Giornale Italiano della Ricerca Educativa

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno VII – numero 13 – Dicembre 2014


Direttore | Editor in chief LUCIANO GALLIANI | Università degli Studi di Padova Condirettore | Co-editor PIETRO LUCISANO | Sapienza Università di Roma Comitato Scientifico | Editorial Board ROBERTA CARDARELLO | Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA | Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE | Université Catholique de Leuvain MARIA LUCIA GIOVANNINI | Alma Mater Studiorum – Università di Bologna ALESSANDRA LA MARCA | Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI | Università degli Studi di Roma Tre ELISABETTA NIGRIS | Università degli Studi di Milano Bicocca ACHILLE M. NOTTI | Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV | City University of Moscow RENATA VIGANÒ | Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Comitato editoriale | Editorial management ANNA SERBATI | Università degli Studi di Padova MARIA CINQUE | Università degli Studi di Palermo ROSA VEGLIANTE | Università degli Studi di Salerno Note per gli Autori | Notes to the Authors I contributi, in format MS Word, devono essere inviati all’indirizzo email del Comitato Editoriale: editor.sird@gmail.com Ulteriori informazioni per l’invio dei contributi sono reperibili nel sito www.sird.it __________________ Submissions have to be sent, as Ms Word files, to the email address of the Editorial Management: editor.sird@gmail.com Further information about submission can be found at www.sird.it

Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Finito di stampare: Dicembre 2014 Abbonamenti • Subscription Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze • Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Progetto grafico copertina Valentina Sansò


Obiettivi e finalità | Aims and scopes Il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, organo ufficiale della Società Italiana di Ricerca Didattica (SIRD), è dedicato alle metodologie della ricerca educativa e alla ricerca valutativa in educazione. Le aree di ricerca riguardano: lo sviluppo dei curricoli, la formazione degli insegnanti, l’istruzione scolastica, universitaria e professionale, l’organizzazione e progettazione didattica, le tecnologie educative e l’e-learning, le didattiche disciplinari, la didattica per l’educazione inclusiva, le metodologie per la formazione continua, la docimologia, la valutazione e la certificazione delle competenze, la valutazione dei processi formativi, la valutazione e qualità dei sistemi formativi. La rivista è rivolta a ricercatori, educatori, formatori e insegnanti; pubblica lavori di ricerca empirica originali, casi studio ed esperienze, studi critici e sistematici, insieme ad editoriali e brevi report relativi ai recenti sviluppi nei settori. L’obiettivo è diffondere la cultura scientifica e metodologica, incoraggiare il dibattito e stimolare nuova ricerca. ___________________________________ The Italian Journal of Educational Research, promoted by the Italian Society of Educational Research, is devoted to Methodologies of Educational Research and Evaluation Research in Education. Research fields refer to: curriculum development, teacher training, school education, higher education and vocational education and training, instructional management and design, educational technology and e-learning, subject teaching, inclusive education, lifelong learning methodologies, competences evaluation and certification, docimology, students assessment, school evaluation, teacher appraisal, system evaluation and quality. The journal serves the interest of researchers, educators, trainers and teachers, and publishes original empirical research works, case studies, systematic and critical reviews, along with editorials and brief reports, covering recent developments in the field. The journal aims are to share the scientific and methodological culture, to encourage debate and to stimulate new research.

Comitato di referaggio | Referees Committee Il Comitato di Revisori include studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore e il condirettore della rivista. ___________________________________ The referees committee includes well-respected Italian and foreign researchers. The referral process is under the responsability of the Journal’s Editor in Chief and Co-Editor.

Procedura di referaggio | Referral process Il Direttore e Condirettore ricevono gli articoli e li forniscono in forma anonima a due revisori anonimi, tramite l’uso di un’area riservata nel sito della SIRD (www.sird.it), i quali compilano la scheda di valutazione direttamente via web entro i termini stabiliti. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori esprimono un parere positivo. I giudizi dei revisori sono comunicati agli Autori, assieme a indicazioni per l’eventuale revisione, con richiesta di apportare i cambiamenti indicati. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non sono pubblicati. ___________________________________ Editor in chief and co-editor collect the papers and make them available anonymously to two anonymous referees, using a reserved area on the SIRD website (www.sird.it), who are able to fulfill the evaluation grid on the web before the deadline. Only articles for which both referees express a positive judgment are accepted. The referees evaluations are communicated to the authors, including guidelines for eventual changes with request to adjust their submissions according to the referees suggestions. Articles not modified in accordance with the referees guidelines are not accepted.


INDICE Editoriale di LUCIANO GALLIANI 700.000 fuori corso: Università e docenti senza alibi

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Ricerche 13

GIORGIO ASQUINI

Lo strano caso dei risultati italiani di PISA 2012 Strange Case of Italian results in PISA 2012 29

MAURIZIO BETTI, ANDREA CIANI, STEFANIA LOVECE, LAURA TARTUFOLI

Costruire competenze progettuali e valutative attraverso la didattica laboratoriale. Una ricerca esplorativo-qualitativa nel corso di Laurea Magistrale in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Bologna Developing planning and evaluation skills using laboratory’s teaching. An exploratory- qualitative research in Primary teacher degree of the University of Bologna 49

ANNA BONDIOLI, DONATELLA SAVIO

Valutare la valutazione: una questione metodologica applicata ad un caso di valutazione riflessiva partecipata in asilo nido Reviewing the evaluation: a methodological issue applied to a case of reflexive and participative evaluation in day care centre 69

ANTONIO CALVANI, LAURA MENICHETTI, SILVIA MICHELETTA, CAMILLA MORICCA

Innovare la formazione: il ruolo della videoeducazione per lo sviluppo dei nuovi educatori Innovating training: the video-enhanced learning for pre-service teachers 85

FRANCESCA PEDONE, GABRIELLA FERRARA

La formazione iniziale degli insegnanti attraverso la pratica del microteaching Microteaching in pre-service teacher training

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ROSSELLA D’UGO, IRA VANNINI

Osservare le prassi didattiche nella scuola dell’infanzia. Il PraDISI come opportunità di formazione e sostegno della professionalità The observation of the teaching practices in kindergarten. The PraDISI tool as an opportunity for training and support of teacher professionalism 117

SILVIA KANIZSA, GERMANA MOSCONI, ANDREA GARAVAGLIA

Lo sguardo degli studenti sulle ingiustizie a scuola Students’ view about injustice at school 129

ALESSANDRA LA MARCA, MARCELLO FESTEGGIANTE, SABRINA SCHIAVONE

Docenti precari: resilienza e promozione del benessere Temporary teachers: resilience and welfare promotion 145

SABRINA MANIERO

Le reti territoriali per l’orientamento nelle scuole del Veneto: governo e gestione Local guidance networks in the schools of Veneto Region: governance and management 165

ANTONIO MARZANO, ROSA VEGLIANTE

La comprensione del testo orale: percorsi didattici e di stimolazione con la lavagna interattiva (LIM) nella scuola dell’infanzia Reading comprehension of oral texts: training and stimulation through the interactive whiteboard (IWB) in kindergarten 181

MARINELLA MUSCARÀ, ROBERTA MESSINA

Percezione delle competenze e dell’utilità d’uso delle tecnologie in classe e modelli di formazione dei docenti Perceived competency, perceived ICT usufulness in classroom and teachers training models 197

MARINA SANTI, GIULIA DA RE, DEBORA AQUARIO

La creatività non è un compito per casa: una ricerca esplorativa con studenti di scuola secondaria di primo grado Creativity is not an homework: an exploratory study with secondary school students

indice

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LUISA ZECCA

Tra ‘teorie’ e ‘pratiche’: studio di caso sui Laboratori di Scienze della Formazione Primaria all’Università di Milano Bicocca Between theories and practices: study case about on-campus laboratories (LPD Pedagogical-didactical laboratories) in Primary Teacher Education Program at Milano – Bicocca University

Studi 231

GIOVANNI BONAIUTI, ANTONIO CALVANI, SILVIA MICHELETTA, GIULIANO VIVANET

Evidence Based Education: un’opportunità epistemologica per i nuovi professionisti della formazione Evidence Based Education: epistemological opportunity for new training professionals 245

ARIANNA LAZZARI

Le percezioni di educatori e insegnanti rispetto alle ricadute della formazione in servizio sulle pratiche educative. Risultati di uno studio sistematico della letteratura condotto in ambito Europeo. The effects of continuing professional development on early childhood education and care (ECEC) practice according to practitioners’ views. Findings from a systematic literature review carried out in Europe. 259

MICHELE PELLEREY

Che cosa abbiamo imparato sul piano della progettazione didattica dalle critiche al costruttivismo in ambito pedagogico? What we learned about instructional design from pedagogical critics to constructivism

Esperienze 273

GIUSEPPA COMPAGNO

I framework disciplinari per le competenze di base: uno studio in prospettiva inclusiva A framework of disciplines for basic skills: an inclusive study 289

LUCA LUCIANI

Per una didattica tassonomica dei media e dei suoi laboratori: il modulo trasversale di familiarizzazione For a taxonomic didactics of media and its laboratories: the module cross of familiarization Giornale Italiano della Ricerca Educativa

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Editoriale LUCIANO GALLIANI

700.000 fuori corso: Università e docenti senza alibi Il dato eclatante dei cosiddetti “ fuori corso” è tornato alla ribalta dell’opinione pubblica perché nell’ultima distribuzione del fondo di finanziamento alle Università si è introdotto il “costo standard per studente”, calcolato solo per la durata normale dei corsi di studio. La scandalosa inefficienza della didattica universitaria e dei suoi servizi di supporto, mai affrontata seriamente in Italia – pensiamo all’ex Rettore del Politecnico di Torino e ex Ministro Profumo che pensava di risolvere il problema aumentando le tasse! – comincia finalmente ad allarmare la CRUI che si ritroverebbe a regime con un taglio dal 30 al 50% del finanziamento agli Atenei. Secondo l’ultimo prezioso rapporto annuale di Alma Laurea solo il 41% degli studenti si laurea nei tre anni previsti, per cui i laureati hanno in media quasi 26 anni invece di 22. Arriva alla laurea magistrale nei due anni solo il 50% degli studenti con una età media di quasi 28 anni, mentre alla laurea a ciclo unico arriva nei cinque anni solo il 34% con una media di quasi 27 anni. C’è inoltre il dato drammatico che in Italia solo 3 diciannovenni su 10 si iscrivono all’università e di questi 1 su 6 abbandona dopo il primo anno. Il confronto con i Paesi Europei ci deve riempire solo di vergogna! Per trovare rimedi efficaci occorre conoscere e riconoscere le cause vere del fenomeno non solo italiano dei fuori corso, che non possono essere offensivamente definiti “sfigati”, se non altro perché rappresentano oltre un terzo degli studenti universitari e in alcuni grandi Atenei come La Sapienza e la Federico II o in quelli del Sud e delle Isole sono oltre il 40%. Una prima distinzione, formalizzata dal collega Cammelli nelle statistiche di Alma Laurea, è quella tra “studenti lavoratori” e “lavoratori studenti”. I primi, quasi sempre pendolari e provenienti da famiglie con scarse disponibilità economiche o usciti di casa alla ricerca di autonomia, svolgono attività occasionali e generalmente lavori di bassa qualità, per mantenersi agli studi. I secondi, giovani e adulti impegnati in lavori più stabili e spesso già con famiglia propria, prolungano naturalmente i tempi di studio o ritornano in Università dopo anni per esigenze di sviluppo professionale. Vi è poi una terza categoria di fuoricorso apparentemente senza giustificazione oggettiva, avendo il tempo e il sostegno della famiglia per frequentare i corsi universitari, ed è quella di chi ha serie difficoltà di apprendimento e scarse capacità di autonomia nello studio, oltre ad avere spesso intrapreso percorsi di laurea non adatti alle attitudini personali e poco coerenti con risultati positivi negli studi precedenti. Le Università italiane, tranne in alcune limitate esperienze significative e spesso ostacolate dalle burocrazie tradizionali ammantate da slogan mediatici come “rigore” e “merito”, non sono riuscite finora a rispondere alle esigenze non solo delle tre categorie di fuori corso, ma anche a quelle di generazioni intere di studenti, Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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che chiedono una università “per loro” e non “per i professori”, una “università delle competenze” per entrare preparati nel mondo del lavoro e non appena delle “conoscenze” senza “abilità applicative” per fregiarsi di un titolo legale. Le tre risposte ai bisogni dei fuori corso stanno infatti in una non più rinviabile innovazione della didattica d’aula (lezioni frontali), in un ricorso sistematico alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e in una specifica offerta formativa e di consulenza per l’apprendimento permanente dei “lavoratori studenti”. Innovare la didattica significa progettare e programmare i corsi di laurea ed i singoli insegnamenti, per raggiungere i risultati previsti dai descrittori di Dublino, attraverso una differenziazione linguistica dell’offerta di contenuti disciplinari (es.: Open Educational Resources multimediali) per facilitarne la comprensione e attraverso interazioni didattiche (in aula e nei laboratori in presenza, nei forum e nei laboratori virtuali, nei gruppi di lavoro e nelle comunità di apprendimento on line) e valutative (prove in itinere, sia sulle attività in presenza e in rete che sui testi scritti materia di esame) per costruire cooperativamente conoscenze e abilità e per discutere anche le attività di tirocinio e stage condotte sul campo. Una didattica blended, quindi, che integri presenza e distanza e superi il concetto di “frequenza” (presenza fisica in aula senza comunicazione interattiva e senza controllo in itinere degli apprendimenti) per quello di “partecipazione” (comunicazione produttiva individuale e di gruppo fra studenti e docenti, con verifica e discussione in itinere dei risultati ai apprendimento). Introdurre, in secondo luogo, una offerta formativa per l’apprendimento permanente negli Atenei italiani – colmando un ritardo almeno decennale nei confronti degli altri Paesi europei, con i quali i nostri Ministri di turno hanno continuato a firmare documenti senza applicarne poi le direttive (ci provò solo Mussi nel 2007) – significa uscire dalle gabbie della “teledidattica” e dalle pratiche spesso perverse delle università “telematiche”, ma soprattutto sviluppare la “terza missione” dell’Università, oltre la ricerca e la formazione superiore iniziale delle nuove generazioni, ovvero la formazione degli adulti in una logica di life long and wide learning, così come finalmente la nuova legge 92/2012 sul lavoro rende obbligatorio. Va dato atto alla RUIAP - Rete Universitaria Italiana per l’Apprendimento Permanente del lavoro finora condotto con il MIUR e con la CRUI, per introdurre questo nuovo “diritto della persona” nei nostri Atenei. Non basterà la legge e il decreto applicativo 13/2013 in cui vengono definite le norme generali “per l’individuazione e la validazione degli apprendimenti informali e non formali e degli standard minimi di servizio del sistema nazionale di certificazione delle competenze”. Le Università essendo “enti titolati” a certificare, concorrono secondo la legge, a realizzare e sviluppare le “reti territoriali…attraverso l’inclusione dell’apprendimento permanente nelle loro strategie istituzionali”. Per rendere effettivo il diritto all’apprendimento permanente molti Atenei dovranno perfino modificare i loro Statuti, che non ne parlano o l’hanno relegato in un articolo secondario, magari per giustificare l’attività redditizia dei master. Serviranno rigorose “Linee guida per il riconoscimento, la validazione e l’accreditamento degli apprendimenti non formale e informale e certificazione delle competenze in università”, secondo la proposta della RUIAP e le buone pratiche francese della VAE-Validation des Acquis de l’Expérience e inglese dell’APEL-Accreditation of Prior Experiential Learning. E servirà soprattutto un “servizio di orientamento e consulenza” negli Atenei, identificato nella conferenza MIUR di Napoli del 2007 nel Centro per l’Apprendimento Permanente, in grado di accompagnare i lavoratori studenti nei percorsi di laurea e di master, ma anche di inserire l’università in un sistema integrato di istruzioneformazione-lavoro, come partner indispensabile di una rete di forze culturali, eco-

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nomiche, sociali. Una Università finalmente preoccupata di utilizzare l’apprendimento permanente e la formazione continua per incrementare, migliorare, sviluppare, innovare, certificare le competenze professionali, rendendole “moneta spendibile” per tutto l’arco della vita sul mercato del lavoro e nei processi di flessibilità che lo caratterizzano. Per questo la RUIAP sta proponendo con successo un MOOCs introduttivo ad un master nazionale che sarà attivato dal 2015-16 in almeno 10 Atenei della rete per formare “Esperti nell’accompagnamento al riconoscimento delle competenze e alla validazione degli apprendimenti pregressi” Le sperimentazioni significative condotte nelle nostri Atenei, da un lato, sull’applicazione dell’e-learning nella didattica universitaria, così come descritto brevemente più sopra e, dall’altro lato, sull’attivazione di percorsi/ corsi di studio per lavoratori e di Centri per l’Apprendimento Permanente, si contano sulle dita di due mani e risultano comunque marginali nelle politiche universitarie, a differenza di altri Paesi dove queste attività rappresentano un terzo del bilancio delle Università. Alcune addirittura finalizzate, in collaborazione con le associazioni professionali e con il mondo delle imprese pubbliche e private, a rilasciare regolari titoli accademici di primo e secondo livello work based learning. Basterebbero regole severe e controlli altrettanto rigorosi dell’ANVUR, ad esempio, per indirizzare su questa via le Università Telematiche, bonificando un territorio che ha bisogno di urgenti interventi riformatori. Lo spreco sociale dei fuori corso ci pare allora non semplicemente risolvibile con l’aumento delle tasse, ma all’interno di una politica universitaria che ridefinisca e riqualifichi l’offerta formativa per pubblici diversi, innovando innanzitutto le metodologie e le tecnologie della didattica e dei servizi di supporto (orientamento, tutorato, stage e tirocini, placement) per rendere possibile la “partecipazione” obbligatoria di ogni tipo di studente a tutte le attività. Si potrebbe così ampliare l’utenza delle lauree triennali, collegandole maggiormente al mondo del lavoro, e valorizzare il numero programmato per le lauree magistrali, riservate a specifiche qualificazioni culturali e professionali. Queste innovazioni passano però soltanto attraverso la ri-qualificazione didattica dei docenti universitari, sia verificata al momento del concorso locale dopo una idoneità nazionale esclusivamente di natura scientifico-disciplinare, sia sostenuta all’inizio carriera e durante le loro attività di insegnamento con azioni formative che incidano sul loro sviluppo professionale e con procedure di valutazione basate su risultati e collegate ad incentivi economici. Nel deserto italiano dei Teaching and Learning Centers, diffusi negli Atenei stranieri, sono iniziate alcune sperimentazioni – come quella del progetto dell’Università di Padova PRODID - PReparazione alla prOfessionalità Docente e Innovazione Didattica, sostenuto da CRUI e ANVUR – che dovranno essere accelerate e che dovranno vedere i pedagogisti, specializzati in didattica, come protagonisti assieme a colleghi di altre aree scientifiche. L’innovazione potrà essere vincente solo in una logica di sistema, che integri lo sviluppo professionale dei docenti con lo sviluppo dell’offerta didattica e con lo sviluppo dell’organizzazione politico-amministrativa.

editoriale

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Lo strano caso dei risultati italiani di PISA 2012

Giorgio Asquini - Sapienza, Università di Roma - giorgio.asquini@uniroma1.it

Strange Case of Italian results in PISA 2012 The paper examines the Italian results in OECD-PISA 2012. The lack of national reports on Problem Solving and Financial Literacy makes it difficult to analyze the overall performance of Italian students, but the reading of the OECD reports reveals a surprising positive result for Problem Solving and a heavy fall in the Financial Literacy. The results of these two literacies have been linked to Reading and Mathematics, to identify the main reasons for the weakness of the Italian results. The school is not responsible for the good results of Problem Solving, while there is a problem of poor training on the specific contents of Financial Literacy. The strong regional differences of the results are confirmed.

Parole chiave: OCSE-PISA, Problem Solving, Financial Literacy, Valutazione di sistema, Equità, Variabili di background.

Keywords: OECD-PISA, Problem Solving, Financial Literacy, Assessment System, Equity, Background Variables

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ricerche

Il saggio esamina i risultati italiani in OCSEPISA 2012. La mancanza di rapporti nazionali su Problem Solving e Financial Literacy rende difficile una lettura completa delle performance degli studenti italiani, ma la lettura trasversale dei rapporti OCSE rivela un sorprendente esito positivo per il Problem Solving e una parallela caduta nella Financial Literacy. I risultati di questi due ambiti sono stati collegati a quelli già ottenuti in Lettura e Matematica, per identificare le principali ragioni delle debolezze dei risultati italiani. La scuola non risulta responsabile per i buoni risultati del Problem Solving, mentre per la Financial Literacy emergono evidenti problemi di impreparazione sui contenuti specifici di tipo economico. Vengono confermate le forti differenze territoriali dei risultati.


Lo strano caso dei risultati italiani di PISA 2012

Introduzione Sì, mi ero coricato Henry Jekyll e mi risvegliavo Edward Hyde. Come si spiegava? Mi chiesi; e poi con un nuovo sussulto di terrore: come porvi rimedio?1

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Con la pubblicazione nel mese di Luglio 2014 del VI volume relativo alla Financial Literacy (OECD, 2014b) l’OCSE ha completato la pubblicazione dei risultati di PISA 2012. I primi quattro volumi erano usciti a dicembre 2013, vale a dire, come è ormai consuetudine, al termine dell’anno successivo allo studio principale. Ma PISA 2012 è stato un ciclo particolare del Programma, poiché per la prima volta sono stati aggiunti due ambiti specifici alle tradizionali rilevazioni in Lettura, Matematica e Scienze. Oltre all’ultimo volume sulla Financial Literacy ad Aprile 2014 era già stato pubblicato quello contenente i risultati del Problem Solving (OECD, 2014a), ambito riproposto a distanza di 9 anni dalla prima somministrazione (OECD, 2004). L’accoglienza dei risultati in Lettura, Matematica e Scienze, presentati nel mese di dicembre 2013, era risultata abbastanza tiepida: l’Invalsi, che svolge l’indagine nel nostro paese per conto dell’OCSE e del MIUR, aveva sottolineato la tenuta e il consolidamento dei dati rispetto al 2009, ma in definitiva aveva anche ammesso che poco era cambiato, risultavamo ancora, come sempre, sotto le medie OCSE in maniera significativa, e questo avevano sottolineato i principali quotidiani italiani, ricordando, per l’ennesima volta, i forti squilibri di risultato fra le diverse aree territoriali del paese in direzione nord-sud. Nulla era cambiato quindi, rispetto ai cicli precedenti. Quando sono arrivati i nuovi risultati l’accoglienza è stata abbastanza distratta: nessuna presentazione ufficiale per il Problem Solving e presentazione decentrata, in Banca d’Italia, della Financial Literacy, con alcune schede sintetiche sulla situazione italiana, talvolta semplicemente riprese dalle pubblicazioni OCSE. Scarsa eco sui giornali, (complice il periodo estivo che vedeva la stampa a caccia di notizie su esami di stato ed ennesime riforme), eppure sempre di dati OCSE-PISA si trattava. Nel grafico che segue (Graf. 1) proviamo a mettere semplicemente in fila i 5 risultati degli ambiti indagati da PISA 2012, in particolare il dato italiano confrontato con l’OCSE.

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Le citazioni in apertura dei paragrafi sono tratte da Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, di Robert Louis Stevenson (2002; edizione originale Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1886).

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Graf. 1: Riepilogo risultati PISA 2012. Punteggi medi. Elaborazione da OECD 2013b, OECD 2014a, OECD 2014b. * La media OCSE è calcolata sui soli paesi OCSE partecipanti.

Bisogna ricordare subito che, nonostante la scansione nella pubblicazione dei risultati, le rilevazioni nei cinque ambiti si sono svolte contemporaneamente, tutte su campione nazionale, quindi i dati risultano confrontabili in quanto riferiti allo stesso universo. Bisogna anche osservare che i dati OCSE di Problem solving e Financial Literacy si riferiscono ai soli paesi che hanno scelto di svolgere questi studi opzionali2, ma le differenze dei due gruppi ristretti di paesi partecipanti, per il calcolo della media OCSE, rispetto ai 34 paesi dei tre ambiti principali, non risultano particolarmente rilevanti: il dato medio OCSE del Problem Solving, messo a confronto con quello ottenuto dagli studenti con performance simili in Matematica, Lettura e Scienze, risulta di sette punti inferiore, mentre quello della Financial Literacy è superiore di soli due punti al risultato ottenuto dagli stessi studenti in Matematica e Lettura. I campioni OCSE non completi di tutti i paesi risultano quindi poco meno performanti nel Problem Solving, e praticamente allo stesso livello per la Financial Literacy. I nostri studenti si sono mossi in entrambi i casi in direzione opposta: hanno migliorato nel Problem Solving (10 punti in più, rispetto al risultato atteso se si considerano gli altri ambiti, uno dei guadagni più consistenti fra i paesi partecipanti) e sono precipitati nella Financial Literacy (14 punti in meno, una delle perdite maggiori). In entrambi i casi si tratta di risultati significativamente diversi dalla media OCSE, ma per quanto riguarda il Problem Solving è la prima volta che l’Italia, dopo 16 rilevazioni PISA con risultati negativi3, ha un risultato significativamente migliore della media OCSE: un mancato scoop per la stampa italiana. All’opposto, il risultato in Financial Literacy è uno dei peggiori dati PISA di sempre, che eguaglia i 34 punti di differenza dalla media OCSE di Matematica 2003 ed è superato solo da Matematica del 2000 (43 punti in meno) e del 2006 (36 punti in meno). Cosa succede ai quindicenni italiani, rispetto ai coetanei degli altri paesi, quando passano dal giorno, stimabilissimi dottori dell’arte di risolvere i problemi, alla notte, in cui litigano con carte di credito e percentuali di sconto?

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Per il Problem Solving i paesi OCSE partecipanti sono stati 28 (più 16 paesi partner), per il Financial Literacy 12 e la Comunità Fiamminga del Belgio (più 5 paesi partner). Si considerano i 15 risultati in Lettura, Matematica e Scienze dal 2000 al 2012 e il dato del Problem Solving del 2003.

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1. Ancora sulle differenze Le mie due nature avevano in comune la memoria, mentre tutte le altre facoltà erano ripartite fra di loro in modo assai ineguale.

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Anche se le differenze sono lampanti, il confronto sulle performance medie dei paesi non rappresenta certo il risultato più importante di PISA, anche se purtroppo è spesso l’unico che trova spazio sulla stampa e raggiunge i portatori di interesse verso la scuola. L’OCSE cerca di offrire ai paesi partecipanti informazioni molto più accurate rispetto al semplice ranking internazionale. Come vedremo inoltrandoci nell’analisi, il modello valutativo di PISA cerca di essere molto rigoroso e si fonda da una parte sulla chiara definizione degli oggetti della valutazione, da cui deriva la costruzione degli strumenti, dall’altra sulla articolazione delle scale di valutazione, problema assai delicato in una comparazione internazionale così ampia e di carattere ciclico4. La modalità più interessante di rendicontazione dei risultati, introdotta proprio dal primo rapporto PISA (OECD, 2001) è l’articolazione dei risultati per livello di literacy. L’importanza di questo modo di leggere i dati è stata avvalorata dalla decisione della Comunità Europea di considerare il dato relativo ai lowest performers come obiettivo politico per i sistemi di istruzione europei5. Vediamo quindi l’articolazione per livelli di literacy dei risultati italiani nei cinque ambiti di PISA (Graf. 2).

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Graf.2: Riepilogo risultati PISA 2012. Livelli di Literacy. Elaborazione da OECD 2013b, OECD 2014a, OECD 2014b. * I dati OCSE sono calcolati sui soli paesi OCSE partecipanti.

Ricordiamo che la soglia di sufficienza, secondo la scala OCSE, è il passaggio fra il livello 2 e il livello 3 (intorno ai 480 punti per tutte le scale), ed entrambi i livelli sono accomunati dalla definizione di Moderate Performers (OECD, 2013b, p. 22). La soglia di pericolo per un analfabetismo funzionale scatta sotto il livello 2,

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Risultano essenziali quindi il Framework (l’ultimo anche in traduzione italiana, OCSE-INVALSI, 2013) e i Technical Report (in attesa di quello per il 2012, l’ultimo è relativo al ciclo 2009: OECD, 2012) che accompagnano ogni ciclo dell’indagine, a partire dalla prima edizione del 2000. Per la Strategia di Lisbona 2010 l’obiettivo riguardava solo la diminuzione dei cattivi lettori, mentre nella riproposizione della Strategia 2020 l’obiettivo è stato esteso a tutti i lowest performers identificati da PISA (CEC, 2008)

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con i Lowest Performers6, che sono proprio la categoria per la quale l’Unione Europea chiede di diminuire l’incidenza. Completano la categorizzazione gli Strong Performers (livello 4) e i Top Performers (livelli 5 e 6). Nel complesso si può vedere che Lettura, Matematica e Scienze replicano abbastanza da vicino i dati OCSE estremi, maggiore incidenza di Lowest, minore presenza di Top, con qualche scarto per i livelli intermedi. Per gli altri due ambiti le cose vanno in modo molto diverso. Se consideriamo il passaggio dal livello 2 al livello 3 del grafico 2 vediamo che gli studenti insufficienti (sotto il livello 3) in Italia sono intorno al 50% per Financial Literacy e Matematica, intorno al 44% per Lettura e Scienze, sotto il 40% per il Problem Solving, l’unico ambito che presenta anche uno scarto positivo rispetto al dato OCSE. Negativi invece per i nostri studenti i confronti negli altri ambiti, con uno scarto di ben 13 punti per la Financial Literacy, proprio l’ambito in cui il dato OCSE è il migliore di tutti (sotto il 40% di insufficienti). Se si confrontano le percentuali relative ai Lowest Performers le cose non cambiano molto, con la sola inversione fra Matematica e Financial Literacy per la maggiore percentuale di semianalfabeti funzionali, in entrambi i casi superiore al 20%. Il dato relativo al Problem Solving, di poco superiore al 16%, è molto vicino alla soglia simbolica 2020 (anche se bisogna ricordare che tale obiettivo è stato fissato solo per Lettura, Matematica e Scienze). Interessante anche il confronto per i Top Performers: in tutti gli ambiti le nostre percentuali sono inferiori a quelle OCSE, anche dove andiamo bene (Problem Solving). Proprio quest’ultima differenza comincia a essere indicativa: il nostro risultato molto positivo è fondato su un livello discreto o quasi accettabile della maggioranza dei nostri studenti (73% nei livelli 2-3-4), mentre gli estremi (Lowest e Top) sono sottorappresentati (OECD, 2014a, p.46). Questa maxicategoria media è ancora più ampia per la Financial Literacy (76%), però è sbilanciata dall’alto numero di Lowest e dal bassissimo numero di Top (solo l’1,8, il peggior dato fra i Paesi OCSE). Insomma l’articolazione dei risultati per livelli riduce in parte l’allarme sulla cattiva performance della Financial Literacy, poiché un’ampia percentuale di studenti è intorno alla sufficienza e poco oltre. Altro dato un po’ sorprendente per i Top Performers è quello della Matematica: dopo il Problem Solving è il miglior dato italiano, ma questo significa che la distribuzione delle abilità nei nostri studenti per questi due ambiti è più polarizzata, con oltre un terzo di loro nei livelli estremi, quindi una maggiore disomogeneità della performance. Anche la lettura dei risultati per livello conferma comunque la suggestione iniziale: i nostri studenti se la cavano di giorno, grazie alla sana arte di arrangiarsi, ma una parte cospicua di loro brancola nel buio dei calcoli e dell’economia. Cerchiamo di guardare un po’ più da vicino questa doppia personalità.

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In questa categoria ci sono piccole differenze fra gli ambiti: tutti, tranne il Financial Literacy, prevedono un livello “Inferiore a 1” per quegli studenti che non rispondono neanche alle domande più semplici. Lettura prevede un’ulteriore suddivisione fra livello “1a” (che ha sostituito l’originale livello 1 del primo ciclo 2000) e “1b” (che è stato inserito dal 2009 con la definizione della fascia più alta dell’originale livello “Inferiore a 1” di PISA 2000. Nella Figura 1 i livelli “1b” e “Inferiore a 1”di Lettura sono stati unificati per omogeneità con gli altri ambiti, considerando le soglie specifiche di scala.

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2. Dell’arte di arrangiarsi La mia ragione vacillò ma non mi abbandonò completamente. Ho osservato più di una volta che nella mia seconda personalità ogni facoltà sembrava per certi versi più acuta e l’animo più intensamente vibrante: capitò così che dove Jekyll avrebbe potuto soccombere Hyde seppe essere all’altezza della situazione.

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L’unico punto di riferimento diretto per un confronto diacronico sul Problem Solving è la rilevazione PISA del 2003 (Asquini, 2006). Il nostro punteggio medio allora era di 469, 31 punti significativamente sotto la media OCSE. I livelli di literacy definiti in quella prima rilevazione erano solo tre, ma in quello “Inferiore a 1”, equivalente agli attuali “1” e “Inferiore a 1”, si trovava un quarto degli studenti italiani, contro il 17% dell’OCSE. Di fatto le performance nell’arte di risolvere i problemi replicavano i risultati della Matematica. A distanza di 9 anni il progresso è sorprendente: è vero che è stato ridefinito il quadro di riferimento e di conseguenza lo strumento è stato del tutto rinnovato, ma l’impianto base, rispetto a quanto rilevato nel 2003 (OECD, 2003, pp. 153-198), è rimasto molto simile. La relativa freschezza del rapporto internazionale, la mancanza di un rapporto italiano, l’ancora non piena disponibilità dei dati per effettuare analisi specifiche rende possibile per adesso solo una prima lettura dei risultati, ma fra le pieghe del V volume del rapporto OCSE specificamente dedicato al Problem Solving (OECD, 2014a), di cose segnalate sul nostro paese ce ne sono abbastanza per avviare una riflessione. Siamo uno dei tre paesi, con Giappone e Corea, che ha migliorato il risultato soprattutto grazie agli studenti Moderate e Lowest Performers in Matematica, che quando sono alle prese con situazioni problematiche tendono a dare il meglio di sé e ottengono brillanti risultati. Invece nei paesi anglosassoni che hanno migliorato, il guadagno è imputabile soprattutto agli studenti che già andavano bene. Il nostro tipo di miglioramento è quindi fondato soprattutto sulla motivazione ad accendere il cervello in contesti stimolanti (gli esempi rilasciati delle prove di Problem Solving risultano molto più originali e stimolanti rispetto ai quesiti strettamente matematici e scientifici, OCSE-INVALSI, 2013, pp.. 119-139). Nel rapporto l’OCSE tira in ballo anche il concetto di resilienza circa questi studenti: that students at the bottom of the class who struggle with some subjects in school are remarkably resilient when it comes to confronting real-life challenges in non-curricular contexts (OECD. 2014a, p. 70). Questo comporta anche la marcata omogeneità degli studenti italiani, per cui nel grafico che tiene insieme punteggio e deviazione standard, ci troviamo finalmente nel quadrante dei migliori in assoluto (OECD, 2014a, p. 64). Perché questa differenza di performance, soprattutto rispetto alla Matematica, in cui non solo andiamo peggio, ma abbiamo un valore di dispersione dei punteggi più alto (102, contro 89 del Problem Solving)? L’ipotesi sulla maggiore presa degli studenti è reversibile: gli studenti percepiscono i quesiti matematici in modo più scolastico, e non si attivano per rispondere. Potrebbe quindi trattarsi di un effetto paradossale della recente massiccia diffusione dei test nella scuola italiana: tanto più si addestrano gli studenti a rispondere a quesiti disciplinari, tanto più affrontano con stanchezza quelle prove PISA che risultano più vicine a quel tipo di verifiche. Certo si tratta di una spiegazione tutta da verificare, ma il macroscopico scarto del Problem Solving rappresenta più di un indizio. Per completare il quadro l’Italia è uno dei paesi in cui le variazioni nella performance in Problem Solving sono meno legate agli altri ambiti di PISA, con oltre il 40% della varianza non spiegata (OECD, 2014a, p. 68), ulteriore segnale di lontananza dall’esperienza scolastica.

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Se consideriamo l’equità riferita al sistema scolastico l’Italia presenta una variazione di punteggi fra le scuole inferiore alla media OCSE (OECD, 2014a, p. 65); è la prima volta che questa variazione è inferiore alla media e riguarda la literacy di PISA meno affine all’esperienza scolastica, per cui abbiamo un altro indizio circa il possibile effetto collaterale negativo della scuola. Considerando nello specifico i risultati dei quindicenni in percorsi Vocational (per noi Istituti Tecnici, Professionali e dal ciclo 2009 anche la Formazione Professionale) il guadagno è di circa 12 punti, pur non risultando significativo, laddove la performance del canale strettamente professionalizzante tedesco è circa 24 punti sotto le attese (OECD, 2014a, p. 96). Una delle priorità ricorrenti dell’OCSE nelle sue analisi è il confronto di genere. Come per la Matematica anche il Problem Solving è un ambito a prevalenza maschile, con soli 5 paesi su 44 partecipanti in cui le ragazze vanno meglio dei compagni (che prevalgono in 23), e questa prevalenza è data soprattutto dalla maggiore presenza maschile fra migliori. Il nostro dato si stacca in parte dal dato medio internazionale: prevalgono nettamente i maschi (siamo il terzo paese OCSE per vantaggio maschile), ma tra i Lowest Performers c’è un sostanziale equilibrio, mentre fra i Top Performers i maschi sono più del doppio. A livello internazionale il punto di forza delle ragazze risulta legato ai processi di “Pianificare ed eseguire” (OCSEINVALSI, 2013), che richiedono di usare le conoscenze acquisite, mentre risultano più deboli in “Rappresentare e formulare”, vale a dire i modi in cui si acquisisce la conoscenza, e in questo caso possono risultare penalizzanti per le ragazze i contesti delle prove. In Italia però, come in molti paesi europei, i modelli di risposta per i processi di Problem Solving risultano abbastanza simili fra maschi e femmine, per cui il modo di approcciare i problemi risulta lo stesso, ma con esiti diversi. Nel complesso le nostre ragazze sono tra quelle che, rispetto ai dati ottenuti negli altri ambiti, riportano la performance peggiore, con oltre 20 punti di meno rispetto alle attese (OECD, 2014a, p. 102). D’altra parte l’eterogeneità dei risultati dei maschi è più forte rispetto alle compagne, e il nostro paese è uno fra quelli con la differenza più marcata (oltre 15 punti di deviazione standard di differenza, OECD, 2014a, p. 100). L’analisi di genere quindi merita un approfondimento che può avere rilevanti implicazioni didattiche su come rinforzare la capacità di risolvere situazioni problematiche. Per completare il discorso sui processi, il campione italiano ha ottenuto i migliori risultati negli item di “Rappresentare e formulare”, mentre significativamente più bassa è la performance in “Pianificare ed eseguire”: i più maliziosi ritroverebbero conferma dello stereotipo dell’italiano medio, geniale nel formulare ottime soluzioni, ma in difficoltà quando si tratta di applicarle. Ma con questa articolazione l’OCSE ci ricorda che il Problem Solving è una concatenazione di processi complessi (ai due indicati bisogna aggiungere “Esplorare e comprendere” e “Monitorare e riflettere”) e quindi se si vuole intervenire dal punto di vista didattico bisogna considerarli tutti. Un dato che merita sicuramente di essere approfondito è il rendimento nelle domande aperte, che a sorpresa è migliore rispetto ai quesiti a risposta chiusa. Non si tratta di una differenza significativa, ma negli altri ambiti i nostri studenti hanno sempre manifestato problemi in questo tipo di domande, che richiedono di produrre una risposta per esteso. In Lettura, nei diversi cicli di PISA, sono proprio le scarse performance nelle domande aperte che determinano gli scadenti risultati dei quindicenni italiani (Asquini & Corsini, 2012). Le prove di Problem Solving sono state somministrate esclusivamente in formato elettronico, e naturalmente l’OCSE ha monitorato l’effetto del medium uti-

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lizzato sulla performance degli studenti. Per Matematica e Lettura il formato elettronico è stato utilizzato in un sottocampione nazionale rappresentativo (per macroarea geografica e tipo di scuola), e l’utilizzo del computer aveva contributo a un miglioramento dei risultati italiani rispetto al cartaceo (13-14 punti per entrambi gli ambiti, INVALSI, 2012 pp. 129-196), anche se, con riferimento al sottocampione che ha svolto le prove in entrambi i formati, i miglioramenti non sono risultati significativi. Anche per il Problem Solving il formato elettronico spiega i cambiamenti di prestazione in modo molto limitato, per noi solo il 2% della varianza, di poco inferiore al dato medio OCSE (OECD, 2014a, p. 73), e il miglioramento, rispetto a Matematica, è praticamente lo stesso su entrambi i formati. L’uso del computer nelle verifiche quindi non risulta di per sé influente sul livello di prestazione. È stato verificato anche il possibile effetto sul risultato considerando il possesso e l’uso del computer: l’effetto positivo risulta significativo nella stragrande maggioranza dei paesi, anche dopo aver controllato le variabili socio-economiche, ma ancora una volta per il nostro paese la differenza rilevata, pur positiva, non risulta significativa (ricordiamo che la somministrazione elettronica richiedeva un breve training su come utilizzare il software interattivo per rispondere alle domande). Di passaggio notiamo che ben il 97,4% dei nostri partecipanti ha dichiarato di utilizzare il computer a casa nei suoi diversi formati (OECD, 2014a, p. 112), confermando l’idea che si tratta della prima vera generazione di nativi digitali. Un’altra curiosità, tutta da approfondire, riguarda il 66,5% di studenti italiani che ha dichiarato di utilizzare il computer a scuola: il loro risultato è di poco inferiore a quelli che non lo usano a scuola, quindi l’introduzione degli strumenti informatici nelle aule al momento non sembra produrre risultati apprezzabili nella performance degli studenti (OECD, 2014a, p. 113). In generale lo status socio-economico ha inciso meno sui risultati di Problem Solving rispetto agli ambiti tradizionali, e confermiamo da questo punto di vista di essere uno dei paesi più equi, con circa il 6% della varianza spiegata, la metà del dato OCSE (OECD, 2014a, p. 105). Fra gli elementi che definiscono lo status socio-economico resta preponderante il livello occupazionale dei genitori, ma in misura ridotta rispetto agli altri ambiti, mentre nel nostro paese questa riduzione si ha solo rispetto alla Lettura. Da notare che il processo in cui lo status incide meno è quello “Pianificare ed eseguire”, cioè il nostro punto debole, per cui quando c’è da agire i nostri studenti sono più o meno tutti uguali. L’ultima suggestione per il confronto internazionale riguarda la performance degli studenti immigrati e purtroppo il nostro paese è uno dei peggiori in termini di punteggio atteso rispetto ai risultati di Lettura, Matematica e Scienze, con una differenza significativa di circa 13 punti in meno (OECD, 2014a, p. 110). Si tratta evidentemente di un contesto di prove che mette in difficoltà i nostri studenti non nativi, cosa che va considerata con attenzione per interventi didattici di supporto e integrazione. Concludiamo con un confronto tutto interno, interessante vista la mancanza al momento di un rapporto nazionale sul Problem Solving. Nel seguente grafico (Graf. 3) sono riepilogati i dati relativi alle macroaree geografiche, confrontate con il dato nazionale e quello OCSE.

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Graf. 3: !PISA 2012 Problem Solving. Punteggi medi per macroarea geografica. Elaborazione da OECD 2014a.

La dislocazione delle diverse macroaree è molto simile rispetto ai risultati negli altri ambiti (per esempio Matematica: INVALSI, 2013, p. 37), però questa volta le due aree settentrionali risultano superiori all’OCSE, ma non alla media nazionale (le barre grigie rappresentano gli intervalli di confidenza), il Centro e il Sud Isole senza differenze significative con le due medie, nazionale ed OCSE, il Sud inferiore a entrambe. Anche in questo caso una novità assoluta, la prima performance non negativa di un’area meridionale. Si tratta di un’ultima soddisfazione: non solo il risultato nazionale è brillante, ma è ottenuto soprattutto con le performance di chi (studenti e aree geografiche) aveva dimostrato maggiori problemi in Matematica, Lettura e Scienze. Strano che, in un paese dove è arduo trovare qualcuno che si assuma la responsabilità dei risultati negativi, nessuno abbia ancora messo il cappello su questi esiti. Anche se, come abbiamo visto, c’è molto da lavorare, soprattutto per capire come trasferire le capacità dimostrate nel Problem Solving anche negli altri ambiti: sicuramente la capacità di leggere rimane quella più trasversale, che di fatto contamina tutti gli altri ambiti per come sono costruite le prove, e in definitiva rappresenta ancora il miglior indicatore sintetico disponibile per stimare il profitto scolastico (Asquini, 2014), ma il Problem Solving, l’ambito di PISA meno scolastico di tutti, rappresenta una delle competenze chiave su cui deve puntare un sistema di istruzione, come da tempo è stato definito dall’OCSE (Ryjchen & Salganik, 2000), risultando anche una delle misure più importanti delle rilevazioni sulla popolazione adulta (OECD, 2013a).

3. Non basta la paghetta …era un individuo con il quale nessuno vorrebbe avere a che fare, un personaggio davvero abominevole; mentre la firma sull’assegno era di una persona squisita, un nome illustre, e (che è anche peggio) uno di quegli individui che si adopera per far del bene.

Negli ultimi tempi il tema dell’alfabetizzazione finanziaria appare sempre più di frequente nel dibattito su cosa debba insegnare la scuola, anche per merito di diverse iniziative che coinvolgono istituzioni e privati (una recente rassegna di quanto si sta facendo è contenuta in Romagnoli & Trifilidis, 2013). Quando il 9 luglio sono stati presentati alla Banca d’Italia i dati relativi alla Financial Literacy di PISA 2012, in contemporanea con la presentazione internazionale, l’amarezza è stata palpabile, ma la pessima performance dei nostri studenti è stata in molti interventi

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considerata come il punto di partenza, il fondo da cui risalire, con il primo appuntamento fissato al 2015, quando la rilevazione sarà ripetuta e forse si cominceranno a vedere gli effetti dei progetti su questa tematica che sono stati avviati negli ultimi anni. È evidente, come già osservato a suo tempo per gli altri ambiti, che in tre anni non ci potranno essere rovesciamenti della situazione, ma sarà interessante verificare la tendenza, ricordando che gli effetti di qualsiasi iniziativa di modifica sul sistema produce risultati sui tempi lunghi (Asquini, 2011). Durante la presentazione di luglio la comparazione con gli altri risultati di PISA non è stata presa molto in considerazione, ma anche in questo caso cerchiamo di approfondire questa nuova trasfigurazione, stavolta in negativo, degli studenti italiani quando cambia l’argomento delle domande. Grazie alla Colombia, peraltro paese partner, non siamo proprio gli ultimi nella scala di Financial Literacy, e non siamo i soli a stupirci di un risultato negativo: noi perdiamo 14 punti rispetto alle attese, ma la Francia, pur a un livello superiore al nostro, ne perde ben 24, passando dall’essere in media OCSE negli ambiti principali a un differenza significativa in negativo. Nel complesso è stata rilevata una forte correlazione positiva con Matematica e Lettura, a conferma dell’ipotesi che le capacità di affrontare problemi finanziari si fonda anche su capacità di comprensione e calcolo (OCSE-INVALSI 2013, p.145), ma per noi, per i francesi e gli sloveni questo non vale: i risultati in Financial Literacy sono sostanzialmente sganciati dagli altri ambiti. È questo il primo segnale: per i nostri studenti c’è un problema specifico di contenuto circa i temi finanziari, che le abilità di base non riescono a supportare. Di fatto, sono pochi gli studenti italiani che svolgono nella scuola superiore programmi legati all’economia, confinata nel Liceo delle Scienze umane con opzione economico-sociale, e anche nei livelli dell’obbligo la tematica finanziaria è poco trattata. I notevoli margini di miglioramento che sono possibili per noi sono evidenziati dalla stessa OCSE (OECD, 2014b, p. 70): si può colmare il differenziale rispetto ai risultati in Lettura e Matematica, che al momento rappresentano la capacità potenziale dei nostri studenti, una volta risolti i problemi di contenuto. Ma c’è di più. L’OCSE ci segnala che esiste una correlazione positiva anche con il Problem Solving, che nel nostro paese, e in pochi altri, resta tale anche dopo il controllo dell’incidenza di Lettura e Matematica. Quindi il nostro margine di miglioramento è ancora maggiore, se si riusciranno a trasferire in questo ambito le modalità di approccio al problema che i nostri studenti hanno mostrato nel Problem Solving, insieme ad un efficace intervento sui contenuti specifici (OECD, 2014b, p. 119). Nell’indagine è stata considerata l’incidenza degli aspetti di contenuto sui risultati, fornendo una descrizione riguardante gli studenti inseriti in indirizzi specifici di questo tipo, in particolare per il tempo scolastico effettivamente dedicato alle tematiche finanziarie. I dati sono ricavati dal questionario sottoposto agli studenti, e mostrano che circa due terzi dei nostri studenti non hanno mai ricevuto, durante l’intero loro percorso scolastico, alcuna nozione di tipo finanziario, a fronte di poco meno della metà dei loro colleghi nel complesso dei paesi OCSE partecipanti; in diversi paesi (come Nuova Zelanda o Stati Uniti) l’attività di formazione su questa tematica è svolta da personale specializzato esterno, non solo dagli insegnanti. Da notare che l’unico paese in cui questa domanda (chi fornisce istruzione finanziaria?) è stata considerata non applicabile è proprio l’Italia (OECD, 2014b, p. 150), e anche sul tema della formazione e dell’aggiornamento degli insegnanti i nostri Dirigenti scolastici, responsabili della compilazione del Questionario Scuola, non hanno fornito i dati riferiti a tutti gli insegnanti, per cui sappiamo solo che nel 74% delle nostre scuole nessun insegnante di materie economiche ha partecipato ad attività di aggiornamento nell’ultimo anno, contro il

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56% della media OCSE. Anche per numero di ore di lezione svolte siamo sempre sotto la media OCSE, soprattutto quando gli aspetti economici sono trattati in modo trasversale e non in una disciplina specifica. In ogni caso l’incidenza di questi aspetti sulla performance è tutta da verificare per il nostro paese, vista la parzialità dei dati presenti nel rapporto internazionale, per cui dopo la pubblicazione del rapporto italiano, e la conseguente maggiore disponibilità di dati specifici, sarà doveroso approfondire questa relazione, che potrebbe suggerire eventuali interventi sui programmi o su progetti specifici per rinforzare le conoscenze in ambito finanziario, come recentemente hanno cominciato a fare diversi paesi, tra cui il nostro (Romagnoli & Trifilidis, 2013). Per completare il quadro delle relazioni con gli altri dati di PISA, l’Italia è uno dei paesi in cui le variazioni nella performance in Financial Literacy sono meno legate agli altri ambiti di PISA, con poco meno del 40% della varianza non spiegata (OECD, 2014b, p. 69, un dato molto vicino a quello relativo al Problem Solving visto in precedenza), un ulteriore segnale di quanto le tematiche finanziarie siano lontane dall’esperienza scolastica. Analogamente a quanto rilevato per il Problem Solving, anche in questo caso i risultati dei ragazzi sono di solito leggermente migliori, ma siamo l’unico paese con una differenza significativa in tal senso, seppur di soli 8 punti della scala PISA. Se però si controllano le variabili relative agli altri ambiti indagati da PISA, la prevalenza maschile diventa significativa nella media OCSE, con l’Italia che presenta la differenza più ampia di genere (quasi 15 punti, OECD, 2014b, p. 78), un’altra specificità che meriterà di essere approfondita. Può essere un indizio l’analogia con il Problem Solving circa le differenze di genere nei diversi livelli, visto che nei Top Performers, anche in questo caso, prevalgono nettamente i maschi (cosa che si verifica solo in pochi paesi oltre il nostro), suggerendo la possibile maggiore caduta di motivazione a rispondere per molte ragazze, anche brave, quando si parla di soldi, con la conseguente possibilità di avere ulteriori margini di miglioramento. Il risultato critico in termini di risultati medi è parzialmente controbilanciato da una minore dispersione dei punteggi, quindi con una tendenza all’equità dei risultati. Siamo uno dei paesi con la deviazione standard minore (87, contro una media di 96) e il range fra il 10° e il 90° percentile è di 224 punti, a fronte di una media OCSE di 247. D’altra parte siamo l’unico paese in cui la mediana passa per il livello 2, tutti gli altri hanno lo studente centrale nel livello 3, che ricordiamo è quello della piena sufficienza. La relativa omogeneità dei risultati negativi permette però di ipotizzare la possibilità di un intervento sulla massa critica della popolazione, con l’obiettivo di spingere l’equità almeno ad un livello superiore di Literacy. Rimanendo in tema va sottolineato che quello che è sempre risultato il nostro principale problema per Lettura e Matematica (siamo il paese con le maggiori differenze fra le scuole, oltre il 50% della varianza spiegata da questo aspetto), si riduce in modo significativo, anche se la differenza fra scuole spiega ancora molta più varianza rispetto alle differenze rilevate dall’indice ESCS (Economic, Social and Cultural Status). Anche considerando la localizzazione sul territorio delle scuole, il nostro paese mostra una sostanziale parità fra aree rurali e grandi centri, laddove in media OCSE per questi ultimi c’è un guadagno di 10 punti sulla scala PISA. Certo, siamo ancora sopra la media OCSE (OECD, 2014b, p. 92), perché gli abissi esistenti fra istituti non sono facili da colmare, ma la riduzione delle differenze lascia intravedere ancora una volta maggiori possibilità di intervento nelle scuole. Una Literacy così specifica come quella Finanziaria fa pensare che i fattori di background abbiano un peso rilevante sui risultati: ancora una volta il nostro paese si stacca dagli altri, poiché il complesso della varianza spiegata da aspetti demo-

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grafici (nonostante le forti differenze di genere) e socio-economici è notevolmente più basso (17%) rispetto a molti altri paesi e alla stessa media OCSE (oltre il 22%), e addirittura per la relazione con l’indice ESCS siamo, dopo l’Estonia, il paese OCSE con il dato migliore in termini di equità (OECD, 2014b, p. 84), cioè una ridotta relazione fra status socio-economico e performance degli studenti, laddove questa relazione è risultata molto più forte per Matematica e, soprattutto nel nostro paese, per Lettura. Sempre per gli aspetti di sfondo nel nostro paese incidono molto meno il livello di istruzione dei genitori e il loro status occupazionale, con differenze meno marcate sempre se messe a confronto con quelle rilevate per Matematica e Lettura. Invece per quanto riguarda il benessere familiare complessivo (misurato dalla disponibilità o meno di alcuni beni, quali una stanza personale o la connessione ad Internet) e lo status di immigrato (dello studente o dei genitori) non ci discostiamo di molto dal dato OCSE, anche se per quanto riguarda la lingua parlata a casa le differenze di performance tendono a crescere. Un altro elemento che incide positivamente sui risultati, e questo a prescindere dallo status socio-economico, è il parlare di argomenti finanziari in casa, con una differenza significativa nel nostro paese a sfavore degli studenti che non affrontano mai l’argomento a tavola con genitori e familiari. Si può concludere che il peso ridotto degli aspetti demografici e socio-economici nel determinare i risultati nel nostro paese, da una parte permette di affermare che i problemi con la Financial Literacy non sono una peculiarità dei quindicenni, ma riguardano tutta la popolazione adulta, dall’altra che esiste, visto il mancato supporto dell’ambiente, una maggiore responsabilità dell’istituzione scolastica e di tutti i portatori di interesse sulla tematica nel fornire strumenti adeguati agli studenti per potenziare le conoscenze specifiche. Prevedendo la relativa possibilità per gli studenti di apprendere nozioni finanziarie a scuola, il questionario dell’indagine ha indagato anche l’esperienza diretta degli studenti in campo finanziario, ed alcuni miti sono stati sfatati. Per esempio può sembrare ovvio che chi ha parenti occupati nel settore economico ottenga risultati migliori, ma controllando le variabili socio-economiche complessive questo specifico aspetto non sembra incidere sui risultati. La stessa cosa accade per il possesso diretto di una carta prepagata da parte dello studente: solo in alcuni paesi, tra cui il nostro, questo possesso si collega ad un risultato migliore, ma controllando le variabili che compongono l’indice ESCS, le differenze non risultano significative. Diventano invece significative, in positivo, per quegli studenti che oltre alla carta prepagata hanno anche un conto bancario personale, ma in questo caso stiamo parlando solo dell’8,2% degli studenti italiani, prevalentemente i figli delle famiglie benestanti, contro una media OCSE del 19,1% (OECD, 2014b, p. 103). Di passaggio notiamo invece che se si considera il possesso della sola carta prepagata, senza un conto bancario di riferimento, i nostri studenti che hanno dichiarato di averla sono ben il 10,2%, contro una media OCSE del 2,8%. Mettendo insieme i due dati, meno conti bancari e più carte prepagate, appare un modello tutto italiano di educazione finanziaria casalinga, in cui lo studente è ritenuto in partenza meno capace di gestire un conto, pertanto si limita la sua autonomia finanziaria ai vincoli del plafond di una carta. Bisogna poi aggiungere che oltre la metà dei quindicenni italiani non dispone di alcun strumento finanziario (e in questo caso siamo dieci punti oltre la media OCSE). Su quali fondi possono contare questi studenti privi di strumenti finanziari propri? Sui regali parentali e sulle paghette, e l’OCSE ha considerato anche l’incidenza di questi aspetti. In primo luogo la descrizione dei fenomeni: i nostri quin-

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dicenni sono tra quelli che ricevono meno regali in denaro e meno paghetta svincolata da obblighi casalinghi, e tra questi ovviamente prevalgono i figli di famiglie agiate (la cosa però non vale per tutti i paesi). Non risultano invece differenze rispetto agli altri paesi nel numero di quindicenni che ricevono una paghetta in cambio di faccende domestiche (in questo caso prevale il gruppo di studenti provenienti da famiglie disagiate). Infine per il dato riguardante l’autofinanziamento tramite vendite di beni personali, anche su internet, siamo ancora decisamente sotto il dato medio OCSE, in cui oltre il 31% dei ragazzi svolge piccoli commerci. Anche in questo caso però viene sfatato un mito, poiché l’unica fonte finanziaria che risulta associata positivamente alla performance è la semplice regalia, mentre il fatto di svolgere lavoretti, in casa o fuori, incide negativamente sulla performance (OECD, 2014b, p. 107). Può sembrare sorprendente, ma una spiegazione possibile è che nel settore finanziario la pratica diretta e i meccanismi economici legati al lavoro non migliorano di per sé le capacità finanziarie se manca una preparazione di base, e questo rende sempre più determinante il ruolo della scuola. Esistono anche delle differenze di genere, tutte significative, circa il finanziamento delle spese: le ragazze ricevono prevalentemente regali, paghette senza contropartita e svolgono lavoretti occasionali (viene citato esplicitamente il babysitting), mentre i maschietti vengono remunerati per lavori domestici o parttime, oppure si autofinanziano tramite vendita di beni personali. Come abbiamo fatto per il Problem Solving concludiamo con un confronto interno di tipo territoriale. Nel seguente grafico (Graf. 4) sono riepilogati i punteggi medi per regione, poiché il campionamento della Financial Literacy è stato stratificato anche a livello regionale rispetto al Problem Solving (vincolato dalla somministrazione computerizzata), permettendo un dettaglio maggiore già nel confronto internazionale.

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Graf. 4: PISA 2012 Financial Literacy. Punteggi medi per regione. Elaborazione da OECD 2014b.

Se proiettiamo il dato secondo le macroaree vediamo che il Nord Est è saldamente sopra la media italiana, e in linea con l’OCSE, con l’eccezione dell’Emilia Romagna. La Lombardia è l’unica altra regione che in virtù dell’intervallo di confidenza resta agganciata al dato OCSE, per il resto tutte le differenze negative sono significative. Nella parte destra del grafico tutto il Sud Isole. la Campania e l’Abruzzo risultano significativamente sotto la media italiana. Si tratta di un evidente ritorno indietro rispetto al Problem Solving, con differenze molto più ampie (il range è di 86 punti della scala PISA) e pessime performance soprattutto per le Isole, la Calabria e la Basilicata. Naturalmente questo primo dato dovrà essere approfondito dopo la pubblicazione del rapporto nazionale, ma già ora è chiaro come possa complicare i

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possibili interventi, poiché la relativa omogeneità già segnalata nelle performance degli studenti e nei fattori socio-economici che contribuiscono a determinarle, di fatto elementi facilitanti, è controbilanciata da differenze territoriali macroscopiche. Ancora una volta il sospetto è che i motivi di questa situazione siano da ricercare fuori dalle istituzioni scolastiche, nei diversi contesti territoriali. Qualsiasi strategia di intervento dovrà considerare con molta attenzione queste differenze.

Conclusioni Decisi di redimere il passato con la mia condotta futura; e posso affermare onestamente che la mia decisione portò qualche buon frutto.

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La crescente disponibilità di dati statistici sul funzionamento dei sistemi scolastici (OECD, 2014d) e sulla valutazione degli studenti in indagini internazionali campionarie o censuarie nazionali (INVALSI, 2014) sta indubbiamente cambiando il rapporto fra la governance e la conoscenza7, intesa come capacità di raccogliere informazioni e riuscire ad usarle (Hess and Ostrom, 2007, p. 8). I responsabili politici possono usare le informazioni provenienti dalla valutazione in molti modi, per esempio in un’ottica di accountability, o di miglioramento complessivo del sistema, oppure cercando di utilizzare i dati per intervenire sugli studenti in difficoltà. Non è semplice tenere insieme tutti questi desideri (Looney, 2011, p. 11), ed è anche necessario scegliere una prospettiva di interpretazione: l’OCSE, con PISA, ha sempre indicato come prioritaria quella tracciata su principi di equità (Mc Gaw, 2008, p. 240), per poter attivare interventi coerenti sul sistema d’istruzione. In seguito ai risultati dei diversi cicli di PISA alcuni paesi hanno cominciato a ripensare i propri meccanismi di valutazione o sono intervenuti sul sistema di istruzione (Breakspear, 2012, p. 5). L’OCSE ha addirittura promosso la pubblicazione di una serie di volumi dedicati alle “Lezioni da PISA”8. Da una parte questo rende più delicato il compito dell’OCSE per assicurare la qualità e la chiarezza dei dati che fornisce9, ma dall’altra responsabilizza fortemente i decisori politici nazionali, che fanno discendere da dati considerati autorevoli una serie di interventi sul sistema. Non è corretto pertanto accontentarsi di letture affrettate, parziali o di comodo delle informazioni disponibili (Fazekas & Burns, 2012, p. 9). Purtroppo nel nostro paese, almeno fino a PISA 2009, hanno prevalso delle sostanziali non letture dei dati PISA, al punto che nella scala che misura l’impatto di PISA sulle politiche dell’istruzione, costruita da Breakspear (2012, p. 14), siamo al quintultimo posto su 37 paesi esaminati. Nella riflessione sui risultati abbiamo visto un frequente rimando all’oggetto dell’indagine e agli strumenti utilizzati. Una delle peculiarità di PISA è la piena tra-

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Una recente rassegna del rapporto fra Governance e Knowledge è presentata in Fazekas & Burns, 2012. Il più recente riguarda un Paese che domina da diversi cicli i risultati in tutti gli ambiti, la Corea (OECD, 2014c). Il dibattito al riguardo è quanto mai attuale, basta ricordare la recente presa di posizione critica di un gruppo di studiosi (http://www.theguardian.com/education/2014/may/06/ oecd-pisa-tests-damaging-education-academics) e le argomentazioni con cui l’OCSE ha risposto (http://www.oecd.org/pisa/aboutpisa/OECD-response-to-Heinz-Dieter-MeyerOpen-Letter.pdf).

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sparenza di tutte le procedure, fatte salve le esigenze di riservatezza dei materiali da riproporre nei cicli successivi, però la lettura dei risultati deve essere parallela a quella dei quadri di riferimento, per capire quali siano le potenzialità, ma anche i limiti, di una ricerca internazionale. La recente pubblicazione della traduzione italiana del Framework a cura dell’INVALSI (OCSE-INVALSI, 2013) continua una tradizione iniziata fin dal primo ciclo di PISA, quando il quadro di riferimento addirittura precedette lo svolgimento dell’indagine (OECD, 1999). La disponibilità di questi documenti declaratori su cosa viene indagato e sul modo di costruire le misure dovrebbe essere utilizzata soprattutto nei contesti di formazione e aggiornamento degli insegnanti, dando uno spessore molto più solido alle riflessioni e alle decisioni da assumere per migliorare l’intervento didattico e, di conseguenza, costruire il futuro miglioramento dei risultati di PISA, evitando gli effetti collaterali di semplici interventi guidati dalla logica Teaching to the test e sfruttando in tal senso anche le informazioni provenienti dalle rilevazioni nazionali (Corsini & Losito, 2013). La preoccupante performance in Financial Literacy è l’ennesima emergenza che il nostro sistema d’istruzione dovrà affrontare, e i dati del ciclo 2012 costituiscono il possibile punto di partenza di un cammino virtuoso, che sfrutti da una parte le informazioni raccolte periodicamente, dall’altra l’interesse manifestato da tutte le istituzioni finanziarie, a partire dalla Banca d’Italia, verso questa tematica formativa. D’altra parte il sorprendente risultato del Problem Solving può rappresentare un segnale di fiducia verso i nostri studenti, che in qualche modo, tutto da scoprire ancora, riescono a emergere nel confronto internazionale. La pubblicazione dei due rapporti nazionali, prevista per dicembre 2014, deve trovare pronta la comunità scientifica per riuscire a rendere utili le molte informazioni raccolte sulle capacità dei nostri studenti quindicenni. Certo, la storia del Dottor Jekill nel libro di Stevenson non finisce bene, ma il paradigma che il grande edimburghese ci ha lasciato continua a far riflettere e a stimolare: capire quanto è complessa la realtà e cercare, se non di controllarla del tutto, almeno di affrontarla in modo efficace.

Riferimenti bibliografici Asquini G. (2006). La capacità di Problem solving dei quindicenni. In M.T. Siniscalco (a cura di), Il livello di competenza dei quindicenni italiani in matematica, lettura, scienze e problem solving. Rapporto nazionale di PISA 2003 (pp. 91106). Roma: Armando editore. Asquini G. (2011). Dieci anni di Pisa. Primi bilanci e nuove prospettive. Italian Journal of Educational Research, IV(7), pp. 71-83. Asquini G. (2014). Dalla lettura alla bravura. Le misure delle indagini di sistema e l’andare bene a scuola e nella vita. In C. Colombo & G. Pallotti (A cura di), L’italiano per capire (pp. 61-76). Roma: Aracne Editrice. Asquini G., Corsini C. (2012). Come evolve la competenza in lettura dei quindicenni. In Linguistica Educativa. Atti del convegno XLIV SLI (pp.311-327). Roma: Bulzoni. Breakspear S. (2012). The Policy Impact of PISA: An Exploration of the Normative Effects of International Benchmarking in School System Performance (OECD Education Working Papers, No. 71). Paris: OECD Publishing. CEC (2008). Progress towards the Lisbon objectives in education and training. Bruxelles: Commission of the European Communities.

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Costruire competenze progettuali e valutative attraverso la didattica laboratoriale. Una ricerca esplorativo-qualitativa nel corso di Laurea Magistrale in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Bologna Maurizio Betti - Alma Mater Studiorum Università di Bologna - maurizio.betti4@unibo.it Andrea Ciani - Alma Mater Studiorum Università di Bologna - andrea.ciani5@unibo.it Stefania Lovece - Alma Mater Studiorum Università di Bologna - stefania.lovece@unibo.it Laura Tartufoli - Alma Mater Studiorum Università di Bologna - laura.tartufoli2@unibo.it

Developing planning and evaluation skills using laboratory’s teaching. An exploratory- qualitative research in Primary teacher degree of the University of Bologna 29 The achievement of essential skills for teaching professions is a key element in the educational policies of many countries and it also represents an important topic for national and international research in education. Within the framework of Primary Teacher Education degree (University of Bologna), the authors have started a research path focused on laboratory’s teaching effectiveness to promote planning and evaluation skills of future teachers, in a constructivistic perspective. At the moment, we came to the end of the first phase, exploratory and qualitative, that was conducted in a workshop of the second year of the course. Such a phase allowed us to define the ways and tools to investigate teacher expertise in a tutorial. At the same time this outlined the need of integrating experience based strategies with the following practicum, in a longitudinal perspective.

Parole chiave: Professionalità docente, Didattica laboratoriale, Competenze progettuali e valutative, Ricerca esplorativo-qualitativa, Scienze della Formazione Primaria

Keywords: Teacher professionalism, Laboratory’s teaching, Planning and evaluation skills, Explorative-qualitative research, Primary Teacher Education

Il contributo è stato steso congiuntamente dagli autori ed è frutto di un lavoro collegialmente svolto. Si segnala comunque che i paragrafi 1, 2 e 2.1 sono di Stefania Lovece, i paragrafi 4 e 7 sono di Andrea Ciani, i paragrafi 3, 6, 6,1, 6.2 e 6.3 sono di Maurizio Betti, i paragrafi 5, 5.1 e 5.2 sono di Laura Tartufoli. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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L’acquisizione delle competenze essenziali per la professionalità docente è un elemento centrale nelle politiche educative di molti paesi ed è anche al centro di un interessante filone della ricerca pedagogica nazionale e internazionale. Nell’ambito del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Bologna, si é dato avvio a un percorso di ricerca avente come oggetto esperienze formative laboratoriali e progettate privilegiando una didattica costruttivistica, con l’obiettivo di promuovere la formazione delle competenze di progettazione e valutazione nei futuri insegnanti. Al momento si è giunti al termine di una prima fase, di tipo esplorativo-qualitativo, realizzata all’interno di un laboratorio del secondo anno di corso che, da una parte, ha permesso di definire le modalità e gli strumenti per indagare queste competenze nell’ambito del laboratorio specifico e, dall’altra, ha reso evidente la necessità di articolare tutte le istanze formative di tipo esperienziale e in particolare collegare, in una prospettiva di tipo longitudinale, il laboratorio con il tirocinio curricolare.


Costruire competenze progettuali e valutative attraverso la didattica laboratoriale. Una ricerca esplorativo-qualitativa nel corso di Laurea Magistrale in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Bologna

1. Formare alla professionalità docente

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In un contesto globalizzato e in continua trasformazione come quello dell’attuale società della conoscenza si manifesta una sempre maggiore attenzione alla definizione e alla formazione di competenze che il cittadino dovrà sviluppare per adattarsi in modo flessibile e consapevole ai continui mutamenti che caratterizzano tale contesto. L’istruzione assume pertanto un ruolo chiave nel garantire che tutti i cittadini in formazione acquisiscano tali competenze ed è quindi chiamata a rispondere a sempre nuove sfide per assicurare ad ogni individuo la possibilità di raggiungere un adeguato livello di “realizzazione personale, cittadinanza attiva, coesione sociale e occupabilità” (Parlamento Europeo, 2006/962/CE). A questo proposito l’educazione e la formazione assumono un ruolo fondamentale sancito da una serie di Raccomandazioni (per esempio, la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio europeo del 18 dicembre 2006) e di Quadri di riferimento (per esempio il Quadro dei titoli per lo Spazio europeo dell’istruzione superiore che presenta tutti i titoli rilasciati per ciascun ciclo, con riferimento ai risultati di apprendimento, secondo i Descrittori di Dublino) che tentano di definire meglio le competenze chiave che, l’individuo in generale e le diverse figure professionali in particolare, devono sviluppare. La consapevolezza della complessità cui ci si riferisce quando si parla di competenze e della formazione delle stesse, richiede una ancora più particolare attenzione quando si parla delle competenze degli insegnanti, cioè di coloro che si occupano in prima persona della formazione del nuovo cittadino. A questo proposito, molti sono i documenti della Commissione Europea che focalizzano l’attenzione sulle competenze specifiche degli insegnanti, già a partire dalla Conferenza di Barcellona (Eurydice, 2002) che definisce 13 competenze per gli insegnanti, dieci riferite ai processi di insegnamento-apprendimento e tre con finalità educative più ampie. Tali competenze vengono poi riprese nel documento “Migliorare la qualità della formazione degli insegnanti” (COM/2007/392) emanato dalla Commissione delle Comunità Europee che considera alcune competenze trasversali, tralasciandone altre. Lo scenario complessivo del dibattito sul tema e delle conseguenti iniziative adottate nei diversi Paesi membri, si amplia ancora di più quando si tenta di dare indicazioni per promuovere una formazione degli insegnanti che possa garantire lo sviluppo delle specifiche competenze. Ne sono testimonianza alcuni recenti documenti, come il testo “Supporting teacher competence development for better learning outcomes” (European Commission , 2013a) e “Supporting teacher educators for better learning outcomes” (European Commission , 2013b), che cercano sia di chiarire cosa la società si aspetta dagli insegnanti, sia di supportare, appunto, i Paesi nell’adozione di specifiche politiche e prassi utili a garantire il raggiungimento di più elevati standard di insegnamento nelle scuole. Per questo il tentativo è, anche qui, quello di definire il più chiaramente possibile cosa i docenti debbano

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sapere e saper fare e, quindi, di stabilire cosa ci si aspetta dagli insegnanti in termini di: Knowledge and understanding (conoscenza e comprensione), Skills (abilità), Dispositions (disposizioni, cioè credenze, attitudini, valori, responsabilità). Anche la normativa italiana ha adottato diverse definizioni che nel tempo hanno cercato di delineare la figura professionale dell’insegnante: dal Profilo delle competenze MURST del 1988, che individua 12 competenze chiave per l’insegnamento focalizzate su aspetti trasversali (pedagogico-didattici, educativi, gestionali e organizzativi), al D.M. n. 249/2010, attualmente in vigore, che nello specifico arriva a stabilire i requisiti e le modalità di formazione iniziale per gli insegnanti dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado. Tali normative e i documenti possono essere tutti considerati frutto di suggestioni ed elaborazioni provenienti dal dibattito scientifico internazionale su quella che viene convenzionalmente definita la professionalità dell’insegnante (Perrenoud, 2002; Anderson, 2004; Darling-Hammond & Bransford, 2007; Koster & Dengerink, 2008) e sui percorsi formativi dell’insegnante (Mumby et al., 2002; Richardson & Placier, 2002; Darling-Hammond, 2006; Darling-Hammond et al., 2007; Coggi, 2014), aspetti questi che spesso si riferiscono a quel sistema di “competenze” specifiche del docente che include sia le “capacità in azione”, sia le più ampie aree di sapere e conoscenza. La competenza, cioè, non deve essere contrapposta alla conoscenza, ma va intesa proprio come “sfera di azioni e conoscenze professionali” (Cardarello et al., 2005). Analizzando, quindi, i documenti normativi e assumendo uno sguardo complessivo sul panorama scientifico nazionale e internazionale che si è sviluppato e che tuttora si sta ampliando sul tema, l’elemento che risalta è la compresenza, nella figura dell’insegnante, di una serie di competenze sia specifiche (come quelle didattiche e disciplinari) sia trasversali (da quelle di tipo educativo a quelle più prettamente organizzativo-gestionali). In un tentativo di sintesi si potrebbe provare a proporre una sorta di schema di lettura che vede, da una parte, la necessità di promuovere, nella formazione degli insegnanti, lo sviluppo di competenze che potremmo definire “più propriamente didattiche” e comunque legate alla pratica didattica della singola disciplina in termini di: – conoscenze relative ai diversi ambiti di insegnamento; – capacità di organizzare adeguate situazioni di apprendimento (selezionare i contenuti da insegnare e articolare percorsi didattici finalizzati al raggiungimento di specifici obiettivi di apprendimento e di socializzazione dei singoli alunni); – capacità pedagogico-didattiche per gestire la progressione degli apprendimenti adeguando tempi e modalità al livello e alle possibilità degli alunni; – capacità di scelta di strumenti e tecniche (di insegnamento, valutazione, osservazione, ecc.) adeguate al singolo percorso/attività. Da un punto di vista più “trasversale”, invece, occorre che l’insegnante sviluppi specifiche capacità: – relazionali, per coinvolgere gli alunni nei loro processi di apprendimento al fine di promuoverne la partecipazione, migliorarne la motivazione e far proprie e condividere regole di vita comune e di cittadinanza attiva e responsabile; – gestionali, per partecipare attivamente alla gestione della scuola e della didattica e quindi capacità di lavorare in gruppo e collaborare con i colleghi inse-

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gnanti e con tutto il personale della scuola al fine di garantire il buon funzionamento della scuola stessa, l’integrazione con i servizi del territorio e una buona relazione con l’esterno (famiglie, enti locali ecc.).

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Nel lavoro che qui presentiamo l’attenzione è stata rivolta a particolari competenze e abilità, anch’esse da considerare in qualche modo trasversali in quanto di fondamentale supporto a quelle più specificamente didattiche, che solo così possono essere messe in campo. Si tratta delle competenze che l’insegnante deve avere sui temi della progettazione didattica e della valutazione, in quanto competenze chiave per garantire che vengano adeguatamente scelti contenuti, tecniche, metodologie, strumenti per promuovere e valutare gli apprendimenti in termini di prodotti e di processi. È proprio nel tentativo di promuovere lo sviluppo di competenze così importanti come quelle progettuali e valutative degli insegnanti che ha preso il via il nostro percorso di ricerca e di promozione di percorsi didattici rivolti alla formazione dei futuri insegnanti. Come si vedrà meglio più avanti, il contesto di riferimento è, infatti, proprio quello dell’insegnamento di “Progettazione e sperimentazione scolastica”, che è da considerare uno dei “pilastri portanti” dell’intero percorso formativo previsto dal Corso di Laurea (magistrale a ciclo unico) in Scienze della Formazione Primaria (da qui in avanti SFP) dell’Università di Bologna.

2. La didattica laboratoriale per costruire le competenze dei futuri insegnanti Nel nuovo CdL, il laboratorio ha l’importante funzione di far sperimentare allo studente come le conoscenze, di natura principalmente teorica, acquisite nei corsi di insegnamento, possono e devono essere connesse ai contesti di applicazione. L’obiettivo generale dei Laboratori previsti dal curricolo formativo è quello di stimolare – fin dal primo anno – la capacità di riflettere sulle proprie competenze “in costruzione” e sulle proprie motivazioni alla professionalità docente. La progettazione dei suddetti laboratori, riferendosi a quanto disposto dal D.M. n. 249/2010, promuove esperienze di simulazione di situazioni pratiche, affinché lo studente possa avere l’opportunità di analizzare, sperimentare, valutare criticamente i saperi pedagogici e didattici acquisiti (sia generali, sia disciplinari), cocostruendo competenze all’interno di un gruppo. 2.1 Il laboratorio di Progettazione e Sperimentazione scolastica di Bologna Il lavoro di ricerca che qui si vuole presentare è stato avviato nel corso dell’A.A. 2013-2014 e ha avuto come contesto di riferimento il laboratorio collegato all’insegnamento di “Progettazione e sperimentazione scolastica” del 2º anno del CdL. Tale insegnamento (settori M-Ped 03 e 04), è stato articolato in due moduli, di 4 CFU ciascuno, strutturalmente integrati tra loro: “Modelli di programmazione didattica” e “Innovazione e sperimentazione scolastica”. Il laboratorio ad essi associato prevede ben 5 CFU complessivi, con 40 ore di presenza in aula e 85 ore di lavoro individuale dello studente. Dello stesso laboratorio vengono realizzate ogni anno 9 edizioni per gruppi di circa 30-35 studenti ciascuno. Il corso d’insegnamento complessivo si snoda sull’intero anno accademico, da ottobre a maggio con parti teoriche iniziali, il laboratorio al centro e parti teoriche conclusive.

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L’insegnamento e il laboratorio hanno avuto come finalità quella di permettere allo studente di acquisire e sviluppare specifiche conoscenze e abilità, come presentato in Tab. 1. CONOSCENZE

ABILITÀ

Strategie della programmazione didattica nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria in relazione ad approcci pedagogici di individualizzazione e/o di personalizzazione

Comprendere e analizzare i diversi aspetti del concetto di curricolo, anche in relazione a differenti approcci teorici di riferimento

Differenze tra Unità Didattica e Progetto Didattico e relative fasi di programmazione e documentazione

Identificare i diversi livelli di programmazione scolastica (curricolo nazionale, progettazione educativa e POF, programmazione didattica) all’interno di un contesto scolastico e analizzarne le specificità; valutare in modo critico i punti di forza e di criticità di un Piano dell’Offerta Formativa di una scuola

Fasi fondamentali di un processo di ricerca empirica sperimentale all’interno dei contesti scolatici

Analizzare criticamente, attraverso metodologie e procedure adeguate, i diversi approcci qualitativi e quantitativi della ricerca empirica e metterne in evidenza le principali caratteristiche e potenzialità

Approcci metodologici della ricerca empirica e sperimentale in ambito educativo

Analizzare le caratteristiche dei principali strumenti e delle procedure di ricerca utilizzabili nella scuola dell’infanzia e primaria

Principali strategie di sperimentazione Analizzare le ipotesi e i risultati di e innovazione didattica ricerche empiriche condotte sugli insegnanti e sui processi di insegnamento-apprendimento; valutare i risultati anche in relazione alla loro ricaduta per l’innovazione della scuola

Tab. 1: Conoscenze e Abilità associate al Laboratorio dell’insegnamento “Progettazione e sperimentazione scolastica”.

Come si osserva nella tabella, si tratta dunque di indicatori e descrittori di competenze che hanno costituito il punto di riferimento per le azioni formative realizzate all’interno dei vari laboratori e che hanno sollecitato, data la loro rilevanza per la professionalità docente, gli interrogativi e le ipotesi guida della ricerca qui presentata.

3. Un percorso di ricerca esplorativo-qualitativa Il gruppo di ricerca si è posto come finalità generale quella di cercare di individuare una didattica laboratoriale efficace per la promozione di competenze progettuali e valutative nel futuro insegnante di scuola dell’infanzia e primaria. Per riuscire a rispondere adeguatamente a questo compito complesso abbiamo strutturato la ricerca in due fasi; una prima fase, che si è svolta nell’A.A. 2013-14, definita come una ricerca empirica di tipo esplorativo-qualitativa, «nel senso di preliminare o preparatoria della ricerca sperimentale o “quantitativa”» (Lumbelli,

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2006, p. 45) e una seconda fase di tipo quasi-sperimentale, ancora da delineare. In questo contributo vengono presi in esame i risultati della prima fase e le loro ricadute metodologiche operative sulle successive fasi della ricerca. Il significato che si è voluto attribuire a questa prima fase è quello di un momento di connessione tra teoria e pratica orientato a definire concetti e ipotesi in termini operativi. Come sostiene Vannini, riprendendo Lumbelli, la ricerca esplorativo-qualitativa «“garantisce la qualità della quantità” in una fase in cui si va attuando la progressiva operazionalizzazione dei concetti che andranno poi a costituire le vere e proprie variabili della ricerca quantitativa» (Vannini, 2012, p. 40). Due sono stati dunque a questo proposito i concetti chiave sui quali abbiamo lavorato in una prospettiva di progressiva operazionalizzazione:

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– Didattica laboratoriale. Questo concetto ha aperto interrogativi sul come definire le modalità di intervento didattico di tipo laboratoriale. In altre parole, che cos’è una didattica laboratoriale e come la si può concretamente realizzare nel curricolo per la formazione iniziale degli insegnanti?; – Competenze progettuali e valutative del futuro insegnante. Questo concetto ci ha spinto a cercare di definire quali sono le componenti operative delle competenze progettuali e valutative e, successivamente, quali strumenti ne possono facilitare la rilevazione. Pertanto, la prima fase della ricerca aveva i seguenti propositi: – definire con precisione l’intervento di didattica laboratoriale da implementare; – precisare le componenti operative delle competenze oggetto di studio, per permetterne quindi la misurazione; – definire gli strumenti atti all’osservazione o alla rilevazione delle varie componenti delle competenze progettuali e valutative. Attraverso il perseguimento di questi tre obiettivi, si mirava infine a individuare con maggior precisione l’ipotesi da controllare nella seconda fase della ricerca immaginata come quasi-sperimentale.

4. La fase esplorativa per definire l’intervento didattico Fin dalla loro prima attivazione, i laboratori di “Progettazione e Sperimentazione scolastica” sono volti a promuovere in modo particolare le competenze di progettazione e valutazione dei futuri insegnanti, quest’ultima particolarmente legata ai temi dell’innovazione e della sperimentazione scolastica. Nello specifico, si é data particolare rilevanza alle competenze di progettazione e valutazione, connettendole strettamente alle concrete situazioni della vita scolastica e ricercando costantemente in esse il legame con i temi dell’innovazione e della sperimentazione scolastica (mai lasciati all’astrazione di mere indicazioni metodologiche su come si conduce una ricerca empirica). Per lavorare sull’implementazione di queste competenze, è stato progettato un approccio formativo incentrato su una didattica attiva, basata su un apprendimento di tipo esperienziale, definito come learning by doing, riconoscendo l’importanza e la necessità di aprirsi ai bisogni reali della formazione, in questo caso legati alla professionalità del docente e al mondo della scuola. Il richiamo più diretto è al messaggio di Dewey che sottolinea il ruolo di una

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scuola attiva che entra in connessione con il territorio, le sue risorse e potenzialità: non chiusa in sé stessa ma capace di promuovere esperienze importanti per i propri allievi. In questa sua ottica “i laboratori, non solo dirigono le innate tendenze attive dei giovani, ma implicano relazioni, comunicazioni e cooperazione, le quali tutte estendono la percezione delle connessioni” (Dewey, 1949, p. 394). Essi sono anche “luoghi” e occasioni in cui è particolarmente realizzabile quell’approfondimento riflessivo che permette alle conoscenze e alle esperienze pregresse di entrare in connessione fra loro purché si propongano percorsi e attività adeguatamente progettati e condotti con metodi rigorosi. Si tratta di suggestioni riprese ancora oggi ampliamente dal dibattito internazionale sulla formazione degli insegnanti. Il laboratorio diviene, nei contesti di apprendimento formale, il luogo deputato allo sviluppo delle competenze riflessive dell’insegnante necessarie per lo sviluppo professionale (cfr. Korthagen, 1988; Bolin, 1990) e può anche contribuire al processo di riflessione sulla pratica che Britzam (2003) considera fondamentale per l’apprendimento professionale stesso. Nell’ambito di questo quadro teorico di riferimento, nella progettazione didattica del laboratorio si è inteso promuovere un apprendimento di tipo esperienziale cosi come descritto da Kolb (1984); in esso è fondamentale seguire una serie di fasi processuali: esperienza concreta, osservazione riflessiva, concettualizzazione astratta e sperimentazione attiva. In queste fasi, nella prospettiva di una didattica attiva di matrice socio-costruttivista, il ruolo dello studente cambia radicalmente e l’apprendimento è il prodotto della costruzione attiva dell’allievo, negoziato, rielaborato e condiviso passo dopo passo. La progettazione didattica del laboratorio ha preso il via dalla definizione di obiettivi formativi specifici in termini di conoscenze e abilità, cui si è cercato di collegare adeguate attività didattiche da proporre al fine di favorire il raggiungimento degli stessi (Tab. 2). Come si può evincere dalla tabella 2, le attività pratiche che si è chiesto agli studenti di svolgere in gruppo corrispondono a quelle che ogni docente svolge nel proprio contesto professionale: dalla progettazione educativa (d’istituto, tramite il POF) alla progettazione di percorsi didattici e attività specifiche; dalla valutazione degli apprendimenti alla valutazione di istituto. Il tutto cercando di sperimentare anche modalità per: argomentare e motivare le scelte compiute, integrare le decisioni prese nell’ambito delle diverse dimensioni (sociale, funzionale e politico culturale) che caratterizzano una scuola, condividere e collaborare con il corpo docente, e non, della propria scuola. In questo senso, il ricorso a precise tecniche didattiche ha dato impulso ad una disposizione attiva e consapevole dello studente. Le strategie e le tecniche adottate nel Laboratorio proposto si sono caratterizzate per la partecipazione “vissuta” degli studenti, il controllo costante e ricorsivo (feed-back) sull’apprendimento e l’autovalutazione, la formazione in situazione e la formazione in gruppo.

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LA PROGETTAZIONE DIDATTICA DEL LABORATORIO CONOSCENZE/ABILITÀ

ATTIVITÀ DI TIPO OPERATIVO

Identificare i diversi livelli di programmazione scolastica (curricolo nazionale, progettazione educativa e POF, programmazione didattica) all’interno di un contesto scolastico e analizzare le specificità; valutare in modo critico i punti di forza e di criticità di un Piano dell’Offerta Formativa di una scuola.

Costruire e presentare un Piano dell’Offerta formativa completo di curricolo e progettazione educativa.

Conoscere le principali differenze tra Unità Didattica e Progetto Didattico e relative fasi di programmazione e documentazione.

Costruire e presentare un’Unità didattica o un Progetto Didattico su contenuti disciplinari attribuiti dai docenti, individuando correttamente anche le fasi e gli strumenti della valutazione.

Costruire e presentare un contesto educativo pedagogicamente pensato, alla luce della progettazione educativa della scuola.

Simulare una lezione relativa all’Unità o al Progetto didattico, mettendo in atto strategie o tecniche didattiche adatte agli obiettivi prefissati.

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Delineare le fasi fondamentali di un processo di ricerca empirica sperimentale all’interno dei contesti scolatici.

Costruire e presentare un disegno di ricerca empirica per promuovere l’innovazione scolastica nel proprio contesto educativo.

Conoscere gli approcci metodologici Costruire una check list come della ricerca empirica e sperimentale strumento di valutazione delle abilità in ambito educativo. delle insegnante. Analizzare le caratteristiche dei principali strumenti e delle procedure di ricerca utilizzabili nella scuola dell’infanzia e primaria. Analizzare le ipotesi e i risultati di ricerche empiriche sugli insegnanti e sui processi di insegnamentoapprendimento e valutare i risultati anche in relazione alla loro ricaduta per l’innovazione della scuola.

Analizzare le fasi e i risultati di una ricerca effettuata in ambito educativo. Argomentare le scelte educative effettuate nella costruzione di un contesto educativo pedagogicamente pensato, partendo dalle valutazioni espresse da un ipotetico gruppo di valutatori che avevano utilizzato scale già validate (QUAFES, GAQUIS, SOVASI. Ecc..)

Tab. 2: Progettazione didattica del Laboratorio: Conoscenze /Abilità e principali attività ad esse associate

Il laboratorio ha fatto riferimento a quattro gruppi di tecniche didattiche attive (Tessaro, 2002), quali quelle: – “simulative”, in cui troviamo il role playing, per l’interpretazione e l’analisi dei comportamenti e dei ruoli sociali nelle relazioni interpersonali; – “di analisi della situazione”, che si avvalgono di casi reali, per esempio: lo studio di caso, basato su situazioni comuni e frequenti, per sviluppare le capacità analitiche e le modalità di approccio ad un problema; l’incidente, situazioni di emergenza, per favorire lo sviluppo di abilità decisionali e predittive; – “di riproduzione operativa”, come le dimostrazioni e le esercitazioni, per affinare le abilità tecniche e operative mediante la riproduzione di una procedura;

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– “di produzione cooperativa”, per l’elaborazione di idee, progetti e prodotti in gruppo e per lo sviluppo integrato di competenze cognitive, operative e relazionali. La tecnica didattica principalmente adottata nello svolgimento del laboratorio è stata quella del role playing, in quanto si è proposto uno specifico gioco di ruolo per tutta la durata del laboratorio. Gli studenti sono stati chiamati sin dall’inizio a “diventare insegnanti”, adottando quindi comportamenti, atteggiamenti e una forma mentis consoni alla professione. I partecipanti di ogni laboratorio (gruppi di 30/35 studenti) sono stati suddivisi in 6 sottogruppi, corrispondenti ciascuno a 6 ipotetiche scuole. In ciascun gruppo-scuola, gli studenti dovevano individuare collegialmente il dirigente scolastico, gli insegnanti specifici per materie (nel caso d’insegnanti della scuola primaria) e un referente per le disabilità. La finalità didattico/educativa è stata quella di permettere agli studenti di “mettere in gioco” il loro background di conoscenze, esperienze e comportamenti per costruire in itinere le proprie competenze di progettazione e di sperimentazione scolastica, per acquisire la capacità di lavorare in gruppo in un’ottica di progettazione collegiale e condivisa. Per motivarli ad entrare con impegno e convinzione nel clima del gioco di ruolo, fin dalla prima lezione gli studenti sono stati invitati a sottoscrivere un patto formativo in cui si ribadiva la corresponsabilità del processo di costruzione di un ambiente di apprendimento efficace. Sono stati perciò chiamati a svolgere una progettazione educativa e didattica che, nel contesto del role playing, richiedeva di entrare in un’ottica di progettazione collegiale: momento di confronto e condivisione continuo degli obiettivi, della metodologia didattica e della valutazione. Alla luce dei diversi ruoli ricoperti nel gruppo, in sede di progettazione collegiale ciascun insegnante portava contenuti e apporti specifici di progettazione relativi al proprio ambito d’interesse e/o d’insegnamento ma allo stesso tempo entrava nel merito anche dei contributi altrui, condividendone contenuti, processi e scelte didattiche, mirando ad una coerenza progettuale educativa e didattica. Gli studenti sono stati invitati a rivedere ed integrare progressivamente i loro elaborati alla luce di quanto condiviso in aula, lezione dopo lezione, rispettando le scadenze fissate dai docenti. Le attività del laboratorio richiedevano a ciascun gruppo di mettere in campo un vero e proprio lavoro di cooperative learning: ogni gruppo-scuola doveva essere in grado di presentare agli altri le attività svolte e i gruppi erano inoltre chiamati ad osservare e valutare le presentazioni degli elaborati degli altri gruppi-scuola, evidenziandone punti di forza e debolezza, con il supporto, la mediazione e l’approfondimento del docente.

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Fig.! 1: Schema della struttura delle sessioni laboratoriali

Ciascun incontro laboratoriale, come si osserva nella figura 1, é stato proposto secondo una struttura definita con l’obiettivo di garantire un’equivalenza degli apporti didattici da parte di ciascun conduttore: – un gioco/attività iniziale per richiamare e elaborare tutti insieme esperienze, concetti e contenuti precedentemente affrontati; – una serie di attività didattiche specifiche che permettessero agli studenti di “calarsi” in un’esperienza concreta; – una riflessione educativa sull’esperienza vissuta (debriefing); – una parte di “lezione teorica”, partendo dall’esperienza vissuta, per una co-costruzione dei concetti teorici di riferimento; – un momento di lavori per gruppi-scuola su compiti operativi basati sui concetti co-costruiti insieme; – una riflessione conclusiva orientata a tre obiettivi: autovalutazione da parte degli studenti; segnalazione delle criticità, degli aspetti della lezione da migliorare e di quelli invece positivi e ritenuti più utili per il loro apprendimento; autovalutazione dei docenti. Per la valutazione del laboratorio si è invece pensato di ottenere un “voto finale”, espresso in trentesimi, attraverso l’uso della media ponderata tra: il risultato ottenuto nella prova oggettiva individuale (per un 40%), la valutazione autentica degli elaborati di gruppo (per il 50%), effettuata utilizzando rubriche appositamente costruite a tal fine, e, infine, (per il restante 10%) il voto derivante dall’osservazione, fatta dai docenti, del grado di apporto individuale al lavoro di gruppo.

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5. La fase esplorativa per definire indicatori e strumenti di rilevazione delle competenze di progettazione e valutazione La ricerca ha visto una prima fase empirica di tipo esplorativo-qualitativa, guidata da due principali interrogativi (nella quale si è cercato di rispondere a due principali obiettivi): 1. L’intervento di didattica laboratoriale realizzato si è dimostrato efficace per la promozione e l’acquisizione delle competenze progettuali e valutative proprie della professionalità insegnante? 2. Gli strumenti e le procedure predisposte sono adeguati alla rilevazione delle conoscenze, delle concezioni e delle competenze degli studenti? Queste domande di ricerca hanno dato il via alla fase esplorativa che verrà qui di seguito illustrata. 5.1 Strumenti e procedure di rilevazione A partire dalla letteratura internazionale sulle competenze degli insegnanti e dall’analisi delle più recenti ricerche empiriche sulla loro formazione, abbiamo identificato tre specifiche ed essenziali componenti delle competenze professionali degli insegnanti: le loro conoscenze, le loro concezioni (convinzioni, aspetti motivazionali, aspettative), le loro abilità pratiche. Componenti queste tra loro strettamente interconnesse in un unico e complesso sistema che risponde coerentemente, anche se non esaustivamente, al concetto di competenza. Nella fase esplorativo-qualitativa il gruppo di ricerca si è pertanto dedicato alla progressiva operazionalizzazione di queste componenti, con la finalità di delineare specifici descrittori e testare appositi strumenti di rilevazione. Va sottolineato che, con il proposito di disporre di informazioni sull’intervento di didattica laboratoriale realizzato, in questa fase della ricerca è stata privilegiata la rilevazione delle aspettative sugli apprendimenti che gli studenti avrebbero potuto conseguire all’interno del laboratorio in merito ai temi della progettazione e della valutazione scolastica. Benché consapevoli dell’importanza di indagare in modo più approfondito le concezioni (e non solo le aspettative) come componente fondamentale della competenza, per ragioni di carattere contingente non è stato possibile rilevarle in questa fase esplorativa della ricerca; quest’aspetto verrà affrontato nella fase successiva della ricerca stessa, così come meglio descritto nel paragrafo 7. La seguente descrizione degli strumenti e la presentazione dei dati che, grazie ad essi, sono stati raccolti consente di riflettere meglio sulle competenze oggetto della ricerca e sulle attenzioni metodologiche e procedurali che si dovranno avere nelle successive fasi quantitative della ricerca stessa. Gli strumenti e procedure di rilevazione utilizzati sono stati i seguenti: – in ingresso: - Questionario sulle aspettative in entrata (QAE); - Prova di conoscenza in entrata (PCE); – in itinere: - Diario di bordo per l’osservazione partecipante; – in uscita: - Questionario sulle aspettative in uscita (QAU);

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- Prova di conoscenza in uscita (PCU); - Rubrics per la correzione di elaborati scritti e per l’osservazione delle simulazioni in aula (RE). La struttura dei due questionari (iniziale e finale) è composta da aree comuni riferibili a: – Aspettative; – bisogni formativi. e da alcuni elementi che li contraddistinguono: – per il QAE: prova di rilevazione su un insieme di aspettative sulle attività da svolgere relative ai fondamenti della progettazione-programmazione, valutazione e sperimentazione-innovazione; – per il QAU: opinioni sulla didattica laboratoriale e grado di soddisfazione delle aspettative.

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La PCU è stata somministrata al termine del periodo formativo unicamente agli studenti che hanno partecipato alla ricerca, é composta da 30 item a scelta multipla con una sola risposta esatta. L’osservazione partecipante è stata condotta grazie alla compresenza di due ricercatori in diversi incontri laboratoriali. L’aggettivo “partecipante” è motivato dal diretto coinvolgimento dei docenti nei processi formativi e dal continuo confronto riflessivo nel gruppo di ricerca su quanto osservato nei diversi incontri. Uno strumento di supporto importante per l’osservazione partecipante è stato il diario di bordo che ogni formatore/ricercatore ha mantenuto sia individualmente (al termine degli incontri con un unico formatore), sia in coppia (al termine delle sessioni con osservatore). Ogni settimana il gruppo di ricerca si è riunito con il proposito di analizzare i risultati delle osservazioni e definire eventuali procedure di aggiustamento alle pratiche didattiche in atto. Per quanto riguarda gli elementi considerati nelle rubrics e il come sono state utilizzate si rimanda al paragrafo 6.3. 5.2 Selezione dei partecipanti Questa prima fase esplorativo-quantitativa, realizzata durante tutto l’A.A., è stata condotta su un gruppo di 140 studenti iscritti al secondo anno del CdL, su un totale di 255 soggetti partecipanti al Corso. Gli studenti che hanno partecipato alla ricerca sono stati selezionati adottando il criterio “di convenienza”, trattandosi degli iscritti nelle 4 edizioni del laboratorio di “Progettazione e Sperimentazione Scolastica” condotte dai componenti del gruppo di ricerca (35 studenti per laboratorio). Benché il gruppo di soggetti partecipanti alla ricerca, per la modalità di selezione adottata, non sia stato rappresentativo e non ci siano stati interventi didattici comparabili, il QAE e PCE sono stati somministrati anche agli studenti di altri cinque Laboratori della stessa area, non inseriti nella ricerca, con il proposito di osservare eventuali importanti differenze in termini di bisogni formativi, aspettative e livelli di conoscenza iniziali, rispetto al gruppo di studenti che ha partecipato all’intervento laboratoriale oggetto della ricerca nonché di verificare l’adeguatezza degli strumenti valutativi utilizzati.

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Il confronto tra i risultati generali ottenuti nella PCE permette di affermare che vi è una buona omogeneità tra i due gruppi, quello dei soggetti partecipanti alla ricerca e quello dei soggetti iscritti al CdL (si veda la tabella 3). Prova di conoscenza in Entrata (PCE) Partecipanti al corso

Partecipanti alla ricerca

Media

7.2

7.49

Deviazione standard

2.24

2.22

Punteggio massimo

13

13

Punteggio minimo

1

3

Tab. 3: Confronto trai i risultati generali ottenuti nella PCE del gruppo dei due gruppi

Le caratteristiche relative ai gruppi di soggetti implicati in questa prima fese della ricerca, si possono rilevare dai due questionari, come evidenziato nella tabella 4.

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Caratteristiche dei due gruppi Caratteristiche

Partecipanti al corso

Partecipanti alla ricerca

Sesso femminile

95.7%

95%

Età media (21 anni)

54.3%

63.3%

Nessuna abilitazione all’insegnamento

97.3%

99%

Laurea triennale

14.8%

5.7%

Laurea magistrale o vecchio ordinamento

13.3%

7.1%

Esperienze d’insegnamento

64.8%

67.1%

Insegna attualmente

10.9%

10.0%

Lettura riviste su scuola e insegnamento

58.6%

54.3%

Partecipazione a ricerche

6.2%

5.0%

Frequenza di Laboratori

75.8%

80.7%

Tab. 4: Principali caratteristiche della popolazione dei due gruppi

6. Risultati della fase esplorativa L’analisi dei dati ottenuti viene presentata considerando le componenti delle competenze professionali degli insegnati identificate. Nella prima parte sono descritti i risultati ottenuti nell’acquisizione di conoscenze, successivamente verranno presi in considerazione quelli inerenti a aspettative, per terminare con l’analisi dei risultati relativi all’acquisizione della componente di carattere pratico, legate all’agire, delle competenze di progettazione e valutazione.

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6.1 Progettazione e Valutazione nelle conoscenze dei futuri insegnanti Al fine di valutare le conoscenze in ingresso e in uscita del gruppo di studenti partecipanti nella ricerca sono state costruite due prove con risposte a scelta multipla (vedi fig. 2). PC E

PC U

Programmazione e progettazione didattica

5

19

Valutazione

5

6

Sperimentazione

5

5

Totale

15

30

Aree di contenuti

Fig. 2: Aree di contenuti delle due prove di conoscenza applicate

42 Come si osserva nella figura 2, la PCE è composta da 15 domande suddivise in 3 aree e il punteggio ottenibile nella prova va da 0 a 15, mentre la PCU è invece composta di 30 domande suddivise in 3 aree: 19 di programmazione e progettazione didattica, 6 di valutazione e 5 di sperimentazione (si veda figura 2). Il punteggio minimo ottenibile nella prova è 0 e il massimo è 30 e i risultati ottenuti vengono sintetizzati nella tabella 4. Confrontando i risultati ottenuti dagli studenti partecipanti alla ricerca nelle due prove di conoscenza (in entrata e in uscita) si osserva un incremento del livello di conoscenza acquisita (si veda la tabella 5). PCE

PCU

Media

7.49

22.0

Deviazione standard

2.22

2.834

Coefficiente di variazione (%)

29.63%

12.88%

Relazione tra media e punteggio massimo teorico della prova (%)

49.9 %

73.3%

Tab. 5: Confronto dei risultati dei partecipanti alla ricerca in PCE e PCU

I valori bassi del coefficiente di variazione permettono di considerare le due medie come indici adeguati a rappresentare la distribuzione dei punteggi di entrambe le prove. La relazione percentuale delle medie delle due prove con il corrispondente punteggio massimo teorico mostra come nella prova in uscita (PCU) la media di risposte corrette rappresenta una percentuale superiore al 73% del punteggio massimo teorico della prova, mentre nella PCE questa percentuale è approssimativamente del 50%. Tali risultati, sebbene non permettano di stabilire una relazione diretta tra essi e l’intervento di didattica laboratoriale attuato, lasciano comunque supporre l’ef-

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ficacia della tipologia di intervento didattico per quanto concerne l’acquisizione di conoscenze e sono di aiuto per la definizione dell’ipotesi di ricerca che verrà verificata nelle fasi successive della ricerca. 6.2 Competenze e valutazioni nelle aspettative e convinzioni dei futuri insegnanti Il questionario in entrata è suddiviso in due sezioni: la prima volta ad ottenere informazioni generali sul gruppo di partecipanti alla ricerca, ovvero a rilevare le variabili assegnate; la seconda costruita per poter indagare le variabili relative alle aspettative degli studenti (si veda la figura 3). Il questionario in uscita, invece, è composto da una sola sezione con quattro rating scales volte ad indagare il grado di soddisfazione rispetto alle aspettative (si veda la Fig. 3). QAU Variabili relative al grado di soddisfazione su:

2. Variabili relative alle aspettative degli studenti, in merito a: - aspettative sulle attività che si svolgeranno nel laboratorio; - metodologie didattiche che verranno utilizzate; - conoscenze e competenze che potranno essere acquisite. 3. Alcune opinioni sulla progettazione e valutazione scolastica

- conoscenze/competenze che il laboratorio ha permesso di acquisire; - metodologie didattiche che hanno caratterizzato il laboratorio; - quanto è stato utile il laboratorio per la futura professionalità; - alcune opinioni sulla progettazione e valutazione scolastica

1 sezione

2 sezioni

QAE 1. Variabili assegnate (informazioni generali sugli studenti)

Fig. 3: Struttura del Questionario in entrata e del Questionario in uscita con relative variabili.

Rispetto alle specifiche aspettative rilevate nel gruppo dei 140 studenti nei 4 laboratori, è possibile osservare alcuni risultati interessanti in merito a quanto gli studenti pensavano all’inizio sui temi della progettazione e valutazione, e quanto hanno percepito in termini di soddisfazione e competenze acquisite al termine dell’esperienza laboratoriale. Nello specifico, nel QAE gli studenti hanno dimostrato di nutrire alte aspettative rispetto alla possibilità di svolgere, durante il laboratorio, attività finalizzate a: progettare e implementare un’unità didattica per una classe di scuola primaria o dell’infanzia; acquisire la capacità di costruire unità didattiche, progetti educativi e didattici; applicare strategie relazionali e comportamentali volte a promuovere il benessere all’interno del contesto scolastico. Ciò evidenzia un elevato interesse per gli studenti nel costruire le competenze chiave di progettazione e valutazione scolastica, soprattutto nella loro componente pratico-operativa. Nel QAU tali aspettative sembrano essere state rispettate, dato che gli argomenti maggiormente trattati risultano essere: “progettare e implementare un’unità didattica per una classe di scuola primaria/dell’infanzia” e “conoscere i principali strumenti di programmazione didattica”. Inoltre sono state indagate le aspettative degli studenti in merito alle conoscenze e alle competenze che tale laboratorio avrebbe permesso loro di acquisire. Nel QAE esse risultavano essere: “saper costruire unità didattiche e progetti didattici”, “saper individuare le strategie didattiche più adeguate al contesto”. Anche tali aspettative sembra siano state in parte rispettate poiché nel questionario finale emerge che gli studenti ritengono di saper ora costruire unità didattiche e progetti didattici.

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All’opposto è possibile evidenziare due connessioni tra le aspettative negative iniziali relativamente all’acquisizione delle competenze e ciò che risulta loro acquisito al termine dell’esperienza. Nel QAE emergono, infatti, aspettative negative verso l’acquisizione delle competenze relative al saper svolgere lavori di tipo collaborativo/cooperativo (71%) e saper riflettere sulla propria professionalità e sul proprio operato (73%). Nel QAU invece il 69% degli studenti dichiara di saper svolgere lavori di tipo collaborativo/cooperativo e il 42% di saper riflettere sulla propria professionalità e sul proprio operato. Questi dati vanno a supportare la scelta metodologica didattica adottata, quella del lavoro di gruppo e del cooperative learning, finalizzata a promuovere la dimensione collegiale nell’esercizio delle competenze. Un’ulteriore connessione evidenziata dalla lettura dei dati del QAU è quella relativa all’utilità del laboratorio stesso ai fini dell’acquisizione di competenze che caratterizzano la propria professionalità: in entrambi i questionari il laboratorio sembra essere considerato molto o abbastanza utile a tale scopo. Nello specifico, tale analisi evidenzia un dato importante: l’88% degli studenti, al termine dell’esperienza, sostiene che il laboratorio sia stato utile all’acquisizione delle competenze di progettazione e valutazione scolastica. Anche per quanto concerne le metodologie utilizzate è possibile riscontrare una connessione tra le aspettative iniziali e ciò che effettivamente è stato realizzato. Nel QAU le due metodologie che ottengono una percentuale molto alta tra le scelte degli studenti sono: l’attività pratica e il lavoro di gruppo. Dall’analisi dei dati del QAU, queste risultano essere anche le metodologie che hanno caratterizzato maggiormente i nostri laboratori. Emerge, però, l’apprezzamento anche per ulteriori tecniche didattiche utilizzate, che non rientravano tra quelle che gli studenti si aspettavano, come la simulazione e il gioco di ruolo, probabilmente non conosciute o non utilizzate nei corsi universitari. Come si può capire dai dati riportati, i questionari sono stati strumenti preziosi per poter progettare un intervento laboratoriale efficace in grado non solo di soddisfare le aspettative degli studenti, ma anche di proporre situazioni, attività e momenti esperienziali che potessero attivare gli studenti nella costruzione attiva delle competenze di progettazione e valutazione scolastica. 6.3 Rilevare le competenze nella loro complessità L’ambito nel quale i docenti-ricercatori hanno riscontrato maggiori difficoltà è stata la rilevazione delle competenze come costrutto olistico. Le risposte fornite nei questionari permettono di analizzare, in parte, le percezioni e le aspettative degli studenti in merito alle competenze professionali da acquisire e quelle effettivamente acquisite al termine del laboratorio. Tuttavia, la rilevazione della dimensione più legata all’agire, quella delle abilità, è risultata maggiormente complessa sia nel disegno dello strumento, sia nel suo utilizzo. Per affrontare quest’aspetto, come docenti dei laboratori abbiamo sentito l’esigenza di creare due rubrics che ci permettessero di analizzare le competenze attraverso l’osservazione delle performance degli studenti durante le simulazioni realizzate in aula e, indirettamente, attraverso l’analisi degli elaborati scritti da loro prodotti.

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Indicatori

Simulazioni in aula (osservazione)

Elaborati degli studenti (analisi)

1. Aderenza e rispetto della consegna

1. Capacità di aderire alla consegna

2. Correttezza dei contenuti

2. Capacità di rispettare i tempi della consegna

3. Partecipazione dei membri del gruppo all’elaborazione del compito

3. Capacità di portare elementi di originalità

4. Partecipazione dei membri del gruppo alla simulazione in aula

4. Capacità di dare supporto teorico al lavoro

5. Chiarezza nell’esposizione

5. Capacità di approfondire

6. Creazione di materiale esemplificativo

6. Capacità di utilizzare il lessico specifico

7. Modalità di utilizzo degli strumenti informatici (powerpoint, video, …)

7. Capacità di scrivere con correttezza ortografica e sintattica

8. Capacità di mantenere elevati i livelli di attenzione e coinvolgimento degli uditori

8. Capacità di presentare un lavoro corretto dal punto di vista della forma 9. Capacità di presentare un lavoro corretto dal punto di vista del contenuto

Fig. 4: Indicatori delle rubrics utilizzate per l’osservazione delle simulazioni e per l’analisi degli elaborati degli studenti.

Le rubrics hanno contribuito a confermare l’accertamento delle conoscenze (in particolare quella utilizzata per la valutazione degli elaborati), mentre sono risultate essere non completamente adeguate per valutare le performance degli studenti in aula. Proprio in aula, infatti, manca un’effettiva connessione con il contesto reale, quello scolastico, che permette una valutazione autentica, legata alle prassi che ciascuno studente potrebbe effettivamente mettere in atto in un contesto scolastico. È da osservare che la mancanza di un legame diretto con i contesti reali della scuola e l’aspetto di “artificialità” che, seppur ridotto, è comunque presente nel contesto laboratoriale, è stato evidenziato come una limitazione anche dagli studenti. La connessione con il contesto reale della scuola (e dell’aula) diviene quindi un aspetto importante cui si dovrà porre attenzione nel proseguire della ricerca per poter promuovere e accertare le competenze dell’insegnante e, in particolare, la loro dimensione pratica (crf. Mumby et al., 2002). Le strategie simulative e di role playing adottate sono state sicuramente importanti nel processo di acquisizione delle competenze di progettazione e valutazione, ma non possono essere considerate sufficienti senza un riscontro diretto nei contesti reali. In questa prospettiva, la messa a punto di rubrics più raffinate e valide rispetto alle competenze progettuali e valutative potrà consentire un’osservazione degli studenti più efficace, sia durante le simulazioni nell’aula laboratoriale, sia all’interno di specifiche situazioni di tirocinio (Kane et al., 2010) con cui il laboratorio cercherà sempre maggiore connessione. Il processo di acquisizione e di consolidamento delle competenze professionali deve infatti essere visto come una costruzione nel tempo e questa prospettiva longitudinale richiede il coinvolgimento di tutte le istanze d’apprendimento esperienziale, come laboratori e tirocini, previste nel percorso complessivo del Corso di studi.

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Riflessioni sul lavoro futuro

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Per concludere questo intervento, è doveroso fare alcune importanti riflessioni sul lavoro svolto, sulle suggestioni scaturite e sulle prospettive di ricerca future. In merito alla messa a punto dell’intervento laboratoriale, dai feedback ricevuti dagli studenti, ricavati dal Questionario finale e attraverso l’osservazione partecipante, emerge un apprezzamento pressoché unanime sull’utilità del Laboratorio e sul modello di didattica attiva ed esperienziale adottato. In sede di riprogettazione occorrerà tuttavia porre attenzione alle richieste espresse dagli studenti al fine di rendere l’intervento didattico più efficace. In particolare, è emersa la necessità da parte loro di avere un maggior numero di rimandi in itinere sulla qualità e sulla validità dei lavori svolti, senza dover attendere la correzione e la valutazione finale. È emersa inoltre l’esigenza di avere un vero e proprio sostegno/supporto al lavoro di gruppo. Quest’ultimo aspetto è risultato uno degli elementi più critici per gli studenti, i quali hanno dimostrato diverse difficoltà nel trovare le giuste modalità di lavoro collegiale e cooperativo. Questo ci ha fatto riflettere su quanto sia utile e necessario, per ciascun gruppo di lavoro, poter disporre di un tutoraggio da parte del docente, il quale dovrebbe svolgere una funzione di “facilitatore” della gestione delle dinamiche organizzativo- relazionali che incidono sul lavoro, sull’apprendimento e sul reperimento di materiali e contenuti utili. Per quanto concerne la messa a punto degli strumenti della ricerca, la PCU dovrà essere rivista, ponderando maggiormente l’apporto di item derivanti dall’area della valutazione. Questo perché, in accordo con i docenti del corso, la tematica della valutazione troverà ancora più spazio nel programma di Progettazione e Sperimentazione scolastica. Il Questionario, invece, dovrà essere integrato con alcune scale di atteggiamenti in grado di misurare, prima e dopo l’intervento laboratoriale, le convinzioni degli studenti relative alle pratiche di progettazione e valutazione per rilevare non solo motivazioni e aspettative, ma anche le concezioni implicite su temi così centrali della professionalità docente. Maggiore attenzione dovrà essere rivolta alla capacità di lavorare in gruppo e in modo collegiale in quanto fondamentale per un’adeguata e efficace pratica progettuale e valutativa frutto di riflessioni e scelte operative svolte in equipe e nell’ambito di processi collegiali. Un ulteriore elemento su cui porre attenzione riguarda l’accertamento delle competenze acquisite in termini di abilità pratiche. La rubrica di valutazione autentica dovrà essere definita con maggiore dettaglio per poter determinare con più precisione i livelli di “competenza” raggiunti dagli studenti per ciascuna attività proposta. È nostro convincimento tuttavia che, al fine di costruire e misurare efficacemente le competenze, tenendo conto della loro dimensione pratica, é necessario far riferimento a contesti reali. Come emerge dai dati della ricerca, un laboratorio strutturato ed orientato alla formazione di determinate competenze può essere un ottimo “mezzo”, in un “contesto artificiale”, per gettare le fondamenta della costruzione di competenze specifiche sui temi della progettazione e della valutazione. Queste ultime hanno però la necessità di consolidarsi con la prova dell’esperienza reale, nei contesti scolastici, e comunque dovrebbero essere ridefinite e perfezionate lungo il percorso universitario in un’ottica di potenziamento graduale, per livelli di complessità e approfondimento. Occorre quindi assumere necessariamente una prospettiva in chiave longitudinale, prevedendo una formazione che integri il laboratorio con le altre attività esperienziali, come il tirocinio curricolare, previste dal percorso di studi. Il tirocinio, in particolare, dà infatti la possibilità di impegnare gli studenti in contesti reali, a partire dal secondo anno fino alla fine del corso di laurea.

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Un percorso longitudinale e integrato tra Laboratorio e Tirocinio, che parta dalla condivisione di obiettivi in termini di competenze da “costruire” e consolidare, in modo sinergico nel tempo, può garantire l’effettiva realizzazione di un curricolo formativo capace di connettere teoria e pratica, accompagnando e monitorando progressivamente i futuri insegnanti nel consolidamento di campi fondamentali per la qualità della professionalità docente e per l’innovazione dei contesti scolastici. La seconda fase della ricerca richiederà il progressivo e ripetuto utilizzo degli strumenti di rilevazione messi a punto nel corso del laboratorio e, longitudinalmente, nel corso dei vari tirocini annuali. Ciò richiederà una pianificazione congiunta con i tutor che si occupano del Tirocinio, anche con l’obiettivo di offrire dati e strumenti di riflessione utili alla formazione di giovani studenti e alla riprogettazione curricolare del corso di studi.

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Kolb D.A. (1984). Experiential Learning: experience as the source of Learning and Development. New Jersey: Prentice Hall. Korthagen F.A.J. (1988). The influence of learning orientations on the development of reflective teaching. In J. Calderhead (Ed.), Teachers’ professional Learning. London: Falmer-Press. Koster B., & Dengerink J.J. (2008). Professional standards for teacher educators: How to deal with complexity ownership and function experience from the Netherlands. European Journal of Teacher Education, 31(2), pp. 135-149. Lumbelli L. (2006). Costruzione dell’ipotesi ed astrazione nella pedagogia sperimentale. In A. Bondioli, Fare Ricerca in Pedagogia. Saggi per Egle Becchi. Milano: Franco Angeli. Mumby H., Russell T., & Martin A.K. (2002). Teachers’ knowledge and how it develops. In V. Richardson (Ed.), Handbook of research on teaching. Fourth edition. Washington DC: American Educational Research Association. Perrenoud P. (2002). Dieci competenze per insegnare. Roma: Anicia. Ediz. Orig., Perrenoud, P. (1999). Dix nouvelles compétences pour enseigner. Paris: ESF. Richardson V., & Placier P. (2002). Teacher change. In V. Richardson (Ed.), Handbook of research on teaching. Fourth edition. Washington DC: American Educational Research Association. Tessaro F. (2002). Metodologia dell’insegnamento secondario. Roma: Armando Editore. Vannini I. (2012). Come cambia la cultura degli insegnanti. Metodi di ricerca empirica in educazione. Milano: Franco Angeli.

Riferimenti normativi Raccomandazione 2006/962/CE - Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente. COM (2007) 392. Comunicazione della Commissione al Parlamento Europeo e al Consiglio del 3 agosto 2008 - Migliorare la qualità della formazione degli insegnanti. D.M. 26 maggio 1998 - Criteri generali per la disciplina da parte delle università degli ordinamenti dei Corsi di laurea in scienze della formazione primaria e delle Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario.” D.M. 10 settembre 2010, n. 249 - Regolamento concernente: “Definizione della disciplina dei requisiti e delle modalità della formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo e secondo grado, ai sensi dell’articolo 2, comma 416, della legge 24 dicembre 2007, n. 244”.

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Valutare la valutazione: una questione metodologica applicata ad un caso di valutazione riflessiva partecipata in asilo nido Anna Bondioli - Università di Pavia - bondioli@unipv.it) Donatella Savio - Università di Pavia - donatella.savio@unipv.it)

Reviewing the evaluation: a methodological issue applied to a case of reflexive and participative evaluation in day care centre

Parole chiave: Valutazione di quarta generazione; Valutazione partecipativa; Approccio di “promozione dall’interno”; Asilo nido; Studio di casi; Valutazione della valutazione

The evaluation of an evaluation is considered a categorical imperative in any theory or approach to evaluation. However, different models to be used in order to conduct the evaluation experiences also involve different parameters that must be followed to evaluate them. We will present this issue by referring to two twin educational evaluation experiences conducted following an approach freely inspired on the evaluation of IV generation by Guba and Lincoln; the approach, named “promoting from within”, has been developed over the course of twenty years by implementing concrete experiences of evaluation and analyzing them. It is an approach that emphasizes the participative, dialogical and reflective dimensions of the evaluation and which, as a consequence, requests that the experiences conducted in reference to it are evaluated in this key too. The analysis of the experience gained, which is the focal point of this contribution, is not so much aimed at demonstrating the effectiveness of the evaluation process undertaken and carried out, but on how to propose the assessment of the evaluation as an integral part of the actual process itself. Keywords: Fourth generation evaluation; Participative evaluation; Promotion from inside approach; Day care center; Case studies; Metaevaluation

La ricerca, di cui il saggio presenta alcuni aspetti, è stata progettata e realizzata in maniera condivisa dai due autori che sono anche, rispettivamente, i conduttori delle due esperienze presentate. Anche l’analisi dei dati è stata svolta in collaborazione. Per quanto riguarda la stesura dei paragrafi, A. Bondioli ha scritto: la premessa e i paragrafi 1, 3, 4, 6.2, 6.3, 6.4.1.D. Savio ha scritto i paragrafi 2, 4,5, e i sottoparagrafi 6.1,e 6.4.2., il paragrafo 7. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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La valutazione della valutazione è considerato un imperativo categorico di qualsiasi teoria o approccio valutativi. Ma la diversità dei modelli da utilizzare per condurre le esperienze valutative implica anche parametri diversi cui attenersi per valutarle. Presenteremo questa questione facendo riferimento a due esperienze gemelle di valutazione educativa, condotte secondo un approccio liberamente ispirato alla valutazione di IV generazione di Guba e Lincoln, messo a punto nel corso di una ventina d’anni realizzando esperienze valutative concrete e ragionando su di esse. Si tratta di un approccio che sottolinea la dimensione partecipativa, dialogica e riflessiva della valutazione e che, di conseguenza, chiede che le esperienze ad esso improntate vengano valutate anche e soprattutto in questa chiave. La riflessione sulle esperienze realizzate, che è il fuoco di questo contributo, non è finalizzata tanto a dimostrare l’efficacia del percorso valutativo intrapreso e realizzato quanto a proporre la valutazione della valutazione come parte integrante del processo stesso.


Valutare la valutazione: una questione metodologica applicata ad un caso di valutazione riflessiva partecipata in asilo nido

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Da parecchi anni il gruppo di ricerca che fa capo agli Insegnamenti pedagogici del Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Pavia svolge ricerche valutative sul campo a partire dalle quali è venuto a delineare un approccio liberamente ispirato al socio-costruttivismo della valutazione di quarta generazione (Guba e Lincoln, 1987-2007; 1989), ma con peculiarità proprie (Becchi, 2000; Bondioli, Ghedini, 2000; Bondioli, Ferrari, 2004; Bondioli, Savio, 2010; Savio, 2013). L’approccio, chiamato valutazione come “promozione dall’interno”, si rifà anche ai principi della valutazione partecipata, dell’empowerment evaluation e della valutazione democratica (per una sintetica rassegna si veda Bondioli, 2010) e nasce da un feedback continuo tra azione sul campo e riflessione critica delle esperienze effettuate con l’intento di modellizzare il processo valutativo e di saggiarne l’efficacia (Bondioli, Savio, 2009). Nel corso degli anni 2012-2013 sono state realizzate due esperienze valutative gemelle condotte in asilo nido allo scopo di meglio puntualizzare l’approccio, verificarne e apprezzarne l’attuazione attraverso uno “studio di casi”. In questa prospettiva, si può dire che uno dei problemi centrali affrontati dalla ricerca era la valutazione dell’approccio valutativo di “promozione dall’interno”, con la messa a punto di strategie che fossero in sintonia con la sua natura socio-costruttivista1. Qui di seguito proponiamo innanzitutto il tema della metavalutazione illustrando brevemente come è stato affrontato da un punto di vista degli studiosi della valutazione di quarta generazione. Presenteremo quindi l’approccio di valutazione come “promozione dall’interno”, la modalità di realizzazione delle due esperienze con cui è stato messo alla prova e il piano di valutazione adottato per valutarle. Infine illustreremo e discuteremo i principali risultati cui siamo giunti con la realizzazione del piano prospettato.

1. Perché valutare la valutazione La valutazione, pur utilizzando metodologie mutuate dalla ricerca scientifica, ha come caratteristica intrinseca l’essere orientata alla prassi; la sua finalità non è l’episteme ma la decisione e l’azione consapevole e deliberata (Becchi, 2000). Vi è comunque un accordo unanime sul fatto che le esperienze valutative, in quanto forme di ricerca, vadano condotte in maniera rigorosa così da condurre a un conoscenza razionalmente giustificata (Baldacci, 2012) e eticamente appropriata. Ma l’ampia gamma dei modelli utilizzabili per compiere evaluation appropriate, e, soprattutto, la diversità

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Le esperienze si collocano nel quadro di una ricerca finanziata con fondi PRIN 2009 che aveva come scopo primario la verifica della plausibilità dell’approccio di “promozione dall’interno” mediante lo studio di una sua realizzazione concreta. In questo contributo ci concentreremo esclusivamente sugli aspetti della ricerca che riguardano più da vicino il tema della valutazione partecipata del processo valutativo.

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di paradigmi cui tali modelli si riferiscono, rende difficile stabilire criteri univoci per stabilire correttezza ed efficacia delle esperienze valutative2. I parametri che consentono di giudicare la bontà e la rilevanza di una ricerca condotta secondo metodologie ispirate ad un orientamento positivista di stampo quantitativo sono diversi da quelli propri di indagini qualitative, di stampo fenomenologico o etnografico. Non solo. Ciascun modello concepisce la evaluation come un’impresa che, oltre a giudicare del merito di un qualche specifico oggetto, assolve finalità specifiche (per fare solo alcuni esempi, formative piuttosto che sommative, partecipative e di empowerment dei soggetti coinvolti piuttosto che improntate a forme di esercizio di autorità e controllo, perseguibili attraverso il coinvolgimento di una pluralità di attori sociali o mediante la competenza del valutatore in veste di tecnico). Dunque ciascun modello presenta idee, più o meno esplicite, di che cosa significa condurre esperienze valutative in maniera rigorosa e eticamente accettabile in relazione alle scelte di fondo che ne informano le peculiarità. Non ne consegue l’impossibilità di valutare la valutazione ma la necessità che il vaglio critico di ciascuna specifica e particolare esperienza venga effettuato tenendo conto delle peculiarità dell’approccio adottato. Non solo. È riconosciuta l’importanza di una riflessione a posteriori sulle esperienze valutative. Infatti, se la valutazione ha come suo prioritario fine quello di contribuire al processo di cambiamento, la valutazione sulla valutazione dovrebbe contribuire a comprendere in che cosa è consistito il cambiamento, che cosa ha contribuito al cambiamento, se e quanto la situazione valutata è simile ad altre, e quanto trasferibili, almeno in via di ipotesi, possono essere le conclusioni da essa tratte. C’è quindi bisogno di una valutazione riflessiva e critica dei processi valutativi che consenta non solo di ripensare e rinnovare gli stessi processi alla luce dei risultati raggiunti ma anche di rendere più trasparenti e leggibili i criteri adottati e le procedure attuate. Il tutto porta a ritenere che la valutazione della valutazione debba essere parte integrante del processo valutativo. Come afferma Stufflebeam: “La metavalutazione è un dovere professionale per i valutatori. Raggiungere e mantenere un certo livello di professionalità e lo status di professionista significa sottoporre il proprio lavoro a operazioni valutative e utilizzare i risultati per offrire prestazioni migliori ai clienti e per implementare i servizi resi nel tempo. Ciò vale sia per i valutatori sia per gli architetti o gli ingegneri […]. I valutatori devono assicurare che le loro operazioni valutative siano soggette a valutazione (Stufflebeam, Shinkfield, 2007, p. 649, cit. e trad. it. in Ferrari, in corso di stampa).

2. Gli standard di metaevaluation Il bisogno di una valutazione riflessiva e critica dei processi valutativi, che consenta non solo di ripensare e rinnovare gli stessi processi valutativi alla luce dei risultati raggiunti ma anche di rendere più trasparenti e leggibili i criteri adottati, ha spinto diverse associazioni americane a elaborare standard congiunti di metaevaluation che prendono in considerazione criteri di utilità, fattibilità, correttezza, e accountability. Sulla base di tali standards (Joint Commettee, 1994, 2011), ciascuno dei quali articolato in punti, si verifica se e in che misura il processo e i prodotti della valutazione sono in linea con i bisogni degli stakeholders (utility), se e in che mi-

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Per una presentazione dei diversi modelli si veda Stufflebeam, Madaus e Kellaghan, 2000.

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sura la valutazione sia risultata efficace ed efficiente (feasibility), se e in che misura il processo è stato condotto in maniera leale e corretta (propriety), se e in che misura le affermazioni, le conclusioni della valutazione sono risultate affidabili e veridiche, soprattutto quelle che riguardano le interpretazioni e i giudizi di qualità (criterio dell’accuratezza - accuracy), e, infine, se l’intero percorso è stato documentato e valutato (accountablity). Tali standards, elaborati e aggiornati in più riprese (cfr. Ferrari, in corso di stampa), sono considerati validi supporti per apprezzare qualsiasi tipo di valutazione, indipendentemente dal modello e dall’approccio scelto. Tuttavia gli esponenti degli approcci naturalistici e “responsive” alla valutazione3 ritengono tali standards adatti soprattutto alle tradizionali forme di valutazione che si rifanno per lo più al paradigma positivista; non li rifiutano, ma rivendicano la necessità di ulteriori parametri in grado di cogliere le peculiarità dei propri modelli. Guba e Lincoln, pur definendo “compatibili” con il proprio orientamento valutativo sociocostruttivista i tradizionali standard di metavalutazione proposti dal Joint Committee, ritengono che non siano sufficienti (Guba e Lincoln, 1987-2007; 1989). Infatti tali standard consistono primariamente in criteri metodologici, cioè riguardano i metodi che possono assicurare la corretta realizzazione di processi valutativi; viceversa, nella valutazione di quarta generazione il metodo è solo uno degli aspetti presi in considerazione, mentre l’accento viene posto sui diritti degli stakeholders, verificando se e in che misura sono stati rispettati. In questa prospettiva occorre perciò impostare non solo la valutazione ma anche la valutazione della valutazione, del suo andamento e dei suoi esiti, sulla base di ulteriori parametri. A tal proposito, Guba e Lincoln, (1989, pp. 245-250) definiscono dei “criteri di autenticità” che scaturiscono dai principi fondanti del costruttivismo sociale, al grado di soddisfazione dei quali bisogna guardare per valutare i processi valutativi basati su tali principi: fairness, ontologic authenticity, educative authenticity , catalytic authenticity e tactycal authenticity. Con fairness si intende la possibilità che il valutatore solleciti, prenda in considerazione e illustri a tutti gli stakeholders le “voci”, le prospettive e i valori di riferimento di ognuno di loro, ma anche che sostenga una negoziazione aperta tra le diverse “voci” per definire consensualmente raccomandazioni per l’azione. La soddisfazione di tale criterio va documentata, anche attraverso un processo di controllo dei partecipanti (member-check process) che ne commenti lo sviluppo. Il criterio della ontologic authenticity riesamina se nel corso del processo le costruzioni emiche individuali (incluse quelle del valutatore) sono diventate più informate e sofisticate, cioè se gli stakeholders comprendono i loro mondi in modo più articolato e consapevole. Gli autori indicano due tecniche per accertare se tale criterio è stato soddisfatto: attraverso le testimonianze dirette di partecipanti selezionati e con la documentazione delle loro “voci”, registrate in momenti differenti del processo di valutazione, che va prevista dal piano di verifica del processo. Il criterio della educative authenticity pone l’attenzione sull’innalzamento individuale della comprensione delle “costruzioni” altrui e del sistema di valori in cui sono radicate. Anche in questo caso vengono proposte due tecniche per accertare il soddisfacimento di tale principio: di nuovo le testimonianze di parteci-

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Per una rassegna e una presentazione si veda la parte IV del volume di Stufflebeam, Madaus e Kellaghan, 2000 dedicata ai “Social agenda-directed (advocacy) models”, pp. 341-421.

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panti selezionati, che possono emergere durante il processo di negoziazione, ma anche la documentazione degli interventi che indicano uno sviluppo in tal senso, sempre prevista dal piano di verifica del processo. Con catalytic authenticity si fa riferimento alla capacità della valutazione di stimolare i partecipanti all’azione e alla presa di decisione, dimensioni che possono essere accertate attraverso: le testimonianze dei partecipanti, soprattutto quelle che esprimono non solo interesse ma desiderio di valutare per decidere; gli atti di risoluzione scaturiti dai processi di negoziazione; follow-up sistematici e periodici per rilevare azioni e cambiamenti. Infine, il criterio di tactycal authenticity esamina se e in che misura gli individui si sono rafforzati (empowered) nell’intraprendere l’azione che la valutazione implica e propone, se cioè partecipano effettivamente al processo. Tre le modalità indicate per accertare il soddisfacimento del criterio: le testimonianze dei partecipanti a riguardo; alcuni follow-up per verificare chi di fatto partecipa e come; infine, l’espressione di giudizi da parte dei partecipanti, e del valutatore stesso, sul carattere partecipativo del processo. Le proposte di Guba e Lincoln sono dei riferimenti importanti per affrontare la valutazione di approcci valutativi di tipo socio-costruttivista, anche perché individuano dei metodi per accertare se un percorso valutativo realizzato in tale prospettiva soddisfa o meno i criteri indicati. A questo proposito, due ci paiono le strategie principali suggerite: la documentazione e l’analisi degli scambi tra partecipanti in diversi momenti del percorso/processo; la sollecitazione di testimonianze dirette dei partecipanti riguardo il loro giudizio sulle dimensioni considerate dai diversi criteri. Quest’ultimo aspetto ci sembra particolarmente in sintonia con la natura partecipativa di un processo valutativo di quarta generazione, ed è stato perciò preso come riferimento principale per il percorso di ricerca che illustreremo e le questioni meta-valutative che con esso ci interessava affrontare.

3. L’approccio da valutare: la “promozione dall’interno” Come abbiamo già accennato, l’approccio che abbiamo inteso mettere alla prova è ispirato alla valutazione di quarta generazione, alla valutazione partecipata e democratica, quanto ai suoi presupposti di fondo, ma possiede dei tratti peculiari per quanto attiene alle finalità specifiche, alla tipologia dei partecipanti, ai principi guida, agli strumenti e alle metodologie adottati, allo svolgimento del processo. •

Finalità. L’approccio attribuisce alla valutazione una triplice finalità. La prima quella tipica di esprimere un giudizio ponderato su una certa realtà (nel caso specifico una realtà educativa), o aspetto della stessa, sulla base di un esame approfondito e di una raccolta sistematica di informazioni, in vista di un riorientamento nelle prassi educative o nell’organizzazione dell’istituzione; la seconda quella di formare abiti riflessivi nei partecipanti all’esperienza valutativa così da renderli più capaci di un agire educativo più intenzionale e consapevole. Si tratta di finalità fortemente intrecciate poiché la valutazione, così come è concepita nel nostro approccio, comporta una riflessione sulle pratiche e sui convincimenti educativi al fine di giudicarne la bontà sulla base di criteri e valori esplicitamente scelti. È possibile considerare riflessione e valutazione come due “facce” di una figura ambigua: se si guarda alla riflessione, allora la valutazione non è che uno dei possibili mezzi attraverso cui è possibile sollecitarla e promuoverla; se si guarda alla valutazione, allora la riflessione è

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uno degli strumenti attraverso i quali passare dai dati raccolti alla loro interpretazione, al giudizio e, infine, alla decisione. Valutazione e riflessione nel loro intreccio mirano alla ricostruzione dell’identità di una realtà educativa particolare e specifica4. Questa terza finalità assume come elemento essenziale l’attribuzione di significato (making meaning) da parte degli agenti educativi rispetto a “ciò che un’istituzione educativa è” e a “ciò che vuole essere”. Nel corso dell’esperienza vengono fatti emergere aspetti della cultura educativa locale, rivisti criticamente alla luce della valutazione intrapresa. Una ricostruzione interpretativa volta ad una progettualità consapevole. Partecipanti. I partecipanti all’impresa valutativa sono, nel nostro approccio, gli agenti educativi intendendo con essi tutti coloro che, all’interno di un’istituzione, svolgono, in maniera più o meno esplicita, compiti di cura e educazione: insegnanti, educatori, assistenti, genitori. Partecipante a pieno titolo ma con un ruolo differente da quello degli agenti educativi in senso proprio, è una figura di esperto (valutatore-formatore-facilitatore) che, come vedremo tra breve, svolge il compito specifico di aiutare i partecipanti al raggiungimento delle finalità specifiche di questo tipo di valutazione “promuovendo dall’interno”. Principi guida. In linea con la scelta di campo precedentemente delineata – la valutazione di quarta generazione – i principi che guidano l’approccio valutativo di cui stiamo parlando sono i seguenti: – partecipazione motivata e responsabile; – confronto paritetico; – negoziazione democratica.

La partecipazione non può essere obbligata ma frutto di una scelta e decisione volontarie e motivate. Le finalità della valutazione vengono perseguite attraverso il confronto tra i partecipanti, figure portatrici di punti di vista, preoccupazioni, esperienze, convincimenti differenti. Non vi sono prospettive più autorevoli di altre. La comunicazione, che è il mezzo utilizzato per il confronto, si svolge su un piano paritetico che tende ad abbattere i rapporti di potere e le gerarchie. La dimensione sociale della valutazione, il suo avvenire all’interno di un gruppo e “in gruppo”, ne è un tratto specifico. Il confronto ha come punto di partenza l’idea che ciascuna posizione individuale ha i medesimi diritti di espressione e “voce” di quelli di chiunque altro. Da qui l’idea della negoziazione come principio e strategia attraverso la quale giungere democraticamente a posizioni condivise e a deliberazioni consensuali. • Strumenti e metodologie adottati. Sulla base dell’oggetto di valutazione scelto (frutto di deliberazione partecipata), vengono individuati strumenti di valutazione della qualità del contesto educativo5 che consentano di apprezzare tale

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Potrebbe trattarsi di una scuola, di un asilo nido, di un centro gioco, ma anche di un insieme di centri educativi di un territorio che si riconoscono come membri di una comunità educativa. In quest’ultimo caso i partecipanti saranno suddivisi per singola realtà educativa pur prevedendo momenti collegiali di discussione più estesi. Ci riferiamo a strumenti disponibili in lingua italiana quali la SVANI (Harms, Cryer, Clifford, 1990-1992), la SOVASI (Harms, Clifford, 1984-1990), l’ASEI (Darder e Mestres, 1994-2000), l’ISQUEN (Becchi, Bondioli, Ferrari, 1999), L’AVSI (Bondioli, Ferrari, 2008), il DAVOPSI (Bondioli, 2008).

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oggetto6. Come si vedrà nel punto successivo, gli strumenti disponibili vengono valutati anche alla luce della loro “filosofia di fondo”, per verificare se i criteri di valutazione da essi proposti collimano con quelli dei partecipanti. Lo strumento scelto viene utilizzato come guida per l’osservazione, la raccolta di informazioni, l’apprezzamento. Sulla base di tale utilizzo si raccolgono i “dati valutativi” che verranno poi discussi nella fase di negoziazione e di interpretazione. Svolgimento del processo. Il processo prevede diverse tappe ciascuna delle quali può essere svolta in uno o più incontri di un gruppo di lavoro costituito con fini valutativi e formativi: a) decisione argomentata e negoziale circa il compito valutativo da svolgere; b) presa di visione, analisi critica e selezione dello/gli strumento/i da utilizzare; c) valutazione in senso stretto di aspetti del contesto educativo tramite lo strumento scelto; d) elaborazione dei dati valutativi raccolti; e) restituzione dei dati valutativi raccolti e loro discussione; f) scelta negoziata di aspetti del contesto educativo da modificare/innovare e definizione di un progetto condiviso di miglioramento; g) realizzazione del progetto di miglioramento; h) verifica del progetto di miglioramento realizzato; i) valutazione del percorso di valutazione effettuato. Il ruolo di chi “promuove dall’interno”. L’intero processo viene sostenuto e incoraggiato da una figura di valutatore-formatore-facilitatore che ha il compito di promuovere, in tutte le diverse tappe dell’esperienza, processi di riflessione, esplicitazione, negoziazione, partecipazione (Bondioli, 2004; Savio, 2013). Questa figura non valuta il contesto, a meno che non gli venga esplicitamente richiesto dai partecipanti, ma guida e sostiene l’intera esperienza utilizzando le sue competenze sia in campo valutativo che formativo.

4. Lo studio di due evaluation “gemelle”: la realizzazione delle esperienze e il disegno della ricerca La messa alla prova dell’approccio valutativo di “promozione dall’interno” è stata realizzata come lo “studio di due casi”. Sono stati coinvolti due asili nido, scelti sulla base di due criteri principali: la disponibilità a seguire un percorso di valutazione a carattere formativo prolungato - di durata annuale con incontri a cadenza mensile -; la differenza di conoscenza circa procedure e strumenti valutativi – un asilo nido con e un asilo nido senza esperienze pregresse di valutazione della qualità del contesto –. Tale differenza avrebbe permesso di verificare se e in che misura l’efficacia della valutazione come “promozione dall’interno”, in relazione ai suoi obiettivi, sia connessa alle competenze valutative del gruppo di lavoro coinvolto. In sintesi, i due asili nido che hanno aderito e partecipato all’esperienza presentavano le seguenti caratteristiche principali: Nido A, comunale, collocato in una città capoluogo regionale del Nord Italia, capienza 87 bambini, 20 educatrici, 6 collaboratori socio-educativi, 1 coordinatore pedagogico, esperienza pregressa di valutazione di contesto;

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L’evaluandum è in ogni caso un aspetto del contesto educativo, inteso, secondo un’accezione che si rifà sia a Bronfenbrenner (1979-1986) che all’approccio sistemico, come “l’insieme complesso delle risorse materiali, umane e simboliche che un’istituzione organizza e mette in gioco allo scopo di produrre una ricaduta formativa sui destinatari dell’azione educativa” (Bondioli, in corso di stampa).

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Nido B, comunale, collocato in un piccolo comune del Nord Italia, capienza 40 bambini, 5 educatrici, 1 collaboratore educativo, 1 collaboratore ausiliario, 1 coordinatore pedagogico, nessuna esperienza pregressa di valutazione di contesto. Come si può notare, una volta individuati i due nidi e ottenuta la loro disponibilità, un’ulteriore differenza è stata rappresentata dalle dimensioni dei gruppi di lavoro e da una certa diversità di composizione: il nido A ha partecipato con 14 operatori (12 educatrici e 2 collaboratori – una parte del personale ha deciso non aderire all’esperienza), mentre il nido B ha visto la partecipazione di 6 operatori (5 educatrici e il coordinatore). Tali differenze sono state considerate utili rispetto all’obiettivo di messa alla prova dell’approccio. Si sarebbe potuta verificare infatti la sua tenuta in relazione sia del massimo che del minimo numero di partecipanti possibili per il tipo di percorso; inoltre, dato che l’adesione spontanea e motivata è uno dei requisiti dei percorsi di “promozione dall’interno”, la varietà di ruoli differentemente presenti nei due gruppi rappresenta un’eventualità probabile nella realizzazione di tali percorsi e perciò da sondare nella sua influenza sulla loro riuscita. La figura del valutatore-formatore-facilitatore è stata diversa nei due casi. Entrambi gli specialisti erano profondi conoscitori dell’approccio e sono intervenuti con l’intento di metterlo in atto il più fedelmente possibile rispetto a quanto prospettato. A differenza del nido A, il gruppo di lavoro del nido B aveva già avuto modo di conoscere il formatore in precedenti percorsi formativi centrati sulla riflessione e problematizzazione delle pratiche educative, ma mai di tipo prettamente valutativo. Nel concreto i due percorsi sono stati realizzati in parallelo, tra gennaio 2012 e febbraio/marzo 2013. In entrambi i casi sono state realizzate tutte le tappe di lavoro previste, con uno stesso numero di incontri (12 incontri sia per il nido A che per il nido B). Tutti gli incontri sono stati audio-registrati e trascritti. In entrambi i casi sono stati compilati dagli operatori due questionari individuali: uno all’inizio del percorso, per sondare sia il grado di cultura valutativa che la motivazione alla partecipazione, l’altro al termine del percorso, successivamente all’ultimo incontro, per valutare l’esperienza.

5. Il piano di ricerca: strumenti e strategie per la valutazione dell’esperienza valutativa Nell’ottica di mettere alla prova l’approccio di “promozione dall’interno”, la definizione di un piano meta-valutativo ha rappresentato uno snodo fondamentale della ricerca. Come già accennato a commento dei criteri indicati da Guba e Lincoln (cfr. paragrafo 2), la definizione di tale piano ha avuto come riferimento principale l’idea che la valutazione di una valutazione che metta al centro la partecipazione degli stakehokders deve anch’essa rispondere al principio partecipativo. Da ciò è derivata la duplice scelta di: sollecitare le testimonianze meta-valutative dagli operatori stessi coinvolti nel percorso; prevedere i momenti meta-valutativi come parte integrante del processo della valutazione “come promozione dall’interno”7. In questa prospettiva, il piano meta-valutativo ha previsto

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Accanto a ciò, come suggerito da Guba e Lincoln, si è proceduto anche all’analisi della documentazione prodotta con la trascrizione dell’audio-registrazione degli incontri in un’ottica meta-valutativa; gli esiti di quest’analisi saranno oggetto di prossime pubblicazioni.

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tre mosse, collocate in momenti precisi tra le tappe che hanno scandito il percorso (cfr. paragrafo 3: svolgimento del processo), secondo il prospetto presentato qui di seguito. Cronologia delle tappe del processo e delle mosse metavalutative (in grassetto) 1° tappa: presentazione del progetto e scelta di aderirvi. 1° mossa meta-valutativa: somministrazione questionario individuale iniziale. 2° tappa: decisione negoziata dell’aspetto da valutare. 3° tappa: scelta negoziata dello strumento di valutazione da adottare. 4° tappa: valutazione tramite lo strumento (individuale). 5° Tappa: momento di confronto sui dati valutativi raccolti. 6° tappa: scelta negoziata dell’aspetto da migliorare. 7° tappa: elaborazione del progetto di miglioramento. 8° tappa: realizzazione del progetto di miglioramento. 9° tappa: valutazione del progetto di miglioramento: commento alle osservazioni realizzate. 10° tappa - 2° mossa meta-valutativa: incontro di valutazione dell’intero percorso. 3° mossa meta-valutativa: somministrazione questionario individuale finale.

1° mossa meta-valutativa è stata realizzata con la somministrazione di un questionario individuale iniziale, consegnato dopo aver presentato il percorso e ricevute le adesioni alla sua realizzazione con un duplice scopo: verificare il grado di esperienza dei partecipanti circa strumenti di valutazione di contesto e la loro conoscenza di un tipo particolare di evaluation, la “valutazione formativa di contesto”, che avrebbe caratterizzato il percorso intrapreso; saggiare la motivazione a partecipare, il grado di interesse e le aspettative circa il lavoro valutativo da svolgere. Questo secondo obiettivo risponde a un’ottica meta-valutativa, se ci si pone all’interno della prospettiva di valutazione di quarta generazione; infatti la motivazione autentica nell’aderire al percorso, con un patto fondato sulla trasparenza di informazione, è aspetto preliminare ma anche fondamentale per garantire la partecipazione degli stakeholders. Quest’aspetto è stato sondato con la terza e ultima domanda del questionario, così formulata8: Ti trovi all’inizio di un percorso di valutazione cui hai accettato di partecipare indica il grado di interesse che la presentazione del percorso ti ha suscitato 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 Che cosa ti aspetti da questo progetto?

La 2° mossa meta-valutativa è consistita nell’incontro finale, dedicato specificamente a valutare il percorso valutativo. Il formatore riprende il senso del percorso e i diversi passaggi che l’hanno caratterizzato chiedendo ad ogni partecipante di esprimere liberamente la propria valutazione. Scopo di questa mossa è duplice: ottenere da ciascun partecipante un giudizio articolato sul percorso valutativo compiuto per metterne in luce positività ed elementi critici; sollecitare il gruppo a un confronto sui giudizi singolarmente espressi per giungere a delineare una valutazione partecipata del percorso realizzato.

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Le prime due domande chiedevano: 1. Hai mai sentito parlare di strumenti di valutazione del contesto asilo nido (ad esempio SVANI, ASEI, ISQUEN, ecc.)? 2. Prima della presentazione di questa ricerca, hai mai sentito parlare di valutazione formativa di contesto? Per entrambe, in caso di risposta affermativa, si chiedevano chiarimenti a riguardo.

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La 3° mossa meta-valutativa è stata realizzata con la somministrazione di un questionario individuale finale, articolato in quattro domande, di cui le prime due9 possono trovare corrispondenza con le dimensioni dei criteri metavalutativi individuati da Guba e Lincoln. La prima domanda aveva come scopo di verificare se e in che misura i diversi momenti del percorso valutativo fossero riconosciuti come aspetti significativi e importanti del processo realizzato. Domanda (1): Ripercorrendo i diversi momenti in cui si è articolato il percorso, indica con un punteggio da 1 a 3 l’importanza che secondo te ha avuto, per la riuscita dell’intero progetto, ciascuno di essi. 1. Presentazione del progetto e scelta di aderirvi; 2. Decisione negoziata dell’aspetto da valutare; 3. Scelta negoziata dello strumento di valutazione da adottare; 4. Valutazione tramite lo strumento (individuale); 5. Momento di confronto sui dati valutativi raccolti; 6.Scelta negoziata dell’aspetto da migliorare; 7. Elaborazione del progetto di miglioramento; 8. Realizzazione del progetto di miglioramento; 9. Valutazione del progetto di miglioramento: commento alle osservazioni realizzate; 10.Valutazione dell’intero percorso.

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Vale la pena al proposito ricordare che, nel quadro dei criteri metavalutativi proposti da Guba e Lincoln presentati nel paragrafo 2, ciascun momento del percorso è pensato per assolvere alcune delle specifiche funzioni proprie della valutazione di quarta generazione. I momenti 2, 3, 5, 6,7, tutti caratterizzati dal confronto e dalla negoziazione, sono ispirati al criterio della educative authenticity; ma anche a quello della fairness, sollecitando la partecipazione e l’espressione di tutti i punti di vista coinvolti; quelli dall’1 al 4 e dal 6 al 10, finalizzati a promuovere l’identità educativa della realtà di appartenenza e a rafforzare competenze professionali (valutare, osservare, interpretare, progettare, innovare), si possono riferire alla tactycal authenticity. Al principio della catalytic authenticity, e cioè alla motivazione all’innovazione ragionata sulla base della valutazione effettuata, corrispondono le fasi 6,7,8. La seconda domanda proponeva di giudicare se e in che misura nel processo attuato risultassero riconoscibili i tratti distintivi dell’approccio. Domanda (2) L’approccio valutativo che abbiamo proposto ha dei tratti distintivi che qui di seguito elenchiamo. Secondo te, in una scala da 1 a 3, in quale misura questi tratti sono stati effettivamente realizzati nel percorso cui hai partecipato? 1. Analisi, osservazione, valutazione della realtà educativa; 2.Riflessione sulle pratiche e sulle idee educative; 3.Assunzione di consapevolezza e svelamento dell’implicito educativo; 4.Confronto, negoziazione, partecipazione; 5.Dimensione di gruppo; 6.Riconoscimento dell’individualità pur in una dimensione di gruppo; 7. Progettazione migliorativa; Altro (specificare).

Anche in questo caso, si può rilevare una qualche corrispondenza con alcuni dei criteri metavalutativi esposti da Guba e Lincoln: il criterio della ontological au-

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Le successive due domande erano aperte e chiedevano: 3 .Oltre alla riorganizzazione (degli spazi – nido A) (materiali/spazi per il “cestino dei tesori” e per il “gioco euristico” – nido B) che cosa pensi di aver tratto professionalmente da questo percorso? 4. Quali a tuo avviso sono gli aspetti di criticità del percorso effettuato?

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thenticity, in riferimento a realtà educative, si declina nella forma della assunzione di maggiore consapevolezza sia rispetto ai punti di vista altrui sia dal punto di vista della maggiore capacità di leggere il contesto in cui si opera; è perciò particolarmente evidente nei punti 1, 2 e 3 ma anche nel 7 in quanto la progettazione migliorativa, di per sé indicativa del conseguimento della catalytic authenticity, deriva da una visione maggiormente socializzata dei problemi da risolvere e della loro possibile soluzione. Il punto 4 sottolinea soprattutto il principio della educative authenticity in quanto la percezione, da parte dei partecipanti, di essere stati coinvolti in un’impresa di gruppo, è un indicatore della maggiore comprensione che il processo ha innescato dei punti di vista e delle azioni altrui.

6. I dati meta-valutativi Presenteremo qui di seguito gli esiti dell’applicazione degli strumenti meta-valutativi appena illustrati: in primo luogo considereremo i due questionari, con riferimento alla terza domanda del questionario iniziale e alle prime due domande del questionario finale, e in ultimo analizzeremo l’incontro meta-valutativo finale.

59 6.1 Dal questionario iniziale: la motivazione alla partecipazione In estrema sintesi, i dati relativi alla prima domanda del questionario iniziale10, che chiedeva di graduare da 1 a 10 l’interesse per il percorso da intraprendere, risultano altamente positivi: i punteggi del nido A oscillano tra il 7 e il 10, quelli del nido B tra l’8 e il 9. Dunque, le basi per avviare un’autentica partecipazione sembrano essere presenti sin dall’avvio dell’esperienza, forse anche in relazione al fatto che nel primo incontro le sue caratteristiche sono state presentate con trasparenza e ad ognuno è stato chiesto di esprimere il proprio punto di vista e di sentirsi libero di aderire o meno. 6.2 Dal questionario finale: l’importanza dei diversi momenti previsti dall’approccio La prima domanda del questionario finale, lo ricordiamo, presentava i diversi momenti costitutivi del percorso e chiedeva di indicare, con un punteggio da 1 a 3, il grado di importanza di ognuno di essi. La Tab. 1 mostra gli esiti ottenuti per ciascun nido calcolando un indice corrispondente al rapporto tra la somma dei punteggi singoli e il punteggio massimo possibile (12 per il nido A, 6 per il nido B).

10 Per questioni di spazio, consideriamo solo i dati quantitativi e non le risposte date in merito alle aspettative sul progetto, sollecitate come parte integrante di questa domanda.

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I momenti

Nido A

Nido B

1. Presentazione del progetto e scelta di aderirvi

0,91

0,94

2. Decisione negoziata dell’aspetto da valutare

0,83

1

3. Scelta negoziata dello strumento di valutazione da adottare

0,8

0,61

4. Valutazione tramite lo strumento (individuale)

0,86

0,77

5. Momento di confronto sui dati valutativi raccolti

0,91

1

6. Scelta negoziata dell’aspetto da migliorare

0, 94

1

7. Elaborazione del progetto di miglioramento

0,94

0,94

8. Realizzazione del progetto di miglioramento

0,77

0, 94

9. Verifica del progetto di miglioramento: commento alle osservazioni realizzate

0,83

0,88

10. Valutazione dell’intero percorso

0,94

1

Tab. 1: Prima domanda del questionario finale

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I dati della tabella mostrano una sostanziale significatività accordata a tutte le fasi del processo. È però interessante notare come in ambedue i casi maggiore enfasi venga data alle fasi partecipative più pregnanti: la prima (Presentazione del progetto e scelta di aderirvi) e l’ultima (Valutazione dell’intero percorso), momenti nei quali il protagonismo dei partecipanti è risultato più evidente e l’espressione della loro “voce” più presente; a seguire, pur con accentuazioni diverse nelle due realtà, risultano apprezzate le fasi negoziali 5 (Momento di confronto sui dati valutativi raccolti) e 6 (Scelta negoziata dell’aspetto da migliorare) e quella più progettuale (7. Elaborazione del progetto di miglioramento), segno dell’importanza che l’approccio valutativo comprenda nel processo, oltre alla fase di espressione del giudizio, anche quella della pianificazione del cambiamento. Si notano però anche differenze tra le valutazioni espresse dalle due realtà: la realizzazione del progetto di miglioramento è il momento considerato meno significativo dal nido A, mentre nel nido B la minore enfasi è attribuita alla scelta dello strumento di valutazione da adottare. 6.3 Dal questionario finale: il riconoscimento dei tratti costituitivi dell’approccio La domanda 2 del questionario finale riprendeva le principali finalità dell’approccio e chiedeva di indicare, con un punteggio da 1 a 3, se e in che misura fossero stati effettivamente realizzate nel percorso effettuato. La Tab. 2 mostra gli esiti ottenuti per ciascun nido sulla base di un indice analogo a quello calcolato per la Tab. 1. Elenco predefinito dei “tratti distintivi”

Nido A

Nido B

1. Analisi, osservazione, valutazione della realtà educativa

0,86

0,77

2. Riflessione sulle pratiche e sulle idee educative

0,91

0,83

3. Assunzione di consapevolezza e svelamento dell’implicito educativo

0,97

0,66

4. Confronto, negoziazione, partecipazione

0,86

0,94

5. Dimensione di gruppo

0,72

1

6. Riconoscimento dell’individualità pur in una dimensione di gruppo

0,83

0,88

7. Progettazione migliorativa

0,80

0,94

!

Tab. 2: Seconda domanda del questionario finale

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Va notato in primo luogo che le due realtà coinvolte – nido A e nido B – giudicano realizzate in buona misura tutte le finalità che caratterizzano l’approccio pur con accentuazioni diverse che si possono ricondurre, come vedremo, alla storia e alle tradizioni di ciascuna di esse e alla diversa modalità di conduzione dell’esperienza. Nel caso del nido A, sono percepite come maggiormente realizzate le dimensioni “Assunzione di consapevolezza e svelamento dell’implicito educativo” e “Riflessione sulle pratiche e sulle idee educative”, mentre la meno realizzata risulta la “Dimensione di gruppo”. Nel caso del nido B, ottengono il maggior punteggio gli aspetti della “Dimensione di gruppo”, del “Confronto, negoziazione, partecipazione” e della “Progettazione migliorativa”, mentre vengono considerate meno realizzate le dimensioni “Assunzione di consapevolezza e svelamento dell’implicito educativo”, “Analisi, osservazione, valutazione della realtà educativa”. Gli aspetti rispetto a quali i due nidi appaiono più distanti sono dunque quelli della “Dimensione di gruppo”, sentita come la più realizzata dal nido B e la meno realizzata dal nido A, e la “Assunzione di consapevolezza”, al contrario la più votata dal nido A e la meno dal nido B. Va tenuto presente che il nido A, come abbiamo già detto, ha sofferto per la mancanza di momenti di formazione di tipo riflessivo ed ha dunque dimostrato di apprezzare particolarmente questo aspetto del percorso effettuato. Per quanto riguarda invece la dimensione di gruppo, l’apprezzamento di molto inferiore è dovuta verosimilmente al fatto che, al momento iniziale del percorso, non tutti i membri del collettivo si sono dichiarati disposti a proseguire, il che ha fatto sorgere parecchi dubbi sulla possibilità effettiva che il progetto di miglioramento realizzato potesse essere condiviso da tutti i membri dell’istituzione e si rivelasse anche per il futuro un’innovazione duratura. Nel nido B viene invece sottolineata soprattutto la possibilità che l’esperienza ha offerto di vivere momenti di confronto e progettuali condivisi nel gruppo, mentre gli aspetti sentiti come meno realizzati sembrerebbero essere quelli più propriamente individuali: la fase valutativa in senso proprio, svolta singolarmente da ciascun partecipante, e l’assunzione di consapevolezza, che, più che una finalità dell’esperienza, sembra venire riferita all’interiorizzazione, soggettiva e, dunque individuale, delle processo riflessivo innescato. Risulta in ogni caso evidente che elementi di storia e tradizione propri di ciascun gruppo di lavoro intervengono nel momento in cui il percorso effettuato viene giudicato e dimostra pertanto l’importanza di tale momento in vista di eventuali ricalibrature dell’approccio più rispondenti ad esigenze particolari e locali. 6.4 Dall’incontro finale: alcuni rilievi dei partecipanti Non è qui possibile presentare tutte le articolazioni e tutte le sfumature delle considerazioni dei partecipanti nell’incontro finale11. Qui di seguito presentiamo per ciascuna delle realtà coinvolte solo le questioni che, a nostro parere, appaiono particolarmente significative sia perché mostrano nei partecipanti una accresciuta

11 In ambedue le esperienze l’incontro finale è stato audioregistrato e trascritto integralmente. La trascrizione è stata analizzata qualitativamente avendo come filtro tre domande principali: dal punto di vista dei partecipanti a) vengono riconosciuti i tratti distintivi dell’approccio e del percorso? b) le finalità e gli scopi prospettati sono stati raggiunti? c) emergono aspetti/effetti non previsti? (cfr. Savio, 2013).

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educative authenticity su un piano particolarmente pregnante in termini educativi, sia perché mettono a fuoco alcuni elementi di criticità del modello, che quindi paiono decisamente rilevanti in una prospettiva di valutazione della valutazione. 6.4.1. Nido A

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Due questioni in particolare sono emerse dalla discussione dell’ultimo incontro nel nido A. La prima ha a che fare con la considerazione che la valutazione della qualità educativa debba tenere in conto principalmente e soprattutto il benessere del bambino. Valutare il contesto significa in primo luogo e soprattutto chiedersi se e quanto le condizioni ambientali e relazionali allestite sono favorevoli alle possibilità di crescita offerte ai bambini. Nel caso specifico del nido A, il percorso valutativo realizzato sembra aver suscitato nei partecipanti un cambiamento di atteggiamento, una maggiore attenzione al bambino e ai suoi bisogni educativi, una consapevolezza che si è accresiuta dopo aver realizzato il progetto di miglioramento, verificando che il cambiamento effettuato era non solo possibile ma anche vantaggioso12. Si fa strada, dunque, l’idea che la qualità educativa vada apprezzata in riferimento ad uno stakeholder che non ha possibilità diretta di partecipare ma la cui “voce” va tenuta in conto riflettendo, ad esempio, come si è fatto lungo il percorso, sugli effetti delle condizioni ambientali e relazionali sulle condotte infantili. La questione non è di poco conto, ed ha a che fare con i principi della valutazione di quarta generazione, in particolare al terzo, quello della educative authenticity e cioè della sensibilità per tutte le “voci” e le diverse prospettive in gioco, anche e soprattutto per le meno riconosciute. Nel caso dell’asilo nido, la questione relativa alla partecipazione del bambino alla valutazione del contesto che lo accoglie risulta particolarmente delicata (Katz, 1995). Anche perché la “voce” del bambino è demandata all’interpretazione dell’adulto. Si tratta di un aspetto che si evidenzia in particolare nei contesti educativi prescolari, ma che propone un dilemma relativo a qualsiasi forma di valutazione che abbia per oggetto una realtà educativa, e cioè su quale base e tenendo conto di quali valori sia possibile definire la qualità di un contesto che abbia appunto una finalità educativa13. La seconda questione riguarda la possibilità di un conflitto tra due principi che caratterizzano l’approccio seguito: quello della libera partecipazione e quello della dimensione di gruppo, conflitto che si è verificato nell’esperienza del nido B, e che ha condotto ad evidenziare non poche criticità. All’inizio del percorso, per svariate ragioni, non tutti i membri del collettivo si sono infatti dichiarati dispo-

12 Ed. 3 sottolinea che nell’elaborazione del progetto di miglioramento il fuoco di interesse e l’attenzione sono stati rivolti al “benessere dei bambini” capovolgendo il modo abituale di guardare all’organizzazione del nido: “Era importante capire che questo era un percorso che è stato fatto esclusivamente per il benessere dei bambini”. Ed. 7 segnala come effetto del percorso il fatto di prestare molto più attenzione ai bambini e di mettersi maggiormente a loro disposizione: “(… ) Ho notato molte più cose! Guardo molto di più bambini e osservo molto di più!”. “ (…) Adesso riusciamo a vederli di più (… ) Anche loro sentono proprio la … Sentono veramente l’attenzione … “. Ed. 8 collega la riflessione sulla pratica educativa con l’attenzione nei confronti del bambino: “io penso che ci sono persone che non si fermano mai a riflettere: mai sul loro lavoro, mai su come vengono utilizzati … mai sul benessere del bambino!”. 13 Su questo aspetto si veda in particolare Harvey e Green, 1993.

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nibili a intraprendere il lavoro valutativo ma si è comunque convenuto che fosse opportuno e utile realizzarlo comunque. Nell’incontro finale sono emerse al proposito diverse perplessità e proeccupazioni che fanno riflettere sull’importanza da dare all’uno o all’altro principio-guida dell’approccio14. 6.4.2. Nido B L’elemento di criticità messo in evidenza dal nido B nell’incontro finale riguarda la possibilità di realizzare il percorso e di attivare i processi che lo caratterizzano in autonomia, senza la presenza del formatore15. Gli aspetti rispetto ai quali gli operatori dichiarano di sentirsi meno pronti ad operare senza supporto sono principalmente tre: i processi di negoziazione16, la riflessione che permette di staccarsi dalla dimensione operativa per svelarne i significati educativi impli-

14 Ed. 7 esprime il timore che le colleghe che non hanno condiviso il percorso non accettino il cambiamento e, soprattutto, che non cambino atteggiamento. In positivo è come se dicesse: il percorso fatto invece ci ha cambiato: “Quello che io temo è che, non avendo fatto un percorso insieme, ma soprattutto di autovalutazione (…) La sensazione che ho, è che alcuni nostri colleghi siano convinti che questo è il modo di lavorare e non si cambia. Cambiano gli spazi, ma non le persone! Io credo che a noi sia servito cambiare gli spazi, ma – almeno io parlo per me, non so per voi, però immagino che sia successo a me in parte a chi più e a chi meno – è cambiato proprio il modo …”. Ed 4. intreccia il tema della mancata condivisione del percorso da parte di tutto il Collettivo con quello della valutazione, auspicando che la si riproponga annualmente: “Potremmo anche pensare a una valutazione degli esiti a un anno, a due anni … anche strutturata, anche ripetendo la scala e quindi anche le persone che non l’hanno fatta, la fanno magari, invece, in un contesto di valutazione d’esito, no? A un anno o due dal progetto! Potrebbe essere!”. Ed. 4 continua segnalando di aver già visto che il lavoro svolto è stato percepito e colto anche dalle educatrici che non hanno partecipato:“io pensavo che è un percorso che comunque è stato capace di contaminare, come se ci fosse stata una contaminazione quasi per osmosi (…) i risultati di questo corso – certamente su di noi, ma anche sulle persone che non vi hanno partecipato – sono stati risultati che si sono visti nel loro aspetto positivo giorno per giorno, piano piano, come se dovessero essere assorbiti in qualche maniera (…)”. 15 E2 esprime dubbi sulla possibilità di applicare il metodo in autonomia, senza formatore: “magari, fare un lavoro con questo stesso metodo, non so come ci riuscirà perché senza formatore è un po’ …”. E4 ritiene che l’obiettivo fosse quello di impossessarsi di strumenti da utilizzare in autonomia; ora ha appreso il metodo ma non si sente pronta: “l’obiettivo iniziale che avevo in mente di questo processo qua, fosse proprio quello di darci degli strumenti, d’imparare un metodo per allenarci a cavarcela senza il formatore (…) però, arrivati a questo punto (…)il processo l’ho in mente e l’ho capito, però poi”, Coo concorda: “siamo ancora in prima elementare”. 16 E5 solleva il dubbio che il metodo possa essere da loro applicato senza la presenza del formatore, soprattutto rispetto alla possibilità di negoziare posizione condivise, di cocostruire. “io ho delle perplessità rispetto questa cosa perché, secondo quello che penso io, io credo che sia complicato da soli … la metodologia mi piace perché se i punti sono osservazione, giudizi di valore, autovalutazione e riflessione, che sono i punti … progettazione (…) Secondo me è importante avere un aiuto perché sai, poi nel quotidiano si fa presto a giudicare piuttosto che a dire … no? Poi magari ci ritroviamo davvero ad avere delle posizioni molto diverse che non riusciamo poi a far diventare (…)ma lo strumento è molto interessante! È molto interessante, questo sì, cioè questa co-costruzione di cui parlavi è proprio … è bello, però dovremmo essere un po’ supportate”.

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citi17, e i momenti di verifica per riflettere su come si è agito e orientare in modo più intenzionale il proprio fare educativo18. Dunque sono proprio le le dimensioni cruciali dell’approccio quelle rispetto a cui il nido B ritiene di aver bisogno di supporto: negoziazione, riflessione e verifica/valutazione. Viene così sollevata una questione davvero fondamentale per qualsiasi valutazione che si radichi in una prospettiva socio-costruzionista: è possibile prevedere tra gli obiettivi cui mirare anche l’empowerment degli stakeholders in termini di emancipazione rispetto alla competenze che caratterizzano tale prospettiva valutativa? Nel caso specifico del nostro approccio, che si rivolge in maniera particolare a operatori educativi, la risposta è senz’altro affermativa. Infatti, il profilo professionale di chi si occupa di educazione, a partire da Schön (1983-1993) e dalla sua ripresa del tema della professionalità in chiave deweyana, viene sempre più caratterizzato come capacità di affrontare il rapporto con la pratica come un’indagine riflessiva, che implica: osservazione delle problematiche incontrate, riflessione su di esse e formulazione di ipotesi d’interventi migliorativi, realizzazione degli interventi e verifica della corrispondenza tra esiti attesi e esiti ottenuti. Poiché nel caso delle istituzioni educative, in particolare di quelle pre-scolari, tale processo è sempre attivato in una dimensione di collegialità, cioè all’interno di un gruppo di lavoro, anche la capacità di confronto e negoziazione fanno parte delle competenze richieste a un professionista educativo. D’altra parte, proprio perché in ambito educativo si ha a che fare con gruppi di lavoro, la presenza di un “facilitatore” dei processi comunicativi, della mediazione sociale a partire dalla presa in carico dei punti di vista di tutti e di ognuno, sembra uno strumento necessario e quindi indispensabile per la piena realizzazione degli obiettivi del nostro approccio valutativo. In questo senso risultano molto chiare le “voci” di due educatrici che riportiamo qui di seguito e che, in una logica partecipativa, vanno considerate come rilievi competenti circa l’approccio e i suoi possibili sviluppi metodologici. E5 “io mi sento diversa quando siamo con una persona esterna, veramente! … nel senso che mi sento che posso dire delle cose, non so come dire …” E2 “secondo me il formatore ha una visione diversa rispetto a noi che … cioè riesce ad avere la globalità della situazione, intanto, cosa che secondo me ognuno di noi, poi, ha la sua visione o non riesce a vedere certi aspetti (…) cioè magari poi dici “ è vero, è così! Non ci avevo mai pensato, non ci avevo fatto caso …”, cioè un formatore è un po’ come il regista che ha in mente tutti i personaggi e tutte le scene, cosa che invece non ha l’attore, quindi come tirar le fila, come dare suggerimenti o impostare o comunque suggerire … Ci vuole uno dall’esterno che abbia, secondo me, questa funzione qui …”.

17 E4 dice che senza il formatore è difficile staccarsi dalla dimensione quotidiana: “è difficile poi staccarsi da questa dimensione sul quotidiano e arrivare qua sul tavolo e dire “va beh, adesso parliamo in questa maniera qua” – come parliamo quando ci sei tu …”; E4 sostiene che da sole si fanno “...delle scelte inconsapevoli”; E5 afferma che da sole si è più orientati sul fare: “magari non abbiamo tempo per approfondire una cosa perché abbiamo l’altra da fare, perché … In questo senso siamo più incalzanti rispetto al fare”. 18 E5 afferma che, da sole, mancano le verifiche “È lì, tutto il materiale è lì e magari per il tempo, magari davvero dobbiamo decidere a questo punto che cosa è importante e allora magari fai poche cose, però farle con un certo… mancano un po’ le verifiche”.

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Alcune osservazioni conclusive La ricerca meta-valutativa che abbiamo presentato ha ottenuto a nostro avviso risultati in linea con gli obiettivi che perseguiva e che si collocano su due diversi livelli. In primo luogo, ha permesso di dare una valutazione positiva dell’approccio che si intendeva valutare, trovando conferma attraverso le parole dei partecipanti della sua capacità di attivare proprio quei processi che intende attivare, attraverso le strategie e il percorso messi a punto a tal fine. A un altro livello, quello maggiormente messo a fuoco con il nostro contributo, ha trovato conferma anche la possibilità di delineare e realizzare efficacemente un piano meta-valutativo di tipo socio-costruzionista in relazione a una valutazione condotta nella stessa prospettiva. L’efficacia in tal senso si riscontra sia nel fatto che tale piano ha permesso di raccogliere dati informativi rispetto alla qualità del processo valutativo valutato, sia nella possibilità realizzata di cogliere rilievi critici e suggerimenti migliorativi dalle voci stesse degli stakeholders. Restano aperte diverse questioni che riguardano sia l’efficacia dell’approccio valutativo prospettato sia la modalità con cui se ne è realizzata la valutazione e che richiederebbero approfondimenti alla luce dei criteri di metavalutazione che hanno ispirato questa ricerca. Si tratta in particolare dei criteri di catalytic authenticity e di tactycal authenticity. Il primo, come si è visto nel paragrafo 2, riguarda quanto il processo valutativo abbia stimolato azioni migliorative condivise mentre il secondo riguarda l’empowerment personale e professionale dei partecipanti. Si tratta di effetti che possono essere colti nel corso del processo stesso di valutazione ma che richiederebbero anche dei follow-up successivi per verificare se e quanto gli effetti prodotti dal lavoro valutativo compiuto si sono mantenuti nel tempo, se e quanto altri stakeholders, ad esempio, nel caso specifico, i genitori dei bambini frequentanti il nido, abbiano percepito gli effetti del processo valutativo condotto dagli educatori, se e in che misura il processo innescato ha accresciuto una maggiore consapevolezza dell’utilità della valutazione e della capacità di condurla con maggiore autonomia. Meriterebbe approfondimento e indagini ulteriori anche la questione relativa alle condizioni che consentono, a un processo valutativo quale quello prospettato e condotto, di produrre risultati all’altezza dell’impegno richiesto e profuso. Infine andrebbe considerata anche l’opportunità di sollecitare e rilevare il giudizio del facilitatore sul processo, i suoi esiti e condizioni di realizzazione individuando moldalità che ne permettano la condivisione con i partecipanti.

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Innovare la formazione: il ruolo della videoeducazione per lo sviluppo dei nuovi educatori Antonio Calvani - Università di Firenze - antonio.calvani@unifi.it Laura Menichetti - Università di Firenze - laura.menichetti@unifi.it Silvia Micheletta - Università di Firenze - silvia.micheletta@unifi.it Camilla Moricca - Università di Firenze - camilla.moricca@stud.unifi.it

Innovating training: the video-enhanced learning for pre-service teachers The Lesson Study approach, especially when enhanced by new technologies, is one of the most effective methods for teachers training. After a brief overview on the changes taking place in educational research and teacher education, we present a training model address to pre-service teachers which provides a circular path of gradual improvement of quality teaching supported by video recording. Then we discuss the results of this first trial.

Parole chiave: Videoeducazione, didattica efficace, formazione insegnanti

Keywords: Video-enhanced learning, effective teaching, teachers training

Il presente contributo, pur discusso collaborativamente, può essere attribuito per l’introduzione, il par. 1 e la Conclusione ad Antonio Calvani, per i par. 3 e 4 a Laura Menichetti, per il par. 2 a Silvia Micheletta. Camilla Moricca ha elaborato l’intervista sintetizzata nella Fig. 9 del par. 4. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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ricerche

Nell’ambito della ricerca dei metodi più efficaci per la formazione dei nuovi educatori grande attenzione riceve l’approccio detto Lesson Study in particolare se potenziato da supporti forniti dalle nuove tecnologie. Dopo un breve quadro sui cambiamenti in atto nella ricerca didattica e nella formazione degli insegnanti si presenta un modello formativo per tirocinanti che prevede un percorso circolare di miglioramento progressivo della qualità dell’interazione didattica coadiuvato da videoregistrazione. Si analizzano i risultati della sperimentazione.


Innovare la formazione: il ruolo della videoeducazione per lo sviluppo dei nuovi educatori

Introduzione

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Organismi e istituzioni che si occupano di politiche o di ricerca sull’educazione sottolineano, ormai da diversi anni, la rilevanza strategica della selezione e formazione degli insegnanti per il benessere e l’avanzamento della società1. Più recentemente l’Evidence Based Education (EBE)2 ha offerto un quadro articolato di conoscenze sui metodi didattici che risultano più efficaci; a questi si aggiungono indagini più specifiche volte a individuare i fattori cruciali del comportamento insegnante, valutarne e promuoverne l’efficacia3. In questo quadro si collocano anche i recenti sviluppi tecnologici che, soprattutto dall’esplosione del Web 2.0 (O’Reilly, 2005), offrono nuove opportunità per la formazione degli insegnanti. In particolare lo sviluppo del digitale, la banda larga e la miniaturizzazione delle tecnologie hanno determinato un forte incremento dei video: un numero sempre maggiore di persone oggi realizza e condivide video sul web4. Queste rilevanti trasformazioni mettono a nudo alcune inadeguatezze che caratterizzano i modelli formativi ancora prevalenti. Al carattere, più volte deplorato, di una eccessiva autoreferenzialità, che spinge ad eludere il confronto sul piano dei risultati, si aggiunge l’eccessiva dipendenza da una trasmissione essenzialmente verbale (sia orale che scritta), che poco si avvale di interventi operativi, osservabili e riesaminabili. La scarsa attitudine a riflettere criticamente sulla qualità delle prassi didattiche interferisce poi negativamente in particolare sul tirocinio; può accadere che un tirocinante non adeguatamente preparato nel processo di riconoscimento e valutazione critica di cosa sia un buon comportamento didattico, tenda ad assumere come riferimento le pratiche esistenti, indipendentemente dalla loro reale qualità;

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Ad esempio la Commissione Europea (EC), l’OCSE e l’Unesco sono intervenuti con numerosi documenti. Per un quadro riassuntivo delle molteplici iniziative si veda Dordit (2011). L’EBE è un orientamento che, attraverso metodologie di indagine comparativa (metaanalisi, systematic review, best evidence synthesis) tende a fare il punto su cosa si sa circa l’efficacia dell’azione didattica («what works in what circumstances»). Per un approfondimento sull’Evidence Based Education si vedano i numeri 2 e 3 di Form@re 2013 e Vivanet (2014). Per una sintesi critica dei risultati dell’EBE e delle convergenze tra queste conclusioni ed alcuni dei modelli più rilevanti dell’Instructional Design si veda Calvani (2012). Un rilevante esempio è dato dalla recente indagine statunitense commissionata dalla Gates Foundation (2013) e da altri importanti progetti internazionali quali PISA, TIMMS, PIRLS (Pearson, 2012). YouTube, creato nel 2005, è visitato attualmente da oltre 800.000 utenti al mese e ogni minuto vengono caricate 72 ore di video (YouTube Statistics, 2012). Il 20% delle visioni di YouTube avvengono da dispositivo mobile. A partire da questa premessa è in atto una crescita esponenziale dell’interesse in ambito educativo (YouTube EDU).

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in tal modo il tirocinio può anche diventare funzionale alla conservazione e riproduzione di un sistema educativo sostanzialmente di modesta qualità. Se ci si chiede come si possa interrompere questo circolo vizioso, occorre in primo luogo interrogarsi su cosa si sappia circa le caratteristiche del comportamento didattico esperto e sul cosa fare per favorirlo.

1. Didattica e formazione efficace Senza voler entrare nel complesso problema della necessaria integrazione tra conoscenza scientifica e sapienza pratica (Calvani, 2012), non si può che sottolineare come oggi la ricerca educativa disponga di acquisizioni rilevanti non accessibili fino a pochi anni addietro. Hattie (2009) ha presentato un’impressionante sintesi dello stato dell’arte sulla didattica efficace basata su più di 800 meta-analisi (inclusive di oltre 50.000 ricerche sperimentali). Egli sottolinea energicamente come ciò che maggiormente determina l’efficacia dell’azione didattica vada cercato nella natura dell’interazione tra docente e allievo, in particolare nel modo di gestire il feedback e la valutazione formativa, nell’ambito di un impianto concettuale che implichi nell’educatore la disponibilità ad osservare e saper ripensare le strategie alla luce degli effetti osservati. Lo stesso autore, in un suo successivo lavoro (Hattie, 2012), ha trasferito le risultanze precedenti sotto forma di indicazioni da fornire all’insegnante e alla sua formazione: un insegnante esperto sa mostrare e trasmettere passione e coinvolgimento, sa padroneggiare la conoscenza oggetto di apprendimento adattandola e mettendola in rapporto con le preconoscenze dell’allievo e con altre nozioni del curriculum, sa proporre compiti “sfidanti” (perché non è vero che gli studenti desiderino compiti facili!), rende consapevoli gli studenti degli obiettivi, e degli avanzamenti verso di essi attraverso un continuo feedback. Per sviluppare expertise didattica i programmi di formazione devono allora concentrare l’attenzione alle forme concrete della dinamica insegnante-allievo: «la massima probabilità di raggiungere alti livelli di apprendimento si ha quando sia l’insegnamento che l’apprendimento sono resi visibili» (Hattie, 2012, p. 18). Il concetto fondamentale è, appunto, questa “visibilità” condivisa, in cui si devono ritrovare alunno e docente. Entrambi devono poter percepire l’avanzamento dell’apprendimento non solo attraverso strumenti di valutazione e test, ma soprattutto attraverso le interazioni fisiche immediate (contatto attraverso gli sguardi, segni di soddisfazione, condivisione, complicità)5. Dagli studi condotti da Hattie (2009) i metodi più adeguati per la formazione degli insegnanti risultano quelli basati su condizioni laboratoriali, che mettono i tirocinanti in situazioni pratiche e concrete (real life) accompagnate da attività di riflessione e confronto critico, anche con auto-osservazione. Ciò converge con orientamenti emergenti nell’ambito della formazione degli insegnanti, dove i tradizionali riferimenti improntati alla circolarità e riflessività teorico-pratica (Dewey, 1961; Schön, 1993; 2006) tendono ormai ad essere riformulati in ambiti più cir-

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Queste abilità che costituiscono gli ingredienti principali dell’expertise didattica si manifestano all’interno di ciò che più caratterizza l’attività dell’insegnante in ogni Paese del mondo: la «lezione» intesa in senso lato come intervento didattico breve ed autoconsistente, con una sua articolazione interna: preparazione, avvio, svolgimento, conclusione.

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coscritti e in cui i progressi effettuati siano più facilmente rendicontabili. In questo quadro spicca un modello nato in Oriente e successivamente riadattato negli Stati Uniti, che va sotto il nome di Lesson Study6, una metodologia che prevede che i docenti cooperino per progettare, effettuare e riesaminare una lezione che viene analizzata sistematicamente in tutti i passaggi interni, in modo da individuare le criticità e i modi di miglioramento. L’osservazione dell’interazione didattica può essere esaltata e meglio analizzata aggiungendo, dove possibile, il ricorso alle tecniche di registrazione audiovisiva. In particolare, risulta essere determinante il potere di ripresentare, anche a distanza di tempo, in maniera invariata e oggettiva, un evento, consentendo: all’insegnante in formazione di potersi rivedere “da fuori”, e ad altri (colleghi, mentore, esperti, ma anche ricercatori) di poter osservare direttamente (senza ulteriori mediazioni) l’operato dell’insegnante (Allen, 1967; Allen & Clark, 1967). Tecniche di registrazione audiovisiva erano già state impiegate a questo scopo in una pratica di formazione insegnanti nata negli anni ’60 all’Università di Standford: il microteaching (Allen, 1967; Cooper & Allen, 1970). Dalle risultanze di Hattie (2009) il microteaching ottiene un indice di efficacia (Effect Size) considerevole (pari a 0.88)7. Tutto ciò perché «noi impariamo dagli errori e dai feedback che ci vengono forniti andando nella direzione sbagliata o non andando abbastanza fluentemente nella giusta direzione» (ibid., 23). Oggi la tecnologia dei video digitali, la semplicità d’uso e l’ampia diffusione di dispositivi dotati di videocamera (quali tablet, telefoni cellulari e computer), insieme alla possibilità di editarli, scambiarli e condividerli in rete, riportano dunque in auge questa metodologia aggiungendole altre potenzialità e funzionalità8.

2. La videoeducazione per la formazione degli insegnanti Il crescente interesse rivolto all’orientamento EBE e al Lesson Study e lo sviluppo di nuove tecnologie hanno fornito recentemente un forte impulso alla videoeducazione. Con l’avvento del Web 2.0, circa dieci anni fa, la rete si è trasformata in un sistema collaborativo e di condivisione di contenuti: la nascita delle piattaforme di video sharing che potremmo definire generaliste (come YouTube, Vimeo) e, successivamente, delle piattaforme di video sharing specifiche per il campo educativo (come YouTube Educational, Teaching Channel, TED9), ha subito una crescita straordinaria.

6 7 8 9

Il modello Lesson Study trae origine da esperienze condotte nelle scuole giapponesi. Attraverso il TIMSS Video Study dal Giappone si è diffuso in Asia e negli Stati Uniti fornendo un riferimento di rilievo per lo sviluppo professionale. L’Effect Size è un indice impiegato nelle meta-analisi per misurare l’efficacia di un intervento didattico. Secondo Hattie (2009) diventa significativo quando supera 0.4. Tra queste va citata la videoannotazione, una tecnica che è oggetto di particolare attenzione per la formazione degli insegnanti (Picci, Calvani & Bonaiuti, 2012). Oltre agli ambienti più noti sono degni di rilievo Neopass@ction (http://neo.enslyon.fr/neo) (Ria, 2010), finanziata dall’Istituto Francese di Educazione (IFÉ) e Leraar24 (http://www.leraar24.nl/), finanziata dal Ministero dell’Istruzione olandese. Neopass@ction mette a disposizione video di insegnanti, realizzati su aspetti cruciali del fare didattica (ad esempio l’ingresso in classe e l’inizio della lezione), integrati da

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Diversi studi attestano l’efficacia di interventi video-based nella formazione degli insegnanti: il video si rivela un espediente di successo in grado di integrare e supportare, attraverso la dimensione visiva, l’osservazione pratica e diretta, l’insegnamento-apprendimento di buone pratiche didattiche che altrimenti rimarrebbero spiegate solo verbalmente (Santagata, Zannoni & Stigler, 2007). In particolare, il video è stato riconosciuto come (i) valido all’interno di pratiche di modellamento (Santagata & Guarino, 2011) che porta allo sviluppo e all’incremento di un linguaggio specifico professionale (Minaříková, Janík, Píšová & Kostková, 2014); (ii) utile promotore di una riflessione generale e personale – nel caso di auto-analisi – sulla didattica (ad esempio nella pratica del microteaching) (van Es & Sherin, 2002); (iii) efficace strumento in grado di far focalizzare l’attenzione sugli studenti (ad esempio nel video club10) (Franke et al., 2001; Santagata et al., 2007; van Es & Sherin, 2008). In tutto questo processo risulta estremamente rilevante al fine dello sviluppo delle competenze dei soggetti in formazione il ruolo del tutor, supervisore o mentore: è il mentore infatti che sceglie quali video mostrare e che guida l’osservazione e l’analisi sui video (Meyer, 2014). La variazione della tipologia del video dipende strettamente dallo scopo dell’osservazione: i video-modelli, realizzati da esperti sono utili se si vogliono mostrare buone pratiche didattiche; i video “ordinari” realizzati da colleghi possono essere utilizzati se si vuol discutere dell’efficacia delle strategie; se, infine, lo scopo è guidare l’insegnante all’osservazione e delle pratiche didattiche, allora è utile appoggiarsi a video integrati da video annotazioni (Janík & Seidel, 2009). In ogni caso l’utilizzo del video risulta efficace se proposto all’interno di un’attività ben strutturata. Secondo il modello quadripartito presentato da Santagata (2012) è importante prima di tutto (i) definire chiaramente gli obiettivi di apprendimento che si intendono conseguire con il gruppo di insegnanti in formazione; (ii) selezionare la/e tipologia/e di video che rispondo meglio agli obiettivi posti (i criteri sono: focus, durata, montaggio, attori, tipo di insegnamento); (iii) suggerire agli insegnanti una guida per la visione del video; (iv) elaborare strumenti di valutazione allineati agli obiettivi, dai quali, in un processo ciclico, trarre informazioni per una nuova riformulazione del corso.

3. Innovazione del tirocinio a Scienze della Formazione Primaria Sulla base delle istanze e dei modelli sopra indicati, presso l’Università di Firenze si è avviato un progetto volto a migliorare la qualità del tirocinio e il suo impatto

commenti di esperti. In Leraar24 i video sono classificati in base al tipo di situazione registrata (lavoro di gruppo, lezione frontale) o ai protagonisti (genitori, alunni o insegnanti). Vi sono diversi video-modelli basati su evidenze empiriche, collegati a materiale come interviste o saggi, consultabili dall’utente direttamente sulla piattaforma. 10 I video club sono gruppi di insegnanti, guidati da un preciso obiettivo e affiancati da un facilitatore, che si incontrano regolarmente per osservare e discutere segmenti di video registrati all’interno delle loro classi, focalizzandosi in particolar modo sull’analisi del ragionamento e del pensiero degli studenti, che solitamente sfugge agli insegnanti durante le normali interazioni didattiche in classe (van Es, 2010; Santagata, 2012).

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nella formazione dei futuri insegnanti della scuola (progetto Marc: “Modellamento, Azione, Riflessione, Condivisione”11). Si assume che la videoregistrazione e il successivo riesame (individuale e/o collaborativo) di un intervento didattico effettuato dal soggetto in formazione, possano aiutare a favorire consapevolezza e capacità di riorientarsi verso azioni di migliore qualità e di maggiore efficacia. In questa fase di prima attuazione intendiamo rispondere a tre quesiti preliminari: i) l’impiego della videoregistrazione nei percorsi di formazione universitaria dei futuri educatori è una strada percorribile (in termini di sostenibilità, utilità e attrattività)?; ii) gli attori coinvolti, in particolare i tirocinanti, ne riconoscono ed apprezzano l’efficacia?; iii) possiamo disporre di indicatori che attestino i progressi conseguibili durante il percorso formativo? Il modello applicato si articola su alcune fasi fondamentali da percorrere in maniera circolare e ricorsiva:

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– Modellamento. Avviene prevalentemente nell’università; il tirocinante riceve un input preliminare metodologico e viene guidato nell’analizzare video di comportamenti didattici (solitamente buone pratiche); – Azione. Il tirocinante, lavorando in coppia, viene guidato ad effettuare un breve intervento didattico e a videoregistrarlo12; – Riflessione. Il video viene esaminato dallo studente stesso che lo ha realizzato; – Condivisione. Il video viene riesaminato nel contesto universitario, nel gruppo dei pari, con supervisione del tutor. La prima sperimentazione è stata condotta nell’arco di un unico anno accademico, il 2011-2012, utilizzando una parte delle 40 ore di tirocinio previste dal piano di studi, coinvolgendo 12 studenti del IV anno, i relativi tutor e gli esperti che hanno progettato il modello (Calvani et al., 2013). !""#$%%%%%%%%%%%%%%% !""#$%%%%%%%%%%%%%%% &'% &'% ($)*++,-*./$% ($ )*++,-*./$% 0'%% 0' !1#$.*%%%%%%%%%%%% !1#$.*%%%%%%%%%%%% 2'%% 2' 3#4*55#$.*%% 3# 4*55#$.*%% 678'% 678' '% !1#$.*%%%%%%%%%%%% !1#$.*%%%%%%%%%%%% &'%% &' 9$.)#"#5#$.*% 9$ .)#"#5# 5 $.*% :'%% :'

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Fig. 1: Fasi del modello Marc applicato con studenti del III anno (a.a. 2012-2013).

11 Il progetto Marc è stato attuato e sostenuto dal Corso di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze nel corso degli anni accademici 2011-2012, 2012-2013, 20132014. Si ringraziano in particolare i tutor del tirocinio, gli studenti, Raffaella Biagioli e Carla Maltinti che hanno coordinato operativamente la sua attuazione. 12 La videoregistrazione nelle classi è stata compiuta riprendendo il tirocinante-insegnante di fronte e i bambini soltanto di spalle per motivi di privacy.

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Alla prima sperimentazione è seguita una seconda applicazione che, tenendo conto delle osservazioni condotte dagli esperti e dei feedback ricevuti dai tirocinanti e dai tutor, è stata articolata su due anni accademici: nel 2012-2013 con 128 studenti del III anno e nel 2013-2014 con 107 degli stessi studenti passati al IV anno, per un totale di 22 ore distribuite secondo gli schemi di Fig. 1 e Fig. 213. %%%%%%%%%%%%%%%

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4. Valutazione dei risultati

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Per una prima valutazione del progetto ci si è avvalsi di due indicatori: 1. cambiamento degli schemi mentali dei tirocinanti circa il significato di “bravo insegnante”; 2. percezione da parte dei tirocinanti e dei tutor dell’attrattività, della sostenibilità e dell’utilità del percorso. Per quanto riguarda il primo aspetto abbiamo somministrato in ingresso e in uscita un questionario di 86 item a risposte chiuse, Effective Teaching Questionnaire (ETQ), che propone sinteticamente una serie di scenari e di conseguenti interventi didattici, condotti da un ipotetico docente che il tirocinante è chiamato a valutare14. L’allineamento con il modello di comportamento efficace assunto come target risulta pari al 47,1% in ingresso (media di 4,71 punti su 10 e dev. std. 0,84) e al 49,6% in uscita (media di 4,96 punti su 10 e dev. std. 0,87). La significatività statistica è p<0,0115 (Fig. 3).

13 Le fasi indicate in corsivo rientrano nel tirocinio diretto svolto nelle scuole, le altre in quello indiretto svolto all’università. Fin dalla prima sperimentazione è iniziata la messa a punto di strumenti che potessero accompagnare in maniera sistematica il progetto, sia sul versante della sua attuazione (portfolio, checklist degli indicatori per l’analisi dei video, playlist, etc.) sia su quello del monitoraggio e della valutazione. 14 L’ETQ è stato costruito sulla base di principi ragionevolmente condivisi di Instructional Design (Gagné e Briggs, 2001; Rosenshine, 2002; Clark, Nguyen e Sweller, 2006; Tobias e Duffy, 2009) e su modelli ritenuti efficaci nell’ambito dell’Evidence Based Education (Coe, 2002; Biesta, 2007; Heargraves, 2007; Mitchell, 2008; Hattie, 2009). 15 La significatività è stata calcolata sia con il t di Student, sia con il test di Wilcoxon, non parametrico, dal momento che la distribuzione delle differenze appaiate approssimava parzialmente una distribuzione normale.

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me diana mediana

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va rianza varianza

0, 76 0,76

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curtosi cu rtosi

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minimo mi nimo

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minimo mi nimo

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ma s s imo massimo

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co ef f .variaz. coeff.variaz.

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Fig. 3: Distribuzione dei punteggi relativi all’ETQ in ingresso e in uscita dal percorso 2012-2013.

Sempre per la valutazione del primo aspetto è stata proposta ai tirocinanti, sia in ingresso che in uscita, la seguente domanda aperta: «Prova a descrivere come si caratterizza il comportamento di un bravo insegnante in classe riguardo agli aspetti cognitivo, comunicativo e gestionale. Indica esempi concreti e specifici di comportamenti validi ed efficaci. Un bravo insegnante in classe si caratterizza per…». Le risposte, limitate in lunghezza a sei righe, sono state oggetto di una content analysis (Krippendorff, 2004; Rositi, 1971): le unità di classificazione ottenute scomponendo ciascuna risposta sono state attribuite a quattro categorie (cognitiva, comunicativa, gestionale, e in più una categoria residuale che raccoglie qualità personali anziché comportamenti specifici)16. Dall’analisi emerge che – il numero dei comportamenti che i tirocinanti ravvisano come elemento distintivo di un bravo insegnante cresce in valore assoluto (Fig. 4); – si registra uno spostamento percentuale delle risposte in primis verso l’ambito cognitivo, mentre si riduce drasticamente l’indicazione delle qualità personali citate (Fig. 5); ! – !nella descrizione dei comportamenti il linguaggio dei tirocinanti diventa meno generico e gli elementi di concretezza aumentano (Fig. 6). 1

1

In Fig. 4 l’incremento del numero dei comportamenti indicati dagli studenti cresce per tutte e tre le categorie principali in esame, mentre diminuisce per la categoria residuale.

16 L’analisi è stata condotta da tre valutatori indipendenti, che hanno considerato le unità di classificazione nella loro totalità, senza conoscere l’appartenenza di ciascuna a risposte in ingresso o in uscita. Le attribuzioni effettuate hanno mostrato un indice di concordanza di 0,70.

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Fig. 4: Numero di comportamenti indicati come distintivi di un bravo insegnante.

Dalla Fig. 5 si nota come anche percentualmente si perda la focalizzazione sulle qualità intrinseche del docente, a favore soprattutto di una maggiore rilevanza attribuita ai comportamenti legati all’aspetto cognitivo. Questo aspetto appare di particolare rilievo per caratterizzare la qualità delle rappresentazioni; è infatti nella dimensione cognitiva che si coglie soprattutto una rilevante differenza con il passaggio da un descrittivismo generico (con affermazioni del tipo “sa cosa insegnare”, “sa gestire un’unità didattica”, “fa lezioni interdisciplinari”), ad affermazioni “parte che a dimostrano una maggiore attenzione alla dinamica interna dell’apprendimento e alla strutturazione/ristrutturazione degli schemi cognitivi (con espressioni del tipo “prima di tutto stabilisce obiettivi generali e specifici”, “parte attivando le preco“parte “parte noscenze”, “fornisce rinforzi ma soprattutto feedback”, “sa presentare le conoscenze a in aforma problematica”, “a fine lezione sintetizza usando mappe concettuali”, “non sovraccarica cognitivamente”, “sa mettere in evidenza differenze tra punti di vista”). punti di vista”). p ) !"#$"%&'#()&*+ ! "#$"%&'#()&*+ ,(-+.%'/"+*)0(1)')&( ,(-+.%'/"+*)0(1)')&( *)*2*"+3'%4 *) *2*"+ 3'%4

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Fig. 5: Analisi della distribuzione dei comportamenti nelle quattro categorie individuate. F F

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Infine, dall’analisi delle risposte si erano notati dei cambiamenti nel livello di profondità delle osservazioni e nel linguaggio che sembrava diventare più preciso e concreto. Ciò ha indotto ad un’ulteriore elaborazione. Da un’analisi preliminare di un sottoinsieme delle risposte è stato ricavato un criterio di classificazione con l’attribuzione di punteggi diversi ad ogni unità di classificazione17. Anche in questo

17 Il criterio è stato il seguente: 0 = espressione che non porta valore aggiunto rispetto ad un ragionamento di senso comune, oppure contrasta con le strategie ritenute più efficaci;

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caso il criterio è stato applicato da tre valutatori indipendenti senza che fosse nota l l’appartenenza delle unità di classificazione alle risposte in ingresso o in uscita. Le attribuzioni effettuate hanno mostrato un indice di concordanza di 0,64 e la rappresentazione risultante è quella in Fig.6. Lo spostamento della media verso punteggi maggiori in uscita è risultato netto (min=6,6; mout=9,5 p< 0.01).

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Fig. 6: Valutazione della concretezza del linguaggio in ingresso al Marc e al termine del primo anno.

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Relativamente al secondo dei due indicatori considerati per la valutazione del Marc, sono state prese in considerazione le percezioni degli studenti e quelle dei tutor in ordine all’attrattività, alla sostenibilità e all’utilità del progetto: a tutti i tirocinanti e ai tutor, alla fine del primo anno, è stato chiesto di compilare in maniera anonima una rating scale e un differenziale semantico18, avvalendoci a questo scopo di strumenti già validati e utilizzati in precedenti ricerche (Picci, Calvani e Bonaiuti, 2012). A distanza di sei mesi si è deciso di procedere nei confronti dei tirocinanti con un’intervista strutturata (Mantovani, 1998; Lovell e Lawson, 1972; Spradley, 1979) che ha interessato un campione rappresentativo costituito da 25 soggetti. Nella rating scale, l’attrattività (Fig. 7) è stata espressa in termini di linearità del1 percorso, gratificazione personale, gestibilità dell’imbarazzo, gestibilità dell’ansia. Si rileva una differenza tra tirocinanti e tutor a proposito dell’imbarazzo nel rendersi visibili: anche i tutor devono esprimere pubblicamente le loro valutazioni e fornire indicazioni, ma gli studenti si fanno protagonisti spesso per la prima volta di video oggetto di analisi e riflessione. !

1 = espressione generica, come ad es. “essere attenti ai bisogni della classe”; 2 = espressione in cui si ravvisano elementi di concretezza, come ad es. “saper gestire il tempo” o “dover progettare gli interventi”; 3 = espressione che descrive un comportamento concreto, come ad es. “usare il problem solving” o “disporre l’aula con un certo setting”, 18 In linea con le attese, i risultati di rating scale e differenziale semantico rilevati sono stati meno positivi di quelli della prima sperimentazione, perché depurati da un certo effetto Hawthorne che aveva inciso sui dodici studenti iniziali (Adair, 1984).

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F Fig. 7:FPercezione dell’attrattività del progetto, secondo le rating scale.

La sostenibilità (Fig. 8) è stata declinata secondo le voci di assenza di complessità, adeguatezza del tempo necessario, energie investite, relazioni positive instauF rate con gli altri Fpartecipanti. Per quanto i risultati siano diversi tra studenti e tutor, si nota che tutte le voci assumono valori positivi tranne che per la sostenibilità in termini di tempo. Rispetto alla prima sperimentazione, è aumentato il divario tra studenti e tutor nella valutazione delle energie assorbite dal progetto, molto probabilmente perché l’attività richiesta agli studenti è rimasta pressoché identica mentre i tutor sono stati alleggeriti grazie al trasferimento ai gruppi di alcune valutazioni. Rispetto alla prima sperimentazione del 2011-2012 è migliorata la sostenibilità indicata dai tutor sul piano delle relazioni, peraltro la necessità di collaborazione richiesta in ordine agli aspetti organizzativi e di pianificazione è andata diminuendo. !"!#$%&'&(&#)* +,-.,+/01231/20405-

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Fig. 8: Percezione della sostenibilità del progetto, secondo le rating scale.

La sostenibilità e in particolar modo la gestione dei tempi risultano l’elemento critico del progetto, come emerge anche dall’intervista fatta a distanza di tempo ! ad ! un campione di studenti. L’intervista si apre con l’indicazione da parte dei tirocinanti degli aggettivi ritenuti maggiormente rappresentativi del Marc: risulta positivo il 67% di tali aggettivi (se ci limitassimo al primo indicato risulterebbe positivo il 90%). Dalle domande aperte che seguono si ricava la tabella in Fig. 9, che esplicita meglio i punti ritenuti rilevanti: distribuire il progetto su due anni ha in larga parte risolto il problema della compressione dei tempi globali, evidenziata particolarmente durante la prima sperimentazione del 2011-2012, ma restano criticità organizzative. Le scuole di accoglienza non sempre sono state pienamente coinvolte fin dall’inizio e l’introduzione di strumenti per le riprese ha creato un iniziale ostacolo per il rispetto della privacy o distrazione. Infine, viene sentita co-

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me grande limitazione la durata dei video che secondo le consegne non devono superare i 15 minuti19.

Positività del progetto

Criticità del progetto

- Permette l’autoanalisi (40%)

- Organizzazione (28%)

- È efficace (36%)

- Durata del video (24%)

- Fa acquisire il feedback di tutor e colleghi (12%)

- Realtà falsata dalla presenza della telecamera (16%)

- Stimola la riflessività (8%)

- Privacy dei bambini (12%)

- Permette la condivisione e il confronto sul tirocinio (8%)

- Rigidità e mancanza di gradualità (12%)

- Permette la trasferibilità delle competenze (8%)

- Paura del giudizio (8%) - Scuole non informate (4%)

- Insegna a progettare (4%)

- Troppi video-modelli (4%)

- Rappresenta un arricchimento del percorso di tirocinio (4%)

Fig. 9: Positività e criticità che emergono dalle 25 interviste.

80 Il differenziale semantico (Osgood, Suci & Tannenbaum, 1957)20, il cui esito è sintetizzato in Fig.10, conferma quanto evidenziato dalle rating scale e contribuisce a formulare delle chiavi di lettura. Sono state proposte a tutti i tirocinanti 24 coppie bipolari di aggettivi ed è stato verificato l’atteggiamento degli studenti misurando l’avvicinamento ad uno o all’altro estremo: dal punto di vista dell’attrattività emerge una percezione di coinvolgimento, anzi di gratificazione, ma per certi versi anche di imbarazzo e di invadenza. Per quanto riguarda la sostenibilità, l’esperienza è percepita come sostenibile, lineare, non certo impraticabile, ma sicuramente dura e faticosa. Gli indicatori relativi all’utilità sono tutti decisamente positivi: a questo riguardo l’esperienza appare forte, stimolante, profonda, vantaggiosa, produttiva, importante e soprattutto utile ed efficace.

19 La durata prefissata per i video era un vincolo imposto in minima parte per motivi tecnici di archiviazione, ma molto di più per tener conto dei tempi di revisione e valutazione nei gruppi e con i tutor. Non è dimostrato peraltro che durate maggiori corrispondano ad una proporzionale maggiore visibilità dei comportamenti da osservare. 20 La rappresentazione fornita agli studenti era nel formato canonico con gli aggettivi disposti su due colonne, a destra e a sinistra del foglio, separate da una scala graduata con 7 possibili posizioni. Gli aggettivi erano disposti variamente alternati tra sostenibilità, attrattività e utilità, così come tra destra e sinistra.

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Fig. 10: Percezioni emerse dall’applicazione del differenziale semantico.

Conclusione Nella formazione degli insegnanti in un’ottica di Evidence Based Education si va affermando nella ricerca internazionale la consapevolezza che un processo formativo destinato a sviluppare expertise professionale non possa essere veicolato soltanto attraverso forme di comunicazione verbale (orale o scritta), ma debba passare attraverso un intreccio tra modellamento, messa in pratica e riesame del proprio comportamento supportato anche, laddove possibile, da documentazione visiva. In questo ambito nuove opportunità sono allora offerte dalla videoeducazione che consente sia di avvalersi di archivi di modelli esterni di insegnamento, sia di evidenziare e rendere oggetto di riflessione i progressi compiuti da un tirocinante o un insegnante novizio nel suo percorso formativo. Nel corso degli ultimi tre anni presso il Corso di Laurea di Scienze della Formazione Primaria di Firenze è stato avviato un percorso sperimentale per la formazione dei tirocinanti caratterizzato da pratiche di videoregistrazione per il miglioramento progressivo della qualità dell’interazione didattica (progetto Marc). La prosecuzione con l’eventuale ristrutturazione e messa a regime per tutti gli studenti è attualmente oggetto di valutazione da parte del Corso di Laurea, in parti! colare per quanto riguarda la sostenibilità a lungo termine nel rapporto tutor/tirocinante. Al di fuori degli intenti di questo lavoro è rimasta la problematica della formazione dei tutor stessi alla osservazione e valutazione delle interazioni didattiche: dall’esperienza condotta è risultato infatti che si mantiene una rilevante “equazione personale nella osservazione e valutazione di comportamenti didattici, anche da parte di tutor pur ricchi di molti anni di esperienza; un percorso di riflessione e consapevolezza critica sui propri schemi di valutazione appare quindi del tutto indispensabile per prendere consapevolezza di quanto la valutazione di un azione didattica possa anche cambiare in funzione di concezioni e retroterra personale. Con la sperimentazione condotta si è inteso verificare la sostenibilità complessiva, le reazioni dei partecipanti, e ricercare alcuni indicatori in grado di attestare

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un miglioramento nella percezione della didattica, al di là delle forme di apprezzamento esteriore che gli studenti ci potessero fornire. Secondo gli studenti l’esperienza è risultata “forte”, “utile”, “efficace”, “stimolante”, “profonda”. A queste dichiarazioni ha corrisposto negli studenti una maggiore capacità di cogliere aspetti più specifici della dinamica cognitiva della relazione educativa, aspetti, che fanno appunto maggiormente la differenza tra una rappresentazione di senso comune ed una rappresentazione più approfondita. La criticità principale rilevata dagli alunni ha riguardato soprattutto gli aspetti organizzativi e la tempistica delle riprese. i tempi di raccolta e revisione delle videoregistrazioni. Da una parte 15-20 minuti di videoregistrazione sono apparsi pochi, dall’altra videoregistrazioni più lunghe appesantiscono notevolmente il carico legato al trasferimento e alla revisione del materiale. Rimane sotto studio una soluzione che da un lato limiti la videoregistrazione a specifici segmenti della lezione, mentre espanda la rilevazione ad un arco più ampio con strumenti più tradizionali. Al di là di questi aggiustamenti volti a migliorare la sostenibilità e praticabilità dell’impianto formativo possiamo rispondere positivamente ai tre quesiti che stanno alla base del percorso intrapreso: i) la strada dell’impiego della videoregistrazione nella formazione dei futuri educatori è una strada percorribile; ii) gli attori (studenti in primis) mostrano di apprezzarla considerevolmente mostrandosi consapevoli dei progressi realizzati; iii) i miglioramenti si possono apprezzare anche con strumenti relativamente semplici di rilevazione (qualità del linguaggio impiegato attraverso interviste o quesiti aperti).

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La formazione iniziale degli insegnanti attraverso la pratica del microteaching Francesca Pedone - Università di Palermo - francesca.pedone@unipa.it Gabriella Ferrara - Università di Palermo - gabriella.ferrara@unipa.it

Microteaching in pre-service teacher training Methodologies using video-registration are increasingly used in the professional training of future teachers. Teacher’s professionalism requires, as well as the theoretical or disciplinary knowledge, the ability to use knowledge to sort out efficacious answers to complicated and considerable problems and the ability to reflect about own actions. It’s necessary, during the academic course, that the teacher in learning situation could acquire specific expertise and self-reflexive abilities. This paper introduces a methodology for the creation of training experiences centered on using the video-registration and for the data retrieving about the effect of the video over learning of pre-service teachers. The research is focused on verifying if students have acquired abilities to reflect about their own inclusive action and about classroom’s management in presence of a problematic educative situation.

Parole chiave: Formazione docenti, sviluppo professionale, videoregistrazione, microteaching, capacità riflessive, agire inclusivo

Keywords: Teacher training, professional development, video registration, microteaching, reflective capacities, inclusive action

Il presente lavoro è stato progettato, realizzato e discusso dalle due autrici. Singolarmente sono state elaborate in base a indicazioni comuni i paragrafi: 1,5 e conclusioni F. Pedone; introduzione, 2,3,4 G. Ferrara. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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ricerche

Le metodologie che fanno uso della videoregistrazione sono sempre più utilizzate nella formazione professionale dei futuri insegnanti. La professionalità del docente richiede oltre alle conoscenze teoriche o disciplinari, la capacità di mobilitare i saperi per organizzare risposte efficaci a problemi complessi e rilevanti e la capacità di riflettere sul proprio agire. È necessario che durante il percorso universitario l’insegnante in formazione acquisisca specifiche competenze e capacità autoriflessive. Questo contributo descrive una metodologia per la creazione di esperienze formative centrate sull’utilizzo della videoregistrazione e per la raccolta di dati sull’effetto del video sull’apprendimento dei futuri insegnanti. La ricerca indaga se gli studenti, al termine del percorso formativo proposto, dimostrano di aver acquisito la capacità di riflettere sul proprio agire inclusivo e sulla gestione della classe in presenza di una situazione educativa problematica.


La formazione iniziale degli insegnanti attraverso la pratica del microteaching

Introduzione

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Il tema della formazione degli insegnanti è stato e continua ad essere oggetto di indagine della ricerca in ambito didattico: esso ha una rilevanza notevole nel dibattito sulla formazione dei docenti e sull’efficacia degli interventi educativi ad essi rivolti. Il problema di una formazione dei futuri docenti volta all’acquisizione di competenze legate ai processi inclusivi, oggi necessita di essere affrontato in un’ottica multidimensionale: da un lato tale formazione deve permettere di far acquisire i saperi teorici specifici, dall’altro far sviluppare abilità pratiche che portino ad un “agire educativo inclusivo” adeguato. In questa direzione si è emendata la formazione universitaria, la quale deve farsi carico di un nuovo modo di concepire la didattica che permetta di indagare nuovi saperi legati ad una terza dimensione: la capacità di riflessività sul proprio agire professionale, anche grazie al supporto delle tecnologie. In questo articolo si documenta una concreta modalità di promozione del pensiero riflessivo mediante l’utilizzo del microteaching, una metodologia di conduzione dei laboratori formativi. Dopo aver presentato il quadro teorico di riferimento, si documenterà una ricerca realizzata nell’anno accademico 20132014 che ha visto coinvolti 223 studenti del terzo anno del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università degli Studi di Palermo.

1. La formazione dei futuri docenti La professione docente è da tempo divenuta oggetto privilegiato delle indagini condotte dalla Commissione Europea4, perché la qualità della formazione degli

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Cfr. Commissione Europea, Questioni chiave dell’istruzione in Europa. La professione docente in Europa: profili, tendenze e sfide. Rapporto I Formazione iniziale e passaggio alla vita professionale, «Eurydice», Bruxelles 2002, http://bookshop.europa.eu/en/key-topicsin-education-in-europe-pbEC3012565/. Rapporto II, Domanda e offerta., «Eurydice», Bruxelles 2002, http://bookshop.europa.eu/en/key-topics-in-education-in-europepbEC3012566/. Rapporto III, Condizione di servizio e salari. «Eurydice», Bruxelles 2003, http://bookshop.europa.eu/en/key-topics-in-education-in-europe-pbEC3212294/. Commissione Europea, Common European principles for teacher competences and qualifications, Bruxelles 2005, http://ec.europa.eu/education/policies/2010/doc/principles_en.pdf Commissione Europea, Rethinking education: investing in skills for better socio-economic outcomes, Strasbourg 2012. In particolare Assessment of key competences in initial education and training: Policy Guidance, http://ec.europa.eu/education/news/ rethinking/sw371_en.pdf; Vocational education and training for better skills, growth and jobs, http://ec.europa.eu/education/news/rethinking/sw375_en.pdf; Supporting the teaching professions for better learning outcomes, http://ec.europa.eu/education/news/re-

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insegnanti è riconosciuta come uno dei fattori strategici e delle sfide da sostenere nel nuovo millennio. Ciò implica che la formazione dei docenti si costituisca come atto di professionalizzazione, ossia il processo di incremento migliorativo di conoscenze e di capacità riferito ad un singolo individuo o ad una categoria di persone (Damiano, 2004). Riflettere sull’identità professionale e sugli aspetti strutturali della professione è una risorsa strategica poiché solo un’identità professionale forte e ben strutturata può affrontare le incertezze di un sistema in continua evoluzione (Lisinberti, 2006, 217-221) quale è il mondo della scuola e della formazione. Il concetto di professionalizzazione riferito all’ambito dell’insegnamento, sottolinea la necessità di una formazione iniziale sul versante della pratica, supportata dalle scienze dell’educazione (Damiano, 2004), che si armonizzi con il carattere mutevole delle situazioni che caratterizzano l’esercizio della professione docente. La formazione dei futuri insegnanti è un’attività delicata che ha come obiettivo quello di formare il magister, cioè colui che conosce qualcosa così bene da poterla insegnare ad altri e, nello stesso tempo, ha cura di formare e di migliorare continuamente se stesso per conquistare quel di più di umanità, che gli consente di essere guida saggia e autorevole (Zanniello, 2012). La determinazione di tale avviamento formativo porta all’affermazione di un modello dell’insegnante quale professionista riflessivo (Damiano, 2007). Sulla scia di una tradizione che parte dal pensiero di Dewey (1961), ripreso più recentemente da Schön (2006), la riflessività, intesa come attitudine del docente ad analizzare e riflettere ricorsivamente sulle proprie pratiche, è ritenuta fondamentale per il raggiungimento del successo educativo e per lo sviluppo di un sapere professionale specifico (Calvani, Bonaiuti e Andreocci, 2011). La “riflessione-in-azione” (Damiano, 2007) diviene pertanto punto focale tra le competenze di un docente professionista, poiché costituisce il modo ottimale per conoscere il proprio agire pratico. Il paradigma della “riflessività”, quale attitudine dell’insegnante ad analizzare e valutare le proprie pratiche, costituisce un elemento fondamentale per la formazione dei futuri docenti. È infatti attraverso la riflessione che un professionista può far emergere e criticare le tacite compressioni di una pratica specialistica, e può trovare un “nuovo senso” nelle situazioni (Schön, 2006). La ricerca (Fernández, 2010) sottolinea l’importanza di realizzare esperienze per la formazione dei futuri insegnanti, che forniscano contesti condivisi per l’esplorazione dei problemi pedagogici e stimolino la riflessione e l’analisi critica dell’insegnamento. Per i futuri insegnanti i compiti autentici richiedono la progettazione e la realizzazione di attività che siano fedeli alla pratica professionale (Iverson, Lewis, e Talbort III, 2008): si è dimostrato che le esperienze situate sono in grado di promuovere i tipi di pensiero e di problem solving importanti per l’insegnamento (Putnam & Borko, 2000). Alla luce di queste considerazioni, promuovere la riflessione nell’ambito della progettazione e dell’implementazione delle lezioni può essere considerata una preziosa funzione delle esperienze situate e dei compiti autentici per i futuri insegnanti. In quest’ottica l’impiego dei video digitali offre interessanti opportunità per la

thinking/sw374_en.pdf Commissione Europea, Key Data on Teachers and School Heads, «Eurydice», Bruxelles 2013, http://eacea.ec.europa.eu/education/ eurydice/documents/key_data_series/151EN.pdf

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formazione di insegnanti, i quali vengono messi nelle condizioni di riflettere sul proprio operato, in particolare grazie alle potenzialità offerte dalla videoeducazione e dalla videoannotazione, che consentono a più soggetti di rivedere ed analizzare l’agire compiuto. Sono oggi numerosi gli autori e gli studi che ritengono utile e promettente l’impiego dei video quale strumento per favorire l’acquisizione e il miglioramento della capacità di insegnare e di riflettere sull’insegnamento (Bonaiuti, Calvani, Picci, 2012). La letteratura ed il riconoscimento della valenza della capacità riflessiva, come componente essenziale della formazione docenti, ha introdotto nei programmi di formazione per i futuri docenti avviati dalle Università italiane, l’uso di strumenti tecnologici e apposite attività formative da questi supportate, finalizzate allo sviluppo della riflessività. L’Italia, nell’ambito della formazione degli insegnanti ai nuovi e innovativi linguaggi audiovisivi e tecnologici, ha avuto una storia di interventi pubblici che nascono da una riflessione pedagogico-didattica ma al contempo la sviluppano (Galliani, 2009), anche grazie alla partecipazione ad iniziative e direttive europee. La mutevolezza e la complessità della società attuale richiedono nuove strategie di intervento formativo: in questa direzione la Commissione Europea è intervenuta con la promozione del piano di strategie “Ripensiamo l’istruzione” (2012) volto a sollecitare un’importante cambiamento d’impostazione nel campo dell’istruzione che permetta un ampliamento dei risultati di apprendimento per l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze. Per far ciò, la stessa Commissione Europea attraverso piani strategici e interventi formativi, ha sollecitato i Paesi dell’OCSE all’acquisizione di un approccio migliorativo dei sistemi di istruzione e formazione professionale attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. Queste innovazioni sono state proposte (e monitorate) sulla scia delle ricerche condotte negli anni precedenti in ambito europeo dall’OCSE5 e dall’UNESCO6 e nel contesto internazionale dalla Gates Fondation negli Stati Uniti7 e dall’Università

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3

4

Cfr. OCSE, Teachers matter. attracting, developing and retaining effective teachers, 2005. Evaluating and rewarding the quality of teachers. international practices, 2009 .Teacher evaluation: current practices in oecd countries and a literature review, 2009 . L’OCSE ha inteso attraverso tali documenti offrire un’occasione di confronto circa l’individuazione e la risoluzione di problemi comuni ai Paesi membri, in particolare sulle esperienze politiche, il ruolo dell’insegnante e la valutazione delle pratiche educative e didattiche. Cfr. UNESCO, Guidelines and recommendations for reorienting teacher education to adress sustainability, Paris 2005. Il documento presenta le «Linee guida» volte ad orientare la formazione degli insegnanti soffermandosi sul ruolo delle istituzioni. Lo scopo è quello di fornire indicazioni e spunti per la progettazione di una formazione che migliori la qualità dell’istruzione di base. Cfr. Gates Fondation, Measures of effective teaching. Final research report, 2013, http://www.gatesfoundation.org/Media-Center/Press-Releases/2013/01/Measures-ofEffective-Teaching-Project-Releases-Final-Research-Report La Fondazione Gates ha inteso misurare la qualità dei docenti e l’efficacia dei loro insegnamenti negli Stati Uniti, attraverso un’indagine osservativa che si è avvalsa di strumenti atti alla videoregistrazione, dall’analisi dei risultati finali si è potuto mettere in evidenza come la valutazione, l’autovalutazione e l’autoregolazione abbiano avuto conseguenze positive sull’agire educativo-didattico che portassero portare ad una spinta migliorativa del sistema d’istruzione del Paese.

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del Canada8. Esse hanno dimostrato come l’uso della videoregistrazione (con l’ausilio di professionisti e supportate da un solido paradigma teorico di riferimento) abbia promosso lo sviluppo di competenze riflessive e sentimenti di autoefficacia producendo effetti migliorativi sull’agire didattico e sull’autoregolazione delle proprie azioni. Nell’ambito dei modelli volti a sviluppare consapevolezza sul campo, un particolare interesse riceve il microteaching, un metodo di origine americana, il cui obiettivo è il miglioramento professionale e della qualità dell’insegnamento (Calvani, Biagioli, Maltinti, Menichetti e Micheletta, 2013), con l’aiuto delle videoregistrazioni e attraverso la predisposizione di un ambiente favorevole in cui gli insegnanti principianti possono mettere alla prova le loro abilità didattiche, ricevere un feedback sulle loro prestazioni, riflettere su tale feedback, e successivamente utilizzare queste informazioni per migliorare il loro insegnamento (Wilkins, Shin, & Ainsworth, 2009).

2. Il microteaching nella formazione degli insegnanti Il microteaching nasce come pratica formativa per gli insegnanti e come strumento per la ricerca pedagogica (Isidori, 2003). Nel 1963 presso la Stanford University fu coniato il termine microteaching da K. Romney e D. Allen. Secondo Allen (1975) il microteaching può essere definito come un insegnamento elaborato, consistente nel presentare ad un gruppo ridotto di studenti una situazione di insegnamento di breve durata sulla quale intervenire applicando la metodologia ritenuta più idonea. La breve sessione di insegnamento è monitorata dai formatori, che utilizzano come strumento la registrazione video; ciò permetterà ai supervisori della sessione di microteaching di mostrare ai futuri insegnanti, in fase di analisi, le abilità che li aiuteranno a risolvere i problemi reali della pratica e gli errori compiuti durante le attività didattiche, al fine di promuovere una riflessione sull’agito che confluisce in un miglioramento dell’azione. Per microteaching si intende uno «strumento di apprendimento professionale per gli insegnanti, un addestramento pratico per la conduzione della classe […] centrato sulla modalità di azione di chi apprende» (Postic, 1984); tale strumento è volto a ridurre il divario tra la preparazione teorica dei contenuti e la pratica didattica. È un metodo che si avvale della mediazione tecnologica costituita dalla videoregistrazione di unità di apprendimento o brevi lezioni, realizzate in situazioni reali o simulate (Isidori, 2003). Allen e Romney (1974), descrivono tale metodologia come il campo d’azione sicuro, in cui i futuri docenti possono avere la possibilità di acquisire le tecniche e le abilità indispensabili per lo svolgimento migliore possibile della professione e riflettere su di esso. L’obiettivo consiste nel fornire agli insegnanti in formazione elementi per l’analisi delle proprie pratiche didattiche.

5

T. Karsenti e S. Collin (2011), The impact of online teaching videos on Canadian preservice teachers. www.emeraldinsight.com/1065-0741.htm Lo studio condotto presso l’Università canadese ha avuto lo scopo di comprendere meglio quale fosse l’impatto dell’uso dei video sullo sviluppo della convinzione di auto-efficacia degli insegnanti in pre-servizio, cioè agli studenti in formazione che si accingono a divenire futuri insegnanti. Dai risultati emerge che la video educazione ha favorito i processi di autovalutazione contribuendo positivamente allo sviluppo dell’auto-efficacia professionale.

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Le indicazioni metodologiche per l’utilizzo del microteaching prevedono la pianificazione di un percorso articolato in sei fasi (Felisatti e Tonegato, 2012): nella prima fase il partecipante simula, in presenza di un piccolo gruppo di colleghi, un breve esempio di insegnamento (microlezione) centrandolo su una abilità didattica preventivamente definita; si avvierà dunque la progettazione di un intervento didattico (Plan), e si procederà con la realizzazione dell’intervento stesso (Teach). Questa seconda fase può essere realizzata attraverso due diverse formulazioni: una reale, utilizzata principalmente nella formazione degli insegnanti già in servizio, in cui la pratica è introdotta in un contesto esistente (come ad esempio una classe) e a cui tende ad adattarsi; l’altra modalità di realizzazione è quella simulata, preferita nei contesti formativi, laboratoriali o di tirocinio dei soggetti in fase di pre-inserimento lavorativo, in cui si procede all’imitazione di un particolare sistema reale e si utilizzano tecniche di impersonificazione quale il role playing. In questo secondo caso la microlezione realizzata in assetto laboratoriale viene videoregistrata, attraverso l’utilizzo di strumenti multimediali. Inoltre, attraverso la simulazione si favorisce la padronanza delle strategie e delle pratiche didattiche, e nello stesso tempo si affinano le competenze sull’osservazione e l’analisi di sequenze didattiche. Subito dopo, si passa ad una fase di osservazione e riflessione critica (Feedback) in cui la video lezione viene analizzata con l’aiuto di un supervisore-formatore. Nella quarta fase, alla luce dei feedback ricevuti e attraverso il monitoraggio del conduttore della sessione di microteaching, vengono apportate le eventuali modifiche (Re-plain) ripianificando dove necessario l’intervento didattico e l’agire educativo. Nella quinta fase si procederà alla “messa in scena” della microlezione revisionata (Re-teach). L’ultima fase rappresenta il momento più importante perché permette l’attuazione delle abilità apprese lungo il percorso: è in questo momento che la nuova videoregistrazione viene analizzata (Re-feedback) per verificare i cambiamenti intervenuti. È proprio dal microteaching che scaturiscono e si differenziano ulteriori occasioni di impiego del video in campo educativo e, in particolare, nella formazione iniziale dei docenti. Vedere il video e ricevere commenti dai colleghi e dal formatore permette ai protagonisti della sessione di osservare il proprio insegnamento, di mettere in atto diverse strategie e di ricevere feedback sulla tecnica sperimentata. In altri termini la sequenza didattica, videoregistrata, viene osservata e analizzata da un gruppo di futuri docenti in formazione con il supporto del supervisore; il protagonista della performance e gli altri osservatori individuano i punti di forza e i limiti dell’intervento didattico per fornire indicazioni di miglioramento. Ogni protagonista può guardare la propria performance e valutarla e, nel frattempo, il gruppo allargato analizza criticamente le sessioni videoregistrate, sia proprie che altrui, favorendo una maggiore consapevolezza rispetto alle azioni professionali. Dall’analisi condotta da Singht (2010), il microteaching si configura come un’esperienza formativa dai molteplici aspetti positivi, poiché permette lo sviluppo dell’autostima attraverso la messa in pratica delle abilità e l’acquisizione di una maggiore consapevolezza per gli insegnanti-allievi della loro formazione professionale. Tale metodologia secondo l’autore crea maggiori competenze generali di insegnamento poiché, focalizzando l’attenzione sul comportamento dell’insegnante, lo aiuta a migliorare i metodi didattici e le metodologie di analisi. Inoltre è utile a migliorare il modo di insegnare, in quanto permette di familiarizzare con vari stili di insegnamento. Il microteaching nello specifico ambito della formazione iniziale dei futuri docenti fa sì che l’allievo acquisisca un insieme di abilità di insegnamento prima che affronti le situazioni reali, offrendo l’opportunità di praticare una lezione senza le

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complessità di una normale classe. Inoltre esso offrendo feedback immediati ed una procedura di valutazione più precisa, oggettiva e accettabile perché condotta tra pari e moderata da un supervisore-formatore, permette una revisione dell’azione professionale sia in fase di formazione che in fase lavorativa favorendo lo sviluppo di competenze acquisite “passo dopo passo” in modo consapevole. Il microteaching ha anche dei limiti costitutivi (Ralph, 2014; Singht, 2010) poiché esso non è un sostituto di altri metodi di insegnamento ma è semplicemente un supplemento per svilupparli dunque da solo non è risolutivo del miglioramento dell’azione professionale; inoltre nella realizzazione in condizioni simulate non influenzerà lo sviluppo della competenza nell’insegnamento, ma si atterrà alla situazione realizzata se non condurrà all’acquisizione e alla padronanza delle competenze professionali.

3. Finalità della ricerca Si è inteso sperimentare una modalità di formazione degli studenti che integrasse teoria e pratica e permettesse di sviluppare capacità riflessive e autovalutative, con le seguenti finalità: sviluppare la capacità di analisi della situazione educativa proponendo strategie efficaci per promuovere un’azione inclusiva, saper osservare ed analizzare il proprio comportamento e quello altrui in situazione; saper riflettere criticamente sull’esperienza osservata; riflettere su quanto agito modificandolo dove necessario. La domanda di ricerca può essere formulata nel modo seguente: attraverso il microteaching impiegato per il percorso laboratoriale, gli studenti saranno capaci di analizzare il proprio agire inclusivo e di modificarlo ove necessario? Si è ipotizzato che la metodologia formativa di seguito descritta avrebbe migliorato significativamente negli studenti universitari la capacità di riflettere sul proprio agire inclusivo e sulla capacità di gestione della classe in presenza di una situazione educativa problematica.

4. La metodologia formativa Sulla base degli assunti teorici appena esposti, ci si è interrogati se la metodologia del microteaching possa consentire ai futuri docenti di scuola primaria e di scuola dell’infanzia di riflettere sulle proprie abilità, capacità e competenze, oltre che sulle conoscenze, possedute e necessarie per lo svolgimento della loro professione e sull’agire educativo inclusivo. Attraverso la progettazione del percorso si è inteso offrire agli studenti universitari un processo in grado di promuovere la convergenza tra l’esperienza di apprendimento e la riflessione sulla stessa. Tale riflessione genera un “ri-pensare” teorico durante il quale le conoscenze tacite vengono esplicitate ed organizzate (Nonaka, Takeuchi, 1997; Rossi, Giannandrea, 2007). Supportati dal paradigma della riflessività, nel corso dell’anno 2013-2014 presso l’Università degli Studi di Palermo, si è costituito un gruppo di studio in seno al Laboratorio di Pedagogia Speciale del corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria con lo scopo di ricercare una più organica e incisiva pratica riflessiva, stimolando i futuri docenti a mettere in gioco i propri comportamenti e schemi mentali alla base del loro agire didattico.

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Il laboratorio di pedagogia speciale che ha avuto una durata di 32 ore, suddivise in 7 incontri9, è stato rivolto a 223 studenti iscritti al terzo anno del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria. Il percorso laboratoriale ha previsto la realizzazione delle sei fasi del microteaching descritte in precedenza, secondo la sequenza seguente: ! " # $ %& &'(% !"#$%&'(#)"*+,

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Attraverso la riproposizione di ogni gruppo dell’attività didattica e la visione della microlezione riprogettata, si avvia una nuova analisi della lezione revisionata. Durante la fase del re-feedback, viene riproposta la lezione nella maniera in cui è stata progettata nuovamente. In questa fase gli studenti devono analizzare la nuova microlezione attraverso la stessa scheda utilizzata nella fase del feedback.

6

Prima dell’inizio delle attività di laboratorio si è svolto un incontro propedeutico di co!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! ! ordinamento del docente responsabile con i conduttori dei dieci gruppi laboratoriali. In questa occasione sono stati stabiliti e definiti tempi, tematiche, attività, obiettivi e criteri del laboratorio e si è illustrata la progettazione del percorso formativo. Il team di cui si è avvalso il docente referente per lo svolgimento e la supervisione delle attività era costituito da 10 supervisori e 10 dottorandi di ricerca che, divisi in coppie, hanno seguito stabilmente uno dei 10 gruppi in cui erano suddivisi gli studenti partecipanti secondo un criterio casuale. Per non palesare lo scopo della ricerca e, quindi, attenuare il rischio di influire sul comportamento dello studente che doveva simulare la microlezione si è scelto di scrivere un copione di massima che fosse relativo solo alle dinamiche del gruppo di alunni e del contesto classe. Nulla si è stabilito a priori sul comportamento dell’insegnante, se non una bozza di progettazione didattica. 7

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È stato chiesto a ciascun gruppo di studenti di progettare e realizzare un cortometraggio in cui venisse messa in scena una lezione (della durata di 10-15 minuti) svolta in un contesto educativo problematico. Durante il quarto incontro, è stata prevista la proiezione dei filmati prodotti dagli studenti e la valutazione di questi attraverso la Scheda di analisi della microlezione. Alla luce dei feedback ricevuti ciascun gruppo ha poi provveduto, attraverso una discussione collettiva, alla revisione e alla riprogettazione dell’intervento educativo. Infine, durante l’ultimo incontro dopo aver visionato il cortometraggio girato dopo la ripianificazione, è stata risomministrata la Scheda di valutazione della microlezione con lo scopo di indagare i miglioramenti apportati alla luce dei feedback e della riflessione compiuta.

5. Rilevazione e analisi dei dati Per l’indagine ci si è avvalsi di una scheda di analisi della microlezione, composta complessivamente da 20 quesiti. Lo strumento è stato suddiviso in due parti: la prima sezione, costituita dalle domande da 1 a 10, indaga l’azione educativa inclusiva compiuta dall’insegnante protagonista della microlezione; la seconda parte, costituita dalle domande da 11 a 20, si propone di indagare la capacità di gestione della classe simulata. Partendo dagli studi di Danielson (2007) e di Stronge (2010), e dall’analisi dei criteri dell’Index per l’inclusione (Booth & Ainscow, 2008), sono stati definiti i 20 indicatori della scheda di analisi. La scheda è costituita da domande a risposta chiusa, relative ad un’analisi del proprio agire inclusivo e dell’agire altrui. Le risposte sono state organizzate su scala graduata su quattro livelli: per niente (1), poco (2), abbastanza (3) e molto (4). La scheda è stata somministrata due volte: una prima volta nella fase del feedback; una seconda volta nella fase del re-feedback, dopo la visione della microlezione realizzata durante la fase del re-teach. I feedback raccolti attraverso la prima scheda di analisi sono stati discussi al fine di realizzare la seconda microlezione, quelli raccolti successivamente sono serviti da spunto per la discussione durante l’ultimo incontro al fine di riflettere su ulteriori progressi da realizzare in vista della futura professione. In relazione all’obiettivo della ricerca, il percorso intrapreso con i futuri insegnanti ha consentito loro uno sviluppo della riflessione sul proprio agire inclusivo sulla capacità di gestione della classe in presenza di una situazione educativa problematica. L’approccio ha permesso di coniugare il momento conoscitivo della ricerca, finalizzato alla produzione di conoscenza sulla realtà educativa presa in esame, con quello della messa in pratica di un adeguato piano di intervento. Si sintetizzeranno adesso i principali risultati della ricerca, articolandoli in riferimento alle due dimensioni indagate. L’analisi dei dati consente di affermare che complessivamente i risultati ottenuti dagli studenti al termine dell’attività sono sostanzialmente positivi, anche se non si può affermare che essi dipendano esclusivamente dalle attività formative svolte e che sono state descritte in precedenza. D’altro lato la replica dei risultati positivi con dieci gruppi differenti offre una sufficiente garanzia di attendibilità. Di seguito sarà illustrata nel dettaglio l’analisi delle frequenze espresse in percentuale delle risposte degli studenti distinguendo la prima rilevazione effettuata nella fase del feedback e la seconda rilevazione effettuata nella fase del re-feedback, rispetto alle dimensioni dell’agire educativo inclusivo e della gestione della classe.

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N=223

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Prima rilevazione

Agire inclusivo (1-10) e Gestione della classe (11-20)

Seconda rilevazione

1

2

3

4

1

2

3

4

%

%

%

%

%

%

%

%

1

L’insegnante tiene presenti le capacità di apprendimento di tutti gli alunni?

33

50

9

8

2

28

41

29

2

L’insegnante tiene in considerazione e cerca di ridurre gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione di particolari alunni?

25

45

20

10

1

24

40

35

3

La lezione offre occasione di collaborazione tra pari e in gruppo?

49

37

9

5

4

16

48

32

4

L’insegnante adegua la lezione alle necessità degli alunni affinché tutti possano sviluppare competenze e conoscenze?

25

48

22

5

8

12

38

42

5

La lezione stimola la partecipazione di tutti gli alunni?

38

43

16

3

4

26

49

21

6

Le differenze tra gli alunni vengono utilizzate come risorsa per l’insegnamento e l’apprendimento?

35

43

17

5

2

9

38

51

7

L’insegnante riesce a favorire l’inserimento nella discussione da parte di tutti gli alunni?

39

43

15

4

5

16

53

26

8

Le lezioni sono attente agli aspetti emozionali, oltre che a quelli cognitivi, dell’apprendimento?

10

25

37

28

8

23

39

30

9

Il linguaggio utilizzato nelle lezioni, scritto e orale, è accessibile a tutti gli alunni?

36

37

22

5

4

12

50

34

10

Gli alunni vengono incoraggiati a esplorare punti di vista diversi dai propri?

41

44

10

6

12

13

38

37

11

L’insegnante crea un clima di classe positivo e caldo?

10

21

34

35

3

19

48

30

12

L’insegnante riesce ad ottenere l’attenzione e mettere la classe in condizione di attesa?

29

48

14

9

7

13

27

53

13

Gli alunni vengono coinvolti nello sforzo di superare le difficoltà di apprendimento proprie o dei compagni?

38

42

14

6

5

26

49

20

14

L’insegnante prende in considerazione e valorizza le osservazioni degli alunni?

28

49

18

5

5

12

51

32

15

L’insegnante tiene presente la gestione complessiva del tempo disponibile?

28

48

13

11

8

14

35

43

16

L’insegnante usa lo spazio, la prossimità e il movimento intorno alla classe per essere vicino ai problemi e incoraggiare l’attenzione?

36

40

16

8

13

18

47

22

17

L’insegnante interpreta e risponde prontamente ai comportamenti non appropriati?

40

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11

5

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9

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18

L’insegnante verifica la comprensione degli studenti facendo domande?

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7

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L’insegnante rinforza e reitera le aspettative di comportamenti positivi?

34

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L’insegnante mantiene regole procedure chiare?

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7

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!

Dalla lettura della tabella, relativa alla rilevazione dell’agire educativo inclusivo e alla gestione della classe condotta al termine della visione della prima serie di cortometraggi, emerge che la maggior parte degli studenti giudica negativamente quanto osservato nelle microlezioni messe in scena. In altri termini gli studenti che hanno valutato il primo blocco di lezioni, ha rilevato una scarsa presenza degli indicatori proposti nei segmenti di lezione da loro stessi progettati e realizzati. Viceversa, gli stessi studenti quando hanno valutato le lezioni progettate e realizzate dopo il primo feedback, hanno rilevato un’elevata percentuale di frequenza dei comportamenti che indicano un agire educativo inclusivo e la capacità di gestione della classe. Analizzando delle risposte date dai futuri insegnanti rispetto alla dimensione dell’agire educativo inclusivo (item 1-10), emerge che la maggior parte degli studenti ritiene che nelle prime lezioni visionate, l’insegnante non metta in atto quei comportamenti che indicano un’azione intenzionale atta a generare pratiche inclusive. Giudizio che si ribalta del tutto nella seconda rilevazione. Ad esempio quasi tutti gli studenti ritengono che le lezioni progettate nella prima fase non siano in grado di promuovere la collaborazione tra pari (86%), non incoraggino gli alunni ad esplorare punti di vista diversi dai propri (85%), non tengano presenti le capacità di apprendimento di tutti gli alunni (83%). Allo stesso modo è molto elevata la percentuale (82%) di coloro che ritengono che l’insegnante non sia in grado di favorire l’inserimento nella discussione da parte di tutti gli alunni. Gli stessi item

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nella seconda somministrazione vengono rilevati con una percentuale di frequenza molto elevata sulla polarità positiva: gli studenti ritengono che le lezioni riprogettate promuovano la collaborazione tra pari (80%), incoraggino gli alunni ad esplorare punti di vista diversi dai propri (75%), tengano presenti le capacità di apprendimento di tutti gli alunni (70%); gli studenti ritengono inoltre che l’insegnante favorisca la partecipazione di tutti gli alunni alla discussione (79%). L’unico valore positivo riscontrato tra gli item inerenti la dimensione dell’agire inclusivo è relativo all’attenzione posta nelle lezioni progettate agli aspetti emozionali dell’apprendimento, oltre che a quelli cognitivi (65%). Questo valore rimarrà sostanzialmente invariato anche nella seconda rilevazione (69%). Analizzando le risposte date dai futuri insegnanti rispetto alla dimensione della gestione della classe (item 11-20), si evidenzia un elevato numero di risposte negative nella prima rilevazione. Questo dato sottolinea come i comportamenti osservati nelle microlezioni progettate dagli studenti, vengano giudicati dagli stessi come poco o per nulla attenti ad un’efficace gestione della classe in presenza di situazioni educative problematiche. I dati negativi più rilevanti sono relativi alla comunicazione delle attese e alla gestione dei comportamenti problematici: per la maggior parte degli studenti (85%) gli insegnanti osservati nelle microlezioni non rinforza le aspettative dei comportamenti positivi e non è in grado di interpretare e di rispondere prontamente ai comportamenti non appropriati (84%). Negli item 12, 15,16, volti ad indagare rispettivamente la capacità di saper attirare l’attenzione, la capacità di gestione del tempo e di gestione consapevole dello spazio si riscontrano elevati livelli di giudizi negativi che si attestano tutti con una percentuale di frequenza superiore al 75%. Al contrario gli studenti ritengono che le lezioni progettate e realizzate dopo la riflessione condotta al termine della visione del primo blocco di microlezioni, siano caratterizzate da comportamenti agiti dall’insegnante più consapevoli e attenti alla gestione della classe: aumentano notevolmente sia le azioni di rinforzo dei comportamenti positivi (78%), sia le azioni di risposta ai comportamenti non appropriati (83%). Anche nella seconda parte della scheda l’unico valore positivo riscontrato nella prima somministrazione è relativo all’attenzione che l’insegnante pone agli aspetti affettivi ed emotivi: il 69% degli studenti rileva la presenza nelle microlezioni osservate di azioni compiute dall’insegnante finalizzate alla realizzazione di un clima di classe positivo e caldo. I dati relativi alla seconda somministrazione mettono in evidenza come in tutte le aree si registri un notevole aumento nei livelli positivi. La produzione delle microlezioni e la successiva analisi guidata ha consentito agli studenti sia di confrontarsi con dinamiche di azione e di gestione della classe analoghe a quelle che riscontreranno nella loro futura professione, aiutandoli a cogliere l’importanza della professione docente e della complessità che connota le situazioni educative, sia di apprezzare l’importanza della riflessione sull’azione. Accanto a questi rilievi sostanzialmente positivi non vanno sottovalutate le criticità che restano da affrontare e che indicano le direzioni per le future ricerche. In primo luogo, così come riscontrato anche in altre recenti ricerche (Hagger & McIntyre, 2006; He & Yan, 2011), un limite è legato alla natura stessa del microteaching: la simulazione di una lezione non è una lezione reale. La natura artificiosa del microteaching, rischia seriamente di compromettere il transfer di abilità e competenze dal contesto del laboratorio alle dinamiche della classe reale. In secondo luogo è molto difficile rilevare come il microteaching possa contribuire allo sviluppo delle competenze che sono osservabili solo in una situazione di apprendimento vera e propria; ciò è vero in modo particolare se si richiede ai futuri insegnanti di simulare una lezione ad una classe virtuale di loro coetanei, piuttosto

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che a bambini veri. Questo è il caso della presente ricerca, dettato dalla difficoltà di sperimentare su alunni reali le microlezioni progettate. La soluzione adottata è stata quella di ricorrere ai coetanei per simulare una classe di bambini reali. Questa soluzione seppur praticata nel microteaching (Bell, 2007; Felisatti & Tonegato, 2012; Isidori, 2003; Ralph, 2014) amplifica il rischio dell’artificiosità. Per questa ragione riteniamo che il microteaching debba essere supportato da altre pratiche che favoriscano allo stesso tempo il pensiero riflessivo sulla professionalità dell’insegnante e il transfer delle competenze dall’azione simulata alla situazione reale. La scheda di analisi proposta, infine, seppur costruita a partire da strumenti esistenti e già validati, finalizzati alla rilevazione dell’agire inclusivo (Booth & Ainscow, 2008) e della gestione della classe (Danielson, 2007; Stronge, 2010), richiede un’ulteriore ridefinizione ed operazionalizzazione di alcuni indicatori per rendere maggiormente efficace lo strumento e valida la rilevazione attraverso il suo utilizzo.

Conclusioni 96

Sintetizzando i risultati conseguiti è possibile sostenere che il processo di microteaching si è configurato come mediatore tra il soggetto e il suo apprendimento: esso ha trasformato l’apprendimento in un atto cosciente degli studenti che, mentre riflettevano sul percorso appena svolto, ne prendevano consapevolezza e progettavano le tappe successive. Il processo di microteaching può considerarsi come un’opportunità per una significativa crescita in termini di consapevolezza critica e professionale per tutti gli studenti che si accingono a divenire i docenti del domani, seppur con i limiti sopra evidenziati. Il miglior risultato dell’attività svolta dagli studenti è stato una originale rilettura della propria esperienza di apprendimento, una riflessione sul proprio modo di agire, utile non solo al singolo per la costruzione della propria identità ma anche al gruppo, inteso come comunità persone impegnate in un progetto educativo comune. Per il tipo di professione per cui gli studenti si stanno preparando, risulta indispensabile continuare ad approfondire con una specifica attività di ricerca le modalità operative mediante le quali la dimensione della riflessività, potenziata dall’uso delle tecnologie, si coniuga con la capacità di progettazione e di valutazione collegiale di interventi educativi in situazioni complesse.

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Osservare le prassi didattiche nella scuola dell’infanzia. Il PraDISI come opportunità di formazione e sostegno della professionalità

Rossella D’Ugo - Università di Urbino Carlo Bo - rossella.dugo@uniurb.it Ira Vannini - Università di Bologna - ira.vannini@unibo.it

The observation of the teaching practices in kindergarten. The PraDISI tool as an opportunity for training and support of teacher professionalism Starting from a theorical-methodoligical framework on the formative function of observation of the teacher inside the classroom, the article presents the PraDISI Scale for teaching observation in kindergarden. Notably, we discuss the idea of teaching quality that is at the base of this tool and its main structural features. The PraDISI Scale, already validated between 2011 and 2013, was used during the 20132014 school year for the observation and formative evaluation in four different Italian kindergardens. The article describes the main results of this survey and critically discusses the potential of formative evaluation of the PraDISI Scale in relation to a quality educational curriculum in kindergarden.

Parole chiave: PraDISI; Osservazione delle prassi didattiche; Scuola dell’infanzia; Valutazione formativa; Professionalità docente; Formazione in servizio

Keywords: PraDISI; Teaching observation; Kindergarten; Formative evaluation; Teacher professionalism; In-service education

Il contributo è stato progettato e rivisto in ogni sua parte da entrambe le autrici; in particolare i paragrafi 1 e 3 sono stati scritti da Ira Vannini e i paragrafi 2, 4 e 5 sono stati scritti da Rossella D’Ugo.

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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A partire da un inquadramento teorico-metodologico sull’utilizzo formativo dell’osservazione dell’insegnante in classe, l’articolo presenta la Scala PraDISI per l’osservazione delle prassi didattiche nella scuola dell’infanzia. In particolare vengono discusse l’idea di qualità della didattica che vi è alla base dello strumento e le sue principali caratteristiche strutturali. Il PraDISI, già validato negli anni 2011-2013, è stato utilizzato nell’anno scolastico 2013/14 per l’osservazione e la valutazione formativa in quattro contesti della scuola dell’infanzia italiana. Nell’articolo vengono descritti i principali risultati di questa rilevazione e, in seguito, vengono discusse criticamente le potenzialità di valutazione formativa della Scala in relazione ad una progettazione didattica di qualità nella scuola dell’infanzia.


Osservare le prassi didattiche nella scuola dell’infanzia. Il PraDISI come opportunità di formazione e sostegno della professionalità

1. Quadro teorico di riferimento

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Nel percorso di ricerca che ha portato alla messa a punto dello strumento PraDISI (Osservazione delle prassi didattiche dell’insegnante della scuola dell’infanzia) si è cercato di prendere le distanze da un costrutto di qualità dell’insegnamento inteso come mera “efficacia” dell’insegnamento stesso, inferibile, a posteriori, dal “successo” nei risultati degli allievi. Se è vero che una buona didattica deve portare a buoni risultati nelle competenze degli allievi, vero però è anche che la constatazione di tali risultati non consente di entrare nel merito degli effettivi processi didattici che vengono realizzati nelle classi. Come sottolineano Fenstermacher e Richardson (2005), possiamo dire di avere qualità dell’insegnamento quando siamo in presenza sia di un successful teaching, sia di un good teaching, ma è proprio l’analisi di quest’ultimo – il “buon insegnamento” – che rende evidenza degli aspetti contenutistici e metodologici che vengono proposti in classe e qualificano la didattica in quanto azione coerente con finalità educative “di valore”. «Good teaching is a teaching that comports with morally defensible and rationally sound principles of instructional practice» (Fenstermacher & Richardson, 2005, p. 189). All’interno della nostra ricerca, entrare nel merito del “buon insegnamento” ha avuto il significato precipuo di entrare dentro le sezioni di scuola dell’infanzia, per osservare le prassi di insegnamento-apprendimento in atto. La possibilità di analizzare e interrogarsi sulle azioni didattiche, all’interno di contesti naturali, è abbastanza rara nella scuola italiana. La classe è considerata da sempre – sia nella cultura docente diffusa entro le scuole, sia nella maggior parte delle direttive ministeriali, sia infine nelle comuni concezioni sulla scuola – come un sistema chiuso, un contesto entro il quale non è bene inoltrarsi, dove l’adulto presente è uno solo, autarchico nelle sue scelte didattiche ed educative rivolte agli allievi. Eppure è proprio all’interno delle classi che è possibile prendere contatto con le variabili legate al “buon insegnamento”, con i processi che influiscono – pur in connessione con molteplici altri fattori (socio-culturali, contestuali, psicologicomotivazionali) – sui risultati di profitto degli studenti. Fin dagli anni ’70 e ’80, nelle ricerche su processi e sistemi educativi (Hanushek, 1971; Murname, Phillips, 1981), vengono messe in evidenza le forti differenze inter-classe nei risultati di apprendimento degli allievi di una stessa scuola. Tali differenze continuano ad emergere ancora oggi nelle ricerche internazionali e nazionali sulle competenze degli studenti e nelle analisi sul valore aggiunto (Giovannini, Tordi, 2009; Rosa, 2013) e pongono la variabile pratiche dell’insegnante in classe come uno dei fattori più importanti da analizzare. Tuttavia, se è vero che molti sono attualmente gli studi sulla qualità dell’insegnamento che prendono in considerazione gli apprendimenti conseguiti dagli studenti, vi è invece carenza di ricerche sulle prassi didattiche in classe, attraverso strumenti di osservazione sistematica. A questo proposito, sono molto interessanti

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gli studi di Kane et al. (2010) che tentano di esplorare le connessioni tra le prassi didattiche osservate e i risultati degli studenti. Al di là dell’interesse degli specifici risultati ottenuti in merito a tali connessioni, ciò che emerge dalla ricerca di Kane, Taylor, Tyler e Wooten (2011, pp. 591ss.) è anche e soprattutto l’importanza di utilizzare strumenti di osservazione in classe (in questo caso una rubric) che consentano di rilevare validi indicatori delle pratiche didattiche, quali ad esempio le modalità che l’insegnante utilizza per creare un efficace contesto di apprendimento e per gestire i processi di insegnamento-apprendimento (comunicare obiettivi e aspettative, presentare contenuti, svolgere attività, coinvolgere ed attivare gli allievi, fornire feedback formativi, …). L’opportunità dell’osservazione delle pratiche didattiche in classe ha, in questo senso, un valore in sé, in quanto strumento utile per innescare processi di valutazione – a livello macro (di sistema scolastico), meso (di singoli istituti scolastici) e micro (di singole classi) – delle scelte didattiche effettuate nei vari contesti scolastici e di promuoverne una riprogettazione. Si può parlare, in questa prospettiva, di un’osservazione come base fondamentale per sostenere processi di valutazione formativa (Bondioli, Ferrari, 2004) e di riflessività sull’azione didattica, in vista di decisioni di riprogettazione e miglioramento. La potenzialità di un dato che emerge da una valida procedura di osservazione sistematica è quella infatti di permettere al soggetto osservato una “presa di distanza” dall’azione compiuta e di attivare il pensiero critico; il dato, in aggiunta, se rilevato in modo diacronico, permette di prendere atto di progressi e sviluppi nel tempo di tali azioni, di fare una diagnosi, sostenendo le future decisioni progettuali di cambiamento. Nell’ottica di una valutazione che sostenga la formazione degli insegnanti, e soprattutto la formazione degli insegnanti in-service, gli interventi di staff development – orientati allo sviluppo della professionalità nei gruppi di docenti in servizio – possono pertanto trarre grande vantaggio dall’uso delle procedure di osservazione delle prassi in aula (che in molti casi può essere anche di peer observation tra colleghi), in quanto strumento per sostenere le attività professionali dei docenti, accompagnandoli nelle specifiche situazioni collegiali di progettazione e riprogettazione educativa e didattica. Occorre rimarcare che gran parte del dibattito internazionale (e anche quello specificamente dedicato ai temi della qualità per la early childhood education) mette in evidenza la necessità di utilizzare l’osservazione per rendere sempre più consapevoli gli insegnanti delle loro azioni didattiche. In questa prospettiva si stanno ponendo non solo le ricerche in ambito statunitense (ed anglosassone più in generale) (Guernsey, L., Ochshorn, S., 2011), e in particolare le grandi associazioni professionali americane (si veda il New Teacher Project; la New America Foundation; il TeachStone1), ma anche le ricerche in ambito francofono sulla valutazione e l’autovalutazione degli insegnanti (cfr. Laveault et al., 2009; Paquay et al. 2010).

1

Si vedano a questo proposito in particolare i siti web: http://www.tqsource.org/webcasts/teacherEffectivenessWorkshp/Hamre.pdf (consultato il 14/10/14) e http://teachstone.com/services/training/class-observation-training/ (consultato il 14/10/14).

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2. Il PraDISI per l’osservazione delle prassi didattiche nella scuola dell’infanzia

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Negli anni 2011-2013, presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, è stata messa a punto una rating scale per l’osservazione delle prassi didattiche all’interno delle sezioni della scuola dell’infanzia. Il PraDISI ha come principale obiettivo quello di entrare all’interno dei processi didattici dei contesti tre-sei anni per osservarli sulla base di specifici indicatori di qualità e condurre gli insegnanti verso una maggiore consapevolezza e intenzionalità progettuale, a partire da dati osservativi rilevati in modo valido e affidabile. L’utilizzo del PraDISI consente di riflettere sul “buon insegnamento” nella scuola dell’infanzia; un buon insegnamento definito sulla base di scelte valoriali “a priori”, che aiutano a concentrarsi fin da subito, e in modo specifico, sui processi di insegnamentoapprendimento messi in atto, al di là della loro efficacia rispetto ai risultati di apprendimento dei bambini. Ciò non significa che il PraDISI intenda rinunciare alla possibilità di analizzare le relazioni tra prassi didattiche e risultati di apprendimento; bensì vuol dire che l’intenzione prioritaria dello strumento è un’altra: è quella di assumersi fin dall’inizio l’onere di conoscere i processi che si svolgono in classe, di analizzarli in modo peculiare, finanche di discuterli con gli insegnanti stessi che sono stati osservati. Tutto questo per evitare il rischio opposto: quello di parlare di qualità della didattica attraverso inferenze a posteriori, a partire dai risultati di apprendimento degli allievi. La scuola dell’infanzia ha costituito certamente un contesto facilitante per cimentarsi in questa impresa: innanzitutto nei contesti tre-sei anni cala notevolmente “l’ansia da risultato” più tipica dei livelli scolastici successivi; inoltre vi è una cultura docente entro gli istituti maggiormente abituata ad ospitare osservatori all’interno delle classi. Tutto ciò ha consentito di sviluppare e validare il PraDISI nelle migliori condizioni, focalizzando costantemente l’attenzione – dei ricercatori e degli insegnanti coinvolti – sulla “qualità” della didattica messa in atto, e sulle scelte progettuali che vi erano a monte e che potevano essere rivisitate in modo critico a fronte di un’analisi seria dei dati osservativi. 2.1 La qualità della didattica secondo il PraDISI Il PraDISI si focalizza su un’idea di buon insegnamento (inteso come buone prassi didattiche dell’insegnante) che poggia fondamentalmente su due modelli teorici riferiti all’insegnamento di qualità (Fenstermacher & Richardson, 2005). Da un lato un’idea di insegnamento concepito nell’ottica delle scienze cognitive, centrato sul docente che conosce a fondo le strategie di apprendimento degli studenti e li guida intenzionalmente – osservandoli durante i processi didattici e fornendo loro feedback mirati – verso l’acquisizione di specifiche competenze, nei vari ambiti disciplinari (dei quali ha una profonda conoscenza) e all’interno di un ambiente motivante. Entro tale prospettiva, il PraDISI recupera anche alcuni aspetti caratterizzanti il modello di insegnamento di tipo comportamentista, quali in particolare: l’attenzione dell’insegnante a mantenere un buon clima di classe, favorevole all’apprendimento e alla motivazione di tutti gli alunni; la cura nel valutare progressivamente gli apprendimenti di ciascun alunno allo scopo di portare tutti al raggiungimento di buon livelli di competenza.

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Il PraDISI tende, in questo senso, a sostenere un approccio learning dependent (Fenstermacher & Richardson, 2005) nell’ottica di una didattica di “responsabilità” nei confronti dei risultati di apprendimento degli allievi; e che, pur nella consapevolezza di non essere essa stessa l’unico fattore di efficacia dell’apprendimento, assume responsabilmente su di sé la necessità di progettare, valutare, rivedere le prassi didattiche nel tentativo costante di recuperare e portare tutti gli allievi all’apprendimento, senza lasciare indietro nessuno. Dall’altro lato un’idea di insegnamento concepito come facilitazione dell’apprendimento, nella prospettiva teorica del costruttivismo, dove il docente diviene soprattutto colui che organizza l’ambiente e fornisce stimoli facilitando l’allievo nella costruzione autonoma delle proprie competenze. In questo modello, troviamo un insegnante attento soprattutto alle peculiarità dell’alunno, che vanno riconosciute e incentivate in modo mirato, senza preoccuparsi per il raggiungimento di specifici apprendimenti o competenze da parte di tutta la classe. I feedback dell’insegnante sono, in questa prospettiva, orientati soprattutto a mantenere il coinvolgimento attivo dell’allievo nella costruzione del proprio percorso di apprendimento. All’interno di queste due prospettive teoriche, il PraDISI definisce la propria idea operativa di prassi didattiche di qualità, articolandole attorno alle varie aree di competenza (o campi di esperienza) definite dalle indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia (Ipc) italiana. Tali due prospettive portano a definire, via via che il PraDISI percorre i vari “campi”, prassi didattiche maggiormente cognitive based e individualizzate (Baldacci, 2005) e prassi didattiche maggiormente constructivist based e personalizzate. Senza incentivare una dicotomia individualizzazione-personalizzazione troppo semplificante dei contesti reali dell’insegnamento-apprendimento nella scuola dell’infanzia, il PraDISI propone indicatori di una “buona didattica” che: – in alcuni ambiti (è il caso di ambiti di competenza considerati basilari per la costruzione di tutte le competenze di literacy future, quali l’ambito logico-matematico oppure l’ambito della comunicazione verbale) presentano un’eccellenza descritta come prassi maggiormente cognitive based; – in altri ambiti (è il caso ad esempio di campi di esperienza connessi all’espressione creativa e artistica o all’ambito della socializzazione) presentano un’eccellenza descritta come una prassi maggiormente costructivist based. In entrambe le situazioni, tuttavia, i descrittori di ogni singolo item – pur se maggiormente orientati all’una o all’altra prospettiva – propongono anche situazioni didattiche esemplificative che tengono conto dell’apporto di ciascuno dei due modelli alla definizione di una buona didattica per la scuola dell’infanzia. In maniera operativa, se dovessimo sintetizzare i principali elementi della “qualità” della didattica così come è descritta dai 23 indicatori del PraDISI, potremmo dire che le prassi didattiche nella scuola dell’infanzia sono eccellenti quando: – danno evidenza di una progettazione intenzionale e collegiale da parte degli insegnanti della sezione; – si svolgono all’interno di un contesto educativo pensato, motivante, ricco di stimoli adeguati all’età dei bambini e ai molteplici bisogni formativi che generalmente si possono incontrare nei contesti tre-sei anni; – stimolano periodicamente e ciclicamente le abilità dei bambini in tutti i campi di esperienza indicati nelle Ipc, dando spazio sia a percorsi didattici con una

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prevalenza disciplinare, sia a percorsi didattici di tipo multi- e inter- disciplinare; sostengono e guidano i bambini verso nuovi apprendimenti e scoperte, in tutti i campi di esperienza: sia mediante occasioni di individualizzazione (con prevalenza di direttività dell’insegnante verso obiettivi di apprendimento specifici). In questo caso l’insegnante: esplicita gli obiettivi di apprendimento ai bambini; motiva all’apprendimento; diversifica i percorsi, i materiali, le situazioni; usa momenti ludici per fare valutazione formativa; predispone attività di recupero e sostegno; – sia mediante occasioni di personalizzazione (con prevalenza di un insegnante facilitatore e organizzatore dell’ambiente). In questo caso l’insegnante: - è attento alle specifiche attitudini e interessi dei bambini; - stimola la creatività di ciascun bambino e ne valorizza l’impegno; - stimola ciascun bambino a costruire in autonomia alcune competenze in base ai propri interessi; fanno uso dell’osservazione sistematica del comportamento dei bambini durante la didattica, come strumento di valutazione formativa nel caso della didattica individualizzata e come strumento di conoscenza degli interessi e dei bisogni di ciascun bambino nei percorsi di personalizzazione.

Una specifica necessaria. Per definire i livelli di “qualità” del PraDISI: – ci si è ispirati ai principi – largamente condivisi – relativi alle dimensioni dello sviluppo dei bambini tra i tre e i sei anni previsti nei curricoli ministeriali della scuola dell’infanzia (Orientamenti ‘91 e Indicazioni Nazionali per il curricolo 2007 e 2012) e, infine, alle evidenze emerse durante molteplici osservazioni di prassi didattiche all’interno di scuole dell’infanzia riconosciute “di eccellenza” sul territorio bolognese. Nell’anno scolastico 2010/11, lo strumento è stato sottoposto ad un panel di esperti nazionali dell’area pedagogico-didattica chiamato ad esprimersi in merito alla validità di costrutto dello strumento PraDISI (D’Ugo, 2013). La scelta dei componenti del panel è stata orientata dalla necessità di avere pareri autorevoli sulla validità della Scala in quanto strumento di osservazione/valutazione per la valutazione della qualità della didattica della scuola dell’infanzia. In seguito, lo strumento, nell’anno scolastico 2011/12, ha costituito una prima ipotesi operativa di ricerca durante la quale è stato possibile verificare la sua validità (e l’effettiva fruibilità da parte di insegnanti e coordinatori pedagogici delle scuole bolognesi) all’interno di campioni di sezioni di scuola dell’infanzia. 2.2 Il PraDISI: indicatori e aspetti procedurali La scala di osservazione PraDISI – con i suoi 23 item2 suddivisi in 3 macro aree (le routine della giornata educativa; la promozione delle competenze; le scelte di

2

Nella versione 2013/14, lo strumento è stato costituito da 25 item. Sono infatti stati aggiunti due item specificamente dedicati alle prassi didattiche che avvicinano, in modo ludico, i bambini alle future abilità di lettura e di scrittura.

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metodo più generali dell’insegnante) si concentra dunque sulle prassi dell’insegnante che, agite entro situazioni didattiche, promuovono lo sviluppo del bambino dai 3 ai 6 anni. Con uno sguardo importante, pur se mai acritico, rivolto alle Indicazioni Nazionali per il Curricolo (2007-2012), gli indicatori del PraDISI sono stati costruiti a partire da questa domanda-chiave: quali strategie mette in campo l’insegnante per promuovere gli apprendimenti del bambino? È in risposta a questa domanda che i vari item (e i relativi descrittori) sono stati costruiti e, in seguito, collocati all’interno di una struttura ripartita sulle due principali aree di attività che vengono svolte dall’insegnante nella scuola dell’infanzia: le cure di routine e le attività specificamente volte alla promozione di competenze nei vari campi di esperienza. Come accennato, oltre a tali due gruppi di item, il PraDISI presenta due ulteriori indicatori che focalizzano lo sguardo dell’osservatore su aspetti più generali inerenti il metodo didattico: la presenza di un’attenzione metodologica volta all’individualizzazione dei processi di insegnamento-apprendimento e la presenza di un’attenzione volta invece alla personalizzazione degli stessi processi (area C. Scelte di metodo dell’insegnante). In realtà, questi due item conclusivi riprendono – in maniera più trasversale – aspetti peculiari presenti (in misura variabile) in tutti gli item del PraDISI: prevalentemente in corrispondenza della descrizione delle prassi reputate eccellenti, emergono infatti tratti qualificabili nei termini di attenzione alle variabili individuali dell’apprendimento, individualizzazione, o di valorizzazione delle eccellenze personali, personalizzazione (nello specifico, sono di questo secondo tipo gli item 15/arte e 16/musica, mentre sono del primo tipo tutti gli altri). La filosofia dello strumento, infatti, reputa fondamentale il riconoscimento di entrambi i congegni metodologici – individualizzazione e personalizzazione – nella messa in atto di un curricolo di scuola dell’infanzia (e non solo) equilibrato e finalizzato allo sviluppo di una personalità multilaterale. Resta ovviamente intesa l’esigenza di dare la precedenza a processi di individualizzazione. Tale necessità è confermata anche dal numero di item dedicati a questa metodologia (20 su 23) rispetto al numero di quelli deputati alla personalizzazione (3 su 23). In merito alle procedure di rilevazione dei dati osservativi, occorre ricordare che la struttura di ciascun item PraDISI è quella di una rating scale con tre descrittori espliciti relativi all’agire dell’insegnante; ogni item propone categorie comportamentali non elementaristiche, ma osservabili in relazione al contesto descritto. Si tratta di micro-situazioni “esemplari” di quanto si realizza nella quotidianità o nell’arco settimanale3, in ciascuna di esse sono inserite due o tre modalità comportamentali ed elementi contestuali tra loro coerenti e rispondenti a livelli di qualità minima, buona, eccellente (in relazione alle idee di qualità esplicitate per l’intero strumento). I punteggi 10, 30 e 504 devono essere assegnati quando le situazioni

3 4

Nelle note allo strumento, viene specificato l’uso di due termini temporali: “saltuariamente” (la situazione si ripete meno di una volta a settimana); “periodicamente” (la situazione si ripete almeno una volta a settimana). La scelta dei punteggi 10, 20, 30, 40, 50 è determinata da motivazioni di comodità. Anziché utilizzare le unità, sono state utilizzate le decine; in questo modo è possibile – ad ogni sezione osservata – fare la media aritmetica fra i punteggi PraDISI dei due insegnanti osservati e ottenere un punteggio senza decimali. Ovviamente, le modalità di attribuzione del punteggio per ogni item sono discontinue: sarà unicamente possibile attribuire uno dei cinque punteggi, e mai un punteggio intermedio (come per esempio 34 oppure 46).

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didattiche descritte sono pienamente soddisfatte (nello specifico, per ogni descrittore occorre osservare la presenza di almeno due categorie comportamentali e, se ne manca una (o più), si ricade nel punteggio immediatamente inferiore: 0, 20, 40). Laddove necessario, alcune informazioni mancanti possono essere richieste anche agli insegnanti presenti in sezione, al fine di completare il quadro della situazione osservata e recuperare, pur se parzialmente, una dimensione di diacronicità delle attività svolte che l’osservazione diretta – nel tempo limitato di permanenza in sezione dell’osservatore (circa 15 giorni) – non sempre consente. Tecnicamente, possiamo riassumere i principali step dell’osservazione con il PraDISI in questo modo:

106

1. è necessario leggere per intero la Scala prima di procedere con la somministrazione al fine di avere un’idea complessiva degli item e della “filosofia” che lo strumento trattiene in sé; 2. occorre valutare una sezione per volta e, soprattutto, somministrare un PraDISI per ciascun insegnante della sezione; 3. prima di iniziare le osservazioni, e quindi prima di entrare come osservatori nelle sezioni, è necessario chiedere agli insegnanti la scansione della loro giornata educativa; 4. per quanto riguarda le osservazioni relative all’area A, “Le routine della giornata educativa: prassi didattiche dell’insegnante” è necessario: • osservarle più di una volta (almeno un paio di volte) durante uno stesso periodo di somministrazione dello strumento; • avere presente che si tratta di momenti “specifici” da un punto di vista temporale, ovvero che si compiono dall’inizio alla fine in quella stessa situazione; 5. per quanto riguarda, invece, le osservazioni relative all’area B, “Promozione delle competenze” è necessario: • richiedere preventivamente la programmazione settimanale o mensile della sezione in modo informale; inoltre, se verso il termine del periodo di osservazione non si fossero riuscite ad osservare alcune situazioni didattiche, si abbia cura di chiedere in quale periodo possa essere possibile farlo • avere presente che si tratta di situazioni didattiche che contemplano momenti da osservare trasversalmente durante l’intera giornata educativa e non solo in un momento temporale specifico 6. per quanto riguarda, infine, le osservazioni relative all’area C, “Scelte di metodo dell’insegnante”, è possibile attribuire un punteggio agli specifici item 22 e 23 (individualizzazione e personalizzazione), solo dopo aver completato l’osservazione e l’attribuzione dei punteggi degli item dall’1 al 21. L’osservatore, infatti, durante tutto il periodo osservativo ha cura di cogliere alcuni aspetti generali del metodo dell’insegnante, finalizzati proprio all’attribuzione del punteggio di questi due specifici item.

3. Le prassi didattiche degli insegnanti di scuola dell’infanzia in quattro differenti contesti italiani Dopo la validazione dello strumento negli anni 2010-12 (D’Ugo, Vannini, 2013) – realizzata attraverso la lettura critica del PraDISI da parte del panel di 16 studiosi italiani e il try out dello strumento all’interno di un gruppo di insegnanti delle scuole dell’infanzia comunali della città di Bologna – è emersa l’esigenza di com-

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piere nuovi passi nella direzione di una ulteriore “messa alla prova” dello strumento: – sia per vederne la ricaduta all’interno di un gruppo di scuole (e di insegnanti) maggiormente rappresentativo della varietà dei contesti territoriali e istituzionali entro cui vive la scuola dell’infanzia in Italia; – sia per verificarne l’affidabilità d’uso in termini di concordanza tra osservatori differenti5. Per questi motivi, nell’anno 2013/14 si è proceduto ad utilizzare la Scala PraDISI (in una versione modificata sulla base dei rilievi critici emersi nella prima validazione) in quattro differenti contesti della scuola dell’infanzia italiana. Lo scopo era quello di analizzarne le ricadute all’interno di situazioni diverse da quelle – le scuole comunali bolognesi – entro le quali lo strumento è stato messo a punto. 3.1 Brevi note metodologiche I quattro contesti sono stati scelti attraverso un campionamento di convenienza, con l’accortezza di avere a disposizione sezioni/scuole di differenti appartenenze istituzionali e differenti collocazioni geografiche. Nello specifico sono stati individuati (si veda la Tab. 1) un gruppo di sezioni delle scuole comunali della città di Bologna e tre ulteriori piccoli gruppi di sezioni appartenenti a: scuole statali delle province di Bologna e Modena; scuole paritarie della città di Roma; scuole statali di Foggia. In totale sono stati osservati 30 insegnanti, all’interno di 17 sezioni, appartenenti complessivamente a 14 scuole dell’infanzia. La somministrazione dello strumento è stata effettuata nei mesi da novembre 2013 a maggio 2014, secondo le modalità procedurali indicate per lo strumento (D’Ugo, 2013), e con il supporto di uno staff di 18 osservatori (alcuni già esperti, altri alla prima esperienza) che ha consentito anche modalità di doppia osservazione per 8 insegnanti. Il gruppo degli osservatori ha seguito una formazione e un accompagnamento all’uso dello strumento sia in fase iniziale, sia in itinere, con lo scopo rendere il più possibile coerenti le modalità di raccolta dei dati. Sono poi stati svolti alcuni incontri anche in fase finale per raccogliere tutte le riflessioni critiche emerse durante le osservazioni. In totale, per gli osservatori delle scuole emiliano-romagnole, sono stati svolti 8 incontri di formazione e accompagnamento6; ogni osservatore novizio, inoltre, ha avuto la possibilità di chiedere supporto metodologico in itinere agli osservatori esperti.

5 6

Si vedano in particolare le considerazioni critiche al termine della prima validazione in D’Ugo, Vannini (2013). Per gli osservatori di Roma e di Foggia sono stati svolti incontri iniziali (una giornata a tempo pieno) e un supporto costante durante lo svolgimento delle osservazioni e al termine.

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Zona geografica

Appartenenza istituzionale

Numero scuole

Numero e tipo sezioni7

Numero insegnanti osservati

Bologna città

Paritarie comunali

6

7 2(3a)-3(4a)2(et.)

14 (+ 8 doppie osservazioni)

Provincia emiliana

Statali

3

4 3(3a)-1(5a)

8

Roma città

Paritarie Private

3

3 3(et.)

3

Foggia (provincia)

Statali

2

3 3(et.)

5

17

30 (38 osservazioni)

TOTALE

14

Tab. 1: Collocazione geografica e istituzionale delle scuole di appartenenza degli insegnanti osservati.

108

È interessante rimarcare che, all’interno dei due gruppi di scuole emiliano-romagnole sono stati osservati 6 insegnanti con doppio osservatore e l’indice di concordanza ha dato risultati molto positivi, pari al 76%. Sulle osservazioni complessive svolte è utile infine evidenziare che l’analisi della coerenza interna della scala PraDISI (così come nella prima validazione dello strumento) ha fornito nuovamente esiti molto confortanti, pur mettendo in luce la necessità di continuare a riflettere criticamente su alcuni item che evidenziano divergenze importanti con le restanti parti dello strumento (si vedano in particolare gli item in corsivo nella Tab. 3), come l’item relativo alle prassi che promuovono l’educazione alle differenze culturali o i due item relativi alla didattica per le competenze motorie. Su tali indicatori e descrittori occorrerà porre un’attenzione particolare anche nelle prossime somministrazioni dello strumento. Nelle tabelle 2 e 3 è possibile osservare i risultati dell’analisi della coerenza interna con il modello statistico dell’Alpha di Cronbach8. Correlazione item-totale

Item PraDISI

7

1 accoglienza dei bambini e dei genitori

0.857

2 circle time di inizio giornata educativa

0.620

3 igiene personale

0.569

4 pranzo

0.648

5 riposino

0.820

6 commiato dai bambini e dai genitori

0.637

Alpha Totale

0.876

Tab. 2: Analisi della coerenza interna degli item 1-6 del PraDISI “Le routine della giornata educativa”. Alpha totale e correlazione item-totale9

7 8 9

Nella seconda riga compaiono le caratteristiche delle sezioni osservate e il loro numero relativo (3a-sezione di 3 anni; 4a-sezione di 4 anni; 5a-sezione di 5 anni; et.-sezione eterogenea). Per un’analisi più dettagliata delle caratteristiche metrologiche dello strumento si rimanda all’articolo D’Ugo, Vannini del 2013, pubblicato in CADMO. Vengono esclusi l’item 22 e 23, relativi alle scelte complessive di metodo dell’insegnante.

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Correlazione item-totale

Item PraDISI 7 linguaggio attivo e passivo tra i bambini

0.715

8 scambi verbali adulto/bambini

0.880

9 logica e ragionamento

0.679

10 spazio, ordine e misura

0.401

11 natura, ambiente, ecosostenibilità

0.684

12 motricità fine

0.641

13 motricità globale

0.305

14 motricità ritmica

0.361

15 esperienze creative e pratico-manipolative

0.447

16 musica

0.640 Dato mancante

17 tecnologie e nuovi media 18 qualità dell’interazione sociale tra bambini e insegnante 19 gioco spontaneo dei bambini

0.897

20 educazione alle differenze culturali

0,246

0.586

21 cittadinanza

0.682

Alpha Totale

0.865

Tab. 3: Analisi della coerenza interna degli item 7-21 del PraDISI “Promozione delle competenze di base”. Alpha totale e correlazione item-totale.

3.2 Profili PraDISI in differenti contesti Al fine di portare un’esemplificazione dell’uso della Scala PraDISI, per una valutazione formativa delle prassi didattiche nella scuola dell’infanzia, vengono brevemente presentati i profili di ciascuno dei quattro contesti che sono stati esplorati nell’anno 2013/14. Ogni profilo evidenzia i punteggi medi nei vari item della Scala per ogni gruppo di scuole. Per favorire una lettura di sintesi, i profili delle figure dalla 2 alla 5 presentano i punteggi medi per le micro-aree del PraDISI, cioè per gruppi di indicatori tra loro strettamente coerenti (dal punto di vista sia concettuale sia statistico), come ad esempio l’area “prassi didattiche dell’insegnante durante le routines della giornata educativa”, che raggruppa gli item 1,2,3,4,5,6. Alcuni item sono invece presentati nei profili in modo singolo, data la loro specificità all’interno della Scala, come ad esempio gli indicatori relativi alle prassi che promuovono un’educazione all’interculturalità e alla cittadinanza. Vengono inoltre omessi i punteggi relativi ai due nuovi item sulle prassi didattiche di esplorazione della lettura e della scrittura da parte dei bambini, in quanto sono stati utilizzati solo in un numero ridotto di situazioni e sono ancora in fase di revisione, da parte di consulenti esperti nella didattica dell’italiano dell’Università di Bologna10. Come si può osservare inizialmente dal grafico della Fig. 1, emergono fin da

10 Viene inoltre omesso anche l’item 17, sulla promozione delle competenze tecnologiche dei bambini, in quanto è stato possibile rilevarlo solo in rarissime situazioni, a causa dell’assenza di strumentazioni tecnologiche nelle scuole dell’infanzia.

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subito quattro situazioni particolarmente differenziate tra loro, che tuttavia – se lette in modo complessivo e relativamente a campioni non rappresentativi di scuole – rischiano di non fornire alcuna informazione utile, bensì solo un dato generico di maggiore o minore criticità all’interno di ciascun contesto osservato. !"#$%&&'()*%+'()'#$%,-)./-0-)!,-1232) !" #$%&&'()*%+'()'#$%,-)./-0-)!,-12 1 32)

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Fig. 1: Punteggi medi Scala PraDISI per ciascun gruppo di insegnanti osservati nei 4 contesti (Punteggi da 10 a 50).

110 Ciò che invece appare maggiormente utile, è andare ad esplorare ciascun singolo profilo PraDISI, per cogliere i punti di forza e di debolezza delle prassi didattiche osservate, al fine di immaginare possibili ricadute formative e di riprogettazione entro i vari contesti. Nelle situazioni osservate all’interno del gruppo di scuole comunali della città di Bologna (si veda la Fig. 2), si nota un profilo con varie aree di eccellenza, con alcuni punti di caduta. Ad esempio si evidenzia una estrema cura per la promozione delle competenze dei bambini durante i momenti delle routine quotidiane (approfondendo l’analisi ai singoli itm si potrebbe poi notare la qualità delle prassi didattiche nei momenti dell’accoglienza, del commiato, del circle time del mattino, …), oppure nella didattica dedicata alla motricità (soprattuto fine), alle attività logico-matematiche, espressive e artistiche. Mentre vi sono alcune criticità importanti sulle quali sarebbe necessario riflettere, in particolare nelle prassi didattiche dedicate alla natura, alle scienze, all’educazione ambientale. Ancora, sarebbe importante discutere con gli insegnanti le scelte di metodo, dedicate maggiormente a prassi di personalizzazione rispetto a quelle di individualizzazione.

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Fig. 2: Punteggi micro-aree PraDISI per gruppo di insegnanti osservati nelle scuole comunali della città di Bologna (14 insegnanti).

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Fig. 3: Punteggi micro-aree PraDISI per gruppo di insegnanti osservati nelle scuole statali della provincia emiliana, in particolare Bologna e Modena (8 insegnanti).

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Diverso è il profilo delle prassi didattiche osservate nel gruppo di scuole statali della provincia emiliana (si veda la Fig. 3), dove emergono ancora punti di forza importanti nella conduzione delle routine quotidiane e nelle attività dedicate alla promozione di competenze motorie ed espressivo-artistiche, ma appare in generale una situazione di maggiore omogeneità di prassi di livello buono: in ambito linguistico, logico-matematico, scientifico e dell’educazione ambientale, nella promozione delle competenze sociali dei bambini. Vi è poi qualche punto di criticità più evidente nelle prassi dedicate all’educazione alle differenze culturali e nella scelta metodologica della personalizzazione.

Fig. 4: Punteggi microaree PraDISI per gruppo di insegnanti osservati nelle scuole paritarie private della città di Roma (3 insegnanti).

Altrettanto peculiare è il profilo delle prassi didattiche osservate nelle 3 sezioni di alcune scuole paritarie private di Roma (si veda la Fig. 4). Anche qui emerge una situazione di forte disomogeneità fra le varie microaree del PraDISI; vi sono infatti ambiti dove si evidenzia una notevole cura didattica da parte degli insegnanti, quali la conduzione delle routine quotidiane, l’educazione linguistica e quella socio-relazionale. Mentre vi sono criticità molto serie (con punteggi minimi) nella didattica in ambito scientifico, motorio, espressivo-artistico, dell’educazione alle differenze culturali. Inoltre l’apetto metodologico più trasversale dell’individualzzazione pare essere dimenticato.

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Infine è interessante osservare il profilo delle prassi didattiche in alcune scuole dell’infanzia della provincia di Foggia (si veda la Fig. 5), che ripropongono nuovamente un contesto di scuola statale, con maggiore differenziazione tra i picchi alti e quelli bassi rispetto al gruppo di scuole statali emiliane. Si osservano infatti punti di eccellenza nella conduzione delle routine, nelle prassi dedicate alla promozione delle competenze linguistiche e socio-relazionali, nell’utilizzo della strategia dell’individualizzazione. Mentre vi sono punti di forte debolezza nelle prassi di educazione alle differenze culturali, nell’uso delle strategie di personalizzazione e, ma solo lievemente, nella didattica dedicata alle scienze naturali e alle competenze espressive e artistiche.

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112

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Fig. 5: Punteggi microaree PraDISI per gruppo di insegnanti osservati nelle scuole statali della provincia di Foggia (5 insegnanti).

Si tratta ovviamente solo di alcuni brevi commenti iniziali ai grafici presentati; primissimi spunti dai quali far scaturire ulteriori approfondimenti e interpretazioni a partire dalle specifiche caratteristiche di ciascun contesto. Ma è proprio qui che da un lato si arrestano e dall’altro lato riemergono le potenzialità del PraDISI. Si tratta, come abbiamo scritto, di uno strumento osservativo che vorrebbe mettersi al servizio di una funzione formativa del valutare. Il dato raccolto, capace di dare garanzia di validità e di affidabilità rispetto all’idea di qualità dichiarata, costituisce l’occasione e il pretesto per una sua interpretazione collettiva da parte dei soggetti osservati, nell’ottica di una valutazione autenticamente formativa (Becchi, Bondioli, 2004) capace di portare a riflessioni e confronti e a negoziare decisioni in modo democratico (House, Howe, 2003). Lo scopo è quello di fondare una riprogettazione della didattica su evidenze giustificabili e su processi di riflessività, personale e collegiale, che portino ad una crescita professionale gli insegnanti che si sono “messi in gioco” come soggetti osservati.

4. La funzione formativa del PraDISI: questioni aperte Il PraDISI rende evidente che agli insegnanti di oggi sono richieste sempre più competenze culturali, didattiche e organizzative. Questo comporta per gli insegnanti non solo l’acquisizione di nuove competenze, ma anche di nuove consapevolezze. Per prima cosa, ad esempio, la progettazione non potrà più essere considerata come “un modo semplicistico di rassicurarsi”, come un mero adempimento burocratico, ma dovrà divenire un indispensabile strumento per fare con-

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tinuamente il punto sugli obiettivi prefissati/raggiunti dai bambini e, soprattutto, sulla qualità delle scelte metodologiche effettuate. È appunto in questa prospettiva che intende collocarsi il PraDISI: il miglioramento dell’agire professionale degli insegnanti; e quindi un conseguente progresso della qualità delle proprie azioni didattiche muove da una metodologia valutativa di tipo diagnostico-formativo. Questo significa che l’osservazione in classe avrà l’obiettivo principale di rilevare, elaborare e restituire i dati raccolti ai docenti coinvolti al fine di incidere effettivamente sulle loro competenze professionali di “pensiero sulla pratica”: dalla condivisione di indicatori, alla riflessione sul metodo e sull’uso affidabile delle procedure di rilevazione dei dati, alla costruzione di significati condivisi da attribuire ai dati rilevati e alle possibili interpretazioni di cause e opportunità di riprogettazione educativa e didattica. Utilizzare dunque procedure osservative quali il PraDISI può incidere fortemente sui processi di innovazione dei singoli contesti perché apre alla costruzione di rappresentazioni progettuali condivise, sia in merito all’azione educativa e didattica, sia in merito all’immagine stessa di professionalità docente del singolo che si riconosce in una comunità professionale sempre più di qualità. Il fine, nel procedere con questa metodologia, è quello di un controllo più intelligente ed istruito delle proprie prassi assoggettando la realtà scolastica ad un’analisi in grado di giungere all’adozione di un metodo di indagine che sappia affrancare gli individui e che sappia includere nella professionalità docente quell’unità tra teoria e prassi «che implica lo spostamento dal paradigma della conoscenza contemplativa a quello della conoscenza attiva: si passa da una forma di sapere che è tipica di uno spettatore disinteressato delle cose dell’educazione, alla forma di sapere che è propria dell’attore, di colui che è impegnato attivamente a far fronte ai problemi educativi» (Baldacci, 2010, p. 11). Troppo spesso, gli insegnanti in particolare, le scuole in generale, non operano decisioni educative in senso stretto. Infatti «gran parte dei comportamenti scolastici sono privi di alternative; essi pertanto non determinano un problema e quindi non richiedono una decisione» (Vertecchi, 1993, p. 34). Il PraDISI, attraverso un suo uso affidabile e per mezzo del momento riflessivo che ne consegue, ha tra le principali intenzionalità quella di condurre gli insegnanti verso nuovi problemi e conseguenti decisioni, così da raggiungere un primo traguardo verso il cambiamento e il miglioramento della propria didattica. In questo senso, il PraDISI si propone come un’opzione in grado di condurre verso un decentramento (e un relativo rinnovamento) dalle scelte di gestione della scuola in generale, del fare didattica in particolare (Gattullo, 1984, pp. 65-69). È facilmente comprensibile come la sola ipotesi di una valutazione in merito alle proprie prassi didattiche generi negli insegnanti, da un lato, la consapevolezza di un possibile miglioramento della propria professionalità, ma, dall’altro lato, un radicato timore e una diffusa diffidenza difficilmente superabili. Per provare ad arginarli, sembra necessario assumere (e farla assumere anche agli insegnanti), come si è visto, la sfida della qualità attribuendole il chiaro ruolo di «principio regolatore della propria azione professionale, riconoscendola non tanto come richiesta del sistema sociale, bensì come tensione originaria dell’azione pedagogica verso lo sviluppo del potenziale umano e la riflessione critica sull’atto educativo» (Barbier, 1989, p.18). Un’azione di questo tipo pare dunque comportare alcune possibilità/necessità che lasciamo come questioni aperte, sulle quali continuare a riflettere insieme alla comunità pedagogica:

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1. l’opportunità per gli insegnanti di decentrarsi e di agire (guidati dai dati emersi da questi strumenti) una riflessione collegiale all’interno delle scuole; 2. la messa in crisi di un’autovalutazione “solitaria”, molto importante, indubbiamente, nei plurimi contesti scolastici, ma sempre più bisognosa di una rigorosa eterovalutazione che sappia adeguatamente affiancarla; 3. l’esigenza, nondimeno, di “entrare” dettagliatamente nel merito delle prassi didattiche per poter assumere decisioni consapevoli di riprogettazione e miglioramento della didattica stessa all’interno delle scuole, con il supporto di formazione in servizio di cui oggi più che mai gli insegnanti necessitano; 4. la necessità di una eterovalutazione che non “cade dall’alto” e lascia soli gli insegnanti e le scuole nell’analisi e interpretazione dei dati, ma che si fa supporto e accompagnamento ai loro processi di riflessione e di riprogettazione. Tutto ciò con l’obiettivo principale di investire per il miglioramento della qualità dei contesti e della didattica delle scuole del nostro sistema scolastico, e non per la loro classificazione in base ai meri risultati conseguiti.

5. Potenzialità e problematicità dello strumento PraDISI 114

Il PraDISI è risultato molto utile, nel lavoro con gli insegnanti, come strumento centrale all’interno di percorsi di valutazione finalizzati ad incrociare una molteplicità di sguardi, esterni ed interni, sulla qualità dei processi didattici. E questo anche per la possibilità di usarlo con metodologie differenti: come strumento di eterovalutazione da parte di un osservatore esterno, come “questionario” di autovalutazione per il singolo insegnante, sia ancora come strumento osservativo da usare reciprocamente tra insegnanti di sezioni diverse. Proprio grazie a questi riscontri, le autrici ritengono necessario, da un lato, continuare a lavorare sul PraDISI al fine di renderlo uno strumento il più possibile affidabile e valido rispetto alle idee di qualità dichiarate come presupposti teorici e, dall’altro lato, continuare ad esplorarne gli usi connessi all’ottica della valutazione formativa e del sostegno alla professionalità docente. La possibilità, ad esempio, di analizzare specifiche situazioni di realizzazione della didattica attraverso punti di vista differenti – uso del PraDISI in autovalutazione da parte di insegnanti, come strumento osservativo da parte di coordinatori pedagogici o fra insegnanti-colleghi nella reciprocità della rilevazione di dati – rappresenta (soprattutto se i dati “interni” mantengono la possibilità di essere infine messi a confronto con i dati di rilevazioni esterne maggiormente oggettive) una opportunità potenzialmente molto efficace per sostenere il pensiero riflessivo dell’insegnante e le conseguenti sue attività di riprogettazione della didattica. A fronte dei risultati positivi che i percorsi guidati dall’uso dello strumento PraDISI stanno offrendo, occorre individuare due necessarie condizioni di utilizzo della scala PraDISI, pena la invalidità del processo di raccolta dei dati: 1. l’importanza di chiarire – a tutti gli “attori” del contesto scolastico – il motivo ultimo per il quale si sta compiendo l’osservazione e le intenzionalità politicoistituzionali che guidano l’utilizzo dello strumento. Tali intenzionalità devono essere aderenti all’idea di una valutazione formativa, volta primariamente al miglioramento della didattica attraverso l’individuazione di punti di criticità sui quali agire per progettare il cambiamento. Non si osserva per classificare o selezionare, bensì si osserva per disporre di dati validi che consentano di assumere decisioni in merito all’innovazione delle proposte didattiche;

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2. la necessità di usare il PraDISI come una delle molteplici possibilità di osservazione e valutazione della qualità all’interno della scuola dell’infanzia. La Scala presenta infatti caratteristiche e indicatori molto specifiche che consentono di “catturare” solo alcuni aspetti delle realtà scolastiche, ma non altri. Ciò significa che il PraDISI necessita di un uso in complementarietà con strumenti differenti (di osservazione del contesto, ad esempio), in modo tale da avere uno sguardo più ricco e valido sulle realtà studiate.

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Lo sguardo degli studenti sulle ingiustizie a scuola Silvia Kanizsa - Università degli Studi di Milano Bicocca - silvia.kanizsa@unimib.it Germana Mosconi - Università degli Studi di Milano Bicocca - germana.mosconi@unimib.it Andrea Garavaglia - Università degli Studi di Milano Bicocca - andrea.garavaglia@unimib.it

Students’ view about injustice at school

Students’ perceptions regarding injustice at school are widespread in every educational stages and refer especially to classroom management and learning assessment strategies used by teachers. In this contribution we present the results of an investigation about injustice at school, realized asking to 175 university students of three different courses (Primary education sciences and Human Resource Development at University of Milan – Bicocca and Engineering Management of Politecnico di Milano) to describe one incident of injustice regarding their past school experiences. The research was conducted using mixed method approach. The results highlight the importance of student’s perception of injustice about the relationship between students and teachers and among students, the importance of assessment criteria and the importance of teaching strategies adopted.

Parole chiave: studenti, insegnanti, giustizia, ingiustizia, relazione studenti-insegnanti, valutazione

Keywords: student, teachers, justice, injustice, student-teacher relationship, assessment

Il presente contributo completamente condiviso dai tre autori, è stato così stilato: S. Kanizsa ha curato i par. 2 e 3; G. Mosconi ha curato i par. 1 e 5.1 e A. Garavaglia ha curato i par. 4 e 5.2. Le conclusioni sono frutto del lavoro congiunto. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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ricerche

I vissuti di ingiustizia sono molto diffusi tra gli studenti di qualsiasi ordine di scuola ed essi si riferiscono soprattutto alla gestione della classe da parte degli insegnanti e alla valutazione degli apprendimenti. In questo articolo vengono riportati i primi risultati di un’indagine condotta chiedendo a 175 studenti universitari di Scienze della Formazione Primaria, Formazione e Sviluppo delle Risorse Umane (Università di Milano Bicocca) e di Ingegneria Gestionale (Politecnico di Milano) di descrivere un episodio di ingiustizia di cui erano stati soggetti o testimoni a scuola. L’analisi, condotta con metodi qualitativi e quantitativi, secondo l’approccio mixed-method, ha fornito interessanti riflessioni sul peso che i vissuti di ingiustizia degli studenti hanno nella relazione in classe con gli insegnanti e con i compagni, nella valutazione e più in generale nel processo di insegnamento e apprendimento.


Lo sguardo degli studenti sulle ingiustizie a scuola

Introduzione

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Il dibattito intorno ai temi della giustizia e dell’ingiustizia è da sempre presente negli ambiti filosofico, sociologico, giuridico e organizzativo (Greenberg, 1997; Boudon, 2002; Sandel, 2012; Colombo, 2013) mentre in ambito pedagogico è stato approfondito solo recentemente. Diversi studi in ambito pedagogico e psicologico (Bosisio, 2008; Dalbert et al. 2007; Berti et al., 2010; Gorad, 2012; Molinari et al. 2012; Chory et al., 2013) sostengono che i vissuti di giustizia e di ingiustizia sono molto diffusi negli studenti di tutte le età che ne parlano soprattutto in relazione alla disciplina e alla valutazione. Gli stessi studi hanno messo in luce lo stretto rapporto fra l’immagine di giustizia e di ingiustizia a scuola e la motivazione all’apprendimento, le relazioni che si instaurano con i compagni e con gli insegnanti e più in generale il piacere del quotidiano e a volte faticoso andare a scuola. Spesso gli studenti ritengono che le ingiustizie degli insegnanti siano frutto di pregiudizio (Kanizsa, Garavaglia & Mosconi, 2013; Dalbert et al., 2010) e reagiscono agli interventi ritenuti ingiusti con una forte risposta emotiva che influisce sul rendimento, sull’atteggiamento nei confronti delle istituzioni ed infine sulla capacità di collaborare all’interno di un gruppo (Chory, 2007; Chory-Assad, 2002, Chory, 2013; Berti et al., 2010). Altri autori, (Chory-Assad,2002; Chory-Assad & Paulsel 2004 a-b; Berti et al., 2010) focalizzandosi sul processo di valutazione inteso come attribuzione di voti e sulle procedure di assegnazione degli stessi, hanno applicato i concetti di giustizia distributiva (percezione dell’equità nella distribuzione dei voti), e giustizia procedurale (percezione di imparzialità nei metodi e nelle procedure valutative) al contesto scolastico, mentre dagli studi organizzativi è stato estrapolato il concetto di giustizia nelle relazioni intesa come tutti quegli aspetti che caratterizzano le interazioni personali, quali ad esempio lealtà, coerenza e correttezza (Cropanzano & Greenberg,1997). Queste tre diverse accezioni del concetto di giustizia concorrono alla definizione della giustizia in classe.

1. Giustizia e ingiustizia nella relazione educativa Non risulta cosa facile definire cosa sia giusto o ingiusto poiché questi termini sottendono una pluralità di significati che presentano sfumature diverse a seconda dei contesti in cui vengono impiegati, vale a dire quello economico, politico, giuridico, sociale e scolastico. Basti pensare che in ambito filosofico i termini “giusto” e “ingiusto” hanno assunto significati diversi a seconda della corrente di pensiero all’interno della quale venivano presi in considerazione. Alcuni studi sociologici e psicologici hanno evidenziato che ciascun individuo ha proprie idee, immagini e rappresentazioni di cosa sia giusto e ingiusto che derivano dalla sua storia e dalle sue esperienze (Lerner,1980; Schmitt et al.,1995), ma anche dalla contingenza storico-culturale e sociale in cui vive (Jedlowski, 2011). Sulla base di

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queste, in relazione alla propria storia di vita, al contesto in cui è nato e cresciuto e alle esperienze fatte, ciascuno esprime giudizi personali riguardo idee, situazioni, relazioni, persone o oggetti che incontra quotidianamente (Boudon, 2002). È importante distinguere i giudizi (di giustizia e ingiustizia) dai princìpi in quanto mentre i primi vengono elaborati in occasione di episodi specifici, i secondi li possiamo considerare espressione di carattere generale, che sottendono la formulazione di un giudizio, lo orientano e gli conferiscono un senso. Può accadere così che giudizi e princìpi si vengano a trovare in una situazione di conflitto, poiché in certe situazioni i princìpi non sono sufficienti o adeguati per giustificare la presenza di un certo giudizio (Sandel, 2012). Anche a scuola studenti e insegnanti, sulla base delle rappresentazioni, delle intuizioni e delle idee che essi possiedono sulla giustizia e sull’ingiustizia, valutano come giusti o ingiusti gli episodi di cui sono protagonisti o osservatori, col risultato che la stessa situazione può essere interpretata dai diversi soggetti in modo differente, generando discrepanze tra la lettura che degli episodi fanno gli studenti e quella che ne fanno gli insegnanti. In una parola, può capitare che gli studenti vivano come ingiusti comportamenti o scelte che per gli insegnanti sono dettate da princìpi di giustizia col risultato di rendere problematica la relazione fra loro e la classe (Chory, 2007). L’apprendimento dello studente presenta strette correlazioni con le modalità relazionali dell’insegnante: è noto che l’interesse per una materia deriva più spesso da come l’insegnante si comporta con la classe che dai contenuti della materia stessa (Kanizsa, 2007). Fra le altre modalità spiccano i modi con cui comunica gli esiti di una prova, oppure come reagisce alle difficoltà degli allievi (Dalbert et al., 2007). L’insegnante è “giusto” quando è competente, ma anche quando è in grado di porsi in relazione in modo corretto, trasparente e coerente (Kanizsa, Garavaglia & Mosconi, 2013). In una parola perché sia un buon insegnante non basta che egli sia interessato solo da una frenesia metodologica e strumentale (De Vecchi & Carmona-Magnaldi,1999) ma è importante che curi anche gli aspetti relazionali e comunicativi che danno senso agli strumenti utilizzati.

2. Una ricerca sull’ingiustizia a scuola Riflettere sui termini di giustizia e di ingiustizia nella relazione insegnante-allievi offre la possibilità di analizzare le dinamiche comunicative utilizzate in classe, nonché di delineare le differenti figure di insegnanti e i loro stili di insegnamento. Come vivono gli studenti la relazione col docente quando si sentono trattati ingiustamente o ritengono che siano state compiute ingiustizie nei confronti dei compagni, è uno degli aspetti più interessanti da indagare, così come quanto questi vissuti influenzano il loro modo di studiare e il desiderio di continuare a praticare la materia di cui l’insegnante “ingiusto” è titolare. Per poter iniziare a rispondere a questi quesiti abbiamo chiesto a 3 gruppi di studenti universitari iscritti al Corso di laurea magistrale in Scienze della Formazione Primaria, al Corso di laurea magistrale in Formazione e Sviluppo delle Risorse Umane e al Corso di laurea in Ingegneria Gestionale1 di “descrivere un episodio di giustizia e uno di ingiustizia

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I primi due corsi sono dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, mentre il terzo è del Politecnico di Milano.

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vissuti a scuola”. Normalmente nella letteratura sull’argomento si tende a chiedere conto delle ingiustizie e delle giustizie a scuola a studenti frequentanti. La nostra decisione di chiedere a studenti universitari di descrivere un episodio scelto fra quelli accaduti durante tutto il percorso scolastico precedente è maturata dalla convinzione che gli scritti avrebbero riportato ricordi non contingenti ma senz’altro significativi. In questo contributo vengono presentati in particolare i risultati riguardanti gli episodi di ingiustizia, che, come evidenziato nella tabella 1 (si veda paragrafo successivo) sono in numero maggiore rispetto agli episodi di giustizia. Già nella letteratura psicologica, del resto, è riportato che i contenuti negativi sono ricordati dal soggetto in misura maggiore di altri ritenuti neutri (Kensinger & Corkin, 2003) probabilmente perché hanno colpito maggiormente la persona nel suo complesso. Riteniamo perciò che gli scritti dei nostri soggetti siano testimonianza degli eventi per loro più significativi dell’intero arco scolastico.

3. Metodologia della ricerca 120

La ricerca è stata realizzata facendo ricorso all’approccio mixed method. Grazie ad esso il gruppo di ricerca ha potuto focalizzare e approfondire l’oggetto di analisi scegliendo nei momenti opportuni i metodi e gli strumenti ritenuti adeguati (Rossman & Wilson, 1985). Questa modalità di procedere è stata attuata grazie all’adozione del Cuncurrent Transformative Design (Creswell et al., 2003) attivando un processo virtuoso di avvicinamento all’oggetto indagato per circoscrivere i risultati. Nel caso specifico è stata predisposta una prima fase di raccolta dei dati qualitativi (prevalenza dei metodi qualitativi su quelli quantitativi), mentre i dati quantitativi sono stati successivamente elaborati sulla base della decodifica dei qualitativi in categorie (codebook) attraverso un processo di transcodifica (Creswell, 2009). I dati qualitativi sono stati raccolti durante alcune lezioni universitarie, dove agli studenti è stato chiesto in forma anonima2 di “descrivere un episodio di giustizia ed uno di ingiustizia vissuti a scuola” su un foglio (in un caso gli studenti hanno descritto gli episodi utilizzando i propri pc portati in aula durante le lezioni, riducendo notevolmente i tempi di raccolta dati e gli errori di trascrizione). I singoli contributi raccolti sono stati inizialmente letti dal gruppo di ricerca, quindi è stata effettuata una analisi delle co-occorrenze (nello specifico associazioni di parole, Co-word analysis, confronti tra coppie e analisi delle sequenze) attraverso il software T-lab e in seguito è stata effettuata una lettura critica maggiormente approfondita nell’ottica di individuare gli elementi e i fattori principali delle giustizie e delle ingiustizie. L’analisi è stata completata con l’analisi quantitativa delle frequenze delle categorie estratte dalla transcodifica. Con il presente contributo si intende concentrare l’analisi sulle ingiustizie dato il peso rilevante ricavato a livello quantitativo: i nostri soggetti non sempre hanno ricordato episodi di giustizia (in questo non discostandosi dai risultati degli studi psicologici in materia già ricordati nel paragrafo precedente), infatti sono stati registrati 175 episodi ingiustizia e 114 di giustizia, così distribuiti per livello scolastico dell’episodio narrato:

2

L’anonimato non ha permesso di differenziare i risultati per genere perciò non è stato possibile stabilire se maschi e femmine abbiano rilevato lo stesso tipo di ingiustizie.

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Livello scolastico

Giustizia

Ingiustizia

Totale

Infanzia

0

0

0

Primaria

16

22

38

Secondaria di I grado

15

23

38

Secondaria di II grado

69

110

179

Indefinito

14

20

34

Totale

114

175

289

Tab.1: Distribuzione delle testimonianze di giustizia e ingiustizia nei diversi livelli scolastici

4. Le ingiustizie in classe: la parola agli studenti Prima di procedere all’approfondimento di questa tematica, è necessario puntualizzare alcuni dati emersi dall’elaborazione quantitativa, in modo particolare il fatto che nel 93% dei casi i soggetti descrivono una situazione di ingiustizia avvenuta in classe ad opera dell’insegnante. In particolare nel 36,6% dei casi l’insegnante si è dimostrato ingiusto nei confronti di tutta la classe e nel 31,4% ha agito contro un singolo studente. 4.1 Pregiudizi e ingiustizie La maggior parte delle ingiustizie riferite dai soggetti avviene nel momento in cui l’insegnante valuta la prestazione della classe o di un singolo studente in modo diverso dalle sue/loro aspettative (55,4% delle ingiustizie) Un esempio tipico è una valutazione differente di compiti identici perché copiati “2 compiti uguali sono stati valutati in modo differente”(045223) e ciò avviene, a detta di tutti i soggetti, perché gli insegnanti hanno delle preferenze: “Spesso succedeva che i professori dessero voti in base alla simpatia e non alla preparazione effettiva”(04528); “Seconda superiore: una compagna pensa che l’insegnante abbia una preferenza negativa nei suoi confronti. Dopo il terzo 4 in un tema ha deciso di riconsegnare il compito rifatto copiandolo da un tema precedente di un’altra compagna che aveva ottenuto un 6,5. Il risultato della correzione di questo tema è stato un ennesimo 4. Sicuramente questa prof che non aveva riconosciuto il tema come già fatto è stata ingiusta”(01038); “Un’insegnante della mia classe, avendo preso in antipatia una mia compagna, le dava come voto sempre 5,5 sia nelle interrogazioni che nei compiti in classe, indipendentemente dalla sua preparazione”(01009). Nel 56% dei casi di ingiustizia descritti la causa è dovuta, a detta degli scriventi, al fatto che gli insegnanti agiscono e valutano sulla base di pregiudizi. In una parola i soggetti affermano che il docente, prima ancora di aver chiara la situazione di ciascun studente e lasciandosi guidare dal proprio intuito personale e professionale,

3

I codici qui assegnati ai singoli stralci raccolti mantengono fedelmente le codifiche utilizzate dal gruppo di ricerca.

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stabilisce sin dall’inizio dell’anno scolastico gli esiti del processo di apprendimento. Ecco alcune testimonianze a riguardo: “Alle superiori… avevo dei professori che basavano il loro giudizio scolastico principalmente dal primo voto che prendevi in quella materia. Spesso accadeva che nonostante avessi studiato, venivo comunque penalizzato … peccato che il mio professore sia tuttora convinto che io sia da cinque e mezzo!”(02503); e ancora: “… la prima verifica è andata male e da allora le altre. Mi trovavo errori corretti come sbagliati … In questo modo io potevo accumulare le insufficienze e la prof. Continuare a classificarmi come ‘anti-inglese’…”(02532); in un’altra testimonianza si legge che “fin dal primo giorno di liceo mi ha classificata come quella che per l’impegno si meriterebbe 8 ma non è all’altezza della sua materia e purtroppo questa ‘etichetta’ me la sono portata per ben quattro anni di scuola”(02524); e ancora: “Prendere sempre lo stesso voto sulla base non dell’elaborato ma dell’idea fatta di me nei primi giorni dell’insegnamento”(04516). La presenza di un pregiudizio richiama l’attenzione sulle idee preconcette che un insegnante può formulare su uno o più studenti. Tali idee vengono ripetutamente confermate dalla lettura che il docente stesso fa della realtà circostante e di quanto accade in essa e a loro volta orientano e significano gli accadimenti in classe come si evince dalle seguenti tali testimonianze: “è stato un incubo: la mia insegnante non mi ha gratificata, mi ha sempre umiliata davanti ai miei compagni, non ha mai voluto cambiare opinione su di me”(02518). E ancora: “è un’ingiustizia perché il voto più basso non è determinato da un contenuto sbagliato, da errori ortografici o imprecisione nel linguaggio, ma fondamentalmente da un’idea, da un’immagine già ben chiara e definita nell’insegnante, in cui quella persona non potrà mai prendere più di un determinato voto e un’altra persona potrà sempre e solo avere valutazioni più che positive nonostante il lavoro svolto non sia più che sufficiente”(02533). Il vissuto di ingiustizia, poi, è maggiormente avvertito (29,7%) quando gli insegnanti perseverano nel giudicare negativamente o sempre nello stesso modo uno studente, sottovalutando il suo impegno e la sua volontà di migliorare in una certa disciplina, come si evince da queste testimonianze: “episodi di ingiustizia che ho vissuto quando ero al liceo riguardano principalmente le valutazioni. Ad esempio persone che non meritavano un voto alto ma che lo ricevevano lo stesso sulla ‘fiducia’, al contrario persone che abitualmente prendevano voti bassi, ma facevano un’ottima performance, continuavano a prendere voti bassi” (01020) e ancora: “Votazione/valutazione dei compiti in classe falsate da giudizi pregressi su alunni. Ovvero, se un alunno fosse valutato ad inizio anno per un voto di 6, per il resto dell’anno avrebbe sempre 6...” (02009).

Graf. 1: Grafico delle associazioni del termine “valutazione”

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In sintesi riportiamo le parole di un soggetto che così commenta le ingiustizie cui ha assistito durante i suoi anni scolastici: Durante la mia carriera scolastica ho vissuto molti episodi di ingiustizia e purtroppo pochi di giustizia… ho assistito ad episodi nei quali gli insegnanti non mostravano propriamente la loro professionalità. Per esempio mi è capitato di veder promossi alunni che non si impegnavano e che mancano di rispetto ai professori, mentre vedere bocciati ragazzi che avevano evidentemente delle difficoltà ma che tutto sommato avevano bisogno solo di un po’ più di aiuto (02505).

4.2 Immagini di insegnanti ingiusti Un primo “pacchetto” di episodi di ingiustizia risulta essere legato alle immagini di insegnanti che emergono dai protocolli analizzati. Il 21,7% degli studenti ritiene che i propri insegnanti siano inadeguati nell’insegnamento della loro disciplina in classe e il 11,4% che siano poco rispettosi nei loro confronti. Ad esempio il vissuto di giustizia è profondo e insanabile di fronte ad insegnanti incapaci di assumere in maniera adeguata il loro ruolo come si evince da questa affermazione: “Il professore di diritto arrivava in classe, si sedeva, apriva il giornale e leggeva per tutta la durata della lezione. A volte succedeva che anziché leggere il giornale stava per ore e ore al telefono” (02006), o ancora: “il docente di educazione fisica dirigeva la lezione dalla finestra della sala insegnanti mentre i ragazzi stavano in cortile…” (01056). Il fatto che episodi di questo tipo siano considerati ingiusti è interessante perché indica che gli studenti non gradiscono docenti che utilizzano uno stile di insegnamento che Lewin avrebbe definito di laissez faire (Lewin, Lippit & White,1939) non si sentono apprezzati, vale a dire si sentono svalutati. Ciò che appare evidente dalle affermazioni sopra riportate è la poca attenzione dei docenti nella relazione con gli studenti, sia da un punto di vista educativo che didattico. In altre parole, il senso di ingiustizia negli studenti nasce da un’inadeguatezza dei docenti nell’esplicitare il proprio ruolo nelle scelte didattiche e metodologiche che facilitano l’apprendimento, nel rispetto degli studenti in quanto tali e in quanto persone, come si comprende da queste parole: “Durante un anno delle scuole superiori il professore di elettronica non spiegava efficacemente e pretendeva gli argomenti a livello universitario e non esitava a dare valutazioni negative a tutta la classe”, e ancora:“in seconda media il professore di matematica durante le verifiche spiegava nuovi argomenti, con la conseguenza che le verifiche avevano risultati catastrofici”(4543). Come anticipato, nel 55,4% delle ingiustizie la percezione di insegnanti ingiusti perché poco professionali o poco attenti agli aspetti relazionali riguarda chiaramente episodi di valutazione (Dalbert et al., 2010; Dalbert et al., 2007), a testimonianza del fatto che è proprio quando gli studenti si sentono valutati, e ciò capita spesso durante le ore scolastiche, che nascono vissuti di ingiustizia. Ecco alcune testimonianze a riguardo: “La valutazione finale mia e dei miei compagni di corso è stata decisa molto prima della prova di maturità rendendo quest’ultima un’inutile buffonata”. E ancora: “valutazione finale penalizzata dall’educazione fisica per un motivo di discussione con la professoressa che tra l’altro non faceva il suo dovere!” (04560). La difficoltà nell’apprendimento e nel raggiungimento di risultati soddisfacenti pare rendere ancora più difficile la relazione con gli insegnanti a testimonianza del fatto che questi ultimi incontrano evidentemente delle difficoltà a stabilire un buon rapporto con chi mostra scarso rendimento e scarso interesse. Del resto una ricerca IARD del 2007 sul rapporto fra i giovani e la scuola già dimostrava come il 33% dei maschi e

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il 35% delle femmine con cattivo rendimento scolastico sosteneva di intrattenere rapporti poco soddisfacenti con gli insegnanti, mentre solo l’11% dei maschi e il 23% delle femmine con buon rendimento affermavano lo stesso (Cavalli & Argentin, 2007, p. 39). Un elemento ulteriore che nasce dalle caratteristiche personali e professionali degli insegnanti e che alimenta il vissuto di ingiustizia degli studenti è legato al fatto che alcuni docenti si comportano in modo da essere considerati modelli negativi. I nostri soggetti, infatti, dimostrano di avere una chiara idea di insegnante “giusto” e stigmatizzano ogni comportamento che a loro avviso esula dal loro modello. In una parola gli studenti si aspettano che l’adulto sia irreprensibile da un punto di vista morale e che non possa permettersi “errori” nel modo di atteggiarsi, pensare e agire, pena la squalifica in quanto persona da parte degli studenti stessi. Ecco alcune testimonianze a questo riguardo: “Alle superiori la docente di psicologia durante le interrogazioni si faceva massaggiare collo e spalle da una nostra compagna eletta massaggiatrice fissa. Il risultato per noi studenti interrogate non era ottimale: la docente mentre rispondevi alle domande dava indicazioni alla massaggiatrice su come migliorare il lavoro e su quali fossero i punti critici” (1049); e ancora: “La mia professoressa di filosofia e pedagogia delle superiori chiedeva tanto rispetto e puntualità quando invece lei era la prima a non darceli”…(1008). Vi sono poi casi in cui a compiere l’ingiustizia sono i compagni di classe e non l’insegnante, ma, i nostri soggetti hanno messo in luce che a loro parere ingiusti sono stati i docenti che, in quanto detentori di competenze educative e didattiche, avrebbero dovuto intervenire tempestivamente a punire i colpevoli: “nella mia classe c’erano alunni che per saltare verifiche e interrogazioni stavano a casa in modo sistematico… non sono mai stati penalizzati per questo loro comportamento, anzi a rimetterci erano i presenti… che venivano anche criticati per la scarsa preparazione”(04556). E ancora: “ingiustizia nella gestione delle assenze in relazione alle valutazioni di scritti e prove orali… ci sono alunni che nonostante la programmazione delle interrogazioni non si presentano e anzi vengono interrogati quando fa loro più comodo… questo atteggiamento non fa altro che alimentare la competizione e l’invidia tra alunni e spesso anche l’odio verso i professori” (04558). In una parola ciò che viene chiesto agli insegnanti, in quanto adulti di riferimento, è un loro intervento puntuale che garantisca il rispetto dei diritti di ciascuno. Il senso di ingiustizia nasce dalla domanda: “perché gli insegnanti apparentemente non si accorgono delle dinamiche presenti nella classe?” e nel caso se ne accorgano, perché non intervengono? Ne esce ancora una volta l’immagine di insegnante poco attento e rispettoso e, sostanzialmente poco professionale. Se, come emerge da alcune ricerche in proposito (Resh & Sabbagh, 2009), è nella relazione con gli insegnanti in classe che gli studenti sviluppano idee e riflessioni intorno ai temi della giustizia e dell’ingiustizia, la “sospensione” del giudizio da parte dei docenti di fronte ad episodi come quelli poco fa riportati conduce ad un’incomprensione vissuta dagli studenti come ingiustizia. Ciò fa supporre che le stesse situazioni possano essere lette in modo diverso dagli attori coinvolti. Un esempio può essere quello di un insegnante che viene vissuto come ingiusto perché “favorisce” una studentessa in difficoltà: “Il nostro professore di storia e filosofia (un bravissimo professore che pretendeva molto da noi, ma che in cambio ci ha ampliato moltissimo la mente) favoriva particolarmente una nostra compagna per farle raggiungere il 6 almeno nelle sue materie… la nostra compagna doveva capire da sola se quella scuola era adatta per lei o no…” (1052).

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Conclusioni Gli scritti dei nostri soggetti, a qualsiasi corso di laurea e genere appartengano, denotano una sostanziale uniformità nel descrivere ciò che è per tutti loro l’ingiustizia a scuola, che è fatta di valutazione basata su preferenze, idee preconcette, pregiudizi e incapacità di cambiare opinione: in una parola nella svalutazione dello studente e nel non ascolto delle sue peculiarità o dei suoi tentativi di farsi apprezzare (Kanizsa, Garavaglia & Mosconi, 2013; Kanizsa, 2007; Kanizsa & Genovese, 1999; Berti C., Molinari L. & Speltini G., 2010), ma anche di scelte compiute nel tentativo di aiutare quelli che gli insegnanti ritengono essere studenti in difficoltà ma meritevoli, mentre i compagni sono del parere contrario. Se tali scelte, che nascono da un desiderio di dimostrare di essere “giusti” in senso “distributivo”, vale a dire da un tentativo di individualizzare la valutazione, non derivano da una consuetudine di lavoro basato sul potenziamento e l’apprezzamento delle capacità dei singoli che dia la sensazione a ciascuno di essere compreso e valutato per quello che vale e non in base a un confronto con i compagni, è facile che non vengano comprese, anzi che vengano lette come frutto di una preferenza. Gli studenti, in una situazione più tradizionale e meno individualizzata, in genere tendono (almeno a quanto emerge dai nostri soggetti) a ritenere desiderabile una messa in pratica di una giustizia “procedurale” perché apparentemente più uniforme e spersonalizzata e in ogni caso non amano un cambio, a loro sentire improvviso, di direzione nella conduzione della valutazione; per loro l’insegnante giusto è quello che utilizza sempre e comunque gli stessi criteri di valutazione per tutti e non ne adotta di diversi nei confronti di alcuni, perché questo è vissuto come svalutante e ingiusto nei confronti degli altri. Le descrizioni fatte dai nostri soggetti delle modalità comportamentali, verbali e non verbali, implicite o esplicite, adottate dai loro docenti descrivono il clima all’interno delle classi e danno l’idea di ciò che i loro insegnanti ritenevano essere un “buon” modo di fare scuola (Postic,1983). È nell’ambito di queste dinamiche comportamentali che si vivono le situazioni di giustizia o di ingiustizia che, soprattutto per quanto riguarda le seconde, rimangono a volte sospese, non verbalizzate, poco chiare e dunque foriere di significati ambigui e spesso dannosi nel percorso di apprendimento. La competizione tra alunni, le idiosincrasie verso i professori sono cioè frutto di comportamenti e atteggiamenti dei docenti che spesso vengono mal interpretati dagli studenti (Blandino & Granieri, 1995). Va anche detto, e gli scritti dei nostri soggetti lo testimoniano, che la valutazione, sia positiva che negativa, non è mai vissuta in modo neutro, ma interviene sull’immagine di sé come persona in grado di apprendere o meno e di conseguenza su ciò che si pensa delle proprie possibilità future. Se, al contrario, la relazione si basa sul rispetto profondo, sull’accettazione autentica dell’altro e sul porsi in modo aperto e non giudicante è probabile che un atto seppur ingiusto si trasformi in occasione di riflessione, di rivisitazione dei motivi che lo hanno generato, di presa di coscienza delle diverse strade che le azioni avrebbero potuto intraprendere. Un siffatto clima relazionale facilita l’espressione delle percezioni personali relative all’esperienza vissuta così ciò che in altre situazioni rimane “sospeso”, non verbalizzato, o comunicato in termini ambigui, qui può trovare lo spazio e il tempo delle parole condivise.

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Riferimenti bibliografici

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Docenti precari: resilienza e promozione del benessere Alessandra La Marca - Università di Palermo - alessandra.lamarca@unipa.it Marcello Festeggiante - Università di Palermo - marcello.festeggiante@unipa.it Sabrina Schiavone - Università di Palermo - sabrina.schiavone@unipa.it

Temporary teachers: resilience and welfare promotion In recent years, resilience has been object of studies and reflections within the national and international scientific community. Free from an abstract theoretical context, resilience has now become a work praxis and a methodology for all professions. The theoretical model usually adopted defines resilience as the ability to face stressful events, overcome them and continue to grow by increasing one’s own resources with a consequent positive reorganization of life. Our survey aimed at analyzing and measuring the level of resilience of a group of 543 temporary sicilian teachers. We tried and tested their ability to activate useful resources to withstand a common specific and difficult situation (that is the achievement of the teaching qualification) and their ability to adopt coping and appraisal strategies starting from resilient qualities and allowing the successful resolution of critical events. The instrument we used for our survey was the questionnaire of RPQ by Laudadio, Mazzocchetti and Pérez (2011), which offered the opportunity to assess the different components of resilience and has allowed us to obtain various information on personal, emotional and behavioral resources to which resilient teachers appeal in critical and stressful situations. The final discussion of the results contains some directions for future researches related both to the theory and practice of resilience with teachers.

Parole chiave: resilienza, coping, appraisal, docenti, Resilience Process Questionnarie

Keywords: resilience, coping, teachers, Resilience Process Questionnarie

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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In questi ultimi anni la resilienza è stata oggetto di una serie di studi e di riflessioni della comunità scientifica nazionale e internazionale, che le hanno consentito di affrancarsi dall’ambiente teorico astratto entro cui si collocava, per diventare prassi e metodologia di lavoro per tutte le professioni. Nel modello teorico adottato si definisce la resilienza come la capacità di affrontare eventi stressanti, superarli e continuare a svilupparsi aumentando le proprie risorse con una conseguente riorganizzazione positiva della vita. Con la nostra indagine ci siamo proposti di analizzare e misurare il livello di resilienza di un gruppo di 543 docenti (precari) siciliani. Abbiamo verificato la loro capacità di attivare risorse necessarie per resistere ad una specifica e comune situazione difficile (conseguire l’abilitazione), nonché la capacità di adottare strategie di coping e appraisal che prendendo l’avvio dalle qualità resilienti, consentano la risoluzione positiva degli eventi critici. Lo strumento utilizzato per la nostra indagine è il questionario RPQ di Laudadio, Pérez e Mazzocchetti (2011) che offrendo la possibilità di valutare le diverse componenti della resilienza, ci ha consentito di ottenere molteplici informazioni sulle risorse personali, affettive e comportamentali alle quali gli insegnanti resilienti fanno appello nelle situazioni critiche e stressanti. Nella discussione generale dei risultati si presentano infine alcune indicazioni per future ricerche nell’ambito della teoria e della prassi della resilienza con insegnanti.


Docenti precari: resilienza e promozione del benessere

1. Finalità e obiettivi della ricerca

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Negli ultimi anni ha suscitato notevole interesse la capacità degli esseri umani, e di alcuni di essi in particolar modo, di saper trasformare un evento critico, potenzialmente destabilizzante, in un motore di ricerca personale che consente di riorganizzare positivamente l’esistenza. Questa capacità, denominata resilienza, permette l’avvio di un progetto di vita capace di integrare le luci con le ombre, la sofferenza con la forza, la vulnerabilità con la capacità di riorganizzarsi e riorganizzare la rete familiare e sociale esistente o di ampliarle a secondo dei bisogni. Gli studi che hanno indagato la capacità resiliente di adattarsi positivamente e rapidamente agli eventi stressanti e che hanno messo in relazione questa abilità con il processo di regolazione delle emozioni e nello specifico con alcune delle sue componenti quali il coping, l’appraisal e le emozioni positive hanno offerto un notevole contributo alla comprensione del processo resiliente. Diversi sono i progetti di potenziamento della resilienza realizzati negli ultimi vent’anni che hanno visto, come destinatari, prevalentemente bambini e adolescenti trascurando però il mondo degli adulti e dei giovani adulti. All’interno del mondo degli studi sulla resilienza è da tempo in atto un acceso dibattito tra gli studiosi che considerano la resilienza come un tratto di personalità, fisso, stabile nel tempo e quindi misurabile (Connor & Davidson, 2003) e coloro che invece non la considerano come un tratto di personalità, bensì come un processo dinamico che varia in differenti contesti. Non si nasce resilienti ma lo si può diventare, in presenza di avversità, come risultato della contrapposizione tra fattori di rischio e fattori di protezione. La resilienza viene vista come un processo dinamico che varia in differenti contesti (Rutter, 2000). La ricerca si propone di analizzare e misurare il livello di resilienza di un gruppo di docenti siciliani precari frequentanti i PAS1; si tratta di valutare la capacità di resistere alla situazione stressante di incertezza professionale e, nonostante questa, di reagire positivamente a tale stress per il raggiungimento di un preciso obiettivo -il conseguimento di una abilitazione- via indispensabile per raggiungere una stabilità lavorativa. Allo stesso tempo abbiamo avuto modo di verificare se lo strumento utilizzato, il Test RPQ, attualmente validato in Italia da Laudadio, Pérez e Mazzocchetti (2011) con ragazzi di età compresa tra i 15 e i 20 anni, potesse essere utilizzato anche con adulti.

2. Quadro teorico di riferimento Presentiamo le principali prospettive teoriche sulla resilienza, partendo da una panoramica sui vari ambiti di studi che si sono occupati di questo costrutto (psi-

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Percorsi Abilitanti Speciali dell’Università degli Studi di Palermo nell’a. a. 2013/2014.

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cologia positiva, umanistica, e di comunità), procedendo, quindi, a un’analisi delle diverse possibili definizioni di resilienza per poi affrontare la questione teorica, sulla quale gli studiosi hanno a lungo dibattuto, ovvero la natura della resilienza come tratto o come processo. Attraverso una presentazione delle diverse posizioni in merito a questo dibattito si è giunti ad illustrare la prospettiva e il modello teorico di Richardson che insieme a quello di Kumpfer suggeriscono la doppia natura della resilienza, vista quindi sia come tratto e stato che come processo. Il termine resilienza ha una derivazione latina come forma iterativa del verbo “salire” ed indica l’azione del “rimbalzare” o “saltare indietro per prendere un’altra direzione” (Laudadio, Pérez, Mazzocchetti, 2011). Nella letteratura medievale il termine indicava l’azione dei naufraghi di risalire dalle barche rovesciate, ma il significato di resilienza assume sfumature diverse a seconda dell’ambito disciplinare al quale viene applicato. Esso, infatti, nasce in campo matematico-ingegneristico, indicando la capacità di un materiale, sottoposto a sforzi meccanici, di resistere ad urti e pressioni senza incorrere in rottura; non a caso il suo opposto, in ingegneria, è la fragilità. In campo informatico, esso indica la capacità di un sistema di continuare a funzionare nonostante difetti o anomalie degli elementi costitutivi del sistema stesso (Malaguti, 2005). In fisica la resilienza coincide con la legge di Hooke che indica la relazione esistente tra la sollecitazione esercitata su un corpo, la sua deformazione e la capacità di riassumere la forma iniziale. Ma il significato più affine alla resilienza applicata alle discipline umanistiche si ritrova in biologia, in cui esso indica la capacità di un tessuto di rigenerarsi o riacquisire funzionalità a seguito di un evento traumatico. La psicologia ha assunto questo concetto intendendolo come la capacità di un soggetto di attuare processi di riorganizzazione positiva della propria esistenza, nonostante l’aver vissuto esperienze critiche, stressanti, traumatiche o difficili che avrebbero, invece, lasciato prevedere un esito negativo (Milani & Ius, 2010). I primi studi sulla resilienza si devono a Emmy Werner e al suo gruppo di ricerca che condusse uno studio longitudinale sullo sviluppo di un gruppo di bambini dell’isola Kauai, nelle Hawaii (Werner, 1989, 1993, 1995; Werner & Smith, 1992). Lo studio condotto nel 1955, coinvolse 698 neonati di cui ne fu seguito lo sviluppo per circa trent’anni; i ricercatori avevano previsto che almeno un terzo di questi bambini avrebbe manifestato esiti di sviluppo a rischio, eppure lo studio rivelò, per 72 bambini, uno sviluppo positivo a dispetto delle situazioni vissute. Gli studi della Werner appaiono estremamente innovativi, poiché pongono l’accento sui motivi di riorganizzazione positiva di una vita che il trauma lo ha subìto. Da questi studi, numerose sono le definizioni di resilienza che sono state formulate nelle scienze umane e sociali, allontanando questo costrutto dal campo strettamente psicologico. Carver (1998) la definisce come competenza di un individuo di ripristinare lo stato di equilibrio; Vanistendael (1998) come la capacità di ottenere successi e sviluppi positivi, nonostante forme di stress e avversità; Rutter (2000) la intende come esito positivo di patologie o non sviluppo di esse. Altre definizioni pongono l’accento sull’adattamento positivo di un soggetto a situazioni stressanti (Masten, 1994), sulla capacità di adattarsi ad avversità, tragedie o stress notevoli uscendo fuori dall’esperienza negativa (Alvord, Gurwitch, Martin & Palomares, 2003), sulla capacità di superare effetti deleteri delle situazioni avverse (Grotberg, 1995) o la capacità non tanto di resistere alle situazioni

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difficili, quanto piuttosto di comprendere quali risorse attivare per ritrovare una dimensione positiva della vita (Canevaro, Malaguti, Miozzo, & Venier, 2001). Ciò che vale la pena precisare è che la resilienza in campo umanistico e sociale non si limita ad una semplice resistenza, ma piuttosto è la ricostruzione di un percorso di vita positivo che trasforma le esperienze avverse in opportunità per ripartire (Vanistendael & Lecomte, 2000). Dal breve excursus tracciato, si evince, dunque, che il significato della resilienza si rintraccia sempre nella relazione tra un evento e un soggetto, o più precisamente nella reazione del soggetto all’evento. Sul piano delle discipline umanistiche è più opportuno definire la resilienza come una vera e propria competenza risultante dall’interazione tra individuo-tempo-contesto, poiché permette agli individui di interpretare gli eventi e reinterpretare la loro storia personale attraverso la trasformazione di se stessi (Laudadio, Mazzocchetti, & Pérez, 2011). Significa, altresì, mantenere il proprio equilibrio e stabilità attraverso il cambiamento. Per occuparsi di resilienza si deve, dunque, invertire il paradigma di lettura del deficit e degli esiti negativi per porre attenzione alle risorse e alle opportunità di vita di ciascun individuo. Saleebey (1997), propone una prospettiva delle risorse che rivolga l’attenzione alla resilienza alle avversità, alla realizzazione e allo sviluppo personale mediante il superamento delle difficoltà passate, al rafforzamento delle aspettative e delle aspirazioni individuali, nonché all’uso delle doti, delle risorse e delle conoscenze dell’individuo, della famiglia, del gruppo e della comunità. La resilienza non è uno stato, ma un processo (Vaillant, 1993) ed un processo dinamico che determina l’adattamento positivo all’interno di un contesto avverso; implica, pertanto, due presupposti: l’esposizione ad un rischio e l’adattamento positivo malgrado esso. È proprio rispetto alla relazione tra fattori di rischio e protettivi che Fergus e Zimmerman (2005) hanno individuato tre possibili modelli di resilienza: il modello compensativo, protettivo e di sfida. Nel modello compensativo il fattore di protezione opera in senso contrario rispetto a quello di sfida, determinando un esito positivo sull’evento; il modello protettivo, prevede che il fattore protettivo riesca a moderare o ridurre l’azione dei fattori di rischio; infine, il modello di sfida non prevede un esito definito nella relazione tra fattori di rischio e protettivi, bensì il risultato di queste forze resta curvilineare, vale a dire che l’esposizione a livelli di rischio più o meno alti è associata ad esiti negativi, mentre l’esposizione a livelli moderati di rischio è associata ad esiti negativi di minore entità. Nella prospettiva di sviluppo e crescita, i tre modelli indicati da Fergus e Zimmerman (2005), determinano che l’esposizione a processi compensativi, protettivi e/o di sfida preparino il soggetto ad affrontare le avversità. In letteratura, esistono numerosi modelli di resilienza; quelli di Richardson e di Kumpfer si ritengono di particolare importanza per il loro approccio sistemico al costrutto. Secondo il modello di Richardson (1990, poi ripreso nel 1992 e nel 2002) la resilienza è l’energia che permette ad un individuo, pur attraversando difficoltà e squilibri esistenziali, di raggiungere la motivazione, disporre la ripresa e realizzare la propria crescita personale. Secondo tale modello, rappresentato in figura 1, non è possibile, dunque, valutare l’incidenza di un trauma sulla vita di un soggetto con i soli metodi oggettivi, è piuttosto necessario mettere al centro la percezione personale che l’individuo ha del trauma stesso. Nel suo modello Richardson (Richardson, 2002; Richardson, Neiger, Jensen & Kumpfer, 1990) propone quattro tipologie di reintegrazione:

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– la reintegrazione con ritorno all’omeostasi, che consiste in un ritorno alla originaria condizione di equilibrio, ma senza crescita del soggetto e senza lo sviluppo di caratteristiche resilienti; – la reintegrazione resiliente con crescita, che si riferisce al processo di coping che determina una reale crescita dell’individuo, con comprensione di se stessi e sviluppo, dunque, di competenze resilienti; – la reintegrazione con perdita, che si realizza quando le persone mancano di motivazione e speranza nel futuro in seguito all’evento traumatico, dimostrando di non utilizzare le potenzialità e le capacità necessarie al superamento del trauma stesso; – la reintegrazione disfunzionale, che si realizza quando il soggetto adotta risposte inadeguate al fronteggiamento del disagio, come uso di sostanze stupefacenti, abuso d’alcool o attuazione di comportamenti distruttivi per evitare il fronteggiamento delle avversità. Il modello di Kumpfer (2002), in figura 2, anch’esso basato su un approccio sistemico, vede la resilienza come risultato della relazione tra evento traumatico, contesto ambientale, fattori di resilienza interni al soggetto, processo di resilienza, adattamento e reintegrazione. Tale modello considera la reciprocità tra Sé e ambiente, e i fattori soggettivi di questa relazione assumono un ruolo fondamentale; dunque, le situazioni non sono oggettivamente traumatiche o stressanti, ma sono percepite come tali dall’individuo in relazione alla rappresentazione che il soggetto ha di esse, alle sue valutazioni. È a seguito di tali valutazioni che l’individuo stabilirà se possiede le risorse necessarie a fronteggiare il trauma e, dunque, ad attuare strategie resilienti. Entrambi i modelli sopra esposti presuppongono un’interrelazione tra sé e ambiente per lo sviluppo della resilienza, in cui la resilienza stessa è sia una componente del processo adattivo che il suo esito (Putton & Fortugno, 2006). Tale riflessione permette di considerare, pur nell’approccio sistemico allo studio della resilienza, la prospettiva ecologica, come consigliano numerosi autori (McGuinness, McGuinness, & Dyer, 2000). Non si può, infatti, fare a meno dell’approccio ecologico, poiché la resilienza di un soggetto che si trova ad affrontare un evento critico ha bisogno della presenza di un ambiente a sua volta resiliente, che cerchi, cioè, di ristabilire l’equilibrio compromesso piuttosto che ostacolarne un suo ripristino. Nella sua teoria ecologica, Bronfenfrenner (1979) individua i quattro noti livelli concentrici e interdipendenti di microsistema, mesosistema, esosistema e macrosistema, che rappresentano le relazioni che intercorrono tra l’individuo e l’ambiente, e che indicano che l’azione sul soggetto è tanto più rilevante quanto più il sistema gli è vicino. Degno di nota è il modello di Vanistandael e Lecomte (2000), esso infatti risulta innovativo poiché propone una visione integrata sia delle condizioni ambientali che individuali necessarie alla promozione e sviluppo della resilienza. Gli autori intendono la resilienza come costrutto complesso rappresentandolo con l’immagine di una costruzione complessa: la “casita”2. La casita è posta sul suolo che è rappresentato dai bisogni fisici fondamentali dell’uomo; le fondamenta sono rappresentate dalla rete di relazioni informali che i soggetti intessono nella loro vita, quelle relazioni improntate all’accettazione del-

2

http:\\www.educarchile.cl\ech\pro\app\detalle?id=100191 estratto il 28/09/2014.

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l’uomo, in quanto portatore di valore come persona. Al pianterreno gli autori pongono la coerenza tra pensieri, sentimenti e azioni che consentono all’individuo di scoprire e accettare il senso dell’esistenza. È attraverso questa coerenza che il soggetto realizza azioni e progetti concreti che comportano l’assunzione di una responsabilità. Al primo piano, si pongono la stima, le attitudini e l’umorismo; infine, nel solaio tutte le esperienze positive di cui un individuo può fare esperienza e che contribuiscono allo sviluppo del costrutto di resilienza. Va detto, inoltre che tale rappresentazione degli autori non è rigida, ma può essere utilizzata per la costruzione della resilienza a partire da qualsiasi “piano” della casa. Dall’insieme di queste ricerche emerge l’idea che tra i possibili meccanismi psicologici, responsabili della capacità di adattarsi agli eventi stressanti in modo rapido ed efficiente con una conseguente reintegrazione resiliente, vi siano l’appraisal e il coping, meccanismi che sono parte del più ampio processo di regolazione delle emozioni. Nella quotidianità della vita le persone sono costantemente impegnate a valutare (appraisal) ciò che succede attorno a loro e a rispondere (coping) in modo selettivo e finalizzato a ciò che si presenta come un pericolo, una minaccia o una ricompensa Le emozioni non nascono, quindi, nel vuoto ma sono l’esito di come l’ambiente è valutato dal soggetto in relazione al proprio benessere e al raggiungimento dei propri obiettivi. Differenti valutazioni conducono a differenti emozioni. È quindi il significato delle situazioni in quanto stimoli e non la loro natura oggettiva a costituire il fattore determinante per l’occorrenza delle diverse emozioni. Le emozioni non sono solo l’esito del processo di valutazione delle situazioni (appraisal) ma anche del modo con il quale facciamo fronte ad esse (coping). Il rapporto tra coping ed emozioni è, infatti, bidirezionale dove l’uno influenza le altre e viceversa. Come già detto, l’appraisal di una situazione genera una emozione e questa influenza il processo di coping che a sua volta va a modificare la relazione tra la persona e la situazione. Questa relazione modificata viene rivalutata (reappraisal) e tale rivalutazione può portare a un cambiamento del tipo o dell’intensità dell’emozione sperimentata. In questo modo il coping diventa un mediatore della risposta emotiva. L’appraisal e il coping oltre ad essere strettamente in relazione tra loro, giocano quindi un ruolo fondamentale all’interno del processo di generazione e gestione delle emozioni. Si evince, infine, dagli studi e dai modelli esposti che lo sviluppo della resilienza non può avvenire nel soggetto in solitudine, essa si realizza nella relazione con gli altri, siano essi adulti per i soggetti in crescita o i pari e la famiglia per i soggetti adulti. Essere resilienti significa, in sintesi rimanere altamente produttivi anche nelle turbolenze e nelle difficoltà, significa capitalizzare esperienze e far tesoro di esse, così come dei propri errori per guardare avanti con energia, fiducia nei propri mezzi e voglia rinnovata di superare positivamente nuove sfide.

3. Strumenti di misura della resilienza Per quanto complesso il costrutto di resilienza è valutabile e misurabile; la letteratura attuale offre tredici strumenti (realizzati dal 1993 al 2010) per la sua misurazione, di cui dieci multidimensionali e tre monodimensionali. Gli strumenti differiscono tra loro rispetto alle dimensioni che li costituiscono; le dimensioni più ricorrenti, competenze personali e supporto sociale, sono presenti solo in quattro strumenti su dieci, mentre più della metà delle dimensioni

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ricorre solo in uno strumento (Laudadio, Colasante, & D’Alessio, 2009). Questo trova la sua ragione nel fatto che la maggior parte degli strumenti adotta come criteri per la formulazione degli item, le caratteristiche specifiche degli individui resilienti, ispirandosi ai più svariati modelli. Attualmente gli strumenti validati in Italia sono sei: il Resiliency Attitudes and Skills Profile (2001), l’Adolescent Resilience Scale (2002), la Connor-Davidson Resilience Scale (2003) la Resilience Scale for Adults (2006), la Brief Resilience Coping Scale (2004) e la Brief Resilience Scale (2008). Il Resiliency Attitudes and Skills Profile messo a punto da Hurtes e Allen (2001) è basato sulle caratteristiche dell’individuo resiliente formulate da Wolin e Wolin (1993): intuizione, creatività, indipendenza, umorismo, iniziativa, relazioni sociali e orientamento morale. È stato validato su due campioni di circa 500 soggetti di età compresa tra i 12 e i 19 anni. L’Adolescent Resilience Scale è stata realizzata da Oshio, Kaneko, Nagamine e Nagaka (2002), si compone di tre dimensioni: ricerca della novità, controllo emozionale, orientamento ad un futuro positivo. La scala si rivolge a un campione di studenti universitari con età compresa tra i 19 e i 23 anni. La Connor-Davidson Resilience Scale è stata validata su un campione di 577 adulti; lo strumento articolato in cinque fattori ha subìto numerose critiche e rivisitazioni dall’originario processo di validazione (Connor & Davidson, 2003). Dalla validazione italiana, compiuta su un campione di soggetti con età compresa tra i 15 e i 25 anni, è emerso che lo strumento è in grado di rilevare due sole dimensioni, pertanto il suo uso risulta parziale se non associato ad altri strumenti. La Resilience Scale for Adults vede la conclusione del suo complicato processo di validazione con Friborg, Martinussen e Rosenvinge (2006), che propongono l’uso del differenziale semantico piuttosto che la scala Likert. La Brief Resilience Coping Scale, è stata realizzata da Sinclair e Wallston (2004), con l’obiettivo di avere uno strumento breve che potesse individuare i soggetti con buona autoefficacia, capacità di problem solving, coping e alta resilienza. La sua versione iniziale da 9 item fu ridotta a 4 e questo rappresenta per lo strumento un’arma a doppio taglio, poiché la rende di facile utilizzo, ma di fragile validità interna. La Brief Resilience Scale, infine, realizzata da Smith, Dalen, Wiggins, Tooley e Christofer (2008), si basa su sei item e si ispira ad un concetto di resilienza come capacità di recupero dopo un evento traumatico, così come il costrutto è inteso dagli stessi autori; la validità interna molto alta porta, inoltre, i soggetti a produrre risposte di ridotta variabilità. Esistono, inoltre, altre scale di misurazione di cui non esiste ad oggi la validazione italiana: la Dispositional Resilience Scale (Bartone, 1995), la Barut Protective, Factors Inventory (Baruth & Caroll, 2002), la Multi Trauma Resilience Recovery (Harvey, Liang, Harney, Koenen, Tummala-Narra & Lebowitz, 2003) e la Resilience Scale for Adolescent (Friborg, Hjemdal, Rosenvinge, & Martinussen, 2003). In lingua italiana esistono anche tre scale di valutazione: la Resilience Scale (2009), la Egoresiliency Scale (2005) ed il Resilience Process Questionnaire (2011). La Resilience Scale (Wagnild & Young, 1993) composta da 25 item su scala Likert a 7 passi, si basa su cinque dimensioni di resilienza: perseveranza, equilibrio, unicità, fiducia in se stessi e ricerca di significato. La sua validazione italiana ad opera di Girtler et al. (2009) è stata realizzata su un campione di 1090 studenti. La Egoresiliency Scale, costruita e validata da Block e Kremen (1996), è costituita da 14 item ed ha una struttura unidimensionale. Essa è incentrata sul costrutto di ego-resilienza, intesa dagli autori come capacità di adattamento e autoregolazione, anche mediante modifica dell’ambiente circostante. In Italia lo

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strumento è stato oggetto di studio da parte di Caprara, Steca e De Leo (2003) e Fonzi e Menesini (2005); nel suo adattamento italiano risultano due fattori di resilienza, l’autoregolazione e l’apertura alle esperienze. Il Resilience Process Questionnaire è stato validato in Italia da Laudadio et al. (2011) su un campione di oltre 3000 soggetti, di età compresa tra i 15 e i 20 anni. L’RPQ si articola in tre dimensioni: la reintegrazione con perdita o disfunzionale (che fa convergere le due dimensioni di reintegrazione con perdita e reintegrazione disfunzionale di Richardson in un’unica dimensione), la reintegrazione resiliente e il ritorno all’omeostasi. L’articolazione dello strumento in 15 item lo rende abbastanza fruibile, senza che questo perda validità interna a causa di una eccessiva brevità e può essere somministrato sia collettivamente che individualmente3.

4. La scelta e la somministrazione dell’RPQ-test

136

Dopo aver vagliato i diversi reattivi proposti il letteratura per la misurazione del costrutto di resilienza, si è scelto il Resilience Process Questionnaire perché presenta una buona validità concorrente e predittiva e, pur essendo stato validato con adolescenti, si ritiene adeguato ad essere utilizzato nella presente ricerca poiché, essendo ispirato al modello di Richardson et al. (1990), ha il vantaggio della multidimensionalità. L’RPQ-test, inoltre, non vanta solo una validazione italiana, bensì nasce nel contesto italiano e questo evita eventuali alterazioni dei risultati da influenze culturali. Il test opera una contrazione delle dimensioni del modello di Richardson da 4 a 3: questo, però, non altera la validità di costrutto poiché associa le due dimensioni affini di reintegrazione disfunzionale e reintegrazione con perdita; entrambe, infatti, rappresentano un atteggiamento non resiliente del soggetto che manifesta improprie risposte al disagio o non mostra più fiducia nel futuro. L’RPQ-test è stato somministrato mediante l’utilizzo del LimeSurvey un software Open Source4. Si tratta di un software estremamente flessibile in grado di accogliere le più complesse istanze di ricerca CAWI (Computer Assisted Web Interviewing)5. LimeSurvey al suo interno crea frequenze semplici e grafici (anche visibili all’intervistato) e tutti i dati sono esportabili, ad esempio, in Excel.

3

4

5

Esso, inoltre, si basa su una scala Likert a cinque passi (1= Per nulla d’accordo; 5= Del tutto d’accordo), per cui il soggetto esprime il suo grado di accordo o disaccordo con le affermazioni proposte; l’uso della scala Likert presenta rispetto al differenziale semantico, il vantaggio di non lavorare su situazioni bipolari, piuttosto consente al soggetto di esprimere quanto è d’accordo con l’item e non a quale livello intermedio si colloca rispetto a due situazioni opposte. LimeSurvey è una piattaforma dedicata alla realizzazione e alla gestione di questionari e sondaggi online; già conosciuto come PHPSurveyor, Lime Survey è un applicativo distribuito con licenza GNU GPL versione 2, scritto in PHP e basato su database MySQL (o PostgreSQL, o MSSQL). Sia dal lato client sia da quello di amministratore la piattaforma è intuitiva e di facile gestione. Le tipologie di variabili a disposizione coprono pressoché ogni esigenza. Si possono effettuare salti fra variabili o sezioni e il questionario è aperto a tutti oppure chiuso su invito via mail. La compilazione può essere anonima ma si possono raccogliere alcuni parametri quali indirizzo IP, ora di inizio e di fine compilazione utili a migliorare l’analisi dei dati.

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I vantaggi derivanti dall’uso di un sistema CAWI sono state, nel nostro caso, di duplice natura: da un lato l’utilizzo di un sistema di rilevazione attraverso la rete è risultato funzionale non soltanto per la riduzione dei tempi, quanto perché consentito di ridurre la probabilità di errore che in genere è sempre presente al momento di tabulare i dati raccolti. La somministrazione online ha permesso inoltre ai partecipanti di trovare il momento ed il luogo più adatto alle proprie esigenze. 4.1 Il campione Il campione è composto da 543 insegnanti siciliani (71,09% femmine e 28.91% maschi), di età compresa tra 25 e 58 anni, di cui il 40 sono tra i 35-40 anni6. Più variegato il panorama relativo al titolo di studio. Tipologia

numero

Percentuale

Scuola Secondaria di II grado

60

11.05%

Laurea

478

88.03%

Master II livello

109

20.07%

Dottorato di ricerca

13

2.39%

Altro

29

5.34%

Non tutti i docenti che hanno frequentato il PAS sono in possesso di una laurea, difatti, in alcuni casi (11%) il solo diploma di Scuola Secondaria di II grado offre già l’accesso ad alcune classi di concorso. Ben oltre il 22%, di chi è in possesso di laurea, ha anche frequentato un master e/o un dottorato di ricerca. Tale dato merita sicuramente un’analisi più specifica e particolareggiata in merito alla formazione dei futuri docenti. L’ordine di scuola in cui i frequentanti il PAS insegnano prevalentemente è la Scuola Secondaria di II grado. Tuttavia esistono delle differenze tra questo e l’abilitazione che si avviano a conseguire. Sappiamo sin da adesso che, in alcuni casi, infatti, alcuni docenti stanno conseguendo un’abilitazione per una classe di concorso sulla quale non insegnano abitualmente. La quasi totalità dei docenti punta sulla scuola secondaria di primo e/o di secondo grado. Da notare che una percentuale non trascurabile di quasi il 10% lavora prevalentemente nell’ambito della formazione professionale.

5. Risultati 5.1. Il test RPQ Lo scoring dei risultati è stato eseguito seguendo le indicazioni del manuale dello stesso RPQ.

6

I docenti intervistati sono così suddivisi 20-30 anni (1,3%); 31-40 (60%); 41-50 (33%), 51-60 (4,9%).

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Si è proceduto al calcolo del punteggio grezzo per ciascuna area indagata dal questionario, nonché alla relativa conversione di questi ultimi in punteggi standard. Il calcolo dei punteggi per ogni area, tiene conto del genere dell’intervistato. Secondo il modello di Richardson le tre aree si presentano nel seguente modo: – RPD: Reintegrazione con Perdita o Disfunzionale, punteggi superiori a 8 sono tipici di un soggetto che non è in grado di superare eventi traumatici o stressanti e che manca della forza per affrontarli, superarli o accettarli. – RR: Reintegrazione Resiliente, punteggi superiori a 8 si associano ad una forte resilienza del soggetto. – RO: Ritorno all’Omeostasi, punteggi superiori a 8 sono caratteristici di soggetti che di fronte al trauma tentano di ripristinare lo stato di equilibrio precedente al trauma.

138

Come si evince dalla breve descrizione delle tre dimensioni indagate dal test, la RPD e la RO non forniscono una “misura” della capacità di resilienza, poiché la prima indica una reazione non funzionale alla riorganizzazione della propria vita, e la seconda una tendenza a ripristinare le condizioni precedenti al trauma, ma non sempre questo è possibile, si pensi ad esempio al caso di lutto. La “misura” della capacità di resilienza è rintracciabile nella dimensione RR.

Item

Dimensione misurata

Testo della domanda

Per niente d'accordo

Poco d'accordo

Abbastanza d'accordo

Molto d'accordo

Del tutto d'accordo

1

RDP

Quando qualcosa non va, è costante il pensiero di ciò che perdo

9,59%

25,46%

42,44%

15,50%

7,01%

4

RDP

Di fronte alle avversità tendo a buttarmi giù

41,51%

33,03%

16,24%

6,64%

2,58%

7

RDP

Nei periodi di difficoltà vedo tutto cupo

22,32%

40,22%

24,35%

8,86%

4,24%

10

RDP

Mi sembra impossibile superare del tutto gli eventi dolorosi

37,64%

35,24%

16,24%

6,64%

4,24%

13

RDP

Gli eventi critici mi lasciano il segno

4,80%

23,06%

35,24%

19,37%

17,53%

15

RDP

Quando mi capita qualcosa di brutto, non riesco a farmene una ragione

34,69%

40,59%

14,21%

7,01%

3,51%

3

RO

Quando accade qualcosa di imprevisto, cerco delle soluzioni per recuperare

0,74%

2,77%

24,54%

32,29%

39,67%

6

RO

Di fronte alle difficoltà accadute, ho trovato il modo per recuperare

0,00%

2,58%

26,94%

39,11%

31,37%

9

RO

Dopo un colpo subito cerco di rimettermi

0,00%

2,58%

24,72%

34,87%

37,82%

12

RO

Quando mi trovo in una difficile, faccio di tutto per riconquistare le forze che avevo

0,00%

2,58%

22,69%

35,06%

39,67%

14

RO

Di fronte alle avversità cerco le risorse necessarie per riprendermi

0,00%

3,69%

21,03%

39,48%

35,79%

2

RR

Penso che una situazione dolorosa possa farmi diventare migliore

9,96%

25,83%

32,84%

20,48%

10,89%

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5

RR

Sento di poter guadagnare qualcosa dalle situazioni difficili

3,51%

12,18%

38,19%

24,72%

21,40%

8

RR

Gli eventi spiacevoli che mi capitano possono aiutarmi a maturare

1,11%

10,33%

36,72%

25,65%

26,20%

11

RR

Gli ostacoli che mi si pongono di fronte possono farmi crescere

0,37%

4,43%

32,84%

31,00%

31,37%

Analizzando i risultati ottenuti per la dimensione RR resilienza si evince che la media della misura della resilienza è pressoché identica tra donne e uomini; la media dei valori risulta, infatti, di 6,47 per le donne, e di 6,48 per gli uomini. Per entrambi i generi la capacità di RR si colloca sotto gli 8 punti, dimostrando una resilienza dei soggetti non molto forte. Nel grafico 1 è possibile rintracciare l’andamento descritto.

139

Graf. 1: Confronto andamento RR maschi - femmine

5.2 I focus group Attraverso i focus group ci siamo proposti di indagare sui motivi di stress che ciascun docente precario affronta7. Abbiamo utilizzato come domande sonda dei focus group gli item di tre fattori del Resilience Scale for Adults (Friborg, Martinussen & Rosenvinge, 2006)8. Dai focus group è emerso che gli insegnanti con un atteggiamento positivo e flessibile nei confronti della vita accettano i cambiamenti, anche quelli negativi, trasformandoli in sfide positive e affermano che la vita priva di sfide non è una vita desiderabile. La sfida rappresenta per loro una vittoria sicura di fronte alla difficoltà che si presenta. Le esperienze passate e superate diventano un bagaglio di forze cui attingere in ogni momento; il pensiero di essere riusciti a superare ostacoli nel corso della propria vita di studente e in quella professionale diventa automaticamente una spinta interna per superare le continue difficoltà, che anche la frequenza ai Pas ha presentato. Abbiamo avuto modo di verificare che anche la capacità di intrattenere rela-

7 8

I focus group sono stati condotti con trenta gruppi di circa venti docenti. Risorse sociali (item 6, 12, 18, 24, 28, 30, 33); percezione di sé (item 1, 7, 13, 19, 25, 29) e pianificazione del futuro (item 2, 8, 14, 20).

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zioni positive e stabili con gli altri colleghi, che è una delle componenti della resilienza, ha favorito il poter affrontare le difficoltà senza scoraggiarsi, ed è stato uno stimolo per non abbandonare il percorso formativo intrapreso. La capacità di coltivare contatti amicali ha rappresentato per molti un grande fattore protettivo. Il dialogo, il confronto, i consigli, il supporto, l’aiuto pratico, lo scambio di informazioni sono elementi essenziali nei momenti di difficoltà. Una persona che ha capacità di coltivare rapporti relazionali potrà fare affidamento sulla sua rete sociale, affermano in molti. Quasi tutti gli intervistati hanno affermato che avere relazioni positive, aiuta a far fronte e a contrastare gli effetti negativi dello stress. L’aiuto ricevuto in vari casi è stato attribuito ai familiari: sentirsi sostenuti dal marito o dalla moglie e dai figli, anche se non sempre presenti fisicamente, ha favorito il benessere sia fisico che psicologico. Alcuni docenti che in passato hanno subìto gravi traumi e si sono trovati a superarli facendo leva solo ed esclusivamente sulle proprie forze, potranno in futuro attingere a quelle risorse per trovare gli strumenti per poter superare le difficoltà che si presenteranno nel qui e ora. Più grandi sono state le sofferenze passate, più possibilità si avrà in futuro di ritrovare le forze nel ricordo dell’atteggiamento e delle modalità giuste utilizzate per superare le difficoltà. Il pensare che “tutto andrà bene” e che “a tutto c’è una soluzione” dà la possibilità di vivere perennemente in stato di benessere psicofisico, anche in situazioni spiacevoli, come può essere la precarietà nel lavoro. Gli insegnanti più resilienti (abbiamo individuato trenta casi) sono propensi a sminuire le difficoltà della vita e a mantenere più lucidità per trovare soluzioni ai problemi. Sono gli stessi insegnanti che vivono nella convinzione che si possa avere buon esito nelle vicende della vita, grazie anche al loro impegno personale attivo nella scelta della giusta strada da percorrere per trovare risoluzione alle problematiche che si presentano. Questo atteggiamento, affermano, li ha aiutati ad avere una visione positiva del futuro e ad aumentare la fiducia in se stessi e negli altri. È emerso che anche la progettualità è strettamente correlata con la cura per se stessi. Chi ama progettare ama vivere, guarda al futuro e si orienta con convinzione e tenacia. Chi progetta è innovativo e propositivo. Infine, abbiamo osservato che gioca un ruolo fondamentale il senso dell’umorismo. Grazie alla possibilità di raccontarsi, attraverso l’intervista, un buon numero di docenti che all’inizio della ricerca era pessimista nei confronti del proprio futuro professionale è riuscito ad avere maggiore fiducia in se stesso e a coltivare sentimenti positivi. 5.3 Le narrazioni Abbiamo analizzato in modo più specifico i racconti prodotti da nove docenti valutati come resilienti e abbiamo constatato un accrescimento della capacità autoriflessiva, della persistenza e della complessità del sé e del senso di coerenza9. Il primo giorno i partecipanti sono stati invitati a descrivere cronologicamente senza nessun riferimento alle emozioni provate, il peggior evento della loro vita

9

Per le narrazioni abbiamo individuato i nove docenti che avevano ottenuto punteggi più alti nella dimensione RR dell’RPQ.

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professionale, cosa è successo e cosa ha causato cosa. L’obiettivo è stato quello di favorire la risistemazione cronologica dell’evento e delle sue causalità di base. Il secondo giorno è stato chiesto di descrivere pensieri e sentimenti sperimentati durante l’evento e il loro impatto sulla vita. La finalità è stata favorire la capacità di dare un nome a quanto provato e raggiungere una maggiore consapevolezza emotiva e una visione delle cause più complessa. Il terzo giorno i partecipanti hanno descritto i pensieri e i sentimenti che provano nel presente ripensando all’evento in questione, come pensano di poter affrontare un evento simile in futuro (coping futuro) e gli aspetti positivi derivati dall’evento. L’obiettivo è stato quello di incrementare una visione multiprospettica (riflessione, causalità complessa, maggiore consapevolezza), la capacità di autoregolarsi e di scoprire aspetti positivi.

Considerazioni conclusive e prospettive di ricerca I risultati emersi dal focus group forniscono una serie di elementi utili al fine di mettere a punto un training che utilizza come metodologia le narrazioni personali, rivolto a docenti e che ha come obiettivo il raggiungimento del potenziamento della capacità resiliente di adattarsi positivamente agli eventi stressanti attraverso un lavoro sulla regolazione emotiva e nello specifico su alcuni dei meccanismi psicologici in essa implicati (appraisal, coping, emozioni positive)10. I docenti più resilienti non solo coltivano le emozioni positive in se stesse, ma sono anche in grado di suscitare emozioni positive nella loro cerchia familiare e amicale più vicina, creando così una rete sociale di supporto che a sua volta facilita il coping. Altro risultato della ricerca è stato quello di operare un confronto tra la capacità di resilienza e caratteristiche personali come il coping, il locus of control e l’autodeterminazione; la comprensione della relazione tra l’adattamento resiliente da una parte e il processo di regolazione delle emozioni dall’altra e nello specifico con l’appraisal, il coping e le emozioni positive, ha consentito di confermare alcune corrispondenze già verificate da altri studiosi, quali ad esempio gli stretti legami tra l’essere resiliente e lo sperimentare un maggior numero di emozioni positive durante e dopo gli eventi stressanti e l’appraisal di sfida dell’evento stesso. La ricerca ha consentito di confermare quanto già verificato rispetto alla capacità resiliente di adattarsi velocemente agli eventi stressanti. Si è infine potuto verificare che non sono le caratteristiche resilienti a determinare direttamente il buon adattamento agli eventi stressanti, ma che tali caratteristiche esercitano un’importante influenza sul tipo di appraisal dell’evento e questo, a sua volta, condiziona la scelta dello stile di coping più adeguato per affrontare la situazione di stress. Una prossima ricerca potrà certamente offrire nuovi spunti di riflessione sulla relazione tra coping e resilienza e sugli effetti di mediazione esistenti tra resilienza, appraisal, coping ed emozioni positive.

10 Come dimostrato in una ricerca osservativa di Bottrell (2007), condotta in un quartiere di Sidney a forte disparità sociale per dodici mesi, infatti, gli adolescenti che padroneggiavano strategie di coping, locus of control e autodeterminazione, erano in grado di resistere più facilmente agli etichettamenti sociali, dunque più resilienti.

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Riferimenti bibliografici

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Le reti territoriali per l’orientamento nelle scuole del Veneto: governo e gestione

Sabrina Maniero - Università di Padova - sabrina.maniero.1@unipd.it

Local guidance networks in the schools of Veneto Region: governance and management The research has its starting point in the tenyear experience of youth guidance networks in Regione Veneto, where school’s actors and extra-school actors which collaborate to organize multiple initiatives for student guidance. The main problem which motivated the present work is the presence of heterogeneous elements in the network types, distributed in a bipolar continuum from “networks of information and collaboration”, to “cooperative networks”, with a high degree of coordination. Empirical research has focused on seven “cooperative networks”, through a series of semi-structured interviews with coordinators of the seven networks. Interviews with network coordinators allowed to reconstruct the historical background of the networks, the characteristics of their governance, coordination and communication and the role played by the coordinators themselves, identifying some success factors.

Parole chiave: lavoro di rete, orientamento scolastico, insegnanti, coordinamento di rete, comunicazione nella rete, sistema formativo integrato

Keywords: networking, school guidance, school teachers, network coordination, network communication, integrated education and training system

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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La ricerca si colloca nell’esperienza decennale delle reti territoriali di orientamento per i giovani della Regione del Veneto, in cui attori scolastici ed extra-scolastici collaborano nella realizzazione di una ampia gamma di azioni di orientamento rivolte agli studenti. Il problema dal quale il lavoro ha preso avvio è la presenza di eterogeneità nelle tipologie di reti, distribuite in un continuum bipolare da “reti di informazione e collaborazione”, a “reti cooperative” che presentano un alto grado di coordinamento. La ricerca empirica si è focalizzata sull’indagine approfondita di sette “reti di tipo cooperativo” attraverso interviste semi-strutturate ai coordinatori delle sette reti. Le interviste hanno permesso di esplicitare la storia delle reti, le caratteristiche del sistema di governance e di coordinamento, di comunicazione ed il ruolo svolto dal coordinatore, individuando alcuni fattori di successo di tale esperienza.


Le reti territoriali per l’orientamento nelle scuole del Veneto: governo e gestione

Introduzione

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Il contributo che segue presenta i risultati relativi ad una parte delle indagini svolte nel corso di una ricerca di dottorato1 Il tema dell’orientamento è trattato nella ricerca in stretta connessione con il costrutto di rete sociale, intesa come organizzazione-rete. La ricerca parte dall’esperienza decennale delle reti territoriali di orientamento per i giovani della Regione del Veneto, composte da partner di varia tipologia (attori del sistema dell’istruzione, formazione, lavoro e del sociale) che collaborano nella realizzazione di una ampia gamma di azioni di orientamento rivolte agli studenti. Il problema dal quale il lavoro ha preso avvio è la presenza di eterogeneità nelle tipologie di reti, distribuite in un continuum bipolare da “reti di informazione e collaborazione” che presentano un basso grado di coordinamento, a “reti cooperative” che presentano un alto grado di coordinamento. Lo scopo è stato quello di approfondire lo studio delle reti cooperative, considerate buone pratiche di orientamento. Nel contributo verranno presentati gli esiti delle interviste realizzate con i coordinatori delle sette reti di tipo cooperativo scelte.

1. Sfide dell’orientamento nella società post moderna e ipotesi della ricerca L’ipotesi da cui parte la ricerca è che vivere nell’attuale società complessa richieda l’applicazione di un modello di orientamento interdisciplinare, in cui l’intervento di orientamento viene visto come risultato dell’applicazione di “prospettive integrate multidimensionali”, che si traduce nella capacità di utilizzare in maniera critica i diversi modelli di riferimento (Di Nubila 2003, Di Fabio, 1998). Svolgere oggi una attività di orientamento completa di tutte le sue componenti (dimensione informativa, formativa, consulenziale, accompagnamento al lavoro) richiede quindi l’attivazione del sistema territoriale, in cui l’arcipelago delle istituzioni scolastiche opera all’interno di una rete di relazioni e di scambi e con soggetti che si muovono dentro e fuori il sistema formativo; si riprende la logica di un sistema formativo integrato, in cui – oltre alle scuole, vengono coinvolti gli enti locali, il mondo del lavoro e delle imprese, le culture del territorio e la società civile (De Bartolomeo M., Magni V., 1999). Parlando dei protagonisti dell’orientamento nella fascia che interessa in modo particolare questo lavoro, non possiamo non accennare al fatto che gli studenti che frequentano la scuola secondaria di I e II grado sono degli adolescenti, le cui caratteristiche influenzano gli obiettivi delle pratiche di orientamento realizzate all’interno delle scuole. L’intervento di orientamento in genere e, con gli adole-

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Sabrina Maniero, Scuola di dottorato di ricerca in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, Università di Padova. Titolo tesi “ Le reti che orientano: casi di studio delle reti di orientamento per giovani della Regione del Veneto”.

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scenti in particolare, tende quindi a configurarsi come l’insieme di azioni che possono supportarlo nella costruzione della propria identità personale, sociale e professionale (Erikson, 1995) e nel positivo superamento della situazione problematica in cui si trova. Nell’individuare le richieste e i bisogni orientativi degli adolescenti si possono rilevare quattro categorie di bisogni orientativi: bisogni legati al processo decisionale, bisogni legati alla fase di sviluppo, bisogni legati all’insuccesso scolastico, bisogni legati ai conflitti familiari (Mancinelli, 2002). Nell’attuale società post-moderna (Volpi, 2004) tutti i giovani hanno a che fare con la velocità, l’imprevedibilità e la continuità dei cambiamenti della società e del sistema educativo e le crescenti opzioni di scelta a livello di istruzione rendono questo periodo più complesso, in quanto hanno un numero maggiore di opzioni e devono acquisire un numero crescente di abilità che li prepari ad adattarsi al cambiamento e a vivere in modo indipendente la vita adulta. La questione che si pone è “che tipo di orientamento è necessario oggi” e se “sono adeguati gli approcci esistenti o se sono necessari nuovi metodi e nuovi paradigmi”. “Qual è il ruolo della scuola e con essa, della comunità in cui è inserita”? È nel tentativo di dare risposta a questi interrogativi che la presente ricerca ha scelto di approfondire l’esperienza delle reti territoriali di orientamento per giovani della scuola secondaria di I e II grado, vissuta nella regione del Veneto. Nel presente contributo si analizzerà una parte delle indagini svolte, che hanno avuto come focus l’analisi della rete. L’esperienza delle reti di orientamento per studenti delle scuole secondarie di I e II grado realizzata in Veneto, è stata resa possibile dall’intervento di vari fattori concomitanti che, nella loro interazione, hanno permesso di dare avvio ad interventi complessi di cui la scuola è stata protagonista. La Regione del Veneto, con la D.G.R. n. 2796/2001, ha dato avvio ai finanziamenti annuali delle reti territoriali, che dal 2001 sono proseguiti fino al 2010. Il concetto di rete non è nuovo all’interno della normativa della scuola; già l’Autonomia scolastica (Dpr n.275/1999) ne parla con chiarezza. L’art. 7 del Regolamento è interamente dedicato agli accordi che possono promuovere la collaborazione tra le scuole e queste con enti esterni. La logica di rete viene applicata in vari campi della vita sociale ed economica, ma stenta ad affermarsi in campo educativo, in cui si riscontrano ancora frequenti resistenze e la tendenza all’ autoreferenzialità che spesso domina la realizzazione degli interventi educativi. In tale contesto la rete è destinata a costituire un paradigma pedagogico importante in quanto consente di gestire elementi di complessità maggiori senza essere essa stessa complessa; “essa permette così di convertire le incertezze del cambiamento culturale in scenari più rassicuranti, in cui il policentrismo dei suoi membri dà vita ad una convivialità delle differenze e, quindi, a nuove forme di integrazione, cooperazione, solidarietà sociale” (Orlando V., Pacucci M., 2005).

2. Il contesto della ricerca L’obiettivo della Regione del Veneto è stato quello di farsi promotrice, attraverso il sostegno delle reti territoriali, della costituzione di un “sistema” di orientamento a livello regionale (DGR 2796/2001) che garantisse il più possibile una informazione imparziale e un servizio professionale e qualificato, oltre a sostenere l’assolvimento dell’obbligo formativo, riducendo i fenomeni di dispersione. Nel modello di intervento proposto nella direttiva non si è inteso creare un nuovo insieme di

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servizi a sé stanti, quanto invece “fare sistema”, cioè portare a realizzazione l’interdipendenza e la complementarietà dei servizi e delle azioni orientative presenti all’interno dei singoli sistemi dell’istruzione, della formazione, del lavoro e sociale. Le reti territoriali per il DDIF nell’annualità 2008 erano 47, coinvolgevano oltre 800 partner appartenenti a varie tipologie (scuole secondarie di I e II grado, CFP, enti locali, associazioni di categoria, Informagiovani, Ulss, Province, ecc.) e fino a 100.000 studenti. La programmazione regionale ha definito le linee di indirizzo ed ha indicato le priorità, in particolar modo in relazione alle attività integrate e agli attori del territorio, alle azioni verso le categorie più svantaggiate, all’innovazione dei servizi, alla diffusione di un sistema territoriale a rete, all’introduzione di standard qualitativi regionali. Le attività previste dalla Direttiva prendevano in considerazione la necessità di attuare azioni differenziate per rispondere ai vari bisogni dei destinatari. Le diverse attività erano a carattere individuale o di gruppo e si distinguevano in sette tipologie (come indicato nella tabella 1). Per comprendere l’impatto del lavoro svolto dalle reti, è importante considerare anche il numero di studenti coinvolti nelle diverse azioni (dati raccolti dal progetto Provalor nel 2008). Non tutte le reti hanno compilato i quesiti relativi ai numero di destinatari coinvolti, per cui i dati raccolti sono parziali; nonostante ciò danno un quadro significativo delle dimensioni di tali interventi. Risulta infatti quanto indicato nella seguente tabella. AZIONE

N. E TIPOLOGIA DI DESTINATARI (anno 2008)

Azione 1 “Incontri e iniziative con le famiglie nella fase di informazione e sensibilizzazione; coinvolgimento dei giovani e delle famiglie in attività a valenza orientativa o di riorientamento”

L’azione si rivolge in prevalenza a studenti di terza media. Gli studenti destinatari sono stati: • 12.916 studenti di scuola secondaria di I grado (media: 403, mediana 110 per rete) su 32 reti rispondenti • 576 studenti di scuola secondaria di II grado (media 20) su 28 reti rispondenti • 208 studenti dei CFP (media 7, mediana 0) su 29 reti rispondenti 32.400* genitori coinvolti (media 737, mediana 461) *La raccolta di questo dato non è facile in quanto non sempre vengono richieste le firme dei partecipanti alle diverse iniziative proposte, quindi tali dati rappresentano un valore approssimato in quanto non ottenuto da rilevazioni puntuali della presenza agli incontri, ma spesso da una valutazione di mas-sima.

Azione 2 “Percorsi di orientamento per facilitare il passaggio tra il primo e il secondo ciclo del sistema di istruzione e formazione professionale” Azione 3 “Percorsi formativi orientamento e di ri-orientamento”

di

• 40.930 Studenti delle secondarie di I grado coinvolti (media 952, mediana 700). In alcune realtà territoriale, questa azione ha registrato anche la partecipazione dei genitori degli studenti. Gli studenti beneficiari dell’azione sono stati complessivamente: • 9.654 studenti della scuola secondaria di II grado (media 235,5, mediana 55); • 966 studenti dei CFP (media 27,6; mediana 6).

Azione 4: “Attività rivolte ai giovani finalizzate a sostenere e promuovere la realizzazione dei percorsi personali nell’obbligo di istruzione e nell’esercizio - assolvimento del diritto dovere all’istruzione e alla formazione”

Gli studenti che hanno partecipato sono stati: • 7.919 studenti di scuola secondaria di I grado (distribuiti in 17 reti) • 4.273 studenti di scuola secondaria di II grado (distribuiti in 29 reti) • 565 studenti dei CFP (distribuiti in 12 reti)

compresi 207 istituti

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Studenti dei CFP


studenti di scuola secondaria di I grado (distribuiti studenti di scuola secondaria di studenti dei CFP (distribuiti in 12 reti) Azione 5 “Attività per giovani svantaggiati e a rischio compresi percorsi personalizzati congiunti tra istituti secondari di I grado e formazione professionale “

Gli studenti che hanno partecipato all’azione sono stati 3.178: • 1.883 della scuola secondaria di I grado, su 207 istituti (media 6, mediana 5), • 1.004 della secondaria di II grado, su 112 istituti (media 3, mediana 2) • 341 dei CFP su 43 centri (media e mediana 1) I percorsi hanno coinvolto 541 insegnanti (media 13, mediana 10) e 94 consulenti (media 2,5, mediana 2).

Azione 6 “Azione di orientamento a sostegno della scelta del proprio percorso di istruzione e di formazione professionale rivolte a giovani che si avviano a completare i percorsi formativi.

Nel questionario 2008 è emerso che tale azione è stata affrontata da 32/45 reti, coinvolgendo: • 8.653 Studenti Scuola Secondaria di II grado • 515 Studenti dei CFP • 202 docenti • 68 consulenti

Tab. 1: Tipo di Azioni di orientamento e numero e tipologia di destinatari per azione

Va considerato che nell’annualità 2010 successiva al progetto Pro.val.or., la Regione Veneto ha inserito una nuova azione (azione n. 3 “Moduli brevi sul metodo di studio per l’orientamento nelle transizioni tra i cicli scolastici”.) facendo slittare il numero delle altre azioni e incrementandole a sette azioni.

3. La ricerca Il problema che la ricerca si è proposta di affrontare ha preso avvio dagli elementi critici segnalati in fase di chiusura di un precedente progetto, il progetto Pro.val.or. Nel 2007 la Direzione Lavoro aveva finanziato un progetto di monitoraggio e valutazione delle attività svolte dalle reti territoriali (progetto Pro.val.or.), coordinato dall’ex Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova (anni 2008-2009), i cui risultati (Galliani, Zaggia, Maniero, 2009) hanno rappresentato i dati di partenza della presente ricerca. Dagli esiti del progetto emergeva come all’interno del sistema di orientamento regionale veneto vi fosse eterogeneità nelle tipologie di reti. Dall’analisi delle azioni condotte era emerso come le reti esaminate si collocassero in un continuum bipolare: da reti di informazione e collaborazione, dette anche reti di adempimento, a reti cooperative che presentano un alto grado di coordinamento. Le reti di informazione e collaborazione costituiscono un tipo di struttura di rete ancora debole e frammentata, in cui le relazioni delineatesi tra gli attori sono ancorate a funzioni “obbligate”, in cui è bassa la spontaneità e la volontà proattiva di collaborare. Le reti cooperative, al polo opposto, coinvolgono tutti i partner e operano proficuamente grazie alla costituzione di relazioni intense tra gli attori, e gestiscono in modo integrato le attività di progetto secondo standard condivisi di processo e di prodotto, realizzati mediante l’adozione di forme sistematiche di coordinamento. Partendo da queste problematiche, la ricerca empirica evidence based si è focalizzata sull’indagine approfondita di sette “reti di tipo cooperativo”, delle tredici reti che i valutatori del progetto Pro.val.or. avevano identificato quali “reti di collaborazione ad alto grado di coordinamento”, rispetto ad un totale di 46 reti analizzate. Gli obiettivi della ricerca, in merito all’analisi del tema della rete, sono stati: – studiare come si sono create e come collaborano gli attori delle reti territoriali; – individuare le proprietà interazionali e morfologiche delle reti per l’ottimizzazione delle risorse esistenti.

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Le principali domande che la ricerca si è posta sono: – quali sono i principali fattori che favoriscono la cooperazione? – quali sono le leve che permettono di aumentare il coinvolgimento e la partecipazione dei membri alla rete?

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Si è realizzato uno studio di caso, quindi una indagine empirica che si è proposta di investigare un fenomeno nel suo contesto reale, quando i confini tra fenomeno e contesto non sono chiaramente evidenti e nel quale vengono utilizzate molteplici fonti di informazione (Yin K.R., 2003). Le prove utilizzate nell’ambito degli studi di caso provengono da tre fonti principali: interviste ai coordinatori di rete, la documentazione di progetto (formulari, relazioni, materiali); il sito internet delle reti. La raccolta dei dati si è svolta attraverso interviste semi-strutturate ai coordinatori delle sette reti ed, in alcuni casi, ai loro collaboratori. Le interviste ai coordinatori di rete hanno permesso di esplicitare la storia delle reti, le caratteristiche del sistema di governance e di coordinamento, di comunicazione ed il ruolo svolto dal coordinatore. I nomi delle reti oggetto dello studio di caso sono le seguenti: Imparo a scegliere (BL); Caccialfuturo (PD); Orientarsi nel Delta (RO); Rete Orione -www.reteorione.it (TV); Orientamento e territorio (VE); Orienta Insieme – www.orientainsieme.it (VI); A.T.O.F. Azioni territoriali di orientamento formativo (VR). 3.1 Concetto di rete e metodo di indagine In merito ai metodi di analisi delle reti, nella ricerca è stata data particolare attenzione ai contributi di natura organizzativa e sociologica che hanno prodotto effetti interessanti applicabili anche all’organizzazione scolastica. Lo studio delle reti organizzative e delle reti sociali offre, a nostro avviso, un’ampia gamma di concetti e metodi per la comprensione e la gestione delle reti territoriali di orientamento, individuando le condizioni che possono favorire od ostacolare un buon funzionamento. Lo studio dei network nasce come studio delle reti sociali, che si sviluppò quale ricerca empirica integrata dall’apporto di varie discipline – l’antropologia, la sociologia, la psicologia sociale. Si individuano due principali tradizioni di ricerca quali matrici teoriche dello studio delle reti sociali e dello sviluppo della network analysis. Il primo filone fa riferimento all’antropologia anglosassone e alla scuola di Manchester; il secondo all’analisi strutturale americana. Lo studio dei network sociali è strettamente legato allo sviluppo dell’antropologia sociale britannica avvenuto nel secondo dopoguerra (Piselli, 1995). La rete sociale può essere definita come l’insieme dei legami di un individuo con altri significativi (famiglia, amici, vicini..), puntualizzando, che l’immagine della rete consente di collegare una serie di punti in cui “ciascun nodo costituisce un mondo a sé e una risorsa da mettere a disposizione della rete a cui appartiene: ciascuno è sufficiente per far nascere delle relazioni, ma nello stesso tempo, nessuno è necessario (Besozzi, Colombo, 1998). Possiamo dire in altre parole che i soggetti che appartengono ad una rete sono reciprocamente interdipendenti, ma ognuno di essi è autonomo e portatore di un valore specifico. È inoltre importante ricordare la teoria dello scambio in quanto essa apporta un contributo molto interessante allo studio delle reti nel momento in cui si voglia ricercare una spiegazione non soltanto di tipo descrittivo relativamente alla forma delle reti, ma anche sulle modalità di strutturazione profonda, del perché le reti assumono forme peculiari. Risulta quindi

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particolarmente interessante il collegamento alla teoria dello scambio sociale, in particolare alla tradizione francese rappresentata da Marcel Mauss e Claude LéviStrauss. Lo scambio sociale diventa quindi una possibile spiegazione delle motivazioni e condizioni per mezzo delle quali una relazione prende vita e si stabilisce un legame. Introducendo la “prospettiva relazionale” Donati propone un nuovo approccio al capitale sociale, inteso come una “qualità delle relazioni sociali”. Tale approccio parte da un concetto di capitale sociale come relazione sociale, intendendo quindi ciò che valorizza una relazione sociale, ne rappresenta il valore, ne dà una forma; il capitale sociale “è una forma di relazione che opera la valorizzazione di beni o servizi attraverso scambi che non sono né monetari, né politici, né clientelari, né di puro dono, ma scambi sociali di reciprocità Gli studiosi hanno concentrato la loro ricerca sulla comprensione dei meccanismi e dei fattori che determinano la creazione e la sopravvivenza di queste forme di organizzazione. L’organizzazione a rete è definita come un “sistema di riconoscibili e multiple connessioni e strutture entro cui operano nodi ad alto livello di autoregolazione, capaci di cooperare tra loro in vista di fini comuni e di risultati condivisi“ (Butera, 1990). La rete è quindi un sistema e come tale “un insieme di unità in reciproca interazione” (Von Bertalanffy,1956), ma come sottolinea Morin (1977), nel sistema non basta l’associazione fra interrelazione e totalità; bisogna legare i due elementi tramite l’idea di organizzazione. Morin concepire il sistema come “unità globale organizzata di interrelazioni fra elementi, azioni, o individui”. Ne risulta che la capacità di organizzarsi è la proprietà fondamentale di un sistema. Altro elemento significativo nell’indagare il concetto di rete è l’emergere di un nuovo soggetto. Pichierri (1990) definisce l’organizzazione-rete come un “modello stabile di transazioni cooperative tra attori individuali o collettivi che costituisce un nuovo attore collettivo”. Molto vicina a questa definizione è quella di Boerzel (1998) che definisce la rete organizzativa come “insieme di relazioni relativamente stabili, di natura non gerarchica e interdipendente, tra una serie di attori collettivi, ovvero di organizzazioni di carattere pubblico e privato che hanno in comune interessi e/o norme rispetto ad una politica e che si impegnano in processi di scambio per perseguire tali interessi comuni riconoscendo che la cooperazione costituisce il miglior modo per realizzare i loro obiettivi”. Va sottolineato quindi che in questo caso noi intendiamo la rete come una “organizzazione-rete”, riferendoci alla presenza di un nuovo attore collettivo, prodotto dalle transazioni stabili tra attori. Il concetto di rete elaborato in tale approccio è fondamentalmente sintesi di: presenza di almeno due entità attori (nodi) che godono di autonomia; interdipendenza tra le parti; processi decisionali congiunti; presenza di meccanismi di governo cioè il coordinamento; aspettative reciproche di comportamento (Soda, 1998). La ricerca qui presentata fa riferimento al modello di analisi delle reti organizzative proposto da Soda (1998) e al contributo offerto da Reggio e Vergani (Reggio P. 2005). In entrambi i casi trovano spazio le due prospettive di base dell’approccio reticolare: la rete osservata rispetto alle relazioni che la costituiscono e dall’altra la rete vista nel complesso, come unità distinta e rilevante dal punto di vista strutturale. Il modello proposto da Soda si fonda su quattro “proprietà” principali della rete, che corrispondono ad un set di concetti e variabili inerenti a: il contenuto delle relazioni; l’oggetto delle relazioni; la natura delle relazioni; le caratteristiche strutturali della rete. Reggio propone quattro aree, e relativi indicatori, utili per leggere le situazioni locali nella prospettiva della costruzione o sviluppo di reti: 1) coesione, integrazione interna; 2) organizzazione; 3) comunicazione; 4) operatori, professionalità. Dall’analisi e dal confronto della letteratura e delle ricerche, sono stati scelti

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quattro oggetti di indagine, differenti ma complementari, la cui analisi può consentire la descrizione e la comprensione della realtà delle reti di orientamento: storia della rete, organizzazione, comunicazione e relazioni interne, approccio negli interventi di orientamento. Le aree dell’intervista, per ciascuna delle quali sono state formulate specifiche domande, sono le seguenti: la storia della rete, il governo della rete e i processi decisionali; la cultura di rete; le relazioni; gli interventi di orientamento (quest’area non sarà oggetto del presente contributo, focalizzato maggiormente sulla gestione della rete). Dall’integrazione delle fonti citate, è stata elaborata una traccia di intervista da sottoporre ai coordinatori delle reti e loro collaboratori. In alcune reti sono stati intervistati i soli coordinatori (progetti di Venezia e Vicenza), in altri casi invece, contemporaneamente o dopo l’intervista al coordinatore, sono stati intervistati i collaboratori che li affiancano nella gestione del progetto (progetti di Belluno, Padova, Rovigo, Treviso e Verona). È stata redatta una traccia di intervista (vedi Tab. 2) e sono state intervistate in totale 14 persone, individualmente o in coppia, per un totale di 20 ore di intervista. Le interviste sono state trascritte e si è proceduto all’analisi del contenuto utilizzando il software Atlas.ti (v. 5.0). Esso si basa sull’assunto della “natura costruttiva” del linguaggio, per cui la ricerca scientifica è un processo di costruzione sociale della realtà effettuato dai ricercatori all’interno di una determinata comunità linguistica. Il ricercatore ha come obiettivo di raggiungere la comprensione dei significati costruiti dai soggetti, assicurando l’accuratezza durante le fasi di analisi. Questo strumento è preposto ad una analisi del testo di tipo interpretativo e permette di esaminare i dati valutandoli nel loro complesso, considerando il contesto in cui una frase è inserita, coerentemente con le finalità della ricerca. Esso utilizza un sistema di codifica originato dal testo stesso secondo una procedura bottom-up. TRACCIA DI INTERVISTA AL COORDINATORE DELLA RETE Le chiedo di raccontarmi la storia e l’evoluzione della rete di cui è referente, approfondendo alcuni aspetti di seguito riportati. 1) Qual è la storia della rete? (dati recuperati anche da “Scheda di rete”) - N. e tipologia partner; chi è stato l’ente promotore; come si è costituita la rete e sono stati scelti i partner - Tipologia accordi (formali; informali) - Qual è il ruolo svolto nella rete dai singoli partner (azioni in cui sono coinvolti, livello di coinvolgimento) 2) Quale modalità organizzativa si è data la rete? - Quali sono gli organi di gestione della rete? Come sono composti? Che ruolo hanno? - Quando si incontrano ? - Come vengono prese le decisioni nella rete? - Qual è il ruolo del coordinatore? I suoi compiti principali? - Qual è il ruolo svolto dai dirigenti scolastici nella rete? - Quale il ruolo degli attori del territorio? 3) Quali sono le dinamiche di comunicazione tra i partner della rete? - Quali sono le modalità di comunicazione? (riunioni, telefonate, mail…) - Qual è la qualità della comunicazione in termini di: efficienza dei flussi di comunicazione (quantità, completezza e tempestività della comunicazione tra i partner) ed efficacia dei flussi di comunicazione (com-

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prensibilità e funzionalità della comunicazione rispetto al progetto, qualità della comunicazione) - Qual è il clima interno alla rete? - Qual è il livello di cooperazione? Come si possono descrivere le relazioni tra i partner di rete? In particolare: - Vi è una conoscenza personale tra i membri di tipo informale, che va al di là del ruolo nella rete? - Qual è la frequenza delle interazioni (incontri formali e informali; telefonate; mail…) con i membri? - Quali sono state le occasioni di apprendimento condivise? - Quali le situazioni conflittuali principali risolte? - Quali sono i benefici reciproci e i costi nel partecipare alla rete da parte dei partner? - Quali le implicazioni nella gestione delle risorse umane (apprendimenti, costi…)? - Quali sinergie tra i diversi operatori dell’orientamento? Docenti, psicologi, consulenti organizzazioni pubbliche e private Quali sono gli “oggetti” dello scambio nel lavoro di rete? - Quali sono i tipi di risorse scambiate tra i partner di rete (informazioni, procedure, glossari, strumenti, risorse umane, data base…)? - Quali gli apprendimenti dell’esperienza di rete? Quale cultura di rete viene condivisa dai membri? - Esperienze critiche significative vissute dalla rete - Quali sono i valori condivisi tra alcuni/tutti i partner? Quale cultura dell’orientamento viene condivisa dai membri? - Quale significato di orientamento è condiviso dalla rete? - Qual è l’approccio di intervento di orientamento scelto? Quali sono le attività di orientamento realizzate dalla rete? - Quali sono le attività di orientamento svolte dai singoli partner all’interno delle diverse azioni previste dalla direttiva regionale? - Quale tipologia di destinatari e di attività sono considerati prioritari? - Viene svolta la valutazione delle attività? Quali criteri, strumenti e ricadute? - L’elaborazione delle attività si è avvalsa della lettura e discussione di testi teorici? Quali gli autori? Tab. 2 Traccia di intervista ai coordinatori di rete

4. Risultati dell’indagine L’analisi interpretativa dei dati qualitativi è stata organizzata all’interno delle quattro macro categorie concettuali sopra indicate, che consentono di raccogliere indicazioni in merito alle proprietà relazionali e strutturali della rete. 1. Analisi del nucleo tematico della storia della rete Nelle interviste è stato dato spazio all’approfondimento sia degli eventi che hanno portato alla costituzione della rete, ma anche alle condizioni di contesto che hanno favorito l’avvio di tale esperienza. I casi di studio si distinguono in due gruppi: da un parte le reti che potremmo chiamare “esperte” e dall’altra le reti cosiddette “inesperte”. Nel primo caso si tratta di reti (reti di Belluno, Treviso e Vicenza) in cui il contesto territoriale all’avvio della direttiva era già fecondo di iniziative ed occa-

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sioni di incontro tra i futuri partner, che in qualche modo avevano già acquisito nelle loro strategie di lavoro la partnership. A promuovere esperienze di collaborazione tra varie scuole su specifiche iniziative erano stati in particolare i distretti scolastici, che organizzavano saloni dell’orientamento e concorsi oppure attività a favore della continuità formativa. Tutto ciò ha favorito fin dall’inizio una partecipazione diffusa e proattiva dei singoli referenti di orientamento. Una esperienza formativa importante è stata la partecipazione dei referenti di orientamento al progetto OrientaVeneto, promosso dalla Regione nel 2005-2006. Le reti “inesperte” sono le reti nate a seguito della Direttiva Regionale (reti di Padova, Venezia, Verona e Rovigo), in un contesto che non aveva promosso in precedenza significative esperienze di collaborazione tra scuole e sui temi dell’orientamento. In queste reti l’aggregazione tra i partner avviene grazie all’azione di una figura carismatica del territorio, solitamente un docente o un DS sensibile al tema dell’orientamento, che è riuscito a formalizzare un partenariato ed una idea progettuale condivisa, supportati da enti con competenze di tipo orientativo (CFP, enti di orientamento).

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2. L’analisi del nucleo tematico “governo della rete” La macro area o super famiglia “organizzazione a rete” è composta da vari code family. Le reti sono state intese nei progetti con valenze plurime: come metodo di lavoro, come scopo del progetto stesso (costruire e rinforzare reti), come logica di intervento. Per la sua complessità è l’area con il maggior numero di codici da analizzare. Di seguito l’elenco nell’ordine di presentazione: la struttura di governance, il ruolo svolto dal capofila e la figura del coordinatore (capacità, principi, caratteristiche, compiti, esperienze precedenti, formazione). Il governo della rete L’analisi delle forme di governo della rete ha portato all’identificazione delle strutture di governo, cioè delle forme di coordinamento e direzione volte all’integrazione dei soggetti ed alla realizzazione delle sinergie funzionali all’erogazione del servizio. La modalità di gestione delle reti è stata analizzata distinguendo la dimensione di governo, che definisce obiettivi ed ha una funzione di pianificazione e controllo, e la dimensione tecnica, ovvero il sistema di coordinamento a supporto dell’integrazione dei compiti per il conseguimento dei risultati concordati (Padula G., 2002). Gli organi di governo stabiliscono gli indirizzi generali delle attività, verificano l’attuazione delle azioni previste, i costi presunti e reali, i risultati ed hanno funzioni di definizione delle linee e dei criteri di progettazione, programmazione, coordinamento, verifica ed effettuano la valutazione delle azioni realizzate. Sono composti dal coordinatore di rete, dai DS, se coinvolti nel progetto, e dai referenti di orientamento di ciascuna scuola. Gli organi di livello tecnico invece gestiscono le varie azioni e ne monitorano l’andamento. Sono gruppi di lavoro composti dai referenti delle singole scuole. In alcune reti tali gruppi vengono distinti in base all’azione (vedi tabella 1) oppure al grado di scuola. Ciò che distingue le reti di tipo cooperativo è l’alta frequenza degli incontri dei diversi organi. Gli organi politici si incontrano in fase iniziale, intermedia e finale di progetto; gli organi tecnici (gruppi di lavoro) hanno incontri settimanali o mensili, soprattutto nelle fasi di realizzazione delle singole azioni. Le reti si distinguono per la diversa partecipazione dei DS. Nelle reti nate da proposte supportate soprattutto dai docenti, in ambienti in cui i DS non dimostravano particolare interesse al tema dell’orientamento, vi è una partecipazione

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dei DS assai ridotta. Il ruolo positivo del DS è quello di legittimare e supportare l’azione del referente di orientamento di fronte ai colleghi docenti e di farsi promotore delle attività e delle esigenze dell’orientamento presso gli attori del proprio territorio, che ne riconoscono l’autorevolezza. Resta il fatto che se la rete è governata dalla sola volontà dei DS, viene a mancare la collegialità delle scelte e la dimensione collaborativa si riduce. Ruolo del capofila e del coordinatore di rete Il partner capofila, nelle reti di tipo cooperativo, assume un ruolo molto importante ed altrettanto oneroso in termini di impegno e risorse da investire. Solitamente il coordinatore di rete appartiene all’ente capofila. Dalle interviste è emerso come le funzioni del capofila siano varie, come sinteticamente presentate nella figura n. 1. Al primo posto viene riconosciuta una funzione di gestione delle relazioni e della comunicazione, quale collante fondamentale per la rete; questo ruolo viene svolto dal coordinatore di rete. Vi è poi una funzione di gestione amministrativa in vista della rendicontazione. Un fattore di rilievo nella gestione della rete è la disponibilità logistica della sede del capofila per le riunioni della rete: sedi con spazi ben attrezzati ed orari di apertura ampi, che facilitano l’incontro con il coordinatore di rete. La figura sicuramente di maggior rilievo nella conduzione della rete è il coordinatore di rete. Questi svolge un ruolo strategico per il buon funzionamento della rete. Dalla narrazione dell’agire operativo del coordinatore all’interno della rete, sono emerse le funzioni principali che si trova a compiere. I compiti principali svolti sono: sensibilizzare i partner sui temi dell’orientamento, favorire la condivisione di conoscenze e materiali, promuovere la realizzazione delle attività di orientamento tra tutte le scuole partner. Il coordinatore ha il compito di facilitare l’individuazione delle buone pratiche attuate dalle singole scuole, per poi rielaborarle nei gruppi di lavoro e renderle patrimonio della rete. Egli ha un ruolo di mediatore, nel senso che deve far dialogare soggetti diversi, per raggiungere un accordo negli interventi da realizzare. Tale funzione richiede di essere “super partes”, senza avere interessi particolari, svolgendo il proprio ruolo in modo imparziale ed obiettivo. Il coordinatore ha un ruolo fondamentale nel favorire lo sviluppo del senso di appartenenza, nell’attivare la partecipazione e l’alleanza nell’azione di tutti i membri. Egli monitora le varie azioni di progetto raccogliendo informazioni utili come i feedback degli operatori delle attività di orientamento, analizzando i questionari di soddisfazione compilati da studenti e genitori rispetto alle varie attività proposte, per poi condividere i risultati con i partner di rete, così da migliorare le attività realizzate. Egli diventa un punto di riferimento sul territorio per quanti, attori della rete e non, hanno problemi legati all’orientamento dei giovani studenti o drop out, svolgendo un ruolo di trade union tra le risorse del territorio. È inoltre un supporto nel caso in cui i referenti delle singole scuole abbiano difficoltà con i DS in merito alle attività della rete. È lui inoltre che si preoccupa di formare i nuovi referenti delle singole scuole partner, soprattutto a causa dei cambiamenti dovuti alla precarietà del ruolo docente, assicurando la continuità delle attività. In merito alla loro formazione sui temi dell’orientamento, sei coordinatori su sette, hanno svolto un master e/o corsi di perfezionamento sul tema, mantenendosi continuamente aggiornati e investendo anche personalmente nella propria formazione.

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Fig. 1: Funzioni del coordinatore

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3. Analisi del nucleo tematico “cultura di rete” Nell’indagare quali sono i valori vissuti all’interno della rete, le criticità ed i benefici del lavoro di rete, sono emersi quali sono i principi che guidano le decisioni dei coordinatori. I principi che orientano le azioni dei coordinatori delle reti di tipo cooperativo sono schematicamente riportati nella figura n. 2.

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Fig. 2: Principi del coordinatore

Un principio di fondo è l’uguaglianza di tutti i partner, intesa in termini di accettazione e valorizzazione delle differenze, prima di tutto tra docenti delle scuole di primo e secondo grado, formazione professionale ed esperti degli enti di formazione. Tale processo è favorito dalla conoscenza e dal confronto emerso nel lavoro di squadra sviluppato negli anni, per cui il ruolo di educatore è riconosciuto reciprocamente. Più complessa appare la collaborazione con gli altri attori del territorio, appartenenti ad organizzazioni extra scolastiche, come associazioni di categoria e amministrazioni comunali, con i quali gli incontri sono sporadici, comunque ricercati. Per indicare un altro principio, alcuni coordinatori hanno usato il termine “condivisione per il noi” con cui intendono che le scelte di cosa e come realizzare le attività vanno fatte in gruppo e quindi sono frutto di un accordo, diventando quindi un scegliere e un “fare insieme”. I coordinatori intervistati sono inoltre molto attenti nel dare la massima trasparenza a tutte le decisioni prese (verbalizzando tutti gli incontri e informando anche le persone assenti) e le informa-

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zioni raccolte, diffondendo i materiali condivisi attraverso un accurato lavoro di documentazione. A tal fine risultano particolarmente utili le ICT in quanto il coordinatore fa ampio uso di mail e dell’area di repository del sito internet di rete. Altro principio importante per i coordinatori è quello di far raggiungere alla rete uno standard minimo di qualità su tutte le azioni attuate, così che i servizi di orientamento si realizzino in modo uniforme in tutte le scuole. In merito all’orientamento informativo vengono affermati due principi: l’equità e il rifiuto del marketing delle scuole. La prima sta ad indicare che la presentazione dell’offerta formativa deve tenere nel giusto peso tutte le scuole della rete, ma soprattutto l’interesse dello studente, per cui è necessario dare informazioni ampie, aggiornate e chiare che spesso richiedono l’intervento di esperti. Inoltre vi è l’accordo di non utilizzare le opportunità offerte dalla rete per promuovere la propria scuola facendo azioni di marketing della propria scuola. Costi, benefici e criticità della rete I costi che i coordinatori rilevano nel lavoro di rete sono dati dall’impegno burocratico legato alla predisposizione dei documenti di rendicontazione previsti dalla regione. Si aggiungono i tempi richiesti ai referenti scolastici ed al coordinatore per la gestione delle numerose attività. Questo elevato livello di impegno viene comunque visto dai coordinatori, e a loro dire anche dai referenti scolastici, come un investimento, in quanto è per loro evidente come ciò porti a dei notevoli benefici rivolti ai destinatari delle azioni e cioè agli studenti ed ai loro genitori. Vi è la percezione che quanto si offre e si attua a livello educativo è dotato di una forte valenza sociale. Vi è inoltre la consapevolezza che il proprio contributo non è isolabile da quello degli altri membri, bensì specifico e complementare al contempo. I benefici prodotti dal lavoro in rete sono molteplici, come rappresentato nella seguente mappa.

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Fig. 3: Benefici del lavoro in rete

L’insieme dei benefici porta, come risultato, ad una presa in carico dello studente da parte della scuola-rete, la quale svolge una funzione non solo di tipo formativo, ma anche di cura dei propri membri in quanto comunità. Le attività di orientamento in rete hanno favorito una relazione diversa con studenti e famiglie, nel

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senso che le attività richieste dal bando regionale, e discusse tra i nodi, hanno “costretto”/incentivato le scuole alla “presa in carico” delle varie situazioni di disagio, per cercare e proporre delle soluzioni condivise tra gli attori del territorio, portatori di risorse: competenze e ruoli complementari. I principali benefici riconosciuti dai coordinatori e prodotti dal lavoro di rete sono:

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– miglioramento progressivo nell’offerta e qualità degli interventi di orientamento, è accresciuto anche il senso critico dei docenti verso le proposte ideate (anche per studenti stranieri) – potenziamento del consiglio orientativo grazie all’intervento dei consulenti di orientamento; – incremento della partecipazione dei genitori alle attività in-formative sull’orientamento; – formazione interna dei docenti che operano nelle sui temi dell’orientamento, e della scuola in generale, grazie alla partecipazione alle riunioni e ai gruppi di lavoro; – scambio di informazioni, risorse e di contatti utili per migliorare l’azione formativa; – uso di strumenti/documentazioni omogenei tra le scuole della rete che facilitano la gestione delle procedure, creano un linguaggio favorendo la rapidità delle azioni. Nonostante l’ingente mole di lavoro svolta dalle reti in questi anni, i coordinatori individuano delle criticità, che in sintesi riguardano: – la mancanza di una sensibilità condivisa sui temi dell’orientamento da parte del corpo docente; – le attività di orientamento sono rivolte soprattutto a studenti della scuola secondaria di I grado, mentre per gli studenti della scuola secondaria di II grado le azioni sono previste in prevalenza fino alla classe terza. Per gli studenti delle classi quarte e quinte ci si affida ai servizi offerti dalle università, ma sono rari i percorsi di orientamento formativo; – in merito alle relazioni con i partner attori extra scolastici, questi danno un contributo significativo nel fornire informazioni aggiornate rispetto al mercato del lavoro, ma resta la difficoltà di creare un dialogo sulla progettualità della rete; – altra criticità di ordine pratico è data dalla mancanza di risorse finanziarie. Nel momento in cui sono state svolte le interviste (giugno-luglio 2011), la Regione del Veneto ritardava l’uscita dei bandi e non aveva dato informazioni chiare sulla possibilità di proseguire i finanziamenti alle reti. Attualmente le reti non vengono finanziate se non per lo svolgimento di attività informative coordinate a livello provinciale, venendo a mancare quindi un coordinamento generale. 4. Analisi del nucleo tematico “relazioni interne alla rete” La macro area di analisi che concerne le relazioni è il risultato di vari aspetti relativi alle dimensioni precedentemente analizzate, che convertono nelle relazioni, come ad esempio la comunicazione, la gestione degli incontri, ecc. Cercando di fare una ulteriore sintesi, evidenziamo gli aspetti salienti nella gestione delle relazioni che caratterizzano le reti di tipo cooperativo:

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– la modalità di comunicazione prevalente è quella faccia-a-faccia, segue quella elettronica e telefonica, agevolando un ampio flusso informativo, rapido, puntuale e frequente; – nelle riunioni di rete il clima viene descritto da tutti i coordinatori come amichevole; vi è un supporto reciproco, sia del coordinatore verso i partner di rete che viceversa ed anche dei partner tra di loro; – i coordinatori non parlano di situazioni di conflitto bensì di discussioni più accese, volte a raggiungere un accordo rispetto alle reciproche esigenze; ciò riguarda soprattutto la divisione delle risorse finanziarie; – lo scambio si ha in termini, quindi, di supporto reciproco e condivisione delle buone prassi, uno scambio di idee, di conoscenze ed anche di informazioni, di contatti e di risorse umane.

Conclusioni La finalità del presente contributo è stata quella di focalizzare l’attenzione sugli elementi di valore distintivi nell’esperienza di sette reti scolastiche per l’orientamento del Veneto, in direzione di una proposta di modello di gestione di una rete territoriale di orientamento per giovani in diritto-dovere di istruzione e formazione di tipo cooperativo. Si tratta di reti selezionate, in quanto si sono distinte per un alto livello di coordinamento. I risultati raccolti da questa prima indagine non rappresentano quindi la realtà di tutte le 47 reti finanziate dalla Regione del Veneto e oggetto di valutazione del precedente progetto (Provalor), bensì di alcuni casi in cui il dispositivo della rete ha trovato nella storia di collaborazione tra le scuole del territorio e delle persone che l’hanno saputo gestire, un fattore di sviluppo per le azioni di orientamento. Il tema dell’orientamento è stato trattato in stretta connessione con il costrutto di rete sociale, intesa come organizzazione-rete. Il ruolo della scuola è fondamentale per poter intervenire su tutti i giovani (non solo sulle situazioni di forte disagio) ed anche sulle loro famiglie, e nel far dialogare i vari professionisti dell’orientamento al fine di accompagnare lo studente verso la maturazione di competenze orientative per una scelta scolastica o professionale consapevole. La gestione di una rete resta un compito complesso, ed il buon esito è il risultato di una molteplicità di fattori che convergono a costruire nel tempo un tessuto sociale tra docenti di scuole diverse e attori del territorio, ma che richiede continua cura e risorse. La positività di tale esperienza è stato confermato anche dai risultati del proseguo della ricerca (che non è oggetto di questo contributo), rivolta ai docenti referenti per l’orientamento dentro le scuole delle reti, ai quali è stato chiesto di compilare un questionario. Sono stati raccolti 79 questionari, da cui emergono anche le difficoltà di fare rete in termini di tempo da dedicare e difficoltà nella gestione dei rapporti con i colleghi della propria scuola; prevalgono in ogni caso gli elementi positivi. Le sette reti analizzate nel corso della ricerca empirica, ed il confronto con la letteratura, hanno evidenziato la presenza di specifici fattori in grado di determinarne il successo. I fattori possono essere distinti in esterni ed interni alla rete; nei primi si considerano le leve che la regione Veneto ha utilizzato per avviare l’esperienza delle reti, nei secondi i fattori di gestione interni alle reti. Le leve utilizzate dalla Regione Veneto sono state: a) leva di tipo economico (finanziamenti annuali ai progetti di rete); b) una leva di tipo normativo (le direttive regionali annuali

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hanno “imposto” gradualmente una ampia e completa gamma di azioni che hanno coperto tutte le categorie di destinatari, “costringendo”/sollecitando la rete ad attivarsi rispetto ai diversi bisogni e attività); c) la concertazione, nel senso che la Direttiva regionale di avvio dei progetti è stata il risultato di una ampia attività di concertazione tra le parti sociali; d) territori omogenei (la Direttiva ha imposto un bacino di utenza specifico per la rete, di livello subprovinciale e cioè le scuole all’interno della circoscrizione dei CPI, limitando un numero massimo di 30 scuole); e) la “diversità” dei partner (la Direttiva ha richiesto la presenza obbligatoria di scuole secondarie di I e II grado e CFP, premiando i progetti che presentavano un partenariato diversificato in cui erano presenti anche attori extra scolastici); f) attività di monitoraggio e valutazione promosse dalla regione (rappresentate dalla documentazione rendicontativa da produrre e dalle visite a campione realizzate dagli operatori della regione; il progetto Pro.val.or.); g) la proposta di un problema da affrontare con contenuti di tipo sfidante ed innovativo: in questo caso la regione chiedeva lo sviluppo di azioni di orientamento formativo e consulenziale, oltre che informativo, attraverso la modalità del lavoro di rete tra diversi partner, per ridurre la dispersione scolastica. Rispetto ai fattori interni alle reti, gli aspetti emersi dall’indagine evidenziano:

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a) nella rete che agisce una interazione di tipo cooperativo, vi è un forte investimento nella dimensione comunicativa e relazionale, sia in termini di frequenti opportunità di incontro e confronto, sia in termini di un sistema di comunicazione (anche tramite frequenti comunicazioni via mail, telefono, sito internet) in grado di mettere in comune e scambiare informazioni, interessi, sensibilità, esperienze, conoscenze, capacità e risorse. La cura della comunicazione interpersonale consente di definire ruoli e compiti degli attori, ridurre gli elementi di incertezza e di ambiguità, creare solidità nelle relazioni. Gli incontri in presenza rimangono un fattore distintivo, che favorisce lo sviluppo di relazioni solide, necessario per coordinare azioni complesse, legato quindi alla possibilità di comunicazioni interpersonali che hanno una certa frequenza al fine di creare coesione ed unità di intenti e di criteri gestionali. La gestione della comunicazione diventa uno degli elementi fondanti la governance; b) in merito alle modalità di gestione della rete, nelle sette reti analizzate, il gruppo rappresenta la modalità principale di coordinamento, in cui il meccanismo centrale di funzionamento è il confronto, cioè la messa in comune di informazioni e competenze parziali e differenti; c) fattori comuni che caratterizzano le reti indagate sono le transazioni tra partner che hanno carattere continuativo: la stabilità delle figure coinvolte (cioè coordinatore di rete, dirigenti scolastici, referenti delle scuole e degli enti partner) ha permesso la costruzione di relazioni di fiducia e la capitalizzazione delle esperienze maturate negli anni e lo sviluppo di relazioni di fiducia reciproca; d) la rete rappresenta una esperienza di apprendimento e quindi di innovazione per le scuole, in quanto nella rete si attua una formazione reciproca tra attori, attraverso lo scambio di esperienze, la costruzione di dispositivi di orientamento comuni, l’incontro di professionalità diverse. La valenza pedagogica della rete coinvolge i destinatari degli interventi, ma anche i vari operatori, in quanto rappresenta una attività di sviluppo della conoscenza; e) la progettazione ben definita delle varie azioni, così come richiesto dalla Direttiva regionale, ha portato alla definizione di finalità e obiettivi chiari e condivisi rispetto all’intervento nel suo complesso, ai destinatari e alle singole azioni, arrivando alla costruzione progressiva di una visione comune;

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f) la definizione di specifici organi che dentro la rete hanno ruoli diversi e complementari (decisionali ed operativi) facilita la programmazione, la presa di decisione, il confronto rispetto alle esigenze reali, il monitoraggio e la valutazione costanti, il miglioramento continuo delle azioni; g) il management della rete (svolto dal coordinatore di rete in collaborazione con i partner), in termini di risorse umane specificatamente dedicate alla gestione della rete, che ha posto particolare attenzione e cura alla creazione di processi partecipativi. Va evidenziato che le reti che hanno realizzato una maggiore connessione tra gli attori al proprio interno e con gli attori del territorio, promuovendo la nascita di un sistema territoriale consolidato, sono i casi in cui i coordinatori di rete sono stati figure distaccate per l’orientamento, potendo dedicare ingenti tempi di lavoro; un contributo centrale è dato quindi dalla leadership, svolta dal coordinatore di rete, che opera attivamente per costruire una visione comune sull’orientamento, è di supporto alla rete degli attori, possiede competenze nelle relazionale interpersonali, comunicazione sociale, organizzazione della partecipazione e competenze specifiche sui temi dell’orientamento, svolgendo un attento management del progetto; h) la creazione di rapporti di scambio tra gli attori coinvolti, nella condivisione di esperienze e strumenti di lavoro, frutto della cura del clima relazionale e della chiara condivisione di finalità e obiettivi, ha portato alla disponibilità a condividere le pratiche adottate nella propria scuola/ente, gli strumenti, le procedure e le conoscenze e ad accogliere le proposte di consulenti esterni. Il confronto fecondo tra competenze diverse appartenenti ai docenti delle diverse scuole e agli esperti di orientamento, soprattutto appartenenti ai CFP della rete. I fattori sopra elencati hanno portato al raggiungimento di un buon grado di appartenenza, per cui gli attori si riconoscono nella coalizione (identificazione), ma anche riconoscono la rete come un soggetto collettivo dotato di una identità e di un progetto. Il lavoro di rete ha aiutato la scuola a inquadrare i bisogni e le urgenze dello scenario educativo territoriale, riuscendo a combinare da un lato l’attenzione e la cura alla persona (sia di studenti che di docenti/operatori di rete), dando quindi particolare attenzione alla dimensione relazionale, con l’efficienza strutturale delle agenzie educative, che devono considerare la gestione di risorse e strutture. Il compito primario della rete è quello di suscitare le energie formative latenti nel territorio, mobilitando vari attori sociali, diventando così occasione per ricostruire i circuiti comunicativi e collaborativi di uno specifico territorio. Il valore aggiunto della rete alla qualità pedagogica e sociale dell’orientamento dipende infatti dalla cooperazione di tutti gli attori che la compongono. La ricerca ha evidenziato il peso determinante dei due attori fondamentali: il coordinatore di rete e i docenti/referenti dei progetti di orientamento delle scuole. Dall’analisi delle reti di tipo cooperativo, emerge come le reti territoriali abbiano senso se formano network, sapendo cioè risolvere i problemi del singolo utente, senza pretendere di accorpare in ogni punto della rete tutte le competenze necessarie, bensì accompagnandolo tra i nodi e i link a trovare le risposte (Galliani, 2009). Risulta quindi fondamentale una formazione/aggiornamento comune degli operatori del servizio sui temi dell’orientamento e delle risorse specifiche, umane e finanziarie, da dedicare per lo sviluppo nel territorio delle attività di orientamento.

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La comprensione del testo orale: percorsi didattici e di stimolazione con la lavagna interattiva (LIM) nella scuola dell’infanzia

Antonio Marzano - Università di Salerno - amarzano@unisa.it Rosa Vegliante - Università di Salerno - rosavegliante@gmail.com

Reading comprehension of oral texts: training and stimulation through the interactive whiteboard (IWB) in kindergarten This paper originates from the need to describe the interactive and communicative processes in groups of children attending the preschool, involved in a reading comprehension task through the functional use of a IWB . The goal is to experiment, by using specific methodologies and teaching aids, whether and how it is possible to stimulate and facilitate the development of inferential skills through the active involvement of the student. In this comprehension process the teacher’s role is of primary importance; in fact he rules the interaction among peers in the reading task, the participation methods and the involved children’s actions. The results strengthen our project to foster verbal text comprehension by using pictures and audiovisual texts through the functional use of a IWB.

Parole chiave: Comprensione, processi inferenziali, età prescolare, LIM.

Keywords: Comprehension, inferential processes, preschool children, LIM.

L’articolo nasce dall’ideazione comune dei due autori che, quindi, ne condividono l’impianto e i contenuti. Nello specifico, Antonio Marzano ha redatto la presentazione, Rosa Vegliante i paragrafi 1 e 2. Entrambi gli autori le conclusioni. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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La ricerca nasce dall’esigenza di descrivere i processi comunicativi e interattivi in gruppi di bambini di scuola dell’infanzia, impegnati in un compito di lettura/comprensione di testi attraverso l’utilizzo funzionale della LIM. L’intento è di sperimentare, mediante specifiche metodologie e sussidi didattici, se e in quale misura sia possibile stimolare e facilitare lo sviluppo delle abilità inferenziali attraverso il coinvolgimento attivo dell’allievo. In tale processo di comprensione la funzione fondamentale è svolta dall’adulto che regola l’interazione tra pari nel compito di lettura, le modalità di partecipazione e le azioni dei soggetti coinvolti. I risultati conseguiti avvalorano il progetto di sollecitare l’abilità di comprensione del testo verbale per mezzo di immagini ed audiovisivi attraverso l’utilizzo funzionale della LIM.


La comprensione del testo orale: percorsi didattici e di stimolazione con la lavagna interattiva (LIM) nella scuola dell’infanzia

Presentazione, ipotesi ed obiettivi

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La comprensione di un testo verbale-scritto-grafico o orale rinvia ad un processo complesso e multidimensionale che coniuga in sé differenti sfere del sapere: cognitiva, linguistica, pragmatica, pedagogica. L’approccio di tipo cognitivista porta alla luce il carattere processuale e reticolare della comprensione, sottolineando come l’attività di lettura sia equiparabile ad un vero e proprio compito di problemsolving. In tale compito, il lettore è chiamato a convogliare le conoscenze dichiarative (sapere che) e procedurali (sapere come) e una serie di strategie cognitive per risalire alla formulazione di ipotesi sul significato del testo. Intorno agli anni 70’ del secolo scorso, gli psicologi cognitivisti (Brandsford, Johnson, 1973; Kintsch, van Dijk, 1978) focalizzano il loro interesse sull’analisi delle strategie, dei meccanismi che vengono attivati nel momento in cui al lettore/ascoltatore si propone di comprendere un testo. Essi dimostrano come la complessità del processo di comprensione risiede nel cogliere i significati espliciti e impliciti tratti dalle singole frasi che costituiscono un testo al fine di creare un’unica idea o nucleo concettuale che rappresenti il contenuto del testo stesso. L’integrazione di idee diviene un compito arduo nel momento in cui il legame esistente tra esse, espresso dalle diverse proposizioni, è debole (Nicoletti, Rumiati, 2006); comprendere richiede, quindi, la mobilitazione inconsapevole di saperi che, in maniera costruttiva e sinergica, si legano tra loro per fare in modo che le nuove informazioni, tratte dai materiali proposti, siano in grado di sollecitare quelle conoscenze preesistenti, immagazzinate nella memoria a lungo termine (JohnsonLaird, 1983). Secondo la prospettiva della psicologia cognitivista, il processo di comprensione consente al lettore di ricavare il significato globale del testo a partire dall’iniziale operazione di decodifica percettiva che getta le basi per la strutturazione della rappresentazione semantica. Il passaggio immediatamente successivo consiste in un’analisi sintattica che consente di riconoscere le lettere, i fonemi e il significato delle parole. Tale capacità non è scontata, ma risulta decisiva per poter passare all’analisi semantica così come hanno dimostrato numerose ricerche volte a rintracciare il forte legame tra la qualità del processo di comprensione e la qualità delle abilità linguistiche di base (van den Broek et al., 2005; Kendeou et al., 2007). La capacità di comprendere i testi e produrre narrazioni è strettamente legata all’acquisizione e allo sviluppo di disparate abilità che rientrano nella macro-categoria della competenza narrativa. Non basta conoscere i nomi di cui si narra (capacità lessicale) o ricorrere a espedienti linguistici; ciò va integrato con il possesso di conoscenze relative alla struttura che, solitamente, le storie hanno o dovrebbero avere (competenza cognitiva) e va legato a capacità di ordine pragmatico, le quali, nel confronto e nell’interscambio, fanno emergere la prospettiva del soggetto, il proprio punto di vista. Kintsch (1998), nell’ambito della ricerca sulla comprensione, opera una distinzione tra il ragionamento, il pensiero e la comprensione so-

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stenendo che, qualora i processi cognitivi vengano attivati in maniera consapevole, la comprensione coincide con un processo complesso e inconsapevole che solo al termine diviene consapevole; il pensiero narrativo è una capacità cognitiva la cui organizzazione interna poggia su schemi evolutivi che forniscono al soggetto una rappresentazione mentale del mondo: “the world becomes more comprehensible to us when we are able to tell a coherent story about it” (p. 16). In tal caso, il tipo di pensiero in questione è quello narrativo (Bruner, 1986) che si contrappone e si ricollega a quello logico-scientifico e paradigmatico: i due modi di pensare sono difficilmente separabili perché agiscono in maniera congiunta, a seconda delle necessità (Smorti, 1994, 1997; Levorato, 2000). Le informazioni provenienti dal testo e le conoscenze possedute sono organizzate all’interno di schemi che guidano l’interpretazione degli eventi presentati; essi sono alla base di quel processo di categorizzazione piagetiano fondato sul binomio assimilazione-accomodamento che, da sintesi delle azioni senso-motorie nella prima infanzia, diviene una condizione indispensabile per lo sviluppo di complesse forme di pensiero. Per Kintsch gli schemi non hanno un carattere universale ma si costruiscono a partire dalle conoscenze e dalle esperienze del lettore; questo spiega l’imparzialità o l’erroneità degli stessi. Alla stregua di Kintsch, Levorato (1988) definisce lo schema come una forma di rappresentazione mentale di conoscenze pregresse, desunte dall’esperienza, a cui il soggetto ricorre per orientarsi nella lettura della realtà circostante. Il tipo di schema (script) permette di descrivere in maniera automatica la rappresentazione mentale delle azioni coinvolte in attività comuni e legate in termini causali e/o temporali. Gli script sono sequenze di azioni (Schank, Abelson, 1977), organizzate secondo un ordine gerarchico, che riproducono un’esperienza abituale verificatasi in un determinato contesto. “Essi ci consentono di anticipare e di predire eventi ricorrenti nel nostro mondo e così pure di fornire la struttura necessaria alla comprensione di nuovi eventi” (Neisser, 1987, p. 333). Nello script si coglie la primordiale forma di organizzazione delle conoscenze che compare a partire dai 20 mesi di vita in cui l’apprendimento si fonda principalmente sull’osservazione dei comportamenti degli adulti nelle varie situazioni. La costruzione categoriale degli eventi rappresenta, quindi, una precoce forma di conoscenza narrativa del bambino che, con lo sviluppo, viene integrata con strutture concettuali, linguistiche, funzionali più evolute (Smorti, 1994; Rollo, Pinelli, Perini, 2002). Alla pari degli script, una ulteriore modalità di organizzazione delle conoscenze, desunte dai diversi generi testuali, è la struttura grammaticale delle storie. Essa va intesa come una sorta di sintassi dalla quale si producono e comprendono le storie, una struttura dotata di categorie specifiche che facilitano il processo di elaborazione. Comprendere una storia vuol dire, infatti, modellare una costruzione interna che dipende dalle caratteristiche della storia da un lato e, dall’altro, dalle conoscenze dichiarative, procedurali e condizionali possedute dal soggetto. Nello schema delle storie si esplicita il senso della narrazione giacché vengono attivate le anticipazioni della mente sulle informazioni in arrivo, le cosiddette aspettative, che a loro volta generano inferenze. Attraverso le inferenze vengono integrate le informazioni in entrata e si attivano processi metacognitivi e metalinguistici in grado di cogliere aspetti psicologici e valutativi del testo. Steinn e Glenn (1979) ritengono che un racconto sia di facile comprensione nel momento in cui l’ascoltatore riesce a seguirlo, ad elaborare le aspettative e a generare inferenze sulla base dei suoi progressi cognitivi e affettivi. Nell’ambito della psicologia cognitiva la comprensione viene concepita nel suo

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carattere processuale ed enciclopedico1; in essa un ruolo importante è assunto dalle conoscenze/esperienze pregresse. Il legame tra il recupero mnestico delle conoscenze esistenti e le nuove informazioni è favorito dalle inferenze. Esse, sulla base degli script (le storie, gli schemi costruiti nella mente del soggetto), vanno a colmare quelle lacune testuali che impediscono il processo di comprensione. Un episodio, non esplicitato dalle frasi/immagini del testo ma che rinvia ad un modello standardizzato (di cui non è stato espresso l’antecedente), viene inferito avvalendosi delle categorie di eventi contenute negli script. La presenza di tali categorie è da intendersi come una vera e propria risorsa in grado di rintracciare una rappresentazione mentale delle storie proposte per risalire a forme di comprensione di carattere linguistico-proposizionale basate su connessioni di tipo causale. La descrizione di una data situazione, sulla base delle conoscenze e delle esperienze precedenti, rimarca come la costruzione del significato di un testo sia data non solo dai significati ascritti nelle frasi che lo compongono, ma da “una quantità variabile di elaborazioni di conoscenze e di interpretazioni del testo basate su conoscenze, vale a dire dal modello situazionale” (Johnson, Laird, 1983, p. 50). Il modello situazionale conferisce importanza alle conoscenze enciclopediche nella costruzione dei significati estraibili dalla lettura del testo e genera inferenze connettive ed elaborative. Le prime si basano sul nesso causale desunto dalle proposizioni presenti; le seconde aggiungono informazioni/significati di natura esplicita. Le due proposizioni possono assumere svariati significati in riferimento ai contesti in cui sono inserite. Durante la lettura il soggetto genera una famiglia di inferenze e ciò dipende dai differenti fattori coinvolti che, stando alle analisi di van den Broek et al. (2005) e Lumbelli (2009), possono afferire: al possesso di schemi e script che, attraverso la mobilitazione delle conoscenze enciclopediche, agevolano il lettore nell’estrapolare ed elaborare le informazioni contenute nel testo; alla distanza tra le informazioni presenti nel testo (ovviamente informazioni vicine prevedono l’attivazione di inferenze automatiche o semplici rispetto a quelle lontane che sono più complesse da integrare); al grado di astrattezza delle informazioni veicolate che richiedono un maggiore sforzo da parte del lettore nel generare inferenze consapevoli e complesse. I fattori sopra esposti hanno condotto a numerosi tentativi di classificazione delle inferenze implicate nel processo di comprensione. Le inferenze compiute dalla memoria di lavoro rinviano alle conoscenze di base, richiamate nel momento in cui le nuove informazioni non consentono di risalire ad una rappresentazione semantica rispetto al significato del testo (bridging inferences). Il ricorso alle conoscenze di base, contenute negli schemi e negli script, non richiede un eccessivo lavoro mnestico in quanto sono utilizzate nella vita di ogni giorno e ci permettono di dare un senso alle situazioni che vi si presentano. Le conoscenze enciclopediche diventano una risorsa per ricostruire il significato di quanto letto. McKoon e Ratcliff (1992) propongono l’ipotesi minimalista per spiegare come il lettore necessiti di generare solo quelle inferenze che hanno la garanzia di stabilire la coerenza locale del testo e che sono facilmente recuperabili attraverso la lettura in memoria. Gerrig (1986) considera la posizione minimalista come un’ipotesi che contribuisce a consolidare modelli mentali avvalendosi di processi inferenziali automatici e strategici. Tali in-

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A tal riguardo, alcuni contributi significativi vanno segnalati nella teoria degli schemi di Bartlett (1932), nei lavori di Piaget (1936), Schank e Abelson (1977), Rumelhart (1984), Anderson e Pearson (1984).

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ferenze si fondano sul principio dell’automatismo e su quello della non intenzionalità da parte del lettore. Graesser, Millis e Zwann (1997) sostengono che nel processo di comprensione un ruolo preminente sia svolto dalle inferenze causali che mirano alla costruzione della rappresentazione mentale dell’intero testo (coerenza globale). Le inferenze causali consentono al lettore di comprendere il perché degli eventi e delle azioni e sono accomunate dal cogliere il nesso causa/effetto tra gli eventi menzionati nel testo. Le ricerche condotte da Trabasso (1989) hanno evidenziato come i bambini, dinanzi a sequenze di immagini poste in maniera disordinata, siano in grado di produrre inferenze causali che legano le diverse parti secondo una teoria ingenua. Tale teoria è il risultato delle esperienze maturate nel tempo e consente a ogni bambino di riconoscere le conseguenze di determinate azioni. Il prodotto del processo di comprensione è la rappresentazione semantica (van Dijk, Kintsch, 1983) che si costruisce in seguito all’incontro/scontro da parte del lettore/ascoltatore con il materiale proposto. Essa consiste in una rielaborazione più o meno fedele della storia e favorisce la conservazione del significato in memoria. Le informazioni tratte dal testo vengono riorganizzate e accomodate in una struttura solida secondo il principio di coerenza: “quella caratteristica del testo che consente di dire ‘questo testo parla di…’, permette di individuare un argomento, un tema, un sommario” (Levorato, 2000, p. 15). Sfogliando un libro, attorno ai tre anni, i bambini riconoscono che si tratta dello stesso personaggio pur se calato in contesti diversi; a questa età l’elemento fondamentale che qualifica la coerenza è l’identità di referenza che consiste nella capacità di cogliere il ripresentarsi dello stesso personaggio impegnato in azioni disparate. Ciò che manca è il legame temporale e sequenziale tra le parti; quest’ultimo compare tra i tre e i quattro anni, quando i bambini sono in grado di riproporre i fatti secondo l’ordine in cui si sono verificati (relazione temporale). Con l’avanzare dell’età, aumenta la capacità di cogliere le relazioni causali e si è in grado di organizzare gerarchicamente le informazioni rilevanti rispetto a quelle accessorie. Le esperienze maturate negli anni permettono al bambino di valicare il limite della sola informazione letterale per ricostruire il significato del testo, facendo leva sulle conoscenze in possesso e sull’attivazione dei processi inferenziali. La capacità di trarre inferenze si lega al livello di maturità raggiunto dal bambino nella lettura: naturalmente, i bambini piccoli compiono un numero inferiore di inferenze rispetto a quelli di età maggiore. Una classica ricerca svolta da Jane Oakhill (1984) ha dimostrato come il gruppo formato da buoni lettori sia capace di rispondere correttamente alle domande proposte inerenti alle informazioni ricavabili direttamente dal testo e a quelle scaturite da un processo di elaborazione inferenziale. Al contrario, per il gruppo costituito dai cattivi lettori si sono registrate prestazioni scadenti in entrambe le tipologie di domande somministrate. Ulteriori evidenze sperimentali, riportate da Cain e Oakhill (1999), hanno individuato le cause di tale incapacità, da parte dei lettori meno esperti, nella difficoltà di contestualizzare le conoscenze pregresse così da colmare i vuoti testuali. Il problema è, in questo caso, da imputare al momento in cui si rendono disponibili tali conoscenze piuttosto che ad una carenza delle stesse (De Beni, Pazzaglia, 1995). A partire dai risultati delle ricerche condotte da Cain, Oakhill e Bryant (2004) su bambini di età scolare, si è estesa l’analisi anche su bambini di età prescolare. Kendeou (2007) ha rilevato che già all’età di 4 anni le abilità di inferenza spiegano il livello di comprensione orale di storie in maniera indipendente dall’ampiezza del vocabolario in possesso e dalla consapevolezza fonologica. Le abilità linguistiche di livello superiore, dunque, sembrano svilupparsi precocemente nel bambino e vengono attivate ogni qualvolta viene richiesto di comprendere dei testi

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(Cardarello, Contini, 2012). Tale assunto è confermato da numerosi studi longitudinali che hanno dimostrato come le abilità implicate nella comprensione del testo e acquisite precocemente siano predittive delle prestazioni nella comprensione della lettura con l’avanzare degli anni (Kendeou, 2007). Già all’età di 3-4 anni lo sviluppo del linguaggio orale è alla base di due tipologie di abilità: le abilità di analisi del codice orale (code skills) e le abilità linguistiche. Le prime rinviano alle capacità fonologiche legate all’analisi e alla manipolazione delle unità sonore; le denominazioni rapide, la memoria fonologica insieme alle conoscenze alfabetiche fungono da precursori essenziali nella decodifica di un testo. Le seconde rimandano ai processi di ordine superiore, come le competenze testuali e le inferenze che giocano un ruolo importante nella comprensione della lettura tali da predire le prestazioni ottenute dagli allievi fin dall’età prescolare (Muter et al., 2004). Le abilità linguistiche di livello elementare o quelle di livello superiore sono teoricamente ed empiricamente distinte. Si sviluppano in modo relativamente indipendente, anche se in maniera simultanea, durante la fase prescolare e concorrono a delineare un lettore competente. Queste ricerche sottolineano come sia determinante stimolare lo sviluppo precoce delle abilità linguistiche di ordine superiore per lo sviluppo degli apprendimenti successivi. Il contatto ripetuto con i testi permette l’integrazione dei meccanismi alla base della comprensione. Una condizione necessaria consiste, conseguentemente, nel fornire ai bambini occasioni di lettura con testi di diversa natura al fine di abituarli all’ascolto. I lavori condotti da Stanovich et al. (1997) confermano quanto siano significative le pratiche dell’impregnazione (esposizione allo scritto) per la comprensione e per l’accrescimento della conoscenza soprattutto nell’età prescolare. Tale pratica funge da rinforzo alle conoscenze generali che facilitano la comprensione. Va anche detto che con l’attuazione di queste pratiche a beneficiarne sono coloro che si definiscono good comprenhenders rispetto a chi ha difficoltà nella lettura (poor comprenhenders), con il rischio di creare/aumentare il divario tra i buoni e i cattivi lettori. Le ricerche longitudinali, poco sopra citate, confermano il legame tra le abilità di comprensione della lingua orale e quelle nella lettura. A tal proposito, si pone l’accento sulla necessità di adottare strategie di didattica attiva fin dalla scuola dell’infanzia affinché gli allievi in difficoltà possano migliorare la comprensione attraverso il dibattito, la condivisone, la discussione, il coinvolgimento per affrontare con maggiore facilità la lettura futura di testi complessi. È da tutte queste premesse che si è avviata un’indagine esplorativa volta a verificare se, e in quale misura, si possa favorire, mediante l’organizzazione di un ambiente multimediale di apprendimento, lo sviluppo delle abilità inferenziali di lettura nei bambini frequentanti la scuola dell’infanzia. Ci riferiamo, in particolare, all’utilizzo della lavagna interattiva (LIM), uno strumento tecnologico innovativo che da qualche tempo sta contaminando l’azione didattica apportando modifiche sostanziali alle prassi metodologiche. Gradualmente è cambiato il ruolo del docente e con esso quello del discente: l’allievo è diventato l’attore principale nella manipolazione dei Learning Obiects (LO) e nella costruzione del senso degli oggetti culturali. La LIM consente di coniugare differenti potenzialità: da quelle comunicative e formative a quelle espressive che contraddistinguono i nuovi media. Essa “rappresenta, da una parte, un’integrazione dei quattro brainframe (alfabetico, video, informatico e cibernetico) e, dall’altra, favorisce le molteplici e differenziate modalità di accesso alla conoscenza stimolando le diverse dominanze e intelligenze” (Marzano, 2012, p. 109). Si è partiti dal considerare la LIM non un semplice mezzo da utilizzare nel set-

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ting d’aula, bensì un valido ausilio attraverso il quale l’insegnante contribuisce a creare ambienti di apprendimento che favoriscono forme di collaborazione e cooperazione tra gli studenti, tutti impegnati in maniera attiva e in compiti autentici. Tra i tratti identitari della LIM, infatti, si annovera l’interattività; essa media tra lo strumento didattico in questione e il fruitore, offrendogli ampio spazio nel processo di apprendimento poiché stimola la creatività e il pensiero divergente. Si è constatato che se da un lato l’allievo può intervenire sulla LIM in maniera diretta (interattività comportamentale), dall’altro è indotto all’elaborazione di riflessioni personali (interattività mentale). L’interattività, in tal caso, incrementa il processo di comprensione dell’allievo che si relaziona con i materiali multimediali grazie alle potenzialità dello strumento. Le attività didattiche, infatti, prevedendo il rapporto sinergico tra le differenti sfere sensoriali, diventano più stimolanti e contribuiscono a mantenere alto il livello di attenzione anche nei bambini in difficoltà. Ai diversi vantaggi, propri delle metodologie di didattica attiva, quali la co-partecipazione, la costruzione di LO, la negoziazione e la condivisione dei saperi, si aggiunge la motivazione quale condizione indispensabile per incoraggiare l’allievo all’apprendimento e allo sviluppo di competenze di ordine superiore tra le quali i processi inferenziali.

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1. La descrizione della ricerca L’indagine esplorativa, tenendo conto delle premesse fin qui presentate, ha avuto come principale obiettivo quello di verificare l’efficacia di interventi formativi volti al potenziamento delle abilità inferenziali e testuali sottese alla comprensione di testi orali attraverso l’impiego di sequenze di immagini e materiale multimediale e avvalendosi dell’utilizzo funzionale della LIM. A tal fine si è utilizzato un disegno quasi-sperimentale a due gruppi. Tale tipologia si avvicina al disegno sperimentale classico a due gruppi (sperimentale e di controllo) con la differenza che sia i gruppi che i soggetti non sono scelti casualmente ma sono naturali, ossia già costituiti, come nel nostro caso, dalle sezioni coinvolte di scuola dell’infanzia. Naturalmente “la loro equivalenza è ragionevolmente supposta o controllata mediante metodi diversi” (Viganò, 2002, p. 171). La sperimentazione ha interessato 6 sezioni del terzo anno della scuola dell’infanzia dell’Istituto Comprensivo di Aiello del Sabato, sito in provincia di Avellino, organizzato in tre plessi (Aiello del Sabato, due sezioni; San Michele, tre sezioni; Santo Stefano, una sezione) e per un totale di 112 bambini coinvolti (56 maschi, 56 femmine) di età media, all’inizio dell’indagine, pari a cinque anni (con una età minima di 4,6 anni ed una massima di 5.9). La fase operativa è stata preceduta da due incontri preliminari: il primo con le insegnanti referenti dei tre plessi per organizzare il calendario degli incontri, il secondo per coordinare e condividere con le insegnanti di tutte le sezioni coinvolte i percorsi didattici da svolgere. Le attività si sono protratte per quattro mesi (febbraio-maggio 2014). L’indagine si è sviluppata in tre fasi. Nella prima fase, che ha avuto una durata di 10 giorni, è stato verificato il livello iniziale di comprensione del testo orale attraverso l’ausilio del TOR (Test di comprensione del testo orale), uno strumento standardizzato a livello nazionale, messo a punto da Levorato e Roch (2007) con l’obiettivo di accertare il possesso di tale competenza in bambini di età compresa tra i tre e gli otto anni. Il TOR si compone di brevi favolette che seguono la grammatica delle storie (Handler, Johnson, 1977; Rumelhart, 1977; Stein, Glenn, 1979) e che individua un’ambientazione nella quale si introduce il protagonista e il contesto

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in cui si svolge l’episodio, a sua volta costituito da una sequenza di avvenimenti che sfociano in un lieto fine. Questo perché, come dimostrano numerose ricerche (Stein, Trabasso, 1982; Hudson, Nelson, 1983; Slackman, Nelson, 1984, Kendeou et al., 2007), già a partire dai quattro anni i bambini posseggono un embrionale schema delle storie. Dal punto di vista strutturale, il TOR prevede tre forme (A, B, C) all’interno delle quali sono contenute due storie di uguale grado di difficoltà e lunghezza. Ciascuna forma interessa un periodo d’età specifico suddiviso in fasce della durata di sei mesi ciascuna. La differenza sostanziale tra una forma e l’altra è data dall’aumento dei dettagli, dei personaggi e delle vicende. Nel nostro caso, considerando l’età dei partecipanti, si è utilizzata la forma B predisposta per bambini tra i quattro anni e sei mesi e i cinque anni e undici mesi. La prova somministrata, composta da due narrazioni (Il mostro e La bambina) ha inteso rilevare le abilità di ogni singolo allievo sottoposto all’ascolto dei testi. Durante la lettura di brevi sequenze testuali sono state formulate 5 domande testuali atte a cogliere informazioni direttamente ricavabili dal testo che sondano i livelli superficiali di comprensione e 5 domande inferenziali o high level che hanno richiesto uno sforzo maggiore da parte del bambino nel rintracciare quei significati impliciti non immediatamente tratti dal testo ma solo attivando connessioni più impegnative. Il test prevede che ad ogni domanda corrispondano 4 alternative di risposta corredate da 4 figure che il bambino è invitato a scegliere come risposta corretta. Tale modalità è particolarmente indicata per la giovane età dei partecipanti ai quali non è richiesto di mostrare abilità espressive in quanto non si ritiene “appropriato valutare la comprensione del testo attraverso la produzione verbale […] perché potrebbe accadere che la difficoltà di produrre una risposta verbale oscuri le reali capacità di comprensione” (Levorato, Roch, 2007, p. 24). Ad ogni risposta corretta viene attribuito 1 punto per un totale massimo complessivo di 10 punti per ogni storia. I punteggi grezzi, tenendo conto dell’età degli allievi e “dei cambiamenti evolutivi significativi sia dal punto di vista delle capacità di elaborazione sia dal punto di vista delle capacità di elaborazione che dal punto di vista delle conoscenze” (ivi, p. 23), sono stati normalizzati in base alle fasce d’età in cui risulta suddivisa la forma B del TOR. I valori individuali, ricavati in seguito alla somministrazione delle due storie, sono stati convertiti, in base all’età di ciascun bambino, nei corrispondenti valori-indice riportati nelle tabelle di conversione del TOR. Lo strumento ha permesso di fornire tre punteggi che misurano rispettivamente la comprensione delle informazioni testuali (TOR-T) e inferenziali (TORI) e la somma dei suddetti (TOR). La composizione dei gruppi (sperimentali e di controllo) è avvenuta sulla base dei punteggi ottenuti nella fase del pre-test, ragion per cui si è deciso di attuare il trattamento sperimentale sia nei sottogruppi che hanno riportato punteggi medio-bassi al pre-test, sia nei sottogruppi i cui esiti hanno evidenziato un buon livello di partenza. In definitiva, quattro sezioni di scuola dell’infanzia (sottogruppi) hanno costituito il gruppo sperimentale (69 alunni: 35 maschi e 34 femmine), due sezioni (43 alunni: 21 maschi e 22 femmine) il gruppo di controllo. Prima di procedere alla descrizione delle fasi successive dell’indagine, nella prossima tabella (Tab. 1) si riportano, in sintesi, i risultati dell’analisi descrittiva.

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GC (n = 43)

GS (n = 69)

Media

Dev. Std.

Media

Dev. Std.

TOR-T

10,84

1,69

10.38

2,06

TOR-I

9,44

1,28

8,56

2,36

Tab. 1: statistiche descrittive (pre-test)

Tenuto conto della numerosità ridotta del campione coinvolto, inoltre, si è ritenuto opportuno, per la verifica delle ipotesi della ricerca, utilizzare il test non parametrico di Mann-Whitney per il confronto dei due campioni (Tab. 2). Pre-test Pre-test Tot-T

Tor-I

Mann-Whitney U

812,00

767,00

p

0,832

0,425

Tab. 2: confronto delle medie (pre-test) !

Da un punto di vista statistico, l’analisi della situazione di partenza non ha evidenziato sostanziali differenze fra i due gruppi. Questi risultano equivalenti, con una migliore prestazione complessiva (Tab. 1) degli alunni del GC. Le prestazioni (TOR-I) nei soggetti appartenenti al gruppo sperimentale (M=8,56) sono infatti inferiori rispetto a quelle del gruppo di controllo (M=9,44). Il valore della deviazione standard, poi, attesta una maggiore variabilità nella dispersione dei dati del gruppo sperimentale (GS) soprattutto per quel che riguarda il TOR-I. Circa il controllo delle prestazioni per genere, per finire, non si sono rilevate differenze statisticamente significative tra maschi e femmine. La seconda fase della ricerca ha previsto la realizzazione degli interventi di stimolazione attraverso la messa a punto di un training (5 incontri con durata di circa 120 ciascuno) svoltosi nei mesi di marzo ed aprile che ha coinvolto ciascun gruppo; i primi quattro incontri sono avvenuti a cadenza settimanale, il quinto a distanza di due settimane dal quarto incontro. Sia nei gruppi sperimentali che nei gruppi di controllo sono state narrate dieci medesime storie tratte dal testo Comprensione e produzione verbale di Ilaria Pagni. Le attività di training si sono articolate, nel gruppo sperimentale, mediante l’utilizzo funzionale della LIM e nel gruppo di controllo attraverso modalità di didattica tradizionale (Fig. 1). In entrambi i gruppi, i testi orali sono stati supportati da materiale iconico, sequenze di immagini mono/multi-azione con un spiccato potere attrattivo (Cardarello, 2002) finalizzate a sollecitare i meccanismi cognitivi, sopra descritti.

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Fig. 1: attività nel GC

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Nel gruppo sperimentale il software utilizzato2 ha permesso di arricchire il materiale iconico con colori, suoni e immagini touchscreen che hanno visto il bambino impegnato nel processo di comprensione in maniera attiva (Fig. 2).

Fig. 2: attività nel GS

Le storie, che si succedevano per grado di difficoltà, erano contenute sulle foglie di un albero gigante interattivo. Ogni bambino, dopo la registrazione, ha iniziato le attività grazie alla guida di un simpatico scoiattolo che invitava a visitare “l’albero delle storie” fornendo le istruzioni e premiando i progressi attraverso il riempimento di un cestino di ghiande (Fig. 3). Al termine dell’ascolto delle storie, i bambini sono stati impegnati, sempre utilizzando la LIM, nel fornire una risposta a domande di comprensione con tre opzioni rappresentate da immagini. Alcune domande si sono focalizzate sulla richiesta di semplici informazioni ricavabili dal brano, altre hanno sollecitato azioni di integrazione inferenziale. Ogni sezione ha previsto esercizi di varia tipologia: domande dirette; discriminazione tra una serie di immagini; trascinamento e completamento di disegni; riordino delle scenette illustrate secondo l’ordine temporale anche individuando la scena sbagliata non presente nella storia.

2

Tratto dal kit Comprensione e produzione verbale di Ilaria Pagni.

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Fig. 3: l’albero delle storie

Nel gruppo sperimentale, il ruolo dell’adulto è stato marginale; sono stati richiesti interventi di natura organizzativa e di supporto laddove si è intravista una difficoltà nella comprensione delle domande o un atteggiamento inibitorio nell’interazione con la lavagna, dai più battezzata lavagna magica. Alla pari del gruppo sperimentale, il gruppo di controllo è stato sottoposto all’ascolto delle stesse storie secondo un approccio individuale in piccolo gruppo per far sì che i bambini, indotti alla discussione, potessero accrescere la partecipazione alle attività. Il ruolo dell’adulto è stato cruciale perché mirato a catturare l’attenzione dell’ascoltatore avvalendosi di tecniche di lettura animata così come la tecnica del rispecchiamento verbale o di riformulazione.

2. Analisi dei risultati Nella terza fase della ricerca, avvenuta a distanza di oltre due mesi dal pre-test, è stato riproposto il test iniziale. Nel mese di maggio, al termine del training, si è proceduto alla ri-somministrazione del TOR. Nella prossima tabella (Tab. 3) si presentano le evidenze sperimentali evidenziate dalla somministrazione del re-test. GC (n = 43)

GS (n = 69)

Media

Dev. Std.

Media

Dev. Std.

TOR-T

11.90

1,64

11,81

1,65

TOR-I

10,60

1,68

12,53

1,49

Tab. 3: statistiche descrittive (post-test)

Pur rilevando un generale progresso delle prestazioni degli allievi di ambedue i gruppi, di un certo interesse sono i risultati ottenuti dal gruppo sperimentale. Mentre da un lato (TOR-I) il valore della media sembra confermare un significativo miglioramento nelle prestazioni degli alunni, dall’altro lo scarto quadratico

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medio indica come la dispersione dei dati è diminuita confermando una riduzione della loro variabilità. A sostegno di questi risultati, quanto emerso dall’utilizzazione del test non parametrico di Mann-Whitney ha confermato l’efficacia della sperimentazione e corroborato le stesse ipotesi di ricerca (Tab. 4). Post-test Tot-T

Tor-I

Mann-Whitney U

623,00

65,00

p

0,148

< 0,01

Tab. 4: confronto delle medie (post-test) !

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Se, per quanto riguarda il TOR-T, i risultati sono mediamente comparabili, le differenze diventano interessanti relativamente al TOR-I. In sostanza, non si riscontrano differenze significative fra i due gruppi quando si tratta di cogliere informazioni direttamente ricavabili dal testo che sondano i livelli superficiali di comprensione. Le differenze diventano interessanti quando agli allievi è richiesto uno sforzo maggiore nel rintracciare quei significati impliciti non immediatamente tratti dal testo ma individuabili attraverso processi inferenziali. Dal confronto con i valori elaborati dopo la somministrazione del pre-test emerge, inoltre, come la condizione iniziale di svantaggio, registrata nel gruppo sperimentale, sia stata positivamente superata. Tutti questi risultati confermano, per finire, come il training di stimolazione, realizzato con l’uso della LIM, sia risultato efficace ai fini di un miglioramento complessivo delle prestazioni.

Conclusioni L’intento della ricerca, oggetto del presente contributo, è stato di verificare se, e in quale misura, si potesse favorire, mediante l’organizzazione di un ambiente multimediale di apprendimento, lo sviluppo delle abilità inferenziali e testuali sottese alla comprensione di testi orali attraverso l’impiego di sequenze di immagini e materiale multimediale e avvalendosi dell’utilizzo funzionale della LIM. Il processo di comprensione, si diceva poco sopra, si sviluppa a partire dai 3-4 anni di età e si affina nel periodo della scolarizzazione; in questo periodo il riconoscimento delle relazioni tra le parti delle storie diventa sempre più preciso e la rappresentazione mentale acquista una struttura gerarchica. I fattori coinvolti nei processi che soggiacciono alla comprensione dei testi, scritti e orali, sono analoghi ed “in entrambi i casi è in gioco un insieme di abilità che portano a costruire una rappresentazione mentale di quanto si è letto o ascoltato” (Levorato, Roch, 2007, p. 20). In riferimento all’alta percentuale di poor comprehender nell’ambito della reading literacy così come nella comprensione della lettura si è voluto sperimentare come uno strumento interattivo e alla portata dei piccoli nativi digitali, potesse stimolare e motivare il bambino nell’approccio diretto con i materiali proposti. Il miglioramento del gruppo sperimentale nel processo di comprensione del testo orale, così come evidenziato dall’elaborazione statistica dei dati, sembra sostenere la nostra ipotesi di partenza: le attività proposte hanno favorito un potenziamento delle capacità inferenziali dei bambini. Ci riferiamo, in particolare,

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all’ambito delle inferenze ponte o bridging che permettono di ricostruire i nessi tra gli elementi testuali, facendo leva sulle conoscenze enciclopediche e sull’attenzione rivolta all’ascolto del testo. Tali risultati rinforzano, dunque, l’ipotesi di promuovere le abilità di comprensione del testo verbale per mezzo di materiale iconico attraverso l’utilizzo della LIM quale ausilio valido per favorire forme di collaborazione e cooperazione tra gli studenti, tutti impegnati in maniera attiva e in compiti autentici. Va sottolineato, comunque, come l’uso di questi strumenti tecnologici, da solo, non può portare a un miglioramento degli apprendimenti. Gli insegnanti hanno bisogno di percorsi di formazione in servizio per sviluppare la consapevolezza della relazione tra approcci all’apprendimento interattivo e sviluppo concettuale e cognitivo nelle differenti aree tematiche di riferimento. La lavagna interattiva ha consentito ai bambini di familiarizzare con una grande varietà di oggetti favorendo una maggiore autonomia nel lavoro da compiere. Alunni con un’iniziale difficoltà di comprensione hanno colmato, al termine del training di stimolazione con la LIM, quelle carenze originarie, rientrando in una soglia di accettabilità delle prestazioni. Le attività realizzate, dunque, dimostrano come sia possibile attuare percorsi di didattica della comprensione del testo orale attraverso strumenti innovativi che, con il loro potere attrattivo e motivante, inducono i piccoli lettori ad interagire con i materiali proposti, puntando sullo sviluppo dei processi cognitivi superiori. Proporre attività per lo sviluppo delle abilità inferenziali, già a partire dall’età prescolare, risulta efficace ai fini dell’apprendimento all’ingresso nella scuola primaria: gli alunni, in altri termini, potrebbero avvantaggiarsi nel processo di decodifica della lingua scritta che, in principio, impegna tutto il loro carico cognitivo. Le evidenze sperimentali suggeriscono, inoltre, ulteriori prospettive di ricerca per/con gli insegnanti. Pensiamo, ad esempio, all’attivazione di progetti interdisciplinari volti a stimolare/incentivare i bambini della scuola dell’infanzia a leggere, prima che a saper leggere. Pur nei limiti oggettivi legati al numero di allievi coinvolti, ci sembra comunque di poter concludere affermando che i risultati a cui siamo pervenuti possono fornire utili elementi di riflessione: per aprire la strada ad un ventaglio di prospettive operative nuove ed innovative, per migliorare l’azione didattica e favorire la qualità degli apprendimenti.

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Percezione delle competenze e dell’utilità d’uso delle tecnologie in classe e modelli di formazione dei docenti

Marinella Muscarà - Università degli Studi di Enna “Kore” - muscara@unikore.it. Roberta Messina - Università degli Studi di Enna “Kore” - roberta.messina@unikore.it.

Perceived competency, perceived ICT usufulness in classroom and teachers training models Based on 470 temporary teachers attending the PAS (a special pre-service teacher qualification course) in three universities in Sicily, this study investigated their perceived competency, self efficacy, beliefs, attitudes, expectations, frequency of use regarding the integration of technology in the classroom settings. The Italian version of ITIS scale (Intrapersonal Technology Integration Scale, Benigno et al., 2013) was used. Data from research suggest two future directions: a factors analysis affecting teachers’ motivation in order to integrate ICT in classrom setting and a redesign pre and in-service teachers training aimed to facilitate such integration.

Parole chiave: ICT, formazione docenti, percezione delle competenze, utilità d’uso .paper Muscarà Messina

Keywords: Teachers Training, ICT integration in teaching, Perceived competency, ICT usufulness

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Il contributo analizza le competenze percepite, le credenze, le attitudini e le aspettative riguardanti l’integrazione delle ICT nella pratica didattica di 470 docenti precari che hanno frequentato i Percorsi Abilitanti speciali in tre università siciliane. Attraverso i dati raccolti tramite la somministrazione della versione italiana della Scala ITIS (Intrapersonal Technology Integration Scale, Benigni et al., 2013), la ricerca ha verificato la corrispondenza fra competenze percepite ed effettivo utilizzo delle ICT in aula, prendendo in considerazione le differenze emerse fra gruppi di docenti appartenenti alle diverse aree di insegnamento. I risultati ottenuti hanno aperto una serie di riflessioni sugli sviluppi futuri della ricerca, che saranno indirizzati prevalentemente verso l’analisi delle motivazioni che spingono i docenti ad utilizzare ed integrare gli strumenti tecnologici nella pratica professionale quotidiana, e verso possibili proposte di rimodulazione dei percorsi di formazione rivolti ai docenti, in grado di favorire tale integrazione.


Percezione delle competenze e dell’utilità d’uso delle tecnologie in classe e modelli di formazione dei docenti

Introduzione

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La crescente diffusione delle nuove tecnologie informatiche e telematiche che si è registrata negli ultimi decenni nel mondo della scuola ha spinto gli studiosi ad indagare il grado di integrazione delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (comunemente richiamate con la sigla inglese ICT – Information and Communication Technologies) nella pratica professionale degli insegnanti. I risultati delle ricerche in questo campo hanno evidenziato che queste tecnologie, pur rappresentando un valido supporto per la preparazione delle lezioni, in particolare per la ricerca delle informazioni e la predisposizione dei materiali didattici, non sono ancora oggetto di una reale integrazione nella pratica educativa (Benigni et al., 2013; Gui, 2010). Le cause che inibiscono tale processo sono state oggetto di studio negli anni recenti. Esse vengono generalmente fatte risalire a fattori “estrinseci” ed “intrinseci” che costituirebbero delle barriere concrete (Rogers, 2000; Ertmer, 1999, 2005). Secondo Tezci (2011), i principali fattori estrinseci sono riconducibili all’ambiente scolastico. Tra gli altri, la capacità di investimento economico delle istituzioni, l’accessibilità di strumenti hardware e software, il supporto tecnico a disposizione dei docenti, la capacità di implementazione di adeguati percorsi formativi rivolti al personale e il clima più o meno favorevole del contesto scolastico. I fattori intrinseci riguardano la sfera socio-culturale dei singoli docenti: le caratteristiche personali (e.g. età, sesso, scuola di provenienza), gli atteggiamenti, le motivazioni e le convinzioni a proposito dei benefici che l’uso delle ICT può apportare nella pratica professionale. Il livello di interazione dei fattori estrinseci ed intrinseci determina, in base a quanto osservato dall’autore, il grado di apertura e la disponibilità ad apprendere nuove strategie di insegnamento mediate dalle ICT da parte dei docenti. Il modello della Technology Acceptance (Bagozzi et al., 1992; Davis et al., 1989) e la sua ulteriore diffusione (Venkatesh et al., 2003) pone l’attenzione sui fattori intrinseci ed evidenzia che la percezione dell’utilità (perceived uselfuness)1 e la percezione della facilità d’uso (perceived ease of use)2 degli strumenti tecnologici potrebbero influenzare il grado di apertura e la disponibilità ad utilizzare concretamente le ICT. Infatti, più elevato è il grado di percezione dell’utilità e di percezione della facilità d’uso, maggiore sarà la predisposizione dei singoli ad adottare l’innovazione. Al contrario, minore è il controllo e la gestione dei benifici pro-

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La perceived uselfuness viene definita dagli autori come il grado di utilità o di vantaggio percepito dal singolo nell’uso di un determinato sistema che può migliorare la proria prestazione professionale (Davis et al.,1989, p. 985). La perceived ease of use viene definita dagli autori come il grado di facilità pa darte del singolo nell’uso di un sistema che può agevolare/ridurre il carico di lavoro/fatica/sforzo nella la prestazione professionale (ibidem).

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dotti dall’innovazione, maggiore sarà la difficolta a che il singolo accetti ed adotti l’innovazione. In letteratura sono stati sviluppati diversi modelli teorici che tentano di interpretare l’atteggiamento del singolo verso l’utilizzo delle tecnologie informatiche. Secondo la classificazione di Venkatesh et al. (2003) è possibile distinguere otto diversi framework teorici, ciascuno dei quali rimanda a specifici costrutti, funzionali a comprendere come le nuove tecnologie vengono accolte e integrate nell’uso individuale. Mutuata dalla Psicologia Sociale, la Teoria dell’Azione Ragionata (TRA – Theory of Reasoned Action, Davis et al., 1989) assume che i fattori che determinano l’integrazione dell’utilizzo delle tecnologie nel repertorio comportamentale dell’individuo sono sostanzialmente due: l’Attitude Toward Behavior, che rappresenta l’insieme di sentimenti e atteggiamenti (positivi o negativi) verso la possibilità di mettere in pratica un determinato comportamento e la Subjective Norm, o percezione soggettiva di ciò che gli altri significativi pensano relativamente all’attuazione di un determinato comportamento. La Teoria del Comportamento Pianificato (TPB – Theory of Planned Behavior) estende la Teoria dell’Azione Ragionata aggiungendo un terzo costrutto, il Perceived Behavioral Control, che fa riferimento alla percezione di vincoli, interni ed esterni, all’attuazione di un determinato comportamento (Taylor & Todd, 1995a). Il modello TAM (Technology Acceptance Model) di Venkatesh e Davis (2000) riprende il costrutto di Subjective Norm e lo integra alla percezione di utilità (Perceived Usefulness) e di facilità di applicazione (Perceived Ease of Use) degli strumenti tecnologici in ambito professionale. Nel 1995 i due approcci (TAM e TPB) vengono combinati da Taylor e Todd (1995b) in un unico modello che raggruppa i quattro costrutti (Attitude Toward Behavior, Subjective Norm, Perceived Behavioral Control e Perceived Usefulness) per spiegare la struttura di credenze e atteggiamenti sottostanti al comportamento di adozione e utilizzo degli strumenti tecnologici. Un ampio filone di ricerche è stato derivato, inoltre, dalla Teoria Generale della Motivazione, secondo cui l’adozione e l’uso delle nuove tecnologie può essere spiegata dalle due dimensioni, estrinseca ed intrinseca, della motivazione umana (Davis et al., 1992). Se la motivazione intrinseca supporta la scelta di realizzare un comportamento esclusivamente per l’attività in sè, la motivazione estrinseca si basa sulla percezione che una specifica attività sia strumentale al raggiungimento di un obiettivo distinto, come ad esempio il miglioramento della performance lavorativa, l’opportunità di ottenere una promozione o un aumento del salario (Davis et al., 1992). Un modello alternativo alle teorie dell’Azione Ragionata e del Comportamento Pianificato è stato proposto nel 1977 da Triandis sulla base della Teoria del Comportamento Umano. Thompson et al. (1991) hanno successivamente adattato il sucitato modello per predire l’adozione di un’ampia gamma di tecnologie informatiche. Job-fit (il grado in cui una tecnologia viene considerata come strumento utile a migliorare la performance lavorativa), Complexity (livello di difficoltà relativo alla comprensione del funzionamento e all’applicabilità di una specifica tecnologia), Long-term Consequences (effetti a lungo termine in campo professionale dell’uso delle ICT), Affect toward Use (emozioni positive o negative associate all’uso delle ICT), Social Factors (credenze e valori culturali relativi all’uso delle ICT condivisi dal gruppo sociale di riferimento) e Facilitating Conditions (fattori oggettivi che facilitano la fruizione degli strumenti tecnologici) costituiscono i costrutti centrali che vengono utilizzati per spiegare la scelta di utilizzo delle ICT. La Innovation Diffusion Theory (IDT – Rogers, 1995), elaborata in ambito sociologico per studiare l’introduzione e diffusione degli strumenti innovativi utilizzati nel campo delle

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organizzazioni, è stata applicata all’integrazione delle nuove tecnologie, trovando ampio supporto empirico (e.g. Moore e Benbasat, 1996; Agarwal e Prasad, 1997). I costrutti centrali della teoria fanno riferimento al grado di innovazione percepito in uno strumento innovativo rispetto ai precedenti (Relative Advantage), alla sua facilità di utilizzo (Ease of Use), al contributo che esso apporta al miglioramento dell’immagine del sistema organizzativo o sociale in cui viene introdotto (Image), al grado di visibilità del suo utilizzo (Visibility), alla coerenza con valori, bisogni e bagaglio di esperienze dei potenziali utilizzatori (Compatibility), alla tangibilità dei risultati legati al suo utilizzo, misurati sia in termini di osservabilità che di comunicabilità (Results Demonstrability) e, infine, al grado di utilizzo volontario dello strumento innovativo (Voluntariness of Use). Un ultimo approccio teorico, derivato da una delle più diffuse teorie sul comportamento umano (Social Cognitive Theory di Bandura, 1986), è la Social Cognitive Career Theory (SCCT – di Lent et al., 1994). Compeau e Higgins (1995), che hanno successivamente utilizzato questo approccio per spiegare l’utilizzo delle ICT in ambito professionale, hanno individuato i seguenti costrutti di riferimento: Outcome Expectations/Performance, che riguarda la percezione delle conseguenze dell’utilizzo delle ICT sulla performance lavorativa e Outcome Expectations/Personal, ovvero le conseguenze percepite sul piano personale, in termini di autostima e successo nel raggiungimento di uno o più obiettivi; SelfEfficacy, o giudizio sulla propria capacità di utilizzare uno o più strumenti tecnologici per raggiungere un determinato obiettivo lavorativo; Affect, o emozione sottostante l’utilizzo delle ICT e infine il livello di Anxiety o reazione emotiva legata alla perfomance di utilizzo di un computer o altri strumenti tecnologici. Diversi studi derivati dalla SCCT hanno esplorato il ruolo esercitato dalle principali variabili che influiscono sulla gestione della propria carriera professionale sull’interesse e sull’effettivo utilizzo delle ICT nella pratica dell’insegnamento. Ad esempio, Compeau e Higgins (1995), confrontando gli esiti dell’apprendimento di due diversi percorsi formativi (lezioni tradizionali e didattica attiva) volti all’acquisizione di competenze nell’utilizzo di editor di testo e di fogli di calcolo informatizzati, hanno osservato che la Self-Efficacy nell’utilizzo del computer esercita un’influenza significativa in entrambi i contesti di apprendimento. Zhang ed Espinoza (1998) hanno studiato la relazione fra Self-Efficacy, atteggiamento e motivazione all’apprendimento di competenze informatiche. I risultati della ricerca hanno mostrato che l’atteggiamento verso le tecnologie informatiche è significativamente associato alla Self-Efficacy nell’utilizzo del computer, e la credenza sull’utilità delle tecnologie nella pratica professionale predice la motivazione all’apprendimento di abilità e competenze informatiche. È stato inoltre dimostrato che la self-efficacy nell’utilizzo del computer è significativamente correlata all’outcome expectation professionale (Compeau e Higgins, 1999). Più recentememte, Smith (2002) ha confermato l’influenza predittiva della self-efficacy e dell’outcome expectation nella crescita dell’interesse per l’utilizzo della tecnologia informatica. Con l’obiettivo di riunire in un unico strumento di misura le principali variabili interne (mutuate dagli studi sulla SCCT) che incidono sull’integrazione delle ICT nella pratica pedagogica, Niederhauser e Perkmen (2008) hanno elaborato e verificato un modello di misurazione che operazionalizza i costrutti correlati di Self-efficacy, Outcome expectation, Interesse e intenzioni comportamentali nell’utilizzo delle tecnologie (Intrapersonal Technology Integration Scale).

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1. Finalità dell’indagine Nella nostra indagine abbiamo utilizzato la versione italiana (Benigni et al., 2013) della scala di Niederhauser e Perkmen, con l’obiettivo di approfondire lo studio delle credenze e degli atteggiamenti verso l’uso delle ICT in un gruppo di docenti siciliani frequentanti i corsi PAS3 (Percorso Abilitante Speciale) e, dunque, con diversi anni di esperienza di insegnamento alle spalle. L’analisi delle caratteristiche anagrafiche dei docenti e la relativa percezione delle competenze, credenze, attitudini e aspettative sull’integrazione di tali strumenti nella pratica didattica, è stata mirata a verificare la corrispondenza fra competenze percepite ed effettivo utilizzo delle ICT in aula. In secondo luogo, lo studio ha preso in considerazione le differenze emerse fra gruppi di insegnanti appartenenti a settori disciplinari diversi in relazione alla frequenza d’uso, alle competenze percepite e alle aspettative professionali e personali nell’utilizzo delle ICT. I risultati hanno aperto una serie di riflessioni sugli sviluppi futuri della ricerca, mirati prevalentemente ad un’analisi delle motivazioni che spingono i docenti ad utilizzare gli strumenti tecnologici nella pratica professionale quotidiana. Si ipotizza, infatti, che l’analisi delle motivazioni (interne ed esterne), congiuntamente allo studio delle aspettative e credenze sull’adozione delle tecnologie in classe, possa fornire un utile contributo ad un accrescimento della conoscenza nel settore e alla programmazione e all’implementazione di percorsi di formazione mirati alla reale integrazione delle ICT nella pratica professionale.

2. Strumenti e metodi Nell’ambito di questo studio è stata utilizzata la versione italiana della scala ITIS – Intrapersonal Technology Integration Scale – di Benigni et al. (2013). Lo strumento, la cui versione originale è stata elaborata da Niederhauser e Perkmen (2008) per misurare il ruolo giocato dalle credenze interne degli insegnanti nel processo di adozione e integrazione delle tecnologie in classe, è strutturato in due parti: Una scheda anagrafica, preceduta da una sintetica presentazione del questionario. Alla scheda anagrafica segue una domanda che testa la frequenza d’uso delle tecnologie didattiche a scuola su cinque livelli ordinati di risposta: Mai, Qualche volta l’anno, Qualche volta al mese, Qualche volta alla settimana, Tutti i giorni. I docenti che forniscono una risposta diversa da “Mai” vengono invitati a proseguire la compilazione della seconda parte del questionario; diversamente, gli insegnanti

3

Decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 25 marzo 2013, n. 81: Regolamento recante modifiche al decreto 10 settembre 2010, n. 249, concernente: «Definizione della disciplina dei requisiti e delle modalità della formazione iniziale degli insegnanti della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e della scuola secondaria di primo e secondo grado, ai sensi dell’articolo 2, comma 416, della legge 24 dicembre 2007, n. 244» in http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2013/07/04/13G00120/sg. Rientrano tra i destinatari dei PAS anche i docenti a tempo Rientrano tra i destinatari dei PAS anche i docenti a tempo determinato che hanno prestato servizio nei centri di formazione professionale per gli insegnamenti compresi in classi di concorso atti a garantire l’assolvimento dell’obbligo di istruzione a decorrere dall’anno scolastico 2008/2009 nonché anche quei docenti che hanno prestato servizio su posti di sostegno.

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che dichiarano di non fare alcun utilizzo delle tecnologie didattiche concludono la compilazione del questionario. La seconda parte dello strumento segue con quattro item – ciascuno dei quali prevede una risposta su scala ordinale a cinque livelli (nullo, basso, medio, buono ed elevato) – che connòtano il grado di competenza relativo all’uso dei più diffusi strumenti tecnologici, degli applicativi per computer, all’uso di Internet e alla competenza con ambienti di scrittura collaborativa (wiki, googledocs, ecc.). Infine, il questionario prevede la compilazione della Intrapersonal Technology Integration Scale, costituita da 21 item con risposta misurata su scala Likert a cinque punti (1-fortemente in disaccordo; 5-fortemente in accordo). I 21 item convergono nei seguenti fattori4:

186

– Self-Efficacy (SE), composto da 6 item che misurano la fiducia nella propria capacità di utilizzare le ICT in classe; – Interesse (INT), composto da 6 item che rilevano l’interesse personale relativo all’uso delle ICT nelle varie attività didattiche in cui esse possono essere impiegate; – Outcome Expectation (OE), fattore di secondo ordine che valuta la percezione dei possibili vantaggi derivanti dall’impiego delle ICT in classe. Composto da un totale di 9 item, questo macro-indicatore è ulteriormente suddiviso in tre sottoscale: – Performance Outcome Expectation (POE – 3 item) che misura la percezione del grado in cui l’utilizzo di un certo strumento tecnologico migliora la prestazione professionale; – Self-evaluative Outcome Expectation (SEOE – 3 item) che valuta la credenza relativa alla soddisfazione personale che un insegnante potrebbe sperimentare usando le tecnologie in classe; – Social Outcome Expectations (SOE – 3 item) che rileva la credenza che i colleghi valutino favorevolmente l’uso delle tecnologie nei processi d’insegnamento. Per rilevare l’affidabilità di ciascun fattore è stato ricavato l’indice Alpha di Chronbach, che ha restituito in tutti i casi valori al di sopra di 0,705. Le caratteristiche psicometriche della scala sono state analizzate dagli autori sia in contesti online, sia in contesti carta e matita. Pur avendo verificato l’invarianza fattoriale dello strumento somministrato sia in versione online che cartacea, è stata registrata la tendenza della versione online e dei soggetti maschi a produrre punteggi superiori rispetto alla versione carta e matita e ai soggetti femmine. Per tale ragione, gli autori hanno fornito delle tabelle di conversione6 dei punteggi grezzi in punteggi percentili, mediante i quali è possibile classificare i soggetti in tre livelli ordinati di score (1-basso; 2-medio; 3-alto) che consentono di ridimensionare la distorsione dovuta alla modalità di somministrazione.

4 5 6

http://sites.itd.cnr.it/scalaITIS/?page=strumento SE: α=0,90; INT: α=0,81; POE: α=0,74; SEOE: α=0,80; SOE: α=0,91; OE: α=0,87. http://sites.itd.cnr.it/scalaITIS/?page=norme&scala=SE

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3. Partecipanti I partecipanti alla ricerca sono i docenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado privi di abilitazione all’insegnamento che hanno frequentato i corsi abilitanti PAS durante l’anno accademico 2013/2014. La somministrazione del questionario è avvenuta mediante la modalità online e carta e matita. I docenti iscritti ai corsi PAS presso l’Università di Enna Kore (N=397) hanno compilato volontariamente il questionario online presso le aule informatiche del Centro Linguistico di Ateneo. Poichè la versione online prevedeva la compilazione obbligatoria di tutti i campi del questionario, non sono state registrate risposte mancanti, pertanto per le analisi è stato mantenuto l’intero data-set online. La versione carta e matita del questionario è stata somministrata, invece, presso le aule degli atenei di Catania e Palermo. Poichè il 46,57% dei questionari carta e matita ha registrato un’alta percentuale di risposte mancanti, dei 335 questionari somministrati inizialmente ne sono stati considerati validi solo 156. Ai fini della ricerca, sono stati considerati solo 553 docenti su 732 iniziali. Di seguito, la tabella 1 mostra le frequenze e le percentuali relative ai docenti che utilizzano ovvero non utilizzano le ICT in classe in relazione alle seguenti variabili: età (solo media e dev. standard); anzianità di servizio (solo media e dev. standard); genere; grado di scuola; titoli post lauream; precedenti abilitazioni all’insegnamento su altra classe di concorso; abilitazione alla professione libera. Uso ICT in classe

Età

Anni di servizio

No

38,85

39,48

38,95

Dev. Standard

5,64

5,56

5,63

Media

8,16

7,41

8,05

Dev. Standard

4,58

4,98

4,65

N

92

15

107

%

85,98

14,02

100

N

378

68

446

%

84,75

15,25

100

Media

Maschi Genere Femmine

Secondaria di I Grado Grado di scuola Secondaria di II Grado

Si Titoli post-lauream No

Si TAB No

ricerche

Totale

Si

N

116

15

131

%

88,55

11,45

100

N

353

68

421

%

83,85

16,15

100

N

221

35

256

%

86,33

13,67

100

N

243

48

291

%

83,51

16,69

100

N

103

10

113

%

91,15

8,15

100

N

366

73

439

%

83,37

16,63

100

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Si TAPL No

Totale Nota:

N

117

12

129

%

90,70

9,30

100

N

349

71

420

%

83,10

16,90

100

N

470

83

553

%

84,99

15,01

100

Titoli post-lauream=specializzazione, master, dottorato TAB=titolo di abilitazione all’insegnamento su altra classe di concorso TAPL=titolo di abilitazione alla professione libera

Tab. 1: Caratteristiche dei soggetti per uso delle ICT in classe7

Un’ulteriore suddivisione funzionale alla descrizione del gruppo dei partecipanti e all’analisi delle variabili indagate riguarda l’area di insegnamento cui afferiscono i docenti. Di seguito, viene riportato il grafico (Graf. 1) della distribuzione percentuale dei docenti precari per area di insegnamento e utilizzo ovvero non utilizzo delle ICT in classe.

188

Graf. 1: Distribuzione percentuale dei docenti per area di insegnamento e uso delle ICT in classe

!

4. Analisi Poichè i docenti che hanno dichiarato di non fare uso delle tecnologie didattiche in classe (N=83; 15,01%) hanno compilato esclusivamente la scheda anagrafica del questionario, le analisi dei risultati si focalizzano sui dati relativi ai docenti che hanno compilato per intero il questionario (N=470; 84,99%).

7

Rispetto alla scheda anagrafica, il 3,62% dei soggetti ha omesso di fornire una o più risposte, di seguito elencate per tipologia di informazione richiesta: nr. 1 docente (0,18%) non ha specificato l’età; nr. 1 docente (0,18%) non ha specificato il grado di scuola di appartenenza; nr. 6 docenti (1,08%) non hanno specificato se in possesso di ulteriori titoli post lauream; nr. 1 docente (0,18%) non ha specificato se in possesso di precedente abilitazione all’insegnamento; nr. 4 docenti (0,72%) non hanno specificato se in possesso di ulteriore titolo di abilitazione professionale; nr. 7 docenti (1,27%) non hanno indicato l’area di insegnamento.

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Prima di procedere all’elaborazione dei dati, i punteggi grezzi dei cinque fattori della scala ITIS sono stati ricondotti a tre livelli ordinati di score (basso=1, medio=2 e alto=3) sulla base dei punteggi normativi forniti dagli autori8. Come specificato nella sezione degli strumenti, tale conversione si è resa necessaria in quanto il nostro data-set fa riferimento a dati raccolti mediante due diverse modalità di somministrazione (online e carta e matita). Tenuto conto che gli indicatori dell’età e dell’anzianità di servizio hanno natura metrica, le altre variabili considerate nel nostro studio sono state trattate su scala ordinale. Per tale ragione, per verificare se e come cambiano tali variabili9 fra i docenti raggruppati in base alle caratteristiche indicate nella scheda anagrafica10 è stato applicato il test U di Mann-Whitney (1947). Inoltre, è stato utilizzato il test ANOVA di Kruskal-Wallis (1958) per esplorare le differenze fra gruppi di docenti appartenenti alle diverse aree di insegnamento, ed infine il coefficiente Tau di Kendall (1988) per misurare le correlazioni fra età, anzianità di servizio e le variabili di interesse.

5. Risultati Come già anticipato, il test U di Mann-Whitney è stato applicato per analizzare le differenze dei punteggi ordinali relativi alle variabili considerate nella seconda parte del questionario11 in relazione ai gruppi dei docenti diversificati secondo le variabili indicate nella scheda anagrafica. La successiva Tabella 2 ne mostra gli esiti: Genere

Grado di scuola

Titoli

TAB

TAPL

post-lauream F

M

I Grado

II Grado

Si

No

Si

No

Si

No

3,31

3,54

3,60

3,27

3,46

3,27

3,71

3,26

3,63

3,25

3,66

4,05

ns

ns

ns

ns

ns

ns

3,85

3,70

3,62

3,98

ns

ns

ns

ns

ns

ns

3,85

3,64

3,99

4,22

ns

ns

ns

ns

ns

ns

4,12

4,01

2,88

3,21

ns

ns

ns

ns

ns

ns

3,111

2,89

SE

ns

ns

ns

ns

ns

ns

ns

ns

2,26

2,04

POE

ns

ns

ns

ns

ns

ns

ns

ns

1,912

1,74

Frequenza uso ICT Competenza uso degli strumenti tecnologici Competenza uso degli applicativi Competenza Internet

uso

di

Competenza uso di ambienti collaborativi

Tab. 2: Valori medi dei punteggi ordinali ottenuti dai gruppi di docenti differenziati L per caratteristiche anagrafiche

8 9

http://sites.itd.cnr.it/scalaITIS/?page=norme&scala Frequenza d’uso delle ICT, i quattro indicatori di competenza d’uso di strumenti tecnologici e i fattori della scala ITIS. 10 Genere, grado di scuola di appartenenza, titoli culturali post lauream, precedenti titoli di abilitazione all’insegnamento su altra classe di concorso, ulteriore titolo di abilitazione alla professione libera. 11 Frequenza d’uso delle ICT, i quattro indicatori di competenza d’uso di strumenti tecnologici e i fattori della scala ITIS (si riportano solamente Self-Efficacy –SE e Performance Outcome Expectation – POE perchè risultati significativi).

ricerche

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Come si può osservare nella Tabella 2, il punteggio riferito alla variabile “Frequenza d’uso delle ICT” si differenzia significativamente in relazione a tutti i gruppi analizzati. Più precisamente, mostrano i punteggi più alti il gruppo dei docenti maschi rispetto al gruppo dei docenti femmine ed il gruppo dei docenti appartenenti alla scuola secondaria di I grado rispetto a quello dei docenti appartenenti alla scuola secondaria di II grado. Si registrano significative differenze di punteggio anche tra i gruppi di docenti in possesso di precedenti titoli di abilitazione all’insegnamento su altra classe di concorso e di ulteriore titolo di abilitazione alla professione libera, rispetto ai gruppi che hanno dichiarato di non possedere tali titoli. Per quanto riguarda la percezione delle quattro competenze d’uso delle ICT, il gruppo dei maschi ha registrato punteggi più alti rispetto al gruppo delle femmine così come il gruppo di coloro i quali sono in possesso di un ulteriore titolo di abilitazione alla professione libera rispetto al gruppo che non lo possiede. Inoltre, quest’ultimo gruppo ha ottenuto un punteggio minore in relazione alle variabili “Self-efficacy” e “Performance Outcome Expectation”. Nella seconda fase, sono state analizzate le differenze fra i gruppi di docenti appartenenti alle distinte aree di insegnamento. Dall’output della Kruskal-Wallis ANOVA è emerso che la frequenza d’uso e la percezione delle competenze nell’utilizzo delle ICT sono fortemente correlate con l’area di insegnamento. In particolare, gli indicatori significativamente diversi sono la Frequenza d’uso delle ICT (χ2(df=5)=16,622; p=0,005), la Competenza percepita nell’uso di strumenti tecnologici (χ2(df=5)=22,615; p<0,001), la Competenza nell’uso degli applicativi più diffusi (χ2(df=5)=28,985; p<0,001) a cui si aggiunge il fattore “Self-efficacy (SE)” (χ2(df=5)=13,988; p=0,016) della scala ITIS, come mostrato nella Tabella 3: Area di insegnamento Frequenza uso ICT

3,17

Scientifica

51

3,39

Linguistica

126

3,47

42

3,80

5

3,80

Altro

26

3,31

Totale

458

Umanistica

209

3,59

Scientifica

51

3,92

Linguistica

128

3,70

44

4,11

5

4,00

Altro

26

3,96

Totale

463

Umanistica

209

3,54

Scientifica

51

3,94

Linguistica

128

3,61

44

4,14

5

3,80

Altro

26

3,92

Totale

463

Umanistica

209

2,02

Scientifica

51

2,02

Linguistica

128

2,08

44

2,52

5

2,40

26

2,08

Artistica

Tecnologica Artistica

Competenze d'uso degli applicativi

Tecnologica Artistica

Self-efficacy (SE)

Mean 208

Tecnologica

Competenza d'uso degli strumenti tecnologici

N

Umanistica

Tecnologica Artistica Altro Totale

463

Nota: tutte le differenze fanno riferimento a livelli di significatività p!0,05!

Tab. 3: Medie degli indicatori significativamente diversi fra gruppi differenziati per area d’insegnamento

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Dai valori medi riportati nella Tabella 3, si evince, inoltre, che gli indicatori precedentemente citati mostrano i punteggi più alti nel gruppo di docenti appartenenti all’area tecnologica, seguito prevalentemente dal gruppo dei docenti appartenenti alle aree artistica e scientifica. Il quadro che emerge mostra come la frequenza d’uso delle tecnologie, la percezione delle competenze nell’uso degli strumenti tecnologici e dei principali applicativi e la percezione della Self-Efficacy nell’utilizzo delle tecnologie in classe siano prerogative degli insegnamenti che inglobano in sé l’uso di queste tecnologie. In ultima istanza, è stata analizzata la relazione che intercorre fra l’età, l’anzianità di servizio, la frequenza d’uso delle ICT, i quattro indicatori di competenza nell’uso dei vari strumenti tecnologici e i fattori della scala ITIS. I relativi indici Tau di Kendall, che ne spiegano la relazione, sono riportati di seguito nella Tabella 4: COMPETENZE Frequenza uso ICT

Età

Anzianità di servizio

Uso Uso Uso Internet strumenti applicativi tecnologici

FATTORI ITIS Uso ambienti collaborativi

SE

INT

POE SEOE SOE

-,047 -,034 ,082( -,088(*) ,069 ,043 *)

Tau di Kendall r

,008

-,128(**)

-,124(**)

-,205(**)

-,093(**)

Sig. (2-code)

,833

,000

,001

,000

,008

,199

,348

,026

N

464

469

469

469

469

469

469

469

Tau di Kendall r Sig. (2-code) N

,124(**)

-,053

-,050

-,082(*)

,004

,001

,153

,173

,028

,914

465

470

470

470

470

OE

-,025 -,055 -,016 ,505 470

,141 470

,674 470

,060 ,241 46 9

,017

46 9

469

,055 ,054

-,041

,141 ,145

,272

47 0

47 0

470

** Livello di significatività p=0,01. * Livello di significatività p=0,05.

Tab. 4: Indici di correlazione fra le variabili età, anzianità di servizio, frequenza d’uso delle ICT, indicatori di competenza nell’uso dei vari strumenti tecnologici e fattori della scala ITIS

I risultati mostrano, innanzitutto, che l’età dei docenti non stabilisce alcuna relazione significativa con la frequenza d’uso delle ICT a scuola. Essa è invece significativamente e negativamente correlata con tutti gli indicatori di competenza dell’uso della tecnologia e dei suoi più diffusi applicativi. Ciò significa che al crescere dell’età diminuisce la percezione della competenza dell’uso delle ICT più diffuse. Dalla Tabella 4 si può apprezzare come l’età presenti una leggera relazione negativa con il fattore Outcome Expectation (OE) ed in particolare con il microfattore Performance Outcome Expectations (POE): all’aumentare dell’età decrescono le aspettative sulla performance professionale legate all’utilizzo delle tecnologie didattiche in aula. In altre parole, all’aumentare dell’età dei docenti diminuisce la percezione dei possibili vantaggi derivanti dall’impiego delle ICT in classe ed in particolare la percezione del miglioramento della prestazione professionale attraverso l’utilizzo di un certo strumento tecnologico. Relativamente all’anzianità di servizio, invece, è interessante notare che essa mostra una relazione positiva e significativa con la frequenza d’uso delle tecnologie didattiche a scuola. In sintesi, all’aumentare del numero degli anni di servizio cresce la frequenza d’uso delle ICT. Tuttavia, al contempo, l’anzianità di servizio non rivela alcuna relazione con i fattori della scala ITIS, né con gli indicatori di percezione della competenza d’uso delle tecnologie più diffuse, fino a mostrare una leggera relazione negativa con la percezione della competenza nell’utilizzo di internet.

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Conclusioni

192

Da una prima analisi dei risultati emerge che frequenza e competenza d’uso delle ICT presentano differenze significative rispetto al genere. I maschi si percepiscono, infatti, più competenti e dichiarano di utilizzare più frequentemente le ICT rispetto alle femmine. Questo risultato è coerente con diversi studi condotti nel settore (e.g. Tezci, 2011; Jimoyiannis e Komis, 2007; Arch e Cummins, 1989; Schumacher e Morahan-Martin, 2001). Si è potuto inoltre rilevare che i docenti in possesso di un titolo di abilitazione alla professione libera dichiarano un maggiore livello di competenza nell’uso delle ICT12 rispetto a chi non lo possiede così come anche la frequenza d’uso delle tecnologie didattiche risulta più alta nei gruppi di docenti in possesso di titoli post lauream, di precedenti titoli di abilitazione all’insegnamento e alla professione libera. Un’ulteriore differenza, infine, è stata riscontrata relativamente al grado di percezione della Self-Efficacy (SE) e dell’Outcome Expectation (OE), variabili che presentano valori più alti nel gruppo dei docenti in possesso di un titolo di abilitazione alla professione libera. I risultati che emergono dall’indagine inducono a sostenere che i percorsi di formazione post lauream o di specializzazione e quelli finalizzati al conseguimento dell’abilitazione nel campo dell’insegnamento e della professione libera in generale possono incidere positivamente sulla frequenza d’uso e sulla competenza d’uso delle ICT. Al riguardo, è stato possibile rilevare che le ICT sono più frequentemente utilizzate dai docenti di area tecnologica, artistica e scientifica, i quali hanno registrato congiuntamente un punteggio più elevato anche in relazione al fattore Self-Efficacy (SE). I risultati ottenuti dai gruppi dei docenti appartenenti a queste ultime aree, riscontrabili frequentemente in letteratura (Benigni et al., 2013; Hennessy et al., 2005), derivano con molta probabilità dal fatto che questi docenti hanno frequentato più di un percorso di formazione che può aver favorito la familiarità e l’esperienza diretta con le ICT. Si potrebbe affermare, pertanto, che il risultato non sia legato solamente ad una esposizione quantitativa alle ICT ma piuttosto ad una esposizione qualitativa. L’output fornito dalle correlazioni mostra inoltre che all’aumentare dell’età decrescono le competenze percepite nell’utilizzo delle tecnologie e la percezione che le ICT rappresentino strumenti utili a migliorare la performance professionale (POE) e l’efficacia percepita (SE). Questo risultato è in linea con gli esiti delle precedenti indagini condotte dagli autori italiani della scala (Benigni et al., 2013) che hanno individuato pattern simili rispetto alla relazione fra età e fattori della scala ITIS. Un risultato degno di riflessione riguarda, invece, la relazione positiva osservata fra anzianità di servizio e uso delle ICT. Questa evidenza empirica, sebbene fornita dal gruppo di soggetti indagato, potrebbe indurre a pensare che l’esperienza professionale incide positivamente sulla frequenza d’uso delle tecnologie didattiche. Tuttavia, questo comportamento non poggia sulle competenze specifiche percepite nell’uso delle ICT. L’anzianità di servizio, infatti, non stabilisce relazioni di rilievo con la percezione delle competenze relative all’uso delle tecnologie didattiche, né con i fattori della scala ITIS. In altre parole, malgrado all’aumentare degli anni di servizio i docenti si dotino sempre più frequentemente di strumenti tecnologici funzionali e di supporto allo svolgimento delle attività

12 Competenza relativa all’uso dei più diffusi strumenti tecnologici, degli applicativi per computer, all’uso di Internet e alla competenza con ambienti di scrittura collaborativa (wiki, google docs, ecc.).

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didattiche, ciò non garantisce che essi si percepiscano competenti nell’utilizzo e nell’integrazione delle ICT nella pratica didattica. Coerentemente con i risultati di numerose ricerche già richiamate, si può dunque affermare che, anche relativamente al gruppo di docenti indagato nel presente studio, l’utilizzo delle ICT nei contesti educativi non corrisponde necessariamente ad una reale integrazione nella pratica di insegnamento (Ropp, 1999). Spesso, infatti, i docenti utilizzano le ICT come mero strumento accessorio per la didattica (ad esempio per pianificare o facilitare le lezioni, per ricercare materiali su Internet, per entrare in contatto o condividere contenuti in ambienti di scrittura collaborativa, e così via), senza modificare le performance professionali. In questo contesto, sembrerebbe utile pertanto esplorare la motivazione interna ed esterna (Deci & Rayan, 2001) che spinge i docenti ad utilizzare ed integrare le ICT nel processo di insegnamento-apprendimento. Malgrado l’Outcome Expectation (OE), ovvero l’aspettativa che le proprie azioni producano le conseguenze desiderate, giochi un ruolo fondamentale nell’accrescere la motivazione a mettere in atto un determinato comportamento (Benigni et al., 2013), si ritiene possa essere interessante esplorare in futuro la spinta motivazionale esterna all’utilizzo delle ICT (ad esempio l’adeguamento alle indicazioni ministeriali o l’aumento di salario) e la relazione che tale spinta stabilisce con la frequenza d’uso e la percezione delle competenze nell’utilizzo delle tecnologie. Nel caso in cui la richiesta di utilizzo delle ICT provenga da input esterni, il docente si troverà costretto a gestire ed integrare gli strumenti tecnologici nelle ordinarie attività didattiche a fronte di non sempre adeguate preparazione, consapevolezza e competenza d’uso. Qualora, invece, la spinta motivazionale all’utilizzo delle ICT provenisse da input interni, la propensione e la disponibilità dei docenti alla integrazione delle ICT nella pratica didattica potrebbe risultare maggiore. Stimolare la motivazione interna all’integrazione delle ICT nell’insegnamento rappresenta, dunque, uno dei punti cruciali per la formazione degli insegnanti. Sebbene sia stato ampiamente dimostrato che la mera acquisizione di abilità d’uso degli strumenti tecnologici avanzati non implichi necessariamente la capacità di integrare tali competenze nella pratica dell’insegnamento (Lawless & Pellegrino, 2007; Mishra et al., 2009), ad oggi la maggior parte dei percorsi di formazione rivolti ai docenti punta prevalentemente sull’acquisizione di abilità (skills) relative all’uso delle ICT. I percorsi di formazione che seguono questa logica concepiscono i contenuti disciplinari e le pratiche pedagogiche come domìni separati dalle conoscenze e competenze tecnologiche. In contrasto con tale tendenza, Mishra e Koehler (2006) hanno recentemente sviluppato il modello TPACK (Pedagogical Technological Content Knowledge), secondo cui le conoscenze sui contenuti dell’insegnamento (Content Knowledge), sulla pratica pedagogica (Pedagogical Knowledge) e sugli strumenti tecnologici (Technological Knowledge) rappresentano tre dimensioni interconnesse che danno vita ad un unico campo di conoscenze e competenze funzionale a sviluppare strategie mirate all’apprendimento di specifici contenuti disciplinari mediante l’uso delle tecnologie. Anche Chai et al. (2010) hanno valutato l’efficacia di un corso mirato a promuovere l’integrazione delle tecnologie nella pratica professionale. Gli autori hanno osservato che le attività del corso, i cui obiettivi erano modellati secondo i principi dell’approccio TPACK, hanno migliorato significativamente le competenze dei docenti nell’integrazione delle ICT in classe. In prospettiva futura, questo modello potrebbe rappresentare una modalità formativa di fondamentale importanza per la reale integrazione dell’uso delle tecnologie in classe e un cambiamento di rotta significativo nella formazione degli insegnanti.

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Riferimenti bibliografici

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La creatività non è un compito per casa: una ricerca esplorativa con studenti di scuola secondaria di primo grado Marina Santi - Università di Padova - marina.santi@unipd.it Giulia Da Re - Università di Padova - giulia.dare@unipd.it Debora Aquario - Università di Padova - debora.aquario@unipd.it

Creativity is not an homework: an exploratory study with secondary school students The usefulness of homework is a controversial and debated issue within the international scientific community in recent years. But the issue is surely interesting also in the wider social community, because of the implications of this practice into the experiences and habits of the families, as well as children. On the basis of these assumptions, an exploratory study has been realized with the aim to contribute to the increment of research on this complex field, highlighting the different components involved in the homework practice, and the specific aim of investigating the perception of students about homework from the point of view of creativity. In particular, the aim was to investigate whether and to what extent the assigned tasks are perceived as a stimulus for “divergent thinking”. For this purpose, a questionnaire was developed and administered to a group of secondary school pupils. The results provide insights on the meaning of the homework for the students, as well as about the need for rethinking them from a formative and evaluative point of view.

Parole chiave: compiti per casa, creatività, percezioni degli studenti

Keywords: homework, creativity, students’ perception

L’articolo è frutto di un progetto di ricerca ideato e coordinato dall’autrice Marina Santi, realizzato nella parte empirica dall’autrice Giulia Da Re e monitorato nella parte di analisi e discussione dei risultati dall’autrice Debora Aquario. I paragrafi introduttivi del Framework teorico e dell’ideazione dello strumento sono riconducibili alla prima autrice. La parte descrittiva della ricerca è attribuibile alla seconda autrice. L’analisi dei risultati è della terza autrice. La discussione finale è opera congiunta di Marina Santi e Debora Aquario. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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L’utilità dei compiti per casa costituisce oggetto di una questione controversa e dibattuta entro la comunità scientifica internazionale negli ultimi anni. Ma il tema è senza dubbio tra quelli che riscuotono interesse anche nella più ampia comunità sociale, per le implicazioni che tale pratica ha nei vissuti e nelle abitudini delle famiglie, oltre che dei bambini e ragazzi. Sulla base di queste premesse, è stato condotto uno studio esplorativo con lo scopo generale di contribuire allo studio e alla problematizzazione scientifica della pratica didattica degli homework, indagandone le componenti implicate, con specifica focalizzazione dello studio sulla percezione degli studenti sui compiti dal punto di vista della creatività. In particolare, si voleva indagare se e in che misura nei compiti che vengono loro assegnati viene percepita una richiesta e lo stimolo di “pensiero divergente”, nelle sue diverse componenti. A tale scopo è stato ideato un questionario, somministrato ad un gruppo di alunni di scuola secondaria di primo grado. I risultati offrono spunti di riflessione sul significato che i compiti assumono per gli studenti e sui vissuti correlati, nonché sulla necessità di un ripensamento sul loro senso in chiave formativa e valutativa.


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L’utilità e l’efficacia dei compiti per casa è questione controversa e dibattuta entro la comunità scientifica internazionale negli ultimi anni. Ma il tema è senza dubbio tra quelli che riscuotono interesse anche nella più ampia comunità sociale, per le implicazioni che tale pratica ha nei vissuti, nelle abitudini e nelle attese delle famiglie oltre che dei bambini e ragazzi, che vedono impegnata molta parte del tempo extrascolastico in questa attività. Una recente proposta del Ministero francese di ridurne la quantità ha fatto discutere sull’opportunità o meno di questa pratica anche nel nostro paese e l’ex ministro Profumo ha mostrato simpatia per una prospettiva che, nel ridurre i compiti a casa, veda ampliare la gamma degli stimoli da offrire agli studenti fuori e dopo la scuola. Ridurre i compiti lascerebbe, ad esempio, maggior tempo per impegnarsi in contesti di partecipazione sociale e culturale, anche virtuali, utili allo sviluppo della persona nella sua interezza. La questione non è nuova nelle raccomandazioni ministeriali italiane, se si pensa che già negli anni sessanta vennero emanate diverse circolari ove si invitavano i capi di istituto a vigilare sulla quantità dei compiti assegnati agli allievi specie nel fine settimana, ovvero nei giorni di riposo lavorativo, in cui il tempo doveva essere dedicato a coltivare le relazioni e gli svaghi familiari. La complessità della questione, sia sul piano della dimostrabilità scientifica dell’efficacia dei compiti a casa, che della fondatezza delle credenze popolari sul loro valore formativo, nonché della legittimità della pretesa di assegnarli, richiederebbe molti più studi di quanti finora ne siano presenti nella letteratura scientifica e molta più consapevolezza professionale, politico-amministrativa e culturale. In ambito scolastico, un maggior interesse per questa tematica avrebbe certamente implicazioni rilevanti sia per la strutturazione della progettazione educativa e didattica dell’insegnamento, che per l’ottimizzazione e valorizzazione delle dinamiche di apprendimento degli studenti. In ambito sociale, l’organizzazione e qualificazione degli spazi educativi della comunità sarebbero sensibilmente modificate con una diversa valorizzazione del tempo quotidiano dei bambini e dei giovani. In verità, molte delle pratiche depositate nella tradizione scolastica, familiare e individuale legate agli “homework” si basano su credenze sedimentate, spesso confuse e non supportate da indagini ed evidenze scientifiche, tutte di fatto riconducibili ad una “folk psychology” tanto vaga quanto largamente condivisa e accettata. Secondo Vatterott (2009) le credenze più diffuse e influenti sono riconducibili a cinque tipologie a loro volta influenzate da tre prospettive eticoculturali. La prima credenza ha a che vedere con la necessità e l’obbligo da parte della scuola e dell’insegnante di estendere l’apprendimento oltre l’aula. L’assunto implicito è che vi sia un diritto da parte dei docenti di controllare bambini e ragazzi fuori dalla scuola, di invadere il loro tempo extrascolastico con attività che si ritengono migliori del gioco, della televisione o altri passatempi. È evidente che le famiglie debbano concordare piuttosto passivamente su questo e indurre i loro figli a rispondere senza repliche alle richieste, violando in modo altrettanto evidente al principio di autodeterminazione di entrambi. La seconda credenza è sostanzialmente riassumibile in questo assunto: l’attività intellettuale è intrinsecamente migliore di quella non intellettuale, includendo in quest’ultima

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categoria tutte le attività sociali, emozionali e fisiche, come portare a spasso un cane, chiacchierare con gli amici, andare in bici o semplicemente guardare un tramonto; analogamente lo sviluppo “intellettuale” ha priorità su ogni altro tipo di sviluppo, sebbene sia evidente che la salute e il benessere di ognuno non preveda la stessa priorità. La terza credenza può essere sintetizzata in questa affermazione: i compiti per casa insegnano la responsabilità (Kohn, 2006); sebbene si intenda piuttosto riferirsi all’obbedienza nell’eseguire ciò che si chiede, quando lo si chiede e senza mettere in discussione chi lo chiede. Probabilmente la perseveranza di questa pratica e di questa credenza non fa che allontanare ogni altra possibilità e alternativa per educare la responsabilità delle giovani generazioni non attraverso la coercizione, bensì attraverso pratiche decisionali, deliberative e valutative mirate a far loro progettare, essendone responsabili, il proprio apprendimento (Santi, 2006; Vatterott, 2007; Gaskey & Anderman, 2008; Biggeri & Santi, 2012; Santi & Di Masi, 2014). La quarta credenza è condivisa tanto dalle famiglie che dagli operatori scolastici e attribuisce alla quantità di compiti a casa un segno di rigore nello svolgimento del curricolo. Questa credenza inerisce in modo diretto con la tematica al centro del nostro studio, poiché l’attribuzione di valore e efficacia dei compiti viene direttamente correlata al volume di compiti assegnati, più che al tipo di consegne e alla loro durata di svolgimento. Sebbene sia chiaro che essere indaffarati a svolgere una massa esagerata di lavoro manca di qualsiasi valore educativo, questa credenza (Jackson, 2009) è quella che maggiormente incide sull’attuale indifferenza degli insegnanti verso l’individuazione di compiti alternativi, autentici, complessi e sfidanti, concentrando piuttosto l’attenzione sulla loro quantità. La quantità, semmai, dovrebbe riguardare la molteplicità di opzioni da proporre, da adattare alle differenze individuali e alle diverse potenzialità di sviluppo degli allievi e ai loro profili di apprendimento. Correlata a quest’ultima credenza sta l’ultima annoverata da Vatterott, che lega il valore stesso dell’insegnante e dell’allievo a questa pratica. In sostanza, un “buon insegnante” dà compiti a casa e un “buon allievo” fa i suoi compiti per casa. Di tale credenza vale anche la versione negativa, per cui sia non dare compiti a casa che non farli sono segni del disvalore dell’insegnante e dell’allievo. Poco importa se un insegnante che fa bene il suo lavoro a scuola non ha necessità di attribuire compiti a casa; e meno ancora importa, purtroppo, se il mancato svolgimento dei compiti da parte di bambini e ragazzi può essere connesso a situazioni contestuali e familiari sfavorevoli, non idonee o se, addirittura, dalla consapevolezza di non averne bisogno ai fini del miglioramento proprio apprendimento. Importa poco; sebbene ciò produca molti degli effetti collaterali negativi oggi tanto denunciati: sulla mancata cultura della valutazione della docenza da un lato; sull’aumento della dispersione scolastica e sul cultural-socialeconomical divide, dall’altro. L’insieme di queste cinque credenze sui compiti per casa compone dunque il retroterra a sostegno di questa pratica, ma sostiene indirettamente prospettive culturali, etiche e politiche sull’infanzia e la giovinezza tutt’altro che prive di conseguenze storiche: una cultura moralistica che definisce ciò che sono gli allievi: sostanzialmente svagati e irresponsabili; un’etica “calvinista” che indica ciò che dovrebbero essere gli allievi: meritevoli attraverso la fatica; una convinzione comportamentista dell’azione educativa che ispira le scelte politiche di controllo su come farli diventare ciò che vogliamo essi siano: sottomessi all’autorità. Se le credenze popolari che attraversano la nostra cultura non contribuiscono alla problematizzazione degli “homework”, la letteratura scientifica non ci restituisce risultati univocamente interpretabili ai fini della corroborazione di questo dispositivo didattico; spesso gli esiti delle scarse ricerche sul tema offro-

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no conclusioni contraddittorie. Cooper (2007), uno degli autori più citati su questo tema, ha tentato una sintesi dello stato dell’arte sulla questione e un tentativo di ricondurre ad un “common ground” le diverse posizioni per orientare conseguentemente le politiche e le pratiche scolastiche. Una rassegna prodotta dallo stesso autore con alcuni collaboratori (Cooper, Robinson and Patall, 2006) mette a fuoco l’aspetto principale della questione, ovvero la correlazione tra l’assegnazione/svolgimento dei compiti a casa e l’incremento del successo scolastico. Gli studi individuati e la loro comparazione riguarda sostanzialmente quattro aspetti:

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1. Il valore intrinseco dei compiti a casa per il successo scolastico, indagato attraverso il confronto tra gli studenti che ricevono/eseguono compiti e coloro che non sono soggetti a questa pratica; in questo tipo di studi emerge una correlazione positiva sia nelle ricerche di tipo sperimentale condotte nel grado superiore, che in quelle che adottano un modello causale considerando una molteplicità di fattori (genere, razza, contesto familiare, attività sportive, ecc.). 2. Il valore intrinseco del tempo dedicato ai compiti per casa per il successo scolastico. Anche in questo caso i dati, sia derivati da studi sperimentali che causali, sembrano confermare una correlazione positiva per gli studenti di scuola secondaria, mentre non emerge alcuna correlazione per gli alunni più giovani, in particolare della scuola primaria. 3. La rilevanza della disciplina oggetto del compito a casa per la loro efficacia in termini di risultati in quell’area; emergono infatti dati che riportano correlazioni positive maggiori per la matematica rispetto alla lettura e nessuna correlazione per molte altre discipline del curricolo. 4. L’importanza della quantità di compiti per casa da svolgere per un rendimento ottimale; anche in questo caso l’età degli studenti sembra incidere in modo rilevante per la definizione di una mole efficace di consegne ai fini del miglioramento dei risultati scolastici ed emerge comunque un tempo limite oltre il quale tale miglioramento scompare o diminuisce. Ciò che di interessante emerge da questa sintetica rassegna è la complessità della questione e l’impossibilità di rispondervi affrontando il valore di questa pratica scolastica – anzi extra-scolastica – in modo indifferenziato. Nonostante i risultati delle ricerche considerate inducano a ritenere non inappropriato, ed entro certe condizioni efficace, assegnare compiti a casa per alcune categorie di studenti, materie e circostanze, molti altri aspetti rilevanti della pratica rimangono problematiche e insondate. Ad esempio, andrebbe certamente ridiscussa l’equazione, di fatto assunta dai docenti, tra quantità di compiti assegnati e quantità di tempo trascorso a svolgerli, indipendente da una chiara determinazione del rapporto tra tempo necessario e tempo disponibile in uno specifico momento dell’apprendimento e tempo atteso dall’insegnante; oppure in riferimento alla natura e alla tipologia del compito, al livello di partenza e al potenziale di sviluppo degli allievi; al tipo di supporti e risorse disponibili nel contesto domestico o altrove; alla qualità stessa del contesto di svolgimento a tale attività; alla motivazione indotta dalla situazione personale anche emotiva; alla funzionalità rispetto al compito dello stile cognitivo dell’allievo, dei suoi talenti e interessi individuali. Molti di questi aspetti risultano più rilevanti e influenti se li si considera in relazione ai vantaggi immaginati e/o prodotti dallo svolgere compiti a casa, tema su cui non c’è consenso, ma soprattutto manca chiarezza didattica e formativa: quali tipi di abilità verrebbero sostenute dal dare/fare compiti per casa? Memorizzazione delle informazioni? Ve-

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locità di applicazione di nozioni? Metodo di studio? Perseveranza nello sforzo? Gestione del tempo? Autocontrollo? Autostima? Spesso ad un’unica tipologia di compito vengono alternativamente attribuite le più diverse finalità nel breve e nel lungo termine. Per non parlare dell’assenza di una riflessione puntuale sul ruolo che gioca, nell’utilità, sostenibilità e generatività di tale pratica, la consapevolezza da parte sia degli allievi che degli insegnanti, dello scopo e della natura specifica dei vantaggi di apprendimento legati allo sforzo e impegno connessi a questa attività, anche rispetto a scelte pedagogiche più generali adottate e adottabili come finalità educative della scuola. Non disporre di studi sui compiti a casa che presentino risultati omogenei e correlazioni generalizzabili è insieme una causa e una conseguenza della diffusa sottostima del peso e della necessità di una riflessione approfondita sul valore di tale pratica. Ciò ha condotto, in particolare nel nostro paese, a ignorare l’importanza di individuare, almeno a livello collegiale di istituto, delle “linee guida” condivise e discusse con i diversi attori coinvolti, studenti e famiglie compresi. Pur disponendo di una ristretta letteratura scientifica sul tema e proprio come correttivo a questa lacuna, risulta fondamentale sperimentare e attuare buone prassi sugli homework, frutto anche di una formazione specifica dei docenti in tal senso e inserite coerentemente nella progettazione didattica e curricolare, nonché riconosciute come strumento fondamentale di orientamento degli istituti scolastici. Ignorare tale lacuna non può che condurre ad un progressivo impoverimento di senso e valore di questo tempo quotidiano, che rischia di essere tradotto in “tempo perso” e vissuto come tempo sottratto ad altre dimensioni educative nello sviluppo. A partire da queste premesse, la ricerca qui presentata ha voluto esplorare il costrutto di “homework”/compito per casa da un punto di vista inconsueto e pur così rilevante nella considerazione delle sue implicazioni educative: la prospettiva degli studenti. In particolare si è voluto indagare sulle percezioni presenti e condivise in alunni di scuola secondaria di primo grado sulla natura delle prestazioni/capacità richieste per eseguire questa consegna quotidiana. La ricerca intreccia nell’esplorazione anche un tema particolarmente attuale e rivisitato da documenti nazionali e internazionali relativi alle competenze-chiave da sostenere nei diversi cicli di istruzione, ovvero la creatività e il pensiero divergente (Gardner, 1983; Guilford, 1967). L’ipotesi di fondo è che la tipologia di richieste attualmente presente nei compiti per casa sia largamente riferibile a poche, esclusive, tipiche pratiche di pensiero convergente, a scapito di richieste di esercizio di pensiero divergente, originale e creativo nelle consegne. A monte di questa preferenza di assegnazione ci sono, evidentemente, diverse assunzioni teoriche ed esperienziali, distribuite tra chiari riferimenti scientifici in merito al senso del compito extra-scolastico e vaghe credenze implicite riconducibili all’abitudine di insegnamento tradizionale. Tra le teorie scientifiche più diffuse e implicitamente assunte possono qualificarsi approcci comportamentisti che attribuiscono valore al compito a casa in termini di “rinforzo”, memorizzazione e riproduzione – quello che Bateson (1976) chiama apprendimento 0 e 1 – più che come esplorazione, rielaborazione, produzione generata da consapevolezza metacognitiva – appunto il deuteroapprendimento di cui Bateson è teorizzatore. Ovviamente tali credenze e assunti possono essere operanti più o meno consapevolmente nei docenti e declinati rispetto a scopi “autorefenziali” o interni, ovvero il miglioramento degli esiti accademici (successo scolastico) o esterni, ovvero il più ampio sostegno al progetto di vita (successo formativo). In entrambi questi casi il tema del potenziamento della creatività resta problematico e cruciale e senz’altro poco esplorato. L’ipotesi di fondo di questa ricerca esplorativa è che sia anche poco sostenuto con la pratica dei compiti a casa.

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1. La ricerca La ricerca qui presentata si è proposta di individuare la percezione degli alunni sui compiti per casa, dal punto di vista della creatività. In particolare si voleva indagare se e in che misura nei compiti che vengono loro assegnati viene percepita una richiesta e lo stimolo di “pensiero divergente”. A tale scopo è stato ideato un questionario, proposto ad un gruppo di frequentanti un doposcuola come test pilota e, poi, una volta constatatane l’intelligibilità, somministrato ad un gruppo di alunni di scuola secondaria di primo grado. La ricerca ha dunque offerto l’opportunità di costruire, in base agli obiettivi individuati, uno strumento ad hoc e di utilizzarlo per la prima volta con un gruppo di partecipanti in un’ottica essenzialmente esplorativa, ponendosi come fase preliminare di studio mossa da una finalità conoscitiva e aperta a prospettive di sviluppo e approfondimento successivi, sia in termini di attori coinvolti, sia di aspetti e componenti implicati nella pratica degli homework.

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2.1 Partecipanti Hanno partecipato alla ricerca cinque classi seconde e una classe terza di una Scuola Secondaria di primo grado situata nella pedemontana trevigiana. Gli effettivi partecipanti alla ricerca sono stati 100 studenti, rispettivamente 43 ragazze (43%) e 57 ragazzi (57%). 2.2 Ideazione dello strumento di indagine Studio iniziale. Il primo passo è stato capire quali tipologie di compiti venivano generalmente assegnate agli studenti. Per questo sono stati raccolti dai diari scolastici di studenti frequentanti un doposcuola (2 alunni di classe prima, 2 di classe seconda, 2 di classe terza), i compiti per casa giornalieri assegnati nell’arco di 5 settimane. Si è notato che, a parte qualche lieve differenza dovuta alla provenienza da diverse classi e scuole, le stesse tipologie di compiti si ritrovavano sostanzialmente in tutti i diari. Le tipologie che ricorrevano maggiormente erano esercizi di studio basati sulla lettura e copiatura di testi, ma soprattutto quei practice homework di cui parlano Wilson e Rhodes (2010), ovvero quelle consegne date per rafforzare i contenuti presentati in classe e per aiutare gli studenti a padroneggiare le abilità individuali, con l’obiettivo di rinforzare i concetti che si assume siano stati appresi durante le lezioni. Già da questa prima rilevazione emergeva la conferma dell’ipotesi, ovvero la mancanza di una attenzione specifica per l’aspetto del pensiero divergente e/o creativo. Costruzione questionario. A partire da questa fase esplorativa la ricerca è proseguita con la costruzione di un questionario rivolto agli studenti, in cui veniva chiesta un’opinione riguardo ai compiti per casa; l’obiettivo era indagare la loro percezione delle richieste, e soprattutto far esplicitare se percepivano la presenza, in queste attività, di aspetti riguardanti lo sviluppo di pensiero divergente e creatività. Non essendo presenti in letteratura questionari utilizzati e/o validati volti a comprendere il pensiero degli studenti su aspetti qualitativi dei compiti, e in par-

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ticolare indirizzati a studiarne il pensiero divergente implicato, si è proceduto alla costruzione di un questionario mirato a mettere a fuoco questo aspetto. A partire dalla struttura del TCD (Test di Creatività e Pensiero Divergente) di Williams (1994), e dalla sua definizione degli otto costrutti misurati (Fluidità, Flessibilità, Originalità, Elaborazione, Curiosità, Immaginazione, Complessità, Disponibilità ad assumersi rischi), sono state definite sezioni e aree del questionario. Pur essendo rivolto agli studenti, la sezione del TCD da noi privilegiata per l’elaborazione del questionario è stata soprattutto quella che il TCD rivolge agli insegnanti, ovvero la Scala Williams tesa a individuare la prospettiva degli insegnanti sull’atteggiamento creativo dei loro studenti. Gli item sono stati dunque declinati mantenendo la presenza dell’aspetto creativo, ma rivolgendoli direttamente agli studenti e focalizzandoli sulla pratica dei compiti per casa. La maggior parte degli item è stata perciò costruita in modo da riferirsi agli otto fattori della creatività tenuti in considerazione da Williams, dando maggior rilievo a quelli di ambito intellettivo-cognitivo (fluidità, flessibilità, originalità ed elaborazione). Essendo i primi quattro costrutti di Williams gli stessi utilizzati da Torrance (1966) nel Torrance Test of Creative Thinking (TTCT), per la caratterizzazione e il miglioramento degli item si è fatto riferimento anche alla spiegazione data da Torrance nel “Manuale per il punteggio e Interpretazione dei risultati” di accompagnamento al test. Sono stati creati item soprattutto in relazione ai primi tre fattori (fluidità, flessibilità, originalità), in quanto il pensiero elaborativo, relativo all’estensione o espansione di idee e ragionamenti, è considerato come una conseguenza del pensiero fluido, riconducibile al “pensare di più”, alla generazione di una grande quantità di idee. È stata creata un prima bozza del questionario, composta da tre sezioni, in Scala Likert a 4 livelli di risposta, (“mai”, “poco”, “spesso”, “sempre”). Inoltre era previsto uno spazio per le risposte “non so” e “dipende” (in cui vi era anche un’area per un commento libero). Questa prima bozza, è stata mostrata all’equipe pedagogica del doposcuola in cui sarebbe stato somministrato il questionario pilota. Dopo un primo confronto con l’equipe sono state apportate alcune modifiche nel questionario, al fine di tener presenti negli item la multidimensionalità della cognizione, intesa in modo complesso, ovvero come frutto dell’interazione tra le componenti del pensare, dell’agire e del sentire dell’allievo. Tale versione del questionario (Test pilota) è stato somministrato ad un gruppo ristretto di alunni. Test pilota. Questa prima versione è stata somministrata a un gruppo di 8 studenti di scuola secondaria di primo grado (maschi e femmine, dalla prima alla terza classe), frequentanti il doposcuola. Lo scopo è stato quello di individuare e correggere i possibili errori d’interpretazione, le domande poco comprensibili o ‘mancanti’, gli item meno chiari, ma anche eventuali modalità di risposta confuse o inappropriate. Grazie a questa prima somministrazione e alla conoscenza diretta dei ragazzi e del loro percorso scolastico (e quindi dei loro compiti abituali), si sono evidenziate le domande percepite come difficili e/o non comprese. Nella formulazione degli item si è cercato di focalizzare maggiormente le domande su un singolo argomento, rendendole più brevi e chiare; e dalla scala di risposte è stata eliminata l’opzione “dipende” in quanto nessuno di questi ragazzi aveva sentito l’esigenza, o si era sentito libero, di esplicitare informazioni aggiuntive. La Scala Likert definitiva è stata modificata, così da avere come possibilità: “mai”, “poco”, “spesso”, “sempre” e “non so”. Questa seconda versione rivista è stata

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infine mostrata e proposta al dirigente di un istituto comprensivo, che ha acconsentito alla somministrazione del questionario nella scuola secondaria di 1° grado. Si è insieme deciso di coinvolgere le classi seconde valutando il fatto che i ragazzi di prima erano appena entrati in questo grado scolastico e quelli di terza si avviavano verso la conclusione. Il questionario è stato infine visionato da alcune docenti, le quali hanno dato il loro apporto indicando gli item che sembravano loro meno comprensibili, vista la loro familiarità e relazione diretta con gli studenti e con la pratica oggetto di studio. Si è giunti quindi alla stesura della versione definitiva. Il coinvolgimento dei docenti è stato a questo proposito importante sia sul piano tecnico che della motivazione. La partecipazione di una classe terza si è avuta grazie alla volontà di una docente a coinvolgere gli alunni nella ricerca. Sono state informate le famiglie degli studenti, alle quali sono state chieste le autorizzazioni alla partecipazione dei loro figli alla ricerca. Test definitivo. La versione definitiva del questionario è composta da 44 item, suddivisi in 3 sezioni, disposte nel seguente ordine:

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– Prima sezione, costituita da 20 item, riguarda la percezione che gli studenti hanno di ciò che viene loro richiesto di fare nei compiti a casa. – Seconda sezione, costituita da 4 item, è volta ad indagare che tipologia di compiti viene loro assegnata (attività individuali, di gruppo, richiedenti ricerca, oppure produzioni libere). – Terza sezione, costituita da 20 item, più strettamente personale, è rivolta al sentire, pensare ed agire degli studenti mentre fanno i compiti scolastici. La prima sezione è quindi volta ad indagare ciò che gli studenti pensano che gli insegnanti si aspettino da loro. Le domande sono disposte a seconda del costrutto a cui sono riconducibili, in modo alternato, così da presentare gli item con distribuzione eterogenea. I costrutti sono: – Flessibilità. Capacità di passare da una categoria all’altra; produrre una molteplicità di idee di tipo diverso; passare da un approccio ad un altro e impiegare una varietà di strategie; cambiare direzione di pensiero aggirando gli ostacoli; ricorrere a un diverso approccio; trovare altri modi per raggiungere l’obiettivo, quando un procedimento risulta fallimentare. (Item 1, 5, 9, 13, 17). – Fluidità ed elaborazione. Fluidità è la capacità di produrre un gran numero di idee e di risposte rilevanti; migliorare un prodotto e trovarne usi insoliti. A questo costrutto è stato però associato quello di elaborazione, considerato in diretta dipendenza alla fluidità. Si tratta dell’abilità a sviluppare i dettagli, arricchire un’idea molto semplice rendendola attraente o fantastica. (Item 2, 6, 10, 14, 18). – Originalità. Capacità di produrre idee che vanno oltre l’ovvio, il luogo comune, il banale e ciò che è ben stabilito. È elasticità mentale; trovare ingegnose scorciatoie nel pervenire a una soluzione; vedere nuovi rapporti tra le cose; prospettare idee e soluzioni del tutto diverse da quelle degli altri, ma anche da quelle che si trovano nei libri di testo. (Item 3, 7, 11, 15, 19). L’ultima sezione è composta dallo stesso numero di item della prima, ma è diversa come struttura; essa riguarda esclusivamente gli studenti, ai quali viene chiesto di esprimersi sul piano personale, su come loro affrontano i compiti per casa. Tuttavia si è cercato di ricondurre alcuni temi e/o aspetti alla prima sezione; infatti, se ad es. nella prima parte si trova un item come “Mi viene chiesto di … 6. Imma-

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ginare diverse possibili risposte per uno stesso problema/compito”, nell’ultima sezione la domanda diventa “Quando faccio i compiti … 24. Immagino diverse possibili risposte per uno stesso problema/compito”. In questo modo si è voluto dar spazio agli studenti di esprimere entrambe le posizioni, sia sul piano del “cosa dover pensare, fare e sentire” che su quello del “proprio pensare, fare e sentire”.

3. Raccolta e analisi dei dati La somministrazione del questionario è avvenuta nel contesto di ciascuna classe, nell’ambito delle normali attività di lezione, con gli studenti presenti in aula, durante la stessa mattina. A tutti i partecipanti è stata data una breve spiegazione sugli obiettivi della ricerca e la garanzia dell’anonimato, ed è stato consegnato loro il questionario, che ciascun studente ha quindi compilato autonomamente, nella sua classe, in presenza del proprio docente. I dati raccolti sono stati trattati attraverso l’uso di software statistici (SPSS) per un’analisi descrittiva (medie, frequenze e percentuali di risposta agli item), e per rilevare eventuali differenze di genere. Le medie di risposta, aggregate per ciascuna sezione dello strumento, mostrano che il grado di accordo rispetto agli item si attesta intorno al livello 2 della scala (“spesso”) (Sezione 1 M=2.51, DS=0,28; Sezione 2 M=2.46, DS=0,33; Sezione 3 M=2,50, DS=0,28). Questo primo dato suggerisce non solo una omogeneità nelle risposte date dagli studenti agli item di tutte le sezioni che compongono il questionario, ma anche un accordo sufficientemente elevato rispetto alle affermazioni contenute nei singoli quesiti. Una presentazione dei risultati aggregati per sezione può essere utile per approfondire le percezioni espresse dagli studenti. L’analisi delle risposte date agli item della prima sezione – in cui si chiede agli studenti di esplicitare la percezione di ciò che viene loro richiesto nei compiti per casa (ossia in cosa loro ritengono consista la consegna) – evidenzia risultati interessanti. L’item n.4, relativo alle tempistiche richieste per l’esecuzione dei compiti, trova infatti l’accordo dell’81% degli studenti, i quali rispondono che viene loro richiesto di completare le consegne per un giorno preciso. Inoltre – in accordo con l’item n.19 in cui si afferma la richiesta di eseguire consegne in modi prestabiliti – la maggioranza degli studenti (sommando quelli che hanno risposto “sempre” – 58% – e “spesso” – 32%) converge sulla risposta. A conferma di tale percezione va anche la percentuale di risposte date all’item n. 17, in cui il 45% degli studenti converge nel ritenere che non viene loro mai richiesto di scegliere tra diversi tipi di compiti da svolgere. I ragazzi sono consapevoli di dover risolvere per un giorno preciso determinati compiti, nel modo stabilito dai loro insegnanti e rispettano questa volontà quasi 9 studenti su 10. All’item “Li faccio nel modo in cui mi viene richiesto” (item n.35) gli studenti infatti rispondono “sempre” (49%) o “spesso” (40%). Un’ulteriore conferma proviene dall’analisi delle risposte all’item n.9 – Ripetere lo stesso compito in vari modi diversi – confermando che si tratta di un’attività richiesta “poco” (34%) o “mai” (36%), così che la percezione degli studenti circa la necessità di esercitarsi per trovare modi alternativi nella risoluzione delle consegne appare pressoché nulla. I ragazzi colgono il dovere di fare determinate attività, per un determinato giorno, seguendo un metodo stabilito, ma colgono anche l’importanza di eserci-

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tarsi su ciò che serve loro. Infatti solo una piccola minoranza (8%) risponde “mai” all’item n. 5.”Esercitarmi da solo su quello che mi serve”; tutti gli altri hanno risposto che “poco”, “spesso” o “sempre” (rispettivamente 29%, 34%, 23%) viene richiesto di esercitarsi su quello che serve loro per migliorare gli apprendimenti. Sembra quindi che accanto ai compiti più vincolanti, da fare per un tal giorno in un tal modo, senza molta possibilità di flessibilità, vengano loro assegnate delle attività che possono gestire in autonomia (probabilmente quelle riconducibili alla produzione orale e allo studio). Attenzione sembra essere data maggiormente alla fluidità, intesa come il “pensare di più”, la produzione di un gran numero di idee e di risposte rilevanti, che in questo lavoro, è stata accostata all’elaborazione, in quanto essa ne è una conseguenza. Il 58% degli studenti intervistati risponde che “spesso” viene loro richiesto di “Rendere le risposte più lunghe, aggiungendo cose” (item n.2). Scrivere lo stretto necessario non è ciò che gli insegnanti richiedono e si auspicano e gli studenti l’hanno compreso. Ciò è confermato dall’item n.14. “Scrivere lo stretto necessario/l’indispensabile”, alla quale il 44% risponde “poco” e il 21% “mai”. Oltre all’aspetto quantitativo, viene data abbastanza attenzione anche alla qualità, dato che all’item n.10. “Rendere le risposte più belle (accurate, brillanti, …)”, la media delle risposte si avvicina al livello 3 della scala (indicante “spesso”). Lo dimostrano le risposte degli studenti: il 46% afferma che viene “spesso” loro richiesto di “Aggiungere dettagli, migliorando il compito” (item n.18). Risultati evidenti emergono per quanto riguarda il costrutto dell’originalità. Anche se sembra vengano in qualche misura tenute in considerazione la fluidità e l’elaborazione, molta meno importanza viene data alla stimolazione dell’originalità. Infatti ben il 62% degli studenti risponde che non viene loro “mai” chiesto di “Dare risposte insolite/strane o fuori dal comune” (item n.3). Un altro 22% risponde “poco”, per un totale dell’84% delle scelte. Questo risultato concorda con le risposte date all’item n.11.“Risolverli con originalità”: il 40% risponde “poco” e il 20% “mai”, dimostrando che tale richiesta non è sicuramente riconosciuta come prioritaria per la maggior parte degli studenti. Tuttavia, le risposte date all’item n. 15. “Utilizzare parole alternative per esprimere un’idea”, mostra invece come ben il 51% degli studenti interpreti tale richiesta come frequente (“spesso”). Sommando questa percentuale al 15% che risponde “sempre”, sembra che gli studenti comprendano che gli insegnanti richiedono una certa ricercatezza nel linguaggio, una sorta di arricchimento nell’uso della lingua che si discosti dal lessico rituale. Le percentuali più alte emerse nell’item n.15 rispetto a quelle riscontrate nell’item n.7. “Utilizzare modi alternativi nella risoluzione”, suggerisce che una forma di originalità è richiesta più in alcune materie che in altre e viene percepita strettamente come esercizio linguistico. Infatti, nell’item n. 15 si parla di “modi alternativi”, e nel n. 7 ci si riferisce specificatamente all’uso di “parole alternative”. Passando all’analisi della seconda sezione del questionario, emerge che una grande maggioranza degli studenti (per il 59% “spesso”, e per il 37% “sempre”) risponde che i compiti loro assegnati sono attività individuali. Le attività di gruppo sono “poco” (per 74% degli studenti) o “mai” (per il 17%) assegnate. Nemmeno le attività di ricerca sembrano essere molto diffuse, dal momento che per il 68% degli intervistati vengono assegnate “poco”. Più utilizzate (40% delle risposte sul valore “spesso” della scala) sembrano essere invece le attività libere, che richiedono l’elaborazione di prodotti, quali testi, disegni, ecc. L’analisi della terza sezione del questionario mostra come complessivamente più della metà degli studenti (56%, sommando le risposte “sempre” e “spesso”) risponde che si sente annoiato mentre fa i compiti. Considerando la variabile di ge-

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nere entro il gruppo considerato, emerge che la percentuale che risponde “sempre” all’item n.25. “Mi sento annoiato” relativa ai componenti maschi del gruppo è superiore a quella delle femmine: dei 29 rispondenti “sempre”, 22 sono maschi (Chi quadrato di Pearson = 0.018; p=0.01). Complessivamente, il 64% dei rispondenti (32% “sempre” e 34% “spesso”) ritiene che quando fa i compiti li sente come un obbligo, un ‘dovere’ (item n.22. “Li sento come un obbligo(mi sento obbligato a farli)”). Nonostante ciò, sembra che gli studenti comprendano l’utilità di farli, perché all’item n. 27. “Non comprendo l’utilità di farli”, il 41% risponde “poco” e il 36% “mai”. A differenza di quello che potrebbe dire il senso comune, i ragazzi sembrano cogliere l’utilità di questa attività. Risultati coerenti con tale dato provengono da una analisi interna al questionario considerando che il 47% dei nostri intervistati ha risposto “spesso” all’item n. 28. Ho la sensazione di capire meglio ciò che ho fatto a scuola. Questo risultato, sommato al 23% di “sempre” rilevati nello stesso item e nonostante il 23% di “poco” emersi, indica che gli studenti ritengono che ciò che fanno a casa li aiuti nella comprensione di ciò che fanno a scuola. Agli studenti i compiti non sembrano sicuramente un momento in cui sviluppare la propria creatività, visto che più del 50% risponde che “poco” (il 37%), o “mai” (29%), fantastica sull’argomento che sta studiando (item n.30 “Sogno cose mai accadute”). Oltre la metà degli intervistati (55% e 65%) risponde che “poco” o “mai” ha voglia di scoprire cose nuove su quello che sta studiando (item n.23) o pensa a cose collegate in modo indiretto o remoto alla propria vita (item n.21). Ciononostante vi è un terzo degli studenti che “spesso” immagina diverse possibili risposte per uno stesso compito (34%); ha voglia di esprimere le proprie curiosità (37%); pensa a cose che si possono realizzare con quello che sta studiando (35%); e si fa domande (35%). Ma soprattutto, il 36% degli intervistati risponde che “spesso” si sente creativa. Gli studenti, colta l’esigenza di autonomia che viene loro richiesta dagli insegnanti, la rispettano. All’item n. 31. Mi sento bene se aiutato quando faccio i compiti, i risultati, anche se abbastanza eterogenei, evidenziano una tendenza verso il “poco”, confermata dal fatto che all’item n.37. Mi sento bene se li faccio senza essere aiutato, il 37% risponde “spesso” e il 25% “sempre”. Si può notare quindi come gli studenti si sentano meglio quando fanno i compiti senza essere aiutati. Ma allora, gli studenti pensano che i compiti per casa dovrebbero essere dati in altri modi (item n.39)? Anche se il 40% non lo pensa “mai” o “poco”, il 51% crede di si (“spesso” e “sempre”). Soprattutto i maschi; questa infatti è una risposta dove la differenza di genere si nota maggiormente: se la media delle femmine si ferma al 2,2 (verso il “poco”), quella dei ragazzi arriva al 2,9, ossia alle soglie dello “spesso”, con una differenza statisticamente significativa (Chi quadrato di Pearson=0.006; p=0.01). 36 studenti maschi rispondono “spesso” e “sempre”, e solo 15 femmine.

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Sezione 1.

mai

poco

spesso

sempre

non so

N.R.

1. rispondere ad ogni costo, anche se non sono sicuro

10%

34%

38%

13%

4%

1%

2. rendere le risposte più lunghe, aggiungendo cose

4%

23%

58%

15%

0%

0%

3. dare risposte insolite/strane/ fuori dal comune

62%

22%

7%

1%

7%

1%

4. completarli per un giorno preciso

2%

4%

11%

81%

2%

0%

5. esercitarmi da solo su quello che mi serve

8%

29%

34%

23%

5%

1%

6. immaginare diverse risposte per uno stesso problema/compito

12%

29%

32%

10%

15%

2%

7. utilizzare modi alternativi nella risoluzione (ad esempio trovando scorciatoie per arrivare alla soluzione)

8%

37%

38%

11%

6%

0%

8. farli senza essere aiutato

9%

20%

36%

27%

7%

1%

9. ripetere lo stesso compito in vari modi diversi

36%

34%

13%

1%

12%

4%

10. rendere le risposte più belle (accurate, ben fatte, ...)

11%

16%

36%

32%

5%

0%

11. risolverli con originalità

20%

40%

25%

4%

10%

1%

12. farli con altri compagni

11%

59%

27%

0%

2%

1%

13. lasciare i compiti irrisolti se non sono sicuro

31%

47%

12%

3%

6%

1%

14. scrivere lo stretto necessario/indispensabile

21%

44%

20%

9%

3%

3%

15. utilizzare parole alternative per esprimere un'idea

5%

25%

51%

15%

3%

1%

16. immaginare altre domande da fare a scuola

28%

37%

11%

6%

15%

3%

17. scegliere tra i diversi tipi di compiti da svolgere

45%

14%

11%

10%

19%

1%

18. aggiungere dettagli, migliorando il compito

9%

21%

46%

21%

3%

0%

19. risolverli nel modo stabilito

0%

9%

32%

58%

1%

0%

20. applicare alla vita quotidiana

5%

27%

37%

21%

9%

1%

Nei compiti per casa mi viene chiesto di…

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Sezione 2. I compiti sono… attività individuali

0%

2%

59%

37%

1%

1%

attività di gruppo

17%

74%

9%

0%

0%

0%

attività di ricerca

10%

68%

19%

1%

2%

0%

attività libere che richiedono prodotti (testi, disegni, costruzioni di qualcosa)

6%

42%

40%

6%

6%

0%

!

4. Discussione dei risultati La ricerca esplorativa realizzata offre la possibilità di indagare la percezione degli studenti sui compiti per casa, ritenendo il loro un punto di vista fondamentale e privilegiato per poter individuare elementi critici su questa pratica e ricavare spunti interessanti per l’avvio di un dibattito scientifico sul tema. Valorizzare la prospettiva e la percezione degli studenti assume importanza in un’ottica di partecipazione al proprio percorso di apprendimento, partecipazione che dovrebbe essere incoraggiata e stimolata per una responsabilizzazione e un incremento delle capacità di agency dello studente. Tale valorizzazione risulta rilevante anche considerando il peso di quelle stesse percezioni e credenze sulle pratiche scolastiche concrete e il loro impatto sul vissuto degli allievi e delle loro

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famiglie. Questo significa anche che il valore e il significato che ogni studente attribuisce al compito per casa assume un ruolo critico all’interno del proprio percorso di apprendimento, agendo, nello specifico, sulla motivazione connessa al compito, sull’impegno e lo sforzo che deciderà di investire nello svolgimento del compito stesso, e più in generale sul riconoscimento o meno della legittimità di una pratica scolastica protratta nel tempo quotidiano. Conoscere ciò che lo studente pensa rispetto a queste pratiche scolastiche vuol dire, quindi, possedere un elemento chiave per comprendere ed intervenire per valorizzarle in chiave valutativa e formativa, ammesso che si scelga di mantenerle. Infatti, esplorare le percezioni degli studenti offre la possibilità di aprire una finestra sulla filosofia educativa sottostante a tali pratiche, cioè sulla legittimità, sul significato e sulle finalità assegnati al compito per casa e, conseguentemente, sul tipo di apprendimento che si intende promuovere a scuola anche tramite il compito. Come tutte le pratiche scolastiche, specie con una componente valutativa, anche il compito per casa veicola una concezione del cosa e del come sia importante apprendere, ossia del pensiero e delle forme di intelligenza da mettere in campo per avere successo. Nello specifico, un aspetto che ci si è proposti di indagare con la presente ricerca è costituito dal pensiero divergente e creativo, chiedendoci: nella percezione degli studenti, i compiti per casa sono uno strumento per veicolare una concezione del processo di apprendimento in cui assumono un ruolo critico la creatività e il pensiero divergente, sia come mezzi sia come finalità del processo stesso? Nell’ottica della elaborazione di “linee guida” condivise e negoziate per la valorizzazione di una possibile pratica di completamento del lavoro scolastico a casa, i risultati appena presentati nel paragrafo precedente possono essere utili per ricavare una sorta di “profilo” di un compito per casa così come viene percepito dal gruppo di studenti coinvolti nella ricerca sulla base delle risposte su cui si è concentrato un alto grado di accordo. Si delinea, innanzitutto, il profilo di un compito come attività individuale. I compiti per casa non sono percepiti come attività di gruppo, di ricerca e di studio collaborativo: al contrario, sono considerati frutto di un lavoro solitario, che anzi viene sollecitato dall’insegnante in vista di una autonomia che si desidera sviluppare negli allievi. Sono dunque attività individuali in un duplice senso: né attività da fare insieme ai compagni di classe, ad esempio in coppia o in piccolo gruppo, né attività nel cui svolgimento avvalersi dell’aiuto di genitori o di altre figure di riferimento. Gli studenti rispondono di sentirsi bene quando li fanno senza essere aiutati. Il nostro dato è lievemente in contrasto con uno studio di Kackara Hayal Z. et. al (2011), in cui emerge invece come gli studenti delle scuole medie generalmente riportino esperienze soggettive più positive quando svolgono i compiti a casa in compagnia di qualcuno che li supporta (mentre gli studenti delle scuole superiori sembrano riportare esperienze più positive quando li svolgono in autonomia). La discussione di questi risultati in rapporto alla letteratura sul tema potrebbe essere arricchita considerando gli esiti che emergono da un aspetto ampiamente indagato, riguardante, in particolare, il modo in cui l’atteggiamento dei genitori verso i compiti media la percezione dei ragazzi sugli stessi (Coutts, 2004; Katz et al., 2011) e l’effetto che il coinvolgimento dei genitori risulta avere sul rendimento e sul successo scolastico (Bempechat, 2004; MetLife, 2007; Dumont et al., 2012). Il sentirsi bene in autonomia o in compagnia di qualcuno potrebbe essere connesso al grado di consapevolezza dell’utilità che il supporto gioca per il successo scolastico, nonché del valore attribuito al successo stesso. Sicuramente i dati emersi contribuiscono a problematizzare la credenza ampiamente condivisa sul valore della pratica diffusa di supporto ai compiti da par-

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te dei genitori, spesso richiesta esplicitamente e contraddittoriamente dagli insegnanti. Oltre ad essere attività essenzialmente individuale, il compito è anche qualcosa da completare nei modi e nei tempi stabiliti dal docente. La flessibilità sembra essere una caratteristica che, nella percezione degli studenti, i compiti non possiedono, né rispetto ai tempi (sono da completare entro un giorno preciso) né rispetto alle modalità. Rispetto ai tempi di svolgimento e consegna dei compiti, la ricerca scientifica sul tema si è focalizzata prevalentemente sulla gestione del tempo da parte degli studenti (Xu, 2010; Wagner et al., 2008), mostrando non solo come sia fondamentale la capacità di autoregolazione del tempo stesso, ma individuando anche fattori ad esso associati, come le caratteristiche del compito e l’aiuto fornito dai genitori e/o da adulti. L’altro aspetto, quello delle modalità, emerge chiaramente dalle risposte dei nostri studenti: le modalità sono richieste in modo rigido e determinate interamente dall’insegnante; questo fa sì che gli studenti non si sentano liberi nella scelta delle stesse nello svolgimento del compito. Pur esistendo certamente un margine di autonomia lasciato allo studente, che sembra riguardare la ricchezza di elementi e di parole e l’accuratezza nel linguaggio, questo non toglie che la consegna appaia agli studenti, e venga da loro percepita, come rigida e già fissata. Emerge dunque un compito che ha un tempo preciso di consegna e predefinito nella sua forma. Lo studente ha la possibilità di arricchirlo di parole raffinate e brillanti, ma facendo attenzione a non fornire risposte troppo insolite o troppo alternative/originali. Possiamo ipotizzare che siano le materie letterarie o comunque quelle tipologie di compiti che richiedono produzione orale o scritta (quali risposte a domande, temi, ricerche) ad essere connesse ad una forma di “originalità” intesa strettamente come ricercatezza linguistica. Procedendo, e in parallelo rispetto a quanto finora detto, i dati raccolti mostrano come il compito non sia percepito come un’occasione per far emergere curiosità rispetto a quanto si sta studiando, né voglia di scoprire cose nuove: il compito sembra essere legato all’hic et nunc, si fa e si fa nel modo richiesto, essenzialmente per ripetere, e quindi consolidare, quanto presentato a lezione dal docente. Rispetto alle motivazioni a sostegno della loro utilità, questo aspetto emerge come quello maggiormente condiviso: i compiti danno la possibilità di capire meglio quanto fatto a scuola. Elemento che viene evidenziato anche in uno studio di Letterman (2013), in cui emerge la convinzione degli studenti in base alla quale i compiti per casa assumono importanza e valore nella misura in cui offrono la possibilità di comprendere a fondo materiali e contenuti. Tale dato trova conferma anche nella ricerca di Wilson e Rhodes (2010), i quali hanno constatato che l’86% degli intervistati è d’accordo sul fatto che i Practice homework (il tipo più comune di compiti, quelli assegnati soprattutto dagli insegnanti di matematica per rafforzare il materiale presentato in classe e per aiutare gli studenti a padroneggiare le abilità individuali) rinforzano i concetti appresi, e che il 67% ritiene che la loro utilità consista nel supporto per una migliore comprensione dei contenuti disciplinari. Anche l’indagine realizzata da Xu (2005) evidenzia come gli studenti percepiscano i compiti come un rinforzo all’apprendimento scolastico (ragione intrinseca) oltre che una ricerca di approvazione da parte degli adulti (ragione estrinseca). Il dato è in linea inoltre con i risultati che emergono dalle ricerche che collegano la pratica degli homework con l’achievement (Cooper et al. 2006, Cooper, 2007) e attesta un riconoscimento di tale correlazione da parte degli studenti, con una attribuzione di “utilità” accademica a tale pratica. I nostri risultati in sintonia con la letteratura potrebbero essere ricondotti alla consapevolezza di una “mancanza” che induce la necessità di com-

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pletare l’attività svolta a scuola con lavoro aggiuntivo al fine di conseguire risultati positivi nelle valutazioni. Tale ipotesi meriterebbe ulteriori approfondimenti di ricerca. Se dovessimo dare un nome al compito così come è emerso dai dati della presente ricerca, utilizzando la tripartizione ormai accettata in letteratura (Cooper, 2007), si tratta dei cosiddetti “practice homework”: i compiti, cioè, assegnati dal docente per rinforzare la comprensione e aiutare gli studenti a padroneggiare quanto insegnato. Tra i dati non vi è traccia delle altre due categorie, i “preparation” e “extension homework”. I primi includono quei compiti che hanno la funzione di introdurre lo studente al materiale di studio che sarà presentato dall’insegnante nelle lezioni successive, fornendo in questo modo quelle conoscenze di base necessarie e sulle quali andrà a poggiarsi la comprensione. Gli “extension” sono invece quei compiti che vengono assegnati con la funzione precisa di trasferire le conoscenze e capacità già apprese a situazioni nuove non affrontate a lezione. Il compito per casa non è dunque considerato come strumento a disposizione dell’insegnante per preparare lo studente all’apprendimento futuro né per estenderlo a situazioni nuove e diverse: possiamo affermare che il suo ruolo potenziale di mezzo per un apprendimento significativo è messo in ombra dal suo utilizzo in quanto esercizio e rinforzo. Ciò ripropone la necessità di riflessioni importanti sulla filosofia educativa sottostante a questo tipo di concezione del compito. La percezione derivante dalle risposte degli allievi appare ancorata ad una filosofia educativa di tipo comportamentista, che ha precise implicazioni a livello educativo e didattico, laddove più o meno consapevolmente proposta. In questa prospettiva, il compito ha un ruolo che potremmo definire di “controllo dell’appreso” e funziona in virtù della ripetizione dell’esercizio che, riproponendo l’associazione stimolo-risposta, produce un consolidamento dei contenuti appresi. Gli aspetti discussi in precedenza stanno, probabilmente, alla base dei vissuti più direttamente collegati allo svolgimento dei compiti per casa, considerati come noia e senso del dovere. La maggior parte degli studenti che hanno risposto al questionario li percepisce come un obbligo noioso, dato che emerge anche da altri studi in cui la sensazione di sostenere un carico di lavoro di routine è interpretato come causa del mancato completamento dei compiti e della noia associata (Pasi, 2006; Wilson e Rhodes, 2010). La connessione tra l’esecuzione del compito per casa e il senso del dovere resta comunque interessante da studiare specie in rapporto alla credenza per cui tale pratica va sostenuta per finalità etico-morali. Se il compito per casa rientra tra le pratiche ad uso del docente per valutare e valorizzare l’apprendimento degli studenti e il loro successo formativo, e non meramente scolastico, allora la prospettiva dovrebbe essere molto diversa. I risultati delle ricerche scientifiche più recenti in ambito valutativo (Hargreaves, 2007; Harris, Brown, 2013) conducono infatti ad una concezione del processo valutativo improntata sulla collaborazione, sulla differenziazione e sull’autenticità come tratti imprescindibili. La nuova cultura valutativa ha messo in luce da anni i benefici di pratiche valutative costruite sulla base di una concezione dinamica e multidimensionale dell’intelligenza dell’individuo e realizzate con la finalità di promuovere una complessità di pensiero che metta in campo abilità di ordine superiore (rispetto al semplice memorizzare) (Segers et al., 2003; Sternberg e Grigorenko, 2004). Nello specifico dei compiti per casa, questo significherebbe ripensare la loro legittimità (if homeworking), la loro collocazione (where to work?) e la loro funzione (why to work?), immaginare tipologie (how to work?) e alternative plurime (which work?), costruire una dinamica interattiva tra apprendimenti e valutazioni

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(work together) in modo che si sostengano reciprocamente, investendo sul ruolo formativo del feedback e sull’impegno responsabile che accompagna ogni compito. Un’ultima considerazione riguarda quanto già esplicitato in merito al carattere esplorativo dello studio realizzato. Le analisi che si è scelto di effettuare si collocano esattamente entro questo approccio, tenendo necessariamente in considerazione gli aspetti propri di questo tipo di studi, ovvero della scarsa rappresentatività della popolazione coinvolta e dei connessi limiti di generalizzabilità dei risultati discussi. D’altra parte lo scopo congiunto dello studio era relativo alla costruzione di uno strumento in grado di contribuire all’analisi delle diverse componenti implicate nella complessa pratica dei compiti per casa, isolandone degli aspetti connessi alla creatività. Da questo punto di vista, pur con risultati interessanti, la ricerca offre spunti di riflessione e sviluppo anche in merito ai limiti e criticità dello strumento utilizzato in questa prima elaborazione e messa a prova e alla necessità di accompagnarlo da altri strumenti anche di natura qualitativa, nonché a metodologie di follow-up sui risultati, quali l’uso di focus-groups e approcci narrativi. La prospettiva futura di ricerca può dunque guardare al legame tra creatività e compiti per casa in un’ottica mixed methods, che consideri l’opportunità, da un lato di utilizzare metodologie e strumenti differenziati ( in ottica di affiancamento, completamento e comparazione con il questionario strutturato) e dall’altro di coinvolgere altri attori importanti, come i docenti e le famiglie.

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Tra ‘teorie’ e ‘pratiche’: studio di caso sui Laboratori di Scienze della Formazione Primaria all’Università di Milano Bicocca

Luisa Zecca - Università di Milano Bicocca - luisa.zecca@unimib.it

Between theories and practices: study case about on-campus laboratories (LPD pedagogical-didactical laboratories) in Primary Teacher Education Program at Milano – Bicocca University This paper present an empirical study to verify the effectiveness of on-campus laboratories (LPD pedagogical-didactical laboratories) of Primary Education Teacher Program at Milano-Bicocca University, The aim of the research is to verify the effectiveness and fully understand their methodology, highlighting strengths and weaknesses from the student’s and professor’s points of view. Determinants of laboratories quality are experiential learning, reflection on practices, and professors management style. Critical issues emerge in comparison with the ‘real’ school: the real school is completely different from the ideal one. The real school seldom teaches through laboratory where small cooperating groups learn by researching. These issues open up new paths of research on LPD education leaders and on training devices aimed at better connecting schools and Universities.

Parole chiave: Formazione insegnanti, Didattica laboratoriale, Laboratorio, Tirocinio, Scuola Primaria e Scuola Infanzia, Studio di caso

Keywords: Teacher Education, Laboratory, Practicum, Primary school, Case study

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Il contributo presenta uno studio empirico qualitativo realizzato a Scienze della Formazione Primaria presso Milano Bicocca allo scopo di verificare l’efficacia dei laboratori, capirne in profondità le metodologie, evidenziare punti di forza e criticità dal punto di vista di studenti e docenti. I fattori che determinano la qualità del laboratorio sono apprendere dall’esperienza, la riflessione sulla pratica e lo stile di conduzione dei docenti. Le criticità emergono dal confronto con la scuola ‘reale’ percepita come molto distante da quella conosciuta in Università e in cui la didattica laboratoriale è poco diffusa. Questa discrasia invita a intraprendere nuove strade di ricerca sulla formazione dei conduttori e su dispositivi formativi che connettano la ricerca alle pratiche didattiche scolastiche.


Tra ‘teorie’ e ‘pratiche’: studio di caso sui Laboratori di Scienze della Formazione Primaria all’Università di Milano Bicocca

Premessa

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Il curricolo per competenze di Scienze della Formazione Primaria supera la storica contrapposizione tra conoscenze disciplinari e competenze professionali proponendo un curricolo integrato tra Corsi, Laboratori e Tirocinio (Galliani, 2001; Baldacci, 2010). Il forte nesso tra saperi teorici e pratica professionale è internazionalmente ritenuto fattore cardine della qualità nella formazione degli insegnanti (Eurydice, 2006), in particolare le competenze didattiche rappresenterebbero il “vettore professionale” (Galliani, 2001) delle competenze disciplinari. Da questa prospettiva la formazione ai saperi scientifici va declinata in funzione delle trasposizioni didattiche nei diversi ordini di scuola secondo criteri organizzativi e tecniche di mediazione possibili all’interno del sistema scolastico. I Laboratori, pur nelle diverse concettualizzazioni e molteplicità di modelli realizzati negli atenei italiani in questi 15 anni, sono dispositivi formativi di congiunzione tra corsi e tirocinio in grado di integrare saperi e di promuovere competenze metodologiche. Nel corso di questo decennio la ricerca valutativa sui Laboratori ha avuto un notevole sviluppo in ambito nazionale; tra le ragioni di tale interesse è da sottolineare l’innovazione che rappresentano nella didattica universitaria. Due sono gli scopi di questo filone di ricerca: il primo è quello di delinearne un’identità pedagogica culturale specifica all’interno del curricolo complessivo; il secondo è quello di valutarne l’efficacia in relazione agli obiettivi formativi previsti (Dalle Fratte, 1998; Galliani, Felisatti, 2001; Nigris, 2004; Perucca, 2005; Galliani, 2005; Paparella, 2006; Zanniello, 2008; Agrati, 2008; Kanizsa, Gelati, 2010). Lo studio di caso svolto presso Bicocca si colloca in quest’area d’indagine e ha lo scopo di individuare categorie descrittive dei processi formativi attivati.

1. Connettere teorie e pratiche: un paradigma della professionalità insegnante Più di una decina d’anni fa l’Educational Researcher pubblica un importante articolo di Korthagen e Kessels (1999) Linking Theory and Practice: changing the pedagogy of teacher education in cui, prendendo in esame i programmi di formazione per insegnanti più diffusi in area anglosassone e statunitense si evidenzia quale principale criticità il passaggio dalla formazione universitaria all’ingresso a scuola dei neo-insegnanti. La letteratura nomina tale fenomeno “shock da realtà” per definire il processo per cui i neo-insegnanti, una volta sul campo, dimenticano le conoscenze apprese durante l’esperienza formativa universitaria. Specialmente durante il primo anno di servizio le concezioni e le teorie più accreditate non emergono nelle pratiche, ma vengono washed up a causa della difficoltà ad integrare le dimensioni di teoria e pratica, fenomeno detto “transfer problem”. Durante il primo anno d’insegnamento si assisterebbe ad un graduale adattamento e modellamento su pratiche didattiche tipiche dello specifico contesto scolastico in cui si è inseriti. Le cause che spiegano il problema sono:

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– il ruolo fondamentale che giocano le pre-concezioni sul processo di insegnamento apprendimento maturate durante la personale esperienza da studenti e allievi. Si tratta di rappresentazioni difficilmente modificabili che rimangono mappe guida dell’azione nella pratica didattica; – il feed-forward problem, ossia la resistenza ad esporsi a determinati apprendimenti in fase di formazione iniziale, per poi lamentarne, una volta in servizio, una scarsa promozione in fase formativa. Tale processo è dovuto al fatto che, durante gli anni di formazione, gli studenti non percepiscono nelle teorie apprese un supporto cognitivo ed emotivo funzionale alla soluzione di problemi incontrati nella pratica professionale; – la difficoltà nel prendere decisioni efficaci in situazione. La pratica dell’educazione implica infatti azioni e decisioni che gli insegnanti prendono molto velocemente, così come rapida e immediata è l’interpretazione di quanto sta accadendo nella situazione specifica. La conoscenza che guida l’agire è molto differente dalla conoscenza astratta e generale presentata durante la fase di formazione iniziale. Vengono tratteggiate dunque le linee di un nuovo paradigma nella formazione insegnante in cui la centralità della ‘phronesis’ (Damiano, 2013) e la consapevolezza riflessiva si accostano all’analisi del comportamento e dell’azione, interrogando i modi in cui si formano schemi e routine del sapere insegnante. Una situazione immediata d’insegnamento può essere considerata come un’unità di percezione, interpretazione e azione, che non ha una natura esclusivamente razionale e non è necessariamente consapevole. Korthagen definisce gestalt tale unità dinamica e olistica costituita da sentimenti, valori, pre-concezioni che origina teorie ‘locali’ soggettive. La difficoltà nella formazione degli insegnanti consisterebbe dunque in quella che Shön chiama reframing (Shön, 1993) ossia ristrutturazione di teorie soggettive esito dell’incontro tra rappresentazioni e significati preesistenti e le conoscenze che si formano durante le prime esperienze di pratica di tirocinio. Un modello analogo è proposto da Altet (2010) per cui la professionalizzazione è un processo di razionalizzazione dei saperi messi in atto a partire da pratiche efficaci agite in situazione. L’insegnante professionista non solo risponde in modo adeguato al contesto, ma sa rendere conto delle conoscenze che utilizza e sa tradurre in sapere la propria pratica. Il sapere pratico sarebbe dunque il risultato di una personale formalizzazione dell’esperienza originata dalla riflessione in-azione, fondata su conoscenze esplicite e su cognizioni tacite che emergono attraverso la riflessione sull’azione (Shön, 2006). I saperi della pratica vengono definiti saperi-strumenti e implicano la capacità di analizzare una situazione complessa, meta-competenza di base per il futuro insegnante. La ‘ragione pedagogica’ segue dunque un doppio movimento ‘teorizzare la conoscenza pratica’ e ‘praticalizzare la conoscenza teorica’ (Magnoler, 2012). Da qui ha origine la proposta di individuare spazi ‘terzi’ e ‘integrativi’ (Zeichner, 2010) in cui le esperienze rappresentino paradigmaticamente la coerenza tra approcci teorici e pratiche professionali come dimostrato negli studi sugli on-campus Laboratories (Metcalf, Hammer, Kahlich, 1996) in area statunitense e sugli Atelier de formation in area francese e canadese (Altet, 2010; Lafortune, 2006). La domanda chiave è: qual è la natura della conoscenza rilevante per la pratica? Formare insegnanti consapevoli del proprio agire e delle proprie rappresentazioni richiede modalità formative e di ricerca che chiamino in causa in prima persona i soggetti coinvolti, assumendo un habitus alla ricerca (Perrenoud, 1999; Nigris, 2004; Rossi, 2011). I Laboratori Pedagogico-didattici sono dispositivi formativi

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istituiti a questo scopo, progettati per sollecitare l’emersione e l’assunzione di consapevolezza delle rappresentazioni intorno ad oggetti disciplinari e metodologie didattiche da parte dei futuri insegnanti mettendo gli studenti in condizioni di immaginare e/o fare esperienza di altri approcci alla didattica curricolare e trasversale ai saperi, modificando le proprie prospettive di significato (Mezirow, 2003).

2. Modelli di Laboratorio negli atenei italiani

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I Laboratori sono stati concepiti come cerniera capace di saldare i tempi della preparazione ‘formale’ e della preparazione ‘pratica’ attraverso analisi, progettazione e meta riflessione (Damiano 1998, p. 173) o come «luogo/struttura di operazionalizzazione del nesso teoria-pratica-teoria» (Perrucca, 2005, p. 89). L’esperienza nazionale ha dato luogo a modelli empirici plurimi (Galliani, 2001; Kanizsa, Gelati, 2010) realizzati secondo quattro tipologie organizzative e pedagogiche (Agrati, 2008): il laboratorio mono-disciplinare, il laboratorio interdisciplinare, laboratori didattici di area e laboratori di tirocinio; laboratori di scienze dell’educazione, di didattica disciplinare e laboratorio pedagogico-didattico integrativo. Finalità dei laboratori possono essere l’acquisizione di conoscenze disciplinari e per la trasposizione didattica oppure la formazione di competenze nella progettazione e nella ricerca didattica; si configurano inoltre secondo una gradualità di partecipazione ad una comunità di apprendimento e di promozione della creatività degli studenti: da seminari monografici del corso, all’insegnamento di strategie applicative, alla ricerca-azione (Restiglian, 2010; Grange, 2006; Gemma, 2010). Da un punto di vista metodologico si possono distinguere: •

il laboratorio clinico-riflessivo focalizzato sulla formazione del sé professionale. Le tecniche utilizzate sono la scrittura clinica, il colloquio in profondità, la narrazione, il teatro. A questo approccio si riferiscono anche i Laboratori di Pratica Riflessiva (LPR) (Mortari, 2009) finalizzati a favorire l’esplicitazione dei processi cognitivi, che generano il sapere pratico e le teorie dell’azione elaborate. Il laboratorio sollecita alcune capacità: sapere osservare e descrivere le pratiche, sapere riconoscere le teorie implicite nelle pratiche, risalire alle precomprensioni, individuare le convinzioni, analizzare le routine e riflettere sui bumpty moment; • il Microteaching, pratica formativa nata negli anni ‘60 nei programmi statunitensi prevede la progettazione e la simulazione, con allievi o nel gruppo dei pari, di situazioni didattiche videoregistrate e sottoposte ad un esame analitico per la riprogettazione dell’intervento, di una nuova simulazione e di nuovo all’analisi in gruppo. Lo scopo è quello di favorire la capacità di osservazione e analisi dei comportamenti e, dei feedback comunicativi, concentrandosi su alcune dimensioni dell’esperienza. Da un approccio comportamentista il Microteaching si è evoluto verso lo studio del ‘Pensiero dell’insegnante’ e della riflessività sollecitando la descrizione, l’analisi e il pensiero critico (Felisatti, Tonegato, 2012); • il laboratorio di ricerca azione o ricerca collaborativa (Magnoler, 2012), che vede la collaborazione tra i futuri insegnanti e insegnanti esperti nel porsi domande sulle pratiche e progettare interventi innovativi o risolutori di situazioni vissute come problematiche. In questo caso sono predisposte esperienze che prevedono la contaminazione di metodi e strumenti e la presenza di un ricercatore-formatore, che garantisce il coordinamento del gruppo e il rigore metodologico.

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Ricerche valutative sul curricolo universitario (Antonietti et al., 2007; Vannini, Mantovani, 2007; Frigerio, 2010) evidenziano dati contrastanti sull’efficacia dei laboratori: tali dispositivi vengono percepiti ‘utili’ se forniscono strumenti funzionali all’insegnamento nella ‘scuola reale’ Cardarello (2010), ma rimangono in ombra quali ne siano gli obiettivi e le competenze specifiche maturate durante il percorso univeristario «occorre procedere nelle ricerche, anche solo per dettagliarne le tipologie ed afferrarne la tipicità» (Cardarello, 2010, p. 47).

3. La ricerca: finalità e metodologia dell’indagine L’indagine condotta presso l’università di Milano Bicocca (a.a. 2012 -2013) è un intrinsic case study (Stake, 1995) volto a conoscere le caratteristiche dei LPD così come sono stati concepiti nel primo Ordinamento di Scienze della Formazione Primaria allo scopo di acquisirne un’adeguata comprensione funzionale ad accompagnare la transizione al nuovo statuto ordinamentale. Tre sono gli obiettivi: conoscere se esistono diverse tipologie di Laboratorio, conoscere quale sia il progetto formativo dal punto di vista dei docenti responsabili scientifici e verificarne le condizioni di efficacia dal punto di vista degli studenti. Il confronto tra la percezione dei docenti e quella degli studenti risponde all’esigenza di offrire una visione multiprospettica del fenomeno indagato. Lo studio si è svolto in 2 fasi: – I fase: rilevazione delle rappresentazioni dei docenti sulle teorie didattiche di sfondo, sulle finalità e sulle metodologie dei laboratori; – II fase: rilevazione delle rappresentazioni degli ex-studenti sull’efficacia formativa e sulle competenze acquisite nei laboratori. 3.1 I soggetti I soggetti coinvolti complessivamente sono: – 12 docenti rappresentativi della totalità dei docenti Referenti di Laboratorio delle diverse aree disciplinari (psico-pedagogica, matematico-scientifica, storico-geografica, motoria-artistica-musicale); di questi 7 ricoprono l’incarico di referenti dall’avvio del corso di laurea, 5 da almeno 6 anni;. – 24 ex-studenti (leaureandi, neo-laureati, insegnanti ex-studenti) che costituiscono un gruppo eterogeneo rappresentativo dei differenti indirizzi del corso: abilitazione all’insegnamento nella Scuola dell’Infanzia, abilitazione all’insegnamento nella Scuola Primaria con Major Scientifico o con Major Linguistico. Per tutti gli studenti del vecchio ordinamento è prevista la frequenza a 12 Laboratori afferenti alle 4 aree disciplinari sopra citate, ma il numero e la tipologia dei Laboratori varia in riferimento all’indirizzo specifico scelto. Il campione di ex-studenti è stato costruito in modo da rappresentare la pluralità dei percorsi formativi svolti; il metodo seguito è quello del purposive sampling (Silverman, 2002) che prevede criteri di messa a punto di un campione sulla base di proprietà discriminanti di cui i soggetti possiedono uno stato particolare. I nominativi sono stati estratti in modo casuale dagli elenchi in possesso presso il Corso di laurea seguendo questi criteri:

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– insegnare da almeno 6 anni nella Scuola dell’infanzia (4 ex-studenti insegnanti) e nella Scuola Primaria (4 ex-studenti insegnanti. Di questi 2 hanno seguito il Major Scientifico, 2 il Major Linguistico); – avere appena concluso il percorso universitario per l’abilitazione all’insegnamento nella Scuola dell’Infanzia (8 ex-studenti neolaureati e laureandi); – avere appena concluso il percorso universitario per l’abilitazione all’insegnamento nella Scuola Primaria (8 ex-studenti neolaureati e laureandi); di questi 4 hanno seguito il Major Scientifico e 4 il Major Linguistico); Gli scopi e la metodologia della ricerca sono stati dichiarati al primo contatto diretto telefonico o via email allo scopo di verificare la disponibilità al coinvolgimento. 3.2 Gli strumenti

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Lo strumento messo a punto in entrambe le fasi è l’intervista semi-strutturata non direttiva (Kanizsa, 1995; Tusini, 2006) che consente l’accesso alle conoscenze e ai vissuti soggettivi; tale strumento è utilizzato negli studi di caso volti a conoscere l’evoluzione e ad orientare la progettazione e la valutazione di progetti formativi (Merriam, 2001). Le interviste sono state realizzate in Università secondo la modalità ‘faccia a faccia’ seguendo una traccia tematica comune per le due tipologie di soggetti (docenti ed ex-studenti) con domande declinate in modo specifico. Le domande della traccia sono aperte e rivolte a tutti gli intervistati anche se il momento in cui sono state poste ha variato lasciando libertà di affrontare i temi posti nella sequenza più coerente al personale ragionamento. Le interviste sono state registrate e condotte in modo non direttivo dando luogo a colloqui in profondità della durata media di circa un’ora e mezza ciascuna. Il metodo di analisi seguito s’ispira alla Grounded Theory costruttivista (Charmaz, 2014), le interviste sono state integralmente trascritte e analizzate con Nvivo10. L’analisi testuale è condotta da una coppia di ricercatori a garanzia del controllo intersoggettivo e ha seguito varie fasi di codifica: aperta per brevi paragrafi, di labeling, focalizzata, assiale, e in ultimo la codifica teorica che identifica core categories sovraordinate e le relazioni reciproche tra categorie. Si tratta di un percorso di letture ricorsive all’interno di ogni testo e tra testi che attraverso un’operazione di confronto consentono l’individuazione di concetti ricorrenti nel discorso sia relativi ai temi della traccia, sia di temi ‘emergenti’.

4. Il Laboratorio come modello metodologico nella formazione degli insegnanti: il punto di vista dei docenti I LPD di Bicocca dal punto di vista dei docenti sono dispositivi ‘ponte’ e integrativi degli insegnamenti di scienze dell’educazione e delle discipline caratterizzanti, oggetto del curricolo scolastico nelle scuole dell’infanzia e primarie. I docenti referenti d’area hanno il compito di scegliere i conduttori e di coordinarli condividendone le linee metodologiche e progettuali di fondo. Il conduttore dovrebbe avere una tripla competenza: disciplinare, della didattica della disciplina stessa, e una competenza alla formazione esperienziale rivolta di gruppi di adulti.

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I Laboratori di area psicopedagogica, del primo e secondo anno di corso, sono strettamente funzionali alle attività di Tirocinio e finalizzati all’acquisizione di strumenti per imparare ad osservare al fine di ‘allenare’ lo sguardo, la capacità di ascolto in situazione, l’analisi dinamiche della comunicazione in classe. “Hai imparato che per svolgere una buona osservazione servono alcuni requisiti, alcune condizioni, oggettive e soggettive […]. L’osservazione è un campo straordinario da questo punto di vista perché quando tu parli di osservazione la risposta dell’insegnante “eh ma cavoli non serve tutti i giorni” no? Classico. Quindi quello di avere un modello di riferimento rispetto a come si può usare potrebbe essere utile non tanto per giudicare quello che vedi, ma per lo meno per far sorgere delle domande e quindi avviare un’interlocuzione.” (R1)

Tutti i laboratori sono descritti come uno spazio in cui agli studenti è chiesto di “mettersi in gioco” (R5, R7, R11) e di “mettersi alla prova” (R3) perché l’esperienza sia significativa e produca cambiamento. Una messa in gioco di sé che coinvolge dimensioni emotive e cognitive dentro ad una cornice ‘protetta’ e artificiale. Nei LPD gli studenti sperimentandosi hanno modo di conoscere e comprendere intuizioni, precomprensioni o teorie implicite e di decostruirle (Kanizsa, 2004). L’attivazione degli studenti in proposte paradigmatiche ed esemplificatrici delle diverse areee aprono la possibilità del cambiamento contribuendo alla costruzione dei significati di quanto accade, allargando la propria comprensione delle azioni e delle idee personali e del gruppo. “Operatività, dialogicità e riflessività sono delle dimensioni che devono intrecciare ogni approccio disciplinare, che si tratti di storia, che si tratti di fisica, che si tratti di area psicopedagogica.” (R1) “Imparare facendo non è fare comunque qualcosa, ma imparare facendo presuppone un bel po’ di fasi. […] Bisogna fare attenzione che appunto non è il fare per fare sostanzialmente.” (R12) “(Il laboratorio) è il luogo del pensare facendo […], il lavoro è prevalentemente pratico esperienziale […] ma il laboratorio è un luogo dove soprattutto si pensa e si discute […] non c’è una domanda prima, c’è solo l’allenamento a fare delle cose e a ragionare sui dati raccolti.” (R9)

Tutti i referenti riconoscono un ruolo importante al processo di riflessione di cui si rilevano tre tipologie: – riflessione profonda su di sé, sulla propria comunicazione, sul proprio corpo, sui propri processi mentali di ragionamento (R 5, R 7, R4, R11, R12); – riflessione sui contenuti dell’esperienza, sul metodo, sulle ragioni di una proposta, sui materiali utilizzati (R1, R2, R6), su cosa si potrebbe fare e come a scuola (R8), su come portare i bambini a riflettere sui propri processi d’apprendimento (R2); – riflessione sui cambiamenti attivati dall’esperienza (R2, R5, R6, R7,). I docenti condividono un approccio socio-costruttivista all’apprendimentoinsegnamento e criticano una didattica prevalentemente trasmissiva. Quale immagine d’insegnante sottende il laboratorio? Un insegnante sensibile, in ascolto, ‘che dispone di un corpo vivo’ (R5), che sfida con problemi intelligenti e difficili, che offre strumenti per ragionare e che insegna a fare e a farsi domande.

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“Come insegnante io devo creare le condizioni perché si faccia un’esperienza tale per cui tu possa arrivare a raggiungere l’apprendimento con le tue modalità coi tuoi adattamenti coi tuoi aggiustamenti.” (R5) “La domanda da fare al bambino è sempre ‘Perché hai fatto così? Cosa stai cercando di fare?’ Non: ‘Fai così perché io ti dico di fare così, perché sono la maestra e so bene le cose, ma cerca di ragionare, cerca di costruire.’ Io dovrei riuscire a dargli gli strumenti per analizzare un problema, prima di applicare delle formule.” (R11)

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Nelle interviste rileviamo una pluralità di strumenti utilizzati: le autobiografie formative, le discussioni, il lavoro di gruppo, i giochi, le simulazioni di progettazione didattica, il microteaching, l’analisi di casi, i compiti autentici, il role playing. I luoghi in cui le proposte laboratoriali si svolgono sono: l’aula, i laboratori di educazione corporea e di area scientifica, spazi laboratoriali presenti sul territorio, in particolare nei musei e il territorio stesso. Il Laboratorio in sintesi ‘mette in scena’ un approccio metodologico caratterizzato da alcune centralità tra cui: l’indagine intorno a contenuti, concetti, correlati a campi d’esperienza o ambiti disciplinari, la relazione di dialogo tra allievi e insegnanti, l’interazione tra allievi, ed è contemporaneamente ‘modello’ pedagogico-didattico auspicato, desiderato e immaginato dai docenti per la formazione dei bambini. In Laboratorio gli studenti sperimenterebbero una metodologia su di sé per imparare la metodologia stessa. Il modello prevede gradualità sia all’interno di un singolo percorso che negli anni: da proposte di marcato taglio autobiografico a proposte via via più connesse e relative a pratiche scolastiche da analizzare e/o da progettare. Quali sono dunque le finalità dell’approccio laboratoriale nella formazione dei maestri? Quali i cambiamenti e gli apprendimenti auspicati, quali le aspettative verso gli studenti? Si rilevano due tipi di finalità: – promuovere un cambiamento, una riflessione su di sé; – promuovere un cambiamento di prospettiva sulle discipline e la loro didattica. I laboratori di educazione corporea e in parte quelli musicali orientati all’approccio musico-terapeutico (R7) e quelli artistici sono volti a integrare il codice della parola con altri linguaggi, quelli del corpo, del movimento, dei gesti. La formazione laboratoriale è intesa come esperienza in sé completa, radicalmente autobiografica, che se mai prende voce con la narrazione fondata sulla memoria esperienziale. È l’agire attento, l’attenzione al proprio corpo in movimento, che qui produce cambiamento perché coinvolge emotivamente in modo profondo. La maggior parte dei LPD sono invece finalizzati a promuovere un ‘cambio di prospettiva’ sulla disciplina e sulla didattica della stessa. “Io cerco molto di lavorare proprio sul cambio del punto di vista, perché è importante per i futuri insegnanti, perché se il futuro insegnante trasmette un’idea della matematica troppo diciamo noiosa così per semplificare, ma spesso anche sbagliata. Spesso la lotta con gli studenti è: ‘io ti do il problema’ e loro mi dicono: ‘mi dica qual è la formula da applicare’; allora riuscire a convincerli […] che la formula è il punto di arrivo e riuscire a ragionare su come ci si arriva, […] quale strada posso usare ragionando.” (R11) “Se tu sperimenti una cosa da fare in classe, sperimenti come ti trovi a farla e cerchi di immaginarti; non è la costruzione di un modulo didattico, cosa che non m’interessa affatto. Il laboratorio ti fa sperimentare una cosa che puoi fare coi bambini rendendoti conto che può essere utile e interessante e bella.” (R3)

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5. Valenza formativa dei laboratori e condizioni di efficacia: il punto di vista degli studenti Il Laboratorio fa accedere all’idea d’insegnante, di bambini e di scuola che ha in mente l’università e a cui prepara i futuri insegnanti; gli studenti riconoscono un modello metodologico che emerge dalla riflessione sulla propria esperienza inizialmente sperimentando un nuovo modo di essere studenti universitari, lontano dalla loro rappresentazione. “In generale sono stati interessanti per cominciare ad entrare nella realtà del pensiero che c’era dietro alla facoltà.” (SPL2) “Imparare a vivere ed esperire una modalità; le lezioni frontali, va be’, si fanno normalmente in università mentre con il laboratorio si entra in contatto con una modalità diversa.” (SIA4)

La comprensione delle connessioni tra corsi-laboratori-tirocinio matura durante tutto il percorso universitario, ma appare in modo evidente durante le prime esperienze a scuola. “Sicuramente il Laboratorio dava anche spunti pratici che nei tirocini potevano essere attuati. Però è stato interessante un po’ anche il contrario. Il terzo e quarto anno quando c’era alle spalle un’esperienza da parte degli studenti, il momento del laboratorio diventava un momento in cui si ripensava a esperienze che abbiamo vissuto in prima persona.” (IP4) “Attraverso la frequenza ai LPD è’ cambiato lo studio in università, cioè non era più un insieme di teorie da imparare, ma ho iniziato a vederle come se si muovessero.” (SPA2) “La cosa fondamentale è che [i laboratori] ti spingono a farti domande [...] prenditi un momento, fermati e chiediti perché stai facendo questa cosa, come la stai facendo, è giusto che tu la stia facendo così? Quindi di riflettere su quello che si fa, cioè su cosa non fare o fare.” (SPL2)

Il laboratorio, nella sua vitalità materiale fa ‘muovere’ le teorie nell’incontro con le pratiche generando un cambiamento di prospettiva e offrendosi come guida metodologica che modifica il personale rapporto con la ‘materia’ e la didattica. Fattore determinante è la qualità dei contenuti della proposta in particolare quando concetti o ragionamenti sono resi visibili e tangibili dal riferimento alla quotidianità dell’esperienza; gli strumenti concettuali della disciplina e i suoi metodi d’indagine tornano ad avvicinarsi intrecciarsi al mondo dei saperi e dei vissuti di adulti e bambini, al loro modo di ragionare. Appare evidente il nesso tra LPD e Tirocinio, luogo in cui potersi sperimentare nelle pratiche apprese in laboratorio: centrale è la dimensione della strumentalità e della ‘praticabilità’ considerata in modo unanime criterio di qualità di un LPD. I laboratori di area psicopedagogica sono fondamentali per acquisire competenze ritenute indispensabili nei primi ingressi a scuola. “Quello che è stato fondamentale nel mio tirocinio sono stati i laboratori nell’area pedagogica. Il fatto che questi laboratori ti offrano la possibilità di riflettere sull’approccio in modo tale che tu poi hai gli strumenti per poter ragionare e quindi progettare.” (SPA3)

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Le esperienze di Laboratorio contribuiscono a sviluppare schemi di possibili pratiche, repertori di attività e percorsi potenzialmente sperimentabili con i bambini. Si tratta di spunti da rielaborare adattandoli al contesto. “Credo di aver acquisito alcuni spunti, che potrebbero essere portati a scuola, degli spunti non tanto perché li riporti tali e quali, nel senso che bisogna sempre adattarli ai bambini.” (SPA1) “Li prendevamo un po’ come gli spunti della cassetta degli attrezzi da poter poi applicare utilizzare durante il tirocinio o la vita futura comunque momenti preziosi (IP5).

Sperimentarsi facilita nella comprensione di nuclei concettuali disciplinari e nel contempo nell’acquisire conoscenze metodologiche, in particolare sulle metodologie attive che in fase riflessiva vengono formalizzate e costruiscono saperi sufficientemente generalizzati da potere essere utilizzata in una gamma di situazioni analoghe. In quanto luoghi di congiunzione tra saperi pedagogico-didattici e saperi scientifico-artistici, anche per gli studenti, come per i referenti, la ‘praticalità’ delle teorie è caratterizzata da due direttrici:

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– ‘toccare concetti’ e contenuti disciplinari facendone esperienza; – sperimentare situazioni didattiche in previsione del tirocinio e dell’attività professionale. Gli studenti fanno inoltre una prima distinzione tra LPD ‘teorici’, poco efficaci, in opposizione a quelli ‘pratici’; tale distinzione viene ricondotta unicamente alle strategie didattiche e allo stile di conduzione del docente responsabile del clima dell’aula. Quelli ‘pratici’ vengono ricordati più frequentemente e rimangono in mente in modo vivido, sono in particolare laboratori intensivi condotti fuori dall’aula universitaria: una visita a una scuola, un’esperienza sul territorio, in un museo o di partecipazione ad eventi culturali della città. I laboratori ‘teorici’ sono molto simili a lezioni o a seminari. “I ‘veri’ laboratori hanno poca parte teorica e tanta parte pratica di sperimentazione; tutti mi hanno permesso di arricchire un po’ il mio bagaglio che era solo teorico. La vera pratica l’ho fatta nei laboratori.” (SPL1)

Le condizioni di un laboratorio efficace si riassumono in: ruolo di facilitazione del conduttore, attivazione degli studenti, alternarsi di azione e riflessione, lavoro di gruppo. “..Quando hai davanti una persona che persino dal rapporto con te studente, che non sei niente, riesce a trovare anche dell’utile per lui, cioè a imparare da questo. […] Ci sono dei laboratori che quando finiscono tu senti di essere stato una persona per quel conduttore, e ci sono altri laboratori che finiscono e dici: va beh, io la traccia che ho lasciato è nulla […] ero uno studente dei tanti!” (SPL2)

Lo stile di conduzione, i metodi d’insegnamento proposti, la modalità gestione delle relazioni individuali e con il gruppo, la chiarezza dei compiti e delle consegne, l’articolazione e strutturazione del percorso sono indicatori che disegnano diverse immagini di insegnanti secondo il criterio della coerenza al modello socio-co-

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struttivista auspicato (Nigris, 2004). Inoltre, il fare si alterna ed integra con la riflessione focalizzata su diversi oggetti di analisi: i contenuti, l’esperienza nella sua dimensione logica e processuale (cosa abbiamo fatto e come), i propri processi cognitivi, emotivi e di apprendimento. La riflessione è continua e di gruppo, accompagna l’intero percorso e promuove consapevolezza dei cambiamenti che man mano gli studenti vanno maturando. “Cos’hai percepito? Quali sono stati i pensieri che via via ti sono venuti alla mente? Quindi una riflessione sui processi che avevi messo in atto mentre facevi quella cosa. Anche sulle idee che via via sono cambiate, perché la percezione ti faceva cambiare nella testa i tuoi preconcetti.”(SIL3) “Riflessioni che avevano prima di tutto l’obiettivo di farci capire come ci eravamo sentiti noi a realizzare quell’esperienza, quali erano state le difficoltà che avevamo incontrato […] quindi un lavoro prima su noi stessi e su come avevamo vissuto l’esperienza appunto su gli aspetti positivi e negativi e poi un traslare quella che potrebbe essere un’esperienza così al contesto scuola coi bambini insomma.” (IP4)

Il fatto che il gruppo si ‘crei’ è percepito come un fattore determinante del buon esito di un laboratorio. La capacità di confrontarsi, di modificare le proprie idee, di contribuire ad un progetto condiviso è ritenuta componente essenziale. Il lavoro di gruppo viene analizzato da tre prospettive: la responsabilità, che pertiene alla capacità di concepire se stessi come persone in relazione agli altri, la crescita psicologica personale, soprattutto dal punto di vista della capacità di gestire le proprie emozioni, la competenza professionale intesa come capacità di lavorare in gruppo: “il confronto nel gruppo, il lavoro con altri insegnanti, il confronto tra due persone che pensano cose in maniera completamente diversa e quindi devono per forza lavorare insieme, punto. Quello lo scopri solo nei laboratori non nel tirocinio”. (IP2)

I LPD rappresentano quindi un modello o esempi ‘paradigmatici’ e possono generare conoscenze trasversali elaborando le implicazioni operative e utilizzando “tipologie di ragionamento” (Cardarello, 2010) sperimentate direttamente. La didattica laboratoriale viene compresa e spesso interiorizzata come modello, chiave di lettura delle pratiche e schema di riferimento per la propria azione in tirocinio o nelle prime esperienze di lavoro. Essere riusciti ad agire pratiche analoghe o uno stesso approccio sperimentato in laboratorio dà agli studenti la misura delle competenze acquisite e mostra loro che un approccio laboratoriale con i bambini è possibile. Tuttavia, dall’incontro con la scuola emergono dubbi sulla validità dell’approccio: la scuola reale sembra loro ancora troppo distante dal modello ideale e la didattica laboratoriale poco diffusa. Nel confronto con le scuole gli studenti vivono lo spiazzamento di non ritrovare il modello auspicato e problematizzano il modello stesso. Gli studenti percepiscono di essere investiti del compito di rinnovamento della scuola ed esprimono vissuti sia di fiducia nei loro confronti: “hanno fiducia in noi e credono molto in quello che fanno e questo nei laboratori si vede molto (SIA4)”, sia di disagio: “Secondo me il problema è la necessità di rinnovo della scuola [...] uno studente al quale viene affidata questa necessità di rinnovo […] viene affidata in modo veramente insistente, purtroppo questa voglia di innovazione dopo un po’ la perde [...] non è che si perda la voglia…solo che bisogna un attimo rivedere...” (SIL2)

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“Un’insegnante con i superpoteri [...] sinceramente io sperimentando adesso il mondo del lavoro è molto difficile fare quello che ci insegnano nei corsi e nei laboratori, cioè nel senso che l’insegnante dovrebbe essere attenta ai bisogni di tutti i bambini ma io dico quando hai davanti 26 bambini come fai?” (SIA2)

I fattori di criticità sono la difficoltà di riuscire a lavorare in piccoli gruppi, l’organizzazione scolastica della scuola primaria, frammentata in discipline e senza tempi per la progettazione condivisa e una diversa cultura pedagogica tra insegnanti. Emerge dagli ex studenti che oggi insegnano la capacità di problematizzare e contestualizzare l’approccio capendo quando possa essere funzionale nella facilitazione degli apprendimenti e quando invece pratiche più tradizionali diventano necessarie.

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“È difficile (fare laboratorio) se tu sei in un team e arrivi e sei con un’insegnante che ha 54 anni e sono 40 anni che insegna con le fotocopie, quell’altra che detta tutto e li tiene seduti, li seda e poi ci sei tu che sei abituata a lavorare in un altro modo, che sei stata formata per lavorare in un altro modo e che cerchi di alternare un po’ diverse metodologie, diversi momenti proprio per non appiattire, Poi in realtà passano 5 anni e fai italiano e sei nel team con una ragazza laureata in Bicocca per cui ti guardi e ti capisci.” (IP5)

Conclusioni I Laboratori Pedagogico Didattici, per come si sono delineati nello studio condotto in Bicocca, confermano che un approccio basato sull’apprendimento esperienziale e riflessivo genera connessioni tra i saperi pratici e metodologici che si vanno formando, in particolare quelli ‘per’ le pratiche e può generare apprendimento trasformativo (Mezirow, 2003). Dal punto di vista dei docenti, tra le ragioni che renderebbero plausibile la ‘trasferibilità’ del metodo una volta divenuti insegnanti, vi sono la possibilità di sperimentarsi e riflettere sui propri processi pervenendo a prime formalizzazioni e generalizzazioni dell’esperienza. Partendo dal presupposto che peculiarità del Laboratorio è l’apprendimento di un approccio didattico da praticare a scuola emergono chiaramente la rilevanza del tema in termini di competenze professionali e le criticità dell’approccio sperimentato fin’ora. Se la competenza è intesa come abilità di impiegare conoscenze nell’interazione con fenomeni extra accademici e in contesti nuovi e diversi da quelli della loro acquisizione (Le Boterf, 2008), l’estraneità delle conoscenze al contesto d’uso e il fatto che non siano integrate con le cognizioni pragmatiche dei contesti che le regolano, potrebbero non facilitare il transfer. Agli studenti al termine del loro percorso universitario appare chiaro a quale modello di didattica auspicata e immagine ‘ideale’ d’insegnante s’ispiri l’approccio laboratoriale, hanno ormai schemi di lettura dai contorni piuttosto chiari e la comprensione delle sue potenzialità per i bambini. Un approccio, per altro, che vede frequentemente la loro adesione entusiasta poiché riconoscono la sua praticabilità durante il Tirocinio. Con i primi ingressi a scuola invece emergono dubbi e il modello viene problematizzato. Le pratiche migliori, che richiamano l’immagine di un insegnante socio-costruttivista e ricercatore riflessivo, implementate nei laboratori, in esperienze di Tirocinio e in qualche occasione di supplenza, sono nella percezione della maggior parte degli studenti e degli ex studenti ben poco diffuse nelle scuole, soprattutto primarie. Le reazioni a questa scoperta sono di diverso tipo: di

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forte critica alla didattica tradizionale e alla scuola attuale, ma contemporaneamente di dubbio sulla validità del modello appreso su di sé, come effettivamente in grado di praticare quel ‘modello’ nella scuola reale. A quali prospettive tali conoscenze orientano l’indagine futura alla luce del nuovo scenario istituzionale? Il nuovo ordinamento ha ribadito la centralità dei Laboratori aumentandone in misura notevole il numero, la durata e le tipologie e rimarcando la necessità della ‘trasposizione’ pratica di quanto appreso in aula. Contemporaneamente ha segnato un ripensamento del modello organizzativo e pedagogico nel rapporto tra saperi disciplinari e didattiche delle discipline, tra saperi psicopedagogici e discipline curricolari; i Laboratori sono infatti ora concepiti come attività integrative dei corsi e non costituiscono più un’area a se stante. Questo aspetto può rappresentare un miglioramento in virtù di una maggior coerenza tra corsi e laboratori e di una maggior connessione tra ricerca didattica e saperi sulle pratiche (Altet, 2010). Al contempo si evidenziano i rischi di una maggior frammentazione e di una trasformazione metodologica verso modelli affini alle esercitazioni o a seminari d’approfondimento tematici sia a discapito degli approcci laboratoriali già validati nella ricerca, sia ‘piegando’ la formazione degli insegnanti, oggi comune a chi sceglie l’indirizzo di scuola dell’infanzia e di scuola primaria, a precoci pratiche di insegnamento dei saperi formalizzati. Da qui la necessità di mettere a tema la formazione dei conduttori di laboratorio. Inoltre, se i Laboratori intendono continuare a proporsi come luoghi di formazione che connettono saperi metodologici con pratiche professionali, emerge la necessità di individuare modelli che pongano al centro una nuova collaborazione tra ricercatori universitari delle diverse aree disciplinari da un lato, conduttori di laboratori (docenti universitari, formatori, tutor, insegnanti esperti) e insegnanti dall’altro. I neo-insegnanti della scuola primaria pare siano disposti a ‘gettare la spugna’ di fronte a bambini demotivati, oppure si rivelano poco convinti della possibilità di mettere in pratica metodologie valide per tutti. La scuola reale sembra loro ancora troppo distante dal modello ideale, come confermano altre ricerche sul tema. La collaborazione tra ricercatori e insegnanti esperti, tra università e scuola sarebbe dunque condizione necessaria per la possibilità di realizzare un progetto di responsabilità comune proseguendo nella sfida ormai più che decennale di avvicinare il luogo della ricerca pedagogico-didattica e della formazione alla pratica della professione insegnante, ai luoghi della professione agita, un incontro rimasto disatteso per molti anni. In questa logica la formazione iniziale e la formazione permanente, connettendosi in modo strutturale, (Cochran Smith, Lytle, 2009) potrebbero trovare anche nei Laboratori spazi di ricerca-formazione condivisa, capaci di restituire la complessità della professione e dei contesti in cui l’educazione si fa e supportando l’incontro e i passaggi tra generazioni d’insegnanti.

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Evidence Based Education: un’opportunità epistemologica per i nuovi professionisti della formazione Giovanni Bonaiuti - Università di Cagliari - giovanni.bonaiuti@unica.it Antonio Calvani - Università di Firenze - antonio.calvani@unifi.it Silvia Micheletta - Università di Firenze - silvia.micheletta@unifi.it Giuliano Vivanet - Università di Cagliari - giuliano.vivanet@unica.it

Evidence Based Education: epistemological opportunity for new training professionals

It is of strategic importance for future educators developing appropriate skills for accessing to research results in an “evidence-based” way (evidence based education - EBE) in order to facilitate an “informed and aware” decision making. The EBE, orienting to formalize research procedures and to assess its results reliability, provide also an “epistemological opportunity”. This paper aims to highlight the importance of transferring cultural attitudes and procedures from the EBE world to training. After a brief introduction to research centers and tools used to access scientifically reliable knowledge, we present the results of a comparative test to study the effectiveness of the search engine used, and then we provide some practical suggestions to foster methodological awareness starting from level procedures of information inquiry that can address a simple graduate student.

Parole chiave: Evidence Based Education, procedure di ricerca online, conoscenze affidabili, formazione educatori, sviluppo professionale degli insegnanti.

Keywords: Evidence Based Education, information online inquiry, reliable knowledge, educators training, teacher professional development

All’interno di una impostazione condivisa, di Antonio Calvani è la Premessa; di Giuliano Vivanet è il par. 1; di Giovanni Bonaiuti è il par. 2; di Silvia Micheletta è il par. 3. Gli autori desiderano, inoltre, rivolgere uno speciale ringraziamento a Nicola Benvenuti (Università di Firenze) e Roberto Trinchero (Università di Torino) per aver fornito preziosi suggerimenti per la revisione del lavoro. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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È di rilevanza strategica per i futuri educatori sviluppare adeguate competenze per l’accesso ai risultati della ricerca in un’ottica “basata su evidenza” (evidence based education - EBE) al fine di favorire l’assunzione di decisioni “informate e consapevoli”. L’EBE, orientando a formalizzare le procedure di ricerca e a valutare il grado di affidabilità delle sue risultanze, rappresenta un’opportunità epistemologica. Questo lavoro intende sottolineare l’importanza di trasferire atteggiamenti culturali e procedure dal mondo EBE alla formazione. Dopo un’introduzione sintetica dei centri e degli strumenti di ricerca utilizzabili per accedere a conoscenze scientificamente affidabili, presenteremo i risultati di un test comparativo sull’efficacia dei motori utilizzabili, e forniremo alcuni suggerimenti pratici per favorire consapevolezza metodologica a partire dal livello delle procedure di information inquiry che può affrontare un semplice laureando.


Evidence Based Education: un’opportunità epistemologica per i nuovi professionisti della formazione

Premessa

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La formazione di futuri professionisti della formazione capaci di competenze di information inquiry e orientati all’uso di conoscenze metodologicamente fondate, rappresenta oggi una delle istanze principali da accogliere nei percorsi formativi, così come sottolineato negli orientamenti politico-educativi internazionali (UNESCO, 2011; ACRL, 2011). Il fattore nuovo che porta al centro tale esigenza è rappresentato dal grande sviluppo che ha avuto negli ultimi anni l’evidence-based education (EBE), un orientamento che sta offrendo un significativo contributo alla creazione di un sapere didattico capitalizzabile (in forme non eccessivamente dissimili a quanto avviene per la medicina, al cui modello si ispira), favorendo così, sul piano operativo, la presa di decisioni “informate e consapevoli” (Calvani, 2012; Prewitt, Schwandt e Straf, 2012; Trinchero, 2013)1. Promuovere una cultura dell’evidenza (Coe, 1999; 2002) a supporto delle professionalità didattiche è uno degli obiettivi dei fautori di tale prospettiva. Si pone così al centro dell’attenzione la valutazione dei diversi livelli di affidabilità attribuibili a una conoscenza che si presume avere rilevanza scientifica (Davies, 1999; Slavin, 2002; Vivanet, 2014). Al livello più alto si collocano metodi di sintesi delle conoscenze, quali revisioni sistematiche e/o meta-analisi2, basati sulla comparazione di insiemi sufficientemente consistenti di risultati di singole ricerche comparabili (studi primari). Il percorso per pervenire a tali sintesi prevede procedure rigorose e trasparenti che seguono fasi prestabilite, così riassumibili: (i) definizione della domanda di ricerca; (ii) definizione del protocollo di ricerca; (iii) ricerca degli studi primari; (iv) selezione degli studi primari sulla base di criteri definiti; (v) analisi delle informazioni e dei risultati tratti dagli studi selezionati; (vi) comparazione tra valutatori indipendenti e sintesi dei risultati; e (vii) disseminazione. Certamente, l’introduzione di un approccio evidence-based nella ricerca e nella pratica educativa si espone anche a perplessità e rilievi critici di natura metodologica e di natura applicativa, sui quali non discuteremo in questa sede3. Ci limiteremo a sottolineare come l’approccio evidence-based non risulti accettabile se

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Nel dibattito sul tema, è frequente il ricorso a espressioni quali evidence informed education e evidence aware education. Una revisione sistematica è un metodo di indagine secondario, caratterizzato dall’adozione di un protocollo standardizzato, avente l’obiettivo di raccogliere e analizzare tutti gli studi più significativi su un dato tema/problema di ricerca (Chalmers & Altman, 1995; Oakley et al., 2005). Una meta-analisi è una tecnica statistica di sintesi dei dati, generalmente espressa in termini di effect size (ES – in it. dimensione dell’effetto), presentati in singoli studi (Glass, 1976). In proposito, si rimanda a Higgins e Thompson (2002); Pawson e Tilley (2004); Lessard (2006); Biesta (2007); Calvani (2011; 2013); e Vivanet (2014).

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tradotto in “una sorta di purismo scientista”, figlio di un ingenuo neopositivismo (Calvani, 2013); piuttosto esso, mettendo al centro il problema della trasparenza del processo e dell’affidabilità su cui si basa ogni formulazione che intenda essere scientificamente fondata, esercita una interessante sollecitazione per il mondo della formazione. Dal mondo EBE possono provenire modelli e suggerimenti procedurali trasferibili nelle prassi di primo avvicinamento alla conoscenza scientifica: per quanto, ovviamente, il livello di complessità sia di ordine diverso per semplici laureandi rispetto a valutatori impegnati nella compilazione di una revisione sistematica, tuttavia la chiara esplicitazione del processo informativo e la consapevolezza del livello di evidenza4 attribuibile alle conoscenze reperite rimangono principi fondamentali comuni, propri di ogni lavoro scientifico. Partendo da tali premesse in questo lavoro, si presenta dapprima una breve panoramica dei centri e degli strumenti di ricerca più noti per l’accesso a conoscenze basate su evidenze; si conduce un confronto tra alcuni di essi; e infine si delinea uno schema di ricerca adattato agli obiettivi di una tesi di laurea.

1. Centri evidence-based e strumenti di ricerca Tipicamente, una volta definita con chiarezza la domanda di ricerca che guiderà il lavoro, il primo passo per un laureando è quello di esplorare la letteratura disponibile, al fine di tracciare un quadro preliminare dello stato dell’arte attraverso i testi scientifici più recenti (oggi ricercabili comunemente anche in Rete, tramite OPAC, Google Books o Amazon) e, sulla base di questi e dei riferimenti bibliografici in essi contenuti, procedere top-down fino al livello di dettaglio a cui intende arrivare. Tuttavia non sempre si ha la fortuna di imbattersi in lavori aggiornati ed esaustivi, per cui è necessario saper usare efficacemente gli altri strumenti d’informazione che la Rete ci rende oggi disponibili. Una prima indicazione utile per la ricerca di fonti scientificamente affidabili è rappresentata dalla consultazione dei siti web dei centri e delle organizzazioni (Bruni & Vivanet, 2013) che operano nella raccolta e sistematizzazione delle conoscenze educative basate su evidenza. Tra essi, si ricordano per primi il What Works Clearinghouse (WWC) negli Stati Uniti e l’Evidence for Policy and Practice Information and Co-ordinating Centre (EPPI-Centre) in Inghilterra5.

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In ambito EBE, è sufficientemente consolidata la distinzione gerarchica di rilevanza delle evidenze disponibili. Così ad esempio l’ASHA (Robey, 2004) definisce livelli così strutturati: Ia meta-analisi rigorose di studi sperimentali randomizzati; Ib studi sperimentali randomizzati rigorosi; IIa studi controllati rigorosi senza randomizzazione; IIb studi quasi-sperimentali rigorosi; III studi non sperimentali rigorosi (es. correlazionali e studi di caso); IV report esperti. Non si tratta, tuttavia, dei soli centri di interesse per gli scopi di questo lavoro. Si ricordano, infatti, anche l’Education Endowment Foundation (EEF) che cura la pubblicazione online del Teaching and Learning Toolkit, uno strumento di consultazione per i professionisti della formazione che riporta indicazioni circa l’efficacia di numerosi metodi didattici; il Center for Data-Driven Reform in Education della Johns Hopkins University School of Education e l’Institute for Effective Education (IEE) della University of York che curano, in una duplice versione britannica e statunitense, la Best Evidence Encyclopedia, un archivio di risorse sulle evidenze scientifiche emergenti nei programmi di educazione per studenti K-12 (formazione primaria e secondaria).

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Il primo conduce studi e ricerche nella forma di revisioni sistematiche nell’ambito più generale delle scienze sociali, comprese quelle educative. Esso cura la Evidence Library (suddivisa per quattro aree: educazione e politiche sociali; promozione della salute e salute pubblica; sistemi internazionali di salute e sviluppo; ricerca partecipativa e politica) e il Database of education research che consente di effettuare ricerche utilizzando un insieme di filtri relativi, ad esempio, al paese, all’argomento (topic), al curriculum, all’età degli studenti, al genere, o al contesto educativo. Il secondo, su iniziativa del Dipartimento dell’Educazione statunitense, produce revisioni di studi concernenti programmi, prodotti, pratiche e politiche educative. Nella sua banca dati, è possibile compiere ricerche sia tramite il motore full-text sia filtrando i dati in base alla natura degli obiettivi didattici e/o a quattordici aree tematiche (tra cui, bambini e giovani con disabilità; prevenzione abbandono scolastico; matematica; lettere; efficacia dell’insegnante; tecnologie educative; e così via). Centri come il WWC e l’EPPI-Centre rendono, inoltre, disponibile un’ampia documentazione sui protocolli di ricerca adottati per la produzione delle sintesi di conoscenze e l’analisi delle evidenze di efficacia didattica. Il passo successivo è quello di avvalersi dei diversi strumenti di ricerca disponibili i quali sono riconducibili a due macro-categorie: i motori di ricerca e i database della letteratura scientifica (archivi bibliografici)6. Tra i primi, si ricorda Google Scholar, specializzato nella indicizzazione e nel recupero di risorse della letteratura scientifica tratte dai siti internet di editori accademici, università, istituti scientifici, e così via. Tra i secondi, in ambito educativo, il database di riferimenti bibliografici più noto è ERIC (Education Resources Information Center), curato anch’esso dal Dipartimento dell’Educazione statunitense7. Vi sono poi i numerosi database creati e gestiti dagli editori delle principali riviste scientifiche, quali Elsevier, SAGE, Springer, Taylor & Francis, Wiley8. Oltre a essi, si ricordano i numerosi servizi di ricerca bibliografica in ambito scientifico, quali OVID, Proquest, IngentaConnect, ISI Web of Knowledge e SCOPUS. Sia i motori di ricerca sia i database della letteratura scientifica consentono di fare ricerche semplici o avanzate, ad esempio usando parole chiave combinate attraverso operatori booleani, filtrare i risultati forniti sulla base di alcuni parametri (es. data di pubblicazione, titolo, disponibilità full-text, e così via). Come è logico aspettarsi, i motori che agiscono su archivi specializzati dispongono di un sistema di filtri più dettagliato per la selezione delle tipologie dei lavori e spesso integrano anche modalità di ricerca tramite vocabolari controllati e thesaurus; tuttavia, è da segnalare che in ambito educativo non vi sono in genere strumenti sensibili ai livelli di evidenza propri del mondo EBE, come invece disponibili, ad esempio, in database della letteratura medica quale MEDLINE (interrogabile tramite il servizio PubMed) (vedi Fig. 1).

6 7 8

La principale differenza tra queste due categorie è rappresentata dal fatto che mentre i primi traggono l’informazione da risorse non classificate presenti in rete, i secondi si basano su cataloghi costruiti e alimentati da professionisti. In ambito psicologico è molto utilizzato PsycINFO, un database curato dall’American Psychological Association e che indicizza più di 3 milioni di record dedicati alla letteratura peer-reviewed nel campo delle scienze comportamentali e della salute mentale. In ambito psicopedagogico sono numerose le riviste scientifiche pubblicate da questi editori. Taylor & Francis Group offre 255 titoli (www.tandfonline.com), Springer 104 (www.springer.com), SAGE 100 (online.sagepub.com), Elsevier 51 (www.elsevier.com), Wiley 35 (onlinelibrary.wiley.com). Tali dati sono stati acquisiti consultando i rispettivi siti internet il 2 agosto 2014.

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!

235 Fig. 1: PubMed: in sovraimpressione si vede la possibilità di selezionare lavori di tipo “Systematic Review”.

2. La valutazione degli strumenti: un test di confronto La scelta dello strumento di ricerca risulta una delle prime e più importanti decisioni che il ricercatore deve compiere. Nella valutazione degli strumenti di ricerca sono ritenuti importanti principalmente due parametri: la capacità di recupero (recall), intesa come la proporzione di documenti rilevanti recuperati in rapporto al totale dei documenti rilevanti esistenti e la precisione (precision), intesa come la percentuale di risultati rilevanti in rapporto al numero di risultati ottenuti dal motore di ricerca (Conn et al., 2003; Hersh et al. 2001). Intuitivamente è logico ipotizzare che i database specializzati, indicizzando fonti selezionate a priori da esperti, riescano a garantire risultati più precisi se messi a confronto con motori come Google Scholar che, indicizzando automaticamente l’insieme di documenti presenti sul Web, tenderanno ad accogliere anche fonti non pertinenti o poco attendibili. Ci si chiede però se questo sia confermato nei fatti oppure se Google Scholar, strumento sempre più utilizzato da studenti e ricercatori, rappresenti una valida alternativa. Sull’affidabilità di Google Scholar rispetto ad altri strumenti si è aperto un dibattito caratterizzato da posizioni e riscontri tutt’altro che univoci (Boeker, Vach & Motschall, 2013; Conn et al., 2003; Falagas et al., 2008; Shariff et al., 2013; Walters, 2009; 2011). Boeker e colleghi (2013), facendo riferimento all’ambito medico, ne sottolineano la scarsa precisione rilevando come Google Scholar presenti una capacità di recupero molto alta (del 92,9%), ma una precisione complessiva solo dello 0,13%. Differenti risultati sono ottenuti da Walters (2009) che, ad esempio, mostra con un accurato test svolto su tematiche sociologiche, come la capacità di recupero e la precisione di Google Scholar siano comparabili a quelle di altri strumenti. A conclusioni simili, arrivano anche Shariff e colleghi (2013), suggerendo come, per rapide ricerche su tematiche relative a evidenze cliniche, quest’ultimo sia comparabile a uno strumento autorevole come PubMed.

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anno VII | numero 13 | Dicembre 2014


Nel tentativo di valutare l’efficacia degli strumenti menzionati per il recupero dei risultati della ricerca educativa basati su evidenza, e ricavarne conseguentemente indicazioni utili per laureandi o giovani dottorandi, abbiamo condotto un test comparativo, concentrando in modo particolare la nostra attenzione sul confronto tra Google Scholar e alcuni database specializzati. In un’ottica EBE, sinteticamente riconducibile all’espressione “what works, under what circumstances”, possiamo dire che un quesito di ricerca tipico, potrebbe assumere una delle seguenti strutture (dove x e y sono le variabili didattiche indipendenti e z è tipicamente l’esito del processo di apprendimento): – cosa si sa circa il fatto che x influenzi z (in che misura e in quali contesti)? – cosa si sa circa il fatto che x influenzi z più di y (negli stessi contesti o in contesti variati)? – cosa si sa, definito il contesto, circa i fattori che influenzano maggiormente z?

236

All’interno di queste tipologie e con l’obiettivo di ottenere risorse differenziate a diversi livelli di evidenza, la query potrebbe essere composta da tre componenti: (i) una relativa al soggetto/oggetto/tema al centro dell’intervento (es. risultati di apprendimento degli studenti con diagnosi di dislessia); (ii) una relativa alla variabile indipendente di cui si vuol valutare l’efficacia (es. tecniche cooperative, tecnologie didattiche, metodi attivi, ecc.); e (iii) una relativa al livello di evidenza desiderata (es. revisioni sistematiche, meta-analisi, ricerche sperimentali, quasiesperimenti, sino a includere, eventualmente, anche ricerche qualitative, condotte con criteri che ne garantiscano l’affidabilità). L’ultimo elemento sopra delineato rappresenta quello su cui a noi sembra si debba porre maggiore attenzione nell’intento di sviluppare una cultura basata sulle evidenze. Non tutto quello che si trova in rete, o ciò che è stato scritto e sperimentato ha infatti la stessa rilevanza e affidabilità ed è pertanto necessario operare dei distinguo nel momento in cui si impiegano le fonti. Per fare questo, poiché non sono disponibili in ambito educativo strumenti di ricerca in grado di operare distinzioni automatiche e sistematiche delle fonti per livelli di evidenza si può ipotizzare l’interrogazione degli stessi strumenti di ricerca in modalità ricorsiva, mirata esplicitamente: (i) in primo luogo, a revisioni sistematiche e/o meta-analisi (che nel nostro lavoro assegneremo alla classe A); (ii) in un secondo passaggio, a studi quantitativi rigorosi e dotati di caratteristiche di validità e attendibilità sufficienti (es. ricerche sperimentali, quasi-sperimentali, correlazionali, longitudinali) (classe B); (iii) in terzo luogo, a sintesi di studi qualitativi (es. meta-etnografie) (classe C). Integrando tale schema con altre due possibilità (classe D: lavori di potenziale interesse ma non relazionabili in senso stretto alla query; classe E: lavori non pertinenti), se ne può ricavare il seguente sistema di classificazione: – classe A: revisioni sistematiche, meta-analisi, linee guida (basate su revisioni sistematiche) di commissioni scientifiche internazionali; – classe B: lavori basati su singole ricerche sperimentali rigorose; – classe C: lavori di sintesi su ricerche qualitative caratterizzate da criteri di controllo scientifico dei risultati (es. triangolazione); – classe D (Altro): lavori non riconducibili alle precedenti classi, ma comunque rilevanti; – classe E (Esclusi): lavori non pertinenti o non accettabili.

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Per consentire un confronto tra strumenti consolidati in ambito evidence-based, come PubMed (il già citato e ben noto strumento di ricerca in ambito medico che rappresenta, per così dire, un benchmark per la ricerca educativa), abbiamo identificato un tema di confine tra le problematiche pedagogiche e cliniche. Nello specifico, il quesito alla base del confronto tra gli strumenti è stato il seguente: Quali tecnologie digitali possono risultare efficaci con soggetti dislessici? Gli strumenti selezionati9 sono stati i seguenti: SCOPUS, ERIC e PubMed quali database specializzati tra i più utilizzati e rappresentativi; Google Scholar quale motore di ricerca scientifica basato sul web; e infine gli archivi di una selezione di riviste scientifiche pertinenti alla domanda di ricerca (in tab. 1, ne sono indicate le principali funzionalità). PubMed

SCOPUS

ERIC

Google Scholar

Tipo di dati

Letteratura scientifica di scienze della vita e biomedica

Letteratura scientifica multidisciplinare

Letteratura scientifica pedagogica

Letteratura scientifica sul Web

N. riviste/fonti

6000

12850 (341 in ambito educativo)

927 (tutte in ambito educativo)

Non indicato (l’intero web)

Curatore

National Center for Biotechnology Information (US)

Elsevier (Netherlands)

Department of Education (US)

Google Inc. (US)

Titolo

Si

Si

Si

Autore

Si

Si

Si

Si

Abstract

Si

Si

Si

No

Full-text

Si

Si

Si

Si

Date

Si

Si

Si

Si

Descrittore/ keyword

No

Si

Si

No

Fonte

Si

Si

Si

No

Soggetto

Si

Si

Si

No

Età target o livello educativo

Si

No

No

Tipo di pubblicazione

Si

No

Audience

No

No

Si

No

Systematic review/meta-analisi

Si

No

No

No

Accesi tramite: Si

Selezione per:

Tab. 1: Comparazione tra le principali funzioni degli strumenti selezionati dalla nostra indagine.

9

La scelta è rappresentativa delle diverse tipologie di strumenti e consente il confronto tra: (i) database di letteratura scientifica (PubMed, SCOPUS, ERIC) e motori di ricerca (Google Scholar); (ii) tra strumenti di uso gratuito (PubMed, ERIC, Google Scholar) e quelli commerciali/a pagamento (SCOPUS); (iii) tra strumenti specializzati nell’area medica (PubMed) e quelli in area educativa (ERIC); (iv) tra risorse non settoriali e specifiche (riviste specializzate). Le riviste selezionate sono: Annals of Dyslexia; British Journal of Learning Disabilities; Dyslexia; Education and Information Technologies; International Journal of Information and Communication Technology Education; Journal of Computer Assisted Learning; Journal of Fluency Disorders; Journal of Learning Disabilities; Learning and Instruction. La loro scelta è stata operata tra quelle con impact factor elevato e aventi come specifico oggetto il tema della dislessia o quello delle tecnologie e disabilità di apprendimento.

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237


Il test è stato effettuato nei giorni 2 e 3 Agosto 2014 operando attraverso tre estrazioni successive mediante l’utilizzo di tre query che sono state riapplicate su ogni strumento di ricerca in modo discendente (come si vede, cambia l’ultima componente della stringa, quella relativa al livello di evidenza). 1. query finalizzata alla ricerca di revisioni sistematiche e meta-analisi (classe A): Dyslex* AND (education* OR instruction* OR teach* OR learn*) AND (computer OR technology OR ICT OR software) AND (meta-analysis OR “systematic review” OR “best evidence synthesis”); 2. query finalizzata alla ricerca di ricerche sperimentali rigorose (classe B): Dyslex* AND (education* OR instruction* OR teach* OR learn*) AND (computer OR technology OR ICT OR software) AND (RCT OR “control group” OR experiment* OR quasi-experiment* OR “statistical significance”); 3. query finalizzata alla ricerca di studi di sintesi di ricerche qualitative (classe C): Dyslex* AND (education* OR instruction* OR teach* OR learn*) AND (computer OR technology OR ICT OR software) AND (“qualitative review “ OR “qualitative evidence” OR “qualitative synthesis” OR meta-ethnography).

238

Per ogni strumento è stata impostata una limitazione della ricerca al periodo di pubblicazione 2005-2014 e sono state acquisite fino a un massimo di 300 occorrenze (100 per ogni livello di query)10. I lavori estratti sono quindi stati raccolti in un foglio di calcolo e classificati da due valutatori indipendenti che hanno provveduto ad applicare i criteri precedentemente formalizzati al fine di distinguere i diversi livelli di evidenza (Tab. 2)11. ERIC

Google Sc.

PubMed

Riv. Spec.

SCOPUS

Tot. estratti

Classe A

0 (0%)

6 (2.1%)

0 (0%)

0 (0%)

1 (0.5%)

7

Classe B

25 (33.8%)

23 (8%)

6 (28.6%)

15 (12.3%)

20 (10.9%)

89

Classe C

2 (2.7%)

1 (0.3%)

1 (4.8%)

0 (0%)

4 (2.2%)

8

Classe D (Altro)

11 (14.9%)

35 (12.2%)

5 (23.8%)

22 (18%)

27 (14.8%)

100

Classe E (Esclusi)

36 (48.6%)

221 (77.3%)

9 (42.9%)

85 (69.7%)

131 (71.6%)

482

Tot. occorrenze

74 (100%)

286 (100%)

21 (100%)

122 (100%)

183 (100%)

686

Indice di recupero

45%

50%

12%

25%

42%

Indice di precisione

36%

10%

33%

12%

14%

Tab. 2: Record selezionati per tipologia.

10 In realtà solo le ricerche svolte con Google Scholar e SCOPUS hanno dato luogo a risultati maggiori rispetto a 100 voci per ogni query. Google Scholar ha fornito come esito un numero elevato di dati (esattamente: 8120 risultati con la query di primo livello, 14900 con la query di secondo livello, 290 risultati con la query di terzo livello), anche se – come notato anche da Walters (2009) – curiosamente solo i primi 1000 record sono realmente accessibili (gli altri risultano irraggiungibili, quindi solo ipotetici). SCOPUS, invece, ha fornito 300 risultati con la query di primo livello, 846 con quella di secondo e 3 con quella di terzo. Anche nel caso di SCOPUS è stato posto il limite massimo di 100 acquisizioni per ognuna delle tre query. 11 Sono stati esclusi dai livelli A, B e C tutti i lavori che non presentassero indagini scientifiche o non prevedessero trattamento didattico con riferimento all’uso di tecnologie.

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I dati relativi a questa classificazione consentono di capire come le risposte ai quesiti di ricerca dipendano in maniera rilevante dallo strumento scelto. In particolare possiamo apprezzare come Google Scholar sia, come forse era immaginabile, quello a esprimere il più elevato indice relativo alla capacità di recupero, seguito da ERIC e Scopus. Se si va ad analizzare tale valore distinto per livelli di evidenza, il “vantaggio” di Google Scholar si accentua: esso riesce a portare alla luce ben sei revisioni sistematiche, a fronte di una sola occorrenza ottenuta con Scopus, e nessuna con gli altri strumenti. Questi primi dati ci portano a ritenere, nel complesso, Google Scholar un valido strumento di ricerca, a conferma dell’analisi di Walters (2009). La sua maggiore capacità di recupero deriva dal fatto che molti dei lavori da esso recuperati non sono diffusi attraverso canali canonici come le riviste scientifiche o gli atti di congresso, ma comprendono anche “letteratura grigia” composta da rapporti di ricerca, guidelines, tesi dottorali e sintesi di conoscenze prodotte da centri specializzati, organizzazioni, università e società scientifiche pubblicate all’interno dei propri siti web. Ovviamente, tale vantaggio di Google corrisponde anche a una sua minore precisione: la sua elevata capacità di recupero si correla a una maggiore quantità di dati che non risultano rilevanti. Da questo punto di vista, operando in ambiti più circoscritti e preselezionati, come era ovvio aspettarsi, i valori migliori sono quelli di ERIC e PubMed. Risultati modesti sono invece ottenuti dalle riviste specializzate i cui lavori estratti riguardano prevalentemente l’uso delle tecnologie sul versante diagnostico o a supporto della definizione dei fattori eziologici (della dislessia) e, solo in misura minore l’intervento didattico riabilitativo. Una ulteriore verifica operata sui dati ha portato a determinare la capacità di estrazione di “lavori unici”, ovvero le occorrenze che solo uno strumento è in stato in grado di individuare. La tabella 3 (vedi) enumera, appunto, quei lavori a cui non si sarebbe giunti senza l’impiego di ognuno dei diversi strumenti di ricerca. Complessivamente, dei 104 lavori significativi estratti (somma della colonna “tot. estratti”, tabella 2, classi A, B e C), siamo in presenza di 34 lavori unici (somma della colonna “tot. unici”, tabella 3, classi A, B e C), ovvero individuati da un solo strumento di ricerca e ignorati dagli altri. Anche in questo caso Google Scholar si conferma superiore con una maggiore capacità di recupero (14/34), anche se non è trascurabile la prestazione di ERIC (11/34). Sono invece nettamente inferiori gli apporti degli altri strumenti (SCOPUS 5/34; PubMed e Riviste rispettivamente 2/34).

Si sono accolte anche espressioni di area affine (come language disabilities, language impairment); l’età accettata ha compreso anche gli adulti. Nella categoria D (Altro), sono stati raccolti lavori non strettamente inerenti al tema ma potenzialmente utili (ad esempio, rassegne generali sull’efficacia di trattamenti didattici sulle learning disabilities, senza specifico riguardo alle tecnologie). Alla fine delle rispettive codifiche è stato calcolato l’indice di accordo (Inter-rater Reliability) K di Cohen ottenendo un valore iniziale pari a Kappa=0,773. Per i disaccordi, si è ultimata la valutazione con un confronto esplicito tra i due valutatori. L’indice di recupero è stato calcolato come percentuale di risultati estratti rispetto al totale dei lavori “utili” complessivamente recuperati; quello di precisione come percentuale di risultati estratti utili rispetto al totale estratti dal singolo strumento.

studi

anno VII | numero 13 | Dicembre 2014

239


ERIC

Google Scholar

PubMed

Riviste

SCOPUS

Tot. unici

Classe A

0

5

0

0

0

5

Classe B

9

8

2

2

3

24

Classe C

2

1

0

0

2

5

Classe D (Altro)

7

30

3

15

19

74

Tot. unici

18

44

5

17

24

108

Tab. 3: Lavori “unici” estratti da parte di ogni strumento.

240

Sulla base dei dati raccolti, Google Scholar dimostra di essere potenzialmente in grado di raggiungere e superare le performance degli altri strumenti e candidarsi a essere impiegato in via esclusiva per una ricerca sufficientemente sicura da parte di un laureando. Tuttavia, l’elevato tasso di risultati non pertinenti o non affidabili che questo strumento può offrire rappresenta una criticità di cui tenere conto, proprio in considerazione dell’uso da parte di utenti meno esperti che possono impiegare molto tempo a effettuare la selezione di grandi quantità di occorrenze. Per tale ragione è probabilmente ragionevole suggerire ai più giovani l’impiego di ERIC quale strumento aperto, di facile utilizzo, oltreché specializzato in ambito educativo ed un auspicabile integrazione con Google Scholar. Per ricerche più sistematiche ed esaustive, come quelle necessarie a professionisti della ricerca, appare invece a tutt’oggi ineludibile il ricorso a strumenti diversi al fine di beneficiare delle loro diverse potenzialità.

3. L’EBE come opportunità epistemologica Realizzare una ricerca affidabile, come abbiamo premesso, non significa solo essere in grado di recuperare informazioni, ma anche riuscire a selezionarle attentamente. Come avvicinare studenti o persone interessate a individuare risposte attendibili a quesiti complessi – pensiamo a insegnanti, formatori, dirigenti scolastici o decisori politici – senza essere degli specialisti o dover investire una insensata quantità di tempo? Quanto segue è una proposta per avvicinare lo studente-ricercatore, o un qualsiasi altro operatore “non professionista”, a questo mondo complesso a partire dall’adozione di uno schema semplificato – derivato da modelli simili in uso presso istituzioni che si occupano di EBE – che vincoli a interrogarsi sistematicamente sul suo rapporto con l’informazione di cui intende avvalersi. È, infatti, sotto gli occhi di tutti un preoccupante fenomeno di abbassamento della vigilanza critica sulla natura dell’informazione e sulle regole per un suo adeguato trattamento; basta avere a che fare con la compilazione di tesi di laurea per notare come cattive pratiche di “copia e incolla” portino sempre più anche a disconoscere le regole elementari della citazione. Spesso, non risulta chiaro se le affermazioni rappresentano un’opinione personale o siano ricavate (rielaborate in qualche modo) da siti o documenti esterni di una qualche affidabilità. Anche quando una fonte è citata, c’è scarsa consapevolezza della qualità della fonte: un’opinione su un blog è considerata alla stessa stregua di una raccomandazione formulata da una comunità scientificamente accreditata.

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È di particolare rilevanza dunque orientare gli studenti a una maggiore consapevolezza critico-metodologica. I protocolli di selezione/esclusione di cui si avvale l’EBE possono offrire utili suggerimenti al riguardo. Quanto qui segue è la proposta di un percorso di avviamento dello studente-ricercatore che implica tre passaggi: – Discussione con il tutor (docente, relatore di tesi, ecc.) e prima compilazione del protocollo preliminare (Tab. 4, col. 3); – Implementazione delle query da parte dello studente ricercatore (ed eventuale rettifica del protocollo preliminare); – Formalizzazione dei risultati secondo il diagramma di flusso esemplificato in Fig. 2 (o suo successivo riadattamento). Item

Spiegazione

Scelta effettuata

Domanda di ricerca

Formulazione del quesito di ricerca (Se/quanto funziona…). Es.: “Quali strategie didattiche sono più efficaci nel migliorare le abilità di lettura degli studenti con dislessia?”

………. ……….

Strumenti scelti

Es. Google Scholar, ERIC, Scopus.

……….

Target dell’intervento

Esplicitare il soggetto/oggetto/tema della ricerca. Es.: “Dislessia, disturbi del linguaggio”

………. ……….

Variabile indipendente

Si espliciti il tipo di intervento di cui si vuole conoscere l’efficacia (si determini, inoltre, l’ambito lessicale accettato) Es.: “Cooperative learning, collaborative learning, peer tutoring, reciprocal teaching”.

………. ………. ……….

Formulazione della query

Ricerca semplice: Es.: dyslexia technology Ricerca avanzata: Es.: Dyslexia and Education and Technology

………. ………. ……….

Filtri consentiti dallo strumento di ricerca

Definire quali filtri applicare, tra quelli resi disponibili dallo strumento di ricerca12. Es: - Thesaurus; - Anno di pubblicazione; - Peer review; - Ricerca su solo titolo/abstract/full text; - Altro.

………. ………. ………. ………. ……….

Criteri di selezione/ esclusione (applicati dal ricercatore)

Sulla base del quesito di ricerca, esplicitare i criteri di inclusione/esclusione dei risultati ottenuti. Es.: - Pertinenza argomento; - Età destinatari (tra … e …); - Contesto applicativo (scuola, famiglia, …); - Irrilevanza (numerosità campione); - Carente definizione dell’intervento didattico; - Incompletezza di dati di sintesi.

………. ………. ………. ……….

Criteri di classificazione delle occorrenze

Esplicitare il livello di evidenza desiderato: - Rassegne sistematiche o meta-analisi di secondo livello; - Lavori sperimentali (tipo RCT o quasi-esperimenti); - Lavori qualitativi (con criteri di affidabilità).

………. ……….

Altre tipologie

Esplicitare le altre eventuali tipologie di risultati: - Lavori di difficile o impossibile valutazione 13; - “Serendipity” e “riflessioni limitrofe”14.

………. ……….

Tab. 4: Protocollo preliminare di ricerca.

12 Date le caratteristiche diverse di ogni motore di ricerca si tratta di specificare la procedura motore per motore. 13 Ad esempio, lavori di cui è accessibile solo l’abstract e non il testo completo. 14 Definiamo “serendipity” i lavori che si scoprono casualmente, non direttamente pertinenti con l’argomento indagato, ma capaci di fornire interessanti suggestioni per ap1

studi

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241


!

Formulazione query “…”

Ricerca filtrata per: - Parole chiave (thesaurus) - Anno di pubblicazione - Peer review - Query sul full text o limitate a titolo e/o abstract

Filtri del motore

!

!

Numero di occorrenze ottenute

Filtri del ricercatore

!

Scarti per non pertinenza su: - Argomento - Età dei destinatari - Contesto - Irrilevanza - Definiz. intervento didattico - Completezza

Numero di risultanze considerate Livello D (altro): num… Livello E (esclusi): num… Valutati: num…

Si

242

Livello A Riformula query

!

Livello B Livello C

No

Fine ricerca

Fig. 2: Flusso di rappresentazione della ricerca effettuata.

Per questa strada la ricerca di conoscenze affidabili può trasformarsi in un’opportunità di crescita della consapevolezza critica e metodologica. È questo, a nostro avviso, il contributo pedagogico più rilevante che l’EBE ha da offrire all’educazione.

Conclusione Nell’ambito della letteratura pedagogico-didattica, lo sviluppo dell’EBE, cui abbiamo assistito negli ultimi anni, ha portato la ricerca educativa a un progressivo arricchimento nella capitalizzazione delle conoscenze, rendendo disponibili acquisizioni affidabili in merito a ciò che funziona meglio in determinate circostanze. Questo apre anche il campo a un nuovo terreno di ricerca in cui confluiscono istanze della ricerca educativa e gli sviluppi sempre più repentini in ambito di information retrieval. Si tratta di un ambito con il quale i nuovi curriculum universitari, volti alla formazione di insegnanti e ricercatori, dovranno sempre più confrontarsi.

profondimenti e ulteriori indagini. Consideriamo come “riflessioni limitrofe” lavori che affrontano il problema in un’ottica più vasta, all’interno di una inquadratura più generale (ad es.: nel caso della dislessia, un lavoro di sintesi sui metodi efficaci relativo a tutti i disturbi del linguaggio).

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Occorre riconoscere che in ambito educativo non esistono ancora strumenti ideati per l’indicizzazione della letteratura scientifica della qualità di PubMed che ha alle spalle una più lunga tradizione consolidata di ricerca evidence-based. Da un test che abbiamo condotto, la soluzione preferibile in ambito educativo rimane quella di una integrazione tra vari motori di ricerca; la combinazione di Google Scholar, che si rivela capace di grande capacità inclusiva, se pur a scapito di una minore precisione, con ERIC e SCOPUS, è apparsa come una ragionevole soluzione. Entrare in questo mondo ha una importante ricaduta sulla formazione critico-metodologica delle nuove generazioni di educatori: i protocolli usati per la formulazione di revisioni sistematiche, opportunamente semplificati, possono diventare griglie operative che inducono studenti e giovani ricercatori a interrogarsi in modo sistematico sull’attendibilità delle informazioni di cui si avvalgono; e l’occasione della tesi di laurea è una opportunità da non perdere, per intercettare questa rilevante sollecitazione culturale.

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Le percezioni di educatori e insegnanti rispetto alle ricadute della formazione in servizio sulle pratiche educative. Risultati di uno studio sistematico della letteratura condotto in ambito Europeo

Arianna Lazzari - Università di Bologna - arianna.lazzari2@unibo.it

The effects of continuing professional development on early childhood education and care (ECEC) practice according to practitioners’ views. Findings from a systematic literature review carried out in Europe 245 The article illustrates the findings of a study jointly conducted by VBJK, IOE, PPMI and commissioned by Eurofound on the effects of continuing professional development on ECEC quality. The study reviews existing research evidence produced in EU-28 member states on this topic in order to draw policyrelevant information that might support decision-makers in designing effective ECEC policies in their countries. In this sense, the research question was framed by the political priorities identified by the Council Conclusions on Early Childhood Education and Care (Council of the European Union, 2011). The study was conducted by adopting the systematic literature review methodology elaborated by the EPPI-Centre for informing evidence-based policies in the field of education and social sciences and it reviewed qualitative evidence drawn from primary research studies carried out in all EU-28 languages.

Parole chiave: formazione in servizio – servizi per l’infanzia – percezioni delle insegnanti – revisione sistematica della letteratura – politiche Europee.

Keywords: continuing professional development – early childhood services – practitioners’ views – systematic literature review – European policies.

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Questo articolo illustra i risultati di uno studio europeo condotto da un consorzio di enti di ricerca (VBJK, IOE, PPMI) e commissionato da Eurofound per verificare gli effetti della formazione sulla qualità dei servizi educativi e di cura per l’infanzia. Il progetto si colloca nell’ambito delle ricerche mirate a ricavare informazioni rilevanti – a partire dall’analisi sistematica di evidenze scientifiche – che consentano ai decisori politici di orientare eventuali azioni di miglioramento da intraprendere nel settore dei servizi per l’infanzia sulla base delle priorità identificate dal Consiglio dell’Unione Europea. Coerentemente con questo scopo, le procedure adottate per la revisione sistematica della letteratura fanno riferimento alla metodologia elaborata dall’EPPI-Centre per l’analisi delle evidenze derivanti da studi qualitativi condotti nell’ambito delle scienze educative e sociali.


Le percezioni di educatori e insegnanti rispetto alle ricadute della formazione in servizio sulle pratiche educative. Risultati di uno studio sistematico della letteratura condotto in ambito Europeo

Introduzione

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In risposta alle recenti sfide demografiche, economiche e sociali, il ruolo educativo e di cura dei servizi per l’infanzia ha assunto, negli ultimi anni, un’importanza crescente nell’agenda politica europea. Recenti studi, infatti, hanno dimostrato come la frequenza dei servizi educativi fin dalla prima infanzia possa avere un’incidenza positiva sullo sviluppo globale dei bambini e successivamente sul loro successo scolastico (Bennett, 2012), oltre a porre le basi per una cittadinanza inclusiva in contesti di diversità socio-culturale (Eurydice, 2009). Nonostante sia risaputo che nei paesi dell’Unione Europea i tassi di frequenza di tali servizi sono tra i più alti a livello internazionale, gli esiti di diverse indagini evidenziano come sia necessario investire non solo sull’aumento dell’offerta quantitativa di tali servizi ma anche – e soprattutto – sulla loro qualificazione (Commissione Europea, 2013). Lo scopo di tali sforzi è quello di garantire un accesso generalizzato ai servizi per l’infanzia facilitandone le ricadute positive sulle esperienze di apprendimento e di socializzazione dei bambini, specialmente in contesti caratterizzati da una crescente diversità socio-culturale (Commissione Europea, 2011). In tal senso, le Conclusioni del Consiglio dell’Unione Europea pubblicate nel 2011 hanno rilevato che, mentre grande attenzione è stata posta – nel corso dell’ultimo decennio – sull’espansione quantitativa dei servizi per l’infanzia, altrettanti sforzi devono ora essere compiuti per l’incremento qualitativo della loro offerta educativa, in vista del raggiungimento degli obiettivi fissati per il prossimo decennio rispetto alla riduzione dell’abbandono scolastico e alla promozione dell’inclusione sociale (Consiglio dell’Unione Europea, 2011). In risposta a tali considerazioni, la Direzione Generale Educazione e Cultura della Commissione Europea ha istituito nel 2012 un tavolo di lavoro1 – composto da esperti e decisori politici provenienti da tutti i paesi dell’Unione – per l’elaborazione un quadro di riferimento condiviso finalizzato ad orientare le politiche di qualificazione dei servizi per l’infanzia nei diversi stati membri (European Quality Framework in Early Childhood Education and Care). Il lavoro di questo gruppo di esperti si è sviluppato attraverso cinque incontri tematici improntati alla condivisione delle iniziative adottate da ciascun paese per il miglioramento dell’offerta educativa dei servizi per l’infanzia. Questo percorso condiviso ha portato il gruppo a formulare una serie di principi e linee guida in relazione a ciascun area di intervento: accessibilità dei servizi, professionalità degli operatori, curricolo e progettazione educativo-didattica, valutazione e monitoraggio, governance, finanziamento e sostenibilità di sistema. Tra le misure proposte all’interno di tale documento, la promozione di iniziative

1

Il lavoro del gruppo di esperti che hanno partecipato a questo tavolo – denominato Thematic Working Group on Early Childhood Education and Care – può essere consultato sul sito della Direzione Generale Educazione e Cultura della Commissione Europea al link: http://ec.europa.eu/education/policy/strategic-framework/expertgroups_en.htm#schools

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mirate a sostenere la professionalità degli operatori viene identificata come azione prioritaria per il miglioramento delle pratiche educative e di cura agite all’interno dei servizi. Il documento affronta il tema del sostegno alla professionalità in prospettiva sistemica; se da un lato si afferma l’esigenza di elaborare politiche coerenti a sostegno della formazione di tutti gli operatori (insegnati, educatori, ausiliari) sia in fase iniziale sia in servizio, dall’altro si ribadisce la necessità di garantire condizioni di lavoro adatte a favorire l’attuazione di pratiche di osservazione e documentazione, di progettazione condivisa e di riflessione collegiale. Nonostante questi assunti riscuotano un ampio consenso tra gli esperti che si occupano di servizi educativi per l’infanzia (Bennett e Moss, 2011; Urban et al., 2011; Oberhuemer, 2012) – consenso che trova riscontro anche nel lavoro promosso da importanti organizzazioni internazionali (OECD, 2012; International Labour Organisation, 2014) – le modalità attraverso le quali tali obiettivi possono essere raggiunti in modo efficace continuano ad essere oggetto di un acceso dibattito. A tal riguardo va premesso che in un periodo di recessione economica come quello attuale – in cui i governi nazionali tendono ad implementare politiche di austerità per la riduzione della spesa pubblica – la ricerca scientifica commissionata da importanti organizzazioni internazionali (quali l’OECD e la Commissione Europea) o dalle agenzie non-governative ad esse correlate (quali ad esempio Eurofound che ha finanziato il progetto descritto in questo articolo) tende a concentrarsi prevalentemente sull’analisi delle evidenze scientifiche che possono fornire informazioni utili ad orientare le scelte dei decisori politici in ambito educativo e sociale. Nell’ambito della ricerca educativa e sociale tali analisi veicolano sempre più di frequente, i modelli metodologici che tradizionalmente venivano impiegati nella sfera delle scienze bio-mediche per misurare l’efficacia di trattamento, con l’obiettivo di promuovere una formulazione più efficace delle politiche atte a regolamentare e migliorare l’offerta di servizi pubblici in questi settori (Gough et al., 2011). Questi modelli metodologici, che prevedono l’utilizzo di procedure sistematiche per l’analisi delle evidenze di ricerca riportate in letteratura, sono stati utilizzati anche nello studio presentato in questo articolo su indicazione dell’ente committente (Eurofound)2. Dunque, lo studio presentato in questo articolo – e di conseguenza i risultati in esso discussi – vanno necessariamente letti alla luce del contesto politico sinora descritto, che ha influito sia sulla formulazione delle domande di ricerca sia sulla sua impostazione metodologica.

2

Eurofound (European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions) è un’agenzia tripartita dell’Unione Europea il cui ruolo è di supportare la ricerca nel settore delle politiche sociali e dell’impiego, contribuendo così alla realizzazione di migliori condizioni di vita e di lavoro in Europa. Il progetto di ricerca presentato in questo articolo è stato finanziato da Eurofound all’interno del bando: ‘Assessing childcare services in Europe’ (2013/S, 117-198914). I risultati della ricerca saranno pubblicati in forma estesa entro la fine di dicembre 2014 sul sito di Eurofound (www.eurofound.europa.eu/index.htm) mentre nel presente articolo si prende in esame solo una parte dei risultati dello studio, afferenti alle percezioni di educatori e insegnanti rispetto alla ricaduta della formazione in servizio sulle loro pratiche educative. I riferimenti bibliografici del report finale di progetto sono i seguenti: Peeters, J., Budginaite, I., Cameron, C., Hauari, H., Lazzari, A., Peleman. B. and Siarova, H. (forthcoming) Impact of continuous professional development and working conditions of early childhood education and care practitioners on quality, staff-child-interactions and children’s outcomes. A systematic synthesis of research evidence. Gent: VBJK.

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1. Scopo della ricerca Lo scopo principale della ricerca era quello di analizzare l’impatto della formazione in servizio del personale sulla qualità educativa dei servizi per l’infanzia attraverso una revisione sistematica degli studi di settore condotti in ambito europeo. Più specificatamente, la ricerca si prefiggeva di indagare se, e in che modo, la formazione in servizio incidesse su: 1. la competenza educativa degli educatori e degli insegnanti che ne avevano usufruito, nonché la ricaduta di questa sulle relazioni instaurate con bambini e sulle esperienze di apprendimento e socializzazione di questi ultimi; 2. la qualità dell’interazione che si instaurava tra adulti e bambini frequentanti il servizio; 3. i risultati di apprendimento dei bambini stessi (esiti cognitivi e comportamentali).

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Mentre per rispondere alla prima domanda di ricerca si è ricorsi all’analisi dei risultati derivanti da ricerche empiriche di natura qualitativa, per rispondere alla seconda e alla terza domanda si è fatto ricorso alla sintesi descrittiva dei risultati di ricerca derivanti da studi sperimentali. Come si può evincere dal titolo del presente contributo, l’analisi presentata in questa sede si focalizzerà sulla discussione dei risultati inerenti la prima domanda di ricerca, concentrandosi sulle percezioni di educatori e insegnanti rispetto alle ricadute della formazione in servizio sulle loro pratiche educative.

2. Impianto metodologico e procedure utilizzate Le revisioni sistematiche della letteratura sono veri e propri progetti di ricerca che si propongono di mappare, sintetizzare e valutare criticamente gli esiti di tutti gli studi esistenti all’interno di un determinato campo di indagine, circoscritto da ipotesi precise o da domande di ricerca ben definite (Gough et al., 2012). Affinché l’analisi degli esiti di ricerca derivanti dagli studi empirici presenti in letteratura sia condotta nel modo più rigoroso e trasparente possibile, i ricercatori si avvalgono – in ogni fase del processo di elaborazione – di procedure standardizzate che vengono preventivamente codificate all’interno di un protocollo di ricerca (systematic review protocol). Nel caso specifico dello studio preso in esame – e con particolare riferimento al protocollo elaborato per la revisione della letteratura qualitativa – le procedure adottate per l’analisi sistematica dei risultati di ricerca sono riportate di seguito (Hauari et al., 2014). 1. Selecting criteria – elaborazione condivisa di criteri precisi per determinare quali studi, tra quelli che indagavano il tema preso in esame, dovessero essere inclusi oppure esclusi dall’analisi. I criteri individuati dal gruppo di ricerca si riferivano alla data di pubblicazione dello studio (dopo il 1991), alla sua collocazione geografica (28 stati membri dell’UE), al disegno di ricerca impiegato (esclusivamente studi empirici), ai soggetti coinvolti nella ricerca (personale educativo e bambini frequentanti i servizi per l’infanzia) e al tipo di risultati riportati nella pubblicazione (percezioni di educatori e insegnanti). 2. Searching – ricerca esaustiva e riproducibile di tutte le informazioni rilevanti (studi pubblicati e materiale grigio) riguardanti il tema preso in esame. Per

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l’identificazione di studi pubblicati in lingua inglese ci si è avvalsi di ricerche bibliografiche complesse che hanno consentito la consultazione delle risorse elettroniche presenti nelle maggiori banche dati internazionali3, mentre per l’identificazione degli studi condotti in lingua originale ci si è avvalsi della consulenza di 28 esperti-paese. Screening – selezione sistematica, sulla base dei criteri di inclusione precedentemente definiti, degli studi da includere nell’analisi. Mapping – mappatura della letteratura esistente a partire dall’analisi delle caratteristiche descrittive di ciascuno degli studi selezionati (obiettivo della ricerca, impianto metodologico, selezione dei partecipanti, caratteristiche dell’intervento formativo studiato). Quality Assessment / Data Extraction – La valutazione della qualità metodologica di ciascuno degli studi selezionati è stata effettuata utilizzando una griglia appositamente strutturata per determinare il grado di accuratezza con cui sono state riportate le percezioni dei soggetti coinvolti e il grado di attendibilità con cui il resoconto dei risultati di ricerca rappresenta il fenomeno investigato. Per l’individuazione degli estratti testuali rilevanti per la meta-analisi dei risultati di ricerca ci si è avvalsi di un’ulteriore griglia (complementare alla precedente) che ha consentito di organizzare e sistematizzare le informazioni provenienti da ciascuno studio all’interno di categorie descrittive tipiche della ricerca qualitativa. Narrative synthesis – i risultati di ricerca derivanti dagli studi empirici valutati come accurati e attendibili sono stati infine analizzati in profondità (in-depth review) attraverso il raggruppamento degli estratti testuali significativi in categorie tematiche e la loro discussione in forma narrativa (Thomas e Harden, 2008).

L’utilizzo di tali procedure – che sono state elaborate dal gruppo di ricerca sulla base delle linee guida sviluppate dall’EPPI-Centre per la conduzione di revisioni sistematiche nell’ambito delle scienze sociali4 – hanno consentito di esplicitare, passaggio per passaggio, le modalità attraverso le quali si è giunti a ‘rispondere’ alla domanda di ricerca partendo dell’analisi rigorosa delle evidenze scientifiche fornite dalla letteratura qualitativa esistente su questo tema in Europa.

3

4

ASSIA (Applied Social Science Index and Abstracts), British Educational Index, Child Data, ERIC (Education Resources Information Center), IBSS (International Bibliography of the Social Science), PsycInfo, SCOPUS, Sociological Abstracts, SSCI/Web of Knowledge. Il centro di ricerca che ha ideato la metodologia utilizzata in questo progetto è denominato ‘Evidence for Policy and Practice Information and Co-ordinating Centre’ (EPPI-Centre, www.eppi.ioe.ac.uk) e fa parte del Dipartimento di Ricerca in Scienze Sociali dell’Institute of Education dell’Università di Londra. Per l’implementazione delle procedure indicate all’interno di questo progetto ci si è avvalsi dell’utilizzo del Software EPPI-R4 che consente di importare e gestire risorse bibliografiche in formato elettronico (records), di sistematizzare le informazioni in essi contenuti utilizzando combinazioni complesse di codici descrittivi (coding) e infine di analizzare i dati testuali raggruppandoli in categorie tematiche generate e condivise dal gruppo di lavoro (inductive coding).

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3. Risultati 3.1 Distribuzione geografica degli studi presi in esame

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I risultati discussi in questa sezione si riferiscono all’analisi di 30 studi qualitativi che sono stati individuati e selezionati dal gruppo di ricerca attraverso il processo precedentemente illustrato. Prima di procedere con la discussione dei risultati, è importante rilevare che la maggior parte delle ricerche prese in esame sono state realizzate in paesi anglosassoni quali il Regno Unito (Blenkin e Hutchin, 1998; Menmuir e Christie, 1999; Wood and Bennett, 2000; Potter e Hodgson, 2007; Ang, 2012; Aubrey et al. 2012; Jopling et al., 2013) e l’Irlanda (Share et al., 2011; McMillan et al., 2012; SQW, 2012; Bleach, 2013; Hayes et al., 2013) mentre le ricerche realizzate nei paesi dell’Europa continentale5 sono decisamente meno rappresentate (Peeters, 1993; Vonta et al., 2007; Vujičić, 2008 Van Keulen, 2010; Peeters and Vandenbroeck, 2011; Picchio et al., 2012; Richter, 2012), fatta eccezione per il Portogallo (Lino, 2005; Craveiro, 2007; Peixoto, 2007; Leal, 2011; Oliveira-Formosinho e Araújo, 2011; Cardoso, 2012). Inoltre, risulta essere degno di nota il fatto che non siano presenti in questa revisione sistematica della letteratura – in quanto non sono state rilevate pubblicazioni rispondenti ai criteri adottati – le ricerche svolte in paesi con un’importante tradizione culturale e pedagogica nell’ambito della formazione, quali per esempio la Francia. Allo stesso modo, è interessante notare che i paesi dell’aerea Scandinava – tradizionalmente considerati all’avanguardia per la qualità dei loro servizi educativi per l’infanzia (OECD, 2006) – sono rappresentati solo da 5 studi realizzati in Svezia (Rönnerman, 2003; Johansson et al., 2007; Asplund Carlsson et al., 2008; Rönnerman, 2008; Sheridan et al., 2013), mentre non sono presenti studi provenienti dalla Finlandia e dalla Danimarca. Inoltre, i paesi dell’area orientale – la cui adesione all’Unione Europea è di origine recente – risultano essere del tutto assenti in questa revisione sistematica della letteratura: ciò è probabilmente dovuto al fatto che le questioni prese in esame tendono ad avere un ruolo ancora marginale nel dibattito educativo interno. 3.2 Caratteristiche metodologiche degli studi analizzati Le caratteristiche degli studi presi in esame variano notevolmente sia in termini di impostazione metodologica sia rispetto ai metodi utilizzati per la raccolta e l’analisi dei dati. In particolare, dodici studi tra quelli analizzati hanno adottato un disegno di ricerca orientato alla valutazione dell’intervento formativo attraverso un approccio di tipo partecipativo, utilizzando come strumenti per raccolta dei dati interviste scritte, interviste semi-strutturate o in profondità, focus groups, diari professionali, osservazioni e audio-video registrazioni delle pratiche di educatori e insegnanti nei contesti educativi. Quindici studi hanno invece adottato l’impostazione metodologica tipica della ricerca-azione, coinvolgendo educatori e insegnanti nel processo di raccolta e analisi dei dati in veste di co-ricercatori. In tal caso, gli strumenti utilizzati per la raccolta dei dati sono stati l’osservazione di tipo narrativo-diaristico delle interazioni tra adulti e bambini nei contesti educativi

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Due studi provengono dal Belgio, mentre paesi quali Croazia, Germania, Italia, Paesi Passi e Slovenia sono presenti nell’analisi della letteratura con un solo studio.

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e la documentazione del processo di ricerca-azione in tutte le sue fasi (resoconti scritti prodotti da educatori e insegnanti in fase di progettazione, discussione e revisione degli interventi). Infine, solamente tre studi tra quelli analizzati hanno utilizzato lo studio di caso come metodologia atta a investigare la ricaduta degli interventi formativi sulle pratiche di educatori e insegnati. In quest’ultimo caso, per la raccolta dei dati si sono utilizzati per lo più strumenti che fanno riferimento alla tradizione dell’antropologia scolastica e che si avvalgono sia delle testimonianze dirette dei soggetti coinvolti sia di ‘descrizioni dense’ dei contesti educativi. Gli interventi formativi presi in esame dalle ricerche analizzate all’interno di questa revisione della letteratura sistematica fanno riferimento ad una vasta gamma di iniziative che si differenziano sia in termini di scopo (dal supporto al lavoro collegiale al miglioramento della qualità della didattica proto-disciplinare) sia di durata (che varia da un minimo di sei mesi a un massimo di oltre due anni)6. Esiste, invece, una maggior omogeneità per quanto riguarda le modalità di intervento attraverso le quali tali iniziative formative vengono realizzate: per la maggior parte esse prevedono un approccio di tipo laboratoriale e l’alternanza di momenti dedicati all’osservazione, alla sperimentazione, alla riflessione sulle pratiche e alla supervisione7 (sia su base individuale che collettiva).

251 3.3 Le percezioni di educatori e insegnanti sulle ricadute della formazione in servizio Un aspetto trasversale che emerge dai risultati degli studi analizzati è che la partecipazione a iniziative formative contribuisce ad aumentare la consapevolezza pedagogica di educatori e insegnanti, sostenendo la riflessione sui principi e sui valori che orientano le pratiche quotidianamente agite nei servizi (Menmuir e Christie, 1999; Rönnerman, 2003 - 2008; Ang, 2012; SQW, 2012; Bleach, 2013; Hayes, et al, 2013; Sheridan et al., 2013). In particolare, i risultati degli studi analizzati mettono in luce che i dispositivi utilizzati in sede formativa per facilitare la riflessione dei professionisti sul loro agito – come ad esempio strumenti per l’osservazione, la documentazione e l’analisi delle pratiche – consentono di far emergere le concettualizzazioni implicite che sottostanno all’azione educativa promuovendo la negoziazione di significati condivisi. Tale processo in primo luogo promuove una progettualità educativa maggiormente intenzionale, proprio perché fondata su assunti pedagogici resi espliciti attraverso la discussione nei gruppi di lavoro. Inoltre, esso consente ai partecipanti stessi di identificare punti di forza e di debolezza rispetto alla loro azione educativa ipotizzando possibili piste di miglioramento (Menmuir e Christie, 1999; Rönnerman, 2003; Vonta et al, 2007; Picchio et al., 2012; Bleach, 2013; Sheridan et al., 2013). In tal senso, viene rilevato che il coinvolgimento attivo di educatori e insegnanti in percorsi formativi finalizzati al miglioramento della qualità del servizio contri-

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In particolare, 11 studi prendono in esame interventi formativi la cui durata varia da un minimo di sei mesi al massimo di un anno, mentre in 13 studi vengono analizzati interventi formativi la cui durata va da un minimo di due anni al massimo di oltre due anni. Inoltre va rilevato che nei casi rimanenti (6 studi) la durata dell’intervento formativo preso in esame non viene specificata dall’autore. Per quanto riguarda l’attività di supervisione ci si riferisce soprattutto a pratiche di sostegno alla riflessione sulle pratiche che prevedono il dare e ricevere feedback (coaching, mentoring, pedagogical guidance).

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buisce a colmare quel gap tra dichiarato e agito che spesso è fonte di criticità, introducendo una maggiore coerenza tra il piano progettuale e quello dell’azione educativa (Wood e Bennett, 2000; Lino, 2005; Johansson et al., 2007; Cardoso, 2012; Picchio et al., 2012). In particolare, nei casi in cui la partecipazione attiva di educatori e insegnanti ai processi di cambiamento è promossa attraverso iniziative di ricerca-azione, si riscontra che l’intervento formativo ha una ricaduta diretta sul modo in cui i partecipanti percepiscono il loro ruolo professionale (Blenkin e Hutchin, 1998; Potter e Hodgson, 2007; Vujičić, 2008; Oliveira-Formosinho e Araùjo, 2011; Peeters e Vandenbroeck, 2011; McMillan et al., 2012). I risultati di tali studi infatti evidenziano come il percorso di crescita professionale di educatori e insegnanti sia marcato da un radicale ripensamento della loro funzione educativa, che passa dall’essere prevalentemente connotata in senso istruttivo all’essere ri-concettualizzata come una funzione di facilitazione e sostegno ai processi di apprendimento (‘regia educativa’). Parallelamente anche il ruolo del bambino nel processo di apprendimento viene riconsiderato in senso attivo e associato all’immagine di soggetto competente, che costruisce in interazione con i pari e con l’ambiente circostante le proprie conoscenze e abilità, la propria autonomia, la propria identità (Blenkin e Hutchin, 1998; Potter e Hodgson, 2007; Vujičić, 2008; Peeters e Vandenbroeck, 2011; Cardoso, 2012; McMillan et al., 2012). L’effetto alone di questo cambio di prospettiva genera, in contesti connotati da diversità socio-culturale, una maggiore attenzione verso il coinvolgimento delle famiglie in un’ottica di reciprocità e scambio interculturale rispetto alle pratiche educative elaborate all’interno dei servizi (Oliveira-Formosinho e Araùjo, 2011; Peeters e Vandenbroeck, 2011). Se dunque i risultati degli studi illustrati sinora testimoniano come la formazione in servizio – agendo sulle concezioni implicite dei partecipanti (idea di bambino, funzione educativa dell’adulto, assunti pedagogici relativi al processo di insegnamento-apprendimento) – incrementi le competenze di educatori e insegnanti sul piano delle conoscenze e degli atteggiamenti professionali, i risultati delle ricerche che seguono documentano come tale processo abbia una ricaduta positiva sulla qualità delle pratiche educative e didattiche agite all’interno dei servizi. In particolare, si rileva come la partecipazione a iniziative formative incida prioritariamente su due aspetti: da un lato incrementa le competenze metodologiche e didattiche del personale educativo – producendo miglioramenti sia rispetto all’elaborazione del curricolo sia relativamente alle strategie adottate per la sua implementazione – dall’altro rafforza le pratiche collegiali che ne rendono possibile la revisione costante alla luce dei bisogni espressi dall’utenza dei servizi, che comprende i bambini e le loro famiglie (Blenkin and Hutchin, 1998; Rönnerman, 2003; Johansson et al., 2007; Vonta et al., 2007; Asplund Carlsson et al., 2008; Rönnerman, 2008; Leal, 2011; Share et al., 2011; Cardoso, 2012; McMillan et al., 2012; Picchio et al., 2012; Richter, 2012, SWQ, 2012; Hayes, et al., 2013; Jopling et al., 2013). I risultati degli studi esaminati sottolineano che l’utilizzo di strumenti metodologici all’interno dei percorsi formativi – quali protocolli osservativi, documentazione video e narrativa di eventi educativi, diari e portfolio professionali – se combinato a interventi di supervisione pedagogica (coaching, mentoring, guidance) tesi a promuovere il confronto sui materiali prodotti all’interno dei gruppi di lavoro, introduce nei servizi una progettualità maggiormente intenzionale, che si concretizza nella revisione costante dell’attività educativa e didattica in sede collegiale. In particolare, nei casi in cui tali percorsi formativi vengono svolti per un periodo che si estende oltre la durata di un anno scolastico (‘bedding-in period’), si riscontra che l’utilizzo sistematico di tali dispositivi riflessivi – così come la costante progettazione e valutazione degli interventi educativi – diventano prassi consolidate nella quoti-

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dianità di ciascun servizio e vengono portate avanti anche una volta che la formazione si è conclusa (Peeters, 1993; Picchio et al., 2012; Hayes et al., 2013). Il consolidamento di tali prassi introduce, di conseguenza, uno spostamento di prospettiva radicale rispetto alla funzione del curricolo nel sostenere la progettualità educativa all’interno dei servizi. Si passa dunque da una programmazione prevalentemente improntata all’implementazione degli obiettivi curricolari in senso prescrittivo, a una progettazione flessibile che parte dalle competenze e dagli interessi dei bambini per ri-organizzare gli obiettivi curriculari attorno ad esperienze di apprendimento per loro significative (Ronnerman, 2003; Peixoto, 2007; Asplund Carlsson et al., 2008; Ronnerman, 2008; Vujičić, 2008; Leal, 2011; Oliveira-Formosinho e Araùjo, 2011; Aubrey et al., 2012; Richter, 2012; SQW, 2012; Jopling et al., 2013). Tale riposizionamento produce un cambiamento che impatta sulle le strategie didattiche messe in atto da educatori e insegnanti per favorire lo sviluppo dei bambini in un’ottica globale. Si assiste, per esempio, ad un incremento delle attività didattiche in piccolo gruppo, ad una maggior diversificazione dell’ambiente di apprendimento, all’arricchimento delle proposte educative che favoriscono la creatività e la libera espressione corporea dei bambini oltre che alla valorizzazione del gioco spontaneo come occasione di apprendimento tra pari. Per quanto riguarda invece il ruolo giocato dalla formazione in servizio nel sostegno alla collegialità, gli studi analizzati mettono in luce come le iniziative formative che promuovono l’apprendimento tra colleghi attraverso lo scambio di esperienze, il confronto e la riflessione sulle stesse risultino efficaci nel rafforzare i processi decisionali in chiave partecipativa, sostenendo la qualificazione del lavoro educativo e la creazione di una cultura pedagogica condivisa (Wood e Bennett, 2000; Rönnerman 2003; Craveiro, 2007; Rönnerman, 2008; Van Keulen, 2010; Picchio et al., 2012; SQW, 2012; Bleach, 2013; Hayes, et al., 2013). L’affermarsi di una cultura collaborativa tra educatori e insegnati, a sua volta, apre la strada ad un maggiore coinvolgimento delle famiglie nella quotidianità del servizio educativo. Sul piano concreto ciò si traduce in un costante scambio di informazioni riguardanti il bambino, in un dialogo aperto con le famiglie nell’ottica della reciprocità e nella partecipazione dei genitori ai processi decisionali che coinvolgono la gestione del servizio stesso (Peeters, 1993; Rönnerman 2003; Vujičić, 2008; Van Keulen, 2010; Share et al., 2011; Hayes, et al., 2013). Dalle ricerche esaminate finora emerge inoltre che il successo delle iniziative formative è condizionato dalla presenza di alcuni fattori contestuali che possono agevolare – o al contrario ostacolare – la ricaduta di tali interventi sulle pratiche agite da educatori e insegnanti. Tra queste, le più importanti fanno riferimento alle condizioni di lavoro in cui operano gli educatori e gli insegnanti: esse riguardano, in particolare, la possibilità che tutto il personale educativo del servizio sia coinvolto nel percorso formativo e che un certo numero di ore non-frontali retribuite venga loro garantito per la partecipazione agli incontri collegiali (Menmuir e Christie, 1999; Wood e Bennett, 2000; Rönnerman, 2003; Peter e Hodgson, 2007; Cardoso, 2012; Picchio et al., 2012; Sheridan et al., 2013).

Discussione e conclusioni Alla luce dei risultati degli studi illustrati nel presente articolo si può dunque affermare che la formazione in servizio risulta essere cruciale nel promuovere un atteggiamento di sperimentazione pedagogica all’interno dei servizi facendosi veicolo di innovazione, sia sul piano culturale sia su quello delle pratiche educative,

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a partire dalle esigenze delle singole realtà in cui essa si colloca. Le ricerche prese in esame, inoltre, consentono di identificare alcuni elementi che caratterizzano gli interventi formativi considerati efficaci in termini di ricaduta sulle pratiche. A questo riguardo, la meta-analisi delle percezioni di educatori e insegnanti coinvolti in tali ricerche rivela che l’efficacia della formazione in servizio risulta essere associata ad almeno uno dei seguenti elementi: – la presenza di una cornice concettuale e di strumenti operativi pedagogicamente fondati, che poggiano le loro basi sulla ricerca continua e, al tempo stesso, attingono ai bisogni e alle potenzialità che caratterizzano ciascun contesto (soggetti coinvolti nella formazione, bambini e famiglie che frequentano il servizio, comunità locali) in cui interviene l’azione formativa; – il coinvolgimento attivo dei partecipanti (educatori e insegnanti) nell’indirizzare i processi di cambiamento tesi al miglioramento delle pratiche educative; – l’utilizzo di dispositivi formativi che fanno leva sull’apprendimento in situazione e sullo scambio tra colleghi (peer-learning).

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La revisione sistematica della letteratura descritta in questo articolo riflette lo stato dell’arte sul tema della formazione in servizio del personale educativo dei servizi per l’infanzia nei 28 paesi membri dell’Unione Europea. Le conclusioni appena esposte sintetizzano dunque le principali evidenze di ricerca derivanti dall’analisi in profondità di trenta studi qualitativi (di natura empirica) pubblicati in dieci paesi europei e in sei lingue diverse8. In tal senso, la sintesi dei risultati emersi in sede di analisi, presentata in questo articolo, in modo congruente con gli scopi che hanno indirizzato l’intero lavoro sul piano metodologico, intende offrire informazioni rilevanti per orientare le scelte dei decisori politici. Allo stesso tempo essa si presenta come un utile strumento per tutti coloro i quali, a vario titolo, sono impegnati nella formazione in servizio di educatori e insegnanti nei servizi per l’infanzia (coordinatori pedagogici, dirigenti scolastici, formatori).

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Gli studi analizzati includono i risultati di ricerche pubblicate in lingua originale in inglese, portoghese, svedese, olandese, tedesco e sloveno.

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Che cosa abbiamo imparato sul piano della progettazione didattica dalle critiche al costruttivismo in ambito pedagogico?

Michele Pellerey - Università Pontificia Salesiana - pelerey@ups.urbe.it

What we learned about instructional design from pedagogical critics to constructivism Recent researches in the fields of education, of cognitive science, and of philosophy stress a reexamination of the complexity of the learning process that occurs in the school and of the teaching methods intended to support it. In order to take into account such contributions we suggest a less dogmatic and more pluralistic approach to teaching design. In this way we can respond more flexibly to the student characteristics and to the nature of the pedagogical content; and that in the frame of the more recent findings of the cognitive constructionism.

Parole chiave: Progettazione didattica, insegnamento esplicito o diretto, costruttivismo, carico cognitivo, nuovo realismo.

Keywords: Instructional design, explicit or direct teaching, constructivism, cognitive load, new realism.

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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Il contributo intende esaminare alcuni dei più significativi apporti di recenti ricerche realizzate nell’ambito della didattica, della scienza cognitiva e della filosofia della conoscenza. Tali apporti sollecitano una rilettura della complessità dei reali processi di apprendimento degli studenti e delle metodologie di insegnamento che li promuovono. Ne deriva un atteggiamento meno dogmatico e più aperto alla valorizzazione di una pluralità di metodi didattici nel progettare percorsi formativi, che intendono tener conto sia della caratteristiche peculiari dei singoli studenti, sia della natura dei contenuti da apprendere; e ciò, valorizzando le istanze del costruttivismo cognitivo più consolidato.


Che cosa abbiamo imparato sul piano della progettazione didattica dalle critiche al costruttivismo in ambito pedagogico?

1. La questione

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In questi ultimi cinque anni sono riemerse accese discussioni relative a quali modalità di insegnamento favoriscano risultati effettivi di apprendimento da parte degli studenti. Un numero dell’American Educator (Spring, 2012) è stato dedicato alla questione che divide pedagogisti e docenti circa le forme più valide e produttive di impostare le lezioni scolastiche: favorire metodi di insegnamento espliciti e diretti o privilegiare modalità ispirate a forme di costruttivismo sociale, di ricerca personale o di gruppo, di scoperta, nei quali si lascia agli studenti molta libertà di organizzazione e di lavoro. Una eco di tale dibattito si può cogliere in un recente volume di Norberto Bottani (2013, pp.140-141), il quale afferma che lo scontro tra pedagogisti e insegnanti, che fanno riferimento alle teorie costruttiviste, e coloro che vengono definiti, spesso in modo dispregiativo, come tradizionalisti “è reso più acuto dall’irruzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ossia dalla diffusione di nuovi mezzi che possono servire per potenziare una corrente o l’altra”. Poco dopo afferma che: “Resta il fatto che nemmeno le pedagogie costruttiviste hanno migliorato le disuguaglianze scolastiche.” Anche da quest’ultimo punto di vista nel contesto della contesa viene fatto notare come da un’analisi di circa 70 studi si abbiano conferme di quanto osservato da Bottani. Tali studi hanno preso in considerazione gruppi di studenti, che vanno dai più lenti ai più pronti, mettendoli a confronto con forme di insegnamento sia che seguono da vicino e in maniera esplicita il loro cammino di apprendimento, sia con forme di insegnamento che lasciano molta iniziativa e modalità di lavoro aperte. Da essi sono stati ottenuti risultati positivi a favore dei più svegli e risultati assai problematici, in qualche caso drammatici, per i più lenti e difficoltosi. In qualche modo i metodi meno direttivi favoriscono i migliori, mentre danneggiano i più deboli (Clark, Kirschner & Sweller, 2012, p. 8). In questo dibattito emerge un giudizio critico circa l’impostazione didattica genericamente definita “costruttivista”: un’impostazione che da una parte evoca metodologie di tipo attivo, nelle quali lo studente è impegnato, anche fisicamente, nell’esplorare ambienti di apprendimento e a sviluppare rappresentazioni e spiegazioni, che possano portare alla comprensione di fenomeni e alla costruzione di conoscenze e abilità specifiche; e, dall’altra, si appoggia a teorie psicologiche, che spesso fanno riferimento a L.S.Vygotsky, ma che si sono sviluppate secondo prospettive in gran parte autonome e definite post-vygotskyane. Molte di esse si appoggiano nella loro interpretazione sulla teoria dell’attività. Maurizio Lichtner (2013) ha messo in luce come, partendo dal pensiero di Vygotsky, sia stata sviluppata un’interpretazione socioculturale dello sviluppo conoscitivo, che va oltre se non in contrasto con il suo pensiero, per la quale le attività e i discorsi che si svolgono intorno al soggetto, ovvero le pratiche sociali nelle quali egli è iscritto, siano causa diretta dell’acquisizione delle sue conoscenze e delle sue competenze. Una forma di determinismo sociale che non tiene conto di una possibile consapevolezza e mediazione del soggetto nel processo di interiorizzazione di quanto espe-

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rito. Si giunge così a non tener conto dei processi cognitivi individuali che stanno alla base sia della comprensione concettuale, sia dello sviluppo intellettuale. A questo proposito Richard Meyer (2009) ha fornito una chiarificazione concettuale assai utile. Partendo dalle ricerche psicologiche che fanno riferimento ai processi cognitivi, egli afferma è corretto pensare al costruttivismo dal punto di vista del processo di apprendimento della singola persona. Infatti, ciascuno di noi costruisce le proprie conoscenze sulla base di quanto ha già acquisito in maniera significativa e stabile. Per chiarire meglio la distinzione tra la considerazione di una teoria dell’apprendimento di natura costruttivista, considerata corretta, e l’indicazione che nel processo istruttivo ci si debba sempre muovere con procedure pratiche di natura costruttivista, posizione quest’ultima vista come errata, Richard Mayer ha descritto quattro possibili situazioni di apprendimento. In primo luogo viene considerato un apprendimento attivo nel quale lo studente si impegna in un appropriata attività cognitiva, a esempio selezionando informazioni rilevanti, integrando le nuove conoscenze con quelle già possedute e organizzando in maniera coerente quanto acquisito. Un apprendimento passivo si ha quando tale attività non ha luogo e si ha solo una forma di semplice recezione di quanto proposto e ciò rimane non integrato nella struttura conoscitiva, quindi non compreso e non ricordato. Una didattica attiva si ha quando gli studenti sono coinvolti in un’attività pratica, come ricerca di informazioni, di soluzioni a un problema, o discussione in gruppo. Una didattica passiva è attuata quando non si sollecita un’attività pratico-operativa. Un vero apprendimento si ha quando si verifica un cambiamento sufficientemente permanente nel quadro di conoscenze dello studente. La teoria costruttivista dell’apprendimento sottolinea il fatto che lo studente per apprendere deve impegnarsi personalmente nel rappresentare nella sua memoria di lavoro le nuove conoscenze mettendo in atto appropriati processi cognitivi. E ciò è coerente con molte ricerche, anche di natura empirica. La questione però si pone quando si intende trasporre tale teoria, che riguarda i processi cognitivi, a una metodologia didattica che metta in moto soprattutto i comportamenti esterni degli studenti. A un’attività di questo tipo non corrisponde necessariamente un congruente e funzionale processo interno di costruzione concettuale. Ciò è dimostrato da numerose ricerche che l’Autore cita distesamente. Per contrasto non poche ricerche hanno messo in evidenza la possibilità di coinvolgere un apprendimento attivo, che mette in moto appropriati processi cognitivi, attraverso forme di insegnamento che esternamente appaiono passive. L’Autore non lo cita, ma è immediato evocare il concetto di apprendimento significativo per ricezione di D. P. Ausubel e le condizioni da lui indicate perché ciò avvenga (Ausubel, 1978). Mayer elenca anche alcuni principi di riferimento, derivati dalle ricerche in merito, che facilitano l’attivazione di processi di apprendimento attivo in contesti di didattica cosiddetta passiva1.

1

Si possono citare a esempio i principi: di coerenza per escludere materiali estranei; di sottolineatura delle cose essenziali; di contiguità spaziale e temporale tra testi scritti e immagini; ecc. (Mayer, 2009, pp. 193-194).

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2. Le ricerche sull’efficacia dei vari metodi di insegnamento

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Il confronto tra posizioni cosiddette costruttiviste, ma che più genericamente potrebbero essere definite poco direttive, e impostazioni che privilegiano un insegnamento esplicito, genericamente denominate dirette, è stato reso più incandescente dalla pubblicazione delle ricerche di John Hattie a partire dal 2009 (Hattie, 2009; Hattie, 2012; Hattie & Yates, 2014). Queste ricerche avevano come obiettivo fondamentale esaminare la letteratura sperimentale disponibile al fine di verificare l’efficacia dei vari metodi di insegnamento. In generale si può dire che sulla base dei dati raccolti molti degli approcci più sollecitati dai pedagogisti e diffusi negli ambienti innovatori non abbiano dato i risultati sperati. In particolare, John Hattie ha evidenziato la fragilità di alcuni di essi, come a esempio i metodi basati sulla ricerca autonoma condotta dagli allievi, l’apprendimento per problemi, ma anche lo stesso cooperative learning, quando questi metodi sono poco guidati e controllati dal docente; mentre l’insegnamento reciproco tra studenti, il feedback che riceve l’insegnante dagli allievi e quello che egli loro fornisce, la valutazione formativa, l’insegnamento diretto ed esplicito, che segue da vicino la comprensione dei concetti e la padronanza delle abilità, evidenziano una buona validità didattica. In questo quadro emerge come valido un insegnamento esplicito di strategie di natura metacognitiva, come il controllo della propria comprensione, a esempio attraverso il porsi opportune domande, oppure strategie di studio adattate ai vari ambiti di apprendimento. La varie indagini esaminate mettono in evidenza come le attività a finalità aperta, a esempio forme di apprendimento per scoperta, possono rendere difficile indirizzare l’attenzione su ciò che ha importanza, dal momento che gli studenti amano esplorare dettagli, aspetti irrilevanti e molto specifici, mentre svolgono tali attività. Tra i suggerimenti che derivano dalle indagini di Hattie i più significativi sono stati riassunti da lui stesso nelle varie opere. L’insegnante deve puntare verso obiettivi chiari, condivisi dallo studente, mentre egli si prende cura della sua comprensione e del suo progresso, valutandone i vari passaggi e le difficoltà emergenti e intervenendo direttamente per favorire l’efficacia della sua azione e la solidità delle nuove acquisizioni. A questo fine egli dovrebbe usare metodologie che rispondano a queste finalità, in particolare associando spiegazioni orali a immagini, sollecitando l’intervento dei più pronti a favore dei più deboli (l’insegnamento reciproco, che evoca la zona di sviluppo potenziale di Vygotsky), adattando i suoi interventi alle esigenze che via via manifestano i singoli o il gruppo. Queste e simili ricerche ripropongono con ancor maggior forza il ruolo centrale del docente non solo nel progettare l’impianto didattico, ma soprattutto nel condurre la sua azione di insegnamento nel contesto delle lezioni. Un docente esperto dovrebbe saper individuare le forme principali attraverso le quali è possibile rappresentare ciò che insegna: valorizzando opportunamente quanto lo studente già possiede; collegandolo agli altri insegnamenti; graduando, ed eventualmente modificando, il suo procedere sulla base di quanto riescono effettivamente ad apprendere gli studenti. Per questo è necessario che egli curi l’effettivo impegno di ciascuno nel costruire attraverso i propri processi cognitivi l’impianto concettuale e operativo che egli propone. D’altra parte tutto ciò può aver luogo solo se si riesce a sviluppare un clima nella classe che sia favorevole a questa attività di apprendimento. Hattie e Yates (2014) ricordano come spesso nella formazione degli insegnanti si insiste su un giudizio negativo nei riguardi della “trasmissione della conoscenza”, affermando che si tratta di una nozione non valida, datata e che deve essere rim-

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piazzata dalla massima “Quello che ascolto lo dimentico, quello che faccio lo capisco”, oppure da quella attribuita a Confucio: “Quando ascolto dimentico, quando vedo ricordo, quando faccio comprendo”. Ma come abbiamo notato evocando la distinzione proposta da Mayer tra didattica attiva e apprendimento attivo e, come noteremo a proposito del carico cognitivo, non è automatico apprendere quando ci si muove fisicamente, ma non si lavora intellettualmente: il vero laboratorio d’apprendimento è quello che si svolge nella testa. Quando l’insegnamento esplicito è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito, impedendo così un’adeguata comprensione e poi una valida valorizzazione di quanto compreso. Se lo studente, o anche il gruppo degli studenti, dovesse conquistare tutto ciò attraverso solo le risorse personali disponibili, come può raggiungere una conoscenza valida e completa? E se anche, date capacità eccezionali, potesse farlo, quanto tempo gli occorrerebbe e quanto di quel tempo andrebbe a scapito di quello necessario per gli altri apprendimenti?

3. L’apporto delle teorie cognitive per una riconsiderazione del costruttivismo Nella critica alle metodologie didattiche che insistono su attività ispirate al costruttivismo e a metodi di ricerca ed esplorativi spesso si fa riferimento alla cosiddetta teoria del carico cognitivo. Tale teoria è stata sviluppata dalla fine degli anni ottanta del secolo passato da John Sweller (1988). Le basi scientifiche di riferimento risalgono agli inizi dell’introduzione del modello di elaborazione delle informazioni proprio della psicologia cognitiva. Nel 1956 era stato pubblicato lo studio fondamentale di G.A. Miller (1956) che evidenziava i limiti della cosiddetta memoria e breve temine, o memoria di lavoro, sia dal punto di vista quantitativo, sia da quello temporale. Per capire e ricordare occorre attivare e coordinare processi cognitivi che integrano informazioni provenienti dall’esterno (memoria sensoriale) e informazioni e schemi interpretativi che provengono dall’interno (memoria a lungo termine o permanente). Ma la capacità elaborativa presenta non pochi limiti, per cui quando ciò che deve essere elaborato è troppo complesso, si può verificare un carico eccessivo della memoria di lavoro e la prestazione ne può soffrire anche drammaticamente, con riflessi anche sul piano emozionale. Il merito di Sweller è stato quello di promuovere uno studio sistematico delle correlazioni tra quanto proposto nelle attività istruttive e le esigenze di elaborazione cognitiva che ne derivano, evidenziando le condizioni sia soggettive, sia oggettive perché il soggetto possa acquisire le conoscenze e le abilità in maniera significativa, stabile e fruibile. La teoria del carico cognitivo tende a descrivere proprio tali condizioni di apprendimento. Negli anni novanta del secolo passato, e in quelli successivi del nuovo secolo, molti studi sono stati realizzati per approfondire tale teoria e per considerarne le conseguenze sul piano progettuale delle attività didattiche. In particolare sono stati distinti tre tipi fondamentali di carico cognitivo. Il primo, ineliminabile, riguarda le esigenze di elaborazione cognitiva che certe conoscenze sia dichiarative, sia procedurali implicano. Si tratta del cosiddetto carico cognitivo intrinseco al contenuto da apprendere. Per intenderci, è ben differente la sfida alla comprensione e alla valorizzazione in problemi pratici di un procedimento aritmetico elementare, rispetto a questioni di analisi infinitesimale, che implicano un’adeguata padronanza

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dei concetti di funzione e di limite. Tuttavia, l’impegno cognitivo dipende anche dal soggetto, in quanto questi può possedere già le conoscenze e la competenze necessarie per affrontare compiti complessi. Ciò porta a due conseguenze valutative: la prima relativa alla complessità del contenuto; la seconda, allo stato di preparazione del soggetto. L’analisi del secondo tipo di carico cognitivo, quello denominato estrinseco, è diretta a individuare le condizioni che possono alleggerire il carico cognitivo e che quindi non dipendono dalla complessità intrinseca del materiale da apprendere. Esse mirano a organizzare la presentazione dei contenuti da apprendere secondo progressioni che ne favoriscono l’assimilazione e verificare quali modalità di approccio siano più funzionali. A esempio si è trovato che vi è una maggiore facilità di acquisizione delle conoscenze e delle abilità, se si usano esempi sviluppati in maniera completa e adatta alla comprensione e al ricordo, rispetto a forme di esplorazione e scoperta, soprattutto se debolmente guidate da parte del docente; così l’uso di immagini può essere più utile di descrizioni solo verbali. Si è anche proposto di considerare carichi cognitivi di tipo coerente (in inglese germane), nel senso che si tratta di impegni diretti allo sviluppo di schemi concettuali o operativi funzionali alla possibilità di affrontare questioni più complesse, in quanto la disponibilità di tali schemi nella memoria di lavoro riduce il carico di lavoro nella memoria a breve termine2. Ciò porta a progettare forme adeguate di progressione sistematica nel proporre i vari contenuti in modo che ogni tappa raggiunta possa diventare la base per gli apprendimenti successivi Dalle ricerche sul carico cognitivo sono derivate non poche indicazioni circa la validità, sul piano della pratica didattica, di alcune indicazioni operative, spesso considerate tradizionali e poco produttive sul piano formativo. Non solo, ma è emerso un certo ripensamento nei riguardi di prospettive considerate innovative. La discussione che ne è seguita è stata documentata in un volume a cura di S. Tobias e T.D. Duffy nel 2009 (Tobias & Duffy, 2009). Tenendo conto delle differenti posizioni emerse si è cercato di elaborare un bilancio delle ricerche sull’efficacia dei metodi cosiddetti di “insegnamento indiretto”, rispetto a quelli definiti come forme di “insegnamento diretto”. John Sweller (2009) è intervenuto in tale contesto affermando: ”Le procedure derivanti dalla teoria del carico cognitivo sottolineano il ruolo più efficace dell’insegnamento esplicito, rispetto a quelli basati su forme di apprendimento per scoperta oppure di tipo costruttivistico”. Egli ha osservato come i metodi didattici basati su forme di quest’ultimo tipo erano stati proposti prima di avere a disposizione i risultati degli studi sull’architettura della cognizione umana e sul suo funzionamento: quindi non deve sorprendere se essi non hanno dato i risultati sperati quanto alla loro efficacia. Sweller ha valorizzato alcuni studi che distinguono tra acquisizione di conoscenze e abilità in contesti informali, capacità che derivano da una lunga esperienza umana codificata anche nel proprio patrimonio genetico, come imparare a parlare e a comunicare oralmente in un lingua particolare, ma anche come risolvere problemi pratici della vita quotidiana, e acquisizioni relative a conoscenze e abilità sviluppate dall’uomo più recentemente e più artificiali, come leggere, scrivere testi in scrittura alfabetica e fare matematica

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In questo contesto viene confermata la validità non solo dell’automazione di alcuni processi elementari, ma anche dello sviluppo di quelli che nella terminologia aristotelica sono definiti “abiti”, cioè disposizioni stabili ad agire in maniera adatta alle diverse situazioni. Così si può parlare di abiti operativi, abiti di studio, abiti di lavoro.

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astratta, ecc. Per questo ambito di sviluppo si ha bisogno di ambienti strutturati e di forme di insegnamento diretto e sistematico (Geary, 2005). Ricorrere a metodi di natura esplorativa e di soluzione di problemi da una parte richiede tempo e notevole dose di creatività e di possibilità di gestione del carico cognitivo; dall’altra, occorre ricordare che non esistono metodi di problem solving generali che vadano bene in ogni caso, bensì metodi legati a specifici ambiti di conoscenza, che comunque richiedono notevoli basi informative adeguatamente organizzate3.

4. La posizione filosofica ispirata al nuovo realismo Negli ultimi anni il costruttivismo, soprattutto quello radicale, è stato sottoposto a osservazioni critiche anche sul piano filosofico sulla base delle istanze del cosiddetto “nuovo realismo”. Questo movimento teorico ha messo in luce alcune problematiche irrisolte della filosofia della conoscenza (epistemologia), quando questa tende a ignorare la cosiddetta “resistenza della realtà”, cioè il doversi confrontare con l’esperienza diretta delle cose, degli eventi, delle istituzioni che tendono a limitare le nostre assunzioni interpretative. “Robusto, indipendente, ostinato, il mondo degli oggetti che ci circondano, ma anche dei soggetti con cui interagiamo, non si limita a dire no, a opporre resistenza come per dire «ci sono, sono qui». Con lo stesso gesto con cui resiste, ci offre l’acceso alla massima, e unica, positività a nostra disposizione, allo sfondo tutt’altro che amorfo, ma anzi ricco e strutturato, da cui prendono avvio la sensazione, l’immaginazione, il pensiero, il ricordo, l’attesa, il timore e la speranza. E soprattutto dispiega lo spazio delle possibilità…” (Feraris, 2013, p. 9). «Ribadire alcuni “limiti” (in tutte le accezioni del termine) del costruttivismo non equivale a contestarlo tout court, con una mossa che sarebbe solo il rovescio di quello stigma affibbiato al “realismo” da cui si è preso l’abbrivio. Senza disconoscerne i meriti, si tratta di smorzare le pretese del costruttivismo, di sorvegliarne gli scantonamenti, di “limitarne” le oltranze e le derive […] in riferimento all’attività interpretativa e ad alcuni eccessi di decostruzionismo. […] Si deve lavorarlo dall’interno, mantenendone alcune conquiste innegabili e rintuzzandone, però, le semplificazioni. Infatti, spesso le ipotesi costruttiviste sono tanto più “viabili” ed efficaci quanto più vengono innervate di un elemento realista» (Corbi & Oliverio, 2013, pp. 21-22). In altre parole si critica la posizione del cosiddetto “costruttivismo radicale”, per prospettare una visione più integrata in cui si ritrovi una rapporto valido e fecondo tra pensiero e percezione della realtà, dando a questa un ruolo decisivo soprattutto di fronte alle scelte di natura educativa. Pier Giuseppe Rossi nota come nelle tendenze post-costruttiviste attuali si rivisitano le teorie aristoteliche relative all’acquisizione della conoscenza pratica con alcune modificazioni: “il fine dell’agire del soggetto non è più un riferimento esterno che determina l’azione, ma viene ricorsivamente ridefinito nell’azione stessa e in connessione con i mezzi; il soggetto non è autonomo, ma interno a una rete complessa; l’agire umano non è frutto di una decisione cognitiva, ma un fare com-

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È interessante citare a questo proposito le più recenti indagini Ocse-Pisa (2012) sulla competenze dei quindicenni italiani. Questi manifestano non poche difficoltà sia nelle scienze, sia in matematica, ma se si tratta di problemi di natura pratica quotidiana non legati a conoscenze e abilità disciplinari essi si collocano a livelli assai più elevati.

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plesso in cui l’uomo opera in modo olistico, con il suo corpo. […] In sintesi molte critiche al costruttivismo emerse nell’ultimo decennio sembrano focalizzarsi sostanzialmente sulle derive relativiste e sull’assenza di strumenti di validazione delle ipotesi” (Rossi, 2013, pp. 93-94). “Il post-costruttivismo indica essenzialmente quattro percorsi: (1) l’interazione tra i processi di insegnamento e di apprendimento, (2) la centralità delle pratiche educative per la comprensione dei processi di insegnamento-apprendimento e per la formazione degli insegnanti, (3) la rivalutazione dei prodotti dopo la centralità dei processi, (4) la rivalutazione del ruolo del corpo nei processi di insegnamento-apprendimento (Rossi, 2013, p. 101). In realtà occorre riconoscere che buona parte della critica di natura filosofica, anche di tipo pedagogico, che anima le tendenze post-costruttiviste si concentra sulla critica delle proposte provenienti dal costruttivismo radicale, nella convinzione che non è possibile far prevalere la elaborazione conoscitiva, l’epistemologia, ripetendo che “tutto è interpretazione”, sulla realtà, ignorandone il ruolo fondamentale come costante controllo della bontà e funzionalità delle proprie costruzioni conoscitive. In qualche modo si vuole riproporre come riferimento essenziale una dialettica, in questo caso sì costruttiva, tra oggettività ed epistemologia, tra realtà e conoscenza, tra esperienza delle cose, delle persone, delle istituzioni, degli eventi e loro descrizione, interpretazione e valutazione. In ambito pedagogico si viene così sollecitando una posizione ragionevole, che riconosce nel dialogo educativo il ruolo fondamentale dell’altro, degli altri, del contesto, dell’ambiente culturale e sociale, di fronte a una pura deduzione di norme per l’azione derivanti da assunzioni teoriche e/o ideologiche (Pellerey, 2014).

5. La posizione di chi sostiene un approccio all’insegnamento in forma diretta ed esplicita Le ricerche di J. Hattie e quelle sul carico cognitivo hanno fatto riemergere prepotentemente la posizione di chi nel tempo ha insistito sulla qualità di un insegnamento esplicito e diretto. Così è stato recentemente pubblicato un volume curato da studiosi e formatori canadesi dal titolo “Insegnamento esplicito e riuscita degli allievi. La gestione degli apprendimenti” (Gauthier, Bissonnette & Riochard, 2013)4. Nella Prefazione del volume Barak Rosenshine riassume la tesi fondamentale sostenuta dall’opera. Egli richiama l’esito degli studi realizzati nel corso dei decenni passati sulla natura delle pratiche sviluppate in classe dagli insegnanti più efficaci. Egli poi si ricollega agli studi sull’architettura cognitiva per insistere sul fatto che l’insegnante deve dare un sostegno appropriato a suoi studenti quando insegna un nuovo con-

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L’espressione “insegnamento esplicito” è stata utilizzata da B. Rosenshine a partire dagli anni ottant (cf, a es. B. Rosenshine, 1986). La sua posizione è stata sviluppata sulla base di ricerche che tengono conto più dell’efficacia dei metodi di insegnamento che di una loro coerenza con una particolare teoria dell’apprendimento. Recentemente ha pubblicato in inglese una sintesi del suo pensiero sulla rivista americana American Educator che include una buona bibliografi (B. Rosenshine, 2012). La denominazione può essere collegata ad altre espressioni come “insegnamento diretto”. Si tratta di un approccio esplicito, strutturato, intensivo, che pone l’accento su una preparazione minuziosa delle lezioni, la cui efficacia è verificata e da cui trae indicazioni per una più valida attuazione. Cfr. www.nifdi.org.

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tenuto d’apprendimento, riducendo in seguito tale sostegno a mano a mano che essi progrediscono. Ciò si realizza: distribuendo la materia in passaggi successivi in modo da evitare ogni confusione; strutturando la lezione dandone prima un’idea generale o un piano; dando poi l’opportunità a ciascun allievo di esercitarsi in ciascun passaggio successivo in modo da favorire il trasferimento delle nuove conoscenze nella memoria a lungo termine; fornendo esercizi supplementari per consolidare e organizzare meglio quanto appreso al fine di facilitare gli apprendimenti successivi. Gli studenti sviluppano in seguito attraverso la pratica la nuova abilità finché tutti ne abbiano avuto un feedback valutativo, favorendo progressivamente il raggiungimento di una maggiore autonomia nel realizzarla. Egli richiama quindi alcune strategie risultate valide e produttive nell’attività degli insegnanti efficaci. Questi avviano le loro lezioni richiamando brevemente gli apprendimenti precedenti; presentano la nuova materia per piccoli passi, seguiti da attività pratiche, all’inizio di tali pratiche guidano da vicino gli studenti; ragionano ad alta voce per evidenziare ciascuna tappa di un procedimento; esigono e ottengono una partecipazione attiva da parte di tutti; danno incombenze e spiegazioni chiare e dettagliate; porgono molte domande e verificano la comprensione degli studenti; mostrano esempi di problemi completamente risolti; domandano agli studenti di esplicitare la loro comprensione; verificavano le risposte di tutti; presentano numerosi esempi; riprendono alcune spiegazioni quando necessario; preparano gli studenti a sviluppare pratiche di lavoro autonomo e all’inizio li seguono in tale impegno. La tesi fondamentale sostenuta dai fautori di un insegnamento esplicito e diretto può essere così riassunta: più uno studente è all’inizio di una nuovo contenuto d’apprendimento, più egli deve essere guidato da vicino nel comprenderne i concetti essenziali e nello svilupparne le abilità fondamentali attraverso una pratica sistematica controllata. A mano a mano che egli riesce ad acquisirne in maniera valida e significativa gli elementi fondamentali e a conservarli ben strutturati nelle sua memoria lungo termine, più diventa capace di approfondire l’argomento attraverso forme di ricerca personale e di gruppo e in sempre più accentuata autonomia.

6. Per un quadro di riferimento operativo Come precedentemente chiarito, l’approccio costruttivista ha una sua chiara denotazione positiva quando si riferisce ai processi di apprendimento interni al soggetto, mentre non appare sempre adeguato quando insiste su forme organizzative esterne degli stessi processi: spesso, infatti, all’attivismo esterno non corrisponde l’attività interna del soggetto. Come già osservato, l’appoggiarsi sulla tradizione vygotskyana senza tener conto dell’attività interna del soggetto è un segno di infedeltà alle sue idee: quasi che automaticamente e in maniera deterministica quanto sollecitato dall’esterno si traduca in processi interni. A me sembra utile fornire una specie di bussola di orientamento alla progettazione di attività didattiche tenendo conto di una osservazione di D. Jonassen (2009)5. Egli insisteva sul fatto che non tutti i contenuti e gli obiettivi d’apprendimento sono uguali e di conseguenza anche i processi di apprendimento e di insegnamento debbono articolarsi.

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Probabilmente questo è stato una dei suoi ultimi interventi, essendo venuto prematuramente a mancare dopo due anni di malattia il 2 dicembre 2012.

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Ciò porta a valorizzare quanto E. Eisner nel 1985 aveva indicato come aree di progettazione didattica di natura differente, che implicano anche la considerazione di obiettivi di apprendimento diversificati e metodi didattici congruenti (Eisner, 1985; Pellerey, 1994, pp. 60-63). La prima area concerne concetti e abilità che nella scolarità primaria e secondaria sono considerati come fondamentali e irrinunciabili; non solo, essi si presentano come strumentali rispetto ad altri apprendimenti e sono caratterizzati, o caratterizzabili, da una organizzazione sequenziale interna. Cioè si tratta di conoscenze e competenze che costituiscono come il nucleo centrale dell’apprendimento scolastico con il quale dobbiamo a tutti i costi confrontarci e che si presentano come altamente concatenate tra loro. La seconda area riguarda un insieme di aperture culturali e di competenze che non si presentano così strutturate e sequenziali, ma costituiscono una base conoscitiva fondamentale per collocare i giovani nel contesto culturale del proprio paese e più in generale dell’Europa e del mondo intero. Questi apporti allargano, approfondiscono e danno senso alla prima area, costituendo spesso come il campo nel quale esercitarne le abilità fondamentali e nel quale usarne i concetti. La terza area è costituita da attività di arricchimento di natura più espressiva: ambiti di lavoro che offrono spazi di libera esplorazione, di gioia di esprimersi, di manifestazione spontanea dei propri sentimenti e dei propri interessi, di partecipazione a progetti vissuti come propri o di iniziative personali. Spesso una stessa disciplina può essere presente in tutte e tre le aree e, a seconda delle sue componenti, esige metodologie didattiche e processi di apprendimento coerenti. Inoltre occorre tener conto della diversità dei processi cognitivi quali possono esser messi in atto da parte dei singoli studenti. Alcuni manifestano notevoli lentezze e difficoltà di elaborazione e organizzazione mentale, mentre altri sono più rapidi e capaci non solo di capire, ma anche di collegare le nuove conoscenze con quelle già possedute. Nell’attività di apprendimento, poi, alcuni sono più pronti a collaborare con gli altri, mentre altri sono più restii a lavorare in maniera cooperativa. Certo, in quest’ultimo caso occorre favorire la disponibilità a lavorare in gruppo, ma ai fini dei risultati da ottenere nell’immediato occorre tener conto dello stato di preparazione già raggiunto da ciascuno, non solo sul piano delle conoscenze e delle abilità già fatte proprie. Da queste osservazioni deriva la possibilità di costruire un riferimento a due assi (Fig. 1). Il primo asse riguarda le esigenze del contenuto da apprendere, facendo però riferimento a quanto già acquisito o meno stabilmente da parte degli studenti come base portante per una sua acquisizione, cioè alla disponibilità o meno di conoscenze di appoggio o di ancoraggio al fine di coglierne gli elementi essenziali. Il secondo asse concerne le caratteristiche degli studenti dal punto di vista della loro capacità di attivare e gestire i processi di apprendimento necessari per padroneggiare i contenuti proposti in maniera più o meno lenta e difficoltosa oppure veloce e agevole. Gli assi debbono quindi essere considerati come graduati da un minimo a massimo. Normalmente gran parte degli studenti possono essere collocati dal punto di vista della facilità e velocità nell’apprendere in posizioni intermedie. La stessa cosa non sempre è vera per i contenuti. Come sopra si è cercato di chiarire, alcuni permettono forme più esplorative e quindi modalità di insegnamento meno dirette, esplicite e strutturate; altri esigono una organizzazione sequenziale più attenta e interventi didattici più espliciti, diretti e progressivi.

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Massima complessità e sequenzialità dei contenuti da apprendere

Grande lentezza e difficoltà nell’apprendere

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Grande velocità e facilità di apprendimento

Minima complessità e sequenzialità dei contenuti da apprendere

Fig. 1 Quadro di riferimento progettuale !

Nel primo quadrante, in alto a destra, si potrà procedere secondo quanto suggerito da Rosenshine, ma dando progressivamente maggiore autonomia e responsabilità ai singoli e favorendo forme di collaborazione per approfondire e applicare quanto acquisito. Mentre in alto a sinistra, nel secondo quadrante, occorrerà seguire più da vicino e sistematicamente i singoli studenti, sostenendoli, correggendoli e adattando frequentemente quanto proposto al livello di acquisizione raggiunto. Molte delle abilità che si ritengono essenziali per soggetti con disturbi specifici di apprendimento possono essere considerate come riferimento al limite per questo quadrante. I due quadranti inferiori permettono una minore strutturazione del percorso e una meno diretta ed esplicita azione didattica, inserendo attività di ricerca, di produzione collettiva, di lavoro di gruppo, ecc. Ma se ciò può essere un canone di riferimento per i soggetti più veloci e pronti nell’apprendere, per gli altri spesso si tratterà solo di attività occasionali, miranti più che ad apprendimenti disciplinari, allo sviluppo di dimensioni educative più generali.

Conclusione Da queste brevi osservazioni viene rafforzata l’importanza di una delle competenze fondamentali del docenti: quella di progettatore di percorsi di apprendimento che mediano tra le esigenze poste da un’acquisizione significativa, stabile fruibile di conoscenze e abilità disciplinari e interdisciplinari e le caratteristiche peculiari degli studenti con cui deve interagire. Uno studio di Diana Laurillard (2012)6 ha messo bene in luce l’importanza strategica di tale competenza, in particolare oggi, a causa delle esigenze poste da una integrazione valida ed efficace della tecnologie informatiche, soprattutto di natura mobile (tablet e smartphone). In questa attività progettuale occorre adottare una maniera di procedere che si ispira a quella che studi recenti definiscono “ragionevole” e che da alcuni viene riletta nella prospet-

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La Laurillard ricorda come anche nell’ambito della ricerca didattica occorra tener conto della complessità e fluidità delle situazioni concrete e la necessità di considerare metodologie di indagine che ne tangano conto. A questo proposito si può leggere: M.Pellerey (2005).

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tiva della saggezza pratica quale fu già definita da Aristotele. La distinzione tra ragione e ragionevolezza è stata sollecitata da J. Rawls per evidenziare come l’impatto delle proprie ragioni ideali con la realtà delle ragioni degli altri e le situazioni di fatto implica la ricerca di mediazioni operative che raggiungano il massimo possibile di consenso e di efficacia. Nel caso dei processi didattici da mettere in atto ci si trova a dover mediare tra teorie dell’apprendimento provenienti da studi di natura cognitiva o socio-cognitiva, teorie dello sviluppo delle conoscenza di natura epistemologica e situazioni reali che spesso resistono a ogni forma di deduzionismo e sollecitano un’attività di riflessione progettuale, o anche di continua riprogettazione. Accettare i condizionamenti che provengono dalla realtà non è sempre agevole, né gratificante. Ma è anche deleterio rimanere prigionieri di situazioni difficili, che vengono considerate senza speranza. In questa complesso bilanciamento tra idealità e realtà si evidenzia la qualità personale di chi ha sviluppato la capacità di prendere decisioni prudenti e responsabili attraverso un diuturno esercizio (Pellerey, 2014).

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I framework disciplinari per le competenze di base: uno studio in prospettiva inclusiva

Giuseppa Compagno - Università di Palermo - giuseppa.compagno@unipa.it

A Framework of disciplines for basic skills: an inclusive study

Parole chiave: educazione inclusiva, competenze disciplinari, competenze di base, insegnante di sostegno, insegnante curriculare, Framework

The present study starts from a reflection upon the ways of defining basic disciplinary skills within paths of inclusive teaching. The lack of criteria and parameters in the sub-segmentation of basic skills and the use of an almost opaque terminology led to a scanning reading of some reference texts, both normative and not, focusing on the delineation of skills for the integration of students with disabilities. In this perspective, one useful starting point is provided by the Common European Framework of Reference for Languages (CEFR). This document concentrates on a systematic description of disciplinary skills by a set of parameters, levels and descriptors able to facilitate the elaboration of different degrees of competence. The paper focuses on the proposal of guidelines for the construction of inclusive disciplinary Frameworks useful to sub-articulate skills into basic skills for inclusive education. This is possible through a sequence of processing steps such as the establishment of working groups with distinct tasks, the determination of some basic principles, the proposal of possible descriptors (starting from observation and evaluation of the performance related to a given skill), the rephrasing of the descriptors, parameters and skill ranges, and the work of the teaching team. Keywords: Key words: inclusive education, disciplinary skills, basic skills, special education teachers, general teachers, Framework

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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esperienze

Il presente studio prende le mosse da riflessioni svolte sui modi di definizione delle competenze disciplinari minime, funzionali alla costruzione di percorsi di didattica inclusiva. La mancanza di criteri e parametri condivisi nella sotto-segmentazione delle competenze di base ed una terminologia spesso opaca hanno indotto ad una lettura intensiva dei testi di riferimento, normativi e non, incentrati sulla delineazione delle competenze per l’integrazione degli alunni con disabilità. In questa prospettiva, uno spunto utile è fornito dal Common European Framework of Reference per le lingue (CEFR). Il documento costituisce un valido esempio di sistematizzazione dei modi di descrivere la competenza disciplinare mediante batterie di parametri, livelli e descrittori in grado di facilitare l’esplicitazione dei gradi della competenza. A seguito di tali considerazioni, si è ipotizzata la realizzazione di alcune linee guida per la costruzione di Framework disciplinari inclusivi, per la scomposizione delle competenze disciplinari in competenze minime mediante una sequenza di step operativi quali la costituzione di gruppi di lavoro con mansioni distinte, la determinazione di alcuni principi di base, l’enunciazione dei descrittori della competenza (a partire dall’osservazione e dalla valutazione delle prestazioni connesse alla competenza stessa), la formulazione dei descrittori, dei parametri e delle fasce di livello, e, infine, il lavoro del team docente.


I framework disciplinari per le competenze di base: uno studio in prospettiva inclusiva

Introduzione

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Nell’ottica di una scuola inclusiva che trasformi i percorsi di istruzione e formazione della persona in progetti di vita, la competenza rappresenta uno degli anelli di congiunzione tra sistema di istruzione, famiglia e mondo professionale, tra la crescita globale dell’alunno con BES e il suo pieno inserimento nell’iter formativo o lavorativo successivo al tempo scolastico. La competenza, così intesa, rappresenta uno strumento per migliorare la qualità del processo di insegnamento-apprendimento e per implementare le relazioni professionali tra insegnati curriculari e insegnanti di sostegno, parimenti impegnati a progettare in funzione di colui che apprende, del modo in cui apprende e dei processi che dovrebbero scaturire naturalmente dal suo essere persona unica e singolare. Nella cornice di tali riflessioni, il presente studio parte dal Quadro Comune Europeo per le Lingue (Common European Framework of Reference for Languages o CEFR), un documento che ha posto l’accento sulla centralità della competenza e ha correlato competenze specifiche (linguistiche) e competenze generali, o trasversali. Dall’analisi intensiva del CEFR, come strumento-guida per la descrizione puntuale della competenza, e dalla sua messa a sistema con una serie di testi normativi sull’integrazione, nonché sulla letteratura scientifica imperniata sulle buone pratiche di educazione inclusiva, è scaturita l’ipotesi, che qui si presenta, di una sua possibile estensione verso altre aree disciplinari con l’intento di una semplificazione descrittivo-generativa delle competenze di base funzionali alla stesura di documenti quali il Profilo Dinamico Funzionale e lo stesso PEI. Si è ipotizzato di costruire un Framework disciplinare inclusivo, ovvero un testo di riferimento esemplato sul modello del CEFR, ma spendibile in altri ambiti disciplinari previsti dal curricolo scolastico. Il dibattito educativo sulla competenza resta aperto allo scopo di trovare nuove strade per superare le contraddizioni legate al suo costrutto e al suo utilizzo in campo didattico. Questo diventa imprescindibile nel caso in cui si tratti di elaborare un piano didattico per competenze di base inscritto entro il più ampio percorso del Progetto di vita.

1. Integrazione scolastica e didattica inclusiva: alla ricerca di strumenti condivisibili Ad un ventennio dal “Salamanca Statement and Framework for Action on Special Needs Education” (UNESCO, 1994), dal concetto di integrazione si è passati a quello di inclusione, sebbene in alcuni Paesi il passaggio sia ancora solo terminologico e non realisticamente operativo. Non sono mancati i tentativi di modellizzazione di percorsi di pedagogia e didattica inclusiva a partire dal documento di Salaman-

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ca. Un esempio su tutti il tentativo di Ainscow (2000), direttore in quegli anni del Progetto Unesco per la Formazione degli insegnanti, di individuare gli ‘ingredienti” della prassi didattica inclusiva con l’obiettivo di innalzare la qualità dell’offerta formativa per tutti gli studenti, nessuno escluso. Ainscow usa il termine “framework” in riferimento ad alcuni principi di quella Pedagogia inclusiva che guarda alla valorizzazione della differenza, allo sviluppo di una linguaggio delle pratiche condivise, all’implementazione dei supporti all’apprendimento come punti di partenza perché l’inclusione si realizzi fattivamente1. Nel panorama italiano, in cui la Pedagogia speciale e la Didattica speciale proseguono sulla via del dialogo epistemologico e del dibattito sui temi dell’integrazione e dell’inclusione, un’attenzione particolare è rivolta alla ricezione dell’ICF dell’OMS, considerato giustamente “uno strumento di guida e supporto dell’osservazione, della progettazione didattica e della valutazione in chiave inclusiva ed etica” (Cajola, Ciraci, 2013, 46). Il percorso che sta conducendo a una riformulazione dei protocolli di formazione degli insegnanti curriculari e di sostegno sui temi dell’integrazione e dell’inclusione vede ratificati i suoi primi risultati nell’impianto degli attuali TFA e PAS2. All’interno del TFA viene proposto un piano formativo che contempli non solo gli insegnamenti volti alla specializzazione disciplinare in linea con la classe di concorso di afferenza, ma anche un modulo trasversale di Scienze dell’educazione. La novità rispetto alle vecchie SISS è l’inserimento della Pedagogia speciale e della Didattica speciale tra le discipline trasversali. Questa scelta dimostra una nuova percezione del profilo docente il quale che risulta completo allorquando prevede una formazione legata all’osservazione, all’accoglienza e all’accompagnamento degli alunni con bisogni speciali3. L’esperienza di insegnamento di Pedagogia speciale, negli anni accademici 2012/2013 e 2013/2014, rispettivamente in un corso TFA (63 corsisti afferenti a

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Alla necessità di un ‘framework’ fanno riferimento anche due interessanti studi condotti nel 2006 e nel 2008 rispettivamente in Malaysia ed in Nigeria. Nel primo caso Ali, Mustapha e Jelas (2006) prendono in considerazione la percezione che gli insegnanti della Malaysia hanno dell’educazione inclusiva, rispetto al contesto educativo malaysiano, caratterizzato da ‘special schools’ e ‘mainstreaming schools’. Nel secondo studio, Ajuwon (2008) analizza l’UBE (Universal Basic Education scheme) predisposto dal Governo Federale della Nigeria nel 1999 con l’intento di fornire un ‘legal framework’ che sistematizzi i modi e le forme dell’educazione nigeriana con particolare riguardo agli alunni in condizioni di disagio. Il Tirocinio Formativo Attivo, introdotto con il D.M. n. 249 del 10/09/2010, nasce con la finalità di “qualificare e valorizzare la funzione docente attraverso l’acquisizione di competenze disciplinari, psico-pedagogiche, metodologico-didattiche, organizzative e relazionali necessarie a far raggiungere agli allievi i risultati di apprendimento previsti dall’ordinamento vigente” (D.M. 249/2011, art. 2). Risale al 1998 la costituzione di un Osservatorio ministeriale sull’integrazione, coordinato dall’allora ispettore tecnico M.P.I. Sergio Neri, che mirava a fornire pari cognizioni e strumenti ad insegnanti di sostegno e ad insegnanti curriculari. Il modello di Neri, per il quale si rimanda alla puntuale rilettura analitica di Lucia De Anna (2014), articolato in sette moduli, risuona come un invito esplicito a condividere con tutti gli insegnanti una prassi didattica imperniata sulla individuazione/riconoscimento dei diversi bisogni educativi, sulla costruzione di ambienti di apprendimento per tutti, sull’utilizzo di materiali specifici e metodologie ad hoc, sul potenziamento della rete relazionale tra scuola, famiglie e territorio.

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classi di concorso miste) e in un corso PAS (114 corsisti afferenti a classi di concorso miste) dell’Università di Palermo, ha messo in luce alcuni aspetti significativi della percezione che gli insegnanti curriculari hanno delle pratiche di integrazione ed inclusione. In prima battuta, è emersa una serie di falsi concettuali riguardo alla figura dell’insegnante di sostegno e del suo ruolo all’interno della classe. Non fa notizia l’abitudine, inveterata in diverse scuole, di considerare l’insegnante di sostegno come risorsa satellitare all’interno del Consiglio di classe, interamente dedita alla cura e all’accompagnamento dell’alunno in situazione di disabilità e sganciata dalla classe nel suo complesso. “Un insegnante di sostegno (…) finisce inconsciamente per assumere il ruolo di «genitore sostitutivo» anche in considerazione del fatto che spesso tutti, compreso i veri genitori, la sollecitano in questo senso” (Trisciuzzi, Fratini, Galanti, 2003, 50). A ciò si aggiunga una discreta ritrosia rispetto alla condivisione di alcuni passaggi dell’integrazione scolastica, quali la predisposizione e stesura del PEI, l’azione didattica co-pensata e co-realizzata con gli alunni, l’individuazione di misure valutative com-partecipate, che vedrebbero la sinergia tra le competenze specifiche dell’insegnante curriculare ed il know-how educativo-procedurale speciale dell’insegnante di sostegno. Questo aspetto tradisce, inoltre, un certo disagio avvertito da buona parte dei docenti curriculari che lamentano limiti di inesperienza ed inadeguatezza dinanzi alla disabilità, specie nei casi di patologie e compromissioni severe. In quest’ottica, l’inserimento degli insegnamenti di Pedagogia speciale e di Didattica speciale nel modulo trasversale di area educativa previsto dal TFA è stato accolto positivamente dagli insegnanti con una conseguente spinta motivazionale di rilievo rispetto ai temi dell’integrazione scolastica e della didattica inclusiva. Un altro elemento degno di nota, emerso dall’interazione frontale e dai lavori di gruppo condotti in itinere sulla costruzione del PEI, in assetto di simulazione, è stata la considerevole difficoltà riscontrata dagli insegnanti nel tarare gli obiettivi a lungo, medio e breve termini previsti dal Profilo Dinamico Funzionale. Ciò risultava connesso sia alla poca dimestichezza con una parcellizzazione creativa dei saperi disciplinari, in ordine a bisogni educativi speciali, sia ad una opacità concettuale e terminologica rispetto al concetto di competenze minime o competenze di base. Il ricorso, troppo spesso meccanico, a linee di programmazione didattica date per acquisite non consente agli insegnanti curriculari un salto in avanti verso forme alternative del discorso didattico, che contemplino contaminazioni ragionate con gli strumenti e le metodologie offerti dalla Pedagogia speciale e dalla Didattica speciale, entrambe ancorate ad una Pedagogia generale e a una Didattica generale forte (De Anna, 2014, 183). In questa prospettiva, si è posto il problema di definire tali competenze minime in rapporto alle diverse discipline secondo una rosa di parametri e criteri negoziati ed elastici, così come è emersa la necessità di esprimersi in merito ad esse mediante una terminologia condivisa e flessibile, all’interno di un modello di riferimento fruibile tanto da parte degli insegnanti di sostegno quanto da parte degli insegnanti curriculari coinvolti nell’azione educativa speciale. Perché ciò avvenga, è essenziale accogliere la prospettiva di dialogo epistemico tra Didattica speciale e didattiche disciplinari auspicato da Cajola e Ciraci (2013: 45), dal momento che “La didattica speciale verifica la compatibilità delle regole e delle indicazioni offerte dalla didattica generale e disciplinare con le caratteristiche e le esigenze specifiche degli allievi, sia percorrendo piste di lavoro poco esplorate, sia analizzando i problemi ricercandone soluzioni con strategie efficaci e innovative, ponendo sempre però massima attenzione allo sviluppo integrale della persona”.

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Una ricerca condotta sui possibili strumenti di definizione della competenza già esistenti ha portato ad individuare nel CEFR, elaborato dal Consiglio d’Europa nel 2001, un contributo particolarmente efficace, approfondito e dettagliato (Compagno, 2010)4.

2. Coordinate per un Framework disciplinare inclusivo Un Framework disciplinare inclusivo, incentrato sulla competenza e fruibile come guida e quadro di riferimento all’interno del complesso processo di insegnamento, apprendimento e valutazione, svolge una duplice funzione. Da una parte, può costituire uno strumento di crescita socioculturale per ogni singola scuola, dall’altra, si configura come veicolo di promozione ecologica per gli tutti alunni, intenti a costruire il loro profilo formativo e professionale in una proiezione futura che richiede soggetti competenti ed autonomi. La realizzazione di un tale Quadro di riferimento disciplinare inclusivo è sottoposta all’azione di almeno tre variabili: i vincoli, le risorse e i limiti. I vincoli, intesi come fattori coadiuvanti ma non determinanti, sono tutti gli elementi della normativa istituzionale relativi al dovere di formazione e auto-aggiornamento dei docenti di sostegno e non, contenuti nelle Raccomandazioni dell’UE per le politiche del Life Long Learning ed, in particolare per territorio italiano, nella Legge sull’autonomia scolastica, nella normativa vigente in materia di integrazione ed inclusione scolastica, nelle Indicazioni Nazionali per i piani di studio personalizzati (MIUR, 2004) che andrebbero debitamente soggette a lettura comparatistica con le successive Indicazioni nazionali per il curricolo (MIUR, 2007). Le risorse sono le professionalità dei docenti, il dialogo tra la scuola ed enti o istituzioni presenti nel territorio, la disponibilità a fare rete per i curricoli verticali disciplinari e per i piani di studio personalizzati, il Team come équipe pedagogica, il contributo formativo dato dai PON europei alle regioni dell’Italia meridionale, in particolare per quanto attiene alla esplicitazione delle competenze, alla loro acquisizione, alla loro certificazione attendibile. I limiti, che devono comunque intendersi come fase transitoria nel processo di istruzione, sono costituiti soprattutto dal danno prodotto da posizioni di autoreferenzialità del singolo docente, del Team e della scuola; a ciò si unisce una cultura della valutazione spesso carente ed un parziale riconoscimento dell’alunno disabile come cittadino dell’Europa e del mondo. Vi è, poi, il limite duplice di una

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Il CEFR fornisce anche le indicazioni operative sul modo di sviluppare, valutare e certificare la competenza disciplinare in assetto didattico, pur non privilegiando alcuna metodologia in particolare, vista la sua natura di testo non prescrittivo. Il suo obiettivo è, di fatto, quello di offrire uno strumento comune di riferimento, che permetta di superare le differenze esistenti tra i sistemi scolastici e formativi delle nazioni europee per quanto attiene alle procedure di insegnamento, apprendimento e valutazione della competenza in lingua straniera o seconda lingua. Il CEFR è un documento-guida e non un manuale didattico. Fulcro del documento è la sezione assimilabile a una vera e propria rubrica valutativa, nella quale si discutono le fasce progressive di sviluppo della competenza linguistico-comunicativa articolate in sei “livelli comuni di riferimento”. Ogni livello è esplicitato mediante descrittori che informano sul grado della competenza acquisita dal soggetto e attraverso alcuni parametri riferiti alle diverse dimensioni dell’analisi della competenza stessa.

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certa opacità terminologica nella definizione di competenza, per cui ci si riferisce spesso al medesimo oggetto utilizzando espressioni assai dissimili tra loro e del focus diretto decisamente verso il polo della valutazione, per cui emerge la propensione a privilegiare l’aspetto valutativo a discapito di quello didattico-progettuale5. Un contributo, da cui si possono ricavare indicazioni utili per la costruzione di un Framework disciplinare, proviene da un lavoro di Castoldi (2009) il quale, rispetto alla necessità di descrivere la natura processuale della competenza, risponde con il tentativo di sviluppare un Framework per la valutazione delle competenze. Il termine ‘Framework’ è usato da Castoldi per indicare un quadro di riferimento contenente le linee guida, le piste di riflessione, gli spunti operativi per valutare le competenze. L’esigenza di dar vita ad una sorta di Framework disciplinari emerge in chiaroscuro dalle “Indicazioni Nazionali per i Piani di studio Personalizzati nella Scuola” (MIUR, 2009). Il testo normativo fa esplicito riferimento al Portfolio delle competenze individuali, in cui valutazione e orientamento si intrecciano in nome della competenza dal momento che “l’unica valutazione positiva per lo studente di qualsiasi età è quella che contribuisce a conoscere l’ampiezza e la profondità delle sue competenze e, attraverso questa conoscenza progressiva e sistematica, a fargli scoprire ed apprezzare sempre meglio, le capacità potenziali personali (…) indispensabili per decidere un proprio futuro progetto esistenziale” (MIUR, 2004, 94). Anche dalle “Indicazioni per il Curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione” emerge come il rinnovamento della scuola debba passare necessariamente per una ricapitolazione del concetto di competenza, alla luce dei criteri fondamentali di essenzialità, chiarezza, apertura. Cuore delle Indicazioni sono, appunto, le competenze, nonché l’attività didattica finalizzata al loro sviluppo ed alla loro acquisizione. La definizione ricorrente “traguardi per lo sviluppo delle competenze” impone un ritmo progressivo all’agire educativo che, pur procedendo in modo autonomo e creativo, non salta da una fase all’altra, ma rispetta ed asseconda i tempi di formazione dell’alunno-persona.

3. Le fasi per la costruzione di un Framework disciplinare inclusivo Al fine di rinnovare l’attività di insegnamento/apprendimento per mezzo di testiguida che sono, appunto, i Framework disciplinari inclusivi, risulta interessante ed utile il suggerimento di Coggi (2002) la quale chiarisce che, nel contesto di percorsi imperniati sulla competenza, l’innovazione didattica tiene conto di tre punti fondamentali, ovvero la precisazione del costrutto, l’individuazione di strumenti e procedure per realizzare l’ipotesi di partenza legata al costrutto, l’utilizzo razionale e sistematico dei risultati delle ricerche effettuate, al fine di divenire patrimonio professionale a disposizione degli insegnanti. “Il cuore del processo educativo si trova nel compito dei docenti di interpretare, ordinare e organizzare gli obiettivi specifici di apprendimento – prevedendo tutti gli adattamenti di tempo e di grado

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In realtà, si ritiene che uno studio mirato sulle competenze disciplinari minime per alunni in difficoltà dovrebbe poter servire non solo a definire il costrutto di competenza, in vista della sua valutazione, ma soprattutto a suggerire nuove piste operative per impiantare la prassi dell’insegnamento-apprendimento sulle dinamiche di sviluppo dell’alunno.

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di difficoltà imposti dall’individualizzazione – affinché trasformino gli obiettivi educativi generali in competenze” (Pavone, 2004, 94). Il procedimento di realizzazione di un Framework disciplinare improntato al CEFR, che ne riproponga il metodo, ma lo ri-attualizzi nel contesto di nuova didattica disciplinare inclusiva, va articolato in una serie di fasi che vedono l’intersecarsi del piano della progettazione e di quello della sperimentazione6. Si ipotizza che l’operazione, di seguito descritta, copra un arco di tempo di almeno due anni e richieda il necessario coinvolgimento di diversi ‘attori’, insegnanti di sostegno, insegnanti disciplinaristi, dirigenti scolastici, referenti territoriali dell’istituzione scolastica per l’integrazione. Il primo anno sarà dedicato, per lo più, alla problematizzazione del concetto di competenza di base, nel quadro delle indicazioni e delle richieste del MIUR in merito allo sviluppo, al potenziamento ed alla valutazione delle competenze, all’analisi ed allo studio dei possibili testi di riferimento. Il secondo anno si aprirà con la progettazione ed una prima stesura dei descrittori delle competenze. Si passerà, quindi, ad una fase più operativa, durante la quale sperimentare la funzionalità e fruibilità dei descrittori messi a punto mediante una serie di passaggi progressivi validandone l’efficacia su campioni di apprendenti selezionati all’uopo. Trattandosi di un percorso nuovo e non ancora sperimentato, bisognerebbe iniziare con la progettazione e sperimentazione di Framework solo per alcune discipline, che fungano da discipline-pilota per successive applicazioni del metodo. I ANNO STEP 1: L’INDIVIDUAZIONE DEGLI “ATTORI” DEL PROCEDIMENTO Nella stesura del CEFR, articolata in tre fasi, si sono avvicendati ben tre gruppi di esperti i quali hanno fornito contributi differenti costituendo una sorta di catena di montaggio atta alla realizzazione del Quadro di riferimento. Sulla falsariga delle operazioni condotte per la realizzazione del CEFR, si può ipotizzare, nel caso della messa a punto di Framework disciplinari inclusivi, la costituzione di tre gruppi di lavoro. I Framework, oggetto del presente studio, vanno intesi, almeno nella loro fase iniziale, come strumenti che scaturiscono in risposta alle esigenze di un’istruzione per tutti e di una formazione all’inclusione nell’ambito circoscritto dell’Italia. Tali esigenze andranno in ogni caso contemperate con le linee guida promulgate dall’UE sia in materia di costruzione del profilo del cittadino europeo sia in materia di inclusione, come sancito dal pronunciamento del Consiglio dell’Unione Europea all’interno del Programma di Ricerca ed Innovazione Horizons 20207. Si ri-

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Secondo Castoldi (2009), una sequenza procedurale interessante da assumere come esempio per la costruzione di rubriche valutative è quella proposta da Arter (1994). Il modo di procedere non è dissimile da quello utilizzato per costruire il CEFR poiché anche qui si postula la giustapposizione di alcuni momenti chiave (o fasi): 1) raccolta di esempi di prestazione; 2) classificazione degli esempi secondo una casistica di livelli prestabilita; 3) formulazione discorsiva e descrittiva delle dimensioni della competenza individuate attraverso la performance; 4) predisporre un corredo di prestazioni-esempio, a supporto delle definizioni codificate. La rilevanza e applicazione nazionale del progetto implica che, nella composizione dei gruppi operativi, si possa dare più spazio ad esperti che lavorano sul territorio nazionale, non senza arricchire i diversi gruppi con la presenza di figure professionali “esterne”

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tiene funzionale che gli “attori” della realizzazione dei Framework disciplinari inclusivi siano organizzati in Gruppo di Progetto, Gruppo di Lavoro e Gruppo Operativo. Il primo gruppo, a composizione mista, è un organismo di supervisione e coordinamento generale di tutta l’operazione ed è chiamato a mantenere le relazioni tra scuola e istituzioni, tra le scuole coinvolte e tra i docenti di una stessa scuola. Il secondo gruppo, organo trasversale rispetto al lavoro nelle singole aree disciplinari, è chiamato alla progettazione delle fasi di lavoro tenendo conto della tempistica, della ripartizione dei ruoli e delle modalità di informazione e comunicazione tra i tre gruppi. Il terzo gruppo, costituito da insegnanti di sostegno ed insegnanti curriculari afferenti alla stessa disciplina, è chiamato a concretizzare quanto pianificato dal gruppo di lavoro. Mentre il Gruppo di Progetto ed il Gruppo di Lavoro possono essere di fatto gruppi unici, in grado, cioè, di coordinare la realizzazione di Framework relativi a discipline diverse, muovendosi nel quadro del raccordo tra più scuole, si deve prevedere l’istituzione di un Gruppo Operativo (o più Gruppi Operativi dislocati sul territorio e messi in rete) per ogni singola disciplina per la quale si intenda costituire un quadro di riferimento. Spetta al Gruppo di Lavoro la designazione degli autori, membri del Gruppo Operativo, secondo modalità e criteri di selezione da stabilire in fase di progettazione iniziale.

280 STEP 2: CRITERI DI BASE E SFONDO INTEGRATORE EPISTEMOLOGICO Una delle parti più rilevanti nella costruzione di un Framework disciplinare riguarda l’elaborazione dei descrittori di competenza. A margine dell’individuazione dei metodi delle scale di livello, è necessario, però, stabilire i principi fondanti che devono caratterizzare il quadro di riferimento: positività, precisione delle definizioni, chiarezza, brevità, indipendenza. Secondo il principio di positività è opportuno che i livelli di competenza vengano formulati in termini positivi soprattutto se questi verranno utilizzati come obiettivi del processo di insegnamento/apprendimento di una data disciplina per alunni in situazione di handicap (Fogarolo, 2012, 100)8. La precisione delle definizioni comporta che si descrivano compiti precisi e/o livelli di abilità concreti atti a risolvere i compiti stessi; il tutta al riparo di una certa vaghezza definitoria di taluni descrittori che sovente fraintendimenti. Sulla base del principio della chiarezza, ogni descrittore dovrebbe essere espresso non attraverso formule gergali, ma mediante una struttura sintattica lineare ed una consecutio logica evidente. La brevità è il principio secondo il quale è preferibile evitare l’elaborazione di lunghi paragrafi, eccessivamente ricchi di dettagli, che finiscono per perdere di vista l’asse concettuale effettivo rappresentato da ciò che l’alunno è in grado di fare. L’ultimo principio di riferimento, quello dell’indipendenza, sancisce che ciascun descrittore può essere utilizzato come criterio indipendente per la prassi della valutazione e per quella dell’autovalutazione purché il descrittore appaia breve e concreto (CEFR, 2002, 243-244).

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che possano fornire un banco di prova e costanti spunti di confronto con situazioni parallele in altri paesi. È possibile, infatti, che il medesimo traguardo di competenza sia espresso con tenor negativo (ciò che l’alunno non è capace di fare) o con tenor positivo (indicando ciò che l’alunno è già in grado di fare).

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L’individuazione preliminare dei principi di base del Framework disciplinare inclusivo, unitamente alle indicazioni sui modi di regolamentarne la realizzazione, è un compito che spetta al Gruppo di Lavoro il quale dovrà inquadrare tali principi entro quella sorta di sfondo integratore epistemologico rappresentato da quelli che Crispiani definisce i “Tratti clinici dell’educazione scolastica: – – – – – – – – – – – –

Educazione come aiuto allo sviluppo (relazione d’aiuto). Educazione di tutte le dimensioni della personalità (ecologica). Attenzione ai processi evolutivi individuali (individuale). Attenzione alle condizioni di ingresso (diagnostica). Attenzione a diversità, disagi, patologie (diagnostica differenziale). Attivazione di una pluralità di opportunità e percorsi educativi (individuale e clinica). Accettazione delle condizioni culturali personali: abitudini, religione, etica, linguaggio, valori, ecc. (pluralista). Adattamento dei Programmi alla situazione (autonoma) Progettazione di percorsi, attività, risorse (progettuale). Controllo/valutazione dell’andamento formativo individuale.. Ricorso a procedure didattiche indvidualizzanti. Ricorso a sussidi ad accesso individuale (librari, cartacei, meccanici, elettronici, audiovisivi, orali) (Crispiani, 2001, 120).

STEP 3: FASE INTUITIVA: STUDIO DEI TESTI DI RIFERIMENTO, OSSERVAZIONE, AVVIO DAI DESCRITTORI

L’ipotesi contenuta in questo studio, ovvero l’astrazione della metodologia sottesa al CEFR e la sua successiva applicazione a altre aree del sapere, potrebbe rappresentare uno dei punti di partenza per la fase sperimentale di effettiva strutturazione di tali Framework. Accanto ad una lettura ragionata del Quadro Comune Europeo per le Lingue, congiuntamente all’analisi dettagliata dei due documenti di supporto: Guide for Users (2002) e Overview Manual (2003), il Gruppo di Lavoro dovrebbe avere a disposizione i principali studi condotti sulla ‘competenza’, sui modi di descriverla, di svilupparla e di valutarla, affinché dal confronto, dalla riflessione e dalla problematizzazione delle idee e delle proposte, possano scaturire delle vere e proprie schede-guida pratiche per la costruzione dei Framework disciplinari da parte dei docenti/autori del Gruppo Operativo. In parallelo, il Gruppo dovrebbe procedere alla considerazione sistematica degli indicatori contenuti nell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), lo strumento predisposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità al fine di regolamentare descrittori e valori di misurazione della salute delle popolazioni del mondo (OMS, 2002)9. Le 4 aree dell’ICF andrebbero incrociate con i parametri grezzi per la valutazione disciplinare, previamente abbozzati all’interno delle schede-guida, sì da individuare per ogni area descrittori

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ICF ed ICF-CY (2007), il modello successivo elaborato per bambini e adolescenti, costituiscono “un’ottima base concettuale e antropologica per costruire una griglia di conoscenza del comportamento educativo e/o apprenditivo dell’alunno (…)” (Ianes, Cramerotti, 2009, vol. I: 22) e, dunque, un testo di riferimento fondante nella descrizione delle competenze di base per alunni in difficoltà.

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di competenza che contribuiscano alla definizione di profilo dell’apprendente nel suo complesso. Il tenor positivo che caratterizza la classificazione dell’ICF costituisce un valore aggiunto rispetto al criterio di positività procedurale necessario alla definizione dei descrittori. L’ICF andrebbe, parimenti, preso in esame alla luce della sua ricezione da parte delle recenti Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (2009) che sottolinea come obiettivo chiave dell’integrazione sia proprio “lo sviluppo delle competenze dell’alunno negli apprendimenti, nella comunicazione e nella relazione, nonché nella socializzazione, obiettivi raggiungibili attraverso la collaborazione e il coordinamento di tutte le componenti in questione nonché dalla presenza di una pianificazione puntuale e logica degli interventi educativi, formativi, riabilitativi come previsto dal P.E.I.” (MIUR, 2009, 12). Il secondo passaggio è legato all’esigenza imprescindibile di effettuare un’attenta osservazione dell’oggetto che si intende descrivere. Di fatto, una raccolta di informazioni si basa, almeno nella fase iniziale, su metodi a carattere osservativo, siano essi più o meno sistematici e/o strutturati10. L’osservazione apre la via al terzo passaggio cruciale della fase intuitiva, ovvero l’elaborazione di una prima, approssimativa descrizione di ciò che si desidera considerare e delle categorie alle quali prestare particolare attenzione (es. strategie di comunicazione in classe quali: presa di turno, richiesta di chiarimento, ripresa concettuale ed amplificazione, ecc.). In questa fase, ci si limita a stilare una bozza delle descrizioni degli elementi da attenzionare. Solo successivamente si potrà procedere al controllo ed alla definizione puntuale degli item e dei tratti considerati11. Una volta abbozzate, è opportuno scomporre le scale di descrittori in categorie descrittive, così da costituire un primo repertorio ordinato di descrittori riconducibili a categorie specifiche. In questo caso, gli esperti del Gruppo Operativo sono chiamati ad esprimersi intuitivamente sulla bontà o sulla criticità delle descrizioni proposte, avvalendosi della possibilità di confrontarle con quelle elaborate rispetto da altri Gruppi Operativi.

10 L’osservazione della competenza offre diversi vantaggi: facilita la raccolta di una serie di dati introduttivi sulla competenza stessa, consente di pre-valutarla in anticipo mediante ipotesi ed inferenze, induce alla messa a punto di un piano osservativo sistematico e rende possibile il confronto dei dati reperiti con gli esiti dell’osservazione dei comportamenti dei soggetti competenti all’esterno del contesto formativo studiato (Pellerey, 2004, 117-120). In questo primo segmento del lavoro, l’osservazione può essere accompagnata dallo studio intensivo di scale di descrittori, categorie e parametri già esistenti e dalla comparazione tra questi e le formulazioni di descrizione della competenza elaborate ab initio. 11 Nella costruzione di Framework disciplinari inclusivi è preferibile ricalcare il medesimo cammino degli autori del CEFR ovvero il cosiddetto ‘avvio dai descrittori’, cioè la strutturazione dei descrittori a partire da una formulazione verbale abbozzata degli aspetti-chiave della competenza da considerare e verificare. Si potrebbe prospettare anche l’avvio da campioni di prestazione, lavorando su campioni rappresentativi ed applicando metodi quantitativi quali quello dell’Analisi discriminante e quello dello Scaglionamento multidimensionale (CEFR, 2002, 247).

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II ANNO STEP 4: FASE QUALITATIVA: ANALISI DELLE PRESTAZIONI E CLASSIFICAZIONE La fase qualitativa può essere articolata in due momenti. In un primo momento è utile che tanto il Gruppo di Lavoro quanto il Gruppo Operativo analizzino le interazioni degli insegnanti/autori, impegnati nella discussione e nel confronto rispetto alle prestazioni degli studenti campionati rispetto alle competenze da descrivere. A tal fine, sarebbe opportuno provvedere alla creazione preventiva di un repertorio di registrazioni (audio, video, annotazioni mimetiche, a seconda del contesto indagato) delle performance degli alunni in condizioni di svantaggio da sottoporre ad uno studio intensivo e ripetuto da parte degli insegnanti12. Al termine del confronto tra competenze minime attese e prestazioni effettuate, gli insegnanti dovranno: 1) cogliere le corrispondenze tra la descrizione di quanto osservato e socializzato, a seguito delle registrazioni, e le prime bozze di descrittori predisposte nella fase di osservazione iniziale; 2) captare eventuali mancanze o ridondanze nelle descrizioni; 3) cominciare a tarare il loro metalinguaggio secondo i principi-base di positività, precisione delle definizioni, chiarezza, brevità, indipendenza; 4) controllare che la scala di misura impiegata per le descrizioni sia quella “nominale dicotomizzata: ciascun descrittore, proprio perché formulato in modo positivo (…) definisce esplicitamente la classe dei comportamenti desiderabili e accettabili e, implicitamente, la classe dei comportamenti non ritenuti soddisfacenti (…)” (Domenici, 2006, 159). Solo in un secondo momento, si procederà alla classificazione. A tal fine, si consiglia di dar vita a dei veri e propri laboratori costituiti da sottogruppi di insegnanti, membri di uno stesso Gruppo Operativo, i quali dovranno lavorare in sessioni parallele allo scopo di: – dividere i descrittori sulla base delle categorie prescelte; – giudicare qualitativamente la chiarezza, correttezza, pertinenza delle descrizioni; – classificare i descrittori per livelli di competenza; – denominare i livelli servendosi, preferibilmente, di codici numerici immediati e sintetici. Riepilogando, al termine del primo anno di lavoro, il risultato conclusivo dovrebbe essere quello di “disporre di un quadro analitico e sinottico dell’andamento degli apprendimenti”, dei traguardi delle componenti della competenza. La lettura dei dati per ciascuna colonna metterà in evidenza il livello di competenze raggiunte dall’apprendente, mentre la lettura per riga renderà conto degli aspetti costitutivi della competenza in funzione della categoria considerata (Domenici, 2006, 161).

12 Questa metodologia qualitativa ha il vantaggio di garantire coesione e coerenza tra quanto viene descritto e ciò che si intende verificare, il che è particolarmente indicato nel caso specifico in cui ci si trovi a trattare delle competenze prospettive. di base dal momento che la loro complessità, non solo strutturale, ma anche e soprattutto processuale, richiede che le si analizzino allo stesso tempo da più.

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STEP 5: FASE QUANTITATIVA: IL MODELLO RASCH

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La fase quantitativa richiede l’intervento di esperti di docimologia e, pertanto, deve prevedere una cogestione da parte del Gruppo di Lavoro e del Gruppo Operativo. Tale fase, che apre il secondo anno di lavoro, consiste fondamentalmente nell’applicazione sperimentale delle scale di descrittori elaborati all’attività didattica, in particolare alla valutazione dello sviluppo delle competenze degli studenti. Durante un intero anno scolastico, gli insegnanti sono chiamati ad utilizzare la batteria dei descrittori per verificare e valutare la progressione degli apprendimenti nella disciplina oggetto di indagine, in modo da confrontare quanto ipotizzato e formulato attraverso le scale di livello con la attualizzazione concreta delle competenze. Come nel caso del CEFR, anche per la costruzione dei Framework disciplinari inclusivi, si può procedere all’analisi dei descrittori secondo il modello di Rasch, basato sul medesimo principio matematico dell’Item Response Theory (Analisi dei Tratti Latenti)13. Si tratta di metodi di misura capaci di tradurre l’informazione deducibile da item osservabili, che indicano solo parzialmente la variabile latente in una misura sintetica ed oggettiva. Grazie al modello di Rasch è possibile calibrare gli item scala per scala individuando un indice matematico di difficoltà per ogni descrittore, nonché la variazione statisticamente significativa che metta in luce i descrittori con indicatore di stabilità più elevata. STEP 6: FASE INTERPRETATIVA E CONCLUSIONE DEI LAVORI. Nella fase interpretativa, il Gruppo di Lavoro e il Gruppo Operativo si confrontano per individuare i punti di cesura definitivi sulle scale dei descrittori, circoscrivere i livelli comuni di riferimento, presentarli in esempi diversificati di scale che facciano da guida e supporto all’attività didattica: scale olistiche, scale per la valutazione delle componenti della competenza disciplinare minima, scale per l’autovalutazione delle attività di insegnamento/apprendimento correlate alla competenza di base14. Nel corso dei due anni di lavoro, i tre gruppi (di Progetto, di Lavoro, degli Autori) dovrebbero interagire costantemente; in particolare, sarebbe utile una cooperazione continuativa tra il Gruppo di Lavoro ed il Gruppo degli Autori, mediante una calendarizzazione precisa di incontri di confronto, momenti di approfondimento e/o chiarimento, seminari di aggiornamento in itinere sul tema delle competenza, meeting per la socializzazione dei dati e verifica incrociata periodica dei risultati.

13 Riguardo alla Item Response Theory, al cosiddetto Modello di Rasch e sulle sue applicazioni delle tecniche di misurazione nell’ambito delle scienze sociali e nei contesti specifici di educazione e formazione, si vedano oltre al noto Wright - Masters, 1982, Bacci, 2006; Domenici, 2006; Bond - Fox, 2007; Penta et al., 2008. 14 Mentre per i descrittori delle prime due scale è opportuno utilizzare la terza persona singolare, riferita al soggetto apprendente che si appresta a divenire soggetto competente, nella scala per l’autovalutazione, i medesimi descrittori dovrebbero essere espressi in prima persona. Questa scelta è in linea con quell’intento di personalizzazione del percorso di sviluppo della competenza, ma anche con il tentativo di fornire uno strumento che promuova nell’allievo diversamente abile un atteggiamento critico e riflessivo (in altri termini, metacognitivo) sull’evoluzione progressiva della propria competenza.

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Infine, in linea con quanto proposto dal Consiglio d’Europa in relazione al CEFR per le lingue, anche nel caso dei Framework disciplinari inclusivi si rivelerebbe appropriata una capillare operazione di disseminazione dei risultati dell’esperienza, così da aprire nuove piste di sviluppo e di applicazione del medesimo modello ad altre discipline e/o ad altri ambiti formativi nei quali l’inclusione non è improvvisata, ma oculatamente pensata e progettata.

Conclusioni L’accento posto dalle Indicazioni nazionali per l’integrazione degli alunni con disabilità sul valore dell’integrazione/inclusione scolastica non lascia spazio a fraintendimenti relativamente alla cooperazione forte che deve sussistere tra insegnante di sostegno ed insegnanti curriculari. Sullo sfondo del diritto per tutti allo studio, all’istruzione ed alla formazione, le risorse della classe vanno convogliate verso un piano pedagogico-didattico che si fa progetto condiviso nello stile e nell’approccio alla diversità prima ancora che nella formalizzazione in organi istituzionali quali il GLHI ed il GLHO. In questa prospettiva, si ritiene che sia particolarmente utile la creazione di un modello operativo per la scomposizione delle competenze disciplinari in competenze di base da graduare in rapporto alla dimensione bio-psico-sociale dell’alunno in condizione di svantaggio ed in relazione agli obiettivi educativi minimi rintracciabili nei documenti ufficiali e nella normativa vigente in materia di inclusione scolastica. A tale proposito, il Quadro Comune Europeo di rifermento per la competenza linguistico-comunicativa ha fornito basi teoriche solide, non solo al complesso processo di standardizzazione della valutazione della competenza, ma anche alla prassi didattica nel suo complesso. Da queste riflessioni è scaturita l’idea di utilizzare la metodologia del Quadro come pista per la costituzione di Framework disciplinari inclusivi utili alla elaborazione delle competenze di base ed al lavoro preparatorio alla stesura del Profilo Dinamico Funzionale nonché al PEI. Ciò che si è tentato di fare nel presente studio è stato delineare una traccia operativa per la costruzione di questi Framework disciplinari inclusivi, articolata in più fasi che scandiscono agevolmente il lavoro. Si è fatto riferimento alla necessità di lavorare in gruppo distribuendo compiti e funzioni fra tre diverse tipologie gruppali, con una logica non dissimile da quella del Co-planning e del Co-teaching già individuati come strategie ideali per la promozione dell’educazione inclusiva (Ghedin, Acquario, Di Masi, 2013). Alla compartecipazione di insegnanti di sostegno ed insegnanti disciplinari, al team docente nel suo complesso alla sua contrattualità, all’equilibrio tra la competenza professionale e la competenza relazionale che lo caratterizza e al dialogo costante tra scuola e territorio è legata la realistica possibilità di costruire un Framework disciplinare inclusivo inteso come documento vivo di una competenza condivisa. I possibili sviluppi di questo studio dovrebbero prendere in considerazione almeno due direzioni. Da una parte, andrà delineata in dettaglio la struttura interna dei Framework inclusivi, che non devono intendersi come sostitutivi di rubriche valutative, sebbene queste ne facciano parte. L’idea base è che tali Framework non si limitino a offrire strategie e metodi valutativi, ma che contribuiscano a promuovere nuove ‘strade’ per insegnare e per apprendere attraverso e con le competenze in contesti inclusivi. Dall’altra parte, sarebbe auspicabile una riconsiderazione epistemico-operativa delle discipline stesse le quali, nel caso precipuo dell’integrazione scolastica, dovrebbero essere convertite in campi esperienziali, perdendo le

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nette linee di demarcazione che separano i saperi ed ancorandosi più fortemente a quella quotidianità di vita che è garanzia di successo apprenditivo e formativo per l’alunno in condizione di disabilità.

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Per una didattica tassonomica dei media e dei suoi laboratori: il modulo trasversale di familiarizzazione

Luca Luciani - Università di Padova - luca.luciani@unipd.it

For a taxonomic didactics of media and its laboratories: the module cross of familiarization This work has the goal of stating the good practice in the field of the media education, starting from a lasting and composite trial of this teaching method. A preliminary analysis of the contemporary trends of communication technology and of their impact on media education has been carried out. This allowed us to state, from a logic and rational point of view, that this teaching method is effective, efficient and complete with reference to media communication. The teaching experience has been in the end outlined with reference to its teaching and formative targets, to the teaching contents in their timing and methodology, and to the teaching process itself.

Parole chiave: educazione mediale; tassonomia dei media; cross-medialità; transmedialità; ibridazione mediale; metamedium

Keywords: media education; media taxonomy; cross-media; transmedia; hybrid media; metamedium

Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)

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L’obiettivo del contributo è quello di provare a ‘disseminare’, a partire da una temporalmente lunga e composita messa alla prova di questo modello pedagogico-didattico, una buona pratica formativa relativa all’educazione mediale. Per poter arrivare a sostenere in modo logico-razionale la proposta didattica di questo percorso formativo, in quanto efficace, efficiente e basilarmente completo/compiuto in relazione alla dimensione comunicativa mediale, si è premilinarmente condotta una disamina teorica delle tendenze concettuali contemporanee relative all’ambito della comunicazione sociale tecnologica e delle loro ricadute per la dimensione educativa mediale. L’esperienza didattica è stata infine delineata in relazione ai suoi obiettivi formativi, ai contenuti del modulo nella loro scansione metodologicotemporale, e alle modalità didattiche del processo formativo.


Per una didattica tassonomica dei media e dei suoi laboratori: il modulo trasversale di familiarizzazione

1. Contestualizzazione teorica della dimensione distintiva dei media

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Da ormai diversi anni il dibattito sull’educazione mediale e sulle tecnologie educative è significativamente permeato da una serie di concetti/definizioni che si sono sviluppati nell’ambito della pluralità di approcci alle scienze della comunicazione. Tra questi i più presenti e concettualmente maggiormente influenti sono quelli dell’‘ibridazione mediale’ (Manovich, 2002, 2007 e 2010; Nardi, 2013), della ‘cross-medialità’ (Giovagnoli, 2013) e della ‘transmedialità’ (Jenkins, 2003 e 2006; Giovagnoli, 2013; Zecca, 2012). La convergenza tecnologica, che ha consentito la veicolazione di uno stesso testo mediale su diverse piattaforme (cross-medialità), e l’evoluzione/diversificazione della nostra ‘dieta mediale’, peraltro ormai quasi sempre contemporaneamente fruibile dai diversi device digitali di nuova generazione (tablet, smartphone, PC portatile, computer, smart TV, ecc.), che grazie alle molteplici capacità di trasmissione di differente contenuto ed elaborazione mediale del ‘metamedium computer’ (Kay&Goldberg, 1977) e all’ubiquità della rete internet, ha permesso e indotto la frammentazione testualmente diversificata e al contempo correlata/coerente di diverse narrazioni contemporanee (transmedialità), finiscono per avvalorare la diffusione e il radicamento dell’idea dell’‘ibridazione mediale’. L’incontro terminologico e contenutistico avvenuto in quest’ultimo decennio con il costrutto dell’ibridazione mediale ha comportato una nuova trascuratezza e una messa in secondo piano della dimensione strutturale dei media rispetto a quella dei contenuti e della loro diversa modalità formale di apparire. Questo scenario, unitamente all’esplosione interattiva e vorticosamente multimediale del web 2.0, ha determinato una diffusa sensazione, spesso implicitamente accolta, di un improvviso divernire ‘magmatico’ della nuova mediasfera dove è parso essere più importante delineare le ‘superfici interattive’ e le forme distributive dei testi mediali, una disposizione al ‘fare’ e al ‘fruire’ mediale d’acchito, piuttosto che mantenere, meglio precisare, rendere più evidenti, le risultanze degli studi strutturali del recente passato coniugati con le nuove esperienze comunicative della contemporaneità. Nel caso però del concetto/idea dell’ibridazione mediale e del suo maggiore fautore contemporaneo Lev Manovich (2002, 2007 e 2010), questa, messa in correlazione con la multimedialità interattiva (Galliani, 2002b), con la possibilità di interagire ‘a finestre multiple’, in multitasking, con i link dell’ipertestualità (Manfredi, 2002) e le possibilità compositive dell’ipermedialità (Galliani, 2002b), opzioni operative di fruizione/elaborazione consentite dal codice informatico binario dei software su cui è strutturato il metamedium computer (Kay&Goldberg, 1977), porterebbe ad un nuovo linguaggio. Riprendendo il titolo del libro di Manovich del 2001, al ‘linguaggio dei nuovi media’1.

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Il primo studioso a proporre l’idea dell’ibridazione mediale fu Marshall McLuhan (1964). Nel capitolo dal titolo Hybrid Energy: Les liaisons dangereuses, per certi versi realmente

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È questa ‘incursione’ terminologica nella dimensione del linguaggio, in modo particolare quello correlato ai cosiddetti new media, che innesca oggi, complici anche le nuove forme/strumenti di fruizione oltre alla ‘frammentazione/esplosione/diramazione’ delle narrazioni mediali, uno ‘smottamento’ di metodologia didattica nella proposta formativa dell’educazione mediale e delle tecnologie educative. Se i nuovi media utilizzano un nuovo linguaggio, in qualche modo suffragato da nuove forme di narrazione, che senso avrebbe insegnare ancora la dimensione strutturale dei diversi linguaggi mediali (audiovisivo cinetico, verbosonoro, fotografico, verbo-visivo)? La risposta che viene data oggi da molti docenti che si occupano di questi ambiti disciplinari, e che si pongono questa domanda anche solo a livello inconsapevole, è quella di spostare il focus didattico della loro proposta formativa sull’aspetto funzionalistico-operativo, ‘in azione’, dei nuovi prodotti/ambienti edu-comunicativi e sugli eventuali contenuti mediali veicolati: contenuti dinamico-operativi e contenuti espressivo-valoriali. In questo modo i linguaggi, sia in relazione all’analisi dei testi mediali (‘lettura’/fruizione) sia per quanto riguarda la loro realizzazione (‘scrittura’/composizione), assumono le condizioni di qualcosa di ‘scontatatamente connaturato’ o anche di ‘magicamente naturale’. Pur essendo spesso evocati in quasi tutti i discorsi sui media, quasi mai vengono effettivamente sostanziati nella loro specificità codicale e nelle correlate dinamiche semiotiche espressive e/o interpretative. Corollario di questa prospettiva didattico-pedagogica in relazione ai media è l’adesione al potere autoeducante delle tecnologie mediali, in modo particolare di quelle nuove. Non solo le strumentazioni tecniche software/hardware di qualsiasi grado di complessità si svelerebbero senza l’aiuto di alcun mediatore, ed effettivamente diverse risultanze in relazione a questa dinamica apprenditiva ci vengono già da diverso tempo riferite in relazione alle nuove generazioni dei nativi digitali (Allega Marcello A. & Ferri P., 2013), ma indurrebbero anche all’acquisizione in modo spontaneo e altrettanto efficace delle dimensioni strutturali dei linguaggi mediali per il loro utilizzo compositivo e di fruizione. Insomma, solo per fare qualche esempio, un’utilizzazione diretta e immediata di uno smartphone in funzione di macchina fotografica permetterebbe di conoscere e utilizzare la regola dei terzi o le inquadrature base che, ancora più chiaramente definite, si ritrovano poi anche nel linguaggio audiovisivo cinetico, o anche, che lo stesso strumento utilizzato in funzione di videocamera, permetterebbe di riprendere con la consapevolezza espressiva delle angolature e dei movimenti di macchina, e in un secondo momento, di montare poi le riprese effettuate con altrettanta conoscenza e compe-

‘visionario’, nel proporre il senso che vuole conferire a questo concetto, non arriva mai ad utilizzare il campo semantico di ‘nuovo linguaggio’. Di questa interpenetrazione di un medium nell’altro ne scrive in termini di liberazione di nuove energie, di antagonismo anche distruttivo di un medium rispetto ad un altro al punto da istituire non solo nuovi rapporti tra i nostri sensi, ma anche tra di loro, di come un medium possa usare o sprigionare il potere di un altro, di liberazione, di adattamento delle situazioni di una cultura attraverso l’ibridazione con quelle di un’altra, come tecnica di scoperta creativa e come momento di verità e rivelazione dal quale nasce una nuova forma. È in quest’ultimo effetto dell’ibridazione mediale, tra quelli da lui delineati, che si avvicina di più alla dimensione del linguaggio. Allo stesso tempo, in tutti gli esempi riportati, come quello dell’adattamento dell’uso del pianoforte da parte di Chopin al balletto, arriva ad intravvederne una incantevole commistione tra i media, ma non mette certo in dubbio che le note non restino ancora alla base della costruzione testuale musicale.

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tenza linguistica di quei codici del montaggio che sono stati messi a punto tra molteplici realizzazioni e altrettante fruizioni nel corso dello sviluppo storico delle immagini in movimento. In relazione a questo approccio non nutriamo soltanto delle forti perplessità, ma pensiamo che si tratti di una modalità apprenditiva significativamente incompleta e inefficiente ad ogni livello educativo a cui venga correlato e per qualsiasi obiettivo formativo ci si ponga in relazione all’acquisizione di conoscenze/competenze mediali. Con Galliani (2002a) pensiamo che per arrivare ad ‘attraversare i media’ sia necessario attivare una sintesi educativa tra percorsi formativi attivi di letto-scrittura dei testi mediali socialmente contestualizzati e il diretto utilizzo dei media come ausili tecnologici più o meno interattivi in funzione dei processi di insegnamento e apprendimento. E se questa soluzione concettuale si basa “... nell’azione didattica di lettura-scrittura, cioè nella comunicazione educativa mediatizzata ...” (Galliani 2002a, p. 569), dovrebbe risultare conseguente e significativamente evidente come la componente relativa alle conoscenze-competenze dei linguaggi mediali risulti fondamentale e di base. La soluzione, prima teorica, che diventa poi didatticamente attiva, ci sembra che si possa individuare nella delineazione precisa della dimensione strutturale del linguaggio riprendendo la distinzione morrisiana (1938) delle sue componenti tra il livello sintattico, quello semantico, e quello pragmatico. Tale distinzione strutturale riguarda tutti i linguaggi compresi quelli mediali ed è significativamente accettata nell’ambito delle scienze socio-umanistiche. Se infatti a livello semantico-pragmatico la suggestione di Manovich relativamente all’esistenza di un linguaggio dei nuovi media ci sembra possa essere almeno parzialmente accolta e indagata con un margine di coerenza, sul piano sintattico questa mostra un’importante insufficienza strutturale e una certa inconsistenza procedurale, che finisce per emergere con evidenza soprattutto nel contesto didattico dell’educazione mediale. Peraltro, relativamente all’effettivo funzionamento/interscambio comunicativo testuale non possiamo non mettere in risalto come l’intertestualità, l’ipermedialità, l’interattività, il loop, il mash up, a parte l’affermazione e la trasmissione, anche inconscia, del concetto di non linearità dell’ambiente digitale nei confronti del fruitore, non sia in grado di esistere in modo autonomo come attivatore delle azioni di denotazione e connotazione potenzialmente connesse ai piani semantico e pragmatico dei linguaggi. Certamente il metamedium computer e le sue nuove modalità espositive in quanto anch’esso ‘psicotecnologia’ (De Kerckhove, 1993), in particolare ‘psicotecnologia connettiva’ (De Kerckhove, 2014), ma quindi anche, e prima, ‘protesi fisiopsicologica’ dell’uomo (McLuhan, 1964), influenza in qualche modo le modalità percettive e i modi di fruire/conoscere inducendo anche uno ‘specifico modello di abilità mentale’ (Bruner J. & Olson D.R., 1974), ma i codici informatici del suo linguaggio binario mancano di quello strato simbolico riconosciuto trasversalmente dai più atto a farne un sistema comunicativo compiuto tra esseri umani, e cioè uno specifico e distinto linguaggio della comunicazione per e tra le persone. In effetti tutti i contemporanei ‘device metamediali’, al di là della ‘specie tecnologica’ e del grado evolutivo a cui appartengono, racchiudono e aggregano in sé le potenzialità fruitive ed espressive dei vari old media che, tra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70 del secolo scorso, furono traslate come simulazioni a questi “Personal Dynamic Media” da Alan Kay e dal Gruppo di ricerca sull’apprendimento del Centro ricerche della Xerox a Palo Alto: “Although digital computers were originally designed to do arithmetic computation, the ability to simulate the details of any descriptive model means that the computer, viewed as a medium itself, can

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be all other media if the embedding and viewing methods are sufficiently well provided.” (Kay&Goldberg 1977, pp. 393-394). Questa precisa, storica, determinazione nei confronti della distinzione linguistica e tecnologica dei diversi testi mediali e relativi media non è comunque riuscita ad evitare che, anche a causa di un fraintendimento in relazione al costrutto dell’ibridazione mediale, si arrivasse spesso a trascurare, a tralasciare, a mettere in secondo piano, la dimensione strutturale dei media rispetto a quella dei contenuti e della loro diversa modalità formale di apparire e consentire interazioni. Allora la soluzione da un punto di vista educativo mediale sarebbe a ‘portata didattica’ se si tenesse sempre presente la definizione di medium, che per poter essere compiutamente tale deve soddisfare tutte le componenti tecnologiche di processo (funzioni) e quelle di prodotto (struttura). In quest’ultimo elenco tra le tre previste spicca, con tutta la sua evidenza in relazione alla prospettiva da noi adottata, “il software, inteso come testo simbolico-espressivo, socializzabile attraverso la condivisione del linguaggio e contestualizzabile attraverso l’interpretazione di un utente reale.” (Galliani 1993, p. 91). Per noi questo assunto diventa anche una imprescindibile linea guida procedurale nell’ambito della didattica dell’educazione mediale.

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2. Il modulo didattico di familiarizzazione tassonomica ai media L’esperienza pedagogico-didattica che ci accingiamo a descrivere, in quanto buona pratica educativa che può essere adottata in altri contesti formativi dell’educazione mediale che prevedano una fase realizzativa attiva correlata alla parte teorica, è stata da noi personalmente condotta inizialmente in presenza per sette anni accademici (2001-2008), nell’ambito dell’Unità formativa di Didattica dell’Immagine2 e poi, con parziali implementazioni, come modulo trasversale3 a più insegnamenti e laboratori mediali nell’ambito del Corso di laurea magistrale online in Teorie e Metodologie dell’e-learning e della media education – E-Media (2008-2011)4.

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3 4

La denominazione del modulo era ‘Laboratorio di didattica dell’immagine’. L’Unità formativa era inserita nel Corso di laurea in scienze della formazione primaria dell’Università degli Studi di Padova. Il numero dei partecipanti a questo corso di laurea a numero chiuso, stabilito annualmente nella sua dimensione regionale, è stato di diverse centinaia per anno di attivazione. Considerando una media di duecentocinquanta iscritti all’anno, possiamo ipotizzare con un sufficiente grado di precisione che l’erogazione del modulo negli anni accademici a cui ci stiamo riferendo è stata proposta a ca millesettecentocinquanta studenti. Il modulo era svolto in funzione dei laboratori di Video-film making, di Indagine-inchiesta televisiva, di Espressione sonora nell’audiovisivo, di Audiovisivo di animazione, di Fotografia, di Pubblicità -spot e testi verbo-visivi pubblicitari-, di Fumetto. La denominazione del corso era ‘Sportello di familiarizzazione ai laboratori’ e dall’anno accademico 2008/2009 fino al 2010/2011 è stato seguito da ca duecentocinquanta studenti. In questo caso il modulo era in funzione degli insegnamenti di Semiotica dei testi audiovisivi e multimediali, Storia e critica del cinema, Formati culturali ed educativi della produzione audiovisiva, Teorie e tecniche del linguaggio radiotelevisivo, Storia e Tecnica della fotografia, Teorie e pratiche della comunicazione educativa online, e dei laboratori di Scrittura fotografica, dell’audiovisivo di animazione, video-filmica, radiofonica, e di Composizione multimediale per il web.

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Questa prospettiva teorico-procedurale è stata anche alla base della scelta della scansione progressiva dei diversi insegnamenti laboratoriali del MEAM – Master in educazione audiovisiva e multimediale, che è stato erogato annualmente dal 2003 al 2007 compreso5. Si tratta di un modulo didattico che può essere erogato sia autonomamente, quanto come parte integrativa di insegnamenti generali relativi ai media in una prospettiva tendenzialmente edu-comunicativa oppure anche tendenzialmente espressivo-creativa. In relazione ai dati relativi al numero di partecipanti (note n° 3; 4; 6) crediamo siano significativamente consistenti e che, assieme ai dati temporali dell’erogazione complessiva e a quelli correlati alla declinazione del modulo nei diversi contesti formativi dei corsi di laurea e del master (anche note n° 3 e 5), offrano una esaustiva configurazione quantitativo-metodologica a questa esperienza educativa. È necessario però precisare che se questi dati non fossero anche collegati all’effettivo successo formativo e culturale, verificabile nel nostro caso innanzitutto dai risultati ottenuti nella realizzazione in prima persona da parte degli studenti dei diversi testi mediali comunicativamente completi e compiuti prodotti in ogni laboratorio direttamente connesso a questo modulo (narrazioni fotografiche, trasmissioni radiofoniche/podcast audio, video-film di differenti generi, ipertesti, ecc.), questi perderebbero sostanzialmente di significato e consistenza. Considerati invece i risultati ottenuti nel tempo6 in relazione agli obiettivi didattici attribuiti alle azioni formative correlate a questo modulo, possiamo ragionevolmente pensare che essi consentano oggi di assegnare a questo percorso un efficiente ed efficace valore educativo. L’obiettivo formativo del modulo è quello di riuscire a fornire in un tempo didattico limitato gli elementi di base linguistici e tecnici relativi a diversi media in modo tale che gli studenti possano trovarsi nella condizione di essere potenzialmente già in fase creativo-operativa agli inizi dei diversi laboratori mediali previsti nell’ambito di uno specifico insegnamento o dal corso di studi nel suo insieme. Sebbene si tratti di un approccio di fatto integrato ai media tecnologici dell’informazione e della comunicazione7, dove per velocizzare il processo formativo vengono messe in evidenza e utilizzate alcune loro componenti strutturali che consentono tra gli stessi un evidente raccordo tecnologico e linguistico, non viene però mai meno il valore culturale e funzionale sia edu-comunicativo che interpretativo-espressivo della dimensione tassonomica distintiva dei diversi media (Luchi, 1983a e 1983b). Quest’ultimo assunto è chiaramente consequenzialmente correlato alla riflessione e quindi all’impostazione teorica che emerge dal primo paragrafo di questo contributo.

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Sono stati complessivamente cinquantadue gli studenti che hanno seguito la struttura/itinerario formativo di questo master che trovava il suo fondamento strutturale didattico relativo ai laboratori nell’impostazione/approccio tassonomico distintivo ai media. Non siamo in grado in questo momento di quantizzare esattamente il numero di lavori che sono stati realizzati in così tanti e diversi laboratori e insegnamenti, distribuiti in un periodo temporale così lungo, e inseriti in una articolazione formativa così varia. Cerchiamo però di offrire ugualmente una stima che sappia ugualmente comunicare il senso profondo di ciò che stiamo trattando e proponendo: nell’insieme sono state prodotte diverse centinaia di testi mediali di differente tipologia testuale strutturalmente completi e narrativamente compiuti. Potenzialmente si possono affrontare in modo tra di loro raccordato tutti i tipi di media tecnologici.

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La struttura dei contenuti del modulo si differenzia in due distinte parti di uguale durata temporale e di uguale significatività valoriale educativa in relazione al loro sviluppo didattico-formativo: l’area tecnologica e quella dei linguaggi mediali. Entrambe queste aree prevedono nello sviluppo dei relativi contenuti una precisa scansione in senso longitudinale progressivo che nel caso dell’area tecnologica muove, una volta indagati gli elementi tecnici digitali di base comuni alle diverse strumentazioni mediali, dalle tecnologie di registrazione sonora, passando a quelle delle immagini fisse, per arrivare a quelle video-filmiche. L’area dei linguaggi mediali procede e si sviluppa in relazione alla quantità di codici a manifestazione unica, multipla e universale (Metz, 1971) di cui è composta la loro struttura linguistico-comunicativa, da quello meno articolato a quello più articolato, e della loro ricorsività nei diversi linguaggi mediali. La sequenza che ne deriva prevede nell’ordine, il linguaggio fotografico, quello verbo-visivo8, quello verbosonoro9, quello audiovisivo cinetico10 che comprende anche le forme videofilmiche di animazione.

3. I contenuti del modulo didattico di familiarizzazione tassonomica ai media Di seguito, seppure brevemente, evidenzieremo nell’ordine sequenziale con cui li abbiamo svolti in tutti questi anni, i contenuti delle due aree didattiche appena sopra delineate. Ci atterremo agli specifici contenuti dell’ultima versione didattica del modulo e cioè quella svolta nell’ambito del Corso di laurea online in Teorie e Metodologie dell’e-learning e della media education – E-Media (2008-2011)11. È bene comunque evidenziare come nell’erogazione del modulo online la sequenza degli argomenti relativi all’area tecnologica, e, in un secondo momento, a distanza di ca quindici giorni dall’attivazione della prima, quella relativa ai linguaggi, anziché in modo progressivamente consequenziale e cadenzato come avveniva nei percorsi in presenza, vengono proposte nel loro insieme fin dal momento in cui le distinte aree di approfondimento tematico online vengono rese visibili e attive per la fruizione collaborativa e cooperativa da parte degli studenti. Per ogni voce è previsto uno specifico forum di approfondimento/discussione, le relative ‘videopillole’ formative, e una serie di collegamenti a materiali didattici spesso esterni alla piattaforma.

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Il medium che lo utilizza e che ricorre alla progettazione grafica per dare forma ai vari contenuti è la stampa anche nella sua sempre più presente ed attuale versione online (giornali/riviste/libri illustrati, la grafica nei suoi vari generi, il fumetto). 9 Il relativo medium è la radio in tutte le sue attuali dimensioni comunicative online tra cui quelle online in streaming, cioè in diretta/modalità sincrona, o sotto forma di podcast, cioè in differita/modalità asincrona. 10 I media che sul piano sintattico del linguaggio sono accomunati dalla sua adozione sono il cinema, la televisione e tutte le altre possibili forme di comunicazione videofilmica anche se correlate ad ipermedia/testi mediali ibridi, sia nella loro modalità comunicativa off line quanto in quella online sotto forma di podcast video e streaming, sempre più presenti negli ultimi dieci anni. 11 La sua sospensione a partire dall’anno accademico 2011-2012 è stata dovuta unicamente alla necessità intercorsa in seguito all’applicazione della recente riforma universitaria, che ha obbligato a rivedere il carico didattico ripartito tra docenti strutturati e docenti a contratto.

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– Varianti e invarianti tecnologiche. Si tratta di un primo approccio alle tecnologie mediali il cui obiettivo è di relativizzare con equilibrio quella che spesso è la spinta eccessiva all’evoluzione tecnologica, sostenuta sostanzialmente da ragioni economiche, in relazione alle reali necessità didattiche dell’educazione mediale calate nei diversi contesti e riferite ai diversi obiettivi formativi che questa si pone. Permette inoltre di affrontare la relazione tra strumentazioni tecniche analogiche e nuove attrezzature digitali e di individuare e iniziare a delineare il fondamentale costrutto in quest’epoca digitale della ‘convergenza tecnologica’. – Codec audiovisivi, formati digitali audiovisivi. Se volessimo riprendere la metafora di Manovich dei mattoncini (2010), i codec audiovisivi sono l’‘unità fondamentale’ del fare digitale mediale. Questi software permettono infatti di trasformare –codificare e decodificare- un segnale analogico in digitale attraverso una compressione. Riguardano sia le immagini fisse, che l’audio, quanto i video. È poi importante saperli distinguere dai container (formati contenitore) degli ‘stream’ audiovisivi che, con i codec, devono essere supportati dai vari player di visione e dai software di editing di realizzazione sia per poter fruire i contenuti mediali quanto per comporli. Ci sembra evidente quanto questo insieme di conoscenze siano oggi basilari e al contempo trasversali ai fini di un’educazione mediale attiva. – Le immagini fisse e in movimento digitali e analogiche. Al fine di agire con la massima consapevolezza nell’azione educativa mediale non è possibile non conoscere, anche solo sommariamente, le differenze tra i diversi sistemi televisivi (Pal, Ntsc, Secam), il numero di fotogrammi al secondo con cui riprendono (25/30/24), le modalità di ripresa (interlacciate, progressive), la differenza della definizione dell’immagine in linee televisive analogiche o pixel digitali, le diverse grandezze/dimensioni di queste ultime. Si tratta di altre conoscenze, ‘mattoncini’ fondamentali, che consentono di acquisire una competenza tecnologico-mediale di base al fine di non perdersi, sia da un punto di vista fruitivo quanto da un punto di vista realizzativo, negli attuali flussi digitali della comunicazione mediale e della convergenza tecnologica. Si tratta infatti di indicazioni basilari che si raccordano consequenzialmente alla conoscenza/gestione organizzativo-realizzativa delle attrezzature (tanto digitali quanto analogiche), sia alle differenti forme mediali espressive (l’audiovisivo di animazione, per esempio). – La compressione digitale degli audiovisivi. Sulla base delle conoscenze sviluppate in precedenza diventa di seguito tanto consequenziale quanto necessario affrontare il possibile dimensionamento dei testi mediali, in termini di ‘misura quantitativa informatica’, in funzione degli obiettivi comunicativi posti. Le variabili dei codec per le immagini fisse, per quelle in movimento, per le tracce audio, la grandezza delle immagini in termini di pixel e il loro possibile ridimensionamento funzionale, la quantità di informazioni grafiche di queste ultime per pollice (DPI) in relazione alla alla modalità comunicativa posta, la possibilità di elidere fotogrammi senza compromettere la fluidità del movimento e la chiarezza dell’audio, le possibili limitazioni del bit rate audio e video in relazione alla qualità finale necessaria, sono tutte azioni alla base della ‘convergenza tecnologica’ che oggi e già da tempo devono essere necessariamente conosciute per poter sostenere, supportare, e coordinare, almeno con un minimo di reale consapevolezza procedurale, qualsiasi processo di educazione mediale attiva. – La macchina fotografica digitale. Con la macchina fotografica si passa ad esaminare gli strumenti per la ripresa mediale. Si tratta di una disamina anche ap-

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profondita dello strumento principale che permette di realizzare immagini fotografiche. Molteplici sono le funzioni/opzioni tecniche affrontate12 anche nell’ottica di fare emergere un maggiore grado di consapevolezza relativamente alla ricorsività di alcune di queste che si ritroveranno poi anche nelle successive strumentazioni tecniche oggetto di approfondimento. Evidenziare le connessioni e le differenze con il suo predecessore analogico consente di trattare diverse ‘problematiche chiave’ (ad esempio l’illuminazione o le differenti tipologie di obiettivi), sostanziare il senso operativo e culturale del riconoscimento delle varianti e delle invarianti tecnologiche, e ancorare ulteriormente le componenti anche procedurali del costrutto della ‘convergenza tecnologica’ (per esempio la possibile digitalizzazione attraverso scanner di fotografie impressionate e sviluppate su pellicola –sia come negativo che in positivo- o già stampate, oppure la possibilità di utilizzare direttamente le immagini fotografiche opportunamente dimensionate in testi video-filmici di ogni genere). In questo ambito non può essere certo tralasciata l’ibridizzazione contemporanea delle varie strumentazioni tecniche digitali di ripresa e le correlate problematiche operative che questo comporta. Già da diversi anni le macchine fotografiche digitali sono in grado di registrare video, come peraltro gli smartphone o i tablet, in quanto travestimenti del metamedium computer, sono anche in grado di scattare immagini fisse o di effettuare riprese di immagini in movimento, ma questa possibile estensione comporta diversi problemi di stabilità che mettono nuovamente in risalto il valore funzionale, che ha imprescindibili ricadute espressive, del cavalletto munito o meno di testa fluida e di tutti quegli strumenti atti a stabilizzare la ripresa. – I microfoni. Per effettuare una consapevole e buona ripresa dell’audio, anche quando si utilizza una telecamera, è fondamentale conoscere l’articolata tipologia di microfoni esistenti nella loro risposta sonora. La loro varietà corrisponde al risultato evolutivo tecnologico conseguente alla necessità di soddisfare la registrazione in molteplici condizioni ambientali e alla necessità di ottenere determinati risultati espressivi sonori. Si tratta di un ambito di approfondimento che sottende l’azione con i media del linguaggio verbo-sonoro e dell’audiovisivo sia statico che cinetico. Nella nostra esperienza didattica questo è uno dei passaggi più critici e in cui gli studenti negli anni hanno dimostrato meno conoscenze e competenze preacquisite. – Il registratore audio. L’articolata storia della registrazione sonora e delle varie strumentazioni tecniche che si sono succedute nel tempo conduce alla contemporaneità della registrazione audio digitale. Segue una disamina di molte differenti attrezzature che sono oggi a nostra disposizione per questo tipo di registrazione che è alla base della possibilità di realizzare testi mediali verbosonori e tracce audio per video-film o storytelling digitali (‘diatape digitali’): registratori digitali di varia tipologia, smartphone e tablet utilizzati grazie ai relativi software (applicazioni) come registratori sonori anche in abbinamento a microfoni aggiuntivi, diretta registrazione su computer portatile o fisso.

12 Non è certo questo contributo lo spazio consono per l’elencazione e l’approfondimento delle numerose funzioni/opzioni delle varie fondamentali strumentazioni tecniche necessariamente poste alla base del fare mediale. In questo ambito ci limiteremo a delineare i tratti didattici basilari in grado di evidenziare l’orientamento formativo generale del modulo nel suo insieme.

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Quest’ambito di approfondimento è anche l’occasione per far scaricare e installare il software open source di editing audio ‘Audacity’ e sollecitare delle prove di registrazione diretta da parte degli studenti. – La telecamera digitale. L’attuale telecamera digitale nei diversi formati e supporti con cui oggi registra le immagini in movimento viene introdotta in tutte le sue principali parti/funzioni operative. Funzioni che in gran parte sono peraltro ritrovabili anche nei precedenti modelli analogici. Anche in questo caso, e per le stesse motivazioni indicate in precedenza, viene messa in evidenza sia l’evoluzione storica di questa tecnologia quanto alcuni possibili raccordi con le cineprese che utilizzavano la pellicola come supporto di registrazione. – Dei linguaggi mediali. I linguaggi dei media vengono presentati nella loro struttura semiotica compiuta e quindi dimensionati sul piano sintattico, su quello semantico e su quello pragmatico (Morris, 1938). Ogni linguaggio mediale viene distintamente correlato alla propria specifica dimensione comunicativa, al proprio medium di riferimento. I media stessi a loro volta, in correlazione al discorso integrato sui linguaggi mediali, vengono tassonomicamente presentati attraverso le loro specifiche componenti tecnologiche di processo (funzioni) e di prodotto (struttura) (Galliani, 1993). Di ogni linguaggio viene anche proposta la sua derivazione storica e le principali modalità di evoluzione e di raggiungimento della propria definizione codicale oltre alla tipologia di segni che utilizza. Ciò che chiaramente emerge è il valore del piano sintattico dei linguaggi mediali come sostanziale invariante di base, fondamentale, crediamo, ai fini del fare mediale che comprende anche la ‘lettura’ dei testi mediali. – I codici del piano comunicativo sintattico dei distinti linguaggi mediali. La composizione codicale dei piani sintattici dei distinti linguaggi mediali viene messa in evidenza a partire da quello strutturato con una minore varietà di codici a manifestazione unica, multipla e universale (Metz, 1971), fino a quello che ne utilizza di più. Si procede quindi dal linguaggio mediale codicalmente meno articolato a quello più articolato, segnalando costantemente l’eventuale ricorsività trasversale dei codici delineati nei diversi linguaggi mediali, e al contempo la tipologia del materiale segnico di cui sono potenzialemente composti. Per questo motivo la sequenza che ne deriva è la seguente: il linguaggio fotografico, quello verbo-visivo, quello verbo-sonoro, quello audiovisivo cinetico che comprende anche le forme video-filmiche di animazione. Con il linguaggio fotografico vengono indagati i codici delle immagini statiche (inquadrature, profondità di campo, angoli di ripresa, punto di vista, distribuzione della luce, relazione figura/sfondo attraverso la messa a fuoco, la regola dei terzi). Grazie alla dimensione del linguaggio verbo-visivo, in aggiunta ai codici relativi alla fotografia, possono essere approfondite le figure retoriche del discorso verbale trasposte a quello visivo. Il linguaggio verbo-sonoro consente di rilevare oltre alla dimensione del suono (intensità, timbro, altezza), le inquadrature sonore, l’effetto del movimento, il montaggio interno all’inquadratura sonora e quello in relazione al tempo tra diverse inquadrature sonore, l’inscindibilità segnica della musica e del rumore in rapporto alla voce e le conseguenti modalità/funzioni del sincronismo parallelo e dell’asincronismo parallelo, il concetto di scena e quello di sequenza radiofonica. Infine quello audiovisivo cinetico ripropone i codici delle immagini statiche aggiungendo quelli specifici delle immagini in movimento a manifestazione unica – movimenti di macchina –. A questi si aggiungono il concetto di scena e di sequenza video-filmica, i codici del montaggio delle immagini in movimento e quelli, parzialmente ricorrenti nel linguaggio verbo-sonoro, di significazione del registro sonoro.

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Conclusioni Il metamedium computer collegato alla rete internet nel suo incessante e veloce divenire, nelle metamorfosi continue di sembianze che assume, nelle dinamiche operative interattive e ipermediali che permette, nelle molteplici riflessioni che induce su di sè per la sua importanza e ormai costante presenza nella nostra vita sociale, sembra indurci a considerare nuovi paradigmi comunicativi non sempre così linearmente spiegabili con gli assunti teorici messi a punto per i cosiddetti old media. Peraltro questi media, anche attraverso i molteplici ‘travestimenti tecnologici’ del metamedium, continuano ad esistere attivamente nella nostra contemporaneità. Sul piano sintattico dei distinti linguaggi mediali però, anche se agiti con strumentazioni tecniche digitali che consentono in aggiunta le operazioni fruitive ed espressive della multimedialità interattiva, e nella prospettiva di una educazione mediale sistemica e realmente integrata nelle dimensioni della ‘scrittura’ e della ‘lettura’, della relazione tra tecnologie e correlati processi creativoespressivi, interpretativo-critici, di funzionalizzazione didattico-formativa, la loro specificità codicale di base e al contempo la necessaria dimensione tecnologica dei diversi media, non solo dovrebbero essere didatticamente sostenute e osservate, ma anche inizialmente rigorosamente esperite. È un percorso necessario in quanto permette di acquisire gli elementi di base nella prospettiva di una maggiore completa conoscenza dei media, delle loro dinamiche comunicative e delle loro valenze socio-educative, e quindi anche di una effettiva appropriazione della odierna cultura digitale. Per questo riteniamo questo modulo didattico trasversale per l’educazione mediale una buona pratica convenientemente replicabile in altri contesti formativi e in grado di risultare particolarmente efficiente ed efficace in relazione agli obiettivi formativi per cui è stato progettato/testato.

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