Italian Journal of Special Education for Inclusion n. 1, 2013

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anno I | n. 1 | giugno 2013


Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)

anno I | n. 1 | giugno 2013

Abbonamenti Enti / Scuole / Istituzioni: Italia euro 40,00 • Estero euro 60,00 • online 20,00 Studenti universitari: Italia euro 30,00 • Estero euro 50,00 • online 10,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori – Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze Tel. +055 6483201 - Fax +055 641257 La rivista, consultabile in rete, sul sito www.sipesjournal.it può essere acquistata nella sezione e-commerce del sito www.pensamultimedia.it Le note editoriali della rivista sono disponibili nel sito www.sipesjournal.it

Editore Pensa MuliMedia Editore s.r.l. – Via Arturo Maria Caprioli, 8 – 73100 Lecce tel. 0832.230435 – www.pensamulimedia.it – info@pensamulimedia.it Iscritta al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 11735 • C.C.I.A.A. 241468

Iscritta al n. 9 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 14 maggio 2013 ISSN 2282-5061 (in press) / ISSN 2282-6041 (on line) htp://www.sipesjournal.it I numero: Finito di Stampare nel mese di giugno 2013 Per l’invio dei contribui e per comunicazioni: sipesjournal@pensamulimedia.it / 06.57334093

Gli aricoli pervenui sono sotoposi a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendeni da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicai agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accetare ai fini della pubblicazione. Sono accetai solo gli aricoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere posiivo. In caso di giudizi fortemente contrastani ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scienifico. Il Board, tutavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noi nel primo numero dell'annata successiva.


DIRETTORE RESPONSABILE Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano)

COmITATO SCIENTIFICO Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Anna maria Favorini (Università Roma Tre) Carlo Fratini (Università di Firenze) Francesco Gatto (Università di Messina) maura Gelati (Università Milano Bicocca) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) michele mainardi (SUPSI, Svizzera) margherita merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) maurizio Sibilio (Università di Salerno) Darja Zorc-maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COmITATO DI REDAZIONE mauro Carboni (Università del Foro Italico, Roma) Catia Giaconi (Università di Macerata) Annalisa morganti (Università di Perugia) Stefania Pinnelli (Università del Salento, Lecce) marina Santi (Università di Padova) Tamara Zappaterra (Università di Firenze)


indice /summary

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Editoriale / LUIGI D’ALOnzO

I. RIFLESSIONE TEORICA

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ALAIn GOUSSOT Nuove prospettive per la pedagogia speciale: piste e proposte di ricerca /

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AnGELA MAGnAnInI Sentieri e segni della Storia della Pedagogia speciale: educazione, corporeità e disabilità in Edouard Séguin /

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AnTOnELLO MURA, AnTIOCO LUIGI zURRU Elementi per una rilettura pedagocico-speciale di un «serious philosophical problem» /

49

MAURO CARBOnI Sulle “tracce” della corporeità nella pedagogia speciale /

II. REvISIONE SISTEmATICA

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LUCIO COTTInI, AnnALISA MORGAnTI Evidence based education and special education: a possible dialogue /

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PAOLA MOLTEnI, KAREn GULDBERG Promoing mulidisciplinary teamwork for auism: an English school experience /


III. ESITI DI RICERCA

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ROBERTA CALDIn, ALESSIA CInOTTI Different mirrors. Sibship, disability and life phases /

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ELISABETTA GhEDIn Challenges and Opportuniies for Inclusive Educaion: The co-teaching pracice /

133

AnDREA FIORUCCI, STEFAnIA PInnELLI Audio descrizione e disabilità visiva /

149

AnnA MATAMALA, PILAR OREIRO Standardising Audio Descripion /

157

JOEL SAnTOS, MARGARIDA CéSAR, GRACInDA hAMIDO Teachers and other educational agents’ sentiments, attitudes and concerns about inclusion: portuguese data /

Iv. ALTRI TEmI 173

MARGhERITA MERUCCI La séparation de la famille: un moyen pour promouvoir l’autonomie /

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LESSICO Pedagogia Speciale / AnDREA CAnEVARO

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Recensioni


Editoriale / È con emozione che mi accingo a scrivere questo editoriale. Con il presente numero, infatti, una nuova rivista si affaccia ufficialmente all’orizzonte della produzione scientifica: l’Italian Journal of Special Education for Inclusion. La rivista è stata fortemente voluta dalla Società Italiana di Pedagogia Speciale (SIPeS) per poter offrire a tutto il mondo accademico, scolastico, educativo, sociale e politico uno strumento ed un’opportunità. L’Italian Journal of Special Education for Inclusion si propone come lo strumento di riflessione scientifica di una società pedagogia che indirizza le sue attenzioni sulla pedagogia speciale e sulla didattica speciale.

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La SIPeS, infatti, ha i seguenti intendimenti primari: ¢ promuovere la ricerca nel campo della pedagogia speciale e diffonderne i risultati; ¢ valorizzare le buone prassi educative, didattiche e formative che favoriscono il pieno sviluppo e i processi d’integrazione e di educazione inclusiva delle persone con bisogni educativi speciali; ¢ favorire lo sviluppo dei rapporti tra i cultori, i professionisti e le associazioni che operano nel settore della pedagogia speciale in campo universitario, scolastico ed extrascolastico; ¢ sollecitare i responsabili politici e istituzionali, il mondo culturale e la società civile a prendere coscienza dei bisogni delle persone con esigenze educative speciali e assumere decisioni conseguenti; ¢ promuovere la formazione e la ricerca nell’ambito della cooperazione internazionale. Essa opera in Italia con tutti i suoi soci appartenenti al mondo accademico innanzitutto, e accoglie anche professionisti del mondo educativo exstrascolastico. La rivista nasce anche dal desiderio di offrire un’opportunità a tutti coloro che dedicano impegno e lavoro alle questioni legate alle tematiche dell’inclusione sociale, educativa, scolastica e lavorativa, di persone che presentano deficit fisici, sensoriali o mentali, problematiche particolari, caratteristiche specifiche, peculiarità appunto “speciali”. La sua presenza ha anche lo scopo di dare voce ad un settore pedagogico e didattico, quello della pedagogia e didattica speciale, che non ha molte opportunità per pubblicare le proprie ricerche e le proprie riflessioni. Le questioni educative speciali non sono al primo posto degli interessi culturali dei più, e le difficoltà presenti nelle persone con deficit o con problemi sovente vengono tralasciati, spesso perché si ritiene che non trovino risonanza, riguardando in effetti un numero limitato di persone. Tuttavia è bene ricordare che in Italia abbiamo circa 3 milioni di persone con disabilità pari a circa il 5% dell’intera popolazione. Il 2% viene certificato a scuola. Effettivamente le cifre paiono di moEditoriale I numero


desta entità, ma queste percentuali diventano significative se si opera per la crescita dell’uomo e quindi di tutti gli uomini. Se la prospettiva è creare una società in cui tutti possano trovare le opportunità per mettere in atto le potenzialità personali al fine di diventare uomini e donne migliori, completi e quindi “più uomini”, il prendersi cura delle persone con problemi diventa un imperativo imprescindibile per ogni sistema educativo, scolastico e sociale, una priorità. Il valore della pedagogia speciale, quindi, non dipende dalle cifre o dalle percentuali, non si basa su criteri economici, ma va al di là di qualsiasi considerazione o misurazione quantitativa, poiché dà la cifra dello stadio di civiltà di una società. Se una comunitá ha cura dei più deboli, è una comunità con un grado di accoglienza molto elevato; se una scuola opera bene sul piano inclusivo è una scuola di qualità per tutti; se un ambiente sociale rispetta coloro che presentano limitazioni, investendo in servizi e in infrastrutture idonee ed accessibili, di sicuro è un ambiente sociale progredito sul piano culturale. Il termometro della nostra società sono le persone con problemi: se godono di attenzioni, se vengono riconosciute, se ricevono la giusta cura educativa, se i programmi pedagogici sono rivolti ad un progetto di vita significativo per ognuno di loro, significa che ci troviamo in un contesto civile eticamente e culturalmente ricco. I nostri governanti non dovrebbero mai dimenticare questa verità: quando ci si occupa di coloro che sono in situazioni di precarietà personale o sociale significa che ci si dedica al “cuore” del proprio Paese e un cuore ricco di attenzioni per gli altri è un cuore eccezionale. Rivolgersi all’estero Le esperienze inclusive che si sono effettuate in questi anni rappresentano per i cittadini italiani una ricchezza e un punto di riferimento: da oltre 40 anni in Italia i disabili possono accedere al mondo scolastico “normale”; chiunque e con qualsiasi condizione o limitazione personale ha la possibilità di poter frequentare le aule scolastiche di tutti. La pedagogia speciale italiana ha sostenuto in l’idea rivoluzionaria che la scuola deve essere aperta a tutti, anche a coloro che hanno più bisogni degli altri di attenzioni e cure educative; essa ha anche promosso quel processo integrativo che ora chiamiamo tutti “inclusivo” cercando di chiarire le questioni nodali di questo cammino, illuminando i percorsi, favorendo consapevolezze. D’altronde è questo il compito della pedagogia speciale: orientare il focus sull’azione educativa rivolta a persone che collocano la loro “diversità” all’attenzione del mondo. Questa esperienza ha portato l’Italia ad essere uno dei pochi Paesi al mondo a rispettare con le sue leggi, le persone con disabilità, infatti, il cuneo dell’esperienza scolastica ha aperto la strada anche all’integrazione sociale e lavorativa totale. Questo fatto, che noi in Italia spesso dimentichiamo o minimizziamo, rappresenta una conquista civile straordinaria che merita di essere conosciuta anche all’estero. Troppo spesso, infatti, insigni studiosi stranieri, riconosciuti ed apprezzati per i loro lavori e le loro ricerche, non conoscono la realtà inclusiva italiana, perché raramente gli studi scientifici promossi in Italia varcano i confini; il mondo scientifico pedagogico non si rende conto, perciò, della qualità dei risultati raggiunti in questo settore. Ebbene questa rivista ha l’ambizione di colmare questo vuoto, desidera ospitare e comunicare a tutto il mondo scientifico pedagogico speciale la qualità e la serietà della ricerca e della riflessione scientifica italiana. È un impegno doveroso che speriamo di realizzare trovando vasta eco nelle realtà accademiche e scientianno I | n. 1 | 2013

LUIGI D’ALOnzO

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fiche oltre confine. Il nostro intento è quello, perciò, non solo di dare spazio nei numeri della rivista a lavori in lingua di colleghi e studiosi che desiderano proporre le loro idee e le conclusioni delle loro ricerche, ma anche di pubblicare articoli di autori italiani in lingua perché siano letti ed apprezzati all’estero.

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In questo numero gli articoli di colleghi stranieri ospitati sono i seguenti: • Promoting multidisciplinary teamwork for autism: an English school experience di Karen Guldberg direttrice dell’ Autism Centre for Education and Research, University of Birmingham (UK) in collaborazione con Paola Molteni, CeDisMa - Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano. • Standardising Audio Description di Anna Matamala e Pilar Oreiro dell’Universitat Autònoma de Barcelona. • Teachers and other educational agents’ sentiments, attitudes and concerns about inclusion: portuguese data di Joel Santos, Margarida César e Gracinda hamido dell’Universidade de Lisboa e dell’Escola Superior de Educacao de Saterem. • La séparation de la famille: un moyen pour promouvoir l’autonomie di Margherita Merucci, Psychologue, Docteur en Psychologie; Enseignant Chercheur Université Chatholique de Lyon. Come SIPeS sentiamo forte la responsabilità di diffondere maggiormente la cultura inclusiva pedagogica speciale e didattica speciale in Italia e nel mondo. Lo meritano i nostri studiosi, ma lo rivendicano soprattutto le persone con problemi le quali potranno incrementare le loro potenzialitá e la loro umanitá se vivranno quotidianamente esperienze educative e didattiche di valore. In questo numero trovano poi spazio le riflessioni e gli esiti delle ricerche di alcuni studiosi italiani: • Alain Goussot tratta il tema sulle “nuove prospettive per la pedagogia speciale: piste e proposte di ricerca”; • Angela Magnanini affronta il tema “Sentieri e segni della Storia della Pedagogia speciale: educazione, corporeità e disabilità in Edouard Séguin”; • Antonello Mura e Antioco Luigi zurru prendono in esame il tema sugli “Elementi per una rilettura pedagocico-speciale di un «serious philosophical problem»; • Mauro Carboni ci conduce “Sulle ‘tracce’ della corporeità nella pedagogia speciale”; • Lucio Cottini e Annalisa Morganti si interrogano sull’”Evidence based education and special education: a possible dialogue”; • Roberta Caldin e Alessia Cinotti affrontano il tema “Different mirrors. Sibship, disability and life phases”. • Elisabetta Ghedin con “Challenges and Opportunities for Inclusive Education: The co-teaching practice”; • Andrea Fiorucci e Stefania Pinnelli sviluppano il tema dell’“Audio descrizione e disabilità visiva”.

Editoriale I numero


La rivista termina con la sezione “LESSICO”. In questo numero ospita la riflessione di Andrea Canevaro, Presidente onorario della SIPeS ma, soprattutto, faro luminoso della pedagogia speciale italiana e grande studioso capace di creare cultura pedagogico speciale. È bello terminare con le sue parole: “La pedagogia Speciale non è una sola persona, una sola azione, un solo progetto, un solo punto di vista… ma è una continua composizione di rapporti, di azioni, di progetti, di punti di vista. È soprattutto molte domande. Che non sempre trovano risposte in ciò che già è conosciuto. Pedagogia Speciale non dovrebbe avere la presunzione, fallimentare per la sua stessa esistenza, di considerare degne unicamente le domande a cui sa già dare risposta. Dovrebbe imparare a vivere con domande che non la trovano già preparata. Il suo compito è di cercare le risposte senza la sicurezza di trovarle. Il suo compito è di convivere con domande aperte, e quindi reali, autentiche. Le domande nascono dagli incontri con soggetti che hanno punti di vista diversi, o vite diverse. Pedagogia Speciale vive bene negli incontri, e vive male nel narcisismo e nella chiusura in se stessa”. Con l’Italian Journal of Special Education for Inclusion desideriamo attuare questo proposito: incontrare per dialogare, riflettere insieme per poi diffondere la cultura pedagogica speciale, confrontarsi per non chiudersi.

26.05.13

Luigi d’Alonzo

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LUIGI D’ALOnzO



Nuove prospettive per la pedagogia speciale: piste e proposte di ricerca

Keywords: Specialized Pedagogy, new research, epistemology, crosscultural approach, adult with disabilities, coeducation

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno I | n. 1 | 2013

Š Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The article introduce a reflexion about the possibility to open and develop new ways for pedagogical research connect with others scientific disciplines. Four ways to explore: 1) research about epistemological and conceptual level in specialized pedagogy 2) people and children in multicultural context: crosscultural approaches and children of immigrated families with disabilities and special needs 3) adults with complex disabilities: ageing process and social inclusion 4) coeducation: a new approach for scholastic and social inclusion, construction of the educative bonds.

abstract

Alain Goussot, Dipartimento di Psicologia, UniversitĂ degli Studi di Bologna / alain.goussot@unibo.it

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“L’intero processo di apprendimento è una fonte di sviluppo che attiva numerosi processi che non potrebbero svilupparsi di per se stessi senza l’apprendimento” (L. Vygotskij, 1974).

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Questo breve contributo vuol essere semplicemente uno stimolo alla riflessione per la ricerca scientifica nell’ambito della pedagogia speciale. Dopo più di trent’anni di scuola dell’integrazione e di pubblicazioni e ricerche nell’ambito della pedagogia speciale, ci proponiamo qui d’individuare delle nuove piste di ricerca, che possono diventare anche delle proposte per lo sviluppo futuro della riflessione scientifica sulle metodologie educative nell’ambito degli apprendimenti di soggetti con bisogni speciali e disabilità, nella prospettiva di percorsi inclusivi sia nella scuola che nella vita sociale. Pensiamo che un chiarimento sul piano concettuale e semantico sia fondamentale per il profilo epistemologico della pedagogia speciale, in una prospettiva rinnovata e innovativa, che deve tener conto dell’evoluzione sociale, culturale e scientifica di questi ultimi anni. Ma senza capire quale sono i fondamentali, diventa anche difficile proiettarsi nel futuro e si rischia di non avere l’autonomia epistemologica, necessaria per confrontarsi in modo produttivo con le altre discipline nel campo delle scienze umane. Un approfondimento sulla semantica concettuale, quindi sulle terminologie, diventa strategico sul piano scientifico poiché costituisce la mappa con la quale funzionano tutte le discipline che contribuiscono sia alla conoscenza che all’evoluzione della condizione umana. Inoltre i cambiamenti antropologici, intervenuti in questi ultimi anni con la cosiddetta globalizzazione, hanno trasformato la nostra società in senso multiculturale e hanno anche modificato un grande numero delle nostre rappresentazioni e dei nostri schemi mentali: in che misura la pedagogia speciale è davvero attrezzata per rendere fecondo il rapporto tra disabilità, bisogni particolari e differenze culturali? La presenza, per esempio, di molti alunni e adulti con deficit, disabilità o/e disturbi di vario tipo provenienti da altri mondi culturali pone una serie di sfide al rinnovamento della pedagogia speciale ma anche a quelle discipline che contribuiscono (psicologia, neuropsichiatria, medicina, neuroscienze) a fornire risposte in ambito più clinico e terapeutico. Un’altra questione importante è quella della presenza significativa di persone adulte con deficit e disabilità, anche i disabili diventano adulti e invecchiano: in che misura il ciclo di vita interessa la pedagogia speciale e quale sfida rappresenta per chi si trova a gestire in ambito familiare e sociale la relazione di aiuto e di cura? Un altro terreno d’innovazione ci sembra quello della costruzione dell’alleanza educativa tra scuola, genitori-famiglie e territorio: quale patto educativo condiviso, come costruirlo, come attivare un processo co-educativo facilitante i percorsi d’inclusione e la realizzazione di un progetto di vita? In questo senso in che misura la pedagogia speciale come pratica di mediazione non sia anche una pedagogia ecologica dello sviluppo umano? Sono le 4 piste di lavoro e di ricerca che abbiamo individuato sulla base di una lettura dei bisogni nuovi emersi in questi ultimi anni; ci sembra che potrebbero costituire 4 filoni sui quali potenziare la ricerca per dare un nuovo soffio alla pedagogia speciale e situarla in una prospettiva dinamica e innovativa sul piano scientifico.

I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


1. Epistemologia e quadro concettuale Lavorare sul piano dell’epistemologia della pedagogia speciale vuol dire lavorare sui fondamentali concettuali e storici; su quello che Gaston Bachelard chiamava il profilo epistemologico, cioè l’insieme di sapere, conoscenze, metodi e strumenti della disciplina. Ma per fare questo, sempre per riprendere la riflessione dell’epistemologo francese, occorre focalizzare bene il suo oggetto epistemologico, per potere precisare il campo oggettuale della pedagogia speciale in ambito scientifico occorre, anche, ricostruire il suo percorso, le sue fonti, la sua evoluzione storica e il tipo di mappa concettuale prodotto in quel percorso (Bachelard, 2009). Per precisare ancora meglio possiamo utilizzare la distinzione effettuata da Lev Vygotskij, che può essere annoverato tra le figure fondatrici della pedagogia speciale contemporanea, nel suo testo Pensiero e linguaggio, tra concetti spontanei quotidiani e concetti scientifici, tra il pensare per complessi e il pensare per concetti: i primi sono il frutto della pratica e sono inconsapevoli perché presenti implicitamente nell’azione; mentre i secondi sono volontari e intenzionali nella misura in cui si costruiscono come attrezzi per organizzare i dati empirici dell’esperienza pratica vissuta (Vygotskij, 1992). Negli ultimi anni vi sono stati diversi studi di ricostruzione di quello che possiamo chiamare la genealogia della pedagogia speciale – per riprendere l’espressione che usa Michel Foucault per parlare dei fondamenti della disciplina psichiatrica e clinica – cioè di analisi delle varie tappe dell’evoluzione storica della pedagogia che si occupa dell’educazione, della formazione e dello sviluppo degli apprendimenti di soggetti con bisogni speciali, con deficit e disabilità (Foucault, 2004; Canevaro, 2005; Bocci, 2012, Goussot, 2007). Vuol dire anche ricostruire l’evoluzione dei rapporti tra pedagogia generale e pedagogia speciale, tra questa e le altre discipline come la medicina, la psicologia, la neuropsichiatria, le neuroscienze, l’antropologia e la filosofia delle scienze. Non a caso la pedagogia speciale si presenta insieme come una disciplina di frontiera, al bivio tra diversi approcci, ma anche come un insieme di pratiche e sapere che ha spesso innovato provocando delle rotture espistemologiche nel quadro più generale delle discipline scientifiche. Basta pensare all’esperienza di Jean Marc Gaspard Itard nel suo rapporto con la psichiatria nascente oppure a quelle di Edouard Séguin e di Maria Montessori nei loro rapporti con gli orientamenti biometrici e medicocentrici del loro periodo. Il fatto di centrare il focus, l’oggetto epistemologico, sul processo di sviluppo degli apprendimenti, ha costituito uno degli elementi fondanti di tutta questa corrente della pedagogia attenta all’evoluzione e alla vita delle persone con disabilità e bisogni speciali nella società e nella scuola. Questo posizionamento dello sguardo sulle potenzialità del soggetto, visto come attore-autore del proprio percorso, nel processo di apprendimento e di sviluppo fa parte del profilo epistemologico della pedagogia speciale e si è costruito progressivamente, e continua a costruirsi, negli ultimi due secoli. Sarebbe interessante a nostro parere elaborare una Biblioteca scientifica e storica della pedagogia speciale; ricordiamo qui che curiosamente il primo ad averci pensato è stato lo psichiatra e neurologo Désirée Magloire Bourneville, direttore dell’Ospedale di Bicetre a Parigi, che ebbe l’idea di creare, nel 1893, la prima Biblioteca di educazione specializzata, dove portò alla luce i lavori scritti e gli studi di Itard e Edouard Séguin (‘il maestro dei bambini idioti’) (Goussot, 2007). Come lui crediamo molto nell’importanza di ripubblicare questi anno I | n. 1 | 2013

ALAIN GOUSSOT

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testi e di ricostruire la storia di queste diverse esperienze educative poiché costituiscono i fondamenti, la genealogia, le fonti vive della nostra disciplina. Questo in una prospettiva non rivolta all’indietro ma di attualità e di sguardo per l’innovazione futura. Ricerche sui lavori e le esperienze di Itard, Séguin, Bourneville, Sante De Sanctis, Maria Montessori, Ovide Decroly, Paul Geheeb, Lev Vygotskij, Alexandr Luruija, Fernand Oury, Fernand Deligny, Maud Mannoni, Anne Sullivan ecc... permetterebbero di mettere a disposizione degli studiosi un enorme patrimonio di esperienze, riflessioni, proposte, sapere e conoscenze per chi lavora oggi con soggetti con bisogni speciali e disabilità complesse. Potrebbe anche dare un impulso ad una riflessione più approfondita sui quadri concettuali, anzi, sulla semantica concettuale e la sua evoluzione nel campo dell’educazione e della formazione. Si tratterebbe di chiarire il senso che si dà alle parole che si usano, a livello scientifico e tecnico, come elementi della mappa mentale e scientifica della disciplina. Si evidenzierebbe in questo modo il carattere spesso ibrido della pedagogia speciale che non vuol dire confuso; basta pensare all’incrocio costante tra pedagogia, psicologia, etnologia, medicina, neuroscienze, sociologia e filosofia. Un incrocio, un meticciamento che parte tuttavia da un suo centro di gravità preciso, da un focus: il processo di sviluppo degli apprendimenti del soggetto con bisogni speciali e disabilità, i metodi e gli strumenti che ne favoriscono l’espressione e che promuovono in questo i diritti di cittadinanza di questi soggetti e la loro inclusione. Studi su queste esperienze e figure, ma anche una ripubblicazione con commenti delle loro opere sarebbe di grandissimo rilievo sul piano culturale in ambito pedagogico. Basta anche pensare al contributo che può ricavare la pedagogia speciale dal confronto con le neuroscienze (in particolare in riferimento all’importanza dell’imitazione nei processi di apprendimento oppure dell’organizzazione funzionale a livello neuromotorio), la neurobiologia e l’antropologia culturale (la varietà di modelli interpretativi) (Goussot, 2012; Iacoboni, 2008; Damasio, 2007). A questo bisogna aggiungere un lavoro di chiarimento dei concetti chiave della mappa categoriale utilizzata dalla pedagogia speciale; questa mappa concettuale, le terminologie, sono le rappresentazioni che ha del proprio oggetto come disciplina ma anche del proprio ruolo rispetto alle altre discipline. Sia l’interazionismo simbolico (Cassirer, 2004; Blumer, 2008) che gli studi sul linguaggio (Wittgenstein, 2009; Vygotskij, 1996; Chomski, 2005; Bruner, 2009; Gardner, 2010; Garfinkel, 2007) ci possono aiutare in questo senso: concetti e categorie come quelli di bisogni speciali, integrazione, inclusione, handicap, disabilità, deficit, apprendimento, addestramento, deistituzionalizzazione, sviluppo funzionale, capacità, resilienza, vanno approfonditi e chiariti costantemente. A cominciare da quello di bisogni speciali: si tratta dei soggetti con deficit e disabilità, oppure il discorso si allarga anche a quei soggetti, che per ragioni di ordine socio-culturale e psicosociale, si trovano in difficoltà? La pratiche, le metodologie e gli strumenti elaborati e costruiti nel lavoro con le disabilità possono essere trasferiti pari pari a quei soggetti oppure vanno rivisti alla luce dell’emergere di nuove problematiche legate alla società multiculturale e all’invecchiamento della popolazione? O ancora: la pedagogia speciale è solo didattica (poi quale didattica) cioè è solo istruzione oppure si allarga alla vita in società e alla possibilità di stare con dignità, ciascuno a secondo i propri bisogni, le proprie capacità e le proprie caratteristiche, nel mondo e con il mondo. Qui la dimensione sociale diventa importante e implica anche la I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


famiglia, il lavoro, l’età adulta e la vecchiaia. Si capisce che in una prospettiva di quel tipo il concetto di bisogni speciali non solo prende una nuova fisionomia sul piano degli apprendimenti immediati ma anche su quello più lungo e longitudinale della crescita nell’arco di tutta la vita e questo in diversi contesti. Questo ha anche delle implicazioni teoriche, metodologiche e pratiche per quanto riguarda il senso e l’evoluzione di termini come quelli di integrazione e inclusione; perché si è passato da uno all’altro? È solo un gioco di parole oppure questa evoluzione riflette un cambiamento anche del significato sia sul piano socio-culturale che scientifico (Habermas, 1989). Oppure cosa significa a livello sia metodologico e operativo la parola mediazione come concetto chiave individuato da L. Vygotskij per definire la sua psicopedagogia, e come si traduce nella pratica educativa? (Clot, 2012). Quello che ci sembra interessante in questo tipo di ricerca attenta alla semantica concettuale e alla sua evoluzione è l’imparare a relativizzare l’uso assoluto di certe categorie: basterebbe ricostruire l’evoluzione semantica delle terminologie ‘scientifiche’ usate per definire le varie tipologie di disabilità o di anomalie dello sviluppo (dall’idiotismo all’insufficienza mentale, dal mongolismo alla trisomia 21...), ma anche l’evoluzione delle terminologie per definire i vari tipi di ‘trattamento ‘e d’intervento (basta pensare che la parola disabilità è assente dai vocabolari italiani di 15 anni fa) (Canguilhem, 2005; Le Blanc, 2010; Goussot, 2007). Un lavoro di ricerca su questi temi permetterebbe anche di chiarire l’ambiguità anche attuale di certe terminologie usate nell’ambito dell’intervento con alcuni soggetti con bisogni particolari come, per esempio, quelli rientrando nello spettro autistico: basta pensare che si parla di ‘trattamento educativo’ mescolando l’aspetto clinico a quello educativo (Goussot, 2012). Lo stesso tipo di considerazione può essere fatto a proposito di concetti nuovi come quello di resilienza ma fortemente problematici, complessi, polisemici e di difficile interpretazione (Cyrulnik, Malaguti, 2005; Pourtois, Humbeeck, Desmet, 2012; Tisseron, 2012). Questo nostro discorso di approfondimento delle terminologie serve a precisare il quadro epistemologico e concettuale della pedagogia speciale. Queste questioni sono anche fortemente collegate al tipo di sguardo che ha la pedagogia speciale; basta pensare alla discussione intorno ai disturbi specifici dell’apprendimento (DSA): sguardo pedagogico e sguardo clinico; ma anche i rischi di identificare difficoltà di apprendimento e disturbi. Si può comprendere che tutto ciò ha anche una ricaduta operativa sul tipo di formazione da proporre ai futuri insegnanti in generale, specializzati in particolare, ma anche agli educatori professionali (Sticker, 2010, Poizat, 2012, Gardou, 2010). Per riassumere pensiamo che sarebbe opportuno lavorare in due direzioni connesse tra di loro per dare solidità epistemologica e quindi scientifica alla nostra disciplina, per preservarne l’autonomia: 1) La genealogia storica della pedagogia speciale con la nascita di una vera Biblioteca scientifica e storica della stessa; 2) Lavori sull’evoluzione della semantica concettuale della pedagogia speciale (della sua evoluzione) e della sua ricaduta operativa a livello metodologico.

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ALAIN GOUSSOT

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2. Sviluppo, bisogni speciali e disabilità nei contesti multiculturali

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Come tutte le discipline delle scienze umane la pedagogia speciale si deve confrontare con lo sviluppo della società multiculturale nell’era della globalizzazione. La presenza significativa e massiccia degli immigrati provenienti da varie parti del mondo e diversi orizzonti culturali rappresenta una sfida. Il tessuto socio-culturale delle nostre scuole si è fortemente diversificato, gli insegnanti si trovano a gestire gruppi classi eterogenei sul piano delle origini culturali, devono adattare gli stessi strumenti della didattica a queste nuove esigenze e all’emergere di nuovi bisogni particolari, per non dire speciali. È in aumento il numero di alunni disabili figli o figlie di migranti; vi sono tante situazioni di disagio socio-culturale e psicosociale che accompagnano i percorsi delle famiglie migranti in Italia. Non solo la scuola ma anche la rete dei servizi (sanitari, sociali, consultori familiari, neuropsichiatria infantile) è investita da questa nuova configurazione dei bisogni; basta pensare a come si fa la diagnosi di una dislessia o di un DSA con un bambino cinese o indiano che non parla una parola d’italiano (come valutare, quali protocolli), oppure al come fare incontrare delle visioni culturali diverse sulla disabilità in contesti multietnici. Questa situazione è una delle più grosse sfide per la pedagogia speciale; lo è a diversi livelli: 1) gli immigrati e i loro figli, in particolare quelli con difficoltà e disabilità, svolgono, in qualche modo, la funzione di agenti analizzatori della tenuta del nostro modello d’integrazione e d’intervento educativo in ambito scolastico; 2) la presenza dei migranti costringono i tecnici e gli specialisti a rivedere i loro strumenti e metodi in una prospettiva transculturale; 3) la prospettiva transculturale che è anche complementaristica sul piano disciplinare scientifico può dare un nuovo impulso alla pedagogia speciale e aprire nuovi orizzonti epistemologici, metodologici e operativi (Goussot, 2010; Moro, 2012). In che misura l’etnologia e l’antropologia culturale possono aiutare la pedagogia speciale ad impostare nuovi approcci educativi, nuovi modelli d’intervento per quanto riguardo lo sviluppo degli apprendimenti in contesti diversi come la scuola e la società? Approcci nuovi come quelli dell’etnopsicologia, della psicologia transculturale oppure dell’etnometodologia possono alimentare e innovare la riflessione espistemologica e la pratica pedagogica anche nei contesti di apprendimento diventati ormai multietnici e multiculturali. Basta pensare a come incidono le categorie culturali, le appartenenze religiose sulle rappresentazioni che si può avere dei soggetti con bisogni speciali e disabilità e del loro accompagnamento nella società (Garfinkel, 2007; Devereux, 2007; Gardou, 2010; Goussot, 2009, 2010; Moro, 2012; Mouchenik, 2006). Il confronto con altri sguardi culturali ci può aiutare a migliorare la comprensione della complessità dei processi di apprendimento e di sviluppo ma anche, in una prospettiva comparativa, a costruire dei dispositivi d’intervento nuovi e innovativi? Sarebbe interessante condurre delle ricerche sul territorio nazionale che permettessero di capire l’entità, ma, soprattutto, la natura sociologica ed etnico-culturale del fenomeno dei bambini figli di migranti con bisogni speciali e disabilità. Sarebbe interessante vedere come si stanno modificando le prassi pedagogiche nelle scuole ma anche le modalità di costruzione della relazione educativa tra insegnanti e genitori. SaI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


rebbe anche interessante capire se il sistema dei servizi sta prendendo atto di queste trasformazioni innovando e aggiornando il suo bagaglio di conoscenze e di metodologie in senso transculturale per dare risposte effettivamente adeguate a questi nuovi bisogni. Ecco delle ricerche sul campo ma anche ti tipo più metodologico incrociando pedagogia interculturale, etnopsicologia, etnopsichiatria, clinica transculturale e antropologia fornirebbero probabilmente risposte nuove a problemi effettivamente nuovi (Laplantine, 1996). I temi della comunicazione, della costruzione della relazione non solo con il bambino figlio di migrante ma anche con la sua famiglia, della gestione di gruppi classi multiculturali, della presenza di sguardi diversi rispetto alle questioni legate alle disabilità e alle anomalie dello sviluppo (non sempre in termini negativi come si potrebbe pensare) offrirebbe una opportunità di produzione di nuove conoscenze, di costruzione di nuovi sapere e di realizzazione di nuovi dispositivi d’intervento che, magari come è successo varie volte nel passato, potrebbero essere trasferiti nel lavoro con tutti i bambini.

3. Disabilità complesse, età adulta e invecchiamento Un’altra pista di ricerca sulla quale la pedagogia speciale dovrebbe concentrare la sua attenzione è quella delle disabilità adulte, in particolare le disabilità complesse (chiamiamo così le disabilità adulte in cui sono presenti diversi deficit magari intrecciati con delle problematiche di ordine psichico), e dell’invecchiamento delle persone con disabilità. Qui si va dalle disabilità congenite ed evolutive a quelle acquisite (avvenute dopo un evento traumatico). Basta leggere la letteratura scientifica per rendersi conto che la maggior parte delle ricerche e degli studi riguardano le disabilità in età evolutiva; sembra che dopo i 18 anni i disabili spariscano, eppure sappiamo che per motivi legati all’organizzazione della struttura dei servizi, per il fatto che spesso non v’è più l’accompagnamento della scuola, le cose diventano più complicate (Goussot, 2011; Lolli, 2010; Imprudente, 2003; Jollien, 2012; Nuss, 2011). Eppure l’allungamento della speranza di vita riguarda anche le persone disabili, questo significa che troviamo persone disabili che diventano adulte e invecchiano. Una ricerca sul percorso e l’universo variegato delle persone adulte disabili sarebbe anche un modo, in termini di follow up e come studi longitudinali, per valutare l’efficace degli interventi educativi precedenti rispetto ai processi d’inclusione nella società (vita sociale, lavoro, vita affettiva, autonomie, cittadinanza attiva). Ricerche in varie regioni italiane, in diversi contesti socio-culturali (anche qui interviene la dimensione multiculturale) e rispetto alle diverse storie di vita potrebbe darci delle indicazioni sulla condizione dei soggetti adulti disabili, sul cosa fanno, dove sono andati a finire, chi li accompagna, quali criticità sono presenti ma anche quali esperienze vi sono sul territorio. La pedagogia speciale non è una pedagogia della sola età evolutiva, il discorso dell’apprendimento nell’arco di tutta la vita vale anche per i soggetti con deficit e disabilità; qui la pedagogia speciale si presenta come una pedagogia dello sviluppo durante tutto il ciclo di vita; assume anche un approccio ecologico e globale dello sviluppo della persona disabile come persona umana (Bronfenbrenner, 2009; Gardou, 2012; Bouchard, Guerdan, 2002). Vi sono ancora troppo pochi lavori e poche ricerche su questo tema di così grande importanza: la maganno I | n. 1 | 2013

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gioranza delle persone con disabilità vive a lungo dopo i 18 anni e se non si vuol vederle come semplici oggetti di assistenza e di cura ma anche come soggetti di diritti, di bisogni e di vita bisogna comprendere la complessità dei processi di sviluppo delle singole storie nelle singole situazioni e nei singoli contesti. La pedagogia speciale deve qui confrontarsi con la medicina, la clinica e la psichiatria in modo autonomo; porre anche interrogativi sul come, per esempio, si affronta la questione della sofferenza psichica di soggetti con disabilità in generale e di tipo intellettivo in particolare (Sausse, 2009; Lolli, 2010; d’Alonzo, 2002). Anche qui uno sguardo centrato sul funzionamento delle capacità, anche di quelle residuali, nonché sulle risorse (professionali, culturali e umani, le reti informali) del contesto di vita familiare e sociale è una delle piste sulle quali deve lavorare la pedagogia speciale come pedagogia dello sviluppo e del processo ecologico vitale della persona. Temi come quelli del rischio di una eccessiva medicalizzazione, di nuove forme di istituzionalizzazione e di eccessi nell’uso della farmacologia con soggetti che spesso non riescono ad esprimersi sul piano verbale vanno affrontati sia nell’ambito della ricerca che in quello delle proposte operative nel senso di una sempre maggiore umanizzazione della relazione di aiuto (Goussot, 2011). La raccolta di storie di vita, di biografie e autobiografie di soggetti con disabilità può aiutare la riflessione pedagogica e anche fare emergere le risorse di tanti soggetti con disabilità che diventano persone risorse per la comunità, gli operatori, i professionisti e gli altri soggetti con disabilità. Una ricerca anche sull’etica della cura sarebbe molto utile: quanta violenza vi è nei confronti di soggetti con disabilità che invecchiano, vengono trattati spesso come bambini anche all’età di 40 anni, oppure subiscono ogni tipo di ‘terapie al bisogno’ cioè di trattamento farmacologico con effetti secondari molto gravi per la salute e la qualità di vita (Botterò, 2010; Malherbe, 2007; Nussbaum, 2008).

4. La co-educazione e la costruzione dell’alleanza educativa: le pratiche di mediazione Ultimamente si parla molto della difficoltà di dialogo tra scuola, servizi e famiglie; diversi studi recenti dimostrano che effettivamente è uno dei problemi che vive il nostro sistema (Fondazione Agnelli). La questione diventa ancora più delicata quando v’è la presenza di un alunno con bisogni speciali e disabilità; non sempre la visione e lo sguardo di insegnanti, genitori e operatori dei servizi s’incontra. Sarebbe interessante indagare in modo più approfondito questo aspetto delle relazioni estremamente importante per la costruzione del progetto di vita; quali sono le criticità ma anche quali sono le ‘buone prassi’. La pedagogia speciale ha un ruolo da svolgere nel favorire la comunicazione tra scuola, famiglie e territorio? Come? In che misura le rappresentazioni sociali e culturali degli uni e degli altri condiziona il modello di funzionamento del sistema di relazione?Cosa vuol dire costruire il progetto di vita, quali sono le fasi di questo processo, chi vi partecipa , con quale ruolo? Ha diritto di cittadinanza il punto di vista della persona disabile e della sua famiglia? In che misura i genitori possono essere visti come degli esperti dei propri figli? Cosa vuol dire essere all’ascolto dell’altro nella relazione tra genitori e professionisti? Si parla oggi di co-educazione (una espresI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


sione ripresa dal movimento dell’educazione nuova, nato nei primi del 900’) nel senso che la costruzione dell’alleanza educativa tra scuola, famiglia, servizi passa tramite l’apprendimento reciproco (Pourtois, Humbeeck, 2012). In che misura la co-educazione può favorire i processi inclusivi? (Gardou, 2012). Cosa vuol dire costruire un effettivo partenariato tra genitori e professionisti dell’educazione e della cura? (Bouchard, Guerdan, 2002). Quali sono le effettive prassi co-educative sul territorio nazionale, locale e che tipo di valutazione si può fare di questo tipo di approccio e di dispositivo d’intervento? Qui la pedagogia speciale come pratica di mediazione che facilita l’incontro e la cooperazione può rappresentare un oggetto di ricerca interessante, anche per individuare quali sono i fattori e le situazioni che producono sul piano socio-culturale l’handicap ma anche che favoriscono l’inclusione (Fougeyrolas, 2012; Pavone, 2009).

Riferimenti bibliografici Bachelard G. (2009). Le Nouvel esprit scientifique. Paris: PUF. Bocci F. (2011). Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea. Firenze: Le Lettere. Botterò A. (2008). Un autre regard sur la schizophrénie. Paris: Jacob. Bouchard J.M., Guerdan V. (2002). Partenariat chercheurs, praticiens et familles. De la recherche d’un partenariat à un partenariat de la recherche. Montreal: Logiques. Bronfenbrenner U. (2010). Rendere umani gli esseri umani. Bioecologia dello sviluppo. Trento: Erickson. Bruner J. (2009). Il pensiero. Strategie e categorie. Roma: Armando. Canevaro A., Goussot A. (2005). La difficile storia degli handicappati. Roma: Carocci. Canguilhem G. (2005). Le Normal et le pathologique. Paris: PUF. Cassirer E. (2004). La filosofia delle forme simboliche. Firenze: Sansoni. Chomski N. (2005). Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio e della mente. Milano: Il Saggiatore. Clot Y. (a cura di) (2012). Vygotski maintenant. Paris: La dispute. Cyrulnik B., Malaguti E. (2005). Costruire la resilienza. Trento: Erickson. d’Alonzo L. (2002). Disabilità e potenziale educativo. Brescia: La Scuola. Damasio A. (2007). Emozioni e coscienza. Milano: Adelphi. Devereux G. (2007). Saggi di etnopsichiatria generale. Roma: Armando. Foucault M. (2004). Philosophie-Anthologie. Paris: Folio-Gallimard. Fougeyrolas P. (2011). Le funambule, le fil et la toile: transformations réciproques du sens du handicap. Laval: PUL. Gardner H. (2010). Formae mentis.Saggio sulla pluralità dell’intelligenza. Milano: Feltrinelli. Gardou Ch. (2010). Le handicap au risque des cultures-variations anthropologiques. Toulouse: Eres. Gardou Ch. (2012). La société inclusive! Parlons-en! Il n’y a pas de vie minuscule. Toulouse: Eres. Garfinkel H. (2007). Recherches en ethnométhodologie. Paris: PUF. Goussot A. (2007). Epistemologia, tappe costitutive e metodi della pedagogia speciale. Roma: Arcane. Goussot A. (2009). L’approche transculturel di Georges Devereux. Roma: Aracne. Goussot A. (2010). Bambini ‘stranieri’ con bisogni speciali: saggio di antropologia pedagogica. Roma: Aracne. Goussot A. (a cura di) (2009). Il Disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano. Rimini: Maggioli. Goussot A. (a cura di) (2011). Le disabilità complesse. Sofferenza psichica, presa in carico e relazione di cura. Rimini: Maggioli. Goussot A. (2012). Autismo: una sfida per la pedagogia speciale. Fano: Aras. (2011) Gli alunni con disabilità nella scuola italiana, Bilancio e proposte. Trento: Erickson. Habermas J. (1989). L’inclusione dell’Altro. Milano: Feltrinelli. Iacoboni M. (2008). I neuroni specchio. Come capiamo ciò che fanno gli altri. Milano: Bollati Boringhieri.

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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


Sentieri e segni della storia della pedagogia speciale: educazione corporeità e disabilità in Edouard Seguin

Key words: disability, education, history of special education, corporeality, inclusion, Séguin

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno I | n. 1 | 2013

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The present paper, after a historical and methodological introduction, aims to rebuild a small tessera of the complex mosaic of the History of Special Education, through a microscopic investigation. This survey is intent on detecting the supporting structures of education, seen as a theoretical paradigmatic construct, through the analysis of the thought of one of the scholars considered one of the main founders of Special Education: Edouard Séguin. Through the intertwinement of Historiography, Special Education and Pedagogy, it is possible to reveal the importance of corporeality as a foundational category of education and essential element for the recognition of diversity. Following the traces, rereading and reconstructing the history, we can see the prodomi of an inclusive education and a reflection, which are still able to provide interesting suggestions for a democratic, pluralistic and liveable society.

abstract

Angela Magnanini, Università degli Studi di Roma “Foro Italico” / angela.magnanini@uniroma4.it

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1. Considerazioni preliminari: intrecci, segni e questioni metodologiche per una Storia della pedagogia speciale

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Una grande rivoluzione educativa si è verificata nel periodo contemporaneo in seguito all’ampliarsi ed all’affermarsi di nuovi soggetti-protagonisti dell’educazione. Questa rivoluzione ha prodotto importanti trasformazioni e nella pratica e nella teoria dell’educazione, aprendo la strada a studi pedagogici specialistici e contribuendo alla nascita ed alla evoluzione di alcune discipline, che hanno messo a punto nuove teorie, dato voce a “minoranze” fino ad allora silenziose (bambini, donne, disabili, immigrati), disegnato nuovi paradigmi concettuali, ideato strategie metodologiche, finendo per riscrivere l’educazione stessa, mostrandone ab imis una vocazione inclusiva. Proprio in questa direzione, sul finire del Settecento la Pedagogia speciale, ortofrenica, del recupero, comincia a delinearsi e a porre la questione fondamentale dell’educabilità, illuminando contestualmente le grandi tematiche della Pedagogia (Cambi, 19995, p. 319). Si inizia gradualmente ad interrogarsi su come sia possibile escludere dal processo educativo la vita umana, qualsiasi forma essa presenti, negandole così ogni possibilità di un esistere pedagogico, inteso come “tensione a conoscere le proprie radici, il proprio essere in atto per andare oltre, verso la propria identità ventura” (Boselli, 2002, p. 60), appropriandosi della vita stessa. L’educazione che si configura come relazione presuppone sempre l’altro, un altro che esiste, comunica, interagisce, strutturandosi in un rapporto comunicativo, espressivo, corporeo, anche quando l’altro non ha caratteristiche comunemente diffuse in una società, e fugge a quella stessa relazione, che per alcuni tratti, pare dall’inizio, per recuperare una espressione di Galanti, impossibile (Galanti, 2001, p. 175). Eppure è stata questa la sfida principale della Pedagogia speciale ai suoi albori. La Pedagogia speciale ha esortato, infatti, a credere che tutti presentino delle abilità tali per cui valga la pena intraprendere l’educazione, superando il paradigma della “custodia”. Gaudreau sottolinea, a tal proposito, che bisogna vedere nell’altro “un qualcuno che dispone di risorse inaspettate, all’interno delle quali si scoprono maggiori e migliori impressioni rispetto a quelle donate al primo sguardo” (Gaudreau, 2009, p. 128), intraprendendo una strada dall’esito sempre incerto. Non è forse questa la lezione che ci ha consegnato il medico francese Jean Marc Gaspard Itard1, inaugurando un tempo storico dall’assetto scientifico, in cui sotto la spinta delle scoperte mediche e delle prime riflessioni pedagogiche in un terreno così complesso come quello della “anormalità”, si studia e si “rileva che il passaggio tra norma e anormalità non è una sfumatura” e che soffermandosi sulla diversità si possono scoprire i limiti della normalità stessa, capovolgendo la prospettiva e l’angolo visuale dal quale osservare i fenomeni e gli eventi (Cfr. Trisciuzzi, 1995, p. 310)?

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Jean Marc Gaspard Itard (1775-1838), medico francese, considerato il padre della Pedagogia speciale per il suo lavoro educativo con Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron. Per approfondire la figura di Itard si rimanda ai riferimenti Bibliografici inseriti nel corpo del testo.

I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


Solamente spezzando quel monopolio culturale in cui il centro ufficiale ed ideologico formula archetipi, favorendo la nascita di pregiudizi, si riesce a restituire valore storico e culturale al margine (Cfr. Mannucci, Landi, Collacchioni, 2007, pp. 13-17), rileggendo e re-interpretando la storia e le storie. Indagando ed interrogando la storia è, infatti, possibile far emergere nodi, strutture, punti chiave, problematiche capaci ora, in prospettiva futura, di provocare trasformazioni semantiche, concettuali, di originare pratiche nuove, cambiando allo stesso tempo comportamenti sociali e culturali. Dalla fine degli anni Sessanta si è aperta una nuova stagione storiografica e storiografico-educativa, dai connotati “pluralistici”, sulla scia delle “Annales” (i cui effetti in Italia cominciano a sentirsi solo dopo il 1945) e della Social History, che hanno saputo offrire alla Pedagogia un nuovo modello di ricerca. Un modello, sottolinea Cambi, di molte storie, di una molteplicità di approcci metodologici, di nuovi campi di indagine, di nuove fonti, di approcci tematici, angolazioni differenziate, per cogliere le molte facce del divenire storico, per una storia contrassegnata da disomogeneità e differenze (Cambi, 2005, p. 88). Dalla storia delle idee si passa a una prospettiva più articolata in cui diviene fondamentale riconoscere le tracce, leggere le fonti, interpretare i documenti. Prospettiva che, da una parte (livello generale), fa emergere modelli strutturali, paradigmi, intesi sia come chiavi di volta all’interno di una rete spaziale e cronologica, sia come modelli per districarsi nella mappa interpretativa di un accadimento o di una epoca, e quindi per dare un orientamento di senso a quel labirinto in cui lo storico della pedagogia è calato (Bellatalla, 2005a, p. 31) e, dall’altra parte (livello particolare), costruisce una mappa sematico-concettuale, capace di definire il congegno teorico dell’educazione. Questa mappa, secondo Bellatalla, si costruisce sub specie pedagogiae, enucleando dal contesto e dalle congiunture esaminate modelli pedagogici che consentono di leggere i segni (istituzioni, genere, attività didattiche, ecc), tutti i segni, alla luce di una Scienza dell’educazione che ne definisce l’angolatura di studio. Non, quindi, una mera ricostruzione degli eventi ma una duplice lettura, sul piano storiografico e sul piano pedagogico che, sapientemente mixati, mostrano la vocazione della storia alla documentazione, all’interpretazione, alla creazione, alla verosimiglianza, alla narrazione, tutte legate da un continuum metodologico, tanto da sottolineare con Le Goff che il fatto storico non è consegnato al documento, ma va ricostruito, non per ricomporre la storia, bensì per farla (Le Goff, 1988). In virtù di questi elementi di fondo, Bellatalla evidenzia che lo storico della pedagogia fa anche pedagogia ed educazione, esprimendo al contempo l’avventura della vita e attribuendo significato alle vicende esistenziali (Bellatalla, 2005b, p. 34). Proprio per questo, al fine di scrivere una Storia della Pedagogia speciale bisogna sapientemente coniugare ed intrecciare la Storiografia, la Pedagogia e la Pedagogia speciale per creare un approccio metodologico di lettura, creazione, validazione, alla luce di quel paradigma educativo di riferimento che la Pedagogia speciale contribuisce a mettere a punto, svelandone le strutture portanti. Come a dire che l’angolatura dello “scienziato pedagogico speciale” sa rintracciare, ma, allo stesso tempo, valorizzare nei documenti, nelle fonti, negli eventi, quei congegni teorico-linguistici e metodologici della propria disciplina per restituire alla documentazione stessa nuova vita, nuovi significati. Egli riesce a scoprire ed inventare nuove piste di ricerca e a ridisegnare alcuni percorsi storici, frettolosaanno I | n. 1 | 2013

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mente dimenticati, per far dialogare presente-passato e futuro alla ricerca di temi, oggetti, nodi, problemi, ancora da risolvere. Lo “scienziato pedagogico speciale”, in questa direzione, continuando ad interrogare l’educazione e la società, attraverso la propria disciplina, sa rinnovare la storia e delineare itinerari epistemologici in grado di offrire una sistematicità ed organicità al sapere pedagogico, mantenendo la complessità come sua categoria princeps. La Pedagogia speciale, così, recuperando la sua storia e costruendo continuamente l’oggetto della propria disciplina, diacronicamente e sincronicamente, finisce, utilizzando una bella espressione di Canevaro per renderci realmente capaci di educare (Canevaro, 2009, p. 124). Dell’indissolubile intreccio tra Storiografia, Pedagogia e Pedagogia speciale sono testimonianza i lavori che in questo campo si sono succeduti negli ultimi quaranta anni, che documentano l’evolversi dell’interesse nei confronti delle tematiche pedagogico-didattico speciali e che possiamo distinguere, pur rappresentando tra di loro un continuum, metodologicamente, in: 1. Studi di carattere generale; 2. Studi sulle idee, le correnti di pensiero e gli studiosi; 3. Studi epistemologici di Pedagogia speciale con significativi parti storiche (excursus); 4. Studi microstorici di Pedagogia ed educazione speciale.

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1) Del primo filone fanno parte la Storia dell’educazione dei sordomuti di A. Grimaldi (Bologna, Scuola Professionale Tipografica Sordomuti, 1960), i lavori di G. Ghiozzi (a cura di), La scoperta dei selvaggi, Milano, Principato, 1971; L. Malson (I ragazzi selvaggi, Milano, Rizzoli, 1964) e S. Moravia (Il selvaggio dell’Aveyron, Bari, Laterza, 1972); M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli, 1976; R. Canosa, Storia del manicomio in Italia dall’unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1979; J. C. Schmitt, La storia dei marginali, in J. Le Goff, La nuova storia, Milano, Mondadori, 1990 (ed. or. 1980); A. Pioli, Follia, enfant sauvage, idiota, per una storia pedagogica dell’handicap (in E. Becchi, a cura di, Storia dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1987); A. Canevaro, A. Gaudreau, L’educazione degli handicappati. Dai primi tentativi alla Pedagogia moderna, Roma, Carocci, 1988; F. Cambi e S. Ulivieri (a cura di), I silenzi dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1994; C. Pancera, L’anormale alle origini di un approccio pedagogico. L’immagine del diverso prima di Itard, in “I problemi della Pedagogia”, n. 3, 1994; G. Porcari Li Destri, V. Volterra (a cura di), Passato e presente: uno sguardo sull’educazione dei sordi in Italia, Napoli, Gnocchi, (1995); A. Canevaro, A. Goussot, La difficile storia degli handicappati, Roma, Carocci, 2000; T. Zappaterra, Braille e gli altri. Percorsi storici di didattica speciale, Milano, Unicopli, 2003; G. Pesci e S. Pesci, Le radici della Pedagogia speciale, Roma, Armando, 2005; R. Sani, L’educazione dei sordomuti nell’Italia dell’800. Istituzioni, metodi, proposte formative, Torino, Sei, 2008; M. Schianchi, Storia della disabilità. Dal Castigo degli dei alla crisi del Welfare, Roma, Carocci, 2012. 2) Nel secondo filone si possono annoverare sia studi centrati su singoli pensatori, sia riflessioni sulle idee e le correnti di pensiero in determinate epoche storiche. Vi troviamo, così, i saggi di E. Catarsi, La Giovane Montessori, Ferrara, Corso, 1995; P. Crispiani, Itard e la pedagogia clinica, Napoli, Tecnodid, 1998; G. Genovesi (a cura di), Rileggendo Itard. Problemi educativi e prospettive pedagogiche dei Memoires, Bologna, Pitagora, 2001; G. Cives, Maria Montessori. PedaI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


gogista complessa, Pisa, ETS, 2001; G. Annacontini, Victor e Itard tra natura e cultura, Bari, Adda, 2002; M. Gelati, Pedagogia emendativa. L’educazione dei deficienti di Sante de Sanctis, in G. Genovesi (a cura di), Formazione nell’Italia unita. Strumenti, propaganda e miti, vol V, Milano, FrancoAngeli, 2002; R. Perugini, Maestri della pedagogia e della didattica speciale, Perugia, Morlacchi, 2001; L. Bellatalla, Scienza dell’educazione e diversità. Teorie e pratiche educative, Roma, Carocci, 2007; F. Bocci, Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea, Firenze, Le Lettere, 2011. 3) Nel terzo filone ricordiamo tra i tanti, gli studi più recenti, come quelli di M. Gelati, Pedagogia speciale e integrazione. Dal pregiudizio agli interventi educativi, Roma, Carocci, 2004; P. Gaspari, Il bambino sordo. Pedagogia speciale e didattica dell’integrazione, Roma, Anicia, 2005; A. Goussot, Epistemologia, tappe costitutive e metodi della Pedagogia speciale, Roma, Aracne, 2007; L. D’alonzo, Integrazione del disabile. Radici e prospettive, Brescia, La Scuola, 2008; M. Pavone, Dall’esclusione all’inclusione. Lo sguardo della Pedagogia speciale, Milano, Mondadori, 2010 e di A. Mura, Pedagogia speciale. Riferimenti storici, temi e idee, Milano, FrancoAngeli, 2012. 4) Al quarto filone appartengono studi di microstoria, che sempre più nell’ambito Pedagogia rendono ragione, in uno spazio e in un tempo ben definito e tramite ricerche particolari e sempre più specifiche, dell’educazione nelle sue poliedriche facce e nella sua interezza (Bellatalla, 2006, p. 25). La microstoria, infatti, approfondisce e illumina segmenti, tempi, spazi, restituendoli al piano generale per arricchirne la conoscenza (Cfr. Topolski, 1985). In questo senso importanti si rivelano, tra i tanti, gli studi di M. Gelati, Istituzioni educative ed infanzia anormale: dalle prime iniziative alla riforma Gentile, in “Cultura e scuola”, n. 106, 1988; Id, Positivismo e cultura della diversità: i medici-educatori, in G. Genovesi, L. Rossi (a cura di), Educazione e positivismo tra Ottocento e Novecento, Ferrara, Corso, 1995; G.P. Cappellari, D. De Rosa, Il padiglione Ralli. L’educazione dei bambini anormali tra positivismo ed idealismo, Milano, Unicopli, 2003; A. Magnanini, Alle origini della Pedagogia speciale: l’esempio del rachitismo, in “Ricerche Pedagogiche”, n. 155, 2005; Id., Natura e Cultura nei medici-educatori: il caso di Musatti, in L. Bellatalla, G. Genovesi, E. Marescotti (a cura di), Tra natura e cultura. Aspetti storici e problemi dell’educazione, Milano, FrancoAngeli, 2006; A. Barausse, Appunti per una storia dell’associazionismo sportivo internazionale dei disabili all’inizio del Novecento, in “L’integrazione scolastica e sociale”, n. 6/4, 2007; A. Goussot, A. Errani (a cura di), La logica della disumanizzazione: l’eliminazione delle persone disabili durante il nazismo, in “L’integrazione scolastica e sociale”, n. 10/3, 2011; C. Callegari, La Shoah dei disabili. Implicazioni storico-pedagogiche e progettualità educative, Milano, FrancoAngeli, 2011; M. Paolini, Ausmerzen. Vite indegne di essere vissute, Torino, Einaudi, 2012; A. Mura, Gli Istituti speciali per sordi: dal primo dibattito metodologico agli sviluppi per l’integrazione in Italia, in “L’integrazione scolastica e sociale”, n. 11/5, 2012. Molte rimangono le storie da scrivere, i territori da esplorare, i nodi da sciogliere, così come rivela Mura, secondo il quale la storia della disabilità si presenanno I | n. 1 | 2013

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terà per lungo tempo ancora come una storia frammentaria, fatta di presenze parziali e di importanti assenze (Mura, 2012, p. 21). La strada è, però, avviata ed intenta a superare i ritardi del passato, per ricomporre il quadro di una Storia dell’educazione e di una Storia della Pedagogia speciale in cui i silenzi lascino il posto a studi che riescano a restituire il senso, oggi, di una Pedagogia speciale come Scienza dell’educazione che costruisce in modo originale il sapere sull’educazione, sicura del proprio assetto epistemologico, in quanto è in grado di definire il proprio oggetto di studio, formulare ipotesi e sperimentarne i risultati, chiarendo e disambiguando il proprio linguaggio, dotandosi di propri strumenti metodologici e d’indagine (Cfr. Magnanini, 2009, pp. 104-108), aprendosi a quegli sguardi plurimi che un congegno dalle poliedriche facce, come l’educazione, richiede.

2. L’educazione e le sue strutture al microscopio: diversità e corporeità

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Dal quadro di fondo sopra esposto si staglia il presente saggio che intende indagare, sub specie pedagogiae, il congegno educazione da un osservatorio privilegiato per aggiungere una piccola tessera al complesso mosaico della storia dell’educazione speciale nel particolare e della storia dell’educazione in generale, svelando alcune strutture fondative dell’educazione stessa, che proprio nel campo della Pedagogia speciale, al microscopio, possono essere focalizzate, lette ed esaminate. L’indagine microscopica2 verrà condotta focalizzando la nostra lente su un’opera estremamente significativa (il nostro osservatorio privilegiato) nel panorama medico e pedagogico dell’Ottocento, Traitement moral des idiots et des autres enfants arriérés ou retardés dans leur développement, agités de mouvements involontairs, débiles, muets non-sourds, bègues, etc., 1846)3, di Edouard Séguin (Clamency 1812-New York 1880), che ha ispirato molti pensatori nella messa a punto di un sistema educativo inclusivo e che rappresenta, quindi, il perno attorno al quale ruota la nostra ricerca. L’opera di Séguin si rivela fondamentale in quanto egli riesce a costruire l’oggetto educazione (come costrutto teorico, oltre che oggetto fattuale-concreto), facendone emergere alcune caratteristiche portanti, in costante rapporto circolare tra loro, come l’unitarietà, l’inclusività, la corporeità, la progettualità ed alcuni temi come l’importanza ed il bisogno di un contesto favorevole in grado di predisporre al meglio l’avvio e l’inverarsi del processo educativo. Temi attuali e pregnanti di tutta la riflessione pedagogico-speciale. Séguin rappresenta un punto di svolta, con i limiti del suo tempo, nel panorama educativo per le persone con disabilità, superando il con-

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Su questo approccio si veda il volume di Bellatalla L. (2009). Leggere l’educazione oltre il fenomeno. Roma: Anicia. Per queste note si è utilizzata la traduzione italiana di E. Séguin, L’idiota. (titolo di copertina). Cura morale, igiene ed educazione degli idioti e di altri fanciulli ritardati nello sviluppo, agitati da movimenti involontari, deboli, muti non-sordi, balbuzienti, ecc., con introduzione di Giovanni Bollea, pubblicata dalla Casa Editrice Armando (Roma) nel 1970. I numeri delle pagine dei passi tratti dall’opera saranno riportati entro parentesi nel testo.

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cetto di cura ed assistenza, per percorrere la strada della trasformazione migliorativa dell’uomo, ogni uomo, verso una vita degna di essere vissuta. L’opera di Séguin assieme ai trattati, ai rapporti medici, alle memorie, al lavoro educativo e clinico di fine Settecento ed Ottocento, riportano alla luce: – le tante persone, con deformazioni, anomalie genetiche, deficit mentali, appartenenti a gruppi disomogenei ed indistinti di marginali (Cfr. Foucault, 1963; Geremek, 1992), che non hanno potuto parlare di sé perché oggetto storico nascosto, da eliminare, temere, segregare perché pericoloso e minaccioso di un ordine politico, sociale, morale e religioso pre-costituito e da non intaccare; – la concezione di educazione in un determinato periodo storico e gli sforzi di alcuni pensatori nel tentativo (molte volte riuscito) di rinnovarne l’essenza; – le pratiche e le tecniche educative diffuse in quel determinato contesto e tempo storico; – le strutture portanti di una educazione utopica, che opera sempre e costantemente come ideale regolativo per il miglioramento dell’uomo e del mondo nel quale è inserito e che spinge a ricercare sempre nuove soluzioni e strategie operative in un affascinante viaggio senza fine. Séguin mostra che la storia ha conosciuto una “rottura”, un cambiamento di rotta restituendo voci, corpi, dignità e vita alle persone diverse. Nel ricostruire la riflessione educativa di Séguin ci serviremo delle letture e delle ricostruzioni effettuate da alcuni studiosi contemporanei (Pioli 1987, Canevaro-Gaudrau 1988, de Anna 1998; Canevaro-Goussot 2000, Caldin 2001, Gelati 2004, Goussot 2007, d’Alonzo 2008, Bocci 2011, Mura 2012, solo per fare qualche esempio) che rimangono punti di riferimento imprescindibili, cercando, però, di percorrere, spinti dalle considerazioni sopra-esposte, riannodando i fili del discorso, piste nuove di ricerca, alla scoperta di temi e nodi poco studiati ma fondamentali per comprendere a pieno il significato dell’educazione nella sua evoluzione storica, in una prospettiva di rinnovamento del sistema educativo moderno. Così Séguin, inserendosi in un contesto pionieristico di indagine e studio della diversità, quella diversità connotata da deficit anatomici, strutturali, funzionali, diviene il nostro strumento princeps per indagare, studiare, portare alla luce un elemento imprescindibile dell’educazione: la corporeità, nel suo rapporto con la disabilità, che Séguin contribuisce a costruire e strutturare, in un periodo storico in cui il corpo, a livello generale, è rivalutato in sede educativa e formativa. Dal periodo illuministico, infatti, il corpo acquisisce nuova considerazione e significato, superando quel luogo comune che considera il corpo solo ed esclusivamente una macchina fisiologica e biologica, bisognosa di un mero addestramento motorio per aumentarne l’efficienza fisica. Attraverso Rabelais, Montaigne e Rousseau si disegnano originali itinerari che instaurano tra anima e corpo una reciprocità di azione educativa, che non può più essere ignorata, tanto che, sostiene Bonetta “la meccanica del corpo diviene il fondamento di ogni educazione e di ogni morale pratica” (Bonetta, 1990, p. 45). Gli studi sulla educabilità del corpo ricevono, così, forti impulsi dall’immagine di uomo, che gli idéologues riescono a proporre alla cultura europea, in particolare sull’immagine che emerge dagli studi e dagli scritti di Pierre Jean Georges Cabanis, che con i suoi Rapports du physique et du moral anno I | n. 1 | 2013

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de l’homme (Parigi, 1902) ribalta, aprendo nuove vie all’antropologia educativa, la concezione della superiorità del morale sul corporeo, attraverso la dimostrazione della capacità del corpo umano di generare sensazioni e pulsioni che attraverso i circuiti nervosi riescono ad influenzare gli altri organi, compreso il cervello e la produzione di idee (Moravia, 1979, pp. XXXVIII-IXL). Il corpo diviene, così, il luogo principale della costruzione di ogni relazione umana e di un dialogo aperto, pronto ad accogliere le differenze (Cfr. Magnanini, 2005). Séguin attento studioso, ben inserito nel panorama e nel dibattito scientifico culturale del suo tempo, compie un ulteriore passo avanti accostando ed intrecciando l’educabilità di persone fino ad allora “ignorate” (si occupa di quelli che all’epoca venivano definiti idioti) con le teorie sull’importanza e l’educabilità del corpo. E lo fa allargando il campo d’indagine, ossia scoprendo quel corpo limitato, segnato, incapace, fuori dalla norma (Cfr. Stiker, 2001, pp. 47-65), che per secoli ha rappresentato e mostrato la “diversità” e l’anormalità, continuando il lavoro di Itard (Cfr. Mannucci, 2004, p. 175). Non si tratta di analizzare, sbeffeggiare, esorcizzare il corpo, ma di educarlo. Questa è una vera e propria rivoluzione poiché attraverso il “recupero” della corporeità la persona con disabilità diviene visibile, per la prima volta in una accezione positiva e non di ridicolizzazione, demonizzazione e paura4. L’idiota, l’anormale ha un corpo, lo deve conoscere, rispettare, ascoltare, rendere partecipe di quell’affascinante viaggio educativo che trasformerà la persona, che gli consentirà di affinare quegli strumenti utili a vivere la propria vita in un contesto sociale comune, valorizzando le proprie capacità e sviluppando risorse inaspettate fino a quel momento. Su questa linea, possiamo rintracciare nell’opera di Séguin (dedica due interi capitoli del suo volume all’educazione fisica: Educazione del sistema muscolare; Ginnastica ed educazione del sistema nervoso e dei centri sensori) alcune indicazioni di fondo che sottolineano, al di fuori di un contesto meramente terapeutico, come corporeità e disabilità non siano due aspetti in antitesi tra di loro e come, al contrario, attraverso l’attività motoria ed il movimento, sia possibile, restituire al soggetto in difficoltà, la propria corporeità.

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Fino al XIX secolo era documentata la pratica “di murare i bambini deformi… nelle fondamenta di un edificio o nei pilastri di un ponte per rinforzarli. Il mostro che sfuggiva alla morte, del resto per poco tempo perché non riusciva per le scarse o nulle cure a sopravvivere oltre qualche settimana, non sfuggiva però al destino alternativo di essere mostrato per denaro da parte dei genitori”, Genovesi G. (1998). Le parole dell’educazione: Guida lessicale al discorso educativo. Corso: Ferrara, p.121. Il “mostro”, così definito per antonomasia il diverso, non aveva ragione di esistere e veniva studiato più per indagare le ragioni di una nascita così sciagurata che per cercare le strade possibili di un miglioramento della sua qualità di vita, finendo per fondare delle vere e proprie classificazioni fisiche e morali (si pensi all’Historie générale et particulière des anomalies, di Isidore Geoffroy de Saint Hilaire del 1836). Soltanto dalla fine del Settecento e poi per tutto l’Ottocento, non senza contraddizioni, il diverso comincia ad essere oggetto di analisi medica, politica ed educativa, dapprima sulla scia illuministica dell’affermazione del bisogno di istruzione pubblica per tutti e di allagamento delle basi dello Stato e, successivamente, sullo slancio del positivismo, in virtù del nuovo significato attribuito alla scienza nella sua spendibilità pratica per il miglioramento della condizione umana. Cfr. Gelati M. (1995). Positivismo e cultura della diversità: i medici educatori, in Genovesi G., Rossi L. (a cura di), Educazione e Positivismo…, estremi bibliografici nel corpo del testo.

I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


L’attività motoria strategicamente inserita in un progetto educativo intenzionale, aiuta le persone, con e senza disabilità, a comprendere i propri limiti e le proprie risorse, trasformando entrambe le dimensioni in slanci utopici orientati al miglioramento di tutti (Cfr. Magnanini, 2008). Come a dire che tra disabilità e corporeità l’anello di congiunzione diviene l’educazione del “fisico”, che nel pensiero di Séguin si fonda su un generale sistema educativo, contribuendo, nello stesso tempo, a strutturarlo e a modificarlo, in un continuo gioco di specchi, che finisce per dare organicità e sistematicità all’educazione, messa a punto da Séguin stesso. Antonio Gonelli Cioni nel Dizionario Illustrato di Pedagogia, pubblicato a Milano a fine Ottocento, definisce, infatti, Séguin come “colui che seppe individuare ed applicare per la prima volta un vero metodo paziente ed esatto di educazione” (Gonelli Cioni, 1895-1897, p. 714) quando “fino ai primi del secolo filosofi e medici si erano limitati a dissertare più o meno dottamente… come argomento di semplice curiosità scientifica” (Gonelli Cioni, 1895-1897, p. 715). Senza un’idea di educazione l’incontro tra corporeità e disabilità non potrebbe avvenire, così l’educazione, assumendo come sue dimensioni portanti la diversità e la corporeità, diviene la chiave di volta per il miglioramento della civiltà intera. Aspetto questo che superando la stessa opera di Séguin, si presenta come fondamentale per impostare un lavoro educativo, fondato scientificamente, per il progresso dell’umanità.

3. L’educazione… con ed oltre il deficit

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Séguin, passando in rassegna gli studi medici dei suoi predecessori e i loro metodi, le teorie e le pratiche di insegnamento allora in uso, allontanandosi dalle teorie sensiste e dall’approccio “individualizzato” di Itard (Gelati, 2004, p. 28), di cui idealmente continua l’opera, discostandosene sia per l’approccio utilizzato, sa per una maggiore chiarezza sulle definizioni di “disabilità”, sia per la sistematicità dei suoi studi (Pioli, 1987, p. 219), riesce ad elaborare un sistema educativo nuovo e originale, che tiene costantemente conto e dei dati medici e di quelli educativi, tanto che egli stesso afferma che “invece di scrivere un libro su di un unico oggetto, credo di averne scritti due; uno sull’idiozia, l’altro sull’educazione” (p. 30). Egli è convinto che per lavorare efficacemente su soggetti in difficoltà sia necessario il costante intreccio tra dati educativi e dati medico-clinici, la cui interazione riesce a prefigurare itinerari costruiti ad hoc sulle persone e non su tipizzazioni elaborate in laboratorio. Questo pare un elemento estremamente significativo poiché mette in rilievo la necessità di considerare l’individuo nella sua unicità, nelle sue particolari forme, non escludendolo dalla vita comune perché difforme dalle caratteristiche diffuse in una data comunità. L’attenzione principale è all’uomo e non alla sua disabilità. Conoscere il quadro clinico è importante, ma per intraprendere un cammino educativo che si apre al miglioramento costante ed alla possibilità di offrire davvero a tutti degli strumenti di crescita e di consapevolezza di sé, senza categorizzazioni, discriminazioni e violenze. Aspetto che si può ottenere attraverso un processo educativo volto sempre ad includere al proprio interno ogni entità vivente per quella spinta incessante dell’educazione a rivolgersi sempre a tutti, perseguendo per tutti gli stessi obietanno I | n. 1 | 2013

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tivi e non escludendo mai nessuno, avendo sempre presente e l’uomo ed il contesto, che come rileva de Anna, in Séguin diviene fondamentale. Edouard Séguin, acceso repubblicano, è fortemente convinto del potere dell’educazione. Egli da educatore, pedagogista e medico5 presta sempre molta attenzione agli intrecci tra medicina ed educazione, spinto dagli insegnamenti del pensiero di Saint Simon e dalle collaborazioni con Itard ed Esquirol6, con il quale nel 1838 pubblica un primo rapporto di un esperimento educativo condotto con una persona con idiozia (esempio concreto della collaborazione tra medicina e pedagogia), iniziato l’anno precedente. La sua attività a favore dell’educazione si svolge senza tregua tra le tante difficoltà che incontra sul suo cammino, sempre sorretto, però, dalla volontà di affinare i propri studi e le proprie ricerche, tanto da essere considerato uno dei padri della Pedagogia speciale. In Francia, egli dapprima opera all’Ospizio degli Incurables, dove sperimenta con successo esercizi fisici, attività di alfabetizzazione ed il trattamento morale, attraverso il cosiddetto metodo dei tre tempi: fissazione, riconoscimento, evocazione mentale (Gaudraeu, 1988, p. 84), poi, a Bicêtre e a Pigalle, dove apre una scuola privata, dopo aver abbandonato il lavoro all’ospedale a seguito di conflitti con i colleghi e dei pareri negativi circa il suo metodo di “educazione e di cura morale”. Trasferitosi, in seguito negli Stati Uniti7, dopo la proclamazione di Napoleone III, continua incessantemente la sua carriera, fondando istituti per idioti, perfezionando la propria metodologia (Pavone, 2010, p. 31), finendo per ispirare il lavoro di molti medici, educatori e pedagogisti nella rivendicazione del rispetto inalienabile alla e della vita delle persone più deboli. Il suo sistema educativo si fonda sull’unità funzionale tra il moto e il senso e tra il senso e l’intelligenza. Nell’educazione di un deficiente, per lui è fondamentale prima di tutto esercitare i sensi, attraverso un approccio senso-motorio che riesce a collegare l’attività fisica con l’individualità e con la socializzazione (Cambi, 1995, p. 388). Egli è convinto che sottoponendo tutti gli organi a un costante e consapevole esercizio, essi si possano sviluppare, ivi compreso il cervello. Elemento questo fondamentale per non condannare idealmente per sempre al caos o all’infermità completa chi soffre di malattia mentale, cominciando a scrivere per questi soggetti una nuova storia, ricca di soddisfazioni, miglioramento, inclusione e partecipazione sociale, ribaltando quel pregiudizio diffuso sulla incurabilità dell’idiota, suffragata dalla “ipersensibilità delle madri, l’accettazione passiva di alcuni genitori, il pregiudizio religioso” (Cfr. p. 163). Il suo vuole essere un sistema educativo integrale, che comprende tutte le

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Séguin riceve la laurea in Medicina “ad honorem” presso la University College di New York nel 1862. Cfr. Berbero S. (2000). E. Séguin. Pedagogista clinico. Pedagogia clinica, 1, p.29. Jean-Étienne Dominique Esquirol (1772-1840), psichiatra francese, sostenitore dell’origine patologica delle alienazioni mentali. Cfr. Pesci G., Pesci S. (2005). Le radici della Pedagogia speciale…, estremi bibliografici nel corpo del testo. Prima di lasciare Parigi, Séguin scrive due opere importanti nel settore: Teoria e pratica dell’educazione degli idioti (1841) e Trattamento morale, igiene ed educazione degli idioti e degli altri fanciulli arretrati (1846). Nel 1895 scrive anche Rapport et Memoire sur l’éducation des enfants normaux et anormaux. Si veda a tal proposito il volume di Calò G. (1946). Pedagogia degli anormali. Firenze: Editrice Universitaria.

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inclinazioni, le facoltà e le funzioni di un individuo, in modo da sviluppare tutti gli aspetti della personalità. Bisogna dotare l’individuo di una quantità sufficiente di idee, di attitudini, per renderlo utile a se stesso e agli altri, educandolo a vivere libero, sotto l’unico governo della sua volontà illuminata dall’intelligenza e dalla moralità (p. 69). Nessuna strada deve essere preclusa all’educazione e all’individuo che necessariamente deve percorrere questo sentiero con tutti gli strumenti a disposizione per arricchirsi e affinarsi costantemente verso un proprio progetto di vita autonomo e soddisfacente. L’educatore non deve limitarsi ai sintomi, alla patologia, ma deve sempre considerare la persona nella sua interezza e totalità. La riflessione di Séguin è molto attuale. Egli insiste sulla necessità di una buona diagnosi, associata all’invenzione di mezzi specialmente “adatti al caso” (p. 399). Si deve partire dal deficit, per poi, superarlo, andare oltre, trasformandolo in un alleato nel viaggio verso la costruzione di sé. Per questo insiste su una diagnosi ben fatta. L’idiozia, infatti, ha sintomi comuni, ma talvolta tanto vaghi e oscuri (p. 156) per cui è necessario consultare la famiglia, che si pone come fondamentale nella descrizione dei comportamenti e degli stati dei bambini al momento dell’insorgenza del male stesso. Una diagnosi chiara e precoce potrà indirizzare al meglio verso un percorso educativo individualizzato in grado di attivare tutte le risorse presenti in un soggetto, affinando le sue potenzialità e capacità. Per Séguin, l’idiozia è una infermità del sistema nervoso che ha per effetto radicale di sottrarre tutti o parte degli organi e delle facoltà del bambino all’azione regolare della volontà e lo abbandona agli istinti sottraendolo al mondo morale (p. 99).

Vi sono dei sintomi fisiologici da non sottovalutare per impostare con gli idioti un lavoro di recupero, di riabilitazione e di miglioramento continuo. Questi sintomi sono la difficoltà di parola, la fissità dello sguardo, la difficoltà d’ascolto, la difficoltà di sensibilità tattile, l’eccesso di attività, la presenza di movimenti meccanici e di stereotipie motorie, come il “dondolio nell’ambulazione e comportamenti motori difficoltosi, tanto che i movimenti coordinati sono disordinati” (p. 126). Questo stato conduce gli individui ad una vita caotica, a situazioni di isolamento ed inattività, per questo è necessaria l’educazione, per rendere il soggetto costruttore e facitore della propria condotta esistenziale, potendo compiere scelte, laddove sia possibile, potendo agire autonomamente, potendo lavorare e costruirsi una vita “su misura”, perché in grado di percepirsi e sentirsi come soggetto autonomo e capace. “Aspettando che la medicina guarisca gli idioti”, scrive Séguin, “ho deciso di farli partecipe dell’educazione”. La chiave di volta per Séguin stesso è rappresentata dalla educabilità di tutti i soggetti e dalla messa a punto di un costrutto teorico e pratico, insieme, dell’educazione, in modo da consentire la gestione razionale del deficit, impedendo a quest’ultimo di divenire la prigione del soggetto, per costruire l’uomo che non c’è e che è il fine utopico di qualsiasi percorso educativo, a prescindere dal deficit che colpisce il soggetto stesso.

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4. Educazione per tutti e di tutti Il punto di partenza di Séguin è quello di impostare una nuova educazione, non fondata esclusivamente sulla memoria e che non preveda l’ammassamento di migliaia di bambini in specie di caserme, dove senza tener conto delle diverse capacità fisiche, delle varie necessità fisiologiche, delle diverse disposizioni intellettuali, si danno ogni giorno a tutti, indistintamente ed esclusivamente, quattro o cinque razioni d’elementi intellettuali (p. 262).

Egli insiste, così, sulla necessità di preparare e costruire un ambiente educativo accogliente, più libero e stimolante, rispetto a quello autoritario e segregante utilizzato negli Istituti per anormali del tempo, con conseguenze migliorative su tutto il contesto sociale. L’educazione deve comprendere l’uomo tutto intero, facoltà, funzioni e attitudini comprese e deve abbracciare tutte le forme di “vitalità dell’individuo”, le sue anomalie per sviluppare i suoi centri in modo che le sue funzioni acquisiscano il massimo di capacità, di rapidità, di estensione e precisione possibile; funzioni cerebrali, funzioni muscolari, funzioni sensoriali, organi del pensiero, del movimento, delle sensazioni, funzioni del corpo e dell’anima, attività manuale, intelligenza e moralità (p. 264).

32 L’educazione deve comprendere tutto questo: uomo e ambiente, in un rapporto indissolubile. L’aspetto significativo che emerge dalla riflessione di Séguin rimanda alla considerazione di un concetto di educazione unitario, non divisibile (se non metodologicamente) che si fonda su una visione dell’uomo considerato come unità psico-somatica, in cui tutto concorre a definirne l’essenza. Non ci sono parti da educare ed altre da sottovalutare, rifiutare o rinnegare. L’azione educativa è sinergica, pluridirezionale ed è volta ad una crescita intenzionale, unitaria e globale. Non si possono educare le facoltà mentali a discapito di quelle sensoriali, motorie o viceversa, perché altrimenti si finirebbe per costruire un individuo a metà. Attraverso questa visione di fondo, l’educazione si apre e si rivolge a tutti gli esseri viventi, qualunque sia la loro condizione fisica o mentale, per riceverne i benefici ed evolversi costantemente. L’educazione, allora, in questa direzione non può escludere nessuno. Lo stato patologico del sistema nervoso degli idioti potrà richiedere percorsi alternativi, incontrare battute d’arresto, ma questo non deve impedire il “combattimento”. Bisogna affinare le armi, preparare il terreno, attivare le diverse forme di vitalità, “strapparle al torpore”. Questa è una bella lezione di Pedagogia speciale, che finisce per aprire davvero nuove frontiere culturali ed operative verso un’educazione di tutti e per tutti. Una volta affermato questo principio, il compito dell’educatore sarà quello di trovare la strada, gli ausili giusti, gli strumenti di intervento, tenendo sempre presente che se cambiano i mezzi, non può cambiare la finalità del compito educativo, lasciandosi guidare dalla consapevolezza che l’uomo non cambia la sua natura a causa del suo deficit, resta un uomo che contiene in sé tutta l’umanità.

I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


Su queste spinte ideali, l’educazione secondo Séguin deve perciò includere l’attività (sentimento), l’intelligenza (intelletto), la volontà (moralità) per dare al bambino che “noi prendiamo anormale, inabile, inintelligente, idiota, delle abitudini normali, delle attitudini di lavoro sia intellettuale, sia manuale (p. 267), per aiutarlo a divenire uomo, come tutti gli altri uomini. E per intraprendere questo affascinante viaggio di scoperta, bisogna partire dal corpo, poiché l’uomo “si muove e sente, prima di sapere, e sa molto, prima di aver coscienza della moralità dei suoi atti e delle sue idee” (p. 266). Per questo l’educazione del bambino con disabilità, sostiene Bocci, ha senso nel concreto, nel reale, attraverso i sensi (e non educando i sensi), procedendo sempre dal conosciuto all’ignoto, dal semplice al complesso, dal concreto verso l’astratto (Bocci, 2011, p. 100). Il procedimento di Séguin, a questo punto, appare chiaro: egli postula un paradigma teorico dell’educazione, alla luce del quale crea un modello di insegnamento da sperimentare, verificando, così, attraverso continui feedback, la validità del paradigma stesso, perfezionandolo incessantemente, fino alla sua morte avvenuta nel 1880.

5. La centralità del corpo: tra limiti, risorse ed identità L’educazione secondo Séguin ha le sue radici nel corpo. Bisogna partire da esso affinché l’individuo possa svilupparsi, crescere e migliorarsi. Senza il corpo, l’educazione fallirebbe miseramente poiché è proprio attraverso il corpo che l’uomo agisce, riceve impulsi, costruisce pensieri, azioni, verifica, sperimenta le situazioni e gli stati emotivi (la stessa etimologia del termine corpo, rimanda a questa propensione ad attuarsi facendo, dal latino corporis, genitivo di corpus, che alcuni comparano all’armeno kerp, forma, immagine e al sanscrito karp, bellezza, bello d’aspetto, la cui radice kar è presente nel verbo greco kraino, creare, compiere) (Magnanini, 2006, p. 113). Il corpo dell’idiota è un corpo “limitato”, sofferente, immobile, a volte poco ricettivo, in altri casi iper-attivo, con stereotipie del movimento. Così lo descrive Séguin: l’idiota si “morde violentemente, si colpisce” (p. 94), ha assenza di sensibilità, i suoi piedi sono sprovvisti di sensibilità tale che non può, il più spesso, poggiarli a terra per camminare; oppure cammina sui calcagni o in modo che sembra non toccare il suolo e dover cadere a ogni passo che tenta (p. 123),

ha incapacità di parola, mollezza dei tessuti, incapacità di contrazione degli sfinteri, debolezza di costituzione, difetti di deambulazione. Insomma, il suo corpo appare segnato, con vistosi limiti a condurre una vita normale. Per questo è necessario che l’idiota stabilisca un contatto con se stesso, a partire dal proprio corpo, per percepirsi, per sentirsi, per determinarsi e costruirsi individualmente. Séguin, infatti, afferma che si cercherebbe invano di trattare con lui come un soggetto normale, che sappia leggere, scrivere, contare, dicendogli: leggi, scrivi, conta se non sa

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reggersi in piedi, star seduto, correre, stare a tavola come tutti gli altri, se ha bisogno di aiuto per vestirsi, se non sa agire in modo naturale su tutte le parti della sua persona (p. 374).

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Ecco un aspetto preponderante per l’educazione: il soggetto deve poter avere consapevolezza di sé, utilizzando le parti del proprio corpo in maniera autonoma ed intenzionale, oppure trovando ausili, strategie e compensazioni alle proprie mancanze. L’importanza del corpo, a prescindere dalla forma che esso assume concretamente, consente l’incontro tra le attività motorie e la disabilità, all’interno del circuito educativo. Soltanto mettendo in relazione il soggetto con disabilità con il proprio corpo si può cominciare ad impostare un lavoro educativo valido ed efficace, poiché esso si fonderà sulla costruzione della percezione corporea, fondamentale per creare l’identità di ogni soggetto. L’educazione dovrà lavorare, cominciando dal corpo, da capacità residue, da abilità presenti e da affinare, per dare il massimo di autonomia possibile ad ogni individuo. Occuparsi del corpo significa porre le basi per la continuazione del processo evolutivo del soggetto e significa, soprattutto, mettere l’individuo di fronte ai suoi limiti per superarli e trasformarli in alleati e non in impedimenti alla propria realizzazione. Il limite, infatti, dal punto di vista educativo, diviene contemporaneamente una sfida da accettare e da superare, con la quale sempre confrontarsi, per abbattere l’idea di ostacolo, di linea di demarcazione che nel temine stesso è insita, così come suggerisce l’etimologia8. Il limite, dal punto di vista della disabilità si può leggere su due livelli, il limite personale, del soggetto che vive continuamente una situazione di disagio, di confine, per adattarsi ad un mondo non costruito per lui, e il limite contestuale, culturale-sociale, che è dato da quelle barriere fisiche e mentali che la società ha costruito per separare il mondo in due grandi insiemi, quello dei normali da una parte e quello dei diversi dall’altra parte. La persona con disabilità, così, vive continuamente tra due grandi limiti, quelli personali e quelli contestuali finendo spesso per rimanerne vittima. Per questo l’educazione deve sempre lavorare su entrambi i livelli, per attrezzare, da una parte, le persone a far fronte ai disagi ed alle difficoltà, e dall’altra parte, per dare vita ad un cambiamento di mentalità, impostando una vera e propria cultura dell’accettazione e della valorizzazione dell’altro, che coincide necessariamente con il ripensamento del mondo e del modo di vivere, per costruire una società davvero per tutti, senza discriminazioni. Per Séguin l’accettazione del limite ed il suo superamento passa attraverso il corpo e la sua educazione, solo attraverso questo canale, si può davvero operare per quel cambiamento sopra indicato, scoprendo contemporaneamente le tante risorse, anche in attese, che sono proprie ed originali in ogni persona.

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Limite dal latino limes, connesso a limus (obliquo) e limen (soglia). I romani chiamavano Limiti le pietre che segnavano i confini: erano sacre e non potevano essere rimosse essendo sotto la protezione di una divinità detta Limite o Termine, Cfr. Voce “Limite”, in Dizionario Etimologico (2004). Rusconi: Sant’Ancangelo di Romagna, p. 577.

I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


6. La ginnastica come strumento educativo Secondo Séguin il mezzo principale attraverso il quale consentire alla persona disabile la scoperta e la conoscenza di sé deve essere offerto dalla ginnastica, che nel corso dell’Ottocento, conosce un forte sviluppo dal punto di vista pedagogico e medico. Basti pensare al diffondersi in tutta Europa delle teorie di Spiess, di Ling e di Amoros9, che, da diverse prospettive di studio, tentano di fondare scientificamente la ginnastica, contribuendo allo sviluppo dell’educazione fisica moderna. Séguin ha le idee chiare, non si tratta di una ginnastica che si occupa soltanto dello sviluppo muscolare” per formare gli atleti. La ginnastica di questo tipo non ha “nulla a che fare con l’educazione e ha risultati molto lontani dall’attuale fine sociale, poiché favorisce lo sviluppo esclusivo e il predominio del sistema muscolare (p. 271),

finendo per essere nociva ed anacronistica per gli idioti. Bisogna invece, secondo Séguin, utilizzare la ginnastica secondo i principi dell’educazione, farla divenire uno strumento fondato educativamente per il fine ultimo della formazione del soggetto. La ginnastica è uno strumento trasversale che non riguarda solo il corpo, ma tutto l’uomo nel suo complesso. Infatti, scrive Séguin, la ginnastica che io indico riguarda l’educazione intellettuale e morale per l’influenza che le assegno sul sistema nervoso e sugli organi delle sensazioni. Con essa il bambino passa dagli esercizi puramente fisici agli esercizi fisiologici… mediante una gradazione ininterrotta che evita l’inerzia (p. 272).

Bisogna sempre agire in simultanea e sul sistema muscolare e sul sistema nervoso, poiché solo così l’uomo, potenza dinamica, (272) può completarsi. Dopo una attenta osservazione del soggetto, dei suoi comportamenti, dei suoi limiti, si deve lavorare per trovare l’equilibrio dei centri e delle funzioni del soggetto, operando dapprima in modo speciale per ogni soggetto dal punto di vista muscolare, secondariamente dal punto di vista nervoso ed in seguito in maniera integrata e con cure appropriate. Non esiste un metodo valido per tutti. Gli esercizi vanno calibrati e resi idonei alle capacità dei soggetti. All’inizio bisognerà guidare passo per passo i bambini, per rendere i movimenti sicuri, per, poi, passare a generalizzare gradualmente gli apprendimenti motori, rendendoli efficaci nelle diverse situazioni di vita. Non appena, infatti,

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A. Spiess (1810-1858) fonda una vera e propria ginnastica pedagogica, nella quale l’attività motoria è accuratamente graduata e motivata da rigorosi criteri scientifici, tanto da trasformarla in una disciplina scolastica, come vero e proprio mezzo d’educazione; P. Ling (1776-1839), valorizza le funzioni igieniche e terapeutiche dell’attività motoria per migliorare le condizioni di salute fisica e morale, mediante un lavoro analitico fondato sui movimenti; F. Amoros (1770-1847) mette a punto una ginnastica militare, arricchita da idee pedagogiche, intenta a sviluppare tutte le facoltà umane: fisiche, fisico-morali e morali. Cfr. Di Donato M. (1984). Storia dell’educazione fisica e sportiva. Indirizzi fondamentali. Roma: Studium e Barbieri N. S. (2002) Dalla ginnastica antica allo sport contemporaneo. Lineamenti di storia dell’educazione fisica. Padova: Cluep.

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l’uso delle mani comincerà a compiersi sotto il comando dell’istinto di conservazione, si deve applicarlo ai bisogni dell’alimentazione, ai bisogni usuali della vita e da ultimo alle occupazioni più estranee alle abitudini del bambino, come fargli maneggiare pietre, mattoni, zappe, vanghe, carriole (p. 274).

Tutti devono, poi, familiarizzare con la ginnastica delle dita richiesta dagli atti più semplici e allo stesso tempo più necessari della vita quotidiana, come vestirsi, abbottonarsi, annodare, piegare, innalzare, raccogliere corpi… mettere in ordine, lavarsi, pettinarsi (p. 276).

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Il processo di apprendimento motorio non è fine a se stesso, ma un passo decisivo per far raggiungere al soggetto in condizione di disabilità delle autonomie in grado di consentirgli una condotta di vita regolare ed attiva .Con la ginnastica si potranno sviluppare funzioni muscolari, utili allo sviluppo delle attitudini. La ginnastica ipotizzata da Séguin deve avere per oggetto “una o più funzioni attive necessarie… agli atti della via comune, come reggersi in piedi, camminare, correre, arrampicarsi, salire, scendere… cucire, attaccare, annodare”. Non vi è bisogno di una ginnastica raffinata e audace, ma “modesta”. Per l’idiota non è importante diventare un atleta o un saltimbanco, ma un soggetto autonomo, in grado di muoversi, potendo sostenere l’esecuzione meccanica delle manovre che dovrà effettuare, . Séguin fonda un sistema ginnastico, presentando una serie di sequenze di esercizi, secondo i “temperamenti”. Bisogna cominciare con gli esercizi del torace, poi esercizi della colonna vertebrale, con “movimenti generali e parziali” (p. 278). Nell’impartire la ginnastica agli idioti bisogna tener presente l’imitazione, il mezzo attraverso il quale raggiungere e stimolare i giovani allievi. Essi vanno accompagnati a conoscere le parti esterne del proprio corpo per poi farli muovere intenzionalmente, aiutando progressivamente i soggetti a compiere movimenti sempre più complicati e raffinati, in modo da coinvolgere sempre e il sistema muscolare e quello nervoso. Lo scopo è modificare e creare nuovi abitudini di vita. Il contatto corporeo permette al soggetto di conoscersi e di padroneggiare i propri movimenti per trasformarli in azioni volontarie. Dopo essersi occupati dei movimenti è necessario passare alla ginnastica del sistema nervoso e dei centri sensori per approdare all’educazione intellettuale. Secondo Séguin è utile partire dal tatto (crea il primo collegamento con tutto ciò che circonda il bambino), per passare allo sguardo, all’udito, ed infine al gusto e all’odorato. Si educano la parola e la vista per poi approdare alla scrittura, alla lettura, all’esercizio della memoria (Cfr. pp. 300-301). Tutto passa necessariamente dal corpo. Per giungere a procedimenti logici, linguistici, di memoria non si può trascurare il corpo, che, anzi, diviene il centro dell’agire educativo. Senza esso, infatti, non si può educare. In ultima analisi, l’educazione attraverso la ginnastica ha come finalità l’inclusione sociale della persona con disabilità nella propria comunità, poiché gli consentirà di essere adatta a svolgere un lavoro, aspetto imprescindibile per inserirsi nel contesto sociale, con un ruolo autonomo, attivo e responsabile. Anche qui ritroviamo l’attualità del pensiero di Séguin nel percorso verso la socializzazione, l’inserimento e poi l’integrazione delle persone con disabilità nella società civile. I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


7. Brevi note conclusive Gli studi e le riflessioni di Séguin consentono di far emergere una struttura portante del concetto di educazione: la corporeità. Il corpo, in Séguin, diviene il fulcro di un congegno educativo che per attuarsi non può che partire da esso, scoprendone limiti e risorse e rendendolo il protagonista di un viaggio educativo-esistenziale, capace di costruire dall’idiota (per i più spacciato), l’uomo. In questa direzione, Séguin contribuisce in maniera significativa ed originale a far germogliare un nuovo approccio culturale alla diversità ed alla valorizzazione di essa in un mondo che fino a quel momento ha nascosto i corpi diversi, negando il diritto fondamentale alla vita. La lezione di Séguin è fortemente attuale, poiché indica, inoltre, da una parte, come una attività motoria, educativamente fondata, sia uno strumento dell’educazione, intesa come ricerca, come crescita, come percorso verso lo sviluppo dell’umanità e, dall’altra parte, come l’educazione riguardi tutti, senza esclusione alcuna, volgendo il proprio sguardo alla costruzione di un mondo in cui l’integrazione non sia più solo una sfida utopica, ma un traguardo raggiungibile.

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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


Elementi per una rilettura pedagogico-speciale di un «serious philosophical problem»

Key words: disability, Special Pedagogy, bioethics, prenatal diagnosis, humans

I. Riflessione teorica *

L’intero articolo è frutto del lavoro congiunto dei due autori. In particolare, Antonello Mura, professore associato di Pedagogia Speciale presso l’Università di Cagliari, è autore delle sezioni 1 e 3; Antioco Luigi Zurru, ricercatore di Pedagogia Speciale presso l’Università di Cagliari, è autore delle sezioni 2 e 4; le conclusioni sono da ascriversi ad entrambi gli autori.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The purpose of the article is to open a space for dialogue between disciplines known to be involved in bioethical debate, on the one hand, and studies of Special Pedagogy, on the other. If sindromic conditions are treated as the only yardstick of survey of existential possibilities of the unborn child, the reflection on disability condition risks to get exhausted in philosophical, moral and legal discussion, which are not comprehensive of the issue. Starting from a different consideration of deficit situation in the unborn and new born and taking on a pedagogical perspective on the theme, authors offer some elements for the construction of a new reflective horizon with which to develop questions and answers of different sign.

abstract

Antonello Mura, Università di Cagliari Anioco Luigi Zurru, Università di Cagliari

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1. Anche un «serio problema filosofico» necessita di una rilettura pedagogica

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È recente la necessità di accogliere la prospettiva della disabilità all’interno del discorso bioetico come dimensione ancora misconosciuta, ma preziosa. Alcuni autori, infatti, sottolineano come si sia prestata solo un’attenzione superficiale alle problematiche inerenti alla disabilità mancando, così, di promuovere un potenziale arricchimento della cultura bioetica (Kuczewski, 2001). Si ritiene, infatti, che l’incontro tra la bioetica e i disability studies possa favorire la comprensione delle storie reali di coloro che vivono in complesse situazioni di salute e, allo stesso tempo, portare un approfondimento delle questioni riguardanti i processi di terapia e cura (Newell, 2006). A tal proposito, però rimane ancora poco esplorato l’apporto che la riflessione pedagogica può conferire a tale dibattito. In particolare, il riferimento volge in direzione degli studi che in Italia si radicano nel sapere della Pedagogia Speciale: disciplina che si accosta a ciò che, in ambito internazionale, si connota come Disability Pedagogy (Nocella et al., 2008), piuttosto che Special Education. In un simile quadro, l’obiettivo è quello di ampliare il focus del dibattito bioetico sulle condizioni e sulle dimensioni della vita – attualmente centrato su aspetti di carattere filosofico, giurisprudenziale e sanitario – proponendo una riflessione sulla disabilità aperta ad accogliere la soggettività di ogni esistenza umana. A tal proposito, si rende necessario ripensare in maniera critico-pedagogica i molteplici elementi che emergono nel lungo e complesso processo d’inclusione delle persone disabili. Le differenti e fondamentali condizioni attraverso le quali la vita si realizza assumono, infatti, importanza pedagogica. Anche se particolarmente complicate, le modalità di concretizzazione dell’esistenza non vietano di pensare ad un fondamentale diritto alla vita, per il quale anche la Convenzione dell’ONU garantisce l’«effettivo godimento […] su basi di uguaglianza con gli altri» (United Nations, 2006, art. 10). Affermare che tale diritto è connaturato ad ogni essere umano, però, potrebbe non essere sufficiente se non si ammette una più ampia riflessione anche sulle condizioni culturali e concrete necessarie ad offrire ad ogni individuo la possibilità di declinarlo. In relazione alla questione sono state sviluppate una pluralità di tematiche che innervano il discorso bioetico: le posizioni “pro choice” e sulla liceità dell’aborto (Thomson, 1971; Finnis, 1973); la riflessione sulla dignità della vita disabile (Campbell, 1979); il bilancio degli aspetti relativi alla condizione morale della scelta (Kuhse, Singer, 1985); le argomentazioni sull’autodeterminazione femminile (Beckwith, 2006); le controversie fra le politiche di salvaguardia del principio di controllo sul proprio corpo, da una parte, e i diritti delle persone disabili dall’altra (Sharp, Earle, 2002). Ancora in letteratura, la ricerca ha focalizzato il proprio interesse nei confronti delle problematiche legate alle discriminazioni nei confronti delle persone disabili (Gillam, 1999) e ai dilemmi etici che derivano dagli sviluppi tecnologici rivolti alla costruzione di un sempre più raffinato apparato di conoscenze per l’individuazione precoce di malattie genetiche e di malformazioni (Cameron, Williamson, 2003). È divenuto sempre più chiaro, quindi, come il dibattito bioetico si sia concentrato sulle problematiche relative alla relazione tra il diritto alla scelta e il sapere medico, da una parte, e sulle possibilità che gli I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


sviluppi tecnologici individuano nei confronti delle condizioni più delicate della vita, dall’altra (Daniels, 2006). Ancora non considerata rimane, invece, la possibilità di ripensare ed ampliare l’agenda del discorso bioetico attraverso l’apertura ad una riflessione pedagogica che investa la cultura e i contesti in cui si realizzano i processi di cura. L’analisi approfondita delle suddette posizioni lascerebbe emergere, infatti, come l’inquadramento complessivo del tema della disabilità all’interno del dibattito bioetico sia riconducibile alla sola focalizzazione sulle condizioni deficitarie e sui possibili tratti sindromici del nascituro. Lo stesso tipo di atteggiamento è ravvisabile anche nelle pratiche cliniche a supporto della maternità, nonostante in più Paesi l’interruzione volontaria di gravidanza sia garantita nei casi di pericolo per la salute della donna. Anche nella recente riflessione di Giubilini e Minerva (2012), infatti, il focus dell’attenzione è esaurito intorno alle condizioni sindromiche del feto. Queste sono considerate l’unico metro di giudizio rispetto al significato che la disabilità può assumere nell’esperienza soggettiva. In tal senso, per gli autori diventa lecito discutere sulla possibilità di pensare ad una forma di «after-birth abortion» come la soluzione di un «serio problema filosofico». Gli autori, infatti, individuano tale dilemma nelle situazioni in cui le condizioni sindromiche del feto, che prima della nascita avrebbero giustificato l’aborto, dovessero emergere solo dopo perché non adeguatamente diagnosticate durante la gestazione. Simili considerazioni, benché non immediatamente licenziabili come «oltraggiose» (Brassington, 2012; Savulescu, 2012), possono generare una distorsione della realtà che conduce a veri e propri paradossi (Griffin, Fox, 2009) per i quali la comprensione della disabilità rischia di vincolarsi e ridursi ancora una volta in binomi del tipo sano/malato e cura/terapia. La diffusione di tali convinzioni e della cultura che le supporta orienta attualmente sia il dibattito scientifico sia l’opinione pubblica e contribuisce a definire aprioristicamente le condizioni di dignità con le quali si esperisce la vita. Ciò che sta emergendo, in sintesi, è la possibilità che il deficit, o meglio la condizione sindromica del feto, diventi una valida ragione per definire l’esistenza del nascituro come fonte di «pesi insopportabili», non valevole d’essere accolta e tantomeno supportata e stimolata verso una vita significativa. In considerazione del ruolo che tali posizioni assumono nel dibattito scientifico e delle ricadute in ambito clinico, diventa necessario verificare se la prospettiva pedagogico-speciale, capace di guardare alla disabilità non come ad una situazione patologica, ma ad una condizione esistenziale, possa porre quesiti e prospettare risposte di segno differente.

2. Il diritto può non essere sempre sufficiente Se si assumono le condizioni sindromiche e le malformazioni come unico metro di giudizio nei confronti dell’esistenza del nascituro, in effetti, come affermano Giubilini e Minerva (2012), di fronte alla nascita di un individuo definito “malato” non rimane altra scelta che accettare la situazione di disabilità, quale condizione mai voluta. Simili considerazioni sono spesso accompagnate dal riferimento, anch’esso angusto, alla condizione di status morale del nuovo nato e alla sua comanno I | n. 1 | 2013

ANTONELLO MURA, ANTIOCO LUIGI ZURRU

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parazione con quella del feto, che ancora non sarebbe persona. La mutevolezza delle circostanze e degli elementi che possono essere addotti per la comprensione del significato dello status morale rimanda, però, ad orizzonti controversi incapaci di generare risposte definitive. Sia che si prendano in considerazione proprietà umane quali la capacità psicologica e mentale, da una parte, o biologico-genetiche, dall’altra, si rischia di generare una sorta di eccezionalismo che in qualche maniera può escludere individui che non incontrano pienamente tali caratteristiche (Silvers, 2012). Inoltre, la questione non sembra meno complicata se si utilizza il concetto di persona riferendolo esclusivamente alle caratteristiche psicologiche e morali come l’autocoscienza e l’autonomia per definire una soglia con la quale risolvere le questioni intorno a ciò che si può considerare degno di rispetto e garanzia di diritto (Kittay, 2005; McMahan, 2002). Altrettanto rischiose appaiono le riflessioni che possono aver guidato la giurisprudenza italiana che, a distanza di 16 anni, ha sancito il risarcimento del danno causato da una nascita indesiderata per la mancata rilevazione di malformazioni congenite le quali, se diagnosticate, avrebbero potuto indurre la madre ad una riflessione sull’eventuale esercizio del diritto di interruzione della gravidanza (Sentenza n. 16754 del 2 ottobre 2012). Sia la sfera del diritto, sia la giustificazione della capacità morale della persona si possono indubbiamente considerare le condizioni basilari dell’agire libero di ogni individuo e dell’esercizio dei propri diritti nella società moderna. Senza tali presupposti non si può esprimere, tra l’altro, nemmeno il riconoscimento della personalità giuridica dell’individuo e la sua rappresentazione di fronte alle istituzioni di diritto e alla comunità che ne sono i garanti. Rimanendo nell’ambito della cultura occidentale, lo statuto morale della persona rimane, però, ancorato a una forte concezione della razionalità e della capacità di agire consapevolmente secondo una molteplicità di caratteristiche. Non sempre, quindi, il discorso morale e giuridico sono capaci di individuare elementi che, in maniera ultimativa e continuativa, definiscano il significato dell’essere persona e dello status morale. La concezione di status morale è strettamente legata alla riflessione moderna che, sulla scorta dei principi pratici kantiani, ha fissato nell’autonomia e nell’universalità la salvaguardia della libertà dell’uomo inteso come persona giuridica e soggetto morale (Gessa Kurotschka, 2006, p. 141). Ne può conseguire un’indeterminatezza e una sterile comprensione della complessità del soggetto, che pur garantendo principi di diritto e di rispetto, non è in grado di restituire la portata ed il senso di ciò che significa essere un individuo umano ed avere un’esperienza esistenziale biograficamente caratterizzata. Irrigidire la comprensione della realtà umana nelle sole dimensioni formali della moralità e del diritto – sul carattere morale, o sull’elemento che permette di scorgere la capacità morale dell’uomo, da una parte, e sulla determinazione giuridica di ciò che è persona, e di come possa essere giuridicamente detta e salvaguardata, dall’altra – rischia di creare delle vere e proprie “patologie”. Non si può, infatti, misconoscere che tali condizioni di libertà individuale sono commisurate alla capacità di ogni società di realizzare situazioni effettive di interazione e di partecipazione quali occasioni di piena espressione della soggettività individuale (Honneth, 2001, p. 46). All’interno dei rapporti familiari, ad esempio, l’individuo ed il ruolo che ricopre (genitore o figlio) non possono essere pensati solo ed esclusivamente come espressione giuridica: essere genitore o figlio non vuol dire accampare il diritto I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


alla realizzazione del proprio interesse immediato. Allo stesso modo, la responsabilità e il rapporto d’interdipendenza che caratterizzano le relazioni sociali entro le quali ciascuno è impegnato ammettono difficilmente un significato formale di autonomia personale. Ciò che deve poter essere sviluppato, invece, specialmente nell’ambito del discorso di emancipazione sociale, non è esauribile nella ricerca degli elementi che possono essere richiamati per la definizione morale dell’individuo disabile. Non è sufficiente nemmeno indicare quali siano i limiti, giuridicamente fondati, entro i quali pensare e garantire la vita e l’esistenza di ciò che ancora non può essere definito come persona (Habermas, 2002, pp. 33-34). Maggiormente pressante diventa, allora, una riflessione centrata sulle condizioni, sulle sfere di partecipazione e di accessibilità che una società vuole essere in grado di offrire anche alle persone disabili, perché fruiscano della possibilità di realizzare la propria esperienza biografica, quali che siano le condizioni biologiche o fisiologiche di vita.

3. Diritto alla vita, sviluppo antropologico ed educazione Le prospettive dell’individuazione e del rispetto dello status morale e giuridico della persona, universalisticamente intesi, sembrano quindi insufficienti se non ricomprese nei processi di interazione etica, che solo nell’ambito delle relazioni comunitarie possono concretizzarsi. Diventa quindi necessario pensare ad una struttura sociale fondata su processi di promozione capaci di coniugare le condizioni di necessità di ciascun individuo, piuttosto che le capacità razionali e psicologiche, con l’espressione della propria dignità (Nussbaum, 2001, 2007). Nonostante si tratti di una riflessione che chiama in causa le più radicali domande di carattere etico e politico, non può essere ammessa nessuna risposta che sia assunta in maniera definitiva e che sia considerata in modo unilaterale. L’assunzione di una simile prospettiva implica l’esigenza di pensare il diritto alla vita e la condizione di disabilità, anche quella del nascituro, come ad un complesso di emergenze antropologico-educative alle quali dare risposta in ordine all’idea di umanità e di società che si intende realizzare e non più come ad un “problema da risolvere”. Si tratta, allora, di guardare alle molteplici possibilità realizzative per la persona disabile e, così, ampliare la qualificazione antropologica dell’uomo in senso culturale, relazionale, sociale e materiale. Diventa, quindi, fuorviante sviluppare il dibattito pedagogico ed etico intorno alla definizione di parametri deontologici o utilitaristici per la delimitazione di ciò che è umanamente valevole di riconoscimento. In tal senso, acquisisce un significato ancora una volta più ampio il riferimento ai temi dell’accessibilità, intesa come possibilità di piena «realizzazione per l’essere umano» (Mura, 2011), e della riflessione etica, capace di restituire uno spazio adeguato all’espressione del carattere irriducibile di ogni individuo (Zurru, 2011). Un simile orizzonte si costituisce quale approccio pienamente coincidente con le teorizzazioni e le pratiche della Pedagogia Speciale, che in Italia ha elaborato una teoria dell’educazione «individuale e sociale finalizzata […] a promuovere forme sempre più umane ed umanizzanti di relazione ed emancipazione antropologica […] e sociale» (Mura, 2006, 2011, 2012). Gli sforzi di ordine culturale e politico che anche in ambito internazionale si anno I | n. 1 | 2013

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sono realizzati, e continuano a prospettarsi, sono stati generalmente considerati come la risposta a un’esigenza intimamente connessa a un limitato gruppo sociale. Se si guarda all’itinerario storico e culturale che da Itard e Séguin, in Francia, conduce fino a Verga, Morselli, Montessori e Zavalloni, in Italia, per citare solo alcuni, lo stesso confronto con i limiti, le angosce e le speranze che accomunano lo sguardo verso la disabilità assume invece, per l’uomo, il valore della scoperta delle infinite possibilità del dirsi umano. Si capovolge, così, l’idea preconcetta che il soddisfacimento compensativo di bisogni particolari nell’interesse di pochi esaurisca l’intero orizzonte di azione della Pedagogia Speciale. In tal senso, benché definita ai suoi esordi come «scienza delle difficoltà psichiche, dei ritardi, delle turbe di ogni sorta di sviluppo bio-psico-sociale del fanciullo» (Zavalloni, 1967), la disciplina pedagogico speciale si configura oggi come una teoria e una pratica che, accompagnando il processo di integrazione scolastica e sociale della persona in situazione di disabilità, ha permesso di realizzare una più ampia apertura nei confronti di tutte le espressioni di diversità e, quindi, delineare un percorso di crescita e di sviluppo per la più generale emancipazione civica e culturale della società. Deve leggersi in tal senso la vocazione interdisciplinare (Pavone, 2010) che da sempre ha portato la Pedagogia Speciale a porsi in costante dialogo con altri saperi, talvolta considerati come territori di confine (Canevaro, 2006). Le particolari realtà individuali, spesso concepite come situazioni “problematiche”, con riferimento a condizioni sindromiche estremamente complesse, non hanno distolto lo sguardo pedagogico dalla possibilità di accedere all’universale umano che dimora in ogni individuo, quale che sia la sua condizione di salute. Facendo propria la capacità di mediazione euristica e connettiva tra differenti discipline, la Pedagogia Speciale si è posta come «scienza della complessità» che ha rotto concezioni e schematismi ritenuti incontrovertibili coniugando, così, l’analisi del limite del singolo con lo sviluppo etico plurale (Gaspari, 2001). Non si tratta di assimilare o adattare la diversità del singolo nei confronti di ciò che è ritenuto normale. È necessario, invece, prospettare spazi educativi e formativi attraverso i quali il singolo, pur nel riconoscimento dei propri limiti e bisogni, trovi piena realizzazione di sé (de Anna, 2001). Si tratta, piuttosto, di orientare l’azione educativa oltre la classificazione del deficit per promuovere una costante rilettura delle condizioni personali verso una ricerca di senso e di significato esistenziale (Caldin, 2005). A partire da una simile prospettiva, diventa chiaro quanto sia il diritto alla vita che il diritto alla piena partecipazione in contesti di accessibilità possono diventare reali concretizzazioni solo se si assume un’ampia consapevolezza del ruolo emancipante e attualizzante dell’educazione, non certo intesa come azione compensativa nei confronti dei singoli, ma piuttosto nei termini di ampia e globale coscientizzazione. Quale che sia, per ognuno, il modo più adeguato di realizzare se stesso non è determinabile a priori secondo forme preconcette o a partire dalla sola condizione di deficit. In tal senso, l’azione della Pedagogia Speciale si concretizza nell’ideare e realizzare le condizioni per rinvenire la forma migliore, fornendo gli strumenti più efficaci, siano questi individuali che collettivi, per la costruzione dell’autonomia personale.

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4. Disabilità e vita: è sempre una questione di valore? Quanto finora indicato orienta verso la promozione di una società capace di accogliere e rispondere a tutte le espressioni della vita, quali che siano le condizioni di salute del singolo. Ciò implica un processo attivo di supporto che restituisca ad ogni individuo, riconosciuto come soggetto e non concepito come oggettivazione, un ruolo di risorsa e arricchimento per la società. Ancora oggi, una simile prospettiva assume un carattere quasi utopico se si considera quanto le indagini sugli aspetti più reconditi e problematici della vita biologica siano orientati a delineare questioni di valore. Accade spesso, infatti, che l’orizzonte di comprensione entro il quale le scienze sviluppano le proprie conoscenze sia guidato da un sapere di carattere tecnicistico, specialistico ed efficientistico. D’altra parte, anche il dibattito bioetico-filosofico si è talvolta orientato a dirimere questioni tecnico-problematiche. In ultima analisi, sembra essere scomparsa dalla consapevolezza scientifica e culturale attuale la possibilità di ammettere che ogni esistenza possa essere strutturata e orientata alla ricerca pratica di un suo fondamentale senso. Non si tratta di individuare un ulteriore elemento con il quale valutare le esistenze individuali, o peggio misurare l’adeguatezza o meno alla vita. È necessario, invece, pensare a mature condizioni di avvaloramento del carattere irripetibile di ciascun soggetto e a ulteriori investigazioni sul senso di ogni esistenza e sulle possibili forme di felicità. Non è possibile restituire un chiaro riconoscimento dell’autentica soggettività di ciascuno se non si mette in discussione l’approccio funzionalistico e oggettivante che struttura molte sfere della vita pubblica, come nel caso della salute e del benessere. La standardizzazione dei processi e la medicalizzazione della condizione di salute, infatti, rischiano di porre costantemente in secondo piano le istanze di soggettività, specialmente nella vita disabile. Si può leggere in tal senso lo svilimento del progresso in ambito diagnostico che si realizza ogni qual volta si assoggetta la tecnologia alla formulazione di messaggi di riserva nei confronti di nascituri che esprimono particolari condizioni sindromiche. La costruzione di un più maturo sistema di promozione e cura della salute e del benessere umano necessita di un’integrazione, per certi versi ancora da guadagnare, fra i modelli bioclinici della medicina, orientati all’interpretazione selettiva delle condizioni patologiche, e i saperi pedagogico-speciali tesi a prospettare nuove forme realizzative per la persona disabile. Si tratta, da una parte, di approfondire scientificamente, con un punto di vista antropologico forte, i processi di individuazione, di interpretazione e di orientamento della complessità dei bisogni speciali che l’uomo può esprimere. Dall’altra, è importante realizzare le condizioni per l’ampio coinvolgimento dei molteplici attori implicati nella progettazione e strutturazione delle differenti sfere della vita sociale di una comunità inclusiva. In tale prospettiva, diventa fondamentale sviluppare una riflessione, dal carattere (bio)etico, assumendo il portato del sapere pedagogico-speciale che permette di costruire itinerari concreti di formazione. Solo così si può promuovere una sensibilità capace di accogliere e supportare in maniera differente gli eventi della diagnosi, della nascita, e delle successive decisioni che interessano la vita disabile. Il ripensamento del bagaglio culturale e scientifico di cui l’uomo dispone rappresenta l’utile apertura per riconoscere la realtà biologica ed esistenziale, non solo fisiologica, con la quale è possibile individuare la vita. In tal modo, si anno I | n. 1 | 2013

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pongono le condizioni per il riconoscimento di ogni storia individuale, interessata o meno da una disabilità, e per dedicare la giusta attenzione al carattere irripetibile che l’uomo può esprimere. In tal senso, si deve porre l’attenzione sulle attuali linee d’indagine che muovono nella direzione della ricerca di una sempre più corretta forma di comunicazione professionale nell’ambito della prima diagnosi. Nonostante tali sviluppi (Cottrell, Summers, 1990; Garden, 2010; Gigerenzer, Gaissmaier, Kurz-Milcke, Schwartz, Woloshin, 2007; Graungaard, Skov, 2007; Mura, 2008; Shakespeare, Iezzoni, Groce, 2009), emerge una situazione non ancora del tutto esente dal rischio di rimanere imbrigliati nelle maglie di singole specializzazioni disciplinari, da una parte, e di reificare il soggetto, tanto da fargli perdere i legami e le relazioni di solidarietà con l’universo di cui fa parte, dall’altra (Morin, 2001). L’impegno di ricerca verso cui tendere deve potersi orientare nella direzione indicata e sintetizzata anche dall’OMS (2001), che richiama l’esigenza di una convergenza transdisciplinare sui temi della disabilità, sollecitando una competenza multiprofessionale diffusa. La Pedagogia Speciale, quale sapere euristico e connettivo, è capace di mettere in dialogo differenti discipline e, nello sforzo di comprensione del significato che la disabilità può assumere, è in grado di tematizzare e promuovere anche un adeguato spazio di discussione volto al giusto orientamento dello sviluppo culturale e antropologico umano. Non si tratta solo di perfezionare le dinamiche comunicative, quanto, invece, di una sviluppare percorsi di formazione e approfondimento del significato che la disabilità può assumere anche in ambito medico. In tal senso, l’attenzione che gli specialisti devono poter rivolgere, prima ancora che al soggetto nella sua effettualità, è orientata all’idea di persona che “viene al mondo” come evento aperto alla progettualità.

5. Conclusioni La prospettiva pedagogico-speciale con la quale si vuole guardare alle fasi più delicate della vita, anche quelle embrionali e condizionate da vincoli sindromici complessi, non vuole rappresentare il rifiuto nei confronti del progresso tecnologico. Si tratta, piuttosto, di assumere uno sguardo capace di cogliere la dimensione esistenziale entro la quale l’individuo si differenzia, sostenendolo con un processo di accompagnamento. Diventa ineludibile lo sforzo, individuale e collettivo, da mettere in atto per sostenere la persona disabile, nel passaggio dalla vita all’esistenza, accogliendola come biografia in via di costituzione da consegnare al «mondo prima ancora che ai suoi genitori, qualunque sia la sua “forma” e la sua “condizione”» (Mura, 2008). Non si tratta di esercitare pressioni morali o esprimere veti su decisioni libere. È importante, invece, aiutare tutti gli attori coinvolti a superare uno sguardo ancora fissato sull’inadeguatezza organica o intellettiva del singolo. Ciò è il presupposto per il riconoscimento, in ogni individuo, del dischiudersi di una progettualità aperta e delle diverse possibilità di realizzazione che oltrepassano la funzionalità e datità biologica. Quanto finora prospettato non si configura come problematica relativa ad un ambito di scelte e di decisioni di carattere esclusivo, che riguardano una minima parte di coloro per i quali ci si può aspettare che «vivere con una condizione molto grave sia contro [il loro] interesse» (Giubilini, Minerva, 2012, p. 4). Si tratta, I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


invece, di un percorso di coscientizzazione volto a generare e aumentare le consapevolezze e le responsabilità di molti in un processo che travalica i contesti privati per porre ancora una volta l’umano di fronte ai propri limiti ed alle proprie possibilità e prospettive di sviluppo. L’apertura delle ricerche di carattere bioetico alla riflessione pedagogica, allora, non si configura come la proposta di una posizione fra o contro le altre, quanto invece come ripensamento alla radice dei saperi che sostanziano il dibattito e le pratiche a questo connesse.

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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


Sulle “tracce” della corporeità nella pedagogia speciale

There are educational dimensions which, significantly, qualify and contribute to define the different realities of help and care, and among them emerges the culture of the body. In fact, the experience of the body cannot be simply implemented as subsidiary or integrative dimension of educational care and of the development of learnings. The “actors” involved in the educational relationship must renew their understanding of the “instructional” environment as a stimulus and as a resource towards full realization of bodily and gestural identity. This must lead to a deeper debate within the current pedagogical reflection in regards of the processes of inclusion. In this perspective, the corporeality plays a key role in the organization that emerges in terms of sensory, perceptual and cognitive awareness. The development of inclusive education is, therefore, confronted with special educational needs through the notion of expressiveness, especially because it offers the people who find themselves in situation of disability the possibility to express their voice and be heard. Then, to the extent that there are metatheories that allow to establish the conceptual framework of a disembodied mind, there are theoretical models which can form the basis of an understanding of embodiment where the lived body and the physical body are seen in complementary sense as inseparable. Finally, the added value of corporeality in the practices of inclusive education allows to see the person in the complex uniqueness of his existence and to know how to grasp the potential of inter-individual and intrapersonal learning.

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key words: corporeality, inclusion, embodiment, educational care

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Mauro Carboni, Università degli Studi di Roma “Foro Italico”

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1. Cultura del corpo e relazione d’aiuto

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Vi sono dimensioni educative che, in modo significativo, qualificano e allo stesso tempo contribuiscono a definire le diverse realtà di aiuto e di cura, tra queste la cultura del corpo emerge, non solo quale aspetto fondamentale d’interazione sociale nei contesti di insegnamento e apprendimento, ma come una “compe tenza ad esserci” che caratterizza ineludibilmente i diversi percorsi professionali che si occupano della persona in senso ampio, cioè una «capacità del soggetto di stare nella relazione a partire da sé, un sé che è sempre inevitabilmente un sé corporeo» (Manuzzi, 2009a, p. 19). È questo, allo stesso tempo, un pensiero, una progettualità ed un approccio operativo che, coniugando e sviluppando un’idea di mediazione essenziale, intenzionale e intrinsecamente trasformativa all’interno della complessità delle relazioni educative, deve poter «tenere aperte possibilità di ascolto ed empatia e traversare le narrazioni del corpo» (Manuzzi, 2009a, p. 19). Aspetti costitutivi della pedagogia speciale che Andrea Canevaro già oltre trent’anni fa (1979, 1980, 1983) poneva all’attenzione e alla riflessione della comunità pedagogica, sollecitando a confrontarsi con i bisogni educativi speciali e con i processi d’inclusione innanzitutto nei termini di una costante ricerca e attivazione di una pluralità di forme di comunicazione, dove il comportamento non verbale e l’impiego della corporeità non sono affatto funzioni sussidiarie e/o complementari, favorendo in tal senso «l’incontro dei problemi educativi con competenze professionali che pongono al centro dell’attenzione il corpo. La sua espressione gestuale, mimica, ritmica» (Canevaro, 1979, p. 79) (Nostro il corsivo. N.d.A.). Questo sollecita tutti gli “attori” implicati in senso coevolutivo nella relazione educativa a rinnovare la propria capacità di comprendere le situazioni come stimolo e come risorsa, verso una considerazione dei potenziali di apprendimento orientata verso una piena realizzazione dell’identità corporea e gestuale. Ne deriva un arricchimento cognitivo e relazionale proprio in virtù di forme di mediazione che aprono la nostra comprensione verso nuove e diverse mappe concettuali, con significativi riferimenti ad esperienze, individuali, interpersonali e collettive, in cui la pratica e l’utilizzo di oggetti e materiali definiscono e strutturano gli ambienti di apprendimento attraverso distintive caratterizzazioni sensoriali, analogiche e simboliche (Cfr. Carboni, 2012, p. 106). Come scrive Tamara Zappaterra, la «parabola ascendente dell’affermarsi del corporeo collima perfettamente con l’evolversi dell’immaginario sulla disabilità, un immaginario che solo di recente si è affrancato da immagini negative, di limite, di difficoltà, di sofferenza. […] A partire dal corpo prende il via il processo di costruzione identitario, in quanto l’immagine di sé intrapsichica e interiormente socializzata delle persone con disabilità oggi si nutre di una percezione del sé che passa attraverso un corporeo non più reso oggetto di stigmatizzazione negativa» (Zappaterra, 2010, p. 147; p. 149).

I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


2. Paradigmi educativi della corporeità Nella storia delle didattiche speciali l’integrazione multidisciplinare degli strumenti di comunicazione non-verbale ha preso spesso le forme di un’organizzazione cognitiva ed operativa. Questo secondo una progettualità educativa che procede da competenze di base e/o propedeutiche verso la realizzazione condivisa di situazioni interpersonali più complesse per una progressiva strutturazione dell’offerta di aiuto educativo. Orientamenti pedagogici in cui le attività sensoriali e motorie, insieme alle proposte gestuali ed espressive, sono state viste come prassi privilegiate, in virtù della qualità della dimensione relazionale attivata nell’interazione corporea (Cfr. Carboni, 2012, p. 106). Ed oggi, di fronte alle incognite educative del nuovo millennio, esiste una pedagogia del corpo? La risposta, senza prescindere dai contributi di Ivano Gamelli (2001, 2005), secondo Franco Cambi, è certamente di assenso, anche se «ora troppo spostata sul biologico ora sul pratico e inerte proprio nel difendere il suo statuto di complessità, di intreccio tra livelli di realtà» (Cambi, 2010, p. 73). Secondo lo stesso autore emerge la necessità di una progettualità pedagogica che consideri la corporeità in termini di pluralismo, oltre che di complessità e stimolo alla problematizzazione, mediante dispositivi formativi che, proprio a partire dalla corporeità come modello di riferimento dialettico ed ecologico, devono potersi costituire quali paradigmi di realizzazione etica oltre che educativa dell’uomo (Cfr. Cambi, 2010, p. 74). «Allora è in queste dimensioni post-biologiche che va ricollocato il biologico […]. Si pensi soltanto all’iter occidentale della corporeità in educazione: sì posta come base, ma poi rimossa e poi, infine, ritrovata. E, ancora, interpretata in modo sempre più preciso e sottile e plurale (come bisogni, come valore, come realtà complessa)» (Cambi, 2011, pp. 22-23). Ne consegue che l’esperienza della corporeità non può e non deve essere semplicemente implementata come dimensione sussidiaria o integrativa dell’aiuto educativo e/o dello sviluppo degli apprendimenti. Crediamo, piuttosto, che ciò debba condurre ad un profonda discussione all’interno dell’attuale panorama della riflessione pedagogica, in termini di confronto con le problematicità, le risorse e le potenzialità, di tutto ciò che viene ad essere concretamente implicato nella realizzazione dei processi d’inclusione. «Le ricerche pedagogiche, d’altra parte, sempre di più si focalizzano sui fattori dell’azione, della prassi, come processi che guidano i dinamismi sempre complessi e variabili dei cervelli delle menti umane. Le scienze umane, naturali, pedagogiche, quindi, probabilmente ci aiutano ad assumere visioni non rigide e, per certi aspetti “preconcette”» (Aprile, 2011, pp. 53-54). In sostanza, come scrive Carlo Fratini (2011, p. 35), è possibile rintracciare nelle correnti prospettive di ricerca in ambito neurobiologico diversi elementi d’interesse, tali da sollecitare l’approfondimento di similari riflessioni e indagini in ambito pedagogico, in particolare gli studi sulle differenze tra emozioni primarie e secondarie, ovvero dei sentimenti, quali fenomeni affettivi più complessi che presuppongono forme di autocoscienza. Riferimenti concettuali che riverberano le parole di Antonio Damasio quando descrive «l’essenza dei sentimenti come qualcosa che voi ed io possiamo vedere attraverso una finestra […]. Nell’insieme un sentimento è la “veduta” momentaanno I | n. 1 | 2013

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nea di una parte di quel paesaggio del corpo. […] poiché il senso di tale paesaggio del corpo è affiancato nel tempo, alla percezione e alla reminiscenza, di qualcos’altro che non è parte del corpo – un viso, una melodia, un aroma – i sentimenti finiscono con l’essere “qualificatori” di tale qualcos’altro» (Damasio, 1995, pp. 1213). Anche per questo una mancata valorizzazione della corporeità, quale elemento costitutivo delle pratiche educative inclusive e di aiuto alla persona, può portare a marginalizzare o addirittura a tacere alcuni degli aspetti più significativi nell’ambito dei processi e delle espressioni culturali, e questo proprio nelle situazioni e nei contesti in cui si fa più complessa la relazione con l’identità corporea e lo sviluppo delle dinamiche d’interazione comunicativa e sociale (Cfr. Fortunato, 2005, p. 12). La nostra sensorialità non solo restituisce alla vita una cornice di significatività condivisa e appropriabile (“make sense of life”), è il mediatore attraverso cui essa diventa intelligibile, è la via di accesso alla capacità di ragionare, di giudicare e sentire, secondo una concezione di «embodiment in cui viene data enfasi a creatività, sensibilità reattiva e relazione in un mondo non-dualistico, […] Così per capire meglio la coscienza e il suo sviluppo per mezzo dell’educazione abbiamo bisogno di giungere a una rinnovata comprensione di quello che i sensi ci possono insegnare circa il mondo» (O’Loughlin, 2006, p. 5) (Nostra la traduzione. N.d.A.). È quindi nella prospettiva di un’educazione ineludibilmente riferita all’unità olistica di mente-corpo che Ignazio Lai giunge a parlare di pedagogia psicosomatica. «L’educare e il formare si riferiscono a un corpo da “ascoltare”, fatto anche di gesti e movimenti, inteso sia come entità biologica che come fenomeno storico e culturale» (Lai, 2010, p. 657).

3. Identità corporea e intersoggettività Come scrive Lucia de Anna, «la corporeità non riguarda solo il tempo iniziale delle prime esplorazioni del bambino, riguarda l’arco di tutta la vita e così pure i processi di apprendimento sono legati a un tempo infinito, ovvero alla dimensione del “life long learning”» (de Anna, 2012, p. 25). In tal senso de Anna evidenzia la necessità e l’importanza dell’educare alla corporeità quale elemento culturale che interseca trasversalmente e longitudinalmente la storia personale di ciascuno di noi, caratterizzando il continuo mutare delle rappresentazioni sociali, in profonda interazione con l’evoluzione del nostro senso d’identità (de Anna, 2012, pp. 26-27). Sono “indicatori sensibili”, veicolo e strumento di mediazione relazionale prima che educativa, che abbiamo definito, appunto, come “tracce del corpo e riflessi dello sguardo” (Carboni, 2012). Sono, allo stesso tempo, elementi di contesto che sollecitano ogni persona a comprendere l’altro nel valore arricchente della sua diversità, certamente non solo nell’ambito di progettualità inerenti l’espressività corporea e la relazione di aiuto, e tali da ricondurre la comprensione identitaria in una dimensione intersoggettiva del mondo che ci circonda ed in rapporto ad una molteplicità di canali interpretativi. Desideriamo con ciò porre in evidenza una concezione educativa «che conI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


sidera la dimensione comunicativa, quasi “linguistica”, del movimento e della corporeità in tutte le sue forme, in quanto modalità di comunicazione e interazione che permette di conoscere e scambiare esperienze e informazioni, in un sistema di mediatori analogici e simbolici strutturato e condiviso» (Carboni, 2012, p. 77). In tal senso la corporeità del vissuto emotivo rappresenta un interfaccia essenziale nel connettere la diversità interiore dei nostri stati (coscienti o meno) in relazione al “mondo esterno”. Così come la condivisione affettiva degli stati emotivi tramite la mimica e la gestualità svolge un ruolo fondamentale nella strutturazione della percezione della propria soggettività nell’ambito delle relazioni affettive primarie (Stern, 1987). Il vissuto corporeo, pertanto, sostanzia la comunicazione linguistica, ad esempio in termini di vocalità (prosodica e paralinguistica), di qualità d’interazione cinesica, posturale e prossemica (Argyle, 1978; Morris, 1983). Questo sollecita lo sviluppo delle dinamiche di comunicazione interpersonale e sociale, sia in termini di role taking (capacità di assunzione del ruolo dell’altro) sia di perspective taking (assunzione della prospettiva dell’altro) (Selman, 1971). Riteniamo opportuno, pertanto, esplicitare una sorta di assunzione osmotica da parte della riflessione pedagogica speciale italiana nel corso degli anni, concernente la corporeità, l’intersoggettività, la spazialità e la temporalità quali strutture esperienziali e/o principi fondativi alla base della costituzione del Sé e del suo rapporto con la realtà. In tale prospettiva la corporeità, l’azione motoria, l’espressività non-verbale e la gestualità, assumono un ruolo fondamentale nella progressiva organizzazione di quel “senso di sé corporeo” che emerge in termini di consapevolezza retroattiva, sensoriale, percettiva e cognitiva, a cui dobbiamo la capacità di avvertire il nostro corpo non come un semplice insieme di parti in rapporto funzionale tra loro, ma come una singola unità coesiva situata significativamente nello spazio e nel tempo (Cfr. Kohut, 1977; Stern, 1987; Sander, 2007). Pertanto nei termini in cui «le funzioni motorie sono l’esito di processi di interiorizzazione e strutturazione spazio-temporale, […] la trasformazione progressiva della corporeità e delle competenze motorie segue una linea di sviluppo che procede da una dimensione adattiva globale ad una motricità intesa come sistema organizzato» (Carboni, 2012, p. 80). Secondo Jeannerod (1991, p. 149) ogni singolo soggetto «costruisce la propria rappresentazione del mondo e questa rappresentazione guida la sua azione», pertanto è proprio la complessa caotica sistematicità delle azioni motorie a integrare in senso retroattivo le nostre “mappe neurali”. Ciò avviene soprattutto nei termini di una personale (unica e singolare) rielaborazione dei dati percettivi, con le emozioni e le organizzazioni cognitive, quale fondamento biologico ed ecologico della coscienza (Edelman, 1995). «C’è una “sfera” di sensibilità incarnata e una risonanza reciproca che, in quanto soggetti incarnati (“embodied subjects”), noi tutti condividiamo con gli altri fin dall’inizio. […] Sperimentiamo un’analogia o un tipo di risonanza tra l’espressività esternalizzata degli altri e la nostra espressività corporea, la quale a sua volta è in risonanza con i nostri stati emotivi» (Fuchs, 2002, p. 7) (Nostra la traduzione, N.d.A.). È un approccio pedagogico che prende le mosse anche dalla riflessione di anno I | n. 1 | 2013

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Edgar Morin sulla frammentazione dei saperi contrapposta alla complessità ed alla globalità delle problematiche educative. Una prospettiva che permette di recuperare l’olismo nei termini di una mediazione e rielaborazione metacognitiva delle diverse esperienze di apprendimento/insegnamento, e che focalizza l’intensità della sua elaborazione sull’interazione tra il tutto (il sistema educativo), le parti (le istituzioni) e la singola unità (la persona), “come un punto di un ologramma, noi portiamo in seno alla nostra singolarità non solo tutta l’umanità, tutta la vita, ma anche quasi tutto il cosmo” (Morin, 2000, p. 38). Questo implica alcune scelte metodologiche ineludibili, innanzitutto lo sviluppo di contesti e processi di apprendimento dove l’autoriflessività risulti una dinamica costitutiva della conoscenza nelle sue diverse modalità esperienziali (Maturana, Varela, 1980). Come scrive Mortari, «Il fare esperienza va inteso come il movimento dello stare in contatto di sé, il disporsi in atteggiamento di ascolto pensoso rispetto al divenire della propria presenza nel mondo. L’esperienza richiede ascolto: ascolto di sé, dei propri vissuti emotivi e cognitivi» (Mortari, 2003, pp. 15-16). Vi è perciò la necessità di elaborare un approccio educativo intrinsecamente attivo e partecipato, nel quale la molteplicità dei processi comunicativi non verbali si possa incontrare in modo reciprocamente significativo con le qualità espressive e funzionali della corporeità. Riteniamo sia tale il senso per cui, secondo Polak (1997, p. 35), «il corpo diviene il luogo di fusione di singoli fenomeni, i quali collocano la natura organica e sociale dell’uomo in una stretta relazione processuale di reversibilità, uno scenario nel quale cultura e natura dialogano e dove la dimensione collettiva e quella individuale si compenetrano» (Nostra la traduzione. N.d.A.). La sensorialità, l’agire motorio e la corporeità in senso ampio, conducono la persona a percepire se stessa nello spazio e nel tempo in forme particolari dell’esperienza di sé, rappresentando la presenza e l’identità dell’essere umano in una dimensione costruttiva e espressiva che unifica la concezione fenomenologica con quella cognitiva e neurofisiologica. Una relazione che non pone affatto in antitesi le polarità “natura” e “cultura”, comprendendo in tal senso l’educazione come un fenomeno socialmente emergente, in una continuità prospettica (antropologica, biologica, pedagogica) (Steen, Owens, 2001; Lai, 2010). Le potenzialità dell’interazione educativa risiedono perciò nella rete di reciprocità che la presenza “organica e sociale” dell’uomo si trova a vivere (e costruire) in rapporto al proprio habitat ecologico, definendo una complessa interazione di variabili che condizionano lo sviluppo del sistema e da cui sono vicendevolmente condizionate (Bronfenbrenner, 1986). «Una fenomenologia-umanistica che considera l’apprendimento come un fatto globale che interessa l’individuo, la sua personalità che viene coinvolta in questo processo non solo a livello cognitivo, ma anche emotivo e affettivo. Apprendimento dunque collegato al bisogno di crescita individuale e in grado di ristrutturare la personalità di chi apprende» (Lai, 2010, p. 654). In relazione a questo lo sviluppo di didattiche inclusive si confronta con i bisogni educativi speciali attraverso “la nozione di espressività”, che offre alla persona in situazione di disabilità la «possibilità di ‘esprimere la propria voce’ e di essere ascoltato. […] e a partire dalla nozione di corporeità si schiudono ulteriori modi di ideare, analizzare ed esaminare lo sviluppo del bambino e dei suoi I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


pari, insieme all’inclusione nelle sue specificità, i suoi attori, i contesti e le istituzioni» (Scorsolini-Comin, de Souza Amorim, 2010, p. 268) (Nostra la traduzione. N.d.A.). Vuol dire “riscattare il ruolo del corpo” dalla diffusa marginalizzazione delle sue funzioni, riconoscendogli la qualità costitutiva di “agente e produttore di significazioni”. Un nuovo paradigma della corporeità che attraversa e connette il mondo degli aiuti in ambito sanitario con quelli della progettazione educativa speciale (ma non solo). Un grande “centro di esperienze proprie, di gesti ed espressioni” che concepisce la conoscenza nei termini di un dialogo sempre aperto a nuovi contributi (Cfr. Scorsolini-Comin, de Souza Amorim, 2008, p. 206; Scorsolini-Comin, de Souza Amorim, 2010, p. 268). Nella misura in cui l’ambivalenza del corpo (Galimberti, 1983) viene accettata come una sorta di osmosi estremamente produttiva, tra soggettività e oggettività, allora si può meglio comprendere l’alternanza e la simultaneità di concezioni apparentemente antitetiche. Infatti, «studiare la corporeità significa concentrarsi su un insieme di saperi che hanno bisogno di dialogare costantemente tra loro attraverso apporti metodologici, scientifici e disciplinari differenti e diversificati» (Mariani, 2010, p. 7). È proprio questa pluralità dei codici di comunicazione che permette di istituire e organizzare l’intenzionalità pedagogica e la relazione d’aiuto sulla base dell’ascolto quale dimensione fondante ogni agire educativo. Questo colloca l’embodiment negli ambiti educativi e formativi come esperienza intermedia tra natura e cultura, individuale e collettivo, intimo e pubblico, riservato e condiviso, perché, non a caso, «il corpo della persona è il frutto di un processo di normalizzazione che – oggi – si organizza con forme di controllo […] Da qui la necessità di uno spostamento in direzione di una cultura dell’embodiment» (Mariani, 2010, p. 8) (Nostro il corsivo. N.d.A.).

4. Metateorie della mediazione corporea Nella storia della cultura umana il corpo ha rappresentato da sempre un aspetto centrale della riflessione e della ricerca filosofica e scientifica, giungendo ad essere un elemento centrale nell’ambito della psicologia e della pedagogia, nelle loro varie teorie e correnti, in merito alle relazioni tra corpo, mente, ambiente e culture. È ormai un’opinione diffusa e condivisa che «embriologia, epigenesi e sviluppo stadiale, costituiscano un insieme di caratteristiche che descrivono l’organizzazione del comportamento umano e, almeno in parte, contribuiscano a determinarlo» (Cfr. Scorsolini-Comin e de Souza Amorim, 2008, p. 194) (Nostra la traduzione. N.d.A.). Significa anche che le qualità organiche di quello che è il progressivo raggiungimento della maturità, in senso biologico e neurofisiologico, sono parte attiva nell’orientare lo sviluppo della percezione di sé, giungendo ad implicare insieme alla ‘maturazione’ delle capacità intellettive, anche il progressivo definirsi della personalità e del senso di identità. D’altra parte nella letteratura moderna è altrettanto radicata la riflessione filosofica di Merleau-Ponty (1965), che possiamo collocare in una posizione anno I | n. 1 | 2013

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complementare rispetto al paradigma scientifico precedente, per la quale la corporeità è alla radice dell’espressione di sé e della realizzazione dell’esistenza come proprietà ontologica e culturale della soggettività. Perciò è significativo ritrovare analoghe elaborazioni concettuali in una recente revisione critica della letteratura scientifica (Scorsolini-Comin e de Souza Amorim, 2008, p. 195), dove il corpo viene, appunto, inteso come insieme di significati vissuti e, allo stesso tempo, come creatore-produttore di nuove produzioni di senso, qualità emergenti del corpo proprio in quanto situato nel mondo. L’esperienza umana, quindi, non è concepibile al di fuori dell’interazione corpo-mente, a prescindere dal fatto che se ne ragioni in termini dualistici o di unità olisticamente determinata. Se esistono metateorie che permettono di istituire il quadro concettuale di una mente disincarnata, allora vi sono modellizzazioni teoriche che possono, a loro volta, essere il fondamento di una comprensione dell’embodiment in cui corpo vissuto e corpo fisico siano visti in senso complementare come indissociabili, e non come controparti alternative e in competizione, destinate ad essere separate per sempre nell’ambito di specifiche e distinte forme di realtà (Cfr. Overton, 2008, pp. 2-3). «L’embodiment è un concetto di sintesi, un ponte che collega ampie aree di indagine in un insieme unificato (ad esempio il biologico, il fenomenologico, il socioculturale e l’ambientale) come relativi punti di partenza dal cui insieme viene a costituirsi l’intero. […] Il corpo come forma rinvia ad un punto di partenza biologico, il corpo come esperienza vissuta rimanda a un punto di partenza personale fenomenologico o psicologico, e il corpo attivamente implicato nel e con il mondo è orientato verso un punto di partenza contestuale, sociale, culturale e ambientale» (Overton, 2008, p. 3) (Nostra la traduzione. N.d.A.). Pertanto le qualità esistenziali di ciò che definiamo come “umanità” non possono essere riconducibili per analogia alla modalità di funzionamento di un’intelligenza artificiale e/o di un sistema informatizzato. Abbiamo piuttosto a che fare con una rete di relazioni connesse al corpo nelle sue molteplici capacità di realizzare la presenza dell’essere umano in senso individuale e sociale. Le stesse qualità e una analoga riflessione hanno, a suo tempo, condotto Marcel Jousse a configurare una vera e propria “antropologia del gesto”, per la quale «se l’uomo è un artefice di strumenti, comincia anzitutto a farsi egli stesso strumento. […] Homo faber ipse sui. Siamo il nostro proprio strumento e gli strumenti che creeremo non saranno altro che i prolungamenti dei nostri gesti» (Jousse, 1979, pp. 208-209). Sono, in sostanza, «quelle caratteristiche che fanno di noi ciò che siamo: amore, responsabilità sociale, coscienza cosmica, spiritualità, comportamento etico e pensiero riflessivo» (Cfr. Maturana, 1997). I processi di mediazione sono pertanto la costante sistemica che governa l’esistenza autonoma e l’interscambio materiale tra sistemi viventi. Questo ci conduce al concetto di “enazione” come teorizzato ed elaborato da Maturana e Varela (1980), per i quali la cognizione nella sua pluralità fenomenica corrisponde ad una forma di embodied action dipendente da differenti tipi di esperienze sensoriali, motorie, biologiche, psicologiche e culturali. L’idea di “enazione” è per definizione fondata su quella di “embodied mind” (mente incarnata) quale precursore concettuale piuttosto che esperienziale. In I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


senso specifico è proprio di ogni organismo vivente enagire con l’ambiente che lo circonda. L’agire incarnato (embodied action) sollecita la percezione costituendola quale sistema e interfaccia sul quale viene ad organizzarsi la cognizione (Cfr. Stewart et al., 2010, p. vii). «Incorporazione (Embodiment) e enazione (enaction) sono i nomi di due approcci che spingono verso una nuova comprensione della natura della cognizione umana, prendendo sul serio il fatto che gli esseri umani sono creature biologiche. […] Secondo l’idea di enazione gli organismi creano la loro propria esperienza attraverso le loro stesse azioni. Gli organismi quindi non si pongono come recettori passivi nei confronti di segnali e stimoli provenienti dall’ambiente, bensì come soggetti attivamente agenti, pertanto ciò che essi sperimentano prende forma nel modo in cui agiscono» (Hutchins, 2010, p. 428) (Nostra la traduzione. N.d.A.). Conseguentemente è chiara la valenza evolutiva socioculturale delle condotte (relazionali e/o ludiche) di tipo interpretativo e simulativo (to enact), nonché la loro funzione determinante nel conseguimento di una percezione consapevole degli stati mentali (propri e altrui), così come sembra avere sempre meno senso riflettere secondo modelli binomiali “corpo-cervello”, quando risulta ormai imprescindibile il riferirsi ad una struttura complessa a tre componenti (corpo, cervello e ambiente) (Cfr. Peru, 2011, pp. 43-44). In sintesi, a fondamento del paradigma di enazione troviamo una nozione di movimento che attivamente si genera da sé proprio attraverso il suo “lived embodiment”, producendo allo stesso tempo un ambiente di significazione. […] questo concetto è conosciuto come sensemaking e presenta una più ampia area di applicazione rispetto alla semplice nozione di “action in perception” (Cfr. Froese, Di Paolo, 2011, p. 3). Il concetto di sensemaking permette, infatti, di integrare diversi concetti centrali nella riflessione dell’approccio enattivo, cioè autonomia, incarnazione, emersione ed esperienza (Di Paolo et al., 2010, pp. 3-4). Il concetto di sensemaking, secondo la terminologia coniata da Karl Weick si riferisce alla “costruzione del significato” e, in particolare, vuol dire «parlare della realtà come di una costruzione continua, che prende forma quando le persone danno senso retrospettivamente alle situazioni in cui si trovano e che hanno creato» (Weick, 1997, p. 15). Nell’ambito dei contesti formativi questo implica l’assunzione di un atteggiamento esplorativo verso la realtà circostante e le dinamiche interpersonali, in una riformulazione delle cornici semantiche che permettono di interpretare i cambiamenti e di formare nuove mappe e modelli mentali, sollecitando il senso di resilienza e la tensione verso l’autorealizzazione (Cfr. Carr, 2003; Ancona, 2012). Per giungere infine ad una comprensione delle dinamiche inclusive «come processo dinamico di partecipativa costruzione del significato (sensemaking) e di reciproca integrazione (mutual incorporation). Questo processo può essere descritto (1) dal punto di vista dei sistemi dinamici come un’interazione e coordinazione di due embodied agents; (2) in senso fenomenologico come un approccio d’incorporazione reciproca, cioè un processo in cui i corpi vissuti dei partecipanti estendono e formano un’intercorporalità comune» (Fuchs, De Jaegher, 2009, p. 465) (Nostra la traduzione. N.d.A.).

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5. Il valore aggiunto della corporeità nella pedagogia speciale

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Pertanto, nei contesti educativi di aiuto alla persona, mediati in senso corporeo e gestuale, emerge un’elaborazione “narrativa” dei contenuti emotivi e relazionali che viene ad essere facilitata proprio dalla trasformazione della corporeità “da mezzo espressivo primario a strumento complesso e raffinato” (Carboni, 2012, p. 109). «Il corpo (come struttura, come aspetto, come risorsa e come limite) assume i caratteri di condizione, di presenza e scambio con il mondo. […] I parametri meccanici (prestativi) e biologici (funzionalità organica) assumono valore in quanto iscritti nel paradigma della consapevolezza, dell’intenzionalità, della responsabilità, del significato e del senso» (Gori, 2010, p. 19) (Nostro il corsivo. N.d.A.). La corporeità e il movimento necessitano di una comprensione polisemica che non può limitarsi ad un singolo sistema simbolico e ad una relazione lineare tra significante e significato. Ne deriva che qualsiasi riflessione centrata sul corpo come “espressione della persona” deve confrontarsi con la complessità sistemica della produzione di senso, in termini di relazione e comunicazione, di manifestazione creativa ed esistenziale, per dare modo di «orientarsi nella complessità dei bisogni e nella molteplicità delle risposte possibili» (Goussot, 2007, p. 9). Risulta un quadro teorico, a base sia speculativa sia sperimentale, per il quale la corporeità è il precursore bio/neuro/psico/socio-logico che prepara ed accoglie la nascita del nostro sistema di elaborazione concettuale quale proprietà emergente. Per le stesse ragioni il sistema “mirror” (neuroni specchio) viene a collocarsi in una posizione centrale nel dibattito inerente l’intersoggettività. Secondo gli esiti sperimentali è affatto plausibile che l’embodied simulation, in quanto corrispondente «ad una attivazione dei processi di osservazione, imitazione e comprensione», possa di fatto rappresentare «il substrato funzionale di tipo neurofisiologico che sta alla base della possibilità di assumere condotte motorie e relazionali di tipo empatico» (Gallese, Eagle and Migone, 2007, p. 132). Secondo gli autori è perciò ragionevole un impiego del termine “cognitivo” applicato a tutti gli aspetti del sistema sensomotorio coinvolti nella definizione dei concetti e, in senso ampio, ai processi di ragionamento. Ne consegue che una didattica, speciale o meno, caratterizzata «da esperienze di mediazione corporea, deve implicare una profonda riqualificazione delle pratiche educative e degli obiettivi a cui queste usualmente rinviano» (Carboni, 2012, p. 115). La crescita globale della persona rimane al centro della progettazione curricolare, anteposta a finalità di carattere disciplinare o funzionale, valorizzando le prassi educative che danno spazio ad una progettualità composita implicante indicatori metodologici come, appunto, il gioco e le strutture ludiche, l’improvvisazione e la narrazione, secondo approcci educativi che, a loro volta, sono qualificati da processi di insegnamento e apprendimento in cui corporeità, creatività e identità rappresentano le costanti pedagogiche. Il valore aggiunto della corporeità, quantomeno nelle pratiche educative di tipo inclusivo, risiede proprio nel riuscire a considerare la persona nella comI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


plessa unicità del suo esistere, attraverso esperienze e percorsi d’integrazione che si distinguono per il loro saper cogliere potenziali di apprendimento interindividuali e intrapersonali. Qualcosa che, in definitiva, si avvicina molto a quello che, secondo Palmieri (2000, p. 186), dovrebbe essere “il vero oggetto della cura”, cioè «occuparsi dell’esistenza, promuovendo la formatività, le possibilità esistenziali individuali, l’autonomia e la differenza nell’interdipendenza e nell’intersoggettività».

6. La dimensione ludico-motoria come risorsa per l’aiuto educativo Desideriamo riprendere, a questo punto, la riflessione con cui abbiamo esordito, nella quale lo sviluppo di processi educativi e formativi implicanti l’unità corpomente appare come proprietà fondante di un pensiero pedagogico che permette di coinvolgere la persona nell’ambito di molteplici dimensioni esperienziali, rappresentando una sorta di peculiarità di molte metodologie attente ai bisogni educativi speciali. Approcci in cui «le situazioni ludico-ricreative di apprendimento, nell’ambito della disabilità, possono rassicurare, accompagnare e sollecitare […] (individuando potenzialità latenti, residue, parziali, mistificate)», creando così contesti e situazioni realmente inclusive, dove «un’esperienza corporea, emozionale, di sofferenza (come può essere un deficit) divenga metafora organizzatrice, dimensione simbolica, introspettiva, resa possibile anche da mediatori quali le mani, le braccia, il corpo, la voce, gli strumenti musicali, gli oggetti mediatori, basilari facilitatori della relazione stessa» (Caldin et al., 2011, pp. 36, 35). La mediazione corporea e le competenze comunicative non verbali, analogiche, espressivo-motorie, ludiche e imitative risultano essenziali per la costruzione e la realizzazione di contesti educativi accoglienti e di dispositivi didattici inclusivi proprio perché chiamano in causa competenze che stanno alla base dello sviluppo di una teoria della mente e della capacità di assunzione di punti di vista decentrati. «Una persona che non è in grado di utilizzare il proprio corpo per imitare, rispecchiare e in questo modo comprendere il comportamento delle altre persone avrà allo stesso modo difficoltà di comprensione a livello simbolico. […] Questa integrazione richiede la capacità fondamentale di fingere, o in altre parole, una simbolizzazione o “funzione come-se” che sembra essere una caratteristica centrale della mente umana» (Fuchs, 2002, p. 12; p. 7) (Nostra la traduzione. N.d.A.). Collocandosi nel più ampio ambito storico della riflessione sulla “education corporelle” di scuola francese (Jean le Camus e il concetto organizzatore, Henri Wallon e i gli studi sulla nascita della dimensione corporea del sé nel bambino, Marcel Mauss e le tecniche del corpo come mediatori di relazione) Bonange, (1988) elabora una tipologia tripartita nella dimensione ludica della corporeità, distinguendo una motricità d’azione, una di tipo espressivo ed ancora una di tipo impressivo. La prima ha come finalità il confronto con la realtà e la possibilità di scoprire ed attuare efficaci soluzioni d’accomodamento; la seconda cerca di assimilare il

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reale alla propria corporeità attraverso l’immaginazione e la simulazione ludica; la terza infine concepisce il corpo come mediatore sensibile, dove la ricerca e l’ascolto di sensazioni emotive e sensoriali diventa importante per conoscere la propria corporeità e, in senso ampio, sé stessi (Cfr. Carboni, 2012, p. 36). In realtà le potenzialità educative e formative dello sviluppo psicomotorio sono insite nelle potenzialità dell’esperienza sensomotoria, nelle manipolazioni del corpo e degli oggetti, nelle interazioni con l’ambiente che attivano processi di differenziazione, discriminazione, riconoscimento e strutturazione, un sistema complesso che coniuga la dimensione emotiva con schemi procedurali e sviluppi processuali. Allo stesso modo la motricità espressiva dà spazio ad un’appropriazione corporea e gestuale dei vissuti emotivi, per stimolare l’elaborazione dell’immaginario personale e creare opportunità di sviluppo nelle forme di un pensiero corporeo che rende espliciti e condivisibili i vissuti emotivi ed affettivi e rappresentare le possibili dinamiche conflittuali. Ed ancora, la dimensione conoscitiva della corporeità nella relazione d’aiuto come sviluppo della resilienza nelle dinamiche espressive, tra stabilità ed equilibrio, controllo posturale e fluidità gestuale. A tale riguardo la resilienza dimostra, da una parte, d’essere ben più di un “traslato metaforico”, esprimendo una concreta capacità di “rimanere in piedi e migliorarsi”, non solo recuperando e implementando le risorse personali ma traendo da ciò spunto per una positiva e ulteriore riorganizzazione della propria vita (Malaguti, 2005), dall’altra alcune ricerche ne sperimentano la sussistenza fisica, corporea e neurofisiologica (Tugade, Fredrickson, 2004), dimostrando che soggetti con particolari qualità resilienti, posti sperimentalmente in situazioni di ansia e stress, possiedono la capacità di mantenere una focalizzazione su emozioni positive e ciò permette loro di mantenere un certo controllo sull’aumento dell’attivazione cardiovascolare. Pertanto, la percezione della diversità come risorsa e sensibilizzazione offre l’opportunità di acquisire consapevolezza nell’interazione con gli altri, in una cultura dell’accoglienza come esito di un giocare comune. La qualità didattica “speciale” delle proposte educative «è frutto di risposte ad elevata creatività progettuale nei confronti degli impellenti bisogni educativi emergenti», capaci «di trasformare in patrimonio comune la capacità di cogliere i problemi, la competenza nell’affrontarli e la padronanza nell’ipotizzare valide opzioni educative» (Gaspari, 2012, pp. 30-31).

7. Sperimentare l’inclusione nelle pratiche educative Nei dispositivi educativi che caratterizzano le proposte di una pedagogia dell’inclusione vi sono precisi assunti metodologici, tra cui la consapevolezza di sé come mediazione coesiva della corporeità; la valorizzazione dell’azione educativa come dialogo corporeo; la comunicazione come motivazione allo sviluppo, in una dimensione pedagogica che implica la creazione di ambienti d’apprendimento per una personale appropriazione delle diverse esperienze. Una realtà educativa che assume spesso le forme di uno sfondo integratore, uno spazio potenziale dove esplorare il desiderio di conoscenza e di crescita trasformativa. La qualità delle I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


conoscenze espresse nell’intersoggettività permette un’organizzazione sistematica delle competenze a livello individuale e di gruppo, così come delle conoscenze acquisite nella strutturazione di competenze che chiamano in causa la pluridisciplinarità (Cfr. Carboni, 2012, pp. 170-178). Ci riferiamo ad una prospettiva di sperimentazione educativa in cui la progressiva consapevolezza del linguaggio corporeo coniuga la comunicazione dell’espressione gestuale, nelle sue componenti estetiche di elaborazione espressiva e formale, con l’esplorazione degli stati emotivi in quanto competenze per relazionarsi alle persone. Questo anche in riferimento al fatto che le strutture logico-linguistiche emergono prima in quanto forme di consapevolezza motoria e solo successivamente in senso concettuale (Karmiloff-Smith, 1995; Trevarthen, 1999/2000). La presenza del corpo e della corporeità quale fondamentale dimensione “linguistica” nelle relazioni interpersonali non può essere, pertanto, relegata in secondo piano, né considerare tale statuto di comunicazione solo in termini di analogia o di estensione “metaforica”. Come scrive Galimberti «lo spazio e il tempo si animano di prossimità e di distanze ignote alla geometria» (1983, p. 125), «perché siamo donatori di senso […] e non c’è azione delle cose sul corpo, ma soltanto la significazione che il corpo attribuisce alle cose» (1983, p. 114). In tale prospettiva Galimberti capovolge, semmai, la relazione gerarchica, evidenziando che «se la parola non fosse un gesto, e al pari del gesto non contenesse il proprio senso, la comunicazione sarebbe impossibile» (1983, p. 95). Del resto è una fallacia storicamente determinata della tradizione filosofica la convinzione che sia possibile concepire l’esperienza e discuterla nella sua significatività solo se svuotata delle componenti fisiche e materiali, e che solo attraverso ciò possa essere intesa come area di riflessione connessa alla conoscenza (Vedi: Damasio, 1995). «I dualismi mente e corpo, mentale vs manuale, sono fondamentalmente pseudo-problemi. La questione non è su come il “materiale” e “non-materiale” possano comunque aver interagito, ma piuttosto perché tale esperienza, in tutta la sua varietà e complessità, debba essere distinta da tutte le altre» (O’Loughlin, 2006, p. 12) (Nostra la traduzione. N.d.A.). Non a caso, come scrive Staccioli (2010, p. 155) «corporeità e ludicità hanno molte vicinanze. Nell’una e nell’altra si mescolano le dimensioni emotive a quelle relazionali, quelle etiche a quelle culturali. La persona che si muove […] dà conto del suo essere intero, […] Chi si muove giocando o chi si impegna in giochi motori […] non agisce solo con il corpo, ma lo orienta verso idealità più o meno consapevoli, verso attese più o meno dichiarate». Sono quei processi di intersoggettività primaria che Gallagher (1995) riconduce alla definizione di “intercorporalità” consegnataci da Merleau-Ponty, una attivazione kinestetica che si traduce in una produzione di senso, nell’osservare il comportamento degli altri, nel comprendere le loro intenzioni nei movimenti espressivi. È ciò che la letteratura scientifica nei più diversi ambiti di indagine ha potuto cogliere, perlomeno negli ultimi vent’anni, quale focus determinante nello sviluppo delle future ricerche, ovvero che «la centralità del corpo nella relazione, a partire dalle prime interazioni […], la necessità di un altro da sé per la formazione anno I | n. 1 | 2013

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dei circuiti che caratterizzano il cervello sociale indica l’esistenza di una “programmazione” del processo di sviluppo del sistema emozionale attraverso un sistema regolatorio basato sulla partecipazione condivisa con l’emozione dell’altro» (Ferrari, Rozzi, 2012, p. 33). In questo senso è essenziale «comprendere l’influenza della intersoggettività e del riconoscimento attraverso lo sguardo dell’altro, per la costruzione della identità della persona. Infatti, l’identità […] deriva dagli altri, dall’ambiente in cui viviamo e dalle relazioni che costruiamo» (de Anna, 2012, p. 26). Questo dovrebbe portare le istituzioni educative a riflettere sulle diverse forme di mediazione che possono essere proposte come risposta alle istanze che vengono sollecitate dalla presenza corporea degli alunni affinché sia possibile intendere «l’inclusione come metodo e prospettiva in grado di realizzare un processo di conoscenza e di riconoscimento reciproco, in cui le ragioni di ciascuno si incontrino in un percorso di crescita comune» (Canevaro, 2009, p. 428).

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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)


Evidence based education and special education: a possible dialogue

Keywords: evidence based education, special education, inclusion, special needs education, effectiveness research, assessment

II. Revisione sistemica

Lucio Cottini, author of section 2-3; Annalisa Morganti, author of section 1-4

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

This article presents a critical analysis of the concept of evidence-based practice, promoting a dialogue with special education. It provides a theoretical and methodological framework (Evidence Based Education - EBE) on the research methodologies within the EBE approach, the definition of an EBE model in special education, the research analysis on school integration in Italy in an EBE perspective and the identification of research lines to validate the practices of inclusive education. In conclusion, although there are methodological and practical difficulties in leading an empirical research in the inclusion field, according to EBE parameters, it is possible to consider other models of research, as such as the methodology on the single subject and observation research for further in depth analysis.

abstract

Lucio Coini, Università di Udine / lucio.cottini@uniud.it. Annalisa Morgani, Università di Perugia / annalisa.morganti@unipg.it.

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1. Introduction

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The discussion on the question of evidence in education, better known as Evidence-Based Education (EBE), is becoming increasingly important, even if the positions that are expressed differ especially with regard to methodological issues. The discussion on the matter was started by a famous intervention by Hargreaves (1996) at the Teacher Training Agency of Cambridge, of followed by several replicas (among which the Hammersley’s ones in 1997, 2001, 2005, 2007 and 2007a are particularly relevant) also by the same Hargreaves (1997, 2007, 2007a). The core of the original question is easily identifiable: educational research should have a greater relevance and impact on the teachers’ work than it is now. Hargreaves argues, in fact, that the field of education does not differ much from the medicine one but, compared to the latter, it hardly uses models and appropriate knowledge able to improve teaching practices. The research on education, in substance, seems to move in a self-referential environment, without focusing on the assessment of the effects of some teaching procedures rather than others; this situation is indeed in contradiction with what happens in the medical field, in which the practices that result being more effective through research gradually substitute all others (Slavin, 2002, 2008). The problem is indeed very complex and cannot be solved by hoping for a simple transfer of the methodologies adopted in the clinical field into the context of educational research. As proposed by Popper (1998), it is necessary to start from from the significant problems met in the research field and then direct the research to the formulation of hypotheses suitable for solving problems. A number of studies (Hargreaves, 1996, 1997; Hillage et al., 1998; Tooley, Darby, 1998; Davies, 2000) have shown not only the gap between theory and practice, but also between educational research and those who deal with practices and educational policies (policy makers, providers and users of educational services), showing the self-referring character of the educational research, in terms of policy-making, too (Bennett, 1986; Davies, 1999; Feuer et al., 2002; Slavin, 2002, 2004, Saunders, 2007; Sykes et al., 2009; Davies, Elliott, 2012). It should also be stressed, however, that there are several critical positions asserted by some proponents of EBE. Some disagree with the same principles at the basis of the “evidence-based theory,” while others point out the limitations of some scientific theory proposed by this new orientation, particularly with regard to the possibility of generalizing the results by extending them to different situations and contexts (Atkinson, 2000; Simons, 2003; Burton, Chapman, 2004; Biesta, 2007). The discussions on the empirical evidence in education, mostly born following the international scientific debate about the parallelism between evidence-based medicine and evidence-based education, can count on the support that some government measures, in particular in the USA, have reserved to evidence as a science-based research. The Obey-Porter Comprehensive School Reform Demonstration, which developed the model of The America’s Choice School

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More information: www.ncee.org/ac/intro.html.

II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


Network1, promoted by the Consortium for Policy Research in Education (CPRE)2, the No Child Left Behind Act - NCLB, 2001 (US Department of Education)3, The Education Sciences Reform Act (ESRA) and The Individuals with Disabilities Education Act (IDEA)4 can be mentioned at this subject. With reference to the previous statements, that is a not uniform theoretical orientation, in our opinion a dialogue with the evidence-based research should be organized, especially in the context of special education in Italy, where there are still few experiences on the matter, but the need to provide education interventions in favour of pupils with special needs for clear scientifically-based research (strategies, assessed, reliable and transferable methods) is evident. With this article we want to start a discussion in this direction, referring in particular to school inclusion that, in over thirty-five years of implementation, has largely affected the research in pedagogy and special education. Recognizing the differences, not only concerning the terms of “integration” and “inclusion”, we would like to stress that “integration” is referred to the courageous research that allowed, in Italy, in the Seventies, students with disabilities become part of the regular classes of compulsory school degrees, while “inclusion” refers more generally to contexts and people, considering as inclusive not only the school environment, but also the social one and paying attention not only to disabled, but also to all those who have special educational needs (Cottini, Rosati, 2008). The publication of the Index for Inclusion (Boot, Ainscow, 2002) is to be collocated in this conceptual horizon, with reference not only to the changes in the law governing the tasks of pedagogy and special education, but also to a different and widespread attention towards inclusion. In particular we will focus on: 1. the research methodologies considered within the EBE approach; 2. the definition of an EBE model that could be applied in special education; 3. an analysis of the researches carried out on school inclusion in Italy in the EBE perspective; 4. the identification of some research methods to assess the practices of inclusive education.

2. EBE methodologies In numerous studies (Slavin 1986, 2004; Davies 1999; Coe 1999, 2002) the key principles of an EBE approach, as well as any scientific research that aims to have a strong impact of a social nature, have been defined. The evidence-based practices collect an organic corpus of scientific knowledge about treatments, prevention actions, intervention approaches or practices of service, all tested through randomized trials (Randomized Controlled Trial – RCT), using an experimental group (which performs the educational intervention) and a control group (not im-

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Members of CPRE: University of Pennsylvania, Harvard University, Stanford University, University of Michigan, University of Wisconsin-Madison. More information: http://www2.ed.gov/policy/elsec/guid/states/index.html. More information: http://idea.ed.gov/.

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plementing the educational intervention), resulted equivalent before starting the intervention (two-group experimental design); the extent of the effects produced on them by the proposed intervention will be assessed. Hargreaves (1997) has few doubts about the methodological procedure to be applied: due to its ability to reduce the eventual bias (distortions) to the minimum in the course of the experimentation, the RCT, that is the “gold standard” of the research (What Works Clearinghouse, 2010), is definitely to be preferred over any other study of different nature (Murray, 1998; Borman, 2002; Mosteller, Boruch, 2002; Boruch, 2006). Systematic Reviews and Meta-analyses are very interesting research tools aiming to accurately and reliably summarize evidences concerning a given subject. They are essentially research methodologies that lead to secondary conclusions on the basis of a primary literature referring to a specific research interest; in other words, each one meets a different summary requirement. A Systematic Review (SR) is a research tool that combines all empirical evidences corresponding with a set of pre-defined (default) eligibility criteria in order to meet specific research requirements – in a given field of study – from which then to draw appropriate conclusions, make decisions and change working practices. In other words, it summarizes the results of the available (both quantitative and qualitative) studies on a given topic, providing the framework for the reached level of trials/evidences (Mulrow, 1994; Oakley 2003; Green, McDonald, 2005). In the field of education, including special education, in recent years there have been significant contributions to the progress of the relating knowledge, either through systematic reviews and through meta-analyses, in particular from the English and American literature on the matter. The not systematic or narrative revisions expression means a set of researches of synthesis that simply leads to a review of previous researches relating to the same subject. Compared to the SR, this type of research tool is lacking in the systematic aspect that instead characterizes the other ones, so as to be carried out without a strong methodological strictness. Another term well known in the field of education and used to describe a summarizing document is Guidelines (see two recent examples in Italy: note no. 4274 dated 4 August 2009 – Guidelines for the students with disabilities integration in the school – and the decree no. 5669 dated 12 July 2011 – Guidelines for the right to education of pupils and students with learning specific disorders – LSD). By their nature guidelines are issued in the form of Recommendations of behaviours, that is teaching-learning practices, resulting from careful researches and systematic reviews of the literature and the experts’ opinions on that subject. They mean to help those working in the field of education, particularly teachers, perform their own interventions, improving teaching practices. Meta-analysis is a quantitative collection of data from independent researches, aiming to obtain summary data from which to draw conclusions much significant than those that could be taken from each individual study. The “meta-analysis” term was introduced in the late Seventies by G.V. Glass (1976) to indicate a philosophy, and not a statistical technique, concerning the systematic study and review of the literature on a particular topic, able to interpret the results of a number of researches, with reference both to the characteristics of the study and to random parts (Hunter, Schmidt, 1990). II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


Some important contributions on the use of meta-analysis in the field of educational research began to be carried out in the Eighties and Nineties (Fitz-Gibbon, 1985; Kulik, Kulik, 1989; Bangert-Drowns, Lawrence, 1991, Hedges, 1992, 2009), revealing the difficulties of researching in education, as the variables that pertain to educational matter are too many and uncontrollable; there are many researchers who study these phenomena by adopting different approaches and just as many are the conclusions they come to, often unsuitable to be summarized quantitatively. Not always indeed the amount of data available about a given problem is enough to give an exhaustive explanation of this. In this situation two questions arise: the first one is to share languages, principles and theoretical models; the second one is to identify the dimensions that cannot be subject to the evidence criteria (motivations, interests, personal expectations, etc.) but can possibly influence and affect any experimental investigation. With reference to the difficulty of studying education on the basis of evidence-based assumptions, the different types of approach, particularly the intermediate (Biesta, 2007) and conservative (Olson, 2004; Chatterji, 2004) ones, could be taken into consideration; they indeed moderate the excessive enthusiasm in experimental methodologies, stressing their difficulty in being simply applied to education and the substantial difference from the medical field. The above mentioned authors highlight in particular how the nature of research in education has an inherently qualitative character, since they enhance the subjective dimensions of the actors involved that have to be taken into account; they also stress the presence of a context in itself complex, consisting of a variety of factors that can be known only through participatory and descriptive approaches. Meta-analyses are highly detailed surveys related to a given topic and the researches that result suitable to be admitted in a meta-analysis should provide quantitative data and comparable methodologies, as well as to be comparable each other through a common parameter that is the Effect Size (Cohen, 1988, 1992; Maxwell, Delaney, 1990; Rosenthal et al., 2000). The meta-analysis recently carried out on the effectiveness of some intervention programs in the field of Social Emotional Learning (SEL) at school (Durlak et al., 2011) is very relevant. This research shows that the implementation of these educational programs, starting from nursery school, significantly improve the pupils’ social and emotional skills, academic achievement and the ability to positively manage the emotional stress; it also reduces problem behaviors and increases the pro-social ones. Therefore these programs can be extremely important for obtaining a real inclusion of pupils with special needs in the school, especially when they are properly applied to the teaching practice (Morganti, 2012).

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3. Evidence-based education and special education: a proposal for a model A model resulting from the major contributions of the literature on the matter, mostly also available online5, which seems suitable to combine the principles of evidence-based with the specificity of pedagogy and special education, is shown below (Figure 1).

Intervention effectiveness (effectiveness) Teaching efficacy (efficacy) Teaching implementation (implementation)

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Figure 1: The evidence-based education model

The key principles of this model, which closely influence each other, affect research and teaching through the analysis of the following aspects: – the efficacy of interventions (efficacy research), that it to determine, through research, the methods suitable to give significant results (“What does it work?”); – the effectiveness of intervention (effectiveness research), with reference to the results, always experimentally detected, of the use of a particular procedure in the real world, in the daily work in the classroom (“When does it work?”); – the implementation (implementation), intended both as the variables control in teaching, so that this activity can be successful, and as a systematic monitoring of the intervention evolution (“How can we make it work?”; “Is it working? “).

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See What Works Clearinghouse: - www.whatworks.ed.gov; Wing Institute - www.winginsti tute.org/Roadmap/Wing-Institute-Roadmap; International Campbell Collaboration: - www.cam pbellcollaboration.org; Social Programs that Work: - www.evidencebasedprograms.org; Child Trends: - www.childtrends.org

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With reference to the traditional model of EBE, aiming mainly at the research of “efficay” (in other words, detecting whether a particular educational intervention has the desired impact on social or school behavior in controlled settings), the organization of the Roadmap is, on the contrary, necessary; once we know what works, it’s not a simple matter indeed to apply the educational intervention to a real situation. The innovative aspect of this model concerns dealing with the critical variables necessary to successfully adapt an intervention to a specific context, giving a precise definition of the results considered as useful to give interventions efficacy and effectiveness. The more interesting aspect of this model is a less rigid vision of the EBE, especially if referred to the field of special education. In order to investigate more deeply the EBE model, an example referring to the recent Italian guidelines on the treatment of autism disorders (National Institute of Health, 2011), which are raising an interesting scientific debate, is reported. It is a series of recommendations on the effectiveness of various pharmacological and psycho-educational interventions formulated on the basis of a systematic review of researches carried out through RCT. These guidelines substantially focus on the first element of the model, referred as efficacy research. They represent a step forward of fundamental importance in order to avoid scientifically weak, or even not recommended, approaches. It should be emphasized, however, that even when we know which intervention methods are most effective, it is difficult to apply the educational intervention in the real world, especially if the generalization must deal with a very special context such as school. The evaluation of the intervention effect (effectiveness), that is the attempt to identify, through research, the minimum conditions for achieving successful actions (characteristics of students and teachers, organization of the environment, available resources, social aspects, etc.), is to be taken into consideration. The program of Applied Behavior Analysis, known as ABA, is analyzed. On the basis of a very detailed survey of the extensive scientific literature on the matter, guidelines even say that: “[...] Among the intensive behavioral programs the most studied model is the Applied Behavior Analysis (ABA): a number of researches support its effectiveness in improving intellectual ability (IQ), language and adaptive behavior in children affected by autism disorders. The available evidence, though not definitive, allow to recommend the use of the ABA model in the treatment of children affected by autism disorders”.

This assessment at the efficacy research level can not alone provide educator for solid milestones in his/her daily work. The questions teachers usually ask us (Cottini, 2011) concern their difficulty in getting clear guidelines from the survey of the literature on the matter. The most frequent questions are the following ones: – “The experience carried out in the afternoon, during the rehabilitation activities, is to be replied at school?”; – “This way, are the activities especially organized for those students only emphasized?”; – “How to take advantage from the natural environment and the presence of other children?”; anno I | n. 1 | 2013

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– “I should be guided by an ABA supervisor; but am I not the expert in education?�. The need for applied research in a specific context (effectiveness research), the only one able to consider a number of variables that may otherwise interact in an uncontrolled way and heavily affect the general character of the results, is evident. This kind of research is to be closely connected with the teaching practice (implementation), on the one hand supporting and guiding it and, on the other, being conditioned in its evolution. In other words, educational programs based on applied research are the only ones allowing to assess in a real situation the programs that have received a validation, as far as effectiveness is concerned, and to lead additional contributions in order to enrich all elements included in the EBE model. But how to do that? Three key actions can be taken into consideration: a. sharing a less restrictive approach in terms of types of research to be considered; b. a precise definition of the results considered as useful to give efficacy and effectiveness to the interventions should be adopted; c. special education has to play a leading role.

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a. There are essentially two approaches within the EBE (Calvani, 2012): a very strict one, similar to that adopted in medicine and based mainly on a RCT research model, and a less strict one still supported by validation criteria able to lead to reliable and transferable knowledge systems. We believe that in the field of special education the second orientation is to be preferred (Morganti, 2012a). To consider as acceptable only RCT investigations is indeed excessive and can lead, paradoxically, to very poor results. On the basis of the already described research on pupils with autism disorders, the difficulty (if not impossibility) related to the selection of homogeneous samples with randomized procedures and ethical issues related to the control groups is to be considered. How could the non-involvement of some pupils in an educational program considered as effective only for research reasons be justified? Besides that, this experimental methodology could hide, in the assessment of the group, the intervention effect on each pupil and, consequently, contribute only partially to the construction of our model of EBE, in relation to the dimensions of effectiveness and implementation. Therefore, we believe that further research models should be taken into consideration in order to assess the interventions carried out in the school, with particular reference to the single subject methodology and the observational research. b. Defining the results to be achieved is an absolutely not secondary question in order to promote an evidence-based model applied to special education. In other words, the need for efficacy must mate with that one relating to effectiveness; therefore, researches not only have to consider specific and particular learning, but also have to assess how these acquisitions substantially improve inclusion and quality of life. If, for example, a project aiming at improving II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


the pupils’ language skills is implemented, the results assessment not only has to deal with the number of words that are properly pronounced in the course of a specific test (i.e. naming images), but also must also consider if the pupil uses this expertise to ask some games, if the interaction with peers improves, if the time spent in class is longer, etc. c. The last aspect pertaining to the role of special education in this process is not affected by a personal interest. We believe that the actual construction and implementation of an EBE model, having the characteristics described above, must absolutely enhance the teacher specialized in special education, as a researcher able to combine the three dimensions of efficacy, effectiveness and implementation. On one hand, a role for special education has to be advocated, but on the other and its almost total inaction in this area of research is to be admitted; as a consequence, it has contributed to create an innovative model of inclusive education and social inclusion, but it has not substantially controlled the outcomes through shared reliable methods.

4. A research to assess the efficiency of the Italian model for a total inclusion Taking into account the model described in the previous section, we now present a brief review of studies carried out on the basis of the EBE principles, which have tried to assess the effectiveness of the inclusion in the Italian schools. For reasons of evidence, this review could be articulated in three main approaches, each one including researches aiming: 1. to record and describe the practice of inclusion in a given time (How are we working?); 2. to observe the results of the process of inclusion in the school (What results were achieved?); 3. to investigate the strategies that may be more efficacious (What does it work and when does it work?). The research approaches more closely linked with the EBE are surely the last two which, as we will ascertain, are also the less practiced ones. Descriptive researches on the inclusion practice These researches are carried out through interviews or questionnaires administered to teachers, school managers and pupils’ families, in order to ascertain, at that time, the implemented procedures, the teaching organization, the level of satisfaction, the available resources, the involvement of the different actors, etc. In general, on the basis of a series of quality indicators concerning inclusion previously defined, whether they are met in specific school contexts is assess. Some researches are particularly interesting because they have considered large samples (Gherardini, Nocera, Associazione Italiana Persone Down, 2000; Vianello et al., 2006; Canevaro, d’Alonzo, Ianes, 2009; Canevaro, d’Alonzo, Ianes,

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Caldin, 2011; Associaizone Treellle, Caritas italiana, Fondazione Agnelli, 2011). The results highlight the many positive aspects of inclusion, combined with not negligible negative aspects of it. In general a relevant commitment of resources, a progressive improvement of working methods which eventually all students benefits from, a positive attitude towards diversity by teachers, classmates, parents, etc. have to be remarked. This attitude is assumed as a starting point to build a really inclusive perspective, able to be extended in the social context, too. On the other hand, the attitude to delegate tasks to the support teacher, the difficulty in adequately involving all agencies, a poor assessment of quality and efficacy of processes in comparison with the pursued goals have to be remarked.

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The effects of inclusion as directly assessed on students One of the above mentioned investigations directly deals with the effects of the inclusive education practice on the pupils’ learning. This survey was carried out by Gherardini and Nocera in collaboration with the Associazione Italiana Persone Down (Italian Association of Down People) in 2000. It also analyzes the parameter of the quality of the results in the assessment of inclusive education of pupils with Down syndrome. The authors correctly point out that the obtained feedback may be affected by the respondents’ subjectivity, the level of quality deriving from the information provided by the same people involved in the inclusion process. The general teachers and the support ones were asked to answer questions related to the acquisition of skills by the pupils as far as autonomy and linguistic, logical-mathematical and socialization abilities were concerned. Good potential for development, some differences among the various areas and some deficiencies mainly concerning linguistic and logicalmathematical skills were recorded. Furthermore, this research highlights that the percentage of children able to learn at school increases with advancing age and the school class. Vianello and Lanfranchi (2009) studied the surplus effect, which is the opposite of deficit and considers how pupils with disabilities can have superior performance in some areas compared to tipically developed pupils at the same mental age. The authors state that the surplus effect takes place in reading and writing in an Italian sample of pupils with Down syndrome, which proved to be superior to that of other countries. It suggests that the total inclusion policy of pupils in the classrooms is a crucial variable that can justify the result. Other investigations carried out on the results of the Italian full inclusion refer to the individualized research (Cottini, 1996, 2003; Celi, 2003). As mentioned above, it is a procedure in which the want of groups of subjects is counterbalanced by repeated measurements on the same subjects, in order to highlight if the introduction of a specific independent variable (an educational intervention) tends to change the pupil’s behavior (dependent variable) in com parison with the previous situation (baseline). Different types of experimental design, in which intervention and observation alternate, while maintaining a continuous monitoring, can be adopted. The results are reported on special graphics and assessed both by visual and statistic methods. Some researches related to the process of inclusion in the school were carried out in Italy especially by the research groups coordinated by Celi (2007) and Cottini (2006, 2008). Curricular (reading, writing, mathematics) learning, soft skills II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


(upgrading attention, acquisition of memory strategies) learning, management of behavioral problems (aggression, self-injury, disruptive behavior in class) were taken into consideration. In general terms, these studies show very interesting and significant results, demonstrating the effecacy of the teaching process when properly designed, carried out and monitored. Furthermore, it is evident that carrying out applied research does not interfere, in fact, with the normal learning activities, helping make it even more systematic and controlled. Effects assessed on the other actors The descriptive researches provide for a feedback on the changes of attitudes, especially on the parents’ (normal and with disabilities pupils) and teachers’ ones, with reference to inclusive education. These studies have an approach that some English and American authors define as continuous “re-conceptualization” (Andrews et al., 2000; Begeny, Martens, 2007) and describe as typical of special education. In general terms, the goal of this approach is to promote an inclusive society where differences are not interpreted in a negative, stigmatizing, perspective, but as an element to be enhanced and promoted. It is certainly a milestone of pedagogical research, but when it is taken as an absolute topic, legitimated in terms of human rights, can lower the willing of achieving significant results. In other words, assessing whether the attitudes of the various social actors have towards inclusion are positive. Effects of inclusion on the teaching improvement The whole history of education shows that the most significant progresses in education were made when researchers studied how to support pupils with difficulties learn. The tested innovations progressively became authentic milestones for all, encouraging the development of innovative and useful strategies. These considerations come from a longitudinal investigation and are supported, at least in part, by the above mentioned descriptive researches, especially when the teachers’ reports highlighted that in the classes where inclusion projects were implemented “cooperation, laboratory and peer learning” strategies were extensively used (Canevaro et al., 2011, p. 71). However, since an empirical research is lacking, we do not know if this approach has different characteristics from that one adopted in classes where students with disabilities are not included, and especially if the inclusive practice led to an updating of teaching strategies. In other words, from the descriptive surveys a cause-effect relation, whose a total inclusion approach adopted in Italy could be responsible as independent variable, can not be derived. Researches on strategies assessing the effectiveness in class This line of research strongly affects methodologies and teaching and can give very significant contributions from the perspective of the effectiveness and implementation, so crucial in our model. In fact, teachers working in daily contact with pupils with a disability usually ask, before anything else, which educational strategies are more functional to achieve goals relating to inclusion and what conditions are necessary so that they can be maximally effective. Unfortunately, as already pointed out, the answers to these questions are anno I | n. 1 | 2013

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unsatisfactory, especially in Italy, due to the objective difficulty connected with the implementation of such studies in integrated contexts as well as a weak orientation to the systematic evaluation of procedures. Often some didactic approaches are considered as effective only when they differ from the traditional ones, with no real control of their outcomes. As an example, the use of ICTs, widely diffused in the school to promote learning in students with functional disabilities, to which different studies tend to give a very limited efficacy (see Slavin et al. , 2010), is to be taken into consideration. The review carried out so far, referring to studies that have tried to verify the efficacy of the inclusion process in the context of the Italian school, highlighted some strengths connected with mainly descriptive researches and weaknesses attributable to guidelines still barely directed to a systematic evaluation of the procedures and the results obtained, according to the EBE principles. As stressed by the Index for Inclusion (Booth, Ainscow, 2002), in recent years some Italian researches tried to analyze the evolution of the integration process, but they suffer from a number of limitations. In particular, as highlighted above, they are mainly descriptive rather than empirical researches, also making difficult to carry out comparative analyzes of whatever nature. Furthermore, the methodological aspects are poor and unsuitable for supporting the positivity of the results concerning integration and clearly identifying the most effective educational strategies in this area (Begeny, Martens, 2007). The activation of a dialogue between special education and evidence-based research, especially in the Italian context, is now essential. There is a need to start new and different research lines that take into account both the need of bridging the gap between theory and practice (still too deep) and of providing the educational actions aimed at people with special education needs with rigor, reliability and control, being the principles of the evidence-based research.

5. Which research in an EBE perspective? We have shown that there are few studies aimed at validating the organization and teaching models of school inclusion in an EBE perspective. In this field, studies are almost descriptions of good practices, some of which classifiable as research-action experiences. These are certainly significant procedures able to be replicated, but are not able to provide for reliable feedback on the inclusive model effectiveness. From the methodological point of view, in fact, these experiences lack of an experimental design able to distinguish the impact of the different variables involved and to define a shared and validated system to assess results. On the one hand, this approach in the schools has surely contributed to combine theory and practice through a reflection concerning action and coming from the same action; it has also enhanced educator, stressing his/her role of researcher and innovator. On the other hand, the risk related to the adoption of this research model, being almost exclusive, is to confine teachers within a limited and self-referential vicious circle, whose result is just to confirm already settled patterns and knowledge (Calvani, 2012): at this subject the Hargreaves’ position (2007) is very II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


significant, since he stated that decades of research-action in the school were not been able to demonstrate a positive impact of the applied guidelines. Therefore, how to add empirical researches on the outcomes of the inclusion process to the existing studies, to be carried out in conformity with the parameters set by EBE? There are undoubtedly great difficulties, both methodological and practical difficulties. From the methodological point of view, the first problem concerns the definition of “successful inclusion”. The Index for Inclusion (2002) has a three-dimension structure that are affected by the change in the inclusive school: policies, practices and cultures. The three dimensions, divided into six sections, are then transformed into a number of observable and measurable indicators, that identify the information needed to describe the actual implementation of inclusive processes, to show their efficay and impact and to ensure consistency between objectives and results. In this regard, the results to be assessed (dependent variable/s) are not easy to be defined. In other words, when the results of the inclusion process could be considered as satisfactory? A list of items which help define a positive outcome is showed: – levels of personal autonomy; – curricular learning processes; – communication and social skills and quality and frequency of interactions; – support needs; – outcomes concerning obtain a work and social inclusion; – the quality of life for students and families; – the level of learning of the class where inclusion is foreseen; – the classmates’ social skills; – the teachers’ and community’s attitude to diversity and inclusion policy; – the teaching procedures that are adopted in the classes where inclusion is foreseen in comparison to the others. Some outcomes directly affect the students’ learning and inclusion, other ones the effects on the different actors that come into play (classmates, teachers, families, communities) and others ones the teaching organization, to check if the latter improves as a result of the inclusion practice. A further problem affecting both planning and carrying out researches which aim to assess the inclusion effects it related to the assessment method that can be adopted. At this level matching the requirements of objectivity and replicability typical of researches with the natural ones and not always a priori defined that characterize the learning process is not always easy. Two opposite risks are to be avoided as they are encountered when this question is dealt without the necessary methodological expertise and flexibility: on the one hand thinking that assessment can only be implemented through standardized tests only, preferably administered by external people to avoid the risk that the educator’s subjectivity could contaminate data; on the other hand, believing that a descriptive direct observation only can provide the assessment process for the necessary accuracy, perhaps discussing it with other colleagues. The substantial lack of research carried out according to the EBE requirements concerning inclusive education anno I | n. 1 | 2013

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depends to a great extent on the inadequate matching of this dichotomous view of assessment, also affected by the lacking knowledge of tools and methodologies. The school situation and the organization of teaching certainly pose obstacles and problems at this level, but, in our opinion, in many situations the strictness, authenticity and contextuality requirements in assessing the outcomes of the inclusion process can be abridged. Lastly a practical difficulty in planning research using the traditional groupbased methodology is to be stressed. We have already mentioned the substantial impossibility, in most situations, of selecting samples through randomized procedures and identifying control groups, due to the widespread implementation of the inclusion policy. This objective situation forces to orient the research, at least the major part of it, towards a longitudinal approach and the use of almost experimental procedures, first of all the single subject methodology. Notwithstanding these critical elements, several lines of research can be definitely followed. We conclude this paper by showing some of them, which we intend to take into consideration in further works.

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The inclusion effects directly assessed on students In addition to the single subject methodology, our EBE model, based on not too strict assessment criteria, but still able to lead to reliable and transferable knowledge systems, gives good explanatory opportunities to longitudinal research carried out on large samples, even without control groups. In this case longitudinal studies in which certain characteristics are controlled over time through assessed tests can be foreseen. The main aspects are related to the availability of standardized assessment systems and a design able to control the main secondary variables. The tests standardization allow to reduce the impact of development, since the results are compared with rules that take the increase of age into consideration. The identification of the main disturbance variables can be carried out through a comparison between colleagues (peer debriefing), who can help develop critical aspects of the investigation otherwise difficult to be identified, and an external analytic control of the entire research process by an expert (preliminary audit trail). As an example of research at this level, how the adaptation and the need for support by the students with disabilities evolve over time could be checked through periodical assessment. Using Vineland (Sparrow et al., 1984) test on the adaptive behavior and the SIS scales (Thompson, 2004) on the need for support, both available following the Italian standardization, too, a development of these important features can be described and whether they are influenced by some independent variables (types of school, organization, methodologies, etc.) can be checked. Of course, in absence of control groups, possible situational conditions can not be eliminated but, as said above, they can still be controlled through a careful preparation of the experimental design and a rigorous assessment. The inclusion effects directly assessed on other actors In addition to the surveys carried out usually through questionnaires or interviews, empirical research may also be provided. An interesting project, for example, could be designed to determine whether the classes where inclusion is promoted show different levels of learning compared to classes where inclusive II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


programs are not foreseen. Notwithstanding the limitations of the tools they use, the Italian annual surveys promoted by Invalsi are still able to provide significant data at this level, also thanks to the wideness and stratification of the sample that is taken into account. If the results of some international studies were confirmed (Peck, Donaldson, Pezzoli, 1990; Sharpe, York, Knight, 1994; Huber, Rosenfeld, Fiorello, 2001; Dyson et al., 2004; Kalambouka, et al., 2005) – that is, normally developed students attending classes where inclusion processes are implemented do not delay their curricular learning because of the presence of companions with disabilities, but still have advantages from them – there would be a strong evidence of the overall efficacy of the inclusion perspective. In fact, if some social benefits are expected, it is open to question, even if the hypothesis is entirely plausible, if these positive effects also affect the cognitive domain, too, perhaps as a result of an improvement in teaching. The effects of inclusion on the teaching improvement In order to achieve this end, as an example, longitudinal studies concerning the work of teachers teaching at school for the first time for several years should be necessary. Some of these teachers should work in classes where there are students with disabilities and others in classes where there aren’t students with disabilities. The hypothesis to be tested is that the teaching approach may be similar at the beginning and progressively differentiate with regard to some specific conditions (assessment and observation method, use of strategies to individualize and personalize teaching, promotion of cooperative work and metacognitive reflections, use of technological supports, etc.). In conclusion, we believe that the creation and implementation of a less rigid model of EBE, as it is presented here, is the future perspective within which pedagogy and special education should be directed, considering the inaction, widely described in this paper, of this specific field of educational research. We hope that the process of school and social inclusion of pupils with special educational needs may use that perspective to monitor, improve and innovate outcomes.

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II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


Promoting multidisciplinary teamwork for autism: an English school experience

Paola Molteni, Dipartimento di Pedagogia, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano / Paola.Molteni@unicatt.it

Karen Guldberg, Autism Centre for Education and Research, University of

Birmingham (UK) / k.k.guld-

Keywords: autism, education, multidisciplinary teamwork, SCERTS model, assessment

II. Revisione sistemica Acknowledgments This research was only possibly due to the funding of the researcher’s internship by the School of Education, University of Birmingham. The researcher would like to offer profound gratitude to all staff and students at Sunfield school, where the research took place.

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© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

This paper describes the positive and challenging aspects relating to the implementation of the SCERTS Model in an English residential school for children on the autism spectrum, with a specific focus on the professionals’ involvement and on the process of enabling staff to improve the way they work as a team. The paper highlights how SCERTS can be used as a pedagogical framework for working with children on the autism spectrum in a multidisciplinary way, thus empowering the professionals and strengthening their ability to understand the perspective of the child with autism.

abstract

berg@bham.ac.uk

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1. Introduction

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An effective educational program for child with autism requires the expertise of a team of professionals working together in a careful, coordinated manner and in partnership with parents and family members. Multidisciplinary teamwork is crucial for understanding and designing a developmental life-long plan for children on the autism spectrum (Prizant et al., 2006). Believing in the importance of multidisciplinary teamwork for children with autism means developing strategies and research that investigates this aspect of educational work. This paper therefore aims to explore multidisciplinary teamwork in an English special school through the use of the SCERTS Model. This is done by describing the experiences of an Italian PhD student in a residential school. The student undertook a research internship with the Autism Centre for Education and Research (). During this period, the researcher participated in a research project to observe and learn about the implementation of the SCERTS, with a particular focus on how it enabled practitioners to promote interdisciplinary work in mainstream classrooms. The observations at the residential school and the strategies used to promote interdisciplinary teamwork is part of the student’s PhD research project. This investigates school teamwork to promote inclusion of children on the autism spectrum in mainstream classrooms and focuses on current paradigms and gaps related to Italian approaches and interventions. The Italian mainstream school setting is fundamentally different from the English residential school one, but the good practice experience is certainly important in terms of providing insights into what is needed to implement positive teamwork and knowledge exchange for supporting the child’s development and growth in the classroom and society as a whole. The SCERTS Model, as one of the most recent models developed for children with autism, needs to be explored and investigated in different settings.

2. The SCERTS Model The SCERTS Model is an innovative educational model for working with children on the autism spectrum and their families (Prizant at al., 2006). It provides specific guidelines for helping a child with autism becoming a competent and confident social communicator, while preventing problem behaviours that interfere with learning and the development of relationships. It also is designed to help families, educators and therapists to work cooperatively as a team, in a carefully coordinated manner, to maximize progress in supporting a child. The acronym “SCERTS” underlies the focus on (Prizant at al., 2003): – SC – Social Communication – the development of spontaneous, functional communication, emotional expression and secure and trusting relationships with children and adults; – ER – Emotional Regulation – the development of the ability to maintain a well-regulated emotional state to cope with everyday stress and to be most available for learning and interacting; II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


– TS – Transactional Support – the development and implementation of supports to help partners respond to the child’s needs and interests, modify and adapt the environment, and provide tools to enhance learning (e.g., picture communication, written schedules, and sensory supports). Specific plans are also developed to provide educational and emotional support to families and to foster teamwork among professionals. The above components are believed by the SCERTS Model to be the primary dimensions targeted in a program designed to support the development of individuals on the autism spectrum and their families. The targeting is accomplished though family-professional partnerships (family-centred care), and by prioritising the abilities and supports that will lead to the most positive long-term outcomes as indicated by the National Research Council, US (2001). As such, it provides family members and educational teams with a plan for implementing a comprehensive and evidence-based program that will improve quality of life for children and families. The SCERTS Model recognizes that most learning in childhood occurs in the social context of daily activities and experiences (Prizant at al., 2006). Therefore, efforts to support a child’s development occur with caregivers and familiar partners in everyday routines in a variety of social situations. When a child’s development in social communication and emotional regulation is supported, with the strategic implementation of transactional supports, there is a great potential for comprehensive, long term positive effects on a child’s development in educational environments and everyday activities. The SCERTS Model is a lifespan model that can be used from initial diagnosis, throughout the school years, and beyond. It can be adapted to meet the unique demands of different social settings for younger and older individuals on the autism spectrum including home, school, community, and ultimately vocational settings (Withbread, 2007). In the SCERTS Model, learning is when the child is able to apply an acquired skill across people, places and circumstances in an appropriate manner. The ultimate goal for the child is to understand how and when to use an acquired skill and for them to apply these skills independently and consistently in a functional manner for meaningful activities. The SCERTS curriculum provides a systematic method that ensures that specific skills and appropriate supports, stated as educational objectives, are selected and applied in a consistent manner across a child’s day. This process allows families and educational teams to draw from a wide range of effective practices that are available and to build upon their current knowledge and abilities in providing an effective program. One of the most unique qualities of SCERTS is that it can incorporate practices from other approaches and models. The SCERTS Model includes a well-coordinated assessment process that helps a team measure the child’s progress and determines the necessary supports that need to be used by the child’s social partners. The assessment is an important multidisciplinary teamwork tool that enables every partner to be part of the educational process of the child. The SCERTS Assessment Process (SAP) is designed to address core questions about social communication, emotional regulation, and transactional support, which are continually redefined on the basis of overall developmental level, functional needs, and preliminary assessment outcomes anno I | n. 1 | 2013

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(Prizant at al., 2006). These core assessment questions pertain not only to the Social Communication, Emotional Regulation and Transactional Support domains of the SCERTS Model but also to the interrelationship among these domains so that areas of greatest needs as well as strengths are identified in a comprehensive manner. The assessment and projecting process can be divided in ten stages (Prizant et al, 2006): 1. Determine the child’s communication stage. 2. Gather information on the child. 3. Identify assessment team members and plan the observation. 4. Complete the observation forms. 5. Conduct behaviour sampling. 6. Compile and integrate information with the Assessment Summary form. 7. Prioritize goals and objectives. 8. Recommend further assessment. 9. Design a SCERTS educational program. 10. Perform on-going tracking.

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Following initial assessment and implementation of an educational program, the child’s progress on Social Communication and Emotional Regulation objectives is tracked on daily logs, summarized on weekly logs and updated quarterly. This continuous monitoring of progress informs the team as to whether changes in programming are needed. Daily and weekly data collection ensures systematic application of the model and rigorous but nonintrusive data collection (Prizant et al., 2006).

3. The Team Around the Child The SCERTS Model, to be appropriately implemented, must have a multi-disciplinary team approach that respects, draws from and infuses expertise from a variety of disciplines, addressing the major domains (Social Communication, Emotional Regulation and Transactional Support) in an integrated and comprehensive manner across all settings and all partners (family, professionals, peers, community) (O’Neill at al., 2010). All the professionals belonging to the school must be involved in the design and implementation of the child’s educational program. To implement the model, it is important to define a multidisciplinary Team Around the Child (TAC) who aim to fully understand the child and are strongly committed to each other as a strong commitment between all the professionals and the family is fundamental for the implementation of SCERTS. At the residential school which acts as the context for the research described here, the management department, composed by each headmaster, is what connected all employees and provided structured activities to allow everybody to work in harmony and efficiency. This defined who would be part of the Team Around the Child. Not all of the professionals involved in the Team had necessarily received training on the SCERTS Model because the team leader was able II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


to help them to learn. This is significant because the model can be used even without specific training but as a pedagogical framework for the team. The Team Around the Child enables discussions about the child and is fundamental to set targets with all the key people working with or caring for each student with autism. If the team is well organised, there will be more professionals attending and participating in the discussions, proposing a multidisciplinary approach and sharing ideas and good practices related to each educational setting lived by the child. The organisation of each team is the management team responsibility because it has to find a specific dedicated time that allows all the professionals and parents involved to attend the meeting. In a residential special school this might be easier than in a mainstream school because most of professionals work at the same location and for the same agency, so it is simpler to organise the shift schedules in relation to the SCERTS assessment and implementation. In a mainstream school it could be challenging to find designated time agreed by all professionals working for different institutions (school, health, social services, care and family). The family should be involved to ensure the parents have the opportunity to contribute. They are supposed to attend the assessment meetings giving their precious perspective on the child. To uphold the professionals’ assessment process, the parents can do an initial home assessment based on specific forms defined by the SCERTS Model. The family perspective is very important because behaviours and traits are often not transferred from the home environment if the child has autism. Parents can attend the specific meetings allowing professionals to ask their opinions and views on issues and behaviours that the child may display through the questionnaires. In relation to this research, one of the professionals said: “I think the family should be involved but this is not always feasible. It is unlikely that families will be able to attend scoring meetings, and if they did, partners may not feel they can score so honestly about the student. I would be useful to hold an independent meeting with families, if the families are available.” This means that involving the family is not always simple for the professionals and the responsibility of the team leader in managing the Team Around the Child and the family is fundamental for the positive quality of interdisciplinary teamwork and the assessment. Through working in an interdisciplinary way, it is possible to understand the relationship between the child and his team through an analysis of all actions and perspectives in daily practice, collecting information on attitudes, activities and methods of each participant.

4. The child’s assessment through the SCERT model During the research at the residential school, the researcher was able to be part of three assessments and understand how the Team Around the Child worked through the use of SCERTS in this particular context. The children chosen for the observation were on three different stages of communication as defined by SCERTS (O’Neill et al., 2010). These stages included the Social Partner stage (where a child is using fewer then three words or phrases referentially, regularly and with communicative intent; the language Partner stage (where a child uses anno I | n. 1 | 2013

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more than three but less than 100 words or phrases, regularly and with communicative intent) and the Conversational Partner stage (where a child uses more than 100 words or phrases referentially, regularly and with communicative intent and can use at least 20 different word combinations that are creative) (Prizant et al., 2006). One formal meeting for each Team Around the Child was organised before starting the assessment and on that occasion the professionals that would be part of each Team were defined and the researcher was introduced to all team members. Observing team dynamics and practice during these meetings helped the researcher to understand how the residential school promotes multidisciplinary teamwork and how the SCERTS Model supports their daily practice. The researcher had an active part in the assessment process, interacting and asking professionals’ opinion to gather information on the use of SCERTS as interdisciplinary model. The three assessments observed had been organised and managed differently, with different results and feedback from the professionals involved. The assessment meetings are briefly described below to give the reader an example on how it could be effective. It also illustrates the challenges in planning and managing interdisciplinary team meetings.

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– Assessment 1 (16-year-old girl / Social partner stage): the assessment was done in two different days (4 hours in total) and eight professionals attended the meetings, from each department involved (education, care, therapy, family): the Team Around the Child was defined to be representative of the child’s professionals involved and everybody invited could attend the assessment meeting. The meeting room was very quiet and confortable, with a round table and a computer for watching the video footage (important during the child’s assessment). One of the department managers chaired the first session and his deputy chaired the second session, each professional had the full assessment form and one of them, from the psychology department, owned the SCERTS manual. The Team leader read aloud the sentences for scoring and his deputy gave description of it to the whole team. The Team watched the video footage before starting the Transactional Support session. The conversation on the child was very honest and relaxed. All the people in the Team appeared satisfied of the assessment done because they felt they worked together well. During the assessment meeting there was enough time for discussion and scoring, allowing people to compare each experience on the child and exchange good practice through different settings. In the second meeting, there were different professionals attending and the school department could not attend. – Assessment 2 (14-year-old boy / language partner stage): the assessment was done in two different days (2 hours in total). The Team Around the Child designated to do the assessment was selected in advance but only three professionals attended the first meeting and two professionals attended the second meeting. The room for the assessment was very quiet and confortable, with a round table and a computer for watching the video footage. Each professional had the full assessment form and the chairman had the SCERTS manual. The scoring went very fast and the reII. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


searcher had the impression the professionals might not have had enough time to score properly. – Assessment 3 (17-year-old boy / Conversational partner stage): the assessment was done in three different meetings (6 hours in total). Three professionals attended the meeting, and included one from each department; the room for the assessment was very quiet and comfortable, with a round table and a computer for watching the video footage; the professionals did not have the full assessment form during the first meeting but they did have it during the following meetings. The team leader owned the SCERTS manual but she did not read it aloud during the first meeting. In the following meetings, a person read aloud the definitions of each sentence to score the child’s assessment. The professionals involved knew the child for a long time and the scoring took a long time because of discussions over the child’s development. The three assessments were a good way for the researcher to collect information on the Team Around the Child to help identify the main aspects needed to enable good teamwork through the implementation of SCERTS. The following aspects identify the key findings that highlight the key points to enable multidisciplinary teamwork when using the SCERTS Model: 1. Team Management The Heads of the Departments committee have to define the leader of each Team Around the Child. The chairman’s role is fundamental for the team’s success because he would be in charge of planning and chairing each meeting, supervising the teamwork, guiding the group through SCERTS, giving explanation when necessary, taking notes of people’s comments during the whole assessment to define the child’s targets, and keeping everybody aware of the timing. The committee is the place where the Team leaders have room to face their doubts and their struggles in running the Team. The management group is fundamental for the implementation of SCERTS in a balanced way and to keep the quality level under control. 2. Team composition The Team Around the Child is the core of all the SCERTS implementation: it is crucial to successful assessment and to set goals for supporting the child. The Team should be composed by four to six people, from each department (Education, Care, Therapy, Management and Family) in a very balanced way that allows everybody to participate positively and exchange good practices and perspectives on the child based on the experience done in different settings. It is fundamental that each professional involved in the Team Around the Child attends the meetings. 3. Team supervision The SCERTS manual is kept by one person who is very confident in using the model, so the definitions can be explained reading them aloud and keeping every body else attentive on the contents and not on the reading.

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The leader should be supervising the TAC and taking notes about the different personalities in the team, to drive them to work well together and to understand the main difficulties of communication and exchange. The team supervision can be efficient through the use of SCERTS because the assessment and targeting focus not only on the child’s development but on the Transactional Support as well, In this way it is possible to understand the resources and struggles of the partners involved and to support positive teamwork. The chairman must provide everybody with all the forms necessary at the beginning of the assessment. The forms provided are the ones included in the manual (Prizant et al., 2006).

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4. Organization of the assessment Once the Team Around the Child is designed, the assessment should follow the steps explained in the manual and in the handbook (Prizant et al, 2006). Each step is important for the quality of the assessment. The video footage has to be well organised, the Team should meet at the beginning of the scholastic year to define the communication stage of the child and to select what must be observed and included in the final footage. Due to the importance of having each child’s life setting analysed and kept in consideration, the video footage could become a very challenging and time-consuming step of the SCERTS implementation. The Team should underline what are the core aspects of the observation based on the child communication stage and the assessment form. For the organisation of the Team, the schedule of each meeting is important: it is responsibility of the Team leader to keep the right timing for each score and properly follow the assessment effectiveness. An assessment meeting which is too long will bring disappointment and frustration to the team. 5. Family involvement The family must be involved in the assessment process through report forms, meetings and interviews, even if the child is in residential provision. The family can be involved ensuring they have the opportunity to contribute, maybe even attend the assessment meetings can give their feelings and evidence. They can do an initial home assessment as behaviours and traits are often not transferred from the home environment, asking their opinions and views on issues and behaviours that the child may display through the questionnaires and possibly some meetings. It is important to take into consideration these key aspects when undertaking the child assessment and when the school wants to promote interdisciplinary teamwork for planning the educational project of a child with autism. The Team Around the Child is the main tool for ensuring inclusion and good practice exchange when working with children with autism.

II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)


5. Improving interdisciplinary teamwork: the positive aspects of the SCERTS Model A key difficulty in learning, for persons on the autistic spectrum, is the lack of ability to “generalise” new knowledge. The practical process of carrying out a SCERTS assessment addresses this common problem. For any student to be judged to have either mastered or be “emerging” a new skill depends on either first hand feedback and/or video evidence across the partners who comprise the inter-disciplinary team. One of the key findings was the openness and honesty required by the partners, particularly in reference to the Transactional Support component of the assessment process. This sharing of direct work with the student with autism across Care, Education and therapeutic settings became a catalyst for reflective practice. The interdisciplinary approach through the organisation of the Team Around the Child is an innovative element of the SCERTS model and is an important element of working with children on the autism spectrum as a team. Experiencing the Team Around the Child in a more functional way, organising it better and tying it in with assessment and future targeting, made the professionals involved in the research very satisfied about their work as a team and as an individual, making them feel part of the same group of people being considered equally important. They felt their experience with the child was fundamental and unique for developing the life-plan, without counting how many hours they spent with the child. The Team Around the Child can be demanding and can take a lot of energy and time but most of the professionals agreed that is fundamental for the SCERTS assessment. It is a place where they could learn how to work together, it is a good way to exchange daily practice and it is a way to be organised for the children they serve. What makes the SCERTS process different is that the assessment meeting is conducted in an informal and relaxed manner. Before scoring the checklists, fellow professionals can take time to review video evidence and share positive and negative anecdotes regarding the student’s progress. Sometimes, these anecdotes can be light hearted and humorous. The opportunities provided to exchange experience and perspectives between professionals cannot be over emphasised. There is a tendency in residential schools for a competitive element to arise between the Care and Education settings, as to progress being made. SCERTS displaces this possible rivalry with collaborative problem solving and true reflective practice. The same tendency can also be found in mainstream Italian schools, and the experience of teamwork activities observed in residential schools can be a good example for good practice in other educational settings. The focus on interdisciplinary teamwork takes away discussions from the child’s pathology and associated behaviour problems to become more concentrated on the long term potential of the student and consideration of his future quality of life. To be successful within a large organisation, any new initiative requires active commitment from all levels of management, especially those in positions of leadership. The residential school key staff members across the student-focused de-

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partments have been released to attend training and awareness sessions on the SCERTS Model. In turn, this has led to a confidence, wherein staff teams have felt more empowered to work constructively in teams and people have certainly become equal in status, sharing real knowledge about the students. The researcher, during her experience at this residential school, noticed a genuine team enthusiasm for the SCERTS Model. This enthusiasm is not restricted to how it is currently operating but it’s potential to influence future innovative practice is truly welcomed. The real meaning of Transactional Support is enabling staff teams to have the self-confidence to be reflective practitioners and openly admit that there are areas of development in their professional practice, and this is what was observed during the Team Around the Child meetings.

6. The challenging aspects of the SCERTS Model

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Some specific challenges exist which are a threat to the long-term success of SCERTS within the organisation. These challenges relate to staff availability and long term commitment. The school management has a pivotal role in maintaining the enthusiasm and commitment to the model but it takes time to get used to SCERTS because it is not a model that can be implemented in a short-time period. The SCERTS Model can be considered as a mind-set that needs to be encouraged over time and across the whole centre. One of the therapists said “I feel comfortable using SCERTS and attending the assessment meetings, however I still think we have a long way to go until SCERTS is understood and accepted fully across the school: as I do not work hands on with the students daily I am not able to apply this with the students, I can only work with staff to set targets for them to work on�. It is clear that encouraging the right commitment between professionals from different backgrounds and families can be challenging because the communication style is often different and misunderstood. If professionals are not able to commit and trust each other, the implementation process will stop. Many teachers and social workers are used to working through specific models already in use and it could be hard to start using the new SCERTS curriculum as a multidisciplinary model to follow. The training of all professionals on the use of the SCERTS Model will take time and it could be expensive. In relation to the forms provided during the assessment, many professionals believed that the published SCERTS Manuals, highly informative and comprehensive, do not lend themselves to easy reading by care and education professionals. Rather, the presentation is academic in style and is, as might be expected, littered with American terminology. To address this downside, representatives of the Team Around the Child have collaborated with the researcher to produce a SCERTS Handbook for internal use. This will be distributed to care and education teams early in 2013 and the strategies for helping the TAC during the assessment and the implementation of SCERTS will be included in the handbook.

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7. Concluding comments The SCERTS model seems to be very efficient in supporting team work and the family in each step of the child’s educational life plan. The model provides professionals with a useful approach for working together for the child’s development and growth. It can be an educational model for supporting teamwork and teachers when working with children on the autism spectrum. The interdisciplinary approach is fundamental to understanding a condition like the autism spectrum. The SCERTS model provides professionals with a useful approach for working together for promoting the child’s development and growth because it helps to organise the team and analyse the challenges in an efficient and proactive way. The interdisciplinary perspective of the model does not cut off the professionals’ experience and creativity but enables every point of view on the child to be seen as a fundamental resource of information and equally important. These first observations are the starting point for designing a research project on the use of the SCERTS model as support for knowledge and training of teachers and professionals who are working for including pupils with autism in other centres. The link between culturally and systemically different educational systems can be possible thanks to the positive exchange of good practice that can be found in using a model as SCERTS, that is not prescriptive and it does not need a specific framework to be used properly. These observations on interdisciplinary practice will be taken as an example for an Italian case study and active research on inclusion in mainstream classrooms of student with autism, considering the positive and challenging aspects experienced in the English school. The Italian mainstream school is fundamentally different from a residential school but the good experience and positive team attitude observed during the children’s assessment in England can be inspirational in developing new interdisciplinary teamwork strategies in mainstream schools and educational services serving children on the autism spectrum in Italy.

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Different mirrors Sibship, disability and life phases

Although siblings perceive the differences between themselves and the disabled brother/sister through observation, everyday interaction and direct comparison – without any gradual and specific guidance, they have great difficulty in understanding the actual situation and in finding answers for the various questions concerning their disabled brother/sister that may spring to their minds. As a result, without appropriate and careful explanations from adults, siblings risk building a distorted and even dysfunctional image of their brother/sister’s disability, particularly in early childhood but also – albeit to varying degrees – in adolescence and adulthood. Based on these initial assumptions, 2009 witnessed the start of the research project “Essere fratelli. Vivere la disabilità” (“Being siblings. Living with disability”), the aim of which was to investigate – from an educational and pedagogical perspective – sibling relationships and disability. How to support and provide guidance for the life plan of brothers and sisters of the disabled? Which actions and educational interventions would help to guarantee this? Starting from (and through) the initial question of “how to communicate the diagnosis to siblings of disabled people”, the research highlighted some interesting educational dimensions that led us to refine our thoughts, in terms of the importance of supporting the siblings of the disabled person as well as the parents. The following considerations focus on the main conceptual issues linked to the communication of the diagnosis, sibling relationships, relationships with parents in the different life cycle phases: childhood, adolescence, adulthood.

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Keywords: sibship, disability, life phases, life plan

III. Esiti di ricerca

*

This contribution, fully shared by the two authors, was drawn up as follows: paragraphs 1, 2, 6 by Roberta Caldin and paragraphs 3, 4, 5, 7 by Alessia Cinotti.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Roberta Caldin, Dipartimento di Scienze dell’educazione, Università di Bologna / roberta.caldin@unibo.it Alessia Cinoi, Dipartimento di Scienze dell’educazione, Università di Bologna / alessia.cinotti2@unibo.it

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I am one of five brothers and sisters. We live in different places, some of us live abroad; and we don’t write to each other often. When we meet, at times we are indifferent to each other, or distracted. But among us, it takes just a word. A word, a phrase […] and we fall instantly back into our old relationships, our childhood and youth, bound intrinsically to those phrases, those words. One of those phrases or words would enable us siblings to recognise each other among millions of others in the darkness of a cave (Ginzburg, 1963).

1. Introduction

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While studies into families with disabled children began in the Seventies, researchers’ interest in the sibling relationship with a disabled brother or sister is even more recent. For many years, research into sibling relations focused on the effects generated by the presence of a disabled brother/sister: each time, researchers concentrated on the analysis of precise structural variables, such as “gender”, “birth order” or “family structure”, in an attempt to identify which factors most influence the process of adapting to disability. In the early Nineties, studies aiming to identify the factors that would aid understanding of how sibling dynamics work were published both in Italy and internationally (Furman, 1993; Stoneman, Brody, 1993). These researchers focused their attention on the relational characteristics of the family (emotional climate, marital harmony, conflictuality, etc.); the characteristics of the parental couple (educational style, time effectively dedicated to parenting, coherent educational strategies, etc.) and the individual parents (age, social and cultural status, ability to cope, etc.); as well as on the characteristics of all the siblings (disabled and otherwise) including gender, age, nature, type and level of disability. The research projects progressively shifted their focus from the effects – that a brother/sister brings to the sibship – to the processes characterising the sibling relationship, investigating its wealth and plurality of forms, in an increasingly systemic manner, aiming to create a corpus of knowledge covering the whole life span, integrating different research methodologies. The most recent studies (Iraite, Ibrarrolla-Garcia, 2010; Dykens, 2006; Voizot, 2003) show that to support and guide the brothers and sisters of disabled siblings in their life paths a balanced, well-pondered approach is required, that is not merely limited to emphasising the emotions and negative effects of the disability, as many research works have done, nor to underlining the positive effects and benefits that the experience of disability brings, as another research area has attempted to describe (Conners, Stalker, 2003). A fundamental role, for the purposes of the acknowledgement1 the disability

1

“Acceptance is not however a simple act of will but in fact rather a complex process. Acceptance is not an act of heroism, a huge sacrifice that goes against one’s own feelings, nor does it require

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


of the disability (Montuschi, 1997), is played by the parents within the family environment: the family is the context par excellence where we learn to understand and get to know the disabled brother/sister. The parent-child relationship is multifaceted, fraught with difficulties and perplexities. Some parents deliberately try to hide the truth about the child’s disability from the other siblings, vainly hoping to protect them for as long as possible, while others are unable to tell their children because they do not know where to begin or what to say, despite their desire not to conceal the truth. Still others think that there is no need to explain to their children as they are still too young, or because they believe that as they grow they will become aware of their sibling’s disability on their own. Equally there are parents who provide unclear information to their children, in a negative, hurried or indirect manner, and this can create an obstacle to their understanding of the new situation. Although siblings perceive the differences between themselves and the disabled brother/sister – through observation, everyday interaction and direct comparison – without requiring any gradual and specific guidance, they have, nonetheless, great difficulty in understanding the situation and in finding answers for the various questions concerning their disabled brother/sister that may spring to their minds. Acknowledgement of the disability is even more difficult in cases where there are no particular characteristics that underline the disability of the brother/sister (hearing aids, technological equipment required for survival, clear physiognomic traits, etc.); or if there is only a minimal age difference between the siblings, or if the disabled brother/sister is the oldest. So if the siblings are not provided with appropriate and careful explanations by the adults, they risk building a distorted and even dysfunctional image of their brother/sister’s disability, particularly in early childhood but also – albeit to varying degrees – in adolescence and adulthood. However, despite the immense wealth and value of these important areas of study, many questions remain open and unanswered. Therefore, understanding how and why some children with a disabled brother or sister have an absolutely regular development while others have difficulties still remains a mystery. We must remember that in the current Italian context there is no reference protocol for communication of diagnoses to siblings, or for effective educational-pedagogical interventions for tackling the crucial knots in sibling relationships, starting from diagnosis communication, understood as a continuous and repeated life-long process (Caldin, 2011).

2. Research methodology Based on these initial assumptions, 2009 witnessed the start of the research project “Essere fratelli. Vivere la disabilità” (“Being siblings. Living with disabili-

any deceptive modification of one’s own negative opinions to render acceptable a reality that reason refuses. It is therefore neither resignation nor deceit: it is a simple statement of reality, the acknowledgement of events as well as the emotions that these events arouse in us” (Montuschi, 1997, p. 83).

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ty”)2, the aim of which was to investigate, from an educational and pedagogical perspective, one of the least studied topics in the field of disability: sibling relationships and disability. This research links to the theoretical and conceptual frameworks of inclusive education (Ainscow, Booth, Dyson, 2006; Armstrong, 2003; Ainscow, Booth 1998; Stainback and Stainback, 1990), an approach which demands that we work firstly on the contexts and then on the individual, transforming the specialist response into an ordinary one, referring to a social model of disability and to the process of empowerment that places the disabled person and his/her family at the centre of all decision-making processes (D’Alessio, 2011). Starting from (and through) the initial question of “how to communicate the diagnosis to siblings of disabled people”, the research highlighted some interesting educational dimensions that led us to refine our thoughts, in terms of the importance of supporting the siblings of the disabled person as well as the parents right from the moment of diagnosis communication. This is an exploratory research project. Its initial hypothesis focuses on the importance of ensuring educational actions for the siblings of the disabled person. Here we hypothesise that by working as early as possible with brothers/sisters we should be able to help the non-disabled sibling to relate to this new reality with less difficulty, fear and lack of understanding, with positive knockon effects both in the sibling relationship and in the construction of the identity of the non-disabled brother/sister. The main objective of this research was to obtain more information on this subject, focusing on educational and pedagogical dimensions, starting with the needs and difficulties that siblings may encounter in their life plans (who are the siblings of disabled people?, what are their difficulties and their resources? how do they live with the disability? etc.). The research, carried out in Italy, included a preliminary exploratory phase of the topic, followed by a second phase dedicated to studying the emerging results, through the administration of a semi-structured questionnaire to a larger group of people with disabled siblings using a quantitative method. The first research phase focused on a small reference group of 4 brothers and 8 sisters aged between 16 and 45. With a descriptive and qualitative function, in this phase in-depth interviews were administered and the data obtained was then analysed and coded. The choice of in-depth interviews was based to a great extent on the objectives of this first research phase. We aimed to investigate the personal standpoints, experiences of the disability, memories linked to the birth

2

Further information: Montuschi F. (1997). Fare ed essere. Il prezzo della gratuità nell’educazione. Assisi: Cittadella. Montuschi F. (1993). Competenza affettiva e apprendimento. Dalla alfabetizzazione affettiva all’apprendimento. Brescia: la Scuola. The research was carried out by Roberta Caldin (Scientific Director) and Alessia Cinotti. Further information: Caldin R., Cinotti A. (2012). la comunicazione della diagnosi. Un’esperienza con i fratelli e le sorelle di persone disabili. In M. Carrozzino, P. Ruffinatto (Eds.). I paradossi della disabilità. Autonomia Capacità Dipendenza, Roma: Nuove Frontiere; Caldin R., Cinotti A. (2011). Être frères. Vivre le handicap. In E. Catarsi (Ed.). Educazione familiare e servizi per l’infanzia/ Education familiale et services pour l’enfance (pp. 165-169). Firenze: University Press.

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


of a disabled brother/sister, as well as the difficulties and perceptions. Moreover, as sibship is an unexplored area, our aim – in this phase of the research – was to define a more specific field of investigation (to which the second phase was dedicated) compared to the initial area of enquiry. In this first phase, the interview included simple questions formulated directly, “Can you tell us …?”, “Do you remember …?” to allow the brother/sister to openly discuss the question in hand. This method allowed the interviewees to talk freely and choose where to start from and what to tell: we noted that some interviewees offered very significant personal anecdotes, digressed into other important reflections and in some cases provided long introductions to their answers. This information was very helpful as it allowed dimensions to emerge that would have been difficult to hypothesise from the outset, based solely on the reading of the bibliographic references on the subject. In the second phase following this initial research, we investigated how to support and provide guidance for the life plan of brothers and sisters of the disabled and which actions and educational interventions would help to guarantee this. This research phase was based on the administration of a semi-structured questionnaire to a sizeable group of people with disabled siblings (Tab. 1). The group of 76 non-disabled siblings includes 61 females (80%) and 15 males (20%), aged between 16 and 68. The sibling age group is very wide, as our aim was to investigate the issue of sibship in the different life cycles, to explore the transformations and features of sibling relationships. Due to the complexity and delicacy of the topic, we decided not to directly involve children with disabled siblings, preferring a target composed of adolescents (6%), young adults (41%), and adults (53%). Moreover, to understand the heterogeneity of sibling relations, we chose to include in the research both younger (32%) and older siblings (68%) of the disabled person, from the whole of Italy, trying to involve as many regions as possible, from the South and the Islands (11% ) to the Centre (34%) and the North of Italy (55%). -

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Tab. 1: Group of non-disabled siblings

In this second phase, the questionnaire administered to the brothers/sisters included a section on their disabled siblings (age, type of disability, etc.) to understand the features of the sibling relationships, considering the whole sibship and not merely the non-disabled brother/sister. The personal data indicated a total of 72 disabled siblings there are 72 disabled siblings (42 females and 30

3

The sum is greater than the total (76) as one person has two disabled sisters and according to birth order covers the role of both older and younger sister.

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males), aged between 6 and 60. 13% have mild disabilities, 52% average disabilities and 35% complex disabilities. Moreover, for the purposes of our investigation of sibling relationships, it is important to point out that 81% of the disabled siblings live with their relatives, more specifically: 64% live with the parents, 14% live with the sibling’s family, and 3% live only with a brother/sister. 6% on the other hand live outside the family: 3% live in a residential centre full-time and the other 3% from Monday to Friday only (Graph. 1). )!" (!"

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100 Graph. 1: The group of disabled siblings

In the research, in both phases, central importance was given to the brothers and sisters of disabled persons, disseminating their testimonials and points of view to prepare a path for the transmission of knowledge and competences drawn from personal experience and everyday life. like the parents, siblings are experts: they bear witness to precious knowledge that needs to be acknowledged, promoted and integrated with that of professionals (teachers, social and educational workers, health professionals, etc.), within an effective and profitable partnership. Analysing the emerging data, we obtain a rich framework of suggestions and cues for thought; as it is impossible to study them all, the following considerations focus on the main conceptual issues linked to the communication of the diagnosis, sibling relationships, relationships with parents in the different life cycle phases: childhood (paragraph 3), adolescence (paragraph 4) and adulthood (paragraph 5).

3. Sibling relationship during childhood Studies into developmental age, above all in the field of psychology, teach us that generally until the age of eighteen months the arrival of a new sibling creates very few problems; on the other hand, between eighteen months and three III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


years the impact may be tougher and create greater difficulties in adapting. At around four to five years, children are assumed to have the maturity required to handle the frustration with a greater ability to adapt (Capodieci, 2003, p. 123). Usually the child or children welcome the new baby with a mixture of affection and excitement, not fully aware of the changes that the event will bring to their lives. In actual fact, for many children the birth of the brother/sister represents the first real experience of separation from the mother, who is admitted to hospital for the birth of the new baby. For many scholars, the birth of a sibling is a stressful experience, particularly for the first born; other researchers, on the other hand, consider the birth of a sibling to be a non-stressful event, the associated changes of which can be faced naturally by the majority of children (Dunn, 1998; Dunn, Plomin, 1997; Cicirelli, 1995). For example, after the birth of the brother/sister, some children present regressive behaviour: they may become more demanding, have episodes of bedwetting, lose sphincter control or have difficulty sleeping. other children, on the other hand, show greater maturity than could be expected, and for them the fact of being the older sibling becomes a matter of pride. It is important to note that, for some aspects, the birth of a disabled sibling is not so different from the birth of a non-disabled brother or sister: the first born and other children have reactions (regressions, excitement, etc.) and feelings (happiness, jealousy, curiosity, etc.) that any child may have following the arrival of a new member of the family(Giallo, Gavidia-Payne, 2006). However, the birth of a disabled child should be considered a critical event for the whole family, including the brothers and sisters, who – irrespective of their age – feel and perceive the tension, sadness and worry of the parents. When I entered the room at the hospital, I immediately realised that something was wrong, because the crib next to Mum was empty, my brother wasn’t there. (E.L.)4 There are 16 months difference between me and F, my Mum always tells me that I understood straight away that something had changed, even though I continued to act as normal, without asking questions. When I was around two and a half, we went to visit A, another Down’s Syndrome child, and when we left the house I asked: “Why do F and A have the same eyes?” My Mum didn’t tell me but I think that my curiosity was a great relief for her, and the starting point for her to tell me, in her way, that F. had Down’s Syndrome. (F. V.)

Moreover, in contrast to adults, children may have little knowledge of the disability and the nature of some conditions can be very difficult to understand; Glasberg (2000) indicates how the difficulties in comprehension can be widely attributed to the abstract nature of the concepts linked to the disability itself (Gardou, 2012). The abstractness, as an element that interferes with the understanding of the disability, is also widely confirmed in our research, where more than half of

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All the testimonials are taken from the research work “Essere fratelli. Vivere la disabilità”.

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those interviewed (72%) stated, in response to the question “Before the birth of my brother/sister I had never seen a disabled person”, that they had never seen a disabled person or did not remember, demonstrating how disability is not always a common and/or familiar experience for the majority of people. For example when my sister was born I had never heard the word Down, nor did I have any experience with friends and/or acquaintances. The transition for understanding that it was not a disease but rather a permanent genetic condition was very complex. (L.B.) I was 9 years old and knew nothing about Down’s Syndrome, I thought it was a serious disease. (M.L.)

From literature it emerges that in childhood one of the aspects that can create the greatest distress is precisely the lack of early and spontaneous explanations by the parents. The role of the parents towards the other children is very important, following the birth of a disabled sibling: spreading hope and distributing suffering (Meltzer, Harris, 1986) are two of the main functions the parents should actively implement in order to accommodate, reassure and at the same time limit the emotional experiences of their children. However, parents are not always able to understand that, as children, the brothers and sisters have too limited a life experience to be able to take care of the disabled sibling and/or place the problem of disability in their own existential perspective (Capodieci, 2003).

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Mum, T. [the disabled brother]and I, all together in the big bed, and Mum explained lots of things to me: “You see, children with Down’s Syndrome have eyes this shape, slightly elongated.” These are nice memories. (M.M.) Even small things became a tragedy, for example my sister ate very little and this was a tragedy, then she began to eat yoghurt, but only one flavour... and that was practically a tragedy too. (I.R.) We all worked very hard, I used to go to the check-ups with my parents and I listened. At home we did physiotherapy, as if it were an organised game. (I.R.)

McHale and Harris (1992) state that the sibling’s acknowledgement of their brother/sister’s disability takes place very early, around three years; Capodieci (2003), on the other hand, demonstrates that strong awareness of the disabled brother/sister’s disability is acquired only later on, during the primary school years (six to ten years), through a comparison of their own siblings with friends and schoolmates. The study by Glasberg (2000), moreover, underlines how the progressive cognitive development of the growing sibling does not always correspond to an equal increase in the comprehension of the brother/sister’s disability. It is noted how the brother/sister – despite their strong cognitive skills and capacity for abstract, processed thought, in terms of the understanding of the disability – show difficulty in overcoming a preoperational stage of thought, a form of magical thought (such as the fear of contagion) which affects the process III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


of acknowledgement of the disability. This discrepancy between the level of acquired maturity and the processing of the disability, which may also be due to emotional interference (e.g. fear, etc.), is very frequent not only among children but also among adolescents. With C. I think I understood very well for two reasons: a friend of the family had Down’s Syndrome, and also because we attended the parish and sometimes I came into contact with other children with problems.(L.E.) When I was eight, my mother told me that my brother had problems, and I was afraid of the word Down. I loved my brother, who at the time was two, he had just learned to walk... that strange word couldn’t change everything. I was frightened. (F.C.) The awareness of his deficit grew slowly, when I was able to understand, my parents carefully explained his encephalopathy to me, the days he spent in a coma and everything that came afterwards. (F. L.)

Finally, many studies show how the process of role crossover – the exchange of roles that occurs between siblings when the non-disabled younger sibling reaches and overtakes the skills of the older disabled brother or sister (Farber, 1993) – is a key moment for the acknowledgement of the brother/sister’s disability: this takes place both when the disabled brother/sister is older and when there is a limited age difference between the siblings. At one point it will be very clear how the development of one brother/sister proceeds regularly, while the development of the other remains stable, with clearly different abilities. I was much younger but for example I was much faster than she was, or in other things I was much better than her. (P.Q.) I saw her as my equal, when we were small we always played together... then she began to close herself off, become isolated, not speak, and then I understood. (L.E.)

The research demonstrates that for some years the brothers/sisters do not fully understand the disability of their sibling, and tend therefore, as children, to become hostile and jealous towards the fact that their parents dedicate so much time and effort to their disabled brother/sister (Dew et al., 2008).Without appropriate information and explanations, children develop the idea that the parents love the other child more, creating a sentiment of exclusion. I remember they used to say that he was unlucky, a poor child. I didn’t understand why they said this, I thought that I was the unlucky one; he was the one that got all the cuddles and attention. (L.E.) Mum and Dad did everything for him, some I knew well enough, he could do for himself, but no.... all the focus on him. (E.L.)

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4. Sibling relations in adolescence As mentioned in the previous paragraph, the slow and gradual process towards understanding the disability continues also into adolescence. In particular, in this phase of the life cycle, the sibling’s disability implies a whole series of considerations also concerning the social context: shame, embarrassment, discomfort towards friends and acquaintances due to the health conditions of the disabled brother/sister and his/her behaviour are very frequent emotional experiences (McMillan, 2005). In our research, the siblings responded as follows to the question “In your opinion, siblings should be helped/supported...” (Graph. 2): – in processing their personal emotional experiences (anger, guilt, embarrassment, solitude) 77%; – in their relations with their disabled brother/sister 44%; – in social relations (schoolmates, friends, partners, etc.) 44%; – in understanding the disability (causes, limits, potential) 33%; – in their feelings towards their disabled brother/sister 22%.

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Graph. 2: Areas to be supported according to the needs of the siblings

It appears that one of the priority needs of the siblings is to have support and guidance in the processing of emotional experiences; the feeling of isolation and not having anyone with whom to share the experience of having a disabled brother/sister represents a gap to be filled through educational actions of a preventive nature, aiming to support this area of the personal sphere. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


Great importance is also given to the sibling relationship itself, and how – according to the siblings – this needs to be sustained and cultivated, also through the mediation of adults (Germain, 2008). Sibling relationships, above all in cases of disability, cannot be left to their own devices: parents can play an important role in helping the siblings to get to know each other, to find their own balance, and (re)define borders and proximities, respecting the needs of all the children (Saint-Martin, 2012). Another area that siblings require support with lies in social relations (lefebvre, Sarfaty, 2008), with friends, schoolmates but also other acquaintances (including the stares of strangers). In this regard, it is of fundamental importance to point out that the need for support within the social sphere does not consequently mean that the siblings of disabled persons have irregular development and a high risk of difficulty in individual and social adaptation, but rather that the social sphere also needs to be recognised and supported, with a global vision of the person. Therefore, we agree with other scholars who claim that many siblings of disabled people grow up to have fulfilling and totally satisfactory lives (Ianes, 1993). In adolescence, the process of differentiation with the brother/sister (and the family) becomes progressively clearer as years go by: brothers and sisters tend to be less involved in the care of the disabled sibling, partly due to the natural process of separation from the parents, and partly because they are attracted to their peer groups, which in this stage of the individual life cycle play a key role in developing identity. This is why the dimension of social relations could become a priority area for educational interventions targeting the siblings of disabled persons: it is fundamental to help these brothers and sisters to find the right balance between their own exclusive time, a time and space for them to dedicate to themselves and their own free time, time for their friends, and time to dedicate to their disabled sibling, in order to avoid the so-called social closure5 which often characterises families with a disabled child. During adolescence, often brothers and sisters note the re-emergence of negative feelings and perceptions of childhood – such as guilt and shame – also due to the smaller amount of time they spend in the family or to a whole series of opportunities, in terms of both relations and abilities, that the disabled sibling has only partially. One thing I don’t like so much is that now I can do things that he can’t like having a moped or getting a driving licence. He has been explained all these things, but to “relieve” his pain, whenever I can I take him out for a drive or a ride on the bike, sometimes he asks me first and even if I don’t feel like it I make an effort and off we go. (M.M.)

on the one hand, non-disabled siblings long for new experiences, separating themselves from their adult reference figures to become more autonomous (Korff-Sausse, 2003); on the other hand, they feel the resistance and tension in the

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Social closing refers to the closure of the family group towards the outside world, dictated by feelings of distress, shame, difficulty, etc.

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family generated by these changes, and may be affected negatively by the idea that without them the disabled brother/sister is alone. other adolescents are burdened with too much responsibility by their parents, and their sense of duty compels them to spend much of their free time with their disabled brother/sister, without being able to cultivate their own interests, depriving themselves of those encounters and experiences that are indispensable for personal growth. My parents are sad that G. has no normal friends, but I am less harsh than they are: then again, I have no disabled friends, and don’t think it’s fair that G. always has to come out with me and my friends. (M.B.) For me adolescence was a terrible time, my parents had mortgaged our lives for us, they used to say, “It will be up to you to look after your sister.” (E.B.) I remember that I spent part of every afternoon helping my sister with her homework. (E.B.)

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For these reasons, during adolescence it could be useful to provide guidance to both brothers/sisters and parents – in different ways and with social and educational supports – in order to help them understand that in adolescence it is totally physiological for siblings to move away from the family nucleus, distancing themselves from their disabled brother/sister, and coming into conflict with the parental role. This emotional and physical detachment is necessary in order to review and transform the existing ties and balances, so that the sibling relationship can develop. My parents assigned me a parental role, for a time my sister called me “Mum”. Until I felt that this was too great a burden for me. Then I took the decision to leave home, I had to get away from that situation, also physically. When I was 20 I went to live with some friends... My parents didn’t understand and thought that I had abandoned them, considering me a traitor. (L.B.) I was always out and about with my friends. (F.E.)

Some adolescents reach a greater level of maturity than their peers, precisely due to their particular family situation; this is also confirmed in our research, where 59% of people responded that they “strongly agree” with the statement that “I developed greater sensitivity than my schoolmates”. Within the peer group, above all when friends take little notice or are misinformed about the disability, some adolescents fear they will be labelled as the “brother/sister of the disabled person”, and to some extent fear being rejected, considered different and mocked. Usually, on the other hand, peers with non-disabled brothers and sisters start to develop a far more symmetrical relationship with their own siblings, experimenting a more equal relationship within the family, which is an important testing ground for entering into the world beyond the family.

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


During this phase, some adolescents develop a more authoritarian relationship with their disabled brother/sister, in which they play a dominant role, more asymmetrical and distant. Parallel to this, this relationship method, in which a “dominant” role is played, may also run beyond the family boundaries into other interpersonal relations, leading to some difficulties in building harmonious relationships, and balance needs to be found in the delicate process of give-and-take that friend relationships require. In this transitional phase, from childhood to adulthood, siblings begin to query their own future, questions that also partially affect the disabled brother/sister: they wonder what their partner may think of them having a disabled sibling, and his/her need for care and assistance; they wonder what will happen one day if they have children; they wonder what will happen when their parents become too old to act as caregivers. As explained by Binda (2004) these are very complex issues, and even the maturest adolescents have trouble in finding a sufficiently reassuring answer to these concerns.

5. Sibling relations in adulthood

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In contrast to the two previous ages, sibling relations in adulthood is the life cycle least explored in the pedagogical field. The consideration for this time frame is widely due to the new life prospects of disabled persons. In fact, a significant increase in the average age of disabled persons has been recorded, and in contrast to the past it is frequent for people with disabled siblings to experience this relationship also in adulthood (McMillan, 2005). Moreover, this longer life span has led to situations in which the disabled person may lose his/her parents, yet still need significant care and daily assistance. Thus, it is important to understand how to continue the sibling relations, after the years of adolescence, as many younger and older brothers and sisters will very probably have to replace the parents and take over the care of their disabled sibling first hand. During maturity, when the relationships between siblings tend to become symmetrical and on equal footing, in the case of disability sibling relations are much less balanced and become far similar to the parental model of relationships. In our research, 61% of people stated that they agreed or strongly agreed with the statement that “the relationship is asymmetrical, even though we are both adults”. The asymmetry of roles is even more obvious in the cases in which the brother/sister has a complex disability, resulting in the serious compromising of functions and personal autonomy, with clear difficulties on a cognitive, linguistic and socio-relational level. We get on well together, we make sure we spend time together just the two of us, I leave my children at home and we go to do the shopping. (L.B.)

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In the research “Essere fratelli. Vivere la disabilità”, the focus on sibling relations in adulthood is still underway. In this article we can therefore only present the first (and partial) results of this phase of the survey.

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With M. I couldn’t say, her disability is very serious, she has no autonomy, the only other person she has relations with is my mother. She does only two things: she licks the kitchen sponge if she’s thirsty and she moves the knob on the oven to make pizza. There are many negative aspects, you have to dedicate yourself to her 100%, she is an exponentially demanding sister. I can’t do anything with her, I can’t even go to the supermarket. She will scream for no reason, people stop and stare... I can’t cope. (F.E.).

Generally, however, relationships in adulthood tend to be marked by less conflictuality than in childhood and adolescence and more satisfaction, also due to a much more significant understanding of reality compared to the past. In adulthood, it is seen how brother/sisters about to have children return to their memories of the birth of their disabled sibling, and in some cases wonder whether their child will have problems. Unconsciously, often the fear of having a disabled child remains, both in brothers and sisters, an echo that rekindles the childhood fear of “getting sick” and becoming like the disabled sibling. Much later, when I wanted a child of my own, my parents told me that I shouldn’t worry because they had had all the tests available done and there were no genetic issues. When I was pregnant with my first child they gave me all the photocopies of the tests; I decided to do a chromosome map, while I was pregnant. I remember that my brother did it too, and also did the test for fragile X syndrome. I would have liked a third child, but thought that perhaps I had been lucky to have two healthy children and it wasn’t worth tempting fate. I could not have coped with a child with problems. (F.T.)

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I am haunted by the memory of my mother telling me how things had gone [referring to the sister’s disability], including her pregnancy with me and near the birth. (F.L.) My partner is expecting twins and I wonder if our children will be born with problems. We both decided to have all the possible tests done during my partner’s pregnancy. (F.E.)

In our research, to the question “As I child I was afraid of catching my sibling’s disability”, 67% stated that they “did not agree” with this fear, as if it was never felt by the majority of them; while a much lower percentage (6%) responded positively to this question. We think that as time passes these adults have learned to give a different name to these fears and memories of the past, and that the focus of the brother/sister moves – in adulthood – in other directions, towards new urgencies to be dealt with: – – – –

the parents becoming elderly, or the death of one of them; the practical and possibly legal responsibility for the disabled sibling; worries about the disabled sibling’s future; uncertainty over the willingness of one’s own partner to take this situation on board; – worry over how to reconcile the needs of one’s own new family (e.g. children) with the needs of the disabled brother/sister.

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


The question of “who”, after the parents, will look after the disabled brother/sister, and how, remains a central issue in the family system. As explained by Binda (2004), positively and negatively, the care dimension represents a constant in the sibling relations in families with a disabled child, and in particular during maturity. And it is around the process of taking responsibility for the disabled brother/sisters that we need to structure a global life plan that considers the needs of all siblings – disabled and otherwise – guaranteeing each of them the right to a good quality of life, respecting all parties. In our research, to the question “in future, my sibling will come and live with me”, 35% stated that they “agreed” and 16% that they “strongly agreed” with the statement: from this data it can be deduced that many brother/sisters will take care of their disabled sibling after the death of their parents. All this could be possible thanks to the adoption of a parental role and the support and willingness of partners and children. Moreover, the choice of the brother/sister to take care of the disabled person does not appear to be significantly influenced by gender, in contrast to what happened during childhood and/or adolescence where the fact of being brother or sister would affect the involvement in care and the role play within the sibship. In adulthood, in fact, the support is more influenced by elements that are extrinsic to the relationship (e.g. willingness of the partner, economic resources, geographical position, etc.) and intrinsic elements, such as the quality of the sibling relations, the frequency of past contacts, level of affection and emotional involvement. After the death of my parents, I would never want to put my sister in a residential home, as she cannot communicate and if they treat her badly I would never know. I am rather wary, and prefer to keep her with me. (M. A.) Currently I live a long way from my brother, he still lives with our father in Southern Italy. Although, looking to the future, because now my father is elderly, I am starting to make contact with the local services, to find out what possibilities I have here in Bologna. I live here with my wife and children, my brother will come here, we will not move south. (M.A.) My brother came to live with me [I was married at the time] but after a while my wife did not accept the situation, and she left me. Now there is only me and my brother, and I must say we get on just fine. (M.A.)

A global life plan includes various forms of care: we think it is fundamental to state that also the choice of a residential centre is synonymous with having made a choice based on the care and well-being of all members of the family, many of these, for example, members of a new family (Genevois, 2012). A project focusing exclusively on the most fragile member is a project destined to fail over time, creating difficult and unsatisfactory situations for everyone involved. I chose to put my sister in a residential centre, we see each other often, spend time with my children, but she lives in the centre. I don’t think I love her less for having decided not to keep her at home with me. (F.A.)

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6. Conclusion and pedagogical perspectives

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When a disabled child is born, right from the outset the family needs to be attended to and provided with guidance in these new, almost always unexpected and unwanted circumstances. It is undeniable, as Sorrentino explains (2006) that the impact with the disability is a very severe test bench for the whole family: it undermines the generative skills of the parents, in terms of their ability to care for the children, with effects and consequences for the children themselves. The family thus appears vulnerable, fragile and must not be left alone: in this scenario, it is indispensable to design guidance plans that combine educational and social support with psychological support for the family group, including brothers and sisters. The acknowledgement of the child/sibling’s health conditions does not come automatically when the news is broken, but the first interview can trigger a process of recognition which, first and foremost, requires time and needs inculturation and, for this reason, needs to be reformulated, reorganised and completed (Canevaro, 2008). In general terms, the approach involves a specific right to information for the brothers and sisters, which starts with the notification of the diagnosis and continues throughout life (childhood, adolescence and adulthood), through a recursive method that is gradual over time (Caldin, Cinotti, 2011; Scelles, 2008). The notification of the diagnosis coincides with the start of the support to the family by the social services (and the local community, where possible); it is hoped that the siblings be given the chance to talk, with different methods and in different situations, both with the parents and with a competent, trained and empathic professional figure. In fact, when a family has a disabled child, parents often feel that they invest a huge amount of energy on him/her, in an attempt to deny the deficit or as compensation for the aggressive/expulsive feeling they have towards him/her. This profusion of care for the child is inevitably to the detriment of the other children, who may begin to experience feelings of anger, jealousy, expulsion from the family nucleus, guilt for wishing that the sibling would die. In these cases, it could be very effective for the brothers and sisters to be able to talk to a professional figure, outside of the family both physically and emotionally, who can help them to become aware of their own experiences. The recognition and welcoming acceptance of these contrasting feelings may help the sibling to cope with the competitiveness and hostility towards the disabled brother/sister in a way that may help the relationship to evolve in a more serene manner with less fear and anxiety. Parents and children live together on a day to day basis, and particularly during childhood the mother and father are important references for the child (McMillan, 2005); for this reason it is fundamental for adults, within the intimacy of their own family, to be available and responsive to their children, creating a climate that is open to dialogue and accepting, as they occur, all the child’s experiences from crying to curiosity and questions to anger and silence. Every question posed by the child – at any age – deserves an answer: parents cannot shirk this responsibility, but rather depending on the age of the child and his/her cognitive development, must provide the most appropriate information III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


for the given time. Also in this case, we believe it is important to be authentic and honest with one’s own children: it is preferable to reply with a sincere “I don’t know” than give false illusions or reassurances. It is not always necessary to go into detail when explaining things; above all early on, children can simply be told that there are problems affecting the sibling’s health and sincerely say that it is very complex to explain it, but as soon as the situation is clearer they will all talk about it together. The important thing is not to pull the wool over the children’s eyes, pretending that nothing is wrong when it clearly is. Information changes the perspectives of fear, in many cases basic knowledge of the disability can reduce the related distress, anxiety and uncertainty. We therefore need to offer explanations on the sibling’s condition constantly, in order to avoid the children making incorrect suppositions, at any age. The topic tackled is particularly complex and we therefore think that it is, on one hand, very difficult to draw conclusions or offer guidelines that are valid for all life stories, but on the other, we think it is necessary to outline the general pedagogical and educational indications concerning the initial question of how to “support and guide the brothers and sisters of disabled persons”. From the life stories, some experiences emerge – the difficulty in telling friends that they have a disabled sibling, being mocked, jealousy towards the sibling, a feeling of being neglected, excessive responsibility etc. – and difficulties that are common to many brother/sisters (relationship with the outside world, difficulties in understanding the disability, questions concerning the responsibility for the disabled sibling after the death of the parents, etc.). one good practice could be to offer support (Giallo, Gavidia-Payne, 2006) right from the very beginning, and continue to support and offer guidance to the whole family during the life path, establishing a global life plan. Brothers and sisters must be involved and made an active part of the family situation, and in the matters concerning the disabled sibling they can offer great emotional support, but at the same time they must be given their own time and space for autonomy and independence. Family well-being is achieved also through the personal realisation of each member of the family. Inclusion needs significant adults (Sapucci, 2007). From this standpoint, inclusion is seen as a broad “ecosystem” able to foster the coevolution of each and every one (Canevaro, d’Alonzo, Ianes, Caldin, 2011). Finally, we think it is equally important that, despite the fatigue, sorrows and lack of time, the family manage to maintain and/or redefine a space dedicated solely to pleasure, having fun, sharing and light-heartedness: within the family, the children must also have positive and emotionally satisfying experiences with their parents, linked to the “pleasure of spending time together”. Through this research, we processed and interpreted the “knowledge” transmitted and offered by the brothers and sisters interviewed, and the co-constructed results emerging have served to renew the knowledge itself, characterising it with social and cognitive elements that were lacking at the outset. A projectbased, decentralised knowledge that considers transmission as a co-constructive and renewing opportunity in which the space of the relationship (between parents and children, between siblings, between educators and parents, etc.) is the place that promotes change and participation. anno I | n. 1 | 2013

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References

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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


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RoBERTA CAlDIN, AlESSIA CINoTTI



Challenges and Opportunities for Inclusive Education: The co-teaching practice

Keywords: co-teaching, inclusive education, general education teacher, special education teacher, semi-structured interview, shared teaching

III. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno I | n. 1 | 2013

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

This paper explores teachers views about co-teaching practice. The main issues investigated are: finding teachers beliefs referring to the co-teaching; analysing the obstacles which keep teachers from implementing successfully this didactical approach and finding strategies which can empower teachers’ efficacy and let the co-teaching becoming a favourable chance for the development of every student’s learning potential. The research questions are: “Is the co-teaching an approach which finds a place in our nowadays school reality?”, “How does it work?”, “Which opportunities it offers to teachers?”, “Which are the obstacles to its realization and how can they be got over in order to implement this approach?”. Results are in line with the literature research and demonstrate teachers’ particular interest to realize this practice.

abstract

Elisabeta Ghedin, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata, Università di Padova / elisabetta.ghedin@unipd.it

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1. Introduction

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The inclusive education is a process including the transformation of schools and others learning centers in order to face the several needs of children, students belonging to ethnic and linguistic minorities, rural populations, children affected from Hiv and AIDS, and disabled pupils or children with learning deficit, and in order to give a chance to learn for the young and adults. Its target is to eliminate the exclusion, which is a consequence of negative behaviors and lack of answers to ethnic differences, economical and social status, linguistic, religious, gender, sexual orientation and skills. Education is verified in different contexts, both formal than informal, in families and in a larger community. Consequently the inclusive education is rather a central than a marginal issue for pursuing a high quality education for all the learners and for promoting the development of more inclusive societies (Ghedin, 2009). The current line promoted by many European educational systems is a collaborative approach between special teacher and other teachers of the class. In addition, the special teacher not only has the function of individualized support for students with disabilities, but has a proactive role in improving the capability of schools to overcome barriers to learning and participation (Forlin, 2001). The focus of this article is on the practice of co-teaching conceived as a practice shared between two teachers working together with a diverse group of students. The research questions are: “Is the co-teaching an approach which finds a place in our nowadays school reality?”, “How does it work?”, “Which opportunities it offers to teachers?”, “Which are the obstacles to its realization and how can they be got over in order to implement this approach?”. The data were collected by interviewing 20 teachers (primary and pre-school teachers, general and special teachers). The results of the empirical research are discussed through comparison with scientific literature about this theme.

2. Inclusive Education and Co-teaching The inclusive education is essential to pursue the social equity and it’s the fundamental basis of learning for all life. So that it’s really important that all children can access to inclusion (Ghedin, 2009, p. 142). At the same time it’s important that they can play a role in their school life and pursue the wished outcomes in their educational experiences. While the school performance based on subjects is often used as a successful index to measure learning, it must be conceived extensively actually, including also the acquisition of values, behaviors, knowledge and skills required to face the challenges of the modern societies. It’s necessary to give learning opportunities since the focus of inclusive education is related to the real participation of a human being into society and to the pursuing of his/her learning potential. Promoting inclusion means stimulating discussion, encouraging positive behaviors and improving educational and social models in order to face new requests in education. It concerns the improving of processes and contexts to promote learning both at the student level in his educational environment, than at the general system level to support the entire experience of learning (Ainscow, Miles, 2008). III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


The core of inclusive education is made of classes where heterogeneous groups of students learn together and achieve important learning results. Teaching to such an heterogeneous groups of students, it could be important to have a specialist and specific knowledge to support children identified “with special educational needs”, even if is agreed that principles and strategies of teaching should be equal and similar for all students (Davis, Florian, 2004; Kershner, 2007). Michael Oliver states that “teaching is teaching, independently from students gamut and needs, and an essential prerequisite for inclusion, in the very new meaning of the word, is the taking of responsibility by all teachers in order to work with all the children, with or without special educational needs. Only when teacher takes such a responsibility, inclusion than will be really achieved” (2011, p. 33). It’s known by everyone, actually, that inclusive education differs remarkably from traditional education (Thomas, Vaughan, 2004). An example is the “inclusive way of thinking”1, where it is affirmed that hypothetical problems are caused by the learning context and not by the child. So that, thinking inclusively means reflecting on the fact that learning context can facilitate or obstruct child’s growth and learning. This idea is supported since 2001 with the introduction of the International Classification of Functioning to value the functioning of an individual which is determined by the dynamic relationship between body components, activity and participation of a human being in his relationship with the context. From this point of view “it is about to consider the relationship such as a whole interaction among individuals, between individual and context and between these ones and wider contexts: it means that educational activities, and not only, can be interpreted not as single acts, isolated, but as actions connected to others. From now it is important to assume the concept of ecology as a place of changes and relationships, wondering if the institutions and the contexts offer real possibilities for their construction” (Medeghini, Fornasa, 2011, p. 18). This means that the relationship conceived as a link, permits to consider in thoughts, in behaviors and in educational acts, in addition to intentions, awareness and meanings of the person who wants to create the action, also those ones of the person to which the action is dedicated, creating a mutual influence among individuals. So that the whole dynamic (context as classrooms, schools, groups…) starts up from the differences of single components and of the whole together. The circularity of interactions makes the totality changeable in its structure of relationships and shows the way to the possibility of change (Medeghini, Fornasa, 2011). Another aspect which is underlined in the literature concerns the tools to promote inclusion. In an important meeting about the definition of inclusive education (Dyson et al., 2002) it was stated that: «First of all, inclusive education tries to answer simultaneously to students which are different one from another in important ways, some of them create particular challenges to school. Second, it doesn’t only concern having the presence of the students in schools, but most of all maximize their participation. In conclusion, the inclusion is a process which

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A. Rytivaara (2012). Collaborative classroom management in a co-taught primary school classroom. International Journal of Educational Research, 53, 182.

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can be promoted through an action at a school level»2. In this way inclusive education is not a goal itself than a medium to reach a goal. It contributes to the realization of an inclusive society through a human rights approach. Inclusive education actually is seen as an outcome of certain kinds of actions which people do to start the process (booth, Ainscow, 2002, 2006). In the context where those paper’s data were collected, co-teaching between a curricular teacher and a special teacher to ensure a better education for all students, can be considered an example of actions dedicated to create an inclusive process (Rytivaara, 2012). This is not only a question of understanding pupils’ individual needs and capabilities to integrate them with other ones more “typical” of the same age. Ainscow, Conteh, Dyson and Gallanaugh (2010) discussed about the way the educational difference itself has been created in different contexts and in different moments. As Slee (2011) stated “the inclusive cultures of the school need radical changes among the education way of thinking about children, curriculum, pedagogy and scholastic organization” (p. 110). The principles of inclusive education doubt the traditional point of view, also as far as the class direction is concerned. For example, the concept of “difficult child” becomes complicated (Graff, 2009). in particular the large discussion about the fact that it is right to talk about individuality and diversity rather than deviance, raises the issue about the origins of the problem. Vehemas (2010) affirms, in his philosophical analysis, that the word “special need” at the moment gives a negative characterization of individual differences. In the same way, Danforth e Smith (2005) emphasize, thou, that teachers should considerate a child with an “untypical behavior”, an individual in his complexity with several different experiences, and that the relationship between teacher and pupil, the “pedagogical alliance”3 (p. 5), can be an important source for children well-being (Rytivaara, 2012). In the same way Canevaro (2008) writes: “An inclusive education allows common schools to fill up with qualities: a school where all pupils are welcomed, where they can learn with their own times, and most of all they can participate, a school where pupils can understand differences such as enrichment for everyone” (Canevaro, 2008a, p. 12). Then, in this way, diversities and differences become so normal that they are considered factors of the system growth, rather than threat factors for a system (Santi, Ghedin, 2012, p. 102). Inclusion regards more than a simple welcoming to diversity. It involves the challenges of co-teaching, of the teaching team, and the capability of creating a good cooperation among teachers. Shared goals, teaching methods, planning and evaluation, are one of the fundamental points of an education model which involves curricular and special teacher in a teaching model defined as co-teaching (Ghedin, 2009, p. 142). All of this is expressed into the didactical and educative procedure in classes. For several teachers, in fact, the prompt responsibilities in order to make the inclusion working, come off in the classroom context (d’Alonzo, 2011). The co-teaching

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3

A. Dyson, A. Howes, b. Roberts (2002). A systematic review of the effectiveness of school-level actions for promoting participation by all students. Inclusive Education Review Group for the EPPI Centre, p. 7. A. Rytivaara (2012). Collaborative classroom management in a co-taught primary school classroom. International Journal of Educational Research, 53, 183.

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


raises questions about teachers’ different point of views about aspects concerning the direction of the classrooms (Rytivaara, 2012). When teachers decide to work together, as it happens in the co-teaching, they create a new environment which helps children’s learning, as the example of particular way of organizing groups and of team teaching (Rytivaara, 2012). Moreover it exists also a new significant micro-system composed by teachers working together, and this means evaluating their conversations, the relationship and the pedagogical approach inside and outside the classroom. Then it becomes necessary to pay attention to the dialogic process of professional learning that incorporates the full partnership of teaching as well as the activities of team-teaching that is observable in the classroom (Rytivaara, Kershner, 2012). The co-teaching is, potentially, a genuine relationship of learning among peers, where communication goes through different contexts inside and outside the classroom (Rytivaara, Kershner, 2012). Trent et al. (2003) affirm in fact that is fundamental from the beginning an open communication to promote successful experiences of co-teaching. This allows to ensure that responsibilities are equally shared and that both teachers, when necessary, can face better any type of unexpected situations in the classroom (Rytivaara, 2012). A successful co-teaching practice needs an active involvement of both teachers in teaching, and cooperation in working is essential. Sharing practical responsibility of classroom and students, often leads teachers together, silently, to the practical knowledge. The silent knowledge is difficult to communicate one to another, but Cook and Friend (1995) recommend co-teaching teachers to discuss their beliefs about the way of teaching, the routine and the behaviour of the class. Ideally this makes teachers possible to face and prevent difficult situations inside and outside the classroom. To share knowledge can move teachers energy from teaching every single detail to focus on wider topics, so that it offers special opportunities of learning based on the mutual comprehension of the context (Rytivaara, Kershner, 2012). In our school reality, children with special educational needs and with disabilities are included in regular schools. This has represented an important goal for the identification of the importance of the inclusion process. In the last 40 years in Italy, it was attempted to offer an adequate answer to every single student and to reduce the environmental factors which are real obstacles to activities and participation of people with disability, defining their condition. The inclusion of pupils with disabilities in the common school system influenced the re-determination of the roles of the curricular and special teachers, both of them are seen as teachers of the classroom and, so, teachers for all the students (L. 104/92). In Italy, co-teaching is applied as a principal tool to advance inclusive education. Special education teachers, called ‘support teachers’ (insegnante di sostegno) have been working since the 1970s almost exclusively in normal classes giving support to one to four students with special needs (Organisation for Economic Co-operation and Development [OECD] 1999). The powerful feature of co-teaching is the physical presence of the special education teacher in the mainstreaming classroom. She/he can thus participate actively in the instruction, and provide help without stigmatizing or segregating students (Weiss, Lloyd 2002; Canevaro, 1999; Pavone, 2010; Gelati, 2004; d’Alonzo, 2010). The presence of two teachers in the classroom offers more teacher time for the students, and the extra resource can be used for individualized instruction, small group activanno I | n. 1 | 2013

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ities and in many other ways (Saloviita and Takala, 2010, p. 389). One of the fundamental aspect for the development of inclusive approaches is represented by the collaboration and the sharing of the educative-didactical praxis by all the teachers of the classroom. Such an awareness legitimise the co-teaching approach as a teaching strategy allowing teachers to put together their teaching skills, their strategies and skills in order to give a better answer to the needs/aspirations of the several different students, ensuring to all pupils equal opportunity of learning. According to this preamble, the research questions are: “Is the co-teaching an approach which finds a place in our nowadays school reality?”, “How does it work?”, “Which opportunities it offers to teachers?”, “Which are the obstacles to its realization and how can they be got over in order to implement this approach?”. These will be the focus investigated in this paper: finding teachers beliefs referring to the co-teaching; analysing the obstacles which keep teachers from implementing successfully this didactical approach and finding strategies which can empower teachers’ efficacy and let the co-teaching becoming a favourable chance for the development of every student’s learning potential.

3. Method Participants involved in the research

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The co-teaching approach has been deepen through curricular and special teachers’ point of view, both in the pre- than in the primary school. The research has involved teachers in two different phases: 1) we met 4 teachers who had covered the role of privileged witness for the evaluation of adequacy, clearness and intelligibility of the tool built: two curricular teachers (one in the pre-school and one in the primary) and two special teachers (one in the pre-school and one in the primary school) 2) 20 teachers have been interviewed, all coming from 6 different schools of the province of Padua (as you can see on the attached chart).

General teachers

Special teachers

Tot.

Pre-school

5

5

10

Primary school

5

5

10

10

10

20

Tot.

Tab. 1: distribution of interviewed teachers

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


Tool and data analysis4 Semi-structured interview has been the chosen instrument to deeply investigate knowledge and beliefs and systems of values which teachers have regarding coteaching practice. In the first moment of the research, privileged witness have been interviewed to receive a feedback about the interview such as it was built and they have offered some suggestions useful to have a clearer comprehension. The interviews administered to 20 teachers involved in the study were analysed with the software Atlas.ti that has identified 10 families which became container of united codes (Ghedin, Caserotti, 2012).

FaMIlIES

CodES

definition of co-teaching

Mutual aid; Cooperation among colleagues in the management of children; Sharing of materials; Sharing of goals, objectives, responsibilities; Individualization of teaching and learning; Pursue the same goals with different methodologies; Presence of two teachers in the same class with the same group of children; Shared planning; Information exchange; Sharing roles and work; Common objectives for all strict programming.

advantages of co-teaching for students

To have more time to learn, To share their work with children other than their own; Educational continuity; To enjoy different languages; To receive examples of cooperation; To receive examples of organization; Esteem, help and mutual enrichment; Doing more, to pay more attention to all students; To have a teacher more and achieve good results with children.

advantages of co-teaching for teachers

Support in maintaining outlining the objectives; Mutual learning; Sharing points of view, Sharing experiences; Sharing responsibility, Organizational flexibility and teaching; Division of roles and labour; Support in times of difficulty, More attention to all students to have a teacher in most get good results with children, Offering new things, Greater confidence

disadvantages of co-teaching for teachers

No disadvantage, Difficulties in relationship; Special teacher not considered; Greater programming, To remain behind schedule.

disadvantages of co-teaching for students

No disadvantage, Simplification and slowdown in teaching and find it difficult to trust a teacher who does not feel similar; Disagreement between teachers; Perception of different treatment; Contemporary explanation may cause confusion and distraction.

4

Interviews have been collected by Claudia Caserotti, graduated in Sciences of primary education and data and outcome analysis have been analyzed together and for a part converged into the thesis of the student whom I have been the supervisor.

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Facilitators to co-teaching

Opening to the other, Collaboration with colleagues, Sharing with colleagues, Mutual understanding between teachers; Continuity Teachers flexibility in finding time to plan, Specific training for the disease, Planning and common language, Educational projects for all students, Recognizing the role of the worker; Mutual respect; Synergy in the actions; To foster families of disabled children bring into the classroom.

obstacles to co-teaching

Closing of teachers; Delegation of the educationalteaching to special teacher, Difficulty to change the style of teaching; Disagreement about distinction of roles; severity Disorder of the child; Aide careful only to the child with a disability, Difficulties in relationship, Special education teacher in this class with reduced hours, Lack of synergy in the actions, Lack of shared planning, Not sharing teaching practices; Prejudices against the way of working of the other teacher, Lack of knowledge of the child’s disability; Poor common planning time; Turnover of special teacher; Complexity of creating new relationship with special teacher, Families hinder presence in class child with a disability.

approaches to co-teaching

Alternative teaching; One-teach one-assist; One-teach one-observe; Parallel teaching; Station teaching; Team teaching.

Personal skills of teachers

Openness to others; Harmony in the relationship; Management relationship with the child; Positive beliefs about the potential of the child; Determination and patience, Availability, Commitment to the profession, Questioning, intelligence, own and operate knowledge, Professionalism, Respect for fellow; Frankness in the relationship with colleague; Esteem colleague, Humility.

Professional skills of teachers

Active learning and innovation, Collaboration among colleagues, Flexibility to change, Comparison between colleagues To know the history of the child’s life; Support teacher mediator between teacher curricular and child with a disability, Special education teacher as a resource for the whole class, Quality of co-teaching depends on teacher education curriculum, Quality of teaching depends on co-education teacher preparation, Observation of the child; Observation mutual relationship of the child and connects with class; Synergy of actions.

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Tab. 2: list of identified Families and Codes

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


4. outcomes Definition of Co-teaching Co-teaching is characterized by three correlated aspects: the planning of the activity, the collaboration and the sharing. In fact it comes out the idea of co-teaching as a practice anticipating a straight and shared planning (9/20) and this feature represents also an obstacle to its realisation since it is seen as a difficult practice to activate. The co-teaching is based, then, on the creation of a common planning made by the curricular and special teachers for disabled children and for the entire class “As a curricular teacher, I work together with the special teacher to realise a project with pupils suitable to their capacity, or they reduce goals, the teaching plan is adjusted, the language is simplified or we use more efficient intermediaries”. Common planning needs skills such as sharing and collaboration; there is collaboration in the management of the child (14/20) because “in the actual situation the certification doesn’t recover all the hours so that also the curricular teacher must be at the same time teacher of the child with special needs” and there is sharing of aims, goals and responsibilities (11/20). Some of the teachers (6/20) think that co-teaching takes place when there are two teachers in the same classroom with the same group and when teachers separate respectively their roles and work: “in the classroom should not be a division but a collaboration in order to share topics to analyse and in which way roles can be changed to let the special teacher explain part of the programme while the classroom teacher stays closer to the disabled child”. It becomes important for teachers sharing a common goals project for the realisation of activities involving also the disabled child (collaboration among teachers in the direction of the disabled child). The latter is considered an important feature of co-teaching in particular for special teachers (both from pre-schools than from primaries) and for curricular teachers of the primary school while this dimension doesn’t stand out for the curricular teachers from primary school. We could wonder if this is due to the fact that the curricular teacher of the primary school thinks that should be the special teacher to take care exclusively of disabled children. Another aspect distinguishing the way of considering the co-teaching model, concerns the perception of the planning strictness mainly felt by curricular teachers of both schools. This data could be explained concerning the fact that curricular teachers through the co-teaching method, should enclose in their planning also activities dedicated to the disabled child that cannot be relegated to the special teacher. Advantages/Disadvantages of Co-teaching for teachers and students An important aspect we tried to investigate through the interviews was about the advantages and disadvantages found by the teachers in the realization of the co-teaching approach. First of all there is “ the presence of one more teacher in the classroom” (13/20) which is a “new resource for the classroom” because “he/she can be a “point of reference for children”, “He/she can speak at your place to work out a problem”, “he/she can see dynamics in the classroom that the other teacher cannot see”, “being two teachers instead of one: four eyes, four hands, two heads, they are surely better than one”. Another important asanno I | n. 1 | 2013

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pect is that teachers can learn one from other (8/20), “If everyone shares his own experience, his own knowledge and his own learning, will become teacher of the other teacher. It’s a mutual process. You teach me and I teach you”. The other advantage is the possibility to pay more attention to all the students (7/20). In particular, referring to the daily situation teachers have to deal with “a classroom where children are at different levels of learning. If you have 20 pupils you have 20 different levels: there are children which, even if they are not identified as children with disabilities through a certification, have difficulties and need particular attention, so that an agreement between special teacher and curricular teacher on a different program for the entire class group, can help you to diversify other programs also for other pupils and not only for that child who have the certification”. Other advantages found by teachers are the possibility of sharing roles and work (3/20), the sharing different points of views (2/20), and experiences (2/20), and support in difficult moments (2/20). “Working together, having two different points of view, sharing experiences, enriching what you are not able to do by yourself, having a practical support and make the other teachers’ job easier so that you can share your work within pupils”. As far as the advantages found by teachers are concerned, all teachers from every rank or level agree on stating that having one more teacher in the classroom is a positive aspect both for teachers and pupils (13/20). Students have the chance to receive more attention (7/20), as well as different points of reference (5/20), and to learn different kind of languages (3/20). Other advantages for students, particularly interesting, concern the fact that, for example, teachers think pupils have the possibility to live examples of collaboration (5/20). In fact “the child who see two teachers working together learns how being cooperative and wonders about if he works with a peer in a collaborative way”. Students have also the possibility to share their own work with other pupils with differences (3/20) in order to create an educative-didactical inclusion for all and for everyone. “be placed in cooperative groups (made possible by the presence of the second teacher) has facilitated the entry of the child with disabilities in the section and allowed the class to know and engage with him in a relationship of respect, help and mutual enrichment”. Furthermore teachers believe that all of these aspects can positively affect the climate of the whole class and then all children, without distinction, may qualify for it. The disadvantages identified by the teachers are all about its realization and in particular about the fact that co-teaching needs more planning (1/20), and longer time (3/20) for its planning and realization, “because you can’t decide on your own but confrontation with the colleague is necessary ”, the difficult relationships (7/20) a teacher can face with other colleagues, and not to be in time with the scholastic program (1/20) because activities with the disabled child must be organized. Within curricular teachers there is thou a common opinion about the fact that the inclusion of disabled children in their class, is an approach destined to fail. Students with disabilities steal part of the teaching time to students without any disability, furthermore teaching to disabled pupils, needs specialized teaching skills and teachers are not trained to give specialized education that is necessary for disabled students (Jordan et al. 2009). One of the teachers summarized with these words the disadvantages identified: “Everything becomes a little bit more difficult. It’s more difficult to plan and manage work time: time is III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


very short, the needs of fast children would be working fast while slower children have necessities and need more time. The adaptation and the co-teaching practice are fatigue because we must adjust time and work. It would be easier working together at the same program”. Some of the teachers think that possible disadvantages for students could be two teachers teaching together at the same time can create lack of attention and confusion in the children (3/20) and troubles for students in relying to a teacher which they don’t feel as their own one (2/20). In the last case, they underline how the special teacher is seen as the teacher who looks after few pupils and not to the entire classroom. Furthermore when teachers do not agree (2/20) they can’t collaborate together in an efficient way making the students feel that the special teacher is not the teacher of the entire class and force them to follow a lesson which is not shared and collaborative where teachers can explain different topics at the same time and give different explanation creating confusion and disorientation. About this topic, one of the curricular teachers from pre-school has said: ”If there isn’t any collaboration and agreement among teachers, it’s a disadvantage for children which risk to be involved in a atmosphere of tension and, especially for the disabled child which is not integrated into the class and into the activities played by his mates”. Furthermore teachers think that a possible trouble can be ascribed to an excessive simplification and to a slowdown of the teaching method which must involve also children with more difficulties to the detriment of the talented ones (2/20). In this way, thou, they raise a vision of the co-teaching method in which only some of the children can take advantage, in particular those in difficulty, while the others more talented can’t take any advantage at all. This disadvantage is especially identified by the curricular teachers from the Primary schools, who are more loyal to the scholastic program they have to teach in order to achieve the learning goals decided by the Ministerial Programmatic Instructions. During the analysis of the interviews it comes out a school reality where the co-teaching method isn’t set up (11/20). In these cases, teachers prefer the approach defined as “special teacher- certified child”, both inside the classroom than outside. In fact one of the teachers said: “I’m not able to carry out the coteaching with another teacher, because teaching is standard and traditional: the teacher prefers to teach in a frontal way and I go out with a little group of children I follow on my own doing a different program from the one followed by their mates inside the classroom”. Obstacles and facilitators for the co-teaching We have just seen in the last part that not all the teachers use the co-teaching method. If we analyze the barriers to its achievement several teachers (7/20) said that the turn-over of the special teachers is an obstacle to its achievement. “The major barrier is that every year a new teacher comes. There isn’t any continuity and so it’s very difficult to build relationships, we always have to restart from the base to create the relationship with our colleague and with students”. In fact some teachers (5/20), because of the turn-over, agree that it’s difficult to build a relationship with a new special teacher. As far as the relationships within colleagues are concerned, the major troubles are relational (7/20), or narrow-mindness attitude towards the colleagues (5/20) and a lack of energy in their actions (5/20). anno I | n. 1 | 2013

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It may happen to be in situations where “the teacher doesn’t consider you, you are an obstacle to her, she is not able and she doesn’t want to share the lesson”, “the curricular teacher doesn’t let any space to play”, “teachers don’t understand each others”, “if teachers argue, they don’t collaborate, they don’t understand each other, they don’t do any kind of activity together, it’s a disadvantage for the entire division”. Another barrier to its achievement is the fact that teachers have limited and reduced hours to work in their classroom (5/20): “I’m looking after 4 certificated students so that I have few hours with every child and this doesn’t allow me to do a good job”. There is also an important obstacle caused by the separation of the roles (4/20) inside the classroom, or rather not consider job division as it came out before in the co-teaching definition given by teachers, since an important difference within teachers: the shared opinion is that curricular teacher consider herself as the “classroom teacher” and that the special teacher consider herself as the “only teacher of that particular student” and so she thinks to have a different role: “this is very common because I, as a special teacher, am the only one to know deeply the child and so I closed myself in my approach, in my beliefs and I could be not open to the collaboration. The curricular teacher, on the other hand, may think-I’ve got the rest of the class to work with and I don’t want another problem if there is a special teacher for him”. In addiction to this, special teachers think that a division of roles has been stressed since when “especially teachers with older teaching experience tend to considerate the class as their own class and so they difficultly share a part of the lesson and of the responsibility with another teacher”. Consequently the looking after the certificated child is only delegated (5/20) to the educative-didactical action of the special teacher. A teacher of the primary school has said “I’ve seen situations where there has been a delegation to the special teacher, as if the certificated student was totally her own student and so, when she wasn’t in the classroom the curricular teachers didn’t do anything at all for him or they asked the special teacher to give him some work to do. A child who can do the same work of their mates in the classroom, maybe a little bit modified, is not allowed to do it because he has to follow the scholastic program of the special teacher”. Viceversa, it happens that the special teacher only pays attention to the disabled child (2/20) and not also to other students. This division of the roles wanted by special teachers comes out especially in this teacher’s words: “if I am a special teacher I have to know which is the curriculum planning and try to understand if the child I’m taking care of can follow it, or if I have to change it or if I need a planning completely different from that of the class”. From the analysis of the interviews, it comes out that one important aspect for the achievement of the co-teaching is the strict planning among teachers, and actually it comes out that a barrier to its achievement is the few time available for the common planning (3/20) because for example special teachers “have a lot of classes and they can be in the team meetings just only once a month and this makes the common planning very difficult to do”. There is also the not sharing the educative method (4/20) affirmed by some of the teachers, usually the curricular ones, which are not available to change their teaching style (5/20) traditional and the old statements. Another obstacle identified to the achievement of this approach is due to the level of gravity of the child’s disease (4/20): “if the child has a serious impairment it is very difficult to integrate him into a group. In III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


this case the special teacher is forced to work in a more individualistic way and less inside the classroom”. As far as the cure, the education and the management of the disabled child are concerned, a fundamental difference between special teachers and curricular ones comes out. On one hand special teachers feel the delegation of the child at all, while on the other hand the curricular teachers feel that the attention of the special teacher is only paid to the “certificated” children. There is thou a contrast between the ideal of a teacher who should be a resource for the entire class and the disabled child is looked after by both teachers, and the reality where the special teacher feels committed as a teacher only for the certificated child. Another interesting difference among teachers from different kinds of schools comes out: primary school teachers see few hours spent in the classes as a barrier. Instead the special teachers blame the lack of sharing planning asctivities for the disable child with their curricular colleagues as an important obstacle. On the other side, concerning what came out until this moment, the major factors considered as facilitators to co-teaching practice are collaboration (9/20), sharing opinions within colleagues (13/20), and the planning through a common language (5/20). Also important is the non stopping specific training about the child pathology (4/20) both for special teachers than curricular ones, in order to plan a right activity to strengthen their abilities: “being update on what is a child with disability, but also on which kind of education and intervention is right for that specific pathology”. This analysis underlines how fundamental dimensions to make the co-teaching method easier to be achieved are the building of positive relationships within colleagues based on mutual respect, open-mindness, sharing opinions, collaboration, mutual knowledge and respect and on a synergy of actions toward the child’s family. Personal and professional features of the teachers Certain personal and professional features, if owned by the teachers, can facilitate the co-teaching method. Considering professional features, the essential one is the idea of the special teacher as a resource for the entire class (19/20) and not as a resource only for the disabled child: “the special teacher, since she has been assigned to the class, should have a relationship with all the class”. Other important features are the collaboration within colleagues (7/20), confrontation (5/20), and synergy in actions (4/20). Concerning the activities taught in the classroom, these features show in an active and innovative teaching (5/20) characterized for flexibility to changes (5/20), “it’s important to own a certain skill to adapt oneself, to adapt the program and the path, to change it, to modify it ”and in particular this is ought to “several variables that can be played in a class, because also the disabled child can be a positive variable if you are able to see it, while he can be a negative if you are not able to see it”. Referring then to the relationship with the child, the interviewed teachers underline some important features that should be played as the child observation (2/20), the knowledge of his life history (3/20), the special teacher’s training about the disability of the child (6/20), these are all dimensions which allow the teacher to get in touch deeply with the child and to share these information with the curricular teacher, exactly because the special teacher is an intermediary between the disabled child and the curricular teacher (2/20). anno I | n. 1 | 2013

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Concerning the personal features a teacher should have to achieve a successful co-teaching, the interviewed teachers identify them as: openness towards the others (17/20), harmony (7/20), sincerity (7/20), respect for the colleague (2/20), capacity to question himself (13/20), resolution and patience (4/20), willingness (4/20), humbleness (2/20), commitment in job (2/20), and the positive beliefs on the potential of the child (2/20), letting the teacher work for a teaching plan that can push the child to develop all his capacities because she owns “ a positive vision that led you thinking that with the child you are working everything is possible and so commitment is the point”.

5. discussion

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The co-teaching is an educative method where two or more teachers, the curricular one and the special one, teach to an heterogeneous group of students in the same class, in the school reality, with different approaches. (Friend, Cook, 2007). Definitions identified by the interviewed teachers agree with this vision and they add that the co-teaching also involves the collaboration among colleagues, the division of the roles and of work and the shared planning. Collaboration is a medium for the co-building of another knowledge as well as it is useful as a catalogue shared of actual memories and shared knowledge. So, in a collaborative context, teachers should put in practice more knowledge than they work on their own; about this topic Villa et al. says (2004) “what a teacher can do with the help of another teacher is even more indicative of their capacity than what she can do on her own”5. Collaboration within teachers includes: evaluation, planning, sensitive support, problem solving and didactical support in the relationship with children (Huffman et al., 2002; Puchner, Taylor, 2006)6. This focus on everyone’s strength is also one of the principles of the inclusive education both for teachers than for children: not everyone needs to understand everything if the learning is diffused (Rytivaara, Kershner, 2012). Despite the definition of co-teaching coming out in the interviews assumes its knowledge by the teachers actually, in the major of the cases, we observe situations where the co-teaching isn’t set up or it is considered as the lesson given only by the curricular teacher. In particular it is possible to see these situations: in the first case the curricular teacher and the special one plan together the lesson for the disabled child, who is integrated in the class but looked after only by the special teacher or he is taken outside the classroom with a group of mates; in the second case, the special teacher plans all alone the lesson for the disabled child and she teaches it inside or outside the classroom, faraway from the other students. A possible explanation could be ascribed to the difficulty in realizing this approach. In fact, in spite of the advantages found (as the mutual teaching and knowledge within

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R.A. Villa, J.S. Thousand, A.I. Nevin (2004). A guide to co-teaching: Practical tips for facilitating student learning. Thousand Oaks, CA: Corwin Press, p. 61. Cit. in M.T. Gray (2001). Co-teaching in Inclusive Classrooms: The Impact of Collaboration. bibliobazaar, p. 10.

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teachers, the support in teaching, the possibility to share the responsibility in the classroom, the opportunity for the teachers professional development, the chance to learn the respect and the tolerance towards diversity and the increase of expectations for students with disability7) and the few disadvantages pointed out, there are the same several barriers which complicate its achievement and in particular there is a problem to work together among the colleagues, the division of roles engaged by teachers in the co-teaching and especially both the special than the curricular teacher are afraid of losing their proper exclusive role, and the special attention paid in the planning moment which must be very strict in the co-teaching model and very sensitive to considerate all the several variables influencing the realization of didactical activities (Walter-Thomas, 1997; Cole, McLeskley, 2010). Walther-Thomas, bryant (1996) found in the cooperative planning one of the essential base for the co-teaching because it allows teachers to decide the roles and responsibilities during the lesson, to create a favorable atmosphere for co-teaching and to make the thorough consideration of the individual and group’s needs easier in order to guarantee benefits for each child inside the inclusive context. It is seen as a fundamental aspect for the achievement of this method (Walther-Thomas, 1997) since it allows teachers to decide goals, tools, methods and approaches to work and mutual roles of every subject involved in this practice. Not only is necessary a common planning at the classroom level, but also it refers to a process which must be shared and carried out from the entire scholastic institution. In this last case, the same institution can give support and services useful to the achievement of co-teaching, such as to create a calendar of the lessons manageable and efficient and to foresee a support system in order to face all the problems coming out. The forecast of a strict system of planning at different levels, from teachers to management, permits a major sharing of values towards the creation of an inclusive environment by all the entire scholastic staff, families and community members as well. Considering these results, we could propose the following suggestions so that co-teaching can find a place in our nowadays school reality: 1) at the level of teacher training courses to raise awareness to promote inclusive education even for general teachers training, 2) to promote training courses for teachers to support teaching methods that sensitize the skills to work with colleagues, shared planning and shared assessment; 3) at the organization’s school to raise the entire structure, starting from the headmaster to the teaching staff, the importance of encouraging educational activities (as co -teaching) that promote participation for all students. Referring to the advantages found, the most important is the possibility to have in the classroom one more teacher which presence will bring the division of the roles, of the work, the mutual learning and the possibility to answer better to students’ learning needs. As a consequence this is an advantage also for those students who can receive more attention when they have troubles and to develop their learning potential at all. Here we are: the shared planning permits the acknowledgment of the importance of the roles and work division inside the

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G.W. Lodato, J. blednick (2011), Teaching in Tandem: Effective Co-Teaching in the inclusive classroom, Ascd, Alexandria, VA, p. 11.

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teachers staff, which is an essential aspect in order to fulfill an efficacious action of teaching. Concerning this part Keefe and Moore (2004) ended that if such a division of roles and of mutual responsibilities don’t happen, the co-teaching is reduced to the figure of the curricular teacher as the teacher giving roles and works and managing activities while the special teacher only plays a monitoring and helping action. These obstacles can be overcome thought some factors found in the personal and professional features of the teachers, as well as into the scholastic system as far as the turn-over of special teachers is concerned. Some of the more important aspects are the training of the teachers, collaboration, open-mindness towards the others, to be under discussion, the sincerity in giving a feedback to the other teacher, harmony in relationships, considering the figure of the special teacher as a resource for the entire class. Simona D’Alessio (2011) in fact warns the reader about a possible risk in our context where the special teacher can be seen firstly a strong reference point to promote an integration process but then an obstacle if her figure becomes the focus with measuring the scholastic integration success or failure, and in the worst cases, when she becomes an appendage or a prosthesis of the disabled child. According to Austin’s studies (2001) who affirms that teachers consider critical for the success of the co-teaching several factors such as communication, giving a feedback to the colleague and sharing the management of the class. Common features used to describe the co-teaching include: 1) common goals, publicly decided, 2) a shared system of beliefs 3) equality within teachers 4) clear roles defined 5) collaboration, cooperation and mutual proposals (Villa, Thousand, Nevin, 2004). Having a common goal for students and working for the fulfillment of that goal beginning from a system of beliefs based on mutual proposals and on the philosophy of teaching, these are the critical features of the co-teaching. Equally important is the status of the partnership itself, which must be created on the mutual respect and on the freedom to change one’s mind. Anyway, practically, a lot of examples of co-teaching don’t have such a collaborative or productive features, maybe since some models have had a topdown characteristic which is imposed. Some problems could come out, for example, about the occasional inequality of experiences of both teachers, curricular and special ones, involved into co-teaching, about the struggles between different styles of teaching or structural and practical problems in defining an useful planning and reflection moments (Friend et al., 2010; Gurg, Uzuner, 2011). Concerning disadvantages, they are identified in the difficulty and confusion which can come out among those students receiving a double kind of teaching at the same time, in the problematic relationships among some teachers and in the increase of time spent for planning the lesson. Even if the co-teaching method is considerate an useful approach to promote the inclusive values and most of all to give attention to the different needs/aspirations of the students, it seems difficult to be achieved because of some barriers hampering its realization. In particular a barrier very difficult to cross is the special teachers’ turnover which creates a lot of troubles for the building of all those dimensions considerate important for the realization of this practice, such as relying on the other, the collaboration, open-mindness towards the others, all aspects of a relationship that may need more time to put in practice. Such this barrier then compromises other factors such as the difficulty in collaborating, a stronger planIII. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


ning necessary to its realization and the non-identification of the role of the coteacher. Murray (2004) in fact underlines how teachers’ narrow-mindness and their few time for collaboration are some of the obstacles identified for the implementation of this approach. The possible future development of the research wants to investigate first of all the meanings of this approach not only as far as the teachers are concerned but alto for the other actors involved into the practice of co-teaching, or rather children and school managers which play an important role in transferring the inclusive values in the school structure where they work. Another aspect that should be taken into consideration concerns the comparison between the learning results in students which take advantages of the co-teaching and those which take benefit from the traditional teaching method also to investigate how such a didactical activity is different from the more traditional ones. It could be also interesting to analyze, furthermore, the co-teaching in relation to two factors: the different subjects and the students’ specific characteristics of learning. Without any significant base of research that defines the efficacy or not of the different approaches of co-teaching in relation to subjects, problems, difficulties, students’ problems or potentials and other variables influenced by this approach, it’s not possible to have any realistic expectations for the fulfillment of co-teaching. Finally, another topic of the research is about the association with co-assessment (Conderman, Hedin, 2012). The practice of co-teaching requests to change the learning environment and the teaching style, through a different way of giving works and roles and managing activities. In this case, then, we should wonder if we have to modify also the correlate system of evaluation and for example if the authentic assessment, in opposition to the traditional one, could be considerate efficient to assess students learning and the environment where the coteaching is fulfilled.

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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


Audio descrizione e disabilità visiva

Keywords: audio description, accessibility, blindness, audiovisual productions, inclusion

III. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno I | n. 1 | 2013

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

L’audio descrizione è una voce fuori campo che descrive gli aspetti di un prodotto audiovisivo o di un evento culturale che risultano non accessibili alle persone con disabilità visiva Una descrizione narrativa-didascalica si inserisce nei momenti di silenzio e tra i dialoghi, non sovrapponendosi mai agli effetti sonori e musicali significativi, rendendo accessibili ad esempio azioni, linguaggi del corpo, espressioni del viso, ambientazioni, abiti/costumi di scena etc. L’audio descrizione si configura come uno strumento capace di rendere fruibile un prodotto audiovisivo secondo i dettami del design for all e della cultura dell’accessibilità, e come uno strumento atto a sollecitare nei disabili visivi processi di apprendimento e di potenziamento culturale (Kirchner, Shmeidler, 2001; Palomo 2008) e, soprattutto, di partecipazione e di inclusione sociale (Broun, 2008; Packer, 1996; Szarkowska, 2011). Il presente lavoro, muovendo da una panoramica teorica-epistemologica sulle caratteristiche, sui principi metodologici-fondativi e sulle finalità educative e di apprendimento in un ottica di pedagogia speciale, intende contribuire alla conoscenza e diffusione dell’AD la quale, nel contesto italiano (rispetto a quello europeo), appare ancora una pratica “claudicante” e poco sedimentata.

abstract

Andrea Fiorucci, Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo – Università del Salento Stefania Pinnelli, Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo – Università del Salento

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1. L’accessibilità come stile culturale

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Negli ultimi anni grazie a numerosi interventi legislativi e a una marcata operazione culturale, è cresciuto il bisogno di riconoscere anche alle persone con disabilità la possibilità di essere, a tutti gli effetti, cittadini tecnologici, attori e fruitori di contesti allargati di interazione e di partecipazione globale. In ordine al perseguimento di una democrazia telematica e informatica la riflessione scientifica ha alimentato un ampio e interessante dibattito interdisciplinare volto, da una parte, ad identificare standard tecnologici di prestazione e, dall’altra, a riflettere circa i vincoli e le implicazioni psico-socio-pedagogiche del cambiamento e del suo impatto sulla persona. Il tema dell’accessibilità costituisce la cornice concettuale di tale riflessione. La prospettiva culturale del concetto di accessibilità, rimanda in primo luogo, quindi, ad un modello di progettazione inclusiva dello spazio informatico e telematico, che tenga conto della pluralità dei bisogni delle utenze e offra stessi servizi e stessi spazi di interazione e di partecipazione nella misura in cui esso è implementato in rispondenza ai criteri e alle linee guida ufficiali (www.w3c.it) e in previsione dell’uso delle tecnologie assistive. Accanto a questo primo aspetto – che sottolinea il perché le tecnologie devono diventare accessibili – si affianca la funzione che le tecnologie rivestono per migliorare la capacità inclusiva dei contesti sociali, per trasformare ambienti escludenti, potenziando la caratteristica partecipativa degli stessi. Le tecnologie, in tal senso, sono strumenti di interazione che, in ragione di come vengono progettati, implementati e applicati diventano ambienti di facilitazione/compensazione o, al contrario, ostacoli/barriere nell’espletamento delle normali attività e nello svolgimento dei compiti di apprendimento, collocandosi, pertanto nel gap, indicato dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute della persona (OMS, 2001) tra capacità e performance. Nel settore culturale una tappa importante è stata raggiunta nel 2003 con la Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 5 maggio sulle pari opportunità per gli alunni e gli studenti disabili nel settore dell’istruzione e della formazione. Essa riguarda l’accesso delle persone disabili alle infrastrutture e alle attività culturali e dedica specifica attenzione alla funzione delle nuove tecnologie in tale azione. In una società definita “regno dell’occhio” (Maldonato, 1994) che si basa sempre più sui contenuti visivi come fonte di informazione, intrattenimento ed educazione (Packer, Kirchner, 1997), le persone non vedenti rischiano di essere culturalmente e cognitivamente escluse. Dagli anni settanta, primariamente in ambito anglofono, l’audio descrizione (AD) è considerata la proposta che culturalmente e tecnologicamente cerca di ridurre o contenere questo rischio. Ciò che collega l’AD all’ICF è l’attenzione che questo modello di classificazione pone alla “partecipazione della persona disabile” e alla valutazione della variabile contestuale e ambientale. L’AD si inserisce proprio in questa rivoluzione “copernicana”. Per il disabile visivo andare al cinema, vedere un documentario, seguire una commedia teatrale significa libertà, autonomia, potenziamento, cultura. L’AD, pertanto, si configura come un processo e un progetto di potenziamento III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


culturale e conoscitivo, ma anche di inclusione sociale (Broun, 2008; Packer, 1996; Szarkowska, 2011). È da questa considerazione che la riflessione intende partire.

2. L’AD. Dalla funzione strumentale a quella ermeneuticaculturale 2.1 Caratteristiche dell’AD Il primo supporto audio descrittivo può essere senz’altro considerato quello umano. Molti non vedenti, al fine di pervenire a una comprensione “accompagnata” di un prodotto culturale (cinematografico, artistico, teatrale etc.), rivolgono alle figure significative (familiari, amici, consorti) domande sugli elementi afferenti alla componente visiva. Inoltre la sensibilità, l’empatia, la predisposizione alla descrizione, la condivisione di gusti culturali simili o affini diventano canoni che guidano la scelta verso una o più figure di riferimento. Se il supporto umano o il whisper mode come lo definisce Snyder (2005) – connesso strettamente alle relazioni affettive e ai rapporti di fiducia – da un lato rende la richiesta di aiuto “naturale” e “spontanea”, dall’altro non emancipa totalmente la persona con disabilità visiva dalla dipendenza e dal vincolo della delega. In relazione a questo, negli ultimi anni si è assistito ad un proliferare di iniziative volte a rendere programmi audiovisivi accessibili (Orero, 2007), attraverso un processo tecnologico definito AD: un servizio di assistenza e di supporto, costituito da un insieme di tecniche, metodologie e competenze il cui obiettivo principale è quello di ridurre il deficit visivo rendendo accessibile ogni messaggio audiovisivo con adeguate informazioni sostitutive audio pensate in relazione alle specificità dei bisogni e delle potenzialità dell’utenza. Denominata anche descrizione audiovisiva (Perego, 2005) o audiocommento (Schwarzwald, 2008), l’AD è una narrazione fuori campo (voice over), finalizzata a descrivere gli aspetti del prodotto audiovisivo che risultano non accessibili in quanto afferenti alla componente visiva (azioni, linguaggio del corpo, espressioni del viso, ambientazione, abiti/costumi di scena). Tutto ciò che afferisce al “mondo visivo” è reso accessibile da una descrizione verbale che si inserisce tra i dialoghi, non sovrapponendosi agli effetti sonori e musicali significativi. Come sostiene Benecke (2004) in un celebre articolo, l’AD è una “narrazione supplementare” che sfugge alle leggi del campo in/off/over perché sempre di tipo informativo-descrittivo e slegata dal sonoro (dialoghi, musica, suoni e rumori) dell’audiovisivo. L’AD può includere informazioni relative alle azioni, ai cambi di scena, al testo che appare sullo schermo, alle descrizioni dei personaggi, ai loro movimenti e linguaggio del corpo, alla spiegazione degli effetti sonori, etc. (OFCOM, 2000; Vercauteren, 2007). Essa è formata da diversi audio commenti: didascalie narrative che vengono generate al fine di decodificare i momenti di silenzio dell’audiovisivo per renderli

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accessibili al non vedente. Gli audio commenti, soggetti ai limiti di tempo (time codes) imposti dalla traccia madre, confluiscono in uno script (canovaccio) che viene successivamente letto da un narratore professionista e registrato da un tecnico audio. Le registrazioni degli audio commenti, associate ai rispettivi momenti di silenzio dell’audiovisivo, danno vita al nuovo prodotto audiovisivo audio descritto. Un’AD può essere realizzata con una voce umana o con una sintesi vocale. In ambito tecnologico negli ultimi anni sono stati fatti diversi passi in avanti sul potenziamento dell’affinamento e dell’umanizzazione delle sintesi vocali. L’impiego di una sintesi vocale, come ad esempio Text-to-speech AD (Cfr. Szarkowska, 2011) è maggiormente vantaggiosa per almeno due aspetti. Il primo è legato all’aspetto economico: le audio descrizioni con sintesi vocale sono molto più economiche perché il (loro) processo di realizzazione contempla solo le figure dei describers (descrittori che stilano lo script) e del tecnico di montaggio. Il secondo aspetto è legato alla praticità: un’AD letta da una sintesi vocale può essere più pratica e semplice da generare permettendo, così, una più massiccia e celere diffusione e una rapida traduzione in più lingue. L’AD con voce umana di contro risulta essere più costosa e più complessa, tuttavia studi sperimentali (Cryer, Home, 2009; Szarkowska, 2011) confermano che la registrazione di una voce umana è di gran lunga favorita dalle persone non vedenti. Inoltre, a differenza della classica AD con voce umana, l’uso della sintesi vocale richiedendo un minimo di competenze tecnologiche è “vista”, dai disabili visivi più anziani (una buona fetta), con sospetto e reticenza. Spostandoci su un piano di riflessione più teorico, l’AD può essere definita una specifica forma di traduzione intersemiotica, intermodale o cross-modale o di mediazione (Benecke 2007; Braun 2007; Orero 2005), in quanto si riferisce alla possibilità di rendere accessibile un audiovisivo che è di per sé un testo intersemiotico e multicodice (Lavaur, Şerban 2008): il risultato della combinazione della componente sonora (suoni, dialoghi e rumori) e della componente visiva (immagini, colori, luci). L’AD, tuttavia, può essere considerata un atto traduttivo non del tutto puro, in quanto essa non determina un passaggio diretto tra due codici semiotici uguali. Per tale motivo, la comunità scientifica (Díaz Cintas 2005; Szarkowska, 2011), quando si riferisce a questo particolare atto traduttivo, fa ricorso al termine ombrello “accessibilità” indicando come tale processo renda un audiovisivo fruibile a persone alle quali ne è stato negato l’accesso, indirizzando i piani di riflessione su aspetti non solo strumentali-supportivi, ma soprattutto contestuali e culturali. 2.2 Principi Fondativi dell’AD La realizzazione di un audio descritto avviene all’interno di un processo di ricerca e sperimentazione che prevede diverse fasi di post-redazione. Il processo di AD è molto ampio e complesso e richiede, inevitabilmente, un lavoro d’equipe. La collaborazione di un non vedente durante l’elaborazione è fondamentale, perché permette all’intero gruppo di avere una validazione umana per ogni passaggio del lavoro: la lettura del canovaccio degli audio commenti e l’ascolto delle prime registrazioni grezze permette di individuare le prime criticità. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


Per quanto concerne la scelta dell’audiovisivo da audio descrivere e le successive fasi di realizzazione degli audio commenti, lo studio sistematico e comparativo sui sistemi di AD in diverse nazioni/culture, realizzato dalla Royal National Institute of Blind People (rNIB, 2010), conferma che lo strumento operativo e metodologico è la Guidance On Standards for Audio Description, redatta nel 2000 (rivista nel 2006) dall’Independent regulator and competition authority for the UK communications industries (OFCOM, 2000). Il recente studio comparativo della rNIB (2010) presenta una comparazione tra diversi modelli di AD (Grecia, Francia, UK, Germania e Spagna) e invita gli audio descrittori a relazionarsi all’AD non come mero e arido strumento di esecuzione o tecnica di traduzione, ma come uno strumento a uso e consumo di un uomo culturale. A tal proposito, converrebbe tentare di deflagrare il senso unico e univoco che viene associato all’AD e che la vede come atto di traduzione, spingendoci a pluralizzare l’oggetto di studio e, di conseguenza, a guardare ai modelli di AD e, quindi, alle audio descrizioni. Tale gemmazione semantica non è solo un’esigenza terminologica, ma un punto di partenza per comprendere che in un rapporto indissolubile come quello tra sfondo (cultura) e figura (atto audio descrittivo) è impraticabile agire una scissione. L’AD è un processo culturale agito e agente con il quale si fa riferimento a una cultura ma, al tempo stesso, la si origina e modifica. Qualsiasi lavoro di AD, a prescindere dai contenuti, deve osservare tre principi fondativi che devono essere rispettati. Tali principi, oltre a rappresentare per l’audio descrittore degli ancoraggi e degli indirizzi di lavoro, rappresentano i punti di maggiore criticità e difficoltà nei quali è impossibile non imbattersi. Sinteticamente, possono essere enucleati come segue: – Rispetto dell’opera che si sta descrivendo. L’AD deve cercare di mantenere intatta l’atmosfera del prodotto audiovisivo preservandone il ritmo e adattando la descrizione al genere e allo stile dell’originale. La scelta dell’audiovisivo deve considerare, primariamente, la possibilità di far collimare le esigenze stilistiche dell’audiovisivo con i bisogni specifici dell’AD. Questo incontro di esigenze non è sempre possibile. La valutazione degli audiovisivi opera, in tal senso, un vaglio che indica la filmografia su cui sarà possibile operare e quella che, invece, rimarrà inaccessibile, o poco fruibile, al non vedente. L’audiovisivo è un prodotto creativo e culturale. È importante tenere presente questo passaggio perché la “libertà/creatività” di un regista è il limite con il quale un’AD deve relazionarsi. Gli audiovisivi, in particolare i film, non possono prevedere una progettazione accessibile secondo i canoni del design for all, perché tale intervento contaminerebbe tutto il messaggio e il processo creativo. L’AD, pur essendo “the art to speak in images” (Navarette, 1997), ha una (semi) libertà (condizionata) di movimento e di lavoro, che deve sintonizzarsi con le sensibilità stilistiche del prodotto e con i limiti imposti dai time codes: momenti di silenzio dell’audiovisivo.

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– Rispetto dell’oggettività. L’AD non deve imporre una connotazione emotiva ma verbalizzare ciò che appare sullo schermo senza interpretarlo. L’ancoraggio al verbo “cercare” è un invito alla prudenza: il lavoro di AD deve inevitabilmente considerare l’annoso e insormontabile problema (fondativo) relativo al binomio descrizione-interpretazione. Un’AD oggettiva non esiste in nessuna tipologia di prodotto audiovisivo e in nessun Paese, neanche dove la prassi dell’AD può vantare su una solida tradizione. Il non vedente “vede” ciò che per lui è invisibile attraverso le parole di un altro. L’immagine intangibile diviene parola, che, attraverso il canale uditivo, stimolerà l’immaginazione del non vedente, dando origine a un’immagine mentale che sarà tanto più simile all’originale, quanto più fedele sarà la descrizione. Per quanto la descrizione possa offrire uno sguardo verbalizzato, l’immagine non parla. Siamo noi che le prestiamo una lingua. Descrivere non è vedere. Quello tra immagine e parola è uno strano rapporto, dove la difficoltà non appartiene tanto all’ordine linguistico, ma a quello della visione tradotta in parola ad opera dell’uomo culturale. L’impossibilità di tradurre l’immagine in parole deve essere la prima consapevolezza dalla quale deve partire un lavoro di ricerca sull’AD. L’oggettività non deve però necessariamente costituire un fattore determinante nella valutazione qualitativa di uno script audio descritto (Pinnelli, Fiorucci, 2012). Snyder (2008) suggerisce il metodo WYSIWYS, acronimo che sta per What you see is what you say, sollecitando i describers a raccontare/verbalizzare quanto appare sullo schermo e non nelle loro menti (idee), o nei loro cuori (sentimenti) senza disegnare ipotesi per l’ascoltatore. Tuttavia, ogni AD risente per sua natura dello sguardo e delle capacità di percezione ed elaborazione dell’audio descrittore. Anche qualora vi fossero i presupposti per una comprensione oggettiva e univoca dell’evento da descrivere, il mezzo linguistico, per sua natura non è oggettivo, ma possiede una soggettività insita: scelta del registro, delle parole e della struttura sintattica. Inoltre, come esiste una soggettività dell’audio descrittore, esiste anche una soggettività dello spettatore, normovedente, ipovedente o non vedente. A uno stesso messaggio possono quindi corrispondere gradi di comprensione diversi. – Rispetto del destinatario. Il lavoro di AD deve considerare l’eterogeneità dell’utenza e dei suoi bisogni (Gambier, 2004). Il termine disabilità visiva, infatti, è un termine ombrello con il quale si indica un’assenza o una difficoltà visiva in generale. La “Classificazione e quantificazione delle minorazioni visive e norme in materia di accertamenti oculistici” (Legge n. 138 del 3 aprile 2001) definisce le varie forme di disabilità visive. Secondo tale classificazione, i ciechi totali (art. 2) sono coloro che sono colpiti da totale mancanza della vista in entrambi gli occhi; coloro che hanno la mera percezione dell’ombra e III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


della luce o del moto della mano in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore; coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 3 per cento. Si definiscono ciechi parziali (art. 3) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/20 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e/o coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 10 per cento. Si definiscono ipovedenti gravi (art. 4) coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 1/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e/o coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 30 per cento; ipovedenti mediogravi (art. 5), sempre ai fini della presente legge, si definiscono coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 2/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e/o coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 50 per cento. Infine per ipovedenti lievi (art. 6) si definiscono coloro che hanno un residuo visivo non superiore a 3/10 in entrambi gli occhi o nell’occhio migliore, anche con eventuale correzione e/o coloro il cui residuo perimetrico binoculare è inferiore al 60 per cento. rispetto alle cause e alle fasi evolutive di insorgenza del deficit, è possibile distinguere la cecità congenita dalla cecità acquisita. Avere contezza dell’età di insorgenza del deficit visivo è utile al fine di comprendere le strategie di decodifica della contingenza e della costruzione del reale e, in generale, a cogliere e valutare le difficoltà che il disabile visivo ha dovuto affrontare, in termini deprivativi o/e compensativi, nel corso dello sviluppo cognitivo. Un ipovedente potrà fruire autonomamente di un audiovisivo seppur assistito da lenti correttive; un non vedente ha bisogno di un’AD specifica e accurata; una persona divenuta cieca avrà possibilità di ricordare i colori, alcuni gesti visivi, luoghi; una persona nata cieca deve invece costruire la contingenza con maggiore difficoltà lavorando per astrazione. Audio descrivere vuol dire cercare di trovare un linguaggio quanto più comune e accessibile ad un’eterogeneità di utenza, di bisogni, di soggettività e di capacità cognitive dissimili. rappresentativa di tale eterogeneità appare una frase di un non vedente che ha partecipato ad un focus group Audetel. “It may not mean much to me, but it might mean something. A man wearing a white shirt and dark trousers indicates somebody who is quite smart. If he’s wearing a tie, that also indicates tidiness and a seriousness of purpose” (OFCOM, 2000).

A prescindere dall’insorgenza e dai livelli della difficoltà visiva, la deprivazione sensoriale comporta delle riorganizzazioni funzionali che utilizzano processi vicarianti per la presa in carico delle informazioni e della costruzione del reale (Vygotskij, 1986). Il disabile visivo deve compiere un percorso molto più lungo e difficile per costruirsi il mondo degli oggetti, dare loro un nome e attribuire loro qualità e azioni di cui non ha esperienza diretta. Il linguaggio è considerato, in tal senso, lo “strumento compensativo più funzionale” (Bonfigliuoli, Pinelli, 2010, p. 22), poiché assegna, attraverso la verbalizzazione e l’astrazione, un nome ad aspetti e cose della vita quotidiana che il non vendente non avrebbe modo di anno I | n. 1 | 2013

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esperire in autonomia. Pensiamo ai concetti astratti, agli oggetti in movimento, alle condizioni meteorologiche. Il non vedente, tuttavia, a differenza di quanto avviene spontaneamente in chi vede, non può connettere il processo visivo a quello di significazione (vedo qualcosa e gli assegno, o gli assegnano, un nome o una definizione). L’assenza di un’esperienza visiva diretta rende la costruzione del mondo degli oggetti molto più difficile (Damascelli, 1992), lo sviluppo del linguaggio è soggetto al dominio di percezione, apprendimento e significazione dell’altro. rispetto all’AD, il non vedente può comprendere ed entrare nel campo della significazione attraverso l’altro: una voce fuori campo capace di rendere possibile una connessione tra visibile e dicibile. 2.3 Le fasi di realizzazione di un audio descritto Le linee guida OFCOM (2000), come detto in precedenza, sono, ad oggi, l’ancoraggio teorico e operativo più solido: delle coordinate (non delle rigide prescrizioni) e dei suggerimenti operativi nati in un settore di ricerca vasto (UK) e segnato dall’esperienza diretta sul campo. Sono sette le fasi che accompagnano la realizzazione di un audio descritto.

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– Prima Fase. Scelta dell’audiovisivo. Non tutti i prodotti audiovisivi sono adatti a essere audio descritti. Negli audiovisivi con troppe azioni e poco dialogo l’AD sarebbe continua e rischierebbe di stancare l’ascoltatore, lo stesso effetto si otterrebbe descrivendo un prodotto con poche pause tra un dialogo e l’altro; in generale, andrebbero evitati i prodotti in cui il ritmo dei dialoghi e delle immagini fosse troppo veloce. Non sono adatti ad essere audiodescritti: film con dialoghi serrati o musical, trame che prevedono inseguimenti e combattimenti per l’intera durata della sceneggiatura, film muti, ma anche quiz o giochi televisivi. – Seconda Fase. Guardare l’audiovisivo. È in questa fase che il gruppo di lavoro deve rendersi conto delle difficoltà che un disabile visivo potrebbe avere nella comprensione del prodotto audiovisivo. In particolare, nella fase di valutazione, il descrittore dovrebbe cercare di analizzare l’intero audiovisivo. Un modo utile per valutare le difficoltà di un non vedente rispetto alla fruizione di un potenziale audio descritto è quello di vedere per la prima volta l’audiovisivo, senza le immagini ascoltando solo il dialogo e gli effetti sonori. Un altro strumento utile è il simspecs: un paio di occhiali le cui lenti simulano problemi di vista (OFCOM, 2000). – Terza fase. Preparazione di una bozza. Successivamente alla valutazione, l’audiovisivo deve essere scomposto e analizzato per ottenere i time-codes: indicatori di tempo che permettono di individuare e quantificare i momenti di silenzio per inserire, in seguito, la descrizione nell’intervallo desiderato. L’ampiezza degli audio commenti e la successiva durata di registrazione sono subordinate al fattore tempo imposto dai time-codes. Diodati (2007) sottolinea come scrivere una buona AD sia un lavoro tutIII. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


t’altro che banale: “i modi per raccontare un evento, descrivere una scena, tratteggiare un personaggio, possono essere diversissimi. Nei limiti del tempo concesso dalle pause dell’azione rappresentata nel video, la voce narrante deve cercare di descrivere il più obiettivamente possibile, con sintesi e precisione, l’ambientazione e i personaggi” (p. 113). Uno degli errori più frequenti dell’AD è l’”uccisione dei silenzi”: il silenzio è parte costitutiva del dialogo filmico, a volte è addirittura più importante dello stesso dialogo parlato. Inserendo un commento in ogni pausa, si rischia di produrre un dialogo parlato continuo, che può stancare e deconcentrare l’ascoltatore dal senso originario del film. Se ne deduce che, la difficoltà maggiore di chi scrive un audio commento è il decidere quali silenzi sia il caso di rompere con la voce guida e quali, invece, lasciare che parlino da sé. Le ingenti quantità di informazioni trascritte dai descrittori, in italiano o in altre lingue, devono essere soggette a operazioni di semplificazione e, soprattutto, di contenimento. Lo sfrondamento è operato secondo i criteri della rilevanza e dell’oggettività dell’informazione. A un livello più specifico, il gruppo di lavoro che intende audio descrivere dovrebbe seguire alcune regole pratiche nella redazione degli audiocommenti (OFCOM, 2000): • Uso dell’indicativo presente o present tense. L’AD è una narrazione di ciò che sta accadendo sullo schermo, motivo per il quale nel redigere gli audio commenti il gruppo di lavoro deve adottare l’indicativo presente come tempo verbale. • Presentare le informazioni in modo adeguato. La voce narrante deve indicare ogni cambiamento di scena. È sconsigliato l’uso di pronomi personali tranne che nelle AD per bambini. Nel caso di audiovisivi per bambini l’uso di un tono più familiare e partecipato è maggiormente adeguato e funzionale alla fruizione. Gli audio commenti devono indicare chiaramente chi sta parlando in un determinato momento e indicare se nella scena sono presenti più interlocutori. I nomi dei parlanti devono essere ripetuti frequentemente per fugare qualsiasi dubbio. Devono essere evitate descrizioni troppo lunghe che possono rovinare l’atmosfera del prodotto, ma soprattutto possono stancare il pubblico, esponendo l’utente ad un sovraccarico cognitivo (Braun, 2008). • Non aggiungere informazioni che non siano visibili sullo schermo. In alcuni casi, l’aggiunta di qualche informazione di supporto può contribuire a ridurre i rischi di confusione. • Non sovrapporre la descrizione ad altri suoni o ai dialoghi. L’AD deve descrivere solo quei rumori significativi e rilevanti che non possono essere chiaramente compresi. • Utilizzare una sintassi chiara e semplice. Il lessico deve essere concreto e presentare una sola informazione rilevante all’interno di ogni frase.

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– Quarta fase. Revisione della bozza. La revisione della bozza deve essere effettuata dal gruppo di lavoro e, in particolare, dal collaboratore non vedente, così come indicato dalla letteratura scientifica di riferimento (Benecke, 2004; OFCOM, 2000). La validazione umana permette al gruppo di lavoro di rettificare, contenere, specificare gli audio commenti in fieri. Il canovaccio va consegnato al non vedente in file per essere ascoltato con la sintesi vocale e transcodificato in braille per essere letto apticamente. Le proposte di variazione vanno discusse e condivise collegialmente. – Quinta Fase. Adattamento della banda sonora. Il volume dell’AD deve essere mantenuto costante, mentre quello di sottofondo va diminuito per evitare che altri rumori impediscano la comprensione della descrizione. L’AD, infatti, descrive le parti della scena visiva che un utente non vedente non può vedere, ma tralascia i dialoghi e i suoni, che può sentire da sé. – Sesta Fase. Registrazione della descrizione. Si tratta di una fase fondamentale: la più delicata. La descrizione non deve essere letta dal narratore troppo rapidamente. Tutte le parole devono essere scandite, udibili e non troppo vicine o sovrapposte al dialogo originale. La voce del narratore deve essere neutra e non invadente, ma non monotona: si deve generare una sorta di “empatia acustica”. Il ritmo di lettura va adattato al prodotto audiovisivo, all’utenza e alla singola scena. La registrazione di una AD richiede un alto livello di concentrazione e di lavoro sull’intonazione. Le persone non vedenti tendono ad avere opinioni totalizzanti sulla voce. Se a loro non piace la voce, non ascoltano. Una buona AD dovrebbe essere discreta ma non monocorde, dovrebbe essere in armonia con la natura del programma. In un thriller o in un dramma, la voce deve essere costante e laddove la musica di sottofondo divenga minacciosa, la voce dovrebbe riflettere tale tensione, senza diventare melodrammatica. Nella commedia, la narrazione deve essere costante, e si deve percepire un leggero sorriso nella voce. Il descrittore non dovrebbe mai unirsi con la risata. Nella maggior parte dei casi, le voci maschili e femminili possono essere usati in modo interscambiabile, ma ci possono essere momenti in cui uno o l’altro sarebbe più appropriato. “Its purpose is to paint pictures, convey plot, scenery and action” (OFCOM, 2000). Di tanto in tanto, un leggero accento regionale può andare bene se l’audiovisivo lo richiede altrimenti una voce narrante con una corretta dizione diventa una necessità. – Settima fase. Revisione della registrazione. In questa fase il gruppo di lavoro deve controllare che la registrazione sia senza errori, omissioni o imperfezioni.

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


3. Potenzialità educative e piste di ricerca dell’AD L’AD è uno strumento che si serve essenzialmente dell’uso della parola. L’esposizione continua da parte dei disabili visivi ad un linguaggio verbale, nello specifico didascalico-descrittivo, orienta la riflessione su diversi aspetti. 3.1 Compensazione e costruzione del reale L’AD permette ai disabili visivi di apprendere e di potenziare il linguaggio come strumento compensativo e di costruzione del reale. Il linguaggio, infatti, ha un notevole peso nella strutturazione delle rappresentazioni mentali, anzi, esso è lo strumento attraverso cui le immagini mentali prendono forma. Si rivela che il linguaggio nell’AD riproduce una realtà sulla base dei complessi processi insiti nei meccanismi di designazione, per mezzo dei quali le parole evocano, nel non vedente, esperienze e realtà. È logico pensare come un dispositivo con una struttura complessa e intricata, ma al contempo così largamente utilizzato anche dai bambini senza il minimo sforzo (Chomsky, 1957, 1975), possa celare al suo interno una costellazione di simboli che parlano di sé, della propria condizione e di ciò che ci circonda. In relazione ai bisogni specifici del non vedente lavorare sulla costruzione e sperimentazione di prodotti audio descritti permette di indagare sperimentalmente sulle fonti e sui processi di strutturazione del reale, cioè, sulla elaborazione degli schemi mentali, delle categorie, delle euristiche, dei dispositivi esemplificativi di decodifica, espressi e strutturati dal linguaggio stesso. Il concetto di modello mentale è stato adottato, in maniera specifica, da Johnson Laird (1988) e dai suoi collaboratori per indicare come tale costrutto sia utilizzato da ognuno di noi per semplificare e decodificare velocemente gli innumerevoli dati provenienti dalla realtà. “I modelli mentali sono rappresentazioni di situazioni reali ipotetiche o immaginarie” (Legrenzi, 2003, p. 147) “mappe del mondo [che] vengono implicitamente costruite dal soggetto nel processo di apprendimento che accompagna la sua continua interazione con la realtà che lo circonda” (Trinchero, 2003, p. 92), sono il fondamento psicologico della comprensione, configurandosi come “una copia mentale interna che possiede la stessa struttura di rapporti del fenomeno che rappresenta” (Johnson-Laird, 1988, p. 49). I non vedenti, come tutti, costruiscono modelli mentali per rappresentare il mondo circostante, i concetti astratti o le sequenze di eventi e li adoperano per dare una spiegazione ai propri eventi, per comprendere le proprie esperienze e fronteggiare le situazioni nuove. “Di conseguenza, la cecità non è solo un deficit, un difetto, una debolezza, ma […] origina anche nuove capacità, nuovi vantaggi, nuove forze” (Vygotskij, 1986, p. 277). È su questo fronte che gli studi sull’AD possono diventare terreno fertile di indagini relative alla costruzione e alla “mentalizzazione” del reale da parte del disabile visivo. 3.2 Conoscenza visiva e inclusione Gli studi sull’AD svolti negli ultimi anni, (Ferrel, Siller 2006; Palomo, 2008; Kirchner, Shmeidler, 2001; Snyder 2006), si sono concentrati sulla valutazione dei anno I | n. 1 | 2013

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benefici che tale supporto può avere sui processi di istruzione e di apprendimento dei bambini con difficoltà visive. Ad esempio, l’AD può facilitare l’apprendimento linguistico: il significato di alcune parole, infatti, viene compreso e appreso se associato a degli oggetti o a delle azioni, il che implica automaticamente un ritardo d’apprendimento nei bambini con limitate, o con totale assenza di esperienze visive, i quali sono impossibilitati a compiere tali associazioni. Il bambino non vedente riceve un valido aiuto dai prodotti audio descritti, in cui sono designati oggetti, azioni o eventi particolari, in quanto essi apportano una dimensione ulteriore rafforzando il significato delle parole, agevolandone l’apprendimento. È importante che i bambini ascoltino suoni significativi in quanto questi aggiungono un significato alle parole (rNIB, 2009). I bambini non vedenti hanno più difficoltà a sviluppare rappresentazioni mentali di esperienze che non possono vedere (Ferrel, Siller, 2005). Un’AD può generare, attraverso poche parole ben scelte, immagini chiare e durature nella mente dei bambini non vedenti, in particolare attraverso l’uso di nuovi vocaboli, di paragoni e di semplici metafore, facilitandone così l’apprendimento e migliorando le loro competenze linguistiche (Snyder, 2006). Inoltre, l’AD può contribuire a sviluppare l’acquisizione delle nuove conoscenze “visive” soprattutto nelle persone che sono non vedenti dalla nascita: ad esempio, attraverso la descrizione di gesti abituali – come portarsi un dito sulle labbra – e di altre convenzioni culturali legate al mondo visivo – come l’apparenza fisica e lo stile di un certo tipo di abbigliamento – i non vedenti e gli ipovedenti possono facilmente imparare il significato di queste convenzioni e utilizzarle nella vita quotidiana, migliorando la loro capacità d’interazione sociale (Gonzàlez, Iorfida 2002, Hernández-Bartolomé, Mendiluce Cabrera 2004; Packer 1996). La vista, pertanto, sembra essere il canale privilegiato per accedere anche alla vita psichica dell’altro e la sua assenza, o grave compromissione, genera un ritardo nello sviluppo della Teoria della Mente (Brambring, Asbrock 2010; Green et al. 2004), ossia la capacità di attribuire a se stessi e agli altri credenze e stati mentali. Alcune ricerche confermano che i disabili visivi possiedono una solida memoria (Tadic et al. 2010) verbale dalle elevate potenzialità compensatrici (roder et al. 2001; Swanson, Luxenberg, 2009) e che tale memoria trae linfa vitale dal linguaggio poiché è con tale strumento che il “mondo del buio” diviene dicibile e quindi comprensibile. L’AD, in tal senso, si configura come uno strumento capace di offrire all’utente non solo descrizioni fisiche o di contesto di un audiovisivo, ma anche di sollecitare una possibile descrizione più profonda delle persone: i loro stati d’animo, i loro linguaggi non verbali, le loro sensazioni e le loro emozioni. Un audiovisivo, inoltre, utilizza sovente un linguaggio non letterale, parte della pragmatica, che si riferisce agli scherzi, all’ironia, al sarcasmo, alle figure retoriche e alle bugie. In esso le motivazioni sottese a un enunciato divergono dal contenuto letterale. La comprensione di questo linguaggio può essere considerata una traccia della comprensione della mente altrui (Happé, 1994). Avviandoci alla conclusione, occorre esplicitare – sebbene questa idea sia presente come una filigrana in tutto contributo – che l’AD è uno strumento primariamente inclusivo e capacitante, in quanto, rendere accessibile un prodotto audiovisivo significa sollecitare una trasformazione che investe il contesto, la persona e la comunità. Un cinema, un salotto di proiezione, un’aula multimediale III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


divengono, così, dei luoghi di cultura, di istruzione e apprendimento, di svago e di interazione. Luoghi fisici che, in una più ampia ridefinizione emotiva e sociale, generano nel non vedente sensazioni di libertà, autonomia, condivisione, divertimento etc. Se realizzata seguendo i principi di chiarezza e non invasività, l’AD può permettere ai non vedenti di comprendere totalmente uno spettacolo o un film, oltre a promuovere nei disabili un senso di indipendenza, di uguaglianza e di partecipazione socio-culturale (Packer, 1996). L’AD, in tal senso, permette ai disabili visivi di (ri)appropriarsi del patrimonio culturale e artistico offrendo loro delle concrete possibilità di godere anche delle bellezze naturali: parchi, paesaggi marini o terrestri, seppur con strumenti (audio mappe, audio guide, touch tour) e modalità (guide specializzate e audiocommenti) diversificati. Gli ambienti molto vasti (il Grand Canyon negli Stati Uniti), colorati (Grande barriera corallina in Australia), astratti (un cielo stellato con relative costellazioni) assieme ai soggetti artistici più astratti e criptici sono difficili da descrivere se comparati al modo con il quale i vedenti sono portati a percepire e a pensare (visivamente) la contingenza. Il disabile visivo dove “non arriva con il dito”, preferisce conoscere le valutazioni generali che la cultura assegna (a volte per convenzione) al mondo delle cose. Non è, pertanto, essenziale per un non vedente - perché non è portato a percepire e a rappresentare il mondo visivamente - conoscere analiticamente un paesaggio o un soggetto figurativo molto astratto. Spesso quello che paradossalmente desta interesse è una “lettura fenomenologica” della contingenza (Cosa percepisci? Cosa provi? A cosa somiglia? È bello?). L’aspetto, forse, più importante è che il disabile visivo, a prescindere dai mezzi e dalle modalità con cui è realizzata un’AD, può esperire tutto questo in autonomia, contenendo frustranti e subordinanti richieste di supporto e di ausilio, svincolandosi dalla paura di dipendere (Fiocco, 2006) e circoscrivendo la richiesta d’aiuto a piccole e sentite (e non imposte) necessità (Caldin, 2001). L’annullamento della necessità di deleghe (Pinnelli, 2007, p. 159) libera i disabili visivi dalla dipendenza e dal “buio” dell’isolamento e della segregazione promuovendo la loro capacità di autodeterminazione e di scelta. La garanzia di un’eguale partecipazione da parte di tutti gli individui, sia alle attività sociali che culturali, all’interno della propria comunità significa rispettare i principi democratici che sono alla base di una società civile. L’AD, pertanto, si configura come un potente strumento di cultura e di inclusione sociale purtroppo però, “claudicante” nel contesto italiano: l’accessibilità degli audiovisivi è un concetto ancora oggi troppo lontano dalla nostra cultura. Se cominciassimo a “vedere” questo strumento come parte integrante della cultura e non come mero strumento di supporto e di “catering to the needs of very small and specific population” (Szarkowska, 2011, p. 143) allora l’AD diverrebbe una consuetudine implicita: il potere della “parola” messo al servizio di tutti. Una parola che suona come una confidenza sussurrata in un orecchio capace di creare suggestioni, di evocare immagini e di inibire anche il buio. Il descrittore, invece, diverrebbe un abile giocoliere capace di fa fluttuare le parole quasi fossero dei birilli: le afferra e poi le rilancia in attesa che qualcuno presti orecchio. La parola, parafrasando rodari (1977), diverrebbe un sasso getanno I | n. 1 | 2013

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tato in uno stagno che produce “onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni” (p. 7).

Bibliografia

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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


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Standardising Audio Description

Most creative activities are described by the freedom and audacity of their expression. Audio description, a creative writing modality to make audiovisual content accessible for all, has been the subject of standardisation from its origins. The present article will trace a history of the development of Audio Description in the academic realm, following standardisation measures and existing protocols.

abstract

Anna Matamala, CAiAC, Universitat Autònoma de Barcelona, Spain / anna.matamala@uab.cat Pilar Orero, CAiAC, Universitat Autònoma de Barcelona, Spain / pilar.orero@uab.cat

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Keywords: audio description, standardisation, multilingualism, audio subtitles

III. Esiti di ricerca *

This research is supported by the grant from the Spanish Ministry of Finance and Competivity no. FFI2012-31024 (Sensorial and Linguistic Accessibility: technologies for voice-over and audio description) and FFI2012-39056-C02-01 (Subtitling for the deaf and hard of hearing and audio description: new formats). It is also supported by the Catalan Government funding scheme 2009 SGR700 and it is part of the ADLAB project 517992-LLP-1-2011-1-IT-ERASMUS-ECUE.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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1. Introduction Audio description (AD) is the descriptive technique of inserting audio narrations, explanations and descriptions of the settings, characters, and actions taking place in a variety of audiovisual media, when such information about these visual elements is not offered in the regular audio presentation. This ad hoc narrative can be created for any media representation: dynamic or static, i.e. from a guided city tour of Barcelona or a 3D film, to a Picasso painting. Its function is to make audiovisual content available to all. There is a vision underpinning access services, such as AD: e-inclusiveness. E-inclusiveness is more than just assistive technologies in the form of access services in programmes produced specifically for those with disabilities. The vision has its basis in various treaties and legislation across the world1 recognising the right to access media content as a human right, as already stated in the Convention on the Rights of Persons With Disabilities by United Nations, which came into force in 2003. – From Article 1: “Persons with disabilities include those who have long-term physical, mental, intellectual or sensory impairments which in interaction with various barriers may hinder their full and effective participation in society on an equal basis with others”. – From Article 9: “To enable persons with disabilities to live independently and participate fully in all aspects of life, States Parties shall take appropriate measures to ensure to persons with disabilities access, on an equal basis with others, to the physical environment, to transportation, to information and communications, including information and communications technologies and systems, and to other facilities and services open or provided to the public, both in urban and rural areas”.

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It is based on the tenet that, in a society where individuals are diverse in nature, we share a collective responsibility to be socially inclusive. Access services are a means of doing this, and AD is one of these services. The technique of AD has been around for centuries (Benecke, 2004; Pujol, Orero, 2007), both for blind people and for those who could not access the visual content due for example to lack of culture or education. This is the case in the Medieval Ages where pilgrims needed oral explanations to read and enjoy the visual narrative in the glass windows of churches and cathedrals. In the 20th century, with the development of silent cinema, narrators where hired by cinema owners to explain the film and to read inter titles. In those years literacy in both film language and reading texts were not a common occurrence. In the 21st century where culture and society has moved from paper to audiovisual formats, the need for access to content is more poignant.

1

For US see <http://www.ada.gov/cguide.htm> for US Disability Right Laws. For Europe see European Accessibility Act <http://ec.europa.eu/governance/impact/planned_ia/docs/2012_just_025_european_accessibiliy_act_en.pdf>.

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


2. Audio description: special features Audio description is the general concept which includes many variants and possibilities. The most basic traits which can be applied to all forms of audio description are: a) Audio description is an intersemiotic process, from a visual text to an oral text-which sometimes has to be written and recorded, and sometimes is delivered live (Matamala, 2007). b) Audio description, may, but is not necessarily, between two different languages. Hence translation in the sense of languages may not be present. c) Audio description should be produced when there is a gap in the oral channel of the audiovisual text. d) There is a general convention amongst ADs around the world, that the narrative precedes the action. The content that lends itself to be audio described varies, but the following list of possible scenarios could be drafted: – Scenic arts such as theatre, opera, circus, ballet, etc., which are generally performed live, although they can be later broadcast on television. – Films and TV programmes, included in broadcast media such as television, cinema, DVD, which are generally recorded. – Museums and galleries, parks and heritage sites which exhibit art: abstract and figurative (painting, sculpture, photography, videos, etc.). – Sports, political gatherings, and any situation where a visual element is an essential part.

3. Standards, Norms, and Regulations Academic studies on AD are now growing exponentially within the field of Translation Studies (Kruger, Orero, 2010; Igareda, Matamala, 2012). Two of the issues which have caught academic attention are the analysis of existing guidelines (Vercauteren, 2007; Orero, 2012) and the research needed towards drafting new and scientifically proven guidelines or standards (Orero, Wharton 2007; Braun, 2008). Some studies go further in trying to reach a pan European Standard on AD (Yeung, 2007; Orero, 2008). There is an ongoing EU project which is working in this direction: ADLAB2. This three-year (2011-2014) project on audio description is financed by the European Union under the Lifelong Learning Programme (LLP) with the aim of funding higher education courses to train AD specialists and to design reliable and consistent guidelines for the practice of AD across Europe, taking into consideration different languages, language combination, and cultural backgrounds.

2

<www.adlab.net>.

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Every country which offers AD has drafted, or is currently drafting their guidelines. Guidelines may go under different names such as standards, protocols, rules or norms, among others. In some cases they are issued by public organisms, such as Ofcom3 in the UK where standards are in accordance with the Communications Act 2003, the Broadcasting Act 1996, or the Broadcasting Act 1990 (OfCom, 2010). The document, published in 2010, establishes a code which sets out the requirements on various access services such as AD. Concerning AD, it provides a definition, potential users, it advises on how to select the programmes to be audio described and gives recommendations on best practices. A longer document (ITC 2000) with more concrete notes on AD was previously published, indicating how to prepare an AD and giving specific examples. A similar case is that of Spain, where the National Standard UNE 153020 was issued by the national standard agency AENOR (2005)4. The norm makes reference to the purpose and scope of applicability, gives definitions and sets forth the end users and requirements. It also describes in detail the AD process and makes specific remarks about live productions and audio guides. More recently, the Broadcasting Authority of Ireland launched the Access Rules in 2012, in accordance with the Broadcasting Act 2009, and developed the BAI Guildelines- Audio Description document (BAI 2012), which outlines general and technical standards related to AD. In a brief four-page document, it provides a definition and indicates what to describe, when to described and what not to describe, and adds some remarks on the sound level, recording, grammar and language, and information prioritising, among some other aspects. Regarding France, Gonant and Morisset (2008) drafted “La charte de l’audiodescription”, published by the French Ministry of Health and Social Affairs, presenting as the other guidelines generally do a definition and the target audience. Respect to the work, objectivity and respect to the hearer are mentioned as three key aspects before listing the main elements to be described and when they should be voiced. Recommendations on the language and style, voicing and recording, and budget are also included. Other guidelines are written and published within broadcasting corporations which offer the service of AD such as Bayerischer Rundfunk (Benecke, Dosch 2004). Some are written as unpublished internal documents for in-house training activities, such as those produced by Veronica Hyks for IMS-Media5 or James O’Hara for itfc6. We can find guidelines written to train at education centres such as universities, an example of these are Aline Remael (2005) guidelines written for her courses at University College Antwerp in Belgium. And also protocol proposals derived from university research (Puigdomènech, Matamala and Orero 2010). This document was initially written as a report for a project developed in 2005

3

4 5 6

Ofcom is “the independent regulator and competition authority for the UK communications industries, with responsibilities across television, radio, telecommunications and wireless communications services” <http://www.ofcom.org.uk/>. AENOR develops standardisation and certification (S + C) in all industrial and service sectors. It is the Spanish representative in international standard bodies such as ISO and CEN. <http://www.ims-media.com/>. <http://www.itfc.com/>.

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


by Universitat Autònoma de Barcelona and Roehampton University (“Audio Description Protocols”, Catalan Government funded project # 2006PBR10023) and it identified the key issues in AD and the various approaches found mainly in the UK, Germany and Spain. Its aim was to be used as the basis for a future protocol in Catalan AD. Associations and non-profit organisations have also been active in promoting best practices in Audio Description. The US National Association of the Deaf and The American Foundation for the Blind, supported by the Described and Captioned Media Program (funded by the US Departament of Education), has developed the Description Key (<http://www.descriptionkey.org/>), which gives recommendations on how to prepare an AD (what to describe/how to describe) and technical aspects. The American Council of the Blind, previously AD International, has also developed The Audio Description project (ADI 2002), giving guidelines for “good describing”. Their web also includes other standards (<http://www.acb.org/adp/ad.html>). Media Access Australia, a non-for-profit media access organisation, has prepared and “Audio Description Background Paper” (Mikul, 2010), defining this practice and indicating how to deliver AD, as well as costs and turnaround times. Although they do not establish standards as such in the text of the document, they make reference to overseas standards and indicate the minimum elements a future standard should cover, which are developed in 22 points included as an appendix to the document (MMA’s draft audio description guidelines). RNIB (Rai et al., 2010) carried out a comparison of various of the abovementioned standards, namely the Spanish Standard, the German AD guidelines, the French AD charter, ADI proposed guidelines, a working document for Greek (Georgakopoulou, 2008) and the Ofcom Draft Guidelines from Television Access Services. Review of the Code and Guidance 2006. Within this varied context there is a double fold need: first of all, to carry out an updated comparison of all guidelines and practices at international level to identify local specificities and shared approaches; and secondly, to observe the results of experimental research with end users carried out by research centres to identify best practices and user preferences. Based on that, international standards can be put forward and can be used not only as a framework which recommends best practices at international level to countries which already have implemented audio description but also as a roadmap for countries with emerging access services who will undoubtedly benefit from clear recommendations. ISO (International Standard Organisation) and ITU (International Telecommunication Union) are currently working on such international standards, which are at the time of writing this article within a Working Group, and it is expected to have their published work in the very near future.

4. Conclusions While audio description is a creative activity, it is considered as an accessible service, and as any service it should be possible to standardize and evaluate its quality. The number and type of audio description standardization efforts are reanno I | n. 1 | 2013

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markable, as it is the overall perspective which points at atomised maps both in geography and agency. There is no doubt that audio description should have minimum requirements to fulfil quality standards, but looking at the dynamism in the standardisation process it seems as if different audio description agencies are doomed to agree in one basic issue: they disagree – even in the name of the service: audio description or video description? This paper has tried to offer an overall perspective of the state of the art in audio description.

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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


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anno I | n. 1 | 2013

ANNA MATAMALA, PILAR ORERO



Teachers and other educational agents’ sentiments, attitudes and concerns about inclusion: portuguese data

Keywords: inclusive education, Portugal, teachers, sentiments, attitudes, concerns

III. Esiti di ricerca Aknowledgments: Our gratitude goes to all the teachers and educational agents who participated in this research project as well as to the institutions, and high school and university teachers who collaborated with us. It also goes to Prof. Chris Forlin for inviting us to participate in a broader international research project that originated Educação Inclusiva e Processos de Formação. Its partial financial support was attributed by CIEFCUL – Centro de Investigação em Educação da Faculdade de Ciências da Universidade de Lisboa from 2006/07 until 2008/09.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno I | n. 1 | 2013

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

In the beginning of the 21st century schools are characterised as multicultural spaces and times (César, 2009). In the two last decades we observe a growing cultural diversity among students who attend Portuguese mainstream schools (César, Santos, 2006). The construction of broader inclusive educational settings is related with teachers and other educational agents’ sentiments, attitudes and concerns towards inclusive education (IE) (Forlin, Loreman, Sharma, Earle, 2007; Loreman, Earle, Sharma, Forlin, 2007). This research is part of a broader project Educação Inclusiva e Processos de Formação whose main goal was to study the sentiments, attitudes and concerns presented by educational agents, before and after attending pre- and in-service teacher education which included some curricular units regarding IE. We assumed an interpretative approach and carried out a long panel survey. To collect data we used documents and the SACIE scale – Sentiments, Attitudes, Concerns about Inclusive Education scale, by Loreman, Earle, Sharma, Forlin, (2006). The SACIE scale was answered in two moments: (1) at the beginning; and (2) at the end of the selected curricular units. Data treatment and analysis was based in descriptive statistics and used the SPSS software. The main results of the study are presented and discussed in the paper, starting from the analysis of the data referred to the majority of teachers and other educational agents, who reported comfort sentiments, but only a lower number of them showed inclusive attitudes towards students who need some specialised educational support.

abstract

Joel Santos, Universidade de Lisboa, Instituto de Educação, Lisboa, Portugal Margarida César, Universidade de Lisboa, Instituto de Educação, Lisboa, Portugal Gracinda Hamido, Escola Superior de Educação de Santarém, Santarém, Portugal

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1. Introduction

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In Portugal mainstream schools are challenged by a growing diversity (César, 2013; Rodrigues, 2007). This is a valuable opportunity to transform schools according to the inclusive education (IE) principles (UNESCO, 1994). Some authors assume IE as a complex belief that has been interpreted through these last decades in a variety of ways by different educational agents (Ainscow, César, 2006). Some authors conceive IE as the right to an education that values the richness of all students’ voices that emerge in specific times, spaces and cultures (César, 2009; César, Santos, 2006). Thus, organizations need to be engaged in the transformation process of discussing ways to use values, attitudes and power relations, contributing to the construction of further cultural resources that are adapted to all students’ needs (César, 2009, 2013; D’Alessio, 2011; Slee, 2012). IE is a way of facilitating all students’ participation as democratic citizens (Biggeri, Santi, 2012). Portuguese legislation started to acknowledge the right to non-discrimination and unconditional placement of all students (ME, 1991), namely of those who need some specialized educational support (César, 2012). But it was more recently that the legislation started shifting towards inclusive education principles (ME, 2008), assuming what the Salamanca Statement suggested (UNESCO, 1994). These developments promoted diversity within Portuguese mainstream schools. But despite these changes, Portugal still faces complex barriers regarding the development of an educational system that is engaged in promoting a quality education for all (César, 2009, 2012, 2013; Rodrigues, 2007). Thus, although students have become more diverse there are still around 95.000 facing exclusion each school year because they experience school underachievement (INE, 2009). This illuminates the gap between policy documents and the practices, particularly the evaluation system. Despite the effort to develop a more inclusive legislation, inclusion is a slow in-progress process with advances but also setbacks (César, 2012). Therefore, committing towards the construction of more inclusive scenarios and learning situations must go well beyond well-intentioned speeches, as it needs more inclusive attitudes and practices (Borges, César, 2011), particularly the ones that contribute to power distribution and to develop inter- and intra-empowerment mechanisms (César, 2013). Portuguese teacher education has also been changing its curricula towards the inclusion of curricular units addressing IE (Santos, 2008; Santos, César, 2010; Santos, Hamido, 2009). Although these changes aimed at promoting a quality education for all, non-inclusive attitudes, concerns and perceptions still exist, particularly among educational agents and teachers (Lima-Rodrigues et al., 2007). Some authors stress the relations between the construction of (more) inclusive educational settings and the sentiments, attitudes and concerns of the teachers and other educational agents towards IE, and how those may be fostered through teacher education (Forlin et al., 2009; Loreman et al., 2007). Symeonidou and Phtiaka (2009) also underline the need to know and mobilise prior knowledge and attitudes to develop more adequate teacher education on IE. Furthermore, when teacher education is consistent with the teachers and other educational agents’ zone of proximal development (ZPD) (Vygotsky, 1934/1986), it is more likely to endorse visible impacts on their sentiments, attitudes and conIII. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


cerns. Thus, it is essential to know more about the changes promoted by teacher education on the sentiments, attitudes and concerns of teachers and other educational agents (Forlin, Earle, Loreman, Sharma, 2011; Loreman, Forlin, Sharma, 2007; Santos, César, 2010). Sentiments, attitudes and concerns towards IE Several studies have presented data regarding the teachers’ and other educational agents’ comfort and discomfort sentiments about IE (Forlin, Cedillo, Romero-Contreras, Fletcher, Hernández, 2010; Forlin et al., 2009; Sharma, Forlin,, Loreman, 2008). These studies illustrated that a large majority of the inquired teachers and other educational agents showed comfort sentiments towards students categorised as presenting SEN (Forlin et al., 2009; Stella, Forlin, Lan, 2007). Furthermore, some of these studies reported an increasing number of participants which selected comfort, inclusive sentiments when interacting with these students, after accomplishing teacher education courses regarding IE (Forlin et al., 2009; Sharma et al., 2008). Data has also illuminated that when teacher education presented an opportunity for those teachers and other educational agents to meet and interact with persons who were categorised as presenting SEN, one could observe an increasing number of participants that selected a more inclusive comfort positioning towards these students (Forlin, 2010; Forlin et al., 2009, 2010). Although these previous studies presented an increase in comfort sentiments after attending teacher education on IE, other studies still point out different impacts of teacher education in different countries on the comfort and discomfort sentiments presented by teachers towards these students (Sharma et al., 2008; Sharma et al., 2006). For instance, Santos (2008) observed an increasing number of teachers who showed sentiments of fear when looking at a person with a disability, after the involvement on a curricular unit regarding IE. Some studies presented data, which suggest that only a slight majority of the inquired teachers express inclusive attitudes towards students categorised as presenting SEN (Forlin, Chambers, 2011; Forlin et al., 2009; Sharma et al., 2006). Some other studies suggested statistical relations between expressing inclusive attitudes towards these students and the following participants’ characteristics: being female; having knowledge about legislation concerning the education of these students; interactions with persons in a SEN condition; training focused on the education of these students (Forlin et al., 2010; Forlin et al., 2009; Sharma et al., 2008). For instance, Sharma and his associates (2006) undertook a comparative study about the attitudes towards inclusion in Australia, Canada, Singapore and Hong Kong. These authors suggested relations between participants from countries that implemented inclusive policies for a longer time period and the emerging of a more inclusive attitude positioning. Thus, we can infer that the inclusive attitudes emerged after a longer period of interaction with students characterized as presenting SEN. These data suggest that changing towards more inclusive attitudes is a slow process (Loreman et al., 2007; Sharma et al., 2006). Forlin and Chambers (2011), in a study about the effectiveness of teacher education to develop inclusion, presented some favorable empirical evidence. For instance, the participants expressed propitious attitudes towards those students anno I | n. 1 | 2013

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who often fail in their exams or who need assistance with personal care. But this study has also presented data that illustrate a tendency towards a non-inclusive direction, as they showed less inclusive attitudes concerning students who are physically aggressive. Nevertheless, other studies presented favorable data regarding teacher education impacts on the attitudes of teachers regarding IE (Forlin, Chambers, 2011; Sharma et al., 2008; Stella et al., 2007). Stella and her associates (2007) investigated the impact of a module on IE in a sample of 200 pre-service teachers in Hong Kong. Their empirical evidence supports a slight increase in the number of participants who expressed inclusive attitudes towards students whose academic achievement is below the class standard and those who cannot move without the assistance of others, thus in need of assistance with personal care. Forlin and Chambers’ study (2011) also shows a small impact on the attitudes of pre-service teachers towards students who were physically aggressive. Even after completing a course, which addressed IE, these future teachers only expressed slightly more inclusive attitudes towards these students (Forlin, Chambers, 2011; Stella et al., 2007). This empirical evidence corroborates previous studies on attitude change towards inclusion that has been reported to be a challenging process (Loreman et al., 2007; Santos, César, 2010; Sharma et al., 2006). Research has suggested that teachers and other educational agents’ concerns towards inclusion are, in many ways, still high and constitute a challenging barrier to the construction of broader inclusive scenarios (Forlin et al., 2010; Lima-Rodrigues et al., 2007; Sandberg, Ottosson, 2010). For instance, Forlin and Chambers (2011) show evidences, after conducting a survey on pre-service teachers’ perceptions of inclusion, that suggest the existence of a high level of concerns towards IE in the teachers that attended a teacher education unit on diversity in an Western Australian University. Further literature review illuminated high levels of concern associated with the lack of resources and staff to develop a quality education for All (Forlin, Chambers, 2011; Lima-Rodrigues et al., 2007). Sandberg and Ottosson (2010) conducted 20 interviews to pre-school teachers and other educational agents. They also suggested that the participants showed a high level of concerns towards their own lack of knowledge and skills to develop a quality education to all students. Forlin and her associates (2010), after administering the SACIE scale (Loreman et al., 2007) to 286 newly graduated teachers, suggested that these participants still show concerns towards the lack of an adequate level of acceptance of students categorized as presenting SEN by other colleagues who taught the same class. When looking at the literature regarding the impact of teacher education on the level of concerns presented by teachers and other educational agents, some illuminate an IE unfriendly impact in the level of the expressed concerns (Forlin, Chambers, 2011; Stella et al., 2007). For instance, Forlin and Chambers (2011) state that after attending a unit of study on diversity the level of concerns towards the lack of resources/staff and capacity to ensure appropriate attention to all students, instead of decreasing and becoming more inclusive, it went in the opposite direction towards a more concerned and non-inclusive positioning. Sharma and his associates (2008) observed a decrease in both the number of participants which showed concerns towards the acceptance by other colleagues teaching the same class which included students characterized as presenting III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


SEN, and towards the lack of knowledge and skills regarding the education of these students, after analysing data on the impact of teacher education on IE, from a 603 pre-service teachers sample from Australia, Canada, Hong Kong and Singapore.

2. Method This research is part of a broader research project called Educação Inclusiva e Processos de Formação [Inclusive education and pre- and in-service teacher education]. Its main goal was to study the sentiments, attitudes and concerns presented by teachers and other educational agents, before and after attending preand in-service teacher education courses including curricular units regarding IE. Its specific goals were: (1) To translate into diverse languages and to adapt the SACIE scale to be used in different countries and cultures (Loreman et al., 2007); (2) To apply this instrument in two moments (pre- and post-teacher education units regarding IE); and (3) To confront results between the countries that participated in this study. In this paper, we focus on the second specific goal and in the Portuguese data. The problem that originated this research was the existence of non-inclusive sentiments, attitudes and concerns expressed by teachers and other educational agents who develop their practices in Portuguese mainstream schools (Santos, 2008; Santos, César, 2010; Santos, Hamido, 2009). We considered the following research questions: (1) What sentiments, attitudes and concerns about IE do teachers and other educational agents present before attending some teacher education curricular units related to IE?; (2) What sentiments, attitudes and concerns do these teachers and other educational agents present after attending some teacher education curricular units related to IE?; and (3) What are the changes between these two moments? To grasp this problem and questions we carried out a research assuming an interpretative approach (Denzin, 2002) and using a design based in a survey (Cohen, Manion, Morrison, 2007). We assume the exploratory nature of this survey. Participants The selected professionals were mainstream teachers, future teachers and other educational agents (N=289), like educational psychologists, physical rehabilitation professionals and special education teachers. They attended higher education courses with curricular units related to IE during the 1st semester of 2007/08, i.e., between September/October 2007 and January/February 2008. They were from all sorts of higher education institutions: universities, institutes, and schools of superior studies (Escolas Superiores de Educação, commonly designated as ESE) and these institutions were from all over Portugal. All participants collaborated in this study on a voluntary basis and their engagement was based on an informed authorisation (Hamido, César, 2009).

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Data collecting instruments Documents The selection of the curricular units was conducted through a documental analysis in which we identified the intention to explore contents related with IE and/or to the education of students who need some specialised educational support. At a first stage, this intention was identified when the curricula included words like IE, diversity or inclusion in the goals of the curricular units. In face of the small number of courses identified based in these criteria, we used in a second stage broader words also including: special education, curricular differentiation, educational intervention, and handicap.

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SACIE scale We used a survey instrument that consisted of two parts. The 1st part had nine demographic items. These items collected personal and professional data such as gender, age, professional qualifications and key questions about teaching or interacting with student categorised as presenting SEN. The 2nd part consisted of the Sentiments, Attitudes & Concerns about Inclusive Education (SACIE) scale, by Loreman and his associates (2006). It is a brief but reliable 15-item scale (Cronbach alpha = 0.83) (Cronbach, 1951) that evaluates sentiments, attitudes and concerns towards IE (Forlin et al., 2011). The participants select their position in a fourpoint Likert-type scale. Thus, each one of the scale items was rated on a range of 1-4 points, ranked from: strongly disagree (SD); disagree (D); agree (A); and strongly agree (SA). This range was chosen to avoid neutral responses leading the participants to take an option towards a more inclusive or less inclusive position. Forlin and her associates (2011) identified three factors with the following reliabilities as measured by Cronbach alpha (Cronbach, 1951): (1) sentiments (Îą = 0.86); (2) attitudes (Îą = 0.86); and (3) concerns (Îą = 0.70). In the first factor (sentiments), Items 1 and 2 evaluate the sentiments when interacting with people categorised as presenting a disability (e.g., Item 1: I feel comfortable around people with disabilities). In the second factor (attitudes), Items 3 to 9 regard attitudes towards including different students categorised as presenting SEN (e.g., Item 5: Students who are physically aggressive towards others should be in regular classes). In the last factor (concerns) Items 10 to 15 evaluate the concerns about IE (e.g., Item 11: I am concerned that there will be inadequate resources/staff available to support inclusion). The SACIE scale was translated and adapted to Portugal, and an experimental version is available, allowing its application in this study. Procedure We started collecting documents in July, i.e., by the end of the previous school year, and ended in the beginning of September 2007. We collected documents regarding school year 2007/2008. The collected documents were: (1) lists of universities, teacher education institutes and superior schools of education; (2) curricula regarding teacher education courses; and (3) programs of the curricular units developed in teacher education courses. These documents were used in the selection of the curricular units in which students would answer to the SACIE scale (Loreman et al., 2007). III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


The mentioned scale was answered in two moments: at the beginning and at the end of the selected curricular units. These two moments were part of the 1st Semester of the school year 2007/2008: September/October 2007 (first moment); and January/February 2008 (second moment). Thus, there were between three and five months between the two moments, i.e., the two answers to the SACIE scale. Single data collections at either pre- or post- units only were excluded. To treat and analyse data we used Microsoft Office Excel 2008 and the Statistical Package for the Social Sciences 18.0 (SPSS). We decided to use descriptive statistics like the relative and absolute frequencies. We did not use means because the SACIE scale uses a Likert-type scale with four points, which corresponds to an ordinal scale and not to an interval scale, from the mathematical point of view. Thus it does not make sense to use a mean, or other measures of central location, when the scale that we are using is less sophisticated than an interval scale (Pestana, Velosa, 2002). Results The demographic characterisation of the participants is presented in Table 1. Almost 90% of these participants are female. Approximately three quarters were 29 years old or less (1st-75.4%; 2nd-74.4%). The remaining quarter were mainly 30 to 39 years old (1st-15.2%; 2nd-14.9%), thus only a minority of less than 10% participants was 40 or more years old (1st-9%; 2nd-9.7%). More than 60% participants revealed that the highest level of education completed was at a high school level (1st-66.1%; 2nd-60.2%). Less than a third admitted that they had completed an undergraduate degree (1st-29.8%; 2nd-32.2%). Thus only a minority accomplished a postgraduate degree (n≤13; 4.5%), or master degree (n=1; 0.3%).

Table 1. Demographic characterisation: gender, age and schooling

The results regarding: (a) these participants’ previous interactions with a person with a disability; (b) training focusing the education of students with disabilities; and (c) knowledge of the local policy related with these students, are presented in Table 2. In both moments more than half of the teachers, future teachers and other educational agents (1st-54.3%; 2nd-60.5%) admitted having anno I | n. 1 | 2013

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previous significant or considerable interactions with a person with a disability. When confronting the 1st and 2nd moments there is a slight increase of 6.2% participants that assumed having these interactions. In the 1st moment 69.2% teachers, future teachers and other educational agents admitted having no training focusing the education of students with disabilities. A little more than a fifth of these participants assumed having some (21.1%), and 9.3% a high level of training. In the 2nd moment more than three quarters (75.8%) admitted either some (46.7%) or a high (29.1%) level of training. Only a minority of a little more than a fifth (21.8%) of the participants assumed having no training. If we confront the 1st and 2nd moment’s data, there is a decrease of 47.4% participants that admitted having no training. There is also an increase of 25.6% participants that assumed having some level of training and of 19.8% participants that admitted having a high level of training focusing these children. In what concerns the knowledge of local legislation and/or policy regarding children with disabilities, in the 1st moment a total of 59.5% participants assumed either a poor (43.9%), or no knowledge (15.6%) regarding this issue. A total of 40.5% participants chose an average (33.2%), good (6.6%), or very good (0.7) knowledge regarding this legislation. In the 2nd moment a majority of more than three quarters (78.8%) admitted having at least an average knowledge. Of these, 23.5% participants considered they had a good knowledge and only 1% a very good knowledge. Thus, only a little more than a fifth (20.4%) chose either a poor (19.7%) or no knowledge (0.7%). Confronting the results from the 1st and the 2nd moments there is a decrease of 14.9% participants who chose no knowledge, and a decrease of 24,2% participants who stated they had a poor knowledge regarding this local legislation. Alongside with this decrease, there is an increase of 21.1% participants that reported they had an average knowledge. There is also an increase of 16.9% participants who considered they had a good knowledge and of 0.3% who stated they had a very good knowledge of the local legislation regarding children with disabilities.

Table 2. Participants’ characterisation regarding IE

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


Sentiments The majority of the teachers, future teachers and other educational agents assumed comfort sentiments regarding people with disabilities, as presented in Table 3. More than 90% of the participants either agreed (1st-61.9%; 2nd-58.8%) or strongly agreed (1st-29.8%; 2nd-34.6%), that they felt comfortable around people with disabilities. Less than 7% of the participants either disagreed (1st-6.2%; 2nd-5.5%) or strongly disagreed (1st-0.7%; 2nd-0.3%). When confronting both the 1st and the 2nd moments there is a decrease of 3.1 participants that agree, 0.7% that disagree, and 0.4% who strongly disagreed. This decrease beneficiated an overall increase of 4.8% participants who chose to strongly agree with feeling more comfortable around people with disabilities, after the three to five months that the curricular unit regarding IE had lasted. Regarding the sentiment of fear felt when looking at a person with a disability straight in the face, a majority of more than 95% participants admitted either disagreeing (29.1%) or strongly disagreeing (1st-67.1%; 2nd-67.8%). Between the 1st and the 2nd moments, more 0.7% participants strongly disagreed. A minority of these participants assumed either agreeing (1st-3.8%; 2nd-1%) or strongly agreeing (2nd-1.7%). These results present a decrease between moments of 2.8% participants that agreed but an increase of 1.7% of the ones that assumed strongly agreeing. Thus, these results suggest a small increase of the sentiments of fear.

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Table 3. Sentiments

Attitudes The results presented in Table 4 show that a large majority of teachers, future teachers and other educational agents stated they had inclusive attitudes towards students who need some specialised educational support. They also suggest a small increase of inclusive attitudes between the three to five months between the two moments in which they answered to the SACIE scale. For instance, regarding the attitudes towards students who need assistance with personal care, more than 70% of the participants chose either agreeing (1st-55.7%; 2nd-58.5%), or strongly agreeing (1st-16.6%; 2nd-21.8%) that these students should anno I | n. 1 | 2013

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be in regular classes. Confronting these two moments there is a small increase of 2.8% participants agreeing and 5.2% participants strongly agreeing with the presence of these students in the regular classes. A minority of less than a quarter of these participants assumed, in both moments, disagreeing (1st-23.5%; 2nd17.3%), and even smaller minority stated they strongly disagree (1st-3.5%; 2nd-1.7%) with these students’ presence in regular classes. The overall willingness to include these students is also visible since there is a decrease of 6.2% participants that disagreed and 1.8% that strongly disagreed. In what regards students who are physically aggressive towards others, only a half of the participants assumed either agreeing (1st-46%; 2nd-52.9%), or strongly agreeing (1st-9.3%; 2nd-8%) with their presence in regular classes. These results show a decrease of 1.3% participants that strongly agreed and an increase of 6.9% of the ones that agreed. A minority of less than a half either chose to disagree (1st-38.3%; 2nd-33.6%), or to strongly disagree (1st-5.5%; 2nd-3.8%). This means a decrease of 4.8% participants that disagreed and 1,7% that strongly disagreed. In short: we can observe a slight movement towards a more inclusive positioning regarding the students considered physically aggressive, along with a moderation of both more extreme positions: strongly agree (SA), and strongly disagree (SD). Around 80% of the participants either agreed (1st-62.6%; 2nd-60.6%), or strongly agreed (1st-17.3%; 2nd-23.5%) with the presence, in regular classes, of students who frequently fail their exams. There is a decrease in 2% of the participants that considered they agreed and a higher increase of 6.2% participants who strongly agreed. A minority chose either disagreeing (1st-17.6%; 2nd-11.4%) or strongly disagreeing (1st-2.1%; 2nd-1.7%). There is a decrease of 6.2% participants that chose to disagree and a small decrease of 0.4% who strongly disagreed that these students should be in regular classes. These results also suggest an increase of the number of teachers and other educational agents that expressed more inclusive attitudes, after accomplishing their curricular unit(s) regarding inclusion.

Table 4. Attitudes

III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


Concerns The results suggest a high level of concern towards IE, as shown in Table 5. The majority of these teachers, future teachers and other educational agents show a high level of concerns towards IE by choosing agreeing (1st-60.9%; 2nd-54%), or strongly agreeing (1st-28.4%; 2nd-36%) that they feel concerned if there would be inadequate resources and/or staff available to support inclusion. When confronting both moments, we observe a small decrease of 6.9% participants that agreed but an increase of 7.6%, which strongly agreed. There was only a minority of 8.3% participants that disagreed in both moments. A smaller minority (less than 2.5%) strongly disagreed (1st-2.4%; 2nd-1.7%). Thus, results show a small decrease of 0.7% participants that considered that they strongly disagree, and illuminate that there is a raise in concerns towards the lack of resources between these two moments. The majority of these teachers, future teachers, and other educational agents chose to agree (1st-52.6%; 2nd-51.2%), or to strongly agree (1st-36.3%; 2nd-32.9%) with felling concerns about not having the knowledge and skills to teach students with disabilities. These results show a decrease of 1.4% participants that chose to agree and 3.4% that strongly agreed. There was also a minority of less than 13% who disagreed in both moments (1st-9.3%; 2nd-12.5%), and even a smaller minority of less than 3.2% that strongly disagreed (1st-1.7%; 2nd-3.1%). The empirical evidences illuminate that 3.2% more participants disagreed and 1.4% more strongly disagreed. Thus, results show a decrease in the expressed concerns towards this question between these two moments. A majority of more than 80% of the participants was concerned with the possibility that students with disabilities would not be accepted by the rest of the class. Some decided to agree (1st-50.2%; 2nd-55.4%) and others to strongly agree (1st-34.3%; 2nd-26.6%). When confronting both moments, there is an increase of 5.2% participants that admitted agreeing and a decrease of 7.7% participants that chose to strongly agree. A minority chose to disagree (1st-13.8%; 2nd-15.2%), and an even smaller minority to strongly disagree (1st-1.7%; 2nd-2.4%). Thus, we observe a small increase of 2.6% participants that disagreed and of 0.7% participants that strongly disagreed. Results suggest a slight decrease in the concerns towards students who would not be accepted by the rest of the class.

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Table 5. Concerns

3. Discussion

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Participants were mainly female, which is consistent with Portuguese distribution of gender for these professions, as there are more female than male teachers and other educational agents (INE, 2009). The majority was less than 29 years old. This was expected since we also considered undergraduate students and these are usually younger. They were at point of their career in which there is still a belief that attending teacher education will be important in order to have a better position in the labour market, particularly because teachers and other educational agents were experiencing more and more difficulties finding a job (Alves, 2005). A small majority of these participants stated they had previous interactions with a person with a disability, as reported in previous studies. As these were mainly younger professionals or future professionals it is possible that they had previous interactions with colleagues categorized as presenting SEN. This is possibly due to the changes in the Portuguese education legislation as these students started to have a clear right to learn in mainstream classes (ME, 1991). Although we observe only a small increase in the number of participants who assumed having previous interactions of this type, this is consistent with this study’s time frame, as there were only three to five months between data collecting moments. A considerable number of participants changed their positioning between moments, from having no training to having training. But as the criteria to select participants included that they were attending curricular units regarding IE, this is not an astonishing result. The number of participants who admitted having knowledge of legislation also increased considerably as corroborated in other studies (Forlin et. al, 2009; Forlin, Chambers, 2011). Thus, it is possible that an appropriation of knowledge on legislation about the education of students in SEN condition took place between these two moments, i.e., that legislation was analysed and discussed in these curricular units. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


The majority of these educational agents showed inclusive sentiments as mentioned in other studies (Forlin et al., 2010; Forlin et al., 2009). As these are future or already professionals in careers that include interacting with children, these results can be interpret as a promising step in order to develop further inclusive educational settings. There was a small increase of participants that assumed comfort sentiments. Forlin (2010) has suggested that the increase of inclusive sentiments is connected with the opportunity to meet a person with diverse needs. These participants possibly had the opportunity, between these two moments, to interact with a person in this condition, as previous results shown in Table 2 suggest. Training has also been reported to be connected to the development of more comfort sentiments (Forlin et al., 2009). Thus, when looking at the data presented in Table 2, it was also predictable that more participants would show comfort sentiments. Even if the majority assumed inclusive sentiments, results also suggested a non-desired increase of sentiments of fear. This corroborates a previous study that also illuminates a slight increase of these sentiments (Santos, 2008). Thus, the overall results show ambivalence towards a clear increase in inclusive sentiments. Results illuminate that a small majority of these teachers, future and other educational agents showed inclusive attitudes. These results are coherent with previous studies (Forlin, Chambers, 2011; Forlin et al., 2010; Stella et al., 2007). For instance, Forlin and her associates (2007) suggested that inclusive attitudes are more likely to be expressed by younger teachers who reported they had previous interactions and training regarding students in a SEN condition. Although only a small majority of these participants showed inclusive attitudes towards students who need assistance with personal care and those who often fail their exams, they were even less willing to include, in mainstream classes, students who are seen as physically aggressive. These empirical evidences also emerged in previous studies, which made visible less inclusive attitudes towards those who are often seen as physically aggressive (Forlin et al., 2010; Santos, CĂŠsar, 2010; Stella et al., 2007). There were slightly more participants expressing inclusive attitudes between these three to five months. These results corroborate previous studies suggesting that a change towards more inclusive attitudes is possible, but still a very slow process, as it is usually observed in almost all changes (Santos, 2008; Santos, CĂŠsar, 2010; Santos, Hamido, 2009; Stella et al., 2007). The empirical evidences show that the majority of the participants had concerns towards including students in a SEN condition. These results corroborate previous studies that also illuminate the existence of concerns towards the lack of adequate resources or knowledge and skills required to teach these students (Sandberg, Ottosson, 2010), and acceptance by the rest of the class (Sharma et al., 2007). Concerns towards the lack of knowledge and skills, and the acceptance, decreased as corroborated in another study conducted by Sharma and his associates (2008). Moreover, concerns towards the lack of resources increased. Similar evidences were also mentioned in a previous study developed by Forlin, Chambers (2011). It is possible that between these three to five months some discussions about the need of more resources and specialized staff had been produced in these curricular units. Thus, they allowed these teachers, future teachers and other educational agents to become more aware of the characteranno I | n. 1 | 2013

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istics of those students who need some specialized educational support (César, 2012).

4. Final remarks

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This study highlighted an overall non-inclusive positioning towards students in a SEN condition. Even though the majority of these participants presented inclusive sentiments, they also assumed moderate attitudes and a high level of concern towards IE. At the end of these three to five months, between their two answers to the SACIE scale, there were slightly more participants expressing inclusive attitudes. But the number of participants that changed towards expressing more inclusive sentiments and concerns was ambivalent. There was a considerable increase of participants that admitted having training focusing on the education of students with a disability, and also of those who assumed having knowledge of the local policy regarding these students. This evidence illuminates that the change in skills and knowledge was by far more considerable than the change regarding the sentiments, attitudes and concerns. For instance, even if more participants reported they had training after completing a curricular unit regarding IE, a high level of concerns towards not having the knowledge and skills required to teach students with disabilities still remained. A possible interpretation for this small impact of the curricular units on the sentiments, attitudes and concerns regarding IE could be the type of practices and tasks used by higher education teachers. But in order to go further in this interpretation we would need observation data from the classes of the curricular units. However, no one accepted our presence in these higher education classes. Thus, observational data could not be collected and this prevents us from going more in-depth in our interpretations. It is also possible that teacher education regarding IE may still be focused on learning specific characteristics of some students, thus misleading teachers and future teachers to believe that they are not able to teach these students without the specialists’ assistance (Slee, 2012). As previous researches suggested, the construction of broader inclusive educational settings is related with the teachers, future teachers and other educational agents’ sentiments, attitudes and concerns towards IE (Forlin et al., 2009; Loreman et al., 2007). These are referred as being as important as knowledge and skills (Forlin, 2010). These results enlighten the ethical need to adequately address sentiments, attitudes and concerns while tackling skills and knowledge about IE. Some inferences emerge from this study. First, a need for more pre- and inservice teacher education courses on IE, as there were only a few teacher education courses in Portugal including curricular units related with IE, and many of them were only optional units, which means that many teachers begin working without any specialized education on this subject. Secondly, the need to redesign curricular units that are more adjusted to these teachers, future teachers and other educational agents, particularly focusing them in the analysis of cases, in functional diagnosis and in intervention processes, as mentioned by César (2012). We also assume a need for more research in this domain. For instance, studIII. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


ies that also use interviews and observation of classes are quite important. But they are very rare particularly when higher education is concerned. But further results could be an essential contribution to (re)design curricular units on IE in order to achieve higher impacts on teachers’ sentiments, attitudes and concerns, but also on their practices. We would also like to expand this study and to extend the time between the two moments of answering to the SACIE scale. It would be interesting to confront the results from this new study with the ones reported in this paper and to realise if there were further impacts.

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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)


La séparation de la famille: un moyen pour promouvoir l’autonomie

© Pensa MuliMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

This article proposes some reflections about the experience of therapeutic separations from family for a disable child in the context of a day care center. In those cases where family bounds are entangled and the separation process gets stuck, professionals can propose to parents a night care for the child for just few days a week, in order to support and to help the family. The hypothesis behind this proposal is that this kind of separation supervised by professionals may be therapeutic for the whole family system.

Keywords: disability, separation, family

IV. Altri temi

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Margherita Merucci, Université Chatholique de Lyon

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1. Introduction

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Le processus de séparation des figures parentales et de la mère en particulier constitue un élément marquant du développement de chaque être humain. Toutefois la maturation psychique et le processus d’individuation, peuvent trouver des obstacles dans des facteurs environnementaux ou dans des facteurs intrinsèques à l’individu-même. Le handicap peut constituer un de ces facteurs. L’enfant handicapé peut rencontrer des difficultés à vivre en tant qu’être séparé de la figure maternelle. La mère, ou les deux parents peuvent trouver difficile de mettre en place ces comportements éducatifs nécessaires à promouvoir le maximum d’autonomie chez leur enfant, car ils en perçoivent les limites et la dépendance physique et psychique avec angoisse et souffrance. Si ces difficultés à promouvoir et à encourager un minimum le processus de séparation s’amplifient, l’enfant et ses parents deviennent prisonniers d’une relation enchevêtrée et fusionnelle, avec une grande souffrance personnelle et de tout le système familial. Dans ces cas où, donc, la séparation nécessaire au bon développement ne peut pas se réaliser, les professionnels peuvent proposer une séparation physique et un séjour en internat pour quelques jours à la semaine accompagnant ainsi les parents, l’enfant et la famille dans sa globalité à la mise en place de cette expérience fondamentale en vue de la construction d’une plus grande autonomie. Dans cet article, nous voulons présenter le travail qui est effectué au sein de l’institution où travaille l’autrice afin de favoriser et promouvoir la séparation. A la base de notre intervention, nous posons l’hypothèse que lorsque la séparation n’est pas possible et que la dynamique familiale est caractérisée par des relations enchevêtrées1 ou fusionnelles, une séparation proposée par l’extérieur peut se révéler thérapeutique pour l’ensemble du système familial. Dans un premier temps nous allons présenter l’accompagnement dans des situations de handicap pendant l’enfance dans le contexte français. En effet les modalités de la prise en charge institutionnelle présentent des différences par rapport au contexte italien et il nous semble nécessaire de les expliciter. Dans un deuxième temps, nous allons présenter le cadre théorique de référence concernant la séparation, et enfin nous allons introduire les modalités qui caractérisent notre intervention.

2. Le contexte institutionnel En France, la loi du 11 février 2005, dite des « égalités des droits et des chances, la participation et la citoyenneté des personnes handicapées » définit l’obligation pour les enfants et les adolescents handicapés de recevoir une éducation (loi n° 75-534 du 30 juin 1975). L’intégration dans une classe ordinaire peut être à temps complet ou à temps partiel selon le projet individualisé, qui est établi à partir des besoins éducatifs

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Nous nous référons ici aux travaux de S. Minuchin (1975) sur l’organisation de la structure familiale et sur l’articulation des distances interpersonnelles.

IV. Altri temi


de chaque élève. Toutefois, si d’un côté la loi oblige à inscrire chaque enfant handicapé dans l’école de son secteur, elle établit aussi le droit pour chaque enfant en situation de handicap de suivre le parcours éducatif le plus adapté à ses compétences et à ses besoins. Les institutions spécialisées, donc, continuent à accueillir tous ces enfants que la déficience cognitive et les problèmes comportementaux et/ou moteurs empêchent de fréquenter l’école ordinaire. Pour résumer, si la loi oblige donc à inscrire chaque enfant handicapé dans l’école de secteur, elle définit aussi le droit de suivre un parcours éducatif adapté aux compétences, aux exigences et aux besoins de l’enfant handicapé. D’un point de vue pragmatique, l’intégration dans une classe ordinaire constitue une priorité. Toutefois, dans le cas où cette intégration mettrait l’enfant face à des exigences qu’il ne peut pas satisfaire, ou face à des rythmes qu’il ne peut pas tenir, ou encore dans le cas où les conditions de mise en place du projet individualisé ne peuvent pas être respectées, l’enfant handicapé peut être orienté et accueilli dans un institut spécialisé, qui assume la charge de son projet éducatif, thérapeutique, rééducatif et scolaire. L’autrice travaille dans une de ces institutions spécialisées, destinées à accueillir et à accompagner les enfants en situation de pluryhandicap (moteur, cognitif et comportemental). Ces enfants, à cause de la gravité de leur situation clinique, ne peuvent pas être accueillis en milieu ordinaire.

3. La séparation Le processus de séparation-individuation qui commence à la naissance (M. Mahler, 1975), est strictement lié au processus d’attachement (Bowlby, 1969, 1973; Crittenden 2001). En effet, plus le lien d’attachement qui se met en place entre l’enfant et sa /ses figure/s de référence est « secure », plus l’enfant devient capable de se séparer et d’explorer des nouveaux horizons et de construire ainsi son identité d’être unique et autonome, conscient en même temps de ce lien d’appartenance qui le relie aux membres de sa famille. A ce propos il est important d’ouvrir une parenthèse et de rappeler que le rôle parental est caractérisé entre autre par la capacité de l’adulte (père, mère ou figure de substitution) d’assurer le soin, la protection, et l’éducation de l’enfant. Dans les représentations populaires la famille, (dont il existe des nombreuses typologies) représente le lieu privilégié des affects. Ces représentations ont toujours hésité entre deux représentations opposées. D’un côté elle est représentée comme le lieu idéal et source intarissable de l’investissement affectif, et de l’autre comme lieu « mauvais », siège de toute maltraitance, désintérêt affectif et abandon pour l’enfant. La société demande aux parents, dans l’exercice de leur rôle, d’identifier les besoin physiques, psychosociaux et socioculturels de l’enfant. La réponse adéquate à ces besoins constitue une partie fondamentale et intégrante du rôle que la société demande aux parents d’assumer afin de créer un milieu favorable à la satisfaction des besoins vitaux et au développement des potentialités propres à chacun. Tout le processus du développement est donc une marche dans le temps vers l’émergence de l’individualité à travers des séparations successives et des réélaborations successives des relations familiales. anno I | n. 1 | 2013

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Toutefois le processus de séparation-individuation peut trouver des obstacles dans son déroulement dans plusieurs facteurs dont le handicap de l’enfant. En effet ce dernier, peut faire de l’enfant un être extrêmement fragile et dépendant de sa mère et des adultes en général, en rendant ainsi la représentation de ses autonomies d’abord et de leur développement dans la vie de tous les jours ensuite, plus problématique. Dans ces situations, il peut être important d’intervenir auprès de la famille, et auprès des parents en particulier, afin de proposer une aide concrète et un accompagnement à la mise en place du processus de séparation, en dépassant ce qui pourrait être un obstacle « idéologique » à ces séparations à but thérapeutique. En effet, nos sociétés occidentales, sont caractérisées par une extrême idéologisation du lien affectif. Cette dernière peut faire apparaître les séparations imposées ou proposées par des organismes extérieurs à la famille comme une attaque véritable au lien affectif et comme un déracinement de l’enfant de son contexte naturel (Berger, 1992). Selon Berger, les familles et la société ont des grandes difficultés à admettre que l’amour ne suffit pas pour promouvoir le développement d’un enfant. Une grande fermeté éducative est aussi nécessaire afin de créer les conditions indispensables au bon développement de ce dernier. En réalité, la grande complexité et la grande difficulté du rôle parental réside dans le maintien en équilibre des composantes affectives et des composantes éducatives. Dans les situations où les relations parents-enfants sont caractérisées par des dynamiques fusionnelles, comme dans les situations de besoin de la part de la famille ou du couple parental d’une aide temporaire dans la mise en place des soins quotidiens à l’enfant handicapé, l’institution peut se proposer comme élément « clé » afin de promouvoir et soutenir la dynamique de « dé-fusion ». La proposition d’intégrer pendant deux jours par semaine un internat veut répondre aux exigences psychologiques et sociales de l’enfant et de sa famille en détournant en outre l’attention des problèmes médicaux. Ces derniers représentent en effet souvent la demande principale, comme si une fois résolus, tout le développement de l’enfant devrait rentrer dans la « norme ». Josefsberg (2007) affirme qu’à fin de mettre en place un vrai travail de séparation au niveau institutionnel, il est nécessaire de remplir les trois conditions suivantes: une situation de séparation dans la réalité, la présence d’un témoin à la séparation et un temps de réélaboration de l’expérience vécue. – Une situation de séparation dans la réalité: pour qu’une séparation psychique puisse s’élaborer, il faut d’abord qu’une séparation dans le réel soit possible. Fréquenter la crèche, l’école maternelle ou tout simplement rester à la maison avec une voisine ou avec des grands-parents pour quelques heures constitue une expérience fondamentale dans la vie de chaque enfant. Toutefois cette seule expérience n’est pas suffisante à promouvoir le développement. Il est en effet important que cette séparation soit inscrite dans un rythme quotidien et qu’elle soit répétée pendant la semaine de façon régulière. Comme le dit Josefsberger, il est important que l’enfant fasse une expérience suffisamment régulière et monotone pour devenir un point de repère dans son organisation spatio-temporelle. Toutefois cette seule condition, qui, comme nous venons de l’indiquer, se vérifie souvent dans la vie de tout être humain, n’est pas suffisante pour IV. Altri temi


promouvoir le processus d’individuation-séparation et elle ne suffit pas à garantir la construction d’un noyau interne suffisamment « secure » afin d’aider à faire face à d’autres séparations. En réalité, la satisfaction des besoins vitaux (Zucman, 1998) et surtout le besoin de se sentir protégé, ressenti indispensable pour pouvoir se séparer, est toujours réalisé par la famille et par la figure de la mère en particulier. – Un tiers « témoin » de la séparation: l’institution qui accueille la personne se pose comme un tiers, témoin de la séparation du couple famille-enfant handicapé. Les professionnels (éducateurs, psychologues, personnel de soutien) sont investis affectivement par la famille et par l’enfant, permettant à ces dernier de se « décoller » les uns des autres. L’institution peut assumer sa tâche d’aide et de soutien à la séparation, uniquement si elle assume son rôle de tiers, permettant ainsi aux différents partenaires de se libérer de la relation symbiotique. – Un temps d’élaboration: il faut du temps pour sortir d’un schéma relationnel basé sur la fusion et la réactivité émotionnelle. Il faut aussi du temps pour élaborer des représentations de la situation et des difficultés vécues. Il est important que ce temps d’élaboration soit reconnu et respecté. Les professionnels qui travaillent dans l’institution peuvent en devenir les garants.

4. L’accueil de jour et l’internat Le centre de jour accueille 36 enfants de 4 aux 14 ans, du lundi au vendredi de 9h à 16. Il bénéficie aussi d’un petit internat de semaine du lundi au vendredi matin, qui peut accueillir un maximum de huit enfants. Tous les enfants rentrent chez eux à la fin de semaine. En ligne général, sauf de très rares situations, les enfants sont présents uniquement deux nuits par semaine au nombre de quatre enfant par nuit. A l’origine le centre a été créé, comme beaucoup de structure de ce type en France, par des parents réunis en association. Ils ont ainsi donné vie à des institutions qui avaient l’avantage de concentrer les différents suivis rééducatifs et éducatifs des enfants en un seul lieu. Ces structures pouvaient accompagner les enfants handicapés, qui ne pouvaient pas être accueillis ailleurs à cause de la complexité de leur situation, en leur garantissant un suivi. Les pathologies accueillies sont avant tout des pathologies motrices d’origine cérébrale (IMC ou IMOC), mais dans l’institution sont accueillis aussi des enfants avec des myopathies, des syndromes génétiques et troubles du comportement à spectre autistique. Tous présentent des troubles au niveau moteur. Dans ce contexte, l’internat est proposé comme une forme d’aide pour les parents dans toutes les situations où les dynamiques fusionnelles nécessitent une intervention extérieure à la famille afin de favoriser le processus de séparation2. 2

L’internat peut aussi être demandé directement par la famille dans des situations où elle a besoin d’une aide temporaire (pour permettre aux parents de répondre aux besoins des autres enfants,

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L’internat est toujours proposé à la famille comme partie du projet individualisé de l’enfant. Parfois plusieurs mois peuvent s’écouler entre le moment de la première proposition et l’intégration dans la structure3. La proposition est proposée par les éducateurs et par la psychologue et elle est analysée et discutée avec les parents à plusieurs reprises. Plusieurs visites peuvent être organisées pour connaître les lieux (le quartier, l’immeuble, l’appartement, la chambre), les temps (les rythmes quotidiens, les activités, les jeux) et surtout pour se familiariser avec le personnel qui s’occupera de l’enfant. Cette phase de prise d’information, peut être en réalité très longue, mais elle a l’avantage de commencer à introduire dans la famille la représentation d’une séparation possible. La vie peut continuer et être source d’expériences positives même si on ne partage plus le même espace physique au quotidien. Une fois l’expérience mise en place, les parents sont en contact avec l’équipe éducative de l’internat, ils sont tenus au courant dans les détails des activités et ils sont invités à communiquer avec leurs enfants par téléphone au moins une fois au cours des deux jours d’absence de l’enfant du foyer familial, et cela afin d’éviter que la séparation se transforme en « rupture » du lien4. La proposition d’intégrer l’internat pendant deux jours par semaine est toujours faite à partir des besoins de l’enfant et de la nécessité pour les parents de recevoir une aide pour traverser une phase particulière de leur existence. Parfois, plus rarement, ce sont les parents mêmes qui en font la demande en premiers. L’internat répond alors à une exigence familiale (hospitalisation d’un des parents, hospitalisation d’un des enfants, besoin d’une vacance, besoin d’avoir plus de temps pour les autres enfants etc.). Cette expérience a un grand impact sur la vie de la famille. Elle permet de redistribuer les rôles de chacun, de réorganiser l’espace de vie de la famille, de redessiner des frontières entre les différents sous-systèmes. Les parents ont la possibilité de retrouver un espace de vie conjugale qui avait été envahi par l’enfant handicapé et ce dernier peut retrouver une place au sein de la fratrie, avec le plus grand soulagement de cette dernière. L’ambiance devient plus détendue et l’enfant même expérimente des parents plus disponibles et moins en difficultés en lui posant des limites ou des règles nécessaires à son développement. Toutefois, comme toutes les expériences la proposition d’internat peut elle aussi présenter des limites. Ces derniers sont surtout liés à la difficulté de l’enfant d’élaborer cette expérience. En certains cas, l’éloignement de l’enfant handicapé,

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pour accompagner un membre de la famille malade, ou tout simplement pour permettre aux parents de s’accorder un temps de repos). Parfois la période de réflexion et de travail avec la famille a été plus longue: elle a pu dépasser le douze mois. Dans le processus de séparation/individuation, l’absence est élaborée et représentée mentalement, la réalité augmente de complexité en s’enrichissant de nouvelles expériences et de nouvelles représentations. La distance des figures significatives est vécue comme une possibilité de nouvelles expériences. La mère ou les autres membres de la famille continuent à vivre loin du sujet car ce dernier devient capable de s’en représenter l’absence. Le sujet développe la conscience de son identité et son estime de soi en sort renforcée. Quand il y a « rupture » l’absence est vécue comme un vide angoissant duquel il faut se protéger. Toutes les défenses alors mises en place « cramponnent » les sujet sur des positions archaïques qui empêchent son développement.

IV. Altri temi


même si limité à quelques jours par semaine, peut correspondre à une coalition5 de l’équipe avec un des protagonistes de la vie familiale. Si une telle coalition se prolonge dans le temps sans que les changements effectifs et bénéfiques soient mis en œuvre, la situation se rigidifie et nous pouvons passer d’une situation d’enchevêtrement à une situation de rupture sans qu’un processus évolutif soit mis en place. Dans ce cas de figure nous assistons à un abandon qui est autant plus rapide et durable dans le temps que le lien avait été fusionnel avant.

5. Conclusion Dans notre expérience la proposition d’une séparation dans la réalité permet le déblocage d’innombrables situations qui apparaissaient non modifiables. En effet, grâce à cette intervention nous assistons et nous accompagnons la réorganisation d’un nouvel équilibre plus flexible et plus respectueux des exigences de tous les membres de la famille. Les bénéfices que nous avons constatés sont multiples. Premièrement l’enfant développe un plus grand sentiment de sécurité intérieure et il élargit le champ de ses expériences sociales, en augmentant sa capacité de contact avec les adultes et avec les autres enfants. La conscience de pouvoir faire confiance à un plus grand nombre d’adultes, même si elle n’est pas verbalisée, se traduit dans une plus grande capacité de tolérer les changements. De même les parents construisent un plus grand sentiment de confiance dans les professionnels. Pour eux la conscience de pouvoir « passer le témoin » à des professionnels signifie trouver des interlocuteurs fiables avec qui partager l’accompagnement au quotidien de l’enfant handicapé6. Nous constatons des changements au niveau de la vie familiale, avec une réorganisation de l’espace de vie familiale: les parents retrouvent une autre dynamique de couple et leur action parentale en sort renforcée avec une modification de la distance relationnelle avec les enfants. La relation à l’intérieur de la fratrie se modifie, la relation entre enfant devient plus équilibrée, et l’enfant handicapé, dont on peut se séparer, cesse d’être le tyran qui empêche de vivre, ou d’être la victime à laquelle il faut sacrifier son existence. Il peut ainsi reprendre sa place d’enfant.

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Nous faisons ici référence à la théorie des triangles pervers telle qu’elle a été proposée par J.Haley (1963) et reprise en suite par Sorrentino (2006). La présentation et l’approfondissement d’une telle théorie ne correspond pas aux propos de cet article et nous renvoyons les personnes intéressées à la lecture de la littérature compétente. Pour avoir travaillé dans des institutions qui accueillent des personnes handicapées adultes et qui font leur première expérience de vie institutionnelle lorsque les parents deviennent trop âgés pour s’occuper de la personne handicapée, ou pire après le décès du parent « protecteur », je ne peux que soutenir ces expériences de séparation précoce. En effet quand l’intégration dans un lieu de vie collectif quelle qu’en soit la forme (foyer, appartement protégé, structure médicalisée etc.) devient la seule solution possible, il n’y a plus les conditions pour combiner les trois temps nécessaires que nous avons évoqués dans ces pages. La séparation, qui ne peut pas être élaborée, devient alors une « rupture » au niveau psychique qui entraine une souffrance insurmontable.

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Bibliographie Berger M. (1992). Les séparations à but thérapeutique. Privat: Toulouse. Bowlby J. (1969). Attachment and loss. Vol.1. Hogarth Press: London (trad. it. Attaccamento e perdita. Vol 1. Attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino 1972). Bowlby J. (1973). Attachment and loss. Vol.2. Separation Hogarth Press: London (trad. it. Attaccamento e perdita. Vol 2. La separazione, Boringhieri, Torino 1975). Bowlby J. (1979). Attachment and loss. Vol.3. Loss Hogarth Press: London (trad. it. Attaccamento e perdita. Vol 3. La perdita della madre, Boringhieri, Torino 1983). Crittenden P. (1994). Nuove prospettive sull’attaccamento. Teoria e pratica in famiglie ad alto rischio. Milano: Guerini. Josefberger R. (1997). Internat et séparations. Romananville Saint-Agne: ERES Mahler M., Pine F., Bergman A. (1978). La nascita psicologica del bambino. Torino: Boringhieri. Minuchin S. (1974). Famiglie e terapia della famiglia. Roma: Astrolabio. Sorrentino A.M. (2006). Figli disabili, la famiglia di fronte all’handicap. Milano: Raffaello Cortina. Zucman E. (1998). Accompagner les personnes polyhandicapées. Paris: CTNERHI.

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IV. Altri temi


Lessico Pedagogia speciale Andrea Canevaro

1. Un mito fondatore che può far capire perché “speciale”

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La vicenda di Victor, il sauvage de l’Averyron, può essere considerata mito fondatore di Pedagogia Speciale. Contiene elementi che permettono di capire cosa o chi è Pedagogia Speciale. La ragione di questa considerazione va argomentata, anticipando alcune delle riflessioni che saranno sviluppate nel punto 2. Perché non scegliere un pensatore, autore di opere che possono essere prese come punto di svolta nell’educazione e di avvio di una nuova prospettiva, dato che i nomi non mancano? Ma il mito fondatore di Pedagogia Speciale non è una persona. È una vicenda con più protagonisti. Pedagogia Speciale non è impegno per solisti. Prendiamo in considerazione alcuni dei protagonisti di quella vicenda, dando per conosciuta la trama della vicenda stessa: – Victor. È il ragazzino trovato nei boschi, essendo stato abbandonato. È il sauvage. Ma in realtà chi è? Un bambino con una disabilità abbandonato proprio per questo? – Itard. È la persona che accoglie in casa Victor. È medico o educatore? Ha un progetto condivisibile con Victor, o sottopone il sauvage a sperimentazioni per raggiungere notorietà e successo? – Madame Guérin. È la governante che si prende cura della casa in cui vivono Itard e Victor. Come governante della casa è consapevole dell’impegno educativo che la presenza di Victor comporta? Il suo buon senso è intelligenza pratica o chiusura nelle routines? – Pinel. È il grande psichiatra dell’epoca, e come tale diventa il garante di Itard, e di conseguenza di Victor. Il suo è paternalismo, o generosità? – Sicard. È il grande specialista di quelli che erano chiamati “sordomuti”. Dà protezione a Itard e al suo progetto per non esporsi in prima persona a eventuali rischi di fallimento? E in caso di successo, attribuirsi qualche merito?


L’intreccio di questi personaggi è Pedagogia Speciale. Questo significa che Pedagogia Speciale non è Itard. Non è una sola persona, una sola azione, un solo progetto, un solo punto di vista… ma è una continua composizione di rapporti, di azioni, di progetti, di punti di vista. È soprattutto molte domande. Che non sempre trovano risposte in ciò che già è conosciuto. Pedagogia Speciale non dovrebbe avere la presunzione, fallimentare per la sua stessa esistenza, di considerare degne unicamente le domande a cui sa già dare risposta. Dovrebbe imparare a vivere con domande che non la trovano già preparata. Il suo compito è di cercare le risposte senza la sicurezza di trovarle. Il suo compito è di convivere con domande aperte, e quindi reali, autentiche. Le domande nascono dagli incontri con soggetti che hanno punti di vista diversi, o vite diverse. Pedagogia Speciale vive bene negli incontri, e vive male nel narcisismo e nella chiusura in sé stessa. I personaggi citati, presenti nella vicenda di Victor, il sauvage de l’Averyron, mito fondatore della Pedagogia Speciale, rappresentano bene un’identità che prende corpo nel dialogo; meglio ancora: nel crocicchio del dialogo.

2. Gli interlocutori di Pedagogia Speciale

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Il primo interlocutore è il soggetto con disabilità, per esempio Victor. Pedagogia Speciale non può avere unicamente interlocutori accademici, né può chiudersi nella logica accademica, tendendo ad avere il consenso derivabile dalle necessità delle promozioni di carriera universitaria. Questi interlocutori – accademici – potrebbero indurre a ritenere disdicevole il tener conto del precedente interlocutore, il soggetto con disabilità. Interlocutori sono i famigliari e coloro che costituiscono il contorno sociale di un soggetto con disabilità. Che, richiedendo risposte immediate, rischiano di indurre Pedagogia Speciale a proporsi come detentrice di tutte le risposte. In realtà Pedagogia Speciale dovrebbe imparare a vivere scoprendo sempre nuove domande alle quali non sa dare risposta, ma può e deve impegnarsi a cercarle. Dove? Ma proprio condividendo un po’ della quotidianità delle persone con disabilità e di coloro che le accompagnano, famigliari e contorno sociale. Interlocutori sono i Pinel e i Sicard, ovvero gli studiosi già affermati nei diversi campi. Questo dei diversi campi disciplinari è un aspetto importante quanto problematico. Pedagogia Speciale deve sapere che dialogare con un famoso e affermato psichiatra potrebbe costituire un punto critico: come? Pedagogia Speciale esce dal capo disciplinare pedagogico, e rende omaggio ad un campo disciplinare “sanitario”?

3. Le vite inutili Pedagogia Speciale deve sapere che il suo impegno per un mondo inclusivo delle differenze, e quindi anche delle differenze dovute a disabilità, ha alle spalle un periodo, non tanto lontano nel tempo, in cui le differenze potevano essere lette come “vite inutili”, e quindi liquidate in uno sterminio organizzato con modalità industriali e quindi con distribuzione di compiti tale da costituire una vasta comLessico | Pedagogia speciale


plicità – depistage o reperimento delle vite inutili, raccolta, schedatura, distruzione, depistaggio… –. La complicità è tale da comprendere gli specialisti, medici e paramedici, e la gente comune. la divisione del lavoro permette di sommare mansioni per costituire un processo con risultati che il singolo può convincersi di ignorare. L’ignoranza organizzata come la complicità. Complicità e ignoranza costituiscono una rete labirintica in cui si perdono le responsabilità e anche le dignità. Pedagogia Speciale deve tener conto che è nella storia. In questa storia. Se qualche decennio fa è stato possibile lanciare e realizzare il programma di annientamento di “vite inutili”, è anche perché corrispondeva a un atteggiamento culturale diffuso, con un’adesione passiva a ciò che un’organizzazione attivava. Pedagogia Speciale non può chiudersi alla storia cercando di riferirsi unicamente alle caratteristiche delle disabilità che incontra; e neppure può ritenere di dover riferirsi unicamente alle disposizioni legislative istituzionali con cui le persone con disabilità devono fare i conti. Pedagogia Speciale deve essere attuale nella storicità in cui è immersa, per guardare al futuro.

4. I progetti di Pedagogia Speciale Progettare significa appunto guardare avanti, senza trascurare il punto in cui ci si trova. I piedi sono qui. Lo sguardo e i sensi si protendono in avanti. Per questo deve superare alcuni rischi. Indicarli significa anche cercare di capire come superarli. Indichiamo: – l’assistenzialismo, che può essere superato grazie al progetto partecipato ed evolutivo. – il vittimismo, può essere contrastato evitando un sostegno che deresponsabilizza chi ha una disabilità e cerca di operare perché sia attivo/a nell’organizzarsi. – la rete labirintica, da cui si esce attraverso l’alfabetizzazione istituzionale attiva.

5. Conclusioni? Le conclusioni di Pedagogia Speciale sono nel punto interrogativo,cioè in un divenire che significa non inseguire ma innovare. Non inseguire il passato mitizzato, e non inseguire le disposizioni legislativa. Pedagogia Speciale incontra alcune sfide che proviamo a delineare in forma di sintesi. 1. Il paradigma inclusivo va oltre l’integrazione. In questo senso, Pedagogia Speciale propone una prospettiva che non può accontentarsi di integrare in un contesto già istituito (che contiene insicurezza sociale. Crf. R. Castel, 2003), ma deve connettersi e interagire con gli agenti di cambiamento. In passato si poteva forse pensare che un soggetto con “bisogni speciali” potesse beneficiare dell’integrazione in un contesto sociale sicuro ed orgaanno I | n. 1 | 2013

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nizzato. Schematicamente: si trattava di far godere di diritti sociali già perfezionati e tali da rispondere ai bisogni di ciascuno e di tutti. Non è più così. Cambia il quadro epistemologico: da un “dato” in cui inserirsi a un “divenire” al quale partecipare. Per questo parliamo di “prospettiva inclusiva”: è una dinamica costruttiva. Deve realizzare la coppia istituitoistituente.

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2. Il suo compito deriva da un assunto: le differenze possono creare disuguaglianze se i soggetti istituzionali sono indifferenti alle differenze. Per questo, la scelte di modelli didattici (ad esempio) devono essere vagliate perché non creino indifferenza alle differenze, prendendole in considerazione solo quando si manifestano dei problemi. Questo significa cambiare criteri di valutazione per una prospettiva strutturale. Attualmente la valutazione è “neutra”, ovvero relativa ad una sagoma predefinita a cui si accosta per sottrazione chi presenta “bisogni speciali”. La valutazione strutturale fa riferimento all’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute). La sua logica può essere indicata in alcuni punti, ognuno dei quali meriterebbe spiegazioni ed approfondimenti: – Progetto di vita – Dal contesto ai contesti – Pluralità delle fonti autorevoli – Discontinuità positiva – Struttura connettiva. 3. Non basta la sfida del volontarismo (Cfr. X. Darcos, Ph. Meirieu, 2003). Paradossalmente, il volontarismo è assimilabile ai valori dell’individualismo di massa, contrari alla scuola e alla formazione: la seduzione contro la riflessione, la violenza contro il dialogo, la facilità contro l’esigenza, l’eliminazione o il disimpegno nei confronti dell’anello debole contro l’educazione di tutti. Il volontarismo è pensiero magico di bassa lega, imposto dalle volgarizzazioni mediatiche. La capacità di contaminarsi, di “degenerare”, ovvero di svolgere una stessa funzione e produrre uno stesso risultato, ma con elementi strutturalmente diversi. Il cervello può farlo (Cfr. G.M. Edelman, 2004).

Indicazioni bibliografiche Castel R. (2003). L’insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protégé? Paris: Seuil. OMS (2002). ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute). Trento: Erickson. Darcos X., Meirieu Ph. (2003). Deux voix pour une école. Paris: Desclée de Brouwer. Edelman G.M. (2004). Più grande del cielo. Lo straordinario fenomeno della coscienza. Torino: Einaudi.

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1. Recensione Annalisa Morganti, Intelligenza emotiva e integrazione scolastica, Carocci, Roma, 2012, pp. 163 di Gianluca Amatori Il mondo delle emozioni ha da sempre interessato la pedagogia e la didattica speciale. Il motivo di tale interesse è facilmente identificabile, soprattutto se si pensa alla società post moderna e a quelle che sono le caratteristiche principali del nuovo abitare il mondo: un abitare sempre più individualistico e socialmente alienato, spesso privo di coesione e collaborazione sociale. In un periodo storico caratterizzato da un ritorno predominante del contenuto disciplinare rispetto al contesto sociale e culturale, Annalisa Morganti ci ricorda l’importanza di un’alfabetizzazione emotiva che sia in grado di concorrere alla costruzione di una società civile emotivamente più ricca, fin dai primi anni del percorso scolastico. L’autrice, ricercatrice di Didattica e Pedagogia Speciale presso l’Università degli Studi di Perugia, sottolinea l’esigenza di costruire un percorso didattico di educazione socioemotiva a livello trasversale: studiare, ricercare, analizzare i sentimenti all’interno della vita scolastica quotidiana significa generalizzare le competenze apprese in contesti sempre più ampi, da un punto di vista spaziale e temporale. Tali apprendimenti, infatti, si proiettano a lungo raggio verso tutta la vita sociale e affettiva degli alunni e, pertanto, favoriscono la costruzione di legami solidi e autentici che danno respiro e vigore all’integrazione scolastica e all’inclusione sociale di tutti gli allievi con Bisogni Educativi Speciali. L’elemento di novità in questo prezioso lavoro di Annalisa Morganti, infatti, lo si può riscontrare già dal titolo. Non può esserci integrazione senza intelligenza emotiva. Quest’ultima non va intesa solo in senso interpersonale, anzi. La conoscenza intrapersonale relativa al proprio modo di sentire, di esprimere e di vivere le emozioni include e coinvolge molteplici abilità, tra cui quelle relative alla percezione e all’autoregolazione del proprio stato emotivo, indispensabili ad una convivenza serena e consapevole con l’altro. Dopo un ricco e variegato excursus dei modelli teorici sull’intelligenza emotiva, dunque al cosa, Annalisa Morganti dedica ampio spazio al come, fornendo indicazioni pratiche per un lavoro didattico a scuola che si incentri sull’acquisizione di cinque competenze chiave, basate sull’approccio del Social and Emotional Learning (SEL): 1) autoconsapevolezza; 2) consapevolezza sociale; 3) problem solving e capacità decisionali; 4) autocontrollo; 5) gestione delle relazioni sociali. L’aspetto metacognitivo, dunque, riveste un ruolo di centrale importanza nel processo di apprendimento socio-emotivo, così come la promozione di comportamenti prosociali ed empatici. L’autrice ha elaborato un percorso metodologico, concretamente realizzabile nella scuola primaria, incentrato su due protagonisti immaginari, Federico e Paolo (normodotato il primo, con disabilità il secondo), che accompagnano il lettore nel viaggio educativo socio-emozionale. Sarà semplice, per gli insegnanti e per coloro che già lavorano nel contesto scolastico, riconoscersi nelle difficoltà che la maestra Laura riscontra quotidianamente nel favorire le relazioni sociali tra i due alunni. Per questo, il volume offre una serie di lezioni pratiche, organizzate dettagliatamente con obiettivi specifici e relative attività, volte a promuovere

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l’intervento educativo con azioni mirate e specifiche, relative all’acquisizione delle cinque competenze chiave. Non sono solo gli alunni i protagonisti di questo percorso: gli insegnanti stessi devono impegnarsi per divenire emotivamente intelligenti. A questo è dedicato un intero capitolo nel quale si evince come l’insegnante, sia esso curricolare o specializzato per il sostegno, debba necessariamente arricchire il suo profilo professionale delle seguenti aree di competenza: 1) abilità personali; 2) conoscenze sullo sviluppo e sull’apprendimento; 3) competenze metodologiche tecnico-professionali; 4) competenze normative, organizzative e sociali; 5) competenze relative alla ricerca. In conclusione, il volume di Annalisa Morganti, dunque, offre al lettore numerosi spunti di analisi e di riflessione su aspetti che rivestono una notevole rilevanza pedagogica e didattica. In primo luogo quello della scuola e del lavoro quotidiano che la rende viva, il quale, però, è sempre sottoposto al rischio di non essere al pari con il mondo che cambia costantemente e con le esigenze alle quali tali cambiamenti ci impongono di rispondere. Secondariamente quello della formazione degli insegnanti, che non può prescindere da una solida conoscenza dei modelli teorici sull’intelligenza emotiva per mezzo dei quali può acquisire e padroneggiare repertori procedurali e strumentali in grado di renderlo socialmente efficace, per gli alunni, per i colleghi e per se stesso. Infine, quello della pedagogia e della didattica speciale, che devono proseguire lo studio e la ricerca sull’integrazione scolastica e l’inclusione sociale vivendo il mondo della scuola dal di dentro, con un occhio attento, permeante ed emotivamente sensibile.

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2. Recensione Bruna Mazzoncini, Lucilla Musatti, I disturbi dello sviluppo. Bambini, genitori e insegnanti, Raffaello Cortina, Milano, 2012, pp. 251 di Fabio Bocci e Ilaria Quaglieri

Il volume di Bruna Mazzoncini e Lucilla Musatti compie un interessante viaggio, attento e preciso, tra i disturbi dello sviluppo prendendo spunto dalle numerose domande che i genitori e gli insegnanti si pongono con l’intento di migliorare il loro grado di comprensione delle difficoltà dei figli/allievi e poter offrire loro un aiuto efficace corrispondente ai bisogni manifestati. Le autrici analizzano i disturbi dello spettro autistico, i deficit intellettivi, i disturbi dell’attenzione con/senza iperattività, i disturbi specifici del linguaggio, della coordinazione motoria e dell’apprendimento assumendo la prospettiva dei genitori, degli insegnanti e degli educatori che quotidianamente sono a contatto con i bambini e ragazzi che necessitano di particolari attenzioni. Sono dunque chiamate in causa le tante anime del processo educativo ed è questa la caratteristica peculiare del lavoro delle autrici accomunate dal desiderio di mettere in evidenza due fondamentali punti di vista: quello del mondo clinico e quello del mondo pedagogico. In effetti, nel momento in cui ci si sintonizza su/con un disturbo entrano in gioco

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dinamiche che inevitabilmente (e fortunatamente) mettono in stretta relazione gli attori della vita quotidiana che ruotano intorno al bambino/ragazzo in difficoltà. Per tale ragione Mazzoncini e Musatti – la prima psicologa e psicoterapeuta per moltissimi anni impegnata in attività clinica e di ricerca presso la Neuropsichiatria infantile di Roma, la seconda, anch’essa psicologa, insegnante nella Scuola Primaria con alle spalle una lunghissima militanza nel Movimento di Cooperazione Educativa – non si soffermano eccessivamente sulle caratteristiche distintive dei vari disturbi presi in esame (benché le autrici ne riportino puntualmente una breve descrizione), ma su ciò che li accomuna, trovando, così, una strada metodologica che sia percorribile davanti a qualsiasi disturbo. In tal senso l’attenzione è focalizzata sulle tre fasi emblematiche del processo di consapevolezza e acquisizione del disturbo: la prima consultazione; la condivisione della diagnosi clinica; la presa in carico terapeutica e educativa. Grazie a questa prospettiva viene illustrato il cammino che i bambini e i ragazzi, così come le loro famiglie e i loro insegnanti devono intraprendere per affrontare quanto più possibile in modo sinergico le difficoltà insite nel dover convivere con un disturbo dello sviluppo. In primo luogo ci sono i protagonisti diretti della vicenda: i bambini e le bambine e i ragazzi e le ragazze che manifestano il disturbo. Le autrici, attingendo dalla loro straordinaria esperienza sul campo, riflettono (e aiutano il lettore a riflettere) su alcuni aspetti nodali inerenti i modi con cui i soggetti in difficoltà si rappresentano il disturbo e rappresentano se stessi nel disturbo. Spesso il bambino/ragazzo può sentirsi in colpa e/o provare vergogna; può reagire in modo aggressivo, rifiutare l’offerta di aiuto oppure dimostrarsi immediatamente collaborativo. Risulta pertanto cruciale il rapporto che si viene a creare tra lo specialista e il soggetto. Questi deve essere a conoscenza delle sue difficoltà affinché non si generino in lui stati di ansia da prestazione e depressione. Lo specialista deve saper comunicare al meglio la diagnosi, evidenziando insieme all’interessato i suoi punti deboli e i suoi punti di forza: durante ogni incontro deve saper individuare i cambiamenti del comportamento in modo da ottimizzare i successivi interventi. Un’altra azione fondamentale è quella di insegnare al bambino/ragazzo a convivere con il proprio disturbo. Certamente ai fini di un buon grado di coinvolgimento attivo del soggetto gioca un ruolo decisivo il modo con cui il bambino/ragazzo è arrivato alla consultazione, ossia la capacità dei genitori e della scuola di facilitare la presa in carico. Ecco, dunque, posarsi l’attenzione sui genitori e gli insegnanti. Le madri e i padri si ritrovano spesso catapultati in un percorso impervio, posti al cospetto di patologie che alterando le normali tappe evolutive e compromettendo i processi di strutturazione della personalità del figlio finiscono giocoforza con il mutare la rete di relazioni e di comportamenti familiari. Il bambino arriva ad una consultazione con un tecnico se i genitori riescono a comprendere il bisogno di intervenire. Il primo scoglio da superare è correlato all’assenza degli strumenti necessari per fronteggiare ciò che sta accadendo, l’incertezza sulle mosse intraprese e da intraprendere, le sensazioni e le aspettative (accumulatesi nel tempo e infrante in un istante) che si accavallano. Tutti elementi che possono ingenerare una reazione di fuga davanti al problema. Si comprendono, allora, le prime domande che i genitori pongono all’esperto riguardanti il fatto se loro figlio sia nato con il disturbo o se questo sia sopraggiunto in seguito, se sia statico nel tempo oppure dinamico (in che misura, con quali gradi di miglioramento, ecc...). Il compito dello specialista è, dunque, quello di rendere le famiglie competenti, accompagnandole nel percorso di consapevolezza (più o meno lungo e complesso in rapporto ai modi con cui i genitori si rappresentano il disturbo) al fine di evitare che si sentano/trovino smarriti lungo questo cammino, senza dubbio arduo da affrontare. Una competenza che deve vedere coinvolti non solo i genitori ma anche, nel caso siano presenti, i fratelli e le sorelle. Una questione, quella della fratria dei bambini/ragazzi

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con disabilità e BES, sempre più all’attenzione degli studiosi. Bene fanno, quindi, le autrici a dedicare loro un intero capitolo. Durante la presa in carico del bambino con disturbo, suggeriscono Mazzoncini e Musatti, è fondamentale che si dia la possibilità alla sorella come al fratello di accostarsi e vivere nel modo più appropriato la patologia, di circoscriverla e financo di prenderne le giuste distanze, senza però escluderla, affinché possano rendersi autonomi ed avere i loro spazi esistenziali. Gli insegnanti, infine, rappresentano l’altro grande polo di riferimento. Mazzoncini e Musatti illustrano bene il momento in cui gli insegnanti sentono il bisogno di segnalare le problematiche di un loro allievo. Spesso sono i primi a cogliere i segnali di sofferenza a intercettare le discrepanze e a vedere disattese alcune tappe formali nello sviluppo e nell’apprendimento. Per tale ragione la funzione degli insegnanti (maestri o professori che siano) è particolarmente delicata. A loro spetta il compito di affinare l’attenzione, di mettere in atto una più accurata e approfondita conoscenza dei fenomeni oggetto della sua osservazione e analisi. Questo iter procedurale permette loro di affiancare i genitori e non spaventarli, di essere d’ausilio all’allievo nell’affrontare le sue difficoltà, da un lato e, dall’altro, di accompagnarli nelle diverse fasi che vanno dalla consultazione alla presa in carico. Di speciale rilevanza è anche la funzione inclusiva che l’insegnante è chiamato a svolgere con cura per far sì che l’allievo con disturbi di sviluppo non sia escluso dal gruppo dei pari. Ciò avviene nel quotidiano mediante la gestione funzionale delle dinamiche che si creano tra il bambino e il resto della classe nella pratica didattica, sia in relazione ai compiti di apprendimento sia in riferimento alla sfera socio-affettiva. In conclusione il volume I disturbi dello sviluppo, grazie all’abilità di Bruna Mazzoncini e di Lucilla Musatti nel proporre esempi efficaci e di facile comprensione, si offre al lettore come un eccellente strumento di supporto all’azione clinica ed educativo-didattica che vede coinvolti ogni giorno genitori, insegnanti, esperti, studiosi ecc... Se è vero, infatti, che la presenza di un disturbo dello sviluppo incide in modo significativo sugli equilibri familiari e scolastici è altrettanto palese come la presa in carico debba essere globale, sistematica e continuativa. Qualsiasi disturbo abbisogna di interventi terapeutico-riabilitativi ed educativi: non può esistere un buon lavoro clinico se ad esso non è strettamente legato un intervento da parte della scuola e del mondo educativo. D’altro canto, come ha più volte indicato un indiscusso maestro qual è stato Giovanni Bollea, la dimensione medicopsico-antropologica e la dimensione pedagogica non possano esistere senza coesistere.

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3. Recensione Daniele Fedeli, Il disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, Carocci, Roma, 2012, pp. 207 di Francesca Maria Corsi Con l’etichetta diagnostica ADHD si identifica un disturbo da deficit d’attenzione/iperattività descritto per la prima volta da G. F. Still nel 1902 che, tramite l’osservazione svolta su un gruppo di bambini, ha individuato «un deficit nel controllo morale […] e un’eccessiva vivacità e distruttività» (Still, 1902). La letteratura scientifica internazionale, prima di pervenire all’ultima descrizione nosografica appartenente al DSM-IV, attribuiva i comportamenti distruttivi, iperattivi e impulsivi, con disattenzione, a un carente sviluppo del controllo morale. Si conferiva, difatti, una notevole importanza all’aspetto motorio a scapito di quello cognitivo. Solo nel DSM-III il termine diagnostico per riferirsi all’ADHD si è tramutato da sindrome ipercinetica a disturbo da deficit d’attenzione, presupponendo un mutamento di lettura della sindrome a vantaggio degli aspetti cognitivi rispetto a quelli comportamentali (2013). Daniele Fedeli, ricercatore in Pedagogia Speciale e docente di Psicopatologia clinica presso l’Università degli Studi di Udine, svolge attività di ricerca nel campo dei problemi comportamentali in età evolutiva, dall’iperattività al bullismo, e tramite il volume preso ora in esame Il disturbo da deficit d’attenzione e iperattività intende far addentrare il lettore all’interno di un disturbo che rappresenta una delle condizioni maggiormente incidenti in età evolutiva. L’argomentazione dell’autore si apre con un quesito che sembra oggi assumere una particolare rilevanza in quanti operano nella scuola italiana: quanti bambini iperattivi quest’anno? La domanda, fa presagire che vi sia una significativa presenza del disturbo nelle nostre classi scolastiche e che siamo in presenza di una forte crescita del fenomeno tra la popolazione scolare. In realtà, come rivela Fedeli, il disturbo è sempre esistito ma è stato spesso confuso – ad esempio con l’estrema vivacità del bambino nei giochi come nelle attività didattiche – e per tale ragione sottovalutato sul piano diagnostico e sottostimato sul piano epidemiologico. Proprio per fare chiarezza sui tanti aspetti che concernono l’ADHD l’autore suddivide il testo in quattro capitoli e due appendici finali che hanno la qualità di affiancare alla teoria un approccio pratico, descrivendo situazioni reali di bambini con disturbo da deficit d’attenzione e iperattività, a casa come a scuola. La forza del libro sta nell’immaginare una tipica giornata scolastica di due bambini con ADHD, Dario e Simone, e fornire una serie di strategie utilizzabili nei diversi ambienti e nei successivi momenti dell’attività ludica e didattica. Il primo allievo viene descritto nel cortile della scuola nell’intento di accatastare alcune sedie una sopra l’altra per poterle, in seguito, scalare. Completata l’opera e messa in atto l’impresa Dario cade al suolo: ma questo non sembra preoccuparlo (l’autore ci informa che non è la prima volta che il ragazzino intraprende attività rischiose senza considerare le conseguenze). Simone, diversamente, ci appare come un bambino eternamente addormentato e perennemente distratto. Le lezioni non sembrano interessarlo e i richiami dell’insegnante non stimolano nessuna risposta da parte sua. Come mai due comportamenti all’apparenza così diversi possono essere ricollegabili a un unico disturbo?

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Daniele Fedeli, nel corso della sua analisi, sfata la tradizionale associazione dell’iperattività con comportamenti tesi sempre a un’irrequietezza motoria e verbale. Nel corso degli anni, studi sempre più approfonditi hanno dimostrato diverse tipologie di disturbo iperattivo caratterizzate da un deficit nell’attenzione, dalla difficoltà a utilizzare la memoria a breve termine, così come dalla difficoltà di prestare attenzione alle informazioni che vengono comunicate. Per comprendere meglio tale disturbo l’autore pone sotto la lente di ingrandimento tre sintomi principali appartenenti all’ADHD: l’iperattività, per cui il soggetto ha frequenti movimenti nervosi, è rumoroso nello svolgere attività ludiche, presenta un’eccessiva attività motoria che non viene modificata dal contesto o dalle richieste (Dario, ad esempio, gironzola tutto il tempo per la classe e anche quando è seduto muove mani e piedi); l’impulsività, ovvero il soggetto non riesce ad aspettare il proprio turno, nella fila come nel rispondere a delle domande, interrompe o si intromette in attività altrui, non lascia finire di parlare l’interlocutore, parla in modo logorroico e il più delle volte senza una logica; infine, la disattenzione, per cui il soggetto non presta attenzione ai compiti da svolgere, né a mantenerla nei compiti e nelle attività ludiche, non segue le istruzioni, perde spesso il materiale didattico. Daniele Fedeli, inoltre, evidenzia in modo altrettanto efficace le ulteriori possibili ricadute che si possono riscontrare in bambini con ADHD. Alcune ricerche mostrano come oltre il 50% di bambini e ragazzi con tale disturbo lamentino problemi di interazione sociale e di isolamento che determinano non solo conseguenze devastanti a livello di benessere socio-emozionale ma, anche, sulle loro effettive possibilità di apprendimento. In ragione di ciò il volume offre anche una serie di indicazioni pratiche e realmente fattive affinché le figure educative adulte mettano in atto strategie finalizzate a prevenire e a fronteggiare, il più possibile, le ulteriori manifestazioni dirompenti di rabbia che possono insorgere nel bambino o nel ragazzo con ADHD. La recente letteratura scientifica ha documentato, infatti, l’ampia sovrapposizione tra bullismo e disturbo da deficit d’attenzione e iperattività: sul piano relazionale, difatti, si sperimentano due fondamentali esiti problematici che vanno dall’isolamento alla comorbilità con disturbi della condotta. L’instaurarsi di condizioni altamente problematiche favorirebbero anche una costruzione identitaria assolutamente negativa per il soggetto vittima dell’isolamento, il quale, percependosi come totalmente incompetente sul piano sociale, tenderebbe ancora di più a evitare l’interazione con gli altri. In conclusione, il volume svolge una funzione chiarificatrice sull’ADHD, sgombrando il campo da molti schemi e preconcetti nei confronti di bambini percepiti come elementi disturbanti all’interno del gruppo classe, per giungere, attraverso l’analisi di problematiche insite nell’alunno, alla ricerca e alla messa a punto di buone prassi capaci di fornire risposte educative e didattiche efficaci.

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4. Recensione Francesco Susi, Educare senza escludere. Studi e ricerche sulla formazione, Armando, Roma, 2012, pp. 176 di Fabio Bocci A Roma, più precisamente nei pressi del rione Monti, c’è un luogo davvero suggestivo: la Libreria dei libri necessari. Sugli scaffali si trovano varie opere, di narrativa, saggistica, poesia, ecc... con alcune prime edizioni davvero preziose... Ebbene, il volume di Francesco Susi Educare senza escludere. Studi e ricerche sulla formazione, che qui recensiamo, a nostro avviso ha tutte le caratteristiche per essere annoverato tra i titoli che la libreria mette a disposizione dei lettori. Per almeno due ragioni che illustriamo brevemente qui di seguito. La prima ragione ha a che vedere con la datazione dei tre saggi che danno corpo al volume. Al lettore attento, infatti, non può sfuggire che i contributi presentati sono stati originariamente pubblicati tra la fine degli Anni Ottanta e i primi anni Novanta. Tale connotazione, tuttavia, lungi dall’essere un aspetto di criticità va a tutto vantaggio dell’autore e della sua argomentazione. Francesco Susi, in effetti, riprendendo le considerazioni svolte oltre venti anni orsono mostra (e dimostra) da un lato come si tratti di tematiche ancora oggi attualissime (addirittura cogenti) e, dall’altro, la capacità della riflessione pedagogica (quando è di qualità) di essere presente al proprio tempo (sincronica) e di assolvere una funzione profestica (diacronica). La seconda ragione ha invece a che fare direttamente con i contenuti e il modo con il quale Susi li affronta, permettendo al lettore di comprenderne il portato sul piano scientifico, culturale, sociale e politico (la dimensione che attraversa trasversalmente le prime tre fornendo loro la cornice di senso). Come detto in precedenza il volume si articola in tre saggi. Il primo ha per titolo Diamo corpo a un’utopia: l’educazione permanente. Il secondo si intitola: Per una teoria dei bisogni di formazione. Il terzo, infine, ha per titolo Organizzazione e formazione: processi storici e problemi teorici. Il caso del sindacato. Si tratta di una serie di accurate riflessioni che l’autore fonda sulla base di esperienze compiute direttamente sia nel suo costante e sistematico confrontarsi con studiosi italiani ed europei, sia nell’interfacciarsi con le istituzioni, con le associazioni e con le organizzazioni sindacali nel loro impegno rivolto alla formazione di lavoratori adulti, di giovani e di donne che presentano deboli livelli di istruzione. Sono due gli sfondi integratori che attraversano i tre saggi e che il lettore è bene tenga presenti per comprendere quanto Susi delinea nella sua argomentazione. Il primo sfondo concerne la prospettiva dalla quale l’autore analizza i fenomeni indagati: l’istruzione è un diritto soggettivo indisponibile e un bene in sé, una condizione necessaria per l’esercizio della piena cittadinanza. Il secondo sfondo integratore ha a che vedere con l’ipotesi che ha guidato e guida l’impegno di ricerca e di studio di Francesco Susi: coloro che hanno ricevuto scarsa istruzione da giovani difficilmente ne domandano da adulti, restando così fatalmente esclusi dalle offerte formative loro rivolte. Il problema (e la domanda che ne consegue), dunque, è quello/a di come formare questi adulti, di quali «dispositivi mettere in opera per corrispondere ai bisogni impliciti ed espliciti di donne e uomini che dispongono di una loro storia culturale e formativa, fatta sia di esperienze scolastiche sia di apprendimenti “naturali” nei contesti di vita e di lavoro». Un problema/domanda che «esige che si rifletta su cosa significhi un percorso formativo intenzionale di educazione degli adulti» (Susi, 2012, p. 7).

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Operazione, questa, alla quale Francesco Susi non si sottrae. Riprendendo e rilanciando il pensiero e l’opera del suo maestro Bertrand Schwartz (il titolo del volume di Susi è un chiaro riferimento al saggio di Schwartz Modernizzare senza escludere. Un progetto contro l’esclusione sociale e professionale, del quale lo stesso Susi ha curato con Saul Meghnagi l’edizione italiana per i tipi di Anicia del 1995) lo studioso prospetta una possibile e concreta via per fronteggiare quella che appare, ed è spesso presentata, come la tragica fatalità dell’esclusione – dettata, ovviamente, da una visione deterministica della natura umana, per la quale «si accettano le disuguaglianze come inevitabile e fatale risultato delle differenze personali» (p. 9) –. Una via di fronteggiamento che coincide per Susi con la possibilità di creare un legame tra formazione, esperienze di vita e di lavoro. Come rileva Massimiliano Fiorucci in un recente articolo dal titolo Accesso al sapere e diritto alla formazione come presupposti della democrazia apparso sulla rivista Pedagogia Oggi (2/2013) non si possono, infatti, «proporre ai soggetti in difficoltà unicamente attività formative che riproducono le stesse modalità che hanno concorso alla loro esclusione dal sistema formativo» (Fiorucci, 2013). Nella società della conoscenza – con tutte le luci e le ombre, le potenzialità e i rischi di cui si ammanta – lo sviluppo del sapere per Francesco Susi non può non partire dall’esperienza. Si tratta certamente di una constatazione, di un dato descrittivo, che però, come si evince dalla lettura dei tre saggi presenti nel volume, diviene/è altresì una concreta progettualità per l’azione educativa. Soprattutto per il suo farsi/essere fattore protettivo contro i rischi dell’esclusione sociale e come fattore propulsivo per la crescita «delle condizioni di democrazia per lo sviluppo delle forme possibili di convivenza civile» (Fiorucci, 2013). Sono questi temi che, ci sia concesso in conclusione, è possibile interconnettere oggi anche ad alcune questioni care alla Pedagogia Speciale e al dibattito sull’inclusione che vede coinvolti gli studiosi di questo modo di essere della Scienza dell’Educazione. Temi e questioni che qui richiamiamo solamente per evidenti esigenze di spazio: il progetto di vita, il modello bio-psico-sociale del funzionamento umano (che fa riferimento all’International Classification of Functioning dell’OMS), i Bisogni Educativi Speciali (BES) e, soprattutto, il capability approach, prospettiva che concepisce lo sviluppo delle persone (e dei sistemi sociali) come un processo di espansione delle capacità e delle opportunità (di ciascuno e di tutti), affinché ciascuno possa scegliere di vivere la vita a cui attribuisce valore e, in tal modo, perseguire e dare atto a una vita fiorente. In ultima analisi, riprendendo le parole e rilanciando il pensiero di Susi, una società realmente inclusiva, ossia equa, solidale e democratica, deve poter/saper garantire a tutti il diritto alla formazione per l’intero arco della vita, al fine di consentire a ciascuno e a tutti di «affrontare, con qualche speranza di successo, le difficoltà insite nei percorsi di inserimento nella vita sociale e lavorativa» (Susi, 2012, p. 10).

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