anno II | n. 1 | giugno 2014
Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)
anno II | n. 1 | giugno 2014
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I numero: Finito di Stampare nel mese di giugno 2014 Per l’invio dei contributi e per comunicazioni: sipesjournal@pensamultimedia.it / 06.57334093
Gli articoli pervenuti sono sottoposti a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendenti da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicati agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accettare ai fini della pubblicazione. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. In caso di giudizi fortemente contrastanti ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scientifico. Il Board, tuttavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noti nel primo numero dell'annata successiva.
Direttore responsabile
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pilar arnaiz sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) serenella besio (Università della Valle D’Aosta) roberta Caldin (Università di Bologna) andrea Canevaro (Università di Bologna) lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) lucio Cottini (Università di Udine) piero Crispiani (Università di Macerata) armando Curatola (Università di Messina) luigi d’alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) lucia De anna (Università del Foro Italico, Roma) anna maria favorini (Università Roma Tre) Carlo fratini (Università di Firenze) francesco Gatto (Università di Messina) maura Gelati (Università Milano Bicocca) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario ianes (Università di Bolzano) franco larocca (Università di Verona) michele mainardi (SUPSI, Svizzera) margherita merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) pilar orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) marisa pavone (Università di Torino) eric plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) béla pukánszky (University of Budapest, Ungheria) robert roche olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) marina santi (Università di Padova) Joel santos (Universidade de Lisboa) maurizio sibilio (Università di Salerno) Darja Zorc-maver (University of Ljubljana, Slovenia) boarD
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ELENCO REFEREE N. 1/2013 Alessandro Bortolotti Elena Bortolotti Maria Teresa Cairo Mauro Carboni Piero Crispiani Anna Maria Favorini Carlo Fratini Elisabetta Ghedin Filippo Gomez Paloma Alain Goussot Dario Ianes Elena Marescotti Antonello Mura Pier Giuseppe Rossi Massimiliano Stramaglia Tamara Zappaterra N. 2/2013 Laura Arcangeli Giombattista Amenta Andrea Canevaro Marco Catarci Lucia Chiappetta Cajola Anna Maria Curatola Armando Curatola Luigi D’alonzo Heidrun Demo Anna Maria Favorini Antonella Galanti Francesco Gatto Catia Giaconi Daniela Olmetti Peja Elena Zanfroni Stefano Zucca
indice /summary
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Editoriale / LUIGI D’ALONZO
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ROBERTO ROCHE OLIVAR, PILAR ESCOTORIN SOZA comunicación prosocial en familias e hijos con discapacidad
I. RIflEssIonE tEoRIca
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KATALIN ANDREA GERGELY, RENATA LAKOS the Role of the General Practitioner in Diagnosing and treating Dyslexia, Dysgraphia and Dyscalculia
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TOMMASO FRATINI nuove considerazioni per una collaborazione tra psicoanalisi e pedagogia speciale: linee generali e traiettorie di ricerca
II. REvIsIonE sIstEmatIca 53
ANDREA FIORUCCI Gli atteggiamenti degli insegnanti verso l’inclusione e la disabilità: uno sguardo internazionale III. EsItI DI RIcERca
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CHRIS FORLIN, CHRIS EARLE, TIM LOREMAN, UMESH SHARMA Traduzione a cura STEFANIA PINNELLI la scala rivista delle opinioni, degli atteggiamenti e delle Preoccupazioni sulla formazione inclusiva (sacIE-R) per la misurazione delle percezioni degli insegnanti tirocinanti circa l’inclusione
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SAMI BASHA first national Public opinion survey: Palestinians Knowledge and Understanding of autism, 2014
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ANGELA DE PIANO, GIOVANNI GANINO audiodescrizione e didattica multimediale in ambito umanistico per studenti universitari con disabilità visive
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MARINA CHIARO Inclusive education practices. The teacher training
NADIA CARLOMAGNO, CARMEN PALUMBO, MAURIZIO SIBILIO Traiettorie non lineari della ricerca didattica: le potenzialità metaforiche ed inclusive delle corporeità didattiche IV. ALTrI TemI
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FABIO BOCCI, FEDERICA FRANCESCHELLI raccontarsi nella Scuola dell’Infanzia. Per una pedagogia della narrazione fra testimonianza di sé e sviluppo dell’identità
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NICOLETTA ROSATI LD-Coordinator: the new role for dealing with students with learning disorders
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ALESSANDRO BORTOLOTTI Organizzare l’inclusione. Un percorso formativo “in-service” finalizzato al miglioramento dei processi educativi
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MABEL GIRALDO ri-conciliazione. Dalle ferite all’abbraccio. L’esperienza di Little Eden in Sudafrica
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recensioni Matteo Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma 2012, pp. 255, di LUCIA CAPPELLI
Colectivo Ioé, Discapacidades e inclusión social, Edición Obra Social “la Caixa”, Barcelona 2012, pp. 210, di CONSUELO FILIPPI
Giancarlo Rigon, Giovanni Mengoli, Cercare un futuro lontano da casa. Storie di minori stranieri non accompagnati, Dehoniane, Bologna 2013, pp. 120, di GIUSI ZAMARRA
Recensione del testo di Tamara Zappaterra, La lettura non è un ostacolo. Scuola e Dsa, ETS, Pisa 2012, di CHIARA GASPERINI
Editoriale /
Parlare di inclusione, di diritti delle persone disabili, di doveri della società nei confronti dei più deboli sembra al giorno d’oggi proprio fuori luogo. in italia stiamo vivendo una crisi profonda, non solo dal punto di vista economico ma anche sociale, culturale e valoriale; le aziende chiudono, la disoccupazione aumenta, le famiglie stentano a sopportare gli inevitabili contraccolpi di una Precarietà sociale diffusa, i giovani faticano a trovare posto nel mondo produttivo e quando riescono ad ottenerlo la stabilità e la sicurezza del lavoro sono sempre più delle chimere. Proprio perché la situazione sociale ed economica è estremamente grave e le urgenze sembrano “altre” parlare di attenzioni e di politiche educative nei confronti dei soggetti con deficit non parrebbe opportuno. A nostro avviso, tuttavia, occorre discutere, è doveroso far presente che i disabili non sono “figli di un dio minore”, ma sono persone che possono offrire il loro contributo alla società e che, come chiunque altro, hanno bisogni da soddisfare. È indispensabile che il nostro Paese, anche in un’epoca difficile come quella che stiamo vivendo, riesca a riflettere sulle proprie scelte di civiltà, le stesse che lo connotano e che, assieme alle bellezze artistiche, culturali, naturali e alla storia gloriosa attirano l’ammirazione e l’interesse del Mondo intero. L’italia declinando quelle scelte in decisioni coraggiose, si è distinta nel panorama mondiale e ha assunto un ruolo di guida soprattutto sul piano sociale inclusivo. nessun Paese al mondo, infatti, negli anni settanta decise risolutamente di rispettare la dignità della persona con disabilità permettendole di vivere il proprio percorso educativo all’interno delle scuole di tutti; questa decisione, così rivoluzionaria, in quanto sconvolse le tradizionali modalità di accoglienza della persona con problemi nella società, permise al nostro Paese di iniziare un cammino di riconoscimento totale dei diritti dell’uomo, di ogni uomo, anche di quella umanità che da sempre era stata emarginata e sottomessa a condizioni di vita che ora con sofferenza ricordiamo per le loro brutalità e per la loro inumanità. il seme innovativo della scelta che oggi si preferisce aggettivare come inclusiva, ma che fino a poco tempo fa si definiva “integrativa”, fecondò in modo marcato la scuola, produsse un cambiamento radicale nel modo di approcciarsi alle “diversità”, generò un’innovazione nelle metodologie di sostegno alle persone con problemi, procurò un sostanziale mutamento nelle politiche sociali, assistenziali e sanitarie degli anni ottanta e novanta tale da portare una sostanziale sicurezza di vita a tutti i cittadini italiani e generare ottimismo e positività per il futuro. La storia del lungo cammino di riconoscimento dei diritti dei disabili nella società e le esperienze diffuse oramai in tutto il mondo ci offrono questa: quando si accoglie una persona con disabilità, un soggetto “diverso”, quando si rispetta e si offre dignitá a colui che presenta problemi, inevitabilmente si cresce come uomini e come cittadini. La presenza del disabile, le sue difficoltà più o meno marcate, più o meno visibili, la sua limitazione fisica, psichica o sensoriale costringono il contesto sociale accogliente a prendere coscienza dei doveri
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che ogni uomo ha nei confronti dell’altro, il quale diventa, con i suoi problemi, un “promotore” di attenzioni che costringe il gruppo sociale a maturare risposte di valore in grado di promuovere positivamente la vita civile di tutti e di progredire sul piano culturale, civile, etico e morale. Abbattere le barriere architettoniche, costruire scivoli idonei, ascensori capienti, porte scorrevoli, strade e percorsi sicuri e privi di impedimenti per la persona con disabilità fisica significa costruire un mondo migliore per tutti, anche per chi non presenta bisogni specifici, anche per la giovane signora che spinge il proprio bambino nel passeggino, anche per il nonno che sempre più ha difficoltà a salire scale o a superare gli ostacoli. Progettare una città a misura di tutti, ad esempio, anche per coloro che hanno deficit sensoriali, significa dare impulso ai servizi dedicati al cittadino utilizzabili da ogni persona: l’ avviso acustico al semaforo che indica il segnale verde per il cieco non è utile solo al non vedente, ma a chiunque, i percorsi tattili stradali o sui marciapiedi che consentono alle persone con deficit visivi piena autonomia per gli spostamenti in luoghi pubblici senza l’ausilio di assistenza, sono importanti per ogni cittadino, anche per i più piccoli. Questa prospettiva permette di guardare ai disabili non come un peso per la società, ma come una risorsa: la persona che presenta limitazioni fisiche, sensoriali o psichiche non è un freno al progresso sociale e civile di un Paese, ma può rappresentare un’energia a sua disposizione per promuovere innovazione in tutti i campi, dal sociale al produttivo, dal formativo al culturale. La vita, d’altronde, non migliora senza il superamento degli ostacoli: per imparare ad interagire con il mondo, l’uomo fin dalla sua nascita ha necessità di superare barriere, difficoltà, frustrazioni e in questa continua dialettica con la realtà è costretto a difendersi, ma anche ad affrontare le contrarietà del vivere quotidiano, dapprima nel rapporto con la madre e la sua famiglia e poi con il resto dell’umanità. Ogni persona è chiamata a prendere posizione di fronte agli avvenimenti della sua esistenza, a costruire la propria vita con le sue autonome scelte, a riempirla di valori idonei a guidare il suo cammino nel mondo, a scegliere o a rifiutare le molteplici opzioni che il mondo propone. Ogni singolo individuo ha il diritto di dare significato e contenuto alla propria esistenza, può addirittura respingere il suo bene, rinnegare perfino la sua umanità e dignità. Questo perché il dono della libertà che l’uomo possiede offre alla sua esistenza una dignità infinita: il diritto di rifiutare il proprio destino, è essenziale all’esercizio della libertà. Non è uno scandalo: l’assenza di questo diritto distruggerebbe l’uomo. Una conseguenza si evidenzia immediatamente, ossia che l’uomo non è libero di mettere in atto ogni suo volere, in quanto, nello sforzo di attuare compiutamente la sua umanità, ha bisogno degli altri, ha necessità di vivere in un ambiente sociale e culturale che lo accompagni nel suo sviluppo; di per sé questa crescita risulta condizionata, non può essere disinvolta fioritura di impulsi. Tutto non è possibile, e tutto non è possibile in ogni momento. Questi limiti, quando non siano troppo angusti, costituiscono una forza, giacché la libertà, come il corpo, non progredisce se non attraverso l’ostacolo, la scelta, il sacrificio. Questo se è vero per lo sviluppo dell’uomo e di ogni contesto sociale che evolve e matura solamente se riesce a superare con capacità le barriere più o meno evidenti imposte dalla realtà ambientale e civile. La crisi economica è molto preoccupante. I tagli alla spesa pubblica sono stati notevoli e le conseguenze negative non si sono fatte attendere soprattutto nei Editoriale
confronti dei disabili. Sappiamo che il sistema sociale, il welfare italiano, mentre è particolarmente attivo sul piano pensionistico e sanitario, stenta a decollare sul piano della tutela per coloro che non hanno lavoro e vivono problematiche importanti capaci di limitare la loro capacità di inserimento sociale. Come Società Italiana di Pedagogia Speciale siamo fortemente impegnati a mettere in luce i rischi di un’azione politica che non rispetti i diritti dei più deboli. D’Altronde gli scopi della SiPeS sono molto precisi:
• promuovere la ricerca nel campo della pedagogia speciale e diffonderne i risultati; • valorizzare le buone prassi educative, didattiche e formative che favoriscono il pieno sviluppo e i processi d’integrazione e di educazione inclusiva delle persone con bisogni educativi speciali; • favorire lo sviluppo dei rapporti tra i cultori, i professionisti e le associazioni che operano nel settore della pedagogia speciale in campo universitario, scolastico ed extrascolastico; • sollecitare i responsabili politici e istituzionali, il mondo culturale e la società civile a prendere coscienza dei bisogni delle persone con esigenze educative speciali e assumere decisioni conseguenti.
Le conquiste effettuate in questi anni, la presenza di soggetti con deficit a scuola, il diritto all’inclusione come valore oramai condiviso, i servizi esistenti sul territorio, l’apertura del mondo del lavoro ai disabili, devono rappresentare una base fondamentale per ulteriori conquiste civili e sociali, che noi vediamo correlata alla competenza e alla professionalità di coloro che si occupano del bene comune, che lavorano in posti di responsabilità sociale ed educativa.
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LUIGI D’ALONZO
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Nell’assemblea dei soci della SIPeS del 13 Giugno 2014, svoltasi presso l’Università Cattolica di Milano, è stato eletto il nuovo Direttivo della Società per il triennio 2014-2017, così composto: Prof. Lucio Cottini, Università di Udine Prof.ssa Marisa Pavone, Università di Torino Prof.ssa Marina Santi, Università di Padova Prof. Fabio Bocci, Università di Roma Tre Prof. Pasquale Moliterni, Università Roma Quattro Dott.ssa Annalisa Morganti, Università di Perugia Dott.ssa Tamara Zappaterra, Università di Firenze
Nella prima riunione del Direttivo il Prof. Lucio Cottini è stato eletto nuovo Presidente della SIPeS.
Le dottoresse Annalisa Morganti e Tamara Zappaterra hanno assunto la funzione di segreteria e tesoreria Il nuovo Direttivo subentra a quello uscente composto da:
Prof. Luigi d’Alonzo, Università Cattolica di Milano (Presidente) Prof. Francesco Gatto, Università di Messina (Vicepresidente) Prof.ssa Roberta Caldin, Università di Bologna (Segretaria e Tesoriera) Prof. Fabio Bocci, Università di Roma Tre Dott. Angelo Lascioli, Università di Verona
L’assemblea dei soci ha espresso i migliori auguri di buon lavoro al nuovo Direttivo e ha ringraziato il Direttivo uscente per il lavoro svolto nel triennio 2011-2014.
Il giorno 24 Luglio 2014 è venuto a mancare Francesco Gatto, Professore Ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale dell’Università di Messina. Socio fondatore sella SIPeS, di cui è stato Vicepresidente, ha ricoperto numerosi incarichi istituzionali presso la sua Università (quali quello di Prorettore) e all’interno di enti scientifici (è stato vicepresidente della SIPED, Società Italiana di Pedagogia). La SIPeS lo ricorda nella pagina che segue con un breve ritratto della figlia, Dottoressa Simona Gatto, socia SIPeS.
Ricordo di mio padre Simona Gatto
Ho accolto con piacere l’opportunità che mi è stata fornita, pur consapevole della difficoltà di esternare emozioni e sentimenti, perché ritengo fondamentale che il ricordo di mio padre rimanga vivo in coloro che lo hanno conosciuto e apprezzato per le sue doti umane e professionali. La perdita di un genitore lascia un vuoto incolmabile. Per me non è stato soltanto un padre amorevole e comprensivo ma anche un mentore che mi ha trasmesso l’amore per La Pedagogia Speciale e per tutte le tematiche ad essa affini. In questo momento se penso a lui mi viene in mente la persona che pur sofferente è riuscita a seguire telefonicamente i lavori dell’ultimo convegno della SIPeS di giugno 2014; la persona impegnata nel sociale, che si interessava delle necessità di tutte le persone disabili e lottava con tutte le armi a sua disposizione per appianare ingiustizie e disparità. Mio padre era una persona meravigliosa sempre con il sorriso sulle labbra, intelligente, ironico attento alle necessità non solo di noi familiari ma anche degli studenti che tanto amava. Ricordo con quanto interesse ascoltava i racconti che la mamma faceva dei sui casi scolastici, delle strategie che utilizzava per i suoi alunni e da tutto traeva spunto per le sue attività di ricerca. La grave malattia che lo ha colpito ne ha minato il fisico ma non lo spirito e nemmeno la sua passione per l’insegnamento e per il contatto con i giovani che in lui hanno sempre trovato un insegnante capace di ascoltare e di cogliere segnali di disagio anche se appena percettibili. In famiglia era ironico, amorevole, sempre con la battuta pronta e con il sorriso sulle labbra, pronto a sdrammatizzare le situazioni più critiche che inevitabilmente si presentavano nella quotidianità. L’impegno che ha profuso nell’attività accademica e di ricerca lo ha messo anche nella strenua lotta contro il male che lo ha aggredito; si è sottoposto, infatti, a molte terapie con l’ottimismo esistenziale che ha caratterizzato la sua vita. Sono molti i valori e le passioni che mi ha trasmesso e negli ultimi mesi mi ha fatto capire che anche la sofferenza più grande può tramutarsi in un’opportunità di crescita personale e professionale. Per me è stato ed è un esempio da seguire. Colgo l’occasione per ringraziare il presidente della SIPeS, Professore Lucio Cottini, e la Professoressa Roberta Caldin che mi hanno concesso e regalato l’opportunità di ricordare mio padre non soltanto come professionista appassionato ma anche come uomo e come Padre. anno II | n. 1 | 2014
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Comunicación prosocial en familias e hijos con discapacidad
Key-words: Prosociality, Prosocial behaviour, Interpersonal competences, Prosocial ommunication, integration, Parental practices.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
On the term and concept of “prosocial” a remarkable range of topics is being investigated. On the contrary, about prosociality in form of communicative interpersonal interaction (prosocial communication), the bibliography is less abundant, although there is consensus in that prosocial communication favours well-being, it improves the quality of life, integration, it prevents and repairs violence and it is a protective factor of a good relationship among the actors of any system. The present article addresses the principles that make prosocial communication and prosociality operative regarding the culture of families with handicapped children. It is based on a previous and exhaustive bibliographical revision of prosocial communication, and it proposes a model that articulates a list of principles and strategies, fruit of the experience accumulated through the programs of intervention of the group LIPA of Autonomous University of Barcelona during more than 30 years of applied investigation.
abstract
Roberto Roche Olivar / Universitat Autònoma de Barcelona/ Robert.Roche@uab.es Pilar Escotorin Soza / Universitat Autònoma de Barcelona/ Pilar.Escotorin@uab.cat
I. Riflessione teorica
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Mientras la opinión pública y los avances científicos parecen tener cada vez más información actualizada y relevante respecto a la necesidad de avanzar en la consolidación de sistemas de convivencia, educativos, sociales más inclusivos e integradores de los niños que tienen algún grado de discapacidad, las familias que viven la realidad de acompañar a sus hijos en los procesos de integración, no siempre cuentan con herramientas, metodologías sostenibles que faciliten el proceso de desarrollo e integración del hijo o hija, en sus sistemas de referencia.
¿Cómo garantizar la identidad, la creatividad, del hijo con discapacidad, para facilitar su autonomía y autoestima? ¿Cómo conciliar las necesidades de este hijo o hija con los espacios personales, la vida de pareja o la atención equilibrada hacia los otros hijos? Con el tiempo, los estudios sobre los comportamientos prosociales han alcanzado un lugar no solo en el ámbito de la psicología, sino también en el de otras ciencias; son unas 45 las disciplinas o áreas disciplinarias que desarrollan investigaciones sobre este tema.
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En un estudio precedente (Escotorin, 2013) se realizó una búsqueda contrastada sobre Comunicación Prosocial en todos los buscadores científicos y divulgativos, y pese al gran consenso reflejado en la bibliografía respecto a los beneficios de la Comuniccaión Prosocial para los sistemas de convivencia, tales como: social support, intimacy, positive affect, relational satisfaction (Kinney y Pörhöla (ed.) (2009), no es del todo claro cómo operativizar estos cambios en los sistemas: cómo usar la comunicación para producir estas mejoras en el bienestar de los individuos, las relaciones en todos los niveles interpersonal, grupal, social (Giles y Speer (2009). La propuesta de adecuación de investigaciones precedentes (Escotorin 2013) y la experiencia de intervención del grupo LIPA (Escotorin, 2008; Roche y Arozarena, 1988; Roche y Martínez-Fernández, 2006; Roche, 2012; 2010; 2006; 2004; 2002; 1999; 1997; 1996a; 1996b; 1982; Escotorin y Roche, 2011; Roche et al. 1997; Roche y Sol, 1998; Roche y Arozarena, 1997; Roche, Salfi y Barbara, 1991) respecto a la aplicación de la Comunicación Prosocial en familias con hijos con discapacidad (Roche y Arozarena, 1997) es el principal desafío del presente artículo. A través de la transferencia de conocimiento en el transcurso de algunos proyectos desarrollados (Escotorin, 2013; Escotorin, 2008; Roche, 1994, 1997, 2006; Roche y Arozarena, 1988; Roche y Martínez-Fernández, 2006), LIPA ha demostrado que la promoción de una Comunicación de calidad Prosocial a través de espacios formativos y con metodología especializada, incide directamente en la satisfacción, éxito o ajuste de las relaciones interpersonales y también dentro de las organizaciones (Roche, 2010; Escotorin y Roche, 2011) Una primera conclusión que se extrae de estos trabajos precedentes, es que una vía segura para garantizar la creatividad, identidad y autoestima de un hijo con discapacidad (Roche y Arozarena, 1997; Roche, 1982), es necesario aplicar la prosocialidad en la familia como un sistema, ampliar la mirada y dejar de mirar exclusivamente al hijo que tiene una necesidad específica. Es necesario reconocer en la base tres elementos:
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
1. La familia, como ambiente de vida. 2. La conquista permanente de la satisfacción personal respecto a la propia vida. 3. Cultivar la comunicación prosocial en la familia.
1. La Familia ambiente de vida
La familia es un sistema que debe permitir y facilitar el crecimiento, la maduración, la atención, el desarrollo óptimo de cada miembro y no sólo el de las personas con discapacidad. Entre las necesidades del niño, podemos identificar mejor la importancia crucial de las de carácter psicológico: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Protección psicológica (no sólo el techo y la casa) Nutrición psíquica, (no sólo física), que significa formación, y afecto. Identificar y procesar sentimientos Estabilidad y seguridad emocional Elaboración de la autoimagen Autoestima Producción de significado Creatividad y espontaneidad Comunicación enriquecedora
En la construcción de la personalidad, la comunicación es el factor clave para el desarrollo del autoestima. Junto con la función denotativa del acto comunicativo, hay una función connotativa, que siempre atribuye una calificación al otro, al Yo y a la propia relación. Podemos simplificar diciendo que todos nosotros nos influimos recíprocamente en el desarrollo de nuestros juicios sobre nosotros mismos. Todos somos responsables del autoestima de las personas con las que establecemos una relación. En cada relación, toda comunicación es una oportunidad para consolidar o mejorar o mantener un determinado nivel, inicialmente más superficial, de bienestar, satisfacción o buen humor en el otro, que luego afecta gradualmente en el nivel de profundidad y establecimiento del Autoestima.
Vemos, entonces, que cuando nos queremos centrar realmente en el crecimiento de una persona, debemos confiar necesariamente en la comunicación, y que una de las tareas más importantes de los miembros de la familia, especialmente de los padres hacia los hijos, es el modelado y ejercicio de una comunicación verdadera y auténtica.
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RobERTo RoChE oLIVAR, PILAR EsCoToRIN sozA
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2. Satisfacción con la propia vida
Identificamos cuatro elementos facilitadores de una optimización de la propia felicidad:
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a. Búsqueda del significado personal Buscar un espacio para dar significado a nuestra vida. Reflexión, meditación u oración. Este espacio de reflexión debería orientarse a integrar, unificar en la propia interioridad el sentido, significado y coherencia de nuestra persona. b. Reconocer la propia dignidad y la de los demás tratar de conquistar la atribución de este valor de reconocer la legitimidad de cada interlocutor, a todas las personas que se encuentran. Lógicamente, a cada uno de los hijos y especialmente al hijo que tiene alguna discapacidad. Sin embargo, esta atribución, en el espacio existencial y puntual del encuentro con cada persona, se concreta en la dedicación de atención plena en el tiempo disponible para cada uno, sin que esto quite atención a otras personas, sean hijos, o personas externas a la familia. c. Descubrir las motivaciones y las relaciones negativas Será conveniente dedicar un tiempo y un lugar para hablar sin restricciones y tratar de abordar posibles sentimientos de culpa. El mero hecho de hablar, conscientes de la normalidad de lo que implica experimentar estos sentimientos, será muy relajante. d. Actuar en “tres tiempos” El tiempo para sí mismo (ya mencionado), el tiempo para la relación a dos, y el tiempo para la familia. Esta regla nos ayuda a no olvidar la relación con algún otro hijo o simplemente con la pareja.
3. Comunicación de Calidad Prosocial
Una comunicación interpersonal con “calidad prosocial”, implica un esfuerzo voluntario de procurar “conectar” con el interlocutor (Escotorin, 2013). El modelo de Comunicación Prosocial (Roche, 1994, 1996, 1997, 2006; Roche y Arozarena, 1988; Roche y Martínez-Fernández, 2006; Escotorin, 2013) está siendo investigado en diversos contextos para identificar cuáles serían las dimensiones básicas que construirían un modelo articulador. 3.1 Aplicación
Pasando a una parte concreta y práctica en este estudio se ofrece a continuación una guía para la optimización de las relaciones intra-familiares, mediante la puesta en práctica de una comunicación de calidad prosocial según los puntos el modelo presentado y especialmente pensada para familias donde hay hijos con alguna discapacidad. Así proponemos un listado, redactado en formato de “autoaplicación” para familias, con una serie de principios categorizados en tres ámbitos: principios previos, de proceso y de contenidos. I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Comunicarse con calidad prosocial implica tomar en cuenta:
Principios Previos – Antes de comenzar. La apertura al otro a través de la sonrisa y el saludo amable y alegre. Un ejercicio voluntario de escucha, la disposición previa a agradecer (siempre hay motivos para el agradecimiento recíproco), y la utilización de la pregunta inteligente como un indicador para el otro de nuestra voluntad de intercambio, nuestro interés, desinteresado, por sus cosas. La pregunta funciona como un amplificador de señal, lo que indica que la otra parte puede continuar, que está siendo acogido. – Disponibilidad. Se trata de una actitud positiva habitual a esta aceptación de la interacción, y que en el modelo que hemos mencionado se define operacionalmente como: El destinatario debe caracterizarse por una frecuencia en dejar su propia actividad para atender al emisor. – Capacidad de adaptación y oportunidad del iniciador. Implica observar que el estado de ánimo de los interlocutores, el contexto ambiental, sean adecuados al contenido de la comunicación en marcha y que la actividad de quien es interpelado, no sea incompatible con el tema de comunicación. Principios propios del Proceso – Vivir el momento presente y hacer un ejercicio de vacío para escuchar. Liberarse de los contenidos y emociones inmediatamente anteriores al proceso actual. Vivir en el momento presente con la plenitud que significa centrarse en el aquí y ahora de la comunicación. – Desapego. A veces, pareciera que toda nuestra atención se centra sólo en el hijo que tiene discapacidad. No debería serlo en absoluto. Busquemos tener el desapego suficiente de esos pensamientos o sentimientos que nos preocupan. Tenemos que aprender. Al principio, es más difícil. Tenemos que ser capaces de concentrarnos bien en el momento presente de la relación con otras personas y concentrarnos en vivir la calidad prosocial del intercambio con todas las personas que vamos encontrando. En el caso de un hijo o hija con discapacidad, significa no centrarse tanto en él o ella de manera que se impida cualquier otro tipo de relación. Todas las personas que conocemos y vamos encontrando tienen el derecho de tener nuestra recepción y acogida en lo máximo posible (un 100% si fuera posible) lo que no significa dejar de cuidar al hijo o a la hija. A veces algunos padres siempre “echan agua a su molino” es decir casi sin escuchar al interlocutor, sacan o vuelven la conversación a su tema, al que les preocupa. – Empatía. Intentar comprender según las coordenadas conceptuales del interlocutor y de sentir en modo similar sus emociones. Esto implica, en modo operativo, dar respuestas de feedback adecuados. Tener en cuenta los intereses del otro y no tanto los personales. Usar la pregunta para indicar el propio deseo de conexión con los deseos del otro para profundizar y responderlos. El desarrollo de la empatía se puede considerar como la única vía y la garantía para avanzar hacia la reciprocidad auténtica. La actitud empática sobre todo, genera confianza en el receptor si se aplica sostenida por acciones prosociales precedentes, pues además tiende a generar acciones prosociales consecuentes.
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En la aplicación concreta con los hijos que no tienen discapacidad, es necesario, empatizar con sus sentimientos, poniéndose en su lugar, acogiéndoles, comprendiéndoles plenamente, así ellos aprenderán a aceptar a los demás también en aquello que se percibe como negativo, como consecuencia de este modo de actuar de los propios padres. Así, la familia surge como escuela de vida social. Los estudiosos están atribuyendo mucha importancia al estilo de gestión que tienen los padres respecto a las relaciones, nos siempre fácil, entre hermanos. Sería predictivo del éxito de éstos en sus relaciones en la vida adulta. – Confirmación del otro. Reconocer al otro como persona, como digno de estima. Reconocerlo como fuente de comunicación, información y digno de atención e interés. Esto se transmite a través de los elementos connotativos de las palabras, formas y tonos. No caer en la tentación de pensar: ¿qué me va a decir de nuevo este tipo? De hecho, en este punto se juega fuertemente un balance y equilibrio en las relaciones de poder. El experto debe hacer un esfuerzo de humildad para considerar a los demás y crear horizontalidad. El reconocimiento debe ser auténtico, genuino en relación con los propios valores ya mencionados, no como causa de una estrategia para lograr una mayor funcionalidad o manipulación. – Valoración Positiva. En las relaciones, las personas deben expresar su agradecimiento y consideración respecto al comportamiento y el rendimiento de los interlocutores, De manera positiva global, hecho que implica: - valorar el contenido y el mismo proceso de la comunicación en curso, - como también llegar a atribuir positivamente las actitudes y comportamientos positivos posibles o probables del otro. En las relaciones padres-hijos, esta atribución se convierte en indispensable. A nivel psicológico se demuestra que la mejor manera de dar lugar a una habilidad, un rasgo, una actitud, o un comportamiento del otro es creer y confiar en la posibilidad y la probabilidad de su cumplimiento. Por ello es necesario dar prioridad al reconocimiento de lo positivo por sobre los aspectos negativos. Estos últimos deben ser evidenciados en momentos muy especiales y delimitados.
En la familia, es importante asegurarse de que todos los miembros sean capaces de percibir, descifrar y difundir los hechos, las conductas de los demás, desde un punto de vista positivo. La negatividad que existe, que es real, debe tenerse en cuenta, en un proceso de optimización personal intrapsíquico. Con el hijo o hija con discapacidad. Es central la educación sobre los hábitos y comportamientos de relaciones sociales. Es importante cuidar su imagen física, la apariencia física, la vestimenta. Con los otros hijos. Relación entre hermanos. Debemos ser conscientes del riesgo de un desequilibrio en la expresión de afecto a cada miembro de la familia. Escucha y emisión de calidad. Determinación de adoptar actitudes y comportamientos de escucha completa hasta el punto de “ganarle al otro” en escuchar, preferir ser el primero en ejercer este tipo de escucha. Este punto tiene una gran carga terapéutica, y es una práctica propia de los especialistas, no obstante, todos tenemos esta capacidad de cuidar al otro. I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
La escucha de calidad implica un contacto visual notable, dinámica de la expresión facial en armonía con el tono y el contenido, acogida a través de la posición y orientación del cuerpo, ausencia de movimientos ansiosos, distancia adecuada.
Principios relativos a los contenidos – Apertura y revelación de sentimientos. Expresión frecuente de sentimientos de satisfacción, gratitud y buenos deseos. Expresión confiada pero no frecuente de sentimientos negativos, desánimo o disgusto, referente a contenidos que no implican al interlocutor. Expresión muy cautelosa y sólo en momentos oportunos de sentimientos negativos de desagrado e irritación relativos a comportamientos del interlocutor. Evitación de reproches sobre la marcha. Esta dimensión de la comunicación de calidad es de especial importancia para las relaciones familiares, dado que los elementos emotivos y sentimientos están saturados de referencias personalizantes que hacen más propia, privada y exclusiva la intercomunicación. – Decisión y resolución de problemas. La discapacidad produce la aparición de problemas diversos, sea de la persona que tiene el handicap, como también para la familia. Y estos problemas requieren una permanente toma de decisiones y procesos de negociación. - Dificultad en la negociación. La toma de decisiones no sólo implican cumplir las “leyes” de elegir siempre una de las alternativas, sino un proceso de acuerdo entre los padres, un equilibrio entre autoridad y horizontalidad. Distribuir las tareas domésticas en casa. Participar en las decisiones. Evitar la agresividad y controlar las propias emociones. - Prosocialidad interpersonal. Se trata de poner en marcha acciones concretas de cooperación, ayuda, consuelo y compartir. Ocuparse y cuidar a los otros. Procurar amistad. Generar presencia positiva y unidad. - Prosocialidad social. Ésta es muy importante, incluso desde una perspectiva de salud mental. Implica dedicación de tiempo personal y si es posible, de los recursos para la cooperación y la solidaridad social. En el ámbito de la discapacidad, puede significar, por ejemplo, contribuir a mejorar el propio entorno, más sensible respecto a la problemática de la discapacidad. La experiencia de tener un hijo o una hija con dificultades especiales, enseña a los padres a tener comportamientos muy activos respecto al cuidado, al hacerse responsables y éstas son habilidades muy funcionales en el ámbito social, también con otras personas. – Normalización e integración en la sociedad. No podemos hacer pesar sobre otros las propias dificultades. Es aquí donde puede cobrar sentido una actitud de “sonreir siempre a todos” y no mirar a los demás con una actitud de interpelación permanente o crítica silenciosa. No todas las personas saben como relacionarse con nuestro hijo o hija que tiene discapacidad, o con nosotros mismos. Muchas veces son los propios padres o madres la causa de la dificultad de integración, pues por una parte muestran que necesitan ayuda y como contraposición, se rechaza la misma, ya que se califica este acto como compasión. anno II | n. 1 | 2014
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– Relación con otros padres con hijos con discapacidad. Ayudarles sólo si ellos lo solicitan y hacerlo con delicadeza. – Comunidad de familias voluntarias. En los casos menos graves, es bueno que otras familias de la comunidad compartan el cuidado de los niños con discapacidad. Para hacerles más sensibles a compartir la relación con la persona que tiene discapacidad, se les puede por ejemplo, invitar una jornada a casa. – Espacios y tiempos de libertad. Es de vital importancia para la salud de los padres, cultivar la creatividad, la iniciativa, el intercambio con otras personas. Todos estos, deben ser momentos gratos. En la pareja, como indicación especial, es importante cultivar el ocio y no sólo consagrarse al hijo o hija. En concreto: Introducir pequeños cambios en la cotidianeidad y disponer de un par de espacios personales o de pareja en la semana, como mínimo, para ejercer las propias aficiones, sean culturales o deportivas o sencillamente encontrarse la pareja. – El dolor y el sufrimiento. Hay casos en los que una familia no logra gestionar la dificultad, porque es una carga demasiado pesada (por ejemplo, en casos de personas con discapacidades severas). En estos casos, la sociedad debería dar un apoyo mayor. Hay una diferencia entre el dolor moral y el dolor físico. Una de las causas del dolor moral también puede venir de las representaciones sociales transmitidas a través del colectivo de pertenencia. La discapacidad del hijo produce una implicación psicológica. Un ejemplo sería el llamado “mito de la sangre”, que es la proyección de la autoimagen propia en el hijo, y en este caso, la frustración de las expectativas truncadas. – Aceptar lo negativo. La dificultad, el problema, el conflicto, la incomprensión, el mal humor, la agitación, angustia, decepción, desilusión, dudas, frustraciones, la enfermedad, el mal carácter, existen y a veces pueden llegar a aparecer como obstáculos insuperables. No se puede decir que haya una respuesta a este desafío, desde el punto de vista científico y, por tanto, esto nos lleva de vuelta a una posición personal respecto a las grandes preguntas de la vida. Sin embargo, lo que la experiencia vital personal subjetiva confirma es que todo puede convertirse en material para un auténtico desarrollo humano y, a menudo constructivo. El asumir la crisis como una oportunidad para el crecimiento, implica la capacidad de mirar lo negativo como ausencia de lo positivo. Este cambio en la mirada, puede facilitar una visión transformadora del problema. Sin embargo, es necesaria una alta consciencia respecto a cuál es “la clave” que permite dar este salto de calidad: por ejemplo, poner en acción una voluntaria y particular, activa (no una pasiva resignación o peor aún, de sacrificio ascético) aceptación del coste personal como contribución a lo que podría denominarse “dolor universal” dirigido a la renovación de sí mismos, del bien del otro y del grupo. En este ejercicio personal, puede encontrarse la explicación más preciosa de la verdadera prosocialidad y con ello la producción del significado personal. Todo ello fundamental para poder llevar lo mejor posible la difícil experiencia de cuidar y educar hijos con necesidades especiales.
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
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The Role of the General Practitioner in Diagnosing and Treating Dyslexia, Dysgraphia and Dyscalculia
Key-words: Dyslexia, Dysgraphia, Dyscalculia, Pediatrician, Diagnosis, Development, Cooperation.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Pediatricians play an important role in the diagnosis and therapy of children with dyslexia, dysgraphia or dyscalculia. These syndromes strongly affect the performance of children at school. Children with dyslexia, dysgraphia or dyscalculia show a significant underachievement in reading, writing or counting and their failure to meet the school requirements undermines their self confidence and positive self-concept. As a result, children with learning problems often become aggressive, frustrated or play the clown in the classroom. According to the Hungarian law, children with any learning difficulties have the right to get special education by their specific symptoms. In the realisation of the law and equity the pediatrician’s expertise is essential and has an important role in the therapeutical procedures. However, the pediatrician’s role is more complex than writing an opinion. Pediatricians can help by giving a detailed description about these syndromes and explain them how they can help their child, what the main difficulties during the child’s studies are, what kind of therapies can be efficient and how they can make their child’s school years easier. During the assessment most of the parents ask the following questions: What does dyslexia, dyscalculia or dysgraphia exactly mean? Is it a handicap or a learning difficulty? Could the child live a normal life? With the proper answer and with an inclusive attitude pediatricians can help both the parents and the children to create a liveable lifestyle and make their children’s schoolwork more successful. The authors’ opinion is to near the medical and the pedagogical view, because without the cooperation of these two scientific fields, the affected parents, children and teachers cannot get proper help to find better solution and support for their problems. In the survey the authors intend to give a complex view about the symptoms of these syndromes and try to give useful advice for pediatricians how they can support their patients by emphasizing the key role of pediatricians and clinical expertises in the early recognition and development.
abstract
Katalin Andrea Gergely / Hungarian Dance Academy, Budapest, Hungary / katalinandrea.gergely@gmail.com Renata Lakos / Eötvös Lóránd University, Budapest, Hungary / lakos.renata@gmail.com
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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The exploitation of the topic is hardly complete in Hungary; moreover, there is an increasing demand for interaction and collaboration among the experts dealing with children with dyslexia. This paper – which covers the questions and secondary literature that could come to the assistance of the Hungarian experts as well as the concerned ones – was written for the sake of the more efficient and professional guidance and development in 2013. Dyslexia, dysgraphia and dyscalculia are specific defects in development; they have an effect on school performance, and mean difficulties or disorders in reading, writing and in the arithmetical skills. Despite the fact that in the ICD system under the main group of mental and psychical behavioural disorders (ICD-10-05) psychical development problems are classified, those problems do not exclusively fall in the domain of psychology and special education. The effectiveness of development is based on the early recognition of the disorder regarding the three skills mentioned above, however, prevention is more important. Both in prevention and in diagnosing, the role of the pediatrician and the general practitioner is to be mentioned. As a result of frequent consultations with children, parents and the carer establish a certain trust between patient and practitioner; which enables the doctor to notice significant risk factors (medical family history distinctive features of the child in his development). The problems detected in relation to the auditive and motoric area (results significantly departing from the standards) do not in every case originate from damages in the hearing and locomotor but from neurological disorders, which need to be a subject for further examination. On the basis of the examination one can answer the question whether the disorders in the three skills are origination from sensory or primer psychic or neurological disease. The accuracy of the diagnosis has an effect on the effectiveness of the pedagogical work. The attention of the doctor and the professional examination can reveal the roots of the problem and can provide additional information for the special education teachers in choosing the suitable development. Sometimes the parents, the carer or the patient do not know who to turn to – therefore, they ask for the advice of the pediatrician or the general practitioner and only reveal the symptoms connected to their observation and perhaps take them as a manifestation of certain disease – for example of disease connected to memory or the sight. The reason for writing the present article is based on a similar case. The aim of the article is that patients suffering from dyslexia, dysgraphia and dyscalculia are to be diagnosed and treated properly by the pediatricians and by the general practitioners. The other aim of the article is to properly inform the practitioners regarding the topic by providing help with the establishment of a supportive professional network.
1. Differentiated diagnostics
The aim of this part is to represent the symptoms of dyslexia, dysgraphia and dyscalculia on the basis of medical literature including the results of various researches. In order to understand the problem more deeply, it specifies the roots of neuropsychological and genetical causes to provide guidelines for pediatricians I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
and general practitioners for the sake of further professional development. Children with learning disorders are to be classified in three different groups in Hungary which grouping is based on the gravity of the problem and the development to be applied (Fig. 1.: Groups of Learning Disorders). Weakness in learning:
Learning of cultural techniques causing temporary difficulties, problems occurring in the personal or interpersonal behaviour, the child is lagging behind the others or falls back in studying due to the numerous absences thereof.
Learning disorder:
Lower performance in learning or in certain parts of learning (mainly in reading, writing, in grammatical writing and counting) which can be traced back to a permanent and serious disorder in certain skill.
Learning disability:
It permanently affects every field of learning, and makes it difficult or even impossible to develop within the framework of primary education. In every case it is accompanied by the developmental disorder of the learning skill.
Fig. 1. Grouping of learning skills from a pedagogical point of view, based on the subdivision of Judit Tánczos (Tanczos, 2006)
Undeniably the problem can be of an organic nature as well (for example developmental dyslexia). Dyslexia, dysgraphia and dyscalculia belong to the learning disorders specified in the second group of Table no.1. Learning disorder is a phenomenon hard to be defined – which can be also reflected in the literature and manifested in the changing and synonymous terminology –: special learning disorder, special learning difficulty, partial disorder in performance, partial disorder in certain skills as learning disorder. Due to the complexity of the disorder, dyslexia, dysgraphia and dyscalculia are hard to be defined. As a general rule one can state that children suffering from DIS have problems with languages (mother tongue, foreign language), reading, and writing or with calculation. Problems in speaking and hearing of the phoneme in nursery school are likely to project that the child will need additional help at school. The weakness in recognising the forms of the letters and the weaker skills in differentiating, the underperformance in handy-craft comparing to others from the same age group and the lack of development in hand dominancy anticipate that the child will have problems with letters and figures at school. Diagnosing the problem in an early stage is tempting in the sense of prevention, however, it is not recommended to label the child as someone suffering from DIS, since labelling, branding and stigmatizing in this early stage are not beneficial for the child’s development. After the early stage of scheduled learning to read and write – more precisely the earliest in the third grade at school – the child can get a disease code as a DIS patient. The child’s nerve system, skills and abilities thereof rapidly develop in an environment enriched with stimulus, but the individual pace of development can be uneven as well. Huge changing can be detected within several weeks or within a month regarding the small and big movements the development of cognitive, psychic and social skills as well. In this early stage of life for protecting the interest of the child, the usage of the term of dyslexia, dysgraphia and dyscalculia-endangered is not recommended (Gyarmathy, <http://www.diszlexia.hu/Tzcikk2.htm>). By the time the diagnosis is recommended, the fact of dyslexia, dysgraphia and dyscalculia in Hungary should be registered in accordance with the internationally accepted disease anno II | n. 1 | 2014
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codes (Fig. 2.: Performance specific development disorders according to the ICD code system). The presence of several combined factors is necessary for the emergence of DIS related problems and for the appearance of symptoms thereof (Gósy, 1996). If only one factor appears amongst the combined several factors the symptoms shall not appear due to the plasticity of the brain; therefore, one cannot talk about dyslexia, dysgraphia and dyscalculia. According to the terminology of ICD, dyslexia is a certain reading disorder classified under F81.00 in the ICD system. How does a person suffer from dyslexia, what problems does he face? The struggle of a dyslexic is threefold in the domain of reading: accuracy, rhythm and understanding of the text. The criteria for accurate reading are the proper phoneme connection. The dyslexic people are therefore often mixing,- changing-omitting and adding letters to the word and making mistakes in the reading order. The majority of dyslexic people, who read in a slowly pace, read out an isolated letter and a part of a word in a similar length of time besides seriality (processing the data in a specific order) has weak syntactical analysis. Disorders in the psychological development (F80-F89) Main group Development disorders attaching to school performance (F81)
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F81.0.
Specified reading disorder (dyslexia)
F81.1
Writing disorder (dysgraphia)
F81.2.
Disorder in the arithmetical skills (dyscalculia)
F81.3.
Mixed disorder of school related skills
F81.8.
Other disorder in development attaching to school related skills
F81.9.
Other not specified disorder in development attaching to school related skills
Fig. 2. Performance specific development disorders according to the ICD code system
The definition of the concept is made difficult by the inconsistency of the international secondary literature. In Great Britain, dyslexia is called specific learning disability, while in the USA, the term of learning disability was spread; however, one can also come across the expressions of reading problem, poor reading, or the failure of the mastery of reading (Gyarmathy, 2012). The disorder in understanding a text can be caused by the faults in reading techniques (accuracy), vocabulary, the speed of imprinting new information in the memory, the speed of remembering it and the intelligence of the patient as well. A dyslexic person might suffer from dominance disorder (two–handedness), therefore, the lateralization thereof might be delayed or not manifested at all. As the most prominent Hungarian researchers, Ildiko Mexner (Meixner, 2002) and Valeria Csepe (Csepe, 2002) think that dyslexia is an all embracing term, an umbrella term. Various causal and interconnected phenomena lead to reading disorder. Amongst the symptoms one can detect certain brain activity which differs from the non-dyslexic brain activity according to the application of PET examination. During reading not only do those brain parts become active which are responsible for reading, but also the more extended brain territories are emI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
ployed. Due to this increased activity, the completion of a task by a dyslexic adult or child is more energy consuming comparing to a non-dyslexic person (Bauer, 1999). The reason for this phenomenon is that dyslexia has an effect on the work memory as well. Work memory plays a significant role in school performance and in processing and dispatching short term stored data coming from the two sub-systems (visual and verbal memory) (Gathercole, Alloway, 2011). In the framework of a traditional education system obtaining and processing information for a dyslexic person is hopeless as a result of the weak work-capacity (Moody, 2006). Due to this weak work-capacity one can have a false impression that the child or adult is lazy, negligent, inattentive and lacks motivation. The false medical, pedagogical and parental belief might be harmful for the positive self-respect and the psychic well-being of the dyslexic person, which can have an effect on his entire life (Morgan, Klein, 2000). Dysgraphia is a writing disorder classified under the ICD code of F81.10. A dysgraphic person has difficulties in the lining and the motoric realisation of the letters (the same grapheme is written differently in the same text), moreover, with the subtle movements required to writing and to the coordination of the eye and hand movements. A dyslexic person also runs into difficulties with the phonologic and graphemic coding (similar to the reading accuracy), with the correct usage of punctuation and grammar, furthermore one should face problems in forming of a coherent text with the application of grammatical and text forming techniques. The disorder in dominance can also occur. Disorders in the phonetics and in articulation and obstacles in speaking can influence the process of learning reading, writing and counting. When the practitioner notices a speaking disorder or becomes aware of the fact that a member of the nuclear family of the child suffers from one of the three disorders, it is recommended to initiate the examination of dyslexia, dysgraphia or dyscalculia. Dysgraphia is hardly manifested separately and often comes with dyslexia or dysortography (Scott, 2004). Dysortography is an orthographical trouble, which is similar to dyslexia and the most common one among the trace-symptoms of dyslexia occurring in the adulthood. It can be attributed to spatial-visual and auditive-phonological troubles. In the Hungarian secondary literature, it is also referred to as one of the forms of dysgraphia or as a content dysgraphia (Gyarmathy, 2012). Dyscalculia is a disorder in the arithmetic skills and registered under the ICD code of 81.20. A dyscalculic person shows the disorder of seriality, time and space orientation and rhythmical skills, mixes the arithmetical operation, uses a wrong order in solving an arithmetical task and mixes the operational parts in it. The dominancy disorder can also be an issue in that case. The professionals – general practitioners, teachers – are recommended to inform the parents, carers about the necessary examinations and therapies if there is a suspicion of skill disorder. It is suggested that the parents and carers should be informed to turn to special methodical centres or trusts specialised in treating of DIS affected children. Therefore, there is a need for the professional networks and the knowledge of the practitioner in order to provide the parents with the necessary information and to be more convincing in the sense that development is much more useful than turning a blind eye to the problems. For the harmonic development of the child it is crucial to be aware of the reasons for his “difference” and to know what causes his failures at school. There is a contradiction anno II | n. 1 | 2014
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between the performance and the intellectual ability of the child which in many cases results in frustration, lack of self-assurance, self-esteem and depression. At the early school age these results might be accompanied by constant verbal and physical abuse, negative remarks made by the teacher and the classmates and also alienation from the classmates. The behavioural disorders (clowning, aggressiveness, being introverted) accompanied by dyslexia, dysgraphia and dyscalculia are to be manifested as a compensation and the other concomitant somatic symptoms (emesis, psellismus) are caused by anxiety. In order to ease frustration or anxiety the children voluntarily choose the role of a clown or become aggressive gaining the antipathy of the teachers, the management and the classmates. After several disciplinary decisions and the passing of the obligatory school age these children will drop out of the educational system without having gained any qualification at all (Scott, 2004). However, it is to be mentioned that one is not able to cure or leave behind dyslexia, dysgraphia or dyscalculia. Due to the development, the symptoms of dyslexia, dysgraphia and dyscalculia will be lessened and in the case of an early treatment at the age of 12 only the remnants of the symptoms (different way of thinking and special learning methods) might cause problems in the everyday life (Gyarmathy, 2007). In our view it is not recommended to treat dyslexia, dysgraphia and dyscalculia as a handicap (unlike the Hungarian Governmental Regulation no.79/2006. IV.5) and it is a better solution to use the notion of skill disorder applied by the ICD system, since in reality it is a special educational need manifested in an educational environment. The pedagogy and andrology in higher education have just started to experiment with the use of the term of analogous with the term of special education. It needs to be accepted by the state educational system. The acceptance of the term of special learning need is mixed and â&#x20AC;&#x201C; based on the study of Morgan and Klein â&#x20AC;&#x201C; it is a subject for further consideration (Morgan, Klein, 2000). In the case of dyslexic persons, due to the dominance of the right cerebral hemisphere the global learning style is to be regarded typical and they are more effective if they can obtain information from more sources and can learn in an empirical way (Csepe, 2003). Reading, writing and counting are complex phenomena. The integration of the operation of the organs in speech and the consciousness of the body scheme is required for the proper use of these three skills. According to the neuropsychological researches, a harmonised cooperation of 18 cerebral parts is necessary to learn to read (Gyarmathy, 2012). If this integrated operation is disturbed the learning process (obtaining, processing and reproducing information) faces obstacles. That is why dyslexia, dysgraphia and dyscalculia are regarded as a problem related to school performance which is not caused by the negligence of the DIS person, and which might have psychological or organic explanation. The cerebral experimenting facilitates the progress in revealing the cognitive and neurological causes of the DIS symptoms. Researches aiming to reveal the cerebral operation, show that in dyslexia, the visual magnocellular system is affected including its auditive and motor centre. Foreign neurological and neuropsychological examinations have shown the lack of symmetry between the two cerebral hemisphere such as the smaller gyri in the planum temporale and the larger number of ectopies and microgyri in the same cerebral area comparing to the average (Galaburda, Livingstone, 1993). This cerebral discrepancy might I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
be responsible for sight problems, reduced consciousness in phonology and for the motor awkwardness. On the basis of the research of Galaburda, the left cerebral hemisphere of a dyslexic person is not functioning properly, which causes difficulties in the linguistic process and in the lower graded linguistic and assertive processes. The majority of the dyslexic people have right cerebral hemisphere dominancy, therefore, the space and visual skills are better than the verbal ones, which means that dyslexic persons perform better in tasks requiring the use of the right cerebral hemisphere. The research of Galaburda points out two crucial cerebral characteristics: deformity and difference in the cortex and a minimal morphological difference between the two cerebral hemispheres. The characteristics of an asymmetric brain are that the planum temporale on the left cerebral hemisphere is bigger comparing to the one on the right cerebral hemisphere. In the case of a dyslexic person, the planum temporale in both sides is more developed – as a consequence, there is a difference between the connection and the information transmission of the two cerebral hemispheres. The dysfunctional cerebral development resulted in dyslexia, dysgraphia and dyscalculia can be caused by the mutation of the 6th, 13th and 15th chromosome (Csepe, 2005; Csepe, 2009; Porkolabne 2005). Researches have pointed out that the tendency or the entire bundle of symptoms might be hereditary. This finding is confirmed by the frequency of the disorder in the family and by the larger number of persons born with XXY chromosome (<http://www.news-medical.net/ health/Chromosomal-Abnormalities.aspx>). Intrauterin or perinatalis teratogen influences might play a role in the development of the mentioned skill disorders (Colewa, Heber, Hollweg, 2008). To take the psychological and pedagogical approaches into account, we can assume that the cause triggering the disorder can be a psychosocial damage (a negligent environment which lacks in stimulus, where the physical, emotional and intellectual development of the child is endangered) experienced in the early childhood which burdens the nerve system.
2. Possibilities for examination
The previous part of the article pointed out the crucial role of the practitioner – following the physical development of the child – in the early recognition of the skill disorder. The medical reports of the practitioners provide help for the specialists by carrying out examinations regarding dyslexia, dysgraphia and dyscalculia in order to make a detailed anamnesis which encompasses pregnancy and the circumstances of the birth, the major junctions in the child’s development and the obstacles in it, the serious sicknesses and the hereditary medical problems in the family. In those cases when the parents, the carer or the affected adult ask the opinion of the practitioner for further examination, the time invested in making a detailed anamnesis contributes to create a trust- based relationship between the practitioner and the patient (or the representative thereof). What can the practitioner do when he/she notices the symptoms of dyslexia, dysgraphia or dyscalculia or where the practitioner is aware of the factors of the disorder? The practitioner can direct the patient to a special institution when examination shall be carried out – based on a standardised procedure – regarding the skills and abilities that define the school performance of the paanno II | n. 1 | 2014
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tient. Due to boundaries of the article we shall not detail the examinational methods. The aim of the article is to collect information based on which the practitioners may more effectively obtain more knowledge and be able to inform the parents and the adult patients about the disorder. In Hungary the examination of dyslexia, dysgraphia and dyscalculia initiated by the parent, carer or an educator is to be carried out – based on the information previously collected – by professional committees or units specialized in rehabilitation consisting of pediatricians, special educators, psychologists and psychiatrics. The role of the committees or units specialized in rehabilitation is to examine the learning abilities of the child. The parents are entitled to ask for an expert’s opinion regarding the early development, obligatory education, nursery education and preschool preparation of the child and they are also entitled to hear an expert’s opinion regarding the fulfilment of the obligatory educational years. The family protection unit and the Office of Child Protection and Guardianship in Hungary are entitled to recommend the parent to be presented at an examination with the child. According to the Hungarian practice, until 31 March in every calendar year the pedagogical and psychological counsel is entitled to recommend the parent, the carer to be presented in front of a specialist for the purpose of an examination of a physical, sensory, intellectual, speaking related or other disorder – safe for the fact when a professional opinion is required after the date given. The parents or carer have to agree with the examinations carried out by the professional committee and have to initiate them. The behaviour, the development, the progress of the given child at the school and nursery school have to be described in the application and also have to provide grounds for the examination. At that point the cooperation between the parents or carer and the educator, pediatrician or the school doctor is crucial. The often phased examination of the committees takes a couple of hours and if it is possible diagnostic is provided – safe for the fact when further special examinations are necessary, which can not be carried out in front of the committees. The child is always accompanied by the parents or the carer who have to take the medical reports of the child, the school papers (as a general rule the maths and writing papers) and the medical appliances or equipments thereof. The parents are obliged to present a form according to the Hungarian MKM Regulation no. 14/19994 (VI.24.). The form is filled out by the general practitioner when the child reaches the age of five based on the information given by the midwife, therefore the form can be used in a further examination in order to make an anamnesis. The form contains the learning disorders previously occurred in the family and also contains information regarding the psycho- motor development typical at the age of the examined child. The child and the person who accompanies him to the location of the examination are entitled to get the reimbursement of the travelling expenses based on the form issued by the general practitioner. On the basis of the practitioner’s form the committee will issue an invoice covering the travel expenses of the child back home. The examination is otherwise free of charge. After the obligatory school age is passed or in the case of students accepted in higher education, the Department specialized in Rehabilitation of the Budapest Metropolitan Office carries out examinations regarding dyslexia, dysgraphia and dyscalculia based on the Governmental Regulation no. 92/2008 (IV.23.). The forI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
eign applicants aiming to enter the Hungarian higher education system have to obtain the opinion of the expert according to the Hungarian legal requirements. The internationally accepted ICD facilitates the diagnosis of the disorder in Hungary. The examination is initiated by the young adult subject to examination and has to contain the reasons of the examination. In order to benefit from the advantages described in the Governmental Regulation no. 79/2006 (IV.5.) it is recommended to refer to the problems occurred during the fulfilment of the obligations in the higher educational institution and also recommended to refer to the previous examinational results if the applicant possesses the opinion of a specialist. The applicant has to attach the previous medical reports, medical opinions and the opinions of certain professional committees to the form. The examination takes a couple of hours in front of a panel of four (4) which deliver a professional opinion at the end of the examination. The examination is free of charge and having the final decision requires approximately 2 months. The general practitioner of the applicant is not entitled to certify an entitlement for additional points in the application process for gaining a place in higher education; therefore, the higher educational institution is not entitled to accept any kind of medical opinion either. It is recommended for the general practitioners to pay attention to this and they have to inform the patients accordingly. The general practitioners help more by directing the patient to other examination centres rather than issuing medical opinions which are useless for the patient. The benefits and other advantages provided by law in the application process and in higher education can only be obtained from certain examination centres mentioned above and based on the opinion of a specialist or committee, which opinion contains the ICD code of the disorder. The general practitioners, therefore, are obliged to direct the patient to the organisations indicated in the law, which are entitled to issue medical certification regarding the disorder. The general practitioners can provide help to the patient suffering from dyslexia, dysgraphia and dyscalculia by directing him to a coordinator working in the higher education system specialized in handicap issues or disorders, who can provide further help in the course of his studies. The application process in higher education is under reforms. According to the plans of the Government from the year 2013 extra place will be designated for the applicant with disabilities â&#x20AC;&#x201C; which in the present case is applicable for applicants suffering from DIS. Seemingly, the possibility will no longer be applicable which enables the applicants with disability to gain the maximum possible 40 points in applying for a university place, which point has to be gained by the applicants with no disabilities according to the general point calculation. This changing will not affect the rules of verifying the disorder; therefore, the previous tasks of the general practitionerâ&#x20AC;&#x2122;s will be unchanged. The notifications of the webpage of <www.felvi.hu> are to be regarded official and updated; therefore one can refer to them freely. Thus it is recommended to search for information from that web page concerning the verification of the disorder and the legal background.
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3. Therapeutic and development possibilities
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On the basis of the statements written in the diagnostic part of the article, it might seem that the learning difficulties can be cured or alleviated by certain medical treatments, like the psychic disorders occurring in childhood. One cannot make a judgement on the possibility to treat the disorder which provides an escape route for the pedagogues from solving the more and more obvious socialcultural problems manifested in the learning process (reading, writing and counting) during the use of linguistic skills. The fact is that DIS is a complex phenomenon and the school is not able to terminate all the effects triggering or sustaining (for example the social-cultural status of the family) the disorder. This task does not fall inside the jurisdiction of the school but it is not in the jurisdiction of the general practitioner either! The sectoral cooperation, the professional dialogue between the DIS affected person and his environment is a more effective solution. The conservative medical treatment is not a perfect solution in itself, however it can be successful combined with other therapies (for example dyslexia reduction, integrative senso-motoric development). In order to avoid further failure at school and to enhance success it is recommended to choose a method which encompasses the development of reading, writing and counting skills in an empirical way and with which the child will regain his faith in his capability. In Hungary the results and methods of Brigitte Sindelar, Sally Goddard, Ildikó Meixner and Anna Dévényi are to be regarded as the most recognised ones. The medical treatment creates the impression of a sickness and also the illusion that the recovery is possible after a certain period of time. In the case of patients showing mental or behavioural disorders – which can be the accompanying symptoms of dyslexia, dysgraphia and dyscalculia – one has to take the risk factors of drug addiction into account as well as the toxic effects manifesting in a long term. The parents and patients diagnosed with DIS in adulthood with a failure-packed history are tend to accept – and are keen on asking for – a medical treatment, because medicine provides an escape route from the responsibility of education and self-management. The persons suffering from dyslexia, dysgraphia and dyscalculia have to face the fact that they shall have difficulties in their everyday life in situations where reading, writing and counting skills have to be applied. However, with the methods learned during the therapies the difficulties can be alleviated or counterbalanced. In the Hungarian practice the medical treatment of the practice is financially not supported by the state. The metabolism of the nerve cells can be enhanced; the medicines containing the agent piracetam – the agent is to improve the operation and the structure of the membrane – can only be prescribed by the practitioner. However, one cannot obtain state benefits or any other financial benefits regarding these medicines. Sadly state benefits for therapies can only be obtained within the compulsory schooling age. The development regarding dyslexia, dysgraphia and dyscalculia diagnosed in adulthood – typically during the higher educational studies – can only be carried out on a self- financed basis. According to section 18 (2) of the Governmental Regulation no. 79/2006 (IV.5.), in Hungary the person suffering from speaking or any other forms of handicap is entitled to have benefits regarding the studying and exam requirements (longer preparation period, the opportunity to choose I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
the form of the exam, partial or complete immunity from obtaining a certificate in a foreign language, using of special tools as a compensation of the disability). The child within the compulsory schooling age is entitled to benefit from pedagogical services (for example speech development) free of charge based on section 18 (2) of the Act of 2011. CXC. on State Education of the children falling within the compulsory schooling age. The benefit can only be obtained based on the results of the examinations carried out by professionals or the committees specialized in rehabilitation. Beyond this, the parents have an opportunity to choose from the vast amount of therapies provided by non-profit or profit orientated organisations. In Hungary, the parents can find additional information on the websites of the pedagogical service providers, which draws the attention of the parents and the educators to other opportunities, as well. There are web pages specialized in dyslexia, dysgraphia and dyscalculia containing the researches, the results and the suggestions of the most prominent researchers on the topic; they also contain the description of the methods which can be used both at home and in the school environment, as well. The web pages can contain sample lessons or exercises, guidance and they can also provide a possibility to order previously published materials on the subject. Despite the fact that the aim of the article was to underline the role of the pediatricians and the general practitioners in recognising the permanent learning disorder and also emphasizing their special part in the treatment it is not to be forgotten that dyslexia, dysgraphia and dyscalculia do not exclusively fall in the jurisdiction of medicine and should not be treated as diseases but as permanent specific learning difficulties which effect the operation of the nerve system. It is a learning disorder which the affected person cannot overcome and is in need of the support of the specialists. Reading, writing and counting are generic skills which are indispensable in obtaining education and also in the situations of everyday life. Dyslexia, dysgraphia and dyscalculia inflict the choice of a career, entering into higher education and also the chance to find a place in the labour. The early realisation of the disorder and development (which can be medical, educational, therapeutic and a combination of the different ways of professional development) can alleviate the problem. The tools and methods of rehabilitation and development pedagogy, which are based on the results of psychological and neurological researches, provide several solutions for those who struggle with the disorder. Every participant in the environment of the person affected with the disorder is responsible for providing a receptive environment and to enable him to succeed in life.
4. Frequently asked questions, inasmuch as what can the practitioner reply to the questions?
In this chapter those questions shall be presented which are frequently asked by the parents and the adults suffering from DIS from the general practitioner in Hungary. The parts written in a cursive form represent the questions and the suggestions of the practitioners.
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Is dyslexia, dysgraphia and dyscalculia a hereditary disorder?
The answer is yes, dyslexia, dysgraphia and dyscalculia can be hereditary. Hereditary means that DIS related problems are more likely to be presented within the family. Do you remember that someone in the family had difficulties with reading, writing or counting even in adulthood? What causes the symptoms?
The causes of the symptoms can be a mutation in the chromosome, a damage occurred in the uterus or during child birth, damage occurred in the early age which might cause abnormal cerebral operation, the harmful environment and many more factors. On the basis of the present scientific results one can not provide an accurate answer for this question without carrying out a detailed examination. Dyslexia, dysgraphia and dyscalculia are complex disorders with various factors which are individually variable. The same cause can be resulted in a different consequence placed in a different environment. The hereditary factor also affects the development of the environment and the feno-type, therefore, making a detailed anamnesis is crucial.
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Has an infection, poisoning, psychic trauma occurred during pregnancy? Were there any complications during child birth? Did the child have an injury during his early age? Is it recommended to examine the brothers or sisters of the child suffering from dyslexia, dysgraphia or dyscalculia or in the case of a DIS affected parent the children thereof? If similar symptoms are detected the examination is necessary in order to start the professional development as early as possible. On the basis of the frequency of the symptoms within the family, and if the psychological and neurological problems â&#x20AC;&#x201C; problems affecting the knowledge function and the development of the behaviour â&#x20AC;&#x201C; are manifested in the parents, the examination of the child is highly recommended. Can a DIS affected child be cured from the disorder?
The answer is definitely no. One can not erase dyslexia, dysgraphia or dyscalculia, but there is a ray of hope. The symptoms of the disorder can be alleviated by different and individually tailored development which is beneficial for the natural development of the child. After the age of 12 only the remnant symptoms shall cause problems in the everyday life. These problems can be manifested in the characteristics of the individual studying and life coaching methods originating from the different way of thinking of the DIS affected person. The parents are recommended to contact other parents with DIS affected children through trusts or other special organisations. For the parents it is hard to face the fact that the problem can not be solved by medication and the problem accompanies the whole life of the child. In this situation it is really comforting to I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
receive advice from those parents who have successfully struggled with the problem and who are still effectively coping with it. What kind of therapeutic options are available?
Fortunately the supporting network in Hungary is operats in a wider spectrum and accessible for more and more dyslexic, dysgraphic and dyscalculic children and adults, as well. Besides the cognitive development it is the motoric development which is indispensable. The motor development can be physical education and other forms of workouts which stimulate and help the development and integration of the nerve system. The Ayres development (integrative sensomotoric development) is an effective development for children suffering from DIS so are the basic development (complex development for the development of the nerve system which is based on movement development) and the method of Anna Dévényi (complex development which encompasses the direct nerve stimulation and the development of the harmonic body image). It is inefficient to stimulate the problematic skills in an aggressive drill-like way; however, practice makes wonders. On the dyslexia specialized web pages, series of practices, ideas for playful exercises and guidelines are available for the parents, which can be downloaded as well. In order to provide immediate information– since it is possible that the patient will not go for a consultation for a long time – it is recommended for the practitioner to create a chart for himself containing the contact information regarding the various therapeutic methods.
Should the child endangered with dyslexia, dysgraphia or dyscalculia stay in nursery school before primary school for an additional year? Dyslexia cannot be grown out therefore the child shall not obtain any benefit from staying at the nursery for an additional one year. If the child is mature for primary school it is not justifiable to keep him at the nursery for another year. The not so encouraging failures at school can be counterbalanced by a wellfounded school and pedagogue choosing as well as with therapies and a caring and supportive parental attitude. What kind of school shall I choose for my child?
DIS affected children should not be enrolled automatically in school with a special educational profile and with special educational syllabus. It is recommended to choose an institution where the individual characteristics, the special learning and studying needs of the child is taken into consideration; where the teaching is based on a proved educational program which ensures the development of the DIS affected child. It is recommended to find a school using dyslexiapreventive and reducing method (for example in Hungary, Lexi can be a good choice – a program, the dyslexia-preventive and reducing method of Ildikó Meixner, the Wonder of tales program). Apart from choosing the best method, the personality, the experience and the dedication of the educator is also of a great importance. A receptive and loving pedagogical attitude also constitutes determinative importance during the cooperation between the child and the anno II | n. 1 | 2014
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pedagogue. Pedagogical and psychological counsels can suggest schools and the committees specialised in rehabilitation and the examination of the children’s skill designating the closest and the most competent institution for the DIS affected child. There are state financed and non-profit institutions, as well, and the financial capacity of the parent is also a determinative factor in choosing a school. One badly selected school might shatter the child’s self- confidence selfesteem and motivation for studying. It is recommended to collect the brochures of special educational institutions and make them accessible in the surgery for the patients in order to distribute the information between each other. The suggestion of the neighbour can help in choosing a school; however, in this respect the practitioner has an important role. It is also recommended for the parents to visit open days in these special institutions, get to know the pedagogues, the pedagogues specialized in development and the school psychologist; to visit the lessons of the future pedagogue of the child assuming that the parents will bring a DIS affected child in the class. The first reactions provide a good starting point. Is it important to tell the diagnosis to the pedagogues?
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The answer is definitely yes. The younger the child is the more important it is to obtain a treatment adjusted to his special needs. In this case, the schools can provide an individually tailored developmental program and both in state education and in higher education the individual needs of the DIS affected person is taken into account. One can get help from the pedagogue, the teacher, the coordinator in handicap issues. If the diagnosis is not revealed, the child and the young adult are not helped in overcoming their disadvantage. In order to use the benefits and the special advantages suggested in the expert’s opinion the parent or the young adult should let the institution know about the problem since these cases should be registered and the institutions have to make a decision to let the child or young adult depart from the general requirements. There are pedagogical consequences of the studying disorder, therefore, one cannot interpret and treat it only from a medical point of view. Should a dyslexic or dysgraphic child get and exemption from learning a foreign language or a dyscalculic child from studying mathematics?
Getting an exemption from studying – the answer is absolutely no. The dyslexic and dysgprahyc child is also capable of learning a foreign language if the methods are adjusted to his special needs; studying mathematics is also not an impossible venture for a dyscalculic child with a suitable learning programme. An individually tailored teaching method and evaluation, which focuses on the positive and the small achievements, are necessary. One should get information from the institution and from the teacher regarding the special teaching methods, the alternative and special possibilities in the fulfilment of the requirements. There are foreign language courses – mainly English courses – designed for dyslexic students. Naturally, on the basis of the expert’s opinion one can get partial or total exemption from studying a foreign language; however, in a later stage – in higher education or in entering service – the knowledge and the skill will be I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
missed, which shall reduce the possibilities of the DIS affected person in the labour market and in the personal sphere as well. Is a DIS affected child capable of attending higher education?
Due to an early examination and to an effective development the secondary school and the higher education system are open to the DIS affected children, as well. One should not make a hasty decision in choosing a profession and it is recommended to consider which personal, interpersonal or method competencies are required to be successful in the given profession. The professional requirements can be downloaded from the webpage of a governmental institution responsible for granting a diploma in a specific profession. In the case of a higher educational institution it is suggested choosing an institution which fits in the interest sphere, the studying style of the young adult. One has to make sure about the quality of the activities providing equal opportunities and also the requirements of the institution. The advantages and disadvantages of the child can be defined by a profile test which can be helpful in making a decision. Cognitive profile test can be downloaded from the websites of the most prominent Hungarian researchers in dyslexia, dysgraphia and dyscalculia (<www.diszlexia.hu>). What can be done to avoid psychological damages?
It is recommended to carefully choose a school. The attitude of the school, the attitude and the competence of the teachers are crucial. It is advised to visit the school in advance when orientation days are organised in order to let the child meet his future teacher or pedagogue and to find out whether they can mutually accept each other. One should tell the child the diagnosis and has to explain it in a way which is in compliance with his age. If the child shows the symptoms of a behavioural disorder it is recommended to direct him to the school psychologist or to a child psychologist who can reveal the origins of the problem and who can provide solution to it.
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Nuove considerazioni per una collaborazione tra psicoanalisi e pedagogia speciale: linee generali e traiettorie di ricerca
Key-words: Special pedagogy, Psychoanalysis, Disability, Barrier, Defense mechanism, Clinical method.
Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The article makes some considerations about the collaboration between psychoanalysis and special pedagogy, addressing the need to enter the debate on the various theoretical and practical approaches that currently animate special pedagogy. The paper argues that, among the various avenues of research and possible study, one way in particular realizes the interface between psychoanalysis and special pedagogy. Such an element is found within a strategic place in special pedagogy of the concept of the barrier, which meets a specific equivalent in psychoanalysis in the concept of defense mechanism: defense towards otherness, the acceptance of diversity, the access to understanding, and in the final analysis to the emotional pain of others and their own. In this way, some areas of exploration and intervention are reviewed, in which the contribution of psychoanalysis, a reference to its concepts and its constructs, and its basic perspective may prove fruitful for research in special education.
abstract
Tommaso Fratini / UniversitĂ di Firenze / tommaso.fratini@unifi.it
I. Riflessione teorica
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1. Introduzione
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Nel momento in cui, con la nascita di questa rivista, la pedagogia speciale italiana entra in uno stadio di avanzamento ulteriore anche nella direzione di un confronto più aperto e serrato tra i vari approcci teorici e operativi che la movimentano (Bocci, 2012), nonché di una riflessione più formale e sistematica intorno ai presupposti metodologici ed epistemologici di fondo del proprio sapere disciplinare (Crispiani, 2012; Goussot, 2013), trovo importante proporre un contributo sull’interfaccia e la collaborazione tra la psicoanalisi e la pedagogia speciale. Va detto senz’altro che il tema non è affatto nuovo, anche se forse è il caso di affrontarlo ancora, alla luce degli innegabili e significativi cambiamenti che caratterizzano oggi sia la pedagogia speciale sia la psicoanalisi rispetto al passato, anche solo di pochi decenni fa. A tale proposito, mi sembra inevitabile una menzione riguardo a una tendenza difficilmente contestabile. Sotto un certo profilo, specie di fronte all’occhio di un osservatore esterno e distaccato, la psicoanalisi mai come in questo periodo storico appare in difficoltà, laddove la pedagogia speciale, pur con le sue proprie traversie, può degnamente aspirare al rango di disciplina in crescita, secondo molteplici traiettorie di sviluppo, se sarà in grado di qui ai prossimi anni avvenire di raccogliere una serie di sfide che le si pongono all’orizzonte (d’Alonzo, 2012). Quello che cercherò di sostenere in questo scritto è che la psicoanalisi, nonostante le difficoltà che la attraversano, e nonostante gli attacchi sempre più duri che ha subito, i tentativi sempre maggiori di escluderla dal mondo del sapere accademico, abbia molto ancora da dare anche al territorio della pedagogia speciale, e pur tuttavia secondo modalità e chiavi di lettura non semplici e non scontate, su cui è opportuno quantomeno provare a tornare a riflettere, sia pure qui in un arco contenuto di pagine. Per inciso, trovo giusto prendere posizione in merito alla crisi della psicoanalisi, sottolineando l’importanza di distinguere quelli che sono i propri limiti, con cui la psicoanalisi maggiormente in questo periodo storico si è trovata a confrontarsi, da quelli che si sono configurati piuttosto invece come fattori sociali di opposizione, quando non vere e proprie forme di delegittimazione, profondamente ingiuste, che la psicoanalisi ha subito progressivamente, ancor più, negli ultimi trent’anni. La crisi della psicoanalisi è materia di dibattito da tempo, e su di essa non ritengo opportuno ritornare se non nel rimarcare un’importante determinante sociale. In un periodo storico di profonda crisi sociale che, a diversi livelli, l’umanità occidentale sta attualmente vivendo, la psicoanalisi è in difficoltà come tutto il pensiero umanistico nelle sue radici più profonde ed estese. Mentre abbiamo assistito al crescere esponenziale della mole di contributi caratterizzati dagli approcci di ricerca empirica e sperimentale negli ultimi quarant’anni in tutto il complessivo panorama delle scienze umane, la crisi dei modelli del pensiero umanistico si colloca su un piano parallelo alla crisi del soggetto (Cambi, 2006) nell’epoca postmoderna e all’emergere di nuove crescenti manifestazioni del disagio della civiltà (Freud, 1929; Borrelli et al., 2013; Kaës, 2013; Benasayag, Schmit, 2003). Ciò ha un corrispettivo, se non in un aumento d’incidenza dimostrabile, quantomeno in una maggiore problematicità dell’intero spettro della psicopatologia, e in particolar modo dei disturbi gravi della personalità in tutta la popolazione I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
occidentale. In una società in cui appaiono sempre più in crisi le relazioni sociali e i legami affettivi intimi, un approccio terapeutico, per antonomasia fondato sulla relazione umana come la psicoanalisi, è destinato a incontrare difficoltà crescenti circa l’efficacia dei suoi esiti, sia perché la realtà esterna al trattamento, a cui gli stessi suoi pazienti sono restituiti nella propria vita di relazione, è sempre più dura da affrontare per chiunque rispetto al passato, sia perché gli stessi clinici di formazione psicoanalitica, che dal retroterra del medesimo tessuto sociale inevitabilmente provengono e in esso vivono, si confrontano con gli stessi processi di emergenza collettiva e di inaridimento sul piano emotivo, volti a limitare e a ostacolare le stesse capacità di cura, competenze relazionali e affettive, attitudini alla mentalizzazione (Fonagy, Target, 2001) e alla presa in carico della sofferenza mentale, al centro del loro ruolo terapeutico. Inoltre, se il primato della tecnica (Galimberti, 1999) nella società occidentale e lo sviluppo tecnologico hanno avuto un ruolo significativo nel promuovere un’evidente crescita di tutte le scienze umane sul piano scientifico, è altrettanto giunto il momento di riconsiderare più criticamente la funzione di condizionamento indiretto di ampi settori dell’establishment politico, economico e finanziario nell’indirizzare le traiettorie di ricerca accademica in campo umanistico e scientifico (Harvey, 2005). Se quello stesso ampio dibattito e quel filone di studi e di riflessioni da cui la pedagogia speciale attinge gli elementi di maggiore avanguardia in tema di inclusione e di diritti delle minoranze (ad es. Sen, 2009; Nussbaum, 2006) sono fortemente critici nel mettere in evidenza il ruolo del massiccio incremento delle diseguaglianze sociali alle radici dell’attuale crisi sociale, economica e finanziaria globale, è altrettanto innegabile il contributo di influenza indiretta sul mondo politico, sui mass media e anche sull’organizzazione del sapere universitario e sulla ricerca scientifica che le lobbies finanziarie, riconducibili al famigerato uno per cento o uno per mille (Stiglitz, 2013) dei più ricchi dell’Occidente, hanno esercitato stabilmente da diversi decenni a questa parte. Il fatto che la psicoanalisi, come altre correnti del sapere umanistico, sia particolarmente non gradita ai sostenitori del modello neoliberista dovrebbe mettere in guardia anche gli osservatori più neutrali ed equidistanti circa la pervasività in atto dei processi di esclusione sociale, anche nel mondo accademico, a fini di controllo sociale e politico (Marcuse, 1964). Il motivo per cui Sigmund Freud e gli eredi del suo pensiero hanno sempre meno diritto di cittadinanza nei dipartimenti di psichiatria, psicologia, ma anche di discipline umanistiche, è né più né meno, qui si sostiene, analogo al motivo per cui non solo il pensiero di Karl Marx ma anche di John Maynard Keynes, per fare esempi illustri, sempre meno trova posto nei programmi dei corsi di punta in scienze economiche delle più prestigiose università dell’Occidente.
2. Questioni teoriche: punti di forza, evoluzioni ed elementi comuni ai modelli
Un nodo da non sottovalutare nel dibattito epistemologico sulla psicoanalisi e sul posto della psicoanalisi nelle scienze umane è stato legato storicamente alla stessa eterogeneità dei modelli psicoanalitici. In realtà, se tutto ciò è stato grande materia di discussione negli ambienti psicoanalitici negli ultimi decenni del secolo scorso, anno II | n. 1 | 2014
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si tratta a questo punto di una querelle in buona parte superata. Oggi l’eterogeneità e la molteplicità delle posizioni teoriche sono considerate un punto di forza e non di debolezza (Green, 2005), un’espressione di vitalità e non di confusione; qualcosa di significativo per tenere la psicoanalisi, ma in generale tutte le discipline umanistiche ancora in vita, laddove in modo piuttosto preciso e ben definito sono stati definiti gli assunti di base e gli elementi comuni alle varie scuole della psicoanalisi in seno al suo specifico metodologico, in ordine all’analisi dei processi transferali e controtransferali nella terapia psicoanalitica (Funari, 1988). Va aggiunto che la psicoanalisi in taluni suoi caratteri tende ad essere oggi un campo diverso da quello originariamente teorizzato e sostenuto da Freud, specialmente agli inizi della sua avventura conoscitiva. Per Freud (1922) la psicoanalisi era per definizione un metodo di trattamento delle psiconevrosi attraverso lo strumento principe dell’interpretazione, nel contesto di una procedura che enfatizzava il ruolo dei processi psichici inconsci e della sessualità nell’eziologia della nevrosi stessa. Questa definizione rimane sostanzialmente valida sotto un certo profilo, e pur tuttavia è innegabile per altri versi riconoscere quanto la psicoanalisi si sia modificata ed evoluta nel corso del tempo. Oggi le nevrosi non sono più l’unico terreno di intervento della psicoanalisi, laddove qualcuno ne mette in discussione perfino l’esistenza o quantomeno la presenza significativa nella popolazione occidentale, all’interno di una visione della psicopatologia che è molto cambiata; così come al focus sui processi psichici inconsci si è sostituito quello sulla pensabilità (Ferro, 2013; Bion, 1962a) e sull’accrescimento delle capacità di simbolizzazione e di mentalizzazione (Fonagy, Target, 2001), o del campo dell’esperienza emotiva. A sua volta, la sessualità è vista sempre più come un aspetto del più generale campo dell’affettività (Green, 1997), così come lo strumento dell’interpretazione è considerato sempre più come un tassello all’interno di una più generale competenza terapeutica di tipo affettivo, che passa attraverso la capacità di elaborare risonanze transferali come risposte emotive all’emozioni dell’altro, e la possibilità di restituirle al paziente in veste modificata e per lui maggiormente utilizzabile, quale base per accrescere la propria capacità di sentire, di immaginare e di pensare emotivamente. La psicoanalisi si presenta a tutt’oggi, di fronte alle scienze umane, come espressione di un modello forte, uno di quei modelli cioè in grado di fornire un contributo di comprensione in ambiti molteplici e disparati dell’esperienza umana, apparentemente anche assai diversi tra di loro, ma ciò senza indulgere a facili eclettismi teorici, quanto mantenendo una forte aderenza e coerenza nei confronti di quell’approccio di base. Certo, la forte peculiarità del metodo psicoanalitico richiede una notevole competenza specialistica di base, ma non è mai stato vero che le acquisizioni psicoanalitiche non siano esportabili dal setting della ‘stanza di terapia’ al più esteso campo dei fenomeni umani, sociali, educativi della realtà esterna al trattamento, se facciamo propria ad esempio l’affermazione di Donald Meltzer (Meltzer in Mack Smith, 1998), secondo cui lavorare sul transfert nella ‘stanza d’analisi’ sempre non è molto diverso dal lavorare sulle proprie relazioni affettive intime nella vita quotidiana, poiché in entrambi i casi si tratta di compiere un lavoro psichico sui propri vissuti e sulle proprie emozioni in risposta a quelle dell’altro. Il tratto di forza dell’approccio psicoanalitico nel suo complesso, al di là delle divergenze di scuola, colto dal vertice di osservazione e dallo sguardo critico di I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
altre discipline, come la stessa pedagogia speciale, risiede in un modello di comprensione dell’affettività, che può essere giocato in tutti gli ambiti in cui una tale esplorazione dell’esperienza umana, soggettiva ed emotiva, può avere senso e significato. Questo modello è ancora incentrato sul ruolo cruciale del concetto di realtà psichica, quale cuore e statuto della soggettività individuale, secondo un angolo di visuale che pone particolare attenzione alle relazioni affettive intime e alle esperienze emotive alla base della formazione della personalità individuale.
3. Traiettorie di ricerca per un nuovo interfaccia tra psicoanalisi e pedagogia speciale
Senza scivolare in facili semplificazioni o in banalizzazioni, e potendo dare per scontati molti assunti di base e pilastri dell’edificio della psicoanalisi, sul piano teorico, tecnico e clinico, provo a sostenere e ad argomentare come, tra le varie strade di ricerca e di approfondimento possibile, una in particolare renda conto, in specie nel periodo storico attuale, di un importante e interessante elemento di interfaccia della psicoanalisi con la pedagogia speciale. Tale elemento si trova intorno al posto strategico in pedagogia speciale e negli studi sulla disabilità del concetto di barriera. Le barriere sono, secondo la definizione dell’ICF, quei «fattori nell’ambiente di una persona che, mediante la loro assenza o presenza, limitano il funzionamento e creano disabilità. Essi includono aspetti come un ambiente fisico inaccessibile, la mancanza di tecnologia d’assistenza rilevante e gli atteggiamenti negativi delle persone verso la disabilità, e anche servizi, sistemi e politiche inesistenti o che ostacolano il coinvolgimento delle persone con una condizione di salute in tutte le aree di vita» (O.M.S., 2001, p. 184). Il concetto di barriera, soprattutto quando è inteso riferirsi al fattore squisitamente umano, all’atteggiamento degli individui, incontra a parer mio uno specifico corrispettivo potenziale in psicoanalisi nel concetto di meccanismo di difesa: difesa verso l’alterità, il legame con l’altro sincero e profondo, l’accettazione della diversità, l’accesso alla comprensione, e in un’ultima analisi verso il dolore emotivo proprio e altrui. Lungo la via tracciata, anche ma non solo, da questo elemento sotterraneo e trasversale di interfaccia, incontro e condivisione, qui di seguito si accenna ad alcuni ambiti di esplorazione e intervento, nei quali il contributo della psicoanalisi, il riferimento ai suoi concetti e ai suoi costrutti, e la sua prospettiva di fondo possono dimostrarsi particolarmente fruttuosi per la ricerca in pedagogia speciale.
Il metodo clinico. In una fase storica in cui i metodi di ricerca sperimentale sembrano particolarmente in auge nelle scienze umane, e se ne reclama l’incremento se non l’introduzione in pianta stabile anche nelle discipline pedagogiche, la psicoanalisi ci riporta implicitamente a una valorizzazione del metodo clinico anche in pedagogia speciale, nella sua accezione a cui è possibile guardare soprattutto dal versante delle scienze umane. Inutile ribadire che il metodo clinico abbia interessato la pedagogia speciale fin dall’inizio (Trisciuzzi, 2003), e non solo per i suoi legami con il sapere medico. anno II | n. 1 | 2014
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La via psicoanalitica al metodo clinico, altrimenti denominato nella fattispecie della psicoanalisi metodo storico-clinico (Battacchi, 2006), si muove in una direzione che non è solo quella di un interesse per il patologico o il deviante, peraltro non in opposizione netta di contro alla normalità, quanto di una valorizzazione della relazione interpersonale, in primo luogo diadica ma non solo, tra l’osservatore e il suo oggetto di osservazione ai fini del processo conoscitivo. In questo senso l’apporto psicoanalitico si muove sul versante di una riscoperta del qualitativo (Ricolfi, 1995; Del Corno, Rizzi, 2010) rispetto al quantitativo, nella sua finalità squisitamente clinica di generare ipotesi, ancor prima che di dimostrarle, verificandole sperimentalmente. Questa accezione, che non è in opposizione al metodo sperimentale di per sé, ma solo quando il suo uso sconfina in una modalità molto riduzionistica, volta ad escludere dal campo dell’analisi dei problemi significative variabili, come quelle che chiamano in causa l’esperienza soggettiva ed emotiva, muove da una considerazione della complessità e unitarietà dell’oggetto d’indagine, la persona e la sua realtà emotiva interna, che vengono conosciute e approcciate attraverso una particolare via o canale di osservazione, che valorizza l’ascolto e il riconoscimento delle proprie reazioni emotive in risposta alle emozioni altrui.
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La problematica dell’inclusione versus integrazione. Nel momento in cui questi due termini e concetti diventano centrali e di primaria importanza in tutta la riflessione e la ricerca in pedagogia speciale (ad es. Canevaro, 2013; d’Alonzo, Caldin, 2012; Caldin, 2012; Pavone, 2010), trovo importante non sottovalutare l’apporto psicoanalitico anche su questo versante. Di fronte al rischio innegabile, purtroppo sempre in agguato, di un appiattimento del concetto e della prospettiva dell’inclusione nella direzione del mero adattamento sociale, e per giunta, l’adattamento acquiescente e compiacente verso un modello di società oggi meno democratico (Crouch, 2003) che in passato in Occidente, il quale induce sempre maggiori restrizioni nei confronti di talune libertà fondamentali, la psicoanalisi, con una posizione implicita non diversa dal marxismo e da quella dei vari autori della Scuola di Francoforte, propende per un atteggiamento critico verso l’adattamento sociale, e quelle patologie individuali e collettive che di fatto si intersecano nel nostro modello di vivere sociale con la cosiddetta normalità, con il rischio di una loro normalizzazione (Di Chiara, 1999). Ma la psicoanalisi, nello stesso tempo, ci riporta implicitamente a una posizione che, sebbene non escluda e non si opponga, non coincide esattamente, in tutto e per tutto, con una certa prospettiva radicale, come quella dei disability studies (ad es. Medeghini et al., 2013; Terzi, 2008). La dura frequentazione con il lavoro terapeutico e il doloroso contatto con la sofferenza psichica, che sono pane quotidiano per la psicoanalisi, inducono piuttosto alla considerazione di un contatto con la realtà che mai può essere eluso, e la valutazione dunque di barriere sociali che non facilmente si possono abbattere, proprio perché rinforzate, se non anche determinate da meccanismi di difesa duri a cedere e ad essere sradicati, a livello sia individuale che collettivo. “Arrangiarsi alla meno peggio”, oppure “ricavare il meglio da un cattivo lavoro” sono espressioni di impatto evocativo di Wilfred Bion (1979), che hanno fatto epoca, per indicare non solo la durezza e tutta la difficoltà del lavoro psicoanalitico, ma anche per non dimenticare facilmente quanto, potremmo aggiungere, realmente dura e faticosa sia I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
la strada dell’integrazione nella disabilità, e altrettanto il lavoro di noi educatori nell’accompagnamento in questo percorso. In questo senso, la psicoanalisi valorizza il concetto di integrazione più che quello di inclusione, in modo in verità indipendente da tutto il dibattito che l’interfaccia tra i due concetti ha assunto nella pedagogia speciale recente, particolarmente in Italia. La psicoanalisi, prevalentemente nella sua accezione kleiniana e bioniana1, stabilisce un significativo interfaccia implicito tra integrazione psichica e integrazione sociale; un’integrazione vale a dire che deve avvenire a livello mentale nel singolo e nella mente collettiva del gruppo e non solo nel campo sociale. Si tratta di una visione del concetto d’integrazione particolarmente processuale, che mette in luce come le barriere da abbattere, che ad essa si oppongono, siano barriere psichiche e non solo sociali. Sono barriere che necessitano di una elaborazione di un dolore psichico perché il processo d’integrazione compiutamente avvenga. Tutto ciò corrisponde, a livello della mente individuale ma anche sovraindividuale e gruppale, al passaggio dalla posizione schizoparanoide a quella depressiva descritto da Melanie Klein (1935, 1946). Ogni processo d’integrazione, in quest’ottica, presuppone anche il contatto con l’angoscia dell’esperienza dell’incontro con la diversità; una diversità che scatena angosce catastrofiche (Bion, 1966) che vanno elaborate facendo prevalere l’amore sull’odio, i sentimenti depressivi su quelli persecutori e maniacali, l’interesse altruistico per l’altro su quello egoistico per il Sé, il rispetto e la valorizzazione della fragilità sul fascino, nella società narcisistica (Lasch, 1979), del dominio e di ciò che incarna l’ideale del potere.
Revisione del concetto di pregiudizio. Il discorso qui sopra abbozzato implica anche un’interessante via per riformulare il concetto di pregiudizio verso la disabilità. L’ottica psicoanalitica in questo senso guarda all’aspetto eminentemente affettivo più che cognitivo del pregiudizio2, che può essenzialmente essere riformulato in questa luce nei termini di massicce difese nei confronti del dolore psichico; il dolore che il contatto non solo con chi è diverso, ma anche con chi soffre inevitabilmente suscita. Tutto ciò consente anche di spiegare come mai certi pregiudizi sono duri a morire e tutt’altro che facili da smantellare, per il semplice motivo che essi rappresentano efficaci corollari e aspetti di completamento di massicce difese, forti meccanismi di difesa nei confronti del dolore mentale, che facilmente si scatenano a contatto con la sofferenza altrui. Il disabile nel profondo non è un diverso, ma una persona esattamente come le altre, la quale molto spesso, inevitabilmente, sta molto male, soffre nell’intimo enormemente per gli effetti sul proprio Sé e sul proprio campo di relazioni, sulla propria identità ed esperienza di vita, di menomazioni e forme di disabilità che non comportano solo limitazioni alla partecipazione sociale, ma anche quote massicce di privazione interiore e dolore mentale. 1 2
Per un approfondimento dell’opera di Melanie Klein e di Wilfred Bion si rimanda, tra gli altri, a Klein (1978) e Bion (1962a, 1966, 1970). Sul pregiudizio verso la disabilità è da vedersi lo studio di Lascioli (2011) e quello di Gelati (2004). Sul concetto di pregiudizio dal versante della psicologia cognitiva si veda Mazzara (1997) e Villano (2003).
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Revisione del concetto di empatia. Nel mentre che gli studi sull’empatia hanno ormai decollato e preso il volo, facendo importanti salti di qualità in campi disparati, dalle neuroscienze al pensiero filosofico3, passando attraverso molti contributi pedagogici4, la psicoanalisi non indulge a una facile concettualizzazione dell’empatia. L’empatia non è e non è mai stata in definitiva un concetto autenticamente psicoanalitico, anche se paradossalmente, come già ho avuto modo di sostenere (Fratini, 2012a), quello psicoanalitico resta forse il più importante contributo indiretto alla comprensione del campo esteso di questo concetto. È possibile definire l’empatia come una condizione emotiva complessa, che scaturisce a diversi livelli dalla comprensione dello stato emotivo dell’altro, attraverso un’identificazione di ruolo, ed evolve in una risposta emotiva congruente (Battacchi, Codispoti, 1992; Bonino, Lo Coco, Tani, 1998). In psicoanalisi è forse più giusto parlare di contatto con la realtà psichica, con gli stati mentali propri e altrui. Riuscire a funzionare empaticamente significa allenarsi a un costante esercizio di ascolto delle emozioni dell’altro e delle emozioni proprie in risposta a quelle dell’altro, in modo da essere per l’altro di aiuto attraverso la messa in campo e l’affinamento di una disponibilità emotiva. La psicoanalisi non ci porta sul terreno di una concettualizzazione dell’empatia come semplice risposta di sostegno, incoraggiamento, idealizzazione dell’altro, men che meno come un puro momento di vicinanza fisica. Quella psicoanalitica è una concezione particolarmente processuale dell’empatia. Significa mettere in primo piano la comprensione, avere consapevolezza che gli stati mentali possono costantemente variare e oscillare anche molto rapidamente (Meltzer, 1973), ma soprattutto evolvere, e ciò attraverso l’elaborazione, il contatto e il confronto con verità dolorose. In quest’ottica, a ciascun momento o fase di questo percorso processuale può e deve necessariamente corrispondere un diverso atteggiamento di vicinanza emotiva; un diverso modo di essere di aiuto per l’altro nel condividere con lui soprattutto i suoi stati mentali e le sue emozioni più dolorose, a partire dal loro corretto riconoscimento e non dalla loro negazione. Si può condividere giocando, scherzando o danzando, come hanno messo particolarmente in luce i teorici dell’intersoggettività (Stern, 2005; Trevarthen, 1997; Greenspan, 1997), negli studi sulla relazione madre-bambino nella prima infanzia, così come rendendo omaggio all’altro in un momento di successo, di gioia e di gratificazione; ma soprattutto si può condividerne le angosce, le vere preoccupazioni, che a livello recondito si trovano dietro difese psichiche, stati di rabbia e di dolore insopportabile. Ciò significa prima di tutto comprendere tali angosce e tali sistemi di difese, in modo da aiutare l’altro nel poterle affrontare, e via via elaborare e superare. Questo lavoro mentale è visto come il prerequisito per favorire un processo di maturazione che aiuti l’altro sempre di più a crescere e a rendersi autonomo, realizzando i propri desideri, quelli più vivi e autentici; fino al momento in cui l’altro forse non ha più bisogno, più di tanto, neppure di essere capito, accolto o sostenuto, autonomamente motivato a quel punto a realizzare semplicemente i propri desideri, a cominciare da quelli imprescindibili che riguardano la sessualità.
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Vedi a tal proposito, tra gli altri, Williams, Dazzi (2006) e Boella, Bottarelli (2000). Cfr., tra gli altri, Galanti (2001), Boffo (2005) e Mortari (2006).
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Rapporto mente-corpo e affettività-pensiero. È, quello del rapporto tra affettività e pensiero, un ambito nel quale l’originale contributo dello psicoanalista Wilfred Bion (Bion, 1962a, 1962b, 1970) resta a suo modo insuperato, ispiratore da anni di promettenti sviluppi in tante direzioni distinte e collegate, siano esse quelle della clinica delle psicosi, dello studio del pensiero nelle scienze della mente, così come della ricerca sulla disabilità e il deficit cognitivo. Questo contributo passa attraverso quello altrettanto importante della scuola neuropsichiatrica francese, che con autori illustri, da de Ajuriaguerra a Marcelli, da Gibello e Misès alla Schmid-Kitskis, applicando in modo altrettanto originale e creativo le acquisizioni freudiane e bioniane al lavoro sul deficit cognitivo, ha fornito ulteriori significativi apporti. Questo approccio, che si è diffuso anche in Italia passando attraverso inizialmente i centri psicoanalitici ma anche molte scuole di neuropsichiatria infantile, muove da una concezione fortemente unitaria e globale della personalità del disabile cognitivo, considerando l’emozione, l’emotività, come cuore pulsante dell’intelligenza e della cognizione. È un approccio che ha chiari legami anche con il filone della psicomotricità5, nel fecondo terreno d’intersezione tra tradizione psicoanalitica e piagetiana. Tra i vari ambiti d’interesse assai promettente è quello di intervento clinico, anche psicoterapeutico, ma non solo, con disabili cognitivi (vedi ad es. Fattori, 2013; Fattori, Benincasa, 1996), che evidenzia come la capacità di contenimento di angosce molto forti, spesso negate nel nostro immaginario collettivo, ma assai presenti e talvolta a un livello dirompente nella persona con deficit cognitivo, possa rappresentare un potente stimolo e motore per la simbolizzazione, per la capacità di progredire sul piano della rappresentazione simbolica e dunque dell’intelligenza, proprio puntando sulle potenzialità che il contatto con emozioni vive e autentiche può avere ai fini dell’espansione della pensabilità, del sentire e dell’immaginare. Questo approccio, particolarmente nella matrice winnicottiana, è anche quello che ha fornito un fondamentale tassello alla comprensione del problema mente-corpo, mettendo in luce l’imprenscindibile ruolo della madre, con la sua capacità di cure, di accudimento, di contenimento e di rappresentazione delle angosce del bambino, ai fini dell’appropriazione precoce, già in tenerissima età, del corpo sessuato da parte del piccolo d’uomo. Proprio la prospettiva della psicoanalisi, pur non indulgendo a facili posizioni di comodo, è tra quelle più avanzate nel sostenere per il disabile, anche quello più gravemente menomato nel corpo, una speranza di crescita legata alla sua capacità di sentire e di coinvolgersi emotivamente, sottolineando come le angosce circa il proprio corpo siano quasi sempre anche uno spostamento di angosce legate al mentale, all’equilibrio tra amore e odio, avanzando con forza la posizione secondo cui l’amore o l’odio per il proprio corpo siano in definitiva uno spostamento dell’amore o dell’odio che si ha per il proprio Sé mentale, a partire da come precocemente esso è stato oggetto di amore o di odio da parte dei propri genitori, e della madre in particolare (Bollas, 1987).
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Sulla psicomotricità nell’ambito della pedagogia speciale si rimanda al lavoro di Trisciuzzi, Zappaterra (2007).
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Inutile dire che la questione del rapporto tra affettività e pensiero in psicoanalisi abbia una ricaduta importante nell’affrontare anche un tema caldo e difficile come lo studio dell’autismo. È opinione avanzata che oggi sappiamo molte più cose sull’autismo, sebbene siamo ben lungi dall’averne trovato ancora la soluzione al puzzle risolutivo (Barale, Ucelli, 2006; Cottini, 2009). Oggi sappiamo che l’autismo non è una forma di psicosi, e che la sua origine si situa quasi certamente in una complessa interazione di determinanti precoci in larga parte neurobiologiche. Ma molti degli esperti maggiori in questo campo sono dell’avviso che tutti gli approcci di intervento più importanti debbano passare attraverso il contatto interpersonale; ambito nel quale, ancora una volta, la psicoanalisi può dire la sua e ha molto da dare. Sebbene i caratteri autistici, del vero soggetto autistico, siano qualcosa di diverso dalle difese autistiche (Tustin, 1987) in pazienti non autistici, la capacità di un ascolto attento e rispettoso (Nissim Momigliano, 2001) del dolore anche della persona autistica, da parte del terapeuta ma anche dell’educatore, può avere un ruolo importante, talora inestimabile, nel creare per lei un importante, a volte, o più spesso l’unico, o quasi, legame autenticamente significativo nella propria vita fuori dalla famiglia, all’interno del quale la sua esperienza soggettiva e la sua peculiare visione del mondo possano incontrare una comprensione e una condivisione a livello profondo, una breccia possa essere aperta nel funzionamento dei suoi meccanismi autistici, con beneficio per l’incremento delle sue potenzialità d’interazione e di coinvolgimento sociale, la sua capacità simbolica all’incrocio tra affettività e cognizione.
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Difficoltà di apprendimento su base affettiva e relazione allievo-insegnante. L’ultimo punto in questa carrellata, ma si potrebbero menzionare altri ambiti ancora, riguarda il fondamentale campo d’intervento che si colloca al crocevia tra inibizioni o difficoltà dell’apprendimento su base emotiva e la relazione allievoinsegnante o educando-educatore. La particolarità dell’approccio psicoanalitico alle difficoltà di apprendimento, come ho avuto modo di argomentare per esteso in un mio precedente lavoro (Fratini, 2012b), consiste nel prendere in esame quelle barriere/difese a livello profondo, derivanti da conflitti emotivi non risolti, i quali, generando angoscia, si ripercuotono poi in quei blocchi del pensiero, in quelle inibizioni alle radici di molte difficoltà di apprendimento. Sono i conflitti psichici più forti quelli ai quali si associano le quote di dolore emotivo maggiore, la cui negazione, producendo angoscia, scatena, in maniera a volte sorprendentemente inspiegabile dall’esterno, quelle forme di stato ansioso o depressivo, talvolta anche assai mascherato, le quali anche nelle personalità più intelligenti e dotate, ricche di talento, determinano quel tipo di blocchi difensivi, di timori, di stati di vuoto emotivo o di inibizione, che sostanziano quei processi di evitamento e quelle gravi limitazioni nell’atto di apprendere, così come quelle deformazioni del pensiero, che portano a distorcere i contenuti di ciò che viene appreso. E ciò nella direzione della svalutazione di sé, o all’opposto della megalomania intellettuale, dello svuotamento del contenuto di apprendimento in senso concreto, vietando l’accesso alla sua risonanza emotiva e alla gratificazione nel compito quotidiano di apprendere e imparare. L’analisi di tali processi consente di spiegare anche come mai, molto spesso, gli approcci alle difficoltà di apprendimento in sogetti normodotati, basati esclusivamente sul sostegno, l’incoraggiamento, il rinforzo o l’apprendimento metaI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
cognitivo di strategie, non ottengano i successi sperati. Si tratta di un ambito, anche questo, nel quale entra in gioco fortemente la capacità di comprensione dei livelli più profondi del funzionamento emotivo, così come la capacità dell’educatore o dell’insegnante di ‘prendere dentro’, di farsi carico delle angosce dell’altro, in modo da alleggerire il carico di angosce dell’educando o dell’allievo a scuola, aiutandolo nel riscoprire quel piacere e quella motivazione ad apprendere, altrimenti massicciamente inibiti, non da un mero problema di disinteresse o di mancanza di volontà, ma dalla negazione di importanti quote di angoscia e di dolore emotivo a livello profondo, vere responsabili occulte delle inibizioni ad apprendere. Sono quelle inibizioni che affondano le radici nelle difese più radicate o apparentemente insormontabili, legate come possono essere a traumi anche molto lontani nel tempo, alle radici del proprio dolore familiare e al gioco delle identificazioni inconsce con aspetti dei propri genitori, a conflitti apparentemente incomprensibili e dunque inizialmente indicibili, e che possono essere risolti proprio affrontandoli come nodi da sciogliere, uno a uno, via via, con estrema pazienza; così da liberare nuovi spazi per la simbolizzazione, la crescita interiore e la maturazione personale, a partire da un’esperienza di sollievo, amore ritrovato e riconciliazione con se stessi. Ciò che in definitiva non è in opposizione ma molto in sintonia con il concetto pedagogico di cura di sé in vari aspetti tra loro collegati (Cambi, 2010). Una visione del burn out degli insegnanti e degli educatori infine, inteso come sindrome derivante da un essenziale accumulo di emozioni dolorose, in esubero e non digerite, in risposta a un esubero di emozioni dolorose dall’allievo o l’educando, proiettate in colui che svolge un ruolo di presa in carico tutoriale (Ferro, 2007; Blandino, 2008), è l’ultimo tassello all’interno di questa panoramica, che ci riporta al ruolo fondamentale dell’emozione e della comprensione dell’esperienza emotiva (Meltzer, 1986) ai fini della soluzione di molti e importanti problemi nell’educazione e nella crescita umana sia degli educandi che degli educatori.
Conclusioni
È stata tracciata in queste pagine una panoramica di ambiti tra loro collegati, attraverso i quali si è cercato di mostrare come l’apporto della psicoanalisi si riveli importante per ampliare gli orizzonti della ricerca e dell’intervento in pedagogia speciale. La pedagogia speciale ha fatto molto strada negli ultimi decenni, secondo molteplici sviluppi diversi rispetto al passato e autonomi di fronte ad altre scienze umane. Molti di questi sviluppi sono oggi racchiusi nella fondamentale prospettiva dell’inclusione. La psicoanalisi, a sua volta, rimane un campo del sapere distinto, e pur tuttavia, come ho cercato di mettere in luce, sono molte le aree d’intersezione e gli ambiti della pedagogia speciale e della ricerca sulla disabilità nei quali non solo la psicoanalisi può dare significativi apporti, ma anche il suo approccio, indirettamente, e i suoi concetti sono e possono ancor più entrare nel bagaglio e nella prassi di ricerca comune e condivisa da molti ricercatori nel campo pedagogico-speciale. È possibile ribadire che quello della psicoanalisi sia sempre un apporto specialistico, non semplice e non scontato, con il rischio altrimenti di scivolare in anno II | n. 1 | 2014
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tentativi di semplificazione, o di cattivo uso a livello teorico e non solo di intervento operativo. Ma mi piace ricordare qui anche la posizione di Francesco Barale (in Barale, Ucelli, 2006), psicoanalista e studioso tra i maggiori in Italia dell’autismo in campo neuropsichiatrico, quando, esprimendosi proprio a proposito dell’autismo, scriveva che un uso cauto ed equilibrato della psicoanalisi e delle sue potenzialità, pur in presenza dei grandi avanzamenti conoscitivi in altre aree disciplinari, possa rivelarsi un tassello importante, se non l’anello mancante, per fare da collante, arricchire, e dare senso compiuto a molti studi scientifici nel campo della disabilità, a volte per la verità di un tipo anche assai meccanico e parcellizzato, e dunque non facilmente confrontabile gli uni con gli altri. E tutto ciò senza scadere in sterili o antipatiche polemiche con altri approcci alla comprensione scientifica, ma lavorando con umiltà e dal basso al progresso di un territorio di ricerca difficile e irto di insidie e di frustrazioni, ma anche ricco di potenziale gratificazione e nobile impegno nel contatto umano, come è quello della disabilità, e in generale, potrei aggiungere, della pedagogia speciale a diversi e significativi livelli.
Riferimenti bibliografici
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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Gli atteggiamenti degli insegnanti verso l’inclusione e la disabilità: uno sguardo internazionale
The processes related to acceptance and inclusion of disabled person permeate and characterize the school contexts, acting, consequently, on the whole educating community. Specifically, the paper aims to explore and describe the teachers’ representations and attitudes about disability and inclusion, providing a photography of the paths and research instruments that characterize the international scientific debate. Numerous researches examine, on the one hand, teachers’ reticence towards a model inclusive school, on the other hand, they represent the prodromes of a cultural change that is revolutionizing suddenly the world of education. Teachers’ attitudes are a complex and extensive cognitive capital: they represent both a thermometer that indicates and records the change, and the cultural humus within which it may find acceptance and implementation.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: Teachers’ attitudes, Inclusion, Disability, Education, Diversity.
abstract
Andrea Fiorucci / Università del Salento / andrea.fiorucci@unisalento.it
II. Revisione sistematica
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1. La scuola come un contesto culturale e simbolico-relazionale
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Pensare alla scuola come a un contesto (Ligorio, Pontecorvo, 2010) piuttosto che come a un luogo fisico di trasmissione, induce a riflettere sulle dinamiche e sulle relazioni che inevitabilmente abitano e co-condizionano, come una gestalt, l’intero ambiente scolastico. Il costruttivismo storico-culturale di Vygotskij (1980) e quello socio-culturale di Bruner (1997) hanno evidenziato le falle di un sistema educativo basato su logiche trasmissive e mono vettoriali ribadendo che il sapere è frutto di una costruzione partecipata, un sapere che investe l’intera identità del formando e del formatore. I nessi che intercorrono tra processi di apprendimento e quelli identitari hanno caratterizzato le riflessioni scientifiche di numerosi autori (Bruner, 1997; Wenger, 1998; Hermans, 1996, Gergen, 1991), determinando lo sviluppo di diverse teorie, tutte finalizzate a rimarcare l’indissolubile relazione che esiste tra ciò che impariamo e ciò che siamo o vogliamo diventare. La scuola, come afferma Ligorio (2010), “è il luogo dove non solo impariamo a scoprire chi siamo, ma anche chi potremmo essere […] è dove costruiamo i nostri sé possibili” (p. 103). È un contesto culturale e simbolico-relazionale all’interno del quale si generano incontri/scontri tra sistemi di credenze e modelli culturali della diversità di cui i docenti sono portatori e che condizionano i modelli culturali degli allievi, all’interno di una relazione educativa che si configura come asimmetrica (Selleri, 2006) e, in quanto tale, capace o di creare/agevolare incontri significativi e processi dialettici, o, al contrario, dinamiche conflittuali che consolidano le distanze intergenerazionali. Gli insegnati, nello specifico, possono contribuire con i loro atteggiamenti a predisporre un terreno fertile sul quale possono proliferare comportamenti respingenti ed escludenti nei confronti del diverso o, di contro, possono predisporre uno spazio di educazione alle differenze finalizzato a promuovere e diffondere la cultura dell’inclusione e l’acquisizione di metodologie e strumenti didattici da impiegare nella pratica dell’insegnamento delle pari opportunità e delle pluralità esistenziali a scuola. La letteratura scientifica di riferimento non solo conferma questo duplice ruolo rivestito dal corpo docente, ma offre una fotografia delle loro rappresentazioni e dei loro atteggiamenti (Boyle et al., 2013; de Boer et al., 2010; Donnelly, Watkins, 2011; Forlin, 2012). Nello specifico, la riflessione che qui si presenta, intende esplorare e descrivere, in un’ottica internazionale, le rappresentazioni e gli atteggiamenti degli insegnanti riguardo alla disabilità e all’inclusione. In ottemperanza alle differenze che caratterizzano le politiche di inclusione scolastica in Europa e in altre culture1, si preferisce offrire una fotografia delle variabili che in generale influenzano i modelli culturali dei docenti. Per quanto concerne il contesto italiano, si rimanda ad un’analisi della letteratura scientifica di 1
Cfr. Lascioli (2007), Goussot (2007), Donnelly & Watkins, (2011) e Forlin (2012).
II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
riferimento2 e a un successivo lavoro sperimentale finalizzato a indagare, in un contesto locale, gli atteggiamenti degli insegnanti verso l’inclusione.
2. Il mare magnum degli atteggiamenti
Gli studi e le ricerche empiriche sugli atteggiamenti in ambito psico-sociale hanno determinato un nutrito dibattito scientifico che, da quasi un secolo, produce riflessioni e teorie inerenti a questo specifico campo di ricerca. Infatti, il termine atteggiamento rimanda a un mare magnum di significati, pur conservando una solida identità epistemologica. Thomas e Znaniecky (1918) sono stati i primi autori a parlare di atteggiamenti asserendo che essi rappresentano processi di conoscenza sociale che determinano l’azione. In seguito, lo studioso Allport (1935) definirà l’atteggiamento come “uno stato mentale neurologico di prontezza, organizzato attraverso l’esperienza, che esercita un’influenza direttiva o dinamica sulla risposta dell’individuo nei confronti di ogni oggetto o situazione con cui entra in contatto” (p. 798). Pur riconoscendo il valore delle intuizioni di questi autori, la definizione che meglio descrive il concetto di atteggiamento, in una accezione più moderna e specifica, è quella proposta dagli studiosi Eagly e Chaiken (1998): “una tendenza psicologica che si esprime valutando una determinata entità con un certo grado di favore o sfavore” (p. 1). Questa definizione, seppur nella sua essenzialità, è molto chiara e focalizza l’attenzione su due elementi costitutivi dell’atteggiamento: l’oggetto e la valutazione. L’oggetto dell’atteggiamento può essere rappresentato da oggetti, individui, elementi astratti, attività, gruppi etc. Per questo motivo, alcune tipologie di atteggiamenti assumono connotazioni ed etichette specifiche. Per esempio l’autostima è l’atteggiamento verso se stessi, i valori sono gli atteggiamenti verso oggetti astratti e i pregiudizi sono gli atteggiamenti verso particolari gruppi sociali. L’aspetto valutativo, che qualifica tutti gli atteggiamenti, è caratterizzato secondo il modello tripartitico proposto da Rosenberg e Hovland (1960) dalla componente cognitiva, che riguarda le conoscenze e le credenze che possediamo relativamente all’oggetto, da quella affettiva, che implica le emozioni e i sentimenti provocati dall’oggetto e, infine, da quella comportamentale che attiene alle azioni di avvicinamento o evitamento rivolte all’oggetto. La specificità del contributo che qui si propone indirizza la riflessione sulla misurazione degli atteggiamenti degli insegnanti verso l’inclusione e la disabilità. In continuità con le idee di Eagly e Chaiken (1993) annovereremo nella macrocategoria degli atteggiamenti il pregiudizio – una tendenza psicologica finalizzata a valutare (quasi sempre negativamente) persone afferenti ad altri gruppi sociali che vengono percepiti come diversi da noi – lo stereotipo – nucleo cognitivo del pregiudizio (Mazzara, 1997) – e le discriminazioni – reazioni di tipo affettivo e comportamentale. 2
Cfr. Cornoldi et al. (1998), Vianello, Moalli (2001), Zambelli, Bonni (2004), Ianes et al. (2010) e Canevaro et al. (2011).
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Inoltre, faremo riferimento alla teoria delle rappresentazioni sociali elaborata Moscovici (1961, 1984): un sistema complesso di atteggiamenti e valori che permettono alle persone di comunicare e di capirsi secondo un codice sociale condiviso.
3. Variabili che influenzano gli atteggiamenti degli insegnanti
Sebbene la legislazione orienti e condizioni le politiche educative in materia di inclusione, la vera battaglia del cambiamento ha origine e si gioca sul campo; il contesto scolastico diviene, così, crocevia di incontri e scontri di modelli culturali della diversità che “contaminano” non solo la prassi educativa, ma il modo di vivere e pensare la scuola. Gli atteggiamenti del personale scolastico, nello specifico del corpo docente, verso l’inclusione e la disabilità rappresentano il termometro che misura tale cambiamento. Prendiamo in esame le variabili che influenzano maggiormente gli atteggiamenti degli insegnanti.
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– Percezione dell’inclusione e relazione educativa Numerosi studi internazionali si sono focalizzati sulla relazione causale che esiste tra gli atteggiamenti degli insegnanti e il successo/sviluppo dell’inclusione nel contesto scolastico (Ringlaben , Griffith, 2008; Daane et al., 2001; Kavale, 2002; Forlin, 2011, 2012; Avramidis, Sutherland, 2002). Gli atteggiamenti positivi e sollecitanti degli insegnanti rappresentano uno dei più importanti fattori che determinano e agevolano i processi inclusivi (Sze, 2009; Winzer et al., 2000), mentre quelli di chiusura e rinuncia sovente, determinano una ferita nella relazione educativa (Campbell, Gilmore, 2003; Cook et al., 2000), generando nel discente con bisogni specifici scoraggiamento e sentimenti di rifiuto nonché di disconferma e di demotivazione. Gli atteggiamenti negativi, inoltre, rendono meno efficaci le strategie didattiche e compromettono gli apprendimenti (Bender et al., 1995), alimentando un clima di segregazione ed esclusione (Darrow, 2009; Kavale, 2002). La relazione con gli alunni con disabilità, in ogni caso, disorienta e genera nei docenti paura e fragilità nonché sentimenti di compassione/evitamento o di iperprotezione/ingerenza (Daane et al., 2001). Molti docenti, anche i più aggiornati, ritengono di non possedere le competenze necessarie e idonee per rispondere alle differenti esigenze degli studenti con disabilità (Lohrmann, Bambara, 2006: Shade & Stewart, 2001) e sovente, denunciano una mancanza di supporto da parte dell’istituzione scolastica (dirigenti, insegnanti e personale scolastico) (Snyder, 1999). – Gravità e tipologia del deficit In relazione alle differenze che abitano il mondo della diversità/disabilità a scuola, la ricerca scientifica ha dimostrato che gli atteggiamenti degli insegnanti dipendono dal tipo e dalla gravità di disabilità dello studente (Campbell, Gilmore, 2003; Jobe, Rust, 1996; Koutrouba et al., 2006): a una maggiore complessità del II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
deficit, di solito, corrispondono atteggiamenti di ritrosia e inadeguatezza, mentre a un deficit lieve o un disturbo specifico dell’apprendimento, atteggiamenti assertivi e propositivi. Gli studenti con disabilità intellettive, comportamentali o multiple determinano maggiore preoccupazione (Sze, 2009; Winzer et al., 2002; Cook, 2001). Oltre alla gravità nosografica, la variabile che esercita un ruolo decisivo sull’esito e sullo sviluppo della relazione educativa è la compromissione dell’interazione: le difficoltà inerenti alla comunicazione e al linguaggio rappresentano i maggiori ostacoli e gli elementi che rendono monco e problematico il lavoro di prossimità. – Special education teacher e general education teacher Gli special education teacher mostrano atteggiamenti più positivi verso l’inclusione (Jobe, Rust, 1996) a differenza dei general education teacher che vedono negli alunni disabili una minaccia e un ostacolo alla propria didattica (Rheams, Bain, 2005). Tale squilibrio si ripropone anche nel contesto italiano nel rapporto docenti curriculari docenti di sostegno (Ianes et al., 2010). Tutti gli insegnanti condividono preoccupazioni simili rispetto all’attuazione dell’inclusione: credono che gli studenti con disabilità non riceveranno un’istruzione efficace in una classe inclusiva e che questo potrà ledere la loro autostima e ostacolare il processo di apprendimento (Boyle et al., 2013).
– Ordine di scuola e disciplina insegnata Per quanto concerne l’ordine di scuola, gli insegnanti di scuola primaria tendono ad avere atteggiamenti più positivi verso l’inclusione (Monsen, Frederickson, 2004; Winzer et al., 2000; Ianes et al., 2010), mentre nella scuola di secondo grado è più probabile incontrare atteggiamenti negativi e di disappunto (Jobe, Rust, 1996; Vianello, Moalli, 2001). Ciò può essere attribuito sia alla quantità e alla qualità di tempo che i docenti di scuola primaria passano con i loro alunni, sia all’atteggiamento materno (o paterno) che caratterizza la relazione didattica ed educativa in questo ordine di scuola. Il bambino con disabilità, infatti, è oggetto di numerose attenzioni che includono quelle riguardanti il mondo dell’infanzia e quelle relative al mondo dello svantaggio, mentre l’adolescente/adulto disabile, sebbene, sia spesso oggetto di processi di “infantilizzazione”, rimane sempre una persona adulta con delle esigenze e caratteristiche che collidono o poco si conciliano con il setting scolastico. Gli insegnanti di scuola secondaria di primo e secondo grado, inoltre, sono, in misura maggiore, assoggettati alla corsa affannosa dei programmi didattici, motivo per il quale essi considerano la specificità/difficoltà di apprendimento o la disabilità di un alunno una causa di rallentamento o aggravio di lavoro invece che una risorsa. Anche la disciplina scolastica insegnata, secondo studi sperimentali (Ellins, Porter, 2005; Kirch et al., 2005), influenza gli atteggiamenti: gli insegnanti di inglese, matematica, scienze, musica incontrano maggiori difficoltà nella didattica disciplinare in quanto essa è caratterizzata da saperi altamente codificati (simboli matematici, note musicali etc.), ma non necessariamente inconciliabili con i bisogni educativi speciali. anno II | n. 1 | 2014
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Tuttavia, tali ostacoli di natura, quasi sempre, didattica e non epistemologica rischiano di condizionare le prestazioni e gli apprendimenti degli alunni.
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– Genere, età anagrafica e anni di servizio Rispetto al genere i risultati delle ricerche appaiono, a volte, discordanti. Alghazo et al. (2003) asseriscono che gli atteggiamenti dei docenti risultano disancorati dalla dimensione di genere, mentre uno studio condotto da Jobe e Rust (1996), dimostra che gli insegnanti rivelano, con più frequenza, atteggiamenti negativi o respingenti verso la diversità, mentre le insegnanti mostrano maggiore sensibilità e naturalezza nei confronti della relazione di prossimità esercitando una funzione di maternage e di holding (Winnicott, 1957), ossia una modalità di accudimento e di sostegno legate alla dimensione femminile e materna. Queste ricerche, tuttavia, dovrebbero considerare che le donne rappresentano la grande maggioranza del corpo docente a livello primario e secondario inferiore: in circa la metà dei paesi europei, la percentuale di insegnanti donne è pari al 70% (Commissione europea/Eurydice, 2013). L’età anagrafica e gli anni di servizio dei docenti sono un’altra variabile significativa: i più giovani mostrano atteggiamenti più accondiscendenti verso l’inclusione e la disabilità (Cornoldi et al., 1998; Forlin, 2012), ma, nel contempo, dichiarano di essere inesperti, mentre gli anni di servizio incidono positivamente sulla qualità della relazione e sull’efficacia degli interventi didattici. Di contro però, i docenti che da diversi anni si rapportano al mondo della disabilità e dello svantaggio risultano maggiormente esposti ad agenti stressogeni e sindrome di burnout (De Caroli, Sagone, 2008), in quanto la relazione risulta, dal punto di vista emotivo e didattico, impegnativa e onerosa nonché, sovente, spoglia di conquiste e progressi tangibili.
– Burnout e self efficacy La non linearità della correlazione tra l’impegno profuso dai docenti e i risultati/progressi raggiunti dal discente sono le maggiori cause che incidono negativamente sullo stato emotivo e sull’efficacia didattica del docente generando, in certe circostanze, abbandono o trasferimenti (Gersten et al., 2001) nonché transiti verso il ruolo curriculare. Relazionarsi al “diverso/disabile” intimidisce e atterrisce. L’imbarazzo, la paura del fallimento e dell’incomprensione, la soggezione sono sensazioni e meccanismi che si attivano naturalmente nella relazione. Riconoscere alla persona il suo “statuto di specialità” significa, in questo caso, comprenderla, ovvero prenderla accanto a sé (Pinnelli, 2011): conoscerla e riconoscerla nella sua diversità senza avere l’obbligo di accettarla. L’accettazione, infatti, è un processo che implica inevitabilmente l’attivazione nella relazione di processi di potere e subordinazione. Una relazione basata sull’accettazione è per definizione asimmetrica e in quanto tale subordinata al potere culturale che l’accettante esercita nei confronti dell’accettato. Non accettare quindi, ma riconoscere e comprendere la persona nella sua essenza poliedrica e multiforme. Entrare in relazione con gli altri, nello specifico con una persona diversa da noi, significa negoziare parti di sé, mettersi in gioco, riconoscere i propri limiti e le proprie fragilità. Il processo di inclusione appare, in tal senso, arduo e impegnativo e richiede inevitabilmente che il docente risponda alla moltitudine dei bisogni che emerII. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
gono nel contesto scolastico con una logica di (self)empowerment e di educazione alla resilienza attuando strategie di coping e comportamenti finalizzati alla gestione e al controllo dello stress. Il burnout secondo la prospettiva elaborata da Maslach (1993) è una forma di stress interpersonale che interessa le professioni di aiuto, caratterizzata da deperimento emotivo, inadeguatezza al compito, indebolimento della self efficacy: variabile cognitiva studiata da Bandura (1976) che rappresenta la convinzione/percezione che la persona ha di sé circa la capacità di dominare specifiche attività e di eseguire un compito. Gli insegnanti che manifestano livelli alti di autoefficacia professionale tendono a essere più prestanti e tenaci, conquistando maggiori risultati sia sul piano dell’apprendimento che dell’inclusione (Coladarci, 1992; Sharma et al., 2012). Di contro, gli insegnanti che mostrano atteggiamenti rinunciatari e di rassegnazione interiorizzano e sviluppano un senso di inadeguatezza e di impotenza appresa.
– Formazione e aggiornamento La formazione/aggiornamento dei docenti su tematiche inerenti alla Special Education è una variabile che influenza l’efficacia didattica e la relazione educativa (Freytag, 2001). Gli insegnanti che hanno aderito a specifici percorsi di formazione appaiono più prestanti e più propensi a sperimentare percorsi orientati all’inclusione scolastica. In tal senso, la formazione rappresenta un capitale e una eredità culturale che non appartiene solo al singolo docente e al proprio bagaglio professionale ed esistenziale, ma uno strumento al servizio del contesto scolastico (Sharma, et al., 2008; Forlin, 2012). – Esperienza di contatto Una variabile decisiva che interviene nella strutturazione degli atteggiamenti e che influenza fortemente le altre variabili è l’esperienza di contatto. È stato lo studioso Allport (1954) a porre l’attenzione sull’effetto che il contatto produce sulla riduzione del pregiudizio e delle ostilità tra gruppi. Accanto a questa ipotesi, gli studiosi Hewstone e Voci (2009) hanno formulato un’ipotesi inversa, secondo cui il pregiudizio riduce il contatto. Ad ogni modo, l’esperienza di contatto è un elemento essenziale e indispensabile per realizzare qualunque strategia di intervento finalizzata alla riduzione del pregiudizio e dell’avversione nei confronti della diversità. Il contatto con una persona disabile condiziona positivamente gli atteggiamenti degli insegnanti (Vianello, Moalli, 2001; Zampelli, Bonni, 2004; Burke, Sutherland, 2004) e, nello specifico, quelli degli insegnanti curriculari o dei general education teacher, offrendo loro la possibilità, in un clima ovattato e protetto come quello della classe, di avvicinarsi con prudenza e serenità al mondo della diversità. Di contro, però, il contatto può rappresentare uno strumento di conferma e legittimazione di atteggiamenti pregiudizievoli verso l’altro ottenendo, così, un effetto boomerang. – Collaborazione tra insegnanti e la risorsa compagni In un contesto variegato e complesso come quello scolastico, la relazione con l’altro può agevolare o ostacolare lo sviluppo del processo inclusivo.
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Numerosi studi hanno sottolineato l’importanza della collaborazione tra colleghi (Voltz et al., 2001) e tra docenti curriculari e docenti di sostegno (Janney et al., 1995). Anche gli alunni possono condizionare con i propri atteggiamenti quelli dei docenti. Essi, infatti, possono rappresentare per l’insegnante sia una risorsa in grado di determinare rapporti solidali e di interazione nel gruppo (Cottini, 2004; Janney, Snell, 1996; Stainback, Stainback, 1990), che uno “strumento” didattico al servizio di tutti e, nello specifico, dell’alunno con disabilità. Pensiamo a quelle specifiche strategie – tutoring, cooperative learning, modeling – che non solo coinvolgono tutti, ma che adoperano la “risorsa compagni” per raggiungere parallelamente risultati inerenti all’apprendimento e all’inclusione. Queste strategie, così come gli atteggiamenti propositivi degli insegnanti, trovano maggiore accoglienza in classi non molto numerose (Soodak et al., 1998) e competitive.
4. Misurazione degli atteggiamenti verso l’inclusione e la disabilità
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Lo studio degli atteggiamenti, si avvale, principalmente, della tecnica delle scale (scaling) ossia un insieme di procedure messe a punto per misurare concetti complessi e non direttamente osservabili. Le scale di misurazione degli atteggiamenti più utilizzate sono la scala Likert e il differenziale semantico. La scala Likert che prende il nome dal suo ideatore (Likert, 1932) è caratterizzata da una serie di affermazioni (items) rispetto alle quali l’intervistato deve esprimere e graduare (secondo 5 o 7 livelli) il proprio accordo o disaccordo. Il differenziale semantico, proposto dagli studiosi Osgood et al. (1957), è uno strumento caratterizzato da una lista di coppie di aggettivi bipolari (uno contrapposto all’altro) divisi da una scala di rating: gradi (5 o 7) che esprimono la vicinanza a uno dei due aggettivi. Tale, strumento è finalizzato a quantificare l’aspetto connotativo dei concetti presi in esame, e, quindi, a rivelare la componente emozionale-affettiva dell’atteggiamento. Di seguito si riporta una panoramica delle numerose e differenti scale messe a punto dai ricercatori per misurare gli atteggiamenti verso la disabilità (tipologie o specifici aspetti) e l’inclusione3. Le scale più adoperate sono quelle multidimensionali (composte da sotto-scale) e di tipo Likert. Molti strumenti, nel corso del tempo, hanno subito diverse modifiche e hanno rappresentato la base per elaborazioni di altre scale. – Scale di misurazione degli atteggiamenti verso la disabilità - Attitudes Toward Disabled Persone Scale (ATDP) ideata da Yuker et al. (1966): misura gli atteggiamenti di persone con e senza disabilità nei confronti delle persone con disabilità. - Disability Factor Scale General (DFS-G) di Siller et al. (1967): misura gli atteggiamenti verso le persone con disabilità fisiche e malattie croniche. - Disability Social Distance Scale (DSDS) di Tringo (1970): misura gli atteggia3
Per un maggiore approfondimento cfr de Boer et al. (2010) e Gamst et al. (2011).
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menti nei confronti delle persone con specifiche disabilità stabilendo l’esistenza e la composizione di una gerarchia di preferenza tra 21 tipologie di disabilità. Acceptance Scale ideata da Voeltz (1980): misura gli atteggiamenti degli alunni verso i coetanei con disabilità fisiche. Scale of Attitudes Toward Disabled Persons (SADP) di Antonak (1982): misura gli atteggiamenti verso le persone con disabilità rappresentandole come gruppo/categoria. Disability Social Relationship Scale (DSRS) di Grand et al. (1982): misura l’influenza che i fattori sociali esercitano sugli atteggiamenti verso le persone con epilessia, difetti fisici e cecità. Issues in Disability Scale (IDS) di Makas et al. (1988): misura gli atteggiamenti verso le persone con varie disabilità. Interaction with Disabled Persons Scale (IDPS) di Gething (1991): misura il disagio che provoca l’interazione sociale con le persone con disabilità. Multidimensional Attitudes Scale Toward Persons With Disabilities (MAS) di Findler et al. (2007): misura gli atteggiamenti verso i disabili avvalendosi di un modello multidimensionale che considera le tre dimensioni costitutive dell’atteggiamento: affettività, cognizione e comportamento.
– Scale di misurazione degli atteggiamenti degli insegnanti verso l’inclusione La maggior parte delle scale ideate dai ricercatori stranieri sono finalizzate – in considerazione di un modello di inclusione scolastica diverso da quello italiano – a valutare e misurare le opinioni, gli atteggiamenti e le preoccupazioni degli insegnanti o degli aspiranti insegnanti circa l’attuazione e la sostenibilità dell’inclusione. Non sono, quindi, strumenti che osservano e valutano i processi in atto – come, invece, avviene in Italia –, ma scale che misurano l’accoglibilità di un sistema di inclusione che vede nel modello italiano un progetto di rivoluzione e di cambiamento culturale auspicabile. - Attitudes Toward Inclusion Scale (ATIS) e Opinions Relative to Mainstreaming (ORM) di Larrivee e Cook (1979). - Attitudes Towards Mainstreaming Scale (ATMS) di Berryman e Neal (1980). - Teachers’ Attitudes Scale on Inclusion (TASI) di Green e Stoneman (1989). - Attitudes Towards Inclusive Education (ATIE) Scale di Wilczenski (1992). - Opinions Relative to Integration of Students with Disabilities (ORI) scale di Antonak e Larrivee (1995). - Mainstreaming Attitudes Survey (MAS) di Bender et al. (1995). - Teacher Integration Attitudes Questionnaire (TIAQ) di Sideridis e Chandler (1995). - My Thinking About Inclusion questionnaire (MTAI) di Stoiber et al. (1998). - Concerns about Inclusive Education Scale (CIES) di Sharma e Desai (2002). - Prevailing Attitudes about Inclusion questionnaire di Hammond e Lawrence (2003). - Multidimensional Attitudes toward Inclusive Education Scale (MATIES) di Mahat (2008). - Teacher Efficacy for Inclusive Practice (TEIP) scale di Sharma et al. (2012): misura i fattori che influenzano il successo delle attività in aula nella creazione di un ambiente scolastico inclusivo. anno II | n. 1 | 2014
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- Sentiments, Attitudes, Concerns regarding Inclusive Education (SACIE-R) scale di Loreman et al. (2007) poi rivista da Forlin et al. (2011).
5. Una scuola (in)differente. Verso l’inclusione?
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Le ricerche in ambito internazionale mostrano che il corpo docente è ancora scettico e poco fiducioso nei confronti dell’inclusione scolastica. Fin dai primi esperimenti di mainstreaming, gli insegnanti hanno dimostrato di avere, in generale, atteggiamenti negativi verso l’inclusione, rivelando incertezza rispetto ai vantaggi dell’inclusione (Hammond, Ingalls, 2003). La ricerca più recente, tuttavia, ha riscontrato un cambiamento negli atteggiamenti degli insegnanti verso una visione più favorevole, confermando che il contatto con la diversità influenza positivamente i loro modelli culturali (Forlin, 2011). L’insegnante di sostegno (in Italia) e lo special education teacher (in altre culture) non rappresentano più l’unico medium che intercede con il mondo della differenza/disabilità: tutti gli attori del contesto scolastico, sono chiamati a entrare in relazione con la diversità. Non più, quindi, logiche segreganti e ghettizzanti, ma logiche inclusive e di partecipazione sociale. La scuola, in preda ad una rivoluzione costante e inarrestabile è chiamata, oggi, ad assolvere uno specifico compito: lo sviluppo del potenziale umano – anche se condizionato dal deficit – in un’ottica sempre di inclusione sociale. Lavorare nei contesti educativi, a stretto contatto con la disabilità non è semplice, significa, come asserisce Marisa Pavone (2014), “toccare con mano i limiti della natura e delle capacità umane, ma anche riscontrare ampie potenzialità di ripresa e di compensazione” (p. 183). Anche se la strada da percorrere per raggiungere l’inclusione appare irta e disconnessa, la scuola non può desistere, deve intravedere nella persona la possibilità dell’educabilità (Caldin, 2011), riponendo in essa piena fiducia. L’inclusione, pertanto, è frutto di uno “strabismo culturale” che guarda parallelamente all’apprendimento e alla socializzazione e che si conquista con la professionalità e le competenze, ma che, al contempo, si alimenta con la sensibilità e la voglia di mettersi in gioco: non è un prodotto naturale e meccanico, ma un processo evolutivo (Canevaro, 2013), “una relazione, un modo di rapportarsi con l’altro” (Gelati, 2005, p. 168). I processi legati agli sviluppi dell’inclusione scolastica e sociale rappresentano, in ogni cultura, un viaggio verso l’ignoto. Si conosce il punto di partenza, ma difficilmente si riesce ad immaginare il punto di arrivo (ammesso che esista). Nemmeno lo sguardo più lungimirante è capace di intravedere cosa c’è al di là. È quello che è accaduto nella scuola italiana negli ultimi 40 anni: un processo di integrazione (all’inizio di inserimento selvaggio), che ha permesso agli alunni con disabilità di far parte, a tutti gli effetti, della comunità scolastica. Potevamo prevederlo? È difficile oggi dare una risposta senza essere influenzati dalla cultura in cui viviamo, ma di contro è molto facile riscontrare nelle persone più giovani una lontananza abissale dai modelli che in passato hanno caratterizzato l’istruzione scolastica dei disabili. II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
Chiedere ad un bambino il significato dei termini “classi differenziali” o “scuola speciale” lo porterebbe in confusione o lo spingerebbe a pensare a delle scuole per supereroi. Cosa è cambiato? La cultura, noi. Le innumerevoli ricerche che hanno caratterizzano il serrato dibattito scientifico sull’inclusione scolastica a livello internazionale rappresentano questo viaggio. Un viaggio che riconosce piena legittimità alla ritrosia e alla reticenza di chi ancora non abita il cambiamento (gli insegnanti), ma che sollecita la cultura a varcare i confini dell’ignoto per rendersi disponibile allo sviluppo e al cambiamento.
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La scala rivista delle Opinioni, degli Atteggiamenti e delle Preoccupazioni sulla formazione inclusiva (SACIE-R) per la misurazione delle percezioni degli insegnanti tirocinanti circa l’inclusione*
Chris Forlin / Hong Kong Institute of Education Chris Earle / Concordia University College of Alberta Tim Loreman / Concordia University College of Alberta Umesh Sharma / Monash University Traduzione a cura
This paper reports the final development of a scale to measure pre-service teachers’ perceptions in three constructs of inclusive education, namely, sentiments or comfort levels when engaging with people with disabilities; acceptance of learners with different needs; and concerns about implementing inclusion. The Sentiments, Attitudes, and Concerns about Inclusive Education Revised (SACIE-R) scale was developed from an initial 60 items and administered through a series of refined surveys. A final 15-item scale was validated using 542 pre-service teachers from nine institutions in four countries including Hong Kong, Canada, India, and the United States. It is posited that the SACIE-R scale will yield valuable information for assisting universities and colleges in preparing more specific training to address the needs of pre-service teachers for working with diverse student populations.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: Teachers’ attitudes, Inclusion, Disability, Education, Diversity.
abstract
Stefania Pinnelli / Università del Salento / stefania.pinnelli@unisalento.it
III. Esiti di ricerca *
Author(s) of the Original Article: Forlin, C., Earle, C., Loreman, T., & Sharma, U. Exceptionality Education International, 21(2 & 3), 50-65. Title: The Sentiments, Attitudes and Concerns about Inclusive Education Revised (SACIE-R) scale for measuring pre-service teachers’ perceptions about inclusion. In Exceptionality Education International 2011, Vol. 21, No. 3, pp. 50–65, ISSN 1918-5227
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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Per approccio inclusivo si intende un contesto educativo adeguatamente attrezzato affinché la formazione di tutti gli studenti rientranti nello spettro della diversità abbia luogo nella normalità della scuola di quartiere, nelle classi comuni che si frequenterebbe se la diversità non fosse presente, (Jordan, 2007). Partendo dal significato originario di inclusione degli studenti con specifiche disabilità – o, come si direbbe nel Regno Unito, con difficoltà di apprendimento – il concetto di inclusione si è notevolmente allargato per riferirsi al soddisfacimento dei bisogni di tutti i bambini, compresi quelli con ritardo, quelli fragili e vulnerabili, quelli appartenenti a culture o gruppi etnici diversi, quelli in condizioni di povertà o quelli che per qualsiasi altra ragione trovano particolarmente difficoltoso l’accesso all’istruzione (cfr. Calgary Board of Health, 2008, per una definizione della varietà delle popolazioni; Gause, 2011; Richards, Brown, Forde, 2009). L’inclusione di tutti gli studenti in percorsi scolastici comuni è il risultato di un’azione internazionale tesa a fornire pari opportunità e accesso a tutti gli studenti nelle stesse scuole ogni qualvolta sia possibile. L’istituzione della prima Conferenza Mondiale sull’Educazione per Tutti (World Conference on Education for All) a Jomtein, in Thailandia (UNESCO, 1990), seguita dall’ Azione Quadro per l’Educazione per Tutti: Portare a Compimento i nostri Impegni Collettivi, (Dakar Framework for Action, Education for All: Meeting Our Collective Committments) al Forum Mondiale dell’Educazione svolta a Dakar, Senegal (UNESCO, 2000), e la redazione dell’importante Dichiarazione di Salamanca (Salamanca Statement) (UNESCO, 1994), riaffermano che l’educazione inclusiva rappresenta il modo più corretto per educare la maggioranza dei bambini in tutti gli Stati. La riflessione sulla formazione dei bambini si è gradualmente e sempre più concentrata sulla possibilità di fornire eque opportunità educative secondo una prospettiva basata sui diritti, il che ha portato ad una educazione inclusiva che ormai da trenta anni continua ad essere promossa e implementata a vari livelli e in molte regioni. In alcuni paesi, l’inclusione è divenuta parte integrante della legislazione; negli Stati Uniti, per esempio, con l’Atto per lo Sviluppo degli Individui con Disabilità (Individuals with Disabilities Improvement Act) (United States Department of Education, 2004) o come nel Regno Unito, con il Codice di Pratica (Code of Practice) (Department for Education, 2001). Tuttavia, in molte realtà, permane una certa riluttanza circa la reale attuabilità del processo inclusivo (Woolfson, Brady, 2009) e, di conseguenza, in alcuni casi c’è poco supporto per l’inclusione (Alghazo, Gaad, 2004), soprattutto quando i bisogni dello studente sono particolarmente gravi (Talmor, Reiter, Feigin, 2005).
1. Inclusione e formazione docenti
Sulla scia del movimento culturale verso la promozione di un approccio inclusivo all’educazione scolastica, anche la formazione docenti è stata sottoposta ad un cambiamento di prospettiva nel preparare gli insegnanti a questo mutamento (Forlin, 2008; Forlin, 2010a). Oltre ad una riforma degli standard, in molte zone, come gli Stati Uniti, l’inclusione ha messo alla prova gli educatori nell’impegno ad elevare il livello della formazione per tutti gli studenti, compresi quelli con disabilità (Voltz, Collins, 2010). Allo stesso modo una notevole influenza sulla formazione dei futuri insegnanti negli Stati Uniti (Harvey, Yssel, Bauserman, Merbler, III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
2010), è giunta dalle tante sollecitazioni dell’Atto Nessun Bambino Indietro (No Child Left Behind Act), (Government of the United States of America, 2001). Il recente Articolo 24 della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità (Convention on the Rights of Persons with Disabilities) (United Nation, 2006) esplicita il diritto delle persone con disabilità ad un’educazione senza discriminazioni e basata su pari opportunità. Esso introduce anche l’idea secondo la quale lo staff insegnanti e lo staff amministrativo devono, a tutti i livelli di istruzione, fruire di formazione in servizio e che “tale preparazione deve riguardare anche la conoscenza relativa al tema della disabilità e l’uso di misure innovative e alternative, di mezzi e modelli di comunicazione, di tecniche e di materiali educativi per sostenere le persone con disabilità” (UNESCO, 2006, Article 24, 4).
2. Gli Atteggiamenti verso l’inclusione
La comprensione delle opinioni dei insegnati tirocinanti in relazione all’inclusione è un aspetto importante poiché gli atteggiamenti positivi verso l’inclusione sono tra i maggiori indicatori di successo delle riforme per l’inclusione (Avramidis, Norwich, 2002; Forlin, 2010a). Si è rilevato che pratiche inclusive efficaci dipendono per lo più dalle opinioni sulla natura della disabilità e dalla percezione dei loro ruoli nel sostenere gli studenti con bisogni educativi speciali (Jordan, Schwartz, McGhie-Richmond, 2009). Si è inferito che l’esperienza e la conoscenza derivante da precedenti contatti con gli studenti con disabilità siano direttamente collegate ad atteggiamenti più positivi da parte dei docenti verso l’inclusione (Burke, Sutherland, 2004). Una maggiore comprensione dell’atteggiamento docente verso l’inclusione può contribuire a migliorare l’ambiente di apprendimento (Ross-Hill, 2009). Gli educatori che esprimono comportamenti apprensivi potrebbero adottare, nelle loro classi, delle pratiche che promuovono l’esclusione invece dell’inclusione (Sharma, Forlin, Loreman, 2008). Viceversa, gli educatori con atteggiamenti positivi verso l’inclusione tendono ad usare delle strategie didattiche che permettono loro di andare incontro alle differenze individuali (Campbell, Gilmore, Cuskelly, 2003; Forlin, 2010a).
3. Le preoccupazioni nei riguardi dell’inclusione
Benché gli atteggiamenti degli educatori siano importanti indicatori del potenziale successo o fallimento dell’inclusione, ugualmente importanti sono le loro preoccupazioni sull’inclusione (Symeonidou, Phtiaka, 2009). Agbenyega (2007) ha esplorato gli atteggiamenti e le preoccupazioni di 100 docenti, nell’insegnamento nelle classi inclusive in Ghana. Egli ha scoperto che le maggiori preoccupazioni degli insegnanti riguardavano la loro mancanza di competenze nell’insegnare efficacemente agli studenti con disabilità e la mancanza di risorse per andare incontro ai bisogni individuali, giungendo alla conclusione che l’accettazione e l’impegno degli insegnanti a realizzare l’inclusione sono probabilmente influenzate dai loro atteggiamenti e dalle loro preoccupaanno II | n. 1 | 2014
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zioni. Changpinit, Greaves, Frydenberg (2007) hanno esaminato gli atteggiamenti e le preoccupazioni di 702 educatori di ruolo in classi inclusive in Tailandia. Essi hanno appurato una correlazione negativa significativa tra gli atteggiamenti e le preoccupazioni dei partecipanti. I partecipanti che avevano attegiamenti relativamente positivi verso l’educazione inclusiva tendevano ad avere preoccupazioni meno marcate o viceversa. In uno studio recente, Forlin and Chambers (2011) hanno approfondito il lavoro di altri ricercatori esaminando come la padronanza didattica nell’insegnare a studenti con disabilità e la conoscenza delle politiche locali abbiano un impatto sugli atteggiamenti e sulle preoccupazioni dei futuri insegnanti. I ricercatori hanno rilevato che il livello di padronanza e la conoscenza della legislazione sono positivamente e significativamente correlate agli atteggiamenti verso l’inclusione degli studenti con disabilità e, viceversa, negativamente correlate alle preoccupazioni per l’inclusione. Gli autori hanno anche chiarito, tuttavia, che un incremento della conoscenza della legislazione e delle politiche collegate all’inclusione e l’acquisizione di una maggiore padronanza non risolvevano le preoccupazioni dei partecipanti o il loro stress associato alla presenza degli studenti con disabilità nelle loro classi.
4. Misurare gli atteggiamenti e le preoccupazioni
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La maggior parte delle testimonianze raccolte sulle opinioni e sul supporto degli insegnanti tirocinanti circa l’educazione inclusiva è di carattere aneddotico ed è stata reperita lentamente e con difficoltà attraverso alcuni campioni in contesti specifici e alquanto ristretti. La ricerca in questa area tende ad essere limitata (Sze, 2009). La raccolta di dati quantitativi affidabili è circoscritta all’uso di pochi strumenti che sono stati messi a punto per contesti specifici, come lo sviluppo di una scala di 24 item per misurare gli atteggiamenti da parte dei dirigenti scolastici verso l’inclusione degli studenti con disabilità in scuole comuni (Bailey, 2004). Ciò che è emerso dalla raccolta dei dati, tuttavia, è che gli atteggiamenti e le opinioni verso gli studenti con disabilità e la percezione della propria competenza personale (preoccupazioni) hanno sulla disponibilità di un insegnante ad impegnarsi pienamente nell’ideare appropriati curricula inclusivi (Wilczenski, 1992, 1993). La ricerca ha anche sottolineato l’importanza di un’accurata formazione dei docenti e dei futuri insegnanti, di abilità ulteriori atte ad affrontare e soddisfare i bisogni di una sempre più variegata popolazione scolastica (Chong, Forlin, Au, 2007; Florian 2009; Forlin, Loreman, Sharma, Earle, 2009; Loreman, Forlin, Sharma, 2007; Sharma, Desai, 2002 Sharma et al., 2008). Ciò che sembra mancare, comunque, è un metodo accurato e affidabile in grado di misurare l’utilità del tirocinio nel mutare gli atteggiamenti, le opinioni e i timori dei docenti; in particolare, un valido strumento per comparare in contesti internazionali eterogenei la preparazione dei docenti e i loro progressi.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
5. Le inclinazioni degli insegnanti tirocinanti verso l’inclusione
Questo lavoro si focalizza sul percorso formativo nel tirocinio dell’insegnante. I tre costrutti psicometrici identificati nello sviluppo della scala SACIE si riferiscono ad aspetti della formazione inclusiva precedentemente considerati e ritenuti a fondamento delle convinzioni, del supporto e dell’impegno di un docente nella promozione delle pratiche inclusive (Sharma, Forlin, Loreman, Earle, 2006). Se gli insegnanti in fase di tirocinio sono adeguatamente preparati ad affrontare la didattica per l’inclusione, allora la necessità di intervenire con attività di aggiornamento in servizio, quando essi sono occupati da una pluralità di mansioni quotidiane legate al loro lavoro, si può ridurre. Una precedente ricerca in cui sono stati adoperati tre strumenti separati (Sharma et al., 2006, 2008) (ossia la misurazione delle opinioni o dei livelli di tranquillità nell’interazione con persone disabili; la misurazione della la disponibilità ad accogliere alunni con bisogni educativi speciali; la misurazione delle preoccupazioni sull’implementazione di pratiche educative inclusive), ha messo in luce il bisogno di una scala più sintetica e più maneggevole per cogliere le sfumature delle numerose questioni associate alle convinzioni sulla praticabilità dell’inclusione in classe. I primi tentativi di Loreman, Earle, Sharma, and Forlin (2007) produssero la scala SACIE (Sentiments, Attitudes and Concerns about Inclusive Education1), realizzata per misurare questi tre fondamentali costrutti della formazione inclusiva negli insegnanti tirocinanti. La scala nella sua versione iniziale era articolata in 19 item. I tre costrutti rappresentati nella SACIE sono gli elementi critici da esplorare, come è stato notato in altri articoli riguardanti la scala (vedi, per esempio, Loreman et al., 2007). I sentimenti, le opinioni il punto di vista dei docenti verso le persone con disabilità influiscono chiaramente sul modo in cui trattano i bambini con disabilità in classe. Questo filone di ricerca sta ricevendo una notevole considerazione in letteratura con scale appositamente sviluppate per misurare questo aspetto basilare della SACIE (vedi Gething, 1991, 1994; Forlin, Jobling, Carroll, 2001). Recentemente, il secondo costrutto, gli atteggiamenti verso l’inclusione, ha ottenuto grande attenzione nella letteratura sulla formazione degli insegnanti e sull’inclusione, con una ricerca da cui sembra emergere che migliori sono gli atteggiamenti di un insegnante tirocinante, maggiore è il successo egli avrà nella pratica scolastica (Avramidis, Bayliss, Burden, 2000; Avramidis, Norwich, 2002). Questo aspetto della SACIE era inizialmente basato sui costrutti scaturiti dalla scala ATIES, Atteggiamenti verso l’Educazione Inclusiva (Attitudes Towards Inclusive Education Scale) (ATIES; Wilczenski, 1992) che misurava in modo affidabile quelle che si ritengono essere le caratteristiche più importanti relative agli atteggiamenti. Il terzo fattore della scala SACIE, le preoccupazioni sulla formazione inclusiva, è un fattore essenziale considerato il continuo e alto livello di ansia presente nelle comunità educative, da parte
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dei docenti che non si sentono adeguatamente preparati ad affrontare percorsi formativi inclusivi efficaci e realizzabili (vedi per esempio, DeLuke, 2000; Sharma, Desai, 2002). Nella misurazione della variabile preoccupazione è possibile individuare le aree in cui l’ansia si manifesta e, quindi, adottare delle strategie per cercare di alleviarla. Lo scopo del presente studio è quello di sottoporre a revisione la struttura della scala SACIE e valutarne la sua adattabilità in una varietà di culture diverse in modo tale da misurare le convinzioni dei futuri docenti in relazione all’inclusione degli studenti con disabilità nelle classi comuni attraverso: (a) la conduzione di una serie di indagini statistiche della scala SACIE usando campioni di dati internazionali; (b) la definizione della scala SACIE basata su dati statistici al fine di produrre uno strumento di ricerca conciso, chiaro, equilibrato e statisticamente difendibile; (c) la verifica della versione rinnovata della scala SACIE con nuovi campioni di dati internazionali in modo da ricontrollare e validare la difendibilità statistica dello strumento. In origine, lo sviluppo della SACIE riportato in Loreman et al. (2007) implicava la riduzione dei 60 item provenienti dalle tre preesistenti scale ad una scala di 19 item. Le tre scale erano la scala degli atteggiamenti verso l’educazione inclusiva (Attitudes Towards Inclusive Education scale ATIES; Wilczenski, 1992); una versione modificata della scala per l’interazione con persone con disabilità (Interaction with Disabled Persons IDP, Forlin et al., 2001; Gething,1991, 1994); e la scala sulle preoccupazioni verso l’educazione inclusiva (Concerns about Inclusive Education Scale CIES; Sharma, Desai, 2002). Ciascuna di queste utilizzava un formato di risposta multidimensionale sul scala Likert. La ATIES e la IDP erano scale a 6 livelli e la CIES era una scala a 4 livelli (confronta Sharma et al., 2006). I 60 item originari dalle scale IDP, ATIE e CIES sono stati ridotti a 19 attraverso tecniche di riduzione statistica dei dati, basate su una rassegna di dati internazionali insieme a valutazioni formulate da una commissione di esperti internazionali nell’ambito dell’educazione inclusiva (Loreman et al., 2007). Lo strumento di indagine ricavato a 19 item richiede risposte da articolare su una scala Likert pensata a 4 livelli per eliminare la risposta intermedia neutrale: 1 = Fortemente d’accordo, 2 = D’accordo, 3 = In disaccordo; 4= Fortemente in disaccordo. Il valore dell’alfa di Cronbach per la scala a 19 item è 0.83. Oltre ai 19 item usati sulla scala, l’indagine iniziale prevedeva un numero di domande anagrafiche relative all’età, al genere, all’anno di corso e al livello di istruzione. Queste domande anagrafiche sono state inserite in quanto la commissione di esperti internazionali ha ritenuto utile esplorare l’argomento nel modo più ampio e variegato possibile. E in effetti è stato così. I risultati circa queste variabili, per esempio, hanno rivelato che le insegnanti tirocinanti donne tendono ad avere nelle loro risposte un atteggiamento più positivo alla scala SACIE rispetto alle loro controparti maschili (confronta Loreman, Earle, 2007), in aggiunta ad altre variabili anagrafiche che hanno prodotto differenze significative nelle risposte tra i gruppi.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
6. Metodo
Procedura
Nel processo di validazione la scala è stata somministrata da un ricercatore in ogni area geografica a docenti tirocinanti durante la prima mezz’ora della loro prima lezione in un corso sull’educazione speciale o inclusiva. Ci si atteneva ad un protocollo messo a punto per assicurare uniformità e omogeneità nei vari luoghi. I dati sono stati tutti inseriti in un file standard del software di elaborazione statistica SPSS (Pacchetto Statistico per le Scienze Sociali), nel quale erano state precodificate le variabili e le categorie. Una volta inseriti i dati di ciascuna area geografica, tutti i file sono stati combinati in un set unico di dati. Un processo a quattro fasi
La revisione della scala SACIE ha seguito un processo articolato in quattro fasi. Nella fase uno sono stati usati i 19 item della scala SACIE ed è stata attuato un primo livello di validazione. La fase due ha previsto la revisione della scala basata sui risultati della tappa precedente e la riduzione degli item da 19 a 15. La fase tre è consistita nell’aggiunta di 8 nuovi item per verificare la validità e migliorare l’affidabilità del fattore/costrutto atteggiamenti. La fase quattro ha implicato la riduzione finale e la validazione della risultante scala SACIE a 15 elementi. In tutte le fasi la codifica degli item formulati negativamente è stata invertita prima del calcolo dell’indice di attendibilità. È stata applicata l’analisi fattoriale esplorativa (Exploratory Factor Analysis EFA) per valutare sia il numero di fattori che gli item specifici da inserire nel costrutto della scala. I criteri più comuni per l’individuazione di un punto limite per l’inclusione di un fattore in un costrutto, sono basati su regole empiriche generali, dedotte sulla base di considerazioni teoriche e dall’esperienza attuata in altre circostanze in cui sono state usate delle scale per rappresentare fenomeni comportamentali nelle scienze sociali (Netemeyer, Bearden, Sharma, 2003). I quattro criteri usati in questo studio sono stati (a) il criterio che il valore di ogni fattore superiore a 1 deve saturate la varianza teorica di ogni singolo item (Cliff, 1988); (b) l’evidenza di una curva “a gomito” nel grafico scree plot2 che esprima la netta riduzione nella varianza spiegata da un dato fattore come descritta da Cattell (1966); (c) analisi del valore della varianza in modo che il 50-60% della varianza finale fosse saturata dai fattori selezionati, con un minimo del 5% per ciascun fattore considerato (Hair, Black, Babin,, Anderson, 2010); e (d) analisi parallela (Lautenschlager, 1989). Le serie di dati usati, nel corso del perfezionamento della SACIE, variavano da 186 a 542 intervistati. Questo campione superva chiaramente la soglia di 100-200 soggetti intervistati suggerita per scale costruite come SACIE, a ≤ 20 item (Clark, Watson 1995; Haynes, Nelson, Blaine, 1999). In particolare, la serie di dati utilizzata per realizzare la validazione finale di SACIE superava di gran lunga la dimensione 2
Lo scree plot è un diagramma di flusso associato all’analisi fattoriale che offre visivamente l’informazione sui vari fattori. (n.d.t)
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del campione di 300 suggerita da DeVellis (1991) e sarebbe stata appropriata anche per ben più complessi costrutti multidimensionali, fornendo un numero di risposte agli item di 36 volte, secondo quanto suggerito da Clark e Watson (1995). Fatto ancora più importante è che siano stati presi in considerazione e applicati criteri stabiliti a priori i quali hanno limitato i fattori derivati teoricamente a quelli che influenzavano in misura sostanziale i costrutti sotto esame.
7. Risultati
Fase uno: Revisione iniziale
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La validazione della scala nella fase 1 comprendeva un campione di 297 docenti tirocinanti provenienti da quattro istituzioni in quattro stati (Canada, Hong Kong, Australia e Singapore3). Si trattava di insegnanti tirocinanti che si preparavano a lavorare o nella scuola dell’infanzia (N=75), nella primaria (N=102) o nella secondaria (N=113)4. La maggioranza era costituita da donne (90%) nella fascia di età più giovane (84% ≤ 25 years). La validazione è iniziata con l’applicazione di EFA5 sulla seri di dati dei 19 item. Successivamente è stata operata una rotazione ortogonale Varimax dei fattori inizialmente estratti con il metodo dell’Analisi delle componenti principali (PCA Principal Component Analysis), al fine di ridurre le correlazioni intra-fattoriali e, di conseguenza, avere una struttura fattoriale semplificata, idonea a minimizare il numero dei fattori sui quali ciascun item agiva. La rotazione di Varimax condotta con il criterio della normalizzazione di Kaiser consente di lasciare inalterata la struttura a tre fattori, con autovalori superiori a 1.0 (4.28, 4,01, 3,41). Il Fattore 1 satura il 22.5% della varianza, il Fattore 2 satura il 21.1%, e il Fattore 3 il 17.6%. L’esame dello scree plot ha rilevato un significativo cambiamento degli autovalori relativi alle componenti fattoriali 3 e 4. Pertanto esso (l’esame dello scree plot) avvalora la pertinenza dell’inclusione dei tre fattori nella struttura della scala. Questa conclusione è stata confermata dalla realizzazione di un’analisi parallela per identificare il numero di fattori da conservare. Questa analisi si è resa necessaria al fine di rendere più solida e accurata l’analisi fondata sullo scree-plot e sugli autovalori. Tale passaggio è suggerito come metodo affidabile e più accurato a supporto dell’analisi fondata su gli autovalori e delle prove scree plot (Henson, Roberts, 2006). I primi quattro autovalori emersi dall’analisi parallela sono 4.27, 2.79, 1.48, e 1.11.. Quelli provenienti dai dati grezzi erano 6.61, 3.23, 1.79 e 0.96. I risultati indicavano che il numero di autovalori superiori ad 1 erano tre, tanto nei dati grezzi quanto in quelli del campione casuale ottenuto con l’analisi parallela, Pertanto sono stati mantenuti tre fattori. 3 4 5
Si tratta di Paesi in cui gli alunni con disabilità, al pari talvolta di quelli con particolari talenti, sono affidati a scuole speciali (Special Education Schools), sovente specializzate e differenziate nelle diverse tipologie di disabilità (n.d.t). Nell’articolo originale c’è evidentemente un errore nella somma dei sottogruppi che è pari a 290 e non 297 (n.d.t) EFA: Exploratory Factor Analysis, Analisi Fattoriale Esplorativa (n.d.t).
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Gli item che hanno avuto una saturazione su due o più fattori sono stati considerati escludibili poiché erano soggetti a fraintendimenti e ambiguità sia per le persone interviste che per gli utilizzatori della scala (Netemeyer et al., 2003); pertanto, con questa analisi, quattro item sono stati cancellati. Nella fase 1 di validazione della scala è stata anche effettuata una rotazione (Promax con normalizzazione di Kaiser) al fine di fornire evidenze a supporto dell’eliminazione degli item, decisa sulla base dei pattern prodotti dalla rotazione Varimax. La rotazione Promax, che permette la correlazione tra i fattori, è almeno teoricamente più adatta per la riduzione degli item, dato che lo scopo di EFA è di identificare il livello a cui i fattori multidimensionali si correlano (Netemeyer et al., 2003). I Fattori con autovalore superiore a 1 sono utilizzati per l’estrazione dei fattori utilizzati nella rotazione Promax. Come nell’analisi Varimax, sono state escluse dall’analisi le coppie di item contenenti valori mancanti e la soluzione fattoriale finale ha messo in evidenza 5 iterazioni. Come nella rotazione Varimax, anche nella rotazione Promax sono stati generati tre fattori con autovalore superiore a 1 (5.04, 4,84, 4,95). Anche se la rotazione Promax, data la sua particolare natura, non è in grado di fornire la proporzione di varianza spiegata da ciascun fattore, gli autovalori relativamente alti riscontrati su cinque o più item in ciascun fattore, suggerisce che essi [i fattori], nel loro insieme, soddisfano in larga misura il costrutto della scala. L’EFA con la rotazione obliqua Promax ha prodotto risultati molto simili a quelli ottenuti attraverso la rotazione ortogonale Varimax. La matrice di correlazione che descrive l’associazione tra i domini fondamentali dei tre fattori principali estratti attraverso la rotazione Promax, rileva un indice di correlazione di .23 (p > 0.10, df = 13) tra i Fattori 1 e 2; .43 (p > 0.10, df = 13) tra i Fattori 1 e 3; .44 (p > 0.10, df = 13) tra i Fattori 2 e 3. Chiaramente, questo non è un motivo per stabilire una sovrapposizione nei costrutti teoretici dei tre fattori (α = 0.05) che sono descritti dalla scala SACIE. La coerenza inter-item, così come determinata dall’Alpha di Chronbach indica il grado in cui ciascun item esprime una misura specifica dei fattori comuni stabiliti dal costrutto teoretico. Il valore di alpha (α) pari a .83 rilevato nella scala ridotta a 15 item, su 297 intervistati indica un alto livello di coerenza itner-item per scale psicometriche di questo tipo e con questo campione (Gable & Wolf, 1993). Parimenti è l’attendibilità delle tre sottoscale, calcolate nello stesso modo e pari a: α = .86; α= .86; and α= .70. Fase due: Verifica della scala SACIE rivista con 15 item
Netemeyer e altri (2003) raccomandano fortemente di utilizzare un diverso insieme di dati per confermare la validità di una scala. Attenendosi a questa raccomandazione, è stata usata una seconda popolazione di 227 docenti tirocinanti per confermare gli item e i costrutti della scala SACIE rivista con 15 item. Il PCA6 fu condotto sulla nuova serie di dati di 227 insegnanti provenienti da tre istituzioni a Hong Kong, in Australia e a Singapore. Similmente alla popolazione della
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Analisi in Componenti Principali (PCA Principal Component Analysis).
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Fase 1, i partecipanti rappresentavano docenti tirocinanti che si preparavano a lavorare o nella scuole primarie (N = 115) o in quelle secondarie (N=112). Inoltre la maggior parte era nuovamente rappresentata da donne (91%) nella fascia di età più giovane (83% ≤ 25 anni). Per massimizzare la conservazione del campione sono stati esclusi gli item che avevano una o più risposte nulle almeno in una coppia di casi piuttosto che eliminare l’intero soggetto/intervistato, inoltre il numero di interelazioni fu stabilito a 25 per assicurare una valida stabilizzazione della struttura fattoriale. Come per le procedure precedenti, il campione superava la quantità di dati raccomandata pari a 100-200 casi e poteva essere considerato appropriato per scale di portata più ampia (Clark, Watson, 1995; Haynes et al., 1999). Esso forniva anche 15 volte il numero di risposte per item rispetto alle 5-10 risposte consigliate per item come suggerito da Clark e Watson (1995) e Hair et al. (2010). Il successivo PCA usando una rotazione Promax produsse sia una matrice del modello fattoriale in grado di determinare meglio l’appartenenza dell’elemento ai fattori che una matrice di struttura fattoriale (factor structure matrix) sulla quale valutare l’importanza relativa dei 15 elementi su ciascun costrutto fattoriale. Il modello e la struttura fattoriale confermavano i tre fattori identificati nell’iniziale EFA. Ancora una volta, tutti e tre i fattori mostravano autovalori superiori a 1 (4.91, 4.60, 1.98). Inoltre le inter-correlazioni tra fattori erano meno di 0.30, suggerendo che le tre componenti del costrutto ora rappresentavano ragionevolmente questioni indipendenti relative all’educazione inclusiva. Idealmente, tutte le scale psicometriche dovrebbero possedere sotto-scale o fattori che misurano fenomeni completamente indipendenti in modo equo ed equilibrato (Netemeyer et al., 2003). L’unidimensionalità è, anzi, considerata da molti un prerequisito dell’affidabilità e della validità di una scala (e.g., Cortina, 1993; Gerbing, Anderson, 1988; Hattie, 1985; Schmitt, 1996). In particolare, la misura più comune della coerenza interna delle scale, il coefficiente di Cronbach (1951) è significativo solo per una serie unidimensionale di elementi (Clark, Watson, 1995; Cortina, 1993). Questa versione della scala SACIE possedeva tre sottoscale che erano inequivocabilmente unidimensionali in natura, ma carenti di equilibrio tra i fattori. In particolare nella scala, a questo livello di sviluppo erano poco rappresentati gli item relativi agli atteggiamenti verso l’educazione inclusiva. Riguardo agli elementi inclusi nella struttura a tre fattori della scala SACIE riveduta, vi erano sul Fattore 1, sette item in più rispetto al valore ritenuto significativo di .40 (Opinioni, .78 su .62). Rispetto al Fattore 2, vi erano due item (Atteggiamenti, .77 to .75) e per il Fattore 3, sei item (Preoccupazioni, .83 to .63). I coefficienti di correlazione che misurano il livello di associazione tra fattori erano tutti meno di 30. Di conseguenza, tutti e tre i fattori sembrano misurare fenomeni indipendenti, raggiungendo, quindi, uno dei maggiori obiettivi dello sviluppo della scala per ridurre l’ambiguità della sua interpretazione (Netemeyer et al., 2003). La somma degli autovalori che influenzano le tre sotto-scale atte a misurare opinioni, atteggiamenti e preoccupazioni verso l’educazione inclusiva suggeriva anche che il Fattore 2 (Atteggiamenti) era, pertanto, inadeguatamente rappresentato. L’attendibilità delle scale erano calcolate per i sette elementi nel Fattore 1 (α = .83) e per sei elementi nel Fattore 3 (α= .85). Queste rivelavano un livello molto alto di coerenza tra elementi per entrambi i fattori. Come precedentemente noIII. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
tato, il numero di elementi nel secondo fattore (N = 2) è stato ritenuto troppo basso per generare un’affidabilità accurata, sebbene nonostante l’apparente debolezza della struttura del secondo fattore, l’attendibilità dell’intera scala, considerando il contributo combinato di tutti e tre i fattori, era soddisfacente (α= .85).
Fase tre: revisione e ulteriore verifica della scala SACIE
La sproporzione numerica tra i tre costrutti identificati dalla rappresentazione dei risultati del PCA nella Fase 2, risultava un aspetto problematico. In ragione di ciò, la fase successiva è stata finalizzata a incrementare la scala, aggiungendo otto nuovi item e potenziando la componente degli atteggiamenti della scala. Allo scopo di equilibrare il peso dei tre costrutti, sono state messe a punto e introdotte nel questionario, molte nuove domande, basandosi sui costrutti teorici relativi allo studio degli atteggiamenti delle popolazioni. Gli item sono stati estratti dalla scala ATIES che misurava nello specifico gli atteggiamenti verso l’inclusione. Il questionario con i 23 item scelti è stato somministrato ad una nuova popolazione di 186 docenti tirocinanti del Canada e di Hong Kong per valutare se essi potessero fornire un peso uguale a tutte e tre le componenti della rete nomologica, confermando quindi il terzo fattore. È stata eseguita l’analisi esplorativa del fattore per identificare la struttura fattoriale corretta per i nuovi dati del questionario con 23 item. L’analisi fattoriale è stata condotta usando un PCA della matrice di correlazione di tutte le coppie di item, è stata eseguita la rotazione Varimax della matrice iniziale per semplificare la struttura fattoriale. È stato valutato il legame tra le componenti della scala, calcolando i coefficienti di correlazione tra fattori. In particolare la struttura a tre fattori con maggiore coerenza era data da 15 item che saturavano equamente i tre costrutti della scala identificati come: opinioni, atteggiamenti e preoccupazioni relativi all’educazione inclusiva. La proporzione relativa della varianza spiegata dai tre fattori è stata rispettivamente del 23.4%, del19.4% e del 15.5%. Fase quattro: validazione finale
La validazione finale della scala SACIE nella sua nuova struttura a tre fattori con 15 elementi è stata condotta usando un’ulteriore serie di dati di 542 docenti tirocinanti provenienti da nove istituzioni di quattro diversi Paesi (Canada, Hong Kong, India7 e gli Stati Uniti). Come per gli altri campioni, gli intervistati erano studenti in procinto di diventare insegnanti di scuola primaria (35%) o secondaria (46.8%) e la maggior parte era costituita da docenti relativamente giovani (85.7 %) e donne (87.3%). La conferma della rete nomologica relativa a opinioni, atteggiamenti e preoccupazioni degli insegnanti tirocinanti è stata svolta attraverso
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Il sistema scolastico indiano ha in atto una serie di impegni per incrementare l’inclusione scolastica, sebbene la disabilità sia ancora considerata un freno al progresso e, come attesta il rapporto UNESCO 2010, la partecipazione della persona disabile alla scuola varia secondo la gravità del deficit, ciò anche in relazione alla bassa percentuale di scuole accessibili ai disabili (UNESCO 2010 EFA Global Monitoring Report 2010, Paris, UNESCO) (n.d.t)
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il PCA di una matrice di correlazione seguita da una rotazione ortogonale (Varimax; vedi Tabella 1). L’affidabilità interna, misurata dall’alfa di Cronbach, è risultata accettabile sia per la scala SACIE combinata (α = .74) che per le sotto-scale individuali delle opinioni(α = .75), degli atteggiamenti (α = .67) e delle preoccupazioni (α = .65). È importante sottolineare che i valori alfa per le sotto-scale degli atteggiamenti e delle preoccupazioni erano leggermente più bassi di quanto ci si aspettasse ma ancora accettabili per misurare questi tipi di costrutti sociali (DeVellis, 1991). La proporzione totale della varianza espressa per la scala è stata 47.31%. I ricercatori che usano questo strumento dovrebbero tenere in considerazione che approssimativamente la metà della varianza nelle risposte è causata da una variabilità interna o sconosciuta. La natura indipendente di tutte e tre le sotto-scale è stata confermata dalla assenza di correlazioni cosi come illustrato nella Tabella 2.
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Elemento
Fattore 1 (Opinioni)
-Trovo difficile superare il mio shock iniziale quando incontro persone con gravi disabilità fisiche - Ho paura di guardare dritto negli occhi una persona con disabilità - Tendo a rendere i contatti con persone disabili brevi e a terminarli il più presto possibile - Mi sentirei malissimo se avessi una disabilità - Temo il pensiero che un giorno potrei diventare disabile - Gli studenti che hanno difficoltà ad espressione verbale dovrebbero stare in classi comuni - Gli studenti bocciati frequentemente agli esami dovrebbero stare in classi comuni - Gli studenti che hanno bisogno di un piano di studi individualizzato dovrebbero stare in classi comuni - Gli studenti con problemi di attenzione dovrebbero stare in classi comuni - Gli studenti che richiedono tecnologie comunicative speciali (per esempio Braille e linguaggio dei segni) dovrebbero stare in classi comuni - Temo che il mio carico di lavoro aumenterà se avrò degli studenti con disabilità in classe - Temo che sarà difficile riservare un’attenzione speciale a tutti gli studenti in una classe inclusiva - Temo che sarò più stressato se avrò degli studenti con disabilità nella mia classe - Temo che gli studenti con disabilità non saranno accettati dal resto della classe - Temo di non avere la conoscenza e le competenze richieste per insegnare a studenti con disabilità
.730
Proporzione di varianza spiegata !
Fattore 2 (Atteggiamenti)
Fattore 3 (Preoccupazioni)
.727 .666 .651 .347
-.125
.164 .746 .746
.107
.722 -.126
.719
.299
.629 .729
.253
.704 .129
.394
.650
-.125
.544
.314
.422
17.22
13.34
16.75
Tabella 1 La struttura finale a tre fattori della SACIE-R basata su un questionario a 15 elementi somministrato a docenti tirocinanti del Canada, degli Stati Uniti, dell’India e di Hong Kong (N = 542) Nota. I coefficienti del modello fattoriale rappresentano quelli di un’Analisi in Componenti Principali (PCA) dopo la rotazione ortogonale (Varimax) con riduzione ≤ 0.10
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Componente Fattore 1 (Opinioni) Fattore 2 (Atteggiamenti) Fattore 3 (Preoccupazioni) !
Fattore 1 (Opinioni) 1.000 0.50 .316
Fattore 2 (Atteggiamenti) 1.000 .197
Fattore 3 (Preoccupazioni)
1.000
Tabella 2 Matrice della componente di correlazione per la soluzione a tre fattori SACIE-R della scala finale SACIE-R (N = 542) Nota. Tutti i coefficienti di correlazione con p≥ 0.10
Conclusioni
Preparare gli insegnanti tirocinanti a lavorare in scuole inclusive implica che le università e le scuole superiori garantiscano, attraverso i loro piani di studio, un’offerta formativa tale da permettere ai neo-insegnanti di andare incontro alla crescente diversità dei bisogni degli studenti. La formazione dei docenti deve inoltre armarli di una solda cultura pedagogica in grado di consentire agli insegnanti di sviluppare appropriate disposizioni che sosterranno uno stile di vita inclusivo (Florian, 2009). In molte situazioni, le rappresentazioni teoriche degli insegnanti tirocinanti relative all’inclusione sono incerte e i corsi per la formazione dei docenti non riescono a tener conto delle loro opinioni, dei loro atteggiamenti e delle loro preoccupazioni (Symeonidou, Phtiaka, 2009). Questo studio è stato realizzato per ultimare lo sviluppo della scala SACIE come strumento di misura per identificare le attitudini dei docenti verso l’inclusione, i loro sentimenti e apprensioni sull’educazione inclusiva. I tre costrutti psicometrici identificati nella versione finale riveduta della scala (rinominata SACIE-R) si riferiscono ad aspetti dell’educazione inclusiva precedentemente considerati come centrali nella tesi a fondamento delle convinzioni, del supporto e dell’impegno alle pratiche inclusive condivise dai docenti (Loreman et al., 2007). Questa combinazione di costrutti includeva necessariamente delle componenti per valutare le opinioni nei riguardi dell’interazione con persone con disabilità (Fattore 1, Opinioni), l’accoglienza degli studenti con differenti bisogni (Fattore 2, Atteggiamenti) e le preoccupazioni degli insegnanti sull’educazione inclusiva (Fattore 3, Preoccupazioni). Gli item descrittivi per ciascuno di questi costrutti teorici – la rete nomologica – sembrano fornire una complessità sufficiente da confermare la scala rinnovata. La validità esterna della scala, comunque, ha bisogno di essere stabilita. In futuro dei ricercatori potrebbero voler esplorare quanto efficacemente questa scala riesca ad entrare in correlazione con altre scale esistenti che misurano atteggiamenti, sentimenti o preoccupazioni. La scala si presta anche ad essere validata con altre popolazioni, ad esempio con i docenti di ruolo. Lo scopo principale di questo lavoro era di descrivere come la scala si fosse sviluppata e rinnovata oltre che di rendere note le sue proprietà psicometriche. Questo lavoro non esamina in che modo i partecipanti provenienti dai vari Stati differiscano nei loro sentimenti, nei loro atteggiamenti e nelle loro preoccupazioni poiché questo aspetto va al di là dello scopo di questo studio ed è discusso in maniera dettagliata altrove (Forlin et al.,2009; Sharma et al., 2008). anno II | n. 1 | 2014
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La versione finale della sezione relativa ai dati anagrafici è stata ulteriormente ampliata allo scopo di considerare un insieme di variabili indipendenti tra cui: l’effettivo livello di pratica durante l’attività di tirocinio dei docenti nella formazione con gli studenti con disabilità, le loro esperienze nella didattica con studenti con disabilità, la loro conoscenza della politiche e delle linee guida sulla disabilità e il loro livello di padronanza nella pratica didattica (vedi Appendice). Si premette che quando si utilizza la SACIE-R questa parte dovrebbe essere modificata per conciliarla in ragione dei contesti locali. La scelta di esprimere in forma negativa gli item di due dei tre costrutti si è basata sulla riflessione che normalmente le preoccupazioni si esprimono attraverso una forma negativa mentre gli atteggiamenti sono generalmente veicolati nella forma opposta. Viceversa, tutte le domande riferite agli atteggiamenti sono state formulate in modo tale che la scala numerica riflettesse il sentimento positivo verso l’inclusione. Mentre il Fattore 1 (Opinioni; e.g. “Temo il pensiero che un giorno potrei diventare disabile”) e il Fattore 3 (Preoccupazioni; e.g. “Temo che il mio carico di lavoro aumenterà se avrò studenti con disabilità nella mia classe”), venivano proposti in forma negativa e richiedevano una ricodificazione al positivo prima dell’analisi. La ricodificazione permette di orientare le risposte verso una comune direzione positiva della scala – la coerenza della polarità all’interno dei fattori individuali era conservata per ridurre l’ambiguità nell’interpretazione delle domande come raccomandato da Netemeyer ed altri (2003). L’ordine dei punteggi sulla scala numerica è stato associato in modo da far corrispondere ad un valore più alto attitudini più positive (1= Fortemente in disaccordo; 2= In disaccordo; 3= in Accordo, e 4= Fortemente d’accordo). Infine, l’ordine degli item nel questionario è stato assegnato a caso per assicurare un livello di oggettività come suggerito da Bailey (2004), contribuendo quindi ad una riduzione nell’effetto di prossimità e ad una diminuzione del rischio che le persone rispondano nello stesso modo ad elementi simili contigui. Questo ulteriore miglioramento e la validazione iniziale della scala a 15 elementi forniscono la prima conferma della SACIE-R. Tuttavia, una validazione ulteriore e in una pluralità di contesti (a valle e a monte del percorso di tirocinio), sarebbe necessaria per fornire una valutazione continua alla validazione della scala e per estendere la sua conoscenza come strumento internazionale relativamente semplice da somministrare. É pienamente riconosciuto quanto sia difficile modificare le opinioni, gli atteggiamenti e le preoccupazioni degli insegnanti tirocinanti sull’inclusione (Jordan et al., 2009), ma la messa a punto di una scala che possa contribuire nell’identificazione di queste dimensioni e convinzioni, fornirà dati utili per sviluppare appositi programmi atti a perseguirli. La scala SACIE-R potenzialmente può essere usata per valutare i cambiamenti delle impressioni durante il tirocinio degli specializzandi rendendoli capaci di identificare se i corsi frequentati li stiano dotando di strumenti appropriati per migliorare gli atteggiamenti e i sentimenti verso l’inclusione, attenuando le loro preoccupazioni. Si presuppone quindi che la scala SACIE-R possa supportare le istituzioni deputate alla preparazione dei programmi d formazione degli insegnanti, fornendo informazioni preziose e indicazioni specifiche in grado di soddisfare i bisogni individuali e i valori di gruppi diversi di futuri docenti e per valutare se le aree di interesse dell’educazione inclusiva siano state esaustivamente trattate. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Simile ad altre scale come l’Attitude Toward Mainstreaming Scale (Scala degli Atteggiamenti verso l’Integrazione Scolastica (Berryman, Neal, 1980), che dal suo sviluppo iniziale ha continuato ad essere soggetta ad una rivalutazione della sua struttura fattoriale e della sua validità (Green, Harvey, 1983; Wilczenski, 1992), ci si aspetta che la scala SACIE-R sia analogamente esposta ad una valutazione altrettanto rigorosa per assicurare che essa conservi la sua diffusione e la sua applicabilità nella più ampia gamma possibile di Paesi. Vi sono in partenza delle criticità che dovrebbero essere ulteriormente approfondite dai ricercatori che vogliano adottare lo strumento. Come si è evidenziato, la percentuale di varianza espressa nella scala di poco inferiore al 50 % dovrebbe essere ancora analizzata insieme all’affidabilità interna delle sotto-scale degli atteggiamenti e delle preoccupazioni che sono leggermente al di sotto del valore ideale. In conclusione, sembrano esserci prove adeguate per suggerire che la scala rivista SACIE-R possieda al momento una forza sufficiente da giustificare il suo uso nell’identificare i cambiamenti nelle inclinazioni dei docenti tirocinanti verso l’inclusione, i loro sentimenti nel trattare con persone con una disabilità, i loro atteggiamenti verso l’accoglienza degli studneti con bisogni speciali nelle classi comuni e le loro preoccupazioni nei riguardi della realizzazione di pratiche inclusive.
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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
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anno II | n. 1 | 2014
STEFANIA PINNELLI
83
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Note dell’autore La corrispondenza riguardante questo articolo deve essere indirizzata al Professor Chris Forlin, Dipartimento dell’Educazione speciale & Counselling, D2-2F-14, Istituto dell’Educazione di Hong Kong, 10, Lo Ping Road, Tai Po, NT, Hong Kong, Email: cforlin@ied.edu.hk Gli autori desiderano riconoscere il contributo di Paul M. Ajuwon dell’Università Statale del Missouri e di Elga Andriana dell’Università di Monash per aver fornito alcuni dei dati necessari al processo di sviluppo.
84
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Appendice Le opinioni, gli atteggiamenti e le preoccupazioni nella Scala Riveduta per l’Educazione Inclusiva (SACIE-R) Per rintracciare i pre-dati e i post-dati si prega di includere il vostro numero di matricola. Questo non sarà utilizzato a scopi identificativi. Numero di matricola: _____________________
Pre-Test________
Post-Test_______
Apporre il segno ݰsul rigo appropriato. A. Insegno/Mi sto specializzando nell’insegnamento nella scuola: 1.
Infanzia
________
3. Secondaria
_______
2.
Primaria/Elementare
________
4. Educazione Speciale
_______
________
2. Donna
_______
B. Sono
1. Uomo
C. Qual è la tua età? 1.
25 anni o meno
________
3. 36-45 anni
_______
2.
26-35 anni
________
4. 46 anni o più
_______
D. Il titolo di studio di livello più alto che ho conseguito è 1.
Diploma di scuola secondaria o equivalente _____
2.
Laurea triennale o equivalente
3. Laurea specialistica/magistrale _______
_____
4. Altro, specificare
_______
E. Ho avuto numerose/significative interazioni con una persona disabile: 1.
Si_______
85
2. No______
F. Possiedo il seguente livello di preparazione nell’educazione degli studenti con disabilità: 1.
Nessuno____________
2. Discreto ____________
3. Alto (almeno 40 ore) ________
G. Le mie conoscenze relative alla legislazione o alla politica locale nei riguardi dei bambini disabili sono: 1.
Nulle_____ 2.Scarse______ 3.Sufficienti______
4.Buone______
5.Ottime_______
H. Il mio livello di padronanza nell’insegnamento degli studenti disabili è: 1. I.
Molto basso______ 2. Basso______ 3. Intermedio______
4.Alto_____
5.Molto alto______
Il mio livello di esperienza nell’insegnamento di uno studente con disabilità è: 1.
Nullo_______
2. Discreto_________
anno II | n. 1 | 2014
3 Alto (almeno 30 giorni) __________
STEFANIA PINNELLI
! Le affermazioni che seguono fanno riferimento alla formazione inclusiva, essa riguarda gli studenti con vari background e con differenti abilità d’apprendimento che lavorano insieme ai loro pari nelle scuole comuni che siano disponibili a cambiare e ad adattare i curricula e le procedure per soddisfare i bisogni di tutti. Cerchia la risposta che ritieni più appropriata
FD
D
A
FA
Fortemente in disaccordo
In disaccordo
In accordo
Fortemente d’accordo !
86
1
Temo che gli studenti con disabilità non siano accettati dal resto della classe
FD
D
A
FA
2
Temo al pensiero che un giorno potrei diventare disabile
FD
D
A
FA
3
Gli studenti con problemi di espressione verbale dovrebbero stare in classi comuni
FD
D
A
FA
4
Temo sia difficile riservare un’attenzione speciale a tutti gli studenti in una classe inclusiva
FD
D
A
FA
5
Tendo ad avere contatti brevi con le persone disabili e a terminarli il più presto possibile
FD
D
A
FA
6
Gli studenti con problemi di attenzione dovrebbero stare in classi comuni
FD
D
A
FA
7
Temo che il mio carico di lavoro aumenterà se avrò degli studenti con disabilità in classe
FD
D
A
FA
8
Gli studenti che hanno esigenza di tecnologie comunicative speciali (per esempio Braille e linguaggio dei segni) dovrebbero stare in classi comuni
FD
D
A
FA
9
Mi sentirei malissimo se avessi una disabilità
FD
D
A
FA
10
Temo che il mio stress aumenti se avrò degli studenti con disabilità nella mia classe
FD
D
A
FA
11
Ho paura di guardare dritto negli occhi una persona con disabilità
FD
D
A
FA
12
Gli studenti bocciati frequentemente agli esami dovrebbero stare in classi comuni
FD
D
A
FA
13
Trovo difficile superare il mio shock iniziale quando incontro persone con gravi disabilità fisiche
FD
D
A
FA
14
Temo di non avere la conoscenza e le competenze richieste per insegnare a studenti con disabilità
FD
D
A
FA
15
Gli studenti che hanno bisogno di un piano di studi individualizzato dovrebbero stare in classi comuni
FD
D
A
FA
! !
GRAZIE PER AVER COMPILATO IL QUESTIONARIO ! !
! !
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
First National Public Opinion Survey: Palestinians Knowledge and Understanding of Autism, 2014
Key-words: Autism Knowledge, Awareness, Palestinians, Palestinian Authority.
Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
When considering the current status of inclusive education in the Palestinian Authority it is clear that a great deal needs to be done to improve not only the quality, but also the accessibility of education for children with special needs. Key initiatives developed from various conferences have helped to ensure improved training and awareness about inclusive education among all teachers, parents and support staff. At the present time there are many challenges that need to be addressed for the inclusion policy in Palestine to be successfully implemented, particularly in view of the current way in which universities in Palestine are staffed and resourced and the type of links they have with the institutions who are offering services. This is why awareness initiatives are so important to build the bases for any future intervention, especially in the field of special and inclusive education, and in more specific way in the Autism field. This study was created to be a pilot study wherein for the first time in the PA (Palestinian Authority) national research is done on the Palestinians knowledge and understanding of Autism. This study was implemented based on the recommendations of the Second National Conference on Autism, which was held on the 2nd and 3rd of April 2012 in Bethlehem1. The survey was developed by the researcher and was evaluated by four experts in the field of sociology and psychology. It includes eight demands and was sent to men and women, 18 years old or older, randomly selected from throughout the Palestinian governorates. 718 people from twelve different regions responded to the questionnaire. The purpose of this study was to explore the knowledge and attitudes about Autism spectrum disorders among the Palestinian populations. Significant differences were found between individuals when it came to conclusions and results demonstrate an urgent need to increase awareness, influence policies and provide families with effective strategies for dealing with their children. Equally urgent is the need to assist parents, policymakers and educators to understand the extent of the problem of lack of awareness about in the Autism community and be prepared to intervene in the future.
abstract
Sami Basha / Palestine Ahliya University / Bethlehem â&#x20AC;&#x201C; PA
III. Esiti di ricerca 1
The conference aimed to create a thinking space between all institutions, bodies, and individuals concerned with Autism on a local and international level, and combine efforts with the international institutions to develop recommendations and realistic plans for the care and treatment, rehabilitation, education, and training of autistic children and to care and empower their families. It was thought to open new possibilities for potential intervention for autistic individuals, especially children.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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Introduction and conceptual framework
88
There has been a significant shift in attitudes toward Autism over the past decade. In general, people appear to be far more tolerant and understanding than in the past and this is a positive development considering that Autism spectrum disorders (ASDs) have risen to epidemic proportions in many parts of the world. And while we are still struggling for a more positive attitude in Palestine Authority (PA), so individuals with ASDs are equal citizens who take part in everyday life, in various community and recreational programs including school and university. Yet, in spite of the rise in ASDs and the various attempts to integrate people with invisible disability into all aspects of the community in our Palestinian society, there still seems to be a lack of basic knowledge accessible to the public on Autism. This is why I believe such research is so significant and important. People with everyday lives need to know a minimum of information about ASDs to give them a better understanding of their fellow citizen. All questions in the questionnaire were meant to provoke curiosity to learn more about ASDs and may encourage individuals to dedicate time to learn more about this issue. I hope that this research will be a positive and constructive instrument to invite more people to be involved with children who have ASDs whom we want to have as full citizens in our country, well treated and considered in any future governmental projecting. For the last decade, discussions on Autism have become more commonplace in the Arab World. This means that while many steps have been taken to make a difference in the ASDs children, still more needs to be done. Though there is currently no specific explanation for why this syndrome exists, or any new findings about treatments, many seem to be interested in continuing to explore this issue. The lack of understanding about the origin of Autism makes it difficult for many people in the community to understand Autism itself. There considerable effort is required in order to follow the manner in which Autism is discussed openly in other communities, especially Europe and United States. Another reality that we need to consider is that the population of people with ASDs is much like the general population; some of us have special talents, some of us are geniuses, and some of us are retarded. But most of us are just average earthlings (Grandin 2004). Therefore, many people have the difficulty to accept that some ASDs children are talented and could live almost a normal life and could be enrolled in a normal school with support from educators. This type of research has never before been conducted in the PA and therefore all previous initiatives about Autism have not been based on scientific research. These previous initiatives have, therefore, failed to address the complexity of Autism and how it is viewed in the community. Most people want to look for initiatives that give quick answers and rapid results, but may not always be entirely accurate. I believe that it is important to encourage more researches to better understand the ASDs situation in the PA and developing an Autism surveillance system (BASHA, 2010). In her speech at the workshop organized by the Najah National University in 2001, Ms. Rima Kilani, Director of Special Education (Kilani 200 (of the Ministry of Education spoke about the importance of ordinary teachers to deal with peoIII. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
ple with special needs. She affirmed that many calls have been made for a serious work on teacher’s rehabilitation to deal with various difficulties and disorders, but we still need to actually implement what we have declared. She explained that it is hugely importuned to have experts not only in the field of special education, but also with a concrete understanding about the best methods for addressing the knowledge level of the Palestinian community. It should be noted that in 2003-2004, the number of private educational institutions was 134 centers, distributed in 13 Special Education Directorates of Education (Ministry of Education /high Education 2005). The number of such institutions and centers has increased in the past few years. This is a clear indication of the increased demand for the special education services in the PA, thought as of yet there is still no center that focuses on Autism. This demonstrates the low level of awareness about ASDs. Through this research, an effective strategy for intervention and early diagnosis will be implemented to improve the lives of many autistic children. Additionally, it would work to provide the support for parents to become more aware of working with their children to uphold the hope that with, among other things, a shift of mentality in the community will bring about a better and more integrated future for their children.
1. Method
Participants in this survey completed a demographic information report on age, region, gender, and job, as well as years of work experience. Participants also responded to a question regarding their prior awareness of Autism (i.e., ‘‘what is Autism?). The Autism Awareness Survey was constructed based in part on questions used in previous studies (for example, British Social Attitudes Survey, Staniland, 2009; Questions about Disability Survey, Graf et al., 2007; and the survey for Americans’ Knowledge and Understanding of Autism, 2008) as well as questions reflective of commonly held attitudes and understandings concerning Autism that usually people ask when we meet them during our training course in the PA. The survey is composed of eight questions and addresses people’s understanding of key characteristics or behaviors associated with Autism, exposure to people with Autism, awareness and attitudes toward health causes, role of the national media, responsibility, and accommodations for ASDs children in PA.
2. Statistical analyses
A primarily exploratory analysis of the data was completed. A reliability analysis was conducted and used to create four scales. First, a scale was created to address the participant’s perceived knowledge about the symptoms and etiology of Autism. The scale was composed of three question as follows; what is Autism; what causes Autism; and do you know individuals with Autism. Next, a scale was created to examine roles of the national media in the awareness and media coverage. A third scale was used to investigate perceived negative attitudes toward people with Autism and barriers to accessing resources and health care; quesanno II | n. 1 | 2014
SAMI BAShA
89
tions were related to this scale were as follows; Who bears responsibility for autistic children? And what is the most appropriate place for the autistic? The fourth scale examined the sense of responsibility and what people think should be done to meet this challenge. In order to help answering this question, five options were given; the existence of early detection programs for Autism; Autism among the priorities of the government; organize national awareness campaign; prepare qualified cadres and finally the option to add what was not mentioned.
3. Results
In the first question, the sample was largely male (52%) and female (48%). The education showed the participation of 47% undergraduates and 32% postgraduates and the rest (21%) with less formal education. The main areas as answered by the survey were divided as follows: 68% from the main cities; 21% from villages and 11% from refugee camps. Levels of education ranged as followed: academics (23%), students (20), employees (30%) and others (27%): In terms of specializations status: medical field (12%), psycho-social (36%), others (52%). Fifty six percent of the participants have less than 10 years of experience in their field of specialization and the rest go for more than ten years. Psychological Disorder
Behavioural Disorder
General growth disorder
I do not know
37
0
0
0
0
5.2%
0
135
0
0
0
19.1%
0
0
249
0
0
35.3%
0
0
0
250
0
35.4%
0
0
0
0
35
5.0%
Answer Options
Biological illness
Biological illness
90 Psychological Disorder Behavioral Disorder General growth disorder I do not know
Response Percent
!
Q2: What is Autism? To understand the answers and give significant analyses we need to develop our understanding of the origin of Autism. The first to release the name of Autism and to describe its conditions was the American psychiatrist Leo Canner (Leo Kanner 1943). He described it as a lack of ability to develop relationships with others and the delay in the acquisition of speech. Later on, all definitions were affected by what Kanner has described. Dr. Abdullah Alzeriqat from the University of Jordan linked the definition of Autism in childhood to the developmental disruption that affects the normal growth and affects social communication and stereotyped behavior characterized by specific and iterative definition (Alzeriqat 2004) Another position is the one Dr. Adel Mohammed Abdul Agllah from Zagazig University in Egypt interested in the Music treatment for autistics, where he define it as a pervasive form of mental disability, and therefore mental disability related to social complex (Mohamed, Adel Abdullah 2008). The World Health Organization defines this syndrome as an evolutionary disorder diagnosable in the first three years of the childâ&#x20AC;&#x2122;s life. It revolves around III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
three main areas that we consider as the characteristics of the autistic; the area of communication with others and the social and behavioral area (WHO / ICD10, 1994). Based on what was mentioned, we can say that the reason why 35.3% answered that it was behavioral disorder was because behavior is what we see first especially in Mediterranean cultural context. Additionally, significant differences between responses of individuals with high knowledge was seen when 35.4% answered that Autism is a general growth disorder, and with those who added more values to the behavioral aspect. The 19.1% who have answered that it was a psychological disorder could be added to the same cultural context where behavior and attitude prevails on the depth of the disorder.
Q3 Do you know individuals with Autism? Those who answered with yes, were 42% while 58% said no. 28% of those who know individuals autistic were from both sex, while 57% were male and 15% were females. In terms of ages, who have answered the survey considered that 63% are less than 12 years old, while 21% are more than 13 years old and represent all ages arrived to be 16% only. To understand answers for this question, it is important to mention that there are no medical tests for the Autism diagnosis; accurate diagnosis depends only on the direct observation of the behavior of the individual and his relations with others and the rates of growth. In some cases it is important to refer to medical tests because there are certain behavioral patterns occurring in disorders other than Autism. People sometimes tend not to discuss their opinion when it deals with disability, due to a cultural and mentality attitude. The majority of the answers gave negative knowledge of Autism in the area of living, while less number mentioned knowing autistic children. Sixteen percent of people confirmed that they know more boys with Autism than girls. International reports have estimated that Autism occurs in as many as 3 in 300 individuals (Kira, 2004), but we do not have a real panoramic of this syndrome in the Mediterranean area that can calculate the number of cases and how far it is spread. Many of the researchers refer to the continuously increasing rates in all parts of the world, including within the PA, these disorders affect males more than females still this ratio is not anymore endorsed! (?) In the mentality of the people in the WB, many that parents see the diagnosis of Autism for their children, regardless of if it is a boy or a girl, to be a huge shame on the family. This might bring shame on the family and for many it is considered as a curse or bad omen for the family. In the past, people were hesitant about applying a label because they felt that the label of Autism was permanent and signified that there was no hope for that person. Accordingly, this is the reason behind the fear of people declaring that they know people with Autism.
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91
Q4 What Causes Autism? Answer Options
Biological illness
Psychological Disorder
Behavioural Disorder
General growth disorder
I do not know
Response Percent
Other
0
1
1
2
0
0.6%
Vaccination
1
2
17
13
1
4.9%
Medicine
5
1
18
19
1
6.3%
Heredity
12
24
51
64
7
22.6%
Wrong Education
2
45
35
14
2
14.0%
Family relation
3
47
43
18
2
16.2%
Unknown
12
24
118
142
4
42.9%
I don't know
5
36
36
24
19
17.2%
other
4
7
22
34
1
9.7%
!
92
Autism is seen widely as a neurological disorder linked to brain genetic factors (genes) and there is no specific or direct cause linked to Autism (Greenspan, 2006), although there are many theories and research in this domain. There has been a lot of research on this puzzling syndrome in all parts of the world and still the scientists and researchers cannot give an accurate interpretation to the causes of Autism, though there are many theories. In the fifties, the psychoanalytic theory was mainly behind many explanations of Autism and did not take into account the complexities of the human body. It only blamed the wrong education on parents who did not give enough love and affection for their children. In many Arab countries, where the “shame” is a slogan, many kids are likely not given the correct the diagnosis, instead they become part of what the family has to hide. Nowadays, the situation has started to change and awareness campaigns are made to help parents go further with their autistic kids to be able to understand the “Why” and give opportunities for specialists to conduct more explorative research. Nowadays, researchers have begun to explore a different interpretation based on all human components related to physiology, cognitive, psychological, genetic, neurological, and biochemical factors. All of these individual aspects require a lot of research and effort in the coming decades. In the results given, 42.9% accepted that the main reason for Autism is unknown, while the 22.6% agreed on the heredity as the cause of Autism. This second position links to the mentality and cultural context that would like to see the family behind any disability. This is to be confirmed by the 14.00% who responded that it is the wrong education. At the end, 9.7%, in the other item, discussed the cause of Autism and there were 68 persons who were involved in this discussion.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Q5 The role of the national media in the following aspects: Answer Options
Rating Average Awareness
Excellent Good Accepted Weak Very Weak
1 2 5 15 12
4 6 22 57 45
Excellent Good Accepted Weak Very Weak
1 0 3 10 14
1 11 19 45 45
4 10 29 86 118 Media Coverage 2 12 16 78 119
3 4 30 101 108
1 2 5 8 16
2 3.5 13 38.5 43
4 4 16 82 117
2 2 0 7 14
2 4.5 8.5 35.5 49.5
!
In this section, it is clear that the majority agree that national media do not support the awareness through their programs, with 81% in favor of this position. A small number would say that it is accepted and good, while a very small number of persons supported positively their media coverage and their awareness work.
Q6: Who bears responsibility for autistic children? Ministry of Education
0
6
9
3
3
3.0%
Ministry of Social Affairs
5
25
27
18
1
10.9%
Ministry of Health
2
11
14
17
1
6.4%
NGO's
4
3
13
12
1
4.7%
All mentioned
19
64
169
174
18
63.4%
I don't know
2
14
6
12
10
6.3%
other
3
11
9
13
0
5.1%
!
It is so clear that most of those who answered the survey are not specifically aware of who is exactly responsible for the disability issue. Accordingly, their main answer was â&#x20AC;&#x153;all mentionedâ&#x20AC;?. The Ministry of Social Affairs was at the top of the list of those who are responsible for working to increase awareness and offering services. In the list of others, one interesting issue was raised, and that is the lack of specialized institute, center or a school that is concerned about autistics in the PA. Q7: What is the most appropriate place for the autistic? #
Home
1
20
16
14
2
School
1
8
13
10
2
7.6% 4.9%
Special Institution
15
45
78
78
15
33.2%
All mentioned
18
60
139
147
14
54.3%
# #
anno II | n. 1 | 2014
SAMI BASHA
93
For many families with a family member on the Autism spectrum, the best place to live is where they can access different educational, medical and recreational resources without having to drive to another city or country. I know personally that many people from PA had to take their children to Jordan, US or some European countries hoping to find a better place for their treatment. Many parents would ask themselves their child will be able to live independently? To # read and write? To hold a job? To get married? This is why parents want their children to have the best therapy program, accordingly, they would prefer to trust specialists who can deal with the child better that the parents. Unfortunately, this is what many parents think and act without considering the important role of their parenthood. Those who answer 33.2% for special institutions were faced# by 54.3% who highlighted the importance of dividing the responsibility. Q8: What can be done in Palestine to meet this challenge? #
Existence of early detection programs for Autism
20
78
157
167
20
63.1%
Autism become among the priorities of the government
13
44
103
121
16
42.4%
Organize national awareness campaign
16
62
137
132
18
52.1%
Prepare qualified cadres
17
64
155
160
23
59.8%
other
4
6
14
26
4
7.7%
#
94
Today there are more opportunities for inclusion of autistics in daily life, but # still many would probably be wondering and worrying about what comes next. # No parent is ever prepared to hear that a child is anything other than happy and # healthy, and a diagnosis of Autism can be particularly frightening. Unfortunately, the last decades have been a disaster for Autism, especially with those who pre# tend #to diagnose Autism in PA, accordingly, parents and children were victims of quick evaluation with final report that categorize the child as autistic, and in most cases were given psycho pharmacy to calm them down without serious pedagogical intervention. The culture and the local mentality find it difficult to bring the child into a shared world and foster attention and engagement. People are in front of how to coop with new challenges related to Autism. It is so clear that all answers give the impression that people want changes in this sector and see real and concrete steps toward serious intervention especially on official levels.
4. Final remarks
I thought to start working on this research in order to highlight the growing need for concern and awareness about Autism in the PA, and as a way to educate the public about Autism and issues within the Autism community. I remember when I launched the survey many people said that there was no need to ask the public opinion about Autism because it is unknown disorder. When I went ahead with my idea I felt that it was necessary to do it, simply because answers given shown the need for such provocative survey. It is an important indicator when 22.6% says that Autism is caused by heredity, while the majority of 42.9% says that it is III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
unknown, furthermore, 63.1% said that there is a need for early detection for Autism, while 58.9% pretended the need for the preparation of qualified cadres. All other answers showed a positive opinion about Autism in the Palestinian Authority, in spite of their sufficient knowledge.
Key points
1. There are sufficient levels of public awareness of Autism in the PA, taking into consideration the cultural and mentality aspects. 2. There was a good and representative gender participation in the survey, where there was largely male (52%) and female (48%). 3. The research showed worrying data about what people know about Autism, 35.3% thinks that it is a behavioral disorder, while 19.1% believes that it is under the psychological disorders. I admit that it is really worrying to have such number of people supporting this theory in the PA. The final 5% which declared their ignorance in the field is classic percentage in most researches, while the 35.4% see it as a general growth disorder. 4. Most respondents (42%) would feel comfortable declaring to know an individual with Autism. 5. The majority of respondents (42%) said that the cause of Autism is unknown. 6. There was considerable support for pedagogical interventions from all who are related to the autistic child, especially at home, in school and special institutions. 7. The public is unclear and uncomfortable about media coverage in supporting and highlighting the needs of individuals with Autism.
References
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SAMI BAShA
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Nind M., Rix J., Sheehy K., Simmons K. (2005) (eds.). Curriculum and Pedagogy in Inclusive Education. Values into Practice, Abingdon: Routledge Falmer. Rix J., Simmons K., Nind M., Sheehy K. (2005) (eds.). Policy and Power in Inclusive Education. Values into Practice. Abingdon: Routledge Falmer. Thomas G., Vaughan M. (2004). Inclusive Education: Readings and Reflections. Maidenhead: Open University Press.
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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Audiodescrizione e didattica multimediale in ambito umanistico per studenti universitari con disabilità visive
Key-words: E-inclusive, Accessibility, Audio description, Describer, Visual impairments.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Il settore di riferimento del presente testo è quello dell’audiodescrizione degli elementi visivi utilizzati a supporto di lezioni universitarie, rivolte a soggetti ipo e non vedenti. Il lavoro fa capo al progetto di ricerca dell’Università di Ferrara dal titolo Progettazione di strumenti innovativi per la didattica multimediale per studenti universitari con disabilitàvisive, approvato e finanziato in parte dal MIUR1. Obiettivo del progetto, realizzato in collaborazione tra l’Ufficio diritto allo studio e servizi disabilità studenti (Servizio S.M.S.) e il Centro di tecnologie per la comunicazione, l’innovazione e la didattica a distanza, è la realizzazione di due lezioni multimediali accessibili, una in ambito umanistico, l’altra sanitario. La ricerca ha previsto interventi in diversi campi, integrati tra loro: quello comunicativo (cosa e come descrivere le informazioni significative veicolate attraverso le immagini), quello didattico (impostare la giusta metodologia per la realizzazione delle videolezioni e valutarne l’efficacia in termini di apprendimento), quello tecnologico (individuare la tecnologia migliore, in termini di accessibilità, a supporto dei lavori realizzati). I risultati della valutazione, visto il numero limitato dei soggetti coinvolti e la loro eterogeneità, tendono a dimostrare che il prodotto realizzato è facilmente comprensibile, tecnologicamente accessibile e didatticamente efficace.
abstract
Angela De Piano / Università degli Studi di Ferrara / angela.depiano@unife.it Giovanni Ganino / Università degli Studi di Ferrara / giovanni.ganino@unife.it
III. Esiti di ricerca
A Giovanni Ganino sono da attribuire i paragrafi 1 e 2, ad Angela De Piano il paragrafo 3. Responsabili scientifici del progetto sono la Prof.ssa Daniela Mari (Delegato del Rettore per le disabilità) e il Prof. Paolo Frignani (Delegato del Rettore per l’orientamento e la didattica a distanza).
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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1. Introduzione sulla logica del progetto: accessibilità, tecnologie, audiodescrizione
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Il pieno accesso all’università per studenti con disabilità visive è legato alla disponibilità di tecnologie assistive e all’impiego di metodologie didattiche adeguate. Una riflessione ponderata su questi aspetti, tecnologici e didattici, se si vuole puntare verso lo sviluppo di una università inclusiva (creare le condizioni adatte alle abilità differenti di tutti gli studenti), come superamento delle politiche di integrazione (mettere a disposizione strumenti e tecnologie per ridurre il distacco) (Thomas, Walker, Webb, 1998; Medeghini, 2008), non può prescindere dall’analisi dello scenario contemporaneo relativo al rapporto tra didattica e tecnologie. Il sistema Braille ha consentito ai non vedenti di imparare a leggere e scrivere e di esprimere le proprie potenzialità sul piano sia cognitivo che affettivo e creativo (Quatraro, Ventura, 1992). Dunque di scoprire e comunicare la propria identità. Nell’Era digitale il Braille deve essere affiancato da altri strumenti, funzionali ai paradigmi della Società dell’informazione e della conoscenza. Tale società si contraddistingue per la pervasività delle tecnologie nelle attività lavorative, educative, sociali e culturali e per la naturalizzazione delle stesse, i processi tecnologici escono dal dominio ristretto delle tecniche per entrare nella quotidianità ed assumere forme familiari, costituiscono l’habitat dei cittadini odierni (Ricciardi, 2009). Si è in presenza di una rivoluzione culturale, la transizione dalla galassia Gutemberg alla galassia Internet ha determinato profondi cambiamenti nei processi comunicativi che si riflettono nella cultura partecipativa e nei nuovi paradigmi di interazione sociale (Jenkins, 2010), nella costruzione di uno spazio del sapere sociale e di forme di intelligenza collettiva (Lévy, 1994) e connettiva (Siemens, 2006). Tale rivoluzione investe anche scuola ed università: è ormai convinzione consolidata, da parte di pedagogisti e responsabili di politiche educative, la necessità di approntare ambienti didattici in grado di avvicinare la dimensione formale a quella informale attraverso le tecnologie 2.0 ed i principi teorici del socio costruttivismo. Si evince, a seguito di questi cambiamenti, come le società intenzionate a garantire una piena inclusione sociale devono assicurare a tutti i cittadini, in modo particolare alle categorie deboli, le possibilità offerte dagli ambienti tecnologici attraverso la costruzione di rampe d’accesso ad Internet ed ai documenti digitali, la rimozione di tutte le barriere virtuali. Ciò significa, alla luce di quanto detto, che è importante pensare non soltanto al computer (e a tutti gli altri dispositivi informatici, tablet, telefonini ecc.) come strumento hardware che consente l’utilizzo strumentale di software, quanto piuttosto come dispositivo attraverso il quale vivere in pieno la rivoluzione culturale in atto. In questa direzione vanno l’art. 3 della Costituzione italiana (sancisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini), il concetto di e-inclusive introdotto dalla Commissione Europea nel 2006, ma soprattutto la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata nel 2006 con il fine di indicare a tutti gli Stati del mondo la strada da percorrere in tale ambito. La convenzione che intende promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità (art.1), ratificata III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
il 24 febbraio 2009 dal Parlamento italiano ed il 23 dicembre 2010 dall’Unione europea, ha il pregio di considerare l’accesso alle tecnologie telematiche come il risultato della combinazione di una pluralità di risorse non soltanto fisiche, interpretazione dell’informatica come disciplina in grado di fornire ausili o protesi per sopperire alle difficoltà d’accesso (Besio, 2005), ma anche sociali e relazionali (Lazzari, 2012). In questa direzione vanno l’articolo 4 quando propone che si diffondano informazioni accessibili per tutti, tema precedentemente sviluppato dal Wide Web Consortium (W3C) attraverso la Web Accessibility Initiative (WAI), e soprattutto l’articolo 9, laddove si stabilisce cha al fine di consentire alle persone con disabilità di vivere in maniera indipendente e di partecipare pienamente a tutti gli ambiti della vita, gli Stati Parti devono prendere misure appropriate per assicurare l’accesso […] all’informazione e alla comunicazione. In relazione alle opportunità offerte dai servizi del Web 2.0 intervengono gli articoli 19, quando fa riferimento alla necessità di consentire il diritto a tutte le persone con disabilità della piena inclusione e partecipazione all’interno della comunità, e 21, nel citare il diritto alla libertà di espressione e di opinione […] attraverso ogni forma di comunicazione di loro scelta. La possibilità di usare gli strumenti del Web 2.0 come protesi relazionale e tecnologia inclusiva consente di “promuovere la partecipazione attiva delle persone disabili in tutte le aree della vita, scuola, lavoro, vita sociale e tempo libero” (Besio, 2005, p. 33). In ambito universitario e-inclusive significa consentire l’accessibilità ai disabili visivi alle lezioni, sia in presenza che a distanza. In questo settore si consideri come sia aumentato l’impiego di documenti digitali e, di conseguenza, il ruolo delle immagini: l’utilizzo di software ad alto contenuto grafico come PowerPoint, quale ausilio didattico, è ormai prassi comune a tutti i livelli di insegnamento. è importante considerare come alcune volte le immagini vengono impiegate senza alcuna funzione, hanno cioè un ruolo riempitivo o decorativo, in altri casi, assumono centralità nel processo comunicativo (e didattico) e devono, pertanto, essere lette, pena l’incomprensione del messaggio. La tecnica utilizzata per consentire la lettura delle immagini ai disabili della vista è definita audiodescrizione (il testo alternativo che accompagna il contenuto visivo). Rendere accessibili le immagini significa affrontare in modo integrato aspetti semiologici, comunicativi, didattici e tecnologici, senza dimenticare le prospettive e il punto di vista normativo e legislativo. è un percorso complesso, se visto nella sua integrità, che deve essere scomposto in diverse parti. L’attività di lettura, innanzitutto. Le immagini veicolano significati, sono testi complessi che entrano in relazione con lo spettatore e che devono essere letti attraverso un processo interpretativo dinamico, come evidenziato dagli studi che afferiscono alla semiotica visiva, tesi ad indagare i significati attraverso precise strategie di analisi. Nel caso specifico è importante andare oltre la funzionalità comunicativa dell’immagine per individuare che cosa e come descrivere in rapporto al progetto didattico per non vedenti e ipovedenti. L’attività di scrittura, ossia la preparazione della lezione che fa uso di immagini. è importante in questo caso distinguere tra immagini in movimento e statiche, ciascuna forma maggiormente congeniale ad attivare processi cognitivi diversi. Più in generale risulta evidente come l’utilizzo delle immagini sia fondamentale per la spiegazione di quelle situazioni in cui centrale appare l’elemento dinamico e quando il testo, parlato o scritto, può solo dare un’idea astratta del fenomeno nel suo evolversi. Indichiamo di seanno II | n. 1 | 2014
ANgeLA De PIANo, gIovANNI gANINo
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guito le principali funzioni della comunicazione visiva nei processi di insegnamento: “documentare fenomeni scientifici, descrivere visivamente fatti ed esperienze, offrire schematizzazioni e simbolizzazioni per formare concetti, guidare la riflessione e l’interpretazione per formare principi, sostituire operazioni mentali, presentare modelli per favorire prestazioni e abilità, fornire stimoli esterni per alimentare l’immaginazione e il pensiero creativo” (Galliani, 1984, p. 26). Il processo di audiodescrizione in situazioni di educazione formale deve essere supportato da un’adeguata riflessione metodologica, nella consapevolezza di come non vi sia automatica corrispondenza tra impiego di tecnologie e miglioramento dei processi di apprendimento (Calvani, 2007). Certi dell’impossibilità di dare un quadro esaustivo di una così vasta problematica, scopo del nostro lavoro è fornire un contributo sul ruolo dell’audiodescrizione nei processi di costruzione della conoscenza in situazioni di didattica universitaria mediatizzata. Di seguito le fasi del lavoro:
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1. studio della letteratura di riferimento e analisi degli aspetti comunicativi impiegati nei processi di audiodescrizione con l’intento di fornire ai descrittori una serie di linee guida; 2. individuazione delle tecnologie funzionali alla logica del progetto1; 3. realizzazione di 2 videolezioni2 (Il teatro comunale di Ferrara. Aspetti storicoculturali e Metodologia della riabilitazione: lo streching) con l’intento di mettere in pratica i principi e le linee guida individuati nella prima fase: il cosa descrivere ossia che cosa è essenziale conoscere dallo studente ipo e non vedente così che possa seguire e comprendere un certo contenuto nel tempo previsto dagli obiettivi didattici; il come descrivere secondo modalità di vocabolario significativo per gli utenti di riferimento; 4. verifica della funzionalità didattica in termini di apprendimenti significativi delle videolezioni realizzate ed eventuale individuazione di linee guida disciplinari.
2. Accessibilità e audiodescrizione: aspetti generali
Le tecniche di audiodescrizione, concepite e studiate a partire dagli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti, possono essere applicate in settori diversi, teatro, cinema, televisione, esposizioni museali, parchi di divertimento, prodotti digitali e siti web, didattica mediatizzata. Naturalmente le modalità di audiodescrizione non devono essere considerate univoche, ma dipendono dai contesti d’uso, con differenze significative dovute alle modalità di fruizione (sincrona, asincrona), al settore di riferimento (spettacolare, informativo, ludico, formativo), alle forme comunicative impiegate (file audio, testo scritto fruito attraverso screen reader).
1 2
L’aspetto tecnologico, seguito da ricercatori del Dip.to di Ingegneria, non è descritto in questo lavoro. Il presente lavoro prende in considerazione soltanto la videolezione sul teatro comunale.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Definizione di audiodescrizione3. Non esiste un metodo standard audiodescrittivo, così come non esiste una definizione di audiodescrizione universalmente riconosciuta. Le definizioni più diffuse fanno riferimento alla descrizione di immagini spettacolari, riferite a cinema e televisione (Benecke in Zirone, 2008); altre, prendono in considerazione elementi comunicativi utilizzati nel Web e nei documenti digitali (AA.VV., 1999), oppure, riguardano spettacoli dal vivo (teatro, danza, performance sportive) e allestimenti museali (Arma, 2007). La definizione più appropriata, nonostante la sua semplicità, ci sembra la seguente: “traduzione intersemiotica di un codice visivo in codice verbale” (Hernàndez-Bartolomé e Mendiluce Cabrera 2004; Lavaur e Serban 2008; in Zirone, 2008). è la definizione che preferiamo in quanto non facendo riferimento ad un settore specifico non crea gerarchie e scale di valori, il processo di audiodescrizione non può essere subordinato a logiche di natura industriale o economica. Più semplice è la definizione tecnica: un’audiodescrizione è costituita da una o più tracce audio, integrate e sincronizzate con le tracce audio e video dell’audiovisivo. Nel caso dell’ audiodescrizione di immagini fisse o grafici il testo alternativo può essere costituito da un file audio oppure da un testo scritto che possa essere letto da uno screen reader. Naturalmente a partire da questi interventi minimi è possibile sfruttare le logiche di comunicazione ipertestuale e gestire i contenuti descrittivi secondo modalità meno rigide: nel caso del video ad esempio, inserendo i contenuti alternativi come link (descrizione estesa) per non intaccare il documento originale con operazioni di montaggio.
Gli studi del settore. Chi si occupa della descrizione deve orientarsi all’interno della testualità visiva, leggendone i segni e optando scelte funzionali. In pratica bisogna tradurre i codici visivi in codici sonori attraverso l’individuazione del che cosa deve essere descritto in funzione, da un lato, della natura dell’immagine e della sua funzionalità comunicativa, dall’altro, del progetto didattico. La fase successiva riguarda il come descrivere. L’analisi della letteratura in materia evidenzia un corretto compromesso tra un intervento personale, basato su sensibilità e cultura del descrittore, sulla conoscenza dei destinatari, e sul rispetto di norme scientifiche. La standardizzazione delle tecniche, garantendo una base di riferimento sia alle istituzioni no profit che si occupano di audiodescrizione che all’industria di settore, favorirebbe anche la messa a punto di programmi di verifica e valutazione, e di strumenti di certificazione internazionali. Di seguito alcuni lavori che vanno in questa direzione. Un contributo importante proviene dallo studioso canadese di accessibilità Joe Clark (2001) il quale ha affrontato il problema interrogandosi sia sugli aspetti comunicativi (ha individuato una serie di linee guida su come descrivere) che sulle procedure operative. Uno studio inglese del 2000 realizzato dall’Independent Television Commission (ITC, 2000), ora Independent regulator and competition authority for the UK communications industries (OFCOM), ha consentito la stesura delle linee guida per l’audiodescrizione dei programmi televisivi4. 3 4
Questo paragrafo insieme a quelli sugli “studi del settore” e alle “linee guida” approfondiscono e chiarificano tematiche affrontate in G. Ganino (2013). La ricerca ha previsto l’utilizzo di una serie di strumenti: questionari somministrati ad un cam-
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ANGeLA De PIANO, GIOVANNI GANINO
101
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Il programma di ricerca statunitense Described and Captioned Media Program, realizzato in collaborazione con la National Association of the Deaf, ha avuto un orientamento didattico finalizzato al miglioramento dei processi di apprendimento degli studenti non vedenti, ipovedenti, non udenti, con problemi di udito o sordo-ciechi. Le linee guida individuate (AA.VV., 2009) forniscono indicazioni funzionali all’audiodescrizione di materiale didattico (grafici, tabelle, diagrammi, equazioni matematiche) utilizzato in discipline scientifiche, quali scienza, tecnologia, ingegneria, matematica (immagini STEM). Il programma ha avuto il merito di evidenziare come il mondo delle immagini scientifiche richieda un approccio descrittivo specialistico. The Carl and Ruth Shapiro Family. National Center for Accessible Media (NCAM), istituto fondato nel 1993 come braccio di ricerca della televisione pubblica americana, ha redatto una serie di linee guida, frutto di 4 anni di lavoro, funzionali all’audiodescrizione di programmi televisivi e di materiali didattici. La fondazione Art Education for the Blind (AEB), fondata negli Stati Uniti nel 1987 da Elisabeth Axel con lo scopo di promuovere l’accessibilità all’arte da parte delle persone cieche o ipovedenti, ha sviluppato una metodologia descrittiva specifica (Salzhauer, Hooper, Kardoulias, et. altri, 1996). Le relative indicazioni evidenziano come immagini, oggetti, manufatti e video che appartengono alla sfera delle arti implicano un approccio completamente diverso da quello impiegato per le immagini STEM. In un caso il focus è sul dato tecnico, il percorso logico o la natura del processo in esame; nell’altro, l’obiettivo è invece trasmettere la sensazione e l’estetica dell’opera, oltre naturalmente alle sue caratteristiche fisiche. Non a caso la fondazione lavora insieme agli scienziati, ai ricercatori e alle persone non vedenti, per elaborare metodologie funzionali all’accessibilità non soltanto dei dati visivi, ma anche degli stili e dello Zeitgeist (spirito del tempo) (Levent, 2006). Quello dell’educazione estetica e di un corretto approccio alle arti visive per ipovedenti e non vedenti è un tema particolarmente sentito. Si consideri come ancora oggi in molti casi i ragazzi non vedenti iscritti alla scuola pubblica italiana vengano esclusi dall’insegnamento della storia dell’arte, oppure, nel migliore dei casi, imparino nozioni teoriche senza acquisire la minima rappresentazione mentale dei beni artistici oggetto delle lezioni (Bellini, 2000). È un problema, quello dell’esperienza estetica dei non vedenti, che deve essere affrontato con la massima prudenza e bisogna, nelle indicazioni di Loretta Secchi (2004), confrontarsi con le nuove possibilità culturali e cognitive sulla base di risultati concreti, valutando in termini teoretici ed epistemologici il corso delle nuove ricerche sulla percezione, cognizione e interpretazione delle arti visive. In Italia esistono due musei che si occupano di educazione estetica speciale: il Museo tattile di pittura antica e moderna “Anteros” dell’Istituto dei Ciechi Francesco Cavazza, a Bologna, ed il Museo tattile statale “Omero” di Ancona.
pione di ciechi totali e ipovedenti; sessioni di visioni sperimentali rivolte ad un campione (diviso per età ed estrazione sociale) di persone cieche e non, e successivo focus group; l’analisi dei programmi audiodescritti da parte di un gruppo di esperti, opportunamente formati; interviste ad un campione, diviso per età ed estrazione sociale, che ha consultato 7/10 ore di programmi audiodescritti a settimana.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Le procedure operative. Prima di indagare le modalità individuate sul cosa e come descrivere diamo alcune indicazioni sulle procedure operative, attività che implica un lavoro di gruppo, l’individuazione di ruoli professionali e processi specifici, individuati da Joe Clark (2001) in descrittore, narratore, produzione. Partiamo dalle sue riflessioni che integriamo con definizioni provenienti da altri studi e nostre considerazioni. Il descrittore è il soggetto che, dopo aver individuato gli elementi da sottoporre a traduzione intersemiotica, si occupa del processo di audiodescrizione attraverso l’applicazione delle linee guida. Tale lavoro deve essere il più possibile oggettivo, preciso e mai evocativo, le interpretazioni personali dovrebbero essere evitate, funzionale alle caratteristiche dei fruitori, deve infine mantenere intatta l’atmosfera del documento, questo soprattutto nel caso di audiovisivi. Presso l’emittente televisiva tedesca Bayrischer Rundfunk il lavoro di audiodescrizione viene svolto da équipe di tre persone, due vedenti e una cieca, ciò favorisce un confronto immediato sui contenuti della descrizione (cosa e come), sul grado di approfondimento e sulla durata complessiva. La presenza di una persona cieca, funzionando come primo banco di prova rispetto all’efficacia del lavoro, può ridurre notevolmente i tempi di lavorazione (Benecke in Zirone, 2008). Un primo problema in ambito universitario riguarda l’individuazione della figura professionale del descrittore. Deve essere l’esperto del contenuto/il docente debitamente formato oppure un professionista specializzato nei diversi ambiti disciplinari (scientifico, umanistico, economico)? è più proficuo il lavoro individuale oppure in team (docente affiancato dal descrittore)? Il narratore è lo speaker che legge il testo della descrizione quando si opta per questa modalità comunicativa. Può essere sostituito da un sintetizzatore vocale laddove non sia importante l’intonazione della voce e il fondersi con il sonoro originale. Il narratore deve parlare in modo chiaro, ad una velocità adatta alla comprensione del testo, utilizzare le giuste pause o momenti di silenzio, la sua voce deve essere priva di tonalità emotive o interpretative. In casi particolari il narratore potrebbe coincidere con il descrittore (ad esempio nel settore della formazione). Con il termine produzione viene indicato il singolo prodotto audiodescritto: una rappresentazione teatrale, un programma televisivo, uno spettacolo di danza, un film, una fotografia. Descrivere una serie televisiva completa comporta diverse produzioni. Nel nostro caso la produzione coincide con la singola videolezione. Linee guida audiodescrizione. Si è già detto dell’importanza della standardizzazione delle linee guida al fine di garantire uno statuto di scientificità all’audiodescrizione e favorire l’industrializzazione dei processi. Le indicazioni provenienti dagli studi del settore non devono intendersi come un ricettario da rispettare, sono piuttosto utili per capire il punto di vista da adottare. Si è scelto di dividere l’elenco in due parti: i principi generali, validi in tutte le situazione; le immagini per la didattica e la divulgazione scientifica, maggiormente funzionali alla costruzione di saperi in ambienti formali.
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A - Principi generali
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Saper osservare. La ricchezza semantica in termini di significazione di un’immagine ben costruita determina complessità nella sua lettura. Il descrittore in base agli obiettivi didattico e comunicativi deve essere in grado di selezionare gli elementi fondamentali alla comprensione dell’informazione da trasmettere. Nell’individuazione dei dettagli significativi, il saper osservare, considerato un principio tra i più importanti da Clark, prevede il superamento di una visione meccanica a favore dell’osservazione finalizzata alla logica progettuale. Pensare alla produzione e ai destinatari. Nella consapevolezza della particolarità dei bisogni dei destinatari è assolutamente vietato mettersi in mostra con un linguaggio ricco, aulico o retorico. La legge 138 del 2001 Classificazione e quantificazione delle minorazioni visive e norme in materia di accertamenti oculistici prevede una distinzione tra cieco assoluto, cieco parziale, ipovedente medio-grave, ipovedente lieve: ciò significa che non è facile rivolgersi a fruitori il cui deficit può oscillare tra la dimensione della cecità assoluta e quella della scarsa visione. Essere obiettivi. Il descrittore deve evitare le personali posizioni culturali, sociali, politiche e avere un punto di vista obiettivo descrivendo coerentemente ciò che succede. Sinteticità e incisività di espressione. Considerato la necessità di un tempo di lettura delle informazioni superiore alla norma da parte dei disabili della vista, il processo cognitivo non deve essere ulteriormente rallentato da descrizioni inutilmente lunghe. La gestione del tempo. Il tempo della descrizione è il presente, i passaggi di tempo (ellissi, flashback, flashforward) devono essere descritti nel caso vi sia un’evidenza visiva a supporto, un calendario, le lancette di un orologio, la didascalia “un mese dopo”. Il tempo di durata della descrizione deve di norma adeguarsi alle pause del sonoro, in caso di difficoltà vale il principio della comprensione che prevede l’eliminazione delle parti meno significative della colonna sonora. Nel caso della fruizione asincrona è possibile superare tale limite attraverso la tecnica della descrizione estesa, inserimento di file consultabili in modo parallelo. Specificare la tipologia di media. Considerato come ciascun medium sia portatore di peculiarità comunicative proprie, per facilitare il lavoro di lettura è importante indicare l’oggetto della descrizione (scena di film, genere dell’audiovisivo, fotografia, ecc.). Titolazione e lettering. La titolazione, di testa e coda, deve essere letta integralmente. Nel caso di lettura/descrizione di didascalie è importante far capire che si stanno leggendo testi scritti. B - Immagini per la didattica e per la divulgazione scientifica
Colori. è utile descrivere i colori a persone che non li hanno mai visti? Secondo la Independent Television Commission (ITC) la percentuale di persone che non hanno mai avuto possibilità di vedere è minima, quindi la maggior parte dei ciechi ha memoria dei colori ed è quindi importante includerli nella descrizione. Molte persone che hanno perso la vista nei primi anni di età, inoltre, sono in grado di III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
capire il significato di un colore per associazione: il verde con l’erba, il rosso con il calore ecc. Organizzazione di tipo Drill Down. La descrizione deve seguire una struttura drill down, un riassunto introduttivo seguito dalla descrizione estesa al fine di consentire al fruitore la scelta di fermarsi, se soddisfatto dalle informazioni ottenute, oppure di continuare nella lettura per ottenere approfondimenti. Tabelle e dati. Nella comunicazione di dati risulta conveniente trascurare gli elementi visivi, grafici a torta o a barre, per concentrarsi esclusivamente sul dato numerico. Processi. I processi che vengono presentati visivamente nei diagrammi di flusso devono essere convertiti in liste annidate per evitare descrizioni lunghe e poco efficaci. Matematica. Nel caso di immagini che riproducono formule matematiche o chimiche, grafici complessi, listati di programmazione, esistono linguaggi funzionali alla traduzione delle suddette formule. In ambito accademico quello più noto è il LaTeX, linguaggio utilizzato anche da Wikipedia per consentire la visualizzazione delle formule scientifiche agli utenti vedenti in termini di simboli matematici. L’utente non vedente può leggere il codice sorgente (la descrizione della formula) se conosce i comandi e i significati delle parole chiave del LaTeX. Un’alternativa alla lettura delle formule matematiche, grazie alla loro traduzione in forma testuale, è offerta dal linguaggio rotazionale MathML (Carella, 2009). Gli oggetti d’arte. In questo ambito è utile che l’audiodescrizione fornisca informazioni in una sequenza tale da consentire di assemblare, pezzo per pezzo, un oggetto d’arte. Nel caso di un’esposizione museale la descrizione evidenzia i dati che si trovano sull’ etichetta di un’opera: nome dell’artista e nazionalità, titolo e data; seguono informazioni funzionali alla rappresentazione complessiva dell’opera: atmosfera e ambientazione generale, elementi di composizione, uso dei colori; dalla descrizione generale si passa all’analisi dei dettagli pertinenti; rispetto all’indicazione della posizione di oggetti o figure in un dipinto è utile riferirsi alle posizioni dei numeri dell’orologio piuttosto che utilizzare i concetti di destra e sinistra, oppure potrebbe essere utile fornire istruzioni che consentano ai non vedenti di imitare la posizione della figura rappresentata. Conclusioni. Risulta evidente come le società evolute non possano trascurare il tema dell’e-accessibilità, sarebbe una colpa grave nei confronti dei soggetti più deboli. Qualcosa si sta facendo, il concetto di usabilità è oggetto di raccomandazioni da parte di organismi internazionali, ma ancora molto rimane da fare, l’approccio definito design for all in grado di garantire una progettazione inclusiva e universale è ancora distante. Naturalmente la situazione cambia a seconda dei paesi, l’Italia è distante dagli standard dei paesi più avanzati quali la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada. I problemi sono diversi e di non facile soluzione: costi, definizione di standard e specifiche tecniche prima di tutto. Appare evidente come un impulso dovrebbe pervenire da iniziative politiche, da misure legislative internazionali e nazionali ancora più vincolanti e da maggiori investimenti a sostegno di ricerca e sviluppo. Il progetto dell’Università di Ferrara va in questa direzione.
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3. Progettazione di una lezione multimediale per studenti con disabilità visiva
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La progettazione di prototipi di lezioni didattiche multimediali si inserisce nell’ambito di un progetto di ricerca attivato dall’Università di Ferrara in collaborazione con il servizio SMS (Ufficio Diritto allo Studio e Servizi Disabilità Studenti), il Dipartimento di Ingegneria e il Dipartimento di Studi Umanistici, ed è nato con l’obiettivo di migliorare il supporto logistico-didattico per gli studenti con disabilità visive5. Partendo dall’analisi della letteratura esistente e degli scenari attuali relativi alle risorse tecnologiche disponibili si è deciso di progettare un prototipo di lezione di ambito umanistico scegliendo come disciplina di riferimento la Storia del Teatro. Nello specifico ci si è proposti di individuare sia un percorso comunicativo efficace, scorrevole e comprensibile, sia un percorso didattico capace di consentire apprendimento significativo, tenendo conto ovviamente delle necessità specifiche dello studente con disabilità visiva. Tra le finalità principali vi è stata quella di ideare il prototipo in modo tale da facilitare ai docenti l’adattamento dei contenuti didattici visivi destinati agli studenti con tale tipo di disabilità. Agli insegnanti infatti è richiesto un impegno aggiuntivo che consiste appunto nell’adattare i documenti visivi così da permetterne a tutti la corretta fruizione. La diffusione negli ultimi anni della multimedialità ha modificato il rapporto tra disabili visivi e mondo della formazione consentendo una maggiore integrazione. In generale le tecnologie assistive permettono oggi ai disabili di svolgere le attività proposte dagli insegnanti in classe al pari degli altri alunni (Besio, 2005). Per i disabili visivi in particolare, strumenti come la sintesi vocale o la funzione zoom per ingrandire i testi permettono l’accesso a tutte le fonti scritte di tipo digitale. Il problema maggiore rimane quello dei contenuti visivi e della loro accessibilità. In ambito didattico tra l’altro, il ruolo delle immagini è diventato di primo piano e spesso i docenti inseriscono slide o filmati a supporto delle loro lezioni. L’uso di tali contenuti è diventato una prassi diffusa anche perché sollecitata da molte iniziative ministeriali (che a loro volta si basano su direttive UE): ad esempio il Piano per la scuola digitale, avviato nel 2008 dal Ministero della Pubblica Istruzione per dotare tutte le scuole di Lavagne Interattive Multimediali, strumenti didattici basati fortemente sull’immagine. Le nuove dotazioni tecnologiche comportano anche nuove capacità da parte degli insegnanti, che devono sviluppare nuove competenze (Rivoltella, Ferrari, 2010). Queste iniziative, come molte altre del genere, rendono sempre più urgente il problema dell’accessibilità ai prodotti multimediali da parte di soggetti con disabilità visive. Per la creazione del prototipo ci si è avvalsi di indicazioni fornite dalla letteratura internazionale già esposte precedentemente, in particolare si sono ricavate utili informazioni dalle linee guida che la Independent Television Commission ha fornito alle tv inglesi per la trasmissione di programmi audiodescritti (ITC, 2000) e dalle linee guida di Joe Clark, esperto in accessibilità di documenti multimediali (Clark, 2001). 5
Il progetto si intitola “Progettazione di strumenti assistivi per la didattica multimediale per studenti universitari con disabilità visive”ed è tuttora in corso.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Per i contenuti visivi diventa importante usare la tecnica dell’audiodescrizione o della descrizione testuale. La prima è un’attività caratterizzata dalla presenza di una voce registrata (ad esempio in formato mp3) che descrive quello che accade in un filmato o ciò che appare in un’immagine. Nella presente ricerca è stata inserita all’interno di alcuni video didattici. La seconda tecnica si attua affiancando all’immagine la sua descrizione testuale che viene letta dal disabile tramite un traduttore elettronico. Nel nostro prototipo questa tecnica è usata per descrivere alcune slide didattiche. Si usano a tal scopo programmi di sintesi vocale ossia software che consentono di leggere un testo tramite pc. Per l’accessibilità dei contenuti web, utili spunti si sono ricavati anche dalle Web Content Accessibility Guidelines pubblicate nell’ambito del progetto WAI (Web Accessibility Initiative) promosso dal Consorzio W3C6. Le regole indicate per rendere accessibili le risorse del web si possono riassumere in due accorgimenti fondamentali:
1. Rendere i contenuti sempre comprensibili e facilmente navigabili, ossia • scrivere in modo semplice e chiaro in relazione all’argomento trattato e al target; • dare indicazioni di orientamento (mappe del sito, descrivere la destinazione dei link); • fornire chiari meccanismi e flussi di navigazione. 2. Garantire una trasformazione gradevole dei contenuti, ossia • realizzare documenti che possano essere fruiti anche se l’utente è non vedente; • inserire equivalenti testuali agli elementi grafici; • separare la struttura testuale dalla presentazione grafica del documento; • realizzare documenti che non richiedano l’uso di hardware troppo specifici.
Dalle disposizioni del WCAG si evincono dunque ulteriori indicazioni operative interessanti per rendere accessibili i contenuti digitali ai disabili visivi. Con l’appoggio di queste linee guida è stato realizzato il prototipo di lezione di ambito umanistico. La lezione ha riguardato la descrizione e la funzione del Teatro Comunale di Ferrara. Nel percorso sono stati inseriti materiali verbali e iconografici necessari a descriverne la natura e la funzione di bene culturale. Nello specifico sono state inserite: – informazioni di tipo testuale (lette da un traduttore elettronico per il disabile visivo); – immagini statiche (descritte testualmente); – contributi audio (accompagnati da spiegazioni testuali); – contributi video (sia audiodescritti che accompagnati da descrizioni testuali); – link di approfondimento (link a pagine testuali esterne e a pagine interne).
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Il W3C (World Wide Web Consortium) è un consorzio senza fini di lucro composto da più di 500 organizzazioni mondali e nato per definire regole e standard condivisi per la gestione del Web. L’obiettivo del W3C è rendere il mondo del Web accessibile a tutti. Le WCAG (Web Content Accessibility Guidelines) sono reperibili al sito del WAI: <http://www.w3.org/WAI/intro/wcag.php>
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La scelta tecnica funzionale alla realizzazione della lezione è ricaduta su una tecnologia semplice che garantisse totale accessibilità dei contenuti: si è optato per una serie di pagine web in linguaggio html, organizzate nel modo seguente. Home di presentazione seguita da una sequenza di pagine navigabili tramite i collegamenti “successiva” o “precedente”. Questa soluzione presenta diversi vantaggi, come la completa compatibilità con gli screen readers: il formato html è leggibile da qualsiasi browser e consente un’ottima integrazione con i software di ingrandimento. Inoltre all’interno delle pagine html è possibile inserire contenuti multimediali di vario tipo poiché tutti i browser riescono a leggere la maggior parte dei formati; l’utente può in questo modo fruire ogni contenuto senza dover cambiare programma. Altro vantaggio riguarda il testo alternativo alle immagini perché per inserire le descrizioni testuali è infatti possibile usare un apposito campo del linguaggio html chiamato testo alternativo: il contenuto di questo campo non è visibile durante la visualizzazione classica della pagina, ma lo screen reader lo legge durante la scansione. Il formato html consente infine anche l’uso degli “access keys” per i collegamenti: è possibile cioè usare una combinazione di tasti per eseguire in maniera semplificata alcune operazioni, ad esempio premere il tasto “s” per passare alla pagina successiva della lezione, il tasto “p” per tornare alla pagina precedente, e così via. 3.1 I contenuti della lezione
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Come detto in precedenza, le linee guida esistenti per l’adattamento dei materiali visivi sono state particolarmente importanti poiché nel prototipo vi sono sia immagini, sia video. Per le prime si è scelta la descrizione testuale (Immagine 1). Per quanto riguarda invece i video sono stati inseriti 2 filmati: una sequenza tratta dall’opera lirica Motezuma di Antonio Vivaldi, e parte di un’intervista rilasciata dal regista dell’opera stessa. Le sequenze sono state scelte in quanto particolarmente complesse e quindi comprensive di tutte le molteplici difficoltà e problematiche che solitamente si possono incontrare durante un’audiodescrizione.
Immagine 1: Un esempio di immagine tratta dal primo prototipo
Testo alternativo all’immagine: “Disegno delle 2 facciate del Teatro Comunale. L’immagine è il progetto originario delle facciate. Tale progetto è diviso in 2 sezioni orizzontali. Nella parte superiore è rappresentata la facciata di Via Giovecca con una fila di 12 portici allineati con altrettante finestre poste nel piano superiore. Nella metà esatta della fila è riconoscibile un arco che funge da ingresso. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Nella parte inferiore è rappresentata la facciata di Corso Martiri della Libertà con una fila di 7 archi allineati con altrettante finestre poste nel piano superiore”.
La contestualizzazione della scena (luogo, tempo, personaggi) è stata descritta in una parte testuale introduttiva, mentre l’audiodescrizione ha riguardato la scenografia, l’allestimento, i costumi, i movimenti dei personaggi sulla scena e la loro interpretazione. Quest’ultimo elemento rappresenta un punto delicato di una descrizione: gli aspetti emotivi dei personaggi possono essere descritti solo se evidenti e oggettivi e non devono mai essere il frutto dell’interpretazione personale di chi descrive. Ad esempio all’interno del filmato è stata descritta la rabbia del personaggio principale perché ritenuta inequivocabiile. Un ulteriore accorgimento di cui si è tenuto conto riguarda la necessità di inserire le descrizioni solo quando non vi sono dialoghi in atto. Bisogna però fare attenzione poiché talvolta, pur non essendoci un dialogo, può esserci un elemento di tipo sonoro che non deve essere disturbato perché importante per la comprensione del messaggio (è il caso della musica in un brano d’opera). Il sonoro qui è risultato importante e i tempi “utili” per le audiodescrizioni inesistenti. Per questo, anche se si è cercato di ridurre al minimo l’audiodescrizione, si è comunque deciso di permettere al fruitore un ascolto musicale privo di ogni elemento di disturbo inserendo accanto al video audiodescritto anche il video originale senza audiodescrizione. Per il secondo video (l’intervista al regista) sono state seguite le procedure adottate per il filmato precedente. 3.2 La sperimentazione
La lezione è stata testata nel marzo 2012 su un gruppo rappresentativo di 5 soggetti con disabilità visive: la sperimentazione è avvenuta presso i locali del Servizio disabilità dell’Università degli Studi di Ferrara e ha dato ottimi risultati di apprendimento e gradimento. Il gruppo rappresentativo era così composto: – 3 utenti non vedenti (due non studenti e uno studente); – 2 utenti ipovedenti (entrambi studenti). Dopo la somministrazione della lezione ai soggetti è stato consegnato un questionario (fruibile on-line, come la lezione stessa), leggermente diverso a seconda dei soggetti: Questionario A (per i soggetti non studenti) per verificare l’aspetto tecnologico e comunicativo della lezione; Questionario B (per i soggetti studenti) per verificare oltre all’aspetto tecnologico e comunicativo, anche la funzionalità didattica della lezione.
Il questionario è stato così strutturato: – una prima parte volta a conoscere alcuni dati personali dell’utente (grado di disabilità, titolo di studio, professione eventualmente svolta); – una seconda parte destinata a conoscere le sue competenze informatiche: si tratta di dati utili per capire se eventuali difficoltà durante la navigazione fossero dovute a difetti del prototipo o alla mancanza di confidenza con le tecnologie da parte dell’utente; – una terza parte (solo per i questionari di tipo B) destinata a verificare l’efficacia didattica della lezione. Si tratta di domande che necessitano di maggior concentrazione, memoria, riflessione. Il loro scopo era verificare quanto la comunicazione didattica fosse stata chiara e efficace;
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– infine alcune domande finali utili per conoscere il livello di gradimento della lezione e per rilevare eventuali critiche o lamentele da parte degli utenti. Domande riguardanti la navigazione, i contenuti testuali, quelli multimediali e visivi, l’utilità dei link esterni.
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Analizzando le informazioni sulle competenze informatiche degli utenti è emersa per tutti una buona conoscenza delle tecnologie: usano il computer da anni per attività di svago, di studio e alcuni per lavoro. Non vi sono stati problemi durante la navigazione né per gli utenti ciechi, né per gli ipovedenti. Per l’aspetto tecnologico si erano messi in conto eventuali problemi di connessione alla rete, oppure legati alla mancanza di aggiornamenti nei software degli utenti, o legati alla scarsa accessibilità del prototipo stesso. Ma tali problemi non si sono verificati testimoniando la buona accessibilità del prodotto da questo punto di vista e le buone competenze tecnologiche dei soggetti: quest’ultimi hanno fruito della lezione con i loro abituali pc supportati dallo screen reader Jaws7. Come browser sono stati utilizzati Mozilla Firefox, Google Chrome e Internet Explorer: solo quest’ultimo ha dato qualche problema di “lentezza” nella navigazione, ma niente di particolarmente rilevante. Per quanto riguarda le domande relative all’efficacia didattica va detto che non sono emersi problemi e tutti i contenuti proposti sono risultati chiari e correttamente compresi. Tuttavia, gli studenti hanno avanzato la richiesta di accedere una seconda volta ai contenuti della lezione prima di rispondere alle domande: questa richiesta è stata fatta sia dagli studenti ipovedenti, sia dallo studente non vedente. Si ritiene che tale necessità sia stata dettata da diversi motivi, non legati alla disabilità. Innanzitutto le domande sui contenuti erano in alcuni casi piuttosto specifiche (riportare descrizioni dettagliate e ricordare date precise); inoltre, prima di rispondere a tali domande gli studenti avevano fruito della lezione solo una volta. Era quindi prevedibile che sentissero il bisogno di ritornare sui contenuti per rifruirne nuovamente. Ciò accade anche ad uno studente normodato: per un apprendimento significativo e una buona memorizzazione dei concetti ricevuti occorre infatti avere il tempo necessario per poter rielaborare adeguatamente il messaggio (Gardner, 1995). Infine, anche se i contenuti sono stati ben compresi, è emersa attraverso il questionario una criticità: durante la fruizione ci sono state per due studenti (uno ipovedente e uno non vedente) incomprensioni relative al significato di termini settoriali appartenenti all’ambito teatrale, artistico e architettonico. Si tratta di un problema dovuto alla mancanza di conoscenze disciplinari specifiche da parte dei soggetti (per la precisione legate all’ambito teatrale) e non legato all’aspetto della disabilità. Ciò però si è rivelato utile ai fini della progettazione e dell’efficacia didattica del prototipo spingendoci a inserire in seguito un Glossario specifico e collegamenti a pagine web funzionali alla spiegazione dei significati dei termini più complessi utilizzati. Le domande infine relative al gradimento della lezione, hanno evidenziato tutti giudizi positivi. Ci è stato chiesto però dagli utenti non vedenti di segnalare chiaramente ogni “passaggio” del percorso comunicativo 7
Jaws è un software per computer che usano sistemi operativi Microsoft. L’informazione mostrata sullo schermo viene letta da una voce artificiale o inviata a un display braille.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
senza dare nulla per scontato: la presenza di immagini, testi, video, slide, link, e così via. Ogni elemento va segnalato perché solo così è possibile permette all’utente di orientarsi in ogni momento. Occorre ricordare infatti che un disabile visivo, in particolare non vedente, può perdersi facilmente durante la navigazione e quindi i punti di riferimento da inserire in un prodotto multimediale a lui destinato devono essere più numerosi rispetto a quelli che solitamente sono previsti in percorsi comunicativi per utenti vedenti, così da garantirgli un continuo orientamento.
Conclusioni
Dall’analisi dei dati ottenuti si possono trarre importanti indicazioni. Innanzitutto gli studenti con disabilità visiva in possesso di buone conoscenze informatiche non hanno avuto alcun problema ad usufruire di prodotti didattici multimediali. Dal punto di vista tecnologico la lezione è infatti risultata ben accessibile dal gruppo rappresentativo che ha utilizzato comuni computer portatili navigando attraverso diversi tipi di browser (Internet Explorer, Chrome e Mozilla Firefox) e con software molto diffusi (in particolare Jaws). Non sono emerse problematiche né per i non vedenti né per gli ipovedenti. La costruzione della lezione dunque attraverso semplici pagine web in html è risultata funzionale e accessibile. L’unico limite di questo formato, se pensato per un utilizzo in autonomia da parte del docente, è la difficoltà d’uso dovuta alla necessaria capacità di programmazione. Uno sviluppo successivo dovrà permettere la creazione di un software (un CMS) utilizzabile senza particolari competenze informatiche. Una ulteriore riflessione è legata all’importanza dell’aggiornamento dei software da parte degli utenti per una corretta fruizione dei contenuti del web. L’aggiornamento è fondamentale quando la tecnologia si evolve velocemente come accade oggi. Ma ciò riguarda qualsiasi utente e non si lega solo alle tecnologie per la disabilità. Anche per l’aspetto didattico non sono emersi problemi particolari e dall’analisi delle risposte degli studenti, complete e precise, è possibile dire che nel complesso i contenuti sono risultati ben compresi. Il fatto che per tutti gli studenti, non vedenti e ipovedenti, sia stato necessario ritornare sui contenuti per rispondere alle domande è comprensibile e non è il segnale di un percorso didattico poco efficace: i contenuti erano nuovi per tutti e le domande dettagliate e specifiche. Da qui il bisogno di fruire dei materiali una seconda volta. Ciò non si lega alla disabilità ma alla necessità di dover memorizzare meglio i concetti appresi. Perché i risultati siano buoni sia dal punto di vista comunicativo che didattico occorre che la realizzazione della lezione multimediale sia sempre basata su modalità di comunicazione fluida e scorrevole al fine di rendere i concetti comprensibili. Il docente, oltre alle conoscenze disciplinari, deve mettere in atto accorgimenti aggiuntivi che di solito con una classe di normodotati non usa. Ma si tratta di indicazioni utili spesso per migliorare in generale il proprio modo di comunicare. Si prevede nel proseguimento della ricerca di mettere a punto delle linee guida specifiche per docenti, utili appositamente per l’adattamento di contenuti didattici di ambito umanistico. Sintetizziamo qui alcuni accorgimenti generali che ci sembrano particolarmente importanti: è bene che il linguaggio usato dal doanno II | n. 1 | 2014
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cente sia sempre molto chiaro e preciso, evitando ambiguità. I termini che hanno più di un significato devono essere contestualizzati comunicandone il senso esatto. È utile inoltre, prima di descrivere un’immagine, cominciare con la descrizione del contesto, che serve a creare un’ambientazione nella mente di chi ascolta, per proseguire con la descrizione del contenuto principale, e infine terminare con i dettagli. Ancora, in un video le parti audiodescritte vanno inserite nei momenti in cui non vi è un dialogo, in modo da non disturbare l’ascolto. Anche la voce utilizzata per una audiodescrizione è importante: è infatti necessario parlare in modo chiaro e con una velocità appropriata, anche se quest’ultima si dovrà comunque rapportare al tempo a disposizione. All’interno degli ambienti multimediali occorre inoltre fornire aiuti e segnali di orientamento durante il percorso poiché, soprattutto per i non vedenti, la probabilità di perdersi durante la navigazione è più alta. Il concetto di accessibilità diventa fondamentale ed è quello che ci permette di stabilire il valore tecnologico e comunicativo-didattico di un prodotto formativo multimediale. Una buona accessibilità dei contenuti web e dei contenuti visivi si può ottenere seguendo le linee guida generali già esistenti, alcune delle quali sono state qui esposte e usate per la realizzazione del prototipo. L’intento principale del lavoro è stato quello di creare contenuti didattici completamente accessibili per gli allievi ma al contempo anche funzionali e attuabili dagli insegnanti. Tenuto conto dei risultati derivanti dalla valutazione si può concludere che i contenuti sono risultati comprensibili, accessibili e didatticamente efficaci.
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Riferimenti bibliografici
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ANGELA DE PIANO, GIOVANNI GANINO
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Inclusive education practices. The teacher training
Key-words: Inclusion, Community of Practice, Learning Disability, Lifelong Learning Training, Index for Inclusion
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Today the discussion on the state of inclusive school for all students, where learning and participation obstacles are eliminated, especially for students with impairments, is today well developed both within the national and international scientific community. The lack of appropriate training for teachers and the opportunity of benefiting from a lifelong learning according to an inclusive collaborative approach are relevant indicators to evaluate the quality of the system. Creating Community of Practice for teachers could be the answer to this situation. The need for a training package in line with the establishment of Community of Practice is also highlighted by a series of indicators that emerged from a theoretical-explorative research, addressed to 120 in-service teachers in schools of different grades in Lazio region (Italy), who were attending the Master on “Teaching and Educational Psychology for student with Learning Disability” during 2011/2012 at the University of Roma Tre.
abstract
Marina Chiaro / Università degli Studi Roma Tre / marinachiaro@gmail.com
III. Esiti di ricerca
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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1. Inclusion in school
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The current state of inclusion in Italy is characterized by an increasing number of students with impairments, with Learning Disability (LD) or other Special Educational Needs (SEN)1, which represents a situation of enduring difficulties in the realization of a real inclusive and social process of school (Canevaro, 2007; d’Alonzo, 2008; Canevaro, d’Alonzo, Ianes, 2009; Pavone, 2010; Chiappetta Cajola, 2006, 2008, 2012; Ianes, Cramerotti, 2011, 2013; Ianes 2007, 2013). Today the target of an inclusive education for all students, with no barriers to learning and global participation, especially for students with impairments, is well discussed within the international scientific community: Booth and Ainscow (2002, 2008, 2011) in their Index for Inclusion propose a structured collection of indicators of inclusion together with a methodology for self-assessment and self-improvement that makes proper use of those indicators in order to identify the strengths and situations that require specific project actions (Demo, 2013). In school, where the presence of students with LD and SEN is only one aspect of diversity, a focus on the quality of the education system is increasingly important. Some of the indicators identified for building inclusive schools concern: the lack of teacher training, the collective effort in the construction of shared responses adapted to students’ individual needs, early school leaving, low quality of the programs, rigidity of curriculum and assessment procedures, as well as continuous lack of collaboration and communication among teachers (Canevaro, Mandato, 2004; Cottini, 2004; Dovigo, 2007; Chiappetta Cajola, Margottini, 2006; Canevaro, d’Alonzo, Ianes, 2009; EFA, Report 2009; Pavone 2002, 2007, 2010; Chiappetta Cajola, 2009, 2012; Ianes, 2013). In Europe as well teachers’ training is considered a key factor to guarantee the quality of education and to improve education standard (European Commission, 2007). This in turn highlights the need of lifelong learning in order to answer to the lack of sharing and collaboration as observed in different educational contexts. In addition, initial training cannot provide permanently teachers with the skills and knowledge required for practicing the profession. Therefore, teachers’ professional development and knowledge must be perceived as a lifelong learning: in fact, teachers are being asked to adopt more collaborative and constructive learning practices, thus playing a role of coadjutors and classroom managers, rather than trainers ex-cathedra (MIUR & European Union, 2007; European Commission, 2007, 2013). These new roles require a specific training on a whole spectrum of techniques and didactic methods, given also the heterogeneity of classrooms, where typically students come from different environments and cultures, thus drawing attention on those affected by LD. In such situations teachers should be able to 1
In the school year 2013/2014, 209,000 students with certified disabilities are enrolled (Ministry for Education, University and Research, 2013b), while students with Learning Disability enrolled in the school year 2010/2011 were 65,219 and for the school year 2011/2012 90,030 were registered (Ministry for Education, University and Research, 2013a). For more data: Associazione Treellle, Caritas italiana et Fondazione Agnelli, 2011; ISTAT 2013.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
take advantage from the opportunities offered by new technologies, while satisfying at the same time the learning needs of some individuals. In 2002, the Italian Ministry for Education, University and Research established a training program on technologies for schools staff in order to mind the existing gap in managing Information Communication Technology (ICT) and the digital divide2. In 2012 the need of training on new technologies has been reaffirmed, with a special emphasis on the need of acquiring ICT competences for support teachers (D.D. n.7/2012); in 2013 the Italian Parliament approved a set of norms for Schools, University and Research, which includes among others an enhancement of digital competencies for teachers3. The challenging issue of teacher education can also be approached considering the possibility to organize and facilitate the creation of Community of Practice necessary to support daily activities of teachers in order to facilitate the inclusion of all forms of school diversity (Chiappetta Cajola, 2009; Lipari, 2007, 2010; Calvani, 2011). Hattieâ&#x20AC;&#x2122;s works (2009) provided further relevance to this training method, in the context of Evidence Based Education (EBE), based on a study of fifteen years of research and over 800 meta-analyzes, which consist of more than 50,000 minor studies involving nearly 250 million students. The author, in his results analysis, calls teachers to a community work where mutual criticism and passion for teaching would be fully shared and appreciated.
2. Teachers as Community of Practice
As already mentioned, for teachers it is very important to get a training package which is designed according to an inclusive â&#x20AC;&#x201C; collaborative approach. In that respect a response can be found by establishing the Community of Practice (CoP). In his work Wenger, one of the leading exponents of learning theories applied to the field, does not only give a simple definition, but also provides an analytical tool capable of interpreting organizational forms of various types and to represent the starting point for an effective re-design of knowledge-oriented organizations (Wenger, 2006). Starting from the classical formulation of Argyris and SchĂśn (1978), the perspective of organizational learning is for the CoP a particularly relevant reference point for the development of both theoretical and empirical application. In fact the conceptual notion of Communities of Practice was drawn up at the end of the last century as part of a specific research program conducted by Lave and Wenger on the subject of learning. These studies were characterized by at least three factors: 2
3
White Book on Innovation in Schools and Universities: 4 main priority areas for intervention have been identified: innovation in the school system, through new methods and new teaching materials; institute hardwiring and networking; the creation of virtual communities within the School- University system; the use of e-learning to provide students, teaching and non-teaching staff with courses. Law, 8th november 2013, n. 128.
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a) overturn the assumption, consolidated in common beliefs, according to which training is based on a special relationship between teacher and student; b) highlight the fact that gradual learning of a skilled competence is based on a process of social participation at a given practice; c) analyze these practices as complex sets of relationships between the student and other community members, between the student and the practice itself, between the student and the group culture (Wenger, Lave, 1991). Wenger thus defines the CoP firstly as a result of active participation in the practices of one or more social communities to which the individual belongs (more or less consciously at different levels of involvement) and secondly as the process of identification/membership to their communities. Such an approach, arising from cultural psychology and ethnography applied to organizational schemes, embraces different theories, such as meaning theory, social structure, contextualized experience, community, subjectivity, power, practice and identity (Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995; Zucchermaglio, 1996; Wenger, 2006; Lipari, 2007, 2010). In this respect, learning is an essentially experiential and social process, consisting of a real “social participation” that creates emergent structures and contributes to the construction of our identity through membership in a community, where the following elements come simultaneously into play:
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1) acquisition of situated skills (technical and interpersonal); 2) construction of individual and social identity; 3) recognition of being part of a group that shares, in practice, knowledge, values, language and identity.
In this perspective practice plays a key role for understanding the phenomena of learning, as it is defined as the “action (...) within a particular historical and social context”, where participation “influences not only what we do, but also who we are and how we interpret what we do” (Wenger, 2006, p. 47). According to this approach, the CoP is a useful model to address the problem of knowledge management as it represents an “organizational infrastructure for the concrete realization of the dream of a learning organization” (Wenger, McDermott, Snyder, 2002, p. 6). In reality, the CoP can take many forms. They could be communities that carry out their activity either in presence, or on-line or in a blended format, i.e. using meetings both in presence and web (Maragliano, 2004; Calvani, 2001, 2011). At school the situation is rather complex and creating a CoP of teachers is a way to make them aware of their own role within the school system. In this way teachers could be accompanied in their daily practices and can interact with colleagues, thus abandoning their isolation through experience sharing, best practices identification and relying on mutual help to face daily problems in their profession. Such a learning could be defined as collaborative, or mutual, in opposition to the so-called direct learning, where someone provides teaching according to a specific educational program. The concept of CoP promotes an authentic collaborative learning capable of responding to mainly two requirements: the first is related to the possibility, downstream of a training action, to give itself continuity through forms of mutual assistance between newly-trained and more experienced teachers, III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
and the second refers to the creation of professional communities inspired by the models of the so-called knowledge sharing (Trentin, 2001, 2004; Calvani, 2011).
3. Research: some indicators on the need of teachers’ collaboration and sharing
3.1 Methodology: Objectives and Research Sample
The aims of the research concerned the knowledge of the following topics: any instruments of monitoring and evaluation adopted by teachers for students with LD; their level of sharing between subject teachers and support teachers; the knowledge and use the International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth (WHO, 2001, 2007); the respondents’ profile and their participation in training programs. These objectives as well as the need of a training program in line with the establishment of CoP have been investigated by a theoretical-explorative research (Lumbelli 1984, 2006; Clarke, 2005), addressed to 120 in-service teachers in schools of different grades in Lazio region (Italy), who have attended the Master on “Teaching and Educational Psychology for student with LD” in A.Y. 2011/2012 at the University of Roma Tre, Department of Educational Science, in agreement with the Italian Ministry for Education, University and Research. This choice concerns a non-probability sample (also known as a purposive sample) whereas the chances of members of the wider population being selected for the sample are unknown. In a non-probability sample some members are deliberately – purposely – selected and are identified among those who consider themselves more connected to the phenomenon under study (i.e. every member of the wider population does not have an equal chance of being included in the sample) (Cohen, Manion, Morrison, 2007, p. 110). 3.2 Questionnaire
The research, carried out by using a semi-structured questionnaire4 consisting of both closed and open questions, was designed to obtain specific indicators through elementary information collected on the field, properly specified in the research plan aimed at obtaining the descriptive knowledge of the unit of analysis, which is the starting point of any data analysis, or the observed knowledge, that allows to deepen the study of respondents individual behavior (Lazarsfeld, 1966; Trentini, 2000; Corbetta, 2003; Domenici, 2006; Ciucci, 2012; Chiaro, 1998, 2005, 2012). The questionnaire was administered to the sample composed of 120 teachers as defined above and included the following questions: 4
The questionnaire was administered in the context of the basic course teaching “Didactics and Evaluation”.
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– nominal characteristics of the sampling (sex; years of working in the school; school grade; qualified as a support teacher; participation in training programs); – observation tools used for the identification of pupils with LD; – monitoring and evaluation tools adopted by teachers for students with LD; – the level of sharing and collaboration among teachers during the monitoring and evaluation definition for students with L.D.; – the use of them in the design phase of the educational courses; – the knowledge and use of the International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth. The answers obtained from the questionnaire mentioned above have provided the basis for the indicators considered in this paper for the evaluation of training aimed at establishing a CoP. In particular, the following indicators were analyzed: the level of sharing and collaboration among teachers during the definition of monitoring and evaluation for students with L.D.; the use of such evidence in the design phase of the educational courses as well as the knowledge of previous training experiences attended by students consisting of a specific group of teachers that took part to LD university training. 3.3 Some research results
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The analysis of the sample shows that 43,7% of teachers works in school for over 15 years; 26,1% between 11 and 15 years (Fig. 1). As shown in Fig. 2 the teachers in the primary school are the highest value (51,3%), followed by those who work in the upper secondary school (22,7%); 76,7% are also support teachers (Fig. 3).
Fig. 1: Years of working in the school
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Fig. 2: School grades
121 Fig. 3: Specialized as support teacher
The analysis of the results shows that teachers express the need of training in an inclusive perspective: as a matter of facts, only 11.8% had previously attended courses related to instructional design for inclusion, 6.3% had attended courses for the identification and treatment of special educational needs and 22.1 % for the teaching of students with LD (Fig. 4).
Fig. 4: Participation in educational training
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In addition, other identified indicators show a low level of collaboration among teachers: only 59.8% systematically shares the results of evaluation for the students with LD and then use them to redesign the training courses (Fig. 5), while only 55.6% shares the criteria of assessment students (Fig. 6) and 59% the teaching methods and evaluation (Fig. 7).
Fig. 5: Discussion in the Class Council of tests results for students with LD and their use to redesign training courses
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Fig. 6: Class teachers share the assessment criteria for students with LD
Fig. 7: Class teachers share the teaching methods and assessment for students with LD
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
What is been described so far shows that teachers often live in isolation, as the assessment criteria for students with LD are shared “sometimes” by 35.8% of teachers (Fig. 6); the teaching methods and assessment are shared “sometimes” by 32,4% (Fig. 7) and about 40% does not discuss in the Class Council the results of the tests obtained by students with LD (Fig. 5). Furthermore, as evidenced by the results shown in Fig. 3, their request for an innovative offer of training activity is sporadically accepted by the school, thus making relevant the question of how to respond to such a need in a context that seems to be, at least partially, traditional and conservative. Spreading the Communities of Practice as a training and operational method for all teachers is useful to break that isolation in which teachers are often forced to work, thereby creating the right conditions to let them work in an appropriate way, leading them to open the school to change. Such an approach requires a complex set of attitudes and competences, which is quite difficult to develop and which should be supported by daily practice by offering interaction opportunities with colleagues and the possibility of getting to know teachers (Midoro, 2004). Although the Community of Practice can be formed spontaneously or through the aggregation and growth of small groups, its development can be encouraged and supported in various ways: through careful organization, or through recognition systems, through appropriate training, or common activities. By focusing on the elements identified by Wenger (2006), teachers can reflect on their practice, share approaches, experiment new content and practices, while providing psychological, educational and pedagogical support to other colleagues. Professional development does not only come from traditional activities, as teachers themselves can take part and can get important benefits from the possibility of interacting in a CoP, where they are continuously in touch among themselves, thus developing a learning pattern capable of stimulating problem solving at the same time when problems arise (Bodi, 2007).
4. Conclusions: considerations on the assessment of teaching effectiveness
In this perspective it is relevant the possibility of measuring the change in the learning processes as a result of an inclusive education approach that takes into account teachers continuous education in a lifelong learning view. In particular, the constitution of CoP can be realized by identifying suitable recognition instruments and specific indicators that take into account all aspects related to teaching and the level of interaction between different participants involved in the learning process: students, teachers, support staff. Such an evaluation has an impact on organization and performance, as it goes beyond participants’ reactions of their training path and their own feedback on learning. The “diachronic” dimension of impact, i.e. the study and evaluation of training according to its evolution in time in a dynamic and evolutionary perspective, is a particularly important aspect to be considered and measured in relation to the type of training activity and teaching strategy adopted. In each school, the systematic measurement of the level of inclusion is theanno II | n. 1 | 2014
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refore essential for having reliable data that can allow the change of educational environment for addressing the educational needs of pupils with LD or other SEN. In this perspective, the Index for Inclusion offers a series of questionnaires that schools can use within a process of inclusive development subdivided into 5 stages (Booth, Aiscow 2008). The possibility of using tools provided by statistics to implement a process of detection, analysis and knowledge of all the elements that make up the educational processes in an inclusive perspective is offered by the Index for Inclusion proposed in 2002 by Booth and Ainscow then radically revised by the same authors in 2011 (EASPD 2012). This is a suitable tool to support educational institutions in the transformation of their culture and practices on their way to become schools for all, given that the term inclusion is not only limited to students with Learning Disability or with Special Educational Needs, as it also includes a whole set of differences, expressions and capabilities of all students (Medeghini, 2006). This tool is designed to accompany the process of self-analysis of an educational institution with the aim of reducing barriers to learning and promoting participation of students, while monitoring its suitability with respect to the inclusive model through an analysis conducted by the indicators that highlight values and the conditions of teaching and learning. Each indicator is translated into applications that help to define its meaning, so as to encourage the school to explore it in detail. Questions allow developing the analysis on the actual state of schools and are useful criteria to evaluate the progress achieved. It is also foreseen that each school will add and /or integrate personalized questions adapted to its reality in order to analyze precisely and accurately each situation. In particular, the concepts of inclusion and exclusion are explored along three interconnected dimensions related to the improvement of school: creating inclusive cultures, producing inclusive policies, develop inclusive practices. The three dimensions are all necessary for the enhancement of inclusion in school, but particularly in the first section a specific area on community building, through the flexibility offered by the Index, allows to customize indicators in order to focus analysis on the basis of pre-defined cognitive objectives. In addition, since school development is a complex and challenging process, the Index cannot be explained by a linear activity for achieving the priorities needed for change, but it can produce positive impacts changing teaching methods towards achieving greater sharing of educational and planning activities.
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MARINA CHIARO
Traiettorie non lineari della ricerca didattica: le potenzialità metaforiche ed inclusive delle corporeità didattiche
Key-words: Educational corporealities, Inclusion, Bodily metaphors, Motor equivalence, Visual-motor skills.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
A rich scientific literature confirms that gestures are an expression of embodied knowledge able to express additional meanings which go beyond the perimeter of speech and writing (Hostetter & Alibali 2008; Gibbs, 2006; R. Lakoff & Núñez, 2005). According to research directed by Alain Berthoz, “nos pensées, le development de nos fonctions cognitives les plus élevées et meme les plus abstraites avaient leur fondement dans le corps en acte” (Berthoz, 2009)1. In this context, the use of the body in movement in didactics can be considered, from a methodological point of view, a potential deviation, that is a complex additional strategy (Berthoz, 2011) to face the formative complexity (Sibilio, 2013). In this sense, the corporeality represents all the opportunities offered by the body and movement to foster teaching- learning process through inclusive modality of action, stimulating every possible use of different abilities of students. In this perspective, the spatio-motor programs executed with the hands are congruent with the spatio-motor schemas underlying word meanings. (Casasanto & Lozano, 2006) and confirm the concept of motor equivalence: “on désigne par ‘équivalence motrice’ une propriété simple et remarquable du cerveau: celle qui permet de faire le même mouvement avec des effecteurs très différents. Par exemple, je peux écrire le lettre A avec le main, ou le pied, ou même la bouche; je peux même dessiner un A en me promenant sur le plage!” (Berthoz, 2013; Berthoz, 2009). The research hypothesis proposed in this paper is set up as a non-linear educational research trajectory that tries to harmonize Berthoz’ theoretical approach on simplexity with the scientific contributions of George Lakoff and Mark Johnson (Lakoff & Johnson, 1997) on the metaphorical nature of the conceptual system in the field of education. The aim of this research is to validate in the teaching-learning process the use of the body in movement and its possible metaphorical dimension, as an educational methodological opportunities in an inclusive perspectives that can foster the acquisition of spatial concepts.
abstract
Nadia Carlomagno / Università Suor Orsola Benincasa / nadia.carlomagno@gmail.com Carmen Palumbo / Università degli Studi di Salerno / capalumbo@unisa.it Maurizio Sibilio / Università degli Studi di Salerno / msibilio@unisa.it
III. Esiti di ricerca 1
Trad. “I nostri pensieri, lo sviluppo delle nostre funzioni cognitive più elevate e anche più astratte si fondano sul corpo in atto”.
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Premessa
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La scuola primaria, nelle Indicazioni Nazionali Italiane per il curricolo del primo ciclo di istruzione del Ministero del 2012, viene definita come il segmento della formazione finalizzato alla costruzione delle basi indispensabili per acquisire competenze che consentano di favorire i processi di apprendimento. Questa delicata fase del percorso formativo richiederebbe un costante collegamento, realizzabile grazie all’azione didattica, tra i differenti approcci cognitivi sollecitabili dall’esperienza formativa, capitalizzando la funzione delle esperienze centrate sul corpo e sul movimento per accedere, anche attraverso la scoperta, alla conoscenza. Il rapporto tra azione didattica e corpo in movimento viene evidenziato nei documenti ministeriali nella parte riferita al laboratorio, considerato come luogo privilegiato dell’esperienza formativa e spazio naturale della ricerca didattica. In particolare, gli obiettivi di apprendimento della scuola primaria propongono l’acquisizione della capacità di “Muoversi consapevolmente nello spazio circostante” e “Riconoscere, denominare e descrivere figure geometriche”. Il neurofisiologo Alain Berthoz, sul tema specifico degli apprendimenti dei concetti spaziali, sostiene che “una struttura geometrica è sempre un atto” (Berthoz, 2011), stimolando una specifica riflessione scientifica sull’utilizzo didattico del corpo e del gesto per la costruzione di concetti spaziali. Per quanto concerne il gesto “as it is an elementary, yet complex, action of living, it is at the origin of our relation to space, our attempts to organize it, therefore at the origin of geometry” (Longo, 2005)2. Tale prospettiva tenta di superare una visione lineare del processo di insegnamento-apprendimento caratterizzato dall’utilizzo di una metodologia trasmissiva diretta e frontale che spesso “ignora l’essenziale, e cioè l’azione come fondamento del pensiero e quindi l’azione guidata come strumento didattico” (Vergnaud, 1994) per approdare ad una visione complessa e non lineare di tale processo all’interno del quale i docenti dovrebbero iniziare a riconoscere che il comportamento non verbale ha le potenzialità per svolgere un ruolo unico nella didattica, proprio perché i messaggi che non sono pervenuti attraverso la parola possono essere recepiti attraverso il linguaggio non verbale (Neill, 1991). “The set of behaviors that can transmit information nonverbally is large and includes posture and use of space, eye gaze, facial expression, and hand gestures” (Caswell, Neill, 1993)3. Il lavoro, pertanto, si propone di indagare su una possibile alleanza didatticometodologica tra “embodiment and enactivism” (Holton, 2010), attraverso la realizzazione di esperienze formative sul corpo in azione capaci di favorire apprendimenti nel campo delle conoscenze spaziali, nella consapevolezza che gli ambienti di apprendimento che non valorizzino il corpo e il gesto dello studente 2 3
Trad. “…dal momento che rappresenta una elementare, seppure complessa azione della vita, esso è all’origine della nostra relazione con lo spazio, del tentativo di organizzarlo, pertanto all’origine della geometria…” (Traduzione a cura dell’autore). Trad. “Il set dei comportamenti che possono trasmettere informazioni non verbali è ampio e comprende la postura, l’uso dello spazio, lo sguardo degli occhi, l’espressione del viso e gesti delle mani”. (Traduzione a cura dell’autore)
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
nella didattica possano costituire un limite all’apprendimento (W.-M. Roth, 2001) riducendo la funzione inclusiva dell’azione didattica. In questa prospettiva, si inseriscono le suggestioni derivanti dalla ricerca di Varela: “cognition – even at what seems to be its highest level – is grounded in the concrete activity of the whole organism, that is, in sensorimotor coupling. In short: the world is not something that is given to us but something we engage in by moving, touching, breathing, and eating. This is what I call cognition as enaction since enaction connotes this bringing forth by concrete handling” (Varela, 1999)4. Attività di ricerca su questo tema specifico sono state condotte presso l’Istituto Internazionale di Genetica e Biofisica del C.N.R. dal 2001 al 2008, presso l’IRRE Campania nell’anno 2004-2005 e presso l’Istituto per le Ricerche Educative (IPE) dal 2004 al 2007. Nel biennio 2007 al 2009 specifiche attività di ricerca sono state svolte su una rete di scuole della provincia di Salerno aderenti al Progetto I-CARE del MIUR, che hanno messo in evidenza la capacità didattica del corpo e del movimento di ampliare il processo di significazione (Sibilio, 2011), costituendo uno spazio della ricerca educativa riferito allo studio delle corporeità didattiche come modalità di fronteggiamento delle complessità formative (Sibilio, 2012).
1. Framework concettuale
Una ricca letteratura scientifica avvalora il gesto come un importante aspetto della cognizione umana che consente: “to explore knowledge”5 (Hanks 1992); “to recall more details”6 (Goldin-Meadow, 2005), “to create mental representations”7 (Koschmann, LeBaron, 2002; W. M. Roth, Lawless, 2002), “to retain concepts”8 (Martha Wagner Alibali, Goldin-Meadow, 1993), “to organize spatial information for verbalization”9 (Martha W. Alibali, Kita, Young, 2000) e “to construct inter-subjectivity”10 (Koschmann, LeBaron, 2002). I processi mentali, secondo la visione dell’embodied cognition, sono mediati dal body-based systems, tra cui la forma del corpo e il movimento; dai motor systems, compresi i sistemi neurali impegnati nella pianificazione delle azioni; e dai sistemi coinvolti nella sensazione e nella percezione (Glenberg, 2010; Dreyfus, 1996). I risultati degli studi condotti da una specifica area della ricerca didattica hanno confermato l’importanza del movimento sotto forma di gesto, ritenuto come medium per favorire la comprensione di concetti linguistici e matematici Trad. “La cognizione - anche a livello che sembra essere il più alto - si fonda sull’attività concreta dell’intero organismo, cioè sull’accoppiamento senso-motorio. Il mondo non è qualcosa che ci è “dato” ma è qualcosa a cui prendiamo parte tramite il modo in cui ci muoviamo, respiriamo e mangiamo. Questo è ciò che io chiamo cognizione come enazione”. (Traduzione a cura dell’autore) 5 Trad. “…di esplorare la conoscenza…” (Traduzione a cura dell’autore) 6 Trad. “…di ricordare più dettagli…” (Traduzione a cura dell’autore) 7 Trad. “…di creare rappresentazioni mentali…” (Traduzione a cura dell’autore) 8 Trad. “…di ritenere i concetti …”(Traduzione a cura dell’autore) 9 Trad. “…di organizzare l’informazione spaziale per la verbalizzazione …” (Traduzione a cura dell’autore) 10 Trad. “…di costruire l’inter-soggettività…” (Traduzione a cura dell’autore) 4
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(Kelly, Manning, Rodak, 2008), fungendo da complemento alla comunicazione orale e allargando i significati della parola (McNeill, 1992). In questo senso, è stato dimostrato che il rapporto gesto-parola sul piano comunicativo (Goldin-Meadow, Butcher, 2003; Kita, Özyürek, 2003; Alibali et al., 2000) in ambito didattico, oltre a facilitare la produzione linguistica, (Kita, Davies, 2009; Beattie, Shovelton, 1999; Cassell et al., 1999; Goldin-Meadow, Wein, Chang, 1992) e a favorirne la comprensione (Kelly, Özyürek, Maris, 2010; Kendon, 2004; Goldin-Meadow, Alibali, Church, 1993), appare capace di allargare i confini dei concetti, compresi quelli spaziali (Chu M., Kita S., 2011). Vi è una ampia evidenza scientifica che i gesti rappresentino l’espressione di una conoscenza incarnata capace di esprimere ulteriori significati che valicano il perimetro della parola e della scrittura (Hostetter, Alibali, 2008; Gibbs, 2006; G Lakoff, Nunez, 2005; McNeill, Bertenthal, Cole, Gallagher, 2005), favorendo forme alternative e/o complementari della conoscenza (Martha W Alibali, Spencer, Knox, Kita, 2011; Sibilio, 2011; Cook, Mitchell, Goldin-Meadow, 2008; Singer, Radinsky, Goldman, 2008). Nell’esperienza formativa, infatti, il gesto si fonde didatticamente con la parola, integrando sincronicamente codici e significati diversi (McNeill, 1992) ed in tal modo può essere re-indirizzato a produrre una specifica azione articolatoria equivalente, in quanto “speech and gesture arise as interacting elements of a single system”11 (McNeill, 1987), realizzando così una specifica organizzazione spaziale che funge da informazione a supporto della verbalizzazione (Martha Wagner Alibali, Goldin-Meadow, 1993). “The central thesis is that the visual system and the motor system are functionally inseparable... they are components of a unified perceptuo-motor system, which is itself a component of the organism-environment system”12 (Lee 1980), avvalorando in tal senso l’ipotesi che “Visually directed action implies continuous transformation of incoming visual stimuli into motor commands”13 (Jeannerod, 1986). Numerosi studi recenti hanno sottolineato l’impatto delle attività percettivomotorie sulla comprensione e sulla produzione del linguaggio nei discorsi con contenuto spaziale (Chu M., Kita S., 2011; Spivey, Geng, 2001); l’uso dei gesti può, infatti, attivare o rafforzare le rappresentazioni spazio-motorie che sottendono i significati delle parole concrete e astratte. In tale ottica, la comunicazione didattica centrata sui concetti spaziali dovrebbe essere agevolata nella misura in cui i programmi spazio-motori eseguiti con le mani siano congruenti con gli schemi spazio-motori sottostanti i significati delle parole (Casasanto, Lozano, 2007). Avvalorando tale approccio sulla visione incarnata di una didattica che utilizzi i gesti, si evidenzia l’importanza di trasformare i concetti astratti in una forma visiva e concreta e quelli spaziali in una forma interattiva, facilitando così l’appren-
11 Trad. “…la parola e il gesto nascono come elementi interagenti di un unico sistema…” (Traduzione a cura dell’autore) 12 Trad. “La tesi centrale è che il sistema visivo e il sistema motorio sono funzionalmente inseparabili ... sono componenti di un sistema motorio- percettivo unificato, che è esso stesso un componente del sistema organismo-ambiente”. (Traduzione a cura dell’autore) 13 Trad. “L’ azione visivamente diretta implica la trasformazione continua degli stimoli visivi in entrata in comandi motori”. (Traduzione a cura dell’autore)
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
dimento, (Nemirovsky, Ferrara, 2009) in particolar modo quando il movimento si dimostra capace di riprodurre attraverso l’azione specifiche immagini (Hadamard, 1945) corrispondenti al movimento utilizzato per la rappresentazione grafica (Kita, Özyürek, 2003) attraverso la scrittura. In questa prospettiva, il gesto e il movimento esprimono forme originali di corporeità fruibili in ambito didattico per costruire modalità complementari o alternative nello svolgimento dell’azione didattica, favorendo la valorizzazione di forme vicarianti per accedere al processo di insegnamento-apprendimento, ampliando lo spazio di inclusività dell’esperienza formativa. In questo campo, una ricca letteratura scientifica avvalora che i gesti siano più collegati a parole che indicano concetti spaziali e concreti che a parole che indicano concetti non-spaziali e astratti (Goldin-Meadow, 2005; R. Núñez, Lakoff, 2005). Secondo la Conceptual Metaphor Theory (Johnson, Lakoff, 1997; G. Lakoff, Johnson, 1982), le metafore linguistiche dimostrano che molte delle nostre idee astratte sono strutturate in termini di alcuni concetti semplici incarnati direttamente nell’ esperienza percettivo-motoria (Pinker, 1997; Gibbs Jr, 1996; Sweetser, 1996; Talmy, 1988; Langacker, 1987; Jackendoff, 1983; Clark, 1973; Gruber, 1967). Nel corso degli ultimi decenni gli studi di Lakoff e Núñez (Núñez, Lakoff, 2005; Núñez, Edwards, Matos, 1999) hanno messo in evidenza la funzione delle metafore concettuali come strumento di pensiero ed in particolare il loro utilizzo nel modo di pensare particolari oggetti della conoscenza. Gli autori ipotizzano, in tal senso, che l’uso di metafore concettuali, ed in particolar modo le metafore incarnate – vale a dire quelle che si riferiscono ad attività quotidiane del corpo e delle sue relazioni – rappresentino modalità di pensiero abituale anche nell’ambito spaziale, geometrico e logico-matematico. “It is important to keep in mind that conceptual metaphors are not mere figures of speech, and that they are not just pedagogical tools used to illustrate some educational material. Conceptual metaphors are in fact fundamental cognitive mechanisms (technically, they are inference-preserving cross-domain mappings) which project the inferential structure of a source domain onto a target domain, allowing the use of effortless species-specific body-based inference to structure abstract inference”14 (Núñez, 2000). L’esistenza stessa delle metafore incarnate nel dominio della geometria, risulterebbe rilevante per scopi educativi ed in tal senso gli insegnanti dovrebbero legittimare e sollecitare l’utilizzo di queste specifiche metafore come strumenti di pensiero e metodologie didattiche inclusive. Secondo questa prospettiva di ricerca, atteso che i gesti siano una modalità particolare di cognizione incorporata, essi risultano essere collegati e possono fruire da collegamento in azione tra immaginario interno (o lo stato mentale) e espressioni formali e simboliche di idee matematiche (Alibali et al., 2000; Bazzini, 2001) e geometriche rinforzandone e migliorandone le rappresentazioni concet14 Trad. “È importante tenere a mente che le metafore concettuali non sono semplici figure linguistiche, e che non sono solo strumenti pedagogici utilizzati per illustrare il materiale didattico. Le metafore concettuali rappresentano infatti meccanismi cognitivi fondamentali che proiettano la struttura inferenziale di un dominio di origine su un dominio di destinazione”. (Traduzione a cura dell’autore)
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tuali, “It can also be used to convey problem-solving strategies”15. (Goldin-Meadow, Kim, Singer, 1999) I corpo ed il gesto possono quindi rappresentare modalità originali nel rappresentare concetti e teoremi in azione: “concetti- in azione che “ servono a categorizzare e a selezionare informazioni laddove i teoremi -inazione servono per dedurre gli obiettivi e le regole appropriate dalle informazioni disponibili e pertinenti” (Vergnaud, 1997). In tale visione, allineandosi alla prospettiva scientifica di Berthoz per la quale “il gesto …accompagna il pensiero, … lo scolpisce, … può riassumere tutta la complessità di una situazione” (Berthoz, 2011), il corpo ed il movimento, nelle diverse forme espressive e comunicative, costituiscono una spazialità in potenza, capace di favorire la costruzione dinamica di concetti spaziali (Sibilio, 2012). Nell’analizzare i fondamenti cognitivi della spazialità, Alain Berthoz sposa le tesi di Poincarè e della corrente formalista per la quale il fondamento della geometria non risiederebbe unicamente nelle capacità di astrazione dell’essere umano ma nella sua esperienza in atto: “localiser un objet dans l’espace c’est simplement se représenter les mouvements qui seraient nécessaires pour l’atteindre. Ce n’est pas une questuion de se représenter les mouvements eux memes mais simplement les sensations musculaires qui les accompagnent”16 (Poincaré, 1907). Corpo, movimento e azione divengono, in questa prospettiva, il fondamento del pensiero geometrico in quanto il corpo geometrizza attraverso l’atto e il movimento lo spazio che ci circonda, avvalorando l’assunto che “un semplice gesto può spiegare una nozione di geometria molto meglio di un’equazione” (Berthoz, 2013). Le figure geometriche, una volta acquisita l’azione necessaria a riprodurne la forma, possono essere riprodotte attraverso parti differenti del corpo (ad esempio se impariamo a disegnare un triangolo con la mano, senza alcun training saremo in grado di riprodurre il movimento con altre parti del corpo, naturalmente con gradi di precisione diversi che dipendono dal diverso controllo motorio). Tale capacità si lega al concetto di equivalenza motoria, richiamato da Berthoz nei suoi studi per il quale: “on désigne par ‘équivalence motrice’ une propriété simple et remarquable du cerveau: celle qui permet de faire le même mouvement avec des effecteurs très différents. Par exemple, je peux écrire le lettre A avec le main, ou le pied, ou même la bouche; je peux même dessiner un A en me promenant sur le plage!”17 (Berthoz, 2013; Berthoz, 2009). Perché questo processo possa realizzarsi è necessario che “la geometria del movimento sia determinata in modo molto generale” (Berthoz, 2011) e che lo spazio possa costituire il “codice comune” (Berthoz, 2011) attraverso cui sono
15 Trad. “Possono anche essere utilizzati per trasmettere strategie di problem-solving”. (Traduzione a cura dell’autore) 16 Trad. “…localizzare un oggetto nello spazio è semplicemente rappresentare i movimenti necessari per raggiungerlo. Non è un problema di rappresentare i movimenti stessi ma semplicemente la sensazione muscolare che li accompagnano”. (Traduzione a cura dell’autore) 17 Trad. “Viene definita equivalenza motoria una proprietà semplice e fondamentale del cervello: quella che permette di eseguire lo stesso movimento con degli effettori molto diversi. Per esempio, si può scrivere la lettera A con le mani, o i piedi, o anche con la bocca; posso disegnarla anche una A passeggiando sulla spiaggia.” (Traduzione a cura dell’autore)
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
strutturate tali geometrie. In questo senso, la stessa scrittura in generale può essere considerata come “gesto nello spazio che spazializza un’idea o un fatto materiale” (Berthoz, 2011). Lo sviluppo “dell’abilità necessaria a tracciare una forma, comprese quelle geometriche, sarebbe quindi vincolato alla specifica codifica spaziale sotto forma di concetto, e non esclusivamente dalle abilità motorie o all’uso di effettori specifici” (Di Tore, 2012). L’acquisizione di figure geometriche elementari in termini di “concetti” spazialmente codificati costituirebbe, quindi, uno dei presupposti necessari per l’acquisizione e lo sviluppo di nozioni di carattere geometrico. In questa specifica area di ricerca numerosi studi, con particolare riferimento a quelli condotti da Bender (1938), Beery (1967) e Koppitz (1975), hanno dimostrato inoltre che la capacità di copiare forme geometriche dipende anche dal grado di sviluppo delle abilità di integrazione visuo-motoria, e che tale capacità si correla in modo significativo con determinati fattori facilmente rilevabili in ambito scolastico, come quelli di tracciare forme geometriche elementari, che sono state oggetto di ricerca. In particolare, l’autore del V.M.I. test (Visual-Motor Integration test) individuò, negli anni ‘60, una correlazione tra tali abilità e: • • • •
Il rendimento scolastico (.50-.70) Le abilità di lettura (.40-.60) Il rendimento nell’aritmetica Il quoziente d’intelligenza (K. E. Beery, 1967).
Sulla base di questi studi sono stati sviluppati, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, differenti test di valutazione delle abilità di integrazione visuo-motoria, basati su task di copia di forme geometriche, come il Bender-Gestalt Test, il T.P.V. (Developmental Test of Visual Perception) o il V.M.I (Visual Motor Integration Test). Il V.M.I. costituisce uno dei test più diffusi ed accurati per la valutazione delle abilità di integrazione visuo-motorie motorie in soggetti di età compresa fra i tre e i diciotto anni.
2. Obiettivi
Avvalorando l’ipotesi sostenuta da Alain Berthoz secondo la quale “I nostri pensieri, lo sviluppo delle nostre funzioni cognitive più elevate e anche più astratte si fondano sul corpo in atto” (Berthoz, 2011), il lavoro di ricerca propone come obiettivo l’analisi di una possibile utilizzazione delle corporeità didattiche (Sibilio, 2011) e delle sue possibili dimensioni metaforiche per favorire il processo di insegnamento-apprendimento in campo geometrico nella scuola primaria, facilitando l’inclusività. Il lavoro, esaminando la relazione tra equivalenza motoria e rappresentazione grafica e corporea di concetti spaziali, cerca nel suo insieme di analizzare le potenzialità di una didattica centrata sulla significatività dell’esperienza motoria da affiancare o sostituire alle modalità convenzionalmente utilizzate dai docenti per anno II | n. 1 | 2014
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realizzare alcune delle attività previste dalle Indicazioni Nazionali del Ministero e indirizzate agli studenti delle prime classi della scuola primaria.
3. Metodologia
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Il lavoro ha cercato di indagare, utilizzando la metodologia della ricerca-azione, in che misura una didattica centrata sulla corporeità possa promuovere, attraverso l’utilizzo di metafore concettuali incarnate, la costruzione da parte degli studenti di significati spaziali più ampi, che attingano alle potenzialità di significazione derivanti dal patrimonio corporeo-chinestesico. La ricerca si è tradotta nella realizzazione di specifiche esperienze formative nella scuola primaria che si sono avvalse di strategie didattiche corporeamente significative, in linea con le indicazioni nazionali del Miur, che costituiscono sul piano metodologico una potenziale deviazione, ovvero una strategia complessa accessoria (Berthoz, 2011) utilizzabile per il fronteggiamento della complessitá formativa. Il lavoro ha sperimentato didatticamente le potenzialità metaforiche del corpo in movimento, traducibili in azioni interpretative, riproduttive, simboliche, allargando i significati della parola, delle immagini e del segno grafico. Nello specifico la ricerca recepisce in ambito didattico l’utilizzo delle metafore (Lakoff,1982) che sono state utilizzate anche attraverso l’impiego complementare o alternativo del corpo in movimento. Sul piano didattico sono state infatti realizzate per lo sviluppo e consolidamento delle abilitá visuo-motorie: a) metafore strutturali, integrate diacronicamente e sincronicamente da interpretazioni corporee capaci di riprodurre e interpretare gli elementi che caratterizzano la similitudine strutturale. b) metafore di orientamento, arricchite sincronicamente con movimenti e gesti che rendano visibile e consentano di tradurre in agito la dimensione orientativa insita nella metafora; c) metafore ontologiche, integrate diacronicamente da gesti ed interpretazioni corporee e simboliche tese ad allargare i confini del significato del concetto sul piano quantitativo, causale, simbolico, motivazionale, identificativo e di scopo (Carlomagno 2013).
• • • • •
Lo sviluppo del lavoro di ricerca ha previsto necessariamente le seguenti fasi:
La raccolta e lo studio delle letteratura scientifica sui temi della ricerca; L’individuazione delle metodologia di intervento e degli strumenti di indagine; L’individuazione della popolazione e del campione; L’individuazione di un gruppo sperimentale e di un gruppo di controllo; La definizione del cronogramma dell’indagine, sia in riferimento alle prove di ingresso che allo svolgimento delle attività didattiche e delle prove di uscita.
Nel progetto pilota sono state individuate due classi prime della stessa scuola primaria della provincia di Salerno. Gli alunni della classe di controllo hanno svolto le attività didattiche sui temi della spazialità riferite alle forme presenti III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
nella scheda di valutazione del test V.M.I., secondo l’approccio metodologico abitualmente adottato dal docente, mentre alla classe sperimentale è stato applicato l’approccio centrato sulla significatività dell’esperienza motoria, utilizzando il corpo ed il movimento per la costruzione di metafore relative a concetti spaziali. È stata realizzata in ingresso una somministrazione, ad entrambi i gruppi, di batterie di test sui prerequisiti visuo-motori degli alunni, allo scopo di individuare specifiche difficoltà in grado di pregiudicare le esperienze didattiche proposte. È stato individuato il test di integrazione visuo-motoria VMI di Beery e Buktenica (K.E. Beery, 2004), per individuare preliminarmente, eventuali difficoltà presenti in ambito visuo-motorio negli alunni. Il test, scientificamente validato, è di tipo “carta e matita” e richiede al soggetto di copiare una sequenza evolutiva di forme geometriche composta da un totale di 27 item, è virtualmente indipendente dai contesti culturali ed è esplicitamente pensato per scopi valutativi, preventivi e di ricerca. La figura 1 riporta la scheda di valutazione del test V.M.I.
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Figura 1
Nella colonna “forma” sono presenti le figure che il test richiede di copiare, mentre la colonna “età norma” indica l’età in cui il soggetto dovrebbe essere in grado di ricopiare la figura in modo corretto (ovvero senza violare i criteri di correttezza descritti dal manuale del V.M.I.). La quarta colonna è relativa all’attribuzione del punteggio, che avviene su base binaria (1 punto per ogni figura riprodotta correttamente, 0 punti per ogni figura riprodotta in modo errato). I punteggi “grezzi” cosi ottenuti vengono poi standardizzati secondo algoritmi forniti dal manuale. La standardizzazione dei risultati permette la comparazione dei punteggi ottenuti da parte di soggetti di età differenti. I punteggi standardizzati vengono cosi ricondotti ad una distribuzione normale con media pari a 100 e deviazione standard pari a 10. Nel manuale è inoltre presente una scala percentile per la comparazione dei risultati. La scala di valutazione del V.M.I. consente sia operazioni di monitoraggio che anno II | n. 1 | 2014
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valutazioni di quanto il fenomeno indagato si distacchi dalle classi di normalità fornite. Il test di ingresso ha cercato di individuare eventuali difficoltà di riproduzione da parte degli alunni di forme spaziali presenti nella scheda di valutazione del test V.M.I. attraverso la visualizzazione e la successiva riproduzione grafica. L’attività didattica prevista dal percorso di ricerca ha cercato di utilizzare didatticamente esperienze che impegnassero gli alunni in: a) metafore strutturali, attraverso interpretazioni motorie, gestuali e mimiche in grado di riprodurre la similitudine strutturale della forma geometrica. b) metafore di orientamento, attraverso movimenti e gesti che esprimano la dimensione orientativa insita nei concetti geometrici; c) metafore ontologiche, attraverso gesti ed interpretazioni corporee capaci di ampliare i confini del concetto sul piano di analogie relative ad oggetti e persone.
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Le esperienze didattiche proposte nel gruppo sperimentale hanno consentito ai bambini di acquisire alcuni concetti spaziali realizzando specifiche esperienze corporeo-topologiche, utilizzando il proprio corpo in relazione ai diversi sistemi di riferimento, e in linea con le Indicazioni ministeriali nel campo della matematica ed in particolare dei concetti geometrici. Alla fine dell’esperienza didattica è stato somministrato nuovamente il test, per verificare una possibile correlazione, giustificata dalla equivalenza motoria, tra miglioramento grafico e acquisizione di concetti geometrici. Ogni item (27) di ciascun test è stato valutato da 3 diversi operatori esperti che hanno preliminarmente superato le prove di validazione del test e hanno assegnato un punteggio (0 oppure 1) a maggioranza .
4. Risultati
I grafici 1 e 2 mostrano le variazioni nei punteggi standardizzati ottenuti alle somministrazioni del VMI Test (Beery, 2004) in ingresso (prima del percorso didattico) e in uscita (al termine del percorso didattico). I grafici si riferiscono al gruppo sperimentale (grafico 1) e al gruppo di controllo (grafico 2). Le variazioni nei punteggi sono espresse in percentuale. In entrambi i gruppi, non si registrano casi in cui il risultato del secondo test sia inferiore rispetto al primo. Nel gruppo sperimentale si registra un incremento medio del 21,5%, dove nel gruppo di controllo l’incremento medio è riferibile al 9%. Occorre precisare che, in gruppi di questa consistenza, la media non costituisce, in genere, un indice che, preso singolarmente, sia in grado di descrivere il fenomeno in maniera efficace. In particolare, in questo caso, il valore medio dell’incremento nel gruppo di controllo, risulta chiaramente influenzato dalla performance del soggetto con cod. 9A (grafico 2), che fa registrare un incremento superiore al 70% a fronte di incrementi negli altri componenti il gruppo che si attestano attorno al 10%. Risulta, inoltre, interessante notare come i casi in cui il punteggio non varia III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
(identico punteggio al primo e al secondo test) sono molto più numerosi nel gruppo di controllo (6 su 16) rispetto al gruppo sperimentale (1 su 16). Il dettaglio delle differenze nei punteggi standardizzati è visibile nei grafici 3 (gruppo sperimentale) e 4 (gruppo di controllo), in base ai quali è possibile ipotizzare un incremento sistematico nei punteggi standardizzati nel gruppo sperimentale. È opportuno specificare, a questo proposito, che la doppia somministrazione di un test identico agli stessi soggetti in un arco di tempo ristretto produce naturalmente una tendenza al miglioramento della performance nel secondo test, attribuibile a fattori diversi, tra cui, ad esempio, la conoscenza della prova e la diminuzione dell’ansia da prestazione. Le evidenti differenze riscontrabili nei grafici 3 e 4, anche in ragione della equivalenza motoria, ci portano però a supporre che, sia pure non quantificabile con esattezza, il generalizzato incremento dei punteggi standardizzati nel secondo test del gruppo sperimentale possa essere attribuibile al percorso didattico effettuato.
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Grafico 1 - incremento gruppo sperimentale
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Grafico 2 - incremento gruppo di controllo
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Grafico 3 - gruppo sperimentale
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Grafico 4 - gruppo di controllo
5. Future vision
Tali risultati incentivano la ricerca in questo campo, in particolare sulla relazione tra equivalenza motoria e apprendimento di concetti spaziali secondo modalità diverse nella scuola primaria, aprendo ulteriori filoni di studio sulle diverse possibilità e sulle modalità inclusive di costruzione della conoscenza. In particolare, emergono le potenzialità insite nelle corporeità didattiche, la capacità potenziale del movimento e del gesto nel supportare i processi di insegnamento-apprendimento svolgendo funzioni di sostegno o azioni vicarianti in grado di includere nell’esperienza formativa tutti e ciascuno, valorizzando le abilità diverse degli studenti.
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Raccontarsi nella Scuola dell’Infanzia. Per una pedagogia della narrazione fra testimonianza di sé e sviluppo dell’identità
Key-words: Narrative Pedagogy, Autobiography, Identity, Self-knowledge, Pre-school, Child Assessment, Sociability.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
In this article the Authors present the results of an educational-teaching and research project aimed at increasing the children’s self-knowledge and personal history and their ability to tell their own personal stories in a coherent and meaningful way, and at encouraging self-expression in different forms. The project was conducted in a pre-school classroom (4-5 years old) and was divided into ten purpose-made educational and teaching activities. The main hypothesis is that educational experiences able to offer children the opportunity and the space to speak about themselves and listen to the personal story of others have a positive influence on the following aspects: a) selfawareness; b) ability to express oneself in a coherent and meaningful way; c) sociability.
abstract
Fabio Bocci / Università degli Studi Roma Tre / fabio.bocci@uniroma3.it Federica Franceschelli / Università degli Studi Roma Tre / fed.franceschelli@stud.uniroma3.it
IV. Altri temi
Il presente contributo è il frutto del lavoro sinergico dei due autori. Ai soli fini redazionali la premessa e il paragrafo 1 sono da attribuirsi a Fabio Bocci, i paragrafi 2 e 3 a Federica Franceschelli. I paragrafi 4 e 5 a tutti e due gli autori.
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Premessa
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L’universo narrativo è al centro della vita di ogni essere umano, in ogni momento, in ogni epoca, in ogni circostanza. Le narrazioni strutturano e riempiono di significato l’intera esistenza umana, con una evidente ricaduta sul piano educativo. A livello evolutivo, il testo narrativo è da sempre oggetto privilegiato di indagine «per la sua priorità psicologica e per il suo radicamento nell’oralità» (Orsolini e Pontecorvo, 1991, p.7); nelle società alfabetizzate, il bambino è fin da molto piccolo immerso nelle narrazioni, tanto che si riscontra una «precoce familiarizzazione dei bambini con il materiale narrativo, sia scritto che presentato oralmente» (Pinto, 1993, p. 48). Questa familiarizzazione porta il bambino, fin dai primi anni di vita, a vivere il mezzo narrativo come uno «strumento privilegiato per lo sviluppo linguistico e per la conoscenza del mondo» (Levorato, 1988, p. 26); conoscenza del mondo e, dunque, dell’altro da sé ma anche – e, forse, soprattutto – di se stessi, per un’acquisizione di identità armonica e sempre più consapevole. È l’approccio narrativo, del resto, che risponde al bisogno dell’essere umano di organizzare la propria esperienza, comprendere e assegnare un significato e un valore alla propria esistenza, alla propria realtà, al proprio agire, in quanto dimensioni mosse da emozioni, sentimenti, sensazioni, memoria, scopi, progetti, relazioni. L’atto di narrare qualcosa a qualcuno è connaturato all’essere umano: è istintivo, naturale (Cavarero, 1997). Il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità, abita tutti i tempi, tutti i luoghi, tutte le società (Barthes, 1969). La narrazione si configura pertanto come un mezzo di conoscenza, di comunicazione, di pensiero, di comprensione, di costruzione di significati, di cambiamento ed evoluzione (Ong, 1986). È fondamentale evidenziare il legame che intercorre tra la narrazione e la sua dimensione psicopedagogica, fatta di cambiamenti, strade, percorsi verso se stessi e verso gli altri, di comprensione, di crescita, di raccolta di senso, di evoluzione, di scoperta; così come è fondamentale individuare la forte connessione tra la dimensione psicopedagogica della narrazione e la strutturazione dell’identità individuale. La storia personale di ogni individuo subisce infatti, nel racconto di sé, una scomposizione e una ricomposizione, che impegna il soggetto in un cammino verso una problematizzazione, un decentramento, una riflessione, una comprensione reale e una possibilità di intervento sulla realtà. Sulla base di quanto premesso, nel presente contributo ci soffermeremo sul tema della narrazione come elemento strutturante l’identità individuale e sul rapporto tra le narrazioni e lo sviluppo infantile, con particolare attenzione al mondo della scuola e, nello specifico, alla scuola dell’infanzia. Presenteremo, infine, un’analisi dei risultati raggiunti attraverso il progetto educativo-didattico svolto.
1. Narrazione e strutturazione dell’identità individuale
A livello epistemologico, l’interesse per una psicologia e una pedagogia narrativa è da collocarsi all’interno di una più ampia riconfigurazione del concetto di scientificità. Si assiste da alcuni anni, in effetti, a profondi mutamenti interni a disciIV. Altri temi
pline scientifiche quali l’antropologia, la storia, la paleontologia, la sociologia, la neuropsichiatria, la psicoanalisi, la psicologia e la pedagogia le quali hanno sempre più evidenziato, nei rispettivi ambiti di intervento, l’importanza del concetto di narrazione (Gaspari, 2008). Questo orientamento narrativo, in sostanza, assume la narrazione quale «tema centrale, o, se si preferisce, metafora della vita» (Smorti, 1994, p. 16) e individua nel pensiero narrativo (Bruner, 1988) una modalità interpretativa e rappresentativa alternativa da preferirsi – perlomeno nel contesto sociale e relazionale – a quella logico-paradigmatica poiché in grado di costituire, attraverso la costruzione di storie (di cui il bisogno di riorganizzare gli eventi è un tratto distintivo), un modello interpretativo delle azioni sociali umane. Altro aspetto fondamentale è la convinzione che sia proprio la narrazione a dare forma all’identità personale: «non siamo altro che la storia che raccontiamo di noi stessi e la nostra identità narrativa si costituisce mediante la nostra storia» (Callieri, 1999-2000, p.4). In questo senso è possibile affermare che il narrarsi crea una visione del mondo e di se stessi, risultando una sorta di chiave d’accesso in grado di creare significati condivisi e un elemento fondamentale di strutturazione dell’identità individuale, al punto di poter affermare che «solo la narrazione consente di costruirsi un’identità» (Bruner, 2001, p. 55). L’approccio narrativo qui descritto non è, dunque, unicamente una modalità tramite cui l’essere umano conosce, ordina, interpreta e dà significato al mondo che lo circonda, ma anche il modo attraverso cui il soggetto guarda e (ri)conosce se stesso. Un aspetto importante strettamente legato alle proprietà del pensiero narrativo è, infatti, quello della creazione narrativa del sé, inserito nella più ampia dimensione della costruzione dell’identità soggettiva nel rapporto dialogico con l’Altro – una sorta di costruzione dialogica del sé (Nicolini, 2001). Il legame tra costruzione dell’identità personale, narrazione, comunicazione e pensiero narrativo è molto stretto, poiché ogni identità si struttura nella comunicazione con gli altri, nella dimensione sociale, relazionale, culturale. È attraverso la dimensione narrativa, infatti, che la mente si racconta a se stessa e agli altri, in un processo di costante costruzione e ri-costruzione, su un piano non solo individuale ma anche interattivo e sociale, attraverso cui «l’identità del sé si dà concretamente come identità narrativa» (Mancini, 1995, p. 30). In questa strutturazione narrativa del sé risulta chiaramente coinvolta la dimensione esistenziale, retrospettiva e progettuale, della memoria (Demetrio, 1998; Leone, 2001) e della riflessione e scrittura autobiografica (Lejeune, 1986; Battistini, 1990; Ricoeur, 1993; Smorti, 1994, 1996, 1997; Bellini, 2000; Cambi, 2002). Del resto, è attraverso la dimensione narrativo-autobiografica che l’Io ricostruisce se stesso, in una forma che non va in alcun modo considerata cristallizzata e definitiva, quanto piuttosto circolare e costante – e per questo aspetto in grado anche di concretizzarsi nella sua dimensione di cura (Demetrio, 1996). Altra dimensione fondamentale e imprescindibile dell’approccio narrativo è quella della socializzazione, del portare all’esterno (al mondo, all’altro) se stessi e il proprio intero universo di memoria e di senso. Questo avviene perché l’indispensabilità dell’altro è insita nell’essere umano (Capello, 2001) e la dimensione soggettiva è fisiologicamente affiancata da quella dialogica.
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2. Le narrazioni nell’infanzia: come le storie aiutano lo sviluppo del bambino
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Ora, se è vero che il pensiero narrativo è presente culturalmente e strutturante lo sviluppo umano – sul piano individuale e sociale – e che la modalità narrativa si configura quale mezzo e strumento per la conoscenza e la costruzione di significati, è altrettanto vero che vi è un legame particolarmente forte tra la narrazione e il mondo dell’infanzia. Il pensiero narrativo è, difatti, presente e indispensabile nel bambino ancora più che nell’adulto, dal momento che l’uso del discorso narrativo, e più in generale la prospettiva narrativa, entrano a far parte della vita e delle modalità relazionali del bambino fin dai primissimi anni di vita. Basti pensare, ad esempio, ai momenti di lettura di libri, favole, fiabe condotte dalle figure di riferimento e nei quali il bambino, già intorno ai due anni, comincia a intervenire narrativamente e dialogicamente, fissando in memoria e facendo propri, in seguito, i meccanismi che metterà in atto nei suoi tentativi di racconto autonomi (Baumgartner, Devescovi, 2001). Di fatto, il pensare e agire per storie è radicato nello sviluppo del bambino fin dai primissimi anni di età tanto da far nascere l’ipotesi di una vera e propria predisposizione innata, nell’essere umano, a organizzare il pensiero sotto forma di narrazione (Bruner, 1988; 1992). Questo sviluppo che possiamo definire narrativo si lega indissolubilmente allo sviluppo cognitivo e a quello linguistico, tre ambiti interrelati che si influenzano reciprocamente. In particolare, gli strumenti linguistici intervengono nella progressiva acquisizione di strutture cognitive complesse e nell’esercizio delle capacità narrative del bambino (Nelson, Oster, Bruner, 1989; Pontecorvo, 1990); e questo fin dai primi anni di età, dal momento che la struttura essenziale di una storia viene padroneggiata precocemente dai bambini (Stein e Glenn, 1979). È evidente che la modalità narrativa, così come i racconti e le narrazioni che il bambino ascolta e a cui prende parte, giocano un ruolo considerevole nell’organizzazione dell’esperienza, nella rappresentazione del mondo, nella comprensione della cultura e degli eventi che strutturano l’esistenza individuale, ma anche nella crescita personale, puramente soggettiva, di essere umano, così come nel confronto con il mondo esterno, con l’altro, permettendo di costruire così la propria identità individuale, culturale e sociale (Smorti, 1997; Baumgartner e Devescovi, 2001). In quest’ottica, accanto all’utilizzo della narrazione quale strumento indispensabile di crescita e conoscenza, è necessario organizzare un contesto facilitante che permetta al bambino di esporsi in una situazione controllata, di gruppo, relazionale, creativa, di ascolto attivo e di confronto. È qui che emerge la necessità di far rientrare la modalità narrativo-autobiografica come prassi educativo-didattica all’interno della scuola di ogni ordine e grado: nella scuola tutto questo è possibile grazie anche alla struttura sociale della classe, che permette di dare quotidianamente ai bambini la possibilità di confrontarsi, esprimersi, dialogare, sviluppare e difendere le proprie idee, cogliere un senso di appartenenza e di identità nello scambio con l’altro – in modo, è bene specificarlo, adeguato, che faciliti il confronto positivo e dia spazio a ogni bambino – consentendo così di costruirne, o consolidarne, le competenze di conversazione, comprensione, narrazione, metalinguaggio (dunque linguistiche, coIV. Altri temi
gnitive, comunicative, ma anche emotive e relazionali)1. La scuola si configura, così, come luogo ideale per sperimentare la ricchezza delle narrazioni, soprattutto quelle intra e interpersonali; per incoraggiare nei bambini l’utilizzo del racconto, così che sviluppino con esso un rapporto sano e sereno, che si lascino coinvolgere, che siano stimolati a pensare, a scrivere (o a raccontare oralmente) sempre più dettagliatamente e creativamente; per promuovere l’ascolto e il rispetto delle storie, dei racconti degli altri; nell’ottica di quella prospettiva pedagogica per cui «educarsi a raccontare di sé rafforza l’identità individuale» (Demetrio, 2003, p. XIII).
3. Fare scuola con le narrazioni: il racconto di sé come strumento educativo a partire dalla Scuola dell’infanzia
Portare l’approccio narrativo-autobiografico all’interno della scuola, e soprattutto in quella dell’infanzia, si rivela estremamente utile poiché è nella prima scuola che l’attività narrativa può intervenire quale esercizio delle capacità linguisticocognitive proprie del pensiero narrativo (Bruner, 1988) e argomentativo (Pontecorvo e Orsolini, 1989), assumendo così un ruolo essenziale nel cammino formativo umano, un ruolo «cruciale nella formazione, nella crescita, nello sviluppo del soggetto, un ruolo insostituibile e assai sofisticato, talvolta sfuggente, ma forte e centrale» (Cambi, Cives, 1996, p. 271). È da qui che si ricava l’importanza e la necessità che la scuola offra ai bambini un universo narrativo in cui far crescere le proprie storie di vita, poiché è negli anni di scuola, a partire dalla scuola dell’infanzia, che il bambino forma il proprio pensiero, le proprie strategie relazionali e sociali, le proprie abilità cognitive, linguistiche, espressive. Quello che l’insegnante può fare, allora, è creare e offrire agli alunni uno spazio narrativo e un tempo per la narrazione: un contesto stimolante, che stimoli il pensiero, la curiosità, compresa quella verso se stessi, il desiderio di conoscersi, di comprendersi attraverso il gioco e la narrazione. Anche l’aspetto della condivisione è fondamentale: l’uso della narrazione evidenzia, fisiologicamente, i contrasti e le diverse modalità espressive e relazionali, nonché creative e immaginative. Fare esperienza della narrazione è fondamentale per il bambino: come osserva Demetrio, infatti, «la differenza tra narrazione e comunicazione sta proprio in questo: se è impossibile non saper comunicare, è invece possibile non saper narrare. Ne discende tutta l’importanza di aiutare la mente a imparare e a raccontarsi meglio» (Demetrio, 2005, p. 8). Raccontarsi meglio come esperienza della propria identità, ma anche come esperienza di espressione in direzione dell’altro, di relazione continua, che è ciò che permette concretamente al sé di costruirsi (Bosi, 2000). Quello che è importante portare nella scuola è proprio questo: offrire l’esperienza della narrazione come strumento conoscitivo per il 1
Si vedano a tale proposito le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione (2012) e gli Orientamenti dell’attività educativa nelle scuole materne statali (1991).
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bambino, come mezzo di apprendimento ma anche relazione con ciò che è altro da sé. Le modalità attraverso cui intraprendere questo fondamentale percorso educativo e formativo sono diverse: innanzitutto, è particolarmente utile un approccio narrativo autobiografico. Ma non solo: la lettura, il racconto, l’ascolto di storie sono un punto di partenza indispensabile; la conversazione in piccolo e grande gruppo su tematiche che favoriscano la riflessione, il pensiero critico, l’espressione delle proprie idee. Un elemento particolarmente utile, soprattutto nell’ambito della scuola dell’infanzia, è la ludobiografia (Staccioli, 2010), una modalità di giocare attraverso il racconto di se stessi e degli altri in grado di rappresentare per l’insegnante un valido strumento per mettere in relazione in modo funzionale e costruttivo gli allievi, evidenziando e stimolando la componente non solo del raccontare e raccontarsi ma anche quella, altrettanto fondamentale, dell’ascoltare e ascoltarsi. Ciò che è importante ricreare nel mondo della scuola – e nella scuola dell’Infanzia in modo particolare – è un luogo destinato alla narrazione e all’ascolto, fisico prima di tutto, ma anche mentale, una sorta di modalità di pensiero e di azione pedagogica attraverso cui giocare la grande partita dell’identità (Bergonzoni, Cervellati, 2003). Un ruolo fondamentale è ricoperto, indubbiamente, dall’utilizzo di un approccio didattico autobiografico, il quale nasce all’interno della cornice teorica del costruttivismo partendo dal presupposto che sia possibile affrontare lo studio sull’identità in termini di narrazione di sé, dal momento che la mente avrebbe la capacità di tradurre l’esperienza individuale in termini narrativi e in percorsi di attribuzione di senso che confluiscono verso pratiche collettive, socioculturali e di co-costruzione consensuale della realtà (Orbetti, Safina, Staccioli, 2005). Ciò significa che ogni cosa, ogni conoscenza, ogni pensiero che l’essere umano ha su se stesso (o su qualcosa di altro da sé) subisce una sorta di traduzione narrativa, viene letto in termini di azioni, fatti, avvenimenti organizzati secondo una storia. È bene precisare che quando ci si riferisce alla pratica autobiografica nella scuola, tanto più in quella dell’infanzia, non si pensa affatto a una sorta di bilancio definitivo quanto, al contrario, a un progetto formativo, di crescita, che aiuti il bambino progressivamente a prendere coscienza dei propri ricordi, delle proprie esperienze, della propria dimensione progettuale futura: sta qui gran parte del senso dell’idea pedagogica alla base di quello che stiamo chiamando fare scuola con le narrazioni. Questo significa, innanzitutto, che per quanto la pratica autobiografica sia strettamente legata alla memoria, ai ricordi, essa non debba avere con i bambini uno sguardo retrospettivo quanto piuttosto prospettivo, in grado di stimolare la dimensione progettuale e, potremmo dire, connettiva della propria esistenza. Tale pratica autobiografica non è da considerarsi una forzatura, dal momento che ogni bambino costruisce gradualmente la propria identità attraverso la propria storia (Farello, Bianchi, 2001). Esistono diverse tipologie di attività che è possibile proporre ai bambini per promuovere la conoscenza di sé e dell’altro e per favorire la progressiva acquisizione di identità e di autoconsapevolezza. La modalità narrativa trova infatti spazio sia nell’attività di scrittura (a vari livelli), sia nell’attività di racconto orale, sia in quella di disegno, in quella di gioco, in quella di lettura di storie, di conversazione in piccolo o in grande gruppo: ognuna di queste possibilità offre, se ben utilizzata, l’occasione di riflettere su se stessi, sulla propria storia, sul proprio rapIV. Altri temi
porto con gli altri. È possibile poi, per ogni tipologia di attività, organizzare percorsi di senso su alcune tematiche fondamentali: l’identità, prima di tutto, intesa come auto-narrazione, auto-riflessione e oggetto di meta cognizione; la memoria e il carico affettivo-emotivo (Rossi, 2002; 2005) che essa comporta; la sfera delle esperienze del bambino e la loro ricognizione spazio-temporale. Chiaramente il tema dell’identità – così come quello della memoria – è ampio e contiene al suo interno innumerevoli micro-tematiche quali ad esempio, in caso di bambini più piccoli, l’espressione delle preferenze del bambino verso persone, cose, luoghi, giocattoli, alimenti e via dicendo; in caso di bambini più grandi l’auto-descrizione, fisica e caratteriale. Per quanto riguarda la memoria è possibile svolgere un gran numero di attività, magari a partire da alcune fotografie e dai ricordi ad esse legate o da una conversazione in gruppo a partire da un tema specifico. Un aspetto che è opportuno sottolineare è quello della necessità di un approccio aperto all’altro, per fare sì che le pratiche educative messe in atto stimolino una riflessione su se stessi in un’ottica relazionale e non come «ripiegamento narcisistico, autoreferenziale ed egoistico» (Moroni, 2006, p. 25). In tutto questo assume un ruolo fondamentale la figura educativa di riferimento: l’insegnante, infatti, può concretamente intervenire con opportune domande e attività per aiutare il bambino a sviluppare e incrementare ulteriormente il proprio senso di sé, la propria cognizione spazio-temporale, la padronanza del linguaggio, le capacità mnestiche, l’abilità narrativa, il senso degli altri, della socialità (Montuschi, 1993); la capacità di esprimere se stessi, le proprie emozioni, i propri sentimenti, le proprie paure e i propri desideri. Attraverso la pratica educativa narrativo-autobiografica è possibile, quindi, mettere il bambino nella condizione di percepire che la sua storia è importante e meritevole di essere narrata, che ciò che ha da dire può e deve essere valorizzato: è l’attenzione alla storia (Demetrio , Staccioli, 1999) che si lega alla costruzione della propria identità e alla ricerca di senso e significato: il fatto che il bambino si senta ascoltato e impari ad ascoltarsi a sua volta è fondamentale per lo sviluppo delle capacità introspettive e autoriflessive che intervengono così fortemente nella strutturazione dell’identità in età infantile. In conclusione: «i bambini imparano a dare significato al loro narrare attraverso lo specchio dell’adulto […] vanno aiutati a ricostruire il sé narrativo (che poi coincide con l’identità) accogliendo e valorizzando i racconti e le storie di vita. La capacità di narrarsi non è costante né scontata. […] Se non si offrono occasioni – in assenza di giudizio – che consentano racconti con significati sempre più ampi, i ragazzi smetteranno di raccontare di sé o, quando lo faranno, la narrazione diverrà solo formale» (Orbetti, Safina, Staccioli, 2005, p. 108). Da questa consapevolezza è nata la scelta di dare vita a un progetto educativo-didattico che si avvalesse del mezzo narrativo-autobiografico all’interno della scuola dell’infanzia.
4. Presentazione del progetto
Il progetto educativo-didattico qui presentato è stato svolto presso una Scuola dell’infanzia dell’hinterland romano. Scopo dell’indagine è stato quello di verificare se e in che misura un intervento che solleciti il processo introspettivo (tematiche relative alla conoscenza di sé), retrospettivo (tematiche relative al anno II | n. 1 | 2014
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ricordo di eventi passati), progettuale (tematiche relative al tempo futuro) e, trasversalmente, narrativo (stimolando racconto e narrazione, in ogni loro forma) sia in grado di apportare cambiamenti positivi nella conoscenza e consapevolezza di sé, nelle capacità narrative del sé e, inoltre, nell’ambito della socialità. L’ipotesi che ci siamo proposti di sottoporre a verifica è la seguente: se si offrono occasioni e spazi per raccontarsi e ascoltare i racconti degli altri, sollecitando il pensiero introspettivo e l’abitudine a narrarsi attraverso diverse modalità, si presuppone di riscontrare nei bambini coinvolti un incremento della capacità di raccontarsi in modo coerente e significativo, un maggior grado di consapevolezza di sé; una maggiore abilità espressiva e un miglioramento della socialità. 4.1 Soggetti
Hanno partecipato al progetto 20 bambini, di cui 8 femmine e 12 maschi, di una sezione non omogenea (per la precisione composta da 7 bambini di quattro anni e 13 bambini di cinque anni) di scuola dell’infanzia. All’interno della sezione erano presenti un bambino con diagnosi di ADHD e un bambino con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio. Vi erano inoltre due bambini adottati e una bambina nata in Italia da madre thailandese e padre italiano. 4.2 Materiali e metodi
152
Per quanto riguarda la procedura, il progetto educativo-didattico che fa da sfondo alla ricerca è stato svolto attraverso le seguenti fasi:
1. Osservazione e rilevazione iniziale rispetto alle capacità narrative del sé e alle abilità sociali; 2. Realizzazione di dieci attività educativo-didattiche; 3. Rilevazione in uscita e confronto con i dati in entrata. Strumenti Per la rilevazione in entrata e in uscita ci si è avvalsi dei seguenti strumenti:
– Disegno di me stesso: a) con la mia famiglia b) a scuola (per la rilevazione delle capacità narrative del sé attraverso il parametro del disegno); – Mi racconto: a) con la mia famiglia; b) a scuola (racconto di quanto rappresentato nei due disegni svolti precedentemente per la rilevazione delle capacità narrative del sé attraverso il parametro del racconto orale); – Assessment Infanzia (Olmetti Peja, 1998) per la rilevazione della socialità. Di seguito sono descritti brevemente gli strumenti adottati e i criteri utilizzati per stabilire un confronto tra dati in entrata e dati in uscita.
• Disegno e racconto orale Le capacità narrative del sé (che si è scelto di considerare in relazione agli indicatori consapevolezza di sé, abilità espressiva, utilizzo di particolari narrativi) sono state valutate attraverso i parametri del disegno e del racconto orale relativamente a due dimensioni fondamentali della vita del bambino: la scuola e la famiglia.
IV. Altri temi
Pertanto, ogni disegno (io a scuola; io e la mia famiglia) è stato svolto sia in ingresso sia in uscita e valutato secondo i seguenti criteri: – autonomia (necessità o meno di suggerimenti da parte dell’adulto); – caratterizzazione (di se stessi, di figure significative, spazio-temporale); – ricchezza e elaborazione (di particolari, dettagli, etc.).
Allo stesso modo, ogni verbalizzazione (narrazione orale) relativa ai due temi autobiografici definiti poc’anzi (io a scuola; io e la mia famiglia), è stata raccolta e analizzata sia in ingresso sia in uscita e valutata secondo i seguenti criteri: – fluenza della narrazione; – elaborazione (complessità sintattica, contestualizzazione spazio-temporale, riferimento a figure significative); – rappresentazione socio-affettiva (riferimento a emozioni, intenzioni o desideri).
Per ciascun criterio (sia per il disegno sia per il racconto orale) è stato assegnato al bambino un punteggio che va da un minimo di 0 a un massimo di 3. • Assessment Infanzia Per verificare i cambiamenti a livello di socialità si è scelto di avvalersi dello strumento Assessment Infanzia, costituito da sei scale di valutazione delle abilità sociali:
1. 2. 3. 4. 5. 6.
Indipendenza: rispetto dei bisogni individuali e scelta delle attività; Abilità di conversazione; Rapporti e gioco con gli altri bambini; Rapporto con il gruppo educativo della scuola dell’infanzia; Concentrazione; Comportamento in un gruppo diretto da adulti.
Per ogni scala esistono nove descrittori comportamentali in riferimento all’abilità specifica considerata (Tabella 1). L’ordine dei descrittori è determinato sulla base della maturità e dello sviluppo, in modo che all’inizio della scala (valore 1.0) si trovi la modalità comportamentale più matura, mentre alla fine (valore 5.0) si trovi la modalità socialmente meno avanzata e matura. Al fine di individuare il descrittore più adatto a definire il comportamento di ogni bambino nelle sei scale di abilità è stata condotta un’attenta osservazione collettiva e individuale dei bambini nel contesto scolastico in diversi momenti della giornata (ingresso, gioco libero, merenda, attività didattiche, uscita), nell’arco di diversi giorni. Attività didattiche Le attività svolte nel corso dell’intervento educativo-didattico in classe sono le seguenti:
• Attività didattica 1: La storia di Nino La prima attività ha avuto lo scopo di introdurre i bambini nel mondo della narrazione e dei suoi meccanismi. Pertanto, in seguito alla lettura ai bambini di una breve storia (la storia di Nino), si avvia una conversazione di gruppo con l’obiettivo di identificare i principali elementi della storia e di operare una riflessione sugli avvenimenti in essa descritti. Successivamente, ai bambini è richiesto di anno II | n. 1 | 2014
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rappresentare graficamente una scena della storia a loro scelta; infine, i bambini di cinque anni creano una storia per immagini (una sorta di breve racconto in simboli in sequenza, alternando parole e immagini, queste ultime inserite in una legenda) sulla base del racconto letto, mentre i bambini di quattro anni disegnano in uno schema predisposto gli elementi principali della storia (personaggi, oggetti, emozioni, etc.). • Attività didattica 2: Lettura di un albo illustrato (silent book) La seconda attività è stata finalizzata a far sperimentare ai bambini la “creazione” collettiva di un racconto sulla base di una storia già esistente ma espressa unicamente attraverso le immagini e a cui pertanto mancano le parole. I bambini sono seduti in cerchio e ognuno di loro, a turno, legge una pagina dell’albo illustrato raccontando ciò che vede in continuità con quanto detto dal compagno che lo precede.
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• Attività didattica 3: L’inventafavole La terza attività ha avuto lo scopo di far sperimentare ai bambini la creazione collettiva di un racconto sulla base non più di una storia preesistente bensì a partire da un mazzo di carte rappresentante una serie di immagini, ognuna delle quali indipendente dalle altre. Un bambino, partendo da una carta a scelta, inizia ad inventare un racconto sulla base di quanto vi è rappresentato, dopodiché ogni bambino, a turno, pesca una carta e con la stessa modalità prosegue nella narrazione; infine, viene raccontata nuovamente la storia creata dai bambini i quali, al termine, inventano alcuni titoli e ne scelgono uno per alzata di mano. • Attività didattica 4: Invento un finale Con la quarta attività si è cercato di far sperimentare ai bambini la ideazione individuale di un finale dato l’incipit di una storia. Una volta raccontato ai bambini l’inizio di una storia, ognuno di loro ha inventato un finale e lo ha rappresentato graficamente.
• Attività didattica 5: Fotografie passate e presenti La quinta attività didattica ha perseguito lo scopo di introdurre i bambini alla conoscenza di sé e del proprio passato attraverso l’osservazione di fotografie che rappresentano i bambini appena nati e fotografie recenti che rappresentano i bambini impegnati nelle loro attività preferite. In una prima fase vengono mostrate ai bambini le fotografie di quando erano appena nati e viene chiesto loro di “indovinare” chi sia rappresentato in ogni fotografia, stimolando una conversazione sugli elementi più significativi (tutina, ciuccio, biberon, peluche, culla, etc.); in una seconda fase vengono mostrate le fotografie recenti e i bambini raccontano qualcosa del momento e dell’attività rappresentati. In una terza fase, infine, ogni bambino crea un collage delle fotografie passate e presenti e viene condotta una conversazione collettiva riguardante i cambiamenti avvenuti nel corso del tempo. • Attività didattica 6: Preferenze La sesta attività si divide principalmente in due momenti. Nel primo, dopo una conversazione collettiva nel corso della quale i bambini, a turno, raccontano ai compagni qual è il loro giocattolo preferito, perché gli piace, quando e con chi ci giocano, etc., ogni bambino individualmente rappresenta graficamente il gioco IV. Altri temi
precedentemente descritto. Nel secondo momento, dopo una conversazione collettiva analoga a quella precedentemente descritta e inerente, ora, il cibo preferito dai bambini, ogni bambino individualmente crea con la pasta da modellare il cibo preferito e, una volta che la pasta si è solidificata, lo dipinge con i colori a tempera.
• Attività didattica 7: Paure e desideri La settima attività prevede un primo momento di riflessione collettiva e dialogo su cosa siano i desideri e le paure, e un secondo momento di conversazione collettiva nel corso della quale, a turno, ogni bambino racconta ai compagni prima di un suo desiderio, poi di una sua paura, motivandone in entrambi i casi la scelta. Infine, ogni bambino rappresenta graficamente un desiderio e una paura.
• Attività didattica 8: Cosa farò da grande L’ottava attività ha perseguito la finalità di far riflettere i bambini, in ottica progettuale, su quello che vorrebbero fare da grandi. L’attività prevede un primo momento di conversazione e riflessione collettiva su quali sono le cose che si potrebbero fare da grandi, come vorrebbero essere, cosa vorrebbero diventare, etc.; e un secondo momento di gioco in cui viene proposto ai bambini il gioco del mimo: ogni bambino deve decidere come mimare ciò che vuole fare da grande e i compagni devono indovinare cosa esso stia rappresentando.
• Attività 9: Raccontarsi a carte La nona attività ha avuto lo scopo di far sperimentare ai bambini il racconto di sé ai compagni attraverso lo stimolo dato da alcune tematiche autobiografiche fondamentali. A tal fine i bambini pescano una “carta autobiografica” dal mazzo (su ogni carta è indicato un argomento specifico, ad es. luoghi, animali, cibi, paure, desideri, giochi, amici, famiglia, futuro, etc.) e, a turno, raccontano ai compagni qualcosa a loro scelta ma inerente a quanto indicato sulla carta.
• Attività didattica 10: Una margherita per raccontarsi La decima e ultima attività ha perseguito lo scopo, analogamente alla precedente, di stimolare i bambini al racconto di sé e alla conoscenza reciproca attraverso il dialogo su argomenti autobiografici fondamentali. L’attività si compone delle seguenti fasi: inizialmente i bambini vengono divisi in cinque gruppi (quattro gruppi da quattro bambini e un gruppo da tre), a ogni gruppo viene assegnato un tema autobiografico fra cibo, luoghi, famiglia, animali e giocattoli; successivamente a ogni gruppo vengono consegnate riviste e giornali da cui i bambini devono ritagliare immagini che rappresentino il tema assegnato; tali immagini vanno poi incollate, formando un collage, su un petalo ritagliato da un grande cartoncino colorato (un colore diverso per ciascun petalo). Una volta ultimati, i petali sono uniti a formare una grande margherita. La fase finale dell’attività prevede un gioco in cui i bambini, seduti in cerchio, a turno fanno ruotare la margherita e raccontano ai compagni qualcosa relativamente al tema rappresentato nel petalo che si ferma di fronte a loro.
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Indipendenza – rispetto dei bisogni individuali e scelta delle attività 1.0
Gli piacciono nuove esperienze ed affronta nuovi compiti con familiarità. Cercherà di risolvere i propri problemi prima di consultare un insegnante.
1.5
Generalmente autosufficiente quando incontra necessità abituali, ma senza fiducia nelle sue abilità; quando affronta qualcosa di nuovo necessita dell'aiuto dell'insegnante.
2.0
Indipendente finché non si presenta alcun problema, altrimenti si precipita da un adulto senza cercare di risolverlo
2.5
Ricerca sempre nuove attività ma perde velocemente l'interesse. E' indipendente nell'affrontare le attività ma ha bisogno di essere rassicurato dalla presenza fisica dell'insegnante.
3.0
È indipendente nell’affrontare le attività ma ha bisogno di essere rassicurato dalla presenza fisica dell’insegnante.
3.5
Non si avventura e tende a fissarsi su poche attività ben sperimentate.
4.0
Ha bisogno della continua approvazione dell'insegnante per proseguire un'attività e spesso chiede aiuto.
4.5
Necessita costantemente che gli venga detto cosa fare e che venga aiutato a farlo.
5.0
"Si appoggia" ed è quasi totalmente dipendente dall'aiuto dell'adulto. Non cerca di ottenere il rispetto dei propri bisogni. Abilità di conversazione
156
1.0
Spesso inizia e può portare avanti estese conversazioni. Mantiene la propria opinione e può spiegarne il significato quando c'è un'incomprensione o un malinteso.
1.5
E' capace di portare avanti un conversazione diretta. Si attiene al proprio argomento, commenta e sviluppa ciò che dice il suo interlocutore.
2.0
Risponde appropriatamente in una conversazione, ma non spiega adeguatamente cosa dice il suo interlocutore.
2.5
Può portare avanti una breve conversazione ma tende ad andare fuori argomento o a rispondere inappropriatamente se la conversazione è prolungata.
3.0
Raramente inizia una conversazione con un adulto da solo, ma è felice di parlare con altri bambini.
3.5
Tende a spiegare cosa ha detto nella conversazione piuttosto che ascoltare cosa dicono gli altri bambini.
4.0
Spesso richiama l'attenzione su argomenti di interesse, ma continua la discussione su di essi malvolentieri.
4.5
Loquace, ma i suoi interventi all’interno di una conversazione, non corrispondono adeguatamente agli interventi dell’altro; così risponde inappropriatamente e passa da un argomento all'altro.
5.0
Non parla molto. Se gli si fa una domanda diretta, risponde solo con parole singole o con frasi molto corte. Rapporti e gioco con gli altri bambini
1.0
Lavora su un singolo obiettivo con gli altri bambini considerando i loro desideri ed i ruoli.
1.5
Accetta di avere un ruolo in una recita e si assume la sua parte di responsabilità in ogni attività di gruppo.
2.0
Gioca con altri bambini, ma gli piace organizzare le attività e dirigere la ripartizione dei materiali.
2.5
Collabora con gli altri bambini in compiti creativi o costruttivi ma non quando questi comportano "simulazione" e rotazione a turno.
3.0
E' interessato ed occasionalmente si fa coinvolgere nel gioco immaginativo, ma normalmente è solo uno spettatore.
3.5
Interagisce e gioca solo con uno o due bambini specifici. Trova difficile instaurare relazioni con altri bambini. Gioca vicino a loro piuttosto che con loro.
4.0
Trova difficile instaurare relazioni con altri bambini. Gioca vicino a loro piuttosto che con loro.
4.5
Non può o non vuole condividere i materiali. Qualche volta distrugge il gioco degli altri bambini.
5.0
Si isola. Non gioca o interagisce con gli altri bambini, se non raramente. Rapporto con il gruppo educativo della scuola dell’infanzia
1.0
Usa l'adulto per consultarsi, gli si avvicina per ottenere informazione e guida, per riferire notizie, storie e per cercare approvazione per il lavoro svolto.
IV. Altri temi
1.5
Risponde positivamente alle istruzioni, ai consigli o regole date dal gruppo educativo, ma tende ad aspettare per avvicinarsi ad esso.
2.0
Un bambino dipendente che usa il gruppo educativo soprattutto come aiuto per risolvere i propri problemi.
2.5
E' reticente a consultare il gruppo educativo, ma normalmente lo fa quando è necessario.
3.0
Ha molta fiducia nel gruppo educativo quando riceve lode ed incoraggiamenti.
3.5
Usa il gruppo educativo soprattutto per conversare e normalmente non si avvicina ad esso per chiedere aiuto.
4.0
E' costantemente "aggrappato" ad un membro del gruppo educativo.
4.5
Evita il più possibile il contatto con il gruppo educativo.
5.0
Timido. Non si avvicina mai a nessun membro del gruppo educativo. Concentrazione
1.0
Le sue attività hanno un obiettivo ben definito e normalmente riesce ad ignorare le distrazioni per raggiungere questo obiettivo.
1.5
Gli piace completare un'attività, iniziata ma non è immune dalle distrazioni.
2.0
Si concentra su un'attività per un po’ di tempo, ma ha bisogno d'incoraggiamento per farla.
2.5
E' come una "nave da crociera". Trascorre brevi periodi di tempo provando differenti attività.
3.0
Preferisce le attività manipolative: la sabbia, l'acqua, "impasti" (o attività simili).
3.5
Preferisce muoversi nella classe e realizzare giochi in movimento;
4.0
Trova difficile svolgere attività che richiedono di stare fermi in un posto. E' facilmente distratto dall’attività che sta svolgendo.
4.5
Trascorre lunghi periodi in una o più attività, ma si lascia coinvolgere poco.
5.0
Passa da un'attività all'altra e raramente ci si sofferma. Comportamento in un gruppo diretto da adulti
1.0
Gli piace ogni tipo di attività di gruppo e vi partecipa attivamente.
1.5
Predilige attività a piccoli gruppi dove la partecipazione è necessaria, ma non gli piacciono gruppi più ampi dove l'attività è più passiva.
2.0
Gli piace essere leader di ogni gruppo. Ha un ruolo attivo ma a volte richiama l’attenzione su di sé.
2.5
Buono e tranquillo, sembra divertirsi in situazioni di gruppo più ampio.
3.0
Ha bisogno d'incoraggiamento per partecipare a situazioni di gruppo più esigenti. Richiama l'attenzione in una situazione di gruppo attivo.
3.5
Tende a chiudersi in se stesso quando si trova in un gruppo formato da più di tre o quattro bambini.
4.0
Pretende molta attenzione individuale in ogni situazione di gruppo.
4.5
Trova difficile stare fermo o tranquillo.
5.0
Distruttivo in ogni situazione di gruppo.
Tabella 1. Indicatori Assessment Infanzia
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FABIO BOCCI, FEDERICA FRANCESCHELLI
157
5. Ordinamento e analisi dei dati
Si presentano, a questo punto, i risultati emersi dall’analisi dei dati attraverso gli strumenti precedentemente descritti.
158
• Disegno Dall’analisi dei disegni dei bambini prodotti in entrata e di quelli prodotti in uscita (si vedano le Tabelle 2, 3, 4) si osserva quanto segue: 1. I bambini mostrano una notevole incertezza alla richiesta iniziale di doversi rappresentare graficamente e necessitano di costante supporto e rassicurazione da parte della figura di riferimento, mentre durante la rilevazione in uscita risultano tutti a loro agio con la richiesta che viene fatta loro; 2. In nessun caso, e in nessuna area considerata, si è verificato un peggioramento; nell’85% dei casi si è verificato un miglioramento e nel 15% dei casi non si è verificato alcun cambiamento. 3. Per quanto riguarda l’area dell’autonomia, in ingresso il 5% (disegno io e la mia famiglia, da questo punto in avanti df) e il 10% (disegno io a scuola, da questo punto in avanti ds) dei bambini hanno ottenuto punteggio 0, mentre in uscita nessun bambino ha ottenuto punteggio 0, con ottime percentuali nei punteggi 2 (45% df e 60% ds) e 3 (35% ds e 50% df); 4. Per quanto riguarda l’area della caratterizzazione, in entrata nel ds il 45% dei bambini ottiene punteggio 1 e il 45% punteggio 2 (solo il 10% ottiene punteggio 3) mentre in uscita solo il 5% ottiene punteggio 1, l’80% ottiene punteggio 2 e il 15% ottiene punteggio 3. Nel df, in entrata il 15% dei bambini ottiene punteggio 3, il 30% punteggio 1, il 55% punteggio 2, mentre in uscita solo il 5% ottiene punteggio 1, il 60% ottiene punteggio 2 e il 35% raggiunge il punteggio 3. 5. Per quanto riguarda infine l’area della ricchezza ed elaborazione, in entrata un 5% (df) e 10% (ds) ottiene punteggio 0 (con un consistente 50%, in entrambi i disegni, di punteggi 1), mentre in uscita nessun bambino ottiene punteggio 0 raggiungendo il punteggio 2 nel 75% (df) e 80% (ds) dei casi e punteggio 3 nel 10% (ds) e 15% (df) dei casi.
• Racconto orale Dall’analisi delle produzioni orali dei bambini in entrata e in uscita (si vedano le Tabelle 5, 6, 7) si osserva quanto segue: I bambini mostrano una forte difficoltà alla richiesta iniziale di raccontare qualcosa di se stessi, mentre mostrano un notevole entusiasmo e voglia di raccontare quando la richiesta viene fatta loro nel corso della rilevazione in uscita; In nessun caso, e in nessuna area considerata, si è verificato un peggioramento; nel 95% dei casi si è verificato un miglioramento e nel 5% dei casi non si è rilevato alcun cambiamento; L’area più problematica si è rivelata essere, in entrata, quella socio-affettiva, dove il 65% (racconto io a scuola, da questo punto in avanti rs) e il 60% (racconto io e la mia famiglia, da questo punto in avanti rf) ottengono punteggio 0. In uscita nessun bambino riporta tale punteggio: il 55% (rs) e il 45% (rf) ottengono pun-
IV. Altri temi
teggio 1, il 35% ottiene punteggio 2, e il 10% (rs) e 25% (rf) ottengono il punteggio massimo, 3; Altra area di particolare interesse è quella della fluenza, dove il 35% (rs) e il 10% (rf) riportano punteggio 0 in entrata, mentre in uscita nessuno riporta tale punteggio e le percentuali sono così suddivise: 35% punteggio 1, 55% punteggio 2, 10% punteggio 3 (rs), 15% punteggio 1, 65% punteggio 2, 20% punteggio 3 (rf); Infine, nell’area della elaborazione il 10% dei bambini aveva ottenuto in entrata punteggio 0, con un’alta percentuale (70%) di punteggi 1, nel rs (mentre nel rf i risultati si dividevano a metà, 50%, tra punteggi 1 e 2), mentre in uscita non si rileva alcun punteggio pari a 0 e la maggior parte dei bambini ottiene punteggi elevati (85% punteggio 2, 10% punteggio 3 rs; 50% punteggio 2, 40% punteggio 3 rf).
• Assessment Infanzia Per quanto riguarda l’analisi sulla socialità condotta mediante lo strumento Assessment Infanzia in entrata e in uscita, a seguito dell’intervento educativo-didattico, emerge quanto segue: 1. In nessun caso, e in nessuna scala prevista dallo strumento, si è verificato un peggioramento; 2. Per quel che concerne la scala dell’indipendenza (rispetto dei bisogni individuali e scelta delle attività) si è rilevato nel 55% dei casi un miglioramento. In particolare, considerando l’area superiore della scala (indicatori da 2.5 a 1.0), vi si situa il 70% dei bambini in entrata e l’80% in uscita; mentre nell’area inferiore (indicatori da 3.0 a 5.0) troviamo il 30% dei bambini in entrata e il 20% in uscita; 3. Per quel che concerne la scala dell’abilità di conversazione si è rilevato un miglioramento nel 65% dei casi. In particolare, in entrata la maggioranza dei bambini (55%) si colloca nell’area inferiore della scala e solo il 45% in quella superiore, mentre in uscita si rileva un 25% nell’area inferiore e la maggior parte, 75%, in quella superiore; 4. L’area rapporti e gioco con gli altri bambini è quella che mostra il miglioramento più consistente, con un incremento nel 75% dei casi. In particolare, nella parte superiore della scala si situano in entrata il 55% dei bambini e in uscita l’80%; mentre nella parte inferiore si situano il 45% dei bambini in entrata e il 20% in uscita; 5. Per quel che riguarda l’area rapporto con il gruppo educativo della scuola dell’infanzia si rileva un miglioramento nel 45% dei casi. In particolare, si passa da un 75% a un 85% nell’area superiore della scala e da un 25% a un 15% in quella inferiore. 6. Per quanto concerne la scala della concentrazione si rileva un miglioramento nel 55% dei casi. In particolare, si passa da un 70% a un 80% nell’area superiore della scala e da un 30% a un 20% in quella inferiore; 7. Per quanto riguarda, infine, la scala del comportamento in un gruppo diretto da adulti, si rileva un miglioramento nel 70% dei casi. In particolare, si passa da un 60% a un 70% nell’area superiore della scala e da un 40% a un 30% in quella inferiore.
anno II | n. 1 | 2014
FAbIo boccI, FederIcA FrAncescheLLI
159
Bambini Criteri
Autonomia Caratterizzazione Ricch. e elaboraz.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
11
U I
12
U I
U I
13 U I
14 U I
15
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U I
U I
17
18
U I
U I
19
20
U I
U
2 6 4 6 1 4 2 4 4 6 6 6 5 6 4 4 0 2 4 4 4 4 6 6 4 4 4 4 3 5 6 6 4 4 4 5 4
4
3
5
2 4 3 4 3 4 2 4 4 5 4 4 6 6 3 4 2 2 3 4 3 4 4 5 2 4 3 4 4 5 4 6 3 4 3 5 5
5
5
6
2 4 2 4 1 4 1 2 3 4 4 4 6 5 3 4 1 2 3 4 3 4 4 4 2 4 3 4 3 4 4 6 2 4 3 5 4
5
2
4
1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 1 9 5 3 6 8 9 4 4 5 2 0 1 5 4 4 7 7 0 2 0 2 0 2 4 5 2 0 2 0 4 4 8 2 0 5 3
1 4
1 0
1 5
6
Totale
10 U I
Tabella 2. Punteggi relativi al disegno (i punteggi sono stati sommati e comprendono il disegno io a scuola e io e la mia famiglia), con confronto fra ingresso (I) e uscita (U) per ogni singolo bambino nei tre indicatori analizzati).
Punteggio
Famiglia Autonomia
Caratterizzazione
Ricchezza
I
U
I
U
I
U
0
5%
0%
0%
0%
5%
0%
1
15%
5%
30%
5%
50%
10%
2
60%
45%
55%
60%
40%
75%
3
20%
50%
15%
35%
0%
15%
Tabella 3. Percentuali relative al disegno io e la mia famiglia, con confronto fra ingresso (I) e uscita (U) sul totale dei 20 bambini.
160 Punteggio
Scuola Autonomia
Caratterizzazione
Ricchezza
I
U
I
U
I
U
0
10%
0%
0%
0%
10%
0%
1
20%
5%
45%
5%
50%
10%
2
55%
60%
45%
80%
35%
80%
3
15%
35%
10%
15%
5%
10%
Tabella 4. Percentuali relative al disegno io a scuola, con confronto fra ingresso (I) e uscita (U) sul totale dei 20 bambini.
IV. Altri temi
Fluenza
1
2
3
4
5
6
7
8
9
I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U I
U
I
U
2
4
5
4
4
4
6
5
3
3
4
4
4
3
2
4
4
2
5
2
3
4
2
0
2
2
3
2
2
1
10
1
11
2
12
2
13
1
14
0
15
2
16
3
17
2
18
4
19
2
20
Elaborazio 3 5 3 6 2 4 3 4 4 4 4 6 2 5 3 4 3 4 2 5 3 4 3 5 1 4 2 4 2 5 2 4 2 2 4 5 2 3 2 4 ne Rappres. 0 6 3 5 0 2 0 4 2 3 3 5 0 5 0 2 3 4 1 3 1 4 2 3 0 2 2 5 0 2 0 3 2 2 2 4 0 2 0 2 socioaffett. Totale
5
1 5
8
1 6
2
8
5
1 2
8
1 1
1 0
1 7
4
1 5
5
9
7
1 1
4
1 2
6
1 2
7
1 2
2
9
1 1
4
4
1 1
5
1 1
6
6
1 0
1 4
4
7
5
1 0
Tabella 5. Punteggi relativi al racconto (i punteggi sono stati sommati e comprendono il racconto io a scuola e io e la mia famiglia), con confronto fra ingresso (I) e uscita (U) per ogni singolo bambino nei tre indicatori analizzati).
Punteggio
Famiglia Fluenza
Elaborazione
Area socio-affettiva
I
U
I
U
I
U
0
10%
0%
0%
0%
60%
0%
1
65%
15%
50%
10%
30%
40%
2
25%
65%
50%
50%
5%
35%
3
0%
20%
0%
40%
5%
25%
Tabella 6. Percentuali relative al racconto io e la mia famiglia, con confronto fra ingresso (I) e uscita (U) sul totale dei 20 bambini.
161 Punteggio
Scuola Fluenza
Elaborazione
Area socio-affettiva
I
U
I
U
I
U
0
5%
0%
10%
0%
65%
0%
1
15%
5%
70%
35%
25%
55%
2
60%
45%
20%
85%
10%
35%
3
20%
50%
0%
10%
0%
10%
Tabella 7. Percentuali relative al racconto io a scuola, con confronto fra ingresso (I) e uscita (U) sul totale dei 20 bambini.
Conclusioni
Sulla base dell’idea che «con i più piccoli ricordare per raccontare le esperienze più significative della vita infantile aiuta alla costruzione del sé» (Demetrio, 2003), si è ipotizzato che un percorso di pedagogia narrativa in cui ai bambini fossero offerte occasioni e spazi per raccontarsi e ascoltare i racconti degli altri determinasse un incremento delle capacità narrative del sé e un miglioramento della socialità. Come si è rilevato attraverso l’analisi dei dati presentata, i risultati sembrano confermare la nostra ipotesi di partenza. Le capacità narrative del sé, esaminate attraverso i parametri di autonomia, caratterizzazione, ricchezza ed elaborazione (per il disegno) e di fluenza, elaborazione e area socio-affettiva (per il racconto orale), si sono dimostrate accresciute. In particolare, i bambini durante anno II | n. 1 | 2014
FabIo boCCI, FeDerICa FranCeSCheLLI
la rilevazione in uscita sembrano aver abbandonato l’incertezza e la perplessità inizialmente mostrate di fronte alla richiesta di raccontarsi (sia graficamente sia oralmente): tutti cominciano a disegnare senza mostrare dubbi su quanto richiesto e inseriscono figure e particolari senza bisogno di continue conferme; i disegni risultano più ricchi di particolari, più significativi; la narrazione orale risulta più fluente, consapevole e ricca di elementi del vissuto autobiografico del bambino. I bambini inseriscono spontaneamente – sia nel disegno sia nella narrazione – elementi riconducibili alle tematiche autobiografiche affrontate nel corso dell’intervento educativo-didattico, così come spontaneamente riferiscono quanto rappresentato graficamente e il motivo della scelta. Anche l’ipotesi di una ricaduta positiva sulla socialità è stata confermata: si è riscontrato un miglioramento sia a livello dell’intera classe sia singolarmente, per ogni alunno; pertanto i risultati raggiunti sembrano confermare l’idea che lo svolgimento di attività educativo-didattiche finalizzate alla maggiore conoscenza e consapevolezza di sé e dell’altro e a un incremento delle capacità narrative del sé influiscono positivamente sulle abilità sociali, relazionali, di indipendenza, concentrazione e dialogo.
Riferimenti bibliografici
162
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IV. Altri temi
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anno II | n. 1 | 2014
FABIO BOCCI, FEDERICA FRANCESCHELLI
163
LD-Coordinator: the new role for dealing with students with learning disorders
Key-words: Learning disorders, School and University, LD tutor (Learning Disorder), LD-Coordinator’s competencies, Inclusion
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The article presents characteristics of the LD ( Learning Disorder)1 Coordinator and his role in supporting students with learning disorders. This role has emerged as a result of the growing need for sustaining the learning process in the presence of students having difficulties with reading, writing, comprehension and counting. The teacher who assumes the role of LD-Coordinator should encompass different competencies including knowledge of relevant regulations, characteristics of the single disorders, skills in dealing both with families of LD children and with clinical professionals. The LD-Coordinator must also be well versed in methodologies, strategies and techniques available to utilize in supporting and enhancing the learning process. The article suggests some ways to develop these competencies by uniting theoretical knowledge and practical experience to form teachers to carry out the role of LD-Coordinator. The role of the LD-Coordinator described in the article has been defined by the author during the two editions of the Master’s program in “Didactics and Psycho-Pedagogy for Learning Disorders” and has been experienced by the participants of the same Master.
abstract
Nicoletta Rosati / Università Lumsa, Roma / rosatinicoletta@lumsa.it
IV. Altri temi 1
The definition of LD abbreviation can be referred to Learning Disorder or Learning Disability. The correct meaning of the “D” is still frequently discussed in the English speaking countries. The “D” meaning depends on the different ways we can consider people with problems of dyslexia, misspelling, dysgraphia and mathematics difficulties. “D” can indicate the difficulties we observe as a manifestation of a disorder or a disability or it can also refer to the differences in the process of learning. The three concepts are not antithetical, but they express different aspects of the same situation; each of them constitutes a stimulus for a specific therapeutic or didactical action ( PARCC, 2011).
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno II | n. 1 | 2014
165
166
Nowadays schools and universities are coping with the increasing presence of students with Learning Disorders. In order to satisfy these students’ learning needs teachers must search for strategies and techniques suited to these students’ specific problems in reading, reading and comprehension, writing and counting. While coping with these difficulties there needs to be a respect for one’s individual style of learning and personalized method of study . In the last twenty years didactical research (Frith, 1995; Cornoldi, De Beni, Gruppo MT, 2001; Cadamuro,2004; Morgan, Farkas, Wu, 2009; Pollak, 2009; Cornoldi, Tressoldi, Tretti, Vio, 2010; Stella 2001, 2007, 2010; Lucangeli, 2012) has dealt with the concept of diversity in learning. The findings of this research have suggested that every student may benefit from didactical strategies which support different cognitive and learning styles and that lead to the development of personalized methods of study. In order to help students to find the right method and to cope with their specific learning difficulties a teacher with a specific role within the school or university is needed. This person can be identified as a tutor/teacher, specialized in the didactics for students with learning disorders, but also prepared in clinical, psychological, legal and social aspects of learning disabilities. He will become a useful contact between the student and his teachers or professors, and an interface for clinical specialists and student’s family. We may put forth the hypothesis that a teacher prepared as described above can carry out a specific role within the school or university. In the last three years the Italian Ministry of Education has promoted, with the help of universities, the realization of a Master’s program and qualification courses in order to prepare teachers to deal with all the aspects of learning disorders. The experiences matured during these courses have pointed to the need to create the specific role of the LD-Coordinator within the activity of teacher.
1. The role of “coordinator” for the students with Learning Disorders
The role of “coordinator” for the students with Learning Disorders ( Italian abbreviation for Learning Disorders is DSA- Disturbi Specifici di Apprendimento) constitutes a valid support in the development of the learner’s personality as well as in the design and planning of the curriculum. The presence of this new role in the school is regulated according to specific Guidelines set forth by the Ministry of Education Decree of 12th July 2011- Guidelines for the right of study for the students with specific learning disorders. The research available in both clinical and pedagogical areas underlines the need for a valid link among the school, the family and health care specialists. The creation of this new professional figure has been made necessary to respond, in practice, to the following needs: the problems and anxiety that families with children with learning disabilities experience and the requirement of a personalized educational path to support each student’s uniqueness. The LD-Coordinator is also important in supporting university students with learning disorders as they pursue their course of study. The Guidelines set forth above ( n.6.3),define this new role as follows : “ The IV. Altri temi
coordinator’s responsibilities focus on awareness raising and the analysis of the problems connected with learning disabilities as well as providing support to fellow teachers directly involved in applying didactical strategies for these same students”. If we consider the benefits that result from prevention and early observation of learning problems in young children, we should look to the first primary school years as an important period for observing eventual difficulties that the child can exhibit. The teacher, supported by the LD-Coordinator, has the preparation and competence to recognize problems which can lead to learning difficulties. Subsequently, both the teacher and the LD-Coordinator can notify the family of the results of their observation and help the family to find the appropriate health care professionals to deal with the problems. The LD-Coordinator becomes important both for the families with children suffering from learning difficulties and for the other teachers in the school. His presence in the school and his work with the families and colleagues can provide a positive learning atmosphere for these students. The LD-Coordinator knows many strategies, techniques, technologies and methods to utilize to facilitate learning. This specific preparation of the teacher-tutor is particularly useful when he deals with the LD students because he may choose the didactic solutions and tools to reduce the difficulties that these students face. It is questionable if all teachers are able to put into effect this kind of competence strictly based on normal teacher preparation. The LD-Coordinatorteacher not only has experience in teaching, but also possesses certain competences that we will analyze now. In Italy the Law October 8th 2010 n. 170- New rules on specific learning disorders in schools and the Guidelines of 2011 provide for a preventive evaluation by way of early identification of possible cases of learning disorders. As a result of this evaluation it is possible to work towards the correct development of prereading and pre- writing skills as well as the concept of number and the ability of calculation. This preventive evaluation is normally carried out by the teachers of the class. The LD-Coordinator can help his colleagues in this first stage of the evaluation and later he can support their efforts to find useful strategies to reduce the original problems. If these problems persist, the tutor can help the teacher of the class in communicating to the family the need for a professional diagnosis to pinpoint the specific aspects of the disorder. It is useful for the tutor to meet the student’s family and to become for them a point of reference during the observation period that leads to the diagnosis. The LD-Coordinator can help medical professionals, families and teachers to work together. It can be said that this kind of competencies can be expressed by any teacher, but the LD-Coordinator should demonstrate specific abilities in teaching and in relating to others as a result of personal education, permanent formation and concrete experience in dealing with LD problems . If we were to write a description of the LD-Coordinator for students with Learning disorders we would consider these characteristics: – attention to observing the people whom he/she interacts with; – complete knowledge of the laws and dispositions concerning people with learning disorders; – social competencies to enter in relationship with children, boys and girls with learning disorders, with their families and with the school colleagues; anno II | n. 1 | 2014
NICOLeTTA ROSATI
167
– knowledge of the learning process and of the mental virtues to sustain the growth and the development of each student; – complete formation to become a trainer for the colleagues for the problem of the DSA; – collaboration in the planning of the lifespan project, a project that considers the difficulties to overcome as well as the talents to empower for the success in life of each student. We will analyze some of the above characteristics.
2. The LD-Coordinator as an observer
168
Pedagogical observation is part of every teacher’s fundamental competence. The knowledge of the student is at the basis of any didactic planning and class realization. The teacher observes because he wants to understand how to help each student to reach his/her best in the learning process. It is a kind of research. The teacher who observes increases his/her attention and his/her competencies in favour of his/her students. Camaioni, Buscetta and Perucchini distinguish between “looking” and “seeing” as two different ways to obtain information about the boys and girls whom one works with (Camaioni, Buscetta, Perucchini, 2010, pag.12). Seeing a child during activity means paying attention to what he does and says, how he enters into relationships with adults and other children, and how he learns. Looking at a child involves observation.Observing a child means following a hypothesis arising from watching his actions and interactions, in other words, starting a pedagogical observation ( Boncori, 2009). One observes because he is looking for something or he wants to discover something that is not yet known . The LD-Coordinator should be able to use observation in order to provide for a preventive evaluation or an early evaluation of possible learning disorders . The Guidelines affirm that learning disorders present some characteristics that can be easily recognized as risk factors by an experienced observer even when dealing with very young children in pre-primary school. There exists a set of tests called IPDA ( Identificazione Precoce Difficoltà di Apprendimentoearly identification of learning difficulties) which highlights possible risk factors in very young children. Test results can help teachers to plan strategies that reduce the effects of some learning difficulties. However, the diagnosis for learning disorders must not be made before the end of the second year of primary school and even then, it is the responsibility of health care specialists. The ability to observe belongs to each teacher, but the LD-Coordinator can unite this ability with that of recognizing the signs that indicate possible learning difficulties. The next step is to enact a series of activities that reinforce children’s cognitive skills and reduce their learning difficulties. The introduction of psychomotricity in pre-primary school, for example, can be a valid prerequisite for a thorough development of pre- reading, pre-writing skills and visual-spatial orientation. The use of psychomotricity can help to pinpoint problems in learning and, thanks to the unique link existing among movement, emotions and thought development, it is possible to reduce the consequences of learning problems. An accurate observer is never superficial; he sees through appearances and tries to give a collocation to the IV. Altri temi
object, the subject and the situation that he sees. He looks for links among previous experiences, consequences and relationships. Some of the qualities for good pedagogical observation are: – – – – –
attention to the educative aspect of the observed situation; the research of the real meaning of what is observed; the knowledge of observation methods, the skills in using instruments to register observed data; the skill in reading what is observed with objectivity.
The results of the observation by the LD-Coordinator can be applied to:
– organizing activities to empower abilities or to make up for scholastic failure; – advising the family to ask for a specialist to recognize possible learning problems in order to separate learning difficulties from specific learning disorders; – individualizing the teaching process; – personalizing the learning process; – looking for valid strategies for the students with learning difficulties; – constructing tests and evaluating the student’s products with “authentic evaluation” techniques; – promoting self-evaluation and meta-cognitive development.
A good observer in education can realize authentic relationships with students by promoting their full expression in humanity, even in the presence of disabilities or learning difficulties and disorders.
3. The LD-Coordinator as expert of the laws and legal dispositions concerning people with learning disorders
The LD-Coordinator is also requested to have a thorough knowledge of all the legal dispositions in favour of students with learning difficulties. In Italy these dispositions are specific for school-aged children and university students. The first note set forth by the Italian Ministry of Education was C.M. October 5th 2004 n.4099/A/4– Initiatives about Dyslexia which provide for compensative instruments such as personal computers, i-pads and calculators as well as dispensation measures for dyslexic students, e.g. not writing in a foreign language or not reading aloud. Other dispositions followed regarding the State Exam with the Note of the Ministry of Education March 1st 2005 n.1787 - State exam 2004-2005: Students suffering from dyslexia and with the Note May 28th 2009 n.57/44 - State Exams. Thanks to the Note of the Italian Ministry of Education July 27th 2005 n. 4798 - Family involvement : the parents of LD students were first involved in the process of learning especially in the early detection of learning problems. The first practical guidelines for the school were set by the Ministry of Education with the C.M. May 10th 2007 n. 4674 - Students with learning disorders: practical guidelines. A complete collection of all dispositions in favour of students with anno II | n. 1 | 2014
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learning difficulties attending school and university is stated in the above quoted Law n. 170/2010. This law was followed by the Ministry Decree of 12th July 2011Guidelines for the right of study for the students with learning disorders. This Decree suggests for those involved with students suffering from dyslexia and other learning disorders how to behave and organize personalised didactical plans, tests, exams, evaluation, considering the difficulties of the above students . The Ministry Disposition about students with special needs, promoted with the Ministry Directive December 27th 2012- Intervention tools for students with special needs and territory organization for scholastic inclusion: provides for additional dispositions set by the Law 170/2010 for the LD students to all the students with special needs. In this last disposition the LD students are considered part of those with special needs. Other two notes followed the Directive of December 27th 2012 : the C.M. n.8 of March 6th 2013- Students with learning disabilities : operative indications and the Note June 6th 2013 n. 1551 - Year plan for inclusion. Both extended to students with special needs some dispositions for the LD students. A knowledge of scholastic laws about learning disorders is fundamental to help students and their families in the process of early recognition of the problems and to guarantee their rights.
4. The social competencies and the role of the LD-Coordinator
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In order to relate successfully with students suffering from learning disorders as well as with their families, the LD-Coordinator should have the same specific social competencies as does every teacher. Social competencies are fundamental, as they allow one to enter into a specific, educative relationship with the person following the growth process; these competencies are a basic part of the function of teaching. The LD- Coordinator should possess these competencies not only in function of being a teacher, but also as an actor in the complex interaction with people of different roles: teachers, students, parents, school administrators, health care professionals). The LD-Coordinator ability to establish empathy with the students, especially with those affected by any kind of disability or difficulty, is fundamental for the student’s future personal success in school and in life. A person’s ability to enter a relationship with others determines for those others a confirmation of their existence and of our value, as Buber said ( 1993). Among the social competencies of the LD-Coordinator the first should be the attitude of full acceptance of the student with learning problems without thinking that, because of these problems, the LD student is not at the same level as the other students in the class. Clinical studies demonstrate that some of the thinking skills of LD students are even higher than students without the same learning problems ( Lucangeli, 2002) Promotional interaction is another important social competency, a kind of encouragement that the LD-Coordinator provides the student even in failure. It is thanks to the confidence that the LD-Coordinator has in the LD student’s abilities that the student’s positive self- image is confirmed and his sense of self-efficacy increases. This positive self- image will encourage the student to go on in IV. Altri temi
his/her learning process despite the presence of learning difficulties. The development of a positive image of oneself confirms the sense of self-efficacy, which will increase a positive image of oneself ( Bandura, 1997). Another function that the LD-Coordinator has is to help the LD student to deal with issues arising during cooperative learning phases by suggesting strategies to overcome the problems. The negotiation of conflicts is one of the social abilities requested for the XXIst century. Cooperation enhances different points of looking at the same problem. While this can provoke conflicts, social abilities, such as active listening, making decisions, and comparing points of view can help to overcome conflict. It is important for the LD-Coordinator to accept the student’s world as “the third educator” would. ( Pollo, 20024, pag. 271) . This complex expression describes the typical relationship between the young learner and the educator. The latter should accept the former with the same unconditional, but demanding, love typical of positive parenthood, from which it derives the name of “third educator.” The LD-Coordinator, like any educator, must be willing to consider each learner as a unique individual. This particular acceptance is recognized in pedagogy as a kind of “conversion”; it is not a didactical technique but a positive attitude towards the student, a sincere attitude of taking care of him. (Luft, 1975; Pollo, 20024) The word “acceptance” means recognizing the worth and dignity of a young person in a vision of complete inclusion .
5. The LD-Coordinator as a seeker and expert of metacognition and of habits of mind
One of the main characteristics of the LD-Coordinator is to be a seeker, always in search of didactic innovation, ready to give importance to the student’s needs and desires. Recent research (Costa, Kallik, 2000; Perkins, Tishman, Ritchhart, Donis, Andrade, 2000; Costa, Garmston, 2002; Comoglio 2007) has focused on the habits of mind ( “mental virtues”) and their influence on scholastic learning. Learning is not only a question of acquiring knowledge or skills. What can move a person to learn is a personal attitude to act, which has been defined as “the fourth level of mind.” These habits of mind can be positive or negative, productive or unproductive. Here are some examples: – – – – – – – – –
persistence control over impulsiveness empathy when listening thinking about thinking (or metacognition) accuracy asking questions presenting problems applying previous knowledge to new situations communicating clearly.
The habits of mind have a fundamental value in developing abilities and cog-
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nitive skills, which are not exclusively linked to scholastic learning, but they become part of the person as a whole. The acquisition of the habits of mind depends on various factors, such as the family environment, the surrounding culture and the school. School can do a lot to facilitate the development of these habits, which are important to build knowledge, to cope with complex problems and to achieve a deep comprehension of what is learned. Using the habits of mind with a student affected by learning problems allows for a personalized learning style, which can make up for the student’s difficulties. The habits of mind also contribute to the development of a positive image of oneself. In fact, when a student has developed attitudes such as curiosity, persistence, the ability to ask questions or for help and the ability to cope with problems, he can overcome his difficulties and decide to continue his studies. The habits of mind can be the goal of education, as Costa and Kallic suggest (2000) To achieve this goal the school must be organized as a learning community, a “house of the mind” where students learn to reflect on what happens, develop learning strategies, and use dialogue as a means to measure themselves with others. All these behaviours produce a typical learning style which can be adapted to other personal learning styles from which the LD student can benefit. The search for a personal method of study involves all the students in the same scholastic framework. In this situation, the students with learning difficulties can share equally in the same experience as their other classmates. Furthermore, the use of technological means can reduce learning difficulties and allow for all the students to work together without problems. It is important to note that by using vocal synthesis, the student with dyslexia can read a text in almost the same time as his classmates, and the same student can prepare a synthesis to share with the members of his cooperative learning group. Thanks to the use of a simple calculator, the student can participate in solving mathematical problems in cooperation with his classmates. The opportunity of putting into practice the habits of mind reinforces the positive sense of self- efficacy and encourage working in groups even in the presence of learning disorders. In particular, the habit of mind called “thinking on thinking,” which is a metacognitive ability, is fundamental in the presence of learning difficulties. As Cornoldi states (2013) metacognitive ability helps to develop self confidence in LD students and leads them towards learner autonomy. Metacognition allows the learner to build awareness of the learning process; metacognition helps the learner to understand the reasons for his success and the factors that have contributed to the process. As the LD student becomes aware of these reasons and factors, he can apply these winning strategies in future learning situations. In short, the LD student is enabled to process information and avoid obstacles presented by his difficulties. The use of metacognition strategies enhances inclusion in the class, even in the presence of students with special needs. Metacognition stimulates reflection and dialogue; it helps to compare different experiences and to create cooperative situations where each person feels accepted and ready to work with the other classmates. For the above mentioned reasons, another characteristic of the LD-Coordinator is to have a thorough knowledge of the didactic strategies that can support students with special needs including LD students. IV. Altri temi
6. The LD-Coordinator as â&#x20AC;&#x153;trainerâ&#x20AC;? inside the school and outside the school
The LD-Coordinator has acquired a specific competence regarding the problems faced by LD students and, thanks to his on-the-field training, he has developed the ability to recognize learning styles and difficulties in young students. This particular formation which combines theory and practice allows the LD-Coordinator to be an important resource for the institute in which he works as well as for other people working outside the school with children with learning disorders. We can assume that in light of Directive December 27th 2012- Intervention tools for students with special needs and territory organization for scholastic inclusion the LD-Coordinator can represent a valid example of an expert in special needs. His specific knowledge of learning problems and pedagogical preparation can help the students towards complete scholastic inclusion. The special role that the LD-Coordinator has contributed to creating an interface with colleagues, families, students, specialists, social service workers, and local organizations with the aim of a synergy. This synergy should encourage the complete realization of inclusion for all the students with learning difficulties. The function of the LD-Coordinator is made up of a series of competencies, such as his university preparation on learning problems, his ability in communicating with different specialists, and his didactics knowledge of the tools and strategies to teach LD students. The LD-Coordinator can offer another service within the school, that of meeting with the families of the LD students in order to help the parents to deal with their own anxiety and fears regarding their childrenâ&#x20AC;&#x2122;s future learning and scholastic success. The coordinator can also explain to the parents and /or to the other teachers how to manage the additional tools and the dispensation from studying certain subjects or engaging in certain activities. The coordinator can provide parents and teachers with further specific information about how learning disorders can be addressed at school through the use of innovative strategies and tools. The tutor should maintain an updated bibliography of current literature on the topic as well as a catalogue or a portfolio of the tools available to work with the LD students. The LD-Coordinator should participate in an on- line forum which will provide additional ideas and didactical solutions based on the experience other teachers have had with their LD students. He can also adopt successful strategies that he can apply to his students and communicate the best practices found in other schools to his colleagues. By providing all his colleagues with this information, the tutor will encourage colleagues to become more willing and able to take on the responsibility of educating the LD students. The LD-Coordinator can be important even for the new teachers entering the school who have to cope with the learning problems of students for the first time. Seminars or courses can be organized by the LD-Coordinator as a form of training for new teachers and as a kind of updating for the other colleagues in the school. These seminars and courses can be open to all who are interested in these problems and make others aware of the presence of learning problems in the community. The LD-Coordinator can provide informative meetings with paranno II | n. 1 | 2014
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ents whose children are attending the school. During these meetings he can discuss learning problems, show the warning signs to look for and recommend centres where specialists can test and diagnose eventual learning problems. The importance of these meetings is also based on the help and support that the LDCoordinator gives the parents to show them that learning disorders can be overcome. In this way, parents of LD children will feel more positive and more confident in themselves and in their childrenâ&#x20AC;&#x2122;s future. In addition to the above mentioned meetings, the LD-Coordinator can arrange to meet individually with parents to discuss the process of re-education for their children. He can cooperate with the specialists and the family in the planning of a life span project that will enable the child or the young person to have the necessary support for scholastic success and access to university. The life span project should be the result of combined efforts among specialists, teachers and family members. The LD-Coordinator acts as an educator and a point of reference. As he gathers the different proposals, he finds the common points of these proposals from which he creates a new strategy to provide the child with a balanced development from both the social and the psychological points of view. Thanks to the LD-Coordinator, the life span project will present an integration of different interventions for rehabilitation and re-education, for health care and scholastic welfare, for cognitive development and for social and relational abilities. The function of the LDCoordinator as an interface for the different actors in the life span project has been tried in some schools in Rome, in the last four years. Ten secondary schools in different Districts in Rome and a group of pre-primary schools in the 9th School District took part in a project where a LD-Coordinator was working in the schools with teachers and parents with the above-mentioned functions. In the secondary schools, the LD-Coordinator was a teacher who used part of his teaching hours to take on the role of LD-Coordinator. In the pre-primary schools, this role was held by administrators of the Municipality of Rome who had pedagogical qualification. Other teachers in pre-primary and primary schools have carried out the role of LD-Coordinator without reducing their teaching hours, and in addition to their daily work. Teachers and Rome Municipal administrators attended a Masterâ&#x20AC;&#x2122;s course in Didactics and Psycho-Pedagogy for Learning Disorders and received a specific qualification. During the course, participants made up research groups in order to experience the different functions of the LD-Coordinator and how these functions can be applied in Italian schools and in collaboration with health care specialists. Some of results of this research have been validated by the Ministry of Education through the representatives of the Regional Educational Office of Lazio. This research is still in progress. The role of the LD-Coordinator can open the way towards a different concept of the teaching function based on disciplined knowledge, curriculum planning abilities and didactical competences, as well as on social abilities and specific relational competencies to interact with LD children, their families and members of the medical profession.
IV. Altri temi
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Organizzare l’inclusione. Un percorso formativo “in-service” finalizzato al miglioramento dei processi educativi
Key-words: In-service training, Special education, Experiential education, Narrative approach, Inquiry community.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
This paper considers the importance of in-service training for assistant teachers, in Italy commonly known as “support teachers”. Assistant teachers can be also defined as “at risk” people, because they are deeply connected with human frailty and acking of empowerment. Therefore, they usually have to deal along border lines, where people struggle to get shared rules properly. For these reasons, it’s useful to accompany assistant teachers’ work with in-service training. I believe the scientific literature is lacking on paying the attention this issue should have. In-service training processes are characterized by very different forms, in comparison with the ones devoted to pre-service teacher, which are mostly based on a knowledge transmission which is generic, abstract and decontextualized. The article goes on showing how an in-service assistant teacher training can take into account, throughout a thoughtful narrative approach, some real contextualized everyday experience “in situation”. So that, this Case study may aspire to highlight a helpful way to strengthen and share some critical educational values.
abstract
Alessandro Bortolotti / Università degli Studi di Bologna / alessandro.bortolotti@unibo.it
IV. Altri temi
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Si diventa più forti se si impara a conoscere e ad accettare le proprie forze e le proprie insufficienze Etty Hillesum, Diario 1941-1943
1. Il valore dell’esperienza
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Un noto aforisma attribuito ad Aldous Huxley1 afferma che per un essere umano l’esperienza non consiste tanto in ciò che fa, ma in cosa se ne fa con ciò che gli accade. Anche se può apparire una battuta un po’ ingenua che non sfigurerebbe in una T-shirt, la distinzione tra un “semplice” fare e la relativa ricerca di senso focalizzata su tale attività risulta di importanza cruciale a livello formativo – oltre che esistenziale. Non è per caso, quindi, che le scienze sociali si interrogano in forme rigorose sulla “natura” dell’esperienza. Per esempio Jedlowski (2008) descrive in termini di rapporto ricchissimo di spunti lo iato che si apre tra gli aspetti che egli chiama del dubbio e della abitudine, sottolineando che alla radice dell’esperienza starebbe proprio tale relazione; sintetizzando drasticamente, è l’apertura alla ricerca di senso rispetto alle azioni quotidiane (compresi pensieri, immagini e situazioni cui siamo esposti), a consentire quel contatto con il sé che, se elaborato, orienta l’azione verso il superamento delle abitudini – con l’avvertenza che dall’esperienza non si parte, ma semmai si arriva tramite un processo dove risultano centrali la consapevolezza della situazione e l’ascolto della propria “presenza”. Tuttavia, dal momento che tali concetti possono facilmente risultare vaghi, vale la pena approfondire ciò che rappresenta il nodo cruciale del processo esperienziale, ovvero la capacità di filtrare le informazioni che provengono sia dall’ambiente sia da noi stessi tramite l’“ascolto” in senso lato. Da questo punto di vista, del resto, seguendo Gadamer (1983), Jedlowski (op. cit., p. 126) sottolinea che “nell’idea di ‘esperienza’ vi è sempre una certa duplicità”. Richiamandosi inoltre alla antropologia filosofica di Gehlen (1983), si può dire che il punto di partenza risiede nel definire l’essere umano come non specializzato, aperto al mondo, incompiuto e capace di autoformazione; in questo orizzonte l’esperienza si configurerebbe quindi come un processo che consente di rapportarsi con il proprio ambiente tramite un padroneggiamento di tecniche sia linguistiche sia pratiche che, una volta conquistate, restano a disposizione di un soggetto come di un gruppo, e che possono così essere eventualmente scartate o riutilizzate, esercitate o create. Entra qui prepotentemente in campo un modello di memoria dal valore ipotetico e progettuale e con funzione di guida in vista di tipologie d’azione strettamente 1
Aldous Huxley (1894-1963), scrittore inglese di fantascienza e carismatica figura intellettuale del suo tempo, si interessò approfonditamente alle varie forme di esperienza ivi incluse quelle mistiche, parapsicologiche e perfino psichedeliche prodotte dall’assunzione di sostanze stupefacenti. In particolare il suo testo The Doors of Perception (1954), ebbe forti influenze nella cultura anglosassone; il celeberrimo gruppo musicale statunitense The Doors”, per esempio, si ispirò a lui sia nella scelta del nome della band, sia nei testi.
IV. Altri temi
delimitate al campo del possibile, e generate all’incrocio tra sfera psichica e fisica, tra coscienza di sé e pragmatismo, dove le competenze risultano profondamente incorporate e, nello stesso tempo, pronte ad essere messe alla prova in nuove avventure esperienziali. Rifacendosi anche ad un’impostazione fenomenologica, si può ragionevolmente sostenere che il corpo assuma in questo processo un ruolo assolutamente essenziale (Merleau-Ponty, 2003; Balduzzi, Bortolotti, 2006).
Un’ipotesi euristica a mio avviso decisiva rispetto a questa dimensione è stata avanzata da Antonio Damasio (1995) con la teoria del “marker (evidenziatore) somatico”. Secondo il neurofisiologo americano la capacità di cogliere delle informazioni prelogiche provenienti dal nostro corpo, appoggiandosi a fenomeni emozionali che fanno da “cerniera” tra mondo e soggetto (Plutchik, 1995), consentirebbe di orientare le scelte non tanto su base logica, come il sapere comune ritiene, ma – e qui sta la principale novità apportata dalla teoria – perlopiù in forma intuitiva ed irrazionale. Facciamo un esempio per chiarire ulteriormente il concetto: un soggetto che sta compiendo un’attività impegnativa si accorge che suda abbondantemente, il cuore batte all’impazzata e la vista si annebbia; cogliendo questi indici corporei si spaventa, non se la sente più di proseguire e finisce con il bloccarsi. Al di là della natura del compito, comunque, è stato dimostrato che nel processo decisionale risulta centrale afferrare i “messaggi del corpo” che danno indicazioni fondamentali e, dunque, sono in grado di orientare le scelte (Cavedini, 2006); non a caso, quando si arrischia una scelta ci si esprime con la metafora del “buttarsi”. L’impatto emotivo di fronte ai problemi e la capacità di affrontarli incide dunque in modo determinante sulla crescita affettiva, cognitiva e sociale; da questo punto di vista, come del resto ben definito da molti, non ultimi i poeti2, le difficoltà possono essere definite come una risorsa di grande interesse per lo sviluppo, piuttosto che meri ostacoli. Occorre insomma essere capaci di raccogliere la “sfida” lanciata dalla “sfiga”, per citare lo spirito tanto ironico quanto sottile di Claudio Imprudente (2003). Ben lungi dall’essere esclusivamente individuali, inoltre, tali opportunità formative possono anzi dar luogo a pratiche sociali di apprendimento e ricerca fondate su di un ancoraggio concettuale riconducibile principalmente alla “riflessività” condivisa sulla pratica professionale (Schön, 1993; Fabbri, 2007), centrata in particolare proprio sui processi sottostanti scelte e decisioni. Discutere su quanto accade all’interno del servizio, oltretutto, è proprio ciò che consente di distinguere i percorsi formativi in-service da quelli pre-service; diversamente da quanto accade nei secondi, infatti, i primi si trovano nelle condizioni di poter operare “in vivo” all’interno dei servizi. Le comunità professionali che mettono in comune le proprie pratiche, tramite processi connotati da scambi di informazioni e negoziazioni sintoniche, possono 2
Al proposito cito alcuni passaggi di una poesia anonima trovata casualmente: “Ho chiesto la forza e mi sono state date difficoltà da superare; la sapienza, e mi sono stati dati problemi da risolvere; di volare, e mi sono stati dati ostacoli da superare […] non ho avuto niente di ciò che avevo chiesto, ma ho ottenuto tutto quello di cui avevo bisogno”.
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essere definite virtuose in quanto creano una cultura di cambiamento che avvantaggia l’istituzione; quest’ultima può fare affidamento su di un sapere professionale di notevole spessore, in definitiva, proprio perché basato non solo sulla condivisione di tecniche, ma soprattutto sui valori che stanno alla base di queste. Il caso di ricerca-formazione in-service qui presentato è fondato su queste basi concettuali, le quali sono in grado di offrire una cornice interpretativa coerente con l’impianto trasformativo del processo portato avanti con un gruppo di insegnanti specializzate della scuola media di primo grado3.
2. L’impostazione metodologica del percorso trasformativo
I riferimenti del percorso concordato con il gruppo di lavoro sono stati esplicitati da “punti nodali” che riprendono pienamente quanto appena definito in precedenza, ovvero: • condivisione del percorso tramite illustrazione e riflessione condivisa delle esperienze; • utilizzo di tecniche facilitanti, anche al fine di procedere dalla teoria alla metateoria; • formazione professionale intesa come processo trasformativo.
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Lo sguardo epistemico adottato era ovviamente dipendente dalla cornice interpretativa da un lato, ma dall’altro (ed in forma meno scontata) anche dalla metodologia pratica di lavoro partecipativo che, coerentemente con i propri presupposti, è stato concordato con le insegnanti sulla base delle loro motivazioni, bisogni, disponibilità alla condivisione e così via. Occorre poi riconoscere che l’intero percorso è stato attuato grazie all’intervento fondamentale della referente per il disagio della scuola in cui è stata portata avanti l’iniziativa, la quale ha svolto un ruolo attivo a più livelli: di mediazione tra le parti (docenti, non docenti e dirigenza), organizzativo e metodologico. Ricapitolo i diversi passaggi dell’attività che è stata effettivamente svolta nel corso delle riunioni: 1. Input iniziale dato da una narrazione svolta di volta in volta su di un caso scelto per la sua “significatività” (le insegnanti si sono rivelate pienamente in grado di concordare l’ordine); 2. Momento di riflessione individuale, dove la teoria incontrava il pre-giudizio, guidato da domande facilitanti: cosa mi viene in mente? Cosa trovo di significativo?; 3. Comunicazione al grande gruppo delle riflessioni soggettive, dunque espres-
3
Il percorso è stato svolto presso la scuola Dozza di Bologna nell’A.S. 2010/11 con un gruppo di insegnanti specializzate. Si è trattato del proseguimento di un lavoro di Ricerca-Azione le cui prima fase è descritta nell'articolo Insegnanti di sostegno in cerca di identità (Bortolotti, 2011). Aggiungo che, avendone fatto parte per svariati anni, conosco tale categoria professionale “dall’interno”.
IV. Altri temi
sione della propria “visione del mondo”, per l’avvio di una condivisione intersoggettiva; 4. Individuazione di connessioni sulle riflessioni mediante discussione in piccoli gruppi formati in base alla comunanza di interessi, al fine di approfondire la visione intersoggettiva; 5. Comunicazione delle riflessioni dei lavori di piccolo e grande gruppo in vista di una sintesi finale, dove l’analisi si sarebbe indirizzata infine verso il piano della metateoria.
Per l’elaborazione di questo piano di lavoro è risultato senz’altro di grande aiuto, oltre alla conoscenza pregressa dei soggetti partecipanti, anche quella di tecniche e metodi attivi non distanti da un approccio ludico4. Riferimenti utili a livello di tecniche congruenti all’architettura di percorsi simili, sono individuabili anche all’interno di opere con approccio autobiografico5. Al fine di facilitare la comprensione dell’intero percorso, ritengo indispensabile passare in rassegna una sintesi che ne riporti le fasi salienti.
3. Analisi trasformativa della pratica educativa
Anche se solo per sommi capi, vale certamente la pena riprendere il percorso svolto dal gruppo di lavoro composto da una decina di insegnanti specializzate che, nel corso di una serie di incontri, ha presentato ed analizzato alcuni casi altamente problematici di alunni certificati, e che si è concluso con una riunione finale focalizzata sulla rielaborazione metateorica dell’intero percorso. Ripercorrendo il cammino metodologico adottato presento a mo’ di “caso esemplare” (o Case Study; Stake, 1995) uno degli input iniziali e la relativa analisi, quindi la successiva discussione di livello intermedio, per concludere commentando lo schema nel quale il gruppo ha sintetizzato l’intero persorso. Iniziamo dal riassunto del racconto di Antonella su D (vedi riquadro n. 1), bambino proveniente dal Marocco che frequentava la classe prima della scuola media inferiore dell’istituto.
4
5
La scelta di utilizzare lo strumento del gioco in ambito formativo trova ampie giustificazioni in letteratura, alla quale rimando per evitare qui eccessivi appesantimenti, mi limito dunque a segnalare nei riferimenti bibliografici alcune opere fondamentali. Sul valore prettamente culturale dell’esperienza ludica si veda: Caillois (1981), Geertz (1987), Huizinga J. (1946), Winnicott (1990); rispetto alle tecniche formative reputo opere interessanti quelle di: Di Pietro (2003), Marcato et alii (1996), Staccioli (2010); una menzione speciale sul valore del gioco come dispositivo di integrazione va a Zoletto (2010). Per ulteriori approfondimenti sul dispositivo formativo ludico consiglio di scorrere l’iniziativa denominata LUDEA, acronimo di Libera Università Dell’Educazione Attiva, nel sito dei CEMEA: www.cemea.it/index.php/ludea Al proposito consiglio la lettura del testo di Formenti e Gamelli (1998), di cui segnalo in particolare la sezione “Strumenti”.
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Riquadro n. 1: Antonella racconta la storia di D
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D è un bambino d’origine marocchina nato in Italia. Il livello cognitivo è più che buono ma è “anarchico”, con problemi di socializzazione e comportamento “ipercinetico”. Non c’è verso di farlo stare seduto: scappa, picchia, ricatta, è stato al centro di episodi di estorsione, ha appiccato fuoco in bagno. Paga la sua origine familiare: sembra che il fratello sia in carcere, il padre non si sa più che fine abbia fatto e, rimasta sola, la madre non appare adeguata – ora si abbiglia in modo succinto, totalmente opposto all’originario stile musulmano. Probabilmente D ha subìto violenze in famiglia e non riesce a “canalizzare” la sua carica, è insicuro ma cerca di mascherarsi e fa il bullo; se istigato va su tutte le furie. I momenti più problematici sono quelli informali, non strutturati. Quando non riesce si sente inferiore e si limita; nel salto della cavallina ha evidenziato un vero e proprio blocco di origine psicomotoria. Nel complesso i compagni sono comprensivi e pazienti, ma non tutti, parliamo spesso con loro su come poterlo aiutare; poi risulta un leader per un gruppo di bulletti, mentre l’altro bimbo certificato della classe (che seguo io) lo ritiene il suo migliore amico. Coi vari proff. la situazione varia: di solito cercano di fare “terra bruciata” per isolarlo, con alcuni “funziona”, con altri è un disastro, si fatica nei laboratori dove si scatenano i conflitti. Quando invece c’è una prof. calma che riesce a comunicare questo suo stato con competenza a tutti, anche lui si controlla. A volte invece esaspera gli adulti che alzano la voce, e così succede il peggio. La sua referente sarebbe l’altra prof di sostegno della classe, ma con lei è un continuo scontro. Ci sono sempre problemi nuovi, ma riflettendo sulle pratiche si può imparare dagli errori; però l’altra collega non lo fa, inoltre ora è a casa in maternità. Siccome io sono presente a scuola solo in alcuni giorni, quando rientro tutti mi aggiornano “dal fronte”, ma alla fine non mi raccapezzo più neanch’io e ora non so più chi seguo!
L’analisi successiva alla narrazione di questo caso che, come facilmente intuibile, si presentava come uno dei più “spinosi” dell’intero istituto, è stata svolta attraverso una rielaborazione condivisa che ha portato alla luce elementi critici a livello sia familiare, sia istituzionale. Innanzitutto ogni partecipante ha individuato tre aspetti significativi della storia sulla base di criteri personali, che ha poi presentato individualmente all’intero gruppo spiegando i motivi che l’avevano portata a scegliere le proprie “parole chiave”. In seguito ci si è divisi in due sottogruppi, al fine di risistemare i termini in modo da dare loro un nuovo senso di portata intersoggettiva. In genere, e questo caso non ha fatto eccezione, l’analisi sviluppata successivamente alla presentazione delle “parole chiave” si è focalizzata attorno a due punti di vista differenziati ma complementari: uno più centrato sui bisogni e le caratteristiche dell’alunno, l’altro invece legato al vissuto degli adulti. Da notare, a tale proposito, che di solito si ritrovavano a ragionare dal punto di vista degli alunni e alunne le insegnanti che li conoscevano personalmente, probabilmente in quanto la conoscenza diretta le predisponeva ad entrare empaticamente nei panni del soggetto preso in esame, il che ha fornito dei contributi estremamente validi per l’analisi della situazione. IV. Altri temi
Nella plenaria finale il gruppo tendeva quindi a collegare dialetticamente le visioni dell’adulto e del soggetto in formazione e, tramite un ulteriore passaggio stimolato dallo slogan “guardarsi dentro ma anche intorno” (Musi, 2010, p. 116), si tendeva ad alzare lo sguardo al fine d’illuminare gli elementi di una luce nuova, soprattutto in vista di una riorganizzazione più sensata e funzionale rispetto a quanto l’istituzione fosse riuscita a realizzare fino a quel momento. Nel caso appena analizzato, ad esempio, dal punto di vista dell’alunno è stata sottolineata la condizione di fragilità e isolamento tipico degli emigranti di seconda generazione (Caldin, 2012), il disperato bisogno d’affetto e stabilità, la maschera che era costretto ad indossare per difendersi e, ultimo ma non meno importante, la comprensibilità delle sue manifestazioni di rabbia. Per quanto concerne lo sguardo adulto, invece, è stato dato un giudizio impietoso verso il corpo insegnante, non del tutto adeguato a causa della scarsa cura nella continuità dei rapporti sia con le prof. di sostegno (e la conseguente confusione di ruoli), sia con i compagni. Facendo slittare le riflessioni su di un piano organizzativo, in questo specifico caso le responsabilità hanno chiamato in causa istituzione scolastica e servizi sociali; anche ad occhi poco esperti di questioni socio-educative, del resto, non potevano sfuggire le carenze dei servizi: oltre al disagio e alla disorganizzazione del consiglio di classe si era riscontrata la sostanziale assenza dei servizi sociali, nonostante le evidenti difficoltà economiche e socio-familiari. Per sintetizzare quanto visto fin qui, in generale si può dire che di fronte a segnali di disagio spesso dovuti a famiglie poco adeguate, situazione da mettere in conto nel caso di alunni certificati, appaiono purtroppo tutta una serie di difficoltà formative e istituzionali; il prendere coscienza delle fragilità professionali e dell’istituzione a livello di gruppo di lavoro, tuttavia, era il primo ma fondamentale passo per cercare di migliorare la situazione in un’ottica trasformativa.
4. Organizzare l’inclusione
L’analisi funzionale di un’organizzazione e l’approccio epistemologico di tipo narrativo potrebbero apparire, ad uno sguardo superficiale, due piani distanti e separati da un vuoto pressoché incolmabile; seguendo invece un taglio inclusivo non solo a livello contenutistico, bensì anche del processo di analisi della “realtà”, è facilmente dimostrabile esattamente l’opposto, come abbiamo appena potuto notare nelle conclusioni seguite al caso precedentemente riportato. La metodologia di lavoro basata su di un taglio induttivo (approccio definibile come grounded, ovvero agganciato a delle evidenze; Tarozzi, 2008), non si è dunque limitata ad evidenziare gli aspetti salienti delle “storie di vita professionale” delle insegnanti, ma si è rivelata estremamente efficace nell’individuazione di connessioni molto più ampie. Attraverso la riflessione condivisa si sono elaborate delle “categorie intermedie” che a loro volta hanno indicato ulteriori dimensioni a loro sottostanti le quali, per concludere, sono state riassunte in uno schema di sintesi finale; quest’ultimo, elaborato collettivamente a partire dal contesto specifico, ha tuttavia fornito una sorta di “metamodello” che credo sia possibile considerare come dotato di un discreto livello di astrazione. anno II | n. 1 | 2014
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L’aspetto saliente di tale prototipo risiede probabilmente nella sua ambivalenza: da un lato esso appare un prodotto originale, e del resto non avrebbe potuto che essere così, dato che si sviluppa dall’analisi di storie specifiche e contestualizzate; ma dall’altro lato non può sfuggire il carattere di universalità delle dimensioni individuate. Mi pare di poter asserire che le caratteristiche del metamodello risultino decisamente coerenti con la definizione di mediazione didattica data da Moliterni (2007), tenendo presente in particolare sia l’articolazione delle competenze professionali relative all’apprendimento, alle situazioni extra-aula e al senso della professione, sia il principio ecologico secondo cui il senso dell’intervento educativo viene strategicamente delineato in funzione dell’organizzazione scolastica nel suo complesso. L’incontro finale nel quale è stato definito tale quadro conclusivo è risultato assai denso, anche perché non si sono solo ridefiniti in una nuova costellazione gli elementi scaturiti durante gli incontri antecedenti, ma anche in quanto è stato preso in considerazione il significato del “fare sostegno” (per riprendere il termine utilizzato dalle insegnanti stesse). Su quest’ultimo aspetto si è sottolineata la carenza nella condivisione del lavoro didattico e della programmazione, soprattutto a causa dell’eccessiva dipendenza dal team delle insegnanti di classe – sebbene vada segnalata una notevole differenza tra primarie e medie, queste ultime molto più a disagio verso le problematiche degli alunni in difficoltà a causa di una somma di fattori quali la maggior frammentazione degli interventi, la minor disposizione a condividere il percorso e a innovare le pratiche. In ogni caso siamo ben distanti da una “presa in carico diffusa”, il che costituisce un elemento limitante al “sostegno” di soggetti con bisogni speciali. La stessa problematica si riscontra anche nei confronti degli educatori. Tutto ciò ha delle ricadute riscontrabili, ad esempio, nella sensazione di un certo disagio verso le colleghe di classe, con il corollario di scarsa attenzione a scambiare esperienze o nella dimensione corporea della cura, questioni su cui si parla ancora davvero troppo poco (Dettori, 2009). Per contrastare le varie problematiche occorrerebbe intervenire in modo massiccio su due questioni individuate come fondamentalmente negative: la prima consiste nella “logica dell’emergenza” che pare stia attanagliando da tempo il fare scuola; l’altra riguarda la formazione personale, che andrebbe riportata a motivazioni e consapevolezze forti, al fine di dare risposte a richieste e bisogni contestuali. Anche se non sfugge il riferimento autoreferenziale, si tratta pur sempre di un’indicazione confortante rispetto al tipo di percorso svolto. Venendo al quadro d’insieme elaborato durante il percorso di ricercaformazione, che intendeva sintetizzare il contesto preso in considerazione al fine di fungere da guida per l’analisi e il conseguante intervento lungo dimensioni individuate come pertinenti e fondamentali per la loro pregnanza inclusiva, notiamo che ha definito le seguenti categorie: – – – – –
vissuti personali; bisogni; relazioni; equilibri organizzativi; valutazione interventi.
IV. Altri temi
La seguente tabella convoglia dunque l’attenzione sia nei confronti dei diversi piani d’analisi, sia dei riferimenti sottostanti da cui queste scaturiscono, nonché verso le loro declinazioni in positivo come in negativo. DIMENSIONI D IME EN NSIONI PRINCIPALI P RI RIN NC CIIPAL A I
RIFERIMENTI RIFERIMENTI (aspetti (aspetti sottostanti) sottostanti)
POSITIVITA’ POSITIVITA’
N NEGATIVITA’ EGATIVITA’
VISSUTO VI ISSUTO PERSONALE P ERSONALE
S Storia toria pe personale rsonale Corporeità Corpore ità (soprattutto negli (s oprattutto ne gli aadolescenti) dolescenti)
A Ascolto scolto Empatia E mpatia G Gratificazione ratificazione Autostima A utostima
Solitudine S olitudine Ricerca aattenzioni Ricerca ttenzioni Insicurezza Insicurezza eemotiva motiva Inautenticità Inautenticità
BISOGNI BI ISOGNI
N Necessità, ecessità, urgenza urgenza
Stabilità S tabilità Dare D are aattenzioni ttenzioni
Instabilità Instabilità Disagio Disagio
RELAZIONI REL LAZ ZIONI
Be Benessere nessere (fondamentale (fon damentale nel nel te team am d docente) ocente)
Compartecipazione Complicità nffllitttualità Com partecipazione Com plicità Conflittualità Conf Autoreferenzialità Autoreferenzialità
STAT STATI TI D DII EQUILIBRIO EQ UILIB BRIIO TRA T RA R L LE EP PART PARTI ART TI
Organizzazione Organizzazione tteam organizzazione nizzazione eam Buona orga ffaamiglie e S Strumenti trrumenti eefficaci fficaci iinsegnanti, nsegnanti, famiglie Risorse Ri sorse sservizi ervizi
D isorganizzazione Disorganizzazione S Strumenti trumenti inefficaci inefficaci Carenza risorse Ca renza ri sorse
VAL VALUTAZIONE UTAZ ZIO IONE IINTERVENTI NTERVENTI NEL N EL TEMPO TEM T EM MPO
L Longlife onglife llearning earning
Discontinuità Discontinuità proge progettuale ttuale e professionale proffessionale
Cont Continuità inuità proge progettuale ttuale e di ffigure igure professionali offeessionali prof
Tabella sinottica per la definizione dei processi di inclusione scolastica
Quanto tale “intelaiatura” possa risultare affidabile, pratica ed efficace, si potrà valutare da un lato sulla base della sua capacità di rispecchiare la complessità del contesto che pretende di riflettere, dall’altro nella funzionalità di tipo strumentale innanzitutto sul piano osservativo e, per concludere, su quello della progettazione educativa. In ogni caso non si può non sottolineare quanto il quadro qui presentato sia gravido di elementi organizzativi e stimolante il lato gestionale, confermando che l’analisi induttiva effettuata da parte di insegnanti esperti su diversi piani, in particolare del vissuto, dei bisogni e delle relazioni, risulti in grado di esprimere giudizi estremamente utili anche dal punto di vista della pianificazione pedagogica nel suo complesso; al proposito, credo che non possa dimenticare che non c’è nulla di più pratico di una buona teoria6. Mi permetto di aggiungere che, sebbene “in filigrana”, la tabella suggerisce che un intervento educativo virtuoso dev’essere basato su di una struttura sistemica dalla quale nessuno può chiamarsi fuori; per fare solo alcuni esempi: la disorganizzazione e la discontinuità non sono certo attributi riscontrati solo nelle famiglie, esse caratterizzano anche le istituzioni (servizi sociali, scuole e loro articolazioni); ancora: così come la storia personale influisce nella situazione del bambino con disabilità, ciò avviene anche per l’insegnante, elemento di cui si deve tener conto nel momento in cui certi “casi” provocano instabilità psicologica nell’adulto, questione tutt’altro che trascurabile e che richiama ancora 6
Tale citazione è attribuita a Kurt Lewin (1890-1947), pioniere della psicologia sociale il quale, utilizzando il meccanismo sociale del feed-back, ha messo a punto metodi d’indagine come la Ricerca-Azione, cui percorsi come quello qui presentato risultano largamente debitori.
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una volta l’aforisma di Etty Hillesum, secondo cui per essere adeguati al contesto e al compito occorre riconoscere le proprie forze e, soprattutto, fragilità personali. Concludo con alcune brevi riflessioni relative al piano scientifico di un tale lavoro: la letteratura concorda nell’indicare il piano formativo come elemento centrale per l’educazione inclusiva, lavorando soprattutto a livello metacognitivo (Pavone, Zucchi, 2007); da questo punto di vista le comunità di pratiche professionali sono in grado di indicare direzioni di ricerca di altissimo valore (Fabbri, op. cit., p. 113), un principio applicabile ai contesti più vari, utilizzando la logica idealtipica del sistema formativo integrato (Branconi et alii, 2011). Andrea Canevaro (2013, p. 129) parla di necessità di far incontrare le ricerche e le pratiche in modo da accogliere le sfide che la disabilità lancia continuamente. L’orizzonte epistemico all’interno del quale è maturato il presente lavoro, in definitiva, fa propria la concezione della comunità di cura come ambiente che vede intrecciarsi aspetti diversi: professionali e personali, di pratica e ricerca (Fiorin, 2007, p. 149); riconosce all’educatore il ruolo di ricercatore (Demetrio, 1999; Parola et alii, 2007), sottolineandone la dimensione di nodo della rete, o network, che si mette in relazione per condividere un progetto intersoggettivamente fondato (Iori et alii, 2010). Tale approccio ha consentito alle insegnanti delle scuole medie, ad esempio, di ri-conoscere l’importanza fondamentale dell’intervento di maternage, giocato sull’applicazione di regole e di contenimento fisico (che smuove fortemente il vissuto emozionale) effettuato da parte delle colleghe delle primarie e che in definitiva ha portato ad un senso di gratitudine per quanto viene fatto a monte, un elemento non di poco conto nella percezione del “lavoro di squadra”.
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IV. Altri temi
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Ri-conciliazione. Dalle ferite all’abbraccio. L’esperienza di Little Eden in Sudafrica
Key words: Intellectual disability, Action research, Process observation, Educational practice, Personalization.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The paper would like to show the outcomes of a research held by the Department of Human and Social Science of University of Bergamo, in collaboration with Domitilla Rota Hyams ONLUS. The project aims, first, to chart the South African institution that the ONLUS supports, called Little Eden Society for the Care of Persons with Mental Handicap (established in 1967), in terms of its history and organization. Secondary, thanks to an abroad stay, the research focuses on the care and educational practices acted in Little Eden to face intellectual disability. These two perspectives give the opportunity to reflect on the theoretical pedagogical background (explicit and implicit) that moves those educational practices, in relation with the social, cultural and political context of “new” South Africa post apartheid.
abstract
Mabel Giraldo / Università degli Studi di Bergamo / mabel.giraldo@unibg.it - mabelg85@gmail.com
IV. Altri temi
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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Introduzione
9 maggio 1994: nasce il nuovo Sudafrica democratico di Nelson Mandela. Vent’anni fa, infatti, con la sconfitta dell’apartheid e le prime elezioni libere a suffragio universale, il Sudafrica si preparava a vivere una nuova fase della sua storia politica, sociale e culturale che ha avuto come Leitmotiv il principio della riunificazione di ciò che prima era stato diviso: riunificazione del popolo sudafricano, riunificazione del tessuto sociale, della struttura urbana, delle forze armate, dell’istruzione e della sanità, ma in primo luogo riunificazione del territorio nazionale. Si trattava di costruire la nazione arcobaleno, secondo la suggestiva metafora coniata dall’arcivescovo Desmond Tutu (Federico, 2009, p. 61).
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Questa trasformazione politico-istituzionale ha comportato un cambiamento dell’assetto sociale del Paese, anche se, nonostante i numerosi e non indifferenti progressi, il governo sudafricano non è sempre stato in grado di tenere il passo delle crescenti esigenze degli strati più poveri della popolazione, assicurando servizi sociali di base per tutti. Infatti, sebbene gli scopi principali del sistema educativo nazionale del Sudafrica consistano sia nell’estensione dell’accesso ai canali di istruzione a neri, coloured1, indiani e a tutte le persone che appartengono a classi sociali più emarginate, creando all’interno delle stesse istituzioni un ambiente scolastico e sociale non discriminatorio finalizzato a un generale miglioramento della qualità dell’educazione, il cammino da compiere è ancora molto lungo e complesso. Per supplire a queste mancanze statali, sul finire degli anni Ottanta, in concomitanza con la caduta del regime di apartheid e la rinnovata disponibilità di finanziamenti elargiti da organizzazioni internazionali, governi stranieri e numerose iniziative di filantropia di varia natura, il cosiddetto “terzo settore” in Sudafrica ha conosciuto un’espansione davvero eccezionale2. Uno sviluppo che, accanto al processo di democratizzazione, si è protratto nel corso degli anni Novanta, portando oggi il Sudafrica ad avere all’incirca 100.000 Organizzazioni nonprofit (NPO) e un numero stimato di oltre 50.000 ONG non registrate. Fra queste, vi è Little Eden Society for the Care of Persons with Mental
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Il termine dispregiativo coloured sta ad indicare tutte quelle persone “di colore”, come cinesi o mulatti, che abitavano sul territorio sudafricano. Per un maggiore approfondimento, tra le principali leggi razziali si ricordano il Black Land Act (1913) che proibiva l’acquisto da parte dei neri di terreni al di fuori di determinate aree, il Native Labour Regulation Act (1911), la Colour Bar (1911), il Natives Urban Areas Act (1923), il Prohibition of Mixed Marriages Act (1949), il Population Registration Act (1950), Immorality Act (1950), il Group Areas Act (1950), il Suppression of Communism Act (1950), il Separate Amenities Act (1953), il Bantu Education Act (1953), il Public Safety Act (1953), il Terrorism Act (1967). Inoltre, il diritto di voto della popolazione nera venne definitivamente abolito nel 1936. Con le elezioni del maggio 1948 e la vittoria del National Party guidato da D. F. Malan alleato con l’Afrikaner Party di N. C. Havenga, ebbe ufficialmente inizio la vera e propria politica discriminatoria dell’apartheid con cui questi due partiti esercitarono un controllo totale sulla vita di tutte le persone non bianche in Sudafrica. Al riguardo, cfr. Habib, Taylor (1999).
IV. Altri temi
Handicap, un’organizzazione non-profit fondata nel 1967 da Domitilla Rota Hyams, un’allora giovane donna della valle bergamasca. Little Eden è oggi strutturata come una casa permanente per persone con disabilità intellettive profonde che ha come missione principale la cura, lo sviluppo e l’incremento della qualità della vita, con amore e comprensione da parte di uno staff dedicato, di persone con disabilità intellettiva di tutte le razze e confessioni religiose […], provvedendo loro […] in cooperazione con i genitori, la comunità e lo Stato i necessari servizi di assistenza infermieristica, di terapia e di stimolazione nella più efficiente e conveniente maniera possibile3.
Dalle prime quattro bambine accolte dalla donna, Little Eden ha compiuto un lungo cammino, sviluppandosi e arrivando oggi ad accogliere ben 300 persone tra bambini, adolescenti e adulti, suddivisi nei due centri, il Domitilla and Danny Hyams Home (DDHH) a Edenvale, alle porte di Johannesburg, e l’Elvira Rota Village (ERV) a Bapsfontein, sulla strada che da Johannesburg porta a Pretoria. Dalla volontà di documentare e osservare da vicino l’opera a cui questa Domitilla, con il costante aiuto del marito – Daniel Hyams – e delle figlie – Mary, Elizabeth, Veronica, Lucy e Agnese – ha dedicato tutta la sua vita superando gli ostacoli e le difficoltà di un paese abituato a emarginare gli emarginati, è sorto il desiderio di raccontare la storia di questa «struttura di accoglienza dove una vera e propria famiglia apre le porte ad ogni ospite come a un nuovo figlio» (Taiocchi, 2012, p. 16). Il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università degli Studi di Bergamo con la collaborazione dell’Associazione Domitilla Rota Hyams ONLUS – che dal 2012 si occupa, nella provincia orobica, di promuovere le attività di Little Eden attraverso raccolte fondi e incoraggiando programmi di volontariato internazionale – hanno così dato vita a un progetto di ricerca azione collocato dai corsi di studi tra i Tirocini di Eccellenza (in accordo con gli ultimi Decreti legislativi nazionali e regionali in materia di tirocini curricolari, marzo 2013). La ricerca, con la supervisione scientifica del Prof. Giuseppe Bertagna, ha visto il coinvolgimento di due studentesse – Nicole Gatti del Corso di Studi di Scienze dell’Educazione e Silvia Zanotti di Scienze Pedagogiche –, un dottorando – Dott. Francesco Magni , una dottoranda e tutor responsabile della ricerca, Dott.ssa Mabel Giraldo. In questo lavoro, la si illustrerà, partendo dalle finalità e dalle relative metodologie che ha adottato, per concludere con alcune considerazioni pedagogiche di tipo critico-generale.
1. La ricerca: finalità e metodologia
La ricerca Ri-conciliazione. Dalle ferite all’abbraccio. L’esperienza di Little Eden in Sudafrica, che si è svolta da ottobre 2013 ad aprile 2014 e ha visto un periodo di permanenza all’estero presso Little Eden Society nel gennaio 2014, si poneva 3
Little Eden Annual Report 2013. Disponibile online: http://www.littleeden.org.za/images/Annual%20Report_2013.pdf
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come suo scopo principale l’analisi delle due realtà sudafricane, il Domitilla and Danny Hyams Home (DDHH) e l’Elvira Rota Village (ERV), in relazione a tre prospettive di indagine, in base alle quali sono stati scelti le metodologie di lavoro e i relativi strumenti di studio. La prima prospettiva di indagine, prevalentemente descrittivo-sociologica, consisteva nel mappare i due istituti di Little Eden tracciandone una radiografia dal punto di vista sia strutturale-organizzativo sia della tipologia di servizi offerti al territorio sudafricano, facendo attenzione alla loro autoctona contestualizzazione culturale e giuridica. Per questo, sono state effettuate interviste e ricerche d’archivio attraverso le quali si sono raccolte le testimonianze di coloro che abitano o lavorano presso Little Eden e i dati organizzativo-amministrativi ed economico-giuridici che hanno permesso alla stessa struttura di affermarsi in Sudafrica come una delle più accreditate ONG del paese. La seconda prospettiva, di natura storico-organizzativa, invece, si è focalizzata principalmente sull’osservazione delle strategie educative, assistenziali e terapeutiche con le quali Little Eden accoglie e tutela sul territorio persone con disabilità intellettiva medio-grave. Anche a tale livello di analisi, come nel precedente, ci si è avvalsi dello strumento dell’osservazione di processo (dalla presa in carico della persona in avanti, fino all’eventuale sua reintroduzione nella vita socio-famigliare) attraverso opportune griglie che andavano a evidenziare le principali categorie pedagogiche con le quali leggere e rintracciare metodologie, strumenti, attività e paradigmi che muovono ogni giorno il lavoro di più di 200 persone. Per “dare ragione” di quanto ipotizzato attraverso l’osservazione, si è deciso di compiere, al contempo, anche tre studi di caso su tre persone che, da diversi anni e per differenti ragioni, vengono ospitate da Little Eden, muovendo dallo studio delle cartelle mediche e neuropsichiatriche per giungere a una più ampia riflessione pedagogica sul progetto educativo che è stato costruito per e con loro. Infine, la terza prospettiva è stata critico-progettuale. Essa ha visto la comparazione delle pratiche educative e terapeutiche rilevate alla luce della letteratura dedicata, mediante adeguate ispezioni internazionali e nazionali, per individuare analogie e differenze e per mettere in evidenza possibili modalità innovative da adottare da parte dell’istituzione per sviluppare al meglio se stessa e concretizzare le proprie finalità. Le tre differenti prospettive sono state elaborate in tre step: un primo periodo, compreso tra ottobre e dicembre 2013, che è servito al gruppo di ricerca per concordare non solo i diversi momenti di indagine e i relativi strumenti, ma anche una prima bibliografia di riferimento con la quale si sarebbe riletta l’esperienza presso Little Eden; il secondo, e decisivo, momento, da gennaio all’inizio di febbraio 2014, è stato quello della ricerca sul campo, della raccolta dei dati e dei documenti grazie alla permanenza del team di ricerca presso l’istituzione sudafricana che ha permesso un quotidiano confronto esperienziale e teorico sulle dinamiche osservate e sui materiali raccolti; infine, una volta tornati in Italia, tra febbraio e aprile 2014, non solo si sono discussi i materiali raccolti, ma anche, come richiesto dalla stessa Associazione, si è proceduto alla scrittura di un réport divulgativo – in corso di pubblicazione – che possa rappresentare, anche a livello internazionale, la realtà costituita in Sudafrica da Little Eden.
IV. Altri temi
2. Discussione dei risultati e analisi pedagogica
Considerata la tipologia del progetto, la natura dei dati e dei materiali indagati è stata duplice: da una parte, il lavoro di archivio e di raccolta delle testimonianze dei principali protagonisti di Little Eden, di ieri e di oggi, ha portato alla ricostruzione della sua storia e della sua organizzazione così come si è articolata nei suoi 47 anni di vita; dall’altra, l’osservazione delle attività, delle strategie e dei processi messi in campo dai professionisti che prestano il loro servizio all’istituzione ha permesso di restituire una mappatura delle pratiche educative agite in entrambi gli istituti, le quali, a loro volta, hanno offerto lo spunto per un’attenta riflessione pedagogica non solo della modalità attraverso le quali si articola il care e l’educazione a Edenvale e a Bapsfontein, ma soprattutto dell’intenzionalità pedagogica – implicita o esplicita – che muove quelle stesse pratiche. Sebbene i due momenti della ricerca non siano pensabili separatamente, in quanto, come si è potuto constare durante la stessa fase di analisi, le informazioni e i materiali raccolti andavano l’uno a completare il quadro fornito dall’altro, e viceversa, in uno scambio continuo, dato l’intento del presente lavoro, si procederà con una breve panoramica delle informazioni storico-organizzative raccolte, e ci si focalizzerà maggiormente sulle prospettive pedagogiche, esplicite e implicite, che si celano dietro a quella costante attenzione a ogni singolo bambino, adolescente o adulto che caratterizza le buone pratiche educative di Little Eden. Domitilla e Daniele Hyams, che si sono conosciuti tra le valli bergamasche nella seconda Guerra Mondiale, sono i due fondatori del Piccolo Paradiso sudafricano. Iniziarono l’avventura quando, durante uno dei gruppi di preghiera a cui la donna era solita recarsi, conobbe la madre di un bambino con disabilità, ne avvertì la sofferenza e la difficoltà di dover continuamente prendersi cura del figlio, trascurando gli altri due che aveva e il marito. Da quel momento, Domitilla decise che avrebbe aiutato quella madre di famiglia, e con lei molte altre. Le difficoltà non sono certo mancate a causa di un diffuso pregiudizio contro gli italiani migrati in Sudafrica – tanto che lei stessa era chiamata l’“italiana pazza” –, ma soprattutto per il contesto sociale e culturale determinato dalle politiche razziali legittimate a livello governativo da una serie di norme contro neri, indiani e coloured, bersagli privilegiati del regime di apartheid. Dai primi 10 Rand donati da Daniele alla moglie, Litte Eden, passo dopo passo, ha dato vita a due istituti che oggi accolgono, assistono ed educano 300 persone con disabilità intellettive gravi, la cui età biologica va dai 3 anni, per il più giovane, ai 63 per il più anziano. Disabilità causate spesso non solo da componenti genetiche, ma soprattutto da violenze, malnutrizione e abbandoni e alle quali spesso si accompagnano compromissioni fisiche o condizioni di salute aggravate da AIDS o da altre patologie, come psicosi o macro e microcefalie. In alcuni casi, anche un sorriso è una conquista. Certamente, l’opera di Domitilla e di tutta la sua famiglia non sarebbe stata possibile senza una rete di donazioni da parte di enti e autorità internazionali e locali che l’hanno supportata con stima, senza la capacità di rinnovarsi nel tempo dal punto di vista organizzativo ed amministrativo, senza la tenacia di non arrendersi di fronte alle storie di vita estrema che i bambini a lei affidati hanno vissuto sulla loro pelle, senza il coraggio di avere sempre lo sguardo rivolto al futuro. Animata da tre valori fondamentali – rispetto, sacralità della vita e amore –, anno II | n. 1 | 2014
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Little Eden non solo offre una costante assistenza medica mediante la presenza, a turnazione, di un’infermiera 24 ore su 24, ma soprattutto, guardando all’unicità e all’integralità della persona, persegue l’obiettivo di garantire a ciascun bambino, adolescente o adulto il massimo sviluppo possibile delle sue capacità personali mediante una ricca rete di attività – che vanno dall’idroterapia all’occupational therapy, dalla fisioterapia alla musicoterapia e alle quali partecipano, non estemporaneamente, ma costantemente e attivamente tutti – e il coinvolgimento di molte figure professionali. Nel Domitilla and Danny Hyams Home (DDHH) i 180 residenti – la cui età mentale media è di circa sei mesi – hanno disabilità intellettive profonde di natura differente alla quale spesso si uniscono malformazioni fisiche o patologie psicologiche. All’Elvira Rota Village (ERV), invece, troviamo, invece, 120 persone con un maggior grado di autonomia o disabilità cognitive meno importanti per le quali è stata costruita una vera e propria farm – 43 ettari di terreno – nella quale residenti giovani e adulti sono attivamente coinvolti nelle mansioni giornaliere: nella raccolta delle noci pecan4 destinata alla vendita per la raccolta di fondi a sostegno dell’opera di Little Eden, nell’accudimento e nutrimento di mucche, pecore, capre e galline, in cucina e nella lavanderia. Come racconta Peter Rohrbeck, marito dell’ultima figlia Agnese e ad oggi Facility Manager all’ERV, ogni giorno lavorativo i ragazzi di turno vengono preparati dagli assistenti con la tuta da lavoro, gli stivali in gomma e gli attrezzi e insieme si muovono verso le stalle. Chi può, trasporta la carriola con il fieno; poi c’è chi pulisce la stalla delle pecore, chi quella dei maiali, chi ancora quella delle mucche. Tutti i ragazzi si sentono responsabilizzati con queste mansioni. Anche solo aprendo il cancello di entrata con il piede. Nessuno è inutile a Little Eden. Ovviamente non tutti i giorni i ragazzi sono ben disposti a lavorare. Nei momenti di crisi acuta alcuni di loro non chiudono occhio per diverse notti e spesso non fanno dormire neanche i compagni di stanza e allora, il giorno dopo, non sono nelle condizioni di lavorare. C’è però un sistema di incentivazione molto efficace: nel pay-day, che è il giovedì, (i ragazzi prendono una piccola ricompensa per i servizi resi) chi si è impegnato intensamente per tutta la settimana riceve, oltre allo stipendio normale costituito da patatine, caramelle o da una bibita zuccherata, il buono per una visita al negozio di seconda mano di Edenvale per ottenere in regalo qualcosa di speciale. Molti dei ragazzi aspettano con impazienza il giovedì, che per loro è un grande giorno. […] Una macchina automatica sarebbe certamente molto più veloce, ma qui a Little Eden l’obiettivo è un altro. Questi ragazzi, coinvolti nella gestione dei lavori della loro casa,
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Il Pecan (Carya illinoensis) appartiene alla famiglia delle Juglandaceae ed è originaria della zona al confine tra Messico e Stati Uniti. È coltivata soprattutto nel sud degli Stati Uniti, in Brasile, Australia e Israele. Produce frutti con guscio liscio e sottile, di dimensioni variabili in relazione alla varietà, con gheriglio di sapore gradevole. Nei 43 ettari dell’Elvira Rota Village vi è un intero frutteto e la decisione della coltivazione di queste particolari noci non è avvenuta a caso: il loro guscio “infrangibile” alla presa manuale consente a tutti i residenti di partecipare, a seconda delle loro capacità, alla raccolta dei frutti e sentirsi parte integrante della comunità contribuendo, seppur a livelli diversi, alla sostenibilità della loro casa, perché le noci pecan una volta raccolte vengono impacchettate, etichettate e vendute al pubblico. In base alle proprie capacità, ciascun residente prende parte a una di queste fasi della produzione.
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hanno la consapevolezza di essere persone valide e importanti (Taiocchi, 2004, pp. 65-66).
Fondamentale, quindi, il senso di competenza che, mediante le diverse attività, si riesce a sviluppare, non generando nella persona frustrazione, ma positività e senso di appartenenza. Tenendo conto delle opportune differenze, anche nella DDHH la costante stimolazione che avviene mediante l’utilizzo di dispositivi come i suoni, il canto, i giochi, o materiali di diversa natura, è finalizzata a sviluppare e rafforzare la coordinazione motoria (anche fine) dei residenti, facilitare cambiamenti positivi nel comportamento per il loro benessere e favorire la comunicazione verbale e non verbale. I residenti vengono incoraggiati e supportati a utilizzare mani e piedi, manipolare e toccare con le dita piccoli o grandi oggetti a seconda delle loro capacità, ad usare sia alcuni strumenti musicali come le percussioni sia la loro voce per esprimersi e, altre volte, per dipingere. Lo staff in questo delicato momento riveste un ruolo attivo essenziale perché instaura una costante relazione con ogni singolo soggetto stando attento ad ogni sua reazione, non fermandosi davanti a possibili, e a volte frequenti, insuccessi. Come ha testimoniato la stessa Mary, figlia maggiore di Domitilla e Daniele e, seppur prossima alla pensione, ad oggi Care Manager, il segreto sta nel dare risalto a un qualsiasi, seppur minimo, segnale, anche solo un sorriso o uno stato di rilassatezza, senza arrendersi mai perché, come ci ricorda la lezione di Feuerstein (2010, p. 20), «per iniziare e persistere in un intervento a lungo termine, nonostante gli insuccessi, è necessario che la fiducia dell’educatore nella modificabilità umana sia forte e si riferisca a quel bambino particolare, con il quale si sta interagendo». In ciò consiste quell’avventurarsi oltre la diagnosi, non fermandosi a offrire una relazione d’aiuto di tipo esclusivamente assistenziale o compensatorio, ma mirando ad una davvero educativa. Per tali ragioni, l’opera iniziata da Domitilla e oggi portata avanti con forza dalla famiglia risulta ancora più straordinaria, soprattutto in Sudafrica, paese che, se in termini di teoria si presenta in linea con ciò che viene condiviso nei cosiddetti paesi del primo mondo, fatica, invece, profondamente nel passaggio dalla teoria alla pratica, non a caso caratterizzata da forti disuguaglianze e inadeguatezze. Come scrive Pretorius (2010, pp. 117-118), the fact that South Africans have experienced different educational histories has contributed to severe inequalities and to a divided society with little sense of national unity. South African families are fragmented by such factors as past unjust laws, migratory labour practices and marital breakdown and they are handicapped by illiteracy preventing them from partecipating fully in the education of their children. The education budget has always been inherently inequitable. This has created inequity in terms of provisioning of physical resources, educator/learner ratios, teacher qualifications and remuneration, opportunity and, in general, the quality of education. Although South Africa may have achieved probably the most developed and well supplied system of education and training in Africa with the highest partecipation rates at all levels of the system, the vast majority of black children and youth were exposed to school circumstances that could be compared to the most impoverished on the continent.
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Pertanto, ci troviamo dinanzi a una vera e propria tensione tra valori ufficiali e non-ufficiali, tra politiche decise e pratiche poi concretamente agite, tra ciò che dovrebbe essere (la norma) e ciò che realmente è (la realtà concreta)5, soprattutto nelle township6 o nei villaggi rurali. Perché life in black urban poverty-stricken townships, which were beset with policy activity and violence during apartheid, will inevitably have had a different influence on the school-going children’s psyche than privileged and peaceful circumstances prevailing in white suburbs. In a democratic South Africa, where schooling has desegregated and is no longer homogeneous, the impact of these different experiences and acquired value systems and attitudes cannot be ignored by teachers, parents, youth and community leaders (Van Niekerk, 2010, pp. 74-75).
La forza di una realtà come Little Eden, quindi, risiede nel non arrestarsi alla mera compassione o normalizzazione del deficit, ma nel prestare attenzione e dare valore all’autenticità e alla specificità di ogni singola persona non per ciò che potrebbe o dovrebbe essere, ma per chi è. Quella capacità di guardare la persona con occhi pedagogici perché «in una prospettiva esclusivamente naturalizzante non c’è spazio per ciò che non è empiricamente dato, non c’è spazio per la narrazione del vissuto esperienziale» (Sandrone, 2012, pp. 31-32). Del resto, è proprio questa la sfida che la pedagogia deve accogliere perché non si tratta di collocare il caso singolo di ogni persona che si incontra o addirittura della nostra stessa persona nella norma, nella legge, nella teoria scientifica esistente che lo spiega. E nemmeno, a partire da queste spiegazioni, possedere la “potenza delle tecniche e delle tecnologie”, nel senso di essere in grado di trovare i modi e gli strumenti necessari per colmare o vicariare con successo i deficit trovati […]. È necessario, invece, procedere esattamente al contrario, considerare in che cosa e perché il caso singolo, e ogni persona è un caso singolo, fuoriesca per forza di cose, se “individuale”, dalle norme, dalle leggi, dalle teorie scientifiche disponibili che lo possono spiegare e poi tecnicamente trattare nei problemi che manifesta. Cogliere, cioè, la “sostanza” unica e irripetibile di ciascuno, senza uniformarla a ciò che ne negherebbe la sua irriducibile peculiarità (Bertagna, 2010b, p. 59).
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Le etichette tradiscono spesso il contenuto dei loro barattoli. Il valore delle buone pratiche agite nelle due strutture di Little Eden consiste proprio nell’essere in grado di guardare alle originali capacità di ciascuno, a quella 5 6
Cfr. J. Niewenhuis (2007, pp. 41-51). Nel Sudafrica dell’apartheid con township si designano quelle aree urbane limitrofe ad aree metropolitane nelle quali abitano esclusivamente cittadini non-bianchi. Un famoso esempio famoso è il sobborgo nero di Johannesburg, Soweto – il cui nome stesso nasce dall’espressione “Township di sud-ovest” (SOuth WEst TOwnship) – che ha dato i natali a due premi Nobel per la pace: Nelson Mandela e Desmond Tutu. Tali zone rurali si estendono a macchia d’olio in modo del tutto incontrollato, caratterizzati da un’elevata percentuale di criminalità e violenza.
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dynamis che per natura è orientata al cambiamento positivo, cioè una determinata competenza personale7. Inoltre, è proprio in questo passaggio – oggi spiegato scientificamente dalle neuroscienze con la scoperta della plasticità neuronale e confermato da un recente studio che ha dimostrato quanto le risorse personali possano influire positivamente sul benessere generale della persona anziana con disabilità intellettiva (Lehmann et all., 2013) – che si annida il senso dell’educabilità anche se spesso, quando ci si trova a interagire con un soggetto che presenta menomazioni, deficit, minorazioni siamo portati soprattutto a osservare le cose che gli mancano rispetto allo standard previsto per quell’età, ma così facendo rinunciamo come educatori, come insegnanti, come genitori a crearci il terreno sul quale lavorare per educare, istruire, socializzare con un bambino, un ragazzo un giovane in situazione di disabilità (Gelati, 2010, pp. 56-57).
Del resto, il ruolo dell’educazione, intesa nel suo duplice significato di educare ed educere (Bertagna, 2010a, pp. 357-362), consiste nell’essere un processo esclusivo della persona che si snoda lungo il corso di tutta la sua vita e che l’accompagna in quella costruzione personale di senso complessivo della vita (Bertagna, 2010a, p. 370) che la porta a compiere azioni umane, a scegliere intenzionalmente, ragionevolmente in libertà e responsabilità ciò che è bene fare. Questa la ragione per la quale, la questione pedagogica non si esaurisce nel miglioramento delle condizioni ambientali o nell’eliminazione delle barriere sociali, fisiche, relazionali, culturali ed economiche che impediscono il suo sviluppo, o meglio non solo: si tratta di partire dal presupposto che, in quanto persone uniche, autentiche e sempre calate in una realtà concreta e contingente, ognuno di noi è diverso (P. Meirieu, 1999), che «le persone umane sono sorprendenti, sempre, mai determinate e crocifisse a un ruolo insuperabile: mai “normali del tutto” o “disabili del tutto” o “superdotati in tutto”» (Bertagna, 2010a, p. 375). Quando l’azione educativa parte dal presupposto della diversità, la stessa diversità si riduce (Booth, Ainscow, 2008). Questo il fil rouge che muove le pratiche educative agite nei due istituti di Little Eden. Un agire documentato dalle 300 cartelle individuali nelle quali, per ogni residente, viene registrato non solo lo stato generale di salute, ma soprattutto tutte le informazioni utili o i segnali colti dalle varie figure professionali coinvolte durante una particolare attività che possono acquisire un importante valore per una riflessione su una precedente azione educativa e per un’azione educativa futura. Ciò è concretamente emerso, in maniera significativa, per esempio, durante l’approfondimento di uno dei tre casi che si è deciso di analizzare: Pulè aveva 2 anni quando, insieme ai fratelli Tshepo e Gontshe, fu affidato a Little Eden. Prima del loro arrivo a Edenvale – 21 settembre 2009 – i bambini vivevano in un 7
Sulla differenza tra capacità e competenza si veda, a partire dalla loro distinzione nella tradizione aristotelica, E. Berti (2010) oppure nella loro ricostruzione pedagogica, si rimanda alle due rispettive voci in Bertagna, Triani (2013).
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contesto familiare estremamente difficile aggravato dall’amore del padre per il gioco d’azzardo. A Pulè, come ai suoi fratelli, fu diagnosticata una profonda atrofia cerebrale accompagnata da equinismo bilaterale8. Tuttavia, la diagnosi neuropsichiatrica di ritardo mentale profondo non ha certo condizionato il lavoro di Little Eden nel vedere in lui potenzialità, nel volerle “coltivare” stimolandolo passo dopo passo, a seconda dei bisogni, dei desideri e della direzione dello sviluppo del bambino. Nella cartella terapica di Pulè, infatti, viene descritto come un bambino curioso, vivace, sveglio, determinato, affascinato dalla persone e soprattutto con una spiccata capacità imitativa che lo porta facilmente a modificarsi e a essere modificato dalle opportunità di apprendimento sia formali sia informali. Per tali ragioni, la housemother9, accortasi che Pulè aveva cominciato a pronunciare qualche parola imitando le persone con le quali interagiva o ripetendo le parole delle canzoni che ascoltava, raccomanda di tenere il bambino “monitorato”, di lasciarlo fare in alcune circostanze perché “ha le possibilità per farlo” e di persistere nell’esortarlo alla presa manuale, alla vocalizzazione, ecc.. Pertanto, si è iniziato con il bambino un percorso personalizzato che ha comportato il coinvolgimento, in primis, della logopedista e della musicoterapeuta per abituarlo, fruttando anche la ritmicità del canto e il modo in cui nel cantare mandibola, lingua e corde vocali di preparano per l’emissione del suono, ad usare il linguaggio verbale come veicolo primario della comunicazione. Dunque, incoraggiando la capacità imitativa di Pulè e la ripetizione di determinate azioni, si sono con il tempo generate nel bambino delle buone abitudini scaturite sì dall’interazione con l’educatore, ma, imitandole, il bambino le ha assunte, le ha fatte proprie perché positive. Un percorso, quello con e per Pulè in cui le scelte e le azioni educative non sono state poste a priori alla luce di finalità preventivamente stabilite, ma sono state decise in azione, parallelamente ai continui miglioramenti del bambino, dimostrando che l’atrofia cerebrale, attraverso le opportune mediazioni, si può superare. Un lavoro educativo passo dopo passo per portare Pulè verso nuovi traguardi che gli consentano, un giorno, di poter andare a vivere alla farm, un ambiente aperto senza cancelli o recinzioni che sembra oggi ancora troppo stimolante per un bambino iperattivo che ha bisogno di concentrarsi su di sé. E se anche le parole hanno il loro peso, risulta allora interessante notare tra le righe di queste folte “cartelle narrative” l’utilizzo di aggettivi positivi – “clever boy”, “excellent”, ecc. –, piuttosto che di espressioni come “non sa fare”, “non 8
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Il piede equino è una delle deformità più frequenti nei bambini affetti da paralisi cerebrale infantile. Si può definire “equino” un piede il cui asse longitudinale forma con l’asse longitudinale della gamba un angolo superiore ai 90°; in altre parole, la punta del piede rimane rivolta verso il basso e non è possibile una flessione dorsale (verso l’alto) della caviglia. Questo si traduce al momento di camminare, in un’alterazione dell’appoggio (che avverrà di conseguenza con la punta al suolo) e dello schema di deambulazione. È la figura responsabile di una delle varie ali in cui entrambe le strutture sono suddivise. La housemother non solo controlla l’operato delle caregiver che, a rotazione, si occupano dell’assistenza quotidiana, quindi sia dei pasti sia dell’igiene personale, ma ha anche il compito di coordinare le varie attività che si svolgo durante la giornata, con uno sguardo sempre attento ad azioni e reazioni da parte dei residenti.
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riesce”, ecc.: ulteriore testimonianza dello sguardo di Little Eden rivolto non alle mancanze, ma alle potenzialità di ognuno. Potenzialità sulle quali per ciascuna persona costruisce un unico e personale progetto di vita «che non considera mai “traguardo” ciò che è semplice “transito”, che non dimentica come l’agire personale sia testimonianza insostituibile della ricchezza e dell’inesauribilità della persona umana» (Sandrone, 2008, p. 188). Non ci si rifà a regole preconfezionate e universalmente valide, ma «nulla prima del suo tempo, nulla dopo il suo tempo, ogni cosa al giusto momento» (Pflieger, 1955). Da qui, l’importanza del momento riflessivo che si genera a partire dalla dimensione pratica e che in essa, allo stesso tempo, finisce, quella riflessione nel corso dell’azione nella quale la conoscenza non è precedente rispetto all’azione – quindi oggettiva, astorica, decontestualizzata – bensì si costruisce in corso d’opera e, sempre in corso d’opera, modifica la stessa pratica, perché «frasi come “pensare su due piedi”, “avere prontezza di spirito”, e “imparare attraverso l’esperienza”, suggeriscono non solo che possiamo pensare sul fare, ma che possiamo pensare su quello che facciamo mentre lo stiamo facendo» (Schön, 1993, p. 81). Questa l’espressione più alta di quel sapere phronetico che impone una continua problematizzazione e revisione di intenzioni, orientamenti, scelte oltre che di conoscenze e saperi e richiede una sistematica chiarificazione dei rapporti che si determinano tra conoscenza e azione, mezzi e fini, teoria e prassi. In particolare, quando ci si trova a rispondere a situazioni uniche e indeterminate, cui non è possibile applicare protocolli consolidati, sostenuti da forme di quella che Schön definisce “razionalità tecnica” (riferendosi a una forma di razionalità applicativa e unidirezionale) chi opera nei contesti educativi si posiziona come un agente-sperimentatore che, a partire da sensazioni di confusione, dubbio, perplessità, sorpresa avvertite in situazioni riconosciute come incerte e uniche, riesce ad entrare in “conversazione” con le situazioni in questione e realizzare “esperimenti” interpretativi e conoscitivi funzionali sia a generare nuove comprensioni dei fenomeni sia a produrre un cambiamento delle situazioni stesse (Striano, 2012, pp. 351-352).
3. Conclusioni: le sfide del futuro per Little Eden
Come abbiamo cercato di mostrare attraverso il presente lavoro, uno dei punti di forza di Little Eden è stato, fin dai suoi esordi, l’esempio di amore e di educazione che Domitilla ha testimoniato lungo il corso della sua vita. Pertanto, una delle principali sfide che l’attende consiste nel continuare quel processo di trasformazione intrapreso da qualche anno, attraverso il quale si sta cercando di portare questa realtà da un’organizzazione avente principalmente un orizzonte e un carattere locale e una gestione prevalentemente familiare ad aprirsi al panorama internazionale. In questa trasformazione, tuttavia, occorre non perdere il grande lascito dell’esperienza di Domitilla e Daniele, oggi ancora vissuto dalle figlie e dai familiari: per mandare avanti un’istituzione come Little Eden, non è sufficiente un’elevata professionalità o competenza tecnica, bensì occorre una dedizione e un’adesione personale di ogni singolo membro dello staff ai valori e a quello che Little Eden anno II | n. 1 | 2014
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rappresenta. In questo senso, fa ben sperare la presenza in diverse cariche della terza generazione (alcuni nipoti di Domitilla) che liberamente hanno deciso di impegnarsi e di lavorare a Little Eden: in loro sembra potersi rintracciare quella combinazione di professionalità, competenze, passione e condivisione dei valori, imprescindibili per il futuro di Little Eden. Allo stesso tempo, anche in considerazione del quadro socio-normativo in continua evoluzione (con particolare riferimento, ad esempio, alla legislazione sul lavoro derivante dall’Equity Employment Act e quella del BEE – Black Economic Empowerment10) si impone sempre più urgente, alla luce anche dell’età prossima alla pensione di una considerevole parte del management, la necessità di operare un graduale ricambio anche nei ruoli chiave. In questa direzione, appare strategico, per il futuro, continuare nella strada già recentemente iniziata di formazione continua del personale: se il combinato tra il quadro legislativo e la sostenibilità economica non consente di privilegiare esclusivamente la scelta del personale in base alle migliori competenze, è necessario che Little Eden prosegua nella sua politica di formazione continua del personale. In questa stessa direzione, dunque, si deve guardare anche per le future pratiche educative: custodire certamente la testimonianza di amore incondizionato di madre che Domitilla ha donato nel corso della sua vita a centinaia di bambini, ma costruendo attorno a quelle stesse pratiche assistenziali ed educative un’intenzionalità pedagogica sempre più forte e consapevole, capace di avvalersi dei risultati della più recente letteratura scientifica. A tal proposito, appare utile e opportuno il confronto con il dibattito internazionale in termini non solo di valutazione (clinica e psicologica), ma soprattutto dal punto di vista educativo e pedagogico, pur considerando che «while inclusive education is considered to be the most appropriate strategy for addressing the diverse needs of all learners in South Africa, the implementation of this policy is the real challenge» (Stofile, Green, 2007, p. 63). In tal senso, anche la recente collaborazione con le università (straniere e nazionali) potrebbe contribuire a mantenere le attività svolte da Little Eden in un livello di eccellenza e di avanguardia scientifica mediante continui aggiornamenti circa le ultime ricerche in termini di disabilità intellettiva e non solo. Proprio l’apertura al mondo accademico potrebbe, inoltre, aiutare la stessa istituzione a fare rete sul territorio, a creare un ponte con le molte altre strutture che a livello nazionale si occupano di assistenza e cura di persone con disabilità. Uno scambio reciproco e fecondo di competenze e conoscenze che consentirebbe di porre le basi per una nuova stagione pedagogica e sociale, più attenta alle questioni educative e maggiormente democratica. Una prospettiva, questa, che sembra ancora oggi un traguardo faticoso, soprattutto se si guarda al quadro normativo nel quale la parola “educazione” è 10 Una norma giuridica, conseguenza del processo di transizione democratica intrapreso dalla metà degli anni Noventa Mandela e il suo partito (African National Congress), che impone a tutte le imprese pubbliche e da private di dimensioni medio-grandi di regolare la propria politica di assunzione in modo da rispecchiare le proporzioni demografiche tra i gruppi razziali, indipendentemente dalle competenze personali e professionali del candidato: una donna di colore permette all’azienda di guadagnare un punteggio maggiore nella cosiddetta BEE score card, punteggio che permette di accedere a fondi statali o di intraprendere collaborazioni con gli enti governativi.
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sempre e solo riferita ai contesti di formazione formale, mentre al cosiddetto “terzo settore” spetta solamente il compito di provvedere alle cure, prevalentemente mediche e terapeutiche. Come riportato, del resto, nel Mental Health Care Act (2002, p. 14), «health establishments must provide any person requiring mental health care, treatment and rehabilitation services with the appropriate level of mental health care, treatment and rehabilitation services within its professional scope of practice». La norma nei suoi vari passaggi si limita a fornire precisi dettagli procedurali sulle modalità attraverso le quali deve avvenire la presa in carico della persona con “mental handicap” da parte dell’istituto fissando ruoli e “competenze” sia per i servizi sociali sia per l’ente stesso. Facendo scomparire il termine “educazione”, ci si dimentica soprattutto della pervasività dell’educazione in qualsiasi dimensione della persona, il suo essere ovunque: non si tratta di adattare dei modelli o dei metodi alla particolare situazione personale, bensì di creare per ogni persona che abita i due istituti un progetto educativo ad personam lungo tutto la vita. Per tale ragione, in un sistema di welfare come quello sudafricano – oltretutto gravato da un forte tasso di corruzione – preoccupato che ogni procedura di inserimento sia burocraticamente compiuta “a regola d’arte”, una realtà come quella di Little Eden, che ai nostri occhi potrebbe anche sembrare segregante, diventa altamente integrativa perché garantisce a centinaia di persone la costruzione di un proprio senso della vita agendo all’interno di quelle comunità che sono il Domitilla and Danny Hyams Home (DDHH) e l’Elvira Rota Village (ERV). Persone altrimenti relegate a trascorrere le loro giornate tra le mura di strutture non interessate al loro futuro, come se la disabilità le determinasse per tutta la vita. Persone “dimenticate” in un Sudafrica attraversato tuttora da profonde disuguaglianze sociali. La storia, del resto, non fa sconti e la strada della democrazia verso la democrazia è tutta in salita.
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http://www.littleeden.org.za/images/Annual%20Report_2013.pdf - Annual Report 2013, Little Eden Society.
IV. Altri temi
1. Recensione
Matteo Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Carocci, Roma 2012, pp. 255 di Lucia Cappelli / Università degli studi di Firenze
Il testo di Matteo Schianchi, studioso di Storia sociale della disabilità presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e atleta paraolimpico, affronta la complessa questione della disabilità come fatto storico, in un arco cronologico che va dall’antichità ai nostri giorni. Nel suo precedente volume, La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Feltrinelli, 2009), l’autore aveva già ampiamente denunciato i numeri di una realtà che riguarda più del 10 % della popolazione mondiale, costituendo la “terza nazione” per numero di abitanti. In questo suo ultimo lavoro le disabilità fisiche, sensoriali e intellettive, presenti da sempre in tutta la storia dell’umanità, sono analizzate e interpretate da un punto di vista storico. Il contributo di Schianchi si inserisce in un innovativo filone di ricerca. Non si tratta, scrive l’autore, «di rivendicare una specificità storica all’interno del filone degli studi sulla disabilità, ma di utilizzare il metodo storico per contribuire a conoscere meglio la disabilità stessa» (p. 16). Gli studi storici si sono occupati, infatti, della questione solo recentemente, di solito affrontandola dal punto di vista medico e psicopedagogico. Per limitare la riflessione al contesto italiano, si ricordano il testo edito nel 2000 da Andrea Canevaro e Alain Goussot, La difficile storia degli handicappati, il quadro storico, legislativo e metodologico presente nei numerosi scritti di Leonardo Trisciuzzi, lo studio dedicato all’educazione dei marginali di Simonetta Ulivieri, fino ai più recenti Il decimo cerchio. Appunti per una storia della disabilità di Massimo Fioranelli e L’uomo avitruviano. Analisi storico-sociologica. Per altre narrazioni delle disabilità nel sistema-mondo di Claudio Roberti. Come è stata vissuta, come è stata percepita la disabilità nei secoli? I nove capitoli di cui si compone il volume sono un tentativo di risposta a questa domanda e cercano di assegnare un posto nella storia a ragazzi e ragazze, donne e uomini, esposti anche a pratiche di abbandono ed eliminazione, che hanno lasciato poche tracce dirette di sé. Già nelle civiltà che precedono l’Antico Egitto la disabilità, quando non frutto di incidenti e mutilazioni, era attribuita alla volontà di uno spirito maligno. Nella Bibbia sono citati oltre duecento passi che richiamano temi legati al concetto moderno di disabilità fino ad arrivare alla novità assoluta del messaggio di Gesù che guarisce, esalta il disabile e vede nel corpo mutilato e sofferente la presenza privilegiata di Dio. Risale all’epoca medievale e moderna la nascita delle più importanti istituzioni caritative e degli ospedali in cui spesso i disabili erano malamente assistiti e, talvolta, segregati. La scansione cronologica dell’ampia ricostruzione storica offerta in questo libro è interrotta da due intermezzi monotematici. Il primo è dedicato alla figura del mostro, dal mondo classico alla teratologia ottocentesca. «In tema di disabilità, il mostro ci interessa come trasgressione del limite naturale che rende impossibile praticare ordinari e previsti codici culturali e sociali» (p. 67). Il secondo descrive lo spettacolo dei diversi, del “lusus naturae/scherzo della natura/freak” e ne narra la presenza nelle corti medievali fino alla più moderna rappresentazione nel mondo fotografico e cinematografico, dove l’esotismo del diverso alimenta il voyerismo del pubblico. Entrambe le cesure tematiche sono arricchite, come il resto del volume, da ampie citazioni di scritti classici e da menzioni di esempi tratti dalla storia dell’arte. Si ricorda l’opera di Diego Velázquez che ha dipinto nani e buffoni in oltre trenta quadri, tra cui il notissimo Las Meninas, e la descrizione dell’ “uomo mostruoso” condotto dalla Francia all’Italia nel trattato De Medica materia dell’umanista Marcello Virgilio. Lo spettacolo dei diversi, ricorda l’autore, raccoglie «due grandi categorie
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di fenomeni: quelli con conformazione fisica spettacolare e quelli ‘truccati’ da essere spettacolari» (p. 172) destinati ad essere esposti, a scopo di lucro, nei circhi, tra cui il più famoso per dimensioni e spettacolarità fu, nell’Ottocento, quello americano di Phyneas Taylor Barnum. Solo nel Novecento il concetto di disabilità muta radicalmente. Il trauma sociale e culturale delle due guerre mondiali, con il loro peso di mutilati e invalidi, e l’avvento della psicanalisi contribuiscono a considerare la disabilità come una delle dimensioni possibili dell’essere umano. Anche gli infortuni sul lavoro, frequenti nel nuovo sistema industriale, contribuiscono a modificare il numero dei disabili. Sono utili i dati riportati dall’autore nel capitolo dedicato al primo Novecento. Dopo la fine della prima guerra mondiale si potevano contare oltre dieci milioni di persone colpite gravemente dagli eventi bellici. «Di questo trauma collettivo, le persone disabili resteranno nei decenni successivi la ‘traccia vivente’ della catastrofe» (p. 180). Non poteva mancare una riflessione sullo sterminio dei disabili nella Germania nazista, frutto anche delle teorie eugenetiche già espresse a fine Ottocento e dalla dottrina nordica della razza di Hans F. Gunther. Il secondo Novecento vede una seconda importante cesura per la storia della disabilità con le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale e i campi di sterminio. La valenza dell’associazionismo, importante soggetto di riferimento per il mondo politico-amministrativo, e la formulazione dello stato sociale si pongono tra gli scenari, con molti risvolti positivi, della contemporaneità. Il saggio storico di Matteo Schianchi è dotato di una scrittura matura e controllata; per il suo impianto generale e complessivo sulla storia della disabilità è destinato a un pubblico di studenti e studiosi ma anche al lettore interessato o coinvolto da questi temi. Il volume, corredato da una ricca e aggiornata bibliografia internazionale, affronta questioni urgenti anche per il presente, generatrici di ulteriori dibattiti e ricerche.
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2. Recensione
Colectivo Ioé, Discapacidades e inclusión social, Edición Obra Social “la Caixa”, Barcelona 2012, pp. 210 di Consuelo Filippi / Università degli studi di Firenze
Il testo Discapacidades e inclusión social, partendo dai dati statistici spagnoli forniti dall’Istituto Nacional de Estatistica (INE) del 2008 resi disponibili nel 2010 vuole essere una panoramica sull’estensione della disabilità in Spagna. Si vuol far emergere con quale incidenza e quali siano i fattori che ne contribuiscono lo sviluppo e quali azioni socio-sanitarie vengono messe in atto per ridurne lo svantaggio. Il presente volume è stato scritto dal Colectivo Ioé, composto dai sociologi Carlos Pereda Olarte, Miguel Ángel de Prada Junquera, Walter Actis Mazzola, i quali svolgono ricerche indipendenti dal 1982 sui temi inerenti le trasformazioni sociali spagnole in particolare riferite all’ambito della salute e della disabilità. Il Colectivo Ioé lavora per distinte istituzioni, nazionali spagnole ed internazionali, pubblicando svariati articoli, libri e svolgendo corsi di formazione sui temi di loro interesse. Dal 2008 mantengono aggiornato in internet il Barómetro social de España, un progetto di valutazione continua sulla situazione sociale spagnola in linea con i temi d’interesse degli autori del presente volume. Il testo, che si può inquadrare a livello epistemologico nell’ambito della sociologia,
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può essere facilmente inserito in contribuiti di diversa connotazione disciplinare come ad esempio quello della pedagogia speciale e dell’economia. Gli autori, partendo dall’assunto che uno dei migliori indicatori del grado di sviluppo di una società sia la capacità di integrare le persone che si trovano in condizioni svantaggiate, offrono un’analisi dettagliata delle condizioni di vita delle persone disabili in Spagna. Il Colectivo Ioé afferma che l’integrazione di queste persone non può esperirsi solo con aiuti economici o eliminando le barriere architettoniche, ma deve essere un’attitudine sociale che risulta la vera chiave di volta per poter parlare di inclusione delle persone disabili. Gli Autori affermano, in accordo con il movimento spagnolo delle Persone con disabilità, che “no hay gente discapacitada, sino sociedades inaccesibles a la diversidad” (p.19). Gli autori confrontano i dati statistici delle inchieste svolte dall’INE nel 1986 e 1999 con la più recente del 2008 denominata EDAD (Encuesta sobre Discapacidad, Autonomía Personal y Situaciones de Dependencia) per poter testare l’andamento e la visione della disabilità spagnola. I dati a confronto risultano molto differenti, in particolare per quel che riguarda i concetti terminologici come “retraso mental”, utilizzato nelle prime due inchieste e sostituito nell’ultima con “deficiencias intelectual”; la scelta di utilizzare questa nuova definizione viene data dalla possibilità di ampliare la definizione di deficit intellettivo. Si passa infatti da 6 a 8 categorie dove “deficiencia intelectual ligera” e “inteligencia límite” sostituiscono i termini “retraso mental lieve y límite” e “demencias” e “enfermedad mental” sostituiscono “demencias” (p. 53). La terminologia utilizzata nelle precedenti inchieste portava con se una visione stereotipata e distorta della disabilità e nel libro si possono notare come, categorie che risultavano inserite nelle prime due inchieste, non vengono considerare nella EDAD-2008 perché utilizza un altro tipo di terminologia. Gli autori scelgono infatti di utilizzare il termine “discapacidad” anziché “minusvalía” poiché: “incluye a todas las personas con limitaciones importantes para realizar actividades de la vida diaria antes de la implementación de ayudas” (p.20), in linea con la definizione ufficiale spagnola. Questo cambio terminologico, relativamente recente in Spagna, è dovuto alle nuove classificazioni che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha introdotto per quanto riguarda il concetto di persona disabile. L’OMS, infatti, si rifà al modello biopsicosociale che vede la salute come un valore in sé e come una prassi di partecipazione attiva del soggetto al suo mantenimento. È un modello di tipo integrativo che mira al superamento del dualismo mente-corpo. All’interno di questo modello troviamo l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) classificazione che vuole descrivere lo stato di salute delle persone in relazione ai loro ambiti esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere le difficoltà che nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità. Non si considera più solo la disabilità della persona ma le possibilità che questa persona deve poter avere al di là del grado di handicap di cui è portatore. Nell’EDAD vengono prese in considerazione 44 disabilità o “limitaciones importantes para realizar las actividades básicas de la vida diaria” dalle quali gli autori decidono di analizzare le otto categorie generali: limitaciones de visión, limitaciones de audición limitaciones de comunicación, aprendizaje- aplicación de conociminetos y desarollo de tareas, movilidad, autocuidado, vida domestica, intercciones y relaciones personales (p.31-37). Queste categorie sono relazionate con l’età e si può notare che con l’aumento di essa la disabilità aumenta: le persone con disabilità al di sopra dei 64 anni sono il 29,2% mentre tra i 16 e 64 anni sono il 4,7%. Anche l’appartenenza di genere incide: il 9,9% del campione sono donne mentre solo il 6,8% sono uomini. Il genere incide anche per quel che riguarda la tipologia di deficit: gli autori confrontando i dati hanno riscontrato che in tutti i casi eccetto che per le disabilità linguistiche, le donne sono quelle maggiormente soggette ai deficit osteoarticolari, il 4,6% a fronte di un 1,8% dei maschi. Di particolare interesse risulta la parte di analisi del profilo educativo delle persone disabili. Dai dati emerge che la scolarizzazione viene seguita fino all’età giovanile, circa 16, e che solo una minima parte ottiene un titolo universitario, il 7,3% a fronte del 22,8% della popolazione spagnola (p. 97). L’analfabetismo tra i bambini disabili è cinque volte
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maggiore rispetto alla popolazione spagnola e quelli che non completano le classi primarie sono quattro volte superiori rispetto ai bambini normodotati. Le persone che hanno disabilità multiple sono quelle che hanno un livello di scolarizzazione più basso rispetto alle persone che hanno delle disabilità sensoriali. Si riscontra questa disparità perché in Spagna esistono ancora le scuole speciali e risulta più semplice l’inserimento nelle scuole normali di bambini con disabilità sensoriali rispetto a bambini con disabilità complesse. I bambini che accedono alla scuola normale, ovvero senza alcuni tipo di sostegno, sono il 32%, quelli che frequentano i centri misti, scuole ordinarie dove esiste un sostegno educativo, sono il 46%, mentre i bambini che frequentano le scuole speciali sono il 19% (p.105). La Spagna mantiene, come emerge dall’inchiesta, scuole normali e scuole speciali a differenza dell’Italia che le ha abolite con la Legge 517/77. In Italia vi è una visione e un idea di scuola per tutti dove i bambini con disabilità sono inclusi nella classe e ai quali vengono forniti gli aiuti necessari all’interno del contesto classe. La Spagna sta seguendo un percorso legislativo che vuole essere di integrazione dei bambini disabili nei “Centros ordinarios” così come viene proposto nella Ley Organica de la Educación (LOE) del 2006. Con questa legge si vuole offrire a tutti gli alunni un’educazione che sia equa, che risponda alle diversità degli alunni e che tenga conto delle differenti situazioni famigliari e personali. Pur tuttavia i bambini che presentano gravi disabilità, come ad esempio tetraparesi, vengono indirizzati verso centri specializzati dove sono svolti per lo più lavori di tipo assistenzialistico e non educativo. Gli autori analizzano nella parte finale del volume le attività di associazionismo e tempo libero che vengono svolte dai soggetti intervistati. Questo punto è di particolare rilevanza per poter comprendere la qualità di vita di una persona disabile. Infatti nell’ICF, classificazione citata precedentemente, viene inserita come fattore da analizzare la partecipazione sociale. In base a quello che la persona disabile riesce a svolgere al di fuori di un contesto strutturato, come può essere ad esempio la scuola, si può comprendere quale è il grado d’inserimento nel tessuto sociale. Dalla EDAD emerge che la maggioranza degli intervistati svolgono, nel loro tempo libero, attività sedentarie come guardare la televisione o ascoltare musica (circa l’80%), mentre solo il 28% svolge esercizio fisico e il 14% fa visita ad amici e famigliari (p. 176). In conclusione questo testo si rivolge prettamente ad un pubblico di sociologi e pedagogisti riuscendo pur tuttavia ad essere apprezzato da un pubblico non avvezzo a tali temi. Gli autori sono in grado di rendere, grazie ad un linguaggio semplice ma puntuale, fruibili i dati statistici che risultano comprensibili ad un pubblico più ampio e che può trovare notevoli spunti di riflessione sull’andamento sociale spagnolo grazie alla panoramica esaustiva fornita dagli autori.
3. Recensione
Giancarlo Rigon e Giovanni Mengoli, Cercare un futuro lontano da casa. Storie di minori stranieri non accompagnati, Dehoniane, Bologna 2013, pp. 120 di Giusi Zamarra / Università degli studi di Bologna
Il lavoro, frutto della collaborazione tra Giancarlo Rigon e Giovanni Mengoli, si sviluppa a partire da un’affermazione: “Siamo tra coloro che credono che il grado di benessere di una società si misuri nella sua capacità di prendersi cura degli ultimi” (p. 13) che i due autori hanno volutamente inserito nella presentazione dello scritto motivando il lettore ad addentrarsi nelle pagine che seguiranno.
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Uno scritto che, prendendo ancora in prestito le parole degli autori, vuole “lasciare traccia di queste vite ignorate, vite degli ultimi, vite racchiuse in poche righe, piccole biografie di una parte di vita” (p. 12). Ad essere raccontate nella prima parte del lavoro sono infatti le storie di alcuni minori stranieri non accompagnati, a cui seguono i contributi di alcuni esperti le cui argomentazioni vogliono aprire la discussione sulla base di diversi punti di osservazione e, nel contempo, “far emergere più chiaramente i punti più acutamente critici che le storie pongono” (p. 12). Dare voce a quelle storie estende, dunque, da un lato, l’orizzonte di conoscenza rispetto al complesso ed intricato tema dell’immigrazione, focalizzando l’attenzione su una delle categorie più vulnerabili – sul piano dei diritti – e a rischio di coinvolgimento nelle attività criminali; dall’altro, impone – inevitabilmente – di chiedersi se e in che modo la nostra società sia capace di prendersi cura degli “ultimi”. Le storie portano i nomi dei loro protagonisti e sono vere e proprie testimonianze degli aspetti che, molto spesso, rimangono ignoti e oscuri rispetto agli avvenimenti che segnano la vita dei minori che cercano un futuro, lontano da casa. Nel contempo, non si tratta di racconti individuali, ma di storie complesse intessute anche con le parole – e l’esistenza – di tutti coloro i quali, per svariati motivi, entrano a far parte della vita di quei ragazzi. Sono infatti molteplici le persone che decidono di aver cura di questi minori, svolgendo un ruolo particolarmente delicato e significativo nella loro vita. Emergono, in particolare, le voci degli educatori che lavorano nelle comunità di accoglienza e le cui dichiarazioni fanno sì che si possa parlare quasi di storie di “adattamento reciproco”, in cui il rapporto con i ragazzi è segnato da alti e bassi, richiedendo molta tenacia nel cercare di superare quello che in certi momenti rischia di diventare uno scontro senza via d’uscita. In alcuni casi, infatti, la chiave sembra essere stata la capacità di un’educatrice “di leggere, […], negli atti di violenza una persona che aveva bisogno di aiuto…e così, nonostante i nostri due caratteri forti, anche cocciuti, o forse proprio per questo, ci intendevamo… ” (pp. 47, 48). Il percorso che viene avviato comporta, così, una continua e costante revisione delle proprie conoscenze e, dunque, un “processo di acculturazione” (p. 73) che richiede tempo, lo stesso di cui necessitano quei minori per maturare il passaggio dal paese di provenienza. Ed è la parola “tempo” ad essere annoverata tra le parole chiave di questo libro, sia dal punto di vista dei ragazzi e della loro crescita, che dell’intero sistema che li accoglie; proprio quest’ultimo richiama il cosiddetto tempo della burocrazia perché, a volte, “sono le stesse norme e prassi burocratiche a ostacolare il cammino verso l’integrazione” (p.100) lasciando molto spesso intravedere una forte discrasia con i tempi della vita reale. A dare conferma di quanto il tema dei minori stranieri non accompagnati necessiti di un accorciamento di tale distanza, sono anche i contributi autorevoli inseriti nella seconda parte del lavoro (Amelia Frascaroli, assessore ai servizi sociali del Comune di Bologna, Maria Cecilia Guerra, Vice ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali del governo Letta, Raffaela Milano, direttore Programma Italia-Europa Save the Children, Romano Prodi, inviato speciale ONU per il Sahel, Vincenzo Spadafora, Garante Nazionale per l’Infanzia e l’adolescenza, per citarne solo alcuni) che lasciano emergere quei punti critici relativi, ad esempio, alla “fatica dell’integrazione in una cultura profondamente diversa dal paese di origine, […]; […] la scure dei tagli allo stato sociale, che in questo momento di crisi scende più facilmente su una categoria che non ha nessuna rappresentanza sociale come quella dei minori stranieri non accompagnati” (p. 12). Ciascuno di questi interventi offre, dunque, interessanti spunti di riflessione sulla necessità di programmare e progettare un reale e concreto investimento economico e culturale rispetto al delicato tema affrontato; un investimento che nasce innanzitutto dal riconoscimento di un’identità e, dunque, di una dignità per tutti i protagonisti delle storie raccontate e per tutti/e coloro che essi rappresentano. È per questo che gli autori hanno
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voluto intitolare ciascuna storia con il nome del suo protagonista, invitando a superare quello che, citando le parole di uno dei racconti, pur essendo un’antica questione, rimane fortemente attuale: “quanto di personale e quanto di ambientale c’è nel condizionare il nostro destino” (p. 75); perché esiste una interazione continua tra noi e l’ambiente e nel momento in cui si compie una scelta, come quella di lasciare il proprio paese di origine e i propri cari per una vita migliore, si è inevitabilmente condizionati da un sistema di accoglienza che molto spesso finisce per isolare “queste vite solitamente ignorate […] come a proteggerci da qualcosa che altrimenti ci interrogherebbe con troppa insistenza, con troppa violenza, restituendoci quella che essi subiscono quasi quotidianamente […]” (p. 12). L’intento degli autori è dunque quello di dare testimonianza delle presenze e degli sguardi dei minori attraverso le loro storie e, nel contempo, vuole essere anche una reazione al contatto con una realtà molto spesso fatta di sofferenza. Il volume può essere utile non solo per coloro i quali si confrontano quotidianamente con tutti i problemi e le risorse che questi ragazzi portano con sé, ma per chiunque voglia avvicinarsi ad un tema complesso e affascinante come quello dei minori migranti stranieri che impone sempre più di dare delle risposte migliori ed efficaci, contribuendo a rendere più equa l’intera società.
4. Recensione
Recensione del testo di Tamara Zappaterra, La lettura non è un ostacolo. Scuola e Dsa, ETS, Pisa 2012
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di Chiara Gasperini / Università degli Studi di Firenze
La legge 8 Ottobre 2010, n. 170, Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico, ha chiesto alla scuola italiana un cambiamento di paradigma tuttora in corso, nei confronti degli alunni con DSA che necessita per la sua effettiva realizzazione, dellʼazione sinergica tra la ricerca, il settore dellʼistruzione e la società. Questo ultimo testo di Tamara Zappaterra rappresenta uno strumento utile a preparare il contesto scolastico e in parte anche le famiglie, allʼuso di nuove competenze metodologiche, essenziali per fronteggiare le problematiche degli alunni con DSA. Lʼargomentazione del volume si snoda attraverso quattro capitoli che forniscono, nellʼinsieme, unʼanalisi critica della più attuale letteratura scientifica sullʼargomento ed è svolta mantenendo in costante relazione gli approdi più recenti della ricerca e le loro ricadute in termini di prassi didattica e pedagogica. Il lavoro dellʼAutrice risulta, nel panorama italiano degli ultimi anni, uno dei più completi testi di riferimento per insegnanti, pedagogisti e per quanti si rapportano a bambini colpiti da DSA. Per tale ragione, il volume costituisce unʼ imprescindibile lettura ai fini dellʼaggiornamento sullo stato dellʼarte della ricerca e per acquisire conoscenze utili a rimuovere i tanti ostacoli che gli studenti incontrano lungo il percorso scolastico fin dalla scuola dell’infanzia. Per la stretta correlazione tra abilità di decodifica fonologica e acquisizione della lettoscrittura è ormai dimostrato che se le problematiche nello sviluppo del linguaggio parlato vengono riconosciute e affrontate con competenza, proponendo attività diffusamente presentate nel testo, la predisposizione al disturbo specifico potrà avere un impatto meno devastante al momento dell’apprendimento della letto-scrittura. I bambini dislessici necessitano di una scuola preparata a includerli in modo efficace
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nei processi di apprendimento: «Il tipo di didattica utilizzata, il rapporto instaurato tra scuola e famiglia, il clima più o meno collaborativo fra gli insegnanti, il rapporto fra i bambini della classe, sono fattori su cui si può lavorare, per migliorarli, per permettere un percorso formativo che venga incontro, il più possibile alle difficoltà dellʼalunno dislessico» (p. 88). I bambini che presentano un quadro di dislessia evolutiva, in particolare, pur non riportando deficit cognitivi, sensoriali, o svantaggi socioculturali, per la particolarità del loro sviluppo individuale, non racchiudibile in un’unica ipotesi esplicativa per l’eterogeneità degli approcci di ricerca, presentano un grave handicap in una società come la nostra, fortemente alfabetizzata. Lʼacquisizione del codice linguistico dipende anche dal tipo di lingua alla quale ci si riferisce, ed è perciò molto diverso, in termini di manifestazione del disturbo, essere persone con dislessia in Italia, dove la lingua presenta un’ortografia trasparente o esserlo in un altro Paese come l’Inghiterra, dove invece, l’ortografia inglese viene definita opaca. LʼAutrice sottolinea, infatti, come lʼattività cerebrale messa in atto durante l’acquisizione della lettoscrittura varii a seconda del codice linguistico acquisito. La lingua, per essere appresa, a seconda della sua regolarità, del livello di astrazione e dei movimenti fonoarticolatori coinvolti nel processo, solleciterà, in maggiore o minor misura, l᾿attività neuronale, risultando così di facile o di difficile apprendimento. Le lingue variano per la consistenza con cui la fonologia è rappresentata nell’ortografia, come dimostrano recenti studi, tra i quali, quelli di Goswami o di Ziegler. L’handicap dei bambini dislessici italiani è quindi meno grave, rispetto, per esempio, a quello dei bambini inglesi, poiché la disabilità, nel caso della dislessia, è influenzata anche dal tipo di società in cui il bambino vive, dal periodo storico e soprattutto dalla lingua scritta utilizzata nel suo paese. Il testo di Zappaterra, attenendo allʼambito della Pedagogia Speciale, pone lʼinclusione dei ragazzi con disturbi specifici nella prassi didattica e pedagogica come l’obiettivo principale da perseguire, per la società civile tutta e per la scuola, dove il diverso funzionamento dei bambini con DSA può diventare stimolo per sperimentare nuove prassi e differenti modalità operative. Il percorso di studio di tali bambini non deve essere inficiato dal loro differente sviluppo ed è necessario che gli insegnanti padroneggino competenze efficaci per fronteggiare le difficoltà che il lavoro con i bambini dislessici inevitabilmente comporta. Il tema dell᾿inclusione è da sempre centrale nella riflessione dell᾿ Autrice, Ricercatrice di Didattica e Pedagogia Speciale nonché docente di Pedagogia Clinica che ha dedicato all᾿argomento, tra gli altri, nel 2005, con L. Trisciuzzi, La dislessia. Una didattica speciale per le difficoltà nella lettura, e, nel 2010, Special needs a scuola. Pedagogia e didattica inclusiva per alunni con disabilità. Le tematiche che Zappaterra presenta in questo volume si inseriscono in un contesto, come quello della scuola italiana, che, connotato nel mondo dal cosiddetto modello italiano, si propone fin dal᾿77, con l᾿abolizione delle classi differenziali, di rimuovere le condizioni che impediscono lo sviluppo della persona umana e il raggiungimento della massima autonomia possibile. Un percorso che ancora non può dirsi del tutto concluso. In questo senso, La lettura non è un ostacolo se lʼalunno con DSA viene messo al centro di una didattica individualizzata e personalizzata, e se, soprattutto, il bisogno educativo speciale dell᾿alunno viene affrontato con solide basi scientifiche, compreso nella sua particolarità e nel suo funzionamento. Ciò costituisce il presupposto per consentirgli di intraprendere una carriera scolastica feconda e di inserirsi, successivamente, nel mondo del lavoro senza che il disturbo lo spinga a giocare al ribasso. Infatti, gli studi condotti in ambito psicologico e pedagogico hanno contribuito a creare la consapevolezza che non è sufficiente inserire o integrare gli alunni nelle classi comuni ma è necessario promuovere a scuola e nella società una reale inclusione per chi presenta bisogni educativi speciali. Inclusione che troppo spesso corre il rischio di deteriorarsi, in una didattica eccessivamente semplificata o in una riduzione delle richieste rivolte ai bambini, attraverso un erroneo utilizzo delle misure dispensative o degli strumenti compensativi.
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La reale inclusione si fonda, invece, sulla conoscenza e sull᾿approfondimento scientifico delle caratteristiche dei bambini con DSA cui non è più pensabile sottrarsi come docenti o educatori, «il bambino (dislessico) è in grado di apprendere, quindi ha il diritto di farlo», dal momento che ormai la percentuale di bambini con DSA, nella classi della scuola dell’obbligo si attesta tra il 3 e il 4% e i dati la vedono crescere costantemente. I DSA vengono considerati come un allargamento dellʼambito di indagine della pedagogia speciale ed è per questo che, se il presupposto dellʼinclusione è dare a tutti gli strumenti necessari per realizzare la propria autonomia, è necessario, in primis, osservare da vicino i disturbi specifici, per coglierne gli aspetti salienti e la loro pervasività nella vita scolastica dei bambini. Comprenderne la diversità, è la tappa fondamentale per raggiungere lʼuguaglianza delle opportunità formative. A questo proposito viene posto lʼaccento sul differente modo di apprendere di questi bambini fortemente influenzato dall’organizzazione dello sviluppo delle funzioni corticali superiori. Il lavoro di ricerca, condotto dallʼAutrice, si muove a partire dallʼanalisi delle tappe salienti della nascita e dellʼevoluzione di lettura e scrittura nella storia dellʼumanità, fino ad esporre criticamente integrandoli, i contributi scientifici più recenti riguardo ai modelli interpretativi della lettura: quello di Dehaene e quello di Wolf. I modelli esposti pongono le basi delle ulteriori argomentazioni mettendo in evidenza, in linea con un modello interpretativo di tipo connessionista, la caratteristica della plasticità cerebrale umana e indicando come le scritture alfabetiche rappresentino il modo più economico in termini di sforzo mnemonico e percettivo rispetto, per esempio, a gerogliflici o caratteri cuneiformi. Lʼapprendimento del codice alfabetico può essere interpretato come un meccanismo di «riciclaggio neuronale», come sostiene Dehaene, in I neuroni della lettura (2009), in base al quale ha avuto luogo la trasformazione delle attività cerebrali preesistenti, deputate al riconoscimento degli oggetti che si sono adattate per riconoscere i simboli alfabetici. Il grande potenziale di energia che si è liberato dallʼeccessivo sforzo mnemonico delle scritture logografiche o dai pittogrammi, ora può essere impiegato per il pensiero, per cui, la scrittura alfabetica ha esteso le capacità del nostro pensiero. I bambini con DSA invece, non riescono a ripercorrere in pochi mesi ed a automatizzarlo, quel processo iniziato da oltre 3000 anni che ha portato lʼhomo sapiens sapiens a elaborare le scritture alfabetiche. Questi non potendo disporre di tutto il potenziale cognitivo scaturito dallʼalleggerimento del carico mnemonico, grazie allʼacquisizione della lettura alfabetica, presentano i numerosi problemi scolastici che li caratterizzano quando non vengono seguiti adeguatamente, «il funzionamento del tutto originale dei processi di lettura di un dislessico è in grado di spiegare le difficoltà specifiche che tali alunni presentano nella scuola» (p. 28). Vengono poi indagate le interconnessioni tra la scrittura e la lettura, che prendono in esame sia il processamento del linguaggio scritto, da differenti prospettive, come quella dell’approccio psicolinguistico, ma anche quella che riguarda lo sviluppo della motricità fine e il suo ruolo nel compito di lettura. La scelta del metodo utilizzato per insegnare la lettoscrittura non è una scelta neutra, così lʼAutrice offre una rassegna critica dei principali modelli di apprendimento della lettoscrittura: Ferreiro-Teberosky, Frith, Ehri, il modello Standard ormai condiviso da una molteplicità di autori e svolge, in seguito, unʼapprofondita analisi della didattica di lettura e scrittura, ormai indirizzate verso i metodi fonologici anziché su quelli globali e sullʼevoluzione delle competenze dallo stadio logografico a quello semantico secondo Pennetier. I contributi di Goswami sono essenziali per comprendere i processi di consapevolezza fonologica e le tappe della loro acquisizione in prospettiva di meglio comprendere come e quali effettuare, da docenti, attività di tipo fonologico alla scuola dellʼinfanzia o primaria. Talvolta, con una percentuale crescente, che si attesta al momento, intorno al 3%, in Italia, lʼapprendimento della lettoscrittura risulta difficoltoso, e, pur in assenza di disabilità o disturbi cognitivi gli alunni non riescono ad apprendere. Dopo un generale inquadramento nosografico, il volume tratta le varie tipologie di DSA: la dislessia, la disgrafia, la
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disortografia, la discalculia, soffermandosi particolarmente sulla dislessia evolutiva, analizzando criticamente alcune tra le più note interpretazioni del disturbo. Se il bambino con DSA viene diagnosticato troppo avanti nel suo percorso scolastico, questo potrà sviluppare seri disagi sul fronte emotivo come sottolinea lʼAutrice, compiendo unʼapprofondita analisi del disagio del bambino dislessico, letto alla luce degli studi di Bandura, Stone, La Greca e altri sulla motivazione e lʼautoefficacia. Da un punto di vista operativo, vengono fornite importanti indicazioni per una efficace rieducazione basata sulla personalizzazione di ogni intervento educativo, lontano da facili soluzioni stereotipate dal momento che «la sfida dellʼeducatore consiste nel rendere la lettura unʼattività piacevole per il bambino» (p. 89). Il docente è chiamato a conoscere quali sono i mezzi a disposizione per aiutare il bambino dislessico a superare il suo handicap, a questo proposito, il testo presenta unʼanalisi critica degli strumenti compensativi e delle misure dispensative suggerite dalla legge di riferimento e dalle successive linee guida. Zappaterra si è più volte occupata degli strumenti compensativi di tipo tecnologico: Software didattici per i DSA. Strumenti per la consapevolezza metafonologica, lʼautostima e lʼautonomia (2012), Software didattici per le difficoltà di lettoscrittura. LEO e ARTU (2010). Una delle novità più sostanziali che il nuovo clima socio-culturale riguardo ai Bisogni Educativi Speciali ha portato in essere, riguarda il rapporto tra alunni con disturbo ed insegnante. Se nel passato, si riteneva che il disagio in ambito scolastico, dovesse essere affrontato soprattutto dallʼinsegnante di sostegno, la Legge 170/2010, non delega allʼinsegnante di sostegno lʼalunno con DSA ma lo affida alle competenze e alla consapevolezza dellʼinsegnante curricolare. Questa è una sfida nuova, che richiede al docente competenze prima non richieste, ma che ora necessitano di essere costruite e che, al contempo, pone l’attenzione sulla necessità di sempre più capillari interventi formativi ad hoc che ne permettano la costruzione. Il volume mira, per questo, a creare consapevolezza e competenza negli insegnanti fornendo le conoscenze necessarie ad affrontare i disturbi specifici di apprendimento e soprattutto contribuendo a creare nei docenti e negli educatori, un punto di vista complesso, creativo e riflessivo sull’argomento.
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