Italian Journal of Special Education for Inclusion

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anno III | n. 2 | dicembre 2015


Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)

anno III | n. 2 | dicembre 2015

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Finito di Stampare nel mese di DICEmBRE 2015

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Gli articoli pervenuti sono sottoposti a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendenti da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicati agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accettare ai fini della pubblicazione. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. In caso di giudizi fortemente contrastanti ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scientifico. Il Board, tuttavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noti nel primo numero dell'annata successiva.


DIRETTORE RESPONSABILE Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) COMITATO SCIENTIFICO Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Anna Maria Favorini (Università Roma Tre) Carlo Fratini (Università di Firenze) Francesco Gatto (Università di Messina) Maura Gelati (Università Milano Bicocca) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) Michele Mainardi (SUPSI, Svizzera) Margherita Merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) Marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) Marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) Maurizio Sibilio (Università di Salerno) Darja Zorc-Maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COMITATO DI REDAZIONE Mauro Carboni (Università del Foro Italico, Roma) Catia Giaconi (Università di Macerata) Annalisa Morganti (Università di Perugia) Stefania Pinnelli (Università del Salento, Lecce) Marina Santi (Università di Padova) Tamara Zappaterra (Università di Firenze)


indice /summary

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Editoriale / LUIGI D’ALONZO I. RIFLESSIONE TEORICA

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BETH A. FERRI Inclusion for the 21st Century: Why We Need Disabilities Studies in Education

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CLAUDIO BERRETTA, EVELINA CHIOCCA, PAOLO FASCE, GIULIA GIANI, MICHELA GIANGUALANO, TINA NACCARATO Riflessioni su una nuova prospettiva: la cattedra mista

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DIANA CARMELA DI GENNARO, IOLANDA ZOLLO, MAURIZIO SIBILIO Il pionieristico approccio educativo di Samuel Gridley Howe II. REVISIONE SISTEMATICA

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SILVIA MICHELETTA La dislessia: tecnologie efficaci per il recupero delle abilità di lettoscrittura

III. ESITI DI RICERCA 55

LUIGI ANTIOCO ZURRU Maria Montessori e il “futuro” della medicina: alcuni elementi di una ricerca sul campo

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SILVIA MAGGIOLINI Associazionismo familiare e disturbi dello spettro autistico. Dimensioni emergenti


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FELICE CORONA, TONIA DE GIUSEPPE Dai complessi scenari dell’apprendere ai decostruibili contesti didattici inclusivi

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ROBERTO DAINESE Annual Plans for Inclusion: an explorative analysis in Emilia Romagna

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LOREDANA PERLA, CRISTINA SEMERANO Learning Disabilities e didattica del “potenziamento”: un percorso di valutazione di un training inclusivo

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ILARIA VISCIONE, RODOLFO VASTOLA, FRANCESCA D’ELIA Gender differences in coordination and motor-skill development in pre-school years

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BARBARA DE ANGELIS, PATRIZIA AIUTI, MARCO ACCORINTI Una ricerca sulla condizione dei ragazzi e delle ragazze romanì che accedono al Centro di Giustizia Minorile della Regione Lazio: problemi emergenti e prospettive inclusive

IV. ALTRI TEMI

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FEDERICA FRANCESCHELLI Un’acuta sensazione di pedagogia. Il tema dell’Altro nell’opera di Raymond Carver

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Recensioni


Editoriale / Scuola, insegnanti, sostegno: lavorare per la competenza

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In ogni istituzione scolastica gli insegnanti pongono all’attenzione degli organi competenti le problematiche legate agli allievi e affermano che negli ultimi tempi è problematico “fare scuola” poiché i ragazzi sono notevolmente cambiati. È un dato inconfutabile che molti allievi presentino comportamenti inidonei alla vita sociale: poco rispetto per l’autorità, mancanza di buona educazione, incapacità a rispettare le regole, sfrontatezza nell’affrontare i rapporti interpersonali, poca sensibilità nel comprendere le problematiche altrui, scarsa capacità di sopportare le normali frustrazioni di una vita comunitaria di classe, tutti atteggiamenti che solo pochi anni fa erano certamente presenti, ma non così diffusi come sembra attualmente. Se sono cambiati i ragazzi sono certamente mutati anche i genitori. Sono sempre meno le famiglie che si affidano fiduciose all’istituzione scolastica, che ripongono negli insegnanti la loro stima, che non osano contraddirli; di contro sono certamente in aumento i genitori che criticano, che giudicano, che esprimono opinioni non solamente sulle competenze educative dell’insegnante ma addirittura su quelle didattiche. I programmi vengono vagliati attentamente e sono sempre più frequenti gli interventi volti a valutare l’operato dei docenti. Tutto ciò non è di per sé negativo, è bene che ogni genitore si interessi e valuti serenamente l’operato di coloro che sono chiamati ad educare il proprio figlio, ma non è positiva la propensione diffusa a considerare con sufficienza l’operato dei docenti, a non dare loro credibilità. Indubbiamente la scuola al giorno d’oggi ha perso valore agli occhi della nostra società, tuttavia rimane un’agenzia educativa fondamentale. Occorre molta competenza per superare questo scollamento tra la scuola da una parte, le famiglie ed i ragazzi dall’altra, una competenza, a mio avviso, specialistica nel campo delle fasce deboli, che si avvicini di molto a quella di un valido insegnante di sostegno. Utilizzo ancora il termine “insegnante di sostegno” perché è quello più usato per indicare un particolare docente chiamato a lavorare in un contesto educativo, in una classe, in cui vi sia un alunno con problematiche accertate tali da richiedere delle attenzioni educativo-didattiche maggiori e più rispondenti ai suoi bisogni. Le parole sono importanti per la vita dell’uomo, esse sono un simbolo come afferma Gardner1: «Si possono considerare simboli parole, 1

H. Gardner, Formae mentis, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 321.

Editoriale


immagini, diagrammi, numeri ed una vasta gamma di altre entità. È in effetti simbolo qualsiasi elemento – una linea non meno di una pietra – purchè venga usato (e interpretato) come rappresentante una qualche sorta di informazione». Non mi è mai piaciuta la dizione “insegnante di sostegno”, la trovo riduttiva e poco dignitosa. Riduttiva perché è un insegnante che ha delle grandi responsabilità e dovrebbe possedere competenze professionali elevate, nello stesso tempo trovo tale accezione poco dignitosa in quanto richiama la visione di un professionista che è semplicemente chiamato ad operare sollevando, aiutando, sostenendo il lavoro altrui. Veicola la visione di un insegnante di secondo livello, in panchina, in attesa che la scuola lo chiami per aiutarla a risolvere un problema. Se si fosse chiamato “speciale” sarebbe stato molto meglio per tutti. Ma al di là delle dissertazioni sui termini, che sono poi, in realtà, riflessioni sui valori, considero sempre più necessaria la competenza di un educatore in grado di rispondere ai bisogni specifici di alunni con deficit, ma è sempre più necessario un educatore competente, un insegnante in grado di agire sugli allievi “difficili”. Non solo occorre saper lavorare con gli allievi con disabilità, ma è necessario nelle nostre scuole riuscire a risolvere i grandi problemi educativi di quei soggetti che non possono essere definiti “disabili” perché privi di deficit, ma che per una serie di condizioni, soprattutto di origine esogena, non riescono ad adattarsi ai normali canoni di convivenza sociale in classe e nella scuola. Sono ragazzi che vengono denominati con molti appellativi, il più delle volte screditanti e squalificanti; di solito, riferendosi a loro, gli insegnanti affermano che sono ragazzi a disagio, disadattati, demotivati, disattenti, disinteressati, a volte si utilizzano termini molto “forti” come deviante, delinquente, distruttivo, disonesto, dispotico, disturbate, diseducato, distruttivo, disperato. Come si può notare sono tutti termini che iniziano per “D”. L’effetto “D” è molto pericoloso, infatti, quando un allievo cade sotto questo effetto, il rischio è che venga categorizzato, stigmatizzato, marchiato in modo indelebile, che non trovi quegli agganci giusti, educativi e didattici, capaci di fargli cambiare atteggiamento nei confronti della scuola. Il ragazzo che cade sotto l’effetto D, dobbiamo affermarlo senza remore, è scomodo. Non ubbidisce, dà problemi in gruppo, è una continua spina nel fianco dell’insegnante che non riesce a svolgere la sua lezione tranquillamente, spesso incute anche timore perché non si sa mai cosa possa succedere se si interviene duramente, con minacce. Le famiglie di questi ragazzi poi non aiutano certo l’istituzione scolastica a fare il proprio servizio educativo, raramente sono in grado di collaborare con gli insegnanti, spesso negano il problema, oppure, rassegnate, ritengono che loro non possano fare di più per modificare l’atteggiamento difficile del figlio. Temo un certo pericolo nelle risposte delle scuole a queste problematiche: il disinteresse per la persona. L’allievo problematico, colui che è incapace di rispettare le norme della convivenza scolastica, colui che è impreparato, che studia poco e i cui risultati sono spesso insufficienti, non si sa come trattarlo. Non si sa come agire. L’unica soluzione possibile in mano agli insegnanti potrebbe essere il disinteresse nei suoi confronti, per la sua vita, per il suo futuro. Questo evitare risposte arriverebbe ad assumere connotazioni tali da mettere in discussione la stessa missione educativa che la scuola ha o dovrebbe avere nel suo essere agenzia formativa al servizio di tutti i cittadini, non di pochi, non solo di coloro che non presentano problemi. anno III | n. 2 | 2015

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Nelle nostre scuole si assumono nei confronti degli allievi difficili e indisciplinati, atteggiamenti molto rigidi come le note di condotta, l’ esclusioni dalla classe, i rimandi all’autorità superiore. Gli atteggiamenti di distacco arrivano a provocare nell’allievo un malessere personale e ad incentivare in lui la convinzione di dover cambiare scuola, perché non è accettato, perché tutti ce l’hanno con lui, perché la scuola gli provoca problemi. Da ciò il fenomeno dell’abbandono, i percorsi accidentali sintomo preoccupante di malessere dell’istituzione scolastica. Ritengo che non sia mai efficace assumere un atteggiamento educativo di esclusione. D’altronde si nota che questa posizione educativa ( o ti adatti oppure sei fuori), legittima in tutti quei corsi di specializzazione e di istruzione superiore di alto livello, contrasta fortemente con il diritto allo studio e con l’innalzamento dell’obbligo scolastico che anche l’attuale governo desidera garantire. Purtroppo rileviamo anche ad un livello scolastico di base come tale atteggiamento di esclusione, stia sempre più prendendo piede nelle nostre istituzioni e lo possiamo capire ad esempio dal modo di fare scuola. Se il modello didattico che si adotta in classe è: lettura del brano, breve spiegazione, studio e apprendimento a casa, è irragionevole pensare che un soggetto “difficile” possa modificare il proprio comportamento. Se a scuola non si “costruisce” l’apprendimento insieme agli allievi, se la partecipazione richiesta è semplicemente di tipo uditivo e mnemonico, se il soggetto deve leggere e ascoltare la spiegazione del docente e stare il più possibile tranquillo dietro un banco, se deve apprendere tutto a casa, studiando e approfondendo da solo i contenuti della lezione in classe, è plausibile ritenere che gli allievi difficili, ma direi gli allievi più deboli, non riescano ad adattarsi. Con questi ragazzi occorrono altri modi di fare scuola. È necessario lavorare sui bisogni delle persone, facendo molta attenzione a quelli motivanti, ma emerge anche la necessità che l’allievo difficile sia adeguatamente capito nei suoi atteggiamenti, ma ciò non basta se il movimento interpretativo non viene seguito da un’azione educativo-didattica capace di aiutarlo. I capisaldi del che cosa fare possono essere, sinteticamente, enucleati in questi punti:

1. Accoglienza e accompagnamento. Ogni allievo ha bisogno di essere rispettato per quello che è, ha necessità di essere accettato e accolto. Ognuno di noi offre il meglio di se stesso in una situazione ambientale, sociale e affettiva nella quale gli altri ci stimano ci vogliono bene. L’allievo difficile ha bisogno di questo, ha necessità che il proprio insegnante gli dimostri il suo bene ed il suo interesse.

2. Saper adattare il programma di classe e usare diversi metodi. Non tutti gli allievi sono uguali e non con tutti funzionano i medesimi metodi di insegnamento. Soprattutto il soggetto problematico ha bisogno di essere rassicurato in quello che fa e ciò non si può realizzare se non progettando un’azione didattica dove la diversificazione del curriculum sia accettata.

3. Saper gestire la classe differenziando. I livelli dei ragazzi sono differenti ed è necessario rispettare le esigenze di ognuno. Alcuni accorgimenti possono certamente essere utilizzati in classe, come ad Editoriale


esempio, permettere al soggetto difficile di conoscere preliminarmente il tema della lezione ed i suoi requisiti, prevedere che a chi ne ha la necessità sia consentito di avere a disposizione un testo già sottolineato, suggerire di ripassare prima della lezione alcuni precisi contenuti, presentare contenuti con varie modalità, non semplicemente quella orale, ma anche utilizzando lavagne luminose, videotape, cartelloni. Prevedere l’aiuto prossimale per i ragazzi che avessero più difficoltà, accettare modalità diverse per sondare le competenze acquisite. Molti allievi difficili non riescono a dare il meglio di sé rispondendo alle interrogazioni alla cattedra, occorre valutarli in altro modo: senza la presenza dei compagni, oppure nel piccolo gruppo, o con l’ausilio di immagini e scritte.

L’allievo difficile è certamente un problema, come lo è il soggetto disabile; tuttavia sarebbe molto bello che diventasse per la scuola non solamente un peso da sopportare, inevitabile e preoccupante, ma un progetto da realizzare.

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LUIGI D’ALONZO



Inclusion for the 21st Century: Why We Need Disabilities Studies in Education

The history of inclusive school policies and practices in both Italy and the United States suggest that inclusion is not something we achieve once and for all, but instead must continually be won. In this chapter I describe some of the challenges that both US and Italy have faced in enacting inclusive policies. I argue for the need to be mindful of the ways schools are sites in which the gravitational pull towards exclusion must be persistently countered and resisted by an ever-expanding impulse toward inclusion. I conclude the article by suggesting ways that disability studies in education can provide important insights for how to counteract the tenacious pull toward exclusion and to enact an expanded and more robust vision of inclusion.

Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Inclusive Education, Disability Studies in Education, Special Education, Special Needs Education, Integration

abstract

Beth A. Ferri (Ph.D., Syracuse University / baferri@syr.edu)

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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The 1970s and 1980s were watershed years for ensuring the educational rights of students with disabilities in both the U.S. and Italy. Both countries developed educational policies that established the right to education and introduced the inclusion/integration imperative: the idea that students with disabilities must be afforded the opportunity to be educated alongside their non-disabled peers. This imperative was seen as a moral obligation as well as a civil rights issue. Italy’s policy of school integration, integrazione scholastica, developed during these decades and positioned Italy as the most widely recognized leader in inclusive education in the world. The U.S., too, passed important legislation guaranteeing educational rights for students with disabilities and introduced the idea that students should be educated in the least restrictive environment. The late 1990s and early 2000s expanded this earlier vision on an international scale. The Salamanca Statement (United Nations, 1994), the Dakar Framework for Action (United Nations, 2000), and the Convention on the Rights of Persons with Disabilities (United Nations, 2006), each broadened the vision of inclusive education to address all issues of exclusion and marginalization and established inclusive education as a basic human right for all. These more recent efforts to counter exclusion, sometimes referred to as Inclusion 2.0, have been helpful in highlighting a more expansive array of social signifiers that result in exclusion and marginalization (such as those based on race, ethnicity, social class, gender, sexuality, etc.) and how these various statuses intersect with disability in producing inequity and exclusion in schools. Both the U.S. and Italy would do well to look to these more recent policies and their expanded vision of inclusion to address ongoing segregation of historically marginalized students groups, which manifest in exclusion of second language learners, Roma students, refugee, and immigrant students, as well as the overrepresentation of students of color in the U.S.

1. Different Pathways to Inclusion

There are some significant differences in the ways that Italy and the U.S. have approached and enacted inclusive education. Italy, for instance, identifies far fewer students as eligible for services than the U.S. (2-3% v. 13% of the student population respectively). As Giangreco and Doyle (2015) rightly note, this difference is largely due to Italian schools not labeling students with learning disabilities (such as dyslexia) as disabled, but rather as part of a continuum of student abilities that can and should be considered to fall within the “normal� or typical student population. Recent laws ensure that students with dyslexia (and other learning disabilities) do receive appropriate accommodations and supports within the general education classroom. The general classroom teacher, however, is responsible for these supports. Italy also uses far fewer teacher aides (and mostly for non-instructional purposes) than the U.S. The most important (and perhaps impactful) difference is that Italy also enacted changes to the general education classroom as part of their inclusive policy, such as requiring smaller class sizes and establishing co-teaching. Rather than provide overly simplistic comparisons between U.S. and Italian approaches to inclusion (Giangreco & Doyle, 2015), in this chapter I focus on I. Riflessione teorica


some of the shared challenges that both countries have faced in enacting inclusive policies. These shared difficulties are important to acknowledge as many other countries look to these two countries as examples of how to enact and sustain inclusive schools. Lessons learned from both the U.S. and Italy illustrate the need to be mindful of the ways schools are sites in which the gravitational pull towards exclusion must be continually countered and resisted with an everexpanding impulse toward inclusion. I conclude the article by suggesting ways that disability studies in education can provide important insights for how to enact an expanded and more robust vision of inclusion for the future.

2. Leading the way?

Due to its long commitment to inclusive education (D’Alessio, 2007), Italy has indeed led the way in instituting inclusive education as a widespread and universal practice. Today Italy educates the largest percentage of “students with disabilities in general education classes…[and has among the] fewest special classes and special schools in the world” (Giangreco & Doyle, 2012, p. 65). Italy’s enactment of inclusion, integrazione scholastica, has led to increased achievement for learners with and without disabilities alike (Vianello & Lanfranchi, 2011). The U.S. also enacted important legislation supporting the right of students with disabilities to a free and appropriate public education in the least restrictive environment. Parents in the U.S. are important participants in the process of determining eligibility and developing appropriate individualized education plans. Parents are also guaranteed due process rights under the law. Citing findings from the National Center on Inclusive Education, Dudley-Marling & Burns (2014) report that inclusion results in benefits such as: higher test scores in math and reading; better attendance; and, fewer disciplinary referrals. As a result of their successful enactment of inclusion, both countries are sought out as model programs for other countries, both in terms of their policies as well as their inclusive practices. Yet, despite their leadership, it is not uncommon to find discrepancies between inclusive policy and the implementation of inclusion in both countries. Although both school leaders and teachers in Italy tend to embrace integration as a policy, in visiting schools in Italy, it is fairly common to observe ways that disabled students continue to face marginalization in schools – either overtly (as in being pulled out of class for periods of time for specialized instruction) or through any number of micro-exclusions that signal less than full membership in the general class (D’Alessio, 2011). After conducting research in 16 different schools in five different regions in Italy, for instance, Giangreco, Doyle, and Suter (2012) also found “substantial variation” in terms of implementation of integration (p. 97). My own visits to Italian schools over the course of the past twelve years, confirm their observations. In fact, I would say that I have observed a steady creep of exclusion over the years – such as the creation of aule del sostegno, or separate support rooms, which I do not remember seeing on my earlier visits to Italy. Of course the same criticisms could be leveled at U.S. schools, which also tend to be less inclusive than one might expect given provisions within IDEA (Individuals with Disabilities Education Act). In tracking the progress of inclusion in U.S. schools, Smith (2010) reminds us that inclusion is never achieved once and anno III | n. 2 | 2015

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for all but, instead, must be continually be safeguarded against pressures to slip back to the status quo of segregated education. Researchers in Italy and elsewhere might look to Smith’s research as a warning about the unfortunate tendency to revert back to segregated classrooms, even in contexts that were once seen as leaders in inclusive education. Smith’s text also suggests that in the U.S. context, inclusion is a privilege afforded unevenly, based on perceived severity of a child’s disability, rather than a universal right. Specifically, students with disabilities that are considered mild in severity or not involving cognitive or intellectual disabilities are more likely to be placed in inclusive classrooms, whereas students who have more significant or cognitive disabilities are more likely to be segregated. Fierros and Conroy (2002) also report racial and ethnic disparities in terms of restrictiveness of placement, whereby students of color tend to be more segregated and excluded in U.S. schools compared to their white peers, even when they share the same disability label. A recent study by Schmidt, Burroughs, Zoido, and Houang (2015), explored the relationship between socioeconomic status, student achievement, and unequal learning opportunities provided to students. Their findings showed that schooling often exacerbates, rather than ameliorates, social inequality, through a range of sorting practices, including academic tracking and unequal access to high quality instruction. They found significant gaps in achievement and opportunity to learn between schools in Italy based on income, whereas inequality was most evident within schools in the U.S. In both countries, however, schooling did little to bridge the gap between wealthy and poor students and, in fact, often made these gaps more pronounced by providing different educational opportunities to students of different social classes. Such racial, ethnic, and class disparities continue to plague education, despite the fact that the percentage of students who are included has increased over time (Waitoller & King Thorius, 2015). Of course, one might point to any number of factors to explain discrepancies between inclusive policy and actual practice. Schools in the U.S. and Italy have both faced the impact of significant economic pressures, influx of culturally and linguistically diverse students, inaccessible school buildings, pressures of high stakes testing and accountability, and persistent teacher shortages. Moreover, despite enacting practices like co-teaching, special educators and sostegnos often experience marginalization and are rarely positioned equal partners in the classroom (Devecchi, Dettori, Doveston, Sedgwick, & Jament, 2012). Although classroom teachers in Italy generally have been found to have more favorable attitudes toward inclusion than teachers in the U.S. (Cornoldi, Terreni, Scruggs, & Mastropieri, 1998), special education teachers in both countries report a high degree of dissatisfaction due to not being seen as an equal partners within inclusive classrooms. Devecchi et al., (2012) found, for instance, that support teachers in Italy experience “marginalization, isolation, and personal dissatisfaction” (p. 171) in the sostegno role because they are not afforded equal status in inclusive classrooms and are, instead, “designated to teach only children with disabilities” and are encouraged to pull students out of the classroom, rather than co-teach. Special education teachers who are assigned to inclusive classrooms in the U.S. are described as “pushing into” the general education classroom. The image of a special teacher having to “push” his/her way into a classroom does not imply that they will be welcomed or invited as an equal partI. Riflessione teorica


ner. Once there, the special educator often plays a more subordinate role in the classroom (Scruggs, Mastropieri, & McDuffie, 2007). In many inclusive classrooms, the instructional practices of general education teachers are not significantly transformed as a result of either the presence of students with disabilities or support/special education teachers. In other words, classroom teachers are not enacting what we might identify as inclusive strategies (such as differentiated instruction, collaborative teaching, cooperative learning, or universal design for learning), as a result of co-teaching with a special educator or teaching an inclusive class. We might ask, what difference does assigning two teachers to an inclusive classroom make if we are not utilizing both teachers to their full advantage? Can we call a classroom inclusive simply because there are students with disabilities present? Finally, Beratan (2006) suggests that inclusion laws, such as the Individuals with Disability Education Act in the U.S., which were designed to ensure students with disabilities gain equitable access to education, have inadvertently undermined their emancipatory potential. Scholars have critiqued the largely assimilationist agenda of the current approaches to inclusion (Dudley-Marling & Burns, 2014; Slee,1999). As a result, although we now include students with disabilities in general education classrooms, we have yet to fully change the dynamic of that classroom, which created the problem of disability in the first place. Moreover, because both U.S. law and Italian law were created long before scholars in disability studies articulated a social model of disability, both contexts reflect taken-for-granted assumptions about disability that are firmly rooted in deficit model thinking. Thus, although it could be argued that Italy, unlike the U.S., did make some adjustments to inclusive classes (such as lowered class sizes), Beratan contends that the underlying worldview and unquestioned beliefs about disability and difference (including racial difference) embedded in inclusive legislation continues to prohibit the kinds of transformation that are necessary to achieve the goal of inclusive education. Thus, from a disability studies standpoint, the most important barrier to realizing the promise of full inclusion has less to do with imperfect laws or even errors of implementation, but the failure of these laws to disrupt the medical or deficit models of disability that remain embedded within current educational reforms. In other words, the current models of inclusion or integration have not shifted deficit-based views of disability; they have failed to consider disability as a socially produced and equally valid way of being in the world (D’Alessio, 2013). Thus, a shared failure of inclusive practice in both countries is the inability of these policies to transform general education instructional practice and taken-for-granted views of disability, even as supports and students with disabilities have been brought into the classroom. As Tom Skrtic argued in 1986, simply critiquing the technical practices or even the theoretical underpinnings of special education is inadequate and incomplete. Instead, he called for a complete paradigm shift in the field – a radical break with existing ways of seeing and making sense of the world. More recently, D’Alessio (2013) called for a radical shift away from a “special needs paradigm” inherent in current iterations of integrated (and I would argue inclusive) education practices toward an inclusive model informed by disability studies. For inclusion to be more than a hollow endeavor it must involve, as D’Alessio (2013) writes, “a process of radical transformation of existing education systems in the attempt anno III | n. 2 | 2015

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to create a more just and equal society” for all (p. 100). In the remaining section of this paper I highlight what I see as the potential of disability studies in education to counter the continued pull towards exclusion and achieve the real promise of a transformative inclusive education.

3. Engaging Disability Studies in Education

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The emergence of disability studies within the academy offers new analytic tools to examine both disability and normalcy in school policy and practice. Grounded in the social model of disability, disability studies “questions the parameters of normalcy, including who defines and enforces those boarders, and most crucially the repercussions for those both inside and outside of these culturally drawn and fluctuating lines” (Gallagher, Connor, & Ferri, 2014, p. 6). In other words, differences between learners are made meaningful by the social context, which determines the social consequences of differences between learners. Why is it that we stigmatize the need for hearing aides more than the need for glasses, for instance? Why do some differences “matter” (like skin tone), while others are seemingly benign (like eye color) (Gallagher et al.)? Embracing disability studies leads us to trouble many of the assumptions maintained within both U.S. and Italian models of inclusive education. A foundational assumption of a disability studies standpoint, for instance, is that the line separating disability and normalcy is socially constructed, but made to appear natural through diagnostic discourses that transform differences into pathologies. The social model positions disability, “not so much a problem in the bodies and minds of individuals, but rather a problem of societal access and acceptance of impaired (or ‘different’) ways of being in the world” (Gallagher et al., p. 17). From a disability studies standpoint, then, normalcy and disability are not “given,” but rather partners in a symbiotic and dysfunctional relationship; normalcy needs its denigrated other because without disability to prop it up, normalcy ceases to exist. Thus, normalcy could be said to have a “special need” for disability. Disability studies teaches us that questioning the line between normalcy and disability is important because “how we educate students with disabilities has everything to do with how we understand disability” (Valle & Connor, 2011, p. xi). Our taken-for-granted assumptions about disability and normalcy justify a number of interlocking practices of dividing, categorizing, and labeling students. Many of these practices, which are foundational to special education (Dudley-Marling & Burns, 2014), serve to further segregate and stigmatize students, a disproportionate number of whon are already marginalized based on race, ethnicity, gender, language difference, or social class. An unfinished task of inclusive education, therefore, must be to disrupt the centrality of normalcy and ability that remain embedded in current iterations of inclusion and integration. In other words, if we think about integrating or including students with disabilities into general education – we may have “widened the circle” (Sapon-Shevin, 2007) of access, but we have not necessarily disrupted the ways that schools continue to privilege students who can assimilate into normative expectations of ability or behavior – those students who can lay claim to smartness and goodness as forms of currency or property (Broderick & Leonardo, 2016; Leonardo & Broderick, 2011). Disability studies I. Riflessione teorica


scholarship is therefore essential to dismantling the “myth” of the normalcy that remains firmly entrenched within these practices. A constructivist view of learning conceives of learning not as something that happens internally, within the student, but in relation with others, activities, and cultural practices (Dudley-Marling & Burns, 2014). It follows then, that learning problems are likewise not located with in students, but in transaction with school structures and practices (Dudley-Marling & Burns). In a disability studies model, therefore, the object of remediation necessarily shifts from the bodies, minds, and behaviors of non-normative students to inaccessible, unwelcoming, and inflexible classrooms and school contexts. In working with teachers, I often stress that the social model and its focus on context is much more practical and useful than a medical or deficit model focus on within student differences. As a teacher, it is much easier to change one’s instructional practices than it is to change a student’s brain or body. The classroom context is something that can be modified, whereas a student’s learning difficulties will not likely be so easily changed. Moreover, teachers often find that changes that one makes with students with learning difficulties in mind end up benefiting a wider range of learners in the classroom – a key principle of universal design. Inclusive educators have long insisted that special education is a set of services, rather than a place, to highlight the idea that services can be provided regardless of setting. Yet, this argument has inadvertently reinforced the idea that inclusion can be achieved simply by placing students with disabilities in the general education classroom, without substantially changing the structures of that space. Yet, while arguing that special education is not a place, they have nonetheless focused on inclusion as a place (the general education classroom). In the U.S. we add a temporal dimension to this by procedurally quantifying inclusion as a percentage of time a child spends in a general education classroom. Thus, in the U.S., a student is considered included if he/she spends 80% of the school day in a general education classroom. A disability studies framework, can help us shift from a focus on including bodies into a particular classroom space to fostering active and meaningful participation, access, and belonging in all aspects of classroom life. It can help us to illuminate how rigid and exclusionary school structures and practices fail an increasing number of students. Rather than identify and label an ever-increasing number of students, it only makes sense to shift the very structures and practices that create failure in the first place. Because both the U.S. and Italy have failed to adequately disrupt the largely separate systems of education, both models inadvertently privilege normative (regular) students by labeling students who are considered problematic or difficult as having “special” needs (Artiles, 2005). Once labeled, disabled students are assumed to be “fundamentally different from their nondisabled peers” (Brantlinger, 2004, p. 20) and some degree of exclusion from the general class is often considered necessary to meet their needs. Thus, disability labels function as a discursively produced system of social othering that creates and reifies divisions between students who are considered normal and regular and those who are seen as deficient and disordered (Slee, 2004). In other words, the infrastructure of special education functions primarily to recast what should be thought of as human diversity and variation into disorders and pathologies (Dudley-Marling & Burns, 2014). anno III | n. 2 | 2015

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The infrastructure built up around inclusion/integration has also failed to fully merge the two parallel educational systems of general education and special education or promote shared responsibility for all learners. Both Italy and the U.S., for instance, have maintained separate teacher certifications for sostegno or special education teachers. The implicit message that teachers receive is that students with disabilities are so qualitatively different from their non-disabled peers that specially trained teachers much be employed to accommodate their “special needs.” Separately training teachers naturally leads to a lack of shared responsibility for all learners because each partner believes his/her own expertise to be narrow and incomplete. It also suggests that pedagogical content knowledge can and should be divided up between teaching partners – one with knowledge of student difference and the other with knowledge of academic content. This model places an inordinate responsibility on special teachers, who are responsible for accommodating students who are labeled as having “special needs,” rather than on the general education teacher working collaboratively with the special teacher to transform the classroom into a dynamic and responsive learning environment that supports all learners. In practice, this leads to special educators tinkering around the edges of the learning context, making retro-fit accommodations on the fly, rather than wholly shifting practices or fully taking full advantage of both teaching partners. It also absolves the general education teacher from shifting his/her practices in any significant way or taking responsibility for all learners in his/her classroom (D’Alessio, 2013). Finally, it creates divisions and atomization of labor, rather than supports transformation and creative problem solving. In my own work with secondary pre-service teacher educators, for instance, I stress how as content specialists they know more about how to scaffold instruction around their content area than a special education teacher who would not have the same expertise or content knowledge. If I am a student who is having difficulty understanding a math concept, for instance, who would be better able to analyze the errors in my thinking and find an alternative ways to explain the concept than someone who has had extensive coursework in math? Yet, because we believe the problem is a disability issue (as opposed to a math issue), we assume that a student with a disability who struggles in math requires a special educator rather than a really good math teacher. Inclusion for all of its successes, has yet to disrupt this “special needs” orientation, which hyperfocuses on disability, rather than on finding innovative ways to ensure all learners have access to high quality instruction. Moreover, because disability continues to be seen as intrinsic to the child, classroom instruction often falls outside the diagnostic gaze. In the U.S. context, for example, neoliberal reforms have stressed the importance of evidenced-based instruction for all learners, but particularly for those who struggle to meet grade level expectations. Evidence-based instruction is presumed to be effective for all students and, in fact, not being able to respond adequately to evidence-based instruction can now be counted as “evidence” of a learning disability, with a practice known as Response to Intervention (or RTI). Similarly, in Italy, students who fall outside norms for achievement or behavior continue to be labeled as having special needs. As stated, once a student is labeled as having special needs, classroom teachers are quick to assume that only specially trained teachers will have the necessary skills to meet those “special” needs. A disability studies model would I. Riflessione teorica


create more fluid system of supports that would be available for all students. It would also displace professional expertise as the sole authority of disability. Instead, students with disabilities and families would be seen as important sources of expertise and knowledge about disability (D’Alessio, 2013). Rather than thinking of supports for students with disabilities as “softening the blow” of a rigid general education system, a disability studies reorientation would shift to a social justice orientation (Kugelmass & Ainscow, 2004) focused on educational access, equity, and human rights (Dudley-Marling & Burns, 2014). At its core, inclusion is a commitment to adapting instruction for all learners, not an expectation that a child will assimilate into the status-quo of classroom practice or school structures. School failure becomes a “school” failure, not a student failure. Part of this task will require acknowledging that the current system is not working for a wide range of learners and embracing diversity and difference as important sources of knowledge to inform practice (Skrtic, 1991). Skrtic, for instance, positions school failure as primarily a failure in the organizational structure of schools rather than deficiencies within students. In a bureaucratic and rigid system, students that cannot “fit” proscribed and standardized structures and evidence-based methods must be removed. By stepping in to take care of the “problem” of disability and diversity, special education has thus prevented the larger field of education “from entering into a productive confrontation with uncertainty.” Moreover, because uncertainty is a necessary precondition for growth, Skrtic argues that removing diverse students prevents general education from “living up to its democratic ideals” (p. 97) and from benefitting from an important sources of knowledge, change, and progress (p. 126). To embrace disability studies in schools, classroom contexts would shift in several important ways. Classrooms teachers would both expect and embrace diversity and difference, rather than assume homogeneity. This might mean that rather than focus on “what works” for a majority of students (such as evidencebased practice or undifferentiated curriculum), teachers would understand that all students have unique learning strengths and needs. Teachers would presume competence in students (Biklen, 2005), rather than presume deficits – they would maintain high expectations and share responsibility for all learners. Rather than uncritically assume that students will adapt to arbitrary norms, a disability studies approach would embrace disability-centric ways of knowing and being in the world as equally valid and even preferable if they are the most efficient mode of learning or being for a particular student (Hehir, 2002). Importantly, the scope of inclusion would expand from simply being about who we teach, but also about what we teach. Students would be exposed to thinking about disability as an important aspect of diversity and identity and the curriculum would reflect this view. Rather than presuming that inclusion is simply part of a continuum of supports or services, disability studies would encourage teachers to incorporate lessons on the representation of disability in art, literature, and film. Word problems in math might feature a question that required students to estimate how many revolutions a wheelchair would have to travel from point A to point B or that required them to determine the circumference of a classmates tire. Students in history classes might learn about disability rights movements around the world in conjunction with other social and political movements. By incorporating lessons about disability, students, both disabled and anno III | n. 2 | 2015

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non-disabled, would come to learn that disability is part of what it means to be human and to live in a diverse society. Finally, a disability studies model of inclusion would account for intersectionality and address the multiple ways that students are marginalized in schools based, for example, on social class, primary language, immigrant or refugee status, ethnicity, sexual preference, gender identity, or differences in ability. History has demonstrated that the moment segregated special classes came into being in the U.S., they were disproportionately filled with students from racial and ethnic minority groups, from immigrant populations, and from lower social classes and statuses (Erevelles, 2005; Ferri & Connor, 2006; Franklin, 1987). Racial and ethnic disparities continue in the U.S. both in terms of numbers of students labeled and by type of placement (Waitholler & King-Thorius, 2015). Moreover, black students with disabilities in the U.S. spend considerably more time in segregated special education classrooms compared to their white peers with disabilities (Waitholler & King-Thorius). Failing to address these sources of inequity and exclusion has resulted in a longstanding problem of students of color in the U.S. being labeled as having special education needs. Similar overrepresentation in segregated educational placements can be seen among immigrant, refugee, and Rom students across Europe. Informed by critical theory, disability studies attempts to trace the ways that power, exclusion, and inequity reproduce themselves in order to benefit dominant groups. Embracing disability studies within inclusion/integration would require us to take seriously all forms of exclusion and deficit thinking to ensure that schools are places where all manner of difference is embraced and welcomed.

4. Conclusion: Need to Lead Once More

Although inclusion or integration, at least on the surface, seems to support educational rights and access, a more critical examination informed by disability studies would help us to see how many of our current practices continue to create forms of social injustice and exclusion. As Linton (2006) argues, “special education is not a solution to the ‘problem’ of disability, it is the problem, or at least one of the major impediments to the full integration of disabled people in society” (p. 161, italics in original). Thus, “much work remains to be done to ensure equitable, inclusive, and quality educational opportunities and outcomes” for all learners (Giangreco & Doyle, 2015, p. 25). Continuing to locate deficits within students, inclusive policies, like all special education practices, serve as tools to reinforce normalcy the exclusivity of general education – allowing it to maintain a false sense of homogeneity and rigid notions of normalcy, even as it allows some students at least provisional access. As recent international policy has recognized, a more fully inclusive policy, or what I like to call Inclusion 2.0, will be necessary to address all of the various ways that students are marginalized in schools. In order to achieve this goal, Italy must once more take the lead by embracing disability studies in education as the way to more fully realize its commitment to fully inclusive education.

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Riflessioni su una nuova prospettiva: la cattedra mista

Key-words: special needs education, inclusion, school, special didactics, special pedagogy, students with disability, inclusive teaching methodologies.

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Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The aim of this article is to offer an help in understanding the difficult aspects involved in being a special education needs teacher in the Italian School, by a proposal that starts from examining this role’s weak points and go as far as thinking about a different upskill for the professional resources working for inclusion. If the bill C2444, promoted from the federation FISH and FAND, wants to relaunch the school inclusion by creating separate careers for special education needs teachers, then the here proposed theory is determined to reverse this view, considered as “non-inclusive”. The authors of this article think that if a teacher could teach a subject in part of his time and teach as special education teacher in the other part, he could be a positive change agent for all his students.

abstract

Claudio Berretta (Università degli Studi di Torino / claudio.berretta@unito.it) Evelina Chiocca (Università di Trento e del Molise / evelina.chiocca@scuole.provincia.tn.it) Paolo Fasce (Università di Genova / paolo.fasce@unige.it) Giulia Giani (insegnante di italiano e latino / giulia.giani@istruzione.it) Michela Giangualano (insegnante specializzata di scuola primaria / michela.giangualano@istruzione.it) Tina Naccarato (Università Cattolica di Milano / concettina.naccarato1@istruzione.it)

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Premessa

Gli autori di questo articolo, pur cercando di agire all’interno di un quadro di riferimento teorico solido, sono prima di tutto insegnanti ogni giorno impegnati in attività educativo-didattiche, che richiedono riflessione e preparazione per rispondere ai bisogni formativi di ciascun alunno e affrontare le molte situazioni di difficoltà, alcune di queste intrinseche al ruolo di insegnante, altre derivanti dalla situazione di carenza di risorse, umane e materiali, cui si aggiungono modifiche normative che, a nostro avviso, non favoriscono la creazione nelle scuole di un clima positivo, necessario per la realizzazione di comunità di apprendimento inclusive. Per questo è possibile che il presente contributo non abbia caratteristiche di scientificità pienamente soddisfacenti, ma lo scopo non è in effetti questo, quanto piuttosto quello di essere un’occasione per creare un ponte tra mondo accademico e mondo della scuola e riflettere insieme su un tema fondamentale per il futuro dell’integrazione e della realizzazione di scuole inclusive: la ridefinizione del ruolo dell’«insegnante di sostegno»1.

Introduzione

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Le mutate condizioni politico-sociali e i repentini cambiamenti culturali richiedono, anche in tema di disabilità, un rinnovamento che risponda con efficienza ed efficacia ai bisogni delle persone con disabilità, assicurando loro un’effettiva partecipazione sociale. Dopo circa quarant’anni dall’avvio del processo di integrazione scolastica, e a distanza di ventitré anni dalla Legge quadro 104/1992, si avverte oggi l’esigenza di un cambiamento che consenta l’effettiva realizzazione dello spirito di quella legge ancora oggi valida e parzialmente inattuata. Per evitare la delega esclusiva all’«insegnante di sostegno» dei compiti relativi all’integrazione degli alunni con disabilità e per incentivare la continuità dei docenti su posto di sostegno, pensiamo possa essere utile permettere ai docenti specializzati di esercitare la propria professionalità sia come insegnante curricolare che come «insegnante di sostegno»: in questo modo si alimenterebbe il circolo virtuoso della valorizzazione professionale, della spendibilità dei titoli acquisiti, della sostenibilità dei carichi di lavoro, della gratificazione professionale e personale, della condivisione reale delle problematiche da parte di tutti i colleghi del consiglio di classe nella corresponsabilità del processo di inclusione scolastica. È opportuno partire dagli obiettivi per poi valutare le strategie e configurare gli strumenti utili a raggiungerli. L’obiettivo condiviso consiste nell’ottimizzazione dell’inclusione scolastica e sociale degli alunni con disabilità entro il quadro di un progetto di vita che la scuola, insieme alla famiglia e al territorio, è chiamata 1

Per «insegnante di sostegno» si intende: “insegnante specializzato per le attività di sostegno”. L’espressione «insegnante di sostegno» ripresa nell’articolo è quella che, solitamente, viene utilizzata in ambito scolastico, assumendo, spesso, una connotazione limitante e riduttiva.

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a co-prefigurare e co-costruire attivamente, coerentemente con la normativa vigente (riportata al fondo dell’articolo). Per conseguire tale obiettivo è importante attivare un lavoro di rete, nel quale riveste un ruolo fondamentale, insieme agli altri docenti, la figura dell’insegnante specializzato per il sostegno, come delineata nella Legge quadro 104/1992 in particolare negli articoli 13 e 14.

1. Il docente specializzato: aspetti storici

In questi ultimi anni nella scuola si avverte sempre più, oltre che una carenza generale di formazione sull’inclusione di tutti gli insegnanti, una scarsità di insegnanti specializzati. Molti di loro hanno fruito della possibilità, consentita dalla normativa vigente, di trasferirsi su “posto comune” (scuola primaria e infanzia) e “cattedra curricolare” (scuola secondaria di primo e di secondo grado), presentando apposita domanda dopo i cinque anni di permanenza obbligatoria su posto di sostegno o successivamente. Nella scuola secondaria l’accoglimento della richiesta è fortemente condizionato dalle possibilità delle varie classi di concorso. Questa scelta, insieme alle mancate assunzioni in ruolo e alle assegnazioni annuali degli incarichi, ha determinato un continuo turn-over di insegnanti specializzati e non specializzati, spesso precari, con una conseguente carenza di continuità, che ha contribuito, in parte, a rendere più difficoltoso il percorso scolastico degli alunni della classe e, in particolare, di quelli con disabilità (Berretta, 2012). La “precarietà di fatto” è caratteristica che interessa peraltro anche gli insegnanti curricolari, perché questi ultimi sono coinvolti negli spostamenti determinati da “assegnazioni provvisorie” e “utilizzi” che incrementano ovunque la condizione di “non-continuità” e di carenza di progettualità per la classe e per gli allievi con disabilità. La storia della formazione degli «insegnanti di sostegno» è iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, periodo nel quale l’orientamento era ancora caratterizzato da una prospettiva prevalentemente sanitaria. Per un certo periodo l’eredità delle scuole speciali si è fatta ancora sentire in quanto erano possibili sia la specializzazione polivalente che quella monovalente (che consente di essere assegnati unicamente o a casi di disabilità sensoriale oppure a casi di disabilità psicofisica). La scelta di adottare una formazione polivalente afferisce all’idea di inclusione pedagogicamente orientata a creare condizioni di accoglienza idonee a realizzare una scuola inclusiva, piuttosto che a svolgere a scuola un lavoro specialistico concentrato sulla patologia. Già allora, comunque, si immaginava una solida formazione iniziale associata alla formazione continua che, tuttavia, negli anni Novanta avrebbe assunto connotati rivelatisi per lo più inadeguati. Ma è proprio in questo periodo, immediatamente dopo l’emanazione della legge-quadro, 104/92, che la formazione dei docenti specializzati si è affermata come polivalente e con forte connotazione pedagogica. La legge 107/2015 affronta il tema della formazione in servizio di tutti i docenti, mentre delega al Governo di legiferare sulla formazione iniziale degli «insegnanti di sostegno». Nelle more delle contrattazioni sindacali, la formazione in servizio, continua e obbligatoria, è stata per lungo tempo affidata alla anno III | n. 2 | 2015

AUTORI VARI

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scelta del singolo insegnante, senza finanziarla o indirizzarla operativamente in maniera significativa. Inquadrata come “diritto-dovere”, e non come obbligo, la possibilità di personalizzare l’aggiornamento si è rivelata, nel tempo, inadeguata per l’assenza di forme di controllo. Il passaggio della competenza della formazione iniziale degli «insegnanti di sostegno» alle università ha visto una diversificazione delle tematiche affrontate, nelle quali l’aspetto didattico e pedagogico si è affermato sostituendo vieppiù quello medico-riabilitativo. Con la legge 107/2015 è stato reintrodotto l’obbligo di aggiornamento, continuo e in servizio2, concernente anche il tema della disabilità, prevedendo lo stanziamento di appositi fondi. Tuttavia appare ancora non chiaro se ciò sarà foriero di reale efficacia e se il sistema sarà in grado di evolvere per rispondere alle aspettative, in particolare quelle legittime dell’utenza3. In ogni caso difficilmente possono realizzarsi cambiamenti positivi attraverso una norma imposta agli insegnanti, che ad essa si erano opposti non tanto per ragioni corporative, ma a causa di un’impostazione che, a loro avviso, ignora completamente l’idea di “comunità educante”, fondamentale per la realizzazione di scuole efficaci ed inclusive (Sergiovanni, 2000; Costa, Kallick, 2007).

2. La proposta di legge C-2444 FISH-FAND

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È opinione condivisa che il bisogno di continuità didattica e il tentativo di arginare il frequente turn-over sui posti di sostegno costituiscano i principali motivi che hanno condotto alla formulazione della richiesta – contenuta nella proposta di legge C-2444 in discussione in Parlamento – di una carriera separata per i docenti specializzati per il sostegno, con istituzione di una relativa e specifica classe di concorso, unita a quella del mantenimento di uno stesso docente specializzato in affiancamento al singolo studente certificato per ciascun ciclo di studio. Difficilmente si potrebbero altrimenti spiegare le indicazioni contenute nella PDL, se non con il tentativo di mantenere i docenti “bloccati” su posto di sostegno: non verrebbero, infatti, considerati, in questo modo, il bisogno formativo degli alunni con disabilità, il contesto culturale, il gruppo-classe e, sul versante del docente, i punti deboli di una organizzazione che rende frequente il turn-over (Chiocca, 2013-14). Per riuscire ad ottenere un risultato formativo e inclusivo di qualità occorre, invece, partire da una riflessione sui punti di debolezza, organizzativi e strutturali

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Nell’Art. 1 Comma 124 della Legge 107/2015 si legge: “Nell’ambito degli adempimenti connessi alla funzione docente, la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale”, tuttavia, subito dopo si lascia molto più spazio interpretativo: “Le attività di formazione sono definite dalle singole istituzioni scolastiche in coerenza con il piano triennale dell’offerta formativa e con i risultati emersi dai piani di miglioramento delle istituzioni scolastiche previsti dal regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 2013, n. 80, sulla base delle priorità nazionali indicate nel Piano nazionale di formazione, adottato ogni tre anni con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sentite le organizzazioni sindacali rappresentative di categoria”. Cfr. Fasce P., 2014a.

I. Riflessione teorica


del sistema, riconoscerli e valutarli, per poi definire soluzioni incentivanti e valorizzanti, e non limitanti e deprimenti, sia per gli alunni che per i docenti formati per l’inclusione, trasformando un problema in risorsa. Le conseguenze sistemiche di un’azione così delineata potrebbero concretizzarsi in un’evoluzione positiva, con ricadute significative sul successo formativo degli alunni e, al tempo stesso, sulla professionalità, sulla continuità e sulla motivazione dello stesso personale docente. L’eventuale opzione per una carriera separata, che condurrebbe alla formazione di personale “non docente”, appare a nostro avviso anti-inclusiva, antipedagogica e perdente sul piano sociale e culturale, aprendo al rischio di una probabile evoluzione verso ruoli di tipo assistenziale, certamente necessari, ma pedagogicamente poco lungimiranti. L’istituzione della figura dello specialista “dedicato” in via esclusiva alla problematica “diagnostica”, piuttosto che alla persona, potrebbe portare alla deresponsabilizzazione dei docenti curricolari che, posti di fronte a figure specificatamente dedicate, quelle assegnate al sostegno, in virtù di una laurea magistrale specifica e specializzante (e a seguito di un concorso specifico), potrebbero assumere atteggiamenti di delega che, non pochi, temono sarebbe diffusa (Naccarato, 2015a). La formazione “parziale” dei docenti curricolari sulle tematiche dell’inclusione risulterebbe non comparabile con quella specialistica delle figure di sostegno, le quali, private in via quasi definitiva della possibilità di insegnare all’intera classe e, quindi, mettendo in discussione la contitolarità sulla classe, non differirebbero in maniera determinante dalla figura dell’educatore o assistente ad personam, già oggi presente all’interno delle aule scolastiche (il quale, di fatto, è percepito dagli insegnanti come un corpo estraneo alla comunità scolastica, proprio per la mancanza di competenze disciplinari e didattiche). Non solo: tale contitolarità, sancita inequivocabilmente dalla legge n. 104/1992, che declina oggi l’idea stessa di inclusione nel concretarsi come assegnazione alle classi di risorse formate per insegnare a tutti, verrebbe svuotata della sua stessa ragion d’essere, in quanto il profilo prospettato sarebbe la risultanza di un itinerario formativo diverso da quello dei docenti, proprio perché esperto di specialismi. Allo stato attuale, chi è chiamato ad operare nelle classi è un insegnante a tutti gli effetti, per questo in grado di mediare i contenuti disciplinari in favore di ogni studente della classe e in grado di interagire con gli altri docenti in quanto membro effettivo del consiglio di classe. L’ipotesi in discussione in Parlamento prevede una figura “affiancata allo studente certificato”, cioè uno specialista del singolo disturbo o un “mediatore della comunicazione”, buon conoscitore delle problematiche specifiche degli studenti con disabilità, ma non della “persona” dello studente come soggetto facente parte di un sistema-classe e dei linguaggi e degli strumenti concettuali atti a garantire lo sviluppo di obiettivi educativi e curricolari. Diventerebbe così improbabile la realizzazione di una contitolarità della classe come previsto dal comma 6, art. 13 della Legge 104/1992. È probabile che una tale figura venga vissuta come estranea al corpo docente, determinando un’analoga estraneità degli allievi con disabilità dal gruppo-classe (Berretta, 2015b). In posizione diametralmente opposta è la proposta di Dario Ianes, che prevede il passaggio nell’organico curricolare del 80% degli attuali «insegnanti di sostegno» e l’utilizzo del restante 20% per funzioni di consulenza (Ianes, 2014, 2015). anno III | n. 2 | 2015

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3. La proposta delle “cattedre miste”

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In questo contesto, e all’interno di questo articolato percorso, prende vita la proposta della “cattedra mista”. Dato che “precariato”, “utilizzi”, “riconduzione a 18 ore di lezione di insegnamento in classe anziché con ore a disposizione”4, “assegnazioni provvisorie” ed inevitabile “turn over generazionale” hanno ridotto nell’ultimo decennio il personale stabile delle scuole a percentuali non distanti dal 60%, al fine di incentivare la continuità didattica e favorire il processo inclusivo di tutti gli alunni, e degli alunni con disabilità in particolare, è possibile ricorrere ad una nuova struttura organizzativa. Nel quadro di quello che fino a ieri era definito “organico di diritto” e di quello che oggi viene indicato come “organico potenziato”, si propone di valutare la disponibilità degli insegnanti specializzati sul sostegno, che si sono trasferiti su posto comune o disciplinare, a svolgere parte del proprio orario di servizio anche su posto di sostegno. La disponibilità degli insegnanti in ruolo consentirebbe di accompagnare gli studenti per tutto il loro percorso scolastico. I vantaggi sono evidenti in termini di radicamento, di efficacia dell’intervento, di elasticità dell’organico (nel quale si innesta l’odierno “organico potenziato”), di sviluppo professionale e di percezione positiva di sé dell’«insegnante di sostegno». I motivi che potrebbero indurre gli insegnanti specializzati a impegnare parte del servizio su posto di sostegno investono la professionalità docente, riqualificata nell’alternanza delle funzioni, consentendo, in tal modo, anche minori oneri e maggiori soddisfazioni. Motivazioni etiche, didattiche e professionali sono quindi a supporto di questa proposta. La possibilità di una professionalità che si vede riqualificata nell’alternanza delle funzioni e rigenerata da nuovi oneri, ma anche da soddisfazioni diverse, rende meno gravosi i primi e gratificanti le seconde, ponendosi come base psicopedagogica della proposta delle cattedre miste5. La formulazione di questa proposta è avvenuta in vari ambiti e situazioni indipendenti e sinergiche (le più significative delle quali sono riportate in bibliografia), come è successo spesso per altre proposte in contesti affatto diversi6. È del 2013 la petizione on line, che aveva tra i suoi primi firmatari Evelina Chiocca (presidente CIIS7), Paolo Fasce, Giulia Giani, Angela Nava (presidente CGD8) e 4 5

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Nella scuola secondaria, in frequenti contesti e per varie classi di concorso, questa disposizione porta ad una suddivisione non efficace degli insegnamenti e alla possibile perdita della continuità didattica in anni successivi per il vincolo del rispetto delle 18 ore di lezione. Onorina Gardella in (Fasce P., Paola D., 2011): «Tutta la psicologia sistemica, oltre al buon senso, ci dice che quando si ha cura di cambiare i ruoli all’interno di un sistema, di non farli sclerotizzare, le patologie, le disfunzioni del sistema e le sofferenze dei singoli diminuiscono poiché aumentano le possibilità di cambiamento, di evoluzione, di innovazione personale e relazionale. In questo caso anche professionale». Si pensi all’algebra di Abel e Galois o al calcolo differenziale di Newton e Leibnitz, per fare esempi noti e nobili. Coordinamento Italiano Insegnanti di Sostegno. Coordinamento Genitori Democratici, associazione di genitori fondata negli anni settanta da Gianni Rodari (www.genitoridemocratici.it).

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Maurizio Parodi, presentata al 9° Convegno Internazionale “La Qualità dell’integrazione scolastica e sociale” nel novembre 2013 nel workshop “Insegnanti bisabili? L’evoluzione dell’«insegnante di sostegno»: innovazioni radicali e sviluppo del ruolo professionale” che coinvolse Andrea Canevaro, Paolo Fasce, Dario Ianes e Carlo Scataglini. In questi ultimi due anni i rappresentanti di differenti associazioni si sono riuniti in un gruppo di lavoro che ha prodotto nuove formulazioni (Giani, Fasce, 2015). Una delle idee cardine della nuova proposta è quella di partire dalla questione della continuità dell’intervento didattico-pedagogico, aspetto cruciale nel campo delle legittime aspettative non solo dei genitori, ma degli stessi docenti e del sistema inteso in senso olistico. Nel corso degli ultimi anni la proposta delle “cattedre miste” ha gradualmente visto sostenitori sempre più numerosi, che possono essere riconducibili a due tipologie: coloro che sono stati convinti dalle argomentazioni promosse dal gruppo storico che l’ha elaborata e affinata nel tempo, alla luce delle considerazioni didattiche, organizzative e strutturali che guardano alla risoluzione del problema cardine di quest’area, cioè quello dell’inclusione scolastica e sociale degli studenti con disabilità e gli «insegnanti di sostegno» che, allo stato attuale, sono lontani da un trasferimento su posto comune e che sposano queste tesi spesso per avvicinare nel tempo la prospettiva del passaggio. Se un supporto alle nostre tesi esclusivamente interessato da contingenze personali è poco o per nulla condivisibile, dobbiamo però considerare che dare la possibilità agli «insegnanti di sostegno» di svolgere una parte del proprio orario nell’insegnamento di una o più discipline contribuirebbe a ridurre il desiderio, spesso presente negli stessi, di transitare in via esclusiva alla sola disciplina. È bene sottolineare il fatto “che un docente specializzato, professionalmente competente e consapevole del ruolo ricoperto, può offrire contributi significativi quando è impegnato su posto comune o disciplinare” (Chiocca 2013-14). La duplice possibilità, quindi, per un insegnante curricolare di effettuare ore di sostegno e per un «insegnante di sostegno» di effettuare ore di insegnamento disciplinare alimenterebbe, a nostro parere, il circolo virtuoso della valorizzazione professionale, della spendibilità dei titoli acquisiti, della sostenibilità dei carichi di lavoro, della gratificazione professionale e personale, della condivisione reale delle problematiche da parte di tutti i colleghi del consiglio di classe, i quali, a loro volta, potrebbero fattivamente essere investiti della corresponsabilità del processo di inclusione scolastica (Naccarato, 2015b). In sostanza la proposta delle cattedre miste potrebbe indurre molti insegnanti a riconsiderare la loro permanenza su posto di sostegno, grazie alla possibilità di occuparsi dell’inclusione della classe anche da un’angolatura differente, come quella disciplinare. Ciò eviterebbe in parte il turn-over sul sostegno e permetterebbe agli insegnanti specializzati di integrarsi maggiormente nel gruppo dei docenti: un insegnante che svolge entrambi i ruoli è certamente meglio riconosciuto come interlocutore dai colleghi sia di disciplina che di sostegno. L’ipotesi è che questo tipo di organizzazione potrebbe produrre una ricaduta positiva su tutti gli allievi, una maggiore diffusione di pratiche di didattica inclusiva, una più stretta collaborazione tra insegnanti curricolari e di sostegno e una maggiore condivisione delle responsabilità nei confronti di tutti anno III | n. 2 | 2015

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gli allievi in una dimensione di effettiva “contitolarità della classe” (Berretta 2014, 2015a, 2015b). Sarebbe interessante una ricerca volta a verificare questa ipotesi9, ma, nel nostro ruolo di insegnanti, possiamo solo rilevare le criticità e formulare ipotesi di direzione del cambiamento. Ai professionisti della ricerca l’eventualità di indagare su quali delle proposte attualmente in campo possa essere più coerente con un percorso di costruzione di una scuola realmente inclusiva, in cui gli allievi con disabilità possano sentirsi non corpi estranei, ma membri effettivi di una comunità di apprendimento.

Riferimenti bibliografici

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In concomitanza con l’attivazione della “cattedra mista” «devono essere avviati percorsi di ricerca da parte dell’università, in continua interazione e dialogo con la scuola secondaria, per mettere a punto un modello pedagogico-didattico coerente con le finalità inclusive», Chiocca E., 2015, “Iperspecializzazione dell’insegnante di sostegno. Una buona via per la Qualità dell’integrazione?” Rimini 14 novembre.

I. Riflessione teorica


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istruzione/scuola-e-inclusione-una-rivoluzionaria-proposta-di-legge-sul-sostegno (ultima consultazione: 27/10/2015).

Riferimenti normativi

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I. Riflessione teorica


Il pionieristico approccio educativo di Samuel Gridley Howe

Key-words: Educational approach; disability; teaching method; Laura Bridgman; Samuel Gridley Howe.

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno III | n. 2 | 2015

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Samuel Gridley Howe, the director of the first institute for students with visual impairments in the United States, the New England Asylum for the Blind, had a leading role in the international history of Special Education. The American physician and educator, through his revolutionary approach to visual impairment, offered interesting suggestions to the educational research of the early nineteenth century, which was oriented to ensure to persons with disabilities a decent life, and was strongly influenced by the principles of the humanitarian philosophy, the evangelical thought and the philanthropic movement. Howe strongly supported the idea that the education of persons with disabilities should not be carried out in segregating asylums: his teaching methods and the success of his educational approach to the disability of Laura Bridgman, a girl who could only communicate through touch, attracted the attention of philosophers, theologians and writers of the time who saw in that sort of miracle “an object of peculiar interest”. His work, representing an interesting example of the educational challenge, led to the foundation of a new educational approach to persons with disabilities, anticipating the studies on the identification and development of different intellectual and vicarious skills.

abstract

Diana Carmela Di Gennaro (Università degli Studi di Salerno / ddigennaro@unisa.it) Iolanda Zollo (Università degli Studi di Salerno / izollo@unisa.it) Maurizio Sibilio (Università degli Studi di Salerno / msibilio@unisa.it)

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1. Introduzione

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Nella storia della Special Education internazionale una figura di rilievo è sicuramente quella di Samuel Gridley Howe (1801-1876), medico ed educatore statunitense, il cui pensiero progressista e riformista, nella prima metà dell’Ottocento, offrì un forte impulso alla ricerca e alla riflessione in ambito educativo. Nello specifico, lo studioso americano rivoluzionò l’approccio educativo alla disabilità visiva, dedicandosi costantemente alla creazione di materiali, di libri di testo personalizzati e di mappe specifiche che supportassero gli allievi non vedenti nel processo di apprendimento. Howe, infatti, fu direttore del New England Asylum for the Blind, primo college per studenti con disabilità visiva istituito negli Stati Uniti. Il medico prese così a cuore questo incarico e la responsabilità di garantire un percorso adeguato ai suoi studenti, che decise di trascorrere un anno in Europa al fine di studiare ed analizzare le scuole esistenti oltreoceano (Freeberg, 1992). La Special Education del Nord America, difatti, mutuò profondamente l’esperienza europea, in particolare quella francese e britannica, recependo le interessanti riflessioni provenienti dagli ambiti filosofici e pedagogici del vecchio continente (Osgood, 2008). A partire dal contributo già offerto nel Settecento da figure come l’Abbé de L’Épée e Valentin Haüy, che si erano occupati delle disabilità sensoriali, e di Philippe Pinel, il quale aveva evidenziato l’esigenza di un trattamento morale su base sociale, oltre che medica, nei confronti dei soggetti con ritardo mentale, gli studi di Jean Marc Itard e Édouard Séguin, agli inizi dell’Ottocento, costituirono uno stimolo ulteriore alla riflessione sulla disabilità in ambito educativo, aprendo la strada ad una serie di considerazioni sul “principio di educabilità” dei soggetti con disabilità, ponendo l’accento sulle possibilità di sviluppo delle potenzialità individuali mediante il ricorso ad interventi educativi mirati che tenessero conto della specificità della persona. Stimolata dal pensiero illuminista, la società americana dei primi dell’Ottocento si mostrò orientata a garantire alle persone più deboli o disabili una vita dignitosa. Sulla base di una filosofia umanitaria, dell’impegno evangelico e dello slancio filantropico, gli americani diedero vita, a partire dal 1817, ad una complessa rete di istituzioni che potesse provvedere alle specifiche esigenze delle persone in difficoltà. Tale impostazione coincideva con un periodo di grandi riforme basate sul riconoscimento della necessità di una responsabilità sociale verso le persone con disabilità che diede vita al sistema duale dell’educazione comune e dell’educazione speciale che, nonostante gli sforzi riformativi, resta oggi prevalente negli Stati Uniti: “the common school movement has long constituted one of the defining themes and primary focal points of scholarship in the history of American education” (Osgood, 1997, p. 375). Il movimento riformista marcò indelebilmente il tessuto storico e culturale dell’America e di altri Paesi, cambiando il corso degli interventi educativi per studenti in situazione di disabilità.

I. Riflessione teorica


2. Laura Bridgman: “an object of peculiar interest”

La figura di Samuel Gridley Howe è storicamente legata all’esperienza vissuta con Laura Bridgman, giovane ospite del Perkins Institution for the Blind di Boston, in grado di comunicare solo attraverso il tatto. La bambina, infatti, all’età di 2 anni aveva contratto la scarlattina, che l’aveva resa sorda, cieca e con una ridotta sensibilità del gusto e dell’odore. Nel 1837, all’età di 7 anni, Laura arrivò all’istituto diretto da Howe e, guidata da quest’ultimo, diventò la prima persona cieca e sordo-muta in grado di comunicare attraverso il linguaggio astratto di un alfabeto manuale, piuttosto che mediante un grezzo sistema di gesti (Freeberg, 1992). Howe, infatti, elaborò un metodo di insegnamento basato sull’abilità della ragazza di percepire le differenze nella forma degli oggetti. Partendo da questo tipo di distinzione, il medico le insegnò man mano i nomi degli oggetti con i quali la ragazza veniva in contatto, utilizzando inizialmente etichette con stampe in rilievo. In seguito, Howe le spiegò come comporre queste parole utilizzando lettere mobili, così come veniva fatto con gli altri studenti non vedenti del Perkins Institute. Incoraggiato dai progressi di Laura e determinato a raggiungere risultati ancora più positivi, Howe decise di integrare l’approccio che stava usando con un metodo di comunicazione che era stato sviluppato per studenti sordi. Egli insegnò, infatti, alla sua giovane allieva nuove parole attraverso il finger spelling: il medico compitava le parole nella sua mano e poi le associava ad oggetti e ad azioni. Tale metodo fu successivamente utilizzato da Anne Sullivan con Helen Keller (Smith & Anton, 1997), partendo dal presupposto che un approccio integrato capace di attivare canali sensoriali diversi, potesse favorire il processo di apprendimento in modo più efficace. Per molti decenni, Laura Bridgman attirò l’attenzione internazionale, diventando un simbolo per molti intellettuali americani “exemplifying the power of enlightened educational techniques and their capacity to transform seemingly hopeless cases” (Gallaher, 1995, p. 282). Il metodo di Howe ed il successo del suo approccio educativo alla disabilità di Laura Bridgman attirarono l’attenzione di filosofi, di teologi e di scrittori dell’epoca che vedevano in quella sorta di miracolo “an object of peculiar interest”. Lo stesso medico statunitense aveva compreso che “if he should succeed in teaching her to communicate, he surely realized, his work would have far-reaching religious and philosophical implications that would capture the attention of the world” (Freeburg, 1992, pp. 194-195). Il suo contributo fu considerato rivoluzionario in quanto mise in discussione le convinzioni dell’epoca relativamente alle possibilità di apprendimento della mente; per più di un secolo, infatti, le riflessioni di John Locke secondo cui la mente è una tabula rasa che può essere sviluppata attraverso specifiche esperienze sensoriali, avevano avuto forti influenze anche in ambito educativo. Se tale impostazione fosse stata corretta, dunque, la mente di Laura avrebbe dovuto essere priva di qualsiasi concetto o rappresentazione mentale, compresi i principi morali e religiosi (Gitter, 2001). Durante la sua esperienza con Laura, però, Howe comprese che la mente della ragazza non era affatto una tabula rasa, descrivendo la sua dimensione interiore come un’anima imprigionata in un corpo che era “active, and struggling continually not only to put itself in communication with things without, but to manifest what is going on within itself” (Howe, 1893, p. 9). Nei suoi report, infatti, anno III | n. 2 | 2015

D.C. DI GENNARO, I. ZOLLO, M. SIBILIO

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Howe notava come: “her moral sense, is remarkably acute; few children are so affectionate or so scrupulously conscientious, few are so sensible of their own rights or regardful of the rights of others” (Howe, 1893, p. 50). A supporto della sua tesi secondo la quale Laura avesse una morale innata, Howe descrisse minuziosamente il suo comportamento verso gli altri allorquando la ragazza ebbe imparato a comunicare. Egli riportò che era sempre desiderosa di interagire con gli altri e di prendersi cura delle persone in difficoltà, mostrando un vivo interesse per coloro che presentavano una disabilità. A stemperare questo grande altruismo di Laura, Howe notò anche un atteggiamento di biasimo da parte della ragazza verso i bambini del Perkins Institute che Laura considerava mentalmente inferiori (Smith & Anton, 1997). Uno dei più famosi ed influenti visitatori dell’istituto, Charles Dickens, per il quale Laura incarnava la possibilità del risveglio spirituale e della redenzione (Gitter, 1991), nei suoi report di viaggio confermò le osservazioni di Howe relativamente all’atteggiamento di disprezzo che Laura sembrava mostrare nei confronti di coloro che riteneva intellettualmente deboli: “It has been remarked in former reports that she can distinguish different degrees of intellect in others, and that she soon regarded almost with contempt, a new-comer, when, after a few days, she discovered her weakness of mind. This unamiable part of her character has been more strongly developed during the past year. She chooses for her friends and companions, those children who are intelligent, and can talk best with her; and she evidently dislikes to be with those who are deficient in intellect, unless, indeed, she can make them serve her purposes, which she is evidently inclined to do” (p. 39). A causa del suo isolamento sensoriale, Laura rappresentava il soggetto ideale per l’indagine sulla natura e sull’origine del linguaggio e delle idee. Ben presto Laura diventò molto più di questo: “she was also the perfect Victorian victimheroine: small, pleasing to look at, innocent, and frail, a paragon of cheerful suffering” (Gitter, 2001, p. 4). La sua storia sembrava perfettamente incarnare la visione cristiana di un angelo salvato dalla segregazione spirituale, la cui innocenza e purezza erano esemplari. Al di là degli aspetti legati alla straordinaria risonanza dell’intervento educativo di Howe e del “miracolo” Laura Bridgman, questa esperienza testimoniò al mondo, per la prima volta, che i soggetti sordo-ciechi erano perfettamente in grado di apprendere, aprendo un nuovo campo di ricerca in educazione, volto a rintracciare nel potenziale di educabilità il principio che conferisce senso agli interventi educativi.

3. Samuel Gridley Howe: principi educativi e suggestioni metodologiche

L’idea di istituire una scuola per non vedenti a Boston fu avanzata da John Dix Fisher, un medico che un anno prima di Howe era stato alla Brown ed alla Harvard Medical School. Dopo aver concluso i suoi studi, Fisher, come molti ambiziosi medici americani dell’epoca, partì per l’Europa per studiare gli ultimi sviluppi scientifici e ampliare i propri orizzonti. A Parigi, egli visitò la famosa Institution

I. Riflessione teorica


des Jeunes Aveugles, la prima scuola per bambini ciechi fondata nel 1784 e organizzata in modo sistematico. Ispirato dalle idee illuministe che invitavano a combattere le ingiustizie, a ridurre le differenze e a porre fine all’esclusione politica, economica e sociale dei non vedenti, l’istituto parigino aveva come obiettivo non soltanto quello di alfabetizzare questi soggetti, ma anche quello di insegnare loro le abilità manuali necessarie a renderli autonomi e indipendenti dalla carità sociale. Durante la sua visita all’istituto, Fisher potè ammirare gli studenti ciechi che leggevano lettere in rilievo (si trattava del sistema Braille, elaborato nel 1829, che non fu largamente utilizzato se non alla fine del secolo), che scrivevano e che creavano oggetti di vario tipo, che cantavano e che suonavano strumenti musicali. Il programma scolastico e le strategie di insegnamento impressionarono il medico statunitense per la loro innovatività, praticità ed umanità per cui al suo rientro a Boston, nel 1826, Fisher decise di aprire nel New England un istituto che avesse le stesse caratteristiche di quello parigino (Gitter, 2001). Molti studiosi del XIX secolo hanno offerto una visione abbastanza critica dell’Institution des Jeunes Aveuglese di altri istituti simili, affermando che, nonostante i buoni propositi di superare le differenze e combattere l’esclusione sociale dei non vedenti, questi asili e queste scuole per persone con disabilità inevitabilmente contribuivano ad avvalorare una visione dei disabili quali soggetti diversi, dunque al di sotto della soglia di una presunta normalità, giustificando in tal senso la loro segregazione in istituti speciali. Influenzati dal pensiero di Michel Foucault, infatti,“more radical critics have identified the need of modern societies to exclude and regulate “marginalized” people as the real force behind the establishment of benevolent institutions in the nineteenth century. Foucauldians see in the mid-nineteenth-century asylum movement another aspect of the period’s empire-building and its accompanying tendency to classify certain groups as abnormal, inferior, or pathological. At a time when the colonizing of “savage” peoples was usually justified as a benevolent attempt to rescue them from spiritual and cultural darkness, the disabled were also segregated, infantilized, and subjected to “civilizing” experiments” (Gitter, 2001, p. 24). Fisher, impegnato nella sua attività di medico e filantropo, si mise alla ricerca di un uomo in grado di dirigere il New England Asylum for the blind. Dopo il rifiuto da parte di Thomas Hopkins Gallaudet, fondatore dell’American Asylum for the Deaf and Dumb di Hartford, nel Connecticut, Samuel Gridley Howe si offrì di dirigere l’istituto. Dal momento che negli Stati Uniti non esistevano istituzioni che Howe potesse visitare o insegnanti per ciechi con i quali si potesse confrontare, né tantomeno testi con lettere in rilievo per non vedenti disponibili in lingua inglese, l’unico modo di approfondire le sue conoscenze e competenze relativamente alla disabilità visiva e alle possibili modalità di intervento era quello di compiere un viaggio in Europa. Il modello europeo non si rivelò per Howe particolarmente illuminante, in quanto da un’analisi più approfondita del famoso istituto parigino per ciechi, già visitato da Fisher, emerse che “students were trained for mere intellectual display: their showy accomplishments bore no practical fruit, and few of them graduated with any prospects of earning their own livelihood. More common sense could be expected from the Scots, and indeed the Edinburgh institution, because it concentrated on teaching useful trades such as mattress making and rug weavanno III | n. 2 | 2015

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ing, was to Howe’s mind the best of an unimpressive lot of European schools”. Howe si mostrò critico anche nei confronti del lavoro dell’Abbé Haüy, il quale aveva creato delle mappe di cartone con figure in rilievo ed elaborato un metodo per stampare lettere in rilievo ingrandite che le persone cieche potessero leggere attraverso il tatto. Tali soluzioni erano, secondo Howe, “absurdly clumsy, expensive, and impractical” (Gitter, 2001, p. 34). Sebbene Howe non condividesse appieno i metodi utilizzati negli istituti europei, gli aspetti critici di tali metodi indussero il medico statunitense a delineare alcuni principi sull’educazione dei non vedenti. Questi principi non costituirono soltanto la base di partenza per l’elaborazione di modalità di insegnamento alternative che sarebbero state poi utilizzate da Howe per l’educazione di Laura Bridgman, ma avrebbero anche influenzato profondamente i programmi educativi per le persone non vedenti in tutto il nuovo continente. Secondo Howe, era necessario partire dal presupposto che i soggetti ciechi dovevano essere incoraggiati “to exert their own faculties, to develope [sic] their own powers, and to do something to break the listless inactivity, which constitutes for them the taedium vitae” (Howe, 1833, p. 21). Howe, infatti, riteneva che la segregazione dei ciechi in istituti speciali contribuisse soltanto ad incrementare il loro senso di inadeguatezza e la convinzione di essere inferiori. Pertanto, l’obiettivo doveva essere quello di aiutare i non vedenti a trovare il loro posto nella vita economica e sociale della comunità in cui vivevano. Per raggiungere tale obiettivo, Howe affermava che il programma scolastico dovesse mirare a superare “the obstacles which want of sight presents to the full developement [sic] of the physical powers; to develope and strengthen the religious sentiment; to elevate and give tone to the moral character, by inspiring proper self confidence, and holding out the prospect of useful and honourable employment; to store the mind with useful knowledge; to accustom the body to useful toil” (Howe, 1836, p. 280.) Howe credeva che i bambini americani non vedenti dovessero essere educati seguendo le loro disposizioni naturali e valorizzando le potenzialità individuali. Allo stesso tempo, il programma per tutti i bambini doveva essere ben delineato affinché non imparassero soltanto a vivere in maniera indipendente, ma in modo che potessero avere anche accesso “to a new world of intellectual enjoyment” (Gitter, 2001, p. 36). L’educazione a livello cognitivo non doveva limitare quella di tipo motorio. Poiché spesso i bambini ciechi hanno paura di muoversi e di giocare con i loro compagni, Howe riteneva che corressero il rischio di diventare fisicamente deboli e svogliati; per tale ragione, egli proponeva che seguissero uno specifico programma di attività fisica affinché potessero sviluppare l’autostima e la competitività necessarie all’acquisizione di autonomia e indipendenza (Gitter, 2001). Secondo Howe, gli istituti europei, inoltre, trascuravano gli aspetti legati al “comportamento umano” (personal demeanor) dei non vedenti, i quali potevano sviluppare “disagreeable habits” in ambito pubblico e familiare. Il medico statunitense, infatti, notava come “they swing their hands, or work their heads or reel their bodies; and seem in this way to occupy those moments of void” e che questi comportamenti, definiti “ciechismi”, contribuivano ad incrementare il pregiudizio pubblico e di conseguenza incidevano sullo sviluppo della sfera sociale e comunicativa. Come tutti gli altri bambini, i ciechi dovevano essere esposti a situazioni I. Riflessione teorica


sociali affinché si abituassero a conversare ed interagire con gli altri: “If schools could teach the disabled to be as “normal” as possible— if education could, as it were, correct nature’s mistakes— then even the most disadvantaged would be able to participate fully in community life” (Gitter, 2001, p. 38).

4. Conclusioni

Samuel Gridley Howe sostenne fortemente l’idea che l’educazione delle persone con disabilità non dovesse realizzarsi in strutture segreganti; infatti, il suo lavoro con Laura Bridgman avvalorò una visione specialistica dell’intervento educativo quale “canale” privilegiato per favorire la piena inclusione sociale ed economica degli individui con disabilità visiva, assegnando una incondizionata fiducia alla sua umanizzazione, “travalicando le condizioni esistenti che possono apparire scoraggianti e impraticabili” (Caldin, 2006, p. 17). È possibile affermare che l’approccio di Howe costituisce non soltanto un interessante esempio di sfida educativa, ma incarna a tutti gli effetti i principi fondamentali della pedagogia speciale, “la cui identità scientifico-disciplinare si è costruita, nel tempo, sul principio di educabilità che ha indotto a deviare l’attenzione dal deficit all’apprezzamento del potenziale educativo della persona nella sua globalità” (Aiello, 2015, p. 19). Il suo pionieristico lavoro con Laura Bridgman ha gettato le basi per una rifondazione dell’educazione delle persone con disabilità, anche gravi, anticipando gli studi sull’individuazione di forme intellettive differenti e vicarianti e di abilità diverse (Sibilio, 2003) intese come risorse potenziali presenti in ogni essere umano, “la cui natura individuale, pur ancorata a proprietà biologiche, è in grado di evolvere proprio in ragione di una disponibilità naturale del soggetto che apprende, ovvero recepisce, agisce ed elabora, traducendo l’adattività in forme personali di conoscenze, competenze, atteggiamenti, comportamenti, condotte” (Sibilio, 2016, in press).

Riferimenti bibliografici

Aiello, P. (2015). Traiettorie non lineari per una scuola inclusiva. In M. Sibilio, P. Aiello (a cura di), Formazione e ricerca per una didattica inclusiva. Milano: FrancoAngeli. Caldin, R. (a cura di). (2006). Percorsi educativi nella disabilità visiva. Trento: Erickson. Freeberg, E. (1992). “An Object of Peculiar Interest”: The Education of Laura Bridgman. Church History, 61(02), 191-205. Gallaher, D. (1995). Voice for the mad: The life of Dorothea Dix. New York: Free Press. Gitter, E. (1991). Charles Dickens. Dickens Quarterly, 8, 162-168. Gitter, E. (2001). The imprisoned guest. New York: Picador. Howe, S.G. (1836). Education of the Blind. Literary and Theological Review, 3. Howe, S.G., (1833). Education of the Blind. North American Review, 37, 20-55. Osgood, R. L. (2008). The history of special education: A struggle for equality in American public schools. Greenwood Publishing Group. Sibilio, M. (2003). Le abilità diverse. Napoli: Esselibri. Sibilio, M. (2016). Dimensioni vicarianti delle corporeità didattiche. In M. Sibilio (a cura di), Significati educativi della vicarianza: traiettorie non lineari della ricerca (titolo provvisorio). Brescia:

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La Scuola (in corso di pubblicazione). Smith, J.D., Anton, M. R. (1997). Laura Bridgman, mental retardation and the question of differential advocacy. Mental Retardation, 35(5), 398-401.

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I. Riflessione teorica


La dislessia: tecnologie efficaci per il recupero delle abilità di letto-scrittura

In this paper, we wonder whether, to what extent and in which contexts technologies can be considered effective in the recovery of the read&write ability in cases of dyslexia. For this purpose a research on Google Scholar was accomplished aimed at identifying, according to the typical hierarchy of relevance adopted in an evidence-based perspective, first meta-analysis and systematic reviews, then critical reviews, and finally individual experimental researches with big sample. At the end of the research three major critical reviews and six individual researches emerged. All of them are carried out from 2004 until today, and are related to speech synthesis, speech recognition, Computer-Assisted Instruction (CAI), hypermedia and multimedia electronic text, programs of reading and spelling and phonological awareness. Although many critical issues remain open and the results are difficult to generalize, given to the differences between the contexts and the languages of the researches, the study shows that the most effective technologies for dyslexia are the drill and practice software for phonological learning, the speech recognition software and other tools to support electronic writing.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Dyslexia; Learning Disabilities; technologies; effectiveness.

II. Revisione sistematica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Silvia Micheletta (Università degli Studi di Firenze / silvia.micheletta@unifi.it)

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1. Introduzione

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Negli ultimi decenni importanti investimenti, continui sviluppi e innovazioni e la sempre più radicale diffusione di nuovi dispositivi tecnologici, hanno reso la tecnologia oggetto di grandi attenzioni e aspettative. In generale ogni nuova tecnologia che entra nel mercato diffonde ottimismo e fiducia sui preziosi vantaggi che può offrire in campo educativo e didattico, lasciando però ben presto disillusi sugli effetti che realmente genera (Ranieri, 2011). Tuttavia le evidenze scientifiche rivelano scarsi o modesti risultati di efficacia delle tecnologie nell’apprendimento: queste, intese nella loro diffusione su larga scala, non creano alcuna differenza significativa sui risultati dell’apprendimento («no significant difference», Russell, 1999; Hattie, 2009, 2012; Calvani, 2012; Ranieri, 2011). Nella didattica speciale, però, si possono trovare rilevanti eccezioni. Sono diversi i casi di disabilità che vedono nelle tecnologie sussidi indispensabili in grado di compensare e/o favorire il superamento di specifiche difficoltà: basti pensare alle protesi hardware nell’ambito delle disabilità motorie o ai software di sintesi della voce per i non vedenti. Al di là di casi così eclatanti, in cui l’utilità delle tecnologie è di per sé evidente, esistono tuttavia diversi ambiti in cui il limite tra un utilizzo efficace e un utilizzo non pienamente efficace rimane molto sottile e su cui, da anni, si anima un vivace dibattito internazionale e nazionale con numerosi contributi scientifici. Tra le varie disabilità, la dislessia rimane uno di questi ambiti controversi. Come noto, la dislessia è un disturbo che colpisce la capacità di leggere un testo scritto, sia nell’azione della decodifica che nell’azione della comprensione. La dislessia rientra, assieme a disortografia, disgrafia e discalculia, nei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), una categoria di disturbi che interessano una specifica abilità dell’apprendimento (in generale lettura, scrittura e calcolo), non determinati da svantaggi socio-culturali, disabilità intellettive o deficit sensoriali (Consensus Conference, 2011). L’incidenza della dislessia varia da nazione a nazione, o meglio da lingua a lingua. Nelle lingue in cui vi è una stretta corrispondenza tra grafema (ossia segno scritto) e fonema (ossia suono prodotto), come l’italiano – definito per questa ragione una lingua ad ortografia trasparente –, il livello di incidenza delle difficoltà fonologiche della dislessia è inferiore rispetto alle lingue come l’inglese in cui, invece, la pronuncia di una parola è differente dalla pronuncia dei singoli grafemi che la compongono (Wydell & Butterworth, 1999). Diverse disposizioni e normative raccomandano l’uso di strumenti tecnologici con i soggetti con dislessia. In Italia l’art. 5 della Legge n. 170/2010 sancisce l’obbligo per le istituzioni scolastiche di garantire ai soggetti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento «l’introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche». Ma poiché la semplice adozione di strumenti compensativi non consente automaticamente la risoluzione del problema (Fogarolo & Tressoldi, 2011), ci si domanda in che misura e in quali contesti le tecnologie possano essere considerate effettivamente efficaci per il recupero delle abilità di letto-scrittura con i soggetti con dislessia. Il presente lavoro cerca di rispondere avvalendosi dell’analisi di una serie di studi internazionali condotta con un impianto evidence based.

II. Revisione sistematica


2. Metodologia della ricerca

L’obiettivo di questo contributo è valutare in che misura e in quali contesti le tecnologie possano essere riconosciute efficaci per il recupero delle abilità di lettoscrittura dei soggetti con dislessia. Per rispondere a tale quesito è stato seguito un approccio metodologico proprio dell’Evidence Based Medicine, così come proposto dall’American Society of Clinical Oncology che suggerisce di prendere in considerazione in ordine di rilevanza: 1) meta-analisi di RCT multiple e ben disegnate; 2) almeno una RCT ben disegnata, o sperimentazioni multiple con bassa potenza statistica; 3) studi quasi sperimentali (controllati ma non randomizzati), ben disegnati; 4) studi non sperimentali, non controllati ma ben disegnati; 5) descrizioni di singoli casi e serie cliniche (Vineis, 2010). Lo scopo di tale approccio è portare a definire lo stato dell’arte delimitando un ambito di conoscenza, definendo spazi e problematiche su cui si posseggono conoscenze più affidabili, rispetto ad altre, ancora da esplorare, e stabilire nuovi equilibri con la sapienza della pratica (cfr. Calvani, 2012). Nello studio condotto sono state prese in considerazione in ordine di rilevanza: 1. 2. 3. 4. 5.

meta-analisi; systematic review; critical review; RCT e/o ricerche sperimentali con campioni consistenti; ricerche sperimentali con campioni poco consistenti e/o ricerche quasi sperimentali.

La ricerca si è avvalsa essenzialmente di Google Scholar perché è un motore di ricerca che, indicizzando l’intero web, restituisce un ampio numero di risultati (tra i quali si possono certamente trovare anche risorse non strettamente pertinenti) che possono essere contenuti in specifici database (ad esempio Eric, Taylor e Francis, Wiley, Sage, Elsevier)1. Per interrogare il motore di ricerca sono state utilizzate specifiche parole chiave volte a delimitarne l’ambito. In prima battuta sono state utilizzate espressioni in lingua italiana come “dislessia / ‘difficoltà lettura’” per definire il disturbo di interesse, “tecnologia / CAI / ‘riconoscimento vocale’ / ‘sintesi vocale’ / computerbased” per circoscrivere gli strumenti di ausilio tecnologici, “meta-analisi / ‘ricerca sistematica’ / ‘rassegna critica’ / ‘efficacia’ / RCT” per definire la tipologia di risorse scientifiche. La stessa query è stata poi formulata in lingua inglese: “dyslexia / ‘reading disability’” per definire il disturbo di interesse, “technology / CAI / ‘speech recognition’ / ‘speech synthesis’ / computer-based” per circoscrivere gli strumenti di ausilio tecnologici, “meta-analysis / ‘systematic review’ / ‘critical review’ / effectiveness / RCT” per definire la tipologia di risorse scientifiche. 1

In un altro lavoro (Bonaiuti, Calvani, Micheletta & Vivanet, 2014) è stato verificato che, pur perdendo di “Precisione” (e dunque generando anche alto rumore), Google Scholar mantiene un ampio valore di “Recall” (recupero di materiale scientifico) saturando ormai gran parte di quanto è recuperabile anche da archivi e motori dedicati.

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SILVIA MICHELETTA

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2.1. Criteri di selezione dei risultati

Durante la fase di selezione dei risultati sono stati tenuti in considerazione precisi criteri. Le risorse incluse sono:

– Articoli scientifici pubblicati su riviste specializzate, scritti in lingua italiana o inglese. Abbiamo escluso dalla ricerca atti di convegno, report di progetti, tesi o altre tipologie di documenti. – Meta-analisi, systematic review e critical review o, in ultima analisi, ricerche sperimentali o quasi sperimentali (non citate nelle meta-analisi, systematic review o critical review) che prevedono un gruppo di controllo e/o pretest e postest, una durata prolungata del trattamento (minimo 12 settimane), un numero di soggetti coinvolti consistente (minimo 40 soggetti tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo), una dichiarazione esplicita del focus dello studio e dei risultati perseguiti. – Studi compiuti su campioni di soggetti con dislessia a livello di scuola primaria e secondaria di primo grado (5/6-11/13 anni), in ambito scolastico (e non clinico o domiciliare), siano esse scuole comuni o scuole speciali. – Studi che presentano in modo chiaro l’apporto della tecnologia per migliorare le capacità di letto-scrittura. Non sono pertanto selezionati gli studi che presentano un utilizzo diverso delle tecnologie con questo tipo di soggetti. Tutte le informazioni sopra menzionate devono apparire fra le parole chiave dell’articolo o nell’abstract dello stesso.

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2.2. I risultati ottenuti

Dalla prima indagine in lingua italiana non è stata reperita alcuna risorsa: diversi studi sono stati esclusi perché non rispondenti ai criteri stabiliti. Tra i risultati ottenuti in lingua inglese non abbiamo trovato nessuna metaanalisi o systematic review che rispondesse ai criteri poco sopra delineati; sono state però reperite nove critical review. Tra queste ne sono state selezionate tre – quelle di MacArthur et al. (2001), LoPresti et al. (2004) e Anderson et al. (2009) – in quanto effettivamente pertinenti con il focus di ricerca, ossia relative all’utilizzo delle ICT per soggetti con problemi di letto-scrittura2. A livello di singole ricerche i numerosi risultati ottenuti con la query in inglese passati al vaglio sulla base dei criteri precedentemente definiti, hanno portato alla selezione di sei ricerche sperimentali. Questi studi sono stati svolti dal 2004 al 2011, tra Stati Uniti (Higgins & Raskind, 2004; Chambers et al., 2008; Torgesen et al., 2010), Finlandia (Saine et al., 2011), Olanda (Tijms, 2011) e Svizzera tedesca (Kast et al., 2011). 2

Le altre sei critical review escluse perché non pertinenti sono: Torgerson e Elbourne (2002), relativa all’utilizzo delle ICT per lo specifico apprendimento fonologico (non necessariamente legato a disturbi come la dislessia), Slavin et al. (2010) e Torgerson e Zhu (2003), focalizzate sull’uso delle ICT per la lettura (anche in questo caso senza uno specifico riferimento alla dislessia), Alexander e Slinger-Constant (2004) e Slavin et al. (2009), tese allo studio dei trattamenti e delle strategie più efficaci per i soggetti con dislessia (senza un particolare riferimento alle ICT), e Singleton (2009), volta a presentare lo stato dell’arte sulle strategie favorevoli al recupero della dislessia.

II. Revisione sistematica


I nove risultati selezionati (le tre critical review e le sei ricerche sperimentali) sono tutti pubblicati in riviste specializzate: Annals of Dislexia, Child Development, Educational Psychology, The Elementary School Journal, Neuropsychological Rehabilitation, Technology and Teacher Education. L’elenco complessivo degli studi presi in esame è riportato in Figura 1 con i relativi dettagli di sintesi (autore/i, anno di pubblicazione, rivista, tipologia dello studio e, per le ricerche sperimentali, anche la nazione sede della ricerca e il focus dello studio).

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Figura 1. Sintesi delle ricerche analizzate nella rassegna3

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Con l’espressione “software di supporto alla letto-scrittura” si fa riferimento a tutta una serie di software utili per superare e compensare difficoltà nella letto-scrittura come il riconoscimento vocale, la sintesi vocale, il word processor, il controllo ortografico, il predittore di parole, etc.

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SILVIA MICHELETTA

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3. Critical review

In questo paragrafo presentiamo tre rassegne critiche, quella di MacArthur et al. (2001), quella di LoPresti et al. (2004) e quella di Anderson, Anderson e Cherup (2009).

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1. MacArthur et al. (2001) analizzano le ricerche relative all’utilizzo delle tecnologie come strumento di supporto all’apprendimento della letto-scrittura per studenti con disabilità lievi (soprattutto Disturbi Specifici dell’Apprendimento e disturbi cognitivi lievi). Vengono prese in considerazione ricerche sperimentali in ambito scolastico anglofono compiute dal 1986 al 2001. Tutti gli studi raccolti confermano l’efficacia della CAI nel migliorare la consapevolezza fonologica e le abilità di decodifica. Strumenti elettronici come il word processor, il controllo ortografico, il predittore di parole, offrono ai soggetti con difficoltà di lettura supporto nel risolvere problemi di letto-scrittura e ortografia, ma al contempo creano nuovi compiti. Per esempio, il word processor consente di superare la difficoltà della scrittura a mano, ma richiede di imparare a scrivere con un nuovo strumento, la tastiera, così come il predittore di parole supporta l’ortografia ma richiede buone capacità di attenzione nel riconoscere la parola giusta tra quelle delle liste presentate. Per questa ragione gli autori della rassegna suggeriscono un «cauto ottimismo» (cautious optimism, p. 298) circa la valutazione delle potenzialità della tecnologia: i suoi effetti dipendono strettamente dalle caratteristiche del progetto, dalle indicazioni che lo accompagnano, dal modo in cui viene utilizzata la tecnologia e dalle caratteristiche dello studente a cui è indirizzata. 2. LoPresti et al. (2004) presentano lo stato dell’arte (si tratta di studi in contesti scolastici anglofoni) circa le tecnologie per la riabilitazione cognitiva. Secondo gli autori il computer, rispetto ai media tradizionali, offre molti vantaggi ai soggetti con dislessia consentendo di cambiare l’aspetto del testo (spaziatura tra le parole, colore del testo/sfondo, grandezza caratteri, fonts, ecc.) ma anche grazie a programmi specifici di sintesi vocale o allo scanner per la digitalizzazione del testo. Le ricerche prese in considerazione dimostrano come la sintesi vocale abbia un valore e un’efficacia dipendenti dalle caratteristiche del singolo e dagli obiettivi specifici che si intendono far raggiungere. Questo spiegherebbe anche perché la sintesi vocale ottiene effetti positivi se utilizzata da coloro che hanno maggiori difficoltà nella lettura, creando, invece, difficoltà per coloro che hanno problemi di lettura meno gravi. Anche il riconoscimento vocale risulta essere uno strumento efficace. In Raskind e Higgins (1995), il gruppo che ha impiegato il riconoscimento vocale, rispetto al gruppo che non ha ricevuto assistenza e a quello che ha ricevuto assistenza umana, ha ottenuto buoni risultati nella scrittura (meno errori, testo più lungo, parole più lunghe, p< .05). Il word processor, il controllo ortografico e il predittore di parole possono dare un aiuto se accompagnati da strategie di utilizzo o da strumenti aggiuntivi, come ad esempio il controllo ortografico parlante. Tuttavia solitamente questi strumenti non sono precisi e implicano che il soggetto abbia discrete II. Revisione sistematica


capacità di lettura per effettuare una serie di scelte tra le parole suggerite. 3. Anderson, Anderson e Cherup (2009) presentano una rassegna sull’integrazione delle tecnologie con soggetti con disabilità lievi per l’acquisizione delle abilità di letto-scrittura basandosi su studi svolti in contesti scolastici anglofoni. Sono stati indagati a questo scopo tecnologie come la computer-assisted instruction, la sintesi vocale, il word processor, i predittori di parole e i correttori ortografici di cui sono spesso correlati. La presente rassegna evidenzia come le tecnologie dimostrino di avere risultati contrastanti. I testi multimediali, ossia i testi che si avvalgono di sintesi vocale, immagini animate, link a definizioni e sinonimi risultano essere efficaci con i soggetti più svantaggiati per i primi 2 anni di trattamento; nel corso del terzo anno non dimostrano differenze statisticamente significative rispetto al gruppo di controllo, sottoposto ad un tradizionale intervento di recupero della lettura (Boone e Higgins, 1993). Il riconoscimento vocale dimostra di generare miglioramenti nel riconoscimento delle parole (p< .0001), nell’ortografia (p< .002) e nella comprensione della lettura (p< .002) (Raskind e Higgins, 1999). Da un’altra ricerca di Higgins e Raskind (2000) il riconoscimento vocale dimostra di avere risultati significativi anche nelle abilità fonologiche, soprattutto quando è “discreto”, ossia quando offre la possibilità di mettere in pausa dopo aver dettato le parole (p= .018, ES= .77). La sintesi vocale dimostra di avere potenzialità quando è utilizzata come tecnologia di lettura supplementare per gli studenti con disabilità. Dagli studi di Hebert e Murdock (1994) si evince che si ottengono dei miglioramenti significativi quando si impara con la sintesi vocale, rispetto a quando si apprende senza questo ausilio, soprattutto per quanto riguarda l’acquisizione del vocabolario. Lange et al. (2006) studiano gli effetti di un programma di scrittura Texthelp Read & Write ORO, un word processor accompagnato da sintesi vocale combinata con altri strumenti di supporto alla lettura, sulla comprensione, rilevamento di errori su parole omofone, autocontrollo in errori ortografici e significato delle parole. Rispetto a Microsoft Word, un normale word processor, i risultati della ricerca dimostrano che questo programma di scrittura offre un significativo miglioramento sia nella lettura (p< .005), che nella scrittura (p< .0001). Gli organizzatori grafici si dimostrano efficaci per l’apprendimento di soggetti con disabilità lievi soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione della loro scrittura. Dai risultati di questa ricerca i soggetti con difficoltà di apprendimento che utilizzano più spesso questi strumenti sono quelli che hanno un’intelligenza superiore, sono più bravi nella comprensione delle parole e sono più veloci nella scrittura (Anderson-Inman, Knox-Quinn e Horney, 1996). Le mappe concettuali utilizzate per la scrittura espositiva non hanno rivelato risultati significativi per quanto concerne la complessità sintattica e l’atteggiamento verso la scrittura. I risultati dimostrano che le mappe concettuali aiutano gli studenti a generare e organizzare le idee, ma non aumentano la complessità delle loro proposizioni (Sturm e Rankin-Erickson, 2002). I predittori di parole hanno dimostrato risultati contrastanti, rivelando in taluni casi un miglioramento significativo nello spelling mentre in altri alcun miglioramento significativo (MacArthur 1998; 1999). anno III | n. 2 | 2015

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Figura 2. Tabella di sintesi delle critical review

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II. Revisione sistematica


4. Altri studi

In questo paragrafo presentiamo le sei ricerche che, in fase di selezione, hanno risposto ai criteri di affidabilità e significatività già indicati4. In chiusura alla rassegna riportiamo una tabella sintetica con tutti gli studi analizzati.

1. Higgins e Raskind (2004) valutano l’efficacia di due programmi creati per migliorare la lettura e l’ortografia di studenti con dislessia: lo Speech Recognitionbased Program (SRBP) e l’Automaticity Program (AP). Il SRBP è un programma che consente la lettura di storie di differente interesse: lo studente completa la lettura con delle parole a scelta, tra una lista di 4 parole simili. L’AP è un programma text e computer-based costituito da tre sezioni incentrate rispettivamente su: 1) pratica nel riconoscimento automatico e veloce di modelli fonologici e ortografici prevedibili; 2) pratica nel riconoscimento automatico e veloce di modelli fonologici e ortografici imprevedibili; 3) pratica in ripetute letture per favorire fluidità e velocità nella lettura. Sono coinvolti studenti con dislessia di età compresa tra gli 8 e i 18 anni (28 per il gruppo sperimentale e 16 per il gruppo di controllo). Il gruppo sperimentale, suddiviso in due sottogruppi, è sottoposto prima al programma SRBP per 25 minuti due volte a settimana per 17 settimane e poi al programma AP (o viceversa) per 50 minuti tre volte a settimana per altre 17 settimane. Il gruppo di controllo non ha ricevuto nessuno dei due programmi speciali, ma interventi tradizionali di recupero alla letto-scrittura. I due programmi mostrano risultati significativi rispetto al gruppo di controllo relativamente al riconoscimento delle parole e alla comprensione, ma non all’ortografia. Rispettivamente SRBP ottiene ES molto alti con ƞ2=.184 nel riconoscimento delle parole (p< .01) e ƞ2= .172 nella comprensione (p< .01); AP con ES molto alto nella comprensione con ƞ2= .235 (p< .01) e moderato nel riconoscimento delle parole con ƞ2= .101 (p< .05), e nell’ortografia con ƞ2= .086 (p< .065)5. Nessuno dei due programmi rivela differenze significative per quanto concerne l’ortografia. 2. Chambers et al. (2008) valutano gli effetti delle tecnologie confrontando due gruppi: uno in cui si propone una didattica integrata con materiale multimediale (brevi video su fonetica e vocabolario) e computer-assisted supportato dal tutoring dell’insegnante (per i soggetti con maggiori difficoltà), e uno in cui non si fa uso delle tecnologie. Il campione è costituito da 159 studenti di differente provenienza. Nel gruppo in cui i bambini hanno sperimentato la tecnologia sono registrati ES più alti (soprattutto nella comprensione) rispetto al gruppo che non la ha utilizzata. All’interno del gruppo che ha beneficiato 4

5

Si tratta di ricerche sperimentali o quasi sperimentali (non incluse nelle critical review precedentemente analizzate) che prevedono un gruppo di controllo e/o pretest e postest, una durata prolungata del trattamento (minimo 12 settimane), un campione consistente (minimo 40 soggetti tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo) di soggetti con dislessia a livello di scuola primaria e secondaria di primo grado (5/6-11/13 anni), e che propongono un uso della tecnologia per sviluppare e promuovere l’apprendimento in ambito scolastico (e non in ambito clinico o terapeutico), siano esse scuole comuni o scuole speciali. Effect size con ƞ2> .06= moderato; ƞ2> .14 = alto (Cohen, 1988).

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dall’uso delle tecnologie, quelli supportati dal tutoring dell’insegnante hanno tratto maggiori vantaggi ottenendo un miglioramento significativo nella performance di lettura (ES medio= .52) rispetto all’altro gruppo in cui era stata introdotta solo la didattica integrata con materiale multimediale (ES medio pari a .27). 3. Torgesen et al. (2010) comparano i risultati delle performance di due diversi programmi di riabilitazione alla lettura, il Read, Write, and Type (RWT; Herron, 1995), il Lindamood Phoneme Sequencing Program for Reading, Spelling, and Speech (LiPS; Lindamood, 1998), con un trattamento tradizionale al recupero della lettura del gruppo di controllo. I due programmi, applicati all’interno del contesto scolastico in piccoli gruppi di tre con un insegnante (selezionato e formato appositamente per gli scopi di ricerca), forniscono un supporto per lo sviluppo della consapevolezza fonologica, decodifica fonetica e accuratezza nella lettura di brani. In particolare, il RWT è un software che utilizza animazioni colorate, sintesi vocale e una story line per condurre il bambino in una serie di attività che mirano alla pratica della scrittura e dello spelling fonetico. Fornisce una didattica e una pratica esplicita nella consapevolezza fonologica, nella corrispondenza lettera-suono e nella decodifica fonetica e incoraggia lo studente ad esprimersi nella lingua scritta mentre impara le abilità per l’utilizzo della tastiera. Il programma LiPS si compone di una prima parte, guidata dall’insegnante, che fornisce una didattica esplicita che conduce il bambino alla scoperta e classificazione dei gesti associati ad ogni fonema e di una seconda parte che prevede l’utilizzo di un software, il Poppin Readers (Smith, 1992). Con questo software è possibile leggere testi scritti con un carattere altamente decifrabile ed ascoltare la pronuncia delle parole. Il campione, costituito da 112 soggetti, è suddiviso in tre gruppi: 36 studenti ricevono interventi con RWT, 36 con LiPS e 40 costituiscono il gruppo di controllo. Entrambi i programmi vengono somministrati 4 volte a settimana in sessioni da 50 minuti ciascuna per un periodo di 7 mesi. Mentre il gruppo sottoposto a RWT spende più tempo in attività al computer, quello sottoposto a LiPS spende più tempo in attività in piccolo gruppo condotte dall’insegnante. I punteggi ottenuti nei post-test mostrano che gli studenti che hanno ricevuto interventi con il computer ottengono un miglioramento statisticamente significativo nella performance di lettura rispetto al gruppo di controllo. Nel primo gruppo sono ottenuti i seguenti ES: ES= .77 per la decodifica fonetica, ES= .53 per l’accuratezza nella lettura di parole, ES= .40 per la comprensione. Nel secondo gruppo: ES= .43, .37, .33 per le stesse misure. Negli studi di follow-up, a un anno dalla fine, i gruppi sperimentali continuano ad ottenere risultati migliori rispetto al gruppo di controllo, ma le differenze sono statisticamente significative solo per la decodifica fonetica, la denominazione rapida e l’ortografia. 4. Saine e collaboratori (2011) intendono indagare se un programma computer-based progettato per aiutare i giovani studenti con dislessia a migliorare le difficoltà di lettura (integrato nel curriculum scolastico regolare) possa avere riscontri positivi anche nella conoscenza delle lettere, nell’accuratezza della lettura, nella rapidità e nell’ortografia in studenti a rischio di dislessia. Il campione, composto da 166 studenti di 7 anni frequentanti una scuola finlandese di una produttiva area di periferia, è suddiviso in tre gruppi: per il primo (costituito da 25 studenti) è previsto un intervento di normale riabiliII. Revisione sistematica


tazione (Regular Remedial Reading Intervention; RRI), per il secondo (25 studenti) una riabilitazione supportata dal computer (Computer Assisted Remedial Reading Intervention; CARRI) e per il terzo (116 studenti) un normale insegnamento della lettura (mainstream reading instruction). Nello specifico: il programma RRI prevede attività legate alla lettura, ortografia e fonetica (sillabazione, scomposizione di parole, corrispondenze lettera-suono, lettura di brani) e l’utilizzo di flash card, lavagna e materiali plastici all’interno della normale lezione in classe; la riabilitazione al computer, CARRI, si basa sulle stesse attività del RRI, ma all’inizio di ogni sessione prevede l’utilizzo di un software, GraphoGame, che attraverso la modalità drill & practice aiuta lo studente ad allenarsi nelle abilità fonologiche della lettura. I soggetti sono sottoposti all’intervento per quattro giorni alla settimana con una durata di 45 minuti per sessione nell’arco di tempo di 28 settimane. I risultati in termini di Effect Size (medio) possono essere così schematizzati: CARRI vs RRI: ES= .66; RRI vs mainstream: ES= - .5 CARRI vs mainstream: ES= .3. L’intervento al computer (CARRI) ottiene effetti significativamente rilevanti non solo nella conoscenza delle lettere, decodifica e accuratezza, ma anche nella scorrevolezza e nell’ortografia che si sono mantenuti anche nei follow-up di primo grado (12 mesi) e di secondo grado (16 mesi). Il programma di riabilitazione alla lettura senza l’utilizzo del computer (RRI) raggiunge dei miglioramenti non significativi e ha addirittura effetti negativi rispetto al programma tradizionale. Da ciò gli autori deducono che una didattica supportata dal computer è più efficace dei metodi tradizionali di insegnamento alla lettura. 5. Tijms (2011) studia l’efficacia di un trattamento al computer tramite l’utilizzo di un software il cui focus è su aspetti fonologici e morfologici della lettura in lingua olandese, in un campione di 99 studenti (75 soggetti per il trattamento e 24 per il gruppo di controllo). Il trattamento è basato su tutoraggio individuale da parte di figure professionali specializzate (psicologi e specialisti) in sedute settimanali di 45 minuti, in più è richiesto un allenamento di 15 minuti per tre volte alla settimana a casa per una durata media di 17 mesi circa. I risultati mostrano l’efficacia del training fonologico: i soggetti con dislessia del gruppo sperimentale ottengono un livello di accuratezza e di ortografia paragonabile ai normo-lettori, anche se più moderato (Effect Size alto per il tasso di lettura delle parole, spelling e l’accuratezza nella lettura; Effect Size basso o medio per il tasso di lettura del testo). 6. Kast et al. (2011) studiano le curve di apprendimento di bambini con e senza dislessia attraverso l’utilizzo di un sistema di allenamento ortografico al computer che contiene un approfondimento dell’aspetto fonologico e un maggiore grado di personalizzazione. Il software utilizzato nella sperimentazione si basa sul metodo di insegnamento bimodale: le informazioni vengono presentate attraverso due diversi canali, visivo e uditivo. Il campione di studio è composto da 65 soggetti con dislessia (28 per il primo studio e 37 per il secondo) e 25 normo-lettori. L’allenamento per entrambi i gruppi di soggetti si è svolto a casa senza il supporto di genitori o tutor e si è protratto per 12 settimane. I risultati mostrano che la curva di apprendimento è uguale tra i soggetti con dislessia e i normo-lettori: l’apprendimento bimodale è utile non solo per soggetti con dislessia, ma anche per soggetti normo-lettori. I soggetti con dislessia non raggiungono comunque lo stesso livello dei normo-lettori anno III | n. 2 | 2015

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Figura 3. Tabella sintetica dei singoli studi sperimentali

5. Conclusioni

In questo lavoro ci si chiede in che misura e in quali contesti le tecnologie possano essere considerate efficaci per il recupero delle abilità di letto-scrittura di soggetti con dislessia. A questo scopo sono state ricercate, seguendo un impianto evidence based, dapprima meta-analisi, systematic review e critical review, e poi singole ricerche sperimentali, sia in lingua italiana che in inglese. Utilizzando GooII. Revisione sistematica


gle Scholar come motore di ricerca, sono stati selezionati nove documenti scientifici rilevanti, tre critical review e sei studi sperimentali, svolti tra 2001 e il 2011, concernenti la Computer-Assisted Instruction e altri software di supporto alla letto-scrittura, come ad esempio il riconoscimento vocale, la sintesi vocale, il word processor, il controllo ortografico, il predittore di parole. Gli studi reperiti, per la maggior parte in lingua inglese e svolti in contesti non italofoni, mettono in luce due questioni rilevanti: (i) la necessità di un maggiore rigore nelle ricerche svolte sul campo (in modo che queste possano essere anche incluse nelle analisi di secondo livello), e (ii) la difficoltà nel generalizzare i risultati ottenuti in contesti con differenti caratteristiche linguistiche. In questo specifico ambito, infatti, la lingua con cui una ricerca è svolta incide sensibilmente sui risultati della stessa. Dalle ricerche analizzate emerge che, complessivamente, la Computer-Assisted Instruction, ossia gli approcci guidati interattivi, si rivelano proficui in ambito scolastico ai fini del recupero delle abilità di letto-scrittura con soggetti con dislessia. In generale, però, è opportuno mantenere, in rapporto alle tecnologie, un «cauto ottimismo» (MacArthur et al., 2001 p. 298): bisogna tener conto che gli effetti di queste sull’apprendimento dei soggetti con dislessia dipendono strettamente dalle specifiche potenzialità che le caratterizzano, e dalle modalità in cui vengono utilizzate, da come vengono strutturate le attività e dalle caratteristiche dello studente a cui sono indirizzate (Fogarolo & Tressoldi, 2011). Diversi approcci, ad esempio, sottolineano la necessità di integrare un intervento assistito da computer con un tutoring personalizzato, aspetto che trova rilevanti prove di efficacia, in particolare quando gli interventi sono orientati al training ed alla consapevolezza fonologica, in linea con le indicazioni generali sui trattamenti didattici efficaci per la dislessia. Per quanto riguarda l’impiego di specifici software non abbiamo elementi chiari di evidenza circa l’uso di un semplice software di scrittura da parte di soggetti dislessici; le cose migliorano tuttavia se al semplice word processor si aggiungono ulteriori potenzialità, come quelle offerte da un correttore ortografico e da un sintetizzatore vocale. Nonostante la grande enfasi che si dà sull’impiego della sintesi della voce, le problematiche circa il suo ruolo come strumento in grado di favorire le performance nella lettura di soggetti dislessici rimangono incerte. Decisamente più efficace è l’impiego di un sistema di riconoscimento della voce, anche se, a questo riguardo, bisogna mettere in conto le difficoltà della sua implementazione e l’addestramento preliminare del soggetto. A dispetto anche di interventi recenti sulla multimedialità (animazioni, video, etc.), tra tutti i software didattici quelli che ottengono i miglioramenti più evidenti rimangono “semplici” software di addestramento alla consapevolezza fonologica (consapevolezza, riconoscimento, progressiva combinazione tra grafemi e fonemi), allestibili a basso costo. Possiamo affermare quindi che l’impiego in presenza di un adulto di semplici software con giochi di riconoscimento visivo e uditivo (lettera, sillaba, etc.), ottiene il maggior grado di efficacia. È sorprendente che, nonostante il grande interesse dimostrato per la dislessia, si trascuri di parlare dell’introduzione di tale giochi all’interno di piani di intervento per la consapevolezza fonologica, attuabili sin dalla scuola dell’infanzia.

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Riferimenti bibliografici

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II. Revisione sistematica


Maria Montessori e il “futuro” della medicina: alcuni elementi di una ricerca sul campo

Key-words: Rare Illnesses, Care, Disability, Identity, Special Pedagogy, Medicine

III. Esiti di ricerca

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La presente pubblicazione è stata prodotta durante l’attività di ricerca finanziata con le risorse del P.O.R. SARDEGNA F.S.E. 2007-2013 - Obiettivo competitività regionale e occupazione, Asse IV Capitale umano, Linea di Attività l.3.1 “Avviso di chiamata per il finanziamento di Assegni di Ricerca”.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno III | n. 2 | 2015

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

In 1951, Maria Montessori said that there would be a great future for medicine if it started to cure the patients’ souls, rather than just their bodies. What does this statement mean? Medicine has to turn into something different than what it currently is? The aim of this article is to contribute to a possible interpretation of Montessori’s convincement, trying to overcome the separation between the medical and the pedagogical meanings of care. Starting from the data gathered through an ethnographical investigation carried out with a Special-Pedagogy perspective in many hospital divisions dedicated to the diagnosis and treatment of Rare Illnesses, the author here discusses some critical aspects that affect medical actions of diagnosis and treatment dynamics. In order to set an interdisciplinary dialogue between medicine and pedagogy, this study provides some possible educational horizons for overcoming clinical mechanisms and elements that influence the identity development of the disabled person.

abstract

Antioco Luigi Zurru (Università di Cagliari / antiocoluigi.zurru@unica.it)*

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1. Una cura imperfetta …

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Fin dalla gioventù, Maria Montessori ha coltivato una grande passione per la medicina quale strumento e via più appropriata per dedicare se stessa alle scienze umane ed al progresso civile e sociale dell’uomo. Questa inclinazione è evidente se si presta attenzione alle parole con le quali introduce il suo Metodo, quando afferma che l’interesse precipuo non è «tanto la scienza», in termini di meccanismo sperimentale fine a sé stesso, «quanto l’interesse dell’umanità e della civiltà, innanzi al quale esiste una sola patria: il mondo» (Montessori, 1948, p. 4). Nonostante sia stata fra le prime donne, in Italia, ad avere l’opportunità di esercitare la pratica medica (Foschi, 2008; Tornar, 1990, 2007), il clamore dei suoi sforzi è stato presto smorzato dal successo dei suoi interessi per l’educazione dell’infanzia. «La grande educatrice italiana» (Honnegger Fresco, 1993, p. 119), che più volte si è fatta maestra insegnando «dalle otto del mattino alle sette di sera» (Montessori, 1948, p. 24), è divenuta famosa in tutto il mondo per il suo Metodo e la sperimentazione promossa a partire dal 1906, che ha poi condotto all’inaugurazione della prima Casa dei Bambini a Roma nel 1907. In accordo con la rappresentazione che la stessa autrice ne offre, il metodo può considerarsi un apporto razionale e scientifico teso a facilitare la crescita dell’essere umano (Montessori, 1914). In linea con gli sviluppi che la medicina andava dedicando al miglioramento della salute fisica dei bambini, lo scopo del programma montessoriano è centrato sul rafforzamento della «vita interiore» del bambino attraverso «the development of the intelligence, of character, and of those latent creative forces which lie hidden in the marvellous embryo of man’s spirit» (Montessori, 1914, p. 5). Tale proposito non è da concepirsi, però, come esclusivamente legato agli obiettivi di un sistema educativo, bensì come il frutto di un’ampia azione di aiuto che innerva diverse aree di vita e che coinvolge una pluralità di attori. Parlando di sé e del proprio Metodo, la Montessori afferma, infatti, che […] I did not wish to originate a method of education […]. I have helped some children to live, and I have set forth the means which I found necessary […]. And if these means of help are a method of education for children of this age, then all aids to the development of humanity are also methods of education (Feez, 2013, p. 10).

Il sillogismo che ne emerge richiama ad una convergenza tra le azioni di cura e di aiuto, siano queste di carattere medico, sociale o educativo. Ogni intervento educativo non può non contribuire alla salute dell’individuo, così come ogni pratica terapeutica non può discostarsi dal processo di crescita e formazione del soggetto. Pur senza pretesa di esaustività, almeno rispetto all’economia ed agli intenti del presente contributo, va rammentato il fatto che la Dottoressa matura il suo interesse per la sfida emancipativa dell’uomo in un contesto culturale caratterizzato da un fervido rinnovamento sociale e scientifico (Babini, Lama, 2000; Bocci, 2011; Tornar, 2007). Oltre all’esplicito riferimento alle esperienze di Itard e Séguin, è in questo frangente che la cura nei confronti dell’individuo si orienta verso un’azione complessa per il miglioramento delle condizioni socio-economiche, igienico-sanitarie, educativo-istituzionali dei più svantaggiati. Si tratta di un’azione che vede III. Esiti di ricerca


confluire diversi interessi scientifici, da quello medico, a quello psicologico e pedagogico. Sono anni, quelli dell’ultimo ventennio dell’Ottocento, in cui figure come Moleschott, Celli, Bonfigli, Sergi, De Sanctis e Montesano pongono le basi perché il sapere medico si faccia promotore delle istanze di un rinnovamento pedagogicoantropologico (Babini, Lama, 2000; Bocci, 2011; Pesci, 2002). Da autentica ed entusiastica sostenitrice del progresso scientifico, da una parte, e di quello medico in particolare, la Montessori è però ben consapevole dei necessari sviluppi che ancora devono essere realizzati. The great progress made may perhaps deceive us into thinking that everything possible has been done for children […]. Science evidently has not finished its progress. On the contrary, it has scarcely taken the first step in advance, for it has hitherto stopped at the welfare of the body (Montessori, 1914, pp. 4–5).

Quelli citati sono alcuni degli elementi concettuali con i quali è possibile inquadrare al meglio il significato del forte convincimento sul portato della scienza medica e sulla condizione del paziente, espresso durante la cerimonia commemorativa per l’amica Maria Maraini Guerrieri Gonzaga tenutasi a Roma nel 1951. In un passo ricordato da pochi (Matellicani, 2007; Pignatari, 1967; Tornar, 1990) la Montessori afferma che Il malato è un essere che sente più degli altri. Ma egli ha quasi perduto la sua dignità: la sua personalità umana quasi non esiste più, esiste solo la sua malattia […]. Io credo che alla medicina si schiuderà un grande avvenire se si penserà a curare lo spirito dell’ammalato oltre che il suo corpo. Questo può essere di grande aiuto alla scienza medica, perché è una cura imperfetta quella che si rivolge al corpo senza curare lo spirito (M. Montessori, 1951, cit. in Tornar, 1990, p. 53).

Le parole dell’autrice risultano a tratti sconvolgenti anche in considerazione dell’attualità con la quale possono essere oggi riproposte. Ancora oggi e da più parti, si assiste ad una continua rivisitazione ed analisi dei processi di cura medica nel tentativo di mettere a fuoco i bias di una pratica che sembra non soddisfare il principale obiettivo che la motiva: il miglioramento del sistema di tutela della salute e la cura dell’individuo (Barker, Quaranta, Smits, & Vedelago, 2009; Davies, Nutley, & Mannion, 2000; Donabedian, 1992; Holman, Lorig, 2000; Macnaughton, 2011; Malterud, 2001; Marzano, 2009; Morris, 2000). Di fronte ad un tale dilemma, in questa sede solo sinteticamente accennato, le affermazioni della Montessori stimolano una serie complessa di interrogativi sul ruolo e sul peso che i meccanismi e gli elementi che innervano l’agire medico giocano nei confronti dello sviluppo identitario dell’individuo. Le questioni che supportano l’indagine possono essere articolate come segue. Come si declina la dinamica tra le realtà dell’identità, della disabilità e della salute? In che maniera i processi di diagnosi e cura (cure) influenzano lo sviluppo identitario della persona disabile? Attraverso quali attenzioni il medico può assumere un ruolo importante nel processo di cura (care) dell’individuo? Quali sono le condizioni con le quali trasformare il rapporto tra medico e paziente in un’interazione tra soggetti?

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Rispetto a questi interrogativi, il quadro scientifico dei processi inclusivi, da una parte, e la disabilità, quale condizione che necessita anche di un supporto medico, dall’altra, rappresentano una realtà dall’alto valore euristico per l’indagine. A tale proposito, il complesso e multiforme lavoro che caratterizza la prospettiva della Pedagogia Speciale italiana, in parte condensato in alcuni lavori collettanei (Canevaro, 2007; Crispiani, [in press]; d’Alonzo, Caldin, 2012; Mura, 2011), ha permesso di mettere a fuoco le molteplici istanze e dimensioni che innervano il processo di integrazione della persona interessata da disabilità. Le tematiche si inscrivono, così, nell’ambito della fondamentale questione che da sempre accompagna le diverse indagini, ovvero capire in che termini guardare all’identità della persona disabile e in che modo promuovere le condizioni individuali e sociali che ne favoriscono lo sviluppo e la maturazione.

2. Disabilità, salute e sviluppo identitario

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Rispetto al tema dell’identità, il pensiero moderno occidentale si caratterizza in larga parte per una riflessione interamente centrata attorno ad un’idea ridotta ad iper-sublimazione intellettualistica (Cusinato, 2008), frutto di un mentalismo e di uno psichismo orientati ai soli processi della coscienza e dell’autocoscienza, sia in ambito gnoseologico sia ontologico. Solo alcuni esiti dell’antropologia filosofica dei primi del Novecento hanno restituito spazio ad un più ampio discorso sull’uomo, cogliendone la realtà esistenziale in termini di esperienza biografica (Masullo, 1992). Nei confronti del concetto di disabilità, e della realtà che vi è sottesa, le angustie storico-concettuali hanno, inoltre, contribuito alla costruzione di pericolose strettoie ipertrofiche (Canevaro, 1999) e di un distante immaginario del sub-umano (Stiker, 2005). La costante riflessione sul processo di cura educativa, invece, ha consentito di guardare alla situazione di disabilità come ad una particolare dimensione dell’esperienza individuale che ha bisogno di essere sostenuta verso l’emancipazione antropologica (Caldin, 2005; Canevaro, 1986, 1999; d’Alonzo, 1997, 2006; de Anna, 1998, 2014; Gaspari, 2002; Montobbio, 2002; Montuschi, 1997; Mura, 2012). È divenuto sempre più chiaro, così, il peso dell’oggettivazione e della spersonalizzazione in seno agli interventi riabilitativi, i quali rischiano di assumere un carattere esistenzialmente interminabile. Quanto sinteticamente tratteggiato trova riscontro anche nei significati più ampi che i documenti internazionali hanno contribuito a costruire rispetto ai concetti di salute e di disabilità (WHO, 1946, 2001). In questo quadro, la prospettiva pedagogico-speciale, in quanto sforzo scientifico e operativo orientato alla comprensione e all’accoglienza della persona e del senso biografico dell’esperienza, pone un serio interrogativo nei confronti delle dinamiche intrinseche ai processi di cura. In che modo queste concorrono alla costruzione di un comune “luogo” inclusivo capace di promuovere molteplici itinerari di emancipazione umana della persona, senza che le condizioni di salute rappresentino un ostacolo ad ogni possibile slancio esistenziale? Il riferimento va alle dinamiche relazionali ed istituzionali dei processi di diagnosi e trattamento tipici delle pratiche cliniche ospedaliere che spesso coinvolgono l’esperienza della persona con disabilità. III. Esiti di ricerca


Il connubio tra medicina e pedagogia non è stato sempre agevole. Ciononostante, sono documentabili interessanti esperienze di confronto che richiamano modelli di ricerca integrata fra competenze scientifiche differenti, capaci di mettere in dialogo il sapere pedagogico-speciale con le pratiche mediche (de Anna, 2002, 2009; Galanti, 2007, 2012; Mura, Zurru, 2013a; Mura, 2008). Anche la persona disabile, in quanto individuo umano, deve potersi concepire come «un essere nel contempo pienamente biologico e pienamente culturale, che porta in sé questa unidualità originaria» (Morin, 2001, p. 52). La possibilità di promuovere spazi sempre più ampi di interconnessione interdisciplinare diventa, quindi, la condizione per realizzare una piena comprensione dell’esperienza di vita del soggetto disabile e superare quella scissione fra le scienze, entro la quale l’individuo «rimane inquartato, frammentato nei singoli pezzi di un puzzle che ha perso la sua figura» (Morin, 2001, pp. 47-8). Pur nel rispetto delle specificità di ogni sapere scientifico, ma con la consapevolezza sul carattere storico-culturale di ogni epistemologia (Kuhn, 1962), quindi non immutabile, il lavoro guarda alla relazione fra discipline non in termini di multidisciplinarietà, quanto piuttosto attraverso un’interdisciplinarietà intesa come «esplorazione in comune delle regioni di confine» (Piaget, 1970, p. 320). Anche la medicina, quindi, nonostante sia ampiamente caratterizzata dalle scienze naturali, è «una tecnica o un’arte situata su un crocevia tra diverse scienze» (Canguilhem, 1966, pp. 9-10). Tenendo a mente il quadro epistemico sinteticamente descritto, si è operata un’indagine sulle dinamiche di incontro tra medico e paziente nei processi di cura medica attraverso un percorso etnografico orientato a un’analisi che ha assunto la valenza di uno studio di caso molecolare (Baldacci, 2001; Corbin, Strauss, 1990; Enriquez, 1992; Yin, 2003). I dati sono stati raccolti attraverso un lungo percorso di osservazione diretta del contesto clinico presso alcuni reparti di diagnosi e cura delle Malattie Rare, in una struttura ospedaliera del territorio nazionale. La tecnica dello shadowing (McDonald, 2005) ha permesso di seguire da vicino le interazioni di ogni medico e associare, in un secondo momento e solo quando lo scenario dell’interazione si è ormai concluso, una interlocuzione più fitta con gli attori su alcuni aspetti di quanto osservato. Particolare attenzione è stata dedicata alla costruzione degli strumenti per la raccolta dei dati, così da garantire l’aderenza tra i motivi alla base della ricerca e il contesto culturale e ambientale che connota il campo medico-ospedaliero oggetto d’indagine (Cellini, 2008; de Ketele, Roegiers, 2013). A questo scopo, oltre a capitalizzare i risultati di una precedente esplorazione (Zurru, 2013), un periodo di acclimatazione nella struttura ospitante ha permesso di prestare la giusta attenzione alla definizione degli indicatori con i quali strutturare il percorso di osservazione.

3. Uno sguardo sulle dinamiche della cura medica

I dati raccolti, che per mole non possono essere riportati interamente ed analiticamente come fatto in altra sede (Zurru, 2015), sono resi in forma narrativa facendo solo parziale rimando ai quadretti (vignettes) già documentati. Fra gli elementi, il primo dato emerso è il desiderio, nutrito dalla generalità degli attori anno III | n. 2 | 2015

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coinvolti, di uno scambio sul significato del fare ricerca in ambito medico. Già dai primi momenti, però, è subito divenuto chiaro quanto non tutti gli attori avessero immediatamente compreso il senso che il ricercatore ha ascritto alla propria indagine. La curiosità dei medici è spesso rimasta ancorata al solo significato superficiale della relazione tra medico e paziente, tutta vincolata alla dimensione linguistica della comunicazione, da una parte, e alle difficoltà logistiche ed organizzative della professione, dall’altra. L’analisi delle dinamiche, con il tempo fattesi sempre più scevre da qualsiasi strumento di difesa da parte degli attori nei confronti dell’osservatore, è stata corredata da dati ricostruiti anche attraverso l’esame di documentazione cartacea interna ai reparti visitati, quali articoli scientifici, cartelle cliniche, modulistica varia e brochure utilizzate per illustrare le pratiche cliniche offerte. Se si considera la relazione tra l’azione medica e la produzione di materiali scritti, insieme alla vocazione scientifica di alcuni servizi visitati, tali elementi non possono essere trascurati per via del loro carattere particolarmente contestualizzato nel fare di quegli stessi soggetti che l’hanno prodotta (Yin, 2003). Per definire in che modo si concepisca la realtà esistenziale dell’individuo disabile nei processi di cura medica è sembrato necessario valutare il peso del paradigma epistemico nella presa in carico della persona, il ruolo del linguaggio e le modalità in cui si sviluppa la relazione tra medico e paziente. A tal proposito, nell’osservazione della routine clinica quotidiana è stato possibile cogliere anche semplici sfumature per accedere, così, ai significati che i soggetti veicolano anche inconsapevolmente. Durante gli esami di screening prenatale per le cromosomopatie che le coppie affrontano nel primo trimestre di gestazione, ad esempio, i medici non hanno mai mancato di sottolineare con sofferenza la richiesta da parte dei genitori sul sesso del nascituro. Da parte dei medici, tale curiosità è stata spesso ritenuta un chiaro sintomo della mancata consapevolezza nei confronti dei significati dell’esame. Dal punto di vista con il quale si è guardato alla dinamica della relazione clinica, invece, è emerso il dubbio che si trattasse, da parte del paziente, del tentativo di ricondurre alla più globale esperienza individuale anche l’evento diagnostico. Il medico, però, ha dato segno di concepire con sospetto il fatto che il soggetto non fosse disposto a frammentare la propria esperienza rispetto alle indicazioni diagnostiche del caso. Nonostante si tratti di indagini cliniche che spesso proiettano operatore e paziente verso i dubbi intorno al corredo cromosomico del nascituro, nell’esperienza della donna l’evento non può rimanere isolato e sganciato. Dal punto di vista del medico, però, è come se l’eloquenza del segno fisiologico evidenziato non lasciasse spazio ad altra questione se non quella relativa all’eventuale presenza/assenza di una sindrome nel feto. L’impressione è che si chieda al paziente di abbandonare la propria esperienza globale per assumere quella di “caso” che viene ispezionato sulla base di una precisa indicazione diagnostica. Questo tipo di percezione è simile a quella colta in alcuni dialoghi tra colleghi. Alcuni sostengono che, secondo logica, si incontra prima la patologia per poi valutarne gli effetti nella vita dell’individuo, mentre per altri si tratta di incontrare una persona che parla della propria malattia e condizione. Questo tipo di frammentazione riflette l’idea che il medico matura nei riguardi del paziente. La prospettiva con la quale gli operatori interrogano la condizione del malato, sia nell’incontro con la persona così come nei briefing III. Esiti di ricerca


mattutini in reparto, non è quella che apre ad un incontro tra soggetti. L’interesse per le condizioni di salute sono vincolate alla sola ricezione del dato che in quel frangente ha portato il singolo individuo all’attenzione del medico e della struttura sanitaria. La sollecitudine per la condizione soggettiva del paziente è solo parziale, poiché si tratta di un elemento che non costituisce un sostrato databile per l’azione medica. Il paziente perde, così, la propria soggettività, rispetto all’espressione di consapevolezze e di ansie. Il ruolo che egli assume di fronte al medico, quasi fosse esclusivamente «a passive and grateful recipient of care» (McWhinney, 1988, p. 46), rischia di amplificarsi nel caso della disabilità. Si tratta, infatti, di una condizione che, allo stesso modo, diventa una personificazione in termini di sintesi categoriale di una patologia. Tale percezione è evidente in tutti quei frangenti nei quali gli attori, nel chiarire le condizioni di salute del soggetto, si sono espressi facendo riferimento a non meglio precisati «loro» e «questi», facendo riferimento a categorie di persone per le quali «la patologia funziona così». Il tratto sindromico non consente al medico di concepire la realtà individuale della persona come dimensione autentica. È spesso capitato di osservare lo stupore dei medici di fronte al comportamento autonomo e personale del soggetto in cura, non immediatamente congruente con l’enormità dei segni, stigmatizzanti, della condizione di salute. Espressioni come «[…] non si direbbe possibile» o «[…] però dal punto di vista mentale non ha nulla! Dovresti vederla» sono solo alcuni esempi che testimoniano il modo in cui i medici hanno accompagnato le proprie considerazioni nei confronti di persone interessate da particolari sindromi. Gli sforzi che l’individuo pone in essere per la costruzione di una propria esperienza esistenziale sembrano soccombere di fronte ai processi di reificazione messi in atto, attraverso predicazioni che non gli appartengono. Una terminologia spesso impropria e aggettivante, e non solo in termini di political correctness (Mura, Zurru, 2013b), rende la persona handicappata da una rappresentazione che disegna confini non rispondenti alla realtà, ma funzionalmente derivati dalla comune pratica tassonomica. Anche i reperti documentali rintracciati nei reparti visitati testimoniano la pregnanza delle consuetudini linguistiche. Appaiono così note informative che ragguagliano su «neonati normali» rispetto ad altri che non lo sono, perché «affetti da handicap fisico e/o mentale», e che mettono in luce «il rischio, anche se minimo, di mettere al mondo un figlio affetto da handicap». È evidente la discrepanza tra l’intento clinico di saggiare la probabilità di un simile evento, elemento di natura statistica, con la colorita connotazione rispetto alle conseguenze derivanti da un rischio. L’indiscriminato uso sinonimico dei termini rischio e probabilità rivela il peso di una narrativa preconcetta basata su una determinata concezione della persona con disabilità. Terminologie e locuzioni spontanee, non sorvegliate, e di certo anche inconsapevolmente utilizzate dagli attori, ma che restituiscono il quadro entro il quale si innesta l’interazione tra soggetti nella relazione medico-paziente. «Diagnosi? Metti encefalopatia neurodegenerativa: è un disastro!». Poche e incisive parole per esplicitare ciò che il medico ha avuto di fronte a sé: una ragazza di dieci anni circa che, nella percezione dell’operatore, non potrà che avverare ciò che ha descritto con la colorita espressione nosografica.

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4. Io credo che alla medicina si schiuderà un grande avvenire …

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Come già detto, quelle riportate si possono considerare espressioni non pienamente consapevoli nelle intenzioni dell’interlocutore, ma che, ad ogni modo, difficilmente, nella realtà dei fatti, possono aprire ad una relazione con il soggetto di segno differente. Le dinamiche osservate testimoniano, infatti, una costante svalutazione della soggettività. È il caso della dimensione corporea, facilmente trasformata in realtà oggettuale, alienata e disarticolata nelle mani del medico che la ispeziona. Il fare routinario del medico sembra tracciare un campo altro, delimitato dal suo sguardo che avvolge l’oggetto, il quale giace sul lettino isolato dal resto dell’ambiente. Il medico scompone il corpo in parti più o meno significanti e le trasforma in oggetti. Ciò appare evidente anche quando ragioni logistiche obbligano il medico ad utilizzare il corpo del paziente come base d’appoggio per i suoi strumenti, senza che tale esigenza sia accompagnata da un commento da parte dello stesso medico. Si tratta di aspetti rispetto ai quali gli attori tradiscono apertamente la propria inconsapevolezza, come quando in un dialogo tra colleghi si è avuto modo di sottolineare il fatto che la comunicazione di notizie intrise d’angoscia avvenga spesso quando ancora il paziente è svestito sul lettino. Gli attori sono risultati effettivamente toccati nel riflettere sulla prospettiva del paziente, il quale deve potersi riappropriare di sé al termine della visita, sia in termini spaziali non subordinati sia nella gestione della propria nudità. Il mancato apprezzamento del fenomeno è segno, ancora una volta, del meccanismo con il quale si rende oggetto il soggetto che, in quella condizione, è ancora espressione anatomica di strutture e di funzioni, mentre il carattere personale ed intimo è posto in secondo piano. Si è spesso rilevata una certa insofferenza riguardo alla presenza rappresentata dal corpo dell’altro e nei confronti della dimensione soggettiva che veicola, quando questo cessa di essere la somma di segmenti anatomicamente sondabili e diventa espressione identitaria. Il toccare il corpo dell’altro, anche in un momento di commiato con una stretta di mano o con una affettuosa carezza, risulta un’azione di cui spesso l’operatore medico non ha piena consapevolezza, specialmente in merito al senso patico ed al significato relazionale che questa assume. Intervistando i soggetti osservati si è avuto modo di appurare la loro effettiva resistenza all’incontro: «[…] da quando mi ha fatto notare questa cosa, mi è venuto meno spontaneo farlo con altri». Non meno significativa appare, poi, la distanza che il medico tende ad interporre tra sé e l’altro relativamente ai vissuti personali. «Non ho voluto approfondire perché attendo che siano loro a dirmi, che siano più spontanei». Più che attendere la spontaneità dell’altro, che di fronte ad una notizia estremamente angosciante ha tentato di aprirsi con un «siamo troppo sfortunati», sembra che il medico tenti di allontanare un’incommensurabile espressione di dolore e disorientamento, celandola con un non meglio precisato rispetto dell’intimità del singolo. Riecheggiano, in tal senso, le parole del medico e filosofo iniziatore dell’antropologia medica degli inizi del Novecento: «[…] il paziente si scoprirebbe ben volentieri, se il medico non fosse così pudico da non interrogarlo nell’intimo (von Weizsäcker, 1987, p. 95). È risultato evidente, però, che si tratta di una mancanza che non è veicolata III. Esiti di ricerca


dal pieno disinteresse nei confronti dell’altro e della propria esperienza e prospettiva. I dati raccolti conducono a pensare che sia piuttosto un’incapacità di trovare i mezzi e l’apertura adeguata, sia a livello comunicativo che relazionale, per riconoscere sé nell’altro e nella sua sofferenza. «[…] cosa ne pensi? Secondo te come ha preso la notizia?». Il medico non è preoccupato del livello di chiarezza con il quale ha esposto il caso nei confronti del paziente, aspetto che mai ha destato perplessità durante il periodo di osservazione, ma di quale sia la percezione che il soggetto ha della propria condizione ed esperienza. Perché, allora, il medico non ha affrontato il problema porgendo direttamente al paziente una simile domanda, posta più tardi al ricercatore? La preoccupazione più plausibile è quella nei confronti dell’incontrollabile emozione dovuta alla prospettiva di trovare sé di fronte alla “nudità” esperienziale dell’altro, e in quella riconoscersi. Esiste una forte riluttanza ad ammettere la dimensione emotiva e patica accanto alla struttura razionale dell’agire professionale. Al di là di ogni possibile deduzione, si tratta di un dato di fatto appurato in più occasioni e ben descritto dagli stessi medici. È eloquente, ad esempio, l’espressione di un medico che, al termine di un esame, ha voluto condividere con l’osservatore alcune sue considerazioni: «[…] nel vedere una quantità di casi l’operatore diventa sensibile, non nel senso emotivo, quello non c’entra, ma riguardo alla capacità di discriminare il valore dei dati». Sensibilità significa quindi abilità di discriminare un dato nell’ambito di un preciso range. L’affermazione acquista ancora più spessore se si considera che l’interlocutore ha voluto precisare «non nel senso di emotivo», volgendo lo sguardo al ricercatore, dopo aver parlato con gli occhi fissi al monitor della macchina alla quale lavorava.

5. Quale avvenire per la cura?

L’interesse che ha orientato questo lavoro non è volto a strutturare nel medico una sensibilità altra rispetto al bagaglio culturale e scientifico che connota la professionalità clinica. Si tratta, invece, di ripensare quella stessa professionalità nei termini di una più ampia apertura nei confronti della soggettività. Non si tratta nemmeno, come spesso è dato di percepire, di improntare stili comunicativi meno asettici e più accomodanti. Il rapporto tra medico e paziente, lungi dall’essere esauribile in un semplice rapporto di compravendita di servizi, acquista un portato esistenziale profondo. L’uomo cerca nel medico, professionalità connotata dal mandato del quale è investito e del sapere di cui è detentore, un altro relazionale con il quale comprendere sé e la propria condizione. Se il rapporto tra la persona disabile e il medico non è esclusivamente centrato sulla ricerca di una risposta in merito alla propria patologia, lo specialista non può rimanere trincerato al di qua delle evidenze scientifiche, pur costituendo queste parte fondamentale della propria professionalità. Ogni volta che la criticità delle situazioni ha lasciato emergere la natura originaria dell’incontro tra soggetti e il medico è rimasto ancorato al solo sapere scientifico, la sensazione che lo stesso attore ha avvertito è quella di non avere avuto gli strumenti adeguati per far fronte al bisogno di colui che in quel momento è stato assalito dalla sofferenza, dall’incertezza e dall’imbarazzo. Solo quando l’operatore ha attraversato la soglia invisibile rappresentata dal bagaglio di conoscenze che lo distanzia dal anno III | n. 2 | 2015

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soggetto in cura, il contatto è divenuto immediato. Il risultato non può essere articolato nei termini di una evidence, ma si tratta di un progresso che permette ai soggetti di riacquistare una reale percezione di sé e della propria esperienza, per entrambi i partner della relazione. Quanto osservato durante il percorso d’indagine concorre ad affermare che la cura medica è innervata da elementi epistemico-operativi con i quali è possibile costruire una concreta relazione di cura. In tal senso, però, il focus dell’azione medica non può ridursi ad un nucleo pathology centered, disgiunto dal più ampio significato di salute. Si tratta di tematiche e dimensioni che risulta necessario approfondire con gli stessi attori osservati, i quali hanno spesso manifestato i propri deficit di formazione e l’incostante consapevolezza sul portato relazionale del proprio lavoro. Come già detto, non si tratta di trasformare il significato della relazione terapeutica, quanto invece di permetterne un costante approfondimento ed un’intensificazione per farne un luogo d’esperienza autentica. Tale prospettiva si attua, però, nell’ambito di una dimensione di reciprocità per la quale, mentre il soggetto disabile costruisce il proprio orizzonte di vita piena attraverso il processo di cura, guidato dal medico, quest’ultimo definisce il proprio ruolo individuale e professionale nel volgere la propria sollecitudine al primo. La relazione di cura non può, quindi, realizzarsi senza contemplare un reale coinvolgimento del soggetto. L’agire del medico è, spesso, dettato da dinamiche di discriminazione tra ciò che è malato e ciò che è sano, che non passano per il momento clinico del porsi uno di fronte all’altro. Non sono in dubbio le competenze d’ordine specialistico, ma è evidente che gli aspetti biologici e organici hanno un valore raccorciato se non sono mediati clinicamente, attraverso il riconoscimento del soggetto e la valutazione della sua condizione di vita individuale. Senza questi elementi l’azione diagnostica e terapeutica del medico non può diventare cura nel senso trasformativo ed emancipativo del termine, conducendo cioè l’individuo a sondare e costruire positivamente la propria esperienza. L’orizzonte tracciato attraverso lo sguardo pedagogico-speciale che struttura la ricerca permette, quindi, di restituire alla medicina il proprio ruolo nella costruzione del benessere dell’individuo disabile, passando per il riconoscimento, la valorizzazione e la promozione delle dimensioni che costituiscono la realtà originaria della soggettività. Si tratta di aspetti che devono poter essere accolti e valutati come prima espressione di sé e canale privilegiato di scoperta, di comunicazione e di relazione intersoggettiva. È necessario, quindi, pensare ad una formazione per il professionista clinico che lo renda capace di incontrare, scoprire, per dialogarvi, la dimensione patica del soggetto disabile. Diversamente, se si mette fuori gioco la soggettività del paziente, e cioè della persona, si esclude anche quella del medico (Masullo, 1987). È probabilmente questo il significato delle parole della Montessori che, da medico ed educatrice, ha intravisto un possibile «grande avvenire» per la medicina. Un’apertura che consente alla scienza medica di farsi pienamente partecipe di un più ampio percorso di emancipazione dell’uomo, strutturato nel dialogo tra le istanze della cura medica e di quella educativa che sarà interpretato, più tardi in Italia, da personalità come quelle di Bollea, Comparetti, Moretti e Montobbio.

III. Esiti di ricerca


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anno III | n. 2 | 2015

ANTIOCO LUIGI ZURRU

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III. Esiti di ricerca


Associazionismo familiare e disturbi dello spettro autistico. Dimensioni emergenti

This article describes the results of the study “Autism and Family: the role of associations”, that represents the second phase of a research project carried out in collaboration with a family association in Monza e Brianza (Italy). The family plays a very important role in the education process of a child with autism: for this reason it is crucial to investigate the factors that can promote its well-being. An aspect of great importance is represented by the opportunities offered by family groups. To be a part of an associative dimension and to build friendship and support networks represent key issues in the process of acceptance and adaptation required by the new family organization. The results and the considerations resulting from this survey show the importance of enhancing the resources offered by the informal network of families.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Autism Spectrum Disorders; Family Association; Family well-being.

abstract

Silvia Maggiolini (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano / silvia.maggiolini@unicatt.it)

III. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno III | n. 2 | 2015

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L’associarsi porta forze nuove, stimola le energie. La natura umana ha bisogno della vita sociale, tanto per il pensiero che per l’azione. Maria Montessori

1. Introduzione

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Differenti studi hanno analizzato la complessità delle sfide che la famiglia è chiamata ad affrontare in presenza della disabilità del figlio (Cfr. Pavone, 2009; Walker, Alfonso, Colquitt, G. et alii, 2015), e nello specifico di una condizione di disturbo dello spettro autistico (Cfr. Sepe, Onorati, Folino, Abblasio, 2014; Ekas, Timmons, Pruitt, Ghilain, Alessandri, 2015; McStay, Trembath, Dissanayake, 2015). È soprattutto in questo campo che gli ultimi decenni, in particolare, hanno conosciuto una ricca produzione sia di pubblicazioni scientifico-accademiche, sia di testi letterali e narrativi (Ibidem), spesso grazie all’attivo contributo di genitori, padri e madri, che hanno provato a tradurre in parole un ampio bagaglio di sentimenti, conoscenze ed esperienze che hanno segnato il loro percorso di vita. Tutto ciò a testimonianza dell’interesse che orbita attorno a questo peculiare ambito di ricerca. Sebbene non sia possibile né opportuno sostenere un rapporto di causalità diretta tra l’evento disabilità e l’insorgere di possibili disarmonie nelle dinamiche familiari, è ampiamente riconosciuto lo sconvolgimento derivante dallo sgretolamento delle aspettative che accompagnano la nascita di un bambino e, successivamente, da un oggettivo incremento delle difficoltà legate all’organizzazione della vita quotidiana. In particolare, ad incidere in modo significativo sul carico emotivo e gestionale dei genitori vi sarebbero alcuni fattori come la cronicità della condizione ed il coinvolgimento di alcune sfere significative della persona, quali le capacità comunicative e relazionali, che risultano deficitarie, come noto, nella grande maggioranza dei soggetti con disturbo autistico. A fronte di tale constatazione, diviene interessante considerare gli interrogativi che hanno guidato recenti ricerche (Cfr. Dardas, Ahmad, 2015; Fairthorne, de Klerk, Leonard, 2015; Censis, 2012) finalizzate a comprendere quali elementi possano contribuire a promuovere il benessere familiare. A tal riguardo, l’appartenenza ad una dimensione associativa, la costruzione di relazioni amicali e di supporto ed il coinvolgimento nei servizi offerti dalla comunità sembrano assumere un ruolo considerevole in quel costante processo di adattamento richiesto dalla nuova organizzazione familiare e di attivazione di adeguati interventi educativi a favore del bambino autistico (Maggiolini, Molteni, 2014). Far parte di una rete diviene dunque occasione per creare spazi di riflessione e di condivisione emotiva, in una logica circolare nella quale non esistono differenze tra ciò che viene dato e ciò che viene ottenuto, perché i confini divengono labili come in ogni dimensione connotata dall’amore e dalla volontà di compartecipazione. Sulla scorta di tali considerazioni, e con il desiderio di conferire valore alla voce e all’esperienza diretta di tali famiglie, vengono esposti gli esiti dell’indagine Famiglia e disturbi dello spettro autistico. Il ruolo delle associazioni, che ha inteso sviluppare il percorso di ricerca-azione precedentemente avviato in collaborazione con una realtà associativa nella provincia di Monza e Brianza.

III. Esiti di ricerca


2. Saperi, sguardi ed esperienze di vita: il valore dell’apporto genitoriale

La costruzione di una rete di servizi e di un sistema “esperto” di presa in carico della persona con disabilità non può prescindere da un reale coinvolgimento della famiglia, pensata non solo e non semplicemente come destinataria o fruitrice di azioni di sostegno, bensì come attiva protagonista di un processo che pone al centro il benessere e la qualità di vita del figlio. Comprenderne i ruoli, i bisogni, e soprattutto i possibili contributi significa dunque superare quella visione assistenzialistica che per lungo tempo ha dominato il campo degli interventi promossi in suo favore, per evidenziare invece la ricchezza delle qualità e delle competenze, a volte non immediatamente visibili, che in essa sono racchiuse e che richiedono di essere valorizzate. Da problema a risorsa, come opportunamente recita il titolo di un contributo nel testo curato da Cottini (Pascoletti, 2010), ove l’accento è posto sul secondo termine e sulle modalità attraverso le quali promuovere sempre più le condizioni per rendere effettivo tale passaggio. Prendendo le mosse da tale assunto, le riflessioni qui contenute vogliono porsi in continuità con un filone di pensiero, di lavoro e di studi (Cfr. Goussot, 2013; Bouchard, Guerdan, 2002; Prizant, 2009; Moletto, Zucchi, Querzè, Tarrachini, 2011; Xaiz, Micheli, 2010) che, soprattutto negli ultimi anni, ha contributo a riconoscere la centralità della famiglia nell’attivazione di un dialogo costruttivo con gli enti ed il territorio. Si è quindi compreso che per garantire il successo di ogni progetto educativo e formativo diviene prioritario dare voce a quel patrimonio umano, esperienziale ed esistenziale di cui essa è portatrice. E per far questo non basta solo attribuirle un ruolo o scorgerne potenzialità, ma è fondamentale, per dirla con Goussot, “considerare i genitori come esperti dei propri figli, considerarli come persone con dei sentimenti, della dignità e delle competenze” (Goussot, 2013, p. 16; cfr. Schopler, 2005), riducendo così quella distanza che spesso si viene a creare tra il mondo dei professionisti e quello familiare. Evidenziare il valore degli aspetti emotivi, affettivi e cognitivi già presenti può tradursi per esempio nella possibilità di affiancare il genitore nell’imparare a guardare il figlio, con i propri occhi di madre e di padre e non attraverso il riflesso generato dalla presenza di altri sguardi, del medico, degli insegnanti o dei terapisti (Cfr. Sausse 2006). Per tutte queste ragioni, si è pienamente convinti che solo mediante una promozione da parte dei servizi e di tutta la società di una cultura attenta, che non si riduca ad una prestazione di competenze rivolte a chi è oggetto di bisogno, e che non sostituiscano l’altro, sia essa la persona con deficit o la sua famiglia, sarà possibile non imprigionare quell’enorme bagaglio di risorse che l’essere umano, affetto da disabilità o meno, possiede.

3. Lo start up del progetto

Nel maggio 2012 CeDisMa (Centro Studi e Ricerche sulla Disabilità e la Marginalità, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) in collaborazione con Cascina anno III | n. 2 | 2015

SILVIA MAGGIOLINI

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San Vincenzo ONLUS, Associazione di genitori con figli con disturbo dello spettro autistico, hanno avviato un progetto di ricerca finalizzato alla costituzione di un osservatorio locale nel territorio di Monza e Brianza. Questa prima fase operativa, nata dall’esigenza di tale associazione di monitorare, attraverso la realizzazione di interviste semi-strutturate, i bisogni delle famiglie e di identificare possibili proposte operative per implementare la qualità dei servizi attivi in Provincia, è quindi confluita in successiva tappa di lavoro. La ricchezza e la varietà delle esperienze raccolte ed il desiderio di approfondire il ruolo della dimensione associativa, allargando lo sguardo anche ad altre realtà presenti a livello nazionale, hanno sollecitato a proseguire il cammino intrapreso. Pertanto, sulla base degli elementi emersi nel corso della prima parte dell’indagine, è stato successivamente costruito un questionario articolato attorno a varie aree di interesse (l’individuazione dei primi segnali di difficoltà del bambino; il cammino verso la diagnosi; l’esperienza scolastica ed extrascolastica; il supporto della rete nelle percezioni dei genitori). Allo scopo di raggiungere il più ampio numero di adesioni possibili, si è ritenuto opportuno procedere con la pubblicazione on line dello strumento1: per consentirne una rapida diffusione, sono stati presi contatti con differenti associazioni familiari, accomunate dalla volontà di promuovere la ricerca ed attivare processi di sensibilizzazione attorno alle problematiche delle persone con disturbi dello spettro autistico. Nel biennio 2013-2015 sono stati quindi raccolti ed analizzati 274 questionari. Se è doveroso evidenziare sin da subito che la modalità di selezione soffra i limiti di un campionamento basato sulla partecipazione volontaria delle famiglie e, pertanto, non possa soddisfare criteri di rappresentatività, si è tuttavia convinti che le risposte ottenute ed i dati derivanti dall’incrocio di alcuni items offrano lo spazio per interessanti riflessioni.

4. Le aree di indagine

Attraverso le informazioni raccolte nella prima sezione del questionario è possibile tracciare un sintetico profilo dei partecipanti. I 274 genitori che hanno risposto sono residenti in differenti Regioni italiane (solo il Molise e la Basilicata non risultano rappresentate). Nel dettaglio, a compilare il format sono il 73% delle madri, il 21% dei padri ed entrambi i membri insieme nel restante 6%. La coppia è coniugata nel 74% dei casi, mentre è convivente nel 10%, separata nell’8% e divorziata nel 5%. A completare il quadro, vi sono poi genitori single, vedovi o appartenenti a nuclei ricostituiti. Nel 31% del campione, inoltre, si è in presenza di un unico figlio (con autismo), mentre nel 52% la prole é composta da due o più fratelli. In tal caso, è interessante considerare l’ordine di genitura del bambino con disabilità, in quanto la consegna di una diagnosi potrebbe influenzare la coppia nella scelta di avere ulteriori figli. Nello specifico di questa indagine, tuttavia, non emergono elementi 1

Il questionario è visibile alla pagina web: https://autismoefamiglia.webform.com

III. Esiti di ricerca


significativi tali da indurre ad avanzare considerazioni in merito ad una possibile correlazione tra i fattori considerati: il ragazzo con disturbo dello spettro autistico è il primogenito2 in più della metà delle situazioni esaminate. Inoltre, in pieno accordo con i dati riportati dalla letteratura nazionale ed internazionale (Cfr. Rapporto Censis, 2012; Società Italiana di Pediatria, 2011, pp. 1-4; Postorino, Fatta, De Peppo, et alii, 2015; Fombonne, 2009), prevale il sesso maschile in un rapporto di circa 4:1 su quello femminile. Le successive domande del questionario sono state strutturate attorno a differenti aree di interesse. I campanelli di allarme e la diagnosi

Un primo livello di analisi attiene all’età di comparsa dei cosiddetti campanelli di allarme, ossia dei possibili aspetti di problematicità manifestati dal bambino, quali per esempio ritardi o anomalie nell’area linguistica, relazionale, comportamentale e sensoriale. Un dato di particolare rilievo in questa indagine può essere ricavato dalla domanda: “Chi ha notato (per primo/i) i segnali di difficoltà?”. Accanto alle figure genitoriali, un ruolo significativo è assunto, soprattutto in questa delicata fase iniziale, da educatori e insegnanti dei Nidi e delle Scuole dell'Infanzia. Prendendo in esame le risposte relative ai bambini che hanno frequentato tali strutture è possibile infatti osservare come, negli anni, le insegnanti giungano a percepire, sempre più precocemente, la presenza di eventuali disturbi. Se nel periodo 1994-1998, ciò avveniva attorno ai 4 anni del piccolo, ai nostri giorni (2009-2013) sembra verificarsi, in tal senso, un’importante anticipazione (Fig. 1). Si può inoltre affermare che, rispetto alla possibilità di ottenere valutazioni diagnostiche in tempi relativamente brevi, e sempre in riferimento a questo specifico campione di ricerca, gli ultimi anni abbiano conosciuto considerevoli progressi passando, nell’arco di meno di un decennio, da una media di 7,9 anni di età del bambino al momento della diagnosi a 4,1. Parallelamente, tende a diminuire anche il tempo che intercorre tra l’individuazione dei primi segnali e l’effettivo accertamento clinico (Fig. 2). In particolare, analizzando quest’ultimo aspetto in relazione alla provenienza geografica, si evince come, rispetto al passato, le differenze territoriali siano andate attenuandosi.

2

Il riferimento è alle famiglie con due o più figli, nati in seguito alla diagnosi di disturbo dello spettro autistico.

anno III | n. 2 | 2015

SILVIA MAGGIOLINI

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alla Età Et àa lla diagnosi diagnosi 9 8

primi Età Et àp rimi segnali segnali

7,9

7

3 6,3 6

Età Et à del del bambino bambino

6 5 4 3

primi Età Et àp rimi segnali segnali (insegnanti) (insegnanti)

3,9 2,8

3,6

5,7 4,1

2,6

2,9 23 2,3

1999 1 999 - 2003 200 3

2004 2 004 - 2008 2008

2

2,0 1,4 1 4

1 0

1994 1 994 - 1998 199 8

Periodo Pe riodo st orico storico

2009 2 009 - 2013 2 013

Fig. 1 Età del bambino (individuazione primi segnali); Età del bambino (diagnosi)

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Fig. 2 Tempo che intercorre tra i primi segnali e la diagnosi I

L’esperienza scolastica

P

La scuola, come noto, riveste un ruolo strategico nel processo di crescita dei !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! ragazzi con disturbo dello spettro autistico, offrendo loro la possibilità di sperimentarsi sul piano sociale, relazionale e cognitivo. Per tale ragione diviene molto I ! interessante conoscere la percezione ed il vissuto dei genitori al riguardo, ben consapevoli che ciò significhi addentrarsi in una realtà molto complessa ed eteP rogenea. Molteplici, infatti, sono le variabili che intervengono nella realizzazione di un contesto educativo e didattico in grado di accogliere e rispondere adeguatamente ai bisogni specifici di questi alunni. Il panorama che viene dunque delineandosi attraverso le risposte fornite in !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1 questa sezione del questionario risulta essere molto variegato, e richiama quel 1

!

III. Esiti di ricerca


tratto di disomogeneità che caratterizza i percorsi di inclusione scolastica del nostro Paese (Cfr. d’Alonzo, Ianes, Caldin, 2011; d’Alonzo, 2009). Prendendo in esame lo specifico campione di tale indagine, ed analizzandone la distribuzione tra i vari gradi di scuola in relazione all’età anagrafica, emerge un quadro così articolato (Fig. 3): !

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Fig. 3 Distribuzione del campione nei vari ordini di scuola

Questo ridotto ma pur sempre interessante spaccato inerente alla frequenza scolastica pone in risalto l’annoso problema che affligge le famiglie con figli disabili ormai adulti o quasi, i quali, concluso il percorso formativo, vivono la propria quotidianità all’interno delle mura domestiche: si tratta, nel nostro caso, di circa il 10% dei ragazzi con età compresa tra 14 e 20 anni e del 43% degli ultraventenni. Entrando nel merito di un altro aspetto altrettanto dibattuto, ossia il numero di ore assegnate al docente di sostegno e alle figure educative, l’indagine restituisce alcuni dati che risultano essere in linea con il recente rapporto Censis (Rapporto Censis, 2012). Innanzitutto si può osservare che, complessivamente, nella classe del ragazzo con autismo l’insegnante di sostegno è presente nell’87% dei casi, mentre l’educatore per il 58% (Fig. 4). La copertura oraria può variare, per entrambi, da un minimo di 4 ad un massimo di più di 20 ore settimanali, con una media di circa 13 ore per quanto concerne il docente di sostegno e di 10,5 per gli educatori. È stato quindi chiesto ai genitori di esprimersi in merito al turn over di tali figure, quantificando la frequenza annua con la quale si sarebbero verificati, nel corso dell’ultimo anno scolastico, eventuali cambiamenti, ritenendo quest’ultimo un elemento rilevante al fine di poter garantire la necessaria continuità nella progettazione delle attività educative. Secondo il campione considerato si tratterebbe di un fenomeno abbastanza contenuto: sostituzioni significative (due, tre o più volte durante l’anno) sono state dichiarate dal 21% dei partecipanti, in relazione alla figura del docente di sostegno, e dal 6% rispetto a quella educativa. Come facilmente presumibile, tuttavia, ad incidere sulla bontà dell’esperienza scolastica del proprio figlio, nella percezione del genitore, non vi sono solo queanno III | n. 2 | 2015

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stioni di natura meramente quantitativa, quanto soprattutto fattori di ordine qualitativo. In particolare, la preparazione dei professionisti, docenti ed educatori, assume un ruolo prioritario nelle parole dei familiari, incidendo notevolmente sulla soddisfazione degli stessi. Nella sezione del questionario appositamente dedicata alla comprensione dei fattori alla base di un elevato grado di apprezzamento per il percorso scolastico compaiono, in netta maggioranza, termini ed espressioni che richiamano il valore della competenza e della motivazione del personale scolastico (“La scuola, e soprattutto gli insegnanti, possono veramente fare la differenza nella vita dei nostri figli”; “Siamo stati fortunati, perché gli insegnanti si sono dimostrati disponibili e pronti ad adattare i propri metodi didattici”; “Grazie al lavoro delle insegnanti, il bambino si è bene inserito nel gruppo classe”; “Il bambino ha trovato una classe accogliente e delle insegnanti propense a collaborare con la terapista, per riuscire a sviluppare al massimo le sue possibilità e per poter affrontare al meglio la scuola primaria”). Naturalmente non mancano, all’opposto, riferimenti a situazioni scolastiche particolarmente difficili, segnate da criticità derivanti da un’impreparazione di base del corpo docente o dalla mancata attivazione di un’adeguata relazione con la famiglia (“L’esperienza è stata traumatica: non erano pronti ad accogliere un bambino con tali caratteristiche”; “Poco coinvolgimento di noi genitori, assenza della consapevolezza del nostro ruolo”). Nelle considerazioni dei genitori, sono soprattutto gli educatori a poter vantare una formazione specifica sulle problematiche legate alla condizione autistica (il 36% contro il 17% degli insegnanti di sostegno).

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Fig. 4 Presenza del docente di sostegno e dell’educatore in classe

Le attività extrascolastiche

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Nel 70% dei casi, i ragazzi partecipano ad attività extrascolastiche (sport, ludoteche e spazi gioco, oratori, associazioni musicali, culturali ed artistiche). L’analisi delle risposte fornite, se da un lato pone in evidenza l’importanza rivestita III. Esiti di ricerca


dal tempo libero per le persone con disabilità, dall’altro fa esplodere i bisogni ad esso sottesi, avvertiti dalle famiglie come esigenze impellenti, quali, per esempio, la possibilità di beneficiare, durante le attività sportive e ricreative, della presenza di educatori specializzati. Un dato questo di non poco conto, se si considera, a titolo esemplificativo, che la mancanza di supporto adeguato limita fortemente i genitori nella scelta di iscrivere il figlio ad un centro estivo (Fig. 5). Su questo aspetto, in particolare, si riscontrano notevoli differenze a livello geografico: circa 2/3 del campione residente nelle regioni del Nord propende per tale scelta educativa contro 1/3 delle famiglie del Centro e del Sud.

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Fig. 5 Motivi per cui i genitori non iscrivono il figlio ad un centro estivo

Il ruolo delle associazioni

Uno degli snodi attorno ai quali si sviluppa la ricerca è sicuramente rappresentato dal desiderio di comprendere il ruolo che la dimensione associativa può assumere in termini di supporto al nucleo familiare di ragazzi con disturbo dello spettro autistico. Si può innanzitutto rilevare che circa il 60% di coloro che rispondono al questionario afferiscono ad una rete associativa: ciò avviene in misura maggiore nelle regioni del Nord, rispetto a quelle del Sud e soprattutto del Centro (Fig. 6) I principali canali attraverso i quali i genitori sono venuti a conoscenza della possibilità di far parte di gruppi di sostegno e di condivisione sono rappresentati dal passaparola tra amici e conoscenti e dalla ricerche condotte in Internet, che costituisce, per molti di loro, una fonte fondamentale dalla quale attingere per ricevere indicazioni e consigli, soprattutto nella fase successiva alla prima comunicazione della diagnosi. Seguono i suggerimenti forniti da medici, scuole, materiale informativo, seminari e convegni. A piena conferma di quanto già emerso nel citato rapporto Censis (Rapporto Censis, 2012), è possibile sottolineare l’importanza decisiva che tali realtà acquisiscono per le famiglie, tanto che alla domanda “Cosa potrebbe essere utile segnaanno III | n. 2 | 2015

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lare ai genitori che stanno vivendo le prime fasi della diagnosi?”, più della metà del campione (58%) è concorde nel raccomandare, quale primo consiglio, la ricerca di reti associative presenti nel territorio di residenza. Ma quali sono i possibili vantaggi e su quali aspetti, nel dettaglio, si riflettono i benefici derivanti da tale forma di partecipazione e condivisione? Una prima risposta può essere rintracciata nel legame di coppia e nel livello di benessere da essa percepito. Incrociando, infatti, i dati forniti in merito ai cambiamenti intercorsi in famiglia a seguito della diagnosi con la dimensione di appartenenza ad un gruppo, si possono avanzare alcune riflessioni. Innanzitutto, la possibilità di far leva su di un maggior avvicinamento ed affiatamento coniugale, anche ai fini di una riorganizzazione della vita domestica, e sul supporto derivante dall’inserimento nel contesto comunitario sembrano essere appannaggio di coloro che aderiscono alla rete associativa (Fig. 7). Inoltre, analizzando le risposte fornite alle domande aperte del questionario, si evince come siano proprio questi genitori ad esprimere capacità di resilienza, dimensione progettuale ed apertura verso il futuro, attraverso il ricorso a termini e concetti a connotazione prevalentemente positiva (“avere fiducia e coraggio”, “andare avanti”, “non perdersi d’animo”, “credere nelle reti di aiuto e supporto”).

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Fig. 6 Famiglie che afferiscono ad un’associazione

III. Esiti di ricerca

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Fig. 7 La dimensione associativa

5. Riflessioni emergenti

Le molteplici sollecitazioni derivanti dalla notevole quantità di dati raccolti possono essere inquadrate all’interno di differenti chiavi di lettura. Emerge innanzitutto il ruolo cruciale della formazione, iniziale e in servizio, di coloro che operano nel campo dell’educazione prescolare: educatori di asili nido ed insegnanti della Scuola dell’Infanzia sono oggi in grado, grazie ad un bagaglio di competenze sempre più ampio e raffinato, di cogliere eventuali segnali di problematicità del bambino sin dalla più tenera età, rendendo pertanto attuabile uno dei principi cardine della pedagogia speciale, ossia l’intervento precoce. È pertanto fondamentale continuare a promuovere, all’interno dei vari Corsi di Laurea deputati alla formazione di tali profili professionali, specifici moduli didattici volti ad incrementare, a vari livelli, conoscenze ed abilità: nella capacità di osservazione e documentazione, nelle modalità di relazione e comunicazione con la famiglia e gli specialisti, nella progettazione di adeguate attività educative. Non è certamente un caso, al riguardo, che le politiche europee stiano orientando gli sforzi verso un sempre maggiore investimento qualitativo nei servizi di cura per la prima infanzia (0-3 anni) (Cfr. Unione Europea, 2020; Core, 2011). Se è vero infatti che “essa rappresenta la fase in cui l’istruzione può ripercuotersi in modo più duraturo sullo sviluppo dei bambini e contribuire a invertire le condizioni di svantaggio” (d’Alonzo, Loner Zecchel, 2015, p.25), ciò risulta ancora più significativo se pensato in relazione alla possibilità di offrire tempestivamente opportuni interventi educativi a quanti vivono difficoltà peculiari, come nel caso dei disturbi dello spettro autistico. Un secondo ambito di riflessioni pone in evidenza il tema della solitudine delle famiglie di ragazzi con autismo. Come rilevato anche da una ricerca condotta da Regione Lombardia (AA.VV., Rapporto finale, 2004), ricorre spesso, nella percezione di tali genitori, un senso di isolamento e di abbandono, che non sembra essere legato tanto alla mancanza di servizi, quanto piuttosto al bisogno di essere meglio informati, orientati ed accompagnati dal momento della diagnosi

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e per tutto l’arco della vita. Ed è proprio questa costante fatica che rende evidente la necessità di una rete sociale in grado di offrire un reale supporto alla famiglia in relazione ai bisogni emergenti nelle varie fasi da essa attraversate: si pensi, per esempio, ad un passaggio particolarmente critico, come quello rappresentato dall’ingresso del bambino nel mondo della scuola o, ancora, al periodo adolescenziale, quando da un lato esplodono le problematiche legate alla crescita del ragazzo e dall’altro diviene necessario ed impellente progettare percorsi che abbiano ricadute significative per il suo futuro. Affermare tutto questo significa anche superare una dimensione autoreferenziale e riconoscere che ogni lavoro educativo non possa che avvenire, per sua natura, all’interno di un contesto e di una rete di relazioni. Insomma, “la condizione di disabilità sollecita molte domande che investono differenti ambiti […]. Tale molteplicità di riferimenti si traduce spesso in una frammentazione di norme, organizzazioni e percorsi, che rende molto complessa la possibilità di orientarsi ed operare scelte coerenti. Alla famiglia serve quindi, prima di tutto, una bussola, una guida nel labirinto ed una mappa per non perdersi e soprattutto per potersi avvalere di risorse di cui ha pieno diritto” (AA.VV., Rapporto finale...., 2004). Molti sono i genitori che investono notevoli energie nel tentativo di comprendere quali possano essere le strade percorribili per il bene del proprio figlio, e ciò perché non tutti possiedono strumenti o competenze per sapere come destreggiarsi o a chi rivolgersi per vedere riconosciuti anche minimi diritti. Il gruppo familiare, la rete associativa sembrano dunque costituire, in qualità di depositari di un ricco patrimonio culturale, relazionale, conoscitivo, una valida opportunità per poter far fronte, almeno in parte, alla molteplicità delle esigenze avvertite. Una considerazione, quest’ultima, che trova riscontro nei risultati di questa indagine e di altri studi condotti in ambito internazionale (Cfr. Altiere, Von Kluge, 2008, pp. 83-92; Mancil, Boyd, Bedesem, 2009, pp. 523-537) e che assume notevole rilevanza soprattutto se pensata in relazione al tema del “Dopo e durante noi”.

6. Conclusione

Valorizzare le famiglie di bambini e ragazzi con autismo significa prima di tutto poter dar voce alla pluralità di bisogni e di esigenze che caratterizzano l’esistenza quotidiana. Pur nella consapevolezza dei limiti legati ad una modalità di campionamento che, come si è detto, ne riduce la rappresentatività, questo lavoro ha inteso, da un lato, analizzare la percezione genitoriale rispetto ad alcuni ambiti e vissuti ritenuti fondamentali nel percorso di crescita di un figlio con disabilità e, dall’altro, comprendere il ruolo e le possibili modalità di supporto offerte dalla rete associativa. Proprio quest’ultima, come si è visto, assume una valenza ed un significato del tutto peculiare: essa infatti diviene “luogo” nel quale “fare il punto della situazione”, dove potersi raccontare (illusioni, delusioni e speranze) e confrontare, “luogo” delle domande, ma anche, e soprattutto, delle possibili risposte, nel quale ognuno possa in pari tempo attingere e donare. Si può anzi affermare che “proprio la ricerca sulle esigenze originarie dell’essere umano ci consente di assegnare significato pedagogico e didattico ad alcune delle funzioni che si svolgono all’interno delle associazioni, individuando prime fra tutte le atIII. Esiti di ricerca


tività di coltivazione e cura rivolte sia ai loro iscritti, sia ai destinatari principali dei loro interventi, i figli” (Mura, 2004, p. 55). La prospettiva di un empowerment familiare, come si tende oggi ad affermare, pone dunque in rilievo alcuni nodi tematici di grande importanza che aprono le porte ad interessanti piste di lavoro e di riflessione attorno alle modalità di promozione di una corresponsabilità sociale, all’identificazione dei bisogni di tutti i membri in tema di supporto, presa in carico, partecipazione e l’attivazione di una reale sinergia tra i vari mondi della cura, quella professionale e quella familiare. In conclusione, alla luce dei risultati di tale indagine, e considerata l’importanza che la famiglia riveste nel processo educativo del bambino con autismo, appare evidente la necessità di continuare ad interrogarsi attorno ai possibili fattori in grado di promuoverne il benessere e di incrementarne la qualità di vita, proseguendo la ricerca nella direzione di una sempre maggiore cooperazione, basata sull’incontro e sul dialogo collaborativo, in un’ottica di valorizzazione reciproca, fra i diversi soggetti a diverso titolo interessati (famiglia, associazioni, territorio, istituzioni).

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III. Esiti di ricerca


Dai complessi scenari dell’apprendere ai decostruibili contesti didattici inclusivi

In the last decade, the evolving process of the school system has seen the radicalization of multifactorial changes. The globalizing economic and cultural processes and the increase of huge migration flows, related to socio-political and economic crisis, have produced heterogeneous school contexts and made the unequivocal crisis of the didactic unidirectional model more evident, a directive and transmissive model, within a school-centered approach. This calls for the need to accelerate the re-designation of polycentric integrated educational systems, able to cope with this complexity in a simplex way, through multisystemic designing research actions, which can re-structure and generate progressive inclusive socio-systemic geometries of cooperative support. It is necessary to activate an educating community system, in school and outside school contexts, formal and informal education, through the networking of negotiated and cooperative research/action and flexible organizations of continuous professional training, which can promote the change and the progressive development of inclusive competences.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Complexity, deconstruction, flexibility, systems, quality.

III. Esiti di ricerca

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Felice Corona ha curato il paragrafo “Nuove prospettive e approcci didattico-inclusivi”; Tonia De Giuseppe ha curato il paragrafo “Il sistema educativo integrato nella didattica cooperativa metacognitiva”.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Felice Corona (Università di Salerno / fcorona@unisa.it) Tonia De Giuseppe (Università di Salerno / tdegiuseppe@unisa.it)*

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1. Nuove prospettive e approcci didattico-inclusivi

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La prospettiva sistemica insita nel concetto di processo inclusivo-globale multidimensionale, propria di una comunità educante, coinvolge indistintamente la sfera educativa, sociale e politica. Essa parte dall’assunto di una apparente contraddizione in termini: di valorizzazione delle singolarità speciali della persona, considerata nelle sue indistinte/differenti potenzialità, attraverso interventi strutturali socio-educativo di contesto. A differenza dell’integrazione (Unesco, 2009, pp. 7-9), processo di indirizzo, volto a ridurre esclusione ed emarginazione, con un approccio compensatorio individualizzato/specialistico di esclusivo ambito educativo, l’inclusione1 indirizza la dimensione delle risposte verso un livello macrosociale e delinea la necessità di interventi non solo settoriali-specialistici, ma principalmente multi-sferico-sistemici. Una tale affermazione richiama il concetto di Clima sociale ecologico, di relazioni educative significative, determinanti nell’apprendimento socializzato che attiene all’area dello sviluppo prossimale; di competenze individuali, saper fare, saper essere, saper stare con gli altri; di metacognizione, intesa come consapevolezza del funzionamento cognitivo; di mindfulness, quale capacità di praticare la gratitudine; di prosocialità e assertività, intese come il saper stare con gli altri. Costruire una relazione educativa, implica la strutturazione di un rapporto significativo e reciproco. La fiducia corrisposta è il frutto di una valorizzazione delle competenze individuali e modalità di relazionarsi, che consentono e facilitano la costruzione di un ambiente favorevole, basato sul clima di fiducia. Produrre apprendimento significativo, implica il favorire l’empowerment dei soggetti che apprendono ed è finalizzato all’impegno e responsabilità, per un apprendimento metacognitivo, consapevole e attivo. Il concetto di metacognizione, livello superiore dell’intelligenza, che controlla e guida processi cognitivi subordinati, si sviluppa e migliora la sua efficienza nell’interazione sociale. Può assumere due diversi significati (Brown, 1987): il primo, riferito alla conoscenza del singolo relativamente al proprio e altrui funzionamento cognitivo; il secondo, indica i meccanismi di regolazione o di controllo del funzionamento cognitivo, che si riferiscono alle attività e permettono di regolare l’apprendimento e il funzionamento cognitivo nelle situazioni di problem-solving. Lo sviluppo delle abilità metacognitive permette l’interiorizzazione della conoscenza socializzata, esterna al soggetto (Vygotskij, 2009). I processi cognitivi si sviluppano dall’esterno all’interno, dall’eteroregolazione all’autoregolazione, così come avviene per i processi conoscitivi che, già secondo la cornice teorica del costruttivismo, sono il risultato dell’interazione con l’ambiente culturale, sociale, fisico, in cui il soggetto è collocato: è dall’interazione con l’ambiente che ciascuno diventa costruttore attivo di conoscenze. In una tale ottica, la scuola assume una connotazione sociale sperimentale, con un passaggio da luogo d’apprendimento per antonomasia, deputato alla tra-

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Miur- CM n. 8 del 6/03/2013 Indicazioni operative sulla Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012, Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica.

III. Esiti di ricerca


smissione di conoscenze, ad ambiente d’interazione sociale in cui esperire/sperimentare vissuti, espressione di relazioni ed emozioni educativo/formative (Rogers, Shoemaker, 1971): siamo dinanzi ad un nuovo senso del fare scuola, che secondo la visione teorico socio-costruttivista è scuola di vita. Va predisposto un clima ecologico positivo, che punti ad un apprendimento socializzato nell’area di sviluppo prossimale di relazioni significative (Rogers, Shoemaker, 1971), per favorire progress metacognitivo, quale autoconsapevolezza del funzionamento cognitivo. Infatti, secondo la pedagogia inclusiva di Novak, un’azione proiettata alla scoperta, all’elaborazione del significato, alla costruzione della conoscenza, al contesto significativo e alla collaborazione tra chi apprende e chi insegna, genera apprendimento significativo (Stella, Grandi, 2001). La progettazione di pratiche inclusive finalizza il proprio scopo all’acquisizione di responsabilità e autonomia, attraverso competenze, quali capacità di un utilizzo consapevole di conoscenze e abilità personali, sociali e metodologiche2. La metodologia didattica, pertanto, deve favorire lo sviluppo di capacità computazionali, espressione di scelte consapevoli, responsabili di una semplessa gestione della complessità di reali. Le strategie cognitive, per aprirsi creativamente al nuovo, necessitano di interazione intrapersonale, prima che interpersonale. Il gruppo è il luogo dell’autogestione pedagogica, simbolico sito di incontro, in cui analizzare le relazioni comunicative ed in cui progettare cooperativamente il proprio sviluppo conoscitivo di abilità e competenze co-costruite. La ricerca-azione cooperativa sperimentale, alla pari del Problem Based Learning, mette in atto un processo di continua mediazione peer to peer e con il teacher thinking, attraverso l’apprendimento per scoperta. L’apprendimento cooperativo, con compiti e ruoli diversificati tra componenti, amplia e sistematizza l’approccio di lavoro in parallelo, eseguito su analogo compito nell’apprendimento collaborativo. Nei gruppi cooperativi metacognitivi la qualità del lavoro del team e la costruzione della conoscenza devono prevedere quattro indicatori: obiettivi significativi, chiari, delimitati, concordati, condivisi, cognitivi e sociali; ruoli distribuiti tra tutti i componenti del gruppo, in cui le abilità sociali vengono insegnate sistematicamente; partecipazione strutturata con attenzione al monitoraggio dei comportamenti sociali agiti, all’autovalutazione dei prodotti e dei processi alla riflessione metacognitiva; riflessione continua con tempo dedicato al momento di revisione metacognitiva dell’attività di gruppo. Nell’apprendimento cooperativo-metacognitivo ognuno è responsabile del proprio apprendimento, ma anche di quello dei compagni. Una didattica cooperativa metacognitiva si può attuare solamente all’interno di un modello democratico di interazione insegnante-alunni. La qualità della mediazione dei compagni nei gruppi apprenditivi svolge un ruolo strategico nel permettere al soggetto di riflettere e appropriarsi delle conoscenze. Il processo apprenditivo metacognitivo, sintetizzato in una nuova prospettiva cooperativa metacognitiva dovrebbe basarsi su go and stop, procedi/fermati a riflettere, che implica un agire insieme per obiettivi comuni, e un riflettere sui punti di forza e di debolezza, per individuare gli eventuali cambiamenti (Sullivan Palincsar, Brown,

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Adatt. da Antonietti, Cantoia, La mente che impara, La Nuova Italia, Firenze.

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FELICE CORONA, TONIA DE GIUSEPPE

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1989, pp. 103-114). Elementi dominanti nel processo apprenditivo sono rappresentati dalla differenziazione, quale capacità di comprendere determinate situazione e applicarvi un criterio contestuale appropriato; dall’integrazione, abilità di ristrutturare la conoscenza, in funzione di precedenti esperienze; dalla costruzione, come riscoperta e creazione di nuova conoscenza, in situazioni impreviste e uniche. L’imparare a valutare le proprie strategie implica uno sviluppo di competenze d’ordine superiore, un apprendimento di secondo livello, metacognitivo. Si tratta di insegnare abilità cognitive e sociali che favoriscano l’autonomia nelle relazioni e nella costruzione della conoscenza, attraverso imprescindibili precondizioni di un “imparare ad imparare”, che parta dalle singole potenzialità. La zona di sviluppo prossimale definisce funzioni allo stato embrionale non ancora autonomamente espresse, che necessitano di ulteriore sviluppo evolutivo o di supporti esterni. L’attenzione dell’educatore e, dunque, le proposte didattiche devono spostarsi dall’area della competenza individuale, all’area dello sviluppo prossimale, cioè puntare alle potenzialità, supportate e sostenute dal gruppo. Infatti, l’apprendimento socializzato, nell’area di sviluppo prossimale, indica la distanza tra il livello di sviluppo effettivo e potenziale, espressione, l’una del grado di autonomia del pensiero computazionale, l’altra, risultato di collaborazione con adulti o pari. Vi sono diverse modalità valutative dello sviluppo prossimale, utilizzate per misurare il potenziale di apprendimento. Le modalità valutative intensive (Dias, 1995) si basano sulle competenze individuali nella soluzione dei problemi e sugli aiuti graduali standardizzati, per permettere una risoluzione di situazioni problematiche, non concluse o sbagliate. Precisamente, la valutazione dello sviluppo prossimale si articola in tre fasi: il pre-test, con risoluzione autonoma di un test standardizzato di misurazione della competenza individuale, per ottenere una linea di base delle competenze nel dominio cognitivo individuato; il test d’apprendimento, che considera la risoluzione dei problemi incompiuti o sbagliati, in cui lo studente verrà supportato nella scelta tra procedure di valutazione dinamica-standardizzate (Feuerstein, Rand, Hoffman, Miller, 1980) che controllano tipi e gradi di aiuto d’orientamento alla risoluzione e non standardizzate con adattamento personalizzato degli aiuti, sulla base dei bisogni manifesti; il test postapprendimento, che prevede nuovamente la somministrazione del test standardizzato della fase pre-test, per verificare il miglioramento della competenza individuale. In generale, l’area di sviluppo prossimale è inversamente proporzionale al supporto fornito: maggiore è il supporto, più è ridotta l’area di sviluppo prossimale e viceversa. Oggi si fa sempre più strada l’idea di una collaborazione reciproca tra il cognitivo e l’affettivo fino a giungere ad una considerazione delle emozioni come una particolare forma di pensiero, determinante nell’elaborazione del pensiero stesso. Noi siamo gli altri che incontriamo; in modo diretto e indiretto le persone che siamo, le persone che diventeremo sono frutto anche della matrice relazionale in cui abbiamo vissuto e nella quale stiamo vivendo. La Mindfulness, intesa come pratica della gratitudine, è molto simile alla metacognizione, ovvero alla capacità di essere consapevoli del percepito, del presente, essere in grado di pensare sul pensare, per modificare un contesto, predisponendo ad una minore reattività negativa e ad una maggiore attenzione all’altro. I dati più recenti di una delle più grandi meta-analisi sugli effetti della mindfulness sugli studenti, eviIII. Esiti di ricerca


denziano un potenziale miglioramento delle prestazioni cognitive e della resilienza allo stress (McKibben, 2014). Le emozioni significative che danno senso e continuità agli eventi significanti, conferiscono un’inclinazione ai vissuti personali e vanno continuamente stimolate, per produrre insegnamento e apprendimento. Gli atteggiamenti improntati a responsabilità, fiducia in sé permettono l’affermazione dei diritti del singolo, nel rispetto di quelli altrui e rappresentano la capacità assertiva di comunicare desideri, intenzioni e giudizi, evitando ogni aggressività e minaccia. Repertorio di comportamenti verbali e non verbali, acquisiti attraverso l’apprendimento, l’assertività e la pro-socialità (Cottini, 2004), consentono la ricerca di risposte in contesti interpersonali e costituiscono un cardine fondamentale per la creazione di contesti di sviluppo e di inclusione, come la scuola. Consentono lo sviluppo di comportamenti-modello-prosociale di contesto, con effetti positivi/desiderabili di promozione del ben-essere, tali da rimuovere effetti indesiderabili. Basati sulla naturale predisposizione umana al sostegno/aiuto di reciprocità sociale, l’assertività e la prosocialità accrescono l’interdipendenza positiva e solidale nelle relazioni interpersonali, puntando ai principi valoriali del rispetto, identità plurale e creatività. L’educazione alla pro-socialità, trasversale alle procedure didattiche disciplinari, deve far prevalere una valutazione positiva dell’alunno, attraverso l’empatia e la libera espressione del sé in termini di emozioni, creatività, competenze e potenzialità. La costruzione di un clima positivo, è strettamente connessa all’attivazione di relazioni empatiche di ri-conoscimento dell’altro, intese come nuova conoscenza, ascolto attivo e positiva relazionalità interdipendente.

2. Il sistema educativo integrato nella didattica cooperativa metacognitiva

Nel concetto di educazione è insito un processo di orientamento alla cura di sé, intesa come principio ispiratore del modo di essere, nel “far fiorire al meglio la propria umanità” (Mortari, 2009, p. 9). In tale concetto curativo è insita sia l’accezione esasperata di un’attenzione al sé, autoreferenziale/narcisistica, sia il senso di una personale percezione e consapevolezza, espressione anche di limiti e potenzialità, dati dal confronto nelle rel-azioni di reciprocità. Emerge, da ciò, il senso di un agire didattico curativo e d’azione educativa funzionale, che producono ri-conosciute visioni del sé, attraverso pratiche di ri-modulazione comportamentale d’impronta dialogica. Partire dallo sviluppo di un atteggiamento positivo di reciprocità curativa, originata da competenze sociali, permette di assumere comportamenti di ricerca delle alternative possibili, per affrontare e superare difficoltà, superando quei limiti personali, individualmente considerati invalicabili. Importante è sviluppare un atteggiamento positivo verso le sfide cognitive, che permette di ricercare le strade e gli aiuti volti ad affrontare e superare le varie difficoltà (Dweck, 2000). Frequenti insuccessi o relazioni negative possono sviluppare un atteggiamento di impotenza appresa, di rinuncia (Bandura, 2000, pp. 75-78). È in un clima favorevole ecologico, che si costruiscono i posizionamenti sociali positivi e la propria autostima. Nel concetto di consapevolezza di sé è insita la capacità d’affrontare sfide, senza incorrere in tutelativi timori del-

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l’altro, potenziale nemico da evitare. Promuovendo self esteem si costruisce il contesto inclusivo, che potenzia il ben-essere psicofisico e sociale, permette una gestione individuale dell’ansia da prestazione e una gestione sociale delle conflittualità che si innescano nelle dinamiche di gruppo. La facilitazione dei processi relazionali (Vygotskij, 2009), di diretta competenza del teacher mentoring, è funzionale alla promozione di apprendimento significativo, se esplicita la motivazione intrinseca, e se si connette al valore didatticamente rilevante della mindlfulness della gratitudine e dell’incoraggiamento imitativo, il modeling, quando diventa personale routine. Vi sono sostanzialmente tre approcci all’insegnamento (Canter, 2009): ostile, non-assertivo, assertivo. Per una conduzione assertiva è necessario impostare un’interrelazione positiva con e tra studenti, attraverso la definizione di strutturate linee-guida comportamentali, che presuppongano un approccio metodologico coinvolgente, proiettato all’autogestione e all’autodisciplina, anche dei comportamenti inadeguati. Nel processo di insegnamento/apprendimento entrano in gioco fattori multipli di gestione, motivazione intrinseca, soddisfazione di bisogni, individuali e collettivi, connesse alle singole necessità problematiche, anche della personalità e del comportamento (d’Alonzo, 2012). La motivazione intrinseca rappresenta un elemento fondamentale del percorso di sviluppo formativo (Miato A.S., Miato L., 2003). Lo stile cognitivo è il processo di rielaborazione dell’informazione appresa, che consente sia il consolidamento delle conoscenze nel tempo sia l’avvio di processi di generalizzazione estendibili a compiti altri (Boscolo 1981). Esso, dunque, si riferisce sia alle strategie cognitive utilizzate, per risolvere un compito, sia alle preferenze d’uso delle abilità. «Per sapere come devo imparare devo essere consapevole del tipo di lavoro mentale che mi è richiesto. Risulta perciò importante che gli studenti sappiano identificare le appropriate operazioni mentali che stanno dietro alle richieste scolastiche» (Antonietti, Giorgetti, 2012, pp. 26-32). Tra docente e discente si stabilisce un rapporto di mediazione tra proposte e percezioni con propri personali stili d’apprendimento. Lo stile di apprendimento è la modalità di percepire, elaborare e immagazzinare i contenuti (Mariani, 1999). Esiste uno stretto rapporto tra stili d’apprendimento, metodologie impiegate e versatilità strategica: quanto più sono versatili, tanto più è possibile adeguarsi agli stili d’apprendimento di un gruppo-classe (Stella, Grandi, 2001). Per approcciarsi ad una progettazione individualizzata/personalizzata bisogna, dunque, tener conto degli stili cognitivi e di apprendimento dei singoli studenti (Corona, 2008). In un percorso progettuale formativo costruttivo-cooperativo-metacognitivo è di prioritaria importanza l’individuazione delle modalità di verifica, valutazione e autovalutazione del processo, esso costituisce un anello decisamente sensibile e delicato dell’iter processuale3. Per operare concretamente in e per una classe inclusiva bisogna partire dalla cognizione che, il processo di interiorizzazione delle conoscenze avviene attraverso: la consapevolezza dei propri processi cognitivi; la previsione, quale stima del successo cognitivo, che presuppone l’individuazione di una situazione problematica e la previsione di una risoluzione; la pianificazione, un riflettere e decidere sulle strategie migliori, per raggiungere l’obiettivo; il monitoraggio, il controllo in progress dei traguardi raggiunti; la valutazione, quale dare valore ad un processo avviato, in termini di obiettivi perseguiti, impegno profuso, punti forti e deboli relativi ad una determinata attività, III. Esiti di ricerca


ed eventuali correttivi da prevedere; la revisione metacognitiva, che permette di acquisire una maggior consapevolezza dell’agito e delle alternative, per valutarne l’efficacia in rapporto agli obiettivi; l’astrazione e il trasferimento delle abilità e conoscenze apprese, in altri contesti o situazioni nuove. Tra i vari tipi di transfer possibili, i due più rilevanti risultano essere: A) il transfer laterale e verticale, applicazione di un’abilità appresa, in contesti simili, in contesti molto diversi e con gradi di complessità maggiori rispetto a quello di partenza (Gagné, 1970, p. 407); B) il transfer vicino e lontano, che dipende dalla distanza tra la situazione apprenditiva di partenza e quella applicativa: più si percepisce lontana la nuova situazione e più diventa difficile il trasferimento dell’abilità nel nuovo contesto (Campione, Brown, 1987, pp. 77-166). I meccanismi metacognitivi di regolazione e controllo si sviluppano attraverso un processo sociale (Vygotskij, 2009), attivato con il tramite di azioni cooperative peer to peer che, in dialettico incontro/confronto, accrescono le capacità di ragionamento critico (McKeachie, 1999). Nella costruzione sociale dell’apprendimento, è necessario tener conto delle spinte progressive, con crescita personale-risolutiva, e regressive, determinate dalle inter-azioni gruppali a due livelli: emotivo e razionale. Il livello emotivo inconsapevole, emerge nel gruppo di base, in cui prevalgono vissuti e bisogni emotivi, intrinsecamente ambivalenti, potenziali elementi confliggenti con gli obiettivi espliciti del gruppo di base. Il livello razionale-manifesto, che si esplicita nel gruppo di lavoro, è incentrato: sulla ricerca razionale di cooperazione, per uno sviluppo di competenze, e sulla ricerca di strumenti, idonei alla realizzazione del compito. Sopperire alle esigenze e ai bisogni sociali, convogliando le spinte emotive nella realizzazione di un compito condiviso, richiede l’individuazione di una leadership specifica ed una strutturata suddivisione di compiti per obiettivo, che attivi processi di modeling, modellamento imitativo, di derivazione neurolinguistica. L’intersoggettività tra attori sociali, dunque, rappresenta il simbolico luogo-prerequisito, in cui imparare ad elaborare strumenti di comprensione della realtà contestuale. L’acquisizione di un comportamento assertivo, inoltre, rappresenta l’elemento cardine di un adeguato agire didattico volto all’autoempowerment delle risorse individuali, connesse ad una valutazione della funzionalità o disfunzionalità comunicativa rispetto agli obiettivi prefissati. Lo sviluppo delle abilità cooperative deve tener conto di quattro livelli di intervento, così finalizzati: alla gestione del gruppo; al funzionamento/controllo di un lavoro, che favorisca scambio e dialogo; al prompting per stimolare connessioni, discussioni critiche, processi di sintesi concettualizzate, validanti l’efficacia del gruppo; all’apprendimento, come ri-elaborazione, che avvalori il processo e controllo cognitivo e metacognitivo (Flavell, 1976, pp. 231-236). L’analisi significativa dell’errore rappresenta uno degli strumenti per individuare gli indicatori dei bisogni formativi e dei traguardi significativi per il processo di sviluppo. Dall’analisi del compito, e dalla selezione dei comportamenti da potenziare, deriva la declinazione degli obiettivi programmabili (Mager, 1972). A garanzia di uno sviluppo conoscitivo supportato da abilità e competenze, in progress evolutivo di expertise, è necessario un insegnamento strategico-significativo (Novak, 2001), che produce apprendimenti significativi e fornisce modelli d’insegnamento di abilità cognitive, sociali, anche con l’individuazione degli strumenti necessari al lavoro di monitoraggio dei processi da attivare. anno III | n. 2 | 2015

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Per raggiungere un apprendimento significativo, è necessario puntare l’attenzione a framework di co-costruzione intenzionale della conoscenza, di contesto significativo e di collaborazione tra chi apprende e chi insegna, in una circolarità e propedeuticità d’intenti e azioni, in continuo progress rimodulante. Nella scelta dei ruoli, delle fasi di lavoro e dei tempi, è fondamentale un bilanciamento ponderato nella suddivisione dei ruoli di compito e di mantenimento. Infatti, esiste il rischio di un’eccessiva centralità sulla produttività ed un consequenziale collassamento del gruppo, derivante dall’utilizzo dei soli ruoli di compito, a scapito della relazione positiva e del benessere intra- relazionale. Anche l’uso smodato dei soli ruoli di mantenimento, privilegiando esclusivamente gli aspetti relazionali, con la creazione di una relazione positiva, accrescono il rischio di un ben-essere di gruppo, ma scarso rendimento produttivo. Si costituisce così, una comunità di investigazione d’apprendimento significativo, in cui i processi si trasformano e si arricchiscono reciprocamente, sul piano cognitivo, culturale, affettivo e comportamentale. L’ambiente d’apprendimento, perché possa trasformarsi in ambiente integrato, necessita di comunità educante, che intervenga nell’organizzazione dell’ambiente di apprendimento, a più livelli e in maniera sistemica. Gli ambienti interagenti e sinergici tendono a superare una dimensione one to one, ma sono proiettati ad un modello reticolare many to many, attraverso un insieme di principi e tecniche, che consentono di lavorare insieme, in piccolo gruppo eterogeneo e prevedono una valutazione degli studenti, a livello sociale e a livello cognitivo: il contesto aula viene trasformato nella situazione di simulazione del cervello, rifacendosi alle quattro aree di sviluppo umano del: pensare, quale sviluppo dei processi cognitivi e metacognitivi; comunicare, relativo a linguaggi e sistemi di comunicazione; amare, inerente l’affettività e il mondo dei valori; movimento, quale autonomia fisica, personale, sociale e morale (Lopez Melero, 2004). La costruzione dell’esclusione e del disagio è una risultante di ambiente sociale, qualità dei processi comunicativi, di aspettative e risposte, di rappresentazioni (Borkowski, 1988, pp. 36-48) individuali e sociali, dunque, della qualità della vita. “Inclusione non significa inglobare assimilatorio, né chiusura contro il diverso” (Habermas, 1998, p. 10). Vanno ri-designati i sistemi formativi policentrici integrati, in grado di fronteggiare la complessità in modalità semplessa (Sibilio, 2014), costruendo inclusione-take care, attraverso progressive geometrie socio-sistemiche inclusive di supporto cooperativo. In un tale scenario dell’apprendere, dare un senso alla diversità rappresenta, l’epicentro dello sviluppo, con un curriculum scolastico e un contesto dell’insegnare il cui focus è la qualità delle relazioni.

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III. Esiti di ricerca


Annual Plans for Inclusion: an explorative analysis in Emilia Romagna

Key-words: annual plan for inclusion, inclusion, inclusive education, teacher, special educational needs

III. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno III | n. 2 | 2015

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The Ministerial Circular (CM) of 6 March 2013, no. 8 prot. 561, provided operational instructions for implementation of the new proposals given in the Ministerial Directive of 27 December 2012 – Intervention tools for pupils with special educational needs and local organisation for school inclusion – calling on schools to draft Annual Inclusion Plans (Piano Annuale per l’Inclusività - PAI). Teachers are required, in an aware and collegial manner, to constantly document and analyse the needs of students in difficulty, in order to appropriately manage teaching actions in class through appropriate organisational choices and the management of the professional and other resources available in the school. This contribution presents the data that emerged from a a research project on the PAI drafted by schools in Emilia-Romagna at the end of the school year 2013/2014. The first data described herein concerns 187 documents and investigated the following aspects: the establishment of Inclusion Working Groups (Gruppi di Lavoro per l’Inclusione – GLI) appointed to draft the PAI, the information on students in difficulty, the instructions for drafting Personalised Teaching Plans (Piani Didattici Personalizzati – PDP), the comparison between the level of school inclusion reported by teaching in the year in which the PAI were drafted and the proposals for improvement suggested for the subsequent school year.

abstract

Roberto Dainese (Università di Bologna / roberto.dainese@unibo.it)

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Ministerial Directive of 27 December 2012 – Intervention tools for pupils with special educational needs and local organisation for school inclusion – has rapidly entered the sphere of actions implemented by schools to promote inclusion paths for students, aiming to provide new indications for ensuring the right to education for all pupils and students in situations of difficulty. The Directive underlines the concept of Special Educational Needs (SEN) and covers three separate conditions: disability, specific developmental disorders (specific learning disorders, verbal, non-verbal and motor coordination deficits, attention deficit hyperactivity disorder) including borderline intellectual functioning – considered the boundary between disability and specific disorders – as well as socio-economic, linguistic and cultural disadvantage1. The SEN area defined in the Directive proposes in epistemological terms a pedagogical meaning which offers clear doubts in interpretation; in fact the document refers to a Non-area of “school disadvantage” which does not refer exclusively to those conditions in which deficits are present but all three of the aforementioned groups, placing them all under the umbrella of Special Educational Needs. We think that the macro-category of “school disadvantage” cannot be converted within the area of SEN, as we have previously stated, indeed: While disadvantage determines the differences, educational needs refer to each pupil, and for this reason the correspondence between the school difficulties of some – the area of school disadvantage – and the area of educational needs which cannot be connoted as special because they are not extraordinary – loses all meaning. Each pupil has his own distinctive educational needs (the need to learn, the need to express himself, the need to change, the need to socialise, etc.) that the school experience moulds to, and these needs must always and in any case be considered, filling any situations of school disadvantage (Dainese, 2015, p. 74).

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There is a risk of a new category entering schools, a category which while without any specific character or clinical recognition, could be viewed in a therapeutic perspective rather than and educational one; we need to prevent the risk of placing all school difficulties in a medical framework where the only interpretations of the pupil and his difficulties are referred to performance parameters which match or are removed from indices deemed to be “within the norm”, without considering the need to have to understand the contexts in order to identify any possible causes in the limits of performance or, to the contrary, the appropriate opportunities for overcoming such limits. Today everything seems to have stubbornly fit into the parameters focusing on the search for some fragile perfection in all fields of the human existence, 1

The term “pupils with special educational needs” is not new, as it was used in 1978 in the Warnock Report in the UK. This document suggested the need to integrate pupils in difficulty into British schools by adopting an inclusive approach. Subsequently, with the 2001 Special Educational Needs and Disability Act, the need to prevent all forms of discrimination of pupils with Special Educational Needs and promote their full participation in school life through the involvement of families was confirmed.

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from the physical sphere to appearance to health; the world insists on proposing models of beauty and success in which there is no room for weakness, old age and illness. The myth of perfection, which is so invasive today, permits no flaws, and the consumer society is unwilling to understand “defects”, forgetting however that these are an intrinsic part of the human existence. The writings of the Austrian sociologist and philosopher Ivan Illich are still very current today in many senses; in the late Nineties, he spoke of the danger underlying the mirage of “perfect health”, originated from man’s distancing himself from his intrinsic, composite logics which deviate him towards paths of doubtful authenticity and probable distortion. In those years, Illich proposes the cultural reformulation of the meaning of the human existence which should have moved beyond the parameters of completeness within which he included also “perfect health” leading to an increase in care which ultimately leads to a generation of increasingly new illnesses. Also today the health system seems to continue to create new therapeutic needs and, consequently, more and new needs, and therefore new illnesses, are reported by the population, fuelling the morbid desire to maintain life eternally, firm and fixed in a state of unchangeability, rejecting old age, pain and death. The consequence is a solid demand for increasingly new medical solutions – we may think only of plastic surgery – to tackle this unhealthy escape from our inevitable fate; people want to forget that getting old, suffering and dying are part of the experience of life and that suffering and death and a constituent part of the human condition. All this progressively limits personal freedom, because it blocks the autonomous search for an authentic sense to give to our own being, because it prevents us from feeling and overcoming our own fears: “Intensive education turns autodidacts into unemployables, intensive agriculture destroys the subsistence farmer, and the deployment of police undermines the community’s selfcontrol. The malignant spread of medicine has comparable results: it turns mutual care and self-medication into misdemeanours or felonies” (Illich, 1977, p. 50). When we assign medicine the task of solving all, we risk transforming every need into an illness, and as Franca Ongaro Basaglia writes, “[…] this translates problems that should be tackled with social measures into medical terms; exploitation to fight dependency on medical help; the use of knowledge in terms of power over the sick” (Ongaro Basaglia, 1982, p. 158). The mirage of perfection, in the health field or in any other aspect of all our lives, generates disjunctive logics based on principles of conformity that create categories and ignore the natural differentiation of people; the “other” suffers the interpretations of all those who see him only through his “dysfunctions”, and to which a name is given: now is the time of SEN. The charm of unreachable, inhuman perfection, that of a mind and body without dysfunction, which do not age or die, alters our representations of the other. The thrill of scientific progress pushes us explicitly towards the need to appear, the need for success and ideals portrayed by the social imagination […] (Gardou, 2015, p .32).

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Here we do not wish to carelessly deny the usefulness and importance of clinical diagnoses or the need to understand the descriptive framework of a person in view of his functions in different life contexts; when pupils manifest clear difficulties in their school paths, in-depth diagnosis is indispensable for identifying the presence of deficits or learning disorders, but also in these cases, it is indispensable to neither underestimate nor overestimate them. We must understand those clinical assumptions in order to suggest and design interventions to overcome them, in order to start achievable projects. While the acronym “SEN” does not correspond to any clinical “label”; in the perception of teachers it may however take on the physiognomy of a clinical anomaly, “pathologising” all difficulties and confining “pupils with SEN” within a standardised action that differentiates them from all the others and leads to the promotion of an educational task conceived as a procedure to be adopted according to the functional adaptation of the pupil. The logic of borders has its use, but also many risks, such as that of closing oneself within a forced, protective identity, considering the others as a threat, a burden, cannon fodder or a sub-species [...] a view which closes the other within the boundaries of excessive care, justifying every intrusion, every protection, every substituted initiative (Canevaro, 2006, p. 12).

Lorella Terzi (2005) proposes to overcome the “dilemma of difference” by avoiding stigma and labelling, without however denying specialist intervention; differences must be identified without incentivising social branding.

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1. The Instruments: PDP and PAI

The Ministerial Note of 27 June 2013, prot. 1551 – referring to the Ministerial Directive of 27 December 2012 and Ministerial Circular no. 8 of 6 March 2013, prot. 561 – Intervention tools for pupils with special educational needs and local organisation for school inclusion. Operational instructions – indicates two instruments: the Personalised Teaching Plans (Piani Didattici Personalizzati – PDP), which must support and steer teachers’ educational actions towards pupils with difficulties, and the Annual Inclusion Plans (Piano Annuale per l’Inclusività – PAI). Personalised Teaching Plans describe an individual, personalized path drafted by teachers in order to define, monitor and document the most effective intervention strategies and the learning assessment criteria; this document is drafted by the whole group of teachers in a co-responsible, participatory manner. Some recent research2 has underlined the difficulty teachers have in agreeing on the drafting of personalised projects which are in line with that of the class, both for pupils with disabilities (IEP) and those with specific learning disorders (PDP). 2

Canevaro A., d’Alonzo L., Ianes D. (2009). L’integrazione scolastica di alunni con disabilità dal 1977 al 2007. Risultati di una ricerca attraverso lo sguardo delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Bolzano: Bozen-Bolzano University Press; Caldin R., Canevaro A., d’Alonzo L., Ianes D. (2011), L’integrazione scolastica nella percezione degli insegnanti, Erickson, Trento; Caldin R. (2012). Alunni con disabilità, figli di migranti. Naples: Liguori.

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The data shows that, when the school is committed to targeted actions focusing on the pupils’ difficulties, there is often ineffective collaboration among the teachers and, consequently, there is a fragile link between the planning action for/with the pupil in difficulty and the educational action of all the teachers for/with this pupil and his classmates. Weak operational knowledge on the part of school professionals is underlined to such an extent that while the personalised plan does not seem to be conceived as a simple bureaucratic deed, it does not promote nor address effective changes in the educational practices of teachers and the effect on day-to-day teaching appears too ineffective. In the Indagine esplorativa sull’utilizzo dei Piani Didattici Personalizzati per gli alunni e gli studenti con disturbi specifici di apprendimento (Dainese, Emili, Friso) 49% of teachers stated in an on-line questionnaire that they didn’t consider the PDP a bureaucratic requirement, and around 47% consider it to be a useful tool (Dainese, 2015, p.77). When schools are committed to actions addressing the difficulties of pupils, there must be greater cooperation among all the teachers and with the parents. There is an urgent need to raise awareness and responsibility among teachers producing personalised work plans, based on the links between what the teachers themselves deem necessary for the class and what they consider fundamental for the pupils with special needs. The work plans for each subject drafted by each teacher should originate from a preparatory, collegial dimension: staff boards and teaching teams in primary schools should together identify the criteria and guidelines that are transversal to all subjects, then used to produce uniform personalized actions. Teachers have to act in an aware and responsible manner in taking on board the actions performed in class with individual students: every teacher should assess the performance of each pupil based on the decisions and choices made jointly in the teams and staff meetings. As stated above, the Ministerial Note of 27 June 20133, refers to a second instrument, the Annual Plan for Inclusion and provides instructions on this specific annual tool supporting inclusion, clarifying its purpose as described below: The P.A.I. must not be considered a further bureaucratic requirement, but rather as an instrument that can contribute to raising the awareness of the entire educational community on the centrality and transversality of inclusion processes in relation to the quality of educational “results”, to create an educational context which concretely achieves school “for all and for each”.

The P.A.I. is an internal act of independent school, aimed at self-knowledge and planning, aiming to develop a responsible and active process of growth and participation. In its Note prot. 6721/2013 – “Special Educational Needs. Details concerning 3

The MIUR clarified that the purpose of the Annual Plan for Inclusion is to provide food for thought in drafting the POF (Educational Policy Plan), of which the document is an integral part, contributing to raising the awareness of the whole educational community on the centrality and transversality of inclusion processes in relation to the quality of “educational results”.

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the drafting of the annual plan for inclusion with a view to personalising learning. Materials for teacher training A.Y. 2013-2014 – the Emilia-Romagna Schools Department provided help to teachers in the form of guidelines for drafting PAIs, underlining the following purposes:

– To guarantee uniformity of the school’s educational and teaching approach; – To guarantee the continuity of the educational and teaching action; – To ensure common thought on the educational and teaching methods adopted in the school; – To identify the most effective methods of personalisation; – To document the interventions4; – To place each educational and teaching path within a common and structured methodological framework involving all teachers and educators; – To avoid short-sighted, undocumented and non-scientifically supported methodological choices of individual teachers; – To share the criteria for personalised actions and interventions with the families.

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The relationship between the PAI and the Educational Policy Plan (Piano dell’Offerta Formativa - POF) is explained in the Ministerial Note of 27 June 2013, where it states that the PAI is not a document dissociated from the POF but is rather a part thereof. While the POF expresses the elements chosen by every school to build its cultural identity and programmes, describing the curriculum, extra-curricular activities, educational policies and organisation each school adopts autonomously, the PAI can thus contribute to effectively enhancing the same programmes with the choices made to support inclusion processes. The P.A.I. is therefore not a “document” for those with special educational needs, but is rather an instrument for planning educational policies with a view to inclusion, it is the background and the foundations on which to develop teaching methods that pay attention to the needs of all pupils in achieving common objectives, the guidelines for a concrete, planned commitment to inclusion, based on the careful reading of the school’s level of inclusion and its objectives for improvement, to be pursued in terms of transversal inclusion practices within all curricular teaching, in class management, in the organization of school schedules and spaces, in the relations between teachers, pupils and families.

It is clear that it requires the teaching staff to plan transversal inclusion practices within all curricular teaching, in class management, in the organization of school schedules and spaces, in the relations between teachers, pupils and families, establish criteria and procedures for the functional use of the existing professional resources and indicate the educational actions adopted, indicating those agreed at territorial level and those appointed to Territorial Support Centres (Centri Territoriali di Supporto – CTS). 4

The ministerial note requests that teachers gather the Individual Education Plans (PEI) and the PDP in a single digital container, preserving records over time as an essential contribution to documenting school activities.

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The purpose of the PAI is therefore to initiate improvement objectives for the actions run by schools designed on the basis of inclusion but to proceed towards this goal it is first of all indispensable to measure, monitor and assess the schools’ level of inclusion. The constant reference to the document produced could raise awareness among teachers of the promoted inclusion processes, driving them to introduce appropriate adjustments5. The Ministerial Circular no. 8 of 2013 also states that the PAI must be drafted in Working Groups for Inclusion (Gruppi di lavoro per l’inclusione – GLI). The GLI are assigned the following functions:

– Identification of the SEN pupils in the school; – Survey and documentation of the educational actions run also according to the learning actions organised in a network between schools and/or according to the strategic actions of the Administration; – Focus/discussion of cases, advice and support to colleagues on the strategies/methods for managing the classes; – Measuring, monitoring and assessment of the school’s level of inclusion; – Gathering and coordination of proposals drafted by the single GLH according to their effective needs, pursuant to art. 1, para. 605, letter b, of Italian Law no. 296/2006, translated during the definition of the PEI as laid down in art. 10 para. 5 of Italian Law no. 122 of 30 July 2010; – Drafting of a proposed Annual Plan for Inclusion for all SEN pupils, drawn up at the end of each school year (by the end of June).

Art. 15 para. 2 of Law 104/92 established the School Working and Study Group (Gruppo di lavoro e di studio d’Istituto - GLHI) in each school, comprising teachers, social services, families and students, with the task of collaborating on the educational and inclusion initiatives indicated in the school’s educational policy plan; now the 2013 Circular extends the tasks of the GLHI to the problems relating to all SEN cases, adding new members to the group: instrumental functions, support teachers, AEC6, communication assistants, “subject” teachers with experience and/or specific training or with class coordination roles, parents and institutional or external experts working by agreement with the school. The GLI therefore do not replace the GLHI but should co-exist, complying with the functions and prerogatives indicated in Law 104/927.

5 6 7

For this purpose, it is also suggested to use structured tools such as the Index per l’inclusione or the “Quadis” project (http://www.quadis.it/jm/) or other locally agreed tools using an approach based on the WHO IFS model and relative concepts of barriers and facilitators. The AEC, cultural education assistant is a figure working in schools, employed by the municipality or by social cooperatives with the task of providing support and assistance to pupils with disabilities. The General Management of the Regional Schools Office for Apulia and Basilicata sent the school management Circular letter prot. No. 4134 dated 18.06.2013 – Intervention instruments for pupils with Special Educational Needs and proposal for implementation at individual school level of the MIUR Directive of 27.12.2012 and the MIUR – D.G. Student Circular prot. no. 561 of 6.03.2013 – offering the following explanations “The Working Group for Inclusion (GLI), replacing and expanding on the School Working Group

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As stated in CM no. 8, the PAI must be drafted at the end of each school year, precisely by the end of June, while the GLHI must then be resolved by the Teaching Body. Every school is therefore invited to draft its own PAI, based on a model indicated by the MIUR as follows: Part I: analysis of strengths and criticalities: Identification of Special Education Needs present; Specific professional resources; Involvement of curricular teachers; Involvement of non-teaching school staff; Involvement of families; Relations with local socio-health services and safety institutions. Relations with local inclusion and support services (CTI – CTS); – Relations with private social organisations and voluntary associations; – Teacher training.

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Summary of strengths and criticalities identified (Adapted from the UNESCO indicators for assessing the degree of inclusion of school systems).

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Part II – Inclusion objectives proposed for the next year: – Organisational and managerial aspects involved in the inclusive change (who does what, levels of responsibility for intervention phases, etc.); – Possibility to run specific teacher training and refresher courses; – Adoption of evaluation strategies in line with inclusive practices; – Organisation of various types of support in the school; – Organisation of various types of support outside the school, in relation to the different services available – Role of families and the community in providing support and participating in decisions concerning the organisation of educational activities; – Development of a curriculum that is attentive to diversity and the promotion of inclusive learning paths – Enhancement of existing resources; – Acquisition and distribution of additional resources that can be used to implement inclusion projects; – Attention devoted to the transition phases that mark entry into the school system, continuity from one grade of school to the next, and subsequent entry into the labour market.

for Handicap, sets out to promote and coordinate this action at system level, to the extent in which, offering a voice to all intra- and inter-institutional staff in charge of local educational needs for each individual school, becomes THE place for offering new impulse for self-diagnosis, gathering the proposed actions and blending them into methodological and instrumental kits able to act as a strategic guide to promote quality learning”.

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2. The analysis of the PAI in Emilia-Romagna

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In Note 7913 of 23 June 2014 the General Management of the Emilia-Romagna Regional Schools Office asked schools to send the links where the Annual Plans for Inclusion were published in the school websites. As at 3 August 2014 a total of 225 links were counted, corresponding to 41.7% of the 539 schools in Emilia-Romagna; moreover, only 187 links actually referred to a link from which it was possible to download the PAI. It is deduced that around 60% of schools did not send the link, so may not have produced the PAI, and that the majority of links belong to local education authorities, teaching district and comprehensive institutes9. Table 1 shows the data concerning the number of links that refer to a PAI, excluding those that are damaged or which refer to other documents. !"#$$%&'()*&

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Table 1: Number of links referring to a PAI

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It is therefore noted that 17% of the 225 documents uploaded were unusable: 12% of the files were damaged and 5% referred to other documents (for example, the Educational Policy Plan- POF), in any case relevant to the field of inclusion (for example, the protocol for integration of migrant pupils), but not to the PAI. Table 2 below indicates which working group was appointed to draft the PAI and the data refer to only 12910 documents drafted by local education authorities, teaching district and comprehensive institutes.

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The PAI analysis was implemented in cooperation with Dr Graziella Roda of the Emilia-Romagna Regional Schools Office, III – Right to Education. Non-state Education – Manager: Ing. Stefano Versari. Appointed researchers: R. Dainese, V. Friso and with the contribution of G. Righini. Documents produced by the Emilia Romagna regional Education Office can be found at the following link http://www.istruzioneer.it/bes/ (last access date 21/11/2015). 9 This differentiation was maintained as it was indicated by the schools. It should be noted that the PAI produced by the Comprehensive Institutes could also refer to 1st grade Secondary Schools, and for this reason the quantity of PAI that refer to this school type in the Table could be higher. 10 This paper presents data concerning only these 129 PAI while the data for secondary schools is currently being processed.

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From the analysis of the declarations made in the PAI it emerges that 50% were drafted in compliance with the regulations, and are therefore the result of the work done in the GLI, often in cooperation with the GLHI, while the remaining 7% were drafted by other working groups. & &

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Tab. 2: Groups appointed to draft the PAI11

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The high percentage of schools not indicating the field of production of the PAI is significant; this could be an omission or, considering the high percentage, it could mean that the GLI have not yet been defined, which is foreseeable, given that these instructions are still very recent. Note no. 2563 of 22 November 2013 – Intervention instruments for pupils with Special Educational Needs. A.Y. 2013/2014. Clarifications – asks schools to measure the types of SEN: The purpose of the plan is to allow criticalities and strengths to emerge, measuring the types of different special educational needs and the resources that can be used, the set of difficulties and disorders reported, making the school community aware – through this summary tool – of how consistent and varied the spectrum of criticalities within the school is. This identification will be useful for guiding the action of the Administration towards schools with particularly complex and difficult situations.

The data shown in Table 3 below highlight that only 39% of schools indicated and described the type of SEN present in their school context; only 20% did so indicating fully and completely the peculiarities of the needs highlighted by the pupils in difficulty, 19% describe them in a more superficial manner, while the majority, 61%, did not provide any indication, providing only the quantitative data referring to the number of pupils with SEN.

11 Concerning the Instrumental Functions paragraph 83 of Law of 13 July 2015 states that the School Director “may” identify up to 10 percent of the school staff to support him/her in the organisational and teaching support activities of the school.

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Tab. 3: Indication of the type of SEN

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As stated in the above paragraph, the 2012 Directive provides for the drafting by the class teacher group of a Personalised Educational Plan (Piano Didattico Personalizzato - PDP), whether individual or referred to all the SEN children in the class; this Plan should be well mapped out and contain the decisions taken concerning teaching choices, paths to follow and assessment methods, and should be used as a working tool to document the programmed intervention strategies for the families. The PAI analysed refer greatly to the PDP which assume a huge weight in terms of the tasks assigned to the schools; 86% of the PAI examined, as shown in Table 4, carry the function of personalised paths and also propose example models to be used, and as guidelines for teaching/learning that is able to foster the understanding and enhancement of each student in difficulty. & &

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Tab. 4: Description of the functions of the P.A.I. and P.D.P. and the presence of annexed example models

As an example, an extract of one of the PAI analysed is given below, listing the points on which the drafting of the PDP is based: The personalised remedial activities, personalised teaching methods and compensatory tools and dispensatory measures shall be described and formalised, in order to ensure that the instrument is useful for ensuring teaching continuity and that the initiatives undertaken can be shared with the families. In this regard the document produced must contain at least the following items, covering all the subjects affected by the disorder:

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– Pupil’s personal details; – Type of disorder; – Individualised and personalised teaching activities; – Compensatory tools used and dispensatory measures adopted; – Personalised forms of testing and assessment. This document takes on the form of the Personalised Educational Plan and is produced by filling out the specific form drafted by the School.

According to the criticalities identified concerning the inclusion actions run by the school, the PAI has the task of proposing a global hypothesis for improvement for the next school year. Tables 5 and 6 indicate the quantitative data referred to the schools that highlighted the analysis of criticalities and strengths in the text of the PAI, referred to the school year just concluded and the consequent proposals for improvement for the coming year12. & &

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Tab. 5: PAI and analysis of criticalities and strengths referred to the inclusion actions run in the school year just concluded

From table 5 it can be seen that a large number of PAI, 111 in total (86%), identified the limits and potential of school contexts to run inclusion actions and Table 6 offers an overview of the aspects for improvement presented in the PAI for school year 2014/2015: & &

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Tab. 6: PAI and improvement objectives for school year 2014/2015

& be noted that, concerning Table 6, this is not an analysis of the contents but simply 12 It should measures if the schools included a list of proposals aiming to increase the level of inclusion in the PAI.& &

III. Esiti di ricerca

&


Only a minority of the 129 PAI surveyed do not consider these aspects of change, while the majority, if in a somewhat superficial and generic manner, produced an analysis of the closing school year, according to the prospects for improvement for the following year. 119 (92%) of the PAI set objectives aiming to enhance and increase the curriculum, stating the commitment of the whole school community to increasing the school’s level of inclusion.

3. Conclusions

What stated highlights the need to strengthen teachers’ awareness and responsibility concerning the production of Annual Plans for Inclusion. The Plans should focus on the promotion of a collegial project and should concentrate more in detail on analysing needs, providing specific indications on the choices to be adopted a School level even though over 50% of the PAI surveyed demonstrate the efforts made by the schools in adopting collegial methods for drafting the document. Much attention should also be placed on drafting the Personalised Educational Plans: the PAI should contain precise instructions aiming to incentivise the drafting of personalised plans which are the result of a joint effort among all teachers and which are then able to stimulate effective results on teaching through the activation of practices and organisational choices which are able to foster participatory, shared and meaningful learning for everyone, in the class for all. CM no. 8 prot. 561 of 6.3.2013 – Ministerial Directive of 27 December 2012 “Intervention tools for pupils with special educational needs and local organisation for school inclusion”. Operational indications – proposes an example model for drafting the PAI, but the first part of the proposed model appears to be too schematic and is structured in such a way that does not allow an analytical and indepth description of the school context. Moreover only the numerical indication of the number of pupils who – according to the assumptions expressed in the Directive – present an SEN situation can be given, and not rather a more appropriate reflection which, without entering into detail about individual situations, can indicate in detail the criteria and strategies for measuring these conditions of need. More attention should also be placed on the study of these situations which, in the PAI model annexed to the Directive, are incorporated in the group which refers to socio-economic, linguistic-cultural and behavioural/relational difficulties or any other type of disorder reported by the teachers and to which a clinical diagnosis has not been assigned, as in the case of disabilities or specific learning disorders. In this case, the working groups should formulate precise and detailed criteria for the PAI which unequivocally refer to this area of difficulty in order to appropriately guide the staff teams appointed to the task of recognising these particular conditions, avoiding excessive disparities in evaluation between one staff group and another or excessively discretional choices13. 13 It could be useful to use jointly agreed forms of adaptation, inspired by the ICF model (WHO, 2001).

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All sections of the first part of the model proposed by the Ministerial Circular would need a less schematic form, more descriptive of the various aspects – we may think for example of the involvement of the family – which cannot be dismissed with a brief answer – Yes or No – to the items indicated (information /training on parenthood and developmental psychopedagogy; involvement in inclusion projects; involvement in promotion activities run by the educational community, other). Moreover, again in the first part, there is a section entitled “Summary of reported strengths and criticalities” which reports an adaptation of the UNESCO indicator for assessing the level of inclusion of school systems14; we think that more significant help could also be offered by the Index for Inclusion15 which is a useful tool for self-assessment and participatory and shared design of school inclusion programmes. The data presented show that the schools seem to recognise the criticalities and strengths of the inclusion aspects, and seem to be able to identify the aforementioned improvement objectives and tools that could further support the study and design processes. To conclude, we feel that the PAI must above all explicitly describe all the elements which can foster a more aware, effective and responsible implementation of the actions to be undertaken at macro-level, those that are transversal to the activation of inclusion processes, and at individual class level, with/for individual students but also to ensure their effective participation in the class.

106 References

Gardou, C. (2015). Nessuna vita è minuscola. Milano: Mondadori Education. Illich, I. (1977). Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Milano: Arnoldo Mondadori. Canevaro, A. (2006). Le logiche del confine e del sentiero. Trento: Erickson. Dainese, R. (2015). La Direttiva sui Bisogni Educativi Speciali: Il Piano Didattico Personalizzato potrebbe essere efficace se… L’integrazione scolastica e sociale, 14, 1, 72-79. Booth, T., Ainscow, M. (2002). L’Index per l’inclusione. Promuovere l’apprendimento e la partecipazione nella scuola. Trento: Erickson. Kyriazopoulou, M., Weber, H. (2009). Indicatori di misurazione dell’integrazione scolastica – per una scuola inclusiva in Europa, Odense, Danimarca, Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili. Ongaro Basaglia, F., Bignami, G. (1982). Medicina e medicalizzazione. In F. Ongaro Basaglia Salute/Malattia. Le parole della medicina (pp. 119-154). Torino: Einaudi. Canevaro, A, d’Alonzo, L., Ianes, D. Caldin, R. (2011). L’integrazione scolastica nella percezione degli insegnanti. Trento: Erickson. Canevaro, A., d’Alonzo, L., Ianes, D. (2009). L’integrazione scolastica di alunni con disabilità dal 1977 al 2007. Bolzano: University Press. Caldin, R. (a cura di) (2012). Alunni con disabilità, figli di migranti. Napoli: Liguori. Terzi, L. (2005). Beyond the dilemma of difference: The capability approach to disability and special educational needs. Journal of Philosophy of Education, 3, 443-59.

14 Kyriazopoulou, M. and Weber, H. (editors) (2009). Indicatori di misurazione dell’integrazione scolastica – per una scuola inclusiva in Europa, Odense, Danimarca, Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili. 15 Booth T., Ainscow M. (2002) L’Index per l’inclusione. Promuovere l’apprendimento e la partecipazione nella scuola. Trento: Erickson.

III. Esiti di ricerca


Legislation and Documents

Legge 104 del 5.2.1992 – Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Direttiva Ministeriale del 27.12.2012 - Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica. Nota prot. 6721/2013 - Bisogni Educativi Speciali. Approfondimenti in ordine alla redazione del piano annuale per l’inclusivitànell’ottica della personalizzazione dell’apprendimento. Materiali per la formazione dei docenti a.s. 2013-2014 – USR Emilia-Romagna, Ufficio III – Diritto allo studio. Istruzione non statale. CM n. 8 prot. 561 del 6.3.2013 – Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. Indicazioni operative Circolare del 18.06.2013, prot. n. 4134, Direzioni Generali dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Puglia e dell’Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata – Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e proposte per l’attuazione a livello di singola Istituzione scolastica della Direttiva MIUR del 27.12.2012 e della Circolare MIUR – D.G. Studente prot. n. 561 del 6.03.2013 Nota 7913 del 23.6.2014, Direzione Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale per l’Emilia-Romagna - Piano Annuale per l’inclusività: pubblicazione sui siti Internet delle scuole statali al 3 agosto 2014. Nota 22.11.2013, prot. n. 2563 - Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali. A.S. 2013/2014. Chiarimenti. Nota MIUR del 27.6.2013, prot. 1551 - Piano Annuale per l’Inclusività– Direttiva 27 dicembre 2012 e C.M. n. 8/2013.

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ROBERTO DAINESE



Learning Disabilities e didattica del “potenziamento”: un percorso di valutazione di un training inclusivo

Key-words: Learning Disabilities, inclusive training, Specific Learning Disorders, learning domain-specific, didactic inclusion.

*

Il lavoro è frutto di un progetto condiviso. Tuttavia Loredana Perla è autrice dei paragrafi 1,4,5. Cristina Semeraro è autrice dei paragrafi 2, 3.

III. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

In italian school the focus on Specific Learning Disorders is highlighting the opportunity to intervene early with multiprospettive analysis that enable the identification and possible solution of the socalled Learning Disabilities (Hamill, 2000). The article provides the results of a project to upgrade the learning skills in accordance with the scientific paradigm of the Consensus Conference (2007, 2011) and the expansion of the learning domain-specific (Lucangeli, 2013) in the framework of inclusion didactics (Perla, 2013; Caldin, 2013, Medeghini et alii, 2013). The project was planned and implemented in collaboration with the Department of Education, Psychology, Communication of the University of Bari “Aldo Moro” and the Comprehensive School “A. Chiarelli” in the territory of Taranto with a group of students attending primary school, identified by a screening procedure, with the aim of identifying new methods of assessment and intervention to be offered to teachers to support their inclusive teaching (Perla, 2013). The study proposed to reach several objectives: to identify specific problems in a cognitive domain (reading, reading comprehension, spelling and calculation) by administering standardized assessment tools (quantitative analysis); to evaluate the perception of the teacher on pupil performance considering some key variables (qualitative analysis); to motivate students to study through tasks in which they could gradually experience success; to improve the skills base through training in small group; to assess the maintenance of the results over time (follow-up to 3 months). The study, presented by investigating the interdependent relationship of learning disability (Hamill, 2000) with the stimulus of the educational environment (family and / or school), has confirmed the manifest and conditioning circularity between learning difficulties and inclusive teaching methods.

abstract

Loredana Perla (Università degli Studi di Bari / loredana.perla@uniba.it)* Cristina Semeraro (Istituto di Ricerca Interdisciplinare SU.MI.PA. / cristina.semeraro@istitutosumipa.it)

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1. Didattica dell’inclusione e Learning Disabilities

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Una Scuola più inclusiva è da qualche tempo l’obiettivo-chiave delle politiche dell’istruzione europee1. A partire da questo presupposto (che è un orientamento rivisitato della classica “scuola su misura” di antica memoria2), anche in Italia si è fatta più esplicita l’attenzione al tema dell’ inclusione, sino ad oggi riguardato quasi prevalentemente in chiave socio-politica. Con la Direttiva ministeriale del 27 dicembre 20123 ogni Scuola è impegnata nel progettare – e attuare – una serie di azioni per l’inclusività, dando ulteriore impulso al processo di superamento dell’antitesi “abilità/deficit” avviato in sede istituzionale nel 19774 e, ben prima, in sede di teoresi pedagogica con la revisione delle epistemologie, dei linguaggi e delle pratiche basate su quell’antitesi e sull’interpretazione della categoria di “differenza” soltanto in termini di limite (Caldin 2001; 2013; d’Alonzo 2004; 2009; Cottini, 2013; Canevaro 2007; Pavone, 2010; Ianes 2005; 2006; De Anna, 1998; Zappaterra, 2010; Giaconi 2012; d’Alonzo, Bocci, Pinnelli, 2015). L’attenzione della ricerca in pedagogia e didattica speciale è oggi posata non più solo sulle forme metodologiche di compensazione dei “deficit” ma sullo studio delle condizioni per rendere gli ambienti scolastici più inclusivi e sull’accoppiamento strutturale fra insegnanti e studenti che è possibile propiziarvi (Varela, Maturana, 2001; Rossi, 2011): ambienti scolastici che vanno costruiti secondo un disegno funzionale all’apprendimento globale, cioè di tutti i bambini (secondo l’indirizzo della Scuola per tutti di comeniana memoria5, ripreso nella Carta di Lussemburgo del 19966). Quando si parla di inclusione non va poi dimenticato

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Il problema dell’inclusione scolastica richiama necessariamente quello dell’inclusione sociale, strettamente correlato al tema della formazione alla cittadinanza attiva che, come è noto, è la partecipazione responsabile alla società civile, alla vita politica e di comunità di tutti gli individui sulla base di condizioni che garantiscono il reciproco rispetto, la non violenza, la rimozione di ostacoli e di barriere (fisiche, culturali, sociali), in accordo con la democrazia ed i diritti umani. Il riferimento è, naturalmente, a Edouard Claparède, pedagogista ginevrino che ha influenzato in modo rilevante il movimento di rinnovamento scolastico all’inizio del ‘900. Dopo essere stato promotore di una riforma dell’insegnamento secondo i concetti di una “scuola su misura, guidò l’avanguardia dell’ attivismo pedagogico il cui presupposto fondamentale era nello stretto rapporto fra psicologia e educazione. Fu uno dei maggiori esponenti del “funzionalismo” che, in America, aveva avuto in Dewey il suo esponente di vaglia. Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. Indicazioni operative seguita dalla Nota n. 1551/2013. Si tratta di direttive volte ad affrontare una vasta gamma di problematicità non contemperate né dalla Legge 104 né dalla 170 del 2010. Ogni alunno, con continuità o per determinati periodi, può infatti manifestare bisogni educativi speciali, rispetto ai quali è necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta. L.517 del 4 agosto 1977 “”Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico”. Il riferimento primo di tale utopia è, ancor prima degli attivisti, Comenio che nella sua opera principale, la Didactica Magna, coniò la celebre formula dell’insegnare tutto a tutti” nel senso che tutti dovevano avere l’opportunità di accedere all’educazione e alle possibilità che essa schiude, indipendentemente da ogni caratteristica di sesso o ceto. La Carta di Lussemburgo è la sintesi di un vasto lavoro compiuto all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso nei Paesi della Comunità Europea in materia di integrazione scolastica. Potrebbe essere titolata “una scuola per tutti e per ciascuno” per il concetto portante delle tre parti in cui si

III. Esiti di ricerca


che ci troviamo di fronte a un concetto dinamico che non considera solo le condizioni oggettive che ne “frenano” la realizzazione (disabilità, vecchiaia, povertà ecc.), ma tutte le condizioni che possono accrescere il rischio di essere esclusi (come ad esempio l’assenza di istruzione che, come è noto, è correlata alla perdita del lavoro e alla precarietà occupazionale); condizioni che chiedono una vision politica che scelga di mettere al centro la formazione della persona, in un’ottica di sostenibilità dello sviluppo piuttosto che in un’ottica integrazionista che guardi a quest’ultima solo in termini di fruitrice di interventi sociali di sostegno. La persona è, invece, nella prospettiva inclusiva, un agente attivo dello sviluppo della vita civile e produttiva di un Paese. Così come, sempre nella prospettiva inclusiva, viene messo fortemente in discussione il paradigma della “normalizzazione” che nega le differenze fra persone in nome di un presunto idealtipo di omogeneità: l’inclusione non si basa sulla distanza da un preteso “standard di adeguatezza” ma sul riconoscimento della piena partecipazione di tutte le persone alla vita sociale. Entro questa cornice il tema dell’approccio didattico ai Disturbi specifici di apprendimento (da ora in avanti, DSA) si è fatto quanto mai importante. La ricerca scientifica sull’incidenza dei DSA nei processi educativi ha assunto un ruolo di crescente rilevanza in più settori di studio ed intervento (psico-pedagogico, neuropsicologico, didattico) con un notevole incremento nell’avanzamento di conoscenze specifiche. I risultati di indagini condotte in Italia (Denes, Cipolotti e Zorzi, 1996; Cornoldi e Oakill, 1996; Pazzaglia, Cornoldi e Tressoldi, 1993; Lucandivide: a) i principi, ovvero i concetti fondamentali da prendere in considerazione quando parliamo di integrazione scolastica; b) le strategie, che riguardano gli aspetti e le attività concrete da mettere in atto quando si vogliono applicare i principi generali; c) le proposte, che riguardano le prospettive e i cambiamenti da attuare in futuro. I principi sono i seguenti: 1) le pari opportunità e i diritti alla partecipazione sociale della persona handicappata presuppongono una Scuola per Tutti e per Ciascuno, qualunque sia il livello scolastico e formativo, e per tutto il corso della vita; 2) la Scuola per Tutti e per Ciascuno deve garantire un insegnamento di qualità e offrire un’accessibilità uguale per tutti e per tutto il corso della vita; 3) la Scuola per Tutti e per Ciascuno deve adattarsi alla persona e non viceversa. E colloca la persona al centro di tutto il progetto educativo riconoscendo le potenzialità e i bisogni specifici di ciascuno; 4) i genitori, come primi educatori del loro figlio, sono i collaboratori fondamentali nell’educazione del figlio. Hanno il diritto di scegliere il processo educativo che ritengono opportuno, nel rispetto della persona; 5) l’intervento precoce rinforza la rieducazione, l’autonomia, l’integrazione sociale e scolastica del bambino che manifesta bisogni specifici fin dalla più giovane età. A questi fini, l’intervento è centrato sui bisogni globali dell’ambiente familiare; 6) deve essere assicurata una valutazione precisa e permanente della persona e del processo educativo; 7) le possibilità e le facilitazioni offerte dalle nuove tecnologie e le ricerche scientifiche devono essere utilizzate in tutti i livelli scolastici ed essere accessibili a tutti8)si deve adottare un metodo di lavoro coordinato e comune per tutti i responsabili del processo d’integrazione; 9) la Scuola per Tutti e per Ciascuno presuppone il coordinamento del processo d’integrazione col concorso di tutti i responsabili coinvolti. Questi devono beneficiare di una formazione permanente specifica e possedere tutti gli strumenti e i supporti necessari per la realizzazione del loro compito; 10) ogni programma di formazione deve concorrere a una vita autonoma e indipendente della persona nel campo sociale e professionale, e per tutto il corso della vita; 11) una educazione in ambiente ordinario è un principio di base per la Scuola per Tutti e per Ciascuno; 12) gli Stati membri devono adottare una legislazione che garantisca a tutti i minori in età scolare e a tutti gli adulti, il diritto di accedere a un sistema scolastico ordinario. La legislazione deve essere accompagnata da tutte le risorse appropriate che permettano la sua realizzazione.

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geli e Cornoldi, 2007) segnalano, infatti, la presenza di una percentuale di soggetti con difficoltà scolastiche (learning disabilities) per i quali sarebbe utile la progettazione di training di potenziamento degli apprendimenti che, nella maggior parte dei casi, ridurrebbero in maniera significativa la possibilità dell’evoluzione delle difficoltà in veri e propri Disturbi dell’Apprendimento. L’incidenza di un possibile peggioramento di tali difficoltà, qualora non “trattate”, è, infatti, particolarmente significativa (dal 12% al 16%, Izard, Sann, Spelke e Streri, 2009). Recenti indagini rivenienti da uno studio epidemiologico riportato dalla Consensus Conference (2011) indicano che una quota che oscilla tra il 2,5% e il 3,5% della popolazione scolastica presenta profili cognitivi assimilabili con un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA). A tal fine si giustifica l’interesse crescente dei ricercatori verso lo studio di modelli didattici innovativi, utili a delineare protocolli di studio interdisciplinare neuro-psico-didattico mirati all’individuazione precoce di possibili DSA e al potenziamento degli apprendimenti. Fatte salve le fondamentali scoperte sull’esistenza di disturbi neurobiologici non originati da fattori esogeni e/o psicologici del soggetto, non possiamo sottovalutare, infatti, il ruolo dei fattori ambientali nelle manifestazioni degli stessi e negli esiti sullo sviluppo generale della persona. Fra l’altro il ritardo di una corretta analisi e i limiti derivanti dagli scarsi risultati di apprendimento a scuola contribuiscono all’instaurarsi di pericolosi disturbi psico-patologici secondari nello sviluppo del bambino. È risaputo, infatti, che l’insuccesso prolungato genera scarsa autostima, disagio emotivo, demotivazione ad apprendere, inibizione, talvolta aggressività e atteggiamenti istrionici di disturbo alla classe, in alcuni casi anche ansia e depressione. Nel caso dei DSA, pur trattandosi di disturbi dipendenti da fattori neurobiologici non modificabili, in determinate condizioni, a seguito di un potenziamento specifico, vi è la concreta possibilità di una loro attenuazione grazie ad un approccio mirato. La teoria didattica ne viene, dunque, interpellata. La natura dell’intervento dovrebbe però prevedere due condizioni: precocità nell’individuazione delle difficoltà di apprendimento secondo una lettura multi prospettica e progettazione di percorsi di potenziamento dominio-specifico che tengano conto dei differenti stili di apprendimento. Sulla base di tali considerazioni, nel presente articolo sarà analizzato il nesso esistente fra un approccio multiprospettico per l’individuazione precoce dei casi a rischio DSA e il potenziamento dell’apprendimento efficace in direzione inclusiva, ove la bio-genesi dei DSA non va letta come giustificazione eziologica assoluta, ma come predisposizione neurobiologica a sviluppare possibili criticità fronteggiabili con un approccio didattico di tipo inclusivo. Vediamo specificatamente.

2. Il “potenziamento dello sviluppo prossimale” nella didattica dell’inclusione: cenni teorici

Il processo di insegnamento-apprendimento può essere analizzato sia dal punto di vista dell’insegnante che utilizza una particolare metodologia didattica, sia dal punto di vista dell’alunno che codifica l’informazione che riceve, elabora, comprende, avanza ipotesi, risolve problemi, progetta, riflette sui dati e/o sulle ope-

III. Esiti di ricerca


razioni mentali (Orsolini, Pontecorvo, Amoni, 1986). Negli ultimi anni, la comunità internazionale ha promosso una visione dell’educazione inclusiva indicata come necessaria utopia (Delors, 1997). Nel Rapporto Delors viene affermato che l’educazione non può essere considerata esclusivamente un processo attraverso il quale gli individui acquisiscono un set di abilità di base. È un fattore cruciale nello sviluppo personale e sociale. L’obiettivo dell’educazione, infatti, non riguarda solo la gestione dei contenuti della conoscenza o l’uso di nuove tecnologie e anzi, l’ottica inclusiva rappresenta una categoria concettuale che reifica anche attraverso la decostruzione dei linguaggi, il rovesciamento delle prospettive, lo spiazzamento concettuale della diversità e l’esplicitazioni delle credenze di insegnanti, dirigenti, famiglie, futuri insegnanti poiché tali credenze hanno il potere di influenzare, in modi inconsapevoli e profondi, l’azione formativa scolastica a favore o contro l’inclusione (Perla, 2008, 2013). L’obiettivo riguarda dunque la gestione del processo stesso di apprendimento. La didattica inclusiva dovrebbe promuovere negli individui il desiderio di apprendere in modo strategico e la promozione di un orientamento permanente all’apprendimento lungo tutto l’arco della vita, secondo modi personali e flessibili (Ghedin, 2014). La didattica inclusiva rappresenta, dunque, il possibile (e auspicabile) scenario di una scuola di qualità capace di offrire a tutti gli studenti opportunità di essere ed imparare secondo differenti attitudini e potenzialità. Questo processo di evoluzione culturale sul tema dell’approccio educativo alla persona con Bisogni Educativi Speciali ha visto il nostro Paese all’avanguardia nel contesto europeo. Infatti, proprio in Italia sono state poste le premesse, grazie ad una produzione normativa significativa (Legge118 del 30 marzo 1971; Legge 517 del 4 agosto 1997; Sentenza della Sesta Corte di Cassazione n.478/81; Legge Quadro 104 del 5 febbraio 1992), dell’avvio di esperienze didattiche di valenza anche internazionale (Cattoni, Panetta, 2006; Canevaro, D’Alonzo e Iannes, 2009; Gardou, 2012). Queste esperienze sono state il lievito di quel mutamento di sensibilità che oggi registriamo fuori e dentro le comunità scolastiche e scientifiche italiane nei confronti dei limiti della prospettiva integrazionalista (Perla, 2013) evidenziati peraltro dall’ICF (International Classification of Functioning, OMS, 2007). In riferimento a quanto detto, un elemento significativo per promuovere la didattica dell’inclusione riguarda la modalità con cui le scuole riescono a rimuovere gli ostacoli all’apprendimento che ogni bambino incontra durante il percorso (Booth, 2014). Il riferimento alla progettazione inclusiva è significativo dal momento che essa riguarda il miglioramento dei processi di insegnamento e di apprendimento e degli ambienti per promuovere l’apprendimento considerando, da un lato, gli studenti nel loro contesto educativo, e dall’altro, il sistema per supportare l’intera esperienza di apprendimento (Ainscow e Miles, 2008). Condizione della buona riuscita di ogni intervento di potenziamento degli apprendimenti è che chi vi si sottopone sia convinto della sua efficacia. Gli alunni con learning disabilities possono maturare questa convinzione ad un livello sia affettivo che relazionale, date anche le funzioni cognitive assolutamente in norma per età e scolarità. Le azioni educative volte a promuovere nel soggetto in difficoltà un atteggiamento psicologico funzionale al raggiungimento del successo formativo possono essere indirizzate anche ai suoi compagni di classe che vengono coinvolti in un percorso di crescita comune. In quest’ottica rivestono un ruolo significativo le capacità metaemotive e metacognitive di autoregolaanno III | n. 2 | 2015

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zione affettiva e cognitiva, che costituiscono parte integrante di efficaci processi di potenziamento degli apprendimenti (Di Pietro, 1992; Moniga, Baldassa e Vianello, 1995). Le neuroscienze e le scienze cognitive, per favorire i processi pedogogico-didattici dell’insegnamento, sostengono il principio di sinergia tra i meccanismi biologici di natura universale e i meccanismi biologici e psicologici di natura individuale, ragion per cui, se l’insegnamento viene eseguito con modalità specifica, potenzia e stabilizza le conoscenze, mentre se è aspecifico non ha luogo l’apprendimento efficace (Cornoldi, 2007, Rivoltella, 2012). Di qui l’importanza di pensare percorsi di potenziamento cognitivo. Ma cosa significa esattamente “potenziamento cognitivo”? Si tratta di un sintagma derivato dal concetto di sviluppo prossimale di Vygotskij (1990), definito come lo spazio individuabile tra il livello di sviluppo attuale del bambino (la sua capacità di apprendere da solo) e il suo livello di sviluppo potenziale (la sua capacità di apprendere con il supporto di un’altra persona). Sono infatti gli stessi processi di apprendimento a creare una “zona di sviluppo prossimale” entro la quale attivare una varietà di processi evolutivi operanti, come è noto, solo quando il bambino interagisce con gli altri. Per realizzare il potenziamento cognitivo di alcune abilità è necessario partire dalla conoscenza dello sviluppo tipico dei soggetti in apprendimento, analizzando il profilo individuale degli allievi al fine di conoscere dove si colloca lo status quo dell’allievo rispetto allo sviluppo tipico, e infine progettare il percorso di potenziamento dominio-specifico della singola abilità “da promuovere”. Harter (1992), all’interno dei suoi studi sulla motivazione ad apprendere, ha introdotto il concetto di “sfida ottimale”: tanto più una persona è motivata ad apprendere, tanto più il compito rappresenta una sfida ottimale. Si tratta di costruire in modi personalizzati (Hoz,2005; Perla, 2013) attività stimolanti, lievemente più complesse rispetto ai compiti normalmente affrontati dagli allievi, ma non così “difficili” da demotivare il tentativo di padronanza per la paura dell’insuccesso. Studi nazionali e internazionali indicano come il processo di apprendimento per molti studenti risulti ostacolato, «affaticato» o comunque non facilitato (Di Martino e Zan, 2005; Iannitti e Lucangeli, 2005; Di Martino, 2009) a causa di molteplici fattori: la mancanza dei prerequisiti necessari per il particolare corso di studi scelto (Levine, 1993; Grosser e Spafford, 1996), la mancanza di motivazione (Farmer, Riddick e Sterling, 2002; Grosser e Spafford, 1996), o l’inadeguatezza delle strategie didattiche oltre la possibile inesperienza degli insegnanti (Marshall, 2003). A questo proposito, per esempio, in riferimento alla dislessia evolutiva (DE), si sottolinea come i processi cognitivi connessi alle abilità di lettura necessitino, per svilupparsi in modo adeguato, sia di buone abilità uditive-fonologiche che visuo-percettive, mediate da differenti componenti cognitive. La procedura diagnostica, per l’individuazione di una disturbo specifico di lettura, prevede una prestazione inferiore alle 2 DS (deviazioni standard) in un test standardizzato per l’abilità di lettura (Cornoldi, Colpo e gruppo MT, 1981; Sartori, Job e Tressoldi, 1995), mentre una prestazione ad una scala di livello intellettivo (WISC-IV, Wechsler, 2003) nella norma (QI di 85). Il modello cognitivo di lettura più accreditato è quello “a due vie” (Coltheart, Rastle, Perry, Langdon e Ziegler, 2001). Le parole scritte possono essere lette tramite la via sub-lessicale (decodifica fonologica) che si basa sulle corrispondenze III. Esiti di ricerca


grafema-fonema che consente di leggere le parole non conosciute e le “non parole”, oppure tramite la via lessicale che si basa sulle corrispondenze di unità lessicali già apprese, e che quindi permette di leggere solo le parole conosciute. In base a questo modello, la DE (specifico disturbo neuroevolutivo dell’apprendimento della lettura), può essere di tipo fonologico (deficit via sub-lessicale) o di tipo superficiale (deficit via lessicale). Alcuni studi sembrano coerenti nel confermare che un’efficiente acquisizione della lettura dipenderebbe primariamente da una buona funzionalità della decodifica fonologica (Share, 1995). Infatti, i principali modelli evolutivi suggeriscono che la normale acquisizione dell’abilità di lettura, basata sul riconoscimento di unità lessicali già apprese (via lessicale), sia fortemente subordinata alla funzionalità dei meccanismi di conversione grafema-fonema (Frith, 1986). In effetti, per un bambino che sta imparando a leggere, tutte le parole sono all’inizio delle “non parole”, poiché la via lessicale non si è ancora sviluppata. Gli studi longitudinali confermano, infatti, il primario utilizzo della via sub-lessicale nei bambini che iniziano a leggere (Sprenger-Charolles, Siegel, Bechennec e Serniclaes, 2003). Secondo la più recente versione del modello della lettura a due vie (Perry, Ziegler e Zorzi, 2007) l’assemblaggio fonologico, mediante la via sub-lessicale, implicherebbe, in aggiunta a buone abilità uditive-fonologiche (percezione fonemica e memoria fonologica), delle adeguate abilità di selezione visuo-spaziale rese possibili dall’attenzione selettiva (AS) visiva (percezione del singolo grafema all’interno della stringa di lettere). Studi di neuroimmagine funzionale hanno localizzato nelle aree corticali perisilviane sinistre deputate al linguaggio la causa del disturbo di lettura (Shaywitz e Shaywitz, 2005). E’ stato ipotizzato che l’identificazione visiva delle parole sarebbe controllata da due circuiti posteriori dell’emisfero sinistro, selettivamente danneggiati. Il sistema temporo-parietale sarebbe alla base dell’elaborazione seriale della via sub-lessicale, mentre il sistema occipito-temporale sarebbe alla base del rapido meccanismo di riconoscimento della forma visiva delle parole (FVP) che si sviluppa più tardivamente ed è alla base della via lessicale (Shaywitz e Shaywitz, 2005). Tuttavia, le differenze neurobiologiche nelle regioni corticali della FVP, così come quelle delle aree corticali più direttamente coinvolte nell’elaborazione fonologica (aree frontali inferiori e temporo-parietali) sono probabilmente il semplice effetto della DE. Durante la lettura si compie innanzitutto un’analisi percettiva, ovvero un processo di codifica visiva degli stimoli scritti, che, pur essendo necessaria alla comprensione del testo, non è necessariamente un fattore che interviene in maniera diretta sulla comprensione. Infatti, alunni con abilità di decodifica al di sotto della norma possono, nei primi anni di scolarizzazione, ugualmente accedere al significato e conseguire un buon risultato nei test di comprensione. Questo effetto non è presente dal quarto anno di primaria in poi, in cui i problemi di decodifica hanno un forte impatto sulla comprensione, a causa dell’eccessivo impegno cognitivo nel processo di decodifica che sottrae tempo e risorse al compito di elaborazione del significato (Campanini, Battafarano, e Iozzino, 2010). A seguito di adeguate abilità di lettura strumentale si sviluppano i processi di comprensione del testo scritto. Alla base della corretta comprensione di un testo vi è la capacità di costruire una rappresentazione semantica coerente e ben formata (Kintsch, 1998; Levorato, 1988; Gernsbacher, 1990). Numerose abilità cognitive conanno III | n. 2 | 2015

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corrono in questa direzione: l’integrazione tra gli aspetti sintattici, semantici e narrativi del linguaggio (Nation e Snowling, 2004); la soppressione delle informazioni semantiche irrilevanti per la comprensione del testo (Gernsbacher e Faust, 1995); le abilità metacognitive del soggetto (Carretti, Cornoldi e De Beni, 2002). Studi recenti (Cain e Oakhill, 2003; Cornoldi, De Beni e Pazzaglia, 1996) utilizzano i seguenti criteri per individuare gli alunni con scarse abilità di comprensione: uno sviluppo cognitivo nella norma nel quale non si rilevino ritardi o disturbi evolutivi specifici (ad esempio, disturbi specifici del linguaggio), un livello intellettivo nella norma, un adeguato livello di decodifica nella lettura (sia in velocità sia in accuratezza), una prestazione deficitaria (inferiore alle due deviazioni standard dalla media) nei compiti di comprensione del testo scritto (DSM-V, APA 2014).Nel realizzare un training sulla comprensione del testo non si può prescindere dalla relazione che intercorre tra le abilità di decodifica e quelle di comprensione. Alcuni autori sostengono un alto grado di correlazione tra esse (Clifton e Duffy, 2001; Oakhill, Cain e Bryant, 2003; Lyon, Fletcher e Barnes, 2003): già dall’ingresso scolastico, nelle fasi iniziali dell’apprendimento della letto-scrittura, i bambini che leggono velocemente sono anche quelli che di solito comprendono meglio un testo. Nonostante questo, esistono condizioni patologiche in età evolutiva che mostrano chiaramente come queste due abilità siano almeno in parte indipendenti (Pazzaglia, Cornoldi e Tressoldi, 1993; Papetti, Cornoldi, Pettavino, Mazzoni e Borkowsy, 1992). Altri studi (Cain e Oakhill, 2003; Oakhill et al., 2003) evidenziano come il processo di decodifica e quello di comprensione del testo possano essere chiaramente differenziati perché riferibili a meccanismi cognitivi indipendenti, come dimostrano le patologie dell’età evolutiva che ne permettono la dissociazione. Rispetto ai processi di lettura le abilità di scrittura si evolvono in tempi più lunghi poiché coinvolgono livelli diversi dall’acquisizione della corretta forma ortografica delle parole alla composizione e stesura di un testo scritto. Diversi studi (Patterson, 1986; Ellis e Large, 1987; Denes, Cipolotti e Zorzi 1996) documentano la persistenza degli errori ortografici anche al di fuori della scuola dell’obbligo evidenziando come i normali percorsi scolastici di apprendimento spesso basati sulla mera ripetizione di regole possono non essere sufficienti. Pertanto diversi studi di neuropsicologia hanno contribuito a delineare in maniera chiara un modello di apprendimento (Frith, 1985; Seymour, 1985) che prevede sia per la lettura che per la scrittura una sequenza di stadi, tra loro dipendenti, caratterizzati da strategie e competenze diverse: Stadio logografico o ideografico; Stadio alfabetico; Stadio ortografico (regole di conversione grafema-fonema); Stadio lessicale. A partire da questo modello di apprendimento è stato pianificato l’intervento di potenziamento cognitivo delle abilità ortografiche. Lo sviluppo dei processi connessi all’area del calcolo, coinvolgendo aree cognitive e processi neurobiologici differenti, richiedono un intervento diverso. Infatti, il disturbo specifico connesso all’area del calcolo, definito come Discalculia Evolutiva (DCE) è un’alterazione neurobiologica dello sviluppo della cognizione numerica; il modello che meglio spiega tale disturbo è quello del triplo codice di Dehaene e Cohen (1995). In questo modello viene postulato che l’elaborazione dei numeri si basi su tre distinti codici numerici interconnessi attraverso specifiche vie di transcodifica e distintamente coinvolti in diversi compiti. Tali codici sono:

III. Esiti di ricerca


– il codice uditivo-verbale: è il codice linguistico, implicato nella transcodifica di input ed output verbali, ma anche in compiti di enumerazione e conteggio. Probabilmente costituisce il formato preferenziale della rappresentazione di addizioni e moltiplicazioni semplici (fatti aritmetici) e di calcolo a mente; – codice arabico-simbolico: è il codice visivo, costituisce la rappresentazione grafica (arabica) e simbolica (nel senso che il numero arabo rimanda ad una quantità specifica) del numero. Questo codice è principalmente implicato nel calcolo scritto complesso; – codice analogico di grandezza: veicola tutte le informazioni relative alla stima della quantità del numero.

Dehaene, Piazza, Pinel e Cohen (2003) a partire dall’esistenza dei tre codici per la rappresentazione numerica hanno trovato conferme nella letteratura scientifica dell’esistenza dei tre diversi circuiti neurali sottostanti, utilizzando evidenze provenienti da studi di neuro-immagine morfologica e funzionale, sia sui soggetti normali che con deficit neuropsicologici nell’elaborazione numerica. Hanno concluso che a partire dalla localizzazione della lesione, vengono osservati tre tipi di deficit:

– Lesioni del solco intraparietale (SIP): deficit nella rappresentazione di quantità numeriche; – Lesioni della corteccia perisilviana sinistra, incluso il giro angolare sinistro (GAS): deficit di rievocazione verbale; – Lesioni dorsali della corteccia parietale posteriore (CPP): deficit dell’attenzione visiva spaziale coinvolta nell’accesso alla linea numerica.

Butterworth (1999; 2005) nei suoi lavori sostiene l’esistenza di un modulo numerico innato che consente di apprezzare la numerosità, e che tale abilità sia alla base di tutte le successive abilità di calcolo acquisite e dell’elaborazione numerica.

3. L’indagine-pilota: obiettivi e protocollo metodologico

Diversi studi neuropsicologici hanno ripreso il principio vygotskijano del “potenziamento dello sviluppo prossimale” che evidenzia come il sistema neuropsicologico basale sia “modellizzabile”, cioè si organizzi in maniera da rispondere agli stimoli ambientali e di istruzione. Quanto più tali stimoli si conformano alle caratteristiche “dominio-specifiche” delle funzioni cognitive dell’apprendimento, tanto più si facilita il potenziamento prossimale del sistema stesso. Alla luce di tali evidenze scientifiche, l’indagine pilota qui presentata ha inteso analizzare il profilo degli apprendimenti di un campione di allievi di scuola primaria cui far seguire un intervento di potenziamento prossimale adatto.

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3.1 Partecipanti

L’individuazione degli alunni con Learning Disabilities è avvenuta attraverso procedure di screening di Valutazione degli Apprendimenti (Analisi Quantitativa) e di Valutazione della percezione dell’insegnante sulle prestazioni dell’alunno considerando alcune variabili fondamentali (Analisi Qualitativa). Il gruppo è stato costituito da 75 alunni, individuati a seguito di una procedura di screening sugli apprendimenti di base (in accordo alle indicazioni fornite dalla legge n. 170 del 2010). Gli apprendimenti sono stati valutati su tutti gli studenti frequentanti un Istituto Comprensivo della provincia di Taranto (Istituto Comprensivo “A. Chiarelli” - Martina Franca), delle classi I-II-III-VI-V primaria. Gli apprendimenti valutati sono stati: lettura strumentale, comprensione del testo, scrittura (processi ortografici) e calcolo, affiancando a questa valutazione quantitativa degli apprendimenti le informazioni qualitative raccolte delle insegnanti di ciascuna classe. La prestazione di ogni alunno, al fine di rientrare nel gruppo di potenziamento specifico, doveva essere inferiore alle 2DS rispetto ai valori medi attesi per età e scolarità. La selezione del gruppo è avvenuta anche in base ai seguenti criteri:

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– – – – – –

Assenza di disabilità intellettiva; Assenza di disturbi neurologici; Abilità sensoriali (vista e udito) nella norma o corretti come tali; Assenza di un Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSM-V, APA, 2014); Assenza di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (DSM-V, APA, 2014) Assenza di disturbi comportamentali o emotivi evidenti.

L’organizzazione del campione totale per le diverse classi, suddivisi per sesso, è di seguito riportata (Tab.1): ! !#-./0+%&,0,#"%&1&

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III. Esiti di ricerca


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Per tutti gli alunni coinvolti è stato richiesto il consenso informato delle famiglie. Tutti gli alunni erano italiani (ovvero parlanti l’italiano come lingua madre). L’ambiente socio-culturale di provenienza è stato valutato come “adeguato”. 3.2 Procedure

Il training è stato svolto presso l’Istituto da psicopedagogisti specializzati in DSA. Gli operatori hanno compilato un report giornaliero individuale per ogni allievo coinvolto riportando le attività svolte nella sessione, le osservazioni e il grado di consolidamento del materiale proposto. Nella costruzione del training i materiali sono stati differenziati e adattati alle difficoltà specifiche degli allievi, tenendo conto del programma scolastico. Il disegno dello studio è stato così strutturato:

– Attività di Screening – Valutazione del Livello di Apprendimento. Analisi Quantitativa – Valutazione Qualitativa degli Insegnanti. Analisi Qualitativa – Baseline: tutti i profili di apprendimento sono stati valutati per selezionare le aree di maggiore difficoltà su cui improntare il training specifico. – Training Cognitivo Specifico: la struttura del training è stata la stessa per i diversi gruppi di potenziamento (area della lettura, area della comprensione del testo, area dell’ortografia e area del calcolo) ovvero 12 settimane di training (da marzo a maggio), con 3 sessioni settimanali da 45 minuti ciascuna. – Valutazione Post Training: la valutazione finale degli apprendimenti è stata valutata a una settimana dal termine delle attività. – Follow-up: a tre mesi dal temine del training (settembre) al fine di valutare il mantenimento nel tempo dei risultati ottenuti. 3.3 Materiali

Qui di seguito sono indicati gli strumenti di valutazione somministrati nello screening:

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– Area della lettura: prove MT- Lettura (Cornoldi, Colpo e Gruppo MT, 2011), considerando entrambi i parametri di correttezza e rapidità. Nelle Prova di lettura MT: correttezza e rapidità l’alunno ha un brano da leggere di fronte a sé, mentre l’esaminatore ha il foglio di registrazione (copia del brano con la numerazione progressiva del numero di sillaba alla fine di ogni riga), il registratore e il cronometro. L’alunno viene così invitato a leggere ad alta voce il brano, cercando di fare il numero minore possibile di errori e di leggere in maniera scorrevole e spedita. L’esaminatore non deve intervenire in alcun modo per segnalare la lettura erronea e l’omissione di una parola, deve invece far presente all’alunno, indicando l’inizio della riga giusta, il salto di una riga o il ritorno su una riga già letta. Inoltre, se il soggetto si arresta per più di cinque secondi, l’esaminatore gli legge la parola seguente. L’operatore deve annotare il tempo che il soggetto ha impiegato per leggere il brano. La prova può venire sospesa se dopo quattro minuti il bambino non è pervenuto alla fine del brano. I bambini sono stati esaminati singolarmente, e le loro performance sono state audio-registrate e cronometrate. Sono stati calcolati i punteggi di rapidità e di correttezza. Per la valutazione della rapidità, il punteggio indica il tempio medio impiegato dal bambino per leggere una sillaba ed è ottenuto dividendo il numero dei secondi impiegati per il numero delle sillabe lette. Per il punteggio di correttezza si sommano gli errori commessi durante la lettura che possono essere di 1 punto o ½ punto in base alle norme relative all’attribuzione degli errori contenute nel manuale del test. Quando il bambino non aveva completato la lettura del brano entro i quattro minuti è stato calcolato il numero degli errori che presumibilmente l’alunno avrebbe fatto nella parte restante, mediante il calcolo delle proporzioni. – Area della Comprensione del testo: MT Comprensione (Cornoldi, Colpo e Gruppo MT, 2011). Le prove MT sono state somministrate in modalità collettiva, sono prove carta e matita, adattate per contenuto e genere al livello di scolarità del soggetto. In questa prova viene richiesto all’alunno di leggere un brano e rispondere alle domande relative ad esso (n. 10 quesiti a scelta multipla con una sola alternativa corretta). Il test prevede che l’alunno possa consultare il testo tutte le volte che lo desidera. Non è presente un limite di tempo, la prova viene considerata conclusa quando il 90% del gruppo classe ha terminato. Il punteggio della prova di comprensione si ottiene sommando il numero delle risposte corrette e confrontandolo con le fasce di prestazione per età e classe. – Area della Scrittura – Ortografia: DDO - 2 Strumento di Diagnosi dei Disturbi Ortografici in Età Evolutiva (Angelelli et al, 2004) – versione breve. Questo strumento di valutazione ha previsto la somministrazione in modalità collettiva di un dettato di parole (n. 45 parole) e di non parole (n. 15 non parole). Il parametro preso in considerazione in questo strumento è il numero di errori commesso nella scrittura di parole e di non parole. – Area del Calcolo: AC-MT (Cornoldi, Lucangeli e Bellina, 2002). Questa batteria testata per la valutazione delle abilità di calcolo, è un test carta e matita. La parte somministrata di questo strumento è stata quella collettiva, costituita dalle seguenti prove: • Operazioni scritte: questo subtest esamina le conoscenze procedurali di calcolo necessarie per risolvere le operazioni scritte (addizioni, sottrazioni, III. Esiti di ricerca


moltiplicazioni e divisioni). Il parametro preso in considerazione per questa prova è dato dal numero di risposte corrette. • Giudizio di numerosità: in questo subtest vengono presentate 6 coppie di numeri, il compito richiesto è di cerchiare per ogni coppia di numeri quello più grande. Questo compito richiede sia competenze semantiche dei numeri (manipolare la quantità del numero) sia lessicali (abilità di leggere i numeri). • Trascrizione dei numeri: questo compito valuta l’abilità di elaborare la struttura sintattica del numero che governa il valore posizionale delle cifre che compongono il numero stesso. Vengono somministrate 6 serie di numeri riportati verbalmente in ordine posizionale scorretto (3 decine, 8 unità e 2 centinaia) e viene richiesto loro di trasformarli in cifre rispettando il diverso valore posizionale (238). • Ordinamenti: queste prove valutano l’abilità di elaborare la struttura sintattica del numero. Sono presenti due prove di ordinamento, una crescente e l’altra decrescente. Per ciascuna prova sono presenti 5 serie di numeri da collocare nel corretto ordinamento. – Questionario Osservazionale per Insegnanti (Friso et al, 2012): valuta la percezione dell’insegnante rispetto ad alcune variabili: partecipazione in classe, puntualità, regolarità nei compiti, metodo di lavoro, ordine e abitudini di studio. 3.4 Progettazione dell’intervento di potenziamento

La pianificazione delle sedute e le fasi di presentazione dei materiali hanno seguito la seguente struttura:

– Presentazione del compito ed esplicitazione degli obiettivi da raggiungere, con lo scopo di far comprendere agli allievi il significato delle singole attività proposte; – Lavoro sul materiale con la presentazione di strategie molteplici che l’alunno può adottare in funzione dei propri processi di apprendimento; – Discussione e confronto sulle strategie maggiormente rilevanti per l’alunno attraverso il confronto con l’operatore; – Focus-Group: con una sessione di discussione per ciascun gruppo di alunni coinvolti nello stesso gruppo di potenziamento, al termine delle procedure didattiche. In quanto utile strumento al fine di indagare il processo di formazione di opinioni “fra pari” rispetto all’andamento della sessione di training. – Autovalutazione da parte dell’alunno rispetto alle componenti metacognitive e motivazionali esperite; – Consolidamento delle strategie apprese in modo coordinato e continuativo attraverso la presenza di esercizi di consolidamento da svolgere a casa.

L’attività di recupero delle abilità deficitarie ha previsto l’uso di materiali specifici (testi e software) previsti per il potenziamento delle varie aree degli apprendimenti: Per “l’area della lettura” le schede di Potenziamento sono state selezionate da “Dislessia e Trattamento Sublessicale” (Cazzaniga, Re, Cornoldi, Poli e Tres-

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soldi, 2007) strutturate pensando soprattutto al consolidamento delle strategie di lettura che consentano di automatizzare l’identificazione delle sillabe attraverso le strategie di conversione grafema-fonema. Per “l’area della comprensione del testo scritto” le schede di Potenziamento sono state selezionate da “Nuova Guida alla Comprensione del Testo” (De Beni, Cornoldi, Caponi e Gasparetto, 2003), e incentrate su 10 aree di abilità individuale: Personaggi, luoghi, tempi e fatti; Fatti e sequenze; Struttura sintattica; Collegamenti; Inferenze lessicali e semantiche; Sensibilità al testo; Gerarchia del testo; Modelli mentali; Flessibilità; Errori e incongruenze. Idem per l’area di “scrittura-ortografia”. A questo proposito, molteplici sono le abilità implicate nei processi di scrittura:

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– – – –

Discriminazione visiva; Discriminazione uditiva; Memoria a breve termine; Consapevolezza fonologica.

– – – – – –

Scambio di grafemi: f-v, p-b, t-d; I digrammi e i trigrammi; Separazioni e fusioni illegali; Raddoppiamenti; Accento e apostrofo; Uso dell’H.

Ciò che si sviluppa nel primo anno di scuola, rispetto ai processi di scrittura, è la capacità del bambino di impadronirsi della maggior parte dei meccanismi legati a tale abilità. Nell’acquisizione di tali processi un ruolo rilevante è costituito da un apprendimento motivante e dalla capacità di avvicinare gli alunni all’ortografia in modo interessante e stimolante. Proprio dall’esigenza di poter disporre di un percorso stimolante che permetta agli alunni, con difficoltà nell’area della scrittura, di raggiungere una buona competenza scritta e consolidare le più importanti convenzioni fonetico-sintattiche sono state utilizzate le schede di consolidamento tratte dal manuale “Recupero in ortografia” (Ferraboschi, Meini, 2012). Le aree più critiche del dominio ortografico, sui cui si è intervenuti, possono essere così sintetizzate:

Il training specifico ha coinvolto nel dettaglio queste aree, attraverso la somministrazione di materiali specifici rispetto alle criticità dei singoli alunni. Infine, per l’area del calcolo, è stato progettato un intervento di potenziamento effettuando una distinzione tra le abilità numeriche e le abilità aritmetiche. Col sintagma “abilità numeriche” si fa riferimento alla capacità di leggere, scrivere e riconoscere i numeri, di identificare la loro collocazione sulla linea dei numeri e realizzare degli ordinamenti numerici siano essi crescenti o decrescenti. Le abilità aritmetiche invece ineriscono alla capacità di utilizzare i numeri per eseguire calcoli siano essi a mente o scritti. Il training di potenziamento di queste abilità è stato realizzato attraverso il III. Esiti di ricerca


ricorso a materiali specifici tratti da “Intelligenza Numerica” (Lucangeli et al., 2010), in cui è stato integrato un trattamento sugli aspetti procedurali del calcolo con la componente metacognitiva. Il programma di potenziamento ha preso in considerazione i seguenti obiettivi fondamentali per il recupero di specifiche abilità di calcolo: – – – –

Calcolo scritto; Calcolo a mente; Fatti numerici; Processi semantici e sintattici;

3.5 I Criteri di Significatività del Miglioramento

Al fine di verificare la validità dell’intervento si è reso necessario individuare i criteri per “misurare” quantitativamente il miglioramento nelle diverse aree oggetto di potenziamento; il cui delta dovrà essere superiore a quello atteso dall’evoluzione naturale. La significatività dell’intervento è stata valutata secondo i criteri definiti dalle linee guida della Consensus Conference (2007 e 2011). Il punteggio delle diverse prove (Accuratezza, Rapidità e dati osservazionali) è stato espresso con le seguenti fasce di prestazione per età e scolarità:

– – – –

Criterio Completamente Raggiunto (CCR), corrispondente al 90° percentile; Prestazione Sufficiente (PS) corrispondente al 70° percentile; Richiesta di Attenzione (RA) corrispondente al 20° percentile; Richiesta di Intervento Immediato (RII) corrispondente al 5° percentile.

Obiettivo potenziamento lettura: è stata effettuata la distinzione tra i parametri relativi a correttezza e rapidità. Obiettivo prioritario del potenziamento è stato l’incremento dell’indice di correttezza; ovvero riduzione di almeno il 50% del numero di errori nella lettura di brano. Per la rapidità: incremento superiore a 0,30 sillabe al secondo nella lettura di brano. Obiettivo potenziamento scrittura: aumento della correttezza con la riduzione di almeno il 50% del numero di errori con passaggio a fascia di prestazione superiore. Obiettivo potenziamento comprensione: aumento del numero di risposte corrette con passaggio a fascia di prestazione superiore. Obiettivo potenziamento calcolo: è stata effettuata la distinzione tra conoscenza numerica e abilità di calcolo. Obiettivo primario è stato l’incremento dell’indice di “correttezza totale” con passaggio a fascia di prestazione superiore (o un aumento di almeno 1 deviazione standard). Si sono aggiunte note osservative finalizzate a rilevare l’aumento dei comportamenti attesi in termini di adeguatezza.

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4. Risultati

Qui di seguito presentiamo i risultati ottenuti a seguito del percorso di potenziamento. Negli schemi 1-2-3-4 sono indicati le diverse aree oggetto di intervento; i risultati ottenuti a seguito del potenziamento ed il mantenimento nel tempo dei risultati ottenuti. I parametri analizzati sono stati i seguenti:

– Normalizzazioni: numero di alunni che è rientrato in una fascia prestazionale in norma per età e scolarità; – Miglioramenti: numero di alunni che è rientrato in una fascia prestazionale superiore a quella iniziale, restando ancora al di sotto della norma per età e scolarità; – Cambiamenti non significativi: numero di alunni che permane nella fascia prestazionale iniziale; – Follow-up: numero di alunni che ha mantenuto nel tempo i risultati ottenuti considerando solo gli alunni che sono rientrati nei primi due parametri: normalizzazioni e miglioramenti. Schema 1 AREA! !DI INTERVENTO: LETTURA ! !

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III. Esiti di ricerca


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I dati emersi dalle diverse aree oggetto di potenziamento indicano un cambiamento significativo nelle prestazioni degli alunni. In particolare il dato significativo è riferibile al parametro “Normalizzazioni” che ha registrato un incremento compreso tra il 66.5% e 84.6% nelle prestazioni, per tutte le aree di riferimento. L’efficacia del training di potenziamento oltre ad essere sostenuto dalla percentuale degli alunni che hanno migliorato la loro prestazione, è indicato dal mantenimento nel tempo dei risultati ottenuti (follow-up ) che ha registrato un incremento compreso tra il 70% e 88.5%

5. Conclusioni

Quali le provvisorie conclusioni tratte al termine di questo studio/indagine-pilota? La prima è che la prospettiva inclusiva implica un allargamento dell’interpretazione del mandato istituzionale della Scuola (in relazione ai suoi scopi) e la concreta trasformazione degli ambienti di apprendimento in direzione del potenziamento degli apprendimenti, in un’ottica di pari opportunità e di partecipazione. Il progetto realizzato nel territorio tarantino ha chiesto l’adesione convinta della comunità scolastica a una proposta di rivisitazione dell’organizzazione offerta dall’Università di Bari, a partire dalle presenze extraistituzionali implicate (noi ricercatrici) in relazione agli obiettivi che, collegialmente, sono stati indivianno III | n. 2 | 2015

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duati entro la cornice della ricerca-formazione collaborativa (Perla, 2011). E ancora. L’esperienza ci ha convinte che lavorare per il potenziamento degli apprendimenti degli allievi della scuola dell’obbligo implica un lavoro, molto più complesso, circa l’assunzione di un “modo” altro di costruire il curricolo scolastico, volto intenzionalmente alla realizzazione della personalizzazione – categoria fondativa dell’inclusione – in un clima accogliente e di rispetto delle diverse caratteristiche individuali di apprendimento. La personalizzazione, come è noto, mutua, riattualizzandola, la grande tradizione attivistica della Scuola a misura di alunno. Gli autori di vaglia7 ad essa ascrivibili hanno per primi proposto la revisione degli impianti scolastici tradizionali introducendo didassi destrutturanti gli spazi e i tempi tradizionali del “fare Scuola”: il lavoro per gruppi, per laboratori, per classi aperte. Alla personalizzazione può essere riferito anche il contributo della cosiddetta “pédagogie differenciée” di matrice francese (Altet, 2000; Mirieu, 1989), sviluppatasi negli anni Ottanta sull’onda della necessità di individuare nelle Scuole francesi approcci metodologici più adeguati alla soluzione dei problemi scolastici dei bambini immigrati. L’alternanza di pratiche di apprendimento differenti (la cosiddetta “differenziazione successiva”: pratiche laboratoriali, individuali, per gruppi) e di pratiche di “differenziazione simultanea”, basata sull’assegnazione di consegne calibrate ai livelli di apprendimento degli allievi, può essere considerata una delle fonti rilevanti di tutti gli approcci psicopedagogici per il potenziamento degli apprendimenti. Infine: il ruolo dei docenti nella costruzione di approcci differenziati di potenziamento. Le cause che possono portare un allievo con DSA a un insuccesso scolastico e/o formativo sono molteplici e complesse è la loro interpretazione, differente per ogni singolo soggetto. Nel caso della individuazione dei DSA al docente è richiesta un’attenzione/attivazione semplessa (Sibilio, 2014) rivolta a più aspetti: le caratteristiche e le potenzialità cognitive dell’allievo e le sue variabili emotive, affettive, motivazionali; le difficoltà epistemologiche insite nelle materie di studio proposte; le modalità didattiche di presentazione della materia stessa, le modalità educative e la relazione instaurata tra allievo e docente, tra allievo e compagni. Una buona didattica per gli allievi con DSA è una buona didattica per tutti e l’allievo con DSA è “l’indicatore biologico” della qualità di un curricolo scolastico (Stella, Grandi, 2011, p.137). Il lavoro condiviso fra noi ricercatrici e il gruppo degli insegnanti coinvolti nella costruzione del percorso ci ha indicato che una delle vie didattiche più promettenti per accostare e risolvere la difficoltà di alunni con DSA è nel lavoro sul potenziamento, estensibile per molti aspetti all’intera classe. Vi sono elementi che incoraggiano a dare continuità al percorso avviato.

7

Da Dewey a Freinet, da Decroly a Claparede, da Montessori a don Dilani sino a Victor Hoz e ai più recenti Chizzolini, Lodi, Malaguzzi, Bernardini, Rossi-Doria.

III. Esiti di ricerca


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Gender differences in coordination and motor-skill development in pre-school years

Key-words: developmental coordination disorder (DCD), gender differences, Movement ABC, motor skills.

III. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno III | n. 2 | 2015

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Introduction: Psychomotor difficulties are characterized by clumsiness that interfere with activities of daily living; so early identification is very important. The purpose of this study is to evaluate the motor and psychomotor difficulties in children living in the province of Salerno aged between four and six with the aim of identifying gender differences in each age through the use of the Movement ABC (Assessment Battery for Children) Checklist. Methods: The sample was composed by 360 children living in the province of Salerno, aged between four and six. The tool used is Movement ABC (Assessment Battery for Children) Checklist, that allows the investigation of children’s difficulties of movement and quality of motor coordination in action, in view of possible repercussions that could be encountered in the socio-relational skills and learning due to poor motor skills. Findings: From the study carried emerges the hypothesis according to which females, with age and compared to males, could become more coordinated and skilled in terms of motor skills. The data show, in fact, that females get lower results (which represent better performance) in each measure, but three exceptions in the group of four-years-old. Conclusions: The scenario presented confirms the potential of refining children’s motor skills in the pursuit of full autonomy of the body in pre-school years through the expansion of mobility opportunities for both males and females.

abstract

Ilaria Viscione (Università di Salerno / iviscione@unisa.it) Rodolfo Vastola (Università di Salerno / rvastola@unisa.it) Francesca D’Elia (Università di Salerno / fdelia@unisa.it)

131


1. Introduction

132

There are a lot of motor and psychomotor difficulties among males and females. Developmental Coordination Disorder (DCD) is a definition that appears in the early 1900s to describe developmental motor problems in children. This condition is characterized by clumsiness and took the name of “motor weakness” or “psychomotor syndrome” (Missiuna, 2013). According to the Dsm-V, there are other DCD definitions, such as “childhood dyspraxia”, “specific developmental disorder of motor function”, and “clumsy child syndrome”. Therefore, as evidenced by the DSM-V, motor performance in DCD, in terms of coordinated motor skills, is below normal. There is a correlation between DCD and clumsiness, slowness and inaccuracy. These characteristics interfere with activities of daily living and cannot be attributed to other diseases or disorders (Dsm-V, 2003). Early identification of motor disorders is essential for each child’s development and it allows for timely referral for developmental interventions as well as diagnostic evaluations and treatment planning (Garey, et al., 2013). Early identification of motor difficulties in children is important for the present (because children with motor difficulties often have problems to succeeding in the classroom) and for the future (these types of difficulties also can lead to secondary problems, such as poor self-esteem, learning difficulties, low academic achievement) (Harris, et al., 2000). Pre-school years is a period during which children could have difficulties to adapting to the new rules and limitations and they may respond by displaying behavioral, social and motor problems. So any tensions arising from change and difficulties encountered at the start of pre-school period for a child may cause negative consequences. There may be various causes which can affect individual differences in child characteristics, for example activity, sociability, and attention, such as biological, environmental and emotional factors (Yoleri, 2014). People who are able to give personal opinion of motor behavior in children are teachers in the school. They are often the first to notice if a child has difficulty in motor tasks. A valid tool, easy and useful, which can identify the difficulties of movement, is the Movement ABC (Assessment Battery for Children) Checklist (Henderson & Sugden, 1992). It was designed to reflect activities in which children participate routinely and it is a complementary tool to alert teachers to the existence of movement difficulties (Harris, et al., 2000). Usually teachers see difficulties in motor tasks and differences between boys and girls. The relationship between gender and motor difficulties could be related to lifestyle (Wrotniak, et al., 2006) and could have psychosocial implications (Skinner & Piek, 2001). Sometimes individually differences in motor skills depend on hereditary and constitutional factors. There is a vast range of motor skills (Chambers & Sugden, 2002; Burton, 1998). A problem in motor activity can be found in clumsiness, bad coordination (DCD “developmental coordination disorders”), awkwardness, dyspraxia, visualmotor problems, space-time organization, attention deficit, motor control, perception (Hellgren, et al., 1994) and a lot of other qualitative elements of movement that may affect motor skills (Roy, et al., 2004). There are differences in the acquisition and development of motor skills. They also depend on environmental and contextual factors. For example, many III. Esiti di ricerca


differences are found between children living in a small town or a rural area and children living in the city. Therefore, the surrounding in which the child lives is the basis for its training and education and the substrate for the learning of motor skills. It is therefore necessary to provide the child with the highest number of motor experiences to promote the acquisition of basic skills (Priori, et al., 2009).

2. Objective

The purpose of this study was to evaluate the motor and psychomotor difficulties in children and to identify possible gender differences.

3. Material and methods

Participants

The sample was composed by 360 children living in the province of Salerno, aged between four and six, as follows (Tab. 1): !

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Measures and procedures

The tool used is Movement ABC (Assessment Battery for Children) Checklist. Movement ABC is one of the most popular instrument in the assessment of children with movement coordination problems (Ruiz, et al., 2003; Van Waelvelde, 2004, 2007, 2008) and, since its publication, it has been used in many studies examining the motor performance of typical children or children with special needs (Venetsanou, 2011). The Movement ABC Checklist can be filled in 10 minutes or less and can be completed by someone who is involved with the student, in fact it is primarily intended for teachers but may be used also by others professionals and parents (Dewey & Tupper, 2004; Croce, et al., 2001). This teachers’Checklist allows the investigation of children’s difficulties of movement and quality of motor coordination in action, in view of possible repercussions that could be encountered in the socio-relational skills and learning due to poor motor skills. As a specialist in both physical and special education, Sugden’s primary concern was to alert anno III | n. 2 | 2015

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teachers to the broader educational significance of such difficulties (Barnett & Henderson, 1998). The Checklist used is composed of 48 items relating to the behavior of the child in motor activities commonly performed by children in the school environment, such as writing, drawing, using scissors, running, ball catching and so on. The Movement ABC Checklist is divided into five sections: the first four indicate the relationship between the child and the surroundings, in order to highlight the performance of the child in progressively more complex situations (48 items). The fifth part indicates the behavior that may affect the performance of the child (12 more items) (Tab. 2) (Henderson & Sugden, 1992). For each of the questions in sections 1 to 4 there are 4 possible responses, which describe the way in which the child reacts; so the teacher is required to observe how well the child performs these tasks and to give a score. A high score in the checklist indicates difficulties (Tab. 3) (Chow & Henderson, 2003; Chow, et al., 2001). ! !

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4. Analysis and results

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Table 3. Scale of scores

Movement ABC Checklist was administered by teachers in the school. In order to obtain a complete view of the results of Movement ABC Checklist, the data used included measures of location and measures of dispersion (average, standard deviation, median, first and third quartile and interquartile range) and a total of each measure for all four sections of the Checklist (Tab. 4). In this case, the collection of statistical information make it possible to summarize the results of data obtained and to evaluate the accuracy and reliability of them. Therefore, the data show that females always get lower results (which represent better performance) in each measure, but three exceptions in the group of four-years-old. The study shows that females, over time and when compared to males, could become more coordinated and skilled in terms of motor skills.

III. Esiti di ricerca


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Table 4. Administration of Movement ABC Checklist: results

5. Discussion and Conclusions "

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Some studies (Livesey, et al., 2007) have indicated that gender comparisons of the mean raw scores on each of the test items indicate that girls performed at a higher level than boys on both manual dexterity and static balance tasks while boys were superior in ball skills. So, in this case, with the aid of Movement ABC it is possible to find the origin and extent of motor difficulties. But the range of tasks used to identify sex differences is very large.

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Usually the number of boys and girls in the studies focusing on children with motor difficulties is not always specified but, when it is, often there are more boys than girls. Due to the nature of the selection procedures, it is not always clear whether this is a true representation of the population from which these children are drawn. However, this pattern does seem to reflect the general finding that more boys suffer from developmental disorders than girls (Barnett & Henderson 1998). Also in others researches the use of Movement ABC to identify sex differences were fundamental for the development of motor skills. On the total scores and in the two of three sections (manual, dexterity and balance) boys were significantly worse than girls. There were no significant differences between the sexes with respect to ball skills competence (Sigmundsson & Rostoft, 2003). In this case, it is evident that with age the distance between the scores of males and females increases progressively. Future prospects indicate the possibility of investigating the differences in motor development between boys and girls. The scenario presented confirms the potential of refining children’s motor skills in the pursuit of full autonomy of the body in pre-school years through the expansion of mobility opportunities for both males and females.

136

References

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III. Esiti di ricerca


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Una ricerca sulla condizione dei ragazzi e delle ragazze romanì che accedono al Centro di Giustizia Minorile della Regione Lazio: problemi emergenti e prospettive inclusive

The paper presents data of an original study on the condition of romani minors (both boys and girls) considered deviant (offenders) and on the abetment of crimes committed. The study was conducted during 2014 with reference to the minors in the Centre of Emergency Reception of Rome of the Ministry of Justice between 2012 and 2013. Other than the analisys of the context aspects, the wealth of data allowed a survey through distinctive details as: the case of crimes committed by minors; the housing conditions; the abetment of crimes committed by non attributable minors (children under 14 years); the fertility of mothers. Moreover, from 2011 to 2013 the trend of the entries in the circuit of juvenile Justice has been analized. In particular, survival and defence strategies were found, carried out by romani communities, compared to the mainstream society. The results point out the crucialties related to the realization of a compensatory policy and highlight some of the socio-pedagogic enquiries important for strategic and projectual aspects: What are the socio-economic conditions of the minors in the course of the juvenile Justice? How much does the housing condition affect schooling? How much does the abetment deal with the training or formation period? The paper will try to answer the questions above and, in particular, will aim to reduce the exclusion of romani girls in school and social life.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: female juvenile deviance, marginality, inclusion, roma family

abstract

Barbara De Angelis (Università Roma Tre / barbara.deangelis@uniroma3.it) Patrizia Aiuti (Associazione “Naturalmente Onlus”/ patrizia.aiuti@gmail.com) Marco Accorinti (CNR Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali / m.accorinti@irpps.cnr.it)

III. Esiti di ricerca L’articolo è frutto di un lavoro comune. Tuttavia, secondo la prassi consueta di attribuire parti del lavoro ai singoli autori, si può considerare che Barbara De Angelis, oltre alla revisione scientifica del lavoro, ha redatto l’introduzione (paragrafo 1), il paragrafo 2 e il paragrafo 6; Marco Accorinti si è occupato della cura redazionale e delle conclusioni (paragrafo 6), mentre Patrizia Aiuti si è occupata dei paragrafi 3, 4 e 5.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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1. Introduzione

140

Il contesto entro il quale è stato svolto il progetto di ricerca è il Centro di Prima Accoglienza di Roma del Ministero della Giustizia e la popolazione interessata all’indagine è costituita dai minori romanì che accedono a tale struttura, di età compresa tra i 14 - 18 anni, soggetti imputabili secondo la Legge italiana. Tale progetto ha coinvolto l’Università degli Studi Roma Tre, il CNR e il Centro di Prima Accoglienza del Ministero della Giustizia (CPA)1 nel triennio 2012-2014. Il nostro campione di riferimento era costituito nel 2012 dalla totalità dei minori rom (n. 244) accolti all’epoca nel CPA e dai 275 minori rom presenti nel CPA nel 2013. Nel 2014 l’analisi ha riguardato anche minori rom e non rom entrati nelle ulteriori strutture di competenza del Centro di Giustizia Minorile della Regione Lazio, pertanto essendo il campione quasi raddoppiato, tali dati sono ancora in elaborazione. Il Centro di Prima Accoglienza (CPA) di Roma è uno dei Servizi del Dipartimento per la Giustizia Minorile e dipende dal Centro per la Giustizia Minorile per il Lazio con sede a Roma. Il CPA è un servizio pubblico essenziale che garantisce l’accoglienza dei minorenni nell’arco delle 24 ore sino all’udienza di convalida, assicurando una risposta tempestiva ed efficace al momento del primo contatto fra il minore e il sistema della Giustizia Penale Minorile. Realizza, pertanto, un’immediata mediazione tra esigenze penali, educative e sociali, garantendo, laddove possibile, la costruzione di un’ipotesi progettuale che non interrompa i processi educativi in atto. Nella sua attività, l’équipe del CPA predispone una prima relazione informativa sulla situazione psicologica e sociale del minorenne e sulle risorse disponibili sul territorio per quel caso, con l’obiettivo di fornire all’Autorità giudiziaria competente, tutti gli elementi finalizzati ad individuare, in caso di applicazione di misura cautelare, quella più idonea. Il tempo massimo di permanenza in CPA è di 96 ore: entro le prime 48 ore dall’arresto/fermo, se il Pubblico Ministero ritiene di non dover chiedere l’applicazione di una misura cautelare emette un decreto di liberazione motivato; in caso contrario, trasmette gli atti al Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) con la richiesta di convalida dell’arresto ed emissione di una misura cautelare. Il GIP ha a disposizione altre 48 ore di tempo per celebrare l’udienza di convalida dell’arresto o del fermo. L’esito di tale udienza può essere la remissione in libertà oppure l’applicazione di una delle quattro misure cautelari dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 448/882, quali rispettivamente: le “prescrizioni” (articolo 20), con cui il Giudice dispone che il minore svolga determinate attività di tipo educativo e formativo; la “permanenza in casa” (articolo 21), che prevede il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione; il “collocamento in comunità” (articolo 22), con cui il Giudice dispone l’allontanamento temporaneo del minore dalla famiglia e il suo collocamento in una struttura socio-educativa o terapeutica; la “custodia cautelare” in carcere (articolo 23) nei casi più gravi.

1 2

Il Gruppo di lavoro impegnato nell’indagine è composto da Barbara De Angelis, Marco Accorinti e Patrizia Aiuti. Decreto del Presidente della Repubblica n. 448/88 - Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni.

III. Esiti di ricerca


Tra tutti i CPA presenti in Italia, quello di Roma si è sempre contraddistinto per un lavoro di intervento diretto all’interno degli insediamenti autorizzati, non autorizzati e abusivi della Capitale, rivolti alla popolazione cosiddetta “nomade” (dal nome dell’area che le istituzioni hanno destinato all’accoglienza dei rom denominata per l’appunto “Campi nomadi”)3. Nel CPA della capitale afferiscono per lo più minori di origine romanì provenienti da differenti aree geografiche, le due principali sono: l’Est europeo (Romania, Paesi dell’ex Jugoslavia, Albania) e il Nord Africa (Marocco, Tunisia, Egitto). Le ragazze arrivano soprattutto da Romania, Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia4. A Roma, la popolazione di origine romanì nel CPA è sempre stata in netta maggioranza rispetto al totale dei minori accolti, che in parte comprende anche minori italiani non rom; dall’analisi documentale si è potuto rilevare che il trend degli ultimi anni ha visto un peso percentuale della componente romanì nel 2011 pari al 41,9% del totale dei minori accolti; nel 2012 pari al 47%; nel 2013 pari al 53,5%. Se poi si considera la parte femminile, all’interno della popolazione romanì, i dati si sono modificati in aumento, per cui, nel 2011 si è registrato il 51,4% di ragazze romanì sul totale di tutte le ragazze accolte nel CPA; nel 2012 le minori rappresentavano il 63,9% del totale e, nel 2013, malgrado una leggera diminuzione (con valore pari al 54,9%) la componente femminile romanì si era comunque attestata oltre la metà del totale delle ragazze in ingresso nel Centro, a differenza dei maschi per i quali la percentuale maggiore è sempre stata rappresentata da ragazzi non romanì. Analizzare il contesto delle ragazze romanì che si trovano inserite in circuiti di intervento sociale in stato di arresto, fermo o accompagnamento, significa far emergere una realtà tutt’altro che marginale della società italiana, e particolarmente sembra significativa nella Regione Lazio, visto che il numero di ragazze ospitato dal CPA di Roma è proporzionalmente molto alto rispetto ai CPA del resto d’Italia. In relazione ai dati raccolti nella fase iniziale, nei primi mesi del 2012, e alle considerazioni qui in parte sottolineate, il gruppo di ricerca ha ridefinito il campione di indagine e i suoi obiettivi, sia estendendo l’esplorazione a tutte le variabili che rappresentano la condizione di vita, familiare e socio-economica dei minori presi in esame, sia riflettendo sulla correlazione di queste variabili con i livelli di istruzione registrati. Si è cercato in sostanza di definire la misura e le caratteristiche dello scenario di devianza minorile presente a Roma ai fini di un intervento, ben calibrato su questa realtà, che in prospettiva e a partire da interventi pedagogicodidattici, possa diminuirne il preoccupante andamento. Ai fini della raccolta delle informazioni, è stato utilizzato come si vedrà meglio più avanti, un approccio metodologico combinato di tipo qualitativo e quantitativo. La rilevazione dei dati è stata progettata dal gruppo di ricerca in modo da raccogliere i dati, sia de visu, dai colloqui e dalle interviste semi-strutturate ai ragazzi e alle ragazze, sia dall’analisi delle relazioni degli educatori e della docu3 4

Nomadi è un termine utilizzato dalla amministrazione capitolina. Nei campi, in teoria, possono vivere solo coloro che sono di etnia rom, sinti o camminanti, nella pratica, in quelli non autorizzati, vive chiunque (Informazioni raccolte nel corso del Convegno “Fuori Campo” organizzato dal Centro per la Giustizia Minorile della Regione Lazio, a Roma, il 18 dicembre 2013). Ibidem.

anno III | n. 2 | 2015 BARBARA DE ANGELIS, PATRIZIA AIUTI, MARCO ACCORINTI

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142

mentazione amministrativa presente nel Centro. Tale impianto, durante la fase pilota, ha permesso di raccogliere dati approfonditi relativi alla realtà personale, familiare e giuridica dei minori e delle minori romanì ma soprattutto di individuare degli indicatori specifici di quattro ambiti di studio (informazioni e condizioni socio-demografiche, occupazionali, familiari e giudiziarie) utili per costruire una scheda da impiegare per ampliare i dati informativi e codificarli e quindi per svolgere analisi e correlazioni. Per quanto riguarda i risultati relativi al primo e secondo ambito di analisi (informazioni socio-demografiche e condizioni occupazionali) si può fare riferimento agli atti del Convegno annuale 2014 SIPED (Società Italiana di Pedagogia)5, mentre il terzo e il quarto ambito (condizioni familiari e informazioni giudiziarie) sono oggetto del presente contributo. Si riportano, infatti, alcuni grafici e tabelle, che offrono risultati particolarmente significativi per un approfondimento originale sulla condizione familiare dei minori e delle minori romanì considerati “devianti” (autori di reati) e sulla correità nei reati con minori non imputabili (ovvero minori di 14 anni). Le elaborazioni sviluppate nel corso del 2014, sembra opportuno sottolinearlo nuovamente, hanno avuto come riferimento i ragazzi e le ragazze romanì accolti nel CPA di Roma del Ministero della Giustizia negli anni 2012 e 2013, ovvero sono stati oggetto di studio più della metà dei minori romanì sul totale degli ingressi registrati nel Lazio negli anni considerati (in media gli ingressi sono stati poco più di 510 l’anno) e la ricerca si è svolta e sviluppata in completa assenza di studi significativi condotti nell’ambito della devianza di giovani romanì a Roma e in generale nel Lazio. Tra i criteri di analisi scelti (lo studio della esperienza quotidiana e delle caratteristiche della realtà familiare, della condizione abitativa in relazione con il titolo di studio e con i reati commessi) sono stati oggetto di particolare approfondimento la misura e il significato della correità nei reati commessi, con particolare attenzione ai minori infraquattordicenni che, peraltro, a nostro parere, possono rappresentare, con opportuni interventi il cuneo da usare per contrastare nelle famiglie le realtà devianti. Anticipando alcune conclusioni, fra gli aspetti principali della condizione familiare che emergono tra i ragazzi e le ragazze romanì del CPA, annoveriamo: la solidarietà verso la famiglia di appartenenza; il rafforzamento dei rapporti endogamici; la conservazione in clandestinità della cultura romanì; la passività oppure l’autoesclusione; il furto; la mendicità e la divinazione. I risultati emersi evidenziano alcuni elementi identitari positivi da considerare, ma soprattutto le criticità relative alla realizzazione di una politica sociale ed educativa, che necessariamente deve mettere in luce alcuni quesiti socio-pedagogici di importanza strategica e progettuale riassumibili nei seguenti interrogativi: Quanto la condizione abitativa incide nella scolarizzazione dei ragazzi e delle ragazze romanì?, ovvero, come è possibile chiedere a una ragazza o a un ragazzo romanì di applicarsi nella attività scolastica se da un momento all’altro 5

B. De Angelis, “Una ricerca sulla condizione di devianza delle ragazze Romanì che accedono ai Centri di Giustizia Minorile nella Regione Lazio. Problemi emergenti e prospettive inclusive”, in S. Ulivieri, M. Tomarchio (a cura di), Pedagogia militante. Diritti, culture, territori, Atti del 29° convegno nazionale SIPED, Catania 6-7-8 novembre 2014, Pisa, ETS.

III. Esiti di ricerca


dovrà lasciare la propria abitazione in maniera coercitiva? Quali sono le condizioni socio-economiche dei familiari dei minori presenti nei percorsi della Giustizia Minorile? Quanto è “densa” di formazione-apprendistato la correità al reato?

2. Modalità attuative della ricerca

La rilevazione dei dati è stata effettuata sui singoli casi di minori romanì, utilizzando le notizie contenute nella documentazione6 del CPA (e quindi rilevate dal personale presente nel centro) integrate, come già accennato con informazioni raccolte direttamente o attraverso gli operatori, sulla base di una scheda di rilevazione cartacea, articolata in quattro categorie, elaborata dal gruppo di ricerca. Si è trattato quindi di una ricerca empirica di “medio raggio”, per usare un’espressione di Merton descritta da Guala (2010), svolta su un campione della popolazione romanì, che è assolutamente difficile da contattare7. Le cartelle sociali8 consultate sono state una fonte ricca di informazioni, tutte verificate attraverso documentazione certa e selezionate sulla base della problematica che si voleva analizzare, o di eventuali dubbi che era necessario chiarire. La scheda di rilevazione delle informazioni, utilizzata sia nella raccolta che nella codifica dei dati, comprendeva: una prima parte denominata “dati demografici” indirizzata a rilevare la realtà socio demografica del minore (e quindi i dati anagrafici ed essenzialmente lo stato di famiglia);una seconda parte denominata “dati di attività”diretta a rilevare la realtà occupazionale scolastica, lavorativa e del tempo libero;una terza parte denominata “dati familiari”, destinata a rilevare la realtà familiare (lavoro del genitori, presenza di fratelli, altre parentele). L’ultima parte della scheda, infine, riguardava la situazione giuridico-legale e pertanto era denominata “dati giudiziari” e riferiva il tipo di reati commessi, le entrate e uscite dal CPA e da altre istituzioni penali). Poiché le informazioni raccolte e riportate dalle diverse fonti amministrative nelle cartelle sociali del CPA con concetti, definizioni, classificazioni e regole di iscrizione proprie, in quanto vincolate a funzioni e adempimenti specifici, risultavano disomogenee, esse sono state normalizzate e omogeneizzate attraverso la scheda, in modo da poter elaborare i dati in maniera aggregata9.

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La documentazione raccoglie tutta la produzione scritta riguardante gli utenti, il servizio, l’istituzione e le tematiche che si stanno trattando. In particolare si riferisce ai dati oggettivi dell’utente e alla valutazione della situazione problematica e delle eventuali urgenze. Come si è già precisato i dati si riferiscono ai minori romanì accolti nel 2012 nel CPA di Roma (244 tra maschi e femmine), a quelli accolti nel 2013 (275 tra maschi e femmine) e alla relativa documentazione presente nel CPA (anni 2011-2014). L’elaborazione dei dati 2011/2012 è pubblicata in De Angelis B., op. cit. La cartella sociale è lo strumento principale attraverso il quale l’educatore assume la responsabilità di “prendere in carico”, principalmente dal punto di vista amministrativo, una persona che si trova in condizione di necessità. La cartella sociale, come quella clinica usata in medicina, segue l’intero percorso dell’assistito, dalla segnalazione fino alla dimissione e la sua compilazione nonché la relativa conservazione sono affidate al o alla responsabile del caso. I dati oggetto di questo contributo, come si vedrà dalle tabelle riportate avanti riguardano le rilevazioni degli anni 2012 e 2013. I dati della rilevazione effettuata nell’anno 2014, come si è già

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Per la realizzazione di tale ricerca si è presa in prestito la metodologia della Business Intelligence e la progettazione di un data warehouse specifico10; tale metodologia ha permesso di raccogliere dati approfonditi e fornire elementi di conoscenza per la realtà personale, familiare e giuridica dei minori e delle minori romanì presenti nel CPA di Roma. La finalità conoscitiva della ricerca e le esigenze di acquisire direttamente dalle testimonianze dei ragazzi e delle ragazze il loro vissuto esperienziale una volta inseriti nel circuito penale, e di ricavare informazioni anche dagli operatori che li hanno incontrati, hanno perciò determinato il ricorso a un duplice approccio metodologico, quantitativo e qualitativo, tipico di molta parte della ricerca sociale, etnografica e educativa. Dal punto di vista quantitativo l’indagine è stata indirizzata alla acquisizione delle informazioni personali attraverso l’analisi delle fonti amministrative (relazioni composte dagli operatori, verbali, ecc. tutte contenute nella cartella sociale individuale del ragazzo o della ragazza) e dalle esperienze vissute dai ragazzi e dalle ragazze una volta entrati nel circuito penale minorile. L’approccio quantitativo della ricerca (di cui si dà conto brevemente per motivi di spazio) ha permesso di condurre uno studio sul campo (di tipo esplorativo) in grado di rilevare il profilo dei ragazzi e delle ragazze romanì che accedono al CPA del tutto originale nel panorama della ricerca socio-educativa relativamente a questa parte della popolazione presente in Italia. Si è inteso partire dalla documentazione raccolta nelle cartelle sociali dei minori inseriti nel CPA, per avere una base sulla quale è stata quindi impostata una originale indagine che ha consentito di costruire un file di dati secondari come avviene tipicamente nelle rilevazioni a fini epidemiologici (Guala, 2010), oggetto delle elaborazioni contenute nel presente articolo. Inoltre, in tal modo si è cercato di evitare un errore molto frequente nella ricerca sociale sulla popolazione romanì, riscontrato tra gli altri anche da M. Giuffrè (2014), e cioè che attraverso interviste dirette e personali (o questionari) le persone rom smettono di raccontarsi liberamente e cominciano a raccontare quello che secondo loro «un gagé vuole sentirsi dire»11. Giuffrè ritiene, giustamente, che «viene costruito e messo in scena uno schema narrativo proprio di chi si identifica

precisato, sono in parte ancora in elaborazione sebbene i problemi di genere individuati abbiano già dato origine a due prodotti, una relazione presentata nel gennaio 2015 a Roma al Convegno del Gruppo di lavoro sull’educazione di Genere della Siped, e una pubblicazione internazionale, entrambi sulla devianza delle ragazze minori rom. 10 Come è noto, un data warehouse può essere considerato come un enorme archivio in grado di fornire informazioni e, più ancora, conoscenza secondo regole individuate e stabilite. William H. Inmon (in F. Corbisiero, Osservatorio welfare. Sistemi, flussi e osservatori delle politiche sociali, Milano, Franco Angeli, 2008), colui che per primo ha parlato esplicitamente di data warehouse, lo definisce come una raccolta di dati integrata, orientata al soggetto, variabile nel tempo e non volatile di supporto ai processi decisionali. L’integrazione dei dati costituisce la principale caratteristica distintiva del data warehouse rispetto ad altri sistemi di supporto alle decisioni. La metodologia – in estrema sintesi – prevede cinque fasi: l’estrazione, la trasformazione dei dati, la qualità dei dati, la costituzione della base di dati e gli strumenti per interpretare i dati. 11 Si ricorda con Piasere che «la dimensione romanì risulterebbe qui illuminata per opposizione, i gagé sono l’espressione dell’alterità che le singole comunità rom hanno costruito nel tempo, l’espressione del non essere rom, o meglio del non appartenere alla dimensione romanì. I gagé sono gli altri per definizione» (Cfr., L. Piasere, I rom d’Europa, Bari, Laterza, 2004, p. 27).

III. Esiti di ricerca


e viene identificato come “rom del campo” e che si autonarra e si auto presenta secondo quei “criteri” che vengono percepiti come “quello che i gagé vogliono sentirsi dire». L’immagine ricavata dall’analisi dei dati è naturalmente una “fotografia in movimento”, che descrive l’andamento del fenomeno e le sue possibili direzioni in trasformazione, fissate ad una data, quella di accesso (o in alcuni casi di reiterato accesso) al Centro. Ma per mettere in luce anche l’aspetto pedagogico-trasformativo, nelle fasi successive si è scelto di utilizzare anche un approccio di tipo qualitativo che evidenzia la pluralità di sfumature che connotano la realtà esaminata. Alcune informazioni “statiche”, quelle relative ad esempio alle condizioni socio-demografiche e giudiziarie, erano ben raccolte nella documentazione (anche ufficiale, ad esempio nelle fotocopie dei documenti), per altre, ad esempio i “dati di attività” e i “dati familiari” sono state invece raccolte direttamente intervistando i ragazzi e le ragazze e/o gli operatori che li/le avevano in carico. I risultati di un primo approfondimento su questi dati sono in corso di pubblicazione in un altro lavoro che ha in particolare analizzato le seguenti dimensioni: minori per fascia di età e genere, ragazze con figli o incinta, stato civile, scolarizzazione, dati riferiti sempre ai minori romanì entrati nel CPA di Roma12. Nel presente lavoro, come già premesso, si presentano analisi relative al terzo e al quarto ambito di approfondimento (“dati familiari”, “dati giudiziari”) analizzando le seguenti dimensioni: componenti per nucleo familiare, fecondità delle madri, condizioni abitative, scolarizzazione, reati compiuti, misure cautelari, correità delle minori entrate in CPA. La combinazione dei due approcci, qualitativo e quantitativo, ha permesso di dare alla ricerca un taglio nel contempo verticale (in profondità) e orizzontale (in estensione). In questa prospettiva è stato possibile tener conto della complessità e dell’eterogeneità del fenomeno esaminato ed evitare il pericolo di presentarlo con etichette e stereotipi, eventualità possibile dato che la popolazione di riferimento dell’indagine, spesso, ricade in una ambivalente rappresentazione. Un’ultima avvertenza prima di passare all’analisi dei dati raccolti. Proprio facendo riferimento al mondo romanì, come sostiene giustamente Guala (2010), nessun indicatore demografico può essere considerato da solo. Per questo e per la complessità dell’oggetto di indagine, è stata richiesta una sua comprensione più ampia della semplice analisi socio-statistica. In altre parole, per definire, ad esempio, un intervento per educare alla genitorialità non basta sapere quante donne hanno figli piccoli, ma è importante sapere anche che nella cultura romanì le ragazze si sposano a 14 anni, hanno di solito più di due figli, poche di loro lavorano e quasi nessuna gira per Roma da sola o senza un adulto di riferimento. Solo con questo livello di analisi e comprensione del fenomeno sarà possibile definire una politica di integrazione, in termini mirati alla domanda sociale effettivamente espressa.

12 De Angelis B., op. cit., 2014.

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3. La rete familiare e la devianza dei minori romanì

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Il primo elemento che occorre tenere presente nell’analisi dei dati raccolti al CPA di Roma è che, come sostiene lo stesso Piasere (2012a), non è possibile descrivere la condizione dei minori romanì come se fosse una sola e non una molteplicità di condizioni. Di solito “il rom” nel dibattito pubblico, sia politico sia accademico, diventa una figura essenzializzata, non un cittadino, ma una persona fuori posto, senza appartenenza, aliena, identificata prima di tutto per la propria dimensione etnica, senza considerare le altre forme di identificazione come quella di classe sociale, di genere, di generazione, ecc. Secondo Sandro Costarelli (1999) il grado maggiore di atteggiamento discriminatorio nei confronti della popolazione romanì si trova in Italia, dove domina lo stereotipo della loro illegalità. Ciò che emerge dal lavoro di ricerca svolto è che i processi di stigmatizzazione e di discriminazione istituzionale sono presenti in parte anche del mondo dell’intervento sociale ed educativo, legittimano l’esclusione sociale e si esprimono in diverse forme e discorsi (e attraverso l’uso di termini discriminatori). Come i migranti, i rom vengono trattati come problema di ordine pubblico e di sicurezza, forma delle “nuove” strategie politiche verso le minoranze, ma una grande diversità li differenzia: gli immigrati sono in Italia senza una rete familiare e parentale ampia e coesa, mentre la popolazione romanì è fortemente caratterizzata da una appartenenza familiare che si è mostrata anche nel corso della ricerca nel CPA. L’attenzione verso la rete familiare è nata direttamente dall’analisi di ciò che emerge dagli incontri con le “donne” minorenni, da questa analisi, infatti, si è potuto riscontrare che la “famiglia” (padre, madre, figli) rappresenta la struttura base della comunità romanì. Oltre ad essa, si pone la cosiddetta “famiglia estesa”, che comprende i parenti con i quali vengono sovente mantenuti i rapporti di convivenza nello stesso gruppo, comunanza di interessi e di affari. A ciascun individuo è richiesto di conformarsi alle norme che regolano la comunità in base al proprio ruolo e al proprio sesso. Le funzioni attribuite a ogni individuo sono convergenti e coese nella struttura familiare. La sicurezza di ogni individuo è garantita dalla continuità della tradizione e dalla compattezza familiare che a sua volta, è fondata sul rispetto di vincolanti norme morali (il cosiddetto romanì kriss). La ricerca ha potuto confermare quanto riportato da Spinelli (2012), ovvero: all’interno di ciascuna famiglia prevale la figura maschile. A livello generale nella popolazione romanì il prestigio maschile e le relazioni fra i sessi sono fortemente legati. Per esempio, il prestigio maschile si esercita con il controllo della sessualità femminile, che avviene attraverso una serie di istituzioni culturali come la verginità femminile, che rappresenta un valore primario, fondamentale per l’onore del patriarca, del padre e del futuro marito. La donna tuttavia ha il grande potere di trasmettere e di perpetuare le tradizioni o di interromperle ed è garante verso i figli della trasmissione dei valori sociali dominanti, in particolar modo verso le figlie. Le relazioni di genere sono un ambito di marcata distanza tra la cultura maggioritaria e quella romanì. Tra i vari stereotipi, ad esempio, una donna rom non potrebbe sposare un uomo non rom. Sempre a livello generale, la famìlje è costituita, normalmente, da tre generazioni legate patri-linearmente: un capofamiglia o patriarca, i suoi figli maschi e III. Esiti di ricerca


i figli di questi. Essendo la famìlje virilocale, le figlie una volta sposate lasciano la famiglia d’origine per aggregarsi a quella del marito. L’uomo domina la sfera pubblica e rappresenta la propria famìlje all’esterno. La donna si occupa della vita domestica e il suo prestigio è in relazione all’attività di moglie e di madre. I compiti assegnati all’uomo e alla donna necessitano di spazi separati confacenti alle funzioni sociali di ciascun sesso. La purezza virginea è di massima importanza per il prestigio di tutta la famìlje e per il futuro della donna. Se la notte delle nozze la ragazza viene trovata non vergine è ripudiata dal marito e dalla sua famiglia. Questo provoca un grosso scandalo e un gran clamore all’interno della comunità. Il disonore si riflette anche sulla famìlje dello sposo. Passando ai risultati dell’indagine, nello studio si evidenzia in maniera chiara come le famiglie numerose abitino in baracche da loro costruite o in più unità abitative attrezzate dall’Ente locale per accogliere tutti i componenti della famiglia. Considerando alcuni dati, agli estremi si sono riscontrate 24 famiglie (pari a circa il 10% del numero totale dei nuclei censiti) con 11 o più figli tutti conviventi (un nucleo è persino composto da 17 persone conviventi), e 110 nuclei (pari a meno del 45% del numero totale) composti da 2 a 4 persone. Dei 244 minori entrati nel 2012 in CPA il 60,2% del totale, vivono in famiglia con entrambi i genitori e il 7,4% con un solo genitore, essendo presenti situazioni di separazione o di morte di uno dei genitori; il 6% dei minori è affidato ai nonni e convive con zii o altro (cugini, ecc). Nelle famiglie degli adolescenti incontrati l’immagine predominante della donna è sempre associata alla sfera domestica, dove ha anche il ruolo di elemento contenitivo da una parte e trasmettitore di cultura dall’altra parte. Difendendo la tradizione la donna rom non ha mai avuto il problema di uscire di casa e di andare a lavorare. E questo elemento sembra essere ancora dominante a Roma, sia nell’immagine dei figli che hanno della propria madre, sia nelle ragazze incontrate rispetto al proprio futuro. Del resto, come in ogni comunità, ogni sottogruppo di essa ha una propria specificità culturale e un proprio dialetto della lingua romanì, oltre ad una propria etica basata su un complesso di regole morali vincolanti, per cui chi non le condivide viene estromesso dal sottogruppo .È proprio questo un elemento cruciale della cultura romanì: chi non condivide le regole morali viene estromesso (romanì kriss) e pertanto nella vita delle ragazze romanì incontrate si determina un comportamento adeguante sia alla cultura sia alle condizioni esistenziali. Il 91% delle minori coniugate vive con i suoceri, come è previsto dalla tradizione romanì e il 4% è tornato a vivere con i propri genitori mettendo in atto una separazione (in alcuni casi, secondo quanto riportato dalle intervistate, per maltrattamenti e violenza domestica). Oltre alla famiglia estesa, dagli incontri effettuati si riscontra quanto riportato da Spinelli (2012): presso i rom esiste la kumpánia, cioè l’insieme di più famiglie non necessariamente unite fra loro da legami di parentela, ma tutte appartenenti allo stesso gruppo e allo stesso sottogruppo o a sottogruppi affini, che convive negli stessi spazi (campi, accampamenti, ecc.). Ciò in particolare è vero nei campi non attrezzati, quelli spontanei (definiti anche “baraccopoli”) in cui le famiglie si compongono intorno ad un nucleo. Ma vale anche nei campi autorizzati e attrezzati dal Comune che sono stati progettati, in alcuni casi, intorno a nuclei familiari estesi. Attraverso la ricerca, i ragazzi e le ragazze affermano che la solidarietà familiare è un fatto consueto e imprescindibile, in particolare per quelle famiglie dove sono presenti situazioni di genitori malati o genitori separati. anno III | n. 2 | 2015 BARBARA DE ANGELIS, PATRIZIA AIUTI, MARCO ACCORINTI

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I dati evidenziano che nel momento del reato il 16% delle minori entrate in CPA erano state affidate a familiari poiché i genitori non erano presenti in Italia, in quanto o allontanati dal Paese o rientrati nel proprio paese per motivi familiari (alcune ragazze riferiscono di assenze per partecipare al funerale di parenti, pratica molto sentita nella comunità) o per impegni di lavoro. Altri motivi di affidamento a parenti diversi dai genitori riguardano i casi di ragazzi e ragazze con almeno un genitore detenuto (pari a 8,1 in misura percentuale sul totale); lo 0,9% di tutti i ragazzi e le ragazze hanno un genitore malato e a causa di questo devono occuparsi del mantenimento della famiglia, mentre il 2% dei ragazzi e delle ragazze sono orfani di uno o di entrambi i genitori. Le informazioni sui familiari dei ragazzi e delle ragazze entrate in CPA sono molto interessanti: la ricerca fa emergere che 11,7% dei genitori sono abitualmente dediti alla mendicità, quale fondamentale strategia di sopravvivenza, ancora molto attuata a Roma. Si deve tuttavia tenere presente che la raccolta di elemosine, così come il furto, non sono tratti culturali, ma forme di “resistenza passiva” e di “ribellione pacifica” solitamente poco comprese dalla società maggioritaria. Non è un caso che le famiglie romanì integrate, che non hanno più bisogno di difendersi, non mendicano e non rubano. È presente in molte comunità dei ragazzi e delle ragazze incontrati, la raccolta del ferro per strada che risponde ai principi consolidati nella comunità romanì di autogestione e creatività. Dalla ricerca emerge che il 17,8% sono dediti alla raccolta e vendita dell’usato (vestiti, ferro, rame, etc.) mentre il 1,8% riesce ad avere delle occupazioni all’interno del campo (come mediatore culturale, sanitario, sociale) mentre il 0,9% è impegnato all’esterno del campo in lavori precari come parcheggiatore, lavavetri, vendita di fiori. Solo il 10,8% dei famigliari dei ragazzi e delle ragazze presenti nel CPA ha una occupazione lavorativa a dipendenze di terzi o autonoma, anche in linea con la tradizione romanì (ad esempio la compravendita di auto o le attività circensi). Il 18% dei ragazzi e delle ragazze non ha dato questa informazione o alcune volte si tratta di risposte evasive. Per quanto riguarda le madri dei minori, il 50% si dedica alla casa, alla famiglia e alla cura dei figli. Nella Tabella 1 si incrociano i dati relativi all’età delle madri con il numero dei figli (che sono i fratelli/le sorelle dei ragazzi e delle ragazze entrate nel CPA), in maniera da presentare un quadro della maternità della donna romanì che vive nei "campi a Roma, rapportando il numero di figli alla fascia di età registrata al " momento dell’ingresso nel centro del minore. " "

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" Tabella 1: Articolazione dei minori romanì entrati nel CPA nel 2012, a seconda della fascia di età della madre convivente per numero di figli (fratelli) (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta) "

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Dalla Tabella 1 è possibile evidenziare che le madri dei minori hanno mediamente 38 anni con 6 figli a carico che generalmente sono fratelli (di sangue) del minore che ha commesso il reato punibile con il CPA. Come è emerso nella precedente indagine13, nelle nuove generazioni la tradizione della famiglia numerosa, con molti figli, non è più condivisa, ma ancora è l’uomo che determina il numero di figli. Ciò che qui preme sottolineare è che, in una città come Roma, a determinare le scelte di filiazione interviene la mancanza di occasioni di lavoro per gli adulti, piuttosto che un fantomatico tratto culturale cui spesso si fa riferimento nel promuovere politiche repressive o, viceversa, di tipo assistenzialistico. Quanto emerso dalla analisi dei dati raccolti conferma ancora una volta quanto abbiamo osservato e quanto è stato già sottolineato da Spinelli (2012): il fulcro e l’unità di base di ciascuna comunità romanì è la famiglia patriarcale (famìlje), che non si riduce, a semplice nucleo coniugale (che spesso non esiste come cellula autonoma), ma si estende a tutti i consanguinei discendenti da un antenato comune. Appartenere a una famìlje significa riconoscersi in un complesso di valori etici vincolanti e implica il vivere la propria esistenza nel rispetto di essi. L’appartenenza è profondamente sentita e contribuisce al rafforzamento della romanipé e questo determina la volontaria esclusione da altre famìlje e da altre comunità che sono regolate da norme morali diverse. La famìlje è la sola realtà stabile al cui interno si sviluppano legami profondi che uniscono l’individuo al gruppo e viceversa. L’esistenza di una persona è garantita dall’attribuzione di un’identità sociale riconosciuta da tutti, identità segnata dal nome che gli viene dato e dalla famiglia a cui appartiene e, spesso, da un soprannome che lo fa facilmente identificare. È utile ricordare, anche se è già stato detto, che la famìlje è costituita, normalmente, da tre generazioni legate patri-linearmente: un capofamiglia o patriarca, i suoi figli maschi e i figli di questi. Essendo la famìlje virilocale, le figlie una volta sposate lasciano la famiglia d’origine per aggregarsi a quella del marito. La famìlje di un uomo rom italiano di antico insediamento, ad esempio, comprende in linea paterna tutti i fratelli, le sorelle nubili, gli zii patrilaterali e le zie nubili, i cugini paralleli patri-laterali, il nonno e la nonna14. Per tali motivi può accadere che le minori vengono affidate per lunghi periodi alle “zie”. Ai parenti acquisiti si deve rispetto e considerazione, ma a loro si chiede aiuto solo dopo averlo chiesto a quelli “di sangue”. Punto di forza della famìlje è la solidarietà, che si manifesta nella protezione morale e materiale, nel sostegno psicologico e nell’aiuto finanziario verso ciascun membro che vive così nella sicurezza di una piena integrazione familiare. La stessa solidarietà non si manifesta nei confronti di altre famìlje a meno che non ci siano eventi dolorosi: morte, malattie, incidenti etc. Le ragazze riferiscono che la famìlje si basa soprattutto sulla condivisione che assicura un accesso alle risorse economiche che non dipende dal grado di prestigio: le risorse economiche, il cibo, il vestiario e quant’altro vengono divisi tra tutti i membri della famìlje e passano frequentemente 13 Cfr., De Angelis B., op. cit., 2014. 14 È interessante sottolineare che i rom italiani (ma questo accade anche fra numerose altre comunità romanì) definiscono i figli di due fratelli “fratello cugino” o “sorella cugina” poiché discendenti da un antenato comune; mentre i cugini acquisiti sono chiamati semplicemente “cugini” (Spinelli 2012).

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da un individuo all’altro. La sicurezza del gruppo famigliare contribuisce a quella individuale e viceversa. Tutto questo rafforza la coesione dell’intero gruppo parentale: il bambino viene accudito, il malato assistito e curato, il vecchio ascoltato, i genitori rispettati. Tutto ciò in una situazione di normalità: nel degrado, purtroppo, accade di tutto, non intervengono più elementi etico-culturali, ma la realtà è influenzata dalle condizioni socio-economiche, dall’assistenzialismo, dalla discriminazione e dalla repressione vissuta dall’esterno. Ogni cosa quindi, gravita attorno alla coesione familiare che catalizza la vita e l’identità della ragazza romanì dal punto di vista sociale, economico, educativo, etico, linguistico e culturale. La coesione e la sicurezza psicologica propongono i membri della famiglia come solidali e compatti nei confronti del mondo esterno, così che i conflitti e i rapporti sociali sono vissuti non individualmente, ma collettivamente. Questo rafforza, ancora una volta, la sicurezza personale e l’autostima. Un errore o un atto onorevole è sempre percepito da un punto di vista familiare, cioè collettivamente, poiché ogni membro rappresenta un’intera famìlje. I vincoli del gruppo sono particolarmente sentiti in caso di lutto, di grave difficoltà economica e sociale e in caso di vendetta. Ciò però non sembra accadere per gli aspetti relativi all’ambito giudiziario e penale: gli adolescenti intervistati riferiscono che i famigliari non si preoccupano della loro presenza al CPA come fatto particolarmente disonorevole. Viene quindi da pensare che sia in atto un processo di adeguamento e di reificazione delle pratiche di vita quotidiana dei nuclei familiari romanì a Roma, in cui i ruoli maschili e quelli femminili sono collocati in ambiti diversi e ci si aspetta che ognuno svolga i propri compiti legati al proprio sesso. Gli uomini e le donne, nella società romanì, hanno caratteristiche, comportamenti e compiti sociali ben differenti come abbiamo già sottolineato: l’uomo domina la sfera pubblica e rappresenta la propria famìlje all’esterno, la donna si occupa della vita domestica e il suo prestigio è in relazione all’attività di moglie e di madre, mentre il resto conta poco. In questa dimensione si sostanzia la ricerca di ottimizzare i benefici che, ad esempio, può portare la vita collettiva in un campo:ottimizzazione dei benefici che, ad esempio, la vita collettiva in un campo possa portare: le politiche urbanistiche semisegregazionistiche fanno sì che la cultura rom si sia risistematizzata facendo cambiare ruoli e atteggiamenti sociali in tutti gli individui delle comunità romanì, così da imporre un’attività “lavorativa” (per lo più illegale) anche alle ragazze per le proprie famiglie costituite e per quelle estese, con cui coabitano. Un’ultima questione relativa alla condizione di vita familiare dei minori incontrati, che peraltro non è trattata neanche nel testo del noto studioso italiano rom Santino Spinelli, riguarda la definizione di adolescenza, tema specifico dell’universo rom. Ulderico Daniele (2013) al riguardo riferisce che questa fase della vita viene precisata e ricondotta da molta parte della letteratura sul tema, in un ampio dibattito circa l’identità e le caratteristiche specifiche della popolazione romanì. L’Autore avverte che su una definizione dell’età giovanile, ma soprattutto sull’esistenza di una fase specifica della vita di passaggio verso l’età adulta, esistono risposte radicalmente differenti. Certo è che nel corso dell’indagine è emerso chiaramente come le categorie dell’età anagrafica siano totalmente relative al contesto storico nel quale si identificano istituzioni, agenzie, spazi e tempi espresIII. Esiti di ricerca


samente dedicati a preparare il passaggio, poiché l’acquisizione di saperi e competenze può avvenire in forme diverse che vanno dalla vicinanza costante con il genitore dello stesso sesso a periodi di apprendistato (Daniele, 2013). Forse potrebbe aiutare a definire un quadro di riferimento nell’analisi dei dati sopra citati, quanto descritto anni fa da P. Donati e I. Colozzi (1997) i quali parlavano di “transizioni reversibili”, quella tendenza riscontrata sia nelle pratiche sociali sia negli orientamenti dichiarati, a definire mutamenti di stato non tanto come cambiamenti permanenti bensì come tentativi e scelte provvisorie, dalle quali è possibile tornare indietro. Appare quindi più che condivisibile la posizione di Daniele di una ipotesi secondo la quale all’interno dell’universo rom non si possa ritrovare uno status specifico dell’adolescenza, né come classe di età, né come fase della vita con caratteristiche specifiche. Bensì «nell’universo rom la transizione all’età adulta sarebbe compressa in un periodo estremamente breve della vita, elemento confermato dalla bassa età nuziale, mentre l’acquisizione delle competenze necessarie al ruolo adulto sarebbe garantita attraverso la precoce e costante partecipazione al modo degli adulti, ovvero senza alcuna esperienza esclusiva e caratterizzante di questa fase della vita». È quindi con il matrimonio, ma ancor di più con la nascita del primo figlio, che il ragazzo e la ragazza romanì acquisiscono lo status di adulti. Ma sarà ancora più interessante analizzare le storie degli adolescenti che rifiutano le usanze tradizionali, e le cui scelte di vita, rinforzate da una dimensione individuale, li mette in contrasto con le aspettattive sociali e il resto del gruppo. Ma non è la ricerca che qui si descrive. Piuttosto nella lettura delle parti che seguono, sia relative all’abitazione, sia al percorso scolastico, sia, infine, ai reati commessi, non si può non tenere in considerazione la tradizione culturale romanì e le dinamiche famigliari dei ragazzi intervistati che costituiscono lo spazio entro cui i giovani affrontano i punti centrali della loro transizione verso l’età adulta.

4. Le condizioni abitative

Nelle parti precedenti si è potuto ricordare che nella cultura romanì la famiglia allargata è il cardine della vita quotidiana e rappresenta anche il “luogo” in cui vivono i minori. Passando a considerare le abitazioni in cui vivono le famiglie, dall’approfondimento al CPA è emerso che le situazioni abitative in cui vivono i ragazzi e le ragazze romanì sul territorio romano sono diverse e molto varie: alcuni, come si constaterà dai dati riportati più avanti (Tabella 2) abitano nei “campi”, non tutti per una loro libera scelta familiare, altri vivono in case popolari o private, in baraccopoli o in insediamenti spontanei. Il “campo nomadi” è una struttura costruita e gestita dall’Ente locale, di solito organizzata in un gruppo (anche numeroso) di unità abitative. Come molti studiosi hanno messo in rilievo15, in Italia e a Roma soprattutto si è assistito a numerosi processi di «zingarizzazione» dei rom attraverso, appunto, la collocazioni in campi nomadi di persone che nomadi non sono mai state. Carlo Stasolla (2012) sostiene al ri15 Recentemente tra gli altri Giuffrè (2014), ma anche Piasere (2012a).

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guardo che i rom vengono da una parte marginalizzati in campi, per loro costruiti, e dall’altra per loro vengono avviati percorsi di “inclusione” attraverso progetti socio-educativi (dei quali parleremo oltre). Anche per Piasere «un progetto di integrazione tramite la costruzione di campi è una contraddizione in termini. Ma, vista l’architettura del mondo contemporaneo, esso è assolutamente logico: è quella relazione di eccezione che include qualcosa attraverso la sua esclusione»16. Qui però non si vuole affrontare la tematica dei “campi nomadi” se non trasversalmente come elemento caratterizzante la vita di molti minori romanì inseriti nel CPA. È infatti interessante dal punto di vista degli elementi esistenziali dei minori, distinguere i diversi siti abitativi in cui vivono per verificare l’influenza e l’incisività dell’ambiente sociale nella loro vita di adolescenti. Del resto Nazareno Guarnieri (2014) avverte che «solo meno del venti per cento (degli adolescenti) vive oggi nei campi nomadi e, quando le condizioni lo permettono, cerca di uscire da questa situazione di disagio e marginalità». Considerato quindi che non è possibile né corretto limitarsi ai campi, analizzando nel dettaglio, le baraccopoli (indicate più avanti in Tabella 2 come “aggregazioni spontanee”), siti spontanei in diverse parti della Città, rientrano tra le altre possibili situazioni abitative della popolazione romanì presente a Roma, e di solito costituiscono quella più frequentemente usata soprattutto per coloro che sono arrivati in Città da poco tempo. Mentre per i campi autorizzati e attrezzati è possibile trovare strutture, in genere container (unità abitativa) non molto grandi e uguali fra loro, nei siti spontanei la situazione è ben diversa. Sostengono al riguardo gli operatori sociali: «spesso la casa è di fatto un rifugio di legno, lamiera e cartone, “sufficiente” solo per ospitare durante la notte. Gli sgomberi di tali insediamenti sono ricorrenti, ma gli abitanti ricostruiscono i loro rifugi nell’arco di poco tempo, spesso a breve distanza dalla zona dell’abbattimento. A volte, in attesa del recupero di materiali più resistenti, per qualche periodo si riducono a vivere dentro tende»17. L’Ente locale distingue tra campi (o “villaggi”) istituzionali “attrezzati”, dotati degli standard abitativi previsti dalla normativa vigente (i moduli abitativi sono dotati di certificato di conformità alle regole europee EN 1647), campi “tollerati” o autorizzati (campi abusivi ma regolamentati dall’Ordinanza sindacale 80/1996), “camping privati” che sono aree appositamente attrezzate a campeggio (una delle quali autorizzata e sostenuta finanziariamente dal Comune), e insediamenti o aggregazioni “spontanee”, le baraccopoli di cui si è detto, e che (a differenza degli altri tre tipi, sono soggette a sgomberi) 18. Nella realtà romana, le unità abitative o container da cui sono formati i campi,

16 Piasere L., op. cit., 2012. 17 Informazioni raccolte nel corso del Convegno “Fuori Campo” organizzato dal Centro per la Giustizia Minorile della Regione Lazio, a Roma, il 18 dicembre 2013. 18 Le Autorità di Pubblica Sicurezza tra il mese di febbraio 2009 e il giugno del 2009 hanno rilevato oltre 80 insediamenti abusivi in cui si stimava la presenza di 2.900 persone, 14 campi tollerati con 2.736 persone presenti e 7 villaggi autorizzati in cui vivevamo 2.241 persone, quindi un totale di 7.877 persone circa negli oltre 100 insediamenti presenti a Roma. A distanza di più di 15 anni la situazione è cambiata soprattutto per gli insediamenti spontanei, ma non nel numero di campi autorizzati.

III. Esiti di ricerca


si configurano né come totalmente pubblici né come esclusivamente privati, ma come aree di soglia intermedie ancora domestiche (in quanto ogni famiglia ha la sua unità) ma aperte verso l’esterno (in quanto sono molto prossime tra loro e vicini sono di solito i membri della propria famiglia o del proprio clan), anche se non ancora pubbliche (Daniele, 2013). Per l’oggetto del presente approfondimento, come è stato già detto, questi spazi abitativi appaiono particolarmente rilevanti perché sono il luogo delle relazioni tra i nuclei familiari residenti nel campo. Un’altra forma di accoglienza abitativa, tipica non solo a Roma, è quella di centri di ospitalità per un gran numero di persone. L’emergenzialità è sempre apparsa come la formula con la quale è stata trattata a Roma tutta l’area della povertà abitativa, in particolare per gli immigrati ma ha anche riguardato i casi di sgombero della popolazione romanì (con cittadinanza italiana o europea). I Centri di accoglienza, strutture nate come misure temporanee di assistenza alloggiativa, nella pratica accolgono persone (donne con bambino, nuclei familiari, minori, o singoli) per periodi anche superiori a dieci mesi. In tali Centri, i rom sono, e sono stati, ospiti dell’Ente locale. " " " "

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Tabella 2: Articolazione della condizione abitativa dei minori romanì entrati nei CPA nel 2012 (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta)

La Tabella 2 fa emergere il composito quadro di precarietà abitativa in cui vivono gli adolescenti romanì studiati. Interessante notare il numero molto alto " di" adolescenti che vivono in un campo nomadi (istituzionale e attrezzato, o privato, o autorizzato): sono 135 sui 244 studiati, pari quindi a più del 55% del totale. Già questo primo elemento porterebbe ad affermare che il “campo nomadi” non contrasta il fenomeno del comportamento deviante e contro la Legge, anzi sembrerebbe essere un luogo che condiziona la vita dei ragazzi in maniera molto forte.

La Tabella 3, che segue, mostra in maniera evidente il tipo di socializzazione al reato (furto, rapina, produzione e traffico illecito, come recita l’art.73, di sostanze stupefacenti) indotta nei minori che vivono in situazioni precarie e in campi sosta. L’elemento che non può sfuggire è che i ragazzi e le ragazze inserite nei CPA, le cui famiglie sono presenti in città da anni (come evidenziato nella precedente anno III | n. 2 | 2015 BARBARA DE ANGELIS, PATRIZIA AIUTI, MARCO ACCORINTI


indagine19) e vivono in campi sosta poiché hanno scelto la stanzialità come stile di vita, sono una realtà verso la quale non è risolutivo un approccio che comprende solo azioni di polizia e di mera applicazione delle norme relative all’ese" cuzione giudiziaria. " "

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Tabella 3: Articolazione delle condizioni abitative dei minori romanì entrati nel CPA nell’anno 2012 per reato compiuto (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta)

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Come si avrà modo di dire nel paragrafo conclusivo, i dati mostrano come l’abitazione sia un problema di difficile gestione, che intreccia aspetti relativi a flussi migratori a possibili forme di convivenza sociale e di integrazione. La ricerca di interventi “possibili”, oltre che di prassi e strumenti operativi adeguati, costituisce un passaggio culturale e organizzativo necessario per i servizi educativi, sociali e anche giuridico-legali. L’attenzione deve però anche essere quella che non si venga a perpetuare una convinzione abbastanza generalizzata nella società " " maggioritaria secondo la quale la soluzione dei problemi di convivenza passi attraverso un processo di integrazione forzato (e condotto dai gagé), altrimenti il rischio è che si rinnovino modelli mentali tra i due gruppi, i rom assistiti e i gagé accudenti. Una prima considerazione riassuntiva degli aspetti socio-educativi, relativa ai nuclei familiari dei minori entrati nei CPA che vivono sotto la minaccia costante di sgomberi forzati, brutali e senza alcun risarcimento, sembra dunque non lasciare spiragli di soluzione positivaad una delle domande fondamentali della ricerca e cioè alla possibilità che un giovane romanì, consapevole che prima o poi dovrà lasciare la propria abitazione in maniera coercitiva, possa applicarsi nella attività scolastica. Ma come vedremo potrebbe risultare una conclusione affrettata.

5. I reati compiuti e le misure cautelari dei minori romanì

Alcuni, tra i quali Spinelli, ritengono che le comunità romanès come forma di difesa dalla società maggioritaria, si autoescludono dalla realtà circostante limitando, con essa, i rapporti al minimo indispensabile. Con questo atteggiamento, si prendono le distanze da tutto ciò che non è funzionale al rafforzamento della

19 De Angelis B., Aiuti P., Accorinti M., op. cit., 2014

III. Esiti di ricerca


propria identità. Il “silenzio” che la popolazione romanì ha saputo creare attorno alla propria romanipé, ha generato, nella società maggioritaria, un “vuoto”, un’assenza, un’invisibilità indispensabili per l’immutabilità e l’incorruttibilità della propria esistenza. In parte la stessa ricerca di “trasparenza” risulta espressa dalle minori romanì che vivono nei campi sosta e che sono state inserite nei CPA di Roma. Sempre dal punto di vista culturale, Piasere (2004) ricorda tutta una serie di stereotipi e pregiudizi che vanno dagli «zingari antropologicamente delinquenti» per razza (secondo le teorie del Lombroso), dall’intelligenza difettosa, dagli zingari inclini al furto che dovevano essere espulsi per la sicurezza sociale, e poi la «zingara rapitrice» pronta a rubare i bambini del gagé. Il filo conduttore di tutti gli stereotipi sembra essere stato quello di costruire una “identità zingara” da parte dei non rom (Giuffrè, 2014) che però ha avuto come effetto secondo Lagunas (2010) un processo di interiorizzazione secondo immagini essenzializzate e distorte di sé. L’effetto in termini di pregiudizi e stereotipi nella società maggioritaria viene amplificato, anche grazie ai media. Sara Miscioscia (2014) al riguardo ricorda che fin troppo spesso gli errori dei giornalisti che riferiscono fatti di cronaca, siano non tanto nella terminologia usata, quanto nell’evidenziare l’origine etnica dell’autore del reato: etnicizzando il crimine, il reato che viene commesso da uno diventa il reato di tutta la comunità. E allora, se si considerano i reati commessi, e per i quali è prevista la misura di custodia nel CPA, anche il furto sembra rientrare in una strategia di sopravvivenza adottata in particolare dalle ragazze. Si tratta cioè di un mezzo attraverso il quale le comunità romanès più emarginate e disadattate sembrano centrare due obiettivi: procacciarsi i mezzi per la sopravvivenza e, allo stesso tempo, colpire la società maggioritaria nei suoi beni materiali, sapendo che gli individui che la compongono vivono tutta la loro vita in funzione della “roba”, della proprietà. Il furto rappresenta, così, una forma di “guerriglia da perseguitato” e una forma di concreta rivalsa; diventa anche un mezzo per spezzare quella “sindrome di accerchiamento” di cui sembrano soffrire le comunità romanès emarginate. I romanì fra di loro non si derubano, quindi il furto non è un tratto culturale e se non ci si indigna all’interno del gruppo quando si deruba al di fuori, è perché questo evento viene vissuto come un “risarcimento”, perpetrato contro un “nemico” che li discrimina e li reprime20. Nella stessa linea anche il raggiro e l’abbindolamento rappresentano forme di rivalsa non tanto economica, ma soprattutto morale e psicologica, e il gagé raggirato è oggetto di scherno nella sferzante satira romanì. Tuttavia, nella lettura dei dati relativi ai motivi per i quali i ragazzi studiati sono stati inseriti nel CPA, cioè i reati da loro commessi, si cercherà di essere molto attenti a non legare, sempre come sostiene Miscioscia (2014), il reato al nome ma alla marginalità di rom e sinti, «una minoranza con più problemi di violazione dei diritti». Peraltro, anche Luca Cefisi (2011) ha cercato di ricollocare la questione della diffusione della criminalità tra questi giovani, all’interno di una

20 Non è un caso che un gagiò che diventa amico dei rom, viene rispettato più dei rom stessi.

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cornice più ampia e articolata che punta a sostituire l’idea di predestinazione sociale o culturale: anzitutto fa riferimento ai percorsi migratori dei genitori (o in alcuni casi dei nonni) dei ragazzi che li ha portati ad essere insediati a Roma in “campi nomadi”, contesti caratterizzati da marginalità e degrado. Proprio come vivevano quarant’anni prima i migranti italiani dal Sud che arrivavano a Roma e occupavano zone come il Mandrione (non molto lontana da un campo nomadi cittadino). Secondo l’Autore quindi i giovani rom figurano come le “vittime” di un processo storico e di un agire delle istituzioni che, relegandoli in strutture separate, ne ha favorito il loro avvicinamento ad attività criminali. Dall’altra parte però Cefisi delinea anche i “rischi dell’integrazione negativa”, quella che conduce verso i valori del guadagno facile e del consumo immediato, della ricchezza a ogni costo. Ciò si determina in particolare nel contatto con la società maggioritaria, dalla quale i giovani rom acquisiscono solo una parte di comportamenti e di simboli più chiaramente legati al benessere individuale e al potere. Depotenziandosi il riferimento alla tradizione romanì, alle pratiche, alle autorità tradizionali, si affermano nuovi valori e obiettivi, del piacere individuale e del benessere. Partendo da tali considerazioni, la ricerca svolta nel CPA ha mostrato che per quanto riguarda la tipologia di reati commessi dai minori, si tratta soprattutto di furti in appartamento e borseggi con valori che aumentano di anno in anno. Se si considera il numero dei minori romanì inseriti nella struttura nel 2011 il 96,7% di loro aveva un carico pendente di furto; nel 2012 la percentuale diminuiva di pochissimo (95,5%); e nel 2013 la quasi totalità (in valore 97,1%) degli ingressi era dovuta a ruberie. Inoltre, nel periodo 2011 - 2013 si è riscontrato che le misure cautelari quali “prescrizioni” e “permanenza in casa”, sono aumentate, così come sono diminuite le “custodie cautelari” (quasi dimezzate) e le “liberazioni” (Tabella 4). Il dato è dovuto all’offerta educativa a sostegno delle misure esterne concretizzata dagli educatori del CPA: l’impegno degli operatori del centro sembra infatti aver inciso sia sulle situazioni di maggiore complessità, sia su quelle di "reati più lievi o in assenza di recidiva. " "

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Tabella 4: Ingressi di minori in CPA a seconda delle misure cautelari, articolazione per genere, negli anni 2011, 2012 e 2013 (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta)

Nell’analisi dei dati successivi (Tabella 5), si deve tenere presente che la Legge prevede che fino al raggiungimento dei quattordici anni il minore non è mai imputabile, perché nei suoi confronti è prevista una presunzione assoluta di incapacità. L’articolo 97 del Codice penale stabilisce, " infatti, che «non è imputabile chi, nel mo" mento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni». NelIII. Esiti di ricerca


l’analizzare i dati, si deve tener presente che in fase di arresto non sempre è immediata la definizione dell’età del minore, in quanto spesso risulta sprovvisto di documenti. A tal fine, il Magistrato della Procura ordina l’analisi per l’individuazione della fascia di età21, indagine che fa emergere i casi di minori “non imputabili”. La Tabella 5 mostra in particolare i minori non imputabili, articolati per età e per genere, arrestati in fragranza di reato in correità con minori entrati in CPA, " non accompagnati in CPA perché i documenti forniti all’Autorità Giudiziaria dalla " potestà genitoriale accertano l’età anagrafica e mostrano la loro imputabilità22. " "

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Tabella 5: Articolazione per età dei minori non legalmente imputabili secondo il genere " entrati in CPA nell’anno 2012 (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta)

La lettura della Tabella 5 evidenzia che i minori arrestati che non hanno fatto ingresso al CPA sono femmine per il 77,2% e maschi per il 22,7%. Tale andamento rispecchia quello già osservato precedentemente, cioè la percentuale di popolazione femminile romanì è superiore a quella maschile. Se poi si passa a considerare la Tabella 6, quella in cui si mostra la correità dei minori nell’attuare i reati, si può constatare che i minori infra-quattordicenni, non compiono reati da soli, ma in concorso con minorenni, maggiorenni o entrambi. " " "

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Tabella 6: Articolazione dei minori entrati in CPA nell’anno 2012 a seconda dei reati compiti e loro correità (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta) 21 Qualora, anche dopo la perizia, permangano dubbi sulla minore età, questa è presunta con ogni effetto legale e giuridico. " 22 " Come è noto, con tale documentazione il Magistrato di turno della Procura presso il Tribunale per i Minorenni di Roma, ordina il loro rilascio.

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La familiarietà al reato è quindi una condizione determinante nella popolazione minorile romanì presente a Roma e intercettata dalla Giustizia minorile. Sembrerebbe che gli adolescenti rom siano protagonisti, nel bene e nel male, del distacco della tradizione, che li porta a sperimentare pratiche di interazione e socializzazione nuova (Daniele, 2013), ma soprattutto li espone alle influenze, tutte connotate negativamente, della società maggioritaria. Cefisi (2011) ci induce a pensare ai ragazzi indicati nella Tabella 6 come giovani al centro di complesse dinamiche fra identità tradizionali, segregazione e influenze della società ospitante, soggetti che sperimentano difficoltà e crisi di una situazione di contatto, i cui esiti appaino da una parte incerti e dall’altra pericolosi. Se infatti, alle informazioni contenute nella Tabella 6 se ne incrociano altre, in particolare quelle relative al titolo di studio, e quindi alla scolarizzazione, il quadro sembra tingersi di nero: la Tabella 7 mostra che più della metà dei minori " hanno nessun titolo, e più del 52% di loro, cioè di chi non ha titolo, é dedito non al furto e in particolare è femmina, " " "

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Tabella 7: Articolazione dei minori entrati in CPA nell’anno 2012 a seconda dei reati compiuti a seconda del titolo di studio (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta) "

Anche le informazioni relative ai successi scolastici, rilevate con il titolo di studio e incrociate con il tipo di reato commesso, e per il quale è prevista una misura di custodia e l’inserimento in CPA, fanno dunque concludere che la so" cializzazione alla devianza condotta nell’ambito familiare, induce i minori (e in " particolare le minori) romanì ad attuare strategie di esistenza fuori da ogni norma di regolarità.

6. La scolarizzazione e l’istruzione

Le stigmatizzazioni di familiarietà al reato e di una difficile possibilità di scolarizzazione sembrerebbero, dunque, prendere consistenza e comunque accompagnare i giovani romanì che si trovano nel CPA. D’altronde, se si considerano insieme le variabili relative alla tipologia di abitazione e i dati relativi alla scolarizzazione, emerge che anche a condizione abitativa, di cui si è già sottolineata tutta la precarietà, può avere una incidenza diretta nella frequenza scolastica e quindi sulle possibilità di successo di un percorso educativo formale. D’altronde

III. Esiti di ricerca


come si può vedere anche dalla Tabella 8 chi abita nelle unità abitative per il 59,3% non ha nessun titolo, e la percentuale aumenta di molto (è pari al 76,8%) per chi vive nei camper/roulotte: in sostanza non sembrerebbe essere una condizione sufficiente (anche se necessaria) la stabilità abitativa per il successo scolastico, tuttavia non si può negare che risiedere in un campo esercita una influenza nella socializzazione al reato e nell’abbandono scolastico. Come pure " emerge abbastanza chiaramente un problema di identità su una base economica " e una mancanza di abitudine allo studio. " "

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" Tabella 8: Articolazione del titolo di studio dei minori romanì entrati nei CPA nel 2012 a" seconda della propria condizione abitativa (dati in v.a.) (Fonte: ns. indagine diretta – Nota - Dato non rilevato per 4 minori)

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In effetti i dati della nostra rilevazione riportati in Tabella 8 evidenziano che, se i minori romanì vengono esclusi dalla possibilità di avere un luogo consono in cui vivere (studiare, crescere), è molto più facile il rischio di esporli alla perdita della capacità di mantenere se stessi nel confronto pubblico con la società autoctona. Così si creano le condizioni per indebolire le loro competenze ad agire anche in altri con" " testi, e il primo fra tutti nella scuola. La casa è «il “luogo da cui si guarda il mondo”, a partire dal quale si costruisce un rapporto possibile con “l’esterno” e ci si forma delle aspettative su di esso»23, ma anche questo come può avvenire se mettendo in relazione la tipologia di abitazione e i tipi di reato commesso si ricava che solo il 19% dei minori che delinquono vive in appartamento o comunità di accoglienza (o altro), mentre il resto ha una condizione abitativa precaria? I risultati della ricerca non negano l’importanza degli interventi di didattica interculturale e degli orientamenti pedagogici che ormai da più di un decennio si susseguono in ambito scolastico e nella formazione degli adulti stranieri. Si pensi per esempio ai successi, non solo qualitativi ma anche quantitativi, ottenuti in Val d’Aosta nella formazione interculturale dei docenti o quelli nell’apprendimento della lingua italiana degli immigrati, che sono messi in evidenza nel rapporto finale di ricerca su “Immigrazione: dinamiche di integrazione e percorsi di inserimento in Valle d’Aosta”, finanziato dall’IRRE Valle d’Aosta e dal Fondo Sociale Europeo (Bonapace e Fiorucci, 2007). Né è possibile non considerare o non apprezzare i dati e i risultati delle indagini che sottolineano come in Italia sia ormai diffuso e sostenuto a livello istituzionale e scolastico l ‘approccio interculturale specialmente quando, come sostiene Fio23 T. Vitale, L. Brembilla, “Dalla segregazione al diritto all’abitare”, in T. Vitale (a cura di), Politiche possibili. Abitare le città con i Rom e i Sinti, Roma, Carocci, 2009, pp. 163-173.

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rucci, si confrontano con gli esiti di ciò che avviene in Paesi del nord Europa, come Francia, Inghilterra e Germania, dove i modelli pedagogici di riferimento sono,ancora oggi, essenzialmente assimilazionisti, multiculturalisti o compensativi (Fiorucci, 2010). D’altronde lo testimoniano ampiamente le linee guida per l’accoglienza degli alunni stranieri pubblicate nel febbraio 2014 dal Miur. Come, particolarmente importanti sembrano i dati registrati dalla Provincia di Trento24 relativamente successo scolastico degli studenti stranieri; risultato tale che in pochi anni il numero di coloro che frequentano la scuola è cresciuto di 10,6 volte. Il regolamento provinciale ha addirittura introdotto la figura professionale del facilitatore linguistico (art. 7): ovvero di un docente interno o un esperto esterno cui si può ricorrere nel caso il personale scolastico sia privo delle competenze necessarie o indisponibile per rispondere ai bisogni formativi dello studente straniero. Concordiamo però totalmente con alcune affermazioni dello studioso Fiorucci quando sottolinea che sarebbe utile, per il futuro, prevedere l’istituzione di un Centro Regionale di Documentazione sull’Educazione Interculturale deputato alla raccolta, alla capitalizzazione e alla diffusione delle “buone prassi” realizzate nelle scuole, riteniamo però che questo dovrebbe realizzarsi per ogni regione o almeno avere un centro nazionale che svolga tale servizio. Infatti come afferma con un web-banner sul suo sito, Dario Janes: “Una buona prassi non è un gesto eroico ma un modus operandi funzionante disponibile a tutti”. Molto spesso, infatti, progetti di grande interesse che rimangono sconosciuti e a disposizione unicamente della scuola che li ha realizzati. Le migliori esperienze, invece, potrebbero essere socializzate ed eventualmente trasferite, con i necessari adattamenti di contesto, anche in altre situazioni territoriali. Auspichiamo, inoltre, come si affermava già nel 2008, che l’educazione interculturale non solo si traduca realmente nella revisione, nella rivisitazione e nella rifondazione dell’asse formativo della scuola che non deve mirare solo alla formazione del cittadino italiano, ma soprattutto alla formazione di un cittadino del mondo, che vive e agisce in un mondo interdipendente (Fiorucci, 2008); ma anche che si applichino i principi del progetto europeo sull’apprendimento della cittadinanza globale, e che soprattutto si attui quanto previsto dalle linee guida per l’educazione globale25, ovvero guardare al ruolo dell’educazione globale ed ai problemi attitudinali, muovendo dalla cultura dell’individualismo, spesso associata alla dominazione, verso una cultura di partenariato basata sul dialogo e la cooperazione.

24 Si sottolinea che fin dal 2006 la Provincia di Trento ha emanato Linee guida per le istituzioni scolastiche e formative che affermano in materia di integrazione che già anticipa i concetti di intenzionalità e inclusione. Nell’ambito di questo orizzonte la scuola si impegna a divenire laboratorio di incontro-confronto, ove i temi della costruzione delle identità vengono assunti al fine di consentire l’accesso alla nuova cittadinanza interculturale. Tale compito complesso e impegnativo implica un processo di co-costruzione e negoziazione delle differenze, ove tutti, autoctoni e immigrati, possano sentirsi soggetti attivi nella costruzione di una nuova dimensione culturale e sociale. In quest’ottica si inserisce anche un ripensamento critico dei saperi insegnati. Tale innovazione passa attraverso la ricerca scientifica e la revisione epistemologica delle discipline, in quanto i saperi, come costruzioni variabili, sono in relazione ai bisogni umani che li generano. 25 Cfr.http://for.indire.it/cittadinanzaecostituzione/offerta_formativa/public/documenti/03_EDUCAZIONEglobale_it.pdf

III. Esiti di ricerca


7. Conclusioni: superamento dell’emergenza sociale per i minori romanì a Roma

La programmazione assistenziale più recente avviata a Roma dall’Ente locale, risale all’aprile del 2008, epoca in cui l’Amministrazione pubblica rilevava che nessuno dei campi sosta autorizzati dall’Amministrazione stessa fosse a norma di legge per una serie di problematiche che andavano dalla mancanza di un valido documento di riconoscimento per la maggior parte dei dimoranti nelle strutture, alle precarie condizioni igienico-sanitarie, fino all’assenza di controllo interno ai campi, causato da un generale lassismo nelle condotte dei soggetti ospitati (impedendo in tal modo un’efficace attività di prevenzione della criminalità). In sostanza nel documento pubblico si evidenziava come proliferassero all’interno del tessuto cittadino vere e proprie “favelas” con un deficit strutturale sia di legalità (quindi di sicurezza) sia di politiche sociali (quindi di opportunità di integrazione sociale)26. Tali condizioni hanno continuato a contribuire, di fatto, all’emarginazione delle persone romanì nella Città. Nei documenti redatti si legge anche che le azioni programmate sono improntate alla valorizzazione della componente umana e alla promozione della dignità soggettiva delle persone romanì: «l’ambiente vincola, condiziona ed influisce sull’individuo: per questa ragione il miglioramento delle condizioni abitative della popolazione rom rappresenta il primo passo verso la tutela della dignità delle persone rom»27. Recentemente anche l’Associazione 21 luglio, che in occasione della Giornata Internazionale dei rom e dei sinti, l’8 aprile 2015 ha presentato il primo rapporto nazionale sulla condizione dei rom e dei sinti in Italia, relativo all’anno 201428, ha constatato che il livello di scolarizzazione dei minori rom dipende in gran parte delle condizioni abitative. Come ha messo in evidenza, l’isolamento nei campi, collocati al di fuori della rete dei trasporti, dei servizi e dei centri di aggregazione, impedisce ai bambini e agli adolescenti di recarsi a scuola autonomamente e li costringe a ricorrere a servizi di trasporto “speciali”, utilizzati esclusivamente dai minori rom. A tale proposito, il rapporto sulla SNIR (Strategia Nazionale d’Inclusione dei Rom) ha identificato l’inadeguatezza del livello medio di istruzione dei rom come una delle principali cause delle condizioni di vita precarie e delle difficoltà di accesso al mercato del lavoro; e, facendo riferimento all’approccio inclusivo del sistema scolastico italiano29, ha individuato nell’adozione di un approccio integrato

26 Il documento di riferimento è il cosiddetto “Piano Nomadi per far fronte all’emergenza Rom nel territorio del Comune di Roma”, deliberato con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 21 maggio 2008. 27 “Allegato al Piano Regolatore Sociale 2011-2015 - Interventi per le popolazioni Rom”, Roma, aprile 2011, pag. 12. 28 Associazione 21 luglio, Figli dei “campi”. Libro bianco sulla condizione dell’infanzia rom in emergenza abitativa, Roma, 2014. 29 Nel 2007 il MIUR ha emanato il documento La via italiana alla scuola e alla integrazione culturale degli studenti stranieri del 2007, che insieme alle nuove Linee guida per l’integrazione e l’accoglienza degli alunni stranieri (2014) definisce il quadro normativo e i principi generali dell’istru-

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alle politiche di inclusione sociale, la condizione ineliminabile per favorire il percorso scolastico dei minori rom. In Italia, infatti, a differenza di altri paesi, i minori rom non sono inseriti in classi separate né tanto meno in scuole speciali30, ed è lo stesso MIUR a sottolineare che “entro un quadro generalmente positivo31 si segnalano significative differenze nella qualità dell’educazione offerta ai bambini e ai ragazzi migranti anche a livello territoriale e di singola scuola”. Purtroppo, negli ultimi anni, le politiche di inclusione e di scolarizzazione dei rom attuate in Italia si sono caratterizzate per una scarsa efficacia32. Nella nostra esperienza di ricerca, attraverso la descrizione delle caratteristiche dei minori accolti nel CPA romano, si è addirittura dimostrato che, figli delle persone insediate nei campi sosta, sembrano replicare su di sé condizioni di irregolarità, devianza e disagio che li hanno portati ad essere intercettati dalla Giustizia minorile. In conclusione, ciò che è emerso dalla ricerca sul campo nel CPA e dall’analisi della letteratura corrente, è che in ogni progetto educativo non si può non chiamare in causa il concetto alla base delle relazioni sociali, ovvero l’interazione sociale all’interno della famiglia e dei contesti di vita. Lo studio dei dati raccolti ha indicato che le condizioni socio-economiche, la precarietà delle condizioni di vita sono strettamente correlate ai reati e alle condizioni per delinquere dei minori; variabili determinanti sembrano essere la numerosità dei nuclei familiari, ma anche la loro sopravvivenza dovuta alla solidarietà presente all’interno della famìlje. L’esperienza del CPA di Roma però ha altresì dimostrato che non può esistere una soluzione a senso unico: è illusorio, anche, per gli operatori della Giustizia Minorile pensare di gestire il fenomeno solamente attraverso un’ottica di ordine pubblico o di misura di detenzione e di controllo. Per di più se in alcuni casi si è verificato che un intervento “d’autorità” sembra aver prodotto risultati più efficaci rispetto ad altre tipologie di intervento, la linea indicata dal CPA è quella dell’intervento direttamente nelle situazioni di vita dei minori, quindi a livello di nucleo familiare e nel campo sosta. Inoltre come azione di prevenzione, la strategia necessaria è in particolare, con l’istituzione scolastica, che richiede coinvolgimento e che si accompagna spesso con gesti, azioni e relazioni informali che sostanziano il ruolo in forma più articolata e risultano fondamentali per la costruzione di una rete di relazioni sociali ed educative con i minori romanì. zione inclusiva dei bambini stranieri. A tale proposito si veda anche M. Rossi, R. De Angelis, Processi di inclusione dei Rom in Italia: Azioni e strategie nazionali per il diritto allo studio e per l’occupazione. Primo Rapporto di Ricerca, Roma Education Fund, Budapest, 2012. 30 Cfr., S.P. Sidoti, “Apprendisti scolari, alunni renitenti. Il caso speciale dei camminanti di Noto”, in Antropologia, Vol. 4, Meltemi 2004. 31 Negli ultimi dieci anni i minori stranieri nelle scuole sono passati da 100.000 a oltre 800.000 (Cfr. MIUR/Fondazione ISMU, Alunni con cittadinanza non italiana. Approfondimenti e analisi. Rapporto nazionale a.s. 2011/2012, Milano, 2013; MIUR, Linee guida per l’integrazione e l’accoglienza degli alunni stranieri, Roma, febbraio 2014). Per approfondimenti sull’evoluzione dell’approccio inclusivo della scuola italiana si rinvia a R. Bortone, Un futuro da scrivere. Percorsi europei di scolarizzazione dei rom, Roma, 2014. 32 Cfr., Istituto degli Innocenti, Rapporto di sintesi sugli esiti del monitoraggio del III Piano biennale nazionale di azioni e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva, adottato con il DPR del 21 gennaio 2011, PCM, Firenze, 2012; V. Ongini, “Alunni ‘nomadi’ nella scuola italiana. Una definizione imperfetta”, in MIUR/Fondazione ISMU, Alunni con cittadinanza, cit., 2013.

III. Esiti di ricerca


In un quadro in cui le garanzie istituzionali dei diritti (anche di protezione) fanno i conti con la frammentazione endemica del nostro sistema di welfare, si rischia di produrre risposte ora emergenziali, ma troppo spesso giudiziali, con una giustizia amministrativa, penale e civile che adempia funzioni interpretative di dettati legislativi inadeguati, e con l’effetto che il decisore politico non ha forza decisoria sua propria. Tenendo fermo questo, gli effetti-impatti della gestione di una emergenza sul governo locale delle politiche sociali non possono essere trascurati o sottesi, rischierebbero di continuare a far regredire il sociale nella posizione di “Cenerentola” del welfare (e anche dell’emergenza) e di costruire prassi e percorsi di inclusione per accumulazione e non per disegno strategico. Concordiamo però anche con quanto sostiene Nazzareno Guarnieri33 che dalla condizione di esclusione (e di discriminazione) la popolazione romanì non possa uscire né con l’assistenzialismo istituzionale, né con le politiche differenziate, né con quelle securitarie e di ghettizzazione, né con la denuncia, né con la ricerca autoreferenziale, ma solo se il popolo romanì riesca (unito o a livello di clan famigliare) a elaborare una nuova romanipé che non nega il passato (anche individuale) ma attiva un confronto propositivo che gli permetta una nuova dimensione di essere minoranza in Città.

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anno III | n. 2 | 2015 BARBARA DE ANGELIS, PATRIZIA AIUTI, MARCO ACCORINTI

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III. Esiti di ricerca


Un’acuta sensazione di pedagogia. Il tema dell’Altro nell’opera di Raymond Carver

Key-words: Carver, pedagogy, special pedagogy, otherness, alterity, transformative processes, personal identity.

IV. Altri temi

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno III | n. 2 | 2015

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

This article proposes a reinterpretation of Raymond Carver’s works through the lens of pedagogy, and of special pedagogy in particular. Through the analysis of a number of short stories written by the American author, the essay takes into consideration such pedagogical issues as the relationship with alterity and the ways in which otherness activates vital transformative processes regarding personal identity. The central idea is that, both in Carver’s works and in pedagogy, the encounter with the Other provokes a process of growth, change, evolution and acquisition of consciousness.

abstract

Federica Franceschelli (Università degli Studi Roma Tre / fed.franceschelli@gmail.com)

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Premessa

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Spetta a Fabio Bocci, nel suo articolo E se per caso un cieco, una sera … L’esperienza dell’altro oltre gli stereotipi (2005), poi sviluppato e perfezionato ne Lo sguardo speciale di Raymond Carver, narratore dell’alterità (2010), il merito di aver inaugurato una lettura pedagogica dell’opera di Carver. Uno sguardo, quello attraverso la lente della pedagogia, che non ha fino ad ora trovato seguito nel nostro Paese. Eppure è proprio l’Italia, come racconta Riccardo Durante, traduttore dell’opera omnia dell’autore americano, il luogo in cui Carver ha venduto più copie e avuto maggior successo, a partire dalla pubblicazione della raccolta di racconti Cattedrale nel 1984. Ad essere onesti, al di là dell’assenza di uno sguardo specificamente pedagogico, le stesse opere di saggistica su Carver nell’ambito della critica letteraria in Italia non sono molte. Ricordiamo tra esse il volume Il mestiere di scrivere (1997), curato da Riccardo Duranti e William L. Stull, che raccoglie brevi saggi, note e articoli che hanno come tema la letteratura e il suo insegnamento; la monografia di Marco Cassini dal titolo Marco Cassini racconta Raymond Carver (1997), l’Introduzione scritta da Gigliola Nocera al volume dei Meridiani Mondadori che raccoglie Tutti i racconti (2006), e articoli quali quelli di Vincenzo Cerami (Carver, il gran fabbro dei punti e delle virgole, 1997), Elena Loewenthal (Carver: il talento della perfezione, 2000), Luca Doninelli (Raymond Carver. Il mondo «pop» contro il nichilismo, 2005; E Carver senza Lish è molto più umano, 2009) e Stefania Vitulli (Tutta la verità su Raymond Carver bugia per bugia, 2011). Un interessante esito dell’attenzione trasversale suscitata da Carver è costituito poi dalla monografia Carver. Un’acuta sensazione di attesa (2001), in cui il teologo Antonio Spadaro analizza l’opera poetica dell’autore americano indagandone la dimensione della religiosità, dell’interiorità umana, dell’elevazione spirituale. Ma, come anticipato in apertura, tra le prospettive meno indagate troviamo indubbiamente quella di una lettura in chiave pedagogica dell’opera di Carver. E proprio in tale ambito intende collocarsi il presente contributo, che ha nel sopracitato articolo di Fabio Bocci (2010) il solo punto di riferimento in Italia. L’articolo accoglie un’analisi in chiave pedagogico-speciale del racconto Cattedrale e ne interpreta il tema portante, quello dell’incontro con l’altro da sé, dell’approccio alla differenza. Come rileva l’autore, infatti, Cattedrale è la storia di un uomo – voce narrante del racconto – apparentemente cinico e disincantato, che subisce la presenza di un cieco, amico della moglie, che ha deciso dopo una lunga corrispondenza di farle visita. Il narratore, fin dalle prime battute, ci informa che non vuole avere nulla a che fare con un cieco che gira per casa, avendo la cecità una rappresentazione piuttosto negativa. Eppure, nell’arco di una serata, l’uomo si troverà trasformato, compiendo una esperienza che lo porterà ad assumere un punto di vista che solo poche ore prima gli sarebbe parso inimmaginabile (Bocci, 2010, p. 11).

Muovendo da queste premesse, nel presente contributo prenderemo in considerazione alcuni racconti di Carver (tra cui, naturalmente, Cattedrale) in cui è centrale il rapporto con l’alterità, analizzando in ottica pedagogica le dinamiche

IV. Altri temi


sottese e i processi trasformativi che l’incontro con ciò che è altro da sé attiva nell’umanità messa in scena da Carver. Per quanto possa sembrare azzardato, rileggere Carver attraverso la lente della pedagogia ci appare non solo legittimo, ma in un certo senso necessario. Il luogo da cui Carver ci chiama – per riprendere il titolo di una sua raccolta di racconti – è esso stesso pedagogia, poiché ne condivide l’elemento centrale: l’essere umano. L’essere umano come punto di partenza e di arrivo di ogni azione e avvenimento, epicentro e polo organizzatore di ogni storia, di ogni racconto, di ogni poesia. Raymond Carver mette in scena l’umanità, illuminandone gli abissi ed esaltandone le vette, con rara semplicità, onestà e trasparenza. L’umanità di Carver non è statica, fossile, immobile – al contrario, essa è in continua evoluzione, subisce e determina allo stesso tempo un processo di crescita, una trasformazione profonda, una sorta di vera e propria metamorfosi. Carver racconta la vita e il suo modificarsi, posizionando il punto di vista dentro l’essere umano in evoluzione, dentro l’essere umano che vive, cresce, si trasforma, procede per tentativi ed errori, impara a guardarsi dentro, impara a guardare in modo autentico (dentro) le persone che si trova di fronte.

1. Chi è Carver

Raymond Carver nasce in Oregon, negli Stati Uniti, il 25 maggio 1938. Scrittore, poeta, saggista e docente di scrittura creativa nelle più prestigiose università americane, tra cui l’Iowa Writer’s Workshop, egli incarna e rappresenta l’America proletaria, delle periferie, delle roulotte, dei bungalow e delle case ipotecate, l’America degli emarginati e dei lavoratori che lottano ogni giorno per andare avanti, un paese di sopravvissuti e di storie (Wood, 1981), un’America fotografata nel difficile momento successivo al boom economico: anni difficili, in cui si lotta per non essere trascinati a fondo. È in quest’America sperduta e alla deriva, nei territori del grande outdoor (Scarpino, 2003), tra gli stati di Washington, Oregon e California, che Carver vive e fa vivere i protagonisti delle sue opere. La vita, per Carver, è una sorpresa dietro l’altra1. Anche parlare di vita sembra essere, in qualche modo, limitativo: è lui stesso ad affermare, in diverse interviste (Gentry, Stull, 1990), di aver vissuto due vite – la prima un abisso, la seconda un bagno di luce, una vera e propria rinascita. Nonostante la prematura morte a soli cinquant’anni a causa di un cancro ai polmoni, nel pieno del successo editoriale e di pubblico, Carver oscilla, nel corso della sua esistenza, tra la povertà più assoluta e il benessere economico, tra il disastro emotivo e un solidissimo equilibrio interiore, tra gli abissi dell’alcolismo e la ritrovata sobrietà, tra la catastrofe e la gloria. Il paese in cui nasce Carver, Clatskanie, cittadina dell’Oregon sulle rive del fiume Columbia, conta appena settecento abitanti. È un luogo che diventa presto centrale nella vita dello scrittore, affezionato al fiume e alla pesca come lo erano stati Melville e Hemingway al mare o Mark Twain al Mississippi. La presenza dell’acqua attraversa la sua esistenza e la sua poetica costituendo un rifugio, un 1

Dalla poesia Bahia, Brasile, in Blu Oltremare (Carver, 2003).

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luogo di elevazione spirituale, di crescita, di riflessione e realizzazione esistenziale. Il mondo che circonda Raymond Carver sembra governato dalla miseria e dallo squallore: i lavori brevi e precari della madre, l’alcolismo e i momenti di violenza del padre, gli spostamenti continui da una casa all’altra; e, ampliando lo sguardo e portandolo più lontano, la crisi del sogno americano, negli anni ’50 e ’60, che cede il posto al materialismo, alla guerra, alla corsa al benessere sfrenato, rendendo sempre più profondo e drammatico il divario fra le classi sociali. È su questo sfondo che Carver però scopre se stesso, rimanendo indissolubilmente legato a quei luoghi – i luoghi della sua infanzia e adolescenza, intorno ai fiumi Columbia e Yakima, Clatskanie, Prosser, Klickitat, Vantage. Quella che Carver individua come la sua “prima vita” è descritta in modo emblematico nella poesia La sala delle autopsie (The Autopsy Room) attraverso la nitida immagine di una pietra che gira e affila. Dopo un’infanzia difficile in una famiglia povera e per molti aspetti disfunzionale e un’adolescenza resa ancora più problematica dagli atti di bullismo da parte dei coetanei a causa del suo sovrappeso, a diciotto anni Raymond Carver si trova catapultato in un mondo fatto di responsabilità, obblighi e incombenze quando la fidanzata sedicenne, Maryann Burk, resta incinta della loro prima figlia, Christine LaRae. A solo un anno di distanza nasce il secondo figlio, Vance Lindsay. Questi sono gli anni più bui e difficili: feroci anni di paternità, come racconta lui stesso (Stull, Carroll, 1993), di giovinezza rubata, mai vissuta, di duro lavoro, di debiti, di accanito attaccamento all’alcol. In tutta questa oscurità Carver cerca in ogni modo di tenere accesa una luce, la sua luce, unico sogno e vero progetto di vita: scrivere poesie e racconti, narrare quel mondo, quelle vite, quelle storie, e, naturalmente, cercare di farsi pubblicare. Segue il corso di Scrittura Creativa tenuto da John Gardner al Chico State College, inizia a vedere pubblicati i propri racconti su riviste studentesche (ad esempio Selections) e non (Targets, Western Humanities Review), si iscrive all’Iowa Writer’s Workshop e nel 1967 il suo racconto Vuoi star zitta, per favore? (Will You Please Be Quiet, Please?) viene inserito nella raccolta The Best American Short Stories 1967 e, tre anni dopo, pubblicato in Short Stories from the Literary Magazines. Nel 1968 esce il primo libro, pubblicato dalla Kayak Press, una raccolta di poesie dal titolo Insonnia Invernale (Winter Insomnia). Per quanto riguarda la narrativa, invece, riveste importanza fondamentale la pubblicazione del suo racconto Vicini (Neighbors) sulla rivista Esquire, nel 1971, grazie al fiction editor Gordon Lish. L’anno successivo è segnato da un lato dalla vincita della borsa di studio Wallace Stegner Creative Writing Fellowhsip e, dall’altro, dal definitivo inabissamento del suo matrimonio. Carver inizia a insegnare Scrittura Creativa in diverse università americane, tra cui Berkeley, Santa Barbara, Vermont, Texas, Montana. L’esperienza dell’insegnamento è resa difficoltosa in parte dal suo carattere chiuso e riservato, ma soprattutto dall’abuso di alcol e dalla conseguente incapacità di mantenere la necessaria lucidità mentale che il ruolo gli richiede. L’anno di svolta è il 1977. Una volta toccato il fondo, non resta che risalire: l’unica cosa che tiene in vita Carver è, del resto, la scrittura. Ed egli non può permettere che l’alcol, che ha divorato e distrutto ogni cosa, gli porti via anche quella. È il 2 giugno di quell’anno che lo scrittore beve per l’ultima volta. Si chiude così, finalmente, un decennio di vertiginosi alti e bassi lavorativi, finanziari, fisici e psicologici, e si apre quella che lui stesso definisce una pacchia, la sua seconda vita. A segnare questo spartiacque è, accanto alla ritrovata sobrietà, l’incontro IV. Altri temi


con la poetessa Tess Gallagher, che diventerà la sua compagna di vita restando al suo fianco negli ultimi dieci anni. Quelli tra il 1977 e il 1988 sono anni di rivincite e soddisfazioni. Carver scrive con entusiasmo, ogni giorno, ricevendo per le sue raccolte di racconti e di poesie riconoscimenti importanti e grande attenzione di pubblico. A fermarlo, dopo una vita difficile fatta di cadute e risalite, è un cancro ai polmoni causato dalla pessima abitudine del fumo, da cui non si è mai riuscito a liberare. Nonostante la diagnosi infausta, Raymond Carver vive il tempo che gli resta con una grande serenità d’animo e fiducia nel futuro. Sta lavorando, infatti, alla raccolta Da dove sto chiamando (Where I’m Calling From) – comprendente trentasette racconti, di cui trenta vecchi e sette nuovi – una sorta di autoantologia voluta, scelta e curata da lui, che lo rappresenta a pieno incarnando la sua metamorfosi come scrittore. Nel corso degli ultimi mesi di vita, poi, Carver lavora anche a una raccolta di poesie dal titolo Il Nuovo Sentiero Per La Cascata (A New Path To The Waterfall). Nonostante la raccolta venga completata intorno alla metà di luglio del 1988 grazie all’aiuto e al supporto di Tess Gallagher, Carver non avrà purtroppo la possibilità di tenerla tra le mani. Muore infatti poche settimane dopo, all’alba del 2 agosto 1988. La morte di Raymond Carver acquista rapidamente una dimensione pubblica: escono necrologi sui principali quotidiani americani, si organizzano commemorazioni, Robert Altman gira il film Short Cuts (letteralmente scorciatoie, tradotto in italiano come America Oggi), che esce nel 1993 e vince, l’anno successivo, tre Independent Spirit Awards (miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura) ed escono postume le raccolte A New Path To The Waterfall (1989), No Heroics, Please: Uncollected Writings (1991), All Of Us (1996). La tomba di Carver, nel cimitero di Ocean View, è stata ed è tuttora meta di pellegrinaggi. Tess Gallagher vi ha posto una cassettina nera in cui è possibile lasciare poesie e messaggi. Non c’è lucchetto, così che tutti possano aprirla e leggere i pensieri scritti da altri per lui. Raymond Carver sarebbe felice di sapere che la sua poesia porta altra poesia, che attorno a lui si raccoglie ogni giorno tutto quell’amore. È quanto esprime, del resto, la poesia incisa sulla lapide, Ultimo frammento (Late Fragment): And did you get what you wanted from this life, even so? I did. And what did you want? To call myself beloved, to feel myself beloved on the earth.

E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Potermi dire amato, sentirmi amato sulla terra.

2. Di che cosa si parla? I temi di Carver

La sensazione che si ha leggendo un racconto, una poesia o un saggio di Raymond Carver è quella di trovarsi davanti a qualcosa di fortemente identificabile, chiaro, netto, e di essere attraversati da vibrazioni particolarissime, impossibili da ritrovare altrove. Questa dimensione rara e preziosa che Carver riesce a creare deriva senz’altro dalla sua maestria con le parole ma anche, a nostro avviso, da due aspetti che lo caratterizzano. Il primo è che Carver, scrivendo, risulta di una sem-

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plicità disarmante e, al tempo stesso, di assoluta complessità e profondità. Il secondo è che, parlando di cose e persone che in un certo senso non ci riguardano (che non abbiamo, cioè, mai conosciuto né conosceremo mai), Carver trasmette la forte sensazione di parlare, in qualche modo, di noi. E queste due caratteristiche sono dovute al fatto che la tematica madre in Carver è la vita, con le piccole e grandi crepe che la percorrono. Leggere Carver è davvero come «vedersi srotolare la vita davanti, in una forma così distillata, così intensa, così accuratamente scelta, così struggente nella sua urgenza da lasciarti, alla fine, stremato e senza fiato» (Ford, 1998). I temi che ne derivano, di conseguenza, sono gli stessi che pervadono la sua esistenza e quella di qualsiasi essere umano: lo smarrimento insito nell’essere al mondo, il bisogno di sentirsi amati, la capacità di comunicare, di essere sinceri, autentici, di fare fronte alle difficoltà aggrappandosi alle proprie risorse interne. In un’intervista rilasciata a Kasia Boddy, Carver compie una sorta di breve elenco, estremamente significativo, di quelle che definisce ossessioni a cui cerca di dare voce: «le relazioni tra uomini e donne, il perché spesso perdiamo le cose in cui investiamo di più, la cattiva gestione delle nostre risorse interne [… ], la sopravvivenza, quello che le persone possono fare per rialzarsi quando sono state abbattute» (Nesset, 1995, p. 27)2. Risulterà evidente da questa breve premessa che al centro della poesia e della prosa carveriana viene a trovarsi l’essere umano, con tutte le sue caratteristiche e contraddizioni, nella sua dimensione interna (le risorse, i sentimenti, i desideri, le paure, le sensazioni) ed esterna (le relazioni umane, il rapporto con l’altro, la comunicazione, il dialogo, l’utilizzo delle parole e dei silenzi). Ma l’aspetto fondamentale, a nostro avviso, è che l’essere umano in Carver non è mai rappresentato in modo statico, come esito di qualche processo di crescita pregresso. Al contrario, esso si trova a vivere, proprio in quel momento, nel breve spazio di una poesia o di un racconto, il processo, la crescita, la trasformazione, l’evoluzione. Ed è qui che si mostra forte il legame tra la poetica carveriana e la pedagogia: quest’ultima, infatti, altro non è che lo studio della formazione, dello sviluppo umano, del passaggio da un’epoca a un’altra e delle tracce che lasciamo nel mondo nel corso di questo passaggio, della crescita quotidiana a livello intra e interpersonale. La pedagogia studia la vita e le dinamiche attraverso cui gli esseri umani si muovono in essa ogni giorno – che cosa affrontano, come lo affrontano, come si trovano a modificarsi in relazione a ciò che affrontano. Suo oggetto privilegiato è, dunque, l’incontro con le piccole grandi cose che accadono intorno a noi e che determinano, inevitabilmente, una qualche metamorfosi. Per questo riteniamo che Carver sia un autore pedagogico: perché nessuno più di lui è stato in grado di mostrare cosa significhi registrare e incidere il flusso della vita e dello sviluppo umano in un modo così trasparente, puro, cristallino. L’interesse di Carver per l’umano e le dinamiche che lo caratterizzano emerge con forza dalle parole che egli utilizza, nell’introduzione al volume The Best American Short Stories 1986, nel definire il suo criterio-guida per quanto riguarda le storie: esse devono gettare «una luce su quanto ci rende e ci mantiene, spesso contro ogni probabilità, riconoscibilmente umani» (Carver, 1986); devono, sostanzialmente, fare luce su cosa rende ogni essere umano quello che è, influendo 2

Le traduzioni da Ford e Nesset sono dell’autrice del presente articolo.

IV. Altri temi


in modo profondo su come ci si costruisce ogni giorno, che cosa si diventa, che cosa si sceglie di essere. Al centro della riflessione pedagogica non possiamo non collocare l’essere umano, inteso come complesso snodo di processi, avvenimenti, azioni, punto di partenza e di arrivo di ogni percorso di crescita, di ogni sviluppo, l’uomo come centro pulsante di vita. Ebbene, nell’universo carveriano avviene lo stesso: è l’essere umano a stare al centro e a determinare (o subire, o reagire a) le dinamiche delle storie. I protagonisti delle storie rivestono in Carver un’importanza assoluta, costituiscono l’epicentro di tutti i racconti. E non sono, come anticipato poc’anzi, figure statiche, immobili, fissate in un preciso attimo sovrapponibile al precedente e al successivo. Gli uomini e le donne che Carver mette in scena sono, al contrario, fotografati nell’attimo del movimento, della trasformazione, dell’evoluzione, della comprensione di qualcosa destinata a modificare i loro schemi mentali e le loro esistenze. Il filo che unisce la poetica di Raymond Carver alla pedagogia è proprio questa funzione trasformativa insita nell’essere umano. In particolare, possiamo identificare tre nuclei centrali dell’opera e della poetica carveriana in relazione alla riflessione pedagogica: protagonisti, identità e processi trasformativi. Il primo aspetto su cui porre l’attenzione è che i protagonisti carveriani (la scelta di non utilizzare il termine personaggio è voluta e consapevole, poiché una delle caratteristiche primarie di Raymond Carver è proprio quella di riuscire a mettere in scena non personaggi ma persone) sono esseri in evoluzione, dinamici. Sono uomini e donne che “tirano a campare”, che vivono situazioni finanziarie, culturali e relazionali ai limiti del disastro, anzi, che appaiono destinati al disastro. Ma la loro predestinazione è in realtà solo apparente, e ciò che li muove è una sorta di condizionamento: le circostanze agiscono su di loro, ma non in modo totalizzante. Risultano, così, «esseri condizionati ma non predeterminati» (Freire, 2004, p. 18), incarnanti un’idea di formazione come opportunità di crescere, accrescersi, sviluppare (svilupparsi nelle) situazioni, migliorare (migliorarsi) e compiere una ricerca di senso e significato nel loro cammino di vita, nel loro percorso nel mondo. È proprio il loro essere e riconoscersi esseri incompiuti che permette loro di essere educabili (Freire, 2004). Ogni processo di crescita, di sviluppo, di miglioramento, risulta così legato a una qualche presa di coscienza connessa all’identità individuale e alle “falle” presenti in essa a diversi livelli, nella sua dimensione privata, intrapersonale, così come in quella sociale, interpersonale. La dimensione sociale dei rapporti umani costituisce un’altra delle tematiche fondamentali e imprescindibili all’interno dell’universo poetico e narrativo di Raymond Carver. I suoi protagonisti sono esseri sociali e socializzanti, che strutturano la propria identità personale nel complesso snodo di rapporti umani in cui si inseriscono e sono inseriti. Quello dei rapporti umani (siano essi fra coniugi, fra familiari, fra genitori e figli, fra amanti, fra amici, ma anche fra sconosciuti) è peraltro un tema caldo per la riflessione pedagogica, che vive delle e nelle relazioni. In Carver questo tema si fa indubbiamente portatore di processi (tras)formativi e di crescita, assumendo diverse declinazioni. Una delle principali è quella delle dinamiche familiari: l’idea di famiglia risulta essere per Carver – forse proprio a causa della fortissima disfunzionalità di quella in cui è cresciuto e di quella che ha formato successivamente – una sorta di perno, di ancora di salvezza, di nucleo di possibilità. Le famiglie, così come le coppie, sono spesso messe in scena da Carver in situazioni di difficoltà, ma non sono mai ineluttabilmente avviate a anno III | n. 2 | 2015

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un destino amaro: vi è sempre, in questi rapporti, un forte disagio da un lato – un senso di disturbo, di qualcosa che non va – e una luce dall’altro – un senso di tenerezza, di dolcezza, di possibilità, appunto. Un’apertura che finisce per prevalere tra le due polarità (Montuschi, 2006). Un altro elemento centrale nella poetica carveriana, infine, è indubbiamente quello della comunicazione che ha luogo all’interno di ogni relazione umana: è il dialogo – nel suo significato più ampio, fatto non solo di parola ma anche (e, in Carver, forse soprattutto) di silenzi –, sia esso funzionale o disfunzionale, a determinare mutamenti, indirizzare da una parte piuttosto che da un’altra, far prendere una piega specifica alle singole vicende o a intere e articolate relazioni umane. Su un piano pedagogico, esattamente come avviene in/per Carver, le parole e i silenzi sono il nucleo pulsante di ogni crescita e sviluppo umano, così come di ogni azione formativa ed educativa. È la loro interazione, la loro alternanza e integrazione costante in una dimensione comunicativa e relazionale, a costituire la grammatica dei rapporti umani (Demetrio, 2012; Montuschi, 2009).

3. Il tema del rapporto con l’altro e l’approccio alla differenza

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Come anticipato nella premessa, abbiamo scelto di porre il focus della nostra riflessione sui concetti di alterità e diversità e sul tema, centrale in Carver, del contatto con l’altro e dell’approccio alla differenza. Questa dimensione è, del resto, perfettamente in linea con quella capacità che è propria dell’autore di raccontare l’umanità – e l’entrare in contatto, in relazione, con ciò che è umano – in modo talvolta duro e aspro, ma proprio per questo reale e trasparente. L’incontro con l’Altro in Carver non è mai neutro, non lascia mai le cose come stanno. Determina sempre un mutamento, a un livello più o meno manifesto e più o meno conscio e consapevole. Il rapporto con l’Altro, come si è anticipato, è un fil rouge dell’opera carveriana che si declina in vari modi, in diversi aspetti, a più livelli. Uno di questi aspetti è proprio la presenza, sul palcoscenico narrativo carveriano, di un consistente numero di soggetti che potremmo definire in situazione di disabilità, o che in qualche modo – più spesso per aspetti fisici, visibilmente evidenti – si discostano da una norma. Un primo esempio è quello dell’«uomo senza un braccio che mangiava calamari fritti» (2011, p. 53) che Myers, il protagonista del racconto Lo scompartimento, vede a Venezia durante un viaggio in Europa. Altro esempio è quello di Sol, proprietario della casa affittata dal protagonista di Legna da ardere, e del suo «braccio destro più corto dell’altro, con la mano e le dita come avvizziti» (2000, p. 5) a causa di un’esplosione di detonatori che gli avevano reciso i nervi provocandogli un’atrofia del braccio e delle dita. Altri due esempi li troviamo nel racconto Penne: uno è quello del figlio della coppia protagonista, il quale presenta un disturbo caratteriale («la verità è che mio figlio ha come una vena di doppiezza nel suo carattere»; 2011, p. 27), l’altro è quello del figlio di Olla e Bud, la coppia presso cui i protagonisti sono in visita, descritto invece sul piano fisico come qualcosa di mostruoso. Ricordiamo poi Dummy, protagonista del racconto omonimo (Carver, 2014a), un soggetto sordo che sembra presentare un lieve ritardo mentale:

IV. Altri temi


Dummy era un ometto rugoso fra i cinquanta e i sessant’anni, calvo, tarchiato […]. Non ti staccava mai gli occhietti acquosi dalla bocca se gli stavi parlando, anche se a volte il suo sguardo vagava con familiarità su altre parti del viso o del corpo. Non so perché, ma secondo me non è che fosse veramente sordo. Perlomeno, non così sordo come voleva far credere. La cosa però non ha importanza: certo è che non parlava. Aveva lavorato come manovale nella stessa segheria di mio padre […] ed era lì che gli altri operai gli avevano affibiato quel nomignolo, “Dummy”, il muto, il tonto. […] Alcuni degli operai più giovani […] si divertivano a prenderlo in giro in maniera piuttosto pesante a mensa, ora per un motivo, ora per un altro, oppure gli raccontavano barzellette sporche per vedere come reagiva, solo perché sapevano che non le sopportava; oppure Carl Lowe, il segantino, qualche volta si sporgeva dall’impalcatura e gli toglieva il cappello di testa quando passava sotto, ma Dummy sembrava non prendersela troppo, come se si aspettasse di essere preso in giro o ci avesse fatto il callo (pp. 173-174).

Come risulta evidente dalla lettura della sua prosa, questo frequente riferimento a persone che presentano, a vari livelli, diverse differenze (Amartya Sen, 2006) non ha niente a che fare con il politically correct. Tutt’altro. Si potrebbe dire, in effetti, che Carver è quanto di più lontano ci sia da tale concetto. E sta proprio in questo la portata pedagogica della sua narrativa: spogliata da ogni forma di buonismo e da ogni rischio di ipocrisia, rimane in essa l’autenticità dell’incontro – spesso inizialmente, a un livello istintuale, brusco e disturbante – con ciò che diverso da noi. Gli elementi di differenza che Carver introduce, infatti, non sono mai di primo acchito qualcosa di neutro né tantomeno di gradevole. Al contrario, essi sono presentati chiaramente come elementi disturbanti, che entrano con irruenza a stravolgere situazioni di quiete, di tranquilla normalità. Ed è questo ad attivare quei processi tras-formativi di crescita e di cambiamento: il fatto che vi sia un pregiudizio, un giudizio derivante dall’impatto improvviso che una disabilità fisica o psichica ha inevitabilmente su un individuo. I soggetti che Carver sceglie di rappresentare come diversi, chiaramente distanti da una apparente – è bene sottolinearlo – normalità o ordine prestabilito, sembrano giungere all’improvviso a turbare una situazione di stasi, di quiete (anch’essa apparente, per lo più) e, con la loro presenza, con la loro funzione di specchio, determinano un mutamento a un livello intimo, profondo. Un racconto in cui il tema del rapporto con l’alterità è predominante è Grasso (Fat). La vicenda, narrata attraverso il racconto che fa una cameriera a una sua amica, riguarda l’incontro con una persona obesa: […] È un mercoledì sera un po’ fiacco, sul tardi, quando Herb fa accomodare un signore grasso a un tavolo del mio settore. Questo signore grasso è la persona più grassa che io abbia mai visto, anche se ha un aspetto curato ed è abbastanza ben vestito. Grosso lo è in tutto. Ma la cosa che ricordo meglio sono le dita. Sembrano tre volte più grandi del normale: lunghe, spesse, dita di panna (2014b, p. 65).

Man mano che procede nel racconto all’amica, la voce narrante sposta l’origine dei commenti dispregiativi da se stessa («Guarda Rita, ti dico che era grosso, ma grosso sul serio»; 2014b, p. 65) ai colleghi presenti («Margo mi fa: Chi è il tuo amico grassone? È veramente ciccione, eh?»; p. 66). Non solo: vi è un momento anno III | n. 2 | 2015

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della narrazione che è centrale e viene sottolineato dalla stessa voce narrante come meritevole di attenzione: «Ora sta’ a sentire, perché secondo me c’entra. Altroché se c’entra» (p. 66). Quello che succede, in breve, è questo: mentre l’avventore è intento a imburrare una fetta di pane, la cameriera, nel preparargli un’insalata al tavolo, per l’agitazione rovescia il suo bicchiere d’acqua. È molto dispiaciuta e si scusa più volte, ma lui non sembra minimamente infastidito: sorride, la rassicura, ripete che non c’è alcun problema. I due si mettono a conversare, la cameriera sembra finalmente rilassarsi. In questo punto del racconto non è ancora chiaro a cosa si riferisca quando dice all’amica che questa parte del racconto c’entra: sarà chiaro alla fine. Quello che è interessante è che a partire da questo momento non solo i commenti negativi sul cliente vengono fatti esclusivamente da altre persone, ma la cameriera interviene in sua difesa – «Dio mio, quanto è grasso!, dice Leander. Non è mica colpa sua, faccio io, perciò piantala» (p. 67), – o ancora: «[…] Rudy mi fa: Harriet dice che là fuori hai una specie di uomo cannone del circo. È vero? […] Senti, Rudy, per essere grasso è grasso, gli faccio, ma non è mica tutto lì» (p. 68). Al momento del dolce, quando la cameriera glielo serve e lui la ringrazia, racconta: «[…] non c’è di che, faccio io, ed è lì che provo come un senso di tenerezza» (p. 69). Lo spazio del racconto, che è quello di una (seppur lunga) cena, vede dunque un mutamento repentino per quel che riguarda i sentimenti della donna che si trova di fronte questo soggetto la cui presenza è, inizialmente, fortemente disturbante – tanto da agitarla facendole rovesciare l’acqua addosso al cliente – e finisce per diventare fonte di tenerezza, un sentimento (anche per la sua profondità) agli antipodi rispetto al lieve ribrezzo provato d’istinto in un primo momento. Questo incontro scuote la protagonista e mette radici nell’intimo, stimolando in lei una riflessione che tocca, tra l’altro, una delle tematiche più delicate riguardanti la disabilità, quella della paura di avere dei figli così: «Metto a bollire l’acqua per il tè e mi faccio una doccia. Mi passo una mano sulla pancia e mi chiedo che succederebbe se avessi dei figli e uno di loro finisse per essere come quello, grasso così» (p. 69). Ma è la conclusione del racconto a contenere il vero esito dell’incontro con quell’uomo, che emerge con forza proprio nella relazione con il compagno: Verso l’acqua nella teiera, sistemo le tazze, la zuccheriera, il cartone di panna e latte intero e porto il vassoio di là da Rudy. Come se ci stesse ancora pensando, Rudy mi fa: Una volta conoscevo un tizio grasso, anzi due, due tizi, ma grassi sul serio, quando ero piccolo. Dio mio, se erano grossi, due palloni. Non mi ricordo neanche come si chiamavano […]. Non mi viene niente da dire, perciò ci beviamo il tè e dopo un po’ mi alzo per andare a letto. Anche Rudy si alza, spegne la televisione, chiude a chiave la porta d’ingresso e si comincia a sbottonare. M’infilo a letto e mi tiro tutta dalla mia parte, sdraiata sulla pancia. Ma appena spegne la luce e si mette a letto, ecco che Rudy comincia a darsi da fare. Mi volto sulla schiena e cerco di rilassarmi un po’, anche se non ne ho proprio voglia. Ma ecco il punto. Quando mi monta sopra, all’improvviso mi sento grassa. Sono tremendamente grassa, grassa al punto che Rudy diventa minuscolo e non c’è quasi più. Bè, è proprio una storia buffa, mi fa Rita, ma mi rendo conto che non l’ha capita.

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La cosa mi deprime un po’. Ma non mi va di spiegargliela. Le ho già detto troppo. Lei rimane lì seduta, in attesa, si aggiusta i capelli con le dita tutte laccate. Ma che aspetta? Mi piacerebbe saperlo. Siamo ad agosto. La mia vita cambierà presto. Lo sento (pp. 69-70).

La vita di questa donna è destinata a cambiare perché in lei è avvenuto un mutamento profondo, una comprensione, una crescita – e il germe di questa crescita altro non è che quel grassone che fa irruzione nella sua vita donandole quella sensazione di tenerezza3 che le era evidentemente estranea prima di quel momento (come emerge in modo evidente dal rapporto con il compagno e dal suo violento approccio sessuale). La rivelazione di ciò che questa donna è e di come essa si sente passa attraverso l’incontro con questo soggetto, percepito inizialmente come mostruoso e indubbiamente come Altro da sé, ma che finisce per diventare qualcosa di talmente familiare da impossessarsi di ogni fibra del suo corpo, che diventa grasso, tremendamente grasso, fino a far sparire il compagno e annullare ogni altra cosa. La connessione profonda che si crea tra la voce narrante e il cliente grasso è espressa nel testo, tra l’altro, attraverso l’uso della prima persona plurale in riferimento a se stesso che l’uomo utilizza (penso proprio che siamo pronti a ordinare […]; non mangiamo mica sempre così […]; non è che le stiamo facendo fare tardi, eh? […]; ci creda o no, non abbiamo mica mangiato sempre così […], ecc.): oltre a far pensare che l’uomo, in effetti, stia mangiando per due il riferimento al “noi” suggerisce che in qualche modo quest’uomo si stia connettendo con la voce narrante, anche se lei è inizialmente ancora lontana dal rendersene conto. Questa connessione che si viene a creare, assumendo presto le sembianze di una vera e propria identificazione, quasi una possessione, prende le mosse soprattutto da una frase pronunciata dall’uomo: «non c’è scelta», dice, in riferimento al suo mangiare compulsivo, e in quel momento la donna – come se riuscisse improvvisamente a vedersi – comprende che lei ha una scelta, che può cambiare le cose, che è in potere di chiudere una relazione con un uomo che non è capace di tenerezza e che la sta, probabilmente, rendendo infelice. Un altro esempio è il racconto Mirino (Viewfinder; Carver, 2014a), il cui incipit è il seguente: Un uomo senza mani si è presentato alla porta per vendermi una foto di casa mia. A parte gli uncini cromati, era un cinquantenne come tanti. – Come le ha perdute le mani? – gli ho chiesto, dopo che m’aveva detto cosa voleva. – Quella è un’altra storia, – ha risposto. – Insomma, questa foto la vuole o no? […] – Avrei bisogno del bagno, – è stata la risposta dell’uomo senza mani. Volevo proprio vedere come avrebbe retto la tazzina da caffè con quegli

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È fondamentale evidenziare come qui il concetto di tenerezza non abbia nulla a che vedere con quella retorica della compassione individuata da Giuseppe Vadalà nell’ambito dello studio, nella prospettiva dei Disability Studies, delle rappresentazioni sociali della disabilità (Vadalà, 2013).

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uncini. Sapevo già come faceva a fare le foto. Aveva una grossa Polaroid nera. Era attaccata a delle cinghie di cuoio che gli giravano intorno alle spalle e alla schiena e gliele assicuravano al petto. Si piazzava sul marciapiedi davanti alla casa, l’inquadrava nel mirino, spingeva una levetta con uno dei suoi uncini e dopo un attimo saltava fuori la foto. L’avevo osservato dalla finestra (p. 10).

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Il difetto fisico dell’uomo è il primo elemento che compare nel racconto e viene ripreso più volte in seguito, con descrizioni dettagliate dei movimenti spesso resi difficoltosi dalla presenza degli uncini al posto delle mani. La comunicazione prende avvio dalla curiosità che la voce narrante esprime nei confronti della perdita delle mani dell’uomo che si trova di fronte e tutta l’attenzione è inizialmente rivolta, in modo anche piuttosto crudele, al vedere come l’uomo se la sarebbe cavata nel compiere un’impresa apparentemente semplice e alla portata di tutti qual è bere un caffè. Questa attenzione morbosa finisce però ben presto per esaurirsi, tanto che la storia di come l’uomo ha perduto le mani (che ci aspetteremmo, in seguito, di ascoltare) non verrà raccontata e, al contrario, sarà il protagonista ad aprirsi e a raccontare di come ha perduto la sua famiglia. Questo aspetto è interessante perché ci mostra come Carver abbia l’intuizione di spostare repentinamente il centro della tragedia dalla menomazione fisica dell’uomo alla vita, apparentemente normale, del padrone di casa: «Ho preso la foto che mi porgeva. Si vedeva un rettangolino di prato, il vialetto, la rimessa, gli scalini dell’ingresso, il bovindo e la finestra della cucina. Che ci facevo con la foto di questa tragedia?» (p. 11), si chiede, con lucidità disarmante, il protagonista. E anzi, proprio l’incontro con questo uomo senza mani e la sua macchina fotografica, con il quale si creano un’empatia e una connessione forti – al contrario di quanto si sarebbe potuto prevedere dal brusco incipit –, determina nel protagonista un rasserenamento profondo che fa sì che egli si senta pronto a voltare pagina, a prendere il volo, come emerge in modo cristallino dalle ultime righe del racconto: – Rifacciamolo, – gli ho gridato io. Ho preso un altro sasso. Ho sorriso. Mi sentivo come pronto a decollare. A volare. – Ora! – ho gridato (p. 14).

L’ultimo esempio, imprescindibile, è il racconto Cattedrale (Cathedral; Carver, 2011), uno dei più conosciuti e amati della prosa carveriana. L’analisi che proponiamo in questo contributo prende le mosse da quella compiuta da Bocci (2005; 2010), il quale, come anticipato nella premessa, per primo ha offerto una rilettura del racconto attraverso la lente della pedagogia speciale. L’intero racconto costituisce di per sé un vero e proprio processo trasformativo avviatosi a partire dall’incontro-scontro con un soggetto Altro, percepito dal protagonista come qualcuno (o forse sarebbe più indicato dire qualcosa, tanto questa alterità sembra essere costituita più dalla cecità quale condizione indesiderata che da una persona che presenta tale condizione) di estraneo e assolutamente sgradevole, disturbante, fastidioso. Questo fastidio è sottolineato dallo stesso Carver fin dalle prime battute del racconto: C’era questo cieco, un vecchio amico di mia moglie, che doveva arrivare per passare la notte da noi [...] Non è che fossi entusiasta di questa visita.

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Era un tizio che non conoscevo affatto. E il fatto che fosse cieco mi dava un po’ fastidio (p. 207).

L’utilizzo dell’espressione questo cieco come apertura è molto interessante, perché ci fa sperimentare immediatamente la sensazione di avere a che fare con qualcosa di conosciuto e sgradevole allo stesso tempo, una sensazione che sembra avvicinarsi molto al perturbante freudiano, qualcosa di insieme familiare ed estraneo (anche nel racconto di Carver, in effetti, viene rimarcato il fatto che questo cieco è qualcuno che il protagonista non conosce affatto) e che genera, in quanto tale, una sottile ma spiacevole angoscia. Come accennato poc’anzi, questa alterità cui il protagonista si trova suo malgrado a relazionarsi è incarnata dalla cecità in quanto condizione debilitante piuttosto che da un essere umano fatto di carne, ossa e sentimenti quale è Robert – questo è il suo nome. È quanto rileva anche Bocci quando scrive che l’ospite «è connotato come cieco e tanto basta per classificarlo nel casellario dell’umano e, soprattutto, per reificarlo, riducendolo alla mera espressione del suo deficit sensoriale» (Bocci, 2010, p. 12). Nel motivare al lettore il fastidio che gli deriva dall’arrivo del suo ospite, il narratore offre un’interessante sintesi di quello che, a suo avviso, è e determina l’essere non vedenti: L’idea che avevo della cecità me l’ero fatta al cinema. Nei film i ciechi si muovono lentamente e non ridono mai. A volte sono accompagnati dai cani-guida. Insomma, avere un cieco per casa non è che fosse proprio il primo dei miei pensieri. […] E poi mi sono ritrovato a riflettere sulla vita disgraziata che quella poveraccia doveva aver avuto. Immaginate un po’ una donna che non può mai riconoscersi negli occhi dell’uomo che ama. Una donna che deve vivere giorno dopo giorno senza mai ricevere il benché minimo complimento dal suo amato. Una donna il cui marito non sarebbe mai riuscito a leggere un’espressione sul suo volto, fosse di sofferenza o di gioia. Una che poteva truccarsi oppure no, tanto che differenza faceva per lui? Se voleva, poteva mettersi l’ombretto verde solo un occhio, infilarsi uno spillone nel naso, indossare pantaloni gialli e scarpe viola, tanto non importava. E poi, scivolare verso la morte, con la mano stretta in quella del cieco, gli occhi opachi di lui pieni di lacrime – me lo sto immaginando – e magari il suo ultimo pensiero era stato proprio questo: che il cieco non aveva mai saputo neanche che aspetto avesse […] che storia patetica (pp. 211-212).

Questo bisogno di riflettere sulle implicazioni psicologiche ed emotive associate alla cecità (è interessante anche come tale associazione non sia con l’essere ciechi, ma con l’avere a che fare con i ciechi e, in particolare, con la più intima delle relazioni umane), che peraltro rispecchia quell’immaginario comune secondo il quale una disabilità è sempre e imprescindibilmente legata a una condizione di sofferenza, infelicità e insoddisfazione, sembrerebbe essere «una reazione di difesa nei confronti di quel fenomeno conosciuto come dissonanza cognitiva, che spinge a cercare la consonanza mediante evitamenti e banalizzazioni o per mezzo di atteggiamenti conoscitivi mirati a rimarcare le differenze tra noi e gli altri (i diversi)» (Bocci, 2010, p. 12). Durante la cena, il narratore osserva ammirato Robert tagliare la carne, raccogliere il cibo con la forchetta, prendere su il bicchiere e via dicendo. Decisaanno III | n. 2 | 2015

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mente, quest’uomo rappresenta per lui un universo altro, totalmente sconosciuto e vagamente bizzarro, da cui continua a sentirsi in qualche modo attratto e repulso allo stesso tempo. La conversazione fatica a decollare, e le cose sembrano sul punto di precipitare quando la moglie, che fino a quel momento aveva rappresentato una sorta di ancora di salvezza per il narratore, sale a cambiarsi. Ma è proprio quando i due si trovano, poi, effettivamente da soli (la moglie torna, ma finisce presto per addormentarsi), che prende il via il processo trasformativo – di risalita, di elevazione, in un certo senso – per il narratore. Ogni cosa intorno a loro sembra sparire, fatta eccezione per la televisione, accesa su un canale che trasmette un documentario sulla Chiesa e sul Medioevo, mostrando immagini di cattedrali. Nella stanza non resta altro che questo: il narratore, il cieco e le cattedrali. Il narratore rimane in silenzio per un po’, poi si sente in dovere di dire qualcosa e comincia a descrivere a Robert ciò che appare sullo schermo. A un certo punto, all’improvviso, gli rivolge la domanda che crea una vera e propria connessione e rivela un interesse autentico e profondo: «M’è appena venuta in mente una cosa. Ma tu ce l’hai un’idea di che cos’è una cattedrale? Cioè, che aspetto ha? Capisci? Se qualcuno ti dice “cattedrale”, hai un’idea di che cosa sta parlando?» (p. 222). Dopo una breve risposta, di tipo piuttosto documentaristico, il cieco aggiunge: «Se vuoi sapere la verità, amico mio, questo è su per giù tutto ciò che so. Quello che ho appena detto. Quello che ho sentito dire da quel tizio. Ma magari me ne puoi descrivere una tu, eh? Vorrei tanto che lo facessi. Mi piacerebbe un sacco. Se proprio vuoi saperlo, un’idea precisa non ce l’ho mica» (p. 222). Così, il narratore tenta – con non poche difficoltà – di rispondere a parole alla richiesta di Robert di descrivergli una cattedrale. È chiaro a entrambi, però, che questo tentativo è destinato a fallire. L’ospite, a questo punto, ha un’idea: «Ehi, sta’ a sentire. Me lo fai un favore?», gli chiede, «perché non ti procuri un pezzo di cartoncino? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme» (p. 224). Il narratore, esausto ma pronto a fare questa cosa per il cieco, torna dopo poco con penna e cartoncino. Questa è la scena che ne segue: – Perfetto, – ha detto. – Perfetto, facciamola. Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia. – Coraggio, amico, disegna, – ha detto. – Disegna. Vedrai. Io ti vengo dietro. Andrà tutto bene. Fa’ come ti dico, comincia subito. Vedrai. Disegna, – ha detto il cieco. E così ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola che pareva una casa. Poteva essere la casa in cui abitavo. Poi ci ho messo sopra un tetto. Alle due estremità del tetto, ho disegnato delle guglie. Roba da matti. – Benone, – ha detto lui. – Magnifico. Vai benissimo, – ha detto. – Non avevi mai pensato che una cosa del genere ti potesse succedere, eh, amico? Be’, la vita è strana, sai. Lo sappiamo tutti. Continua pure. Non smettere. Ci ho messo dentro le finestre con gli archi. Ho disegnato archi rampanti. Grandi portali. Non riuscivo a smettere. I programmi della televisione erano finiti. Ho posato la penna e ho aperto e chiuso le dita. Il cieco continuava a tastare la carta. La sfiorava con la punta delle dita, passando sopra tutto quello che avevo disegnato, e annuiva. […]

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Ho ripreso la penna e lui ha trovato di nuovo la mia mano. Ho continuato ad aggiungere particolari. Non sono certo un artista. Ma ho continuato a disegnare lo stesso (p. 225).

Il narratore entra finalmente in contatto, autenticamente, con quel cieco che fino a quell’istante tanto aveva fatto per evitare – ed è un incontro di una profondità disarmante, un’esperienza totalizzante e piena, ricca, impossibile da interrompere (non riuscivo a smettere, afferma in modo limpido e autentico la voce narrante). È, questa, un’esperienza trasformativa di una portata tale da far sì che i due individui si fondano insieme, le loro dita procedano insieme, e ci sia un vero e proprio scambio. Un’esperienza che assegna un significato autentico e concreto all’idea che una persona non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri (Mounier, 1964). L’apice di tale processo trasformativo si ha nel frammento finale del racconto: […] E adesso chiudi gli occhi, – ha aggiunto […] L’ho fatto. Li ho chiusi proprio come ha detto lui. – Li hai chiusi? – ha chiesto. – Non imbrogliare. – Li ho chiusi, – ho risposto io. – Tienili così, – ha detto. Poi ha aggiunto: – Adesso non fermarti. Continua a disegnare. E così abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre la mano passava su tutta la carta, era una sensazione che non avevo mai provato prima in vita mia. Poi lui ha detto: – Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l’hai fatta, – ha detto. – Da’ un po’ un’occhiata. Che te ne pare? Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli chiusi ancora un po’. Mi pareva una cosa che dovevo fare. – Allora? – ha chiesto. – La stai guardando? Tenevo ancora gli occhi chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo la sensazione di non stare dentro a niente. – È proprio fantastica, – ho detto (p. 226).

Il finale di questo racconto ha una importantissima e forte portata formativa, pedagogica: come rileva Bocci, infatti, citando Spadaro e portando oltre le sue considerazioni, Carver, come suggerisce Spadaro, ci lascia in un’acuta sensazione d’attesa, pedagogicamente rilevante dal nostro punto di vista. Da un lato (quello narrativo), perché innesca quella sorta di orientamento aspettante, come lo definiva Dieuzeid, che genera interesse (verso gli altri, le cose, il mondo). Dall’altro (quello più propriamente educativo), in quanto l’educazione è, di per sé, sempre una/in attesa: è fiducia nel futuro, nel cambiamento, nel rapporto con l’altro, e così via. Non siamo, dunque, abbandonati nel vuoto, come non lo è il protagonista. Ci sentiamo, invece, immersi in una sorta di zona di sviluppo prossimale o potenziale, dove l’agire è volto alla crescita dell’altro e di noi stessi, dove il possibile risiede nell’atto del guardare ciò che si è per evolvere in ciò che si desidera essere/divenire. Ed è, questo, un atto di libertà (crescere è un atto di libertà) che si rende necessario, ineludibile, perché è supportato dall’amore per l’altro, per sé, per l’uomo in quanto tale, per la vita. In fin dei conti, e lo sappiamo bene,

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non può esserci crescita (quindi educazione) senza amore; e non c’è amore se non c’è attenzione, cura, rispetto alla/della crescita (quindi alla/della educazione) dell’altro (e di noi stessi). (Bocci, 2010, p. 14)

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Un’ultima lente che troviamo interessante utilizzare in questo contesto è l’analisi compiuta da Kirk Nesset, il quale sostiene vi sia, di base, una certa tendenza all’insularizzazione da parte dei personaggi carveriani, una sorta di «paranoica auto-segregazione individuale» (Nesset, 1995, p. 51) che sembra invece in qualche modo venire meno in Cattedrale, dove «assistiamo a rari istanti di autoaffrancamento, occasionali aperture luminose all’interno di vite chiuse su se stesse» (Nesset, 1995, p. 52). Egli rileva anche come nell’universo carveriano «la liberazione non è qualcosa che uno trova e si assicura per conto proprio», bensì «coinvolge necessariamente l’influenza o la guida di un altro essere umano. […] Questi interventi e influenze, di solito, sono messi in moto nelle storie attraverso comuni gesti del linguaggio […] dove identità disgiunte si mescolano e collaborano piuttosto che collidere» (Nesset, 1995, pp. 52-53)4. Questa immagine di identità disgiunte che si mescolano e collaborano piuttosto che collidere è particolarmente rintracciabile nei tre racconti analizzati in questo contributo, e in Cattedrale in modo particolare. Non a caso, Nesset evidenzia come Cattedrale tracci «l’emergere di una figura auto-isolata più drammaticamente che mai, un uomo che inizia ad avvertire la serietà della propria insularizzazione, […] soffocato dall’insicurezza e dal pregiudizio […] terribilmente scollegato dal suo mondo, da sua moglie e da se stesso» (Nesset, 1995, p. 66)5. La rilevazione da parte di Nesset del fatto che la liberazione di un uomo – intesa come il ritrovamento di uno spazio personale e di un autentico e sano contatto con se stesso e con gli altri, un abbandono della condizione di insularizzazione a favore di un’apertura all’Altro – passi necessariamente, in Carver, attraverso l’influenza o la guida di un altro essere umano apre una riflessione estremamente interessante sul ruolo di Robert in Cattedrale, anche e soprattutto in relazione alla sua disabilità: È appropriato che Robert, l’invasore della casa, sia isolato soltanto fisicamente, lasciato nel buio solo dal suo handicap. […] Robert è personalità scoppiettante allo stato puro, un leader nato, un uomo capace di tirare fuori il padrone di casa dal guscio. […] Quando l’uomo che ospita Robert fallisce nel descrivere ciò che vede in televisione, Robert ascolta, e avendo “ascoltato” il fallimento, prende il controllo della situazione. […] L’iniziativa di Robert in questo punto, e il rimedio che adotta momentaneamente, suggerisce che gli handicap verbali – per non parlare i problemi maggiori di cui essi sono sintomo – sono simili alla cecità, debilitazioni provenienti dalla cecità volontaria di una svista, di una scarsa introspezione, dell’ignoranza. […] Un vero caso di cieco che guida il cieco, disegnare la cattedrale è un segno di fratellanza che promuove il contatto umano e spinge finalmente il narratore fuori dal suo mondo auto-referenziale (Nesset, 1995, pp. 67-68)6. 4 5 6

Le traduzioni da Ford e Nesset sono dell'autrice del presente articolo. Idem. Idem.

IV. Altri temi


Una breve riflessione conclusiva: è opportuno prestare attenzione a come il lessico utilizzato da Nesset (Insularity and Self-enlargement) richiami da un lato l’idea di Enlargement of Self di Bertrand Russell e, dall’altro lato, quella del concetto di deinsularizzazione di Charles Gardou (2006), il quale fa riferimento alla conquista di spazi e all’uscita da una condizione di isolamento, di separazione, di solitudine da parte delle persone con disabilità. È significativo osservare come in Carver questa spinta alla deinsularizzazione riguardi in realtà ogni essere umano in quanto tale e che, all’interno di questa umanità, siano proprio i soggetti con disabilità, vulnerabilità o handicap a costituire il nucleo propulsivo di tale processo, a determinare un’autentica presa di coscienza e consapevolezza dell’Altro, dei diversi modi di essere e di sentire e, conseguentemente, di se stessi. È proprio la scoperta di qualcuno o qualcosa di diverso, differente, di altro a permettere all’essere umano di scavarsi dentro, di guardarsi autenticamente, di spogliarsi dei preconcetti e delle sovrastrutture; di crescere, quindi, aprendosi all’alterità non attraverso l’accettazione, ma attraverso una profonda, autentica accoglienza.

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IV. Altri temi


1. Recensione

Luigi d’Alonzo, Fabio Bocci, Stefania Pinnelli, Didattica speciale per l’inclusione, Brescia, Editrice la Scuola, 2015. di Angelo Lascioli, Università degli Studi di Verona

Gli autori del saggio, si legge nell’introduzione, “desiderano mettere in evidenza la necessità che la didattica speciale diventi sempre più patrimonio comune degli insegnanti, degli educatori e dei formatori” (p. 7). L’architettura del lavoro è costruita attraverso tre differenti contributi: il primo, di Luigi d’Alonzo, attraverso un approfondimento delle problematiche della didattica speciale (pp. 11-83); il secondo, di Fabio Bocci, attraverso l’analisi del passaggio dalla didattica speciale per l’inclusione alla didattica inclusiva (pp. 87-166); il terzo, di Stefania Pinnelli, attraverso l’analisi del ruolo delle tecnologie didattiche e di apprendimento nella scuola e per la didattica speciale (pp. 169-244). Luigi d’Alonzo, nella sua parte, tocca le corde fondamentali da cui ha avuto origine quello straordinario processo di trasformazione del sistema scolastico italiano che lo ha portato, negli anni ’70 del ventesimo secolo, a intraprendere la famosa “via italiana all’integrazione”. Un riferimento d’obbligo in quanto, come scrive d’Alonzo, “la prospettiva inclusiva di cui stiamo parlando è l’esito logico di un cammino iniziato negli anni ‘70” (p. 14). L’incontro tra scuola e alunni con deficit ha generato cambiamenti a vari livelli, anche nel modo con cui gli insegnanti sono stati chiamati a pensare la loro didattica, in quanto si è posta la necessità di pensare l’azione insegnativa anche in una prospettiva didattica speciale. Ciò risulta particolarmente utile oggi dal momento che, come osserva d’Alonzo, le problematiche degli alunni sono aumentate e le classi sono sempre più difficili da gestire. La sfida inclusiva impone cambiamenti che chiamano in causa non solo gli insegnanti, ma anche i dirigenti e tutto il personale scolastico, perché l’inclusione richiede di pensare alla scuola come opportunità per tutti gli studenti. Per gli insegnanti tale sfida consiste nel riuscire a “vivere il concetto di inclusione come asse portante del proprio agire educativo” (p. 18). L’autore, facendo riferimento ad una serie puntuale di dati statistici, evidenzia che nella scuola italiana è palese un certo malessere che colpisce in modo particolare la scuola secondaria. Il livello di difficoltà si è particolarmente palesato a seguito delle normative L. 170/2010 e D.M. 27/12/2015, la cui applicazione ha palesato il dato di fatto che nelle classi sono presenti differenti tipologie di Bisogni Educativi Speciali (BES). L’autore osserva che l’effetto di tali normative, seppur importante, ha comportato non poche difficoltà al sistema di istruzione italiano: “La nave scuola italiana è stata investita dall’onda dei Bisogni educativi speciali finendo per traballare non poco” (p. 34). Per rispondere alle emergenze del presente, continua d’Alonzo, è necessario che la scuola e gli insegnanti sappiano trarre il massimo vantaggio dalle esperienze che derivano dalla didattica speciale, in particolare dalle strategie didattiche pensate per sviluppare le risorse degli studenti. La didattica speciale può dare una mano alla scuola inclusiva avendo messo in primo piano il “concetto di gestione della classe” (p. 37). Le complessità che caratterizzano ordinariamenItalian Journal of Special Education for Inclusion

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te le classi richiedono agli insegnanti specifiche competenze di gestione del gruppo classe. La sfida inclusiva richiede specifiche competenze relazionali perché “se l’insegnante non è in grado di agganciare l’educando su questo piano non riuscirà mai a svolgere bene il suo compito” (p. 41). I pilastri fondamentali (di tipo concettuale) su cui fondare una corretta gestione della classe, continua d’Alonzo, sono i seguenti: gestire la classe non è mantenere la disciplina, ma essere presenti in modo efficace; utilizzare il controllo prossimale; il ruolo dell’effetto onda; la comunicazione deve essere chiara e precisa; la dominanza; la comunicazione non verbale; utilizzo sapiente della propria voce; valorizzare gli allievi; slancio e scorrevolezza; impostare più attività contemporaneamente; impostare una continua diversificazione nella proposta didattica (pp. 45-50). Lo sbocco naturale di una gestione della classe efficace, volta all’inclusione, è l’Universal Design for Learning in quanto “pianificazione didattica indirizzata a risolvere le problematiche speciali presenti in classe ma, nello stesso tempo, utile per tutti i membri della classe” (p. 51). Il saggio di d’Alonzo s’inoltra nelle caratteristiche dell’Universal Design for Learning , offrendo al lettore spunti di riflessione e linee d’azione assai utili per la didattica. Uno spazio particolare è dedicato alla didattica speciale inclusiva per gli allievi gravi. Vengono qui messi in luce i benefici dell’inclusione scolastica anche per chi vive particolari forme di disabilità, nei casi in cui gli apprendimenti scolastici risultano difficili da realizzare. La consapevolezza che i contenuti scolastici rappresentano solo un aspetto del processo di sviluppo che investe la persona nel contesto scolastico, induce a guardare alla presenza degli alunni con disabilità grave nella scuola come occasione per promuovere in loro capacità e competenze che non necessariamente coincidono con obiettivi disciplinari. Si pensi, ad esempio, all’importanza dei percorsi di consapevolezza indirizzati all’autodeterminazione e alle diverse forme di autonomia. Risulta in questi casi necessaria all’azione didattica un ulteriore elemento di qualità, questa volta non più riconducibile agli strumenti di una didattica speciale, ma alla forma mentis degli insegnanti. Infatti, solo una mentalità aperta alla collaborazione e al gioco di squadra può generare quella “unitarietà di intenti all’interno di un’equipe di docenti” (p. 78) che consente la gestione efficace della classe in cui è inserito l’alunno/a con grave disabilità.

Fabio Bocci fa precedere il suo contributo da una premessa che serve per far guadagnare al lettore una prospettiva ulteriore rispetto al contributo precedente. Secondo l’autore “parlare di didattica speciale oggi significa parlare di didattica inclusiva” (p. 87). Tale precisazione, chiarisce l’autore, comporta uno “spostamento semantico” che “non è neutro”. Ciò che viene chiarito al lettore è che didattica speciale e didattica inclusiva non sono sovrapponibili, così come non sono sovrapponibili i concetti di integrazione e inclusione. Ciò perché risultano differenti i paradigmi scientifici di riferimento. Qualora non si distinguesse tra i significati di didattica speciale e di didattica inclusiva, si correrebbe il rischio di estendere l’applicazione dell’epistemologia medico-individuale al significato di Bisogno educativo speciale, finendo per considerare coloro che hanno un BES come portatori di diversità che vanno sanate. Infatti, la logica sottesa all’epistemologia medico-individuale tende ad inquadrare il concetto di BES come problema del singolo, causato da deficit/disturbi/difficoltà individuali che rendono speciali – rispetto alla normalità di coloro che tali problemi non li hanno – i loro Recensioni

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bisogni. Avviene così che “il soggetto che sfugge alla norma viene trattato come caso” (p. 89). Questo modo di concepire il significato di bisogno educativo speciale, se erroneamente esteso al significato di didattica inclusiva, rischia di far pensare alla didattica inclusiva come azione rivolta (e riservata) all’inclusione di coloro che a causa dei loro BES rischiano di essere esclusi, ossia come tecnica o pratica specialistica rivolta alla gestione dei loro speciali bisogni. La didattica inclusiva si fonda su un paradigma scientifico differente rispetto all’impianto epistemologico medico-individuale. L’autore fa riferimento al paradigma biopsicosociale (ICF, 2001), in quanto pone il focus attentivo non più sui problemi dell’individuo in quanto tale ma sulle dinamiche di funzionamento dell’individuo in un determinato contesto. La didattica inclusiva, infatti, è sapere esperto di contesti, di mediazioni e d’interazioni. La logica che anima l’inclusione è quella che guarda alle normali differenze che caratterizzano le classi con l’obiettivo di valorizzarne il potenziale educativo e di sviluppo. La didattica inclusiva non è pensata per rispondere a problemi individuali espressione di inconciliabili diversità (biologiche, psicologiche o sociali), magari attraverso “il ricorso a tecniche o a strumenti ideati ad hoc” (p. 91), in quanto azione didattica pensata per valorizzare le differenze in un’ottica d’innovazione e cambiamento. Ciò richiede di operare sul sistema di aspettative dei docenti, sulla differenziazione delle attività e sulle modalità di gestione e organizzazione dei contesti di apprendimento, con l’obiettivo di innalzare – a favore di tutti gli alunni – il livello di qualità dell’offerta formativa. Ma come trasformare in senso inclusivo la didattica ordinaria? Fabio Bocci dedica gran parte del suo contributo per rispondere a questa domanda. Il problema consiste inizialmente nel distinguere tra “un approccio che vede-pensa l’inclusione come un’azione finalizzata a includere qualcuno (così come nel modello dell’integrazione) e l’inclusione come qualcosa che riguarda tutti” (p. 97). Per allestire l’ambiente inclusivo è necessario far guadagnare al sistema questa prospettiva. Ciò comporta un distanziamento epistemologico anche dai criteri di insegnamento-apprendimento tipici della didattica tradizionale, in base ai quali “le caratteristiche del compito sono conformi per tutti e, soprattutto, questo è centrato sull’insegnamento e non sull’apprendimento” (pp. 98-99). La metodologia a cui attingere per la didattica inclusiva è quella costruttivistica perché l’inclusione è un’impresa collettiva, mossa da ideali di equità e giustizia, di lotta alla discriminazione e di promozione della partecipazione sociale. Nell’agire didattico dell’insegnante riuscire a guadagnare una prospettiva inclusiva significa rivedere la propria personale postura epistemologica verso l’insegnamento e le finalità della scuola. Non sono le tecniche che fanno l’inclusione ma le persone e i contesti quando le barriere – personali, gestionali e organizzative – alla partecipazione e agli apprendimenti sono fatti oggetto di una seria revisione e trasformazione in senso inclusivo. In quest’ottica di revisione e trasformazione assumono particolare valore alcune strategie didattiche, in particolare quelle che si fondano su strategie cooperative e metacognitive. Fabio Bocci dedica ampio spazio alla presentazione degli studi e delle ricerche che fanno da sfondo alla nascita e allo sviluppo dell’apprendimento cooperativo e alla didattica metacognitiva. Non mancano indicazioni di operatività per gli insegnanti. Dopo averne ampiamente mostrato i possibili vantaggi per la didattica, chiude il suo contributo con la speranza che la scuola e gli insegnanti non guardino a queste “nuove e vecchie modalità di concepire la pratica didattica come se fossero delle mode”

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(p. 160). Se ciò avvenisse verrebbero meno anche gli ideali che ne hanno animato la ripresa e lo sviluppo.

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Stefania Pinnelli chiude il saggio con un contributo volto a collocare in una posizione di senso rispetto alla didattica speciale e inclusiva l’uso delle tecnologie didattiche. Risulta di pregio l’excursus storico/concettuale sulle tappe evolutive delle tecnologie didattiche. L’autrice, inoltre, si sofferma sull’analisi dei limiti/opportunità nell’uso di ICT e Media Education negli apprendimenti, ponendo in evidenza che il loro uso non produce automaticamente apprendimento, perché sono in realtà i processi, cioè i modi di utilizzarli, “a determinare i risultati dell’apprendimento” (p. 174). Per l’autrice, la sfida didattica rappresentata dalle ICT non consiste nel diffonderne l’uso o la conoscenza, perché il “vero compito pedagogico ed emergenza formativa di cui il docente deve farsi carico, è l’educazione al pensiero critico e al linguaggio formale” (p. 175). Durante l’esposizione l’autrice rinvia frequentemente il lettore a schede di approfondimento che risultano particolarmente utili per fare il punto su alcune questioni che vengono toccate nel testo. Ciò che emerge complessivamente è che l’uso per l’azione didattica e educativa delle tecnologie didattiche non è privo di importanti implicazioni riguardanti gli apprendimenti. Si pensi, ad esempio, all’impatto sull’architettura dei processi cognitivi e, quindi, sui tempi e i modi dell’attenzione e sulle modalità di esplorazione della realtà. Tutto ciò risulta di primaria importanza rispetto alla scelta degli strumenti da utilizzare per la didattica, in particolare quando si tratta di “scegliere o organizzare dei percorsi didattici attraverso l’uso di programmi software o siti web” (p. 179). Ciò induce l’autrice a indicare alcuni criteri di scelta del software didattico, ispirate ad alcune delle più importanti teorie sul funzionamento cognitivo. Coerentemente a tale impostazione, lo scopo della progettazione dell’apprendimento consiste nel “ridurre il carico cognitivo estraneo per liberare la memoria di lavoro e gestire contenuti anche molto complessi” (p. 183). Il lavoro della Pinnelli risulta di utilità anche per orientarsi nella scelta del software didattico. Oltre a descriverne potenzialità e applicabilità nella didattica, indica le modalità attraverso cui è possibile ai docenti reperire tale materiale, anche attraverso “open source”. Una parte significativa dello scritto risulta dedicata alla LIM. L’autrice dedica a questo argomento un interessante approfondimento che riesce a far cogliere al lettore il potenziale didattico di questo strumento, sia per l’efficacia derivante dall’estrema versatilità ma anche per il potenziale interattivo, particolarmente utile nell’ottica di una didattica inclusiva. La LIM, osserva Pinnelli, “può offrire scenari diversi e trasformarsi da semplice piano di scrittura o di proiezione a luogo di apprendimento condiviso” (p. 191). Come pure strumento di memoria attraverso cui archiviare e documentare il lavoro scolastico, come pure strumento per la scrittura narrativa, per organizzare il lavoro didattico, per la categorizzazione e classificazione delle conoscenze, nonché per la costruzione di mappe concettuali. La prospettiva inclusiva, se applicata all’ambito delle tecnologie didattiche, comporta un cambiamento di mentalità per il docente. Si tratta di pensare il ruolo docente come “attivatore di una relazione apprenditiva” (p. 199). L’autrice si sofferma inoltre ad analizzare la risorsa straordinaria per la didattica data da Internet e Web, dal loro utilizzo in classe. Internet e Web sono “open space del dialogo e della collaborazione” (p. 201). Ma anche in questo caso risulta Recensioni

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necessaria la mediazione didattica dell’insegnante, perché il computer non è una “macchina per insegnare” ma “uno strumento per la costruzione della conoscenza e della comunità” (p. 203). Per quanto Internet non nasca come strumento per la formazione, esso “rappresenta una risorsa per l’innovazione dei sistemi formativi” (p. 204). Sono notevoli, infatti, le opportunità formative del web (l’elearning ne è solo un esempio). La Pinnelli riporta il caso della Flipped Classroom, una strategia per avvicinare gli alunni al sapere attraverso l’esperienza, utile per trasformare il “tempo classe in attività di ricerca, risoluzione di problemi” (p. 215), ma anche per trasformare il ruolo dell’insegnante da trasmettitore di conoscenze in co-creatore - insieme agli studenti – di conoscenze e apprendimenti. Da ultimo l’autrice affronta il tema delle tecnologie per i BES. Viene chiarito che anche in questo caso ciò che fa divenire le tecnologie efficaci è il ruolo di mediazione dell’insegnante. È necessario che gli insegnanti “scelgano e propongano la tecnologia in ragione di obiettivi specifici da raggiungere, formulati in termini di comportamenti osservabili e verificabili e in ragione dell’analisi del bisogno” (p. 219). Il tema apre il discorso anche a questioni che riguardano il diritto, per chi vive particolari condizioni di bisogno, di poter fruire del Web e delle tecnologie in forme accessibili. Osserva Pinnelli che “assicurare l’accesso all’informazione su Internet è una questione soprattutto culturale” (p. 221). Anche l’inclusione si costruisce attraverso processi di accessibilità. Il panorama delle possibilità offerte oggi dalla tecnologia e dalla rete consentono agli insegnanti di affrontare con strumenti nuovi problemi particolari, quali quelli presenti negli alunni con DSA o con ADHD, soprattutto attraverso il ricorso a programmi software di tipo tutoriale. Il ruolo di mediazione degli insegnanti, anche in questi casi, può fare la differenza rispetto ai risultati.

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2. Recensione

Angelo Lascioli, Verso l’Inclusive Education, Edizioni del Rosone, Foggia, 2014, pp. 102. di Fabio Bocci / Università degli Studi Roma Tre

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Angelo Lascioli, professore di Pedagogia Speciale e Pedagogia dell’Inclusione presso l’Università degli Studi di Verona, da diversi anni propone riflessioni interessanti e per molti versi originali in merito al concetto di inclusione, ai processi trasformativi che stanno attraversando la scuola e la società italiane e al ruolo che deve assolvere la pedagogia speciale italiana in questa cruciale fase di transizione da un sistema centrato sull’integrazione a uno decisamente inclusivo. Il tutto, come è doveroso, con uno sguardo attento al panorama internazionale. Basti pensare, per non citarne che alcuni tra i più recenti, dall’articolo Dall’integrazione all’inclusione: la scuola che cambia (in Orientamenti pedagogici, 59/1, 2012), ai volumi Pedagogia Speciale in Europa. Problematiche e stato della ricerca (a cura di, FrancoAngeli, 2007) e Educazione speciale. Dalla teoria all’azione (FrancoAngeli, Milano, 2011). Una attenzione confermata dallo studioso anche in questo recente volume che si offre al lettore come una vera e propria essenzializzazione di quelle che sono le tematiche più cogenti che animano l’attuale dibattito nel campo dell’educazione (non solo speciale, anzi). Il volume, sul quale ci soffermeremo a breve per delinearne gli aspetti che a nostro avviso lo rendono non solo utile ma necessario − sia al lettore che non ha dimestichezza con tali ambiti di studio, sia a coloro i quali sono inquadrabili come addetti ai lavori − è impreziosito da un mirabile saggio introduttivo di Alain Goussot, co-direttore della collana che ospita il testo, il quale con la consueta e accurata messe di riferimenti a studiosi di ieri e di oggi introduce le tematiche poi sviluppate da Angelo Lascioli. A partire da una questione cruciale: di cosa parliamo quando usiamo il termine inclusione? E quale differenza esiste tra integrazione e inclusione? (Goussot, Presentazione, p. 9). Una questione tutt’altro che risolta, come in alcuni documenti e leggi recenti (vedi la Buona Scuola) si vorrebbe dare ad intendere, e che Lascioli inquadra fin da subito nel modo corretto (dal nostro punto di vista) già a partire dal titolo: Verso l’Inclusive Education. Indubbiamente la “preposizione impropria” verso sta ad indicare un movimento in direzione di qualcosa (in questo caso l’inclusione). Ma questo movimento, per sua stessa natura, implica due aspetti che sono per noi centrali. Il primo concerne il fatto che non siamo ancora giunti alla meta definita, attesa o preconizzata. Il secondo, più stringente e cruciale, riguarda il fatto che non è detto che una volta messi in cammino ci si sia instradati per la via migliore; e questo aspetto, a sua volta, può dipendere dall’aver postulato male la stessa mèta oppure, sebbene la destinazione sia quella desiderata, dall’aver scelto un percorso non idoneo a raggiungerla. Recensioni

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In altri termini, fuor di metafora, il fatto di non essere ancora giunti a destinazione (ossia alla piena inclusione che, se fosse tale, non avrebbe bisogno neppure di essere aggettivata) può dipendere da un lato dal fatto che su questo concetto albergano ancora molte ambiguità (tanto da essere utilizzato da chiunque, in qualsiasi contesto, con accezioni e significati del tutto diversi e spesso contrastanti) e, dall’altro, dal fatto che le scelte che stanno orientando il cammino sono fuorvianti, portando altrove. Oppure, come noi pensiamo e abbiamo avuto modo di sottolineare in diversi nostri contributi recenti (da soli o con altri colleghi), per la combinazione di tutte e due queste opzioni: stiamo assistendo a una inesatta interpretazione del concetto di inclusione e questo sta portando verso applicazioni che non corrispondono a quanto auspicato e dichiarato (almeno livello valoriale). Una situazione che Angelo Lascioli ha ben chiara e che cerca, con molta lucidità (quella che sembra mancare a molti di coloro i quali in questo periodo cercano di dettare le linee di indirizzo), di disambiguare con una argomentazione chiara e stringente. Partiamo da una domanda ineludibile: i cambiamenti che sono stati introdotti con recenti leggi e dispositivi (dalla 170/2010 alla nota del Ministero del 22 Novembre 2013, passando per la Direttiva 27/12/2012 e la C.M. n. 8 del 6/03/2013) così come quelli successivamente prefigurati dal documento La Buona Scuola e poi fatti propri dalla Legge 107/2015 (questi ultimi apparsi ed emanati dopo la pubblicazione di questo volume) in che direzione hanno modificato e stanno modificando il sistema scolastico italiano? La risposta dell’autore è nitida: «Il sistema che si è generato […] non è quello corrispondente al modello dell’Inclusive Education, per la cui realizzazione […] è previsto che i sistemi scolastici diversifichino le proprie offerte formative in modo tale da ricomprendere ogni e qualsiasi alunno suscettibile di esclusione. Infatti – e qui si trova il nucleo del problema – ciò a cui mira il modello dell’Inclusive Education non è la tutela dei differenti BES quanto, invece, la costruzione di un sistema scolastico Full inclusion, ossia senza esclusioni e oltre ogni meccanismo di labelling. Infatti, la vera sfida contenuta in questo modello consiste nel riuscire a costruire una scuola che valga per il 100% degli alunni, perché l’inclusione non deriva dal dare un posto nella anche a chi è portatore di un qualche BES, ma dal trasformare il sistema scolastico in organizzazione idonea a perseguire la valorizzazione delle differenze che ordinariamente caratterizzano la domanda di educazione proveniente dalla società (visibile nell’eterogeneità di culture, bisogni, tradizioni, lingue, ecc. che compongono le classi scolastiche)» (pp. 68-69). Come afferma Lascioli dunque (e noi condividiamo questa analisi), la direzione che si è intrapresa in Italia ci sta allontanando dalla concezione di inclusione che a livello internazionale si è ormai decisamente, anche se dinamicamente, delineata (si vedano le pubblicazioni di studiosi quali Tony Booth, Mel Ainscow, Beth Ferri, Felicity Armstrong, Michael Oliver, Robert Murphy, Len Barton e altri ormai più che noti nel nostro Paese). Proprio in Italia – la nazione che ha rappresentato un’avanguardia in merito alla presenza degli allievi disabili nella scuola di tutti −, quindi, per effetto di questa disfunzionale interpretazione dell’inclusione e delle conseguenti scelte che si stanno operando, si sta affermando quello che Lascioli denota e connota come modello ibrido. Si tratta di una vera e propria contaminazione del modello del-

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l’integrazione con quello dell’inclusione il cui effetto più evidente, rimarca Lascioli, è «la proliferazione dei BES» (p. 73). Modello ibrido che secondo lo studioso non ha solo ombre ma anche alcune luci (ad esempio la diversa concezione della disabilità derivante dal modello Bio-Pisco-sociale dell’ICF o l’idea che ad occuparsi dei Bisogni Speciali non ci sia il solo insegnante di sostegno) ma che è auspicabile possa «chiudersi presto per dare vita all’Inclusive Education» (p. 73). Ma affinché questo avvenga deve anche concretizzarsi un vero e proprio cambio di mentalità (p. 82) che allo stato attuale – questa è una nostra convinzione che non attribuiamo all’autore – consideriamo ancora difficile da realizzarsi se ci soffermiamo ad analizzare alcune delle istanze in essere, ad esempio, nel Disegno di Legge 2444 (poi inglobato nella L. 107/2015) che auspica per fronteggiare la ineludibile crisi della scuola italiana (e non solo del sistema dell’integrazione, come ci affanniamo a sostenere) la netta separazione delle carriere tra l’insegnante curricolare e l’insegnante specializzato per il sostegno. Una questione, quella della formazione dei docenti, che Lascioli non a caso affronta nell’analizzare le ombre (o le semioscurità ci verrebbe da dire) del modello ibrido, soprattutto quando fa riferimento alle esperienze dei Master attivati, previa un accordo tra MIUR e l’allora Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Scienze della Formazione, a seguito della Legge 170/2010. L’idea di dare vita a un corpo docente maggiormente specializzato mediante una adesione volontaria dei singoli non sembra aver funzionato appieno e, dal nostro punto di vista, ha appena scalfito la struttura tradizionale della scuola italiana e certe concezioni che continuano (nonostante quasi quaranta anni di integrazione) a caratterizzarla. Non a caso Lascioli auspica anche in questo caso un cambio di logica, espressione «di una mentalità programmatica e organizzativa – in primis a livello dirigenziale – consistente nella gestione oculata delle risorse umane presenti, con l’ottica dell’implementazione delle competenze in capo all’organico stabile. Senza questa logica – prosegue Lascioli – la diffusione nel sistema scuola di competenze specialistiche rischia di risultare priva d’impatto sulla realtà: una folata di vento che non fa altro che sconquassare la normale routine delle istituzioni. Gli interventi spot, come pure l’azione degli outsider, oltre a risultare di fatto insufficienti rispetto alle esigenze di cambiamento, in taluni casi sono addirittura dannose, specialmente laddove sono queste le “armi” con cui ci si illude di affrontare la sfida rappresentata dai BES» (p. 77). Ci permettiamo di chiosare, vista la funzione di recensori che ci siamo assegnati – che quella definita da Lascioli come rischio è purtroppo ciò che è accaduto in moltissimi (troppi) casi. Ma allora, ci si chiede, dopo questa disamina dalle tinte non certo luminose… Come si può venire fuori da questa situazione, come favorire il cambiamento di mentalità e di logiche? Da dove partire? Domande legittime che Lascioli − studioso che nella migliore tradizione della Pedagogia Speciale coniuga sempre la riflessione all’azione, la teoria alla prassi − non lascia in sospeso. E ancora una volta ci troviamo in sintonia l’approccio intrapreso, al di là della condivisione dei singoli contenuti delle proposte. Si tratta di restituire, dopo avere fornito foucoltianamente alcune chiavi di analisi, la decisionalità e la possibilità di azione a chi è sul campo, agli attori che vivono Recensioni

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e fanno la scuola. Una prospettiva che ci è particolarmente cara perché vicina al Modello sociale della disabilità e all’attivismo scientifico-politico-culturale dei Disability Studies. Dare vita all’inclusione cominciando a praticarla, sostanziando quelle che Booth e Ainscow individuano come le tre macro dimensioni dell’educazione inclusiva: le culture, le politiche e le pratiche inclusive. A noi sembra che Lascioli nel suggerire alcune (cinque per l’esattezza) buon regole per trasformare il modello ibrido nel modello inclusivo (p. 85 e seguenti) si ispiri a questi principi. La prima regola è quella di far guadagnare al sistema il significato di inclusione. Le complessità (e le ambiguità) che circondano il termine inclusione richiedono «un serio confronto collegiale» (p. 86) e anche una riflessione accurata e laica sul senso e la funzione del fare scuola. La seconda regola coincide con l’imparare a fare meglio quello che già si sa fare. Una operazione complessa che ci sembra possa essenzializzarsi in questa asserzione di Lascioli: «Se funziona la scuola, funziona anche l’inclusione» (p. 86). È bene cominciare a prendere atto che fare scuole e fare inclusione non sono cose separate, non sono processi che attengono a attori diversi. Come afferma che Goussot nella Presentazione educazione è di per sé inclusione. Nella professionalità docente, infatti, si «concentrano […] un insieme di possibilità straordinarie di intervento educativo, facenti tutte capo a all’azione didattica ordinaria: la promozione della co-costruzione del sapere, la cura delle relazioni, l’organizzazione dello spazio classe come luogo significativo per gli apprendimenti, ecc.» (p. 87). La terza regola è quella di operare una ri-conversione in direzione inclusiva delle risorse disponibili prima di ricercarne di nuove. Dal nostro punto di vista è nodale, in quanto spesso un certo immobilismo che permea la scuola è il derivato da una costante che suon più o meno così: “se avessimo più risorse… allora…”. Non c’è dubbio che la disposizione di maggiori risorse possa incrementare le probabilità di migliorare l’offerta formativa, ma non è detto. Come sanno bene certi team (anche sportivi) non sempre la presenza di grandi talenti e dotazioni tecniche assicura il successo, specialmente laddove manca una regia e una prospettiva comune di indirizzo. Qui Lascioli, facendo riferimento a Booth e Ainscow, evidenzia la significatività e la funzionalità delle pratiche di autovalutazione e di automiglioramento che possono consentire alle scuole di «ri-leggere il proprio agire e i contesti in cui si opera riuscendo a cogliere i fattori e le condizioni da cui dipendono le performance degli alunni» (p. 88). La quarta regola è altrettanto cruciale: riposizionare al centro dell’azione insegnativa il ruolo della didattica. Lascioli ribadisce alcuni concetti noti al dibattito in campo educativo ma ancora per molti versi disattesi nella pratica quotidiana e, cosa per noi ancor più seria (per non dire grave), nella formazione dei futuri insegnanti. Li sintetizziamo utilizzando nostre parole: 1) la didattica è qualcosa di più e di diverso dalla conoscenza della disciplina; 2) la didattica è ciò che pone in interrelazione sinergica contenuti e contesti e genera relazioni; 3) la didattica è un/in divenire, poiché è un’opera di mediazione. Ne consegue, afferma lo studioso, che il primo passo per rimettere il ruolo della didattica al centro dell’azione insegnativa «consiste nel rendersi conto che l’offerta formativa deve essere progettata intorno all’alunno e non attorno ai docenti» (p. 90). Niente di nuovo sotto al sole, verrebbe da dire. Ma ne stiamo ancora parlando perché al di là di certi proclami, anche normativi, questa verità non si è inverata nella scuola e nella

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mentalità di molti di coloro che la scuola la pensano e la fanno (basti pensare all’organizzazione scolastica con le aule fisse, i gruppi omogenei per età, la struttura dell’orario, alle lezioni frontali, alle modalità valutative, ecc.). La quinta e ultima regola è la seguente: far diventare più inclusiva la didattica ordinaria. Si collega naturalmente alle precedenti perché di fatto esplicita l’idea che inclusione e educazione (quindi istruzione e formazione) non viaggiano su binari separati per incrociarsi talvolta in presenza di qualche emergenza o situazione speciale ma sono esattamente la stessa cosa. Vale la pena di rammentare una bella affermazione di Maria Montessori, poi ripresa e rilanciata da Vito Piazza in un suo volume a lei dedicato: l’educazione o è speciale o non è. Ovvero: o è per tutti o non è educazione. Per questa ragione occorre investire tempo e risorse per modificare la forma mentis di chi fa la scuola (a partire da chi la pensa). È tempo di immaginare una formazione degli insegnanti nuova, senza separazioni, altamente qualificata e specializzata per tutti, che preveda, come avviene in tutte le professioni, anche delle ulteriori specializzazioni che consentano a chi vive la scuola e vi dedica il proprio tempo con energia e impegno, di diversificare la propria funzione. Una scuola inclusiva, per l’appunto, che esca fuori dalle logiche ottocentesche, mai del tutto superate, dell’insegnante che nasce e vive attaccato alla cattedra, legato all’ora di lezione e al suono della campanella che scandisce la sua vita lavorativa e quella di crescita dei suoi allievi. Lascioli fa riferimento, da attento studioso qual è, alla letteratura internazionale e richiama il documento La formazione docente per l’inclusione. Profilo dei docenti inclusivi redatto dalla European Agency for Development in Special Needs Education, riproducendo nella loro essenzialità i quattro valori che caratterizzano la forma mentis del profilo dell’insegnante inclusivo: 1) il valore della diversità; 2) il valore educativo dell’aspettativa; 3) il valore della collaborazione e del lavoro di gruppo; 4) il valore dell’aggiornamento professionale personale continuo. Si tratta di quattro direttrici le cui implicazioni, a chi non è disattento o colpevolmente superficiale, sono palesi. Infatti, come riflette l’autore, «le forme/modalità attraverso le quali l’insegnante si pone dinanzi ai suoi studenti rivelano la sua intenzionalità educativa, dalla quale trae ispirazione e forza l’azione didattica e in cui è leggibile lo sfondo di senso nel quale le trasformazioni della didattica ordinaria assumono significati inclusivi» (p. 92).

In conclusione, quelle proposte da Angelo Lascioli si presentano alla nostra attenzione come riflessioni e argomentazioni assolutamente pertinenti che aprono la strada a suggerimenti procedurali che non si propongono solo come adattamenti ragionevoli ma come input per una significativa trasformazione dei contesti scolastici nella direzione di una inclusione davvero di/per tutti e di/per ciascuno reale, calata quindi nel concreto delle singole realtà e non solo postulata come derivato di asserzioni valoriali ancora troppo inquinate da ambiguità e da indifferenziazioni semantiche.

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3. Recensione

Catia Giaconi e Simone Aparecida Capellini, Conoscere per includere. Riflessioni e linee operative per professionisti in formazione, FrancoAngeli, Milano, 2015, pp. 189.

di Fabio Bocci / Università degli Studi Roma Tre

Il volume di Catia Giaconi e Simone Aparecida Capellini, Conoscere per includere. Riflessioni e linee operative per professionisti in formazione offre l’opportunità per diverse riflessioni e percorsi di analisi che in questa recensione si intende brevemente delineare lasciando poi al lettore il compito di completare con i personali itinerari di studio. La prima concerne il profilo scientifico culturale delle autrici. Catia Giaconi è professoressa associata di Pedagogia e Didattica Speciale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione, dei Beni Culturali e del Turismo dell’Università di Macerata. Simone Aparecida Capellini è professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Fonoaudiologia dell’Università Statale Paolista di Marìlia, San Paolo del Brasile. Si tratta quindi di un incontro tra una pedagogista e una neurolinguista, operanti non solo in campi di studio diversi ma anche agenti in contesti scientifico culturali diversi, generato però dal comune interesse per i Disturbi Specifici di Apprendimento. La sfida che le autrici si pongono, e che chiariscono già a partire dall’introduzione, è quella di ribadire, non solo sul piano delle dichiarazioni di principio ma su quello degli studi sul campo e delle esperienze professionali, l’importanza di operare una lettura multidimensionale di fenomeni complessi quali sono quelli inerenti i Disturbi Specifici di Apprendimento, sperimentando forme di collaborazione interdisciplinare (e in questo caso anche internazionale) sinergica e simmetrica, dando un valore aggiunto al confronto e alla ricerca stessa. Come di-mostrano le studiose un simile approccio non ha solo una ricaduta positiva sul piano della ricerca ma, anche (per non dire soprattutto) su quella della possibilità di dare vita a alleanze educative tra tutti gli attori che intervengono, con le loro specificità e peculiarità, per rispondere in modo efficace (nel rispetto dei diversi funzionamenti, dei diversi contesti, delle diverse storie, ecc.) ai bisogni educativi di chi presenta un profilo di funzionamento riconducibile ai diversi Disturbi Specifici di Apprendimento. In tal senso, è opportuno sottolineare come le studiose adottino, in modo non comune rispetto a certa letteratura di settore, il plurale riferendosi ai DSA; parlano infatti di dislessie, disortografie, disgrafie, discalculie, nella convinzione che, come sappiamo, «i profili sono molto eterogenei e variano da persona a persona» (p. 8). Questo modo di prospettare la trattazione del tema, dal nostro punto di vista, è oltremodo corretto, in quanto la letteratura scientifica – soprattutto quella di ambito neuropsicologico – mostra con numerose evidenze come e in che misura i Disturbi di Sviluppo si sviluppino per stadi e non si manifestino in un’unica soluzione e una volta per tutte.

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Ciò significa che non solo i soggetti identificati come DSA hanno profili di funzionamento differenti ma che uno stesso soggetto nel corso dello sviluppo si modifica in funzione dell’evoluzione e delle risposte che il suo modo di funzionare (e non semplicemnete la sua condizione) riceve dal/i contesto/i di riferimento, che gli siano contigui (micro/meso sistemi) o meno (esosistemi). In altri termini, il solo inquadramento diagnostico non è condizione sufficiente per formulare una prognosi sulla quale orientare l’intervento (come sovente viene richiesto dalle scuole e dalle stesse famiglie o come talvolta certi operatori lasciano intendere o presumono di poter dare come dato certo). Occorre invece tenere conto di tanti altri fattori che possono acquisire una rilevanza determinante circa l’esito dell’evoluzione delle difficoltà apparentemente derivanti dal disturbo.

Questa consapevolezza, che guida il lavoro di Catia Giaconi e Simone Aparecida Capellini, le porta a mettere in risalto alcuni aspetti che caratterizzano e danno spessore al loro volume. Per quanto ci riguarda questi aspetti sono compendiati dal termine conoscere, che non a caso è la parola chiave del volume. Per ragioni di spazio essenzializziamo con alcune nostre affermazioni e analisi suffragate da qualche passo delle autrici.

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1. Conoscere per orientarsi tra le diverse posizioni che la letteratura, certamente oggi più che mai ricca ma troppo spesso anche discordante, mette a disposizione dei professionisti (insegnanti, educatori, ecc.) ma anche delle stesse famiglie. È opportuno, come il volume si propone di fare, fornire strumenti di lettura e di analisi per navigare con competenza nel mare delle fonti disponibili per superare indenni le insidie del disorientamento. Come sostengono le autrici, infatti: «Il campo dei DSA, indubbiamente, è ampio e complesso. Nel percorrerlo è possibile “incontrare” una grande quantità di posizioni teoriche e di approcci, non sempre in accordo sull’interpretazione del fenomeno e sulle modalità di intervento. A fronte di siffatta eterogeneità e di attuali acquisizioni scientifiche, avanzano domini concettuali e fenomenologie da esplorare e da approfondire con accurate documentazioni e con opportune indagini» (p. 13). In altre parole le studiose, presentando una crestomazia di quanto oggi a disposizione, invitano quanti sono interessati e coinvolti a non lasciarsi sedurre dal superfluo e di dotarsi di chiavi di lettura che non fanno sfuggire l’essenziale. La migliore chiave di volta per discernere il grano dal loglio è indubbiamente quella di fare riferimento/affidamento (non cieco, giammai) a ciò che si presenta con evidenza scientifica. Naturalmente, ci sentiamo di aggiungere, il tutto sempre con un sano atteggiamento fenomenologico-ermeneutico, osservando ciò che si manifesta del fenomeno indagato (ciò che si dà), tenendo conto del momento in cui si manifesta (in cui si dà), nei limiti in cui si dà.

2. Questa riflessione ci porta alla seconda valenza del termine conoscere. Conoscere per non cadere nel tranello della/e moda/e, il quale ha almeno una duplice ricaduta/implicazione. La prima è quella di chi ritiene che DSA sia solo una delle nuove parole (o sigle o etichette) delle tante che hanno affollato e affollano la scuola, in particolare, e il mondo dell’educazione, in generale. Tendenza questa che si concretizza spesso in banalizzazioni e asserzioni di senso comune (per esRecensioni

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sere lievi nel dire) quali quelle che attribuiscono la loro scaturigine all’azione delle case farmaceutiche (i DSA come I Disturbi da Deficit di Attenzione e Iperattività sarebbero una invenzione per fini di lucro) tanto che saremmo in presenza di una vera e propria epidemia (il crescente numero di identificazioni di soggetti con DSA sarebbe il mero derivato di questa operazione di marketing). La seconda ricaduta/implicazione è quella di chi, effettivamente, finisce con il vedere (e diagnosticare) ovunque DSA, magari dove prima vedeva solo demotivazione e disinteresse. Non siamo così ingenui da non comprendere che nella logica tipica dei sistemi neoliberisti tutto può essere trasformato in mercato e che i mercanti si siano impadroniti del tempio (in questo caso quello della salute, del benessere, della qualità della vita, ecc.). E non siamo neppure digiuni delle analisi complesse e articolate di studiosi e pensatori controcorrente: da Illich con la sua Nemesi medica a Allen Frences con il volume Primo, non curare chi è normale, passando Patrick Landman con Tous hyperactifs? L’incroyable épidémie de troubles de l’attention. Quello che vogliamo evidenziare, e che riteniamo anche il volume cerchi di fare, è di scongiurare il rischio che si riproducano acriticamente le tipiche conseguenza che scaturiscono dall’assunzione, altrettanto acritica, di posizioni apodittiche contrapposte: da un lato gli apocalittici, che mettono in atto forme di resistenza a prescindere; dall’altro, gli integrati, che tendono ad affollare convegni e corsi di formazione attivati da una pletora di enti, associazioni e quant’altro e finiscono con il ricercare e applicare (spesso con una certa acriticità didattica) strumenti, procedure, kit, set, ecc…presentati come risolutivi (senza che si comprenda bene di cosa).

3. Ecco allora emergere la terza valenza: Conoscere per comprendere meglio il rapporto tra clinica e pedagogia. È qui, tra l’altro, che si profila il ruolo della Pedagogia e della Didattica Speciale, la quale è chiamata a, ed è in grado di, assolvere una funzione strategica di assoluto rilievo (e che abbiamo avuto modo altrove di esplicitare con maggiore dovizia di argomentazione Cfr. Bocci F. Il pedagogista “speciale” nel contesto clinico. Analisi di una esperienza sul campo, in A. Canevaro [a cura di], L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Trent’anni di inclusione nella scuola italiana, Erickson, Trento, 2007): a) concorrere, nell’ambito della ricerca e della riflessione ermeneutica, con i propri saperi specifici pedagogici allo studio della clinica per ciò che attiene gli intrecci epistemologici che la scienza dell’educazione intesse con altri ambiti scientifici nel perseguire i propri fini educativi; b) contribuire alla comprensione (della) clinica in virtù di una conoscenza diretta dei fenomeni osservati e indagati, ponendosi in rapporto sinergico con le altre professionalità implicate nell’aiuto agli allievi con difficoltà/disturbi/disordini di apprendimento. È su questo piano che i professionisti chiamati in causa nel titolo come destinatari primi del volume devono dialogare, scambiare informazioni significative confrontarsi. Il clinico ha una visione parziale dell’allievo/a (bambino/a ragazza/o che sia) che incontra in un setting specifico; l’operatore scolastico (insegnante, dirigente, ecc.) ha alla portata informazioni preziose, ma deve anche saper cosa può essere utile davvero, cosa può davvero arricchire la conoscenza clinico/pedagogica del destinatario dell’interesse congiunto di queste figure professionali (su questi temi

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resta a nostro avviso sempre validissimo il lavoro di B. Mazzoncini, Bruna Mazzoncini, L. Musatti, I disturbi dello sviluppo. Bambini, genitori e insegnanti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012, recensito proprio su queste pagine di questa rivista).

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4. Sulla base delle prime tre connotazioni del verbo conoscere, qui richiamato come parola chiave centrale, si viene a caratterizzare la quarta valenza che abbiamo attribuito a questo termine: Conoscere per intervenire. In tal senso Giaconi e Aparecida Capellini, sempre facendo riferimento alla letteratura nazionale e internazionale, richiamano l’attenzione sulla valutazione/segnalazione precoce e sugli interventi tempestivi. La precocità infatti, evidenziano le autrici, «sembra essere un indicatore prognostico elevatamente significativo nell’anamnesi e nell’evoluzione delle condizioni di DSA» (p. 23). La tempestività, d’altro canto, come ricorda anche Roberta Penge, tra le più autorevoli studiose del settore, riduce l’entità del disturbo e il rischio di comorbidità secondarie, prevalentemente sul piano psicopatologico (Penge R., Screening, indicatori precoci e fattori di rischio, in «Annali della Pubblica Istruzione», La Dislessia e i disturbi specifici di apprendimento, 2010, pp. 37-50; Penge R., Bocci F., Tosco A., Alfieri P., Referral pathway and child mental health service organizzation in Italy, in «European Child & Adolescent Psychiatry», 12, Supplement 2, 2003, p. 128.). Per essere, quindi, precoci nel comprendere e tempestivi nell’intervenire si possono attivare procedure di screening (tipicamente azioni istituzionale promosse da Enti/Servizi su ampi campioni di popolazione, condotte da specialisti con finalità diagnostiche), di identificazione precoce (iniziative locali orientate all’identificazione di indicatori di rischio, predittori di una difficoltà/disturbo potenzialmente sviluppabile nel corso della carriera scolastica/di vita del soggetto) oppure di valutazione didattica precoce (azioni che possono compiere gli insegnanti nell’ambito della loro attività scolastica quotidiana e che possono anche, ma non necessariamente, iscriversi all’interno di azioni mirate di identificazione precoce). Queste ultime, in modo particolare (soprattutto rispetto a quanto detto nel punto 3), sono estremamente utili, in quanto consentono di attivare forme di monitoraggio dinamiche. Le autrici, non a caso, richiamano l’attenzione sull’osservazione: come pratica, come procedura e come strategia nel processo di prevenzione. Detto altrimenti: la scuola, senza aspettare che la natura faccia il suo corso (atteggiamento spesso riscontrato in alcuni medici, soprattutto pediatri: “se non parla parlerà, se non legge leggerà…”) ma, anche, senza cadere nelle semplicistiche etichettature (labelling) e/o nei facili allarmismi che tanto spaventano/irrigidiscono le famiglie, può assumere una funzione (pedagogico-didattico) che gli è propria. È una funzione di accompagnamento che può essere utile per stabilire (attraverso un dialogo/confronto e non una semplice delega) se quello che stiamo osservando/monitorando sia, e in che misura lo sia, un profilo di funzionamento sovrapponibile in qualche modo al funzionamento tipico o atipico di un disordine, di un disturbo, o di una sindrome, ecc… (sovrapponibile, mai coincidente se è vero, come abbiamo detto in precedenza che siamo in presenza di funzionamenti in evoluzione). Un profilo di funzionamento che richiede un approfondimento diagnostico (e non solo una diagnosi). Tutto questo non in modo passivo, ma attraverso l’adozione di azioni – non solo sul singolo ma sulla classe Recensioni

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e sul modo di fare scuola – che via via possono sgombrare il campo da dubbi e/o avvalorare i motivi di una segnalazione. In altre parole, quello che serve di comprendere (e per questo occorre intervenire anche con procedure di potenziamento) è quanto della manifestazione della difficoltà attiene davvero al disturbo/disordine e quanto alla pratica didattica. In tal senso nel volume sono davvero interessanti le schede di lavoro che le autrici hanno affidato a un gruppo di collaboratrici/ori esperti: Maria Luisa Mandolesi, Catia Trillini, Alessia Polverini, Michela Carbonari, Cristiana Lancioni, Daiana Montesi, Daniele Valenti, Serafina Olmo. E concludiamo richiamando/ci all’altra parola chiave del testo: inclusione. Se adottiamo la prospettiva che noi abbiamo cercato qui di delineare, l’inclusione a cui si fa riferimento non è quella della di una scuola che include qualcuno che potrebbe essere escluso in quanto portatore di un bisogno speciale ma di una scuola che si trasforma, che diviene inclusiva rimuovendo (perché li conosce e ne ha cognizione) gli ostacoli che non consentono la partecipazione e l’apprendimento di tutti. Non una scuola buona, ma una scuola che diviene laboratorio di democrazia reale, che poggia su un atteggiamento non supino alle logiche della produttività e dell’abilismo (spesso, diciamolo, suffragate da pratiche cliniche ancora fortemente centrate sul modello bio-medico individuale) ma della crescita e della cittadinanza. Per tale ragione ci sembra davvero di buon auspicio concludere riportando questa riflessione di Catia Giaconi e Simone Aparecida Capellini (non a caso collocata nella parte finale del loro lavoro): «Il cuore di tutte le azioni volte al miglioramento di un contesto o di un ambito disciplinare resta, sempre, la ricerca. Come in ogni settore scientifico, riteniamo che non si può evolvere senza ricerca scientifica e, a nostro avviso, senza una ricerca collaborativa tra ricercatori universitari e professionisti in campo educativo. Questa è la grande sfida che ci attende: ampliare le “prove di didattica inclusiva” attraverso progetti che abbiano come fondamenta basi scientifiche, passione e “voglia di sporcarsi le mani” (p. 112).

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4. Recensione Pasquale Moliterni, Didattica e scienze motorie. Tra mediatori e integrazione, Armando, Roma, 2013, pp. 320. di Luigi d’Alonzo, Università Cattoloca di Milano

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Il volume offre, attraverso un ampio impianto teorico e metodologico, una significativa panoramica sulla didattica e sulle scienze motorie anche nelle reciproche implicazioni, nonché sulle interrelazioni tra processi di formazione e promozione di contesti di integrazione e di inclusione. Facendo riferimento ad una vasta letteratura che spazia tra fonti classiche e fonti contemporanee, l’autore − professore di didattica e pedagogia speciale nell’Università di Roma Foro Italico − contestualizza il tema oggetto d’indagine all’interno di una cornice teorica che muove dai fondamenti epistemologici della didattica, fino alla didattica speciale, per analizzare poi i principali modelli e metodologie di tale disciplina, al fine di individuarne i caratteri costitutivi in quanto scienza della mediazione e dei processi mediatori. Tale disanima è volta a dimostrare non solo che la didattica ha una sua epistemologia ma che è epistemologia essa stessa, giacché è chiamata a misurarsi di volta in volta con la predisposizione di oggetti e contesti di mediazione idonei a favorire lo sviluppo di percorsi e processi di conoscenza significativi per tutti gli alunni, nessuno escluso. I processi mediatori sono il risultato atteso dall’azione di insegnare e quella di apprendere, all’interno di contesti educativi e formativi significativi, frutto di impegno di insegnanti e studenti nella costruzione, ricostruzione e co-costruzione di oggetti ed esperienze culturali volte a favorire processi educativi e co-educativi. All’interno di tale sfondo l’autore procede in un’analisi approfondita della valenza formativa delle attività motorie e sportive, divenute negli ultimi decenni sempre più presenti nella riflessione pedagogica che ne ha rivalutato la funzione nella promozione dei processi di personalizzazione e socializzazione, di comunicazione ed inclusione. In particolare viene messo in evidenza il ruolo formativo ed inclusivo dell’azione motoria ed espressiva, insieme alla funzione innanzitutto ludica e poi sempre più disciplinante della pratica sportiva tout court. In tale quadro particolare attenzione è dedicata all’analisi dei processi di conoscenza come categoria chiave delle pratiche didattiche e di inclusione, sottolineando il ruolo formativo che la pratica motorio-sportiva riveste in relazione ai valori etici e di cittadinanza. In particolare nel capitolo 6 l’autore evidenzia quei mediatori didattici che più valorizzano la corporeità, le attività e le scienze motorie e che, contribuendo ad una elaborazione concettuale che attraversa i saperi quale costrutto socio-culturale, fa emergere sempre più la valenza formativa della dimensione corporea nella sua poliedricità. Anche all’ambito della pedagogia speciale - che tradizionalmente si è occupata e si occupa di soggetti con difficoltà nel funzionamento cognitivo, in quello relazionale-comunicativo, così come in quello motorio - non è estranea una riflessione sul corporeo e sulla valenza dell’azione nello sviluppo del pensiero e della persona attraverso il linguagRecensioni

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gio nelle sue varie forme e modalità espressive. Già negli ultimi decenni del secolo scorso con il sorgere degli studi sulla psicomotricità si è assistito alla rivalutazione del corpo, con la connessione dell’attività motoria a quella psichica; l’apporto scientifico allo studio delle diverse tipologie delle disabilità grazie alla ricerca medico-fisiologica sulle varie aree di funzionamento del corpo umano e l’apporto delle neuroscienze ha aiutato ad integrare il dualismo nella considerazione della triade cervello-mente-corpo. Si è iniziato a studiare il corpo come movimento e la pratica motoria come una dimensione che è saldamente unita all’attività psichica, nel senso che ogni atto motorio include una dimensione e una intenzionalità che fa parte delle attività psichiche, ma l’autore evidenzia la rilevanza dell’atto motorio sul piano socio-motorio, ritenendo il movimento un importante veicolo per la percezione del sé e per l’interazione sociale. A proposito della dimensione interattiva connaturata al movimento Moliterni scrive infatti: «le interazioni sono frutto di azioni-tra il soggetto e l’oggetto “attraverso il movimento”, elemento questo (il movimento) di connessione, interrelazione e interdipendenza, con effetti sul piano cognitivo ed emotivo-affettivo, motorio, ambientale e sociale» (p. 227). Il contributo dell’attività motoria, nella sua dimensione psico-socio-motoria, diventa dunque estremamente importante per lo sviluppo della persona. In effetti, l’attuale riflessione pedagogica e didattica ha rivalutato la valenza educativa e inclusiva della pratica motoria e psicomotoria, anche se, come sottolinea Lucia de Anna nella Prefazione al volume, «le scienze motorie possono divenire uno strumento di integrazione, a condizione che si avvalgano dei principi espressi nell’area pedagogica, con attenzione alla pedagogia e alla didattica, alla pedagogia speciale, alla ricerca educativa, anche nella loro evoluzione storica, cercando di saperne cogliere il significato e il valore» (Prefazione, pp. 10-11). Nell’analizzare i mediatori didattici l’Autore indica la strada per far leva sulle varie forme di azione motoria ed espressività corporea: «dagli aspetti artistici e di danza creativa, agli aspetti sonoro-musicali e ludici e ai giochi di ruolo che, insieme alle forme di drammatizzazione e di espressione teatrale, costituiscono oggetti culturali importanti e forme di mediazione attiva ed analogica, più “calde”, coinvolgenti e significative, per lo sviluppo dei processi di apprendimento» (p. 264). È pertanto importante l’approfondimento della valenza formativa dell’attività di gioco, dell’attività teatrale e di quella della danza, contestualizzate all’interno dell’evoluzione teorica di tali attività e arti espressive che, accomunate dal mediatore corporeo e del movimento e delineate all’interno di talune trasformazioni nel corso del Novecento, assumono una rilevanza nella predisposizione di quei processi mediatori che per l’autore rivestono grande rilevanza per il miglioramento in alcune aree di sviluppo, per l’espressione ed il disvelamento della personalità e del sé, per la prevenzione del disagio e della marginalità sociale, per la partecipazione sociale e la cittadinanza attiva. A tal proposito l’autore sottolinea come «molteplici buone pratiche didattiche e formative dimostrano che i laboratori teatrali sono un’occasione preziosa per lo sviluppo personale e sociale nella realizzazione di contesti inclusivi che favoriscono esperienze di integrazione sia tra le persone, nelle loro diversità (culturali, sociali, fisiche, cognitive…), sia tra i vari linguaggi e sistemi comunicativi (verbali, non verbali, prassico-motori, iconici, musicali…)». Il carattere di estemporaneità, l’uso spontaneo del corpo, la relazione con l’altro,

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il costituirsi dell’emozione sulla scena sono i caratteri salienti della pratica teatrale, in grado di annullare le differenze prodotte dal deficit: «occorre cogliere più ampiamente la terza dimensione, quella intersoggettiva e interazionale, che pone sfide sul piano personale e culturale, e che costituisce la “terra di mezzo” intrapersonale, interpersonale e interculturale, da esplorare, arare e coltivare, perseguendo concezioni pienamente integrative (e non solo adattive e inclusive), capaci di accogliere, valorizzare, ed armonizzare le differenze, per superare quelle barriere e quegli steccati che impediscono alle persone di sviluppare un più ampio e significativo processo di umanizzazione» (p. 228). Il volume è stato concepito come manuale di base per gli studenti dei corsi di laurea in Scienze motorie e sportive per contribuire con competenza e progettualità alla qualità dei percorsi formativi di coloro che opereranno nel settore, alla luce degli studi sui processi di conoscenza e sul contributo che l’ambito motorio-sportivo fornisce alla maturazione della personalità in educazione. Nondimeno, si può affermare che il volume offre ampi elementi teoretici volti ad approfondire scientificamente il senso ed il significato della didattica e delle scienze motorie ed è pertanto in grado di portare un contributo rilevante per la formazione degli insegnanti sia curricolari che specializzati per il sostegno, in quanto offre molte indicazioni e sollecitazioni per sviluppare una dimensione partecipata del sapere sui mediatori didattici nei processi formativi, che può essere esteso a tutti coloro, insegnanti o educatori, che operano nei contesti formativi «con uno sguardo alla persona nella sua originalità, globalità e relazionalità, al fine di promuovere una cultura della cittadinanza e della civile convivenza che sappia coniugare autonomia personale e responsabilità sociale» (Quarta di copertina). In effetti il volume dedica uno spazio particolare all’espressione di interventi rapportati alla pluralità delle espressioni della persona, che tengano conto della soggettività e delle peculiarità dei tratti di personalità di ognuno, così come auspicato nella prospettiva bio-psico-sociale dell’International Classification of Functioning (OMS, 2001), che presuppone che non vi sia una relazione causale tra gli aspetti fisiologici e corporei di una persona e le sue possibilità di inclusione, secondo forme di sviluppo di tipo lineare e deterministico, ma che sussista invece un’interazione complessa che include variabili di tipo contestuale e ambientale propri dei processi mediatori di natura pedagogica e di natura didattica. Il lavoro nel suo complesso testimonia la volontà dell’autore di conciliare teoria e azione didattica nell’indagare le più moderne ed efficaci prassi di inclusione, individuando nella dimensione dell’attività motoria, dell’espressività attraverso il corpo, della relazione educativa, dell’educazione alla salute e alla cittadinanza, modalità, forme e contesti di mediazione per una formazione completa della persona – intesa nella sua originalità, globalità e relazionalità- e per una significativa inclusione sociale.

Recensioni

anno III | n. 2 | 2015




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