1983), con se stesso e con gli altri; e) la preferenza di utilizzo di dispositivi idiografici18 di espressione della voce insegnante: scritture autobiografiche, Self-study,video-casi. In tutti i protocolli di ricerca sugli “impliciti” va data poi particolare attenzione alla fase della testualizzazione (Caronia, 1997, p. 42), ovvero alla trasformazione dell’esperienza della vita d’aula nelle forme testuali scelte per la ricerca. Quasi tutto il materiale di una ricerca sugli impliciti della vita d’aula è, infatti, costituito da scambi comunicativi. Che sia la trascrizione di un’intervista esplicitativa (Vermersch, 1994) o ermeneutica (Diana, Montesperelli, 2005), il racconto episodico (Perla, 2008), il commento a un video-caso (Tochon, 2009), il resoconto del ricercatore sull’andamento dell’indagine, la testualizzazione fissa l’esperienza dei protagonisti della ricerca in forme di “scrittura intermediaria” (Achard, 1994) che diventano il punto di ancoraggio dell’interpretazione e della conclusione dello studio. Questo passaggio non è senza conseguenze se il ricercatore affida l’interpretazione solo a se stesso e/o al solo gruppo dei ricercatori o se, diversamente, decide di co-costruire l’interpretazione con gli insegnanti, seguendo il paradigma della ricerca collaborativa19 (Lieberman, 1986; Benington & Hartley, 2004).

16 Decostruzione e interpretazione sono il recto e il verso dello stesso modello di ricerca fenomenologico-clinico: un modello centrato sullo smascheramento del “nascosto”, sulla chiarificazione del pregiudizio, del non-detto, dell’impensato delle pratiche d’aula. In questa prospettiva lo assumo come “modello di analisi dei discorsi e dei gesti del pratico. 17 Preferisco utilizzare la denominazione di insegnante-partner, piuttosto che quella di insegnante-fonte poiché, entro la cornice teorica in cui colloco la ricerca, l’insegnante è co-autore della conoscenza dell’insegnamento. 18 Secondo la nozione di idiografia le singolarità, pur appartenenti a un genere,vengono accostate nella ricerca come se non appartenessero ad alcuna categoria. L’opzione idiografica (che origina negli ambiti di psicologia analitica e sociale, sociologia, antropologia), risulta particolarmente adatta sul “sommerso” delle pratiche d’aula. 19 È il paradigma metodologico entro il quale mi colloco.

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Nel primo caso è alto il rischio di produrre inferenze valutative sul mondo interno dei soggetti della ricerca, “falsando” il pensiero dell’altro per avvicinarlo al proprio, come scrive J. Hersch (2006). Nel secondo caso il rischio “predatorio” viene contenuto ma la ricerca assume uno statuto diverso, quello appunto collaborativo, che chiede il rispetto di alcuni criteri. Quali? Provo a indicarli e mi avvio a concludere.

3. La collaboratività come statuto della ricerca sugli impliciti La riflessività del ricercatore assume particolare rilevanza nella ricerca sugli impliciti, per cui va compiuto il massimo sforzo di identificazione dei criteri regolatori lo “sguardo” che produce l’analisi dell’implicito delle pratiche d’aula (Desgagne, 1998; 2001; Desgagne, Berdnarz, Couture, Poirier, Lebuis, 2001). Tradizionalmente sono due le strade seguite per sciogliere i nodi di tale quaestio: la prima, di matrice positivistica, è quella del “regime” osservatore-osservato e presuppone l’indipendenza e/o preminenza del pensiero del ricercatore rispetto al pensiero del “pratico” nel processo di costruzione del sapere dell’insegnamento. Il ricercatore decide il tema della ricerca, lo propone alle Scuole, costruisce con gli insegnanti disponibili gruppi estemporanei funzionali allo sviluppo e al compimento dell’indagine. I ruoli del ricercatore e dell’insegnante sono definiti in modo top-down: il primo accompagna (mettendo in atto lo “sguardo-guida”), il secondo segue (rispondendo con lo “sguardo-cooperativo”). La seconda strada, figlia di una gnoseologia costruttivistica, tempera le inevitabili derive oggettivistiche della prima (“disgiunzione” del pensiero del ricercatore dal contesto della ricerca, attitudine “a frugare il dato”, produzione dell’oggettività a spese della soggettività interpretante, rischio di distorsioni) assumendo pienamente la responsabilità etica ed epistemica del ricercatore nel campo della ricerca. Questi, operando l’autoanalisi parallelamente al dispiegarsi del protocollo (diario della ricerca e/o il resoconto confessionale sono due possibili dispositivi di automonitoraggio), tiene alto il livello di vigilanza critica sulle proprie mosse epistemiche e sul processo di elaborazione del sapere dell’insegnamento, controllando costantemente l’implicazione personale mano a mano che l’itinerario si svolge. Anche questa strada, per quanto più adatta della prima a un disegno di ricerca sulle pratiche della vita d’aula, non è esente dal rischio del ripiegamento solipsistico del ricercatore su di sé e, dunque, della disgiunzione del suo pensare epistemico ed etico dal contesto dell’indagine. Va poi detto che i ruoli del ricercatore e dell’insegnante, per quanto meno separati, restano in questo caso ancora definiti sul piano partecipativo-cooperativo. C’è una terza via che tenta di superare i limiti delle prime due ed è quella dello statuto collaborativo della ricerca. In una ricerca collaborativa, l’insegnante diventa partner del ricercatore, per quanto permangano motivazioni diverse all’incontro: mentre il ricercatore mira a produrre conoscenza generalizzabile e comunicabile alla cité scientifique e considera le pratiche dei casi esemplari dai quali far partire le sue domande, l’insegnante racconta la pratica per confrontarla, per analizzarla, per estrarre da essa una conoscenza sulla pratica20 (Donnay, Charlier, 2006) che gli serve per sapere meglio come agire. Al di là delle divergenze di interessi, tuttavia, nella ricerca a statuto collaborativo l’insegnante informa epistemicamente ed eticamente il dato alla pari

20 J. Donnay distingue cinque posture dell’insegnante e del ricercatore nel campo della ricerca che hanno il merito di dimostrare che ricerca e pratiche sono su un continuum in cui i ricercatori e gli insegnanti possono identificare un terreno comune di riflessione.

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del ricercatore. Ciò significa che la scelta dei temi di indagine, i criteri di validità dei dati, il giudizio su ciò che conviene assumere per lo svolgimento produttivo della ricerca, la validazione degli esiti vengano negoziati sin dal primo istante, in modo condiviso. Se il ricercatore è sul campo, insomma, lo è anche l’insegnante e dunque entrambi sono legittimati a “dar forma” all’oggetto di indagine e ad assumere la responsabilità di quanto la ricerca produce o non produce. Quali le condizioni di una ricerca sulle pratiche della vita d’aula a statuto collaborativo? La prima: la costruzione di una partnership Scuole-Università non estemporanea, edificata nei tempi lunghi della conoscenza solidale e definibile, più che nei termini di academic-practitioner relationship, in quelli di co-equal relationship (Day, 1996, p. 32; Biémar, Dejean, Donnay, 2008). Come evidenziato da C. Day, da tempo nelle comunità scientifiche pedagogiche internazionali esistono esempi di academic-practitioner relationship fra Dipartimenti universitari e/o singoli accademici con Scuole o gruppi di insegnanti. Esperienze di questo tipo sono documentate da più di vent’anni in America (Hollingsworth, 1989), in Canada (Fullan, 1992), in Inghilterra (Day, 1985), in Olanda (Jansen et alii, 1995), in Francia (Donnay, 2002), in Italia (Laneve, 2006), ma si tratta di partnership nelle quali l’insegnante non è quasi mai coinvolto in una relazione co-equal, radicata in un compito comune o in una preoccupazione condivisa col gruppo dei ricercatori. Il “compito” viene perlopiù deciso da questi ultimi, le Scuole cooperano, gli insegnanti sono fonti e dunque restano nel regime del “sistema osservato”. La seconda:l’attenzione alla funzione migliorativa della ricerca. Una ricerca sulle pratiche della vita d’aula si configura anche come risposta al “bisogno” di intelligibilità e di superamento delle criticità della vita dell’aula. È dunque, in qualche modo, anche una ricerca utile nel senso in cui lo sono le ricerche evidence-based, orientate cioè a individuare ciò che “conta” o può “contare” per migliorare le pratiche educative (Slavin, 2008). La terza: l’attitudine del ricercatore a sviluppare una “sana” diffidenza nei confronti del pensare per categorie preventivamente scelte, degli “a-priorismi” analitici, delle credenze fallaci, delle “impudenze congetturali” (sono tutti idola fori dell’analisi delle pratiche). E poi, l’attenzione alla sistematica interrogazione del mondo proprio di impliciti, ovvero di quell’universo personale fatto di orientamenti esistenziali, passioni, estetiche, morali radicati nel profondo della biografia del ricercatore e che sono tali “unicamente per il loro titolare, (ma che, n.d.r.) non sono il mondo”21 (Merleau-Ponty, 1999, p. 24). Su tale universo interiore è bene esercitare quella fenomenologia del nascosto (Merleau-Ponty, 1999, p. 262), quell’autocomprensione epistemica che allena la mente a non compiere inferenze improprie sui materiali della ricerca e a temperare le tentazioni intrusive dell’Io del ricercatore “che fruga il dato” a favore, invece, dell’ascolto quieto della realtà accostata. La quarta e ultima condizione dello statuto collaborativo della ricerca sugli impliciti d’aula consiste nelle modalità di autenticazione interpretativa e di restituzione dei corpus discorsivi prodotti dall’indagine: testi e videoregistrazioni soprattutto.Trascritti di interviste, videoriprese, resoconti narrativi delle esperienze educative degli insegnanti, sono tutte forme diverse di mediazione simbolica delle pratiche e non sono né context-free, né value-free. Chiunque abbia pratica di lettura e analisi dei materiali di testualizzazione di una ricerca conosce bene i limiti insiti nella stessa pratica dell’analisi: le costrizioni retoriche indotte dalla scelta dello strumento (un’intervista di esplicitazione produce testualizzazioni diverse da un’intervista ermeneutica o da una scrittura); la tendenza a selezionare – a volte inconsapevolmente – passi dei testi a sostegno di una interpretazione piuttosto che di un’altra, a etichettare le stringhe testuali in modi che non sono mai il frutto di scelte “neutre”. Lo statuto colla-

21 Dei mondi invisibili di cui l’uomo non riesce ad avere “certezza intima” parla M. Merleau-Ponty.

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borativo della ricerca suggerisce forme co-autoriali di interpretazione che tutelano il più possibile la “misteriosa presenza dell’altro” (Laneve, 2009, p. 181) insegnante nei testi, salvaguardandone l’irriducibilità personale attraverso l’assoluta fedeltà a quanto il testo comunica e la negoziazione interpretativa. J. Hersch, allieva di K. Jaspers, ha saputo descrivere con raffinatezza lo stile di questo accostamento ai materiali dell’analisi, evidenziando che per avvicinarsi al “centro di forza” di un pensiero “altro” non basta la comprensione oggettiva. Occorre rifare, rivivere interiormente, lo stesso movimento, far risuonare dentro di sé il “timbro” dell’altro pensiero, scivolargli dentro lasciandosi trasportare fino a “pensare soggettivamente con l’autore”22 (Hersch, 2006, p. 18). Sottigliezza analitica, ascolto ricettivo dell’altro e umiltà del pensare sono le compagne pazienti di chi voglia illuminare, nella ricerca, la tacitness d’aula.

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22 Il corsivo è mio.

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informazioni VII Congresso Scientifico Nazionale UNIVERSITÀ E SCUOLA: VALUTARE PER QUALE SOCIETÀ? Padova 1-2-3 dicembre 2011

Presentazione La valutazione accompagna, oggi più che mai, la gran parte delle attività delle grandi organizzazioni, sia pubbliche che private, educative, sociali e professionali.Tutti gli ambiti e livelli del sistema formativo – in particolare Scuola, Università, Formazione continua – ne sono coinvolti, anche attraverso indagini e comparazioni internazionali. Eppure non possiamo affermare che si sia diffusa una “cultura della valutazione” in grado di sostenere le pratiche di insegnamento-apprendimento, di formazione, di gestione delle organizzazioni educative. Una “cultura della valutazione” non può essere tale se ignora il contributo della ricerca scientifica non solo della pedagogia e della docimologia, ma anche della psicologia cognitiva e sociale, della sociologia delle organizzazioni e della statistica sociale. Con l’avvertenza di una duplice complessità della valutazione educativa: una prima, riferita al sistema organizzativo dei servizi educativi alla persona dotato di autonomia (scuola e università) e, una seconda, concernente la specificità-originalità-articolazione dell’istruzione, connessa non solo alla trasmissione ma anche alla produzione della cultura attraverso la ricerca. Dimenticare o sottovalutare questa duplice complessità conduce a dare priorità nel sistema formativo, da un lato, ad esigenze di controllo e di gestione di risorse umane e finanziarie e, dall’altro lato, all’uniformità di metodi e strumenti quantitativo-statistici, scientificamente insufficienti a valutare l’efficacia della didattica e la qualità della ricerca. Non è allora retorico chiedersi, anche se qualcuno non solo tra i politici ne sembra infastidito, prima di entrare nel merito degli oggetti da valutare, quali siano le finalità della valutazione e quali gli utilizzi che si vogliono fare dei suoi risultati e chiedersi ancora se i diversi soggetti pubblici titolari di policies sociali intendano allo stesso modo l’istruzione di cui “assicurare la qualità” come “a public good and a public responsability” (Dichiarazione di Berlino del 2003 della Conferenza dei Ministri Europei dell’Educazione), ma anche come “bene relazionale” costruito nell’interazione comunicativa tra studiosi/docenti e studenti/allievi, dunque non “mercificabile”. La metafora di R. Barnett della valutazione della qualità come “campo di battaglia” rende bene il conflitto attuale tra i cambiamenti, a livello macro, delle politiche dell’istruzione scolastica e universitaria, e quelli, a livello micro, riguardanti i programmi e i contenuti di studio, i processi di insegnamento e di apprendimento, la valutazione degli studenti. A livello macro

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la valutazione di sistema è questione di potere e di controllo. A livello micro la valutazione di processo è questione di esperienze educative di persone e quindi di risultati degli studenti e di lavoro dei docenti. Lo sviluppo e il miglioramento del sistema formativo sembrano affidati sempre più a forze esterne, le quali con un movimento top-down vanno a rimpiazzare le forze interne con le loro autonomie “infrastrutturali”, che rappresentano i contesti veri del lavoro scolastico e universitario (didattica, ricerca, gestione) e i luoghi di senso educativo sia per i docenti che per gli studenti. Se autonomia delle università e delle scuole e libertà di insegnamento e di ricerca sono condizioni essenziali per un lavoro educativo di grande qualità, allora la stessa valutazione della qualità finalizzata allo sviluppo e al miglioramento del sistema non può che andare dal basso verso l’alto, secondo un movimento bottom-up, segnato dalla partecipazione di tutti gli attori interessati interni ed esterni (stakeholders). Il senso di questa valutazione partecipata e co-regolata non è quello dell’adeguamento burocratico agli standard internazionali (spesso imposti e non costruiti assieme) nella logica dei premi e delle sanzioni, ma quello della conoscenza riflessiva dei processi di insegnamento apprendimento (la didattica), dei processi di produzione dell’innovazione scientifica (la ricerca), dei processi di gestione dei servizi formativi diretti e indiretti a supporto dell’una e dell’altra (l’organizzazione). In questa prospettiva la dialettica tra macro e micro, tra sistema e processo, tra accountability e improvement può trovare vie di composizione attraverso la valorizzazione della valutazione in itinere di natura formativa, che sola può dare ragione dell’interazione tra valutazione ex ante, diagnostica e orientativa, e valutazione ex post, sommativa e certificativa. Pur con la responsabilità di dover continuare a navigare tra Scilla e Cariddi, occorre irrobustire la ricerca sulla complessità “sistemica, relazionale, euristica” del processo formativo di cui la valutazione è parte costitutiva.

Sezioni tematiche per i papers di ricerca 1. Dimensione epistemologica della ricerca tra teorie e pratiche di valutazione. 2. Metodi e strumenti di valutazione dei risultati di apprendimento degli studenti. 3. Qualità e valutazione delle organizzazioni scolastiche e formative. 4. Qualità dell’insegnamento e valutazione della didattica. 5. Innovazione didattica, nuove tecnologie e valutazione. 6. Riconoscimento, valutazione e certificazione della competenze nei e tra i contesti formali, non formali e informali. 7. Valutazione comparativa nel sistema e tra sistemi.

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SIRD • Informazioni

Comitato Scientifico e di Referaggio Luciano Galliani, Piero Lucisano, Roberta Cardarello, Armando Curatola, Franco Frabboni, Alessandra La Marca, Giovanni Moretti, Achille M. Notti, Benedetto Vertecchi, Nicola Paparella, Gaetano Domenici. PROGRAMMA Giovedì 1 dicembre Università degli Studi di Padova – Palazzo del Bo, Aula Nievo - Via VIII Febbraio Ore 15.00-18.00 Saluti delle Autorità Giuseppe Zaccaria – Magnifico Rettore dell’Università degli Studi di Padova Giuseppe Micheli – Preside della Facoltà di Scienze della Formazione Giuseppe Milan – Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione Umberto Margiotta – Presidente CIRFDA – Centro Interateneo per la Ricerca Didattica e la Formazione Avanzata Presentazione del Congresso Luciano Galliani – Presidente SIRD Relazioni di apertura Piero Lucisano, Università Sapienza di Roma “La responsabilità sociale della valutazione” Roberta Cardarello, Università degli Studi di Modena-Reggio “Ricerca didattica e valutazione” Paolo Sestito, Servizio Studi di struttura economica e finanziaria della Banca d’Italia “La valutazione del valore aggiunto della scuola” Ore 18.00: Consiglio Direttivo Ore 19.00: Assemblea dei Soci ___________________________ Venerdì 2 dicembre Università degli Studi di Padova - Facoltà di Scienze della Formazione – Aule di Piazza Capitaniato 3 e via degli Obizzi 23 Ore 09.00-13.00/14.30-18.30 Sessioni parallele – Dimensione epistemologica della ricerca tra teorie e pratiche di valutazione. – Metodi e strumenti di valutazione dei risultati di apprendimento degli studenti. – Qualità e valutazione delle organizzazioni scolastiche e formative. – Qualità dell’insegnamento e valutazione della didattica.

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– Innovazione didattica, nuove tecnologie e valutazione. – Riconoscimento, valutazione e certificazione della competenze nei e tra i contesti formali, non formali e informali. – Valutazione comparativa nel sistema e tra sistemi. Ore 20.00 – Cena Sociale Sabato 3 dicembre Università degli Studi di Padova – Palazzo del Bo, Aula Nievo - Via VIII Febbraio Ore 9.00: Assemblea dei Soci e votazioni nuovo Consiglio Direttivo Ore 10.00-13.00: Tavola Rotonda: Politiche istituzionali della valutazione Coordina: Luciano Galliani – Presidente SIRD Partecipano: Dino Cristanini - Direttore INVALSI, Stefano Fantoni - Presidente ANVUR, Alberto Vergani - Presidente AIV, Benedetto Vertecchi, Nicola Paparella, Gaetano Domenici - ex Presidenti SIRD

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NORME EDITORIALI PER GLI AUTORI E I COLLABORATORI

NORME DI CARATTERE GENERALE Documento: • Il contributo, consegnato su file e accompagnato da versione cartacea, deve essere in formato Word, in cartelle standard di circa 3000 battute, per un massimo di circa 15 cartelle, e deve contenere per ogni autore l’indicazione di: nome (per esteso), cognome, ruolo dell’autore/i, istituzione di appartenenza e indirizzo di posta elettronica. Nel caso di più autori, i nomi vanno elencati in ordine alfabetico. • Il titolo del contributo deve essere in italiano e in inglese e non deve contenere sottotitoli. • I titoli dei paragrafi devono essere brevi e concisi, evitando possibilmente l’uso di sottoparagrafi. • Vanno evitate le composizioni in carattere neretto, sottolineato, in minuscolo spaziato e integralmente in maiuscolo. Attenzione: il contributo deve essere inedito. Può contenere eventuali note di commento a pie’ di pagina e nota bibliografica in chiusura. Il contributo non deve contenere una bibliografia generale. I riferimenti bibliografici interni al testo devono essere inseriti in parentesi tonde: cognome dell’autore a cui segue la virgola e l’anno di edizione, come da esempio riportato alla lettera A) delle note bibliografiche. La nota bibliografica a fine contributo deve rispettare la citazione interna al testo secondo le regole di seguito riportate. Abstact: L’abstract (sia in lingua italiana che in lingua inglese) va collocato dopo il titolo dell’articolo e prima del testo, e non deve superare gli 800 caratteri ciascuno (spazi esclusi). Deve anche comprendere 6 parole chiave in entrambe le lingue. L’abstract deve contenere il senso dell’intero lavoro e rispondere alle domande: perché il lavoro è stato fatto, cosa è stato fatto, cosa si è dimostrato e cosa è stato concluso. Virgolette: Le virgolette alte (o apici): “ ” si usano sia per le citazioni sia per enfatizzare alcune espressioni come “per così dire”, “il cosiddetto”, ecc... Le virgolette basse (o caporali) si usano per i discorsi diretti e per le citazioni: « ». Nel caso in cui una citazione ne contenga un’altra, riportare la citazione interna con le virgolette alte “ ” e quella esterna con le virgolette basse « ». Omissioni: si segnalano con tre puntini tra parentesi quadre […].

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Note: Saranno numerate con numeri arabi progressivi. Si raccomanda un attento controllo della corrispondenza della numerazione delle note con i rinvii indicati a esponente nel testo, sempre con numeri arabi e senza parentesi. Nel testo, il rimando alla nota al piede va posto all’interno della punteggiatura: testo1. e non testo.1 Fanno eccezione i punti esclamativo e interrogativo che precedono l’esponente di nota. Citazioni: In caso di citazioni che superino le tre/quattro righe, si devono riportare in corpo più piccolo e con i margini rientrati rispetto al testo principale, staccate da un’interlinea.

Elenco puntato: Riportare l’elenco con il trattino, con rientro del punto elenco di 0,5, e rientro del testo di 0,5. Riportare il punto e virgola alla fine di ogni punto elenco e il punto alla fine dell’elenco. Esempio: – la capacità di collegare in trame concettuali le conoscenze acquisite nei corsi universitari; – l’individuazione di motivati punti di riferimento per la scelta dei contenuti; – l’individuazione dei nodi portanti, della loro valenza didattica e delle relative difficoltà cognitive. Nel caso che il punto elenco abbia un ulteriore punto elenco al proprio interno, riportare il secondo punto elenco con il pallino, con rientro del punto elenco di 1,5 e rientro del testo di 1,5. Esempio: – Possedere padronanza culturale (storico-epistemologica) della disciplina e inquadrare con cognizione i grandi temi che essa propone, cioè: • padroneggiare i concetti nelle loro articolazioni, e la struttura sintattica, semantica e concettuale della disciplina; • inquadrare e calare nel contesto le proprie conoscenze, anche integrando quelle acquisite nei corsi universitari, per cogliere la loro valenza nella formazione culturale dell’allievo. Lineette: Si distinguono due casi: per unire due parole (es. spazio-tempo), si usa il trattino breve senza nessuno spazio, né prima né dopo. Per creare un inciso all’interno di una frase si usa il trattino medio, preceduto e seguito da uno spazio. Parole straniere: Vanno in carattere tondo le parole straniere che sono entrate nel linguaggio corrente, come: on-line, boom, cabaret, chic, cineforum, computer, dance, film, flipper, gag, garage, horror, leader, monitor, pop, rock, routine, set, spray, star, stress, tea, thè, tic, vamp, week-end, ecc. Esse vanno poste nella forma singolare. In genere vanno in carattere corsivo tutte le parole straniere. Vanno inoltre in carattere corsivo: alter ego (senza lineato breve unito), aut-aut (con lineato breve unito), budget, équipe, media (mezzi di comunicazione), passim, revival, sex-appeal, sit-com (entrambe con lineato breve unito), soft. Accenti: In italiano le vocali a, i, u, richiedono solo l’accento grave (à, ì, ù); la e richiede l’accento acuto in finale di parola in tutti i composti di che (poiché, affinché, cosicché ecc.). Si scrivono con l’accento grave: è, cioè, caffè, tè, ahimè, piè; le parole straniere entrate nell’uso della lingua italiana (gilè, canapè, bignè) e i nomi propri di persona (Noè, Giosuè, Mosè). Si accenta dà (terza persona singolare del verbo dare) e si apostrofa da’ (imperativo presente dello stesso

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verbo) per distinguerle dalla omofona da (preposizione); si afostrofa fa’ (imperativo presente di fare) ma è un grave errore accentare tanto fa (terza persona singolare dello stesso verbo) quanto fa (avverbio o nota musicale). La terza persona singolare del verbo essere, quando è maiuscola, va accentata (È) e non apostrofata (E’). Parentesi: Le parentesi tonde si usano per isolare dal contesto una frase o una parola e per evidenziare un richiamo ad altra parte del testo. Le parentesi quadre si usano all’interno delle tonde, per evidenziare un salto o una mancanza di testo, per introdurre in una citazione tra virgolette il commento dell’autore. La punteggiatura che si riferisce al testo principale va posta fuori dalla parentesi di chiusura. Segni di interpunzione e caratteri di stampa: • I segni di interpunzione (, : ; ! ?) e le parentesi che fanno seguito ad una o più parole in corsivo si compongono sempre in tondo, a meno che non siano parte integrante del brano in corsivo. • I periodi interi fra virgolette o fra parentesi avranno il punto fermo dopo la parentesi di chiusura. Si compongono in tondo: • gli articoli contenuti nelle testate di giornali, riviste, collane e in genere periodici di ogni tipo; Si compongono in tondo fra doppi apici (“tondo”): • all’interno delle citazioni, le parole che normalmente richiedono l’uso delle virgolette basse; • le parole usate in un’accezione diversa dalla loro usuale, o con particolare coloritura.

Numeri delle pagine e degli anni: vanno indicati per esteso (ad es.: pp. 112-146 e non 112-46; 113-118 e non 113-8; 1953-1964 e non 1953-964 o 1953-64 o 1953-4). L’ultima pagina di un volume è pari e così va citata. In un articolo la pagina finale dispari esiste, e così va citata solo qualora la successiva pari sia di un altro contesto; altrimenti va citata, quale ultima pagina, quella pari, anche se bianca. Le cifre della numerazione romana vanno rispettivamente in maiuscoletto se la numerazione araba è in numeri maiuscoletti, in maiuscolo se la numerazione araba è in numeri maiuscoli (ad es.: xxiv, 1987; XXIV, 1987). Immagini: Le immagini, i grafici, i diagrammi vanno riportati in bianco e nero e con risoluzione di almeno 600 pixels. È pertanto necessario verificare che ci sia una buona definizione dei colori all’interno di una scala di grigi. Le immagini vanno inserite nel corpo del testo, ma è bene anche fornire i file a parte delle immagini in formato .jpg o .tiff o .pdf. Nel caso di grafici e diagrammi è bene fornire anche il file excel da cui sono stati tratti. È comunque necessario cercare di limitare il n. di immagini e grafici presenti nel testo. Tabelle: Le tabelle vanno inserite nel corpo del testo e non devono superare in larghezza i 13 cm. Didascalie tabelle, grafici o figure: Riportare l’abbreviazione Tab. per la tabella, Fig. per figura e Graf. per grafico, seguito dal numero, dai due punti e dal titolo. Esempio: (Fig.1: Il progetto della Sird)

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Siti Internet: I siti Internet vanno citati in tondo minuscolo senza virgolette qualora si specifichi l’intero indirizzo elettronico (es.: www.libraweb.net; www.supergiornale.it). Se invece si indica solo il nome, essi vanno in corsivo alto/basso senza virgolette al pari del titolo di un’opera (es.: Libraweb; Libraweb.net); vanno in tondo alto/basso fra virgolette a caporale qualora si riferiscano a pubblicazioni elettroniche periodiche (es.: «Supergiornale»; «Supergiornale.it»). Riferimenti normativi Riportare i riferimenti per esteso, indicando il tipo di normativa, la data e il numero in grassetto, seguito da trattino e titolo in stile normale. Esempio: D.P.R. 31 luglio 1996, n. 470 - Regolamento concernente l’ordinamento didattico della Scuola di Specializzazione per la formazione degli insegnanti di Scuola Secondaria. Glossari Riportare la parola chiave in grassetto. Riportare la definizione dopo lo spazio di una riga. Esempio: Abilità (Skill) Insiemi più o meno ramificati di contenuti di conoscenza, che possono essere sistemi simbolici, corpi di credenze, quadri disciplinari, specifici quadri teorici e/o interpretativi della realtà, dell’esperienza, della condotta. Abbreviazioni (alcune) a. = annata a.a. = anno accademico a.C. = avanti Cristo ad es. = ad esempio ad v. = ad vocem (c.vo) anast. = anastatico app. = appendice art., artt. = articolo, -i autogr. = autografo, -i cap., capp. = capitolo, -i cfr. = confronta cit., citt. = citato, -i cl. = classe cm, m, km, gr, kg = centimetro, ecc. (senza punto basso) cod., codd. = codice, -i col., coll. = colonna, -e cpv. = capoverso c.vo = corsivo (tip.) d.C. = dopo Cristo ecc. = eccetera ed., edd. = edizione, -i es., ess. = esempio, -i et alii = et alii (per esteso; c.vo) f., ff. = foglio, -i f.t. = fuori testo facs. = facsimile fasc. = fascicolo Fig., Figg. = figura, -e (m.lo/m.tto)

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lett. m.lo m.lo/m.tto m.tto misc. ms., mss. n.n. n., nn. N.d.A. N.d.C. N.d.E. N.d.R. N.d.T. nota n.s. n.t. op., opp. op. cit., opp. citt. p., pp. par., parr., §, §§ passim r rist. s. s.a. s.d. s.e. s.l. s.l.m. s.n.t. s.t. sec., secc. sez. sg., sgg. suppl. supra t., tt. t.do Tab., Tabb. Tav., Tavv. tip. tit., titt. trad. v v., vv. vedi vol., voll.

= lettera, -e = maiuscolo (tip.) = maiuscolo/maiuscoletto (tip.) = maiuscoletto (tip.) = miscellanea = manoscritto, -i = non numerato = numero, -i = nota dell’autore = nota del curatore = nota dell’editore = nota del redattore = nota del traduttore = nota (per esteso) = nuova serie = nel testo = opera, -e = opera citata, opere citate (c.vo perché sostituiscono anche il titolo) = pagina, -e = paragrafo, -i = passim (la citazione ricorre frequente nell’opera citata; c.vo) = recto (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = ristampa = serie = senza anno di stampa = senza data = senza indicazione di editore = senza luogo = sul livello del mare = senza note tipografiche = senza indicazione di tipografo = secolo, -i = sezione = seguente, -i = supplemento = sopra = tomo, -i = tondo (tip.) = tabella, -e = tavola, -e = tipografico = titolo, -i = traduzione = verso (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = verso, -i = vedi (per esteso) = volume, -i

Nelle abbreviazioni in cifre arabe degli anni, deve essere usato l’apostrofo (ad es.: anni ’30). I nomi dei secoli successivi al mille vanno per esteso e con iniziale maiuscola (ad es.: Settecento); con iniziale minuscola

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vanno invece quelli prima del mille (ad es.: settecento). I nomi dei decenni vanno per esteso e con iniziale minuscola (ad es.: anni venti dell’Ottocento).

NOTE BIBLIOGRAFICHE Le citazioni bibliografiche devono essere complete di tutti gli elementi, nell’ordine in cui segue: 1. cognome e nome (appuntato) dell’Autore in tondo (se gli autori sono due o più andranno separati da una virgola); 2. data di pubblicazione contenuta tra parentesi tonda (1987); 3. titolo dell’opera in corsivo; 4. eventuale indicazione del volume con cifra romana; 5. numero dell’edizione, quando non è la prima, con numero arabo in esponente all’anno citato (es.: 19322); 6. luogo di pubblicazione (seguito da virgola); 7. nome dell’editore e, per le edizioni antiche, del tipografo; 8. rinvio alla pagina (p.) o alle pagine (pp.): esempio: pp. 1-12, 21-25, 217-218, 315-324, 495-502. Tutti i suddetti elementi vanno separati tra loro da una virgola. Alcuni esempi A) Citazioni interne al testo Il cognome di ogni autore citato va in parentesi tonda seguito da un virgola e dall’anno di edizione. Usare il punto e virgola se gli autori sono più di uno (Berndt, 2002; Harlow, 1983). ……… Kernis (1993) ………………Wegener and Petty (1994) Se i nomi degli autori non sono contenuti nel testo (Kernis, 1993) (Wegener & Petty, 1994) In citazioni successive dello stesso volume o dove sono presenti più di sei autori segnalare solo il cognome del primo autore ed inserire “et al.” Harris et al. (2001) afferma... (Kernis et al., 1993) (Harris et al., 2001) 1. Per autori con lo stesso cognome inserire l’iniziale del nome. (E. Johnson, 2001; L. Johnson, 1998) 2. Per i testi dello stesso autore pubblicati nello stesso anno usare l’ordine alfabetico (a, b, c) La ricerca di Berndt (1981a) illustra..... 3. Citazioni fonti indirette Johnson afferma che...(come citato da Smith, 2003, p. 102). 4. Fonti elettroniche Usare lo stile autore-data Kenneth (2000) spiega...

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B) Riferimenti generali Un solo autore Al cognome segue l’iniziale del nome. Berndt T. J. (2002). Friendship quality and social development. Current Directions in Psychological Science, 11, pp. 7-10. Due o più autori Lista dei nomi, virgola e iniziali dei nomi. Wegener D. T., & Petty R. E. (1994). Mood management across affective states: the hedonic contingency hypothesis. Journal of Personality & Social Psychology, 66, pp. 1034-1048. Lista di autori Kernis M. H., Cornell D. P., Sun C. R., Berry A., Harlow T., Bach J. S. (1993).There’s more to self-esteem than whether it is high or low: the importance of stability of self-esteem. Journal of Personality and Social Psychology, 65, pp. 1190-1204. Berndt T. J. (1999). Friends’ influence on students’ adjustment to school. Educational Psychologist, 34, pp. 15-28. Berndt T. J., Keefe K. (1995). Friends’ influence on adolescents’ adjustment to school. Child Development, 66, pp. 1312-1329. Wegener D. T., Kerr N. L., Fleming M. A., & Petty R. E. (2000). Flexible corrections of juror judgments: implications for jury instructions. Psychology, Public Policy, & Law, 6, pp. 629-654. Wegener D.T., Petty R. E., & Klein D. J. (1994). Effects of mood on high elaboration attitude change: the mediating role of likelihood judgments. European Journal of Social Psychology, 24, pp. 25-43. Organizzazioni American Psychological Association. (2003).

C) Riferimenti bibliografici Introduzioni e Prefazioni Citare le informazioni sulla pubblicazione specificando se: Introduzione, Prefazione, Postfazione.Tale regola è applicabile anche al contributo di un periodico. Funk R. & Kolln M. (1998). Introduction. In E.W. Ludlow (Ed.), Understanding English Grammar (pp. 12). Needham, Allyn and Bacon. Articoli Autore A. A., Autore B. B., & Autore C. C. (Anno).Titolo del contributo. Titolo del periodico, numero del volume in corsivo (numero del fascicolo), pagine. Harlow H. F. (1983). Fundamentals for preparing psychology journal articles. Journal of Comparative and Physiological Psychology, 55, pp. 893-896. Scruton R. (1996). The eclipse of listening. The New Criterion, 15(30), pp. 5-13. Article in quotidiani Henry W. A., III. (1990, April 9). Making the grade in today’s schools. Time, 135, pp. 28-31. Lettere Moller G. (2002, Agosto). Ripples versus rumbles [Lettera all’editore]. Scientific American, 287(2), 12.

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Riferimenti in volumi Autore A. A. (Anno di pubblicazione). Titolo del volume. Lettera maiuscola anche per il sottotitolo. Luogo di edizione: Casa Editrice. Calfee R. C., & Valencia R. R. (1991). APA guide to preparing manuscripts for journal publication.Washington: American Psychological Association. Curatele Duncan G. J., & Brooks-Gunn J. (Eds.). (1997). Consequences of growing up poor. New York: Russell Sage Foundation. Volumi con autori e curatori Plath S. (2000). The unabridged journals (K.V. Kukil, Ed.). New York: Anchor. Traduzioni Laplace P. S. (1951). A philosophical essay on probabilities. (F. W. Truscott & F. L. Emory, Trans.). New York: Dover. (Edizione originale pubblicata 1814). Articoli o Capitoli contenuti in un Volume Autore A. A., & Autore B. B. (Anno di pubblicazione). Titolo di capitolo. In A. Editor & B. Editor (Eds.), Tiolo del libro (pagine del capitolo). Luogo: Casa Editrice. O’Neil J. M., & Egan, J. (1992). Men’s and women’s gender role journeys: metaphor for healing, transition, and transformation. In B. R. Wainrib (Ed.), Gender issues across the life cycle (pp. 107-123). New York: Springer. Multivolumi Wiener P. (Ed.). (1973). Dictionary of the history of ideas (Vols. 1-4). New York: Scribner’s. Altri Riferimenti Bergmann P. G. (1993). Relativity. In The new encyclopedia britannica (Vol. 26, pp. 501-508). Chicago: Encyclopedia Britannica. Coltheart M., Curtis B., Atkins P., & Haller M. (1993). Models of reading aloud: dual-route and paralleldistributedprocessing approaches. Psychological Review, 100, pp. 589-608. Yoshida Y. (2001). Essays in urban transportation (Tesi di Dottorato, Boston, College, 2001). Dissertation Abstracts International, 62, 7741A. National Institute of Mental Health. (1990). Clinical training in serious mental illness (DHHS Pubbblicazione ADM 90-1679). Washington, Government Printing Office. Conferenze Schnase J. L., & Cunnius E. L. (Eds.). (1995). Proceedings from CSCL ‘95: The First International Conference on Computer Support for Collaborative Learning. Mahwah: Erlbaum. Pubblicazioni Web o articoli da un periodico Online Autore A. A., & Autore B. B. (Data di pubblicazione).Titolo dell’articolo. Titolo del Periodo Online, numero del volume(numero del fascicolo, se presente). Estratto da http://www.someaddress.com/full/url/ Articoli presenti in Database Smyth A. M., Parker A. L., & Pease D. L. (2002). A study of enjoyment of peas. Journal of Abnormal Eating, 8(3), pp. 120-125.

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