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Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno VI numero 10 Giugno 2013


Direttore / Editor in chief LUCIANO GALLIANI - Università degli Studi di Padova Condirettore / Co-editor PIETRO LUCISANO - Sapienza Università di Roma Comitato Scientifico / Editorial Board ROBERTA CARDARELLO - Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA - Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE - Université Catholique de Leuvain MARIA LUCIA GIOVANNINI - Alma Mater Studiorum – Università di Bologna ALESSANDRA LA MARCA - Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI - Università degli Studi di Roma Tre ELISABETTA NIGRIS - Università degli Studi di Milano Bicocca ACHILLE M. NOTTI - Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV - City University of Moscow RENATA VIGANÒ - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Comitato editoriale / Editorial management ANNA SERBATI - Università degli Studi di Padova MARIA CINQUE - Università degli Studi di Palermo ROSA VEGLIANTE - Università degli Studi di Salerno Note per gli Autori I contributi, in format MS Word, devono essere inviati all’indirizzo email del Comitato Editoriale: editor.sird@gmail.com Ulteriori informazioni per l’invio dei contributi sono reperibili nel sito www.sird.it Notes to the Authors Submissions have to be sent, as Ms Word files, to the email address of the Editorial Management: editor.sird@gmail.com Further information about submission can be found at www.sird.it Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010

Finito di stampare: giugno 2013 Abbonamenti/Subscription Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze • Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Progetto grafico copertina Valentina Sansò


Obiettivi e finalità Il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, organo ufficiale della Società Italiana di Ricerca Didattica, è dedicato alle metodologie della ricerca educativa e alla ricerca valutativa in educazione. Le aree di ricerca riguardano: lo sviluppo dei curricoli, la formazione degli insegnanti, l’istruzione scolastica, universitaria e professionale, l’organizzazione e progettazione didattica, le tecnologie educative e l’e-learning, le didattiche disciplinari, la didattica per l’educazione inclusiva, le metodologie per la formazione continua, la docimologia, la valutazione e la certificazione delle competenze, la valutazione dei processi formativi, la valutazione e qualità dei sistemi formativi. La rivista è rivolta a ricercatori, educatori, formatori e insegnanti; pubblica lavori di ricerca empirica originali, casi studio ed esperienze, studi critici e sistematici, insieme ad editoriali e brevi report relativi ai recenti sviluppi nei settori. L’obiettivo è diffondere la cultura scientifica e metodologica, incoraggiare il dibattito e stimolare nuova ricerca. Aims and scopes The Italian Journal of Educational Research, promoted by the Italian Society of Educational Research, is devoted to Methodologies of Educational Research and Evaluation Research in Education. Research fields refer to: curriculum development, teacher training, school education, higher education and vocational education and training, instructional management and design, educational technology and e-learning, subject teaching, inclusive education, lifelong learning methodologies, competences evaluation and certification, docimology, students assessment, school evaluation, teacher appraisal, system evaluation and quality. The journal serves the interest of researchers, educators, trainers and teachers, and publishes original empirical research works, case studies, systematic and critical reviews, along with editorials and brief reports, covering recent developments in the field. The journal aims are to share the scientific and methodological culture, to encourage debate and to stimulate new research. Comitato di referaggio Il Comitato di Revisori include studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore e il condirettore della rivista. Referees Committee The referees committee includes well-respected Italian and foreign researchers. The referral process is under the responsability of the Journal’s Editor in Chief and Co-Editor. Procedura di referaggio Il Direttore e Condirettore ricevono gli articoli e li forniscono in forma anonima a due revisori anonimi, tramite l’uso di un’area riservata nel sito della SIRD (www.sird.it), i quali compilano la scheda di valutazione direttamente via web entro i termini stabiliti. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori esprimono un parere positivo. I giudizi dei revisori sono comunicati agli Autori, assieme a indicazioni per l’eventuale revisione, con richiesta di apportare i cambiamenti indicati. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non sono pubblicati. Referral process Editor in chief and co-editor collect the papers and make them available anonymously to two anonymous referees, using a reserved area on the SIRD website (www.sird.it), who are able to fulfill the evaluation grid on the web before the deadline. Only articles for which both referees express a positive judgment are accepted. The referees evaluations are communicated to the authors, including guidelines for eventual changes with request to adjust their submissions according to the referees suggestions. http://perleggere.pensamultimedia.it/it/board-editorialeArticles not modified in accordance with the referees guidelines are not accepted.


INDICE Editoriale 9

Manifesto per la ricerca educativa e l’innovazione didattica Manifesto for Educational Research and Theaching Innovation

Ricerche 14 31 46

RENZA CERRI, VALENTINA GENTA, ANDREA TRAVERSO La cultura al centro. Quale rapporto tra scuola ed eventi culturali? Culture at the core. What relationship between school and cultural events? KARIN BAGNATO Aggressività e intelligenza emotiva: quale relazione? Aggressiveness and emotional intelligence: what relationship? CRISTIANO CORSINI La validità di contenuto delle prove INVALSI di comprensione della lettura Content Validity of INVALSI Reading Comprehension Tests

Esperienze 62

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ANNA MARIA CIRACI Ruolo dell’e-learning nella formazione degli adulti. Percezione dell’esperienza universitaria da parte di immatricolate over 35 E-learning and adult education. The university experience perceived by female students older than 35 LOREDANA LA VECCHIA, GIOVANNI GANINO Tutti pazzi per Wittgenstein! Insegnare filosofia on-line superando pratiche riduttive dell’e-learning All crazy about Wittgenstein! Teaching philosophy on-line overcoming reductive e-learning practices DONATELLA POLIANDRI, PAOLA MUZZIOLI, ISABELLA QUADRELLI, SARA ROMITI Valutare per migliorare: un’esperienza da cui partire Assess to get better: an experience


Studi 107 115 127 142

VLADIMIR KOVROV, ANNA ANTONOVA Safety of educational environment: psychological and pedagogical aspects Sicurezza dell’ambiente educativo: aspetti psicologici e pedagogici DANIELA FRISON University-Business Dialogue: quali implicazioni nella ricerca pedagogica e didattica? University-Business Dialogue: what the possible results on education and learning research? MIGUEL ANGEL ZABALZA BERAZA El practicum en la formación universitaria The practicum in higher education ANNAMARIA CURATOLA Il mediatore turistico, per un turismo di qualità The touristic agent, for a qualitative tourism


hanno collaborato •

RENZA CERRI Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Genova, renza.cerri@unige.it • VALENTINA GENTA Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Genova, valentina.genta@unige.it • ANDREA TRAVERSO Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Genova, a.traverso@unige.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • KARIN BAGNATO Dipartimento di Scienze Cognitive della Formazione e degli Studi Culturali, Università di Messina kbagnato@unime.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • CRISTIANO CORSINI Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Catania, cristiano.corsini@unict.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • ANNA MARIA CIRACI Dipartimento di Scienze della Formazione, Università “Roma Tre”, annamaria.ciraci@uniroma3.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • LOREDANA LA VECCHIA Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli studi di Ferrara, loredana.la.vecchia@unife.it • GIOVANNI GANINO Dipartimento di Studi Umanistici, Università degli studi di Ferrara, giovanni.ganino@unife.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • DONATELLA POLIANDRI INVALSI, Donatella.Poliandri@Invalsi.It • PAOLA MUZZIOLI INVALSI, Paola.Muzzioli@Invalsi.It • ISABELLA QUADRELLI INVALSI, Isabella.Quadrelli@Invalsi.It • SARA ROMITI INVALSI, sara.romiti@invalsi.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • VLADIMIR KOVROV Moscow City Psychological-Pedagogical University, lev23@list.ru • ANTONOVA ANNA psychologist of Moscow State School n. 929, annantonova@gmail.com –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • DANIELA FRISON Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata, Università di Padova daniela.frison@unipd.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • MIGUEL ANGEL ZABALZA BERAZA Facultad de Ciencias de la Educación, Universidad de Santiago de Compostela, miguel.zabalza@usc.es –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • ANNAMARIA CURATOLA, Dipartimento di Scienze Umane e Sociali, Università di Messina curatola@unime.it


Editoriale MANIFESTO PER LA RICERCA EDUCATIVA E L’INNOVAZIONE DIDATTICA MANIFESTO FOR EDUCATIONAL RESEARCH AND THEACHING INNOVATION LE CONDIZIONI Scopo di una società scientifica è costruire conoscenza nel suo settore di studio. La SIRD, società scientifica che associa docenti universitari ed esperti che svolgono ricerche in campo educativo e didattico, non può esimersi da una rigorosa analisi dei suoi compiti e responsabilità. Il nostro campo d’indagine (11/D2: “Methodologies of Teaching and Educational Research”) è di rilievo nella knowledge society: sembra condivisa la tesi che l’educazione svolga un ruolo fondamentale nella costruzione e nella manutenzione della conoscenza in ogni ambito dell’esperienza umana. Vent’anni di lavoro scientifico, originato dalla necessità di delineare un campo autonomo della ricerca didattica di natura empirica e sperimentale, sono un periodo di tempo assolutamente breve. Abbiamo riflettuto, in un convegno del 2010, sulle linee di ricerca seguite a livello nazionale e locale, mettendo in rilievo il lavoro svolto dai gruppi e dai singoli soci. Sarebbe però eludere un dato di realtà non considerare che, a fronte delle cogenti responsabilità, la ricerca educativa e didattica continua a essere debole. I motivi sono individuabili sia in fattori esterni sistematici o congiunturali sia – e nondimeno – nell’oggettiva difficoltà di sviluppare collaborazione efficace e risultati autorevoli, riconoscibili da interlocutori esterni alla nostra comunità scientifica. È necessario che, in un momento di difficoltà quale quello che il nostro paese sta vivendo, si intensifichi l’impegno di ciascuno di noi al rigore nella selezione e nella formazione dei giovani, all’attenzione alla dimensione interdisciplinare della nostra ricerca, al confronto internazionale, alla dimensione empirica e sperimentale della ricerca. In sintesi, all’autorevolezza oggettiva e riconoscibile del nostro lavoro e dei nostri risultati, per essere interlocutori appunto autorevoli e riconosciuti. La SIRD è consapevole di essere solo una componente della comunità scientifica pedagogica che opera nel campo dell’educazione; accanto a tale comunità scientifica, vanno considerati poi come interlocutori i docenti di altre aree scientifiche, gli insegnanti della scuola e della formazione professionale, gli educatori, i formatori e tutti coloro che nel territorio operano e hanno responsabilità in campo educativo e formativo. È inevitabile che la ricerca educativa risenta in modo rilevante del contesto socio economico e culturale della realtà in cui si sviluppa. In particolare negli anni recenti, abbiamo assistito – forse non senza la responsabilità di aver subito contrastato nei fatti più che nelle dichiarazioni tale tendenza – ad una costante messa in questione del mondo dell’educazione e delle competenze educative. Scuola, università, mondi educativi extrascolastici sono stati oggetto di un processo di delegittimazione o in ogni caso di forte erosione della reputazione, talvolta da parte di coloro che non avevano, potendolo, messo a disposizione del sistema formativo le risorse necessarie per conseguire i risultati attesi. Nella scuola e nell’università è stata attuata una politica di cambiamenti continui, che ha

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impedito di verificare in modo corretto gli effetti di questi interventi e di ricavare le informazioni necessarie per impostare azioni educative e didattiche di miglioramento sulla base di evidenze, come sarebbe stato necessario. In questo contesto si è incrinato il rapporto tra ricerca scientifica, mondo della scuola e istituzioni che ha accompagnato per anni l’evoluzione del sistema formativo del nostro paese e che ha fatto sì che la scuola italiana fosse, sia pur in un contesto difficile, considerata per alcuni aspetti un punto di riferimento anche nel quadro internazionale*. LE EMERGENZE La prima emergenza educativa è relativa al fatto che l’educazione richiede fiducia: fiducia nei bambini e nei giovani, fiducia negli operatori e negli insegnanti, fiducia nella ricerca e ancora fiducia nelle istituzioni che governano e nel funzionamento corretto del sistema sociale e economico del paese. Questa fiducia oggi appare incrinata, e il danno che questa situazione costituisce condiziona negativamente ogni azione educativa. Il tentativo di sostituire a un patto di fiducia meccanismi di controllo, premi e punizioni, è sempre risultato inefficace. Il danno di un modello economico e sociale incapace di dare speranza e prospettive lede la motivazione. Una comunità educativa può crescere solo con una forte motivazione capace di integrare, aiutare, costruire una rete e valorizzare ciascuno secondo le sue capacità, sia esso bambino, giovane, insegnante o ricercatore. Fiducia vuol dire ascolto, non c’è formazione e ricerca educativa senza un attento ascolto degli insegnanti e degli allievi, delle famiglie e delle comunità sociali. La seconda emergenza educativa rimanda alla centralità dei luoghi formativi. Nidi, scuole dell’infanzia, scuole elementari, medie e superiori, università, dottorati rischiano di essere letti solo come luoghi di acquisizione di abilità spendibili nel mondo del lavoro senza considerare l’importanza della formazione della persona, del cittadino, la funzione di integrazione sociale e di orientamento. Le esperienze che hanno reso il sistema formativo italiano

* Quando, all’inizio degli anni Novanta, il Ministro Ruberti incaricò una commissione di oltre 40 esperti presieduta dal prof.Visalberghi di esaminare i punti di forza e di debolezza del sistema della ricerca educativa nel nostro paese emersero una serie di criticità e di proposte che non sono state raccolte e la situazione presente è il risultato di oltre 20 anni di ritardo nel considerare la necessità di dotare la comunità scientifica degli strumenti necessari per poter operare in raccordo con le realtà educative del paese. Dalla Commissione Ruberti emergeva con chiarezza il problema di una comunità scientifica attiva, ma numericamente ridotta nel confronto con gli altri paesi europei. In questi ultimi anni i numeri, dopo un decennio di crescita, sono andati progressivamente diminuendo fino alla possibilità di crisi di dimensioni tali da ridurre la ricerca educativa a un ruolo assolutamente marginale. Le decisioni assunte sono andate spesso in senso opposto a quanto auspicato: si è assistito ad una riduzione degli spazi e delle risorse destinate all’ istruzione scolastica e universitaria e alla ricerca educativa. L’INVALSI, che avrebbe dovuto assumere il ruolo di Istituto autonomo per la valutazione, è stato trasformato in ente strumentale del Ministero senza alcuna autonomia sul piano scientifico. Le poche risorse per la ricerca sono state affidate a soggetti esterni alla comunità scientifica, più attenti ad accontentare il committente che a indicare i rimedi necessari ai problemi emersi. Anche dei risultati di importanti indagini internazionali è stata fatta una lettura riduttiva con il rischio di pensare che i problemi possano essere risolti insegnando agli studenti a rispondere ai test invece di insegnare loro le capacità critiche necessarie per affrontarli. Nella dirigenza dell’ANVUR, che ha avviato un difficile lavoro nella valutazione della didattica e della ricerca universitaria, e del CUN i pedagogisti non hanno avuto rappresentanza e ciò si riverbera, prima ancora che nella distribuzione delle risorse per la ricerca, nei metodi e nelle procedure adottate nella valutazione di prodotto, di processo e di sistema.

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all’avanguardia nel panorama internazionale sono legate anche alla formazione umanistica e umana, alla capacità di integrare i disabili, alla capacità di recuperare larghe fasce della popolazione con retroterra fortemente svantaggiati. Ridurre il ruolo della scuola alla certificazione delle competenze, così come si tende a fare attualmente, rischia di perdere il patrimonio della nostra esperienza senza peraltro integrarlo con ciò che ad essa manca, che è il consolidamento della formazione scientifica. Allo stesso modo ridurre il ruolo dell’università alla trasmissione di skills immediatamente spendibili nel lavoro, rischia la non connessione tra insegnamento e ricerca, che sola può educare i giovani a cimentarsi con la produzione scientifica, stimolandoli a mettere in gioco non tanto capacità ricettive, ma critiche e creative. La terza emergenza riguarda il perseguimento coerente di una strategia per la formazione iniziale e in servizio degli insegnanti della scuola secondaria. Dopo un lunghissimo periodo di assenza di qualsiasi formazione all’insegnamento, si è avviata nel 1998 e consolidata la laurea abilitante, oggi quinquennale, per gli insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria, anche e principalmente grazie al lavoro svolto dalle Facoltà di Scienze della Formazione e dalle nostre società scientifiche. Si è invece interrotta dopo un decennio l’esperienza sicuramente migliorabile ma non certo priva di aspetti positivi delle SSIS e siamo entrati in una fase di provvedimenti confusi tra regime provvisorio e applicazione del nuovo regolamento incentrato sul Tirocinio Formativo Attivo, dai quali ad oggi non emerge una chiara strategia per realizzare una formazione qualificante e professionalizzante per gli insegnanti. È necessario ripensare il percorso complessivo (laurea magistrale , TFA abilitante, reclutamento) e realizzare un iter formativo istituzionale rispondente alle inderogabili necessità del sistema di istruzione e formazione del nostro Paese e all’altezza delle sfide educative e di sviluppo a livello nazionale e globale, le cui strutture e i cui costi non possono essere solo a carico delle università e degli utenti. La quarta emergenza – innescata dalla pervasività temporale e spaziale delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione e di Internet nelle esperienze di studio, di lavoro e di vita di ogni persona – riguarda l’innovazione dei mediatori culturali e didattici. È un passaggio da modelli formativi trasmissivi di saperi organizzati a modelli costruttivi di conoscenza partecipata, che sta mettendo in crisi anche le prime esperienze di e-learning. Multimedialità dei linguaggi, interattività degli strumenti mobile, virtualità delle relazioni richiedono ad educatori e insegnanti nuove capacità di integrazione di competenze (didattiche, disciplinari, digitali) e di contesti di apprendimento (formali, non formali, informali), anche per accompagnare ragazzi e giovani ad un uso critico e consapevole dei media tecnologici. Sapendo bene che le dizioni di moda come “Scuola digitale”, “Classi 2.0”, “Università telematica” ed altre simili (“Un tablet per ogni alunno”), rischiano di far ritenere che l’innovazione stia nelle dotazioni tecniche e strumentali e non nei metodi di insegnamento per migliorare l’apprendimento, in una adeguata riflessione sulla coerenza tra mezzi e fini educativi, in un controllo scientifico dei progetti e dei risultati. La quinta emergenza riguarda l’apprendimento permanente, diventato principio ispiratore dei processi di riforma e degli indirizzi politici definiti a livello europeo, sempre firmati dei nostri ministri, ma che solo recentemente con la legge 92 del 28 giugno 2012 sulla riforma del lavoro è diventato compito istituzionale della scuola e dell’università. La formazione degli adulti, anche attraverso la validazione, il riconoscimento e la certificazione delle competenze acquisite in contesti non formali e informali, dovrà rinnovarsi profondamente personalizzando i curricoli formali e usando tecnologie didattiche. Al fine di favorire politiche di sviluppo di lifelong learning è importante ottimizzare l’uso di risorse finanziarie e umane, di metodologie e infrastrutture esistenti, rendendo operativa l’integrazione sistemica tra istruzione-formazione-lavoro, attraverso una cooperazione esplicita di tutti gli attori istitu-

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zionali (Scuola, Formazione Professionale, Università, Regioni, Ministeri, anche nelle loro articolazioni territoriali) e sociali (Parti sociali, Associazioni professionali, Imprese,Volontariato). La sesta emergenza riguarda la necessità che un sistema formativo così esteso possa contare su un numero adeguato di ricercatori impegnati a sostenere e a far progredire il sistema stesso. Sono necessarie nuove risorse in termini di professori, ricercatori, dottori di ricerca, assegnisti di ricerca, adeguatamente preparati e rigorosamente selezionati, senza i quali gli impegni assunti di fronte alla Comunità Europea non potranno essere mantenuti. Lo stesso Ministero nel suo lavoro ha dovuto prendere atto del fatto che la mancanza di preparazione del personale in tematiche di ricerca educativa, docimologia, costruzione di strumenti di valutazione, ha portato a incidenti di percorso che rischiano di incrinare la fiducia non solo negli istituti stessi, ma nel contributo che la ricerca può fornire al lavoro educativo. È necessario che si sviluppi un sistema della ricerca educativa che veda una forte collaborazione tra università, scuole e istituzioni nazionali. In carenza di risorse esiste un forte rischio che la ricerca educativa si indirizzi solo in quei pochi settori in cui esistono risorse e perda di vista gli aspetti fondamentali della relazione educativa e dei processi di apprendimento e di formazione della persona. Un aspetto particolare di questo problema riguarda la valutazione, che possiamo ritenere come vera e propria emergenza (la settima, nel nostro ragionare). La ricerca didattica e in particolare la docimologia ha contribuito alla introduzione di questa tematica che oggi sembra essere assunta come decisiva in tutte le dimensioni della vita sociale. L’esperienza maturata da oltre cinquant’anni di ricerca ci ha aiutato a maturare la convinzione che sia necessario un grande rigore metodologico e che sia indispensabile anche avere sempre presente, accanto alla necessità di disporre di misure e di indicatori, di comprendere il senso dei limiti che queste procedure hanno anche quando vengono condotte con grande professionalità. Per questo ribadiamo la necessità che la valutazione dei sistemi formativi sia condotta da organismi autonomi, indipendenti dai sistemi di governo, guidati da ricercatori di provata esperienza specifica, in grado di verificare non solo punti di forza e limiti degli esiti del sistema formativo, ma anche punti di forza e limiti delle politiche formative nazionali e comunitarie. La ottava emergenza riguarda la precarietà delle professioni educative. Una recente ricerca ha mostrato che le professioni educative risultano quelle esposte ai livelli più alti di precarietà tra i laureati e questo appare particolarmente grave quando queste forme di rapporto professionale vengono esercitate prevalentemente da istituzioni pubbliche. Questo problema è presente in tutte le professioni educative: nidi, scuole, università, servizi educativi. In particolare il caso dei precari “storici” su cui si è retta la scuola italiana negli ultimi vent’anni ha raggiunto dimensioni non più sostenibili, sia per gli effetti sulla qualità dei processi di insegnamento e dei risultati di apprendimento sia per la dignità delle persone e il merito di professionisti chiamati a formare i cittadini del futuro. La ricerca educativa ha da tempo mostrato che la continuità delle figure di riferimento costituisce un valore importante ai fini di ottenere buoni risultati; senza continuità non c’è buona programmazione e possibilità di fare tesoro delle esperienze. La precarietà inoltre delegittima l’educatore nei confronti degli allievi e delle famiglie, attenuandone l’efficacia educativa.

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A fronte di queste emergenze la SIRD ribadisce il suo impegno a consolidare e rafforzare il lavoro della comunità scientifica PROMUOVENDO Ñ lo sviluppo della ricerca e la riflessione scientifica sulle metodologie e le tecniche della ricerca educativa e didattica, principalmente di natura empirica e sperimentale; Ñ il confronto e la discussione sui temi dell’insegnamento e della formazione; Ñ l’integrazione delle tecnologie educative nei processi di apprendimento- insegnamento; Ñ il consolidamento e il raccordo delle scuole dottorali; Ñ la maggiore qualificazione delle riviste e delle collane editoriali; Ñ la costituzione di una scuola nazionale di alta formazione per i ricercatori in campo educativo e formativo; Ñ il raccordo con le società scientifiche internazionali e una più efficace riorganizzazione delle società scientifiche di ambito pedagogico, che superi la attuale frammentazione; Ñ la promozione di progetti di ricerca strategici che comportino la collaborazione tra le diverse risorse e competenze presenti nei nostri Dipartimenti e Atenei; Ñ il confronto e la collaborazione con i colleghi docenti impegnati nell’approfondimento delle specifiche didattiche disciplinari; Ñ un confronto sistematico con gli insegnanti, i docenti i dirigenti, gli operatori impegnati nei settori dell’educazione, dell’orientamento, della formazione professionale e aziendale. INCENTIVANDO Ñ un uso appropriato e rigoroso dei metodi qualitativi e quantitativi e delle tecniche di misura e dei nei processi di valutazione di tutto ciò che attiene l’insegnamento, l’educazione, la formazione, l’orientamento e la programmazione, sia nella scuola che nell’extrascuola e nell’università; Ñ la produzione e il collaudo di materiali didattici, anche multimediali, e di strumenti per la comunicazione educativa; lo sviluppo e il perfezionamento dei metodi, delle tecniche e delle procedure organizzative per l’apprendimento on line; le indagini sulla più corretta ed efficace utilizzazione degli strumenti telematici applicati all’insegnamento e all’educazione. CONTRIBUENDO Ñ al dibattito sulle riforme della scuola e del sistema formativo nazionale, sulla qualità dell’insegnamento, sulla formazione iniziale e continua degli insegnanti, sugli sviluppi dell’università e sui grandi temi della politica scolastica e universitaria in Italia e in Europa; Ñ alla costruzione di proposte, basate sui risultati della ricerca scientifica, ai diversi livelli istituzionali, che decidono sulle politiche educative del nostro paese.

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Ricerche La cultura al centro. Quale rapporto tra scuola ed eventi culturali? Culture at the core. What relationship between school and cultural events? RENZA CERRI • VALENTINA GENTA • ANDREA TRAVERSO* L’articolo presenta una ricerca didattica che ha analizzato i rapporti tra la scuola e gli eventi culturali e la relazione tra gli apprendimenti formali e quelli informali. Attraverso la somministrazione di strumenti quali-quantitativi ci si è interrogati su come la scuola costruisca la sua relazione con gli eventi e i beni culturali e su come riesca ad accogliere le esperienze culturali degli allievi facendole diventare luogo di rielaborazione e spazio di connessione culturale. La ricerca ha evidenziato il ruolo del progetto educativo per trovare negli eventi culturali una nuova linfa di attualità, lo sfondo culturale dei quotidiani accadimenti. L’insegnante che progetta decide come agire consapevolmente con gli eventi culturali e con il territorio. La natura istituzionale della scuola sarà l’anello di congiunzione tra la casualità e l’imprevedibilità e la progettazione lineare ed ordinata.

The article presents an educational research That Analyzed the relationship between the school and the cultural events and the relationship between the formal and the informal learning.With qualitative tools and quantitative tools we asked how the school builds the relationship with cultural events and cultural heritage. Cultural experiences of the students become the place of reflection and space of cultural connection. Research has found the role of the educational project to find a new life in the cultural events of the day and the cultural background of the events.The teacher designs the conscious action with cultural events and with the territory.

Parole chiave: didattica, evento culturale, progettazione, scuola, cultura

Key words: teaching, cultural event, educational design, school, culture, education

* Renza Cerri ha scritto il paragrafo 1,Valentina Genta il paragrafo 4 e Andrea Traverso i paragrafi 2 e 3.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 10 / GIUGNO • 2013

La cultura al centro. Quale rapporto tra scuola ed eventi culturali?

1. Introduzione e fondamenti teorici Se l’interazione scuola – cultura è questione riconosciuta, anche storicamente, sia in prospettiva di analisi sociale sia secondo un’ottica educativa, l’introduzione nella letteratura pedagogica della locuzione “evento culturale” non è altrettanto chiara e consolidata. Due esemplificazioni distinte per ambito disciplinare: Durkheim agli inizi del Novecento descrive l’istituzione scolastica come il luogo della trasmissione culturale tra generazioni, come tale costitutiva della società in cui si situa; con sguardo pedagogico De Giacinto (1999, p.158) descrive la didattica come sapere scientifico (“dominio culturale”) che ha il compito precipuo di “elaborare la trasmissione della cultura” per generare e sostenere la capacità e l’esercizio del pensiero. A quale cultura si fa riferimento? In senso lato e con giustificazione teorica all’espressione della vita spirituale e materiale di una comunità umana, in pratica, spesso, al corpus di saperi strutturati e organizzati secondo logiche disciplinari con l’accento sulla dimensione trasmissiva delle conoscenze piuttosto che su quella generativa della cultura. Desumiamo dagli scritti di Bruner (2001) che cultura e educazione sono legati non solo da questioni di contenuto, ma da aspetti relativi alla concezione del mondo e dell’uomo abitatore e costruttore “culturale” di esso anche se non sempre ne vediamo gli esiti pratici nella scuola. Quando introduciamo il concetto di evento all’interno della riflessione didattica accettiamo di addentrarci in uno spazio che, seppure circoscritto, definito e riconoscibile, si apre all’imprevisto, alla creatività, alla scomposizione e ricomposizione di percorsi e processi, al costante gioco reciproco dell’oggettività progettata e della soggettività sorprendente. Allestire un ambiente di apprendimento significa anche saper gestire la costante dinamicità fra progetto ed evento (Cerri, 2007), assumere gli artefatti funzionali a favorire i processi apprenditivi non solo quelli appositamente “distillati”, ma il magmatico, complesso, profondo oceano della cultura umana. Non a caso Simone Weil (1949) accusava quale “male” della modernità l’istruzione, contrapponendola all’autentico accesso alla cultura inteso come fruizione personale e intimamente motivata attraverso l’ “attenzione”, tensione-verso, spazio mentale e interiore fatto libero di accogliere quanto di significativo ci viene incontro. La caratteristica della significatività è ciò che fa risaltare l’evento dallo sfondo del quotidiano. A maggior ragione quando il riferimento è all’evento culturale. In questo caso, tuttavia, l’atteggiamento mentale più comune porta a ritenere che si entri nell’ambito del cosiddetto “extrascolastico”, dell’educazione informale, i cui attori per elezione non sono gli insegnanti ma gli artisti, i comunicatori, i progettisti di eventi, appunto, lungo tracce che viaggiano in parallelo alla scuola e, per convenzione di ordine geometrico, proprio per questo rischiano di incontrarsi solo all’infinito, fuori della nostra portata contingente. È anche vero che evento culturale è diventato ormai una sorta di termine-ombrello: infatti lo strumento di indagine di cui si leggerà nelle pagine successive si avvale dell’organizzazione di una sorta di catalogo

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Renza Cerri, Valentina Genta, Andrea Traverso

di eventi culturali debitamente trascelti all’interno di più ampie catalogazioni (Argano et al., 2005) proprio per delimitare spazi ed esperienze con l’accuratezza necessaria agli obiettivi di ricerca. La domanda centrale verte su grado e livello di connessione effettiva, di integrazione, di reciproco riconoscimento tra il mondo-scuola e il mondo-eventi, tra l’esperienza scolastica dei soggetti (allievi e insegnanti) e la/e loro esperienza/e culturale/i in senso proprio. Ci sono due operazioni che per un verso accomunano, per altro pongono elementi di distinzione fra l’uno e l’altro “mondo”: la progettazione e la fruizione. L’azione didattica, comunque si configuri, è progettata: la competenza progettuale in senso pieno (che comprende anche l’agire e il valutare) è quanto contraddistingue la pratica professionale dell’insegnante. Ogni momento scolastico è quindi progettato, sia pure secondo diversi gradi di sistematicità. La stessa cogenza progettuale caratterizza la “messa in scena” di ogni evento culturale (Cerri, 2008). Il concetto di fruizione, invece, richiede chiavi di lettura più sottili: è indubbiamente applicabile all’evento culturale, nei cui confronti può assumere forme diverse, ma sempre necessariamente contraddistinte dalla partecipazione attiva, coinvolgente ed emotivamente contrassegnata per cui il significato più prossimo è “godere”. Anche nella scuola l’esperienza di apprendimento viene “fruita” dagli allievi, ma in questo caso, dati i limiti di autonomia, scelta, partecipazione personale, interesse originario che contraddistingue almeno la routine scolastica, il significato più consono è invece “trarre giovamento”. Nel primo caso la molla dell’apprendimento è interiore e gratuita, nel secondo utilitaristica e in buona parte esteriore. Osservando il rapporto “professionale” che lega l’insegnante all’evento possiamo volgere l’attenzione sia all’evento didattico sia all’evento culturale. La progettazione e la gestione di eventi didattici sono la ragion d’essere peculiare dell’insegnamento, come tale richiamano attorno a sé le competenze-chiave dell’insegnante.Tuttavia nel quadro del sistema formativo integrato (Frabboni, 1989) sempre più facilmente richiesto dalle logiche della complessità, dal prevalere dell’informale sul formale, dalla forza e diffusione di molteplici linguaggi e strumenti comunicativi e interattivi, l’insegnante non può chiudersi nei recinti della progettazione didattica intra moenia, e si trova a confrontarsi con un’offerta culturale che non è pensata per i tempi e gli spazi della scuola, ma che è spesso occasione di apprendimento e spazio esperienziale importante per i bambini, i ragazzi, i giovani. L’evento culturale, sia esso recuperato dall’offerta culturale di un territorio o di un ambito di espressione artistica ecc., sia prodotto a partire da interessi, intuizioni, elementi di creatività, suggestioni maturati all’interno dell’esperienza scolastica, è una cruciale occasione di apprendimento che coinvolge e fa incontrare alla pari studenti e insegnanti. Partecipare (con tutta l’ampiezza e profondità che il termine implica) ad un evento culturale amplia gli spazi di conoscenza, offre tracce per la scoperta, consente di “guardarsi attraverso l’evento” per conoscere le proprie emozioni, ri-conoscersi quindi, come pure recuperare attraverso esperienze coinvolgenti conoscenze fin lì poco significative. Infine apre, quasi costringe, ad una dinamica riflessiva troppo spesso assente dalla didattica tradizionale. Se poi l’evento non è solo fruito, ma progettato e prodotto, si mette in azione tutta la catena dell’apprendere ricercando, creando, facendo, riflettendo, sulla quale la ricerca di tutte le scienze sociali e dell’educazione ha indagato e generato importanti risultati a partire da Dewey, per arrivare alle contemporanee indagini sul post-costruttivismo e sull’enattivismo (Rossi, 2011). In questa prospettiva l’insegnante, ancora una volta, è sospinto a ridisegnare il suo ruolo e a riqualificare la sua professionalità. Dovrà fare i conti con la sua capacità (presente o assente, perseguita o contrastata) di progettare l’azione didattica avvalendosi di eventi culturali, nonché di divenire competente nella progettazione condivisa (con colleghi e studenti) di

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essi. In sintesi: così come progetta un evento didattico l’insegnante può e deve mettere in gioco competenze di progettista con gli eventi culturali e di eventi culturali. A che punto sia la questione ci aiutano a capirlo i dati dell’indagine che segue, pur nei limiti che si espliciteranno.

2. La ricerca A partire dai presupposti teorici espressi in precedenza, la ricerca si è proposta di analizzare la configurazione, nelle prassi e nelle dimensioni progettuali, del rapporto tra gli apprendimenti formali (specifici del contesto scolastico) e gli apprendimenti informali (attribuibili agli eventi ed ai beni culturali ed alla loro fruizione). Attraverso la somministrazione di strumenti di indagine e rilevazione quali-quantitativa (intervista semi-strutturata e analisi delle progettazioni) si è indagato su come la scuola costruisca la sua relazione con gli eventi e i beni culturali offerti dalle agenzie, associazioni, compagnie, istituzioni presenti sul territorio e come la scuola riesca ad accogliere le esperienze culturali degli allievi facendole diventare luogo di rielaborazione e spazio di connessione di “saperi monumento” e di “saperi evento”. Il campione

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La ricerca è stata attivata sul territorio ligure coinvolgendo alcune scuole che, liberamente, hanno deciso di aderire al progetto su invito. In fase di costruzione del campione non è stata data prevalenza a nessuna variabile significativa ma esclusivamente al desiderio delle singole scuole di partecipare coinvolgendo di conseguenza gli insegnanti che meglio potessero rap) l’impegno ) ) della) scuola ) ) ) Questa scelta ) ) ha guidato) il )campresentare verso gli )eventi culturali. pione) verso un di) insegnante aderente agli obiettivi di ricerca )ma, ) ) profilo ) ) ) ) del progetto ) ) proprio ) in virtù di questa condizione, rappresenta un campione significativo il cui contributo è frutto ) ) ) e) di un ) )modello ) ) etico-valoriale-culturale ) di )una) attenzione costante ai temi condiviso.) Complessivamente sono diversamente distribuite ) ) state ) coinvolte )41 scuole ) ) ) a livello pro) ) vinciale, e 90 insegnanti. ) ) ) )

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Tab. 1 : Scuole ed insegnanti coinvolti nella ricerca ! !

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Le caratteristiche del campione coinvolto evidenziano, da subito, un profilo di insegnante con una rilevante esperienza professionale (M: 17,7 anni), facendo presupporre che proprio ) la consolidata esperienza ) ) ) di impegnarsi ) ) ) consapevolezza ) ) ) consenta con facilità, e )disinvoltura in ed )integrative; ed un sul territorio, ) attività trasversali ) ) forte ) radicamento ) ) degli insegnanti ) ) ) impegnati in attività culturali e nell’organizzazione di eventi e progetti. ) ) ) ) ) ) ) ) ) )

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Renza Cerri, Valentina Genta, Andrea Traverso

Metodologia e strumenti Per la raccolta dei dati è stata utilizzata un’intervista semi-strutturata, creata dallo staff di ricerca dopo due interventi di “test pilota”, che ha inteso indagare i seguenti ambiti: !

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Tab. 2 .! Ambiti di !! ! !ricerca!

! ! In questo articolo saranno questi ! ! ! ! presi! in !considerazione solamente ! ! quattro ! ambiti di ! ri- ! ! levazione al fine di trarre alcune conclusioni preliminari e destinando ad ulteriori e future ! ! scientifiche ! ! ! ! ! ! ! ! !(dimensioni ! ! ! produzioni un’ampia analisi delle dimensioni progettuali e didattiche qualitative ricadute ! della ricerca) ! con le relative ! ! ! metodologico-didattiche. ! ! !Le interviste! sono ! state somministrate nell’anno scolastico 2011-12 dai componenti dello staff di ricerca con ! ! ! ! ! ! ! ! la collaborazione di alcuni studenti dei !corsi di laurea triennale e magistrale di! Scienze Pe- ! dagogiche e della! laurea magistrale di Scienze della Primaria, ! ! ! ! Formazione ! ! ! formati ! ! e orga-! ! ! nizzati all’interno di un laboratorio di ricerca afferente alla cattedra di Didattica degli Eventi ! Didattica ! !Generale. ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! culturali e di

! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! La prima necessità, di ordine concettuale, metodologico e di riflessione, che la ricerca ha ! è stata la creazione ! ! ! di un lessico ! !ordinato! e comune:! cosa! si intende ! per ! evento ! ! richiesto, culturale? Quali tipologie di evento culturale possiamo riconoscere e, di conseguenza, va! ! ! ! ! !! lutare come proposte didattiche? Rimandano la prima questione al prossimo paragrafo, nella ! tabella seguente (n.3) si propone una catalogazione di eventi, che non ha finalità di classificazione o gerarchizzazione (Argano et al. 2005, p.21) ma ha consentito agli insegnanti in! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! !

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# tervistati # # un quadro # # il più # ampio # possibile # # # # # di avere delle# diverse proposte culturali e della loro afferenza ambito. In questo modo si è# cercato# di evitare possibili#frain# # ad un particolare # # # # tendimenti di attribuzione, di definizione delle categorie, garantendo quindi una equilibrata # # # culturale. Al# contempo # # una così dettagliata # # # ha consentito # ai# doarmonia di sfondo proposta centi #di prendere# coscienza della parcellizzazione le possibili specifi# # # degli# eventi # # e di # tutte # # # cità.

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Tab. 3: Ambiti di #evento culturale p.22) # # e tipologie # # # # # (cfr.# Argano # #et #aa. 2005, # #

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3. L’analisi dei dati

# # # Sono state delle degli insegnanti # # identificate,# dall’analisi qualitativa # # risposte # # # alla prima # do-# manda (In base alla sua esperienza quale definizione darebbe di evento culturale?), nove di# # di lettura, # # corrispondenti # # possibili declinazioni # # dell’evento # # culturale. # verse #categorie alle L’unione del termine con “culturale” all’immaginario # # # “evento” # # rimanda # # #dei «patrimoni # e dei giacimenti culturali» (Cerri, 2008, p. 37) intesi come esemplificazione di una società, di # # # # educativo # # # # sono # un’occasione di innesco sociale, e formativo. Nell’evento culturale in rela- # # zione la storia, le persone e i territori (naturali o antropizzati) in un dispiegarsi continuo di # # # # # # # # # # # # tradizione ed innovazione. Dall’analisi testuale sono emerse queste categorie: # # culturale # " dimensione # # # # # # # # • patrimonio storica; • contesto culturale " spazi fisici, luoghi e contesti dell’evento culturale ed oggetto cul# # # # # # # # # # # # # # turale; # # # # # # # # # #

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• saperi formali e saperi informali " rapporto tra eventi e saperi; • paradigmi educativi, formativi e informativi " evento come progetto educativo, formativo ed informativo intenzionale; • partecipazione e collettività " evento di tutti, evento bene comune; • emozioni " emozioni come strumento di relazione e valutazione dell’evento; • ludicità e creatività " forme di mediazione dell’evento culturale; • territorio e spazio " evento e dimensioni ambientali; • società " evento per tutti. L’ambito di maggiore rilievo (23%) trasferisce l’immagine dell’evento culturale come una situazione afferente ad uno specifico ambito/contesto culturale («è un evento teatrale o musicale”; “tutti quegli eventi che in un contesto preciso affrontano temi culturali») evidenziando dei limiti nella percezione globale e sistemica dell’atto creativo e culturale. Con percentuali leggermente inferiori le altre risposte rimandano: • all’idea di saperi e curriculum (15%) («apre orizzonti nuovi di conoscenza e motiva la modifica di se stessi», «momento preposto ad arricchire curricolo e conoscenze»); • al patrimonio culturale (14%) («manifestazione che prende in considerazione alcuni aspetti, li vuole valorizzare e rivivere»; «un momento in cui si riflette su quelle che sono le tradizioni e i pilastri della nostra civiltà»); • all’evento come occasione per educare, formare e informare (13%) («manifestazione in cui si impara qualcosa», «evento che influisce sulla formazione e sugli interessi personali»); • alla valorizzazione della dimensione partecipativa (10%) («momento di ritrovo, è uno scambio che arricchisce, non si è solo passivi», «qualsiasi proposta pubblica aperta a tutti o una platea scelta con qualche criterio che traduca in spettacolo fatti, contenuti, conoscenze in qualsiasi percorso disciplinare»); • alla promozione della dimensione territoriale (9%) («coinvolge scuola, territorio, la scuola come accrescimento del territorio», «evento che può interessare diversi settori, che ha una ricaduta sul territorio e può coinvolgere persone legate al territorio stesso e/o esperti a carattere nazionale e internazionale»); • alla dimensione sociale (9%) («ciò che ha ricaduta sul sociale, parte da esso e vi ritorna per l’ accrescimento di conoscenze, saperi, esperienze», «qualcosa che succede nel mondo che avviene vicino ai bambini in modo tale che loro lo comprendano»); • alla dimensione ludico-ricreativa (5%) («un evento nel quale gli alunni possono avere nozioni di cultura unite al divertimento», «manifestazione extrascolastica di una attività di approfondimento di varie discipline o di attività ricreative»); • alla dimensione emotiva (2%) («qualcosa che riesce a coinvolgere emotivamente una classe», «qualunque iniziativa che provochi curiosità, desiderio di conoscere e emozioni»).

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Analizzando anche i dati ripartiti per ordine di scuola (graf. 2b) emergono alcune specificità, probabilmente da imputare alla natura del ruolo professionale (intesa come tipologia di scuola in cui si insegna e maggiore disciplinarizzazione delle scuole secondarie) oltre che alle caratteristiche personali (e del territorio sociale e culturale di riferimento che contribuisce a vincolare e contingentare l’offerta culturale). Nello specifico si può notare (rispetto alle percentuali dell’intero campione): • un impegno maggiore dei docenti delle scuole secondarie di II grado in convegni (+8 %), formazione (+5%), eventi artistici (+9%), storico-politici (+11%), e letterari (+11%); • una predominanza di attenzione delle maestre e dei maestri in iniziative di promozione e marketing del territorio (+5%), sportive (+14%) e afferenti al terzo settore (+11%).

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Graf. 2b: La partecipazione degli insegnanti agli eventi culturali per ordine di scuola

Le un trasferimento degli personali ! attese ! della! ricerca !sottendono, tuttavia, ! ! possibile ! ! ! interessi ! ! alla sfera professionale, presagendo ed auspicando che un docente possa trovare nell’incontro ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! didattico, formativo ed educativo con gli studenti l’occasione per condividere passioni ed op! ! ! ! ! dell’insegnante ! ! generare! uno ! sviluppo con! ! dovrebbe portunità culturali. Il profilo culturale temporaneo nell’extrascolastico di spazi ! ! contenuti, ! linguaggi, ! ! ! con i saperi,! la ricerca! nel ! “fuori”, ! ! e messaggi che sappiano intercettare i desideri comunicativi dei bambini e dei giovani. L’equi! ! !! ! ! ! ! ! ! ! ! librio tra il sapere (l’evento interpretato come una lezione semi-frontale svolta in territorio ! ! ! ! !! ! ! ! “neutrale”)! e le!dimensioni emotive e sociale (la logica dello! spostamente! dei! saperi nella città, ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! nei luoghi della città, la dimensione partecipativa e dinamico della cultura) deriva anche dalla competenza che siano! espres! !dell’insegnante ! ! di ! divenire mediatore ! ! !di significati ! ! ed intenzioni, ! ! ! sione di! una! umanità e di una professionalità manifestate ed agite. ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! !! Assumendo l’assoluta predominanza del comparto dello spettacolo come maggiore at3 ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! trazione (71%), risultano graditi! e frequentati anche gli eventi di natura artistica (52%), le ! ! sportive ! ! !eventi ! letterari ! ! !(48%) ! e le occasioni ! formative ! (48%) ! !a temanifestazioni (48%), gli stimonianza! della naturale continuità peculiarità ! ! ! di interessi ! e, !forse, di una ! ! ! di offerta! del territorio. ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! !

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Graf. 3a : La partecipazione degli insegnanti con la classe agli eventi culturali

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Dall’analisi specifica degli ordini di scuola emergono alcune differenze che possono essere ! rapporti! con! il! territorio! e! all’insistenza !delle scuole ! !ai diversi ! ! tessuto ! ! ricondotte nel sociale, associativo primaria sembra essere ! e! culturale.!Tradizionalmente la! scuola ! ! ! ! più vicina ! ! alle ini! ziative locali, specialmente se! localizzate in! piccoli comuni o ! nelle delegazioni – !anche in! ! ! ! ! ! ! ! ! virtù, molto spesso, di un diretto coinvolgimento dell’insegnante in ruoli culturali di rilievo ! comunità ! ! ! ! della ! 7 vita ! politica! del! co0! 0 , . nella (es.! presidenti di !associazioni culturali o esponenti mune) – e meno in grandi eventi! centralizzati. è pos! ! direttamente ! ! coinvolta ! ! ! ! In particolare ! ! ! sibile notare: ! ! ! ! ! ! ! secondarie ! ! attività convegnistica ! ! • un maggiore impegno delle classi delle scuole in e for- ! mativa ! (con! un richiamo evidente alle performance scolastiche ed all’auspicabile avanzamento del “programma” e dell’acquisizione di saperi disciplinari); ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! • una particolare attenzione della scuola primaria alla tematiche ambientali, agli eventi al! manifestazioni ! ! ! ! ! a fronte di un! notevole e spesso ! ! incessante l’aperto ed alle sportive (anche coinvolgimento e sportive che nella ! delle ! associazioni ! ! ! del territorio ! ! / : G! ambientali # vedono scuola primaria il contesto privilegiato in cui agire con una maggiore facilità e semplicità ! ! ! ! ! ! ! ! ! ! di proposte); • non è stata dichiarata di! partecipazione ad! eventi ! ! ! neppure una occasione ! ! ! ! ! afferenti al ! mon! do della moda di nessun ordine scolastico coinvolto nella ricerca (come abbiamo già det! ! ! ! ! ! ! ! ! to, anche per l’evidente povertà di proposte nel tessuto economico ligure); ! sono! invece preferibilmente ! ! ! frequentati! dalla ! scuola ! !primaria, ! !essendo • gli eventi !religiosi ancora consolidato il legame con le !parrocchie e le attività di catechismo che impegnano ! ! ! ! i ragazzi sino al Sacramento della Comunione. -

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Graf. 3b : &La partecipazione degli& insegnanti con & la classe &&>1&?&@5&/5+*'.%/59%,)'&!'#$%&%)-'#)5)*%&.,)&$5&.$5--'&5#$%&'(')*%&.4$*4+5$%&/'+&,+!%)'&!%&-.4,$5<& && & & & & & & & & & & & & & agli eventi culturali& per ordine di scuola

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& & le modalità & & con & cui & gli insegnanti & & & gli eventi & & 8& Per& poter approfondire “incontrano” culturali già abbiamo al campione & dalla & %& fase di raccolta & & delle &prime & & 2 domandato & & , informazioni '& &(scala ' & likert 0-3 frequenza: mai, talvolta, spesso, sempre) quali fossero i principali canali di comu&nicazione utilizzati & & al fine & di verificare & & & & dell’azione & informativa & & i livelli di& efficacia (persona- & lizzazione del& contatto, all’azione). Nell’ipotizzare & stimolo & & & i diversi canali di un & & e &selettività & & & & & marketing mix così complesso ed articolato (che utilizza linguaggi non sempre compresi & & & & & && & & & & & & dall’istituzione scolastica) abbiamo tenuto conto dei fattori di consegna postale, distribuzione &sul territorio, & convenzioni & &e co-marketing, & & in-bound & e out-bound, & & utilizzo delle & tecnologie & e del web, di &promozioni et6&& al., 2005, pp. &243-245). & & & stabili & o& mobili (Argano & "& campagne &/ % & Il dato (considerando le risposte positive spesso e sempre, in grafico 6) conferma la realtà & . scuola che ricerca & & & comunicazioni & & & & tramite & & variegata& della e riceve multi& formato, che arrivano volantini rete&(67%), & &e materiale cartaceo & & &(72%), dalla & & & da rapporti & & personali & (60%) basati sulla conoscenza e sulla fiducia. & & & & & & & & & & & & & Da quanto emerge in profondità (grafico 7)& i& canali riconosciuti come maggiormente & sono & i contatti & & formali& tra & la scuola & & & (29,4%)& e la& comunicazione & & efficaci e gli organizzatori cartacea (22,8%), sicuramente “arretrata” rispetto al flusso di informazioni accessibile in rete. & & & & & & & & & & & & & I canali ritenuti meno efficaci ed adeguati sono la televisione (0,6%) e la radio (0,4%), pro5babilmente & & 5&di & uno scarto &&&& a& causa evidente tra la portata dei eventi del territorio (molto localizzati) e la diffusione nazionale della& maggior delle emittenti di%& U & & & & & && %parte & %& & televisive. La scelta & fruizione di un evento culturale è determinata dal significato stesso di cultura e dall’accezione & valore& che ciascun & & insegnante & & &assegna & & & agire & didattico. Un & evento & e& dal e traferisce& al proprio culturale può assolvere ad alcune funzioni (sociale, politica, culturale) e «nasce come bisogno sociale di aggregazione, partecipazione, diffusione culturale dal basso» (Cerri, 2008, p. 45).

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Graf. 5 : Valutazione di efficacia degli strumenti di comunicazione degli eventi

Il compito dell’insegnante, come abbiamo visto, è anche quello di responsabile mediatore di significati culturali che opera la scelta di un evento piuttosto che un altro. Il campione testimonia che la qualità (98%) e la rilevanza culturale (94%) sono ancora principii ineludibili. Dai dati (scala likert 0-3 frequenza: mai, talvolta, spesso, sempre) emergono, tuttavia, interessanti spunti di riflessione: • sono prese fortemente in considerazione le variabili organizzative: i tempi (74%), l’accessibilità degli spazi (69%) e i costi (69%); • non sembrano tenuti in considerazione gli interessi degli studenti (importanti solamente per il 32% degli intervistati), delle famiglie (18%) e la natura politica di un evento culturale (20%).

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Analizzando i dati per ordine di scuola emergono differenze ascrivibili a quanto riscon! studenti; ! ! le diverse ! possibilità ! ! di ! mobilità, la ! vicinan! ! ! ! ! degli trato in precedenza: la! diversa! età za/distanza la loro ! ! dagli! eventi; ! del ! di sé e! delle ! ! di lettura ! mondo, ! di espressione ! ! ! ! capacità proprie idee;! la! ricerca di eventi “speciali” che possano essere reali occasioni di apprendi! ! ! ! ! ! ! ! ! mento e non “momenti di svago”, diversivi piacevoli alle regolari lezioni.

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Graf. 6b : Indicatori di scelta di un! evento culturale per ordine di scuola

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Questa sezione dell’intervista ha inteso confrontare ed analizzare gli ipotetici piani di fattibilità (nel caso della fruizione e nel caso della progettazione, cercando di considerarne tutte le variabili (Argano et al., 2005, p.110): la fattibilità pratica, la convalida delle strategie di progettazione ed ideazione, la scelta/individuazione/accessibilità della location, i comportamenti di relazione e comunicazione del/con l’oggetto culturale promosso. I dati (scala likert 0-3 frequenza: mai, talvolta, spesso, sempre) palesano le reali difficoltà che gli insegnanti devono superare per coniugare l’apprendimento situato in aula e l’apprendimento in contesti extrascolastici. La fattibilità viene, quindi, principalmente misurata in termini di accessibilità (54%) e di costi (59%), anche se percentuali di maggiore oggetto di riflessione (soprattutto ipotizzando un rinnovato dialogo tra dentro e fuori e uno slancio partecipativo nella costruzione di oggetti culturali) sono quelle della scarsa collaborazione dei colleghi (17%), dell’urgenza destinata al programma ed alla sua realizzazione nei tempi previsti (14%) e di un eccessivo numero di proposte presenti sul territorio per le quali non è possibile attuare una strategia di benchmarking e comparazione che risulterebbe onerosa, anche temporalmente (graf. 7a). Anche in questo caso l’analisi dei dati suddivisi per ordine scolastico mette in luce alcune interessanti specificità della scuola secondaria di II grado. Negli istituti superiori sembra maggiormente critico un lavoro di progettazione con i colleghi e le caratteristiche delle classi (livelli di rendimento e modalità di comportamento che mettono a rischio una gestione #serena di una possibilie # # # 0 * # # Nella # # # primaria # #. #$ # # uscita didattico-culturale). scuola le problematiche sembrano meno# evidenti, # # #anche dal # #punto #di vista # percentuale, # # #sia# per la natura strutturale # # # di questo ordine di scuola che per le modalità di progettazione, azione e valutazione dei # inseriti in eventi # # # didattici # # più complessi # # punto # # dell’archit# # +# docenti, naturalmente dal di vista # # # # # # tettura e della scenografia didattica.

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Graf. 7a : Ostacoli alla fruizione di un evento culturale

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Graf. 7b : Ostacoli alla culturale per# #ordine ##='#>#?.*),&!+#)!!)#:%3+7+&/"#1+#3/#"0"/*&#,3!*3%)!"#$"%##&%1+/"#1+#.,3&!)# ## # # # fruizione # # di # un # evento # # ## # di scuola

# Non diversamente (* # # si esprime # * rispetto #* * # alle 1condizioni # * avverse # * che # )ostacolano # )# * * * * # # *( il campione la progettazione degli eventi scolastico (promossi # #* #* * culturali # # * # #con # * * classe/i * *# *# in ambito * # * - *dalla/e *# # # * * *

o, in alternativa, dall’istituto). Anche in questo caso le problematiche sono prevalentemente * * * * * * * E$** '86"'3!A'/&'** $3/&/8'34$** 6/--/&/** !($%$** +.$** di ordine economico (costi 62 %) e di scarsa/difficile raggiungibilità delle sedi in cui gli +eventi si* realizzano * * economiche * * possono * * * * * * (distanza * 34 * %, tempi* 16%). Le * implicazioni avere due diverse nature: la prima, più generale, intende non gravare sulle casse della scuola e non * * * * * * * * * * * * * * incidere sui bilanci familiari; la seconda, invece, mira a valorizzare l’operato e l’impegno dei * * * * * docenti* che* nella* maggior * parte *delle situazioni “offrono” il* tempo della progettazione e* * programmazione* dell’evento* in* forma* gratuita* o* non * significativamente* retribuita.*

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 10 / GIUGNO • 2013 *

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Graf. 8b : Ostacoli alla progettazione di un evento culturale per ordine di scuola

4. Conclusioni La scuola può essere considerata come l’epicentro dello sguardo culturale delle attuali generazioni verso il futuro attraverso una co-progettazione (implicita od esplicita) che derivi dall’incontro asimmetrico dei ruoli e delle responsabilità, dal passaggio di testimonianza tra le generazioni, accettando la sfida costante di essere «contenitore di condivisione di codici e simboli funzionali alla vita dell’uomo» (Rosati, 1998, p.105). Il dialogo con il territorio è spesso irto di asperità, date dalla diversa natura dei contesti (formale ed informale, istituzionale e familiare, aperto e chiuso, flessibile ed ancorato) e da stili e linguaggi comunicativi profondamente diversi. In mezzo è posizionata la responsabilità educativa dell’insegnante chiamato ad offrire ai propri studenti un costante ed evolutivo rapporto con il sapere, con le competenze, con la cultura che si possa esprimere all’interno di una dimensione cittadina e di una cultura abitativa. L’atto dell’ “abitare”, del restare in forma stabili contribuisce ad agganciare la cultura ai luoghi, persevera in un processo intergenerazionale di radicamento flessibile e di innesto equilibrista. L’evento, in questa situazione di fragilità diffusa, è la manifestazione di un impegno che qualcuno ha accettato di assumersi; è la visione di storie e porzioni di futuro che si intendono anticipare “qui ed ora” a chi avrà la voglia (la necessità, l’ardire e la fortuna) di essere presente. Dall’interpretazione dei dati emerge che la scuola costruisce la sua relazione con gli eventi e i beni culturali secondo logiche di efficienza, regolate da un rapporto diretto tra il “fare a scuola”, un fare ascritto a finalità prevalentemente disciplinari, e le possibilità di un “fare all’esterno della scuola”. I principi e gli obiettivi di efficacia sembrano secondari, nonostante il POF e i progetti didattici possano trovare negli eventi culturali una nuova linfa di attualità, lo sfondo culturale dei quotidiani accadimenti, la decisione progettuale da compiere consapevolmente e responsabilmente.

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Renza Cerri, Valentina Genta, Andrea Traverso

Per quanto riguarda la seconda domanda di ricerca (come la scuola riesce ad accogliere le esperienze culturali degli allievi facendole diventare luogo di rielaborazione e spazio di connessione di “saperi monumento” e di “saperi evento”) è possibile evidenziare una tendenza “parallela”. La possibilità di trasferire le esperienze degli studenti all’interno della scuola, connetterle con i saperi disciplinari e accordarle alle risorse interne ed esterne (Pellerey, 2004) per l’acquisizione di competenze è direttamente collegata e vincolata alla stessa procedura per gli insegnanti. La loro capacità di mediare i saperi personali, di rielaborarli e la condivisione di spazi di culturali con gli studenti faciliterà la creazione di incontro e costruzione di nuovi saperi. La natura istituzionale della scuola sarà l’anello di congiunzione tra la casualità e l’imprevedibilità della cultura personale e la progettazione didattica lineare ed ordinata: accettare questa sfida è prima di tutto un investimento per il bene comune.

Riferimenti bibliografici Argano L., Bollo A., Dalla Sega P.,Vivalda C. (2005). Gli eventi culturali. Ideazione, progettazione, marketing, comunicazione. Milano: FrancoAngeli. Bruner J. (2001). La cultura dell’ educazione, tr. it. Milano: Feltrinelli. Cerri R. (2007). L’evento didattico. Dinamiche e processi. Roma: Carocci. Cerri R. (2008). Eventi culturali e percorsi di formazione. Roma: Aracne. De Giacinto S. (1999). Epistemologia e didattica. In S.S. Macchietti, E. Damiano (Eds.), Epistemologia e didattica. Saperi scientifici e saperi scolastici (pp. 150-168). Roma: Bulzoni. Frabboni F. (1989). Il sistema formativo integrato. Una nuova frontiera dell’educazione. Teramo: Lisciani e Giunti. Pellerey M. (2004). Le competenze individuali e il portfolio. Roma: La Nuova Italia Scientifica. Rosati L. (1998). Paradigmi culturali e didattica. Brescia: La Scuola. Rossi P.G. (2011). Didattica enattiva. Complessità, teorie dell’azione, professionalità docente. Milano: FrancoAngeli. Weil S. (1949). L’enrecinement. Paris: Gallimard; tr. it. La prima radice, Milano: Leonardo Mondadori, 1996.

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Ricerche Aggressività e intelligenza emotiva: quale relazione? Aggressiveness and emotional intelligence: what relationship? KARIN BAGNATO La presente ricerca esamina la relazione tra Intelligenza Emotiva e manifestazione di comportamenti aggressivi. Il presupposto di base è che la mancanza di competenza emotiva sia un fattore fortemente coinvolto nella manifestazione di comportamenti ostili. Di conseguenza, si rende necessaria l’attuazione di programmi educativi di sviluppo emotivo che insegnino ai soggetti aggressivi la gestione dei propri comportamenti. La famiglia e la scuola possono giocare un ruolo chiave nella gestione dei comportamenti ostili proprio per la loro funzione di agenzie di socializzazione.

This research examines connection between Emotional Intelligence and aggressive behaviors. The main thesis is that lack of emotional skills is an important cause in hostile behaviors and so it’s necessary to improve emotional training to teach violent people how to manage their behaviors. Really due to their socializing function, family and school can play a key role in the management of aggressive behavior.

Parole chiave: aggressività, intelligenza emotiva, scuola, famiglia, prevenzione, intervento

Key words: aggressiveness, emotional intelligence, school, family, prevention, training

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • VI • 10 / GIUGNO • 2013

Aggressività e intelligenza emotiva: quale relazione?

1. Quadro teorico di riferimento L’interesse per lo studio del comportamento aggressivo non è nuovo. Infatti, numerose sono le ricerche che hanno cercato di capire come e perché un comportamento aggressivo nasce e si mantiene nel tempo (i.e. Reid, Patterson, 1989; Campbell, 1995; Hughes et al., 2000; Bor et al., 2001). In particolare, la ricerca su gli agenti responsabili del comportamento aggressivo ha messo in evidenza che non esistono cause dirette, univoche ed unidirezionali che determinano l’emissione di comportamenti ostili, ma la loro manifestazione è fortemente correlata all’interdipendenza di molteplici fattori inerenti sia le caratteristiche ambientali sia la vulnerabilità costituzionale. In relazione alle variabili individuali responsabili del comportamento aggressivo, l’approccio socio-cognitivo ipotizza l’esistenza di carenti processi inerenti l’elaborazione dell’informazione (Dodge, 1986). Ovvero, tale modello ritiene che l’aggressività sia il risultato di deficit o distorsioni nel processo di elaborazione dell’informazione sociale (Crick & Dodge, 1994). Nello specifico, si suppone che i soggetti aggressivi facciano un uso fortemente selettivo delle informazioni sociali, orientandosi prevalentemente verso stimoli aggressivi, piuttosto che fare uso di una vasta gamma di informazioni o effettuare valutazioni sulle conseguenze di questi comportamenti.Tale predisposizione implica che, di fronte alle differenti situazioni sociali, la capacità di scegliere risposte valide ed efficaci decresce in relazione alla diminuzione della quantità di soluzioni possibili che il soggetto ha la capacità di prevedere (Milich e Dodge, 1984; Dodge, 1986). Nei soggetti aggressivi, tale deficit potrebbe essere attribuito ad esperienze maturate in ambiti sfavorevoli di apprendimento che determinerebbero insufficienze globali nell’ambito delle funzioni conoscitive, aventi come conseguenza possibili deviazioni del normale sviluppo di un valido ed appropriato schema di comprensione e di organizzazione delle azioni umane (McKeough, 1994). Ciò sembrerebbe confermato anche da Randall (1997), il quale sostiene che i soggetti aggressivi non sarebbero capaci di rappresentarsi i pensieri, i desideri e le emozioni altrui e si costruirebbero una immagine degli eventi e delle loro conseguenze solo dal loro punto di vista, cioè non sembrerebbero in possesso di una valida “teoria della mente” circa le interazione sociali (Hazler, 1996; Sutton, 1999). Più recentemente, Lemerise e Arsenio (2000) hanno proposto un modello esplicativo sull’aggressività che integra processi cognitivi ed emotivi. Secondo gli autori, le differenze individuali nei processi di elaborazione dell’informazione sociale potrebbero essere correlate a differenze nella gestione e regolazione delle emozioni. Ovvero, la gestione e la regolazione delle emozioni potrebbero influenzare la codifica e l’interpretazione dei cues sociali, e la capacità di prendere decisioni sociali. L’attribuzione delle emozioni, dunque, si verrebbe a configurare come un fattore critico dei risultati comportamentali e svolgerebbe una funzione adattiva. Se un individuo è capace di cogliere gli indizi esteriori di uno stato emotivo, che, in quanto percettivamente identificabili si prestano ad una immediata codifica, sarà anche avvantaggiato nell’interpretazione

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Karin Bagnato

e nell’attribuzione degli stati intenzionali sottostanti, non sempre altrettanto immediatamente osservabili (Filippello et al., 2007). A questo punto resta da chiarire se si realizza prima il processo di codifica delle emozioni o quello delle intenzioni. È ormai risaputo che, generalmente, la percezione delle intenzioni e delle emozioni avvenga contemporaneamente (Schultz et al., 2000). È stato, però, appurato che i soggetti potrebbero codificare adeguatamente l’emozione, fallendo nell’attribuzione dell’intenzionalità. Ciò evidenzia, quindi, la necessità di considerare entrambi i processi come connessi, ma distinti (Dodge et al., 2002). In particolare, la generalizzazione della percezione di rabbia potrebbe essere una conseguenza di un’irregolarità nel processo di elaborazione dell’informazione sociale che determinerebbe l’attivazione di un meccanismo di interpretazione delle intenzioni distorto a causa di un’inaccurata codifica dei segnali esterni dell’emozione attivata (Lemerise, Arsenio, 2000; De Castro et al., 2003; Lemerise et al., 2005). Tutto ciò favorirebbe, in soggetti maggiormente predisposti, l’innalzamento dei livelli di aggressività anche in contesti di per sé neutri (Fine et al., 2003; Fine et al., 2004). In sintesi, l’attività di codifica delle emozioni riveste un ruolo fondamentale quale elemento predittivo per l’evoluzione delle traiettorie evolutive del soggetto; anche se non è ancora ben chiaro se tale compito anticipa sempre quello di comprensione emotiva oppure se, quando si tratta di emozioni complesse, il processo non si realizzi in maniera inversa. Le emozioni, dunque, rivestono un ruolo molto importante in quanto sono, generalmente, considerate i motori del comportamento umano. Indagini recenti (Dodge, 1991; Hubbard, Coie, 1994; Crick, 1996; Fabes et al., 1999; Duan, 2000; Eisemberg et al., 2000) sullo sviluppo delle abilità di problem solving sociale hanno sottolineato che i processi di regolazione emotiva possono costituire dei fattori critici per l’evoluzione del comportamento sociale e per il benessere psico-fisico dell’individuo. In particolare, l’idea che l’attivazione incontrollata della reattività emotiva non contribuisca ad una vita soddisfacente emerge più chiaramente negli studi sull’Intelligenza Emotiva. Ed è proprio su questo aspetto che ci si vuole soffermare maggiormente poiché si pensa possa rivestire un ruolo fondamentale nel favorire l’emissione di comportamenti aggressivi o socialmente funzionali. Il concetto di Intelligenza Emotiva nasce nel 1990 ad opera di Salovey e Mayer che la definiscono come la capacità di monitorare e dominare le emozioni proprie e altrui, di discriminarle tra loro e di usare queste informazioni per guidare il pensiero e l’azione. Alla base di questa definizione vi è la convinzione che non solo le emozioni non disturbano l’efficace approccio razionale alla risoluzione dei problemi, ma, al contrario, permettono di interrompere l’azione diretta ad un obiettivo, per spostare l’attenzione e focalizzarla su qualcosa di vitale importanza per l’individuo: in questo senso, le emozioni forniscono importanti conoscenze sulla relazione della persona con il mondo esterno (Mayer, Salovey 1997). È stato, però, Goleman (1997, p. 54) a rendere più popolare il concetto di Intelligenza Emotiva definendola come “la capacità di motivare se stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare”. In altre parole, Goleman definisce l’Intelligenza Emotiva non solo come un insieme di competenze psicologiche (percezione, espressione, comprensione), ma anche come un complesso di abilità sociali, motivazionali e operative necessarie per il nostro benessere. Tali abilità sono la capacità di percepire accuratamente, valutare ed esprimere emozioni; la capacità di accedere e/o generare le emozioni che favoriscono i processi di pensiero; la capacità di comprendere le emozioni e ciò che concerne la conoscenza emotiva; la capacità di regolare le emozioni che favoriscono la crescita emotiva e intellettiva, ecc. Tutte queste abilità sono acquisite durante il processo di socializzazione, in particolare nel

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periodo che va dalla nascita alla pubertà. Tenendo in considerazione questi presupposti, è facile dedurre l’interdipendenza esistente tra Intelligenza Emotiva e aggressività che proprio negli ultimi decenni è stata oggetto di numerose ricerche (i.e. Cook et al., 1994; Bohnert et al., 2003; Schultz et al., 2004; Hansen et al., 2007; Downey et al., 2008; Downey et al., 2010; Garaigordobil et al., 2010; Elipe et al., 2012; Kokkinos, Kipritsi, 2012; Lomas et al., 2012). Ciò che è emerso è che i soggetti aggressivi manifestano deficit di attenzione, bassi livelli di competenza sociale e scarsa responsività empatica. In particolare, sembrerebbe che mostrino difficoltà nell’identificazione dei cues emotivi, nella comprensione emotiva e nell’elaborazione delle emozioni. Per ciò che concerne la capacità di identificare i cues emotivi, alcune ricerche (Camras et al., 1988, 1990; Russel, Widen, 2002) hanno messo in evidenza che i soggetti aggressivi sono poco competenti nel riconoscimento delle espressioni mimiche facciali e nella comunicazione verbale delle emozioni. Ciò è tanto più vero nel riconoscimento e nell’etichettamento dell’emozione di rabbia. A tale proposito, gli studiosi sostengono che i soggetti aggressivi hanno una percezione errata dei cues connessi alla rabbia che li porta a riconoscerla anche quando è rappresentata un’emozione diversa o ad attribuirgli un’emozione differente quando è raffigurata (Lemerise, Arsenio, 2000; Lemerise et al., 2005). L’incapacità di identificare i cues emotivi ha notevoli ripercussioni anche sulla comprensione emotiva e, più specificatamente, sulla capacità di riconoscere le emozioni complesse, sull’abilità di individuare la situazione che determina un cambiamento nello stato emotivo e, infine, sulla capacità di gestire le proprie emozioni a livello sia intrapersonale sia interpersonale (i.e. Cook et al., 1994; Bohnert et al., 2003; Schultz et al., 2004.). Non sempre l’espressione dell’emozione è così inequivocabilmente identificabile. Infatti, esistono delle emozioni definite complesse che sono caratterizzate da espressioni piuttosto contenute e che si manifestano in modo meno eclatante. La capacità di riconoscerle poggia su un’accurata cognizione sociale, cioè su quel bagaglio di competenze cognitive utili a formulare un’efficace teoria della mente (Menesini et al., 2003; Grazzani Gavazzi, 2004). In relazione ai soggetti aggressivi, tale competenza sembrerebbe essere compromessa poiché richiederebbe attenti e sofisticati processi di codifica dei cues e degli eventi, solitamente deficitari o settorializzati nei soggetti aggressivi (Dodge, 1986, 1991; Crick, Dodge, 1994). Anche la difficoltà di individuare la situazione che determina il cambiamento di uno stato emotivo iniziale in un uno ad esso conseguente sembrerebbe essere dovuta a distorsioni nel processo di elaborazione dell’informazione sociale. Infatti, tale capacità presuppone processi cognitivi complessi (es. comprensione dei pensieri, delle credenze e delle intenzioni altrui) che nei soggetti aggressivi sembrerebbero essere compromessi da modalità attentive e percettive limitate (Dodge, 1991; Cook et al., 1994). In riferimento alla capacità di gestione delle emozioni, gli studi in questo settore (Bierman et al., 1993; Fabes et al., 1999; Eisemberg et al., 2000) hanno sottolineato che i soggetti aggressivi mostrano carenze sia nella capacità di comprendere se stessi e di sapersi costruire un mondo interiore che gli offra stabilità e serenità emotiva sia nella capacità di comprendere gli altri, i loro problemi, i loro atteggiamenti, i loro sentimenti, ecc. Ciò sembrerebbe imputabile ad un’errata decodifica del contesto, a sua volta attribuibile a deficitari processi cognitivi coinvolti nell’attribuzione delle emozioni (Dodge, 1986; Crick, Dodge, 1994; Dodge et al. 2003). Tutte queste carenze si ripercuotono sui processi di elaborazione delle emozioni. Infatti, l’incapacità di riconoscere i cues emotivi e una errata comprensione emotiva potrebbero determinare un processo di attribuzione disfunzionale delle emozioni, in particolare della rabbia (i.e. Zillmann, 1979; Berkowitz, 1990), che sarebbe il frutto di una cattiva interpretazione degli eventi dovuta, a sua volta, ad una deficienza cronica nella gestione degli stimoli a livello cognitivo (Crick, Dodge, 1994).

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È facile dedurre che la presenza di tutte queste difficoltà inficia notevolmente la capacità dell’individuo di percepire, analizzare e produrre specifici comportamenti finalizzati alla realizzazione di appropriati scambi sociali. Inoltre, gli studi in questo settore (Mayer et al., 2004; Mayer et al., 2008) hanno messo in evidenza che gli individui con un buon livello di Intelligenza Emotiva sono generalmente più consapevoli delle proprie emozioni e sono in grado di gestirle in modo più efficace rispetto ai soggetti che manifestano comportamenti aggressivi. Così come è stato dimostrato che gli individui con un’alta Intelligenza Emotiva sono più propensi a riferire di riuscire a instaurare relazioni positive con gli altri e meno inclini a segnalare interazioni negative rispetto ai soggetti aggressivi (Eisenberg et al., 2000; Lopes et al., 2003). In sintesi, ciò che emerge è che l’Intelligenza Emotiva risulta fondamentale per il benessere psico-sociale dell’individuo poiché la sua evoluzione favorisce la capacità dell’individuo di adattare il proprio comportamento alla situazione specifica e alle esigenze del gruppo, in altre parole promuove la capacità di assumere comportamenti adattivi (Sastre, Moreno, 2002; Segura, Arcas, 2005; Ulutas, Omeroglu, 2007). La ricerca di seguito presentata si colloca in questo filone di indagine e vuole offrire un ulteriore contributo all’analisi delle competenze emotive in soggetti con diversa frequenza di comportamenti aggressivi.

2. Impostazione metodologica della ricerca Scopo della ricerca Lo scopo della ricerca era quello di esaminare la relazione tra Intelligenza Emotiva e manifestazione di comportamenti aggressivi in classe, anche in riferimento alla variabile genere. In modo specifico, la ricerca si prefiggeva di indagare se, ed eventualmente in quale misura, era possibile riscontrare differenze nelle capacità emotive di soggetti che mettevano in atto comportamenti disadattivi con quelle di soggetti che non ne manifestavano. Partecipanti, metodo e procedura Selezione del campione: all’indagine hanno partecipato 235 soggetti frequentanti le classi I, II e III media, e di età compresa tra gli 11 e i 13 anni. Al fine di selezionare i soggetti con un’alta frequenza di comportamenti aggressivi, è stata condotta un’osservazione sistematica in classe che ha previsto la somministrazione di 2 scale di valutazione relative alla manifestazione di comportamenti aggressivi ed oppositivi (Filippello, Fiorentino, 2008). Ogni scala di valutazione (ciascuna composta da 10 item) aveva come obiettivo di misurare la frequenza con cui si esternalizzavano i comportamenti aggressivi (verbali e fisici) ed oppositivi nei confronti sia dei compagni sia degli insegnanti. L’osservazione è stata effettuata da due osservatori esterni alla classe ed è stata condotta per una settimana di seguito, per circa 3 ore al giorno e in momenti diversi della giornata al fine di annullare gli eventuali effetti di disturbo dovuti a fattori temporali (orari della giornata) e individuali. Gli osservatori dovevano segnare su un’apposita scheda, tutte le volte che si manifestava, uno dei comportamenti indicati nella scala. Se un determinato comportamento si verificava per più di 5 volte nell’arco della giornata, l’osservatore non era tenuto a segnarlo ulteriormente perché ciò indicava che quest’ultimo era ampiamente presente e consolidato nel repertorio comportamentale del soggetto. Prendendo in considerazione l’emissione e la frequenza dei comportamenti aggressivi ed oppositivi si è effettuata la selezione del campione e la formazione dei gruppi. Nello specifico, sono stati definiti “aggressivi” i soggetti che avevano messo in atto il numero più

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elevato di comportamenti disadattivi (range da 200 a 300 nella settimana di osservazione), mentre sono stati denominati “non aggressivi” i soggetti che avevano emesso il numero più basso di comportamenti disadattivi (range da 0 a 30 nella settimana di osservazione). Naturalmente, si è tenuto conto anche dell’indice di accordo tra i due osservatori che è risultato essere compreso tra l’80% e il 90%. In relazione ai suddetti criteri, dai 235 soggetti sottoposti all’osservazione, è stato estrapolato un campione costituito da un totale di 56 soggetti, di cui 28 “aggressivi” e 28 “non aggressivi”. Entrambi i gruppi sono stati appaiati per genere ed età. Alla fase di campionamento, è seguita la valutazione delle competenze emotive dei soggetti “aggressivi” e “non aggressivi” al fine di metterne in evidenza analogie e differenze. Strumenti: all’intero campione, dunque, è stato somministrato il test “Sviluppare l’intelligenza emotiva” di D’Amico e De Caro (2008). Tale test si ispira al modello elaborato da Mayer e Salovey (1997) e consiste in un programma multimediale che mira alla valutazione e al potenziamento dell’Intelligenza Emotiva. Nello specifico, ai fini della ricerca è stata utilizzata solo la parte relativa all’assessment che era composta da quattro test (Percezione, Uso, Comprensione, Gestione). Il Test di Percezione valutava la capacità di percepire, discriminare ed etichettare figure di volti, paesaggi e brani musicali che esprimono emozioni. Erano mostrate 3 raffigurazioni di volti e 3 di paesaggi, e fatti ascoltare 3 frammenti di brani musicali. Al soggetto era chiesto di scegliere, tra le varie emozioni elencate, quella che meglio si correlava all’espressione facciale, al paesaggio o al brano corrispondente. Il Test Uso valutava la capacità di avvalersi delle emozioni per promuovere alcune attività cognitive, come il pensiero e il problem solving emotivo. Date 6 ipotetiche situazioni problematiche, al soggetto era chiesto di individuare le emozioni che il protagonista della storia avrebbe potuto provare.Tra il ventaglio di emozioni presentate, ne poteva scegliere solo due. Il Test di Comprensione era suddiviso in due parti. La prima, valutava la capacità di comprendere che gli stati emotivi possono subire delle variazioni. Erano proposte 3 ipotetiche situazioni problematiche, ciascuna delle quali composta da tre vignette. Al soggetto erano presentate la vignetta iniziale e quella finale e gli veniva chiesto di identificare, tra quattro opzioni di risposta, quella che avrebbe potuto determinare il cambiamento di uno stato emotivo iniziale in uno ad esso conseguente. La seconda parte valutava la capacità di riconoscere gli stati emotivi complessi come risultato di più emozioni. Erano proposte 3 situazioni problematiche e al soggetto era chiesto di indicare, tra quattro opzioni di risposta, quella che meglio rispecchiava lo stato emotivo del protagonista. Infine, vi era il Test di Gestione, anche questo suddiviso in due parti. La prima valutava la capacità dei soggetti di gestire le proprie emozioni sul piano intrapersonale. Date 3 situazioni problematiche, al soggetto era chiesto di identificare tra quattro opzioni di risposta quella che meglio poteva mantenere, smorzare o migliorare uno specifico stato emotivo. La seconda parte valutava la capacità dei soggetti di gestire le proprie emozioni sul piano interpersonale. Presentate 3 situazioni problematiche, al soggetto era chiesto di indicare, tra quattro opzioni di risposta, la strategia di coping più funzionale per la soluzione della situazione presentata. Procedura: un osservatore esterno, che non aveva partecipato alla fase di selezione del campione, ha somministrato il test ad ogni soggetto individualmente e la somministrazione è stata preceduta da istruzioni relative alle modalità di risposta e da informazioni sui contenuti delle diverse aree d’indagine, al fine di favorire la motivazione e la partecipazione attiva all’esperienza. Ad ogni risposta data dal soggetto è stato attribuito un punteggio grezzo: 1 a quella corretta, 0 a quella errata.

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3. Analisi dei risultati L’analisi dei dati è stata effettuata con l’ausilio del software statistico SPSS Windows 17.0 (Statistical Package for Social Sciences). Per verificare le differenze esistenti tra i due gruppi (aggressivi vs non aggressivi) è stata condotta un’analisi descrittiva dei punteggi ottenuti nelle diverse prove. Inoltre, si è ritenuto opportuno effettuare i confronti, entro e tra i gruppi, con il test Mann-Whitney U al fine di evidenziare le differenze significative esistenti. Tutti i risultati sono stati corretti con la formula di Bonferroni. Test di Percezione Il Test di Percezione valutava la capacità dei soggetti di individuare, discriminare ed etichettare figure di volti, paesaggi e brani musicali che esprimono emozioni. Per quanto concerne l’attribuzione di emozioni a raffigurazioni di volti, non sono state evidenziate differenze significative tra soggetti “aggressivi” e “non aggressivi” relativamente alle espressioni facciali n.1 e n.3. Infatti, entrambi i gruppi non mostrano alcuna difficoltà nel decodificare le emozioni di gioia e sorpresa. Un quadro diverso, si presenta per l’etichettamento della rabbia (espressione facciale n.2). In particolare, il gruppo dei “non aggressivi” la riconosce con maggiore facilità rispetto ai coetanei “aggressivi” (M=,79; DS=,414) (z= -3,873; p<,001). All’interno del gruppo degli “aggressivi”, inoltre, i maschi riconoscono la rabbia più delle femmine (M=,57; DS=,504) (z= -3,750; p<,001). Ulteriori differenze sono state riscontrate tra femmine “aggressive” e “non aggressive” (M=,61; DS=,504) (z= -4,180; p<,001), quest’ultime sono più competenti nel riconoscimento dell’emozione di rabbia. Per ciò che riguarda l’attribuzione di emozioni a figure di paesaggi, non sono emerse differenze significative né tra i gruppi né al loro interno, in quanto tutti i soggetti appaiono in possesso di adeguate abilità cognitive necessarie alla decodifica delle emozioni (nello specifico: tristezza, paura e disgusto). Relativamente alla capacità di attribuire stati emotivi a brani musicali, sono state rilevate differenze tra i tre diversi frammenti musicali. Nel brano n.1 e n.2, emergono differenze tra i due gruppi di riferimento: nel primo brano, i soggetti “aggressivi” hanno maggiore difficoltà a riconoscere l’emozione di gioia (M=,86; DS=,353) (z= -3,028; p<,001), mentre, nel secondo brano, hanno difficoltà a riconoscere l’emozione di collera (M=,21; DS=,414) (z= -3,873; p<,001). Al contrario, nel riconoscimento dell’emozione tristezza (brano n.3) non sono emerse differenze tra i gruppi. Inoltre, l’analisi dei risultati non ha rilevato differenze né all’interno dei singoli gruppi (aggressivi e non aggressivi) né di genere (maschi vs femmine). Test uso Il Test Uso valutava la capacità dei soggetti di avvalersi delle emozioni per promuovere alcune attività cognitive, come il pensiero e il problem solving emotivo. Nelle situazioni n.1, n.4, n.5 e n.6 non sono emerse differenze: infatti, entrambi i gruppi hanno indirizzato le loro risposte sulle emozioni corrette: sorpresa e gioia (situazione n.1), gioia e rabbia (situazione n.4), rabbia e disgusto (situazione n.5) e paura e rabbia (situazione n.6). Al contrario, nelle situazioni n.2 e n.3 sono emerse differenze significative. Infatti, il gruppo dei “non aggressivi” ha riconosciuto le emozioni corrette nelle situazioni presentate [paura e gioia nella situazione n.2 (M=,61; DS=,493) (z= -5,966; p<,001); gioia e tristezza nella situazione n.3 (M=,57; DS=,499) (z= -6,423; p<,001)]. All’interno del gruppo degli “aggressivi”, emergono differenze di genere per quanto ri-

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guarda il riconoscimento della gioia e della rabbia (situazione n.4). Infatti, le femmine ottengono punteggi più alti rispetto ai maschi (M=,54; DS=,508) (z= -4,837; p<,001). Ulteriori differenze sono state riscontrate mettendo a confronto le femmine di entrambi i gruppi. Le femmine “non aggressive” presentano migliori performance nelle situazioni n.2 e n.3 in quanto non mostrano difficoltà nel riconoscimento delle emozioni sia di paura e gioia (M=,57 ; DS=,504;) (z= -4,500; p<,001) sia di gioia e tristezza (M=,61; DS=,497) (z= -4,180; p<,001). Al contrario, nella situazione n.4, in cui era richiesto di riconoscere le emozioni gioia e rabbia, hanno ottenuto punteggi maggiori le femmine “aggressive” (M=,64; DS=,488) (z= -3,873; p<,001). Test di comprensione La prima parte del Test di Comprensione valutava la capacità dei soggetti di comprendere che gli stati emotivi possono subire delle variazioni. L’analisi dei dati ha evidenziato differenze tra i gruppi. In particolare, il gruppo dei “non aggressivi” sembra riconoscere maggiormente la situazione che determina il cambiamento di uno stato emotivo iniziale in uno ad esso conseguente, rispetto al gruppo degli “aggressivi” nelle situazioni 1 (M=,79: DS=,414;) (z= -3,873; p<,001) e 3 (M=,84; DS=,371) (z= 3,245; p<,001). Invece, all’interno dei gruppi, prendendo in considerazione la variabile genere, non è emersa nessuna differenza significativa. La seconda parte del Test di Comprensione valutava la capacità dei soggetti di riconoscere gli stati emotivi complessi come risultato di più emozioni. Il gruppo dei “non aggressivi” rispetto a quello degli “aggressivi” sceglie le emozioni corrette (sorpreso e deluso) associate alle situazioni n.4 (M=,79; DS=,624) (z= -4,090; p<,001) e n.6 (M=,59: DS=,496) (z= -6,191; p<,001). In riferimento alla variabile genere, non sono state rilevate differenze all’interno del gruppo degli “aggressivi”. Mentre differenze significative sono state rilevate tra femmine “aggressive” e “non aggressive”. In particolare, le femmine “non aggressive” riconoscono adeguatamente le emozioni di sorpresa e delusione nelle situazioni n.4 (M=,68; DS=,476) (z= -3,576; p<,001) e n.6 (M=,50; DS=,509) (z= -5,196; p<,001). Invece, i maschi “non aggressivi” rispondono correttamente solo alla situazione n.6 (M=,68; DS=,476) (z= -3,576; p<,001). Test di gestione Il Test di Gestione valutava la capacità dei soggetti di gestire le proprie emozioni sia sul piano intrapersonale sia su quello interpersonale. Per quanto riguarda la Gestione Intrapersonale, si rilevano differenze tra soggetti “aggressivi” e “non aggressivi”. Nello specifico, i soggetti “non aggressivi” risultano maggiormente competenti nel riconoscere e gestire le proprie emozioni nella situazione n.1 (M=,43; DS=,499) (z= -5,352; p<,001) e n.3 (M=,59; DS=,496) (z= -6,191; p<,001). Allo stesso modo, emergono differenze tra le femmine dei due gruppi di appartenenza: le femmine “non aggressive” rispetto a quelle “aggressive” rispondono correttamente nella situazione n.1 (M=,43; DS=,504) (z= -3,750; p<,001) e nella situazione n.3 (M=,50; DS=,509) (z= -5,196; p<,001). Anche i maschi “non aggressivi” risultano più competenti nella gestione delle proprie emozioni nella situazione n.1 (M=,43; DS=,504) (z= -3,750; p<,001) e n.3 (M=,68; DS=,476) (z= -3,576; p<,001). Relativamente alla Gestione Interpersonale, sono emerse differenze significative tra i gruppi. Il gruppo dei “non aggressivi” rispetto a quello degli “aggressivi” rivela una maggiore gestione interpersonale delle emozioni nella situazione n.1 (M=,84; DS=,371) (z= -3,245; p<,001), n.2 (M=,63; DS=,489) (z= -5,745; p<,001) e n.3 (M=,86; DS=,353) (z= -3,028;

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p<,001). Inoltre, tra i due gruppi sono state rilevate delle differenze di genere, ma solo nella situazione n.5. Nello specifico, sia le femmine che i maschi “non aggressivi” si mostrano più competenti nell’individuare la risposta corretta, rispetto alle femmine e ai maschi “aggressivi” (M=,68; DS=,476) (z= -3,576; p<,001); (M=,57; DS=,504) (z= -4,500; p<,001). In ultima analisi, inoltre, si è ritenuto opportuno prendere in considerazione i risultati delle performances dei due gruppi (aggressivi vs non aggressivi) calcolando la M e la DS per tutti i test condotti (tab.1).

test gestione

test comprensione

test uso

test di percezione

AGGRESSIVI

NON AGGRESSIVI

espressione facciale (prova 1) espressione facciale (prova 2) espressione facciale (prova 3) paesaggio (prova1)

M 1,00 1,00 1,00 1,00

DS ,000 ,000 ,000 ,000

M ,93 ,57 ,79 ,86

DS ,262 ,504 ,418 ,356

paesaggio (prova2)

1,00

,000

,93

,262

paesaggio (prova3)

1,00

,000

,86

,356

brano (prova 1)

1,00

,000

,71

,460

brano (prova 2)

,43

,504

,00

,000

brano (prova 3)

,54

,508

,29

,460

prova 1

1,00

,000

,96

,189

prova 2

1,00

,000

,21

,418

prova 3

1,00

,000

,14

,356

prova 4

,32

,476

,54

,508

prova 5

,50

,509

,39

,497

prova 6

,07

,262

,07

,262

prova 1

1,00

,000

,57

,504

prova 2

,71

,460

,89

,315

prova 3

1,00

,000

,68

,476

prova 4

1,00

,000

,57

,836

prova 5

1,00

,000

1,00

,000

prova 6

1,00

,000

,18

,390

prova 1

,79

,418

,07

,262

prova 2

1,00

,000

,79

,418

prova 3

1,00

,000

,18

,390

prova 4

1,00

,000

,68

,476

prova 5

1,00

,000

,25

,441

prova 6

1,00

,000

,71

,460

Tab. 1: statistiche descrittive dei punteggi ottenuti dai due gruppi in tutte le prove

L’analisi ha permesso di confermare le differenze esistenti tra i due gruppi nella totalità dei risultati ai compiti proposti.

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4. Discussione e conclusioni L’obiettivo della ricerca era quello di esaminare la relazione tra Intelligenza Emotiva e manifestazione di comportamenti aggressivi in classe. Relativamente al Test di Percezione, non sono emerse differenze significative tra soggetti “aggressivi” e “non aggressivi” circa la capacità di percepire, discriminare ed etichettare figure di volti che esprimono le emozioni di gioia e tristezza. Al contrario, le differenze esistono circa la capacità di attribuire l’emozione di collera: i soggetti “non aggressivi”, ed in particolare le femmine, si mostrerebbero più competenti nel riconoscere la suddetta emozione. Tale dato sembra avvalorare l’ipotesi secondo cui i soggetti “aggressivi” dispercepiscono le espressioni dell’emozione di rabbia, ovvero attribuiscono la collera anche quando è rappresentata un’emozione diversa o assegnano un’emozione differente alle espressioni di collera (Lemerise, Arsenio, 2000; Fine et al. 2004; Lemerise et al., 2005). Inoltre, questo risultato potrebbe essere spiegato anche in relazione al fatto che i soggetti “non aggressivi” possono essere maggiormente esposti alla rabbia dei compagni/amici; di conseguenza, imparano più precocemente a riconoscere i segnali facciali dell’espressione emotiva, probabilmente allo scopo di attivare adeguate strategie di coping per fronteggiare le situazioni stressanti. Per ciò che concerne la capacità di percepire, discriminare ed etichettare figure di paesaggi che esprimono emozioni, non emergono differenze né tra i gruppi né al loro interno. Probabilmente, questa prova era poco sensibile a cogliere le differenze tra i gruppi in quanto le raffigurazioni di paesaggi difficilmente possono richiamare alla mente episodi conflittuali vissuti con i coetanei o sicuramente in misura molto minore rispetto all’espressione di un’emozione raffigurata su un volto di un coetaneo. Differenze notevoli, invece, possono essere osservate nella percezione, discriminazione ed etichettamento di brani musicali che suscitano emozioni. In questo caso, l’incapacità di individuare le emozioni che in base al test erano corrette e, di conseguenza, la molteplicità e diversità di risposte registrate potrebbe essere dovuta al fatto che la musica è un qualcosa che riguarda la soggettività dell’individuo. Infatti, ognuno di noi può attribuire una valenza positiva o negativa ad un brano nel momento in cui questo è ricondotto ad una specifica situazione di vita vissuta, indipendentemente dal livello di aggressività. In altre parole, lo stesso brano può attivare emozioni diverse in soggetti differenti. Per ciò che concerne il Test Uso, ovvero la capacità dei soggetti di servirsi delle emozioni per favorire alcune attività cognitive, il confronto fra soggetti “aggressivi” e “non aggressivi” mette in evidenza che, in buona parte delle situazioni presentate, non è possibile riscontrare delle differenze nelle risposte fornite. In particolare, sono emerse differenze tra “aggressivi” e “non aggressivi” solo nelle situazioni (n.2 e n.3) che prevedono l’interazione con l’altro. Evidentemente la capacità di stabilire e mantenere relazioni di amicizia è più elevata in bambini che mostrano un maggiore livello di condotte socialmente accettabili. Ad un esame più dettagliato delle sole risposte dei soggetti “aggressivi” emerge che quest’ultimi sono in grado di analizzare una situazione sociale, seppur con qualche limitazione. Nello specifico, l’analisi delle risposte mette in evidenza che gli “aggressivi” mostrano di essere parzialmente capaci di analizzare le situazioni di problem solving emotivo, identificando un’emozione su due. Questi risultati confermano solo in parte le ipotesi di Dodge (1986; 1991) circa le ridotte abilità dei soggetti “aggressivi” di formulare una corretta decodifica del contesto. Il fatto che siano, comunque, competenti nell’attribuire stati emotivi positivi, potrebbe indicare che non si tratti solo di deficit a carico dei processi cognitivi implicati nell’elaborazione dell’informazione sociale, ma anche di una selettiva disabilità di analizzare gli episodi problematici, in particolare quelli legati alle situazioni che evocano paura e tristezza. Probabilmente, una minore attenzione verso le conseguenze delle loro condotte ag-

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gressive potrebbe spiegare perché si mostrino meno competenti proprio nell’attribuzione degli stati emotivi altrui legati alla paura e alla tristezza. In riferimento al Test di Comprensione, e più specificatamente all’abilità dei soggetti di comprendere che gli stati emotivi possono subire delle variazioni, si evince che sussistono differenze tra soggetti “aggressivi” e “non aggressivi”. Ciò lascerebbe supporre che i soggetti “aggressivi” siano meno capaci di decodificare in modo corretto gli stati emotivi altrui nel momento in cui subiscono delle “trasformazioni”. Una situazione analoga si presenta circa la capacità dei soggetti di comprendere che gli stati emotivi complessi sono il risultato di più emozioni che bisogna essere in grado di cogliere. L’analisi dei dati evidenzia la presenza di differenze tra soggetti “aggressivi” e “non aggressivi”. Anche in questo caso, l’incapacità di decodificare adeguatamente la “trasformazione” degli stati emotivi e la difficoltà di comprendere le emozioni complesse potrebbero essere dovute al fatto che queste abilità implicano processi cognitivi altamente funzionali che nei soggetti “aggressivi” potrebbero risultare compromessi dalle loro modalità attentive e percettive limitate (Dodge, 1991; Cook et al, 1994; Lemerise & Arsenio, 2000). Inoltre, quando l’emozione di collera era indicata tra le possibili opzioni di risposta (2 volte su 3), i soggetti “aggressivi”, indipendentemente dal genere, la scelgono prevalentemente. Ciò conferma ulteriormente l’ipotesi che le maggiori differenze tra soggetti con alta e bassa frequenza di comportamenti aggressivi riguardano la capacità di percepire l’emozione di collera e di attribuirla a se stessi come emozione privilegiata che provano nelle situazioni problematiche (Hughes et al., 2000; Schultz et al., 2000). Relativamente al Test di Gestione intrapersonale, è possibile individuare differenze tra “aggressivi” e “non aggressivi”. In particolare, sembrerebbe che i soggetti “aggressivi” presentino notevoli difficoltà nella regolazione consapevole delle proprie emozioni, ovvero mostrino deficit sia nella capacità di monitorare le proprie emozioni al fine di riconoscerle sia nella capacità di gestire le proprie emozioni al fine di moderare quelle negative e di mantenere quelle positive. Ciò potrebbe significare che nei soggetti “aggressivi” vi sia la compromissione di due abilità: la valutazione e la regolazione (i.e Schultz et al., 2004; Kokkinos, Kipritsi, 2012). La valutazione fa riferimento a quanta attenzione si presta al proprio stato d’animo e a quanto questo sia influenzabile. La regolazione riguarda la capacità di migliorare uno stato di malumore, di mantenere uno stato di buon umore, di smorzarne uno di buon umore o di lasciar perdere lo stato dell’umore. Appare, dunque, plausibile che deficit in quest’ambito della competenza emotiva possano incrementare le difficoltà nella capacità di prevenire, ridurre, migliorare o modificare una risposta emozionale in se stessi; di aprirsi al confronto; di monitorare e regolare le emozioni senza perderne il valore informativo, in maniera riflessiva, così da promuovere la crescita emozionale ed intellettuale del soggetto (Lemerise, Arsenio, 2000; Eisemberg et al., 2000; Fabes et al, 1999). Anche nel Test di Gestione Interpersonale è possibile riscontrare differenze tra i gruppi: nello specifico, sembrerebbe che i soggetti “aggressivi” manifestino difficoltà nella gestione delle emozioni fondamentali nelle relazioni con gli altri e che, quindi, la messa in atto di comportamenti aggressivi possa incidere sulla restrizione delle aspettative, delle attribuzioni e delle valutazioni degli stati emotivi sperimentati dagli altri in situazioni problematiche. In relazione al modello cognitivo-comportamentale (Dodge, 1986; Crick, Dodge, 1994; Dodge et al. 2003), tale difficoltà potrebbe essere dovuta all’incapacità di formulare una corretta decodifica del contesto che è, a sua volta, attribuibile a un deficit a carico dei processi cognitivi implicati nell’attribuzione delle emozioni, considerato il primo passo del processo di elaborazione dell’informazione sociale e che si collega strettamente all’abilità di analizzare gli episodi problematici. In altre parole, i soggetti “aggressivi” sembrerebbero non essere abili

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nella comprensione delle emozioni proprie ed altrui (valutazione degli stati emotivi, elaborazione delle informazioni contestuali, ecc.) e nella risposta alle situazioni problematiche. Il frequente ricorso a modelli comportamentali disadattivi, consolidati dalle precedenti esperienze interpersonali, potrebbero limitare la possibilità di analizzare e differenziare le singole situazioni, e di adottare le strategie più idonee e funzionali. Si potrebbe, quindi, supporre che le precedenti esperienze conflittuali con coetanei ed adulti abbiano consolidato l’aspettativa che il comportamento ostile possa scoraggiare gli altri dall’intraprendere azioni di disturbo. Di conseguenza, i soggetti “aggressivi” propenderebbero verso la manifestazione di condotte antisociali, esibendo deficit non solo nei processi di decodifica delle informazioni sociali, quanto, soprattutto, nella capacità di elaborare un pensiero divergente funzionale allo sviluppo di un bagaglio di possibili risposte comportamentali di tipo assertivo e prosociale (i.e. Randall, 1997). In altre parole, il problema dei soggetti “aggressivi” potrebbe risiedere non solo nella loro distorta percezione e valutazione dell’informazione sociale, ma anche nei loro devianti valori e credenze che li portano ad una differente analisi dei costi/benefici dei comportamenti aggressivi. Ma se alla base dell’origine e del mantenimento dei comportamenti aggressivi c’è l’insufficiente sviluppo della regolazione emotiva, come si può intervenire? Sicuramente, l’attuazione di programmi e strategie educative miranti a diminuire la frequenza dei comportamenti aggressivi quando si verificano è di fondamentale importanza; ma un ruolo altrettanto cruciale riveste la progettazione di nuovi approcci educativi centrati sullo sviluppo dell’Intelligenza Emotiva. Innanzitutto, bisognerebbe cominciare dall’ambito familiare poiché le abilità emotive si apprendono dapprima in casa, e sono il prodotto di una buona relazione genitori-figli, e, successivamente, si generalizzano agli altri contesti. Sono, infatti, i genitori in primis che insegnano ai loro figli a riconoscere, identificare ed etichettare le emozioni, e a correlare le emozioni alle differenti situazioni sociali. In altre parole, i genitori contribuiscono alla formazione di un bagaglio di conoscenze emotive di base. L’apprendimento e lo sviluppo dell’Intelligenza Emotiva possono essere realizzati anche a scuola, mettendo in atto metodologie educative specifiche. È di fondamentale importanza, però, prestare molta attenzione affinché ciò avvenga in modo quasi naturale, non impositivo. Certo, non è corretto pensare che l’Intelligenza Emotiva possa essere insegnata come una qualsiasi disciplina scolastica, ma il suo insegnamento potrebbe piuttosto avvicinarsi all’idea di un allenamento per l’acquisizione di un’abilità sportiva. In questo senso, allora, come si allenano i muscoli per costruire la resistenza fisica, così si esercitano le abilità emotive per costruire l’Intelligenza Emotiva. In questo senso, dunque, la scuola potrebbe configurarsi come luogo strategico per l’acquisizione di un repertorio emotivo di base e per la costruzione dell’Intelligenza Emotiva.

5. Limiti della ricerca e sviluppi futuri Il principale limite della presente ricerca è certamente costituito dall’esiguo numero del campione che non consente una generalizzazione dei dati ottenuti. I risultati emersi, comunque, incoraggiano ad investire ulteriori risorse per poter successivamente affrontare l’argomento con un campione maggiormente significativo. Nonostante il ristretto numero di partecipanti, è stato tuttavia possibile effettuare interessanti riflessioni. Un altro aspetto inerente il campione, riguarda il fatto di non averne preso in considerazione il livello socio-culturale. Nel prosieguo dei lavori sull’argomento, sarebbe auspicabile conoscere il livello socio-culturale, in particolare dei soggetti aggressivi, al fine di verificare

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l’esistenza di differenze nello sviluppo dell’Intelligenza Emotiva in relazione alla diversa estrazione socio-culturale. Anche l’uso di un solo strumento per la rilevazione dei dati potrebbe costituire un limite. Sarebbe, dunque, preferibile in futuro condurre una ricerca in cui si adottano più strumenti che valutano le diverse abilità sottostanti l’Intelligenza Emotiva per ottenere un quadro più esaustivo dell’oggetto d’indagine. Gli elementi di criticità fin qui evidenziati possono, comunque, essere considerati dei validi punti di riferimento per successivi sviluppi in quest’ambito di ricerca.

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Ricerche La validità di contenuto delle prove INVALSI di comprensione della lettura Content Validity of INVALSI Reading Comprehension Tests CRISTIANO CORSINI Questo lavoro analizza la validità di contenuto delle prove INVALSI di comprensione della lettura. La duplicità nella finalità della rilevazione (accountability delle scuole e valutazione diagnostica di studenti e studentesse) rischia di compromettere la validità di contenuto degli strumenti di misura. In particolare, la finalità di accountabilty rende impossibile una valutazione che sia in grado di informare nel dettaglio scuole e docenti sul livello di padronanza raggiunto nella comprensione della lettura dalla popolazione studentesca.

This paper attempts to evaluate the content validity of reading comprehension tests administered by INVALSI. INVALSI tests have two main goals: school accountability and students’ diagnostic assessment. This paper shows how this dual purpose threatens content validity of the INVALSI measures and how the goal of accountability prevents from informing schools and teachers about students’ level in reading comprehension.

Parole chiave: valutazione, accountability, test, lettura, INVALSI, validità, validità di contenuto

Key words: assessment, accountability, test, reading, INVALSI, validity, content validity

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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La validità di contenuto delle prove INVALSI di comprensione della lettura

Introduzione I test INVALSI giocano un ruolo rilevante nell’esperienza di dirigenti, docenti e popolazione studentesca. Somministrati alla fine dell’anno scolastico, in molti casi danno forma all’attività didattica già a partire dai mesi precedenti, anche attraverso l’impiego, nelle classi, di strumenti che addestrano alunne e alunni alla “prova finale” (ne è testimonianza l’ampia diffusione di titoli come “Palestra per le prove INVALSI”). Considerata la centralità delle prove INVALSI, il presente lavoro intende offrire un contributo alla discussione della loro validità di contenuto, ovvero dell’adeguatezza con la quale gli item utilizzati rappresentano gli elementi del modello teorico di riferimento. Nello specifico, verranno analizzati i quesiti finalizzati, secondo il Quadro di riferimento del Sistema Nazionale di Valutazione (SNV) per la prova di Italiano del 2012 (INVALSI 2011b), alla “valutazione della competenza di lettura” e, in particolare, verrà valutato l’equilibrio con cui i diversi elementi del modello di comprensione della lettura scelto dall’Istituto sono rappresentati all’interno delle prove.

1. Finalità delle prove INVALSI Discutere la validità di un test impone in primo luogo l’esplicitazione delle finalità della misurazione. Una prova è infatti valida se misura esattamente quello che, attraverso il suo impiego, si intende misurare. La validità è dunque il grado di concordanza tra scopi ed esiti della rilevazione, un attributo relativo più che assoluto: ad essere validata non è mai una prova in sé, ma l’interpretazione e l’uso dei risultati ottenuti attraverso il suo utilizzo. L’analisi della validità di uno strumento obbliga di conseguenza a continui rimandi tra determinate caratteristiche della prova e la finalità del suo impiego, una sorta di passo a due in cui è però lo scopo della rilevazione a dettare il passo. Già con la direttiva ministeriale n. 74 del 2008 all’INVALSI è affidato il compito di “rilevare gli apprendimenti degli studenti nei momenti di ingresso e di uscita dei diversi livelli di scuole, così da rendere possibile la valutazione del valore aggiunto fornito da ogni scuola in termini di accrescimento dei livelli di apprendimento degli alunni”. La finalità della rilevazione è dunque la valutazione dell’efficacia delle scuole, incentrata sulla misurazione dei loro prodotti che, nella fattispecie, sono costituiti dai “livelli di apprendimento degli alunni”. Allo scopo di misurare il Valore Aggiunto l’Istituto ha approntato prove di italiano e matematica da somministrare rispettivamente nella scuola primaria (II e V classe), nella scuola secondaria di primo grado (I e III), nella scuola secondaria di secondo grado (II). Nei sistemi di accountability che ne fanno uso, il Valore Aggiunto è ottenuto dalla differenza tra il punteggio conseguito da un soggetto al termine di una prova standardizzata e il suo rendimento atteso. Un istituto aggiunge valore all’incremento di conoscenze del singolo soggetto se il

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rendimento finale di questi eccede quello atteso. Più semplicemente, prendendo in considerazione il modello base e prescindendo dall’aggregazione delle covariate, è possibile dire che, a parità di rendimento in ingresso, ci si attende che due soggetti abbiano lo stesso rendimento in uscita e che la differenza effettivamente riscontrata viene attribuita all’incidenza dell’istruzione scolastica ricevuta. Tuttavia, a dispetto dell’obiettivo chiarito nella direttiva del 2008 l’INVALSI, nei documenti che accompagnano la presentazione delle prove e la pubblicazione dei risultati, esplicita una diversa finalità, richiamandosi a un modello di valutazione diagnostica e formativa di studentesse e studenti che è stato a sua volta recepito, accanto a quello originario, nelle successive direttive ministeriali (2011-2012). Così, nel Rapporto sulla rilevazione degli apprendimenti del 2010 (INVALSI, 2010, p. 50), i ricercatori dell’Istituto scrivono che “la finalità della rilevazione degli apprendimenti è quella di fornire alle scuole indicazioni di dettaglio sui livelli di conoscenza e competenza dei loro studenti a scopo essenzialmente diagnostico, cioè per mettere in evidenza, per ogni disciplina, le aree di relativa criticità e di eccellenza. In questo modo le scuole hanno la possibilità di programmare l’attività didattica a partire da evidenze empiriche circa le reali esigenze dei loro studenti”. Emerge dunque una duplice finalità delle rilevazioni INVALSI, una possibile ambiguità che colloca tali rilevazioni a metà strada tra accountability degli istituti e valutazione diagnostico-formativa della popolazione studentesca e che rischia di mettere in discussione, con il perché e il chi, anche il cosa e il come delle misure.Va detto che, a fronte di una misurazione del Valore Aggiunto prospettata ma ancora di là da venire, l’Istituto persegue con una certa costanza la finalità di valutazione diagnostico-formativa. Così, nella restituzione dei risultati (supportata da una piattaforma di non difficile consultazione) l’INVALSI offre a scuole e docenti una informazione analitica rispetto alle prestazioni di studenti e studentesse segnalando, item per item, lo specifico processo testato da ciascuna domanda, il suo livello di difficoltà e le percentuali di risposte esatte fornite da ogni singola classe, confrontate con quelle ottenute a livello di istituto e di sistema. Si tratta però di informazioni raccolte con prove a norma e non a criterio: esse consentono solo di confrontare le prestazioni rispetto a gruppi di riferimento, senza fornire indicazioni sul raggiungimento o meno di determinati obiettivi di padronanza. Inoltre i tempi di somministrazione e, inevitabilmente, di restituzione, rendono poco agevole, se non impossibile, un uso formativo delle informazioni durante l’anno scolastico. Resta ancora da stabilire se l’ambivalenza nelle finalità delle rilevazioni INVALSI non si traduca in un’ambiguità e, nel caso, come e quanto tale ambiguità si ripercuota sulla validità delle prove stesse. Per farlo è utile a prendere in considerazione gli elementi del costrutto di comprensione della lettura e osservare come essi vengano rappresentati nel contenuto delle prove in esame.

2. Il costrutto alla base delle prove INVALSI di comprensione della lettura Il presente contributo si incentra, come accennato, sulla validità di contenuto delle prove INVALSI di comprensione delle lettura e in particolare sull’equilibrio con cui gli elementi del costrutto sono rappresentati all’interno delle prove. Anche se l’analisi della validità del modello di riferimento impiegato dall’Istituto nella fase di costruzione delle prove non rientra tra gli scopi del lavoro è tuttavia opportuna una sintetica descrizione di tale modello. Nel “Quadro di riferimento per la prova di Italiano 2012” la competenza di lettura è descritta come “com-

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prensione, interpretazione, riflessione e valutazione del testo scritto” (INVALSI, 2011b, p.3). Viene inoltre specificato che per comprendere, interpretare e valutare un testo “il lettore deve essere in grado di individuare specifiche informazioni, ricostruire il senso globale e il significato di singole parti, cogliere l’intenzione comunicativa dell’autore, lo scopo del testo e il genere cui esso appartiene”. Nel processo di definizione operativa della “competenza di lettura” l’Istituto si richiama esplicitamente alle indagini comparative internazionali OCSE-PISA e IEAPIRLS e, nello specifico, alla prima con maggior costanza, mentre i riferimenti alla seconda si limitano alla stesura del Quadro elaborato nel 2009 (INVALSI 2009). Proprio nel documento del 2009 (p. 8) l’Istituto chiarisce che i processi di lettura vengono “analizzati secondo il modello della lettura sotteso alle indagini internazionali PIRLS e OCSE PISA e dimostratosi molto valido per analizzare punti di forza e di debolezza dei lettori”1 e che le domande di comprensione della lettura del SNV sono tenute a valutare i processi di seguito riportati (p. 10). 1. 2. 3. 4.

Individuare informazioni date nel testo. Formulare semplici inferenze. Elaborare una comprensione globale del testo. Sviluppare un’interpretazione, integrando informazioni e concetti presentati in diverse parti del testo. 5. Valutare il contenuto del testo, la lingua e gli elementi testuali. In larga parte convergenti (tabella 1), i modelli alla base di PISA e PIRLS2 rappresentano un compromesso tra le stringenti esigenze che caratterizzano indagini su larga scala orientate alla comparazione tra diversi sistemi educativi e gli sviluppi che hanno riguardato, tra gli anni sessanta e gli anni novanta, le ricerche relative ai modelli processuali e alle abilità coinvolte nella comprensione della lettura. Una prima caratteristica che accomuna i due costrutti è il richiamo alla complementarietà dei modelli di comprensione della lettura bottom-up e top-down. Il primo tipo di processo, induttivo, enfatizza la serialità della lettura e considera la comprensione attivata dalla raccolta di informazioni dal testo: il soggetto acquisisce tali informazioni in ingresso per poi elaborarle e organizzarle. Nel secondo tipo di processo, deduttivo, assumono centralità le aspettative di chi legge, aspettative condizionate sia dalle conoscenze enciclopediche sia dalle conoscenze fonologiche, morfo-sintattiche e lessicali che rendono possibili nel soggetto l’attivazione di meccanismi di inferenza e la rappresentazione del significato del testo o di parti di esso. Un ruolo fondamentale nell’integrazione tra i due processi è giocato dalla teoria degli schemi, strutture interpretative e organizzative dei dati sensoriali e una particolare rilevanza assume il modello elaborato da Just e Carpenter (1980), secondo cui la lettura è caratterizzata da un flusso di informazioni dal testo in un sistema in cui operano, in maniera equilibrata, sia processi bottom-up che, attivati dall’input sensoriale (percettivo), consentono il riconoscimento

1 Con i processi vengono direttamente recepiti nel modello INVALSI anche i formati valutativi e le tipologie testuali delle due indagini. 2 Per PIRLS: Ina V.S. Mullis et alii, PIRLS 2006. Assessment framework and Specifications, Chestnut Hill, MA: Boston College, 2006; INVALSI, Ricerca internazionale IEA-PIRLS 2006. Rapporto nazionale, Armando, Roma, 2008. Per PISA: OCSE, Valutare le competenze in scienze, lettura e matematica. Quadro di riferimento di PISA 2006, Armando, Roma, 2007.

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SNV (INVALSI)

PIRLS (IEA, 9 anni)

PISA (OCSE, 15 anni)

Individuare informazioni date nel testo

Ricavare informazioni e concetti esplicitamente espressi nel testo

Individuare informazioni

Formulare semplici inferenze

Fare inferenze

Elaborare una comprensione globale del testo Sviluppare un’interpretazione, integrando informazioni e concetti Valutare il contenuto del testo, la lingua e gli elementi testuali

Interpretare e integrare informazioni e concetti

Interpretare il testo (comprendendone il significato generale e le relazioni tra parti di esso)

Analizzare e valutare il contenuto, la lingua e gli elementi testuali

Riflettere e valutare (forma e contenuto del testo)

Tabella 1. Confronto tra gli elementi fondamentali dei modelli di comprensione della lettura. d Dal 2009 i processi della reading literacy di PISA assumono le seguenti denominazioni: accedere alle informazioni e individuarle, integrare e interpretare ciò che si legge, riflettere e valutare

di parole in maniera sequenziale, sia processi top-down che collocano quelle parole all’interno t 3 della struttura già elaborata . I modelli di comprensione della lettura utilizzati in PIRLS e in PISA convergono anche rispetto alla definizione operativa delle abilità coinvolte nel processo di comprensione. Da questo punto di vista è possibile rintracciare le fondamenta dei processi testati dalle domande presenti nei fascicoli delle due ricerche già nel lavoro di Davis (1968), che distingue quattro capacità alla base dei processi di comprensione del testo (riconoscere singole parole o locuzioni, ricostruire il significato del testo operando sulla base di indizi ricavati dal contesto; rispondere a domande relative a informazioni esplicitamente presenti nel testo; trarre inferenze dal testo, rispondendo a domande relative a informazioni non esplicitamente presenti nel testo). È però il lavoro di Rosenshine (1980) a svolgere un ruolo fondamentale. Pur escludendo la possibilità di una tassonomia gerarchica dei microprocessi di comprensione della lettura (in linea con quanto dimostrato dallo stesso Davis) Rosenshine propone, sulla scorta del lavoro di Carver (1973), la seguente classificazione delle abilità di lettura incentrata sulla distinzione tra leggere come decodifica (1 e 2) e leggere come abilità di ragionamento (reasoning, 3 e 4): 1. decodifica delle parole e determinazione del loro significato nella frase; 2. collegamento del significato delle singole parole al significato globale della frase; P

PISA: OCSE, V

3 Il richiamo all’integrazione tra bottom –up e top-down è esplicitato, per PIRLS, in Pavan De Gregorio (2007) e in Martin, Mullis, Kennedy (2003). Per quanto riguarda il framework PISA (OECD 1999), i due processi sono assunti alla base della della definizione operativa degli aspetti della reading literacy.Tali aspetti vengono infatti ricavati sulla scorta di una prima distinzione tra “utilizzare informazioni dal testo” (Individuare informazioni e interpretare il testo) e “attingere a conoscenze extra testuali” (Riflettere e valutare).

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3. comprensione del capoverso e di quanto contiene (l’idea principale, i rapporti di causaeffetto e di ipotesi-verifica, le implicazioni, le conclusioni non esplicitate, le idee collegate, anche solo indirettamente, con l’idea principale del paragrafo stesso); 4. valutazione delle idee sulla base di aspetti quali la logicità, il riscontro della prova, l’autenticità e i giudizi di valore. L’influenza esercitata da questa classificazione sulla definizione operativa dei processi appare evidente ed è esplicitata, per PIRLS, da Pavan De Gregorio (2007, p. 47): “rifacendoci all’analisi sui processi di lettura riportata da Rosenshine, il PIRLS ha utilizzato un solo processo riconducibile all’abilità di decodifica, il primo, relativo alla capacità di ricavare informazioni e concetti esplicitamente espressi nel testo, mentre ha dato maggiore rilevanza ai processi legati al reasoning, scegliendone addirittura tre: saper trarre inferenze, saper integrare e interpretare, e saper valutare idee e aspetti testuali”. La stessa architettura è rintracciabile in PISA che, come accennato, esercita, a differenza di PIRLS, un ruolo riconosciuto dall’INVALSI nello sviluppo della prove di comprensione della lettura non solo nel primo Quadro di riferimento (2009) ma anche nei successivi.Va però segnalato come non manchino elementi per considerare non mutualmente esclusivi i processi di comprensione e in particolare le sottoabilità legate a meccanismi inferenziali. Così, l’esplicitazione dei processi del framework PISA operata nel Quadro di riferimento INVALSI per il 2010 (INVALSI 2009, pp. 9-12) sottolinea che i compiti relativi alla scala Individuare informazioni sono basati “sul testo stesso e sulle informazioni esplicitamente date in esso”, tuttavia tali informazioni possono essere espresse in forma “letterale o sinonimica”. Va ricordato che le riduzioni operative delle indagini internazionali hanno, come accennato, l’indubbio vantaggio di accordarsi con le esigenze di progetti che, a prescindere dalle rispettive peculiarità, puntano alla rilevazione su ampia scala e alla confrontabilità di sistemi educativi operanti in realtà culturalmente e linguisticamente differenti, mentre gli intenti di valutazione diagnostica svolgono un ruolo secondario (PIRLS) o sono del tutto assenti (PISA). In sintesi, la natura processuale della comprensione della lettura può conciliarsi solo entro certi limiti con la valutazione su larga scala e indirizzata alla comparazione dei sistemi scolastici (Intraversato 2012). Ma proprio l’accessorietà o l’assenza delle finalità diagnostiche attutiscono la problematicità legata all’architettura non mutualmente esclusiva dei diversi processi di lettura elaborati dai quadri di riferimento e delle relative sottoabilità, aspetto peraltro riconosciuto esplicitamente già nel framework PISA relativo al primo ciclo di indagine (OECD 1999, p. 29). Limiti a parte, va segnalato come i modelli utilizzati da OCSE e IEA rappresentino un’evoluzione rispetto a quello messo a punto per la ricerca IEA-SAL IEA Reading Literacy Study, condotto per la parte italiana sotto il nome IEA SAL, Studio Alfabetizzazione Lettura nel 1991. A costituire un fondamentale elemento di innovazione rispetto al modello SAL è l’introduzione dei processi incentrati sulla valutazione del testo che, richiedendo valutazioni della forma e del contenuto di quanto letto, impongono con maggior frequenza l’elaborazione di risposte più o meno complesse da parte di studentesse e studenti. E proprio nell’inserimento di risposte aperte (non necessariamente relative agli item di valutazione del testo) consiste l’altra novità di rilievo delle indagini PIRLS e PISA rispetto alla rilevazione SAL. Nel Rapporto tecnico 2012 l’INVALSI (2012b) lega ciascun quesito a tre distinti processi di comprensione della lettura, parzialmente convergenti con quelli proposti dall’OCSE-PISA: Individuare informazioni, Ricostruire il significato del testo, Interpretare e valutare.Tuttavia l’Istituto, forte della specificità culturale della rilevazione affidatagli, intende andare oltre e

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arricchire il modello di riferimento costituito dalle indagini internazionali: “mentre, nonostante alcune differenze nella formulazione verbale, gli aspetti che le prove di lettura PIRLS e PISA si prefiggono di valutare sono sostanzialmente gli stessi, tra gli aspetti su cui verte la prova INVALSI ne compaiono due che non trovano riscontro nei framework delle prove internazionali: essi sono la capacità di comprendere il significato di parole ed espressioni e la capacità di cogliere relazioni di coerenza e coesione testuale. Non a caso si tratta di dimensioni che sono strettamente legate alla semantica e alle strutture sintattiche e testuali di una particolare lingua e che, come tali, possono esser oggetto di valutazione in prove a carattere nazionale ma difficilmente potrebbero esserlo in prove che si rivolgono ai parlanti lingue diverse” (INVALSI, 2012b, p. 2). Con l’aggiunta dei due aspetti sopra citati e differenziando la ricostruzione del significato dell’intero testo da quella di parti distinte di esso l’INVALSI, nel Quadro di riferimento per la prova del 2012 (INVALSI, 2011b), distingue otto aspetti della comprensione della lettura che i quesiti presenti nelle prove sono chiamati a rilevare. Gli otto aspetti e la loro aggregazione nei tre processi principali sono riportati nella tabella 2. La tabella 3 fornisce esempi dei quesiti (tratti dalla Guida alla prova 2012 per la classe terza della scuola secondaria di primo grado) per ciascuno dei tre processi.

PROCESSI Individuare informazioni

Ricostruire il significato del testo

Interpretare e valutare

ASPETTI 2 Individuare informazioni date esplicitamente nel testo. 1 Riconoscere e comprendere il significato letterale e figurato di parole ed espressioni; riconoscere le relazioni tra parole. 3 Fare un’inferenza diretta, ricavando un’informazione implicita da una o più informazioni date nel testo e/o tratte dall’enciclopedia personale del lettore. 4 Cogliere le relazioni di coesione (organizzazione logica entro e oltre la frase) e coerenza testuale. 5a Ricostruire il significato di una parte più o meno estesa del testo, integrando più informazioni e concetti, anche formulando inferenze complesse. 5b Ricostruire il significato globale del testo, integrando più informazioni e concetti, anche formulando inferenze complesse. 6 Sviluppare un’interpretazione del testo, a partire dal suo contenuto e/o dalla sua forma, andando al di là di una comprensione letterale. 7 Valutare il contenuto e/o la forma del testo alla luce delle conoscenze ed esperienze personali (riflettendo sulla plausibilità delle informazioni, sulla validità delle argomentazioni, sulla efficacia comunicativa del testo, ecc.)

Tabella 2. Processi e aspetti della comprensione della lettura che le prove INVALSI sono chiamate a testare secondo il Quadro di riferimento (INVALSI, 2011b)

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Processo

Individuare informazioni

Ricostruire il significato del testo

Interpretare e valutare

Domanda

B7. Una delle soluzioni proposte per il problema del rilascio di CO2 nella produzione di idrogeno è di A. bruciarla in ambiente protetto nel momento stesso in cui viene generata B. trasformarla in vapore acqueo C. imprigionarla in giacimenti di combustibili fossili abbandonati D. disperderla nell’atmosfera A12. Qual è la differenza più importante fra quello che il protagonista mette in vendita nella prima offerta e quello che mette in vendita nelle offerte successive? A. Nel primo caso il protagonista descrive lo stato di ciò che mette in vendita, negli altri casi no B. Nel primo caso offre qualcosa che interessa a molti, negli altri casi fa offerte poco interessanti C. Nel primo caso offre qualcosa che possiede, negli altri casi offre qualcosa che non possiede D. Nel primo caso mette in vendita qualcosa di poco prezioso, negli altri casi oggetti di grande valore B8. Lo scopo principale del testo che hai letto è A. mettere in guardia sui numerosi problemi non risolti legati all’uso dell’idrogeno B. informare sulle caratteristiche e sugli usi dell’idrogeno per la produzione di energia C. illustrare i vantaggi economici dell’uso dell’idrogeno per l’industria automobilistica D. riportare le diverse e contrastanti posizioni nel mondo scientifico sul futuro uso dell’idrogeno

Tipo di testo, formato, aspetto, chiave

Descrizione del compito/Commento

Tipo di testo: espositivo Tipo di item: domanda a scelta multipla Aspetto: 2 Risposta corretta: C

Per rispondere lo studente deve riconoscere l’alternativa corretta fra quelle date, ritrovando nel testo l’informazione richiesta, data esplicitamente, anche se in forma parafrastica, alle righe 34‐35. Una difficoltà può esser rappresentata dal fatto che l’alunno deve ricordare – se già non lo sapesse ‐ che “petrolio e metano” sono combustibili fossili, cosa che viene detta in un punto precedente del testo (righe 16‐ 17).

Tipo di testo: narrativo Tipo di item: domanda a scelta multipla Aspetto: 5b Risposta corretta: C

Per rispondere lo studente deve aver compreso il senso globale del testo, integrando più informazioni e concetti. L’opzione corretta C esprime la caratteristica “più importante” che differenzia la prima offerta dalle successive non solo perché riguarda l’esistenza stessa degli oggetti offerti, anziché le loro qualità, ma anche ai fini dello sviluppo della narrazione: il fatto di mettere in vendita oggetti che non possiede è infatti ciò che, da un lato, permette al protagonista di continuare a fare annunci e dall’altro mette in moto il meccanismo di cui rimarrà alla fine vittima.

Tipo di testo: espositivo Tipo di item: domanda a scelta multipla Aspetto: 6 Risposta corretta: B

Per rispondere lo studente deve cogliere l’intenzione comunicativa del testo. L’alternativa B è quella che sintetizza in forma più esaustiva lo “scopo principale” di esso. Le alternative A e C, pur trovando un riscontro nel testo, ne esprimono lo scopo in maniera del tutto parziale, mentre l’alternativa D è plausibile ma non ha fondamento nel brano proposto.

Tabella 3. Esempi di quesiti per ciascuno dei tre processi di comprensione della lettura della prova INVALSI 2012 per classe terza della scuola secondaria di primo grado (INVALSI, 2012a)

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3. Validità del contenuto delle prove INVALSI di comprensione della lettura Una volta descritto il modello delle prove INVALSI di comprensione della lettura è possibile analizzare la validità di contenuto degli strumenti approntati dal gruppo di esperti incaricati dall’Istituto verificando quanto gli elementi costitutivi del costrutto siano adeguatamente rappresentati nei quesiti presenti nel test. Riguardo alle modifiche apportate ai costrutti propri delle indagini internazionali, si ribadisce quanto detto in apertura del paragrafo precedente: il presente lavoro non ha l’obiettivo di mettere in discussione la fondatezza del modello teorico di riferimento ma ne utilizza la descrizione per verificare la validità di contenuto delle prove e, nello specifico, l’equilibrio con cui i diversi elementi del modello sono rappresentati all’interno delle prove. Tuttavia si può evidenziare come il primo esempio riportato in tabella 3, relativo secondo l’INVALSI al processo Individuare informazioni date esplicitamente nel testo, chiami in causa un meccanismo inferenziale (nello specifico il testo riferisce del confinamento della CO2 “in giacimenti esauriti di petrolio o di metano”). In questa sede ci si limita a segnalare la possibilità che la natura non mutualmente esclusiva dei processi di comprensione della lettura che, come espresso nel paragrafo precedente, contrassegna anche l’indagine PISA, possa incidere negativamente sull’uso diagnostico e formativo delle prove se non si considerano con cautela le sovrapposizioni e le contaminazioni fra i diversi processi4. Prima di prendere in considerazione la tassonomia degli item in base agli otto aspetti, è utile partire dai tre processi (Individuare informazioni, Ricostruire il significato del testo, Interpretare e valutare), un’operazione che consente anche un immediato confronto con il contenuto delle prove utilizzate da PIRLS e PISA. La tabella 4 sintetizza la rappresentazione di ciascuno dei tre processi di lettura all’interno delle prove di Italiano somministrate dall’INVALSI nel 2012. L’attribuzione di ciascun item al processo di riferimento è fornita dallo stesso Istituto nel Rapporto tecnico (INVALSI, 2012b). Come si può notare, in tutte le prove ad avere maggiore spazio è il processo Ricostruire il significato del testo. La cosa non stupisce se si considera che tale processo è costituito da ben quattro degli otto aspetti del modello di comprensione della lettura alla base delle prove. Quel che desta perplessità è l’inadeguata rappresentazione del processo Interpretare e valutare, che raggiunge la sua massima rappresentazione nella prova della seconda classe della scuola secondaria di secondo grado (nella quale viene peraltro rilevato da appena cinque quesiti, pari al 10,2% del totale degli item di comprensione della lettura). Nelle prove costruite per le classi dei cicli precedenti i quesiti relativi al processo Interpretare e valutare tendono progressivamente a diminuire, fino a scomparire in quella somministrata nella seconda classe della scuola primaria. Si tratta con ogni evidenza di una inadeguata rappresentazione di un elemento del costrutto all’interno del contenuto della prova, una criticità che getta un’ombra sulla validità dello strumento, dato che un nu-

4 Proprio i lavori incentrati sull’analisi delle inferenze hanno, per Lumbelli (2009), un potenziale di applicabilità tale da poterne garantire la declinazione didattica. In particolare, Lumbelli fa riferimento al lavoro di Kintsch (1998), che classifica le inferenze in operazioni di recupero, attraverso le quali il lettore riconnette le informazioni del testo in maniera più o meno immediata, e in operazioni che producono nuove conoscenze. Solo nelle occasioni in cui queste ultime operazioni sono caratterizzate dal controllo cosciente da parte del lettore, attivato dalla presenza di problemi di incoerenza nella rappresentazione del significato del testo altrimenti non risolvibili, si hanno inferenze propriamente dette e un autentico processo di comprensione. Lo spunto offerto dai risultati Invalsi deve dunque essere quantomeno arricchito per poter avere una ricaduta operativa in aula.

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mero così esiguo di quesiti non è in grado di fornire informazioni affidabili sul processo in esame. Il contenuto di queste prove non rende dunque giustizia alla ricchezza del modello teorico sopra descritto e ne consegue che la comprensione della lettura è rilevata in maniera parziale.Va segnalato che le versioni precedenti dello strumento non contengono, da questo punto di vista, variazioni significative rispetto a quella del 2012. Prove Processi

Individuare informazioni Ricostruire il significato del testo Interpretare e valutare

II primaria Va %

V primaria va %

I sec. I gr. Va %

III sec. I gr. va %

II sec. gr. va %

4

21,1

7

21,9

6

16,7

9

23,7

14

28,6

15

78,9

24

75,0

28

77,8

26

68,4

30

61,2

0

0,0

1

3,1

2

5,6

3

7,9

5

10,2

Tabella 4. Numero (va) e percentuale (%) di item dei tre processi di comprensione della lettura nelle prove INVALSI somministrate nel 2012 (sul totale dei quesiti di comprensione della lettura). Elaborazione da INVALSI (2012b)

La tabella 5 evidenzia la distribuzione dei quesiti PISA sulla base dei processi di reading literacy elaborati dall’OCSE per le edizioni del 2000 e del 2009. Come si può osservare, anche in questo caso c’è un processo (Interpretare il testo) che viene maggiormente riprodotto, tuttavia tanto Individuare informazioni quanto Riflettere e valutare sono rappresentati da un numero di item tale da garantire per entrambi una affidabile rilevazione.Va detto che, a differenza di quelli INVALSI, i quesiti PISA, così come quelli PIRLS (che garantiscono anch’essi un equo riconoscimento a ciascun processo), non vengono somministrati a tutti i soggetti, ma con una complessa rotazione di fascicoli l’OCSE e la IEA assicurano comunque che tutti gli elementi del costrutto di comprensione della lettura siano adeguatamente rilevati in ogni scuola (PISA) e in ogni classe (PIRLS) campionata. D’altro canto la finalità delle indagini internazionali è di natura sistemica e comparativa e non punta a stimare il Valore Aggiunto degli istituti, a fornire indicazioni di dettaglio a scuole e docenti sui punti di forza e di debolezza della propria popolazione studentesca o ad azzardare una combinazione tra questi due obiettivi. Prove PISA Processi Individuare informazioni Interpretare il testo Riflettere e valutare

2000 va 40 68 27

2009 % 29,6 50,4 20,0

Va 31 67 33

% 23,7 51,1 25,2

Tabella 5. Numero (va) e percentuale (%) di item dei tre processi di comprensione della lettura nelle prove PISA somministrate nelle versioni del 2000 e del 2009. Dati tratti della r dai rapporti tecnici PISA 2000 (OECD, 2002) e PISA 2009 (OECD, 2012). Dal 2009 i processi della reading literacy di PISA assumono le seguenti denominazioni: accedere alle informazioni e individuarle, integrare e interpretare ciò che si legge, riflettere e valutare

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della r

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L’inadeguatezza della rappresentazione del modello teorico elaborato per la comprensione della lettura nel contenuto delle prove INVALSI si fa ancora più evidente se l’attenzione si sposta dai tre processi agli otto aspetti che, secondo il Quadro di riferimento per la prova di Italiano, dovrebbero essere rilevati. Come si può notare (tabella 6), mentre l’aspetto 6 (Sviluppare un’interpretazione del testo) è sottodimensionato, non vi è traccia alcuna dell’aspetto 7 (Valutare il contenuto e/o la forma del testo). Anche in questo caso si segnala come le prove del 2012 non costituiscano un’eccezione rispetto alle versioni precedenti. Prove Aspetti

II primaria

V primaria

I sec. I grado

III sec. I grado

II sec. II grado

2

va 4

% 21,1

va 7

% 21,9

va 6

% 16,7

Va 9

% 23,7

va 14

% 28,6

1

0

0,0

3

9,4

6

16,7

6

15,8

7

14,3

3

5

26,3

1

3,1

1

2,8

6

15,8

5

10,2

4

1

5,3

3

9,4

5

13,9

4

10,5

3

6,1

5a

7

36,8

14

43,8

13

36,1

7

18,4

11

22,4

5b

2

10,5

3

9,4

3

8,3

3

7,9

4

8,2

6

0

0,0

1

3,1

2

5,6

3

7,9

5

10,2

7

0

0,0

0

0,0

0

0,0

0

0,0

0

0,0

Tabella 6. Numero (va) e percentuale (%) di item dei tre processi di comprensione della lettura nelle prove INVALSI somministrate nel 2012 (sul totale dei quesiti di comprensione della lettura). Elaborazione effettuata sulla base del Rapporto tecnico del 2012 (INVALSI, 2012)

d

Aspetti: 2 = Individuare informazioni, 1 = Riconoscere e comprendere il significato letterale e figurato di parole ed espressioni, riconoscere le relazioni tra parole. 3 = Fare un’inferenza diretta, ricavando un’informazione implicita da una o più informazioni date nel testo e/o tratte dall’enciclopedia personale del lettore. 4 = Cogliere le relazioni di coesione (organizzazione logica entro e oltre la frase) e coerenza testuale. 5a = Ricostruire il significato di una parte più o meno estesa del testo, integrando al di là più informazioni e concetti, anche formulando inferenze complesse. 5b = Ricostruire il significato globale del testo, integrando più informazioni e concetti, anche formulando inferenze complesse. 6 = Sviluppare un’interpretazione del testo, a partire dal suo contenuto e/o dalla sua forma, andando al di là di una comprensione letterale. 7 = Valutare il contenuto e/o la forma del testo alla luce delle conoscenze ed esperienze personali (riflettendo sulla plausibilità delle informazioni, sulla validità delle argomentazioni, sulla efficacia comunicativa del testo, ecc.).

Le criticità riscontrate nella validità di contenuto delle prove INVALSI chiamano in causa motivazioni che prescindono dalla competenza dei costruttori delle prove.Va anzi segnalato come la qualità dei singoli quesiti sia di buon livello e che progredisca anno dopo anno, cosa riscontrabile sia analizzando le singole domande e i testi proposti sia confrontandoli con quelli degli anni precedenti. Inoltre, pur tenendo conto del fatto che uno strumento affidabile non è necessariamente uno strumento valido, osservando i risultati dell’item analysis è possibile notare una buona tenuta della prova del 2012, dato non scontato se si pensa che nel 2010 ben 6 dei 17 quesiti di comprensione della lettura relativi al primo testo della classe V evidenziavano problemi di discriminatività.

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Per spiegare il deficit riscontrato nella validità di contenuto della prova è utile tornare alla finalità della rilevazione che il Ministero ha affidato all’INVALSI. Lo scopo di misurare il Valore Aggiunto di ciascun istituto impone di somministrare la prova a tutte le studentesse e a tutti gli studenti delle cinque classi scelte e non a un campione rappresentativo. Una somministrazione simile ha però dei costi molto più elevati rispetto a un’indagine campionaria. E tali costi lieviterebbero ulteriormente se, allo scopo di rilevare processi di comprensione della lettura che richiedono di esprimere interpretazioni, riflessioni e valutazioni articolate non ci si limitasse a utilizzare quesiti a risposta “chiusa” (corrispondenza, scelta multipla) o “aperta univoca”, ma si impiegassero anche quesiti a risposta “aperta complessa”. Sono le procedure di valutazione di queste ultime ad accrescere notevolmente i costi della somministrazione: una banale considerazione di senso comune, che non è sfuggita agli esperti (due economisti e uno statistico) cui l’INVALSI nel 2008 ha affidato un documento sulle finalità e gli aspetti metodologici delle rilevazioni nazionali. Nel documento i tre esperti avvertono: “la spesa per studente varierebbe in modo lineare da zero a 16 euro passando da nessuna domanda a risposta aperta a tutte le risposte a risposta aperta. Nel caso in cui si mantenga la quota delle domande a risposta aperta nella stessa proporzione del 40 per cento utilizzato in PISA, il costo per studente ammonterebbe a 6,4 euro” (Checchi, Ichino,Vittadini, 2008, pp. 17-18). Evidentemente il budget stanziato per soggetto per le rilevazioni INVALSI deve essere più vicino alla prima cifra (⇔ 0) che alla seconda (⇔ 6,40) se, come evidenziato nella tabella 7, nelle prove di comprensione della lettura del 2012 non v’è traccia alcuna di risposte aperte complesse. La parsimonia, di per sé, è cosa positiva, il problema sorge quando la duplice urgenza di misurare il Valore Aggiunto di ciascuna scuola e di farlo risparmiando impone un impoverimento nel contenuto delle prove che, a sua volta, minaccia la validità della rilevazione.Va detto che la questione, seppur sfuggita ai tre esperti sopra citati, è stata colta da numerosi esponenti del mondo educativo, tra questi Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica (GISCEL) che in una nota esprime perplessità sul rapporto tra costi e benefici delle prove INVALSI (GISCEL, 2011). Prove Quesiti Risposta chiusa Aperta univoca Aperta complessa

II primaria Va % 19 100,0 0 0,0 0 0,0

V primaria va % 31 96,9 1 3,1 0 0,0

I sec. I gr. va % 26 72,2 10 27,8 0 0,0

III sec. I gr. va % 29 76,3 9 23,7 0 0,0

II sec. II gr. va % 33 67,3 16 32,7 0 0,0

Tabella 7. Numero (va) e percentuale (%) dei formati di risposta per i quesiti di comprensione della lettura nelle prove INVALSI somministrate nel 2012 (sul totale dei quesiti di comprensione della lettura)

Nella tabella 8 viene mostrata la distribuzione, in Pisa 2009, degli item di comprensione della lettura secondo il formato mentre, in quella successiva, i formati dei quesiti sono messi in relazione con i processi testati.

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Cristiano Corsini

PISA 2009 QUESITI va

%

Risposta chiusa

75

57,3

Aperta univoca

11

8,4

Aperta complessa

45

34,4

Tabella 8. Numero (va) e percentuale (%) dei formati di risposta per i quesiti lla 8. Numero (va) e percentuale (%) dei formati di risposta per i quesiti di comprensione della lettura nella di comprensione della lettura nella prova PISA somministrata nel 2012. prova PISA somministrata nel 2012. Elaborazione dal rapporto tecnico PISA 2009 (OECD, 2011). Elaborazione dal rapporto tecnico PISA 2009 (OECD, 2011)

PROCESSI

QUESITI

Accedere alle informazioni e individuarle

Integrare e interpretare

Riflettere e valutare

Risposta chiusa Aperta univoca Aperta complessa Risposta chiusa Aperta univoca Aperta complessa Risposta chiusa Aperta univoca Aperta complessa

PISA 2009 Va % 18 58,1 10 32,3 3 9,7 48 71,6 1 1,5 18 26,9 9 27,3 0 0,0 24 72,7

Tabella 9. Numero (va) e percentuale (%) dei formati di risposta per ciascuno dei processi di comprensione della lettura nella prova PISA somministrata nel 2012 Elaborazione dal rapporto tecnico PISA 2009 (OECD, 2011)

Come si può notare, l’indagine PISA fa ampio uso di risposte aperte e sono soprattutto quelle complesse a garantire la rilevazione del processo Riflettere e valutare. Ma la mancata introduzione di questo tipo di risposte nelle prove INVALSI (e la conseguente minaccia alla validità dello strumento) è, come visto, legata alla finalità della prova. Va evidenziato infatti che se la rilevazione perseguisse unicamente una finalità diagnostico-formativa, sarebbe possibile somministrare su un campione nazionale prove arricchite con domande a risposta aperta, utilizzando per la loro valutazione la cifra risparmiata grazie al campionamento. Una volta validate, le prove potrebbero essere consegnate a scuole e docenti che, in tal modo, avrebbero a disposizione un valido strumento da somministrare nelle proprie classi a scopo diagnostico e formativo.Va infine sottolineato che il ricorso a una somministrazione controllata per il campione consentirebbe all’INVALSI di adempiere all’obbligo di rilevazione di sistema (che non coincide necessariamente con quello di misurazione del Valore Aggiunto, operazione che peraltro, come accennato, è stata sin qui annunciata ma mai realizzata). Ma c’è di più. L’OCSE è riuscita a costruire delle prove a criterio, partendo da un contenuto che rappresenta adeguatamente, dal punto di vista della numerosità degli item, ciascun processo del costrutto. Dando il giusto spazio a ogni elemento del modello di comprensione della lettura è infatti possibile esplicitare analiticamente (processo per processo) le caratteristiche delle prestazioni di un soggetto appartenente a una determinata fascia di rendimento.

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Per farlo infatti non è sufficiente suddividere i quesiti e i soggetti in livelli (di difficoltà per i primi e di rendimento per i secondi), ma anche che ciascun processo sia rilevato da un numero sufficientemente ampio di quesiti. Così PISA, nei suoi rapporti, non solo indica chiaramente la percentuale di studenti e studentesse che si collocano entro determinati livelli di rendimento ma esplicita, processo per processo, le operazioni che la padronanza da essi raggiunta nella reading literacy gli consente di compiere. La figura 1, tratta dal Rapporto italiano di PISA 2009, fornisce un esempio relativo al processo Accedere alle informazioni e individuarle. Come già accennato, le prove INVALSI, a causa di un’inadeguata rappresentazione del costrutto nel contenuto della prova di comprensione della lettura, non sono in grado di fornire un’informazione così ricca agli istituti ma si limitano a consentire confronti tra le risposte esatte di una classe e quelle della scuola o del campione nazionale: troppo poco per una valutazione diagnostica.

Figura 1. Tratta da INVALSI (2011a, p. 52). Livelli di Reading literacy per la ricerca PISA 2009, caratteristiche dei compiti e “competenze necessarie” per la loro risoluzione

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Cristiano Corsini

Conclusioni: tra valutazione e accountability Le rilevazioni INVALSI sono contrassegnate da un duplice scopo: da un lato dovrebbero sostenere la misurazione del Valore Aggiunto di ciascuna scuola, dall’altro si prefiggono di fornire a istituti e docenti informazioni di dettaglio in modo da consentire loro di programmare l’attività didattica sulla base delle evidenze empiriche raccolte su studentesse e studenti. È tuttavia ancora assente, da parte dell’Istituto, una riflessione sia sulla validità del Valore Aggiunto come indicatore dell’efficacia dell’insegnamento sia sulla legittimità dell’impiego dello stesso test a fini rendicontativi e valutativi. Eppure, tali analisi sembrano particolarmente urgenti, anche in considerazione di alcune tendenze riscontrabili nella letteratura di ricerca. In primo luogo, infatti, la letteratura di riferimento ha rilevato criticità rispetto all’uso del Valore Aggiunto, mettendone in discussione affidabilità e validità5 proprio mentre la centralità occupata dall’indicatore nella definizione dell’efficacia scolastica è ridimensionata dagli sviluppi metodologici del relativo filone di ricerca6. In secondo luogo, evidenze empiriche indicano come le finalità di accountability possano essere associate a un processo di corruzione della validità delle misure impiegate7. Non appare dunque fugato il sospetto che tra accountability e valutazione diagnostica vi sia una irriducibile discordanza, come ammoniva Lee Cronbach8 oltre trenta anni fa, sottolineando come l’accountability volga lo sguardo al passato per distribuire meriti o colpe, mentre la valutazione analizzi i processi per indirizzare attività future. Il presente contributo, prendendo in esame la validità di contenuto delle prove INVALSI di comprensione della lettura, evidenzia come, a prescindere dal suo stato di traduzione operativa, la finalità sommativa e rendicontativa della rilevazione comprometta l’obiettivo di informare nel dettaglio scuole e docenti sui punti di forza e di debolezza nella comprensione della lettura della popolazione studentesca. Infatti le modalità di raccolta dei dati per l’accountability dei singoli istituti (che pure non è ancora a regime) e, in particolare, le sue stringenti esigenze, pregiudicano la valutazione diagnostica e formativa imponendo strumenti impoveriti nei contenuti. Ma se la duplicità nelle finalità non sembra portare alcun vantaggio, l’INVALSI va tuttavia sollevato da una responsabilità che, per statuto, non ha. Infatti, sciogliere il nodo di questa ambivalenza è un’operazione di politica educativa che, in quanto tale, non può essere affidata all’Istituto di valutazione.

5 Per una panoramica sulle criticità che la letteratura di ricerca ha riscontrato nel Valore Aggiunto, cfr. C. Corsini (2012). La lezione americana: l’impiego del valore Aggiunto nella valutazione di scuole e insegnanti. Scuola Democratica, 6, 60-75. 6 Sull’evoluzione dei modelli di ricerca sull’efficacia scolastica, cfr. B.P.M. Creemers, L. Kyiriakides (2010). The dynamics of educational effectiveness. Routledge: London; C.Teddlie, D. Reynolds (2000). The International Handbook of School Effectiveness Research. Routledge: London-New York. 7 Cfr. D. Koretz (2008). Measuring Up: What Educational Testing Really Tells Us. Harvard: Harvard University Press, pp. 242-255. 8 Cronbach L.J. et al. (1980). Toward a reform of program evaluation. San Francisco: Jossey-Bass.

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Esperienze Ruolo dell’e-learning nella formazione degli adulti. Percezione dell’esperienza universitaria da parte di immatricolate over 35 E-learning and adult education. The university experience perceived by female students older than 35 ANNA MARIA CIRACI La presenza di studenti adulti all’università richiede al sistema formativo universitario non solo tempi, spazi e modalità di lavoro diversi da quelli tipici di un corso rivolto a giovani appena usciti dalla scuola superiore, ma anche la capacità di interpretare bisogni, difficoltà, stili di apprendimento tipici di questa diversa tipologia di studenti. Lo studio presentato rende conto di alcuni risultati relativi a necessità e difficoltà relative all’esperienza universitaria manifestate da studentesse immatricolatesi ad un’età superiore a 35 anni al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in presenza e a distanza su piattaforma e-learning dell’Università Roma Tre. La comparazione dei dati mostra come la formazione universitaria attraverso l’uso di reti telematiche, grazie ad una certa caratterizzazione dell’ambiente di apprendimento, potrebbe rispondere maggiormente alle specifiche necessità e ridurre le difficoltà che studenti adulti e lavoratori incontrano durante il percorso universitario.

The presence of adult learners at university is an increasing structural phenomenon for which universities have to provide not only time, spaces and ways of working that are different from those needed by students who have just left secondary schools, but also the ability to detect adult learning needs and styles.This study focuses on results concerning the needs and difficulties expressed by female students enrolled when they were 35 or older in the face-to-face course and in the elearning course in Educational Studies at the Faculty of Education of Roma Tre University.The comparison shows that online education can meet the needs and reduce the hindrances that mature and working students come across during their university experience and proves that e-leaning can become a proper tool for mature and working students’ university education.

Parole chiave: formazione degli adulti, elearning, didattica

Key words: adult education, e-learning, didactics

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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Ruolo dell’e-learning nella formazione degli adulti. Percezione dell’esperienza universitaria da parte di immatricolate over 35

1. La formazione universitaria degli studenti in età lavorativa Il presente contributo si colloca nell’ambito della complessa tematica di un cambiamento strutturale del sistema formativo universitario in linea con i nuovi scenari educativi nella cosiddetta Società della Conoscenza e sviluppa alcune riflessioni su come l’e-learning, in particolare nella formazione degli adulti, possa favorire la soluzioni di alcune delle problematiche che purtroppo affliggono molti Atenei italiani. Ci riferiamo a quei fenomeni di dispersione (immatricolati che non si iscrivono al II anno, e dunque si “perdono” dopo appena 1 anno), inattività (studenti che non conseguono nemmeno un credito in un anno accademico), bassa percentuale di laureati in corso, indicatori che ormai da vari anni sono assunti per misurare la qualità del sistema universitario. La presenza di studenti adulti e lavoratori nell’università è sempre più un fenomeno strutturale. Sul piano demografico oltre ad un aumento degli accessi si registra soprattutto una sensibile modificazione dell’identikit dello studente medio che è sempre più “anziano” e spesso lavoratore. Si sta verificando una graduale estensione dell’utenza universitaria dal target tradizionale ad adulti già occupati che chiedono corsi compatibili con i loro ritmi di lavoro e che non comporti spostamenti dispendiosi in termini economici e di tempo per frequentare le lezioni (Ardizzone & Rivoltella, 2003). Già negli obiettivi di Lisbona per l’istruzione 2010 (Consiglio Europeo, 2000) troviamo l’aumento almeno al 12,5% della quota di adulti in età lavorativa (25-64 anni) partecipanti ad attività di formazione permanente e tra gli obiettivi di Europa 2020 vi è quello di far “acquisire competenze lungo tutto l’arco della vita al fine di aumentare la partecipazione al mercato del lavoro e di conciliare meglio l’offerta e la domanda di manodopera” (European Commission, 2010a). Qualche passo avanti è stato compiuto per quanto concerne una maggiore partecipazione degli adulti all’istruzione e alla formazione, ma non abbastanza per raggiungere il livello di riferimento richiesto. Nel 2008, la percentuale degli europei di età compresa tra i 25 e i 64 anni che ha partecipato ad attività formative nelle quattro settimane precedenti la rilevazione è stata del 9,5%; la probabilità di partecipazione è cinque volte superiore per gli adulti altamente qualificati rispetto agli adulti scarsamente qualificati. Rispetto poi al possesso di un titolo di studio elevato (ossia di livello terziario), lo possiede solo il 24% della popolazione adulta europea (di età compresa tra i 25 e i 64 anni), dato di gran lunga inferiore a quello di Stati Uniti e Giappone (40 %) (European Commission, 2010b). Nei documenti europei si sottolinea inoltre l’importanza di un sistema efficiente di istruzione degli adulti con l’obiettivo di offrire abilità meglio spendibili sul mercato del lavoro, garantire la loro integrazione sociale e la loro preparazione all’invecchiamento attivo. Nello stesso tempo cresce la consapevolezza politica da parte di tutti i Paesi del fatto che per l’attuazione dell’apprendimento permanente è essenziale far in modo che gli studenti “non tradizionali” possano avere un accesso più facile all’istruzione superiore. Ma le difficoltà di seguire le lezioni, di avere contatti diretti e continuativi con i docenti, di scambiare materiali di studio e di lavoro con i colleghi, di gestire e integrare tempi di

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studio e di lavoro sono solo alcune delle variabili che possono condizionare il successo formativo di uno studente adulto e lavoratore (Alberici, 2007). Al sistema formativo universitario si richiedono non solo tempi, spazi e modalità di lavoro diversi da quelli tipici di un corso rivolto a giovani appena usciti dalla scuola superiore ma anche la capacità di interpretare bisogni e stili di apprendimento propri degli adulti. L’università si trova di fronte una domanda di formazione del tutto diversa da quella abituale, in uno scenario caratterizzato da grandi mutamenti sociali e da trasformazioni del mercato del lavoro dove è necessario porre al centro dell’attenzione soprattutto il valore dei saperi e delle competenze all’interno dei contesti organizzativi e sociali. Le rigidità strutturali, infatti, non sono i principali ostacoli al rafforzamento del ruolo dell’istruzione superiore nello sviluppo professionale e personale continuo di coloro che già lavorano. Gran parte del mondo accademico per molto tempo ha dato per scontato che bastasse preparare sui soli contenuti disciplinari, puntando in genere più alla cultura “pura” che alla costruzione di professionalità; in realtà la pratica professionale non è mai mera applicazione del sapere universitario. Non a caso la via più importante che è stata seguita in tutti i Paesi per rispondere a queste nuove esigenze di formazione è stata proprio quella dell’e-learning. Sono proprio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione che possono dare un importante contributo nel passaggio del sistema formativo da un insegnamento basato sulle conoscenze a una didattica centrata sulle competenze, e l’e-learning, grazie al ruolo attivo che gli studenti possono svolgere e che consente loro di organizzare e realizzare in maniera autonoma le loro conoscenze e competenze come in una sorta di “apprendimento autoregolato” (De Jong & Simons, 1990), può rappresentare una forte spinta al rinnovamento delle pratiche formative verso l’adozione di metodologie attive, in grado di spostare l’attenzione sulla persona come soggetto autonomo nell’imparare ad imparare, a scegliere, a relazionarsi (Ciraci, 2009a). Le tecnologie (con i loro usi e significati) possono aiutare gli studenti, soprattutto se insegnanti, a “interrogarsi circa i propri ruoli e funzioni e ad attribuire valore alle cose che emergono nell’operare. Aiutano a riconoscere le possibilità della didattica, a metterle a fuoco (perché viste più da vicino), a fare proprie alcune di esse” (Ardizzone & Oliveto, 2005). “È come se, in senso ampio, le tecnologie creassero l’occasione per avviare una riconsiderazione di sé e della propria identità personale, di insegnanti e anche di studenti” (Ardizzone & Rivoltella, 2008). A questo punto, di fronte all’entità di queste trasformazioni è lecito domandarsi, con riferimento alla situazione italiana, se il sistema tradizionale, in particolare quello universitario, anche se sottoposto ultimamente a continue correzioni, sia stato un interlocutore credibile e responsabile. L’istituzione universitaria, in realtà, non è riuscita in genere a rispondere efficacemente a queste nuove necessità. Prevale spesso il mantenimento dello status quo e gli strumenti innovativi sono guardati con sospetto, soprattutto in area umanistica. È mancata, soprattutto, una didattica costruita sulle nuove tecnologie informatiche. Eppure, già negli anni 2000-2001, la Commissione Europea, in uno dei suoi documenti fondamentali, The eLearning Action Plan (European Commission, 2001), avente come titolo “Designing Tomorrow’s Education”, aveva posto l’e-learning come un asse portante della politica dell’Unione e aveva individuato nell’e-learning il modello dell’intero sistema educativo. Nel Piano d’azione 2001, poi esteso fino al 2004, sono individuate cinque linee operative che esplicitano meglio il ruolo delle TIC: “sviluppare l’integrazione completa delle TIC nell’insegnamento e nella formazione; creare infrastrutture flessibili per mettere l’e-learning alla portata di tutti; definire e promuovere la cultura digitale; creare una cultura dell’apprendimento per tutta la vita; sviluppare dei servizi e dei contenuti educativi di qualità in Europa”. A tal proposito occorre ricordare anche il rapporto Virtual Models of European Universities, elaborato dall’agenzia danese PLS Ramboll su richiesta della Commissione Europea nel marzo 2004, nel quale sono presenti diverse raccomandazioni per le dirigenze delle singole università. In

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particolare molta attenzione viene posta sulla presenza, all’interno di un Ateneo, di un piano d’azione strategico riguardo alle ICT: “Il coinvolgimento della dirigenza è cruciale per garantire che l’integrazione delle ICT venga implementata lungo le operazioni dell’università nella loro interezza, e non rimanga semplicemente bloccata a livello di singoli progetti” (PLS Ramboll, 2004). Anche il manuale Quality Manual for E-learning in Higher Education, dell’EADTU, elaborato in un contesto completamente universitario e europeo, parla di “gestione strategica” e tra i benchmark (i criteri che permettono valutare un dispositivo di e-learning nella letteratura internazionale possono prendere vari nomi, tra cui “benchmark”, valori di riferimento o indicatori) abbiamo che “l’organizzazione deve avere una politica per l’e-learning e una strategia per lo sviluppo dell’e-learning che siano ampiamente comprese e integrate nelle strategie complessive dello sviluppo istituzionale e di miglioramento della qualità” (EADTU, 2006). Eppure, nonostante la letteratura internazionale abbia, da tempo, messo in evidenza come le performance degli studenti in corsi e-learning risultino pari o superiori a quelle degli studenti in frequentanti in presenza (Clarke, 1999; Gagne & Shepherd, 2001; Parker & Gemino, 2001; Rivera & Rice, 2002), l’università pubblica italiana è arrivata, purtroppo, a questo appuntamento con un certo ritardo ed ha lasciato per molto tempo il monopolio dell’ e-learning alle università telematiche. Le tendenze evidenziate dalle ricerche internazionali sulle performance degli studenti in corsi e-learning sono state confermate anche da alcune indagini condotte, nell’ambito del PRIN 2006-2008, Valutazione a autovalutazione per la qualificazione dei processi formativi e-learning (Domenici, 2009b), dall’Unità di ricerca dell’Università Roma Tre, che hanno avuto come scenario di riferimento il Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in modalità FAD su piattaforma e-learning1 nato presso questo Ateneo espressamente per la formazione in servizio degli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria del territorio della Regione Lazio. Il Corso ha avuto origine nel 2004 in seguito alla constatazione, grazie ad un’indagine conoscitiva svolta nell’anno 2000 dall’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio, dell’estrema difficoltà di conciliare la frequenza universitaria con gli impegni connessi alla professione di insegnante e all’organizzazione della vita familiare. Passando attraverso il nodo della comparazione dei risultati nell’apprendimento conseguiti dagli studenti nelle due modalità formative (in presenza e a distanza), le suddette indagini hanno messo in luce, come tendenza generale, un evidente miglioramento degli esiti del percorso universitario degli studenti del corso a distanza rispetto agli studenti in presenza (sia in termini di crediti acquisiti per anno accademico, sia in termini di voto medio, sia in termini di riduzione degli abbandoni) e permesso di ipotizzare, sulla base di alcune differenze didattico-organizzative delle due tipologie di corsi, le ragioni per cui la formazione in rete nel Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione – FaD su piattaforma e-learning dell’Ateneo di Roma Tre, ottiene migliori risultati di quella in presenza (Domenici, Margottini & Cajola, 2006; Ciraci, 2008, 2009a, 2009b; Domenici, 2009b; Margottini, 2009).

1 Promosso da Gaetano Domenici, in qualità di responsabile scientifico, il programma delle attività formative ha avuto il suo inizio nel mese di novembre 2004 con 1048 iscritti. Gli iscritti al corso erano studenti adulti, con un’età media, al momento della immatricolazione, di circa 45 anni, insegnanti in servizio nella scuola dell’infanzia e primaria, in massima parte donne, dislocati su tutto il territorio della Regione Lazio e con carriere pregresse molto difformi.

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2. Un’indagine esplorativa sulla percezione dell’ esperienza universitaria da parte di immatricolate over 35 Lo studio qui presentato illustra i risultati di un’indagine di tipo puramente descrittivo volta a rilevare, attraverso due questionari strutturati, profilo, motivazioni/necessità, difficoltà, ore complessivamente dedicate allo studio e alle altre attività formative, opinioni sulle funzioni del tutor universitario, di studentesse universitarie immatricolatesi ad un’età superiore a 35 anni al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in presenza e al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione, modalità FaD su piattaforma e-learning, dell’Università di Roma Tre, con l’obiettivo di verificare se l’e-learning possa rappresentare una modalità più efficace nella attuazione di percorsi universitari per la formazione di studenti adulti e lavoratori. Il lavoro si inserisce, come utile indagine preliminare, nell’ambito di una più vasta ricerca sperimentale ancora in progress (Domenici, Biasi & Ciraci, 2012) “Le ricadute professionali della Formazione a Distanza su piattaforma e-learning nei docenti della scuola primaria”, del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, volta a verificare se, al termine del percorso formativo, ovvero dopo la laurea, vi sia stata una effettiva ricaduta in termini di incremento delle reali competenze professionali negli insegnanti che hanno conseguito una formazione universitaria con modalità e-learning, sia rispetto a chi ha seguito la modalità classica di formazione in presenza, sia rispetto a chi non ha avuto nessuna formazione universitaria. I questionari2 utilizzati per le rilevazioni preliminari che vengono di seguito presentate hanno avuto due tipologie di obiettivi: una prima sezione è servita a raccogliere informazioni nei diversi ambiti che caratterizzano questa particolare utenza rappresentata da studenti adulti, lavoratori e di sesso femminile: età; titolo di studio, posizione lavorativa, se svolgono o hanno svolto attività lavorativa in ambito scolastico e da quanto tempo, in che tipologia di scuola e con quale ruolo. Le altre sezioni, che maggiormente interessano ai fini dell’indagine, hanno riguardato alcuni aspetti discriminanti relativi alla concreta percezione della esperienza universitaria, al fine di individuare i fattori che possano aver contribuito al successo o al mancato successo formativo: motivazioni che hanno influito sulla decisione di iscriversi al corso di laurea frequentato; difficoltà incontrate durante l’esperienza formativa universitaria; ore complessivamente dedicate allo studio e alle altre attività formative; funzioni di un tutor universitario.

3. Rilevazione delle informazioni a) Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in presenza • Popolazione di riferimento La popolazione di riferimento è costituta da studentesse (per garantire l’uniformità del campione si è deciso di intervistare solo studenti di sesso femminile) immatricolatesi ad un’età superiore a 35 anni (fino a 50 anni) a partire dall’ a. a. 2002/03, fino all’ a. a. 2006/07, al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in presenza della Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre. I nominativi sono stati richiesti all’Ufficio Statistico di Ateneo che ha fornito un elenco di 63 nominativi di studentesse con le suddette caratteri-

2 I questionari sono stati costruiti da A. M. Ciraci.

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stiche. L’universo di riferimento, composto da 63 nominativi, ha determinato 56 (88,9%) contatti di risposta così ripartiti: 34 numeri eleggibili (60,7%); 22 numeri non eleggibili (39,3%); contatti senza risposta (11,1%). Le interviste sono state in totale 34. • Strumento utilizzato Questionario telefonico, realizzato tramite metodo C.A.T.I. (Computer Aided Telephone Interview), composto da domande ad alternative di risposta predeterminate. b) Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione FAD e-learning • Popolazione di riferimento La popolazione di riferimento è costituita, in questo caso, da docenti di ruolo in servizio nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole primarie della Regione Lazio, immatricolatesi a partire dall’ a. a. 2004/05 fino all’ a. a. 2007/08, con un’età media, al momento dell’immatricolazione, di circa 45 anni e in massima parte donne, dunque in prevalenza con le stesse caratteristiche delle studentesse del Corso in presenza intervistate. Le interviste sono state in totale 184. • Strumento utilizzato Questionario autocompilato sul WEB (http://sdefad.uniroma3.it) composto da domande ad alternative di risposta predeterminate.

4. Principali evidenze relative al profilo delle intervistate: età, titolo di studio, posizione lavorativa a) Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in presenza Le iscritte al corso sono in prevalenza di età compresa tra 35 e 45 anni (70,6%) e in possesso di un diploma dell’Istituto magistrale (35,3%) e dell’Istituto tecnico (35,3), mentre solo il 5,9% ha una laurea. La maggior parte delle intervistate svolge un’attività lavorativa (70,6%) in modo continuativo (87,5%), in full time (90,5%) e come lavoratrice dipendente (91,7%). È interessante notare che la maggior parte delle intervistate o lavora attualmente in ambito scolastico (41,2%) o ha avuto solide esperienze lavorative in ambito scolastico (14,7%): infatti per la metà di coloro che le hanno avute in passato l’esperienza è durata almeno 3 anni, mentre tra chi attualmente lavora in ambito scolastico prevale chi lo fa da almeno 10 anni (67%). Inoltre, tra coloro che lavorano attualmente in ambito scolastico, la quasi totalità svolge il ruolo di insegnante (90%). Il tipo di scuola dove viene svolta l’attività lavorativa è in prevalenza quella elementare (45%) e dell’infanzia (35%). b) Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione FAD e-learning Gli iscritti al corso sono principalmente donne (97%), di età compresa tra 36 e 55 anni (78%). Dal punto di vista del titolo di studio, il campione in esame risulta molto omogeneo, quasi tutti gli iscritti, infatti, sono in possesso del diploma e di qualche corso di specializzazione o di aggiornamento (97,1%), mentre solo il 2,9% possiede un titolo di studio universitario. Due iscritti su cinque (41,8%), hanno già avuto esperienze precedenti di formazione a distanza. In relazione alla posizione lavorativa, tutti gli intervistati sono insegnanti di ruolo nella scuola dell’infanzia e primaria della Regione Lazio e svolgono l’attività lavorativa in full time. Oltre i due terzi dei rispondenti (70,9%), svolge qualche incarico particolare nell’attuale contesto lavorativo. Il 31% dichiara che, precedentemente a quella attuale, ha svolto altre esperienze lavorative e tra queste prevale nettamente il lavoro impiegatizio.

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5. Motivazioni che hanno influenzato la decisione di iscriversi al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in presenza e a distanza dell’ Università Roma Tre Tra le motivazioni che hanno influenzato maggiormente la decisione di iscriversi al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione in presenza, prevalgono “conseguire la laurea” (100%) e “migliorare la professionalità” (91,2%). È interessante, ai fini della nostra indagine, evidenziare che hanno avuto una notevole influenza nella decisione di iscriversi al corso di laurea ragioni come la “possibilità di sostenere esami senza frequenza” (76,5%) e la “vicinanza della sede universitaria” (52,9%), oltre che il “favorevole rapporto costi/benefici” (50%). Questi dati probabilmente si spiegano non solo con la scontata rigidità degli orari di un corso di laurea in presenza ma anche con il fatto che si tratta in prevalenza di studenti adulti e lavoratori. Infatti nella decisione hanno avuto minore importanza le possibilità occupazionali (35,3%) e le sollecitazioni di amici e parenti (26,5%). A Anche chi si è iscritto al corso a distanza, pur trattandosi nella totalità di insegnanti di ruolo, lo ha fatto principalmente per conseguire una laurea (58,6%) e per migliorare in generale la propria professionalità (56,8%). Mentre è evidente che il “poter sostenere esami senza frequenza” (33%) ha minore influenza data la nota flessibilità di spazi e di tempi tipica dei corsi a distanza.

Fig. 1: Motivazioni che hanno influenzato la decisione di iscriversi al CdL SdE in presenza e a distanza3 3

Dal confronto (Fig.1) emerge che le principali motivazioni/necessità che hanno indotto gli studenti in presenza e a distanza ad iscriversi al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione sono le stesse, ovvero la necessità di “conseguire una laurea” e la “necessità di migliorare la propria professionalità”. Si tratta, quindi, in entrambi i casi di persone interessate non solo al famoso “pezzo di carta” ma anche a migliorare la propria professionalità in ambito edu-

3 Pur trattandosi di due diversi questionari, per maggiore chiarezza e facilità di confronto sono stati accorpati i grafici relativi alle motivazioni degli studenti del CdL SdE in presenza e a distanza in un grafico unico.

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cativo. Persone che hanno “scelto di voler imparare”, e lo stesso conseguimento della laurea probabilmente è vissuto come un’occasione per riprendere un progetto interrotto, come una possibilità di emancipazione e di promozione sociale e professionale, come una sorta di sfida con se stessi che va oltre il mero uso strumentale del titolo di studio. Infatti le “possibilità occupazionali e/o l’avanzamento nel lavoro” sono poco influenti sulla scelta (in presenza 35,3%; a distanza 25,4%).

6. Difficoltà manifestate durante l’esperienza universitaria dagli studenti in presenza e a distanza Buona parte degli studenti del corso in presenza intervistati (61,8%) ha dichiarato di aver incontrato diverse difficoltà durante l’esperienza formativa e di non essere riuscita a superarle (71,4%). Le maggiori difficoltà (Fig. 2) hanno riguardato soprattutto il poco tempo disponibile per impegni personali (95,2%), ma anche il mancato sostegno (80%), i rapporti con gli uffici amministrativi (66,7%) e una difficile interazione con i docenti (47,6%) probabilmente a causa di rapporti troppo formali (45%). È interessante invece notare che non ha rappresentato una grande difficoltà la lontananza della sede (23,8%), probabilmente perché si tratta di studenti che non frequentano sistematicamente le lezioni. Infatti questo dato trova conferma nell’importanza attribuita alla possibilità di sostenere esami senza frequenza che abbiamo indicato in precedenza come una delle motivazioni che ha influito sulla decisione di iscriversi al Corso (Cfr. Fig. 1). Anche tra gli studenti del corso a distanza (Fig. 3), al di là delle specifiche problematiche di un corso on-line (come la scarsa dimestichezza con le tecnologie informatiche o i costi per dotarsi delle attrezzature), prevalgono le stesse difficoltà, ma le frequenze percentuali sono molto diverse: “la scarsa disponibilità di tempo a causa di impegni scolastici e/o professionali” è un problema per il 63,6% degli studenti a distanza (a fronte del 95,2% degli studenti in presenza);“l’impossibilità di interagire direttamente con i docenti” è un problema per il 19% degli studenti a distanza (a fronte del 47,6 % degli studenti in presenza); “il mancato sostegno/impossibilità di ricevere rinforzi in caso di necessità” è un problema per il 14,7% degli studenti a distanza (a fronte dell’80% degli studenti in presenza). Inoltre l’11% degli iscritti al corso a distanza dichiara di non aver avuto nessuna difficoltà.

Fig. 2: Difficoltà incontrate dagli studenti del CdL SdE in presenza

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Fig. 3: Difficoltà incontrate dagli studenti del CdL SdE FAD e-learning

7. Impegno orario dedicato allo studio Vi è un altro dato importante che emerge dai due questionari, visto che si tratta in maggioranza di studenti lavoratori, ed è l’impegno dedicato in una settimana allo studio del corso: oltre il 70% degli studenti in presenza dichiara di dedicare allo studio individuale mediamente oltre nove ore alla settimana mentre tra gli iscritti al corso a distanza solo il 37,6% studia più di 9 ore alla settimana (Fig. 4).

Fig. 4: Impegno orario mediamente dedicato in una settimana allo studio

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8. Analisi dei dati e considerazioni sul ruolo dell’ e-learning alla luce dell’esperienza formativa del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione FAD e-learning di Roma Tre Premesse le cautele necessarie nell’interpretazione dei dati visto l’esiguo numero dei casi osservati relativi agli studenti in presenza, le informazioni raccolte, se pur limitate all’esperienza dell’Università Roma Tre, evidenziano comunque che le modalità e strategie di insegnamento-apprendimento utilizzate dalla tradizionale didattica universitaria in presenza poco rispondono ai bisogni formativi di studenti adulti e lavoratori (nel nostro caso in prevalenza insegnanti o con esperienze di insegnamento alle spalle) e spostano la riflessione sul ruolo dell’e-learning, anche alla luce dell’esperienza formativa del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione FAD e-learning di Roma Tre (scenario di riferimento delle indagini presentate) al fine di comprendere le ragioni per cui la formazione in rete risponde maggiormente alle specifiche necessità e riduce le difficoltà che studenti adulti e lavoratori incontrano durante il percorso universitario. Partiamo da quella che risulta essere la maggiore difficoltà per tutti gli studenti intervistati, ossia avere “poco tempo disponibile a causa di impegni professionali/personali” (Cfr. Fig. 2-3). L’e-learning, rispetto alla tradizionale formazione in presenza, grazie alla flessibilità di spazi e di tempi, permette a docenti ed allievi di interagire anche a grandissima distanza, basta avere a disposizione un computer e una connessione ad Internet. Gli studenti possono, quindi, studiare comodamente a casa, in orari flessibili, evitando il problema di orari coincidenti per studio e lavoro e senza la necessità di spostarsi. In questo modo è possibile raggiungere studenti che abitano in luoghi collegati male, isolati, lontani da strutture tradizionali di formazione, e che altrimenti non avrebbero accesso ad opportunità formative. A ciò si deve aggiungere che la forma digitale consente anche una gestione più flessibile degli stessi materiali didattici e quindi del tempo necessario all’apprendimento. Nel CdL in SdE FAD elearning di Roma Tre, ad esempio, gli insegnamenti afferenti ad aree tematico-concettuali affini sono organizzati in Moduli (ogni Modulo è costituito da 2 o 3 Insegnamenti). Sebbene lo studente abbia la libertà di seguire anche un singolo insegnamento e di sostenere il rispettivo esame, l’accesso ai contenuti e alle attività didattiche on-line avviene per Moduli, ossia per aggregati di materie considerate altamente congruenti per i contenuti che le caratterizzano e/o per le metodologie che le contraddistinguono. In questo modo non solo si evitano eccessive ridondanze nelle questioni tematiche trattate, ma soprattutto si favorisce la connessione tra gli ambiti concettuali di diverse discipline, permettendo di scoprire da più punti di vista una stessa questione. Attraverso video di presentazione, mappe concettuali (anche con supporto vocale) e link (a unità di studio dello stesso Insegnamento, a unità di studio di altri Insegnamenti dello stesso Modulo, a bibliografie, a sitografie, a glossari di Modulo, a documenti di approfondimento, ecc.), si operano non solo chiarimenti, integrazioni e approfondimenti ma anche la connessione tematico-concettuale tra gli Insegnamenti che compongono il Modulo interdisciplinare. Avere, inoltre, la possibilità di sostenere contestualmente gli esami relativi all’intero Modulo, permette una capitalizzazione delle risorse sia nel momento dello studio che nel momento dell’esame finale (Domenici, 2009a). E questa potrebbe essere anche una delle ragioni in grado di spiegare perché, come abbiamo visto, più del 70% degli studenti in presenza dedica allo studio individuale mediamente oltre nove ore a settimana, mentre tra gli studenti del corso a distanza solo il 37.6% studia mediamente oltre nove ore a settimana (Cfr. Fig. 4). In una didattica on-line che non si limiti alla semplice erogazione di contenuti, infatti, le tecnologie, purché adeguatamente situate ed integrate, “possono divenire risorse capaci di far emergere nuove forma di riflessività critica perché

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inducono in qualche modo a riflettere sulle regole sottese, sui criteri interni: la conquista di livelli di riflessione più alta (capacità di vedere i problemi secondo una pluralità di ottiche, di considerali secondo angolature inconsuete, consapevolezza dell’esistenza di relazioni più profonde, nascoste) rappresenta uno dei contributi più importanti che esse potranno fornire all’apprendimento” (Calvani, 2000). Anche le altre difficoltà, come l’“impossibilità di interagire direttamente con i docenti”, l’“impossibilità di ricevere rinforzi in caso di necessità”, il “mancato sostegno affettivo e cognitivo” (Cfr. Fig. 2-3), manifestate in misura maggiore dagli studenti in presenza, possono essere risolte agevolmente in un corso e-learning grazie alla presenza di tutor, all’uso di strumenti sincroni e asincroni per la comunicazione e alla creazione di una comunità virtuale. Il feedback continuo sul livello di apprendimento, assieme all’interazione docente-discenti, sono considerati, infatti, elementi fondamentali in un corso on-line (Coldewayet & et al., 1980; Mason & Kaye, 1989; Moore & Thompson, 1990), perché rendono il percorso più plastico e adattabile alle necessità formative degli studenti. In particolare la figura del tutor, praticamente assente nella formazione in presenza, che può assumere diversi ruoli in base al modello insegnamento/apprendimento scelto (Berge, 1998; Calvani & Rotta, 2000; Salmon, 2000; Rivoltella, 2006; Ardizzone & Rivoltella, 2008), svolge funzioni organizzative, sociali e didattiche, di volta in volta assumendo il ruolo di “consulente” delle procedure e delle attività da svolgere per portare a buon fine il percorso di formazione, di “facilitatore” degli impegni da assolvere, di “agente del sostegno affettivo-motivazionale” e, per alcuni versi, anche culturale. Soprattutto nella fase iniziale la sua funzione è fondamentale per cogliere le caratteristiche individuali degli studenti (preconoscenze, motivazione, disponibilità di tempo, abitudine all’autoformazione, bisogni formativi) al fine di indirizzarli e guidarli ad utilizzare, nel modo a loro più congruo, il materiale didattico disponibile, sollecitando contestualmente le loro capacità di affrontare e risolvere autonomamente problemi. Il tutor è anche il garante del processo formativo, gestisce i tempi, stabilisce le scadenze, verifica il rispetto delle consegne, risolve tempestivamente le difficoltà incontrate dagli studenti nello studio dei materiali proposti e, soprattutto, rende costantemente visibile il processo di apprendimento sottolineandone i passaggi e le svolte significative. Nel CdL in SdE FAD e-learning di Roma Tre i tutor, scelti tra esperti nel campo delle scienze dell’educazione e formati agli aspetti tecnico-comunicativi della didattica on-line, oltre a svolgere importanti funzioni sociali e didattiche favoriscono i rapporti con gli uffici amministrativi e permettono di svolgere le pratiche burocratiche in minor tempo, cosa che rappresenta una notevole difficoltà per il 66,7% degli studenti adulti in presenza (Cfr. Fig. 2). Non a caso dalle intervistate del corso in presenza il tutor universitario viene visto come una figura, diversa dal docente tradizionale, la cui funzione dovrebbe essere non tanto quella di trasmettere contenuti ma piuttosto quella di risolvere le difficoltà iniziali (97,1%) e quindi in grado di ascoltare le richieste degli studenti (94,1), di facilitare i rapporti con la segreteria amministrativa (97,1%), di dare chiarimenti sui programmi e sui corsi di studio (94,1%) e suggerire percorsi di ricerca (94,1%), quindi anche una funzione orientativa. Viene considerata meno rilevante, ma comunque utile, la funzione del tutor nei rapporti con gli altri studenti (55,9%) e nell’uso delle dotazioni informatiche (64.7%) (Fig. 5).

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Fig. 5: Funzioni di un tutor universitario secondo l’opinione delle studentesse del CdL in SdE in presenza

Inoltre, come da tempo ha messo in evidenza la letteratura internazionale, una formazione in modalità e-learning attraverso comunità virtuali di studenti in contatto tra loro e con i rispettivi docenti e tutor, favorisce importanti momenti in cui riflettere collettivamente su obiettivi, strategie, processi, superando l’isolamento del singolo e valorizzando i suoi rapporti col gruppo (Calvani & Rotta, 2000; Gillani, 2003;Trentin, 2004; Calvani, 2005, 2011; Farooq, Carroll & Ganoe, 2007; Ardizzone & Rivoltella, 2003, 2008). In questo modo la rete si trasforma da semplice contenitore/trasmettitore di informazioni ad ambiente collaborativo e cooperativo, in cui i contenuti vengono generati grazie al contributo di tutta la comunità virtuale degli studenti e dei formatori, riportando così l’apprendimento alla sua vera natura di processo sociale. Nel CdL in SdE FAD e-learning di Roma Tre, ad esempio, oltre a periodici “ricevimenti virtuali” in chat da parte dei docenti, sono previsti Forum di chiarimento sui materiali di studio finalizzati a risolvere tempestivamente le difficoltà incontrate dagli studenti nello studio dei materiali proposti e forum finalizzati a favorire la creazione di contesti collettivi di apprendimento e a sostenere lo sviluppo di una comunità professionale in una prospettiva di formazione continua, come il Forum generale in cui si può discutere di tutto anche di argomenti non legati ai contenuti del corso e i Forum tematici previsti per ciascun Insegnamento, in cui discutere e confrontarsi tra pari sui contenuti del corso, anche sulla base delle proprie esperienze e delle conoscenze e competenze acquisite nel contesto professionale. Infine arriviamo a quella che, come abbiamo visto, rappresenta una delle motivazioni principali che hanno indotto entrambe le tipologie degli studenti intervistati ad iscriversi al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione: “sviluppare e migliorare la professionalità” (Cfr. Fig. 1). Come si sa, l’apprendimento degli adulti richiede, come presupposto indispensabile, motivazione personale e interesse ad utilizzare i saperi acquisiti (Weiner, 1972; Demetrio, 1991; Bandura, 2000).Terminare un’esperienza formativa con la sicurezza di aver compreso come utilizzare le nuove conoscenze evita la frustrazione di aver ascoltato proposte stimolanti e non sentirsi in grado di appropriarsene nella pratica. Un corso di laurea rivolto a studenti adulti e lavoratori non può, dunque, limitarsi solo a trasmettere saperi codificati e rigidi o semplicemente a predisporre tempi, spazi e modalità più compatibili con i loro ritmi di lavoro, ma deve mirare soprattutto ad una ricaduta professionale dei processi formativi attivati. Pertanto, mentre l’approccio formativo tradizionale, centrato sugli incontri in presenza, porta

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a separare il momento dell’ apprendimento da quello della applicazione nell’attività professionale di quanto appreso, una proposta formativa e-learning, attraverso la simulazione di contesti reali, permette allo studente di prendere decisioni, di osservarne le conseguenze e di riflettere sugli esiti via via conseguiti per “regolarli” opportunamente, favorendo la presa di coscienza delle proprie strategie di utilizzazione dei saperi posseduti, delle procedure valutative poste in essere e delle decisioni adottate nella soluzione di un problema specifico (Domenici, 2009c). Favorire la capacità di monitorare e valutare la propria attività cognitiva, rappresenta una leva fondamentale per acquisire una piena consapevolezza delle proprie strategie cognitive, relazionali e affettivo-motivazionali e costituisce, nei processi formativi uno dei fattori cruciali per migliorare i livelli di apprendimento degli studenti (Flavell, 1976; Bandura, 1977, 2000; Brown, 1978; Ianes, 1996). Nel CdL in SdE FAD e-learning di Roma Tre, la proposta didattica è, infatti, caratterizzata dall’uso sistematico di prove di autovalutazione e di varie tipologie di esercitazioni, tutte strutturate nell’ottica di un controllo meta cognitivo (Brown, 1978), ovvero volte a sviluppare la capacità individuale di prevedere, pianificare, monitorare, valutare in modo sistematico l’attività relativa all’esecuzione di un compito specifico. In particolare la procedura di autocontrollo si avvale di prove semistrutturate (Domenici, 1991, 1993, 2005) che, a differenza dei test oggettivi solitamente usati, facendo riferimento a problemi complessi e incerti come quelli che si incontrano normalmente nella vita di tutti i giorni, quindi ad un contesto significativo ed autentico, permettono a ogni studente di sviluppare la consapevolezza dei propri processi cognitivi e la capacità di porre in essere strategie per risolvere un problema applicabili in diverse situazioni. Inoltre, essendo possibile per ogni prova monitorare il processo di autovalutazione effettuato attraverso feedback continui volti a dare indicazioni precise sugli aspetti positivi da potenziare, sugli errori commessi e sui percorsi da seguire per rimediarvi, si rende il soggetto padrone del proprio processo di apprendimento. Anche le esercitazioni previste nel Corso si inseriscono in questo processo di controllo metacognitivo in quanto, anch’esse, mirano a far applicare le conoscenze in contesti reali o simulati, sia in forma concettuale che operativa, attraverso proposte di attività, da quelle più consuete, come alcune situazioni problematiche nelle quali vi è la richiesta di applicare le conoscenze apprese al fine di trovare soluzioni adeguate ai problemi posti a quelle che si configurano come vere e proprie simulazioni di contesti teorico-operativi, come ad esempio la proposta di “studi di caso”. La ricerca svolta nell’ambito del progetto PRIN 2006-2008, prima citato, che aveva, tra gli altri, l’obiettivo di verificare se, in una proposta formativa e-learning rivolta ad adulti/insegnanti, il maggior utilizzo degli strumenti di autovalutazione a disposizione potesse associarsi a performance migliori, ha confermato l’ipotesi che l’autovalutazione rappresenta una variabile cruciale per acquisire in modo significativo, stabile ed efficace quanto propone la formazione, evidenziando un significativo legame diretto tra l’autovalutazione e le esercitazioni da una parte e le performance degli studenti (media dei voti, numero di esami e numero di crediti) dall’altra (Domenici, 2009b). Per concludere, sembra possibile affermare che, in un quadro di modernizzazione dei sistemi universitari, l’e-learning, in particolare nella formazione degli adulti, facilitando le pratiche formative nei diversi contesti, migliorando i risultati della formazione, offrendo maggiori opportunità di formazione permanente adeguate ai bisogni di ognuno, creando competenze più spendibili sul mercato del lavoro può contribuire a “sviluppare un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione” (European Commission, 2010a), capace di una crescita economica duratura, accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione e da una più grande coesione sociale. Oggi “la questione non è più sapere se l’insegnamento universitario deve cambiare, ma come deve avvenire il cambiamento e chi saranno gli attori. Il momento non è più quello di chiedersi se le TIC sono utili al cambiamento, ma quale posto devono occupare nella formazione e nella ricerca” (Galliani, 2004).

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Esperienze Tutti pazzi per Wittgenstein! Insegnare filosofia on-line superando pratiche riduttive dell’e-learning All crazy about Wittgenstein! Teaching philosophy on-line overcoming reductive e-learning practices LOREDANA LA VECCHIA • GIOVANNI GANINO* L’esperienza di cui si dà conto riguarda la particolare piega che l’insegnamento di “Filosofia della comunicazione e del linguaggio” (erogato in modalità e-learning) ha preso, dopo una serie di interventi didattici, ribaltando ogni iniziale previsione. Lo scenario in cui si è operato presentava, infatti, una gamma importante di criticità; gamma riferibile all’opinabile traduzione di e-learning fatta propria dall’Ateneo di riferimento e alle caratteristiche dei soggetti iscritti al corso: studenti adulti (età > 30 anni), per lo più silenti in termini di partecipazione attiva, privi, nella maggior parte dei casi, di una forte motivazione ad apprendere e carichi di pregiudizi (per loro stessa ammissione) nei confronti dell’intero settore filosofico. Il lavoro intende dimostrare come, attraverso scelte didattiche, opportunamente vagliate, siano stati raggiunti risultati, in termini di cambiamento, e dunque di apprendimento, non banali rispetto al quadro di partenza.

The experience considered regards the particular twist that the teaching of “Philosophy of Communication and Language” (offered through elearning) has taken, following a series of choices, overthrowing all initial expectations. The setting in which the writer has operated presented, in fact, a substantial range of critical points concerning a questionable translation of e-learning on the part of the University and the characteristics of the students enrolled on the course. The students are adults (aged > 30), mainly silent in terms of active participation and without, in most cases, any strong motivation to learn and weighed down with prejudices (which they themselves admitted) towards the whole philosophy field. This contribution aims to demonstrate how, through appropriate choices, non-trivial results have been achieved compared to the starting framework (in terms of change and therefore learning, of course).

Parole chiave: apprendimento adulti, e-learning, narrazione, didattica, linguaggio, forum.

Key words: adult learning, e-learning, storytelling, didactis, language, forum.

* Loredana La Vecchia è autore dei paragrafi 1, 2 e 4. Giovanni Ganino è autore del paragrafo 3.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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Tutti pazzi per Wittgenstein! Insegnare filosofia on-line superando pratiche riduttive dell’e-learning

1. Premessa sulle cattive pratiche di e-learning «Mi piace molto insegnare; soprattutto perché, mentre insegno, apprendo» (da: Fernando Sorrentino, Siete conversaciones con Jorge Luis Borges, 1996)

Sebbene non possa contare, al pari dell’omologa attività presenziale, su una storia radicata, l’e-learning ha oramai una propria tradizione, tant’è che in Italia si contano ben tredici Università che basano la loro attività formativa esclusivamente su di esso. Il che non è un male, anzi, una presenza così importante, induce a indagare cosa, nel concreto, significhi agire tale modalità di insegnamento/apprendimento e, anche, come la stessa venga attualizzata, rispetto alle indicazioni provenienti dal dibattito scientifico. Sul versante teorico, infatti, il costrutto e-learning ha connotazioni chiare, avendone la comunità di riferimento, nel corso degli ultimi tre lustri di ricerca in materia educativa (ma tutto partì da più lontanto, da quando il computer entrò sperimentalmente nelle aule scolastiche, si veda, a tal proposito, Cox, 2013), sia precisato la geografia teorica sia circoscritto la dimensione concettuale. Sotto questo riguardo, dunque, siamo legittimati a chiamare qualcosa “e-learning” quando, grazie ad un lavoro di progettazione (auspicabilmente basato su pedagogie del Web e sul riconoscimento dei nuovi ruoli che insegnanti e studenti sono destinati ad assumere), si giunga alla configurazione di uno spazio multidimensionale, tecnologico e insieme cognitivo (in cui insisteranno anche tutte quelle risorse e quegli strumenti – materiali didattici – che, attenendo tipicamente alla sfera della comunicazione, innescano rapporti significativi tra gli individui – di scambio, ma anche di conflitto, di adattamento, di autoregolazione), tale da identificarsi come ambiente di apprendimento di “buona qualità”. In un ambiente di rete siffatto, evoluto e dal versante tecnologico e da quello didattico, “ad apprendere – come afferma Maragliano (2008, p. 99) – non è il singolo ma la comunità, […] si mette il singolo nella condizione di elaborare e condividere con altri una porzione aperta di conoscenza, non si ascolta solo il docente e si parla solo se interrogati, ma tutti ascoltano tutti e tutti parlano a tutti”. Collegando docenti, discenti, materiali didattici, testi (di qualsivoglia natura) è l’ambiente stesso, dunque, che assurge, a mano a mano che le interconnessioni diventano sempre più fitte, al ruolo di docente. Muovendosi in questo spazio, gli attori dell’azione formativa sono chiamati, reciprocamente, alla presenza, all’esserci l’un per l’altro, alla partecipazione attiva, si vuole dire. Non solo. Così agendo, essi plasmano la propria esperienza apprenditiva e creano universi nuovi di significati – ossia modi nuovi di leggere e interpretare la realtà. Bisogna, infatti, considerare che l’apprendimento, come del resto è contemplato dalle teorie di matrice costruttivista – teorie che fin dagli albori hanno epistemicamente giustificato e supportato l’e-learning –, accade nel mentre dell’impegno che gli individui assumono nell’inviare e ricevere feed-back, nell’interagire sociale, nel cooperare. Esso, pertanto, se ne può concludere, è modellato dalle forme che tali azioni assumono. Per dirla con Galliani (2004, p. 4) “l’apprendimento è un processo non elettronico ma psichico, complesso e costitutivo del soggetto

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che, incorporando conoscenze attraverso esperienze contestualizzate e socializzate, modifica capacità, comportamenti, competenze”. Ora, sul ruolo che l’interazione ha nell’apprendimento on-line, si è concentrata l’attenzione di molta ricerca, i lavori di Moore (1989, 1990, 1991) e di Bereiter & Scardamalia (1994), sono stati tra i primi, si ricorda, a far emergere la dimensione decisiva di questa variabile. Dagli stessi, quello che, in questa sede, torna utile riportare è l’idea che non sia sufficiente riconoscere valore all’interazione in quanto tale perché un’esperienza di apprendimento possa dirsi felice o di successo, ma, piuttosto, che occorra rendersi conto di quanto la sua significatività rimandi alla filosofia educativa sottesa ai diversi soggetti/enti che, a vario titolo, rientrano nel progetto stesso di formazione. A dire, il docente, i singoli studenti, il particolare oggetto d’insegnamento, i tecnologi, i fattori ambientali non sono neutri, ognuno di essi ha un peso nel determinare la qualità dell’azione dialogica e, come nel gioco del domino una tessera, cadendo, fa collassare le altre, così nel sistema formazione, la debolezza di un elemento codifica per quella dell’altro. Il fatto è che, nell’approntare un percorso di e-learning, bisogna essere disposti a “prendersi cura” dell’evento non solo a livello di media ma, e soprattutto, a livello della relazione. Il che si traduce in azioni di presa in carico responsabile dell’altro in quanto soggetto con: (1) proprie credenze sul mondo; (2) un modo suo di discriminare, narrare e attraversare quel mondo; (3) un personale stile cognitivo; (4) un suo mix di competenze e di negligenze. Così come, in egual misura, bisogna sentire forte l’engagement culturale, il rispetto verso il sapere, in generale, e i singoli domini di conoscenza, in particolare. Sapere che è da intendersi come la risultante del rapporto dialettico che il soggetto instaura con quanto lo circonda, al fine di decifrarlo e definirne il senso, e che prevede, per dirsi scientificamente corretto, un’impostazione metodologica1. Ebbene, il pensiero che l’e-learning autorizzi a mortificanti tagli e semplificazioni nella proposta formativa e culturale (con l’intento di facilitarne l’impatto e di aumentarne l’appeal verso categorie di soggetti che, probabilmente, in altra situazione rinuncerebbero ad avvicinare gli studi universitari) dei contenuti scientifici – si permetta l’empirica constatazione – è uno dei vizi più diffuso tra coloro che ricoprono ruoli-chiave nelle stanze del governo degli enti eroganti quel servizio (non si dimentichi il peso che, nelle Università telematiche, hanno le società di capitali che a latere ne accompagnano l’operato). In questa prospettiva, si tenga ancora presente che l’e-learning, come soluzione tecnologica per la formazione professionale e superiore degli adulti (Galliani, 2002a) è una forza economica di non poca rilevanza (un aspetto spesso tralasciato dai ricercatori). Si vuole dire che questa variabile, ritenuta indipendente, contribuisce a determinare la particolare curvatura che le azioni didattiche delle istituzioni considerate seguiranno. Molto prosaicamente, le Università Telematiche, nella maggior parte dei casi, hanno un’impronta aziendale che, giocoforza, si riverbera su tutti i momenti del loro operare. Se poi si considera che ogni processo produttivo diventa tanto più redditizio quanto più si riesce a renderlo seriale (la famosa catena di montaggio), allora è facile concludere che, anche nel caso dell’e-learning, si avrà un profitto più alto automatizzando le procedure! Tali considerazioni vanno, nell’ottica di chi scrive, esplicitate in quanto il tacerne rischierebbe di inficiare ogni tentativo di analisi avente ad oggetto quelle situazioni empiriche (didattiche) su cui, in definitiva, si alimenta lo stesso discorso teorico e scientifico.

1 Per chi scrive, è importante far comunque salva “la visione scientifica del mondo” e dunque sottolineare come, pur riconoscendo che la verità scientifica non possa mai dirsi assoluta, esista una dimensione oggettiva del sapere.

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Ebbene, l’esperienza di seguito presentata ha come sfondo di accadimento proprio un’istituzione accademica telematica2, la cui ragione culturale è centrata sull’e-learning, ma le cui linee di attuazione stridono con il significato, epistemicamente condiviso dal settore di ricerca, di e-learning stesso. In breve, la struttura su cui si impiantano i singoli insegnamenti è semplicistica nella sua concezione: un numero di videolezioni, accompagnate da altrettante dispense testuali (scaricabili dagli studenti all’avvio di ogni videolezione) e contenenti, in coda, il relativo test di autovalutazione (10 item con quattro possibilità chiuse di risposta, prive però di qualsiasi messaggio compensativo – utile a spiegare perché quella data sia corretta o no. Se lo studente compie un errore è banalmente invitato a rivedere l’argomento della domanda). Null’altro è previsto. Non sono ammesse altre fonti di informazioni: al docente non è data la possibilità di indicare un programma che contempli lo studio di un saggio critico, di un’opera fondamentale, per esempio. Al massimo è concessa l’indicazione di letture, ma a puro titolo facoltativo. Sul piano, poi, dell’interazione, dello scambio costruttivo in ambienti progettati allo scopo, l’offerta si limita all’apertura istituzionale di un forum. Il docente trova lo strumento forum, però, anche in questo caso, impatta una serie di limiti – sia di natura tecnologica (non è possibile, per esempio, intervenire sulla sua architettura, è una semplice dotazione standard) sia di natura pedagogica (ai fini dell’insegnamento/apprendimento l’attività di forum non viene presa in considerazione).Volendo (ma giova ricordare che in contesti e-learning tale azione sarebbe dovuta), ad esempio, nel proprio corso disciplinare, incentrare una sua parte sul lavoro di rete – attivo, partecipato e, perché no, con una attribuzione di valore in termini di crediti – ci si trova davanti al più inspiegabile dei rifiuti, da parte di chi ha la responsabilità didattica della Facoltà o del Senato. In linea con il quadro descritto, il comportamento degli studenti (predominanza assoluta di adulti) è rigorosamente impeccabile: privi, nella maggioranza dei casi, di una qualche motivazione ad apprendere, silenti, poco inclini alla curiosità intellettuale e con concezioni scientifiche ingenue. Eppure, come si dimostrerà, anche in questo depauperato frame, sotto la spinta di quell’assunzione di responsabilità di cui si scriveva poc’anzi, è stato possibile creare un’esperienza non banale, si crede, di accompagnamento educativo nel processo di apprendimento.

2. Analisi dell’esperienza didattica svolta in contesto e-learning L’esperienza di cui si dà conto riguarda la particolare piega che l’insegnamento di “Filosofia della comunicazione e del linguaggio” (afferente al Corso di laurea in “Scienze dell’educazione e della formazione”, a. a. 2011/12) erogato in modalità e-learning, ha preso, dopo una serie di scelte operate in termini di strategia didattica, ribaltando ogni iniziale previsione. I criteri adottati nella selezione dei passaggi indicati nel lavoro, nonché dei materiali provenienti dagli studenti, quale testimonianza delle loro modalità di leggere, argomentare e valutare criticamente quanto proposto, agli esordi e a mano a mano che il percorso si sviluppava, rimandano tipicamente ai metodi qualitativi della ricerca. Come è noto, nello spazio del paradigma qualitativo, la teorizzazione “emerge direttamente dai dati”, quest’ultimi godono di priorità assoluta e nell’approcciarli l’atteggiamento più consono è quello definito dell’attenzione fluttuante (permette, diversamente dall’attenzione focalizzata – selettiva e analitica – di catturare aspetti nuovi, “verità” altre, multiformità del reale, perché lo sguardo usato è mobile, si posa sull’insieme e ne rileva, più liberamente, gli elementi anomali, i tratti che, sotto qualche rispetto, incarnano novità, lasciando presagire, all’osservatore, una “scoperta”). Così proceden-

2 Università Telematica Pegaso con sede a Napoli.

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do, si giunge ad una concettualizzazione di quanto indagato: descrivendo gli eventi, compiendo collegamenti tra le diverse fasi (anche in modalità circolare) è possibile arrivare ad una sensata spiegazione della serie stessa di avvenimenti/interazioni/sequenze fatte oggetto di ricerca (Strauss, Corbin, 1990). In somma, la trama dei fatti genera la teoria entro cui quei fatti sono riconoscibili e possono essere interpretati. Seguendo questa prospettiva epistemica, nello specifico del lavoro, si è descritta l’esperienza a partire da dati che ne costituivano il contesto – l’istituzione formativa e l’atteggiamento degli studenti. Si è quindi proceduto collegando tra loro le diverse azioni compiute dal docente e dai discenti; azioni che coincidono con i testi rispettivamente prodotti, durante il periodo didattico dicembre 2011/marzo 2012, nel forum disciplinare. Da quei testi, riportati nel prosieguo dello scritto e selezionati tenendo in conto la categorizzazione identificata da Booth e Hultén (2003)3, è possibile testimoniare il cambiamento avvenuto tra gli studenti, almeno rispetto alla variabile “motivazione ad apprendere” e, nel contempo, ricavare le indicazioni generali circa le relazioni che si sono create tra i diversi eventi (gli stimoli forniti e le risposte da essi innescate), giungendo alla teorizzazione, ovviamente locale e contestuale, entro cui l’esperienza tutta acquista senso. Lo scenario in cui si è operato presentava, come abbiamo visto in premessa, una gamma importante di criticità. Gamma riferibile sia alle politiche adottate dall’Ateneo sia alle caratteristiche dei soggetti iscritti al corso. Nello specifico si trattava, almeno agli inizi del corso, di 50 soggetti, ma si tenga in conto che negli Atenei telematici di norma le iscrizioni ai corsi di laurea sono sempre aperte, da qui l’aleatorietà nel conoscere, da parte dei docenti, il numero effettivo dei partecipanti ai varî insegnamenti. Nell’anno immediatamente precedente, inoltre, molti di quegli stessi studenti, senza troppi ambagi, avevano più volte dichiarato i loro pregiudizi, e quindi il loro generale disinteresse, nei confronti del sapere filosofico4. In buona sostanza, la natura di quei pregiudizi è riferibile al mancato riscontro del legame esistente tra l’attività speculativa incarnata dalle figure storiche dei filosofi e il contingente, nonché a passati scolastici, per la maggior parte di loro segnati da insuccesso personale nei confronti della filosofia, che mal li disponeva al confronto. Una scissura evidentemente profonda, resa ancor più marcata dalla difficoltà di maneggiare, per così dire, il linguaggio formale della disciplina stessa, il suo impianto rigoroso, altamente astratto, e, purtroppo, da una certa disabitudine alla riflessione critica: la loro lettura del mondo sembrava poggiare esclusivamente su un’inelegante e fallace visione prosaica. L’impermeabilità a quel tipo di studi, pertanto, era conseguenziale. Nella fase d’avvio dell’insegnamento, dunque, le prospettive apparivano drasticamente frustranti. In questo contesto, la prima scelta effettuata è stata quella di comportarsi alla stregua di un coach5, puntando su un approccio colloquiale (ben sapendo che a nulla sarebbe valso strutturare, in quella cornice, l’insegnamento secondo i dettami più classici dell’e-learning – fornire link a documenti e a fonti altre o segnalare

3 Secondo gli Autori i contributi si possono, in rapporto ai verbi usati nelle proposizioni, identificare in: “partecipatorio” (quando chi scrive identifica se stesso, confermando la sua presenza; pone domande; fa riferimento ad altre persone o alle affermazioni di altri), “fattuale” (quando chi scrive affronta questioni specifiche, problemi in essere nella discussione, esprimendo il proprio parere o chiedendo chiarimenti e informazioni sugli stessi), “riflessivo” (quando chi scrive puntualizza qualcosa che era implicito nella discussione; esprime accordo o disaccordo, fornendo una qualche giustificazione circa la posizione assunta; problematizza; confronta uno o più punti di vista), “di apprendimento” (quando chi scrive espone e argomenta in modo raffinato il proprio pensiero, sì da diventare elemento cruciale della discussione stessa). 4 Occorre precisare che il Corso di Laurea prevedeva anche gli insegnamenti di “Storia della filosofia” e “Logica e Filosofia della scienza” – entrambi affidati a chi scrive. Proprio durante gli esami finali di tali discipline, gli studenti avevano espresso il loro pensiero e il loro particolare modo di vedere le cose. 5 Come è noto l’idea che il docente debba comportarsi da “allenatore” si sta sempre più consolidando nelle pratiche educative, a più forte ragione in situazioni di e-learning.

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letture di approfondimento, ad esempio, era perfettamente inutile se non addirittura controproducente). In quella veste, l’obiettivo che ci si è posti è stato catturare l’attenzione, agendo un comportamento di seduzione (nell’accezione data al termine di “condurre” – dúcere – “a sé”). Ispirandoci alla lezione di Borges6, è parso utile tentare di suscitare entusiasmo, sì da innescare un desiderio di ricerca, di “fare scoperte”, mettendo in preventivo l’eventualità che, in certi momenti, sarebbe stato funzionale deviare dal cammino canonico del programma di studio. I primi post inseriti corrispondevano a quello che in scherma (si permetta l’analogia) si chiama “invito”: tecnicamente lo schermidore abbassa la sua arma e apre, indifeso, l’altro all’azione. Così, nel nostro caso, usando la retorica dell’invito, appunto, si è veicolato il seguente messaggio “non c’è intenzione offensiva da parte del docente, questo spazio è vostro, potete, praticandolo, trarne qualche beneficio”. In essi, poi, si sottolineava il bisogno di ricevere un parere in merito alle videolezioni, alle dispense, ai test di autovalutazione inseriti, giusto per sapere se lo stile, il tono e il linguaggio usati fossero o meno adeguati, risultassero o no intelligibili. Insomma, si è cercato di far leva anche su una sorta di “principio di carità” – era il docente a chiedere aiuto. Le prime risposte (Tabella n. 1) non hanno tardato a venire e subito è apparso chiaro il desiderio, fin lì evidentemente represso, di colloquiare, di confrontarsi con qualcuno. Emblematico, in questo senso, il feed-back, di tipo “partecipatario”, ricevuto da una studentessa. Prendendo spunto da una considerazione fatta sul valore del procedimento logico, poneva delle domande a più ampio raggio e, auspicando il conforto di un parere, esprimeva – come si può constatare dal testo di seguito riportato – persino la possibilità che tale scambio potesse rivelarsi d’aiuto ai fini di altra disciplina. «Sono […] e rubo un attimo del suo e del mio tempo (tra una lezione e l’altra), per fare un mio modestissimo intervento circa il bla bla bla [così era stato definito, per sottolinearne il carattere amicale, il dialogo che si intendeva proporre - NdA] piacevolissimo che lei sta cercando di instaurare con noi. […] Ho letto di Wittgenstein che la logica mostra quello che il linguaggio dice. In genere ciò che si mostra è la realtà, ciò che si dice è il linguaggio. Ma sembra, soprattutto oggi, che la realtà di ciò che si mostra non corrisponda a quello che generalmente diciamo e viceversa. Non sempre l’uomo è pronto a sostenere la realtà anzi spesso fa decisamente il contrario....e come se si negasse l’evidenza dei fatti reali. Perché l’uomo spesso non esprime ciò che costituisce la realtà dei fatti allo stesso modo della logica? Perché in determinati contesti sociali si infrangono norme e si fa decisamente il contrario di come andrebbe fatto? Mi piacerebbe ricevere una sua personale interpretazione oltre al fatto di poter scambiare quattro chiacchiere anche perché potrebbe aiutarmi nella preparazione di un esame che dovrò sostenere prossimamente riguardo ai fenomeni di devianza e criminalità». Autore: Roberta - 2012-02-05 13:40

Rotto il silenzio, però, i problemi legati all’insegnamento specifico restavano tutti. Dai commenti, dalle argomentazioni, dai ragionamenti postati appariva manifesto il disagio degli studenti nell’accedere all’oggetto stesso del sapere; visioni ingenue delle cose, procedure di tipo euristico, povertà di vocabolario e la mancanza di conoscenze puntuali circa alcuni

6 Il riferimento è alle “Lezioni sulla letteratura inglese” tenute da Borges nel 1966 all’Università di Buenos Aires, pubblicate nel 2000 grazie alle registrazioni e trascrizioni effettuate da un gruppo di studenti che seguì quel corso.

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concetti scientifici (l’evoluzione,7 per esempio) davano la misura del gap esistente (due contributi “fattuali” a riprova). «L’evoluzione è parte del dinamismo della vita. Nella vita sono presenti anche fenomeni di “involuzione”, generalmente causati dall’uomo e a questo proposito che penso che sempre di più possiamo e dobbiamo permetterci un’evoluzione più umana che non disumana». Autore: Adele DD- 2012-03-12 13:04 «Gentilissima Professoressa, vorrei per favore, mi “illuminasse”. Mi sembra di capire, che l’evoluzione consiste nello sviluppo della razionalità dell’uomo che permette quindi di predominare, controllare e sottomettere gli istinti primordiali di cui noi tutti siamo ancora dotati? Spero di aver percepito bene il messaggio». Autore: Claudia S - 201203-13 15:53

In estrema sintesi, era fin troppo evidente la ridotta competenza/propensione alla riflessione genuinamente astratta, a tenere distinti i piani del discorso e a maneggiare le parole – i messaggi poc’anzi segnalati ne sono prova. Inoltre, non c’era un senso del gruppo, chi rispondeva si rivolgeva direttamente al docente, visto come l’unico depositario del sapere, senza tener conto di quanto era già stato espresso dai propri pari né, di converso, veniva manifestata una qualche intenzione di coinvolgere o chiamare in causa gli altri. A dire, era nato un rapporto di reciproco riconoscimento tra le parti, ma non si riusciva a compiere un salto di qualità. Ora, in siffatti momenti, un docente percepisce tutta la difficoltà del suo ruolo: un banale errore, infatti, potrebbe per sempre precludergli la possibilità di entrare significativamente in contatto con i suoi discenti. Chi scrive avvertiva, pertanto, l’urgenza, di non perdere l’attimo nonché la necessità di dare una struttura più articolata a quel parlare. Selezionando ad hoc tra gli argomenti già affrontati nelle videolezioni e nelle relative dispense, con scadenza regolare, chi scrive ha iniziato a lanciare delle piccole sfide sul forum. La forma comunicativa usata era un ibrido, a metà strada tra il dialogo socratico (Vlastos, 1994) e la narrazione, e questo a fronte di due considerazioni: gli uomini di ogni tempo e di ogni dove (1) hanno una spiccata vocazione per l’affabulazione, vista la natura “verbivora”8 della nostra specie, e (2) si mettono facilmente in competizione, vista la loro natura egocentrica. In questa fase del processo di insegnamento/apprendimento l’obiettivo che ci si è posti è stato quello di allenare gli studenti al rigore del ragionamento, dunque a compiere un lavoro di partecipazione nel forum più raffinato. Gli argomenti privilegiati, per i quesiti à la Socrate, riecheggiavano, concettualmente, i paradossi della logica classica e, di rimando, i grandi problemi aperti dalla riflessione filosofica in tema di linguaggio. In somma, ci si è adoperati nella produzione di piccoli testi narrativi9 capaci di indurre critical thinking, presentandoli, tuttavia, con tono leggero, in modo tale che si avesse la percezione di partecipare quasi ad un gioco di società: inserendoli nel forum, veniva richiesta, infatti, la collaborazione nel trovare una soluzione plausibile al problema sollevato dalla storia stessa. L’unica regola che veniva posta (per inciso, sempre rispettata) era quella di servirsi esclusivamente delle proprie competenze, facendo finta che null’altro al mondo esistesse. Un esempio.

7 Sulla teoria darwiniana era stata impostata l’argomentazione atta a fornire giustificazione del sorgere, nella nostra specie, del linguaggio articolato. Avere chiaro come l’evoluzione funzioni, era condizione necessaria per la corretta comprensione del discorso sviluppato nella videolezione e nella dispensa di riferimento. Si era dato per scontato che quella condizione fosse assolta, dal forum però è emerso il contrario. 8 L’aggettivazione, inusitata, si deve a Pinker (2007), è stata scelta per la forza con cui veicola l’idea ad essa sottesa. 9 Si è guardato, su tutti, a Bruner (1996).

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«Non vi ho ancora detto che posseggo un cane, figlio del mio precedente bovaro del bernese. Si chiama Apollo e credo (come tutti i proprietari di cani – a proposito chi tra di voi ne possiede uno?) che capisca i miei discorsi. Il suo affetto è sincero, non mi tradirebbe mai (penso) e so che non potrebbe decidere di mentirmi. Attende paziente il mio rientro a casa e mi accoglie sempre con grandi feste. Eppure non posso rivolgermi a lui dicendo: ti lascio cibo e acqua a sufficienza, c’è una persona che si occuperà di te, io rientro il prossimo giovedì, aspettami. Mi piacerebbe sapere perché secondo voi Apollo non può aspettare che io rientri il giovedì».

Inoltre, anche per il feed-back fornito alle soluzioni che si ricevevano (spesso non formalmente valide) si è privilegiata la formula della narrazione. Non veniva data la risposta esatta, ma chi scrive raccontava la propria esperienza circa il modo in cui, da studente, aveva impattato la stessa classe di problemi. Al massimo, quando i discorsi si avvitavano su aspetti forvianti, veniva dato un breve resoconto della situazione e quindi una sommaria indicazione circa le cose meritevoli di ulteriore approfondimento. Il successo riscosso da tale genere di stimolo è stato inaspettato. Gli accessi al forum sono cresciuti in modo esponenziale (vedi Fig. 1, 2 e Tab.1) e, cosa ancor più interessante, dopo un paio di presentazioni di questo tipo, gli studenti hanno iniziato (mai si era verificato prima) a colloquiare tra di loro – ragionando insieme, riflettendo criticamente sui propri e altrui contribuiti, aiutandosi vicendevolmente. La scelta operata si è così rivelata una vera e propria chiave di volta, finalmente eravamo diventati una vera comunità e i messaggi riportati possono ben restituirne l’idea.

Fig. 1: Nel mese di febbraio la discussione era inesistente, come dimostra l’assenza di pagine indicanti un thread

Fig. 2: Nel mese di marzo la situazione è completamente cambiata, sono presenti 20 pagine indicanti l’avvenuto sviluppo di una discussione

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Ri Risposte/ sp o ste / in interventi te r v e n ti

Dicem Di cem 2011 0

Gen Gen 2012 5

Fe Feb b 2012 3

Mar Mar 2012 228

t Tab. 1: Numero di risposte/interventi degli studenti ricevuti nel forum d dall’avvio dell’insegnamento

«Nel caso specifico del cane Apollo, siamo di fronte ad una standardizzazione delle azioni, ed alla ripetitività delle sue aspettative, e non può aspettare e comprendere che potrei tornare il prossimo giovedì, perché alla base di tale impossibilità di comprenderlo, c’è il fatto che con le mie azioni quotidiane “trasferisco al mio cane delle informazioni” (attraverso le mie azioni) che lo stesso “inquadra” come aspettative spazio temporali, ma l’animale non recepisce l’intenzionalità, ne tanto meno la causalità e nemmeno degli stati mentali. Diciamo, quindi che lo stesso attiva una capacità stimolo segnale in funzione di una mia ripetitività dell’azione (per esempio tornare dall’ufficio sempre alle ore 18) in sostanza il cane non coglie quell’agente intenzionale nel processo di perseguire un determinato scopo. Ricordate il film HACHIKO?? (storia vera). Il cane Hachi continuò ad attendere il suo padrone alla stazione anche dopo la sua morte per ben 10 anni !! questa è la dimostrazione di quanto detto precedentemente. Ringrazio tutti della Vs cortese attenzione ed ovviamente attendo riscontri (devo capire ed imparare come tutti Voi). Un caro saluto a tutti». Autore: Rosario C - 2012-03-14 18:02 «Caro Antonio io ho un cane di nome Michael che tutte le mattine, quasi alla stessa ora, tranne la domenica, porto a casa di mio padre. Nonostante tra una domenica e un’altra c’è un intervallo di sette giorni il mio cane sa che tutti i giorni può chiedermi di andare da mio padre, nel senso che all’avvicinarsi dell’ora prestabilita inizia a saltare a correre e si agita, però sa che di domenica questa cosa non è possibile e continua a dormire. Quindi su quest’aspetto non sono d’accordo con te... diciamo che in parte la penso come Rosario, per quanto riguarda gli altri animali, per i cani a mio parere va fatto un discorso a parte, nel senso che il cane che vive in una famiglia percepisce l’intenzionalità e gli stati mentali dei componenti di quella famiglia, le cause che hanno determinato tali stati mentali […] » Autore: Michelina I - 2012-03-14 19:07 «Ho 3 cani, per un periodo ne ho avuti 8 (la mia piccola ha avuto i cuccioli), ma sentendomi un pò la loro ‘mammina’ non riesco ad immaginare altra cosa se non che il cane attende per affetto e per mancanza, il proprio ‘compagno umano’, so che sicuramente non è la risposta corretta, ma essendo compagna di cani, mi piace pensarla così». Autore: Claudia S - 2012-03-15 08:29 «Ciao Claudia, ti comprendo, ho anch’io un cane e condivido il tuo pensiero, pur sapendo che la risposta è sbagliata ma non riesco a distaccarmi dalla situazione sentimentale... è per questo che ieri ho chiesto di affrontare il problema sotto un altro aspetto e di spronarci a vicenda... sto cercando di analizzare la situazione in modo diverso, ma rimango ingabbiata nei miei pensieri...penso che a questo punto è necessario l’intervento della professoressa che sicuramente ci riporterà sulla retta via..grazie». Autore: Michelina I - 2012-03-15 09:23

Sebbene, leggendo gli interventi, non si possa inferire che le affermazioni denotino un lucido procedimento deduttivo o siano frutto di una brillante capacità di articolare compiuta-

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mente le informazioni provenienti dalle videolezioni/dispense, innegabile è la presenza di una serie di segnali – grazie ai quali tutti e quattro i post possono essere definiti di tipo “riflessivo” – indicanti: (a) una maggiore attenzione nello sviluppare la propria idea, giustificando, con metodo che riecheggia quello induttivo, quanto si va dicendo (è il caso, per esempio, usato da Rosario C che cita l’occorrenza particolare – Apollo e Hachiko – quale “prova” della bontà della spiegazione data); (b) un guardare criticamente alle proprie e altrui visioni, arrivando anche all’autovalutazione (le risposte di Claudia S e Michelina I); (c) la consapevolezza di far parte di una comunità e quindi la necessità di negoziare/condividere il proprio pensiero; (d) la disponibilità a cambiare angolo visuale (evidente nelle parole di Michelina I). Sulla stessa scia e con un netto affinamento del discorso, sebbene si tratti sempre di contributi di tipo “riflessivo” (non possiamo, infatti, con serenità affermare che siano del tipo “di apprendimento”), si posizionano le risposte date alla storia/problema della tigre – ricavata a partire dall’asserto di Wittgenstein (1953, tr. it. p. 292): “Se un leone potesse parlare, noi non lo capiremmo comunque”.

P

«[…] Comunque sono d’accordo con te che bisogna tornare allo studio e in proposito vorrei ritornare sulla Tigre perché ho pensato che se la tigre potesse parlare noi, non la comprenderemmo per la semplice ragione che parlerebbe il “TIGRESE” .. :-) Battutaccia :-) - Prof. non me ne voglia - male che vada la Prof. mi lincia.. :-)». Autore: male che vada la Antonio R - 2012-03-16 19:40 «Un traduttore competente della lingua tigrese, credo che non mi servirebbe a molto, perché oltre a conoscere il significato delle parole dette dalla tigre, per avere vera comunicazione, dovrei conoscere il suo stato mentale e capire l’intenzionalità del suo discorso; cioè il tipo di comunicazione che avviene normalmente tra esseri umani, capire quelle che Grice chiama implicature». Autore: Salvatore B - 2012-03-19 22:53

s

Alla luce dei risultati raggiunti (vedi Tab. 2) e del clima creatosi, intuendo che si poteva stressare ulteriormente il gruppo, chi scrive ha agito un’ulteriore scelta, vale a dire quella di tacere volontariamente (nessun apporto quindi è stato fornito sul versante del forum disciplinare), in modo da provocare un dibattito tutto gestito in autonomia. L’obiettivo perseguito, autonomia.gliL’obiettivo in questa terza in questa terza fase, è stato gestito quello diinemancipare studenti dalperseguito, docente, rendendoli prota-fase, è gonisti del proprio apprendimento. Pertanto, essi sono stati semplicemente invitati a visionare il film di Derek Jarman, sceneggiato dal filosofo Terry Eagleton, su Wittgenstein (fornendo i relativi link a you tube). Numero di interventi/risposte per studente (marzo 2012) Antonio R Roberta F Michelina I Salvatore B Rosario C Pietro DG Claudia S Massimiliano P Adele D D Antonella A

53 38 28 22 19 12 10 9 8 6

Chiara A Domenico C Michela LS Maria DR Maurizio V Filomena C Lucia S Vincenzo G Ivo B Dario C

6 6 2 2 2 1 1 1 1 1

Tab. 2: Dettaglio interventi/risposte dei singoli soggetti a seguito dello stimolo, di tipo narrativo, ricevuto

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Nonostante il silenzio del docente, l’attività sul forum è stata vivacissima (i contributi, si potrà apprezzare, rispetto agli esordi, sono sempre con più forza di tipo riflessivo): spontaneamente, hanno iniziato ad aprire dibattiti sulle scene del film, formulare le loro ipotesi sulla filosofia dell’Autore, criticare certe sue posizioni, consultare altre fonti, chiedere con forza l’aiuto del docente. Tutto ciò, si badi, è avvenuto praticamente in tempo reale, nel senso che il loro dialogare, partecipare, interrogarsi si è svolto in lassi di tempo contigui, guardando l’ora d’invio dei messaggi si scopre infatti che lavoravano in modalità quasi sincrona e il più delle volte fino a notte tarda. Dal forum di quei giorni: «[…] L’omino verde, il Marziano, che ruolo ha nell’immaginario di Wittgenstein? Rappresenta il suo IO? Rappresenta la sua coscienza? Rappresenta il Dio in cui lui non crede? Rappresenta il suo dubbio sull’esistenza del mondo visto che dice: se spedisco questa lettera a new york, sarà rafforzata la mia convinzione dell’esistenza di un mondo al di fuori della mia mente?». Autore: Antonio R - 2012-03-26 00:07 «L’uomo tende alla ricerca della perfezione. Semmai un giorno riuscisse a raggiungerla sarebbe la fine di tutto, perché sono proprio le imperfezioni che che stimolano l’uomo alla ricerca, che danno vita a nuovi modi di pensare e di agire, che cambiano intere generazioni. Questo è il senso del racconto alla fine del film?». Autore: Roberta F- 201203-26 00:16 «Hai visto che si è allontanato da Cambridge, e poi ha chiesto di ritornarci quando doveva morire? è stata una continua ricerca del senso della vita... ha cercato di sfuggire all’insegnamento della filosofia ma alla fine ha dovuto prendere coscienza che lui è il filosofo e allontanarsi da essa sarebbe stato come allontanarsi da se stesso..ha dato una senso alla vita attraverso la morte..è Fantastico!! adesso ho finito di vedere il film». Autore: Michelina I - 2012-03-26 00:28 «‘se la gente non facesse qualche volta cose stupide niente di intelligente sarebbe mai fatto’. Penso che l’omino rappresentasse un linguaggio a lui incomprensibile perché non appartenente al nostro mondo, alla nostra forma di vita”. Autore: Roberta F 2012-03-26 00:33

Erano, dunque, tutti pazzi per Wittgenstein e completamente cambiati nei confronti della disciplina stessa, se non nell’approccio generale alla conoscenza, un esempio è il post di Massimiliano P, con quel suo dichiarare che senza l’attività svolta non avrebbe potuto godere l’opera filmica. Possedevano ora, alle soglie dell’esame finale, una visione del mondo completamente mutata e anche nei confronti dell’e-learning (quello conosciuto in precedenza) nutrivano ora seri dubbi. «Buongiorno a tutti, dopo aver visto il film, alcune considerazioni (certo che se un mese fa mi avessero fatto vedere il film è probabile che dopo 20 minuti avrei alzato bandiera bianca....): a livello personale, l’insegnamento più grande è che nulla deve essere dato per scontato o definito ma essere sempre messo in discussione, e direi che in questo Wittgenstein con il suo continuo struggersi e tormentarsi, ne è testimone e maestro. L’alieno: secondo me rappresenta l’altro da se, lo stimolo a mettere in discussione teorie e credenze, a tenere perennemente “allenata” la mente ad essere critico non ritengo che rappresenti la coscienza (anche perché potremmo chiederci: ma la coscienza esiste? e se si dov’è localizzata? seguiamo una teoria materialista e quindi diciamo che è in qualche parte del nostro corpo, o seguiamo una teoria dualista e diciamo che è immateriale, ma se così fosse, come potrebbe interagire con il nostro corpo???? ok ad un altro capitolo....) […] ». Autore: Massimiliano P - 2012-03-26 10:49

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«Ciao Salvatore, grande emozione e soddisfazione studiare così... non credi?». Autore: Roberta F - 2012-03-26 17:59 «Sicuramente Roberta; magari l’avessimo fatto anche con gli altri esami». Autore: Salvatore B - 2012-03-26 18:10

Il film, a posteriori, si può affermare, ha agito da catalizzatore, ha funzionato da innesco per una vera e propria ristrutturazione semantico-cognitiva di quanto avevano impattato nell’intero percorso formativo. Degna di nota è l’incentivazione ad approfondire alcuni degli aspetti toccati nell’opera. Ad esempio, la figura di Bertrand Russell ha destato una grande curiosità intellettuale; per proprio conto gli studenti hanno rintracciato documenti sulla sua attività e, prendendo a modello il lavoro svolto insieme, si sono cimentati alla soluzione dell’ “antinomia del barbiere”. Anche in questo caso, la sfida (auto-lanciata) è stata il gancio per affrontare un argomento disciplinare difficilmente metabolizzabile se presentato in precedenza e in altro modo. Finalmente, nulla era più come prima.

3. L’audiovisivo quale oggetto di mediazione nei “giochi linguistici” Guardando, con debita distanza, all’esperienza appena descritta, si può, con una certa tranquillità, affermare che, quanto svolto, sia stato effettuato nel tentativo di riportare l’evento didattico nel suo alveo elettivo – il linguaggio. Come segnalato da Postman (1985) è l’educazione al linguaggio che consente, da un lato, di mettere gli studenti nella condizione di porre domande e, dall’altro, di produrre significati, rappresentazioni sensate del reale, riflessioni. L’ultimo dei testi (il film di Derek) proposti agli studenti ne restituisce la cifra e piace riflettere, in questa sede, proprio su di esso. La scelta di inserire il rimando al testo filmico come ultimo atto del percorso intrapreso, aggancia, attualizzandola, quella prospettiva pedagogica che ha nella comunicazione mediatizzata il suo baricentro (Galliani, 1979). Appare chiaro, infatti, che quel testo è divenuto “oggetto di istruzione” in quanto artefatto simbolico capace di mediare la relazione instaurata in quel gruppo (Galliani, 2002b; Messina 2002) e in quel particolare contesto di apprendimento. Ora, riconoscendo che la nostra è una specie simbolica, che ha costruito il suo rapporto con il mondo basandolo proprio sulla capacità di elaborare/combinare simboli, è lecito affermare, con Goodman (1968), che il loro uso ha come fine ultimo la comprensione. “La simbolizzazione, dunque, va giudicata fondamentalmente dal fatto che serva più o meno bene allo scopo cognitivo” (Ivi, p. 217). I meccanismi dei varî linguaggi (gestuale, parlato, scritto, audiovisivo, digitale) sottintendono costruzioni simboliche che, a loro volta, per assolvere alla propria funzione conoscitiva, denoteranno o esemplificheranno l’oggetto cui si riferiscono. Un testo finzionale come il Wittgenstein della nostra esperienza ha quindi la stessa capacità di una serie di proposizioni di generare conoscenza: il circuito che si crea tra il dominio finzionale e il dominio reale è un’esperienza a tutti gli effetti e come tale ci permette di “produrre e presentare fatti” che alla fin fine servono e ci soccorrono nell’interpretare del mondo. L’artificium (Vertecchi, 1994) dell’azione didattica è stato reso, grazie all’entrata in scena di un oggetto di mediazione, reale: infatti gli studenti hanno riconosciuto nell’opera filmica qualcosa che già era contemplata nel loro orizzonte di senso, ma di pari passo hanno anche dovuto ridefinire, rinegoziare, rielaborare e pertanto trasformare quel senso, poiché una nuova versione/visione dei fatti si è presentata. Eppure, molte pagine sono state scritte contro lo strumento audiovisivo, basti pensare alla condanna espressa da Giovanni Sartori (2004) nei confronti della televisione e delle im-

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magini, considerate più capaci di distruggere che di creare sapere. Di converso, senza negare la preoccupazione per dinamiche da deriva, resta il fatto che le idiosincrasie non falsificano le ragioni che spingono all’utilizzo di quei mezzi e dei rispettivi linguaggi. L’analogico attiene comunque ad un universo di significazione, e i simboli che usa, per quanto sintatticamente differenti da quelli delle lingue naturali, rispondono pur sempre, per dirla con la Langer (1942, tr. it., p. 134) “all’ufficio della formulazione logica, della concettualizzazione”. E anche il più semplice dei messaggi mediatici, inoltre, prevede, nella sua costruzione, una qualche impalcatura per cui, parafrasando Goodman, non si costruisce qualcosa assemblando a caso i pezzi. L’artefatto mediale, contrariamente a quello che si può d’acchito pensare, ancorché simbolicamente basato sulla semplificazione analogica, non rende più semplice la comprensione dell’oggetto a cui si riferisce, tutt’altro. Esso ne restituisce una dimensione comunicativa più ricca, più complessa e forse proprio per questo più immediatamente riconoscibile come attinente ai propri vissuti. In altre parole, dal modo in cui l’artefatto analizza, discrimina, organizza e manipola simboli, noi fruitori possiamo, in base ai nostri interessi, alle nostre competenze, alla nostra personale ricerca, comporre e ricomporre significati, in un rapporto dialettico continuo – interagiamo con ermeneutiche possibili, secondo logiche di opposizione e sconfinamento. E soprattutto attivando logiche tipiche della narrazione, per cui sempre più si stanno sperimentando tecniche digitali per stimolare apprendimenti (vedi, Petrucco, De Rossi, 2009). Nel caso di specie, si trattava di muoversi entro un universo narrativo composito: il film utilizza un impianto scenico che rimanda alla tradizione teatrale, è stato girato su sfondo nero in un teatro di posa ed è praticamente privo di ogni arredo se non quello strettamente funzionale alla storia, alterna vicende senza rispettare l’ordine passato-presente.Wittgenstein contemporaneamente è sia bambino sia adulto, usa finzioni nella finzione, il marziano verde che intrattiene discussioni filosofiche con Wittgenstein, ad esempio, i dialoghi spesso si riducano ad espressioni aforistiche. Agli studenti, dunque, era richiesto un investimento personale, per approcciarne il messaggio, elevato in termini di attenzione e di motivazione. La visione, si intende dire, non poteva semplicemente scivolare loro addosso. E, nonostante le difficoltà, l’oggetto ha espletato il suo ruolo di veicolo d’apprendimento perché ha costretto i suoi fruitori a interagire attivamente con esso: per carpirne il significato, dovevano entrare in contatto con i suoi “giochi linguistici”, mettendo alla prova i propri. Nel compiere questo lavoro, evidentemente, hanno dovuto attivare, richiamare quell’insieme di conoscenze che Eco definisce enciclopediche ricavate dall’attività di forum (e, si presuppone, anche dallo studio). Si è trattato pertanto di riconoscere gli elementi concettuali comuni ad entrambi gli strumenti e di collegare inferenze e definizioni dei due contesti, per giungere a una nuova realtà di senso, realtà sottoponibile, quasi in un ciclo infinito, ad altre verifiche per attestarne l’accettazione/negazione da parte della collettività. Il che è un altro dei modi con cui possiamo indicare il processo di apprendimento che, sviluppandosi secondo le linee presentate nel corso dell’esperienza comunicativa presentata, possiede tutte le caratteristiche per attestarsi come apprendimento aperto alla continuità, al divenire nei diversi contesti culturali e di vita.

4. Indicazioni per una conclusione Dalla descrizione di questa esperienza didattica e dalle testimonianza degli adulti-studenti, le conclusioni che si possono inferire hanno a che vedere con due generi di discorsi. Il primo chiama in causa la responsabilità accademica di fronte alla qualità delle offerte di elearning provenienti da università non statali. Occorre, infatti, che la comunità di riferimento

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estenda il suo sguardo su tali realtà, e, si badi, non nel senso di un’azione inquisitoria, ma di una galileiana attività di ricerca. Non si può, a parere di chi scrive, affrancare degli interi contesti dall’onore della “prova”. Chiedersi come lì venga declinato il concetto di e-learning, quali linee concettuali e metodologiche siano seguite, nonché quali prassi messe veramente in atto, sembra cosa legittima. Il secondo, invece, è più puntualmente riferibile ai “fatti” alle azioni presentate. In accordo con gli studi prodotti nel settore, emerge, anche da questa nostra esperienza, la necessità di operare con grande flessibilità, e fors’anche con creatività, entro però un quadro strategico ben delineato (Frignani, 2003). L’insegnamento/apprendimento in modalità non presenziale, infatti, ha, per sua natura, una serie tale di variabili da renderlo processo, oltre che complesso, delicato, facilmente collassabile nell’insuccesso e/o nella banalità. L’errore che rischia di compiere chi non analizzasse compiutamente le voci di quella serie, è di immaginare che tutto si limiti a confezionare dei Pdf, registrare delle lezioni e rispondere, di tanto in tanto, a qualche richiesta avanzata dagli studenti. E sempre sulla scia della letteratura, l’interazione si conferma la pratica più significativa dell’e-learning. Creare comunità, riuscire a coagulare interesse intorno a nuclei dei saperi disciplinari, discriminare i tempi d’intervento, i materiali, i linguaggi per rendere gli studenti autori consapevoli del proprio apprendimento è la sfida più grande che un docente deve essere disposto ad accettare. Non è semplice, e concretamente richiede un investimento notevole di se stessi, anche in termini personali oltre che professionali, ma l’e-learning non lascia scappatoie: almeno per chi ci crede.

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Esperienze Valutare per migliorare: un’esperienza da cui partire Assess to get better: an experience DONATELLA POLIANDRI • PAOLA MUZZIOLI • ISABELLA QUADRELLI • SARA ROMITI L’INVALSI, con il concorso dei fondi strutturali europei, ha messo a punto e sviluppato il progetto pluriennale Valutazione e Miglioramento che ha l’obiettivo generale di costruire un modello di valutazione esterna delle scuole finalizzato al miglioramento, in grado di integrare dati quantitativi e qualitativi. Da questo conseguono una serie di obiettivi specifici: sperimentare il quadro di riferimento teorico elaborato dall’INVALSI (VALSIS) in modo da testarne la tenuta, definire una metodologia per le visite di valutazione, delineare competenze per valutatori/ispettori, validare strumenti di rilevazione per l’osservazione su campo, elaborare rapporti di valutazione che mettano in evidenza punti di forza dell’efficacia scolastica e di difficoltà del servizio scolastico e che siano punto di partenza per la realizzazione di azioni di miglioramento. L’articolo presenta l’esperienza di valutazione esterna di 88 scuole del primo ciclo (fase 2 del progetto).

The National Institute for the Educational Evaluation of Instruction and Training has developed the project Evaluation and Improvement (Valutazione e Miglioramento), using the European Structural Funds. The project has the overall objective to build a model of external evaluation of schools aimed at improving and able to incorporate quantitative and qualitative data. From this it follows a series of specific objectives: to test the theoretical framework developed by INVALSI (VALSIS) to test the seal, to define a methodology for the assessment visits, outline competencies for evaluators / inspectors, validate data collection instruments for the field’s observation, elaborate evaluation reports that highlight strengths and difficulties of the effectiveness of school education service as a starting point for the implementation of improvement actions. The article presents the experience of the external evaluation of 88 first cycle schools (Phase 2 of the project).

Parole chiave: valutazione esterna, efficacia scolastica, quadro di riferimento, metodi di valutazione, valutatori/ispettori, miglioramento.

Key words: external evaluation, school effectiveness, framework, evaluation methods, evaluators / inspectors, school improvement.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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Valutare per migliorare: un’esperienza da cui partire

1. La valutazione esterna delle istituzioni scolastiche In molti paesi europei ed extraeuropei istituzioni statali o organismi indipendenti compiono, attraverso team di valutatori / ispettori / osservatori, visite nelle scuole al fine di controllarne la qualità, per valutarne l’aderenza alle linee di indirizzo nazionali, agli standard educativi o alle disposizioni normative. I diversi sistemi si sono dotati negli anni di quadri teorici di riferimento, contenenti standard o criteri, e di figure professionali per svolgere visite nelle scuole e stilare rapporti valutativi (Cardone, Muzzioli, Poliandri e Romiti, 2010). Tra le esperienze internazionali di valutazione esterna delle scuole quella con la più lunga tradizione è sicuramente rappresentata dalla struttura inglese. In Inghilterra l’Ofsted (Office for Standards in Education, Children’s Services and Skills) è un organismo indipendente dall’amministrazione scolastica incaricata di condurre visite valutative nelle scuole. I valutatori, con contratto a tempo determinato con la struttura, innanzitutto esaminano la documentazione inviata dalla scuola e altre evidenze disponibili nelle banche dati, quali i risultati degli studenti agli esami finali, il rapporto di autovalutazione, il rapporto dell’ultima valutazione effettuata. Durante la visita l’ispettore capo per prima cosa convoca lo staff della scuola per un breve incontro, in cui formula alcune ipotesi iniziali in merito agli apparenti punti di forza e di debolezza emersi dalla lettura della documentazione. Gli ispettori svolgono osservazioni nelle classi, esaminano i lavori degli studenti, controllano la documentazione della scuola, analizzano i questionari compilati da genitori, studenti e personale, incontrano il personale, gli studenti e gli amministratori locali. A conclusione della visita ogni ispettore compila una griglia di valutazione di due pagine, in cui per ciascun aspetto oggetto di osservazione (circa 30 aspetti, variabili in relazione alla tipologia di scuola) esprime un giudizio su quattro livelli, da 1 (eccellente) a 4 (inadeguato). Dopo la visita, di norma il giorno dopo, l’ispettore capo scrive un breve rapporto (max. 2000 parole) e entro 15 giorni lo invia alla scuola, che ha il compito di distribuirlo alle famiglie. Il rapporto è inoltre pubblicato sul sito dell’Ofsted. Se la scuola è collocata in una categoria di attenzione, perché gli standard educativi o gestionali non sono stati giudicati adeguati, ma gli ispettori ritengono che possa comunque raggiungere standard più elevati in futuro, riceve delle indicazioni che servono a orientare verso il miglioramento, altrimenti gli ispettori segnalano all’amministrazione che debbono essere adottate misure speciali. Le misure speciali consistono nel ricevere un supporto intensivo da parte delle autorità locali, ulteriori finanziamenti e risorse, e una nuova valutazione ravvicinata da parte dell’Ofsted fino a quando la scuola non è più valutata come inadeguata. In questo caso l’ispettorato si occupa esclusivamente della valutazione, in quanto gli ispettori devono possedere, oltre a un profilo pedagogico, anche specifiche competenze in campo valutativo (percorsi di valutazione e ricerca, formazione specifica, esami universitari sulla certificazione). Il supporto al miglioramento è offerto da altri enti preposti. Questo tipo di valutazione in Italia, dove pure sono molte le esperienze di autovalutazione / valutazione interna implementate a livello territoriale, ancora non è strutturato a

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livello nazionale. Infatti nonostante la recente normativa1 attribuisca a un Corpo Ispettivo la valutazione delle istituzioni scolastiche, la funzione tecnica ricoperta dagli Ispettori del Ministero è attualmente piuttosto lontana dal profilo inglese e più simile all’ispettorato francese2 che in effetti non svolge attività di valutazione esterna delle istituzioni scolastiche secondo il modello Ofsted. Come conferma un recente Atto di indirizzo del Ministro3, i Dirigenti tecnici sono chiamati a svolgere una molteplicità di compiti, che spaziano dalla consulenza e supporto alle scuole alle attività di studio e ricerca per il MIUR, dalla formazione del personale alla vigilanza durante gli esami, da accertamenti di tipo amministrativo a verifiche delle prestazioni del personale. In questo quadro compiti più propriamente valutativi non sembrano assumere un ruolo centrale. Se è vero che per il perseguimento degli obiettivi connessi allo svolgimento della loro funzione “i dirigenti tecnici hanno accesso alle scuole statali e non statali, a tutti i dati relativi alla valutazione delle istituzioni scolastiche raccolti dal Sistema Nazionale di Valutazione, nonché alle informazioni raccolte dal sistema informativo del Ministero”, nell’Atto di indirizzo non viene però loro assegnato un mandato sulla valutazione delle scuole e, soprattutto, non vengono delineate le competenze professionali che dovrebbero essere possedute per svolgere tale incarico. Fra le esperienze che, negli ultimi anni, possono essere ricondotte alla valutazione esterna delle scuole nel nostro paese, sono da ricordare il Monipof4 che ha coinvolto un numero molto elevato di scuole fra il 1998 e il 2001 e integrato tecniche di rilevazione quantitative con tecniche qualitative (Comitato paritetico nazionale per il monitoraggio dell’autonomia scolastica, 2001; De Anna, 2001), e le due sperimentazioni attuate nella provincia di Trento fra il 2005 e il 20085, grazie alle quali sono state condotte visite di osservazione da valutatori esterni.

1 D.L. del 29 dicembre 2010, n. 225 – Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie – convertito con modificazioni nella Legge 26 febbraio 2011, n. 10 – Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, recante proroga di termini previsti da disposizioni legislative e di interventi urgenti in materia tributaria e di sostegno alle imprese e alle famiglie. 2 In Francia l’Ispettorato generale della Pubblica Istruzione e della Ricerca (dell’IGAENR – Inspection générale de l’amministrazione de l’Éducation nationale et de la Recherche) fornisce al Dipartimento della Pubblica Istruzione pareri e proposte. La sua missione è quella di esaminare e valutare le strutture che compongono la rete scolastica, il loro adattamento alle esigenze didattiche, i piani per le attrezzature, l’impiego di personale, organizzazione materiale e il funzionamento delle istituzioni e la gestione dei mezzi finanziari stanziati dal Dipartimento. 3 D.M. del 23 luglio 2010, n. 60 – Atto di indirizzo, emanato ai sensi dell’articolo 9 del D.P.R. 20 gennaio 2009, n. 17, con il quale vengono determinate le modalità di esercizio della funzione ispettiva. 4 Il monitoraggio di tipo quantitativo – condotto da INDIRE in collaborazione con i Nuclei provinciali a supporto dell’autonomia – è consistito nell’elaborazione di informazioni sintetiche riguardanti i Piani dell’offerta formativa (POF) di circa il 70% delle scuole italiane. Il monitoraggio d’aiuto – di tipo qualitativo – è stato rivolto a circa 1000 scuole l’anno per un biennio, attraverso il contatto diretto. Questo monitoraggio, condotto da gruppi regionali di ricerca facenti capo agli IRRSAE (Istituti di Ricerca Regionali, di Sperimentazione e Aggiornamento Educativi), è avvenuto sulla base di un protocollo nazionale. Durante le visite gli osservatori hanno tenuto conto di quattro dimensioni: il dichiarato, l’agito, il pensato e il percepito. A conclusione delle visite ciascun team ha compilato collegialmente una Scheda di rilevazione, sulla base della quale è stato costruito per ciascuna scuola un macroindicatore. 5 L’esperienza condotta nella Provincia di Trento nell’anno scolastico 2005/2006 è importante perché, pur avendo coinvolto nella sperimentazione un ristretto numero di scuole, ha attinto al patrimonio di esperienze già realizzate per valutare le scuole nei sistemi di valutazione europei, a partire dall’idea dell’integrazione tra un’autovalutazione di tipo strutturato condotta dalla scuola e la successiva valutazione esterna Nell’anno scolastico 2007/2008 la provincia di Trento ha promosso una seconda sperimentazione, affidandola all’Università Cattolica di Milano, con l’obiettivo di testare un modello di valutazione esterna con costi contenuti. Le visite sono state condotte da un unico valutatore esterno, che ha avuto soprattutto il ruolo

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Un tipo di valutazione che sia in grado di fornire informazioni utili sia in merito ai risultati degli apprendimenti (attraverso le rilevazioni periodiche), sia relativamente ad aspetti di tipo organizzativo e didattico (anche attraverso visite di osservazione), e al contempo aiuti le istituzioni scolastiche a trasformare i risultati della valutazione in azioni di miglioramento, diventerebbe un reale strumento a supporto della qualità per il nostro paese (Cipollone & Poliandri, 2012). Il progetto Valutazione e Miglioramento si inscrive in questa tradizione.

2. Il progetto ‘Valutazione e Miglioramento’ Il progetto pluriennale Valutazione e Miglioramento (VM) condotto dall’INVALSI con il contributo dei fondi strutturali europei6 ha lo scopo di monitorare e accompagnare verso il miglioramento le scuole destinatarie dei fondi europei FSE e FESR PON, collocate nelle regioni Obiettivo convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia)7. VM si propone di monitorare le capacità progettuali e gestionali delle scuole, condurre osservazioni in profondità delle singole istituzioni scolastiche in una prospettiva di valutazione sistemica e sostenere le scuole nella realizzazione di azioni di miglioramento. L’attenzione è rivolta anche a diffondere buone pratiche individuate a livello nazionale e internazionale. Il progetto si articola in tre fasi successive: • la Fase 1 – Ricognizione iniziale – ha l’obiettivo di valutare la qualità progettuale, l’efficienza organizzativa e quella gestionale delle singole istituzioni scolastiche nell’attuazione dei PON Istruzione. Per realizzare questo obiettivo viene utilizzata la tecnica dell’audit esterno; Dirigenti tecnici del MIUR esaminano la documentazione prodotta dalle scuole per ottenere i fondi FSE o FESR, e conducono visite per parlare con gli operatori del progetto e i destinatari delle azioni. Al termine dell’analisi compilano una scheda strutturata ed esprimono giudizi sintetici sui diversi aspetti della progettazione e gestione dei PON (scuole 1° ciclo a.s. 2009-2010; scuole di 2° ciclo a.s. 2010-2011); • la Fase 2 – Diagnosi complessiva – si prefigge di identificare i punti di forza e i nodi critici del servizio scolastico offerto attraverso l’osservazione sul campo delle attività didattiche e in laboratorio, l’analisi dei principali documenti della scuola (POF e Programma annuale), la realizzazione di interviste alle diverse componenti scolastiche. Una coppia di osservatori conduce visite di osservazione di tre giorni nelle scuole, utilizzando diverse tecniche di ricerca qualitativa. A conclusione delle osservazioni, i team stilano una Rapporto di Valutazione per ciascuna istituzione scolastica osservata a partire da un format ela-

di consulente e accompagnatore verso un percorso di progressiva autonomia delle scuole, per acquisire la capacità di rendere conto della propria attività. Il valutatore aveva il compito di sviluppare una valutazione finale sulla base delle informazioni raccolte e documentate nella griglia. Si veda Allulli (2008). 6 Programma Operativo Nazionale del Fondo Sociale Europeo “Competenze per lo Sviluppo” e Programma Operativo Nazionale del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale “Ambienti per l’Apprendimento” della programmazione 2007/2013 nelle regioni dell’obiettivo “Convergenza” – Programmazione e gestione delle risorse nazionali del Fondo Aree Sottoutilizzate. 7 Le scuole possono utilizzare risorse del FSE per attività formative rivolte a studenti, docenti e genitori, e le risorse del FESR per acquistare dotazioni e laboratori. La finalità complessiva dell’azione del Programma Operativo Nazionale – Istruzione (PON) della programmazione 2007/2013 promossa dall’ UFFICIO IV – Programmazione e gestione dei fondi strutturali europei e nazionali per lo sviluppo e la coesione sociale (MIUR), riguarda sia la riduzione della dispersione scolastica, sia il miglioramento degli apprendimenti degli studenti.

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borato da INVALSI, integrando la parte qualitativa con informazioni quantitative presenti in diversi database (dati sugli apprendimenti collezionati dall’INVALSI, informazioni di contesto, di bilancio, ecc.) (scuole di 1° ciclo a.s. 2010-2011, parte 2011-2012; scuole di 2° ciclo a.s. 2012-2013); • la Fase 3 – Intervento migliorativo – per sostenere e affiancare la comunità scolastica in azioni di miglioramento. Dall’analisi dei risultati emersi nelle fasi 1 e 2, viene elaborato un piano di miglioramento: esperti esterni affiancano – in presenza e a distanza – i team di valutazione interni alle scuole e seguono la progettazione e gestione delle azioni di miglioramento nei settori della didattica o del management scolastico (scuole di 1° ciclo parte a.s. 2011-2012, a.s. 2012 - 2013; scuole di 2° ciclo 2013-2014). La Fase 1 del progetto VM è cogente per tutte le scuole destinatarie dei Fondi FSE e FESR individuate; per le Fasi 2 e 3 è stato chiesto alle scuole di aderirvi. Inoltre, data l’operazione di grande respiro, le azioni di progetto sono state pianificate fino alla fine del 2014. Per quanto le azioni coinvolgano complessivamente 250 fra istituti comprensivi e scuole secondarie di primo grado e 110 secondarie di secondo grado, collocate nelle regioni Obiettivo convergenza (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia), il presente contributo illustra in particolare la Fase 2 del progetto ossia l’esperienza di valutazione esterna - ancora in corso - di 88 istituzioni scolastiche di primo ciclo.

3. Il quadro di riferimento VALSIS (Valutazione del sistema scolastico e delle scuole) L’intero impianto del progetto Valutazione e Miglioramento poggia su un vasto studio condotto dall’INVALSI, denominato VALSIS (Valutazione del sistema scolastico e delle scuole), che, a partire dall’esplorazione e classificazione degli indicatori utilizzati da molti paesi per valutare i propri sistemi scolastici, delinea una proposta articolata di indicatori e aspetti per la valutazione del sistema scolastico e delle scuole italiani (Poliandri, 2010). Complessivamente gli indicatori e aspetti individuati all’interno del Quadro di riferimento sono 222 (32 di contesto, 42 di input, 118 di processo, 30 di risultato), di cui quelli specifici per la valutazione esterna della singola unità scolastica di 1° ciclo sono 184 (24 di contesto, 38 di input, 115 di processo, 12 di risultato). Il modello alla base del documento conclusivo di tale studio, il Quadro di riferimento teorico della valutazione del sistema scolastico e delle scuole, è riconducibile al CIPP (CIPP: Context, Input, Process, Product): la valutazione per poter essere pertinente e corretta deve considerare il collegamento esistente fra il contesto, gli input, i processi ed i conseguenti risultati (Stufflebean, 1968). Il modello CIPP va inteso non tanto come un modello in cui i risultati sono legati da un rapporto deterministico alle altre variabili, ma come uno schema o approccio concettuale tale da permettere di categorizzare aspetti ritenuti rilevanti (Scriven, 1991), che almeno su un piano logico possano offrire un quadro completo degli effetti e delle possibili cause, fornendo elementi informativi alle differenti teorie che, provando a spiegare il complesso delle relazioni esistenti fra i diversi fenomeni in campo educativo, possono così competere. Il punto di forza del modello CIPP è la sua flessibilità; esso risponde all’esigenza euristica di generare indicatori educativi e/o aspetti considerati rilevanti per descrivere il funzionamento del sistema scolastico, individuare un nesso causale, evidenziare criticità su cui intervenire o elementi positivi; per questo motivo il modello permette di esplorare più prospettive di indagine della qualità e/o della produttività del servizio scolastico (Poliandri, 2010). L’intento è quello di fornire una definizione operativa del concetto di ‘qualità’ della scuola, attraverso l’individuazione degli indicatori e l’attribuzione di un valore a ognuno di

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essi, che possa anche essere usata come guida per la costruzione di strumenti per la valutazione interna/autovalutazione delle Istituzioni scolastiche. Il quadro di riferimento tiene conto di quattro dimensioni: il contesto in cui le scuole sono inserite (aspetti demografici, economici e socio-culturali nei cui confini la scuola si trova ad operare e che ne determinano la sua utenza); gli input, ovvero le risorse di cui la scuola dispone per offrire il proprio servizio (umane, materiali, ed economiche a disposizione); i processi attuati, ossia le attività realizzate dalla scuola (l’offerta formativa, le scelte organizzative e didattiche, gli stili di direzione); i risultati ottenuti, sia immediati (percentuali di promossi, votazioni conseguite agli esami di stato) sia a medio e lungo periodo (livello delle competenze possedute, accesso al mondo del lavoro).

4. Gli strumenti del progetto ‘Valutazione e Miglioramento’ La fase della “definizione del problema” si è concretizzata nella stesura di un quadro di riferimento - elaborato sulla base delle ipotesi di ricerca - che spiega perché certi elementi siano necessari in relazione a esplicitati obiettivi di conoscenza. Successivamente è stato necessario passare dalla concettualizzazione del problema alla fase di “costruzione della base empirica” su cui operare, e alla definizione di procedure e protocolli standard (Agnoli, 2004). In molti casi i dati necessari alla costruzione degli indicatori descritti nel quadro di riferimento sono stati elaborati a partire da data base esistenti; in altri il gruppo di ricerca INVALSI ha costruito specifici strumenti di rilevazione8 per il progetto VM al fine di rilevare informazioni sulla qualità progettuale e sui processi didattici e organizzativi messi in atto dalle scuole9 integrando tecniche di ricerca quantitative con tecniche qualitative. Complessivamente quindi le fonti informative e gli strumenti del progetto VM sono: • Dati descrittivi di struttura in possesso dell’INVALSI (dati relativi alla valutazione degli apprendimenti e delle competenze, o tratti dal Questionario studente e dalla Scheda raccolta informazioni di contesto10); oppure dati già presenti nei data base del MIUR (come la disponibilità di computer o la percentuale di studenti ripetenti) e di altre fonti istituzionali (ISTAT, Ragioneria di Stato, ecc.). • Dati rilevati attraverso un Questionario scuola elaborato dal gruppo di ricerca, rivolto ai Dirigenti scolastici, per avere informazioni su quegli aspetti che non vengono raccolti dal MIUR, ma che sono ritenuti importanti (ad esempio il livello di partecipazione dei genitori o l’utilizzo di prove di valutazione strutturate per gli studenti). • Informazioni rilevate attraverso un ciclo di visite presso le scuole coinvolte nel progetto Valutazione e Miglioramento, per osservare in modo strutturato i processi didattici e organizzativi attuati a livello di scuola e di classe (anche con osservazione diretta delle lezioni), intervistare i diversi attori coinvolti nel processo educativo (dirigente, insegnanti, studenti, famiglie), raccogliere materiale documentario e valutare la qualità progettuale delle scuole

8 Per approfondimenti sulle fonti e gli strumenti considerati, si veda il capitolo Le fonti dei dati nel Quadro di riferimento teorico della valutazione del sistema scolastico e delle scuole (Poliandri, 2010). 9 Per approfondimenti relativi a questi strumenti di rilevazione si veda il sito del progetto Valutazione e Miglioramento <http://www.invalsi.it/invalsi/ri/audit/>. 10 Il gruppo di ricerca ha messo a punto un Questionario studente e una Scheda raccolta informazioni di contesto per informazioni aggiuntive sulle famiglie (INVALSI, 2011) a corredo delle prove di Italiano e Matematica del Servizio Nazionale di Valutazione.

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sui fondi PON (Rubriche di valutazione;Wiggings, 1996).Tali strumenti possono essere ricondotti alle seguenti macro-categorie: – incontri con le persone, ossia interviste strutturate e semi-strutturate con singoli e gruppi (il Dirigente scolastico, gli insegnanti, gli studenti, i genitori) per indagare le opinioni degli attori coinvolti in relazione a processi a livello di scuola e di classe (ad esempio in merito a progettazione del curricolo e dell’azione didattica, forme di valutazione interna e autovalutazione, uso dello spazio e delle infrastrutture, partecipazione e coinvolgimento del territorio, clima di scuola, strategie didattiche); – osservazioni strutturare di attività didattiche svolte in classe e in laboratorio; questi strumenti permettono di indagare il setting dell’attività, le modalità di reazione dei partecipanti agli stimoli (studenti e insegnanti), le azioni e i contenuti veicolati in relazione a processi (ad esempio la Scheda di Osservazione in Classe raccoglie informazioni relativamente a: articolazione del gruppo classe, interdisciplinarità, attività di recupero e potenziamento, attenzione agli alunni con bisogni educativi speciali, utilizzo della flessibilità oraria, trasmissione di strategie per l’apprendimento, metodi di insegnamento che attivano la partecipazione degli allievi); – studio di documenti significativi (ad esempio il POF, il Programma annuale, il patto di corresponsabilità, il piano di formazione insegnanti) sui quali è possibile condurre analisi testuali computer assistite e analisi di statistica testuale. • Informazioni apprese grazie ad alcuni strumenti (questionari genitori e insegnanti, schede, griglie di rilevazione, ecc.) messi a disposizione delle scuole per fare autovalutazione. L’INVALSI infatti, per il progetto VM, affianca e supporta i processi di valutazione interna/autovalutazione realizzati dalle scuole. Di seguito sono presentati a titolo esemplificativo due fra gli strumenti utilizzati nel progetto VM: • il Questionario scuola, che, somministrato direttamente dall’INVALSI, è utile per comprendere l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni scolastiche; • la Scheda di osservazione in classe, utilizzata dagli Osservatori della Fase 2 per rilevare le opportunità di apprendimento in classe. 4.1 Uno strumento per comprendere l’organizzazione della scuola Il Questionario scuola rivolto al Dirigente scolastico raccoglie informazioni di base sulla scuola (numero di studenti e insegnanti) e le sue strutture, che hanno lo scopo di fotografare la situazione di partenza in cui le scuole operano (input), e indaga sui processi attuati a livello di scuola durante l’ultimo anno scolastico.Vengono esplorati una molteplicità di aspetti quali la progettazione iniziale, la collaborazione tra insegnanti, le attività di formazione realizzate per gli insegnanti, i progetti attuati, e le attività di valutazione interna. Inoltre, lo strumento indaga anche alcuni aspetti legati alla dimensione del contesto, quali i contributi di enti e soggetti esterni e la partecipazione – anche economica – dei genitori. Di seguito sono presentati due esempi di aree relative alla dimensione dei processi indagate attraverso il Questionario scuola: • Area Forme di valutazione interna / autovalutazione L’utilizzo che una scuola fa dei risultati degli studenti, in particolar modo delle prove standardizzate sia del Servizio Nazionale di Valutazione, sia di altre rilevazioni che rispettino criteri di qualità analoghi (prove oggettive per classi parallele, definizione a priori dei criteri per la correzione, tabulazione e analisi dei risultati), forniscono delle indicazioni

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sulla e per la scuola: ad esempio la possibilità di comparare i propri risultati con quelli nazionali o dell’area geografica di appartenenza, o di confrontare i risultati tra le classi, oppure di analizzarli per i diversi sottoambiti disciplinari. La capacità di un’organizzazione di riflettere sui propri risultati è considerata un criterio di qualità, e - in una logica autovalutativa - premessa per la predisposizione di azioni di miglioramento. Al Dirigente scolastico viene pertanto richiesto di indicare se e come vengono utilizzati i risultati degli studenti nelle prove standardizzate. Nell’Area Forme di valutazione interna / autovalutazione sono presenti indicatori relativi anche ad altri processi autovalutativi, quali la rilevazione delle opinioni del personale, la rilevazione della soddisfazione dei genitori, il monitoraggio del POF. Altri indicatori ancora riguardano la presenza di un gruppo formalizzato per la valutazione interna, il ricorso a figure esterne per sostenere la valutazione interna, e le spese sostenute nel triennio in questo settore. • Area Collaborazione fra insegnanti Molti studi sulle scuole efficaci hanno posto al centro dell’attenzione l’impatto positivo che la collaborazione fra insegnanti (Brownell e Chriss, 2002; Norman, Golian e Hooker, 2005), il lavoro in team, l’assunzione collettiva di responsabilità in determinati settori possono avere sulla riuscita scolastica degli studenti, sulla professionalità dei docenti e sulle condizioni che favoriscono eque opportunità di apprendere all’interno delle istituzioni scolastiche. Una serie di studi condotti nelle scuole superiori USA hanno indagato quelle circostanze in grado di supportare una distribuzione più equa degli apprendimenti rispetto al background socio-economico e culturale degli studenti in Matematica e Scienze. Queste scuole mostrano tratti identificabili: la scuola ha elaborato un curriculum comune rigoroso e imprime una forte spinta organizzativa dei corsi di studio. Nei dipartimenti di matematica gli insegnanti che hanno lavorato insieme per la riuscita dei propri studenti hanno contribuito sostanzialmente a questa organizzazione (Lee, Bryk e Smith, 1993; Lee, Smith e Croninger, 1997; Gutiérrez, 1996). La motivazione secondo la quale l’interdipendenza fra docenti sia inerente alla professionalità degli stessi è molto semplice (Horn, 2008): nessuno educa da solo uno studente o una studentessa. Bambini e ragazzi durante il proprio percorso educativo si ‘muovono’ tra un insegnante e l’altro; è quindi compito del corpo docente rendere questi ‘movimenti’ coerenti. Per indagare la collaborazione tra insegnanti si è scelto di utilizzare un indicatore di partecipazione degli insegnanti ai gruppi di lavoro. Attraverso il Questionario scuola si richiede al Dirigente scolastico di indicare il numero degli insegnanti partecipanti a diversi gruppi di lavoro, sul totale degli insegnanti della scuola. Per approfondire il tema dei gruppi di lavoro, altri due indicatori danno conto della numerosità di argomenti sui quali sono stati attivati gruppi di insegnanti in ciascuna scuola, e della tipologia degli argomenti (progettazione, valutazione, continuità, orientamento, raccordo con il territorio, ecc.). 4.2 Uno strumento per osservare le opportunità di apprendimento in classe Per la fase 2 del progetto di VM è stata predisposta una Scheda di osservazione in classe. Con questo strumento si intende osservare con quale frequenza durante la mattinata vengono colte determinate azioni che – in base alla letteratura e all’esperienza condotta durante la Fase 2 Pilota del progetto – sono considerate di qualità. Queste azioni sono registrate in sessioni temporali di 15 minuti ciascuna. La soggettività dell’osservazione è controbilanciata dalla presenza di due osservatori indipendenti, che compilano contemporaneamente due schede in classe senza confrontarsi tra loro. Come d’uso quando vengono impiegati due co-

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dificatori indipendenti (Kirk e Miller, 1986; Hughes e Garret, 1990; Neuendorf, 2002; Krippendorf, 2004), a conclusione dell’osservazione vengono costruiti degli indici di accordo intersoggettivo per valutare l’attendibilità dello strumento. Gli indici di accordo che sono stati elaborati in seguito alla fase pilota del progetto raggiungono un accordo intersoggettivo soddisfacente. Sono oggetto di osservazione sia le azioni degli insegnanti sia quelle degli studenti; ad esempio per l’indicatore “Articolazione del gruppo classe” viene rilevato quante volte durante la mattinata gli studenti ascoltano l’insegnante o un loro compagno, quante volte lavorano individualmente, quante lavorano in gruppi. Per questo indicatore l’attenzione è dunque focalizzata sulle azioni che svolgono gli studenti. Per ricomporre l’indicatore “Attenzione agli studenti con disabilità e con bisogni educativi speciali (BES)” vengono osservate le azioni svolte dall’insegnante, dall’eventuale insegnante di sostegno, dagli studenti con disabilità certificata e dagli studenti che, pur non avendo una certificazione, sono segnalati dall’insegnante come studenti cui dedicare un’attenzione speciale (ad esempio studenti con problemi psicologici, o studenti stranieri da poco in Italia). I due osservatori annotano quante volte durante la mattinata gli insegnanti si rivolgono a questi studenti (con domande, lodi o rimproveri), quanto spesso li seguono (guardando il loro lavoro, accostandosi al loro banco o sedendosi vicino), con quale frequenza assegnano loro compiti differenziati rispetto al resto della classe. Per quanto riguarda gli studenti con disabilità e BES, gli osservatori registrano la frequenza con cui svolgono attività del tutto uguali agli altri, simili agli altri ma semplificate, completamente diverse dagli altri, oppure non svolgono alcuna attività. Devono infine registrare sulla scheda quanto spesso l’insegnante di sostegno aiuta gli studenti disabili e con BES a partecipare all’attività in classe, e con quale frequenza li segue in un’attività diversa da quella del resto della classe. Un ulteriore indicatore, denominato “Strategie per l’apprendimento”, riguarda la trasmissione da parte dell’insegnante di strategie che permettano agli studenti di apprendere in modo autonomo. Nella scheda è possibile registrare la frequenza con cui l’insegnante dà istruzioni sulle strategie e i metodi da seguire (ad esempio come fare uno schema, come scrivere un riassunto, come sottolineare), oppure la frequenza con cui incoraggia gli studenti a controllare le proprie azioni (ad esempio rileggere quanto hanno scritto), o ancora la frequenza con cui fornisce agli studenti feedback sullo svolgimento delle loro attività, dando indicazioni in positivo o in negativo sulla loro prestazione. La Scheda di osservazione tiene inoltre sotto controllo l’utilizzo della risorsa tempo, non solo prevedendo una registrazione delle azioni ogni 15 minuti, ma anche registrando per ogni ora di lezione l’inizio e la fine teorici e l’inizio e la fine effettivi. Anche l’ingresso in ritardo degli studenti viene registrato; questi dati permettono di ragionare su quanto efficacemente è ottimizzato il tempo in classe.

5. La formazione degli osservatori e le attività svolte A seguito della positiva esperienza di osservazione sul campo effettuata su 12 scuole delle regioni Calabria, Campania, Puglia e Sicilia nell’a.s. 2009-2010 durante la Fase 2 Pilota, si è ritenuto opportuno estendere il modello già sperimentato, con gli adeguati aggiustamenti, al numero completo di scuole della Fase 2 (88 istituzioni scolastiche). Coppie di osservatori hanno condotto visite di osservazione di tre / quattro giorni fra il mese di marzo e quello di maggio 2011, a partire da un protocollo elaborato dal gruppo di ricerca INVALSI. Dopo aver esaminato i criteri utilizzati da diversi paesi europei per selezionare figure con compiti di valutazione (Eurydice, 2003), si è scelto di individuare due profili differenti per la conduzione delle osservazioni: un profilo ‘interno’ al mondo della scuola (Dirigenti sco-

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lastici e insegnanti che hanno maturato competenze professionali non solo legate all’insegnamento, ma anche alla gestione e organizzazione scolastica, alla valutazione e autovalutazione, e in campo pedagogico-didattico) e uno con competenze metodologiche maturate nel campo della ricerca nelle scienze sociali e/o nella valutazione (tecniche di rilevazione, gestione e valutazione dei processi formativi, gestione e valutazione delle istituzioni scolastiche o delle organizzazioni). Infatti le qualifiche richieste prevalentemente per i valutatori esterni in Europa sono legate alla formazione da insegnante o a un’esperienza professionale in campo educativo, associate però a competenze in ambito metodologico/valutativo acquisite attraverso corsi specializzati e/o attraverso il superamento di esami con il rilascio di certificazioni. Da una parte il coinvolgimento di un insegnante o di un Dirigente scolastico aggiunge un elemento di valutazione tra pari (peer evaluation) al processo di osservazione, dall’altro la figura con competenze metodologiche garantisce un utilizzo degli strumenti e delle procedure tale da rendere comparabili i dati rilevati. I ruoli dei due osservatori all’interno delle scuole non sono fissi ma vengono scambiati in base a precise esigenze di ricerca, per quanto siano distinti nelle diverse tecniche di intervista (conduttore e recorder); durante l’osservazione in classe e in laboratorio, le schede vengono compilate simultaneamente, ma in modo indipendente. Entrambi i ruoli sono comunque coinvolti in tutte le procedure di raccolta dei dati perché è fondamentale l’integrazione costante delle competenze metodologiche con quelle in ambito educativo. I quaranta osservatori, selezionati con una procedura comparativa condotta a livello nazionale, hanno partecipato al Seminario Strumenti per valutare le scuole che si è tenuto a Roma a marzo 201111, dove sono stati coinvolti in cinque giornate di formazione specialistica intensiva. La formazione ha consentito agli osservatori di conoscere il piano di visita e le procedure di osservazione, condividere le finalità e le caratteristiche degli strumenti d’indagine elaborati dall’INVALSI12, comprendere i ruoli di ciascuno dei due osservatori, acquisire familiarità nell’utilizzo degli strumenti d’indagine attraverso simulazioni, apprendere le modalità di restituzione dei dati attraverso gli strumenti on-line13. Il percorso di formazione si è articolato sia in incontri in plenaria, durante i quali sono stati presentati gli strumenti e le modalità di utilizzo e proposti momenti di dibattito, sia in esercitazioni pratiche in gruppi di lavoro. Le esercitazioni in gruppo hanno previsto: • la condivisione delle aspettative e la realizzazione di gruppi coesi per il confronto sulle azioni di osservazione ed il supporto fra pari; • simulazioni dell’Intervista al Dirigente scolastico e delle Interviste di gruppo con insegnanti, genitori e studenti, attraverso role playing strutturati di tipo formativo inseriti all’interno di uno scenario unico per tutte le sessioni di lavoro; • simulazione dell’Osservazione strutturata in classe e in laboratorio attraverso la visione e l’ana-

11 Le presentazioni oggetto del primo Seminario con gli osservatori ‘Strumenti per valutare le scuole’ che si è svolto a Roma dal 21 al 25 marzo 2011, sono disponibili nell’area Documenti, Fase 2 del sito del progetto Valutazione e Miglioramento <http://www.invalsi.it/invalsi/ri/audit/doc_fase2.php> [Data di accesso: aprile 2011]. 12 Sono a disposizione degli osservatori coinvolti nella Fase 2 del progetto dispense relative agli strumenti di rilevazione elaborate dal gruppo di ricerca INVALSI (L’intervista al Dirigente scolastico, L’osservazione in classe e in laboratorio, L’intervista di gruppo con insegnanti, genitori e studenti) dove vengono indicate tutte le procedure necessarie all’utilizzo delle diverse tecniche e alle modalità di compilazione. 13 Il gruppo di ricerca INVALSI ha implementato una piattaforma on-line per l’acquisizione dei dati alla quale gli osservatori della Fase 2 possono accedere attraverso un’area a loro riservata.

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lisi di video di lezioni condotte in scuole primarie e secondarie di primo grado, con o senza l’utilizzo della Lavagna Interattiva Multimediale (LIM), e di laboratori di scienze e computer. Durante le visite di osservazione gli osservatori INVALSI hanno utilizzato diversi strumenti di rilevazione e svolto diverse attività: hanno intervistato in modo strutturato il Dirigente scolastico, raccolto della documentazione, osservato con schede strutturate le attività in classe e in laboratorio, osservato in modo partecipe e foto documentato gli spazi, svolto incontri di gruppo con rappresentanze di insegnanti, genitori e studenti (con uso della tecnica del Nominal Group, e di strumenti quali il differenziale semantico e la scala a ordinamento forzato). I due osservatori in modo indipendente hanno osservato una classe di primaria e una classe di secondaria di I grado per un’intera mattinata. Il focus dell’osservazione infatti è rivolto al processo di apprendimento-insegnamento, non alla singola ora di lezione o al singolo insegnante; in questo senso la qualità del servizio offerto dalle diverse classi della scuola dovrebbe essere considerato come uniforme. Per lo stesso motivo agli incontri di gruppo ha partecipato un numero limitato di studenti, genitori e insegnanti (ciascun gruppo era costituito da circa 15 persone), in rappresentanza delle diverse componenti scolastiche. Gli osservatori inoltre, a partire da un format base predisposto dall’INVALSI, hanno contribuito a stilare il Rapporto di Valutazione e individuato le piste di miglioramento per ciascuna istituzione scolastica.

6. Il Rapporto di valutazione e le piste per il miglioramento Ciascuna istituzione scolastica ha ricevuto un Rapporto di valutazione personalizzato, redatto dalle coppie di osservatori, a partire da un format predisposto da INVALSI; la struttura del rapporto segue l’ordine degli indicatori del Quadro di riferimento VALSIS, elaborato dall’INVALSI.Tali indicatori sono riconducibili a tre principali tipologie: 1) indicatori che forniscono semplicemente delle informazioni, e non danno luogo a un particolare giudizio (quante unità scolastiche, quanti alunni, ecc.), offrendo dati che servono a programmare, non a valutare (ad esempio sapere quanti alunni stranieri ci sono serve a indicare che la scuola dovrà programmare interventi specifici); 2) indicatori rilevati per approfondire determinati aspetti (ad esempio il contenuto dei progetti, gli argomenti della formazione degli insegnanti), ossia con una valenza descrittiva; 3) indicatori che si riferiscono a variabili alle quali si attribuisce un valore, ossia un criterio di qualità: positivo se si pensa che favorisca l’apprendimento, negativo se si pensa che sia un ostacolo (ad esempio le richieste di trasferimento dei docenti). In alcuni casi è sufficiente sapere se tale criterio esiste o meno (si considera positivamente ad esempio che una scuola abbia definito un curricolo di scuola), ma nella maggioranza dei casi questo non basta, poiché interessa sapere anche in che misura il criterio esiste e quanto questa misura sia ritenuta accettabile (ad esempio quali attività la scuola realizza per favorire la continuità). Gli indicatori e aspetti VALSIS per i quali è stato possibile reperire dati e/o informazioni al fine di elaborare una restituzione alla scuola utile per il miglioramento sono stati 115, molti dei quali corredati dalle descrizioni qualitative degli osservatori. Per alcuni degli indicatori è stato possibile offrire un confronto tra la situazione della singola scuola e il dato medio nazionale (ad esempio per le assenze del personale, tratte dalla così detta “scheda Brunetta”), per altri indicatori la prestazione della scuola è stata messa a confronto con i dati INVALSI. I risultati alle prove di apprendimento sono stati

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confrontati con i risultati medi del campione di scuole dell’Esame di stato a.s. 2009-10 e alcuni dati strutturali confrontati con i dati medi delle scuole partecipanti all’indagine Questionario di sistema nell’a.s. 2006-2007 (i cui studenti facevano parte del campione nazionale delle prove di apprendimento del Servizio Nazionale di Valutazione). Ci sono infine alcuni indicatori (raccolti con il Questionario scuola 2010-11, o con l’osservazione su campo) per cui è stato possibile offrire solo un confronto tra l’andamento della scuola e quello delle altre scuole partecipanti al progetto, non avendo un campione nazionale di riferimento. Per molti indicatori si sono stabiliti dei livelli teorici entro cui posizionare le scuole (ad esempio per la partecipazione dei genitori alle elezioni degli organi collegiali sono state definite quattro fasce, da “Partecipazione bassa” a “Partecipazione alta”). Per altri sono stati inoltre costruiti indici che aggregano più informazioni (come per la partecipazione delle famiglie alle attività della scuola). Dopo una breve introduzione che presenta la tipologia di dati e di informazioni presenti, la struttura del Rapporto è così articolata: • una breve scheda di sintesi della scuola con dati strutturali (numero di studenti, rapporto studenti insegnanti, tipologia di territorio in cui la scuola insiste, ecc.); • la presentazione del contesto, evidenziando in particolare la partecipazione della comunità e dei genitori alla scuola; • le caratteristiche dell’utenza e le risorse (Input) e in particolare: le caratteristiche delle scuole e quelle degli studenti, le risorse umane e quelle materiali; • i dati di processo in atto tra scuola e territorio, quelli a livello di scuola (progettazione, capacità di miglioramento e vita scolastica) e a livello di classe; • i risultati degli Esami di Stato alla prova INVALSI; • una sintesi complessiva di tutti i punti di forza e di debolezza emersi nelle Aree di interesse; • i possibili percorsi di miglioramento per l’anno scolastico successivo. Ciascuna sottoarea è corredata da una Sintesi che evidenzia i punti di forza e di debolezza della scuola emersi nelle Aree di interesse. In coerenza con le sintesi, sono individuate tre o quattro piste di miglioramento fra le quali ciascuna istituzione scolastica potrà scegliere per attuare il suo piano di miglioramento e gli indicatori di riferimento per la valutazione expost dell’intervento.

7. Conclusioni I dati della Fase 2 del progetto VM sono in fase di elaborazione e, molto presto, costituiranno un vasto data base di informazioni rilevate con tecniche quantitative e qualitative tale da permettere al gruppo di ricerca di rendere noti gli esiti (positivi e/o negativi) del percorso fatto e la tenuta complessiva del modello. Al momento, il principale risultato relativo alla Diagnosi complessiva delle scuole (Fase 2), alla luce delle esperienze europee e di quelle italiane precedentemente descritte, riguarda l’effettiva realizzazione di un percorso sistematico di valutazione esterna per un vasto numero di istituzioni scolastiche che, a differenza di altri modelli sperimentati in Italia, ha indagato non solo aspetti organizzativi e di progettazione, ma anche il processo di insegnamento/apprendimento in classe e in laboratorio, consentendo così una valutazione più analitica e approfondita del servizio offerto, mettendo alla prova una complessa metodologia. Questo nei

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fatti ha permesso di sperimentare strumenti di rilevazione per l’osservazione su campo, protocolli e procedure di rilevazione. Il secondo risultato ottenuto è consistito nella reale restituzione alle scuole della grande mole di dati raccolti (gli 88 Rapporti di valutazione redatti dagli osservatori per ciascuna istituzione scolastica), e quindi nella messa in campo anche di un’azione di comunicazione diversa, atta a trasformare gli esiti della valutazione in azioni concrete; questi dati possono infatti essere utilizzati dagli operatori in un’ottica auto valutativa e come base di partenza per la realizzazione di piani di miglioramento (Fase 3 di VM). Il terzo risultato concerne l’avere delineato le competenze professionali e i requisiti necessari per la costituzione di nuove figure con funzioni valutative, nell’averle selezionate, formate e sperimentate sul campo. Infine il Quadro di riferimento teorico della valutazione del sistema scolastico e delle scuole (VALSIS) rappresentando una definizione operativa del concetto di qualità’ della scuola, ha provato a rendere trasparente lo ‘sguardo esterno’ sull’offerta formativa e il servizio scolastico. Invece, alcune problematiche di carattere generale emergono in modo evidente sia per ciò che riguarda la Fase 2 di VM nello specifico, sia rispetto al contesto più ampio nel quale si inscrive il progetto. Innanzi tutto le scuole hanno ‘scelto’ di partecipare alla Fase 2; essendosi auto selezionate non costituiscono quindi un campione rappresentativo tale da poter da una parte validare definitivamente strumenti e procedure di rilevazione, dall’altra di permettere alle scuole di confrontare i propri dati con quelli di un campione. La restituzione alle scuole, come già indicato, permette il confronto su differenti dimensioni (organizzative, didattiche, funzionali, ecc.), ma allo stato attuale tale confronto è in prevalenza possibile solo all’interno del gruppo di scuole partecipanti al progetto; questo non consente di operare reali confronti per norma e/o individuare benchmark nelle varie dimensioni indagate. Inoltre, rappresentando la prima grande operazione sistematica di valutazione esterna, pur avendo fornito alle scuole determinati criteri per l’individuazione delle classi da osservare e delle persone da invitare per le differenti interviste individuali e di gruppo, non è stato possibile campionare le classi o scegliere casualmente gli studenti, i genitori o gli insegnanti da intervistare. Se questo ha permesso al progetto di non incontrare resistenze di alcun tipo da parte di operatori e utenti, di fatto, in alcuni casi, è accaduto che gli osservatori di VM si imbattessero, durante le visite, in ‘teatrini’ appositamente costruiti per loro o in gruppi del tutto definiti dalla dirigenza, inficiandone la reale possibilità di indagine. È evidente che una sperimentazione più robusta del modello dovrà tener conto di questioni così imprescindibili. Più in generale, gli spunti di riflessione e di attenzione che il progetto offre hanno a che vedere con la possibilità o meno di estendere l’esperienza di valutazione esterna a un numero più ampio di scuole e/o all’ipotesi di applicazione del modello a livello nazionale; ciò implicherebbe inevitabilmente un grande dispendio in termini di risorse economiche e umane. A questo si associa infatti la necessità di reclutare, fornire di status e formare un corpo di osservatori / valutatori in grado di svolgere questo mestiere. A livello di sistema rimane quindi aperta la questione più importante ossia, nel costituendo sistema nazionale di valutazione, chi effettivamente sarà chiamato a valutare e chi invece a sollecitare e monitorare i percorsi di miglioramento delle singole scuole.

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Studi Safety of educational environment: psychological and pedagogical aspects Sicurezza dell’ambiente educativo: aspetti psicologici e pedagogici VLADIMIR KOVROV • ANNA ANTONOVA The article is devoted to the concept of the psycologically safe educational enviroment. Metodological and the theoretical bases of psychological safety of educational enviroment are presented. A particular attention is devoted to the impact of this construct on communication between peers. The article suggests criteria to evaluate psychological safety and ways of its organization.

L'articolo affronta il tema della sicurezza psicologica nell'ambiente educativo, presentandone le basi teoretiche e metodologiche. Il concetto di sicurezza psicologica viene esaminato considerando le modalità organizzative che consentono di ottenere un ambiente sicuro e i criteri che ne consentono la valutazione, con particolare attenzione al problema della comunicazione tra pari.

Key words: the educational environment, psychological safety, personal development, pedagogical interaction, peer interaction.

Parole chiave: ambiente educativo, sicurezza psicologica, sviluppo personale, interazione educativa, interazione fra pari

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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Safety of educational environment: psychological and pedagogical aspects

In the last 10 years the term «safety» has become one of the most important terms in almost all spheres of life of modern man. In education it is the main criteria for the successful educational process, for its integrity and consistency, as well as to develop a humanistic, learner-oriented and comfortable educational environment for children. Educational institution (kindergarten, school, liceum and etc.) is the main social environment for children. Such competences as tolerance towards other people, ability to live with people of different cultures and nations, responsibility for one own’s actions, ability to take part in cooperative decisions, to regulate conflicts without violence, are formed there. But at the same time the educational environment of educational institutions can be dangerous for children and may contain risks and threats for their physical and psychological health. Safety absence in an educational environment has a negative influence on the successful development of the child’s personality and his self-actualization. A child does not always understand the level of danger, or does not know how to cope with the existing threat. Threats, dangers may come from nature (the elements, floods, tornadoes, hurricanes, earthquakes, fires, mudslides, etc.), from the material world (gas explosions in the house, cut glass, the risk of material objects – old houses, damaged furniture, etc.), from other people (adults, parents, teachers, peers in a social environment, students), from himself. That’s why there is a need in a specific pedagogic activity and pedagogical protection for children. In psychology such category as “safety” has been used since the 1920s. According to the concepts of humanistic psychology (Abraham Maslow, Carl Rogers and others), the desire for security is one of the vital human needs. Maslow highlights the need for security as one of the basic human needs: humans desire to feel safe, get rid of fear and life misfortune [10]. Fromm [5] said that freedom from cruel social, political, economical and religious limitations has demanded a compensation in the form of feeling safe and being belonging to society. He supposed that this gap between freedom and safety had become the reason of difficulties in human being. Horny [11] in social-cultural theory of personality marked 2 childhood needs: satisfaction need and safety need. In a child’s development the main need is a safety need (being loved and protected from danger and hostile world). And when it is not satisfied, the basic hostility evolves. As a result, child feels fear, helplessness and guilt that appear in interaction with other people in present and in the future. In 1970s the term “psychological safety” appeared in industrial and engineer psychology. It was connected with “patterns of human activity in situations of physical danger and the ways of searching assurance of one own’s safety” [Kotik M., 5] In last 15 years this term is connected with organizational psychology. Edmondson, A. [6] points out that psychological safety is a shared belief that the context is safe for interpersonal risk taking. In psychologically safe teams, team members feel accepted and respect-

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ed. Also, psychological safety is defined by how group members think they are viewed by others in the group, but trust is defined by how one views another. So, they place an emphasis on the fact, that psychological safety is focused on being respected by the referential group [7]. Psychological safety is an integrative term [11], so it can be viewed: • as a process. Every time the participants of the social environment meet each other, the psychological safety evolves anew; • as a condition that provides basic protection and safety of personality and society; • as a characteristic of one’s own personality. It characterizes its protection of destructive influences and inner resource for resistance to harmful actions. The term “safe learning environment” in the psychological-pedagogical science and practice appeared relatively recently. When the development of a child is healthy, he feels confident and has a psychological resistance to difficult situations. But when a child does not believe in the success of his own actions, has fear of humiliation or feeling of loss of parent’s love – all this means that the child’s need in safety and protection are not satisfied. In this case the development of personality can be slowed down.Therefore, a teacher should organize such environment, which helps children satisfy the basic need in safety, teaches how to cope with difficult situations and shows his own way to achieve inner stability. The elaboration of the concept of psychological and pedagogical safety of educational environment is based on certain concepts: danger, safety, threats, risks, challenges, educational institution, educational environment. Yasvin asserts that educational environment is a system of influences and conditions for personality formation according to a given sample, as well as opportunities for its development, which are contained in the social and spatial-objective environment. [13] But what are the differences between danger, risk and threat in this concept? Danger is a probability of being harmed that is determined by objective and subjective factors. Risk is a probability of upraise of negative consequences of a person’s own activity. Threat is a complex of conditions and factors that endanger the vital interests of the individual, society and state. The Institution of developmental physiology of the Russian Educational Academy found out the main risk factors at school: 1. Stressful teaching tactics; 2. Mismatch of learning methods and technologies to the age and functional abilities of students; 3. Inadequate literacy of parents in the sphere of health of their children; 4. Very intensive educational process; 5. Premature preschool systematic training; 6. Functional illiteracy of teachers in matters of protection and promotion of health; Medical, psychological and pedagogical practices show that a large number of students are in a state of chronic fatigue, which leads to neuro-psychological exhaustion. Moreover, many researches have shown that pedagogical errors or incorrect pedagogical technologies have negative effect on a child’s mind.This leads to psychological maladjustment, which has such consequences as

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• • • • •

Low level of cognitive activity; Low level of motivation in the learning activity; Instability of the emotional sphere; A high level of anxiety; Aborted communication skills.

Psychologically safe educational environment helps to avoid such psychological maladjustment. Methodological and theoretical base of psychological safety of the educational environment is presented by Baeva (the professor of Herzen State Pedagogical University, Saint Petersburg, Russia) Baeva [3,11] considers psychologically safe environment as such environment, where the majority of participants (students, teachers and parents) have a positive attitude towards it, have high satisfaction index of interaction and protection from psychological abuse. Ter-Akopov [12] offers a broader definition of psychological safety. According to his ideas, it is such internal state, that’s characterized by the absence of danger for the psyche of the person, and includes a complex of specific actions for elimination such danger. Mirimanova [8] points out that psychological safety of modern educational environment is directly related to the conflict and proneness to conflict in this educational space. The conflict can be either a factor of development of personality, or a factor of psychological safety/unsafety. School conflicts, especially in adolescence, are associated with violence, aggression, and take various forms: insults, accusations, threats, shouting, quarrelling, fighting, revenge, etc. Also conflicts are accompanied by strong emotional experience, which leads to certain strategies of behaviour. Non-constructive conflict leads to psychological violence and brings down the index of psychological safety. Psycho prophylaxis of these conflicts, risks and threats can be one of the most important grounds for modelling psychologically safe educational environment. Psychological safety is also an indicator of the effectiveness of the entire educational institution. But understanding psychological safety as one of the ways of pedagogical work is not quite correct. Psychological safety is possible only when all the activities of the educational institutions are solved efficiently, then there will be a psychologically safe environment and sense of comfort for all its participants. The category of psychological safety is determined by Baeva [1, 3, 11] in 3 aspects: • As a condition of educational environment that is free from psychological violence in interaction, that proves satisfaction of need in personal trustful communication, that has referential meaning and support mental health of its participants. • As a system of interpersonal relationships, which gives the participants a sense of belonging (the reference value of the environment), convinces a man that he is out of danger and strengthens his mental health. • As a system of measures to prevent threats for productive development of personality. Today some of the researchers, regarding the influence of the processes of the social environment on man, maintain such type of communication as intrapersonal communication. Baeva [3,4] claim that intrapersonal communication is one of the positive results of human mental development, that shows the rate of his personal growth. They propose to consider intrapersonal communication as a possible indicator of the development of personality in the educational environment. Effective intrapersonal communication, which leads to self-actualization, is possible only in psychologically safe environment.

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The criteria of safety of the educational environment are: • • • • •

Satisfaction of the educational process; Comfort of the educational environment; Psycho-social and legal defence of all participants of the educational process at all levels; Understanding that the child is a subject of his own development; Psychological and pedagogical culture of teachers, staff, administration of the educational institution; • Social creativity of students as a condition of positive socialization; • The well formed, objective assessment and self-assessment by all participants of the educational environment in an atmosphere of care, protection, well-being and freedom of choice in activities and communication. But the three main criteria of psychological safety are: absence of psychological violence in interaction, satisfaction of need in personal trustful communication and referential meaning of this environment, that supports mental health its participants. Pedagogical safety of educational environment is a system of pedagogical techniques, which helps to organize environment free from threats to physical and mental health of its participants (first of all, students and teachers) Kovrov [8] supposes that school is a stress-producing area, because, in fact, everything is regulated and determined there by special rules, and its participants have few variables of behaviour within these limits.That’s why it is necessary to give students and teachers a technology of safe interaction in violent educational space. Educational environment - it’s not only physical space of the educational institution (its physical state, color, design, organization, etc.), but it is also a relationship, as well as an activity of students and teachers in this environment. But if a teacher is too authoritarian, whether he is a wonderful teacher-master, his hard work algorithm will cause some problems in relationships and in a student’s motivation. If a teacher is too humane it also will cause tension in the educational environment because in a short period of time teachers are obliged to give the big program of basic education to students. Learning becomes violent from the moment, when student realizes that the received information requires efforts to be stored, transmitted and assimilated. Most of students do not understand why they need to spend time and effort to assimilate completely unnecessary knowledge (in their opinion). Therefore, an optimal way of giving knowledge for students and teachers should be found. Pedagogical protection can be made directly or take preventive forms. Direct pedagogical protection is a system of actions, provided by teacher through intervention in difficult or dangerous situations for the child where there is a threat to life, health or mental-skills or when there is a need for immediate protection of the rights and dignity of a child. It is a cooperative activity of teacher and student to find a specific pathways to understand the situation and achieve such result, in which there is no need for external protection. In direct contact with the student, the teacher explains, directs the child to reflect on the dangers and finds ways to resolve the arising problem. Direct pedagogical protection in practice is carried out in cases of physical, mental violence, moral cruelty by immediate cessation of negative actions, involvement of the competent authorities, sending a child to a psychologist, a medical room or a physician specialist. Preventive pedagogical protection is such methods in which a teacher resolves the dangerous and difficult situation without the direct intervention into it. Among preventive measures can be, for example, attraction of the child’s parents to participate in class activities. Preventive

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protection assumes the creation of safe environment in a team, that excludes possibility of being threated by the peers in future. The authors of the article made a research to find out an index of psychological safety at different schools [2]. The sample consisted of students of 12-15 years of age of four Moscow schools. Schools were divided into 2 groups: low index of psychological safety and high level of it. We found out that at schools with low level of psychological safety, students’ interactions with peers were ambivalent. On the one hand, there was freedom in communication and teenagers could express all their feelings and thoughts. On the other hand, there were tendencies to ignorance of the point of view of other people. Also there was a high index of demonstrative leadership. Students defended exclusively their own interests and showed aggressiveness in individual activity. Achievement of their own interests for them is more important than interpersonal relations. Very often students behavior was driven by negative emotions, insults, intentions to make harm to another teenager. Or they manipulated each other. Such ambivalent behavior of students towards each other mirrors in students’ images of educational environment. Teenagers thought that it is not psychologically safe, not comfortable, they didn’t feel protected from psychological violence, but they have been satisfied by it already. We suppose that teachers there are inconsistent in their pedagogical methods. This leads to “double standard policy” in communication and establishing aggressiveness and hostility as a norm of behavior. So, we can see that there exists psychological violence in interaction with peers which leads to reduce of the reference of educational environment. Relations with teachers were also ambivalent. On the one hand, students said that there were trust, honesty and help in communication with adults. On the other hand, teenagers also pointed at such communication problems as aggressiveness, lack of understanding, warp judgment of teachers.These results could be connected, first of all, with professional deformation of teachers, and also with the fact that teachers can’t keep pace with the extremely changing teenagers. Lack of interesting upbringing activities with a strong pro-social orientation reduces students’ satisfaction of the educational environment, and increases the expression of psychological violence, the aggressiveness and non-constructive conflicts in interaction. At schools with low level of psychological safety students are bot involved into the school life. They feel bored there and don’t feel referential meaning of the school. At schools with high level of psychological safety students were more involved into school life. Students name positive changes in their character and personality as an impact of the school. They pointed that their communicative skills, personality development, and self-confidence had grown. Students described their relations with other students as trustful, authentic and full of freedom in self-expression. The level of conflict was low there, communication was very helpful and supportive. Students tried to listen to each other, to cooperate and were tolerant in interactions. The level of intergroup competition was very low there. Students at these schools described their relationships with teachers as friendly and accepting. These relations were characterized by honesty, politeness; there were no negative evaluation of children personalities by teachers; they try to listen to the students’ opinions. Adults do not try to change the teenager’s personality in violent, prescriptive or authoritarian way, but show teenager’s abilities and ways of his development. Students feel the unconditional acceptance from teachers, and feel their own right for being unique. And the motivation for study was high there.

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But on the other hand teachers at that schools tend to pedagogical manipulations and students feel that. In pedagogical staff we found out a tendency to be guided in pedagogical actions not by desires of children’s community, but by own representations what is necessary for teenagers. We suppose that it is connected with a teachers’ position in relations with students. In communication teachers present themselves as an embodiment of authority and knowledge. In this case there is no “head-to-head” relation with teenagers and in difficult situations (preparation to examination or for significant actions) and sometimes teenagers understand this behaviour as disrespect. One more reason is that teachers have in image of ideal students. But in attempt to comply with this ideal they forget about real students and can’t keep pace with the extremely changing teenagers. At present, we consider such behaviour as a risk for psychological safety which, in case of continuation and stability of such behaviour from teachers, could develop into threat both for the psychological safety of school, and the stability of educational system as a whole. So, we can see that psychologically safe environment has an impact on learning activity of students, on their personal development and self-actualization. For achieving safety in educational environment the following tasks should be resolved: • Organization of learner-centred education with a glance to the individual psycho-physiological and social abilities of students; • The formation of the personal needs and professional guidance according to knowledge of individual characteristics and capabilities of students • Health control and adaptation of students to educational institution; • Organization of leisure, correctional and rehabilitation activities for students and teachers. • Selection the optimal educational technologies, lesson plans with taking into account age, sex, psychological makeup, environment; • Development of raw talents and creativity of every child, teen, youth, implementation of their aptitudes and abilities in various fields of human activity and communication • Optimization of psychological circumstances of students and teachers.

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Studi University-Business Dialogue: quali implicazioni nella ricerca pedagogica e didattica? University-Business Dialogue: what the possible results on education and learning research? DANIELA FRISON University-Business Cooperation e Knowledge Triangle emergono tra le parole chiave dell’agenda europea di riforme concernente la modernizzazione dell’istruzione superiore. Sono numerosi, infatti, i documenti redatti dalla Commissione che evidenziano la necessità di promuovere la collaborazione delle Università con il mondo delle imprese e di rafforzare il rapporto tra Istruzione/Formazione, Ricerca e Business/Innovazione, riconosciuti come key drivers per una società basata sulla conoscenza. L’obiettivo del contributo è riflettere su come queste due esortazioni possano concretizzarsi in ambito umanistico e, precisamente, in ambito pedagogico-didattico. L’attenzione si focalizzerà prevalentemente sul UniversityBusiness Dialogue a partire da una prima parte di ricostruzione della genesi del rapporto tra Università e mondo extra-accademico e mediante una seconda parte di riflessione sui documenti europei dell’ultimo decennio dedicati alla questione.

University-Business Cooperation and Knowledge Triangle are some of the key-words among the European Reforms about the modernization concerning Higher Education. In fact, the European Commission has published different documents about the increasing need to promote a positive cooperation between University and the Business World, and to strengthen the relationship between Education and Learning, Research and Business/ Innovation, which are all considered key drivers of a society based on knowledge. The main goal of this work is to reflect on the possible ways these aspects could coexist and be practiced in humanistic areas. The main concern focuses on the University-Business Dialogue and follows the birth and the evolution of the relationship between University and extra-academic world, while the second step is about a critical analysis of the European documents of the last decades about the question itself.

Parole chiave: University-Business Dialogue, Knowledge Triangle, istruzione superiore, ricerca, storia delle università, sapere scientifico

Key words: University-Business Dialogue, Knowledge Triangle, Higher Education, research, history of Universities, scientific knowledge

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University-Business Dialogue: quali implicazioni nella ricerca pedagogica e didattica?

Introduzione University-Business Cooperation e Knowledge Triangle emergono tra le parole chiave dell’agenda europea di riforme concernente la modernizzazione dell’istruzione superiore (Commission of the European Communities, 2011). Numerosi sono infatti i documenti redatti dalla Commissione che evidenziano la necessità di promuovere la collaborazione delle Università con il mondo delle imprese e di rafforzare il rapporto tra Istruzione/Formazione, Ricerca e Business/Innovazione, riconosciuti come key drivers per una società basata sulla conoscenza (Swedish National Agency for Higher Education, 2009). Come queste due esortazioni possono essere recepite dalle Social Sciences and Humanities (SSH), così come vengono definite all’interno del Framework Programme 7 e Horizon 2020, i programmi europei di ricerca e innovazione e, in particolare, nell’ambito della ricerca pedagogica e didattica? Per riflettere sulle opportunità di sviluppo del dialogo università-impresa e contestualizzarle in ambito pedagogico, il presente contributo ripercorrerà, nella sua prima parte, la genesi di questo stesso dialogo nella storia delle università, per focalizzarsi poi, nella seconda parte, sui documenti europei che nell’ultimo decennio hanno affrontato la questione.

1. Dalle universitates medievali alle università di Humboldt e Newman La storia delle universitates ci rimanda indietro alla società comunale del XII° secolo. È qui, infatti, che emerge una nuova istituzione culturale che si sviluppa intorno a gruppi di studenti che da più parti si raccolgono in sedi prestigiose (Bologna, Parigi, Oxford) attratti da maestri celebri per le loro conoscenze e le loro abilità nel comunicare il sapere. Gli scolari si aggregano, si organizzano e, gradualmente, studenti e professori si associano in gruppi distinti. L’organizzazione dell’emergente università si fa via via più composita e animata e s’intensificano i movimenti di professori e scolaresche verso nuove mete, vivacizzando così una mobilità resa possibile dal fatto che le stesse materie (il diritto, la teologia, la medicina e le arti liberali), con i medesimi contenuti, erano proposte in tutte le università, con un riconoscimento immediato dei percorsi da parte di tutte le realtà europee. Ciò consentiva agli studenti, nella loro peregrinatio academica, di stabilirsi lungo il loro percorso di studi presso più università: italiane, spagnole, portoghesi, tedesche, inglesi, francesi, olandesi… garantendo una forma già avanzata di quella che con parole attuali potremo definire validazione dei saperi formali. Una omogeneità di fondo ha dunque contraddistinto gli atenei europei almeno fino al XVI° secolo: essi costituivano realtà aperte, dotate, si potrebbe dire, di una dimensione

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internazionale e radunate intorno a preoccupazioni esclusivamente teoriche e speculative (Stracca, 1979; Del Negro, 2002). Sarà l’età moderna ad apportare significativi mutamenti nel profilo che l’Università aveva delineato per sé fin dalle sue origini. Con lo sviluppo dei nascenti Stati e l’attenzione alla formazione delle classi dirigenti e del clero, il legame tra la ricerca intellettuale e la sua applicazione pratica si fa sempre più concreto e necessario. Gli stessi insegnanti universitari iniziano a manifestare verso questo stesso legame un atteggiamento di crescente fiducia sconfinando dall’originaria vocazione esclusivamente teorica dell’università, verso una missione maggiormente tesa al progresso. Di fatto, tuttavia, l’avanzamento delle scoperte scientifiche in Europa si compie prevalentemente fuori dalle Università. Sono le accademie, i giardini botanici, gli osservatori, i laboratori ad avanzare il diritto di paternità su numerose grandi scoperte scientifiche dell’epoca dando avvio ad un processo, progredito fino ai nostri giorni, che vede una parte importante della ricerca svilupparsi al di fuori delle mura universitarie. E proprio gli italiani si sono distinti per primi, nel corso del XVI° secolo, seguiti dagli olandesi e, gradualmente, dal resto d’Europa, orientandosi verso la creazione di laboratori esterni all’università consentendo a chi non volesse in alcun modo accettare tale “compromesso”, di condurre le proprie ricerche fuori dalle sedi universitarie (De Ridder-Symoens, 2006). Dovremo infatti attendere fino al termine del XVIII° per un primo moto di rinnovamento che sarà opera del filosofo e diplomatico tedesco Wilhelm Von Humboldt (17671835), animatore di una prima apertura delle istituzioni universitarie alla ricerca applicata. Nella sua direzione degli studi prussiani, Humboldt si è infatti impegnato nel sostegno di un profilo unico di “insegnante-ricercatore”. L’università da lui diretta mira a concentrare nelle mani di un’unica figura accademica saperi e “pratiche” fino a quel momento patrimonio di più esperti: l’insegnamento, compito dell’università, e la ricerca, opera del laboratorio e dell’accademia. Affidare ai professori universitari solo l’insegnamento e la diffusione della scienza e non, anche, la sua produzione e il suo sviluppo, è per Humboldt, un vero e proprio “torto”. Le università, per il filosofo, hanno infatti il compito di contribuire all’avanzamento della ricerca e della conoscenza scientifica, dotandosi di quella vivacità e di quello slancio che possono trarre proprio dal nutrimento che la ricerca procura allo studio e all’insegnamento. Inoltre, l’università si avvia ad intrattenere relazioni con il mondo economico e produttivo preoccupandosi di “mettere la scienza a disposizione dell’industria” (OlivierUtard, 2003, traduzione nostra). La fermezza e il rinnovamento delle posizioni di Humboldt non sono destinate a restare confinate nella Germania del XIX° secolo dove, nel 1809, egli fonda l’Università di Berlino. Anche l’Inghilterra, verso la metà del 1800, promuove la centralità degli esercizi di laboratorio nella formazione universitaria favorendo gradualmente un avvicinamento sistematico degli studenti alla ricerca. E, oltre oceano, saranno gli Stati Uniti, verso la fine del secolo, ad accogliere il modello tedesco, creando le università di Johns Hopkins nel 1873 e di Chicago nel 1890 ed estendendolo, successivamente, ad atenei storici quali Harvard e Yale. L’impresa humboldtiana di rinnovamento dell’istituzione universitaria di inizio ‘800 consente, dunque, una prima “forma” di attenzione al contesto economico produttivo: un primo collegamento tra due mondi fino a quel momento mantenuti rigorosamente distinti e lontani l’uno dall’altro; distinzione da sempre proclamata e garantita dalla natura opposta e dall’opposta vocazione di università e accademie.Tuttavia è importante evidenziare come questo primo link tra università e territorio non attenui la supremazia della prima sul secondo: è

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ancora la comunità scientifica universitaria a dettare le regole della produzione e dell’“uso” del sapere; sapere che, per la prima volta, può essere “concesso” al mondo economico per il suo avanzamento e che trova in centri di eccellenza e istituti deputati la propria sede di “raccolta e stoccaggio” per il mondo imprenditoriale. Emergono, dunque, chiaramente due peculiarità di questa embrionale relazione università-imprese. Essa si fonda, in primo luogo, sull’applicazione dei risultati della ricerca generata nei laboratori universitari ma non ancora su una sua “generazione” sul campo: gli obiettivi di fondo dei lavori degli scienziati rimangono teorici (Olivier-Utard, 2003). In secondo luogo, le discipline coinvolte in questo primo tentativo di avvicinamento tra università e imprese sono quelle “scientifiche” propriamente dette: la matematica, la fisica, la meccanica, la chimica, ecc. Ad essere tutt’altro che d’accordo con l’impostazione humboldtiana è il teologo inglese John Henry Newman che, a metà del 1800, si esprimeva con riflessioni assolutamente opposte circa il rapporto tra didattica e ricerca. Il suo libro, The idea of university (2008, ed. or. 1852) è una collezione di riflessioni di filosofia dell’educazione a servizio della nuova università cattolica irlandese. Egli vi sostiene che finalità primarie dell’università siano il ragionamento e la diffusione del sapere e non certo il suo sviluppo e avanzamento: questo obiettivo venga lasciato alla cura delle accademie letterarie e scientifiche. Peraltro, questa ripartizione del lavoro intellettuale tra accademie e università è, per Newman, imposta dalla natura stessa delle cose che rende la scoperta e l’insegnamento due funzioni diverse e nettamente distinte. A riguardo, per esprimere al meglio la sua posizione egli trova supporto nelle parole del Cardinale italiano Giacinto Gerdil che sosteneva: “Non esiste alcuna vera opposizione tra lo spirito delle Accademie e quello delle Università; hanno solamente due prospettive differenti. Le Università hanno la finalità di insegnare le scienze agli allievi che intendono formarsi ad esse; le Accademie si propongono delle nuove ricerche da sviluppare per l’avanzamento delle scienze stesse” (Newman, 2008-1852, p. xii, traduzione nostra). Nel corso del Novecento, a ravvivare il dibattito contribuiscono l’espansione dell’obbligo scolastico (in Italia nel 1962) e la massificazione della frequenza universitaria (1969) e la conseguente necessaria revisione del ruolo del docente, il cui operato non si rivolge più ad un numero limitato di studenti. Un ripensamento della didattica diventa, dunque, incombente. Così come diviene, incombente, una ridefinizione dell’identità dell’istituzione universitaria stessa. Di fronte alla massificazione è necessario chiedersi se l’università possa permanere nel suo status di istituzione di alta cultura o debba rivederlo e riconfigurarsi come agenzia formativa nella quale il ruolo della didattica e lo spazio assegnato e riconosciuto alla ricerca debbano essere altrettanto ristrutturati.

2. Verso nuovi paradigmi di produzione del sapere scientifico: il Modo 2 di Gibbons e la triple helix di Etzkowitz & Leydesdorff Un tale ripensamento coinvolge, inevitabilmente, la produzione stessa della ricerca. I modelli lanciati da Humboldt e Newman si erano proposti, peraltro riuscendovi, di influenzare profondamente la didattica universitaria, tracciando delle linee di incontro, il primo, e di demarcazione, il secondo, tra i ruoli di insegnante e di ricercatore e condizionando, per questa via, la logica stessa di produzione del sapere scientifico. Ed è proprio su tale logica di produzione che porta il contributo di Gibbons che, nel 1994, ipotizza che l’università sia interessata da un nuovo modo di generazione del sapere,

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centrato su problematiche “fornite” dal mondo produttivo o dal potere pubblico. L’équipe di Gibbons ipotizza, inoltre, che tale metamorfosi abbia avuto inizio già a partire dagli anni ’40 favorendo lo spostamento verso un nuovo paradigma di università, in netta rottura con la dimensione “fondamentale” che aveva caratterizzato questa istituzione fino alla prima metà del XX° secolo: si tratterebbe di una “nuova” università costretta a rinunciare al monopolio della produzione del sapere (Milot, 2003). In The new production of knowledge (Gibbons et al.,1994), infatti, l’autore rintraccia i nuovi punti cardinali del sapere scientifico: eterogeneità, interdisciplinarietà, molteplicità dei luoghi di produzione e, soprattutto, produzione in contesti di applicazione. L’università risulterebbe dunque, in questo nuovo mercato del sapere, solo uno tra i molti fornitori possibili: imprese private, istituti ministeriali, think-tanks, ecc. Si tratterebbe di una “liberalizzazione” del sapere scientifico che, nelle previsioni di Gibbons, potrebbe minacciare il modus operandi che, fin dalle sue origini, aveva connotato l’università. Il rischio prospettato dall’autore sarebbe l’incapacità delle antiche universitates di rispondere alla richiesta di saperi specializzati. Per farlo dovrebbero orientarsi verso un Modo 2 di produzione dei saperi, ancorato all’attribuzione di una nuova dimensione pratica all’attività scientifica e contrapposto a quello tradizionalmente esercitato dalle università e denominato Modo 1. Il Modo 2, precisato come transdiciplinary, broad and transient, heterogeneous, multi-centered, accountable e riflexive, se non assecondato dall’Università, andrebbe inevitabilmente ad erodere il potere produttivo, economico e politico dei suoi ricercatori e dei suoi saperi (Gibbons et al., 1994). L’opera di Gibbons ha evidentemente costituito negli anni della sua apparizione un successo sia epistemologico che politico data la portata paradigmatica delle sue affermazioni. The new production of knowledge ha, però, anche stimolato proposte alternative a quella di Gibbons, (mappate in una ricognizione di Hessel e Van Lente, 2008) accanto a riletture della storia delle università e del loro rapporto con il mondo economico-produttivo (Pestre, 1997; Gaudin, 1998; Albert, Bernard, 2000; Gaudin, Gingras, 2000; Grossetti, 2000). In particolare, secondo Etzkowitz e Leydesdorff (1996; 2000; Leydesdorff, Mayer, 2006) non sarebbe la molteplicità di produttori di saperi a connotare di novità il panorama universitario. Il paesaggio composito di università ed accademie prima, l’università humboldtiana poi ed alcuni “casi” come quelli delle università di Berlino e di Strasburgo, andrebbero in effetti a confutare l’ipotesi di un assoluta novità del Modo 2 identificato dal gruppo di Gibbons. Pur ammettendo un link con il mondo produttivo assolutamente debole ed informale, sottomesso alla supremazia universitaria, è indubbio che i due mondi siano stati entrambi fervidi produttori di saperi già prima degli anni ’40 (Etzkowitz, Leydesdorff, 1996). Secondo gli autori la novità nella produzione del sapere scientifico starebbe piuttosto in una triple helix tra università, industria e governance pubblica, testimone di una evoluzione importante nell’organizzazione dei saperi ma, tuttavia, lontana da una rottura radicale con il passato come quella proposta da Gibbons (ibidem). Alla fine del XIX° secolo, ci ricordano Etzkowitz e Leydesdorff (2000a), ha avuto luogo una vera e propria rivoluzione all’interno delle università, una rivoluzione che ha affiancato la ricerca alla loro prima missione di insegnamento. Ma la centralità che la conoscenza e la ricerca hanno gradatamente acquisito nella società della conoscenza ha, inevitabilmente, promosso la nascita di una terza missione: il ruolo dell’università nello sviluppo socio-economico (ibidem). Gli autori parlano addirittura di una seconda rivoluzione universitaria che pare svilupparsi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e che vede in una nuova articolazione dei rapporti tra università, industria e stato la sede di rinnovate possibili strategie di crescita economica e di trasformazione sociale (ibidem, p. 137).

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Pur sottolineando come tali rapporti siano stati investiti da profondi cambiamenti, essi non mettono in dubbio la centralità del ruolo delle università nella produzione del sapere e tantomeno ne teorizzano un possibile declino come, invece, prospettato da Gibbons. Delineano, piuttosto, un modello a tripla elica in cui i confini netti delle tre sfere istituzionali dell’università, del mondo economico e di quello pubblico, vengono a sfumarsi e ad accavallarsi consentendo la nascita di organismi ibridi che ne fungono da interfacce.

3. Il University-business dialogue nelle politiche europee in materia di Higher Education Dopo aver illustrato le posizioni di Gibbons e di Etzkowitz e Leydesdorff in merito alle relazioni tra mondo accademico ed economico, veniamo all’attuale dibattito europeo in materia di Higher Education restringendo il campo ai principali documenti che rimandano esplicitamente al dialogo università-impresa. Modernizzare le università europee e favorire la ricerca promuovendo nuovi partenariati tra università e business costituiscono, infatti, i must che la Commissione porta all’attenzione del mondo politico europeo proponendo esperienze e incoraggiando nuove opportunità di dialogo pubblicate all’interno dello Spazio Europeo della Ricerca con il supporto dei Forum UE on Continuing Education and Lifelong Learning (2008) e on University-Business Dialogue (Commission of the European Communities, 2009). Il proposito è quello di rintracciare nella produzione più recente a livello europeo le motivazioni e le finalità che hanno condotto la Commissione Europea ad istituire agli inizi del 2008 il Forum on University-Business Dialogue e avere così un quadro sufficientemente esaustivo che consenta di individuare le declinazioni europee del rapporto tra mondo accademico e mondo produttivo. Dai documenti presi in considerazione esso sembra dover contribuire, innanzitutto, al perseguimento di tre obiettivi principali: potenziare la ricerca, migliorare le competenze dei lavoratori dell’UE, promuoverne l’imprenditorialità (Commission of the European Communities, 2008). Il tutto ad un livello di eccellenza consentito da alti livelli di perfezionamento e abilità di transitare nelle diverse discipline. È infatti all’eccellenza che gli atenei europei devono puntare, anche superando l’annosa questione che vuole la ricerca fondamentale in opposizione alla ricerca applicata. Il confine tra l’una e l’altra si fa sempre più fluido e la seconda potrebbe divenire opportunità di sviluppo per la prima senza che questa perda il suo carattere fondamentale ma consentendole, invece, a propria volta, di alimentare la ricerca applicata (Milot, 2003). Se nel passato quest’ultima ha potuto subire l’indifferenza di parte della comunità scientifica poiché ritenuta come maggiormente orientata al mercato più che al progresso della conoscenza, per i motivi sopra esposti oggi l’università non può più permettersi un simile atteggiamento di superiorità (Commission of the European Communities, 2008) e “a cultural change is needed: universities must stop thinking as apart from business” (Commission of the European Communities, 2008b, p. 9). Ecco, dunque, che la Commissione auspica non solo un incontro ma la vera e propria costruzione di un ponte di collegamento e di passaggio tra università e imprese affinché, sinergicamente, possano sostenere il trasferimento di conoscenze e di innovazione. La comunicazione tra le loro differenti culture e l’incontro del senso e del significato che, per ciascuna di esse, hanno la ricerca e la diffusione dei suoi risultati condurrebbe, così, a quella che la Commissione definisce una fertilizzazione incrociata (Commission of the European Communities, 2006) da promuovere attraverso un’attenzione all’interdisciplinarietà e alla tran-

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sdisciplinarietà e favorendo l’incontro tra ambiti “complementari o apparentati (comprese le scienze umane, le scienze sociali, le abilità imprenditoriali e manageriali) […] e l’interazione tra studenti, ricercatori e gruppi di ricerca grazie a una maggiore mobilità tra discipline, settori e ambiti di ricerca” (ibidem, p. 9). Il riferimento alle scienze umane incoraggia l’avanzamento della nostra riflessione sebbene l’attenzione venga posta prevalentemente sull’ambito scientifico-tecnologico e lo stesso European Forum on cooperation between Higher Education and the Business Community, del 20081, tenda a circoscrivere il terreno di incontro tra mondo accademico e produttivo intorno a finalità di innovazione tecnologica. Il dibattito avviato dalla Commissione in materia di modernizzazione delle università e di promozione dei partenariati tra mondo universitario e aziendale culmina infatti in un documento dell’aprile 2009 dal titolo A new partnership for the modernisation of universities: the EU Forum for University Business Dialogue (Commission of the European Communities, 2009) e l’istituzione di un forum università-imprese quale piattaforma europea per il loro dialogo. Ciò a cui punta l’Unione è l’incidenza della cooperazione sulla gestione o sulla cultura organizzativa dei due settori. Esperienze quali conferenze, tirocini e progetti a quattro mani dovrebbero aumentare e migliorare. Accanto ad esse dovrebbero essere potenziate le attività extracurricolari come, ad esempio, il sostegno accordato da parte di imprese incubatrici o società di consulenza a studenti e personale universitario affinché possano essere intrapresi nuovi progetti imprenditoriali. E ancora, sostiene la Commissione, “le università dovrebbero coinvolgere gli imprenditori e gli uomini d’affari nella formazione relativa all’imprenditorialità, ad esempio tramite la partecipazione all’attività didattica di importanti personaggi del mondo imprenditoriale in veste di professori invitati” (ibidem, p. 5). Il tutto con l’obiettivo di promuovere il trasferimento di conoscenze tra università e imprese e il coinvolgimento delle Piccole e Medie Imprese (ibidem). La centralità della collaborazione tra università e imprese viene evidenziata anche dalla European University Association nel documento European Universities’ charter on lifelong learning (2008). Il documento, redatto sotto forma di impegno da parte delle università associate nel perseguire e implementare strategie di lifelong learning, evidenzia come “universities are aware of the need to engage in and reinforce dialogue with society more broadly […]. This can best be achieved by strenghtening partnerships at different levels” (p. 4). “Strengthening the relationship between research, teaching and innovation in a perspective of lifelong learning” (p. 6): questo il proposito delle università verso una valorizzazione della prospettiva del lifelong learning come opportunità di esplorazione di nuovi ambiti e nuove metodologie di ricerca e il potenziamento del sopra citato Knowledge Triangle (Education, Research, Business/Innovation). I documenti esplorati, tutti esplicitamente collegati alla promozione del dialogo università-impresa, riportano riferimenti diretti ed intuitivamente immediati all’innovazione scientifica e tecnologica e alle potenzialità di un avvicinamento delle università al business. Il già

1 Segnaliamo che hanno avuto luogo, fino ad oggi, quattro Forum: il primo, Forum on cooperation between Higher Education and the Business Community, nel 2008; il secondo Universities and businesses meet at European forum to discuss cooperation, a febbraio 2009; il terzo University-Business Cooperation for smart, sustainable and inclusive growth a maggio 2010; infine, il quarto ed ultimo forum ad oggi realizzato University-Business Cooperation: a strategic partnership to deliver Europe 2020 a marzo 2011. Per un approfondimento si rinvia allo spazio web dedicato ai Forum, accessibile al link http://ec.europa.eu/education/higher-education/doc1261_en.htm.

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citato documento The Regional Dimension of the European Research Area evidenzia la centralità de: “la creazione o il potenziamento di reti di cooperazione tra imprese o gruppi di imprese e centri di ricerca e università; l’interscambio di personale tra centri di ricerca, università e imprese, in particolare PMI; la divulgazione dei risultati di ricerca e l’adeguamento tecnologico delle PMI; il sostegno agli incubatori di nuove imprese collegati alle università e ai centri di ricerca; la promozione delle spin-off nate da centri universitari o grandi imprese operanti nel settore tecnologico e dell’innovazione” (COM 2001/549 def, p. 17). Le implicazioni di un rafforzamento del University-Business Dialogue nell’ambito della ricerca pedagogica e didattica risultano invece meno dirette ed immediate e nei documenti è assente o solo implicito il riferimento ad esperienze o possibilità di connessione relative a questo specifico settore. Com’è dunque possibile per l’area pedagogico-didattica declinare l’esortazione della Commissione making the knowledge triangle work (Commission of the European Communities, 2011)? The State of European University-Business Cooperation (UBC), report elaborato dal Science-to-Business Marketing Research Centre (2011), per la Direzione Generale dell’Istruzione e della Cultura della Commissione Europea può essere di supporto in questa direzione. Lo studio si è infatti proposto l’obiettivo di evidenziare il livello di diffusione dell’UBC nel sistema europeo dell’Istruzione Superiore, con particolare riferimento ad otto diverse modalità di cooperazione tra Higher Education e Business: collaboration in Research & Development (R&D); academic mobility; student mobility; commercialisation of R&D results; curriculum development & delivery; Lifelong Learning (LLL); entrepreneurship; governance (Commission of the European Communities, 2011, p.6). Osservando le otto tipologie di collaborazione e le attività in cui esse si sostanziano così come declinate in Figura 1, si intravedono gli ambiti in cui il contributo pedagogico e didattico si è principalmente sviluppato: academic mobility, student mobility, curriculum development and delivery, lifelong learning, entrepreneurship. Sempre lo stesso ente di ricerca ha condotto nel medesimo anno una mappatura di 30 good practice case studies in University-Business Cooperation (Science-to-Business Marketing Research Centre, 2011b) cercando di evidenziare i principi guida di ciascuna esperienza di UBC oltre al livello di trasferibilità in altri contesti.Tra i 30 progetti mappati, prevedono indubbiamente un importante contributo della ricerca in ambito pedagogico e didattico quelli volti a: preparare gli studenti all’inserimento professionale e alla vita professionale; promuovere una cultura dell’innovazione e dell’imprenditorialità e formare all’innovazione e all’imprenditorialità; identificare e rispondere ai bisogni di apprendimento nei contesti professionali; accompagnare gli studenti nelle loro esperienze di mobilità e di training (ibidem). Si tratta di attività trasversali che, evidentemente, si affiancano e aggiungono alla molteplicità di collaborazioni che l’area pedagogica ha già in essere con organizzazioni socio-educative e scolastiche con le quali condivide il comune focus di interesse, ma che i documenti europei sulla cooperazione tra università e imprese invitano a superare e ad ampliare, allargando il dialogo al mondo delle organizzazioni in senso lato. A tale proposito il già citato documento della European University Association (2008) intravede nelle strategie accademiche di lifelong learning nuovi input per la ricerca e la messa a punto di metodologie innovative che traggano nutrimento e stimoli proprio da questo ampliamento della definizione di learners e dallo sviluppo di nuove e più diffuse partnership.

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Figura 1 – Result-level of UBC (Science-to-Business Marketing Research Centre, 2011, p. 27)

4. Alcuni spunti di riflessione sul dialogo università-impresa in ambito pedagogico e didattico #

La genesi del rapporto tra università e territorio, il riferimento ai documenti europei che lo promuovono e agli ambiti in cui si è concretizzato, ci consentono di tracciare alcune riflessioni conclusive sul University-Business Dialogue, declinandole con preciso riferimento all’ambito pedagogico e didattico. Partiamo dalla domanda di ricerca, in prima istanza: una domanda che, in una pluralità e molteplicità di “produttori di sapere” (Gibbons et al., 1994) è bene definire nei termini di “chi la pone a chi?”. L’eredità medievale avrebbe assicurato una risposta ovvia, garantita dall’autoreferenzialità della ricerca fondamentale. Le nuove dinamiche di produzione del sapere, della sua sostenibilità e della sua conseguente accountability, hanno invece imposto la revisione di una tale ovvietà. È ancora l’università a definire gli ambiti e gli obiettivi della ricerca accademica? O può essere il territorio, con le sue problematiche, ad orientarla? Il processo che scaturisce da questa secondo possibilità è forzatamente multisfaccettato e transdisciplinare

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(Gibbons, 1994), diventando un processo che ridefinisce i “saperi” accademici e le loro “sedi” (non più soltanto l’università), aprendoli alla contaminazione e alla negoziazione. Si profila, da una parte, un’istituzione accademica chiamata ad “accompagnare” le organizzazioni, le comunità educanti, i singoli, affiancandoli per poter trarre da loro le sollecitazioni per lo sviluppo di una ricerca empirica situata che dà e riceve nutrimento dal “campo”. Dall’altra parte, le organizzazioni vengono chiamate alla responsabilità di un ruolo formativo che le sollecita alla disponibilità e alla collaborazione con l’accademia. Allo sguardo pedagogico il compito di accompagnare il processo di revisione in atto che è, prima di tutto, un processo formativo che vede sempre più i nuovi lifelong learners appartenere contemporaneamente o alternativamente all’uno e all’altro dei due contesti qui presi in considerazione. La necessità di negoziazione emerge come seconda istanza guida. Il superamento della linearità originaria, che ha contraddistinto il processo di produzione del sapere quanto meno fino alla “seconda rivoluzione universitaria” a cui hanno fatto riferimento Etzkowitz & Leydesdorff (1996), ha significato la generazione di spazi e conoscenze ibride nel tentativo di conciliare le esigenze accademiche e quelle delle imprese rendendo imprescindibili tentativi di negoziazione tra i due interlocutori. E rendendo così pressante la ricerca di quella che, prendendo a prestito le parole di Stengers e Prigogine (1981), potremmo definire una nuova alleanza fondata sulla negoziazione delle domande di ricerca, degli strumenti di indagine, delle modalità e dei tempi delle indagini stesse e, ancora più, della valorizzazione dei risultati e delle sue ricadute nei contesti di applicazione. La ricerca applicata si è tradizionalmente preoccupata dello sviluppo di soluzioni pratiche e specifiche in ambito tecnico e tecnologico. La sfida maggiore coinvolge, dunque, le scienze umane, meno coinvolte in collaborazioni con il mondo delle imprese, nonostante, come sostiene Munari (2011), “molte delle competenze e delle conoscenze situate richieste da questo nostro mondo contemporaneo sempre più connesso e imprevedibile riguardano le dimensioni psicologiche, antropologiche e culturali che permeano ogni attività lavorativa”. L’interesse pedagogico può trovare nella relazione con le organizzazioni nuove sollecitazioni che possono toccare l’analisi delle pratiche professionali, la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, i processi di change management, i processi di passaggio generazionale d’impresa e, più ampiamente, tutti i processi di apprendimento e di formazione che a vario titolo coinvolgono i nuovi learners nei contesti professionali. Una terza istanza, strettamente connessa alle due precedenti, è quella della transdisciplinarietà, istanza richiamata particolarmente da Gibbons (1994) ma già celebrata dalla sfida della complessità e dalla definizione che Isabelle Stengers ci propone nei termini di “risveglio a un problema”, di “arricchimento delle relazioni con il mondo” e di “estensione dei confini di ciò che può essere considerato oggetto di ricerca e di narrazione” (Bocchi, Ceruti, 1985, p. X). Si tratta di una transdisciplinarietà che si impone fortemente sulle pretese disciplinari dell’università medievale e che si delinea quale nutrimento principale di una ricerca disponibile a coniugare, sinergicamente, scienze umane e saperi d’impresa (Munari, 2011). Una quarta istanza, anch’essa in stretta connessione con le precedenti, è la produzione del sapere scientifico in contesto di applicazione. Non una novità, dunque, rispetto alla tradizione delle accademie medievali ma di certo un elemento che merita attenzione se situato entro il contesto universitario e ancor più umanistico, poiché produrre sapere in un contesto di applicazione significa uscire dall’omogeneità che aveva contraddistinto le sedi del sapere nel passato universitario. Ciò determina la necessità di confrontarsi con una nuova eterogeneità: l’eterogeneità delle residenze possibili del sapere scientifico e, così pure, dei suoi practitioners. Vengono aggiornate ed ampliate le possibili “sedi” dei saperi che vedono così

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arricchite le loro sorgenti di provenienza e contemporaneamente si modificano i possibili “interlocutori” dei saperi stessi. Lo studente e la comunità scientifica non sono più i soli interlocutori di un sapere così rivisitato e composito. Ad essi si affiancano le organizzazioni con i loro operatori. Una simile eterogeneità definisce una quinta ed ultima istanza che possiamo rintracciare dall’excursus qui elaborato: la riflessività. Una riflessività che si declina in due nuove, differenti, responsabilità del sapere. Da una parte, il “nuovo” sapere scientifico, prodotto in un contesto di pluralità, ha responsabilità sociali di cui prima non era gravato. I molteplici interlocutori con cui interagisce impongono su di esso esigenze di valutazione e di riflessione ex-ante, in itinere ed ex-post, obbligandolo ad una riflessione costante su se stesso, ad un’auto-analisi delle proprie ricadute, sociali innanzitutto ma anche economiche, e della propria accountability. Dall’altra, riprendendo Munari e la sua riflessione sul rapporto tra scienze umane e saperi d’impresa, va evidenziato che “nel contesto contemporaneo, caratterizzato da un tessuto estremamente complesso di interrelazioni ove qualsiasi evento – economico, sociale, culturale, tecnologico, mondano, ecc. – può essere connesso con qualsiasi altro” è “importante restituire ad ogni forma di apprendimento” e di ricerca, aggiungiamo, “la sua dimensione politica”, intesa come “necessaria condivisione di responsabilità” (Munari, 2011, p. 13). Le riflessioni tracciate potrebbero indubbiamente riguardare il dialogo tra università e impresa e la ricerca in senso lato. A renderle propositi cruciali per l’ambito pedagogico e didattico è la dimensione formativa di cui il contesto accademico e quello organizzativo possono farsi portatori mediante la promozione di partnership progettuali e di ricerche in collaborazione. Il dialogo università-impresa può così farsi dialogo formativo, in grado di promuovere l’emergenza di nuove forme di organizzazione del sapere (Munari, 2002), di un sapere epico (Munari, 1993) e composito che si arricchisce grazie alla dimensione partenariale della ricerca e all’apporto che tutti gli attori, dell’università e dell’organizzazione, possono fornire.

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Studi El practicum en la formación universitaria The practicum in higher education MIGUEL A. ZABALZA BERAZA La importancia del PRACTICUM en los diseños curriculares de las carreras universitarias se ha ido incrementando en los últimos años y se ha consolidado definitivamente en numerosas universidades. Esa creciente relevancia, obliga a hacerse algunas preguntas. ¿Para qué sirve el Practicum?¿Tiene que ver con el conocimiento del escenario profesional y la transición al empleo o cumple otros objetivos más ambiciosos? ¿Qué aprenden los estudiantes durante las prácticas? ¿Qué les aporta a su formación? Estas son las preguntas a las que trata de responder este artículo. Se resalta la importancia del Practicum en la formación integral de los estudiantes universitarios y se analiza su naturaleza desde tres ejes de análisis: (a) el Practicum como componente curricular de las carreras universitarias; (b) el Practicum como situación de aprendizaje y (c) el Practicum como experiencia personal.

The importance of the Practicum into the curricula of Higher Education has increased in recent years, becoming firmly consolidated in most universities.This growing importance, forces us to introduce some questions. What is the Practicum intended for? Does it have to do just with knowledge of professional context and with the transition to work or it is oriented to meet other more ambitious goals? What do students learn during external practices? What are their contributions to the integral formation of students? These are the questions that this article intends to answer.The author highlights the importance of the Practicum in the comprehensive training of university students and analyzes its nature from three perspectives: (a) the practicum as part of university curriculum, (b) the practicum as a privileged context for learning, and (c) the practicum as a personal experience.

Palabras clave: Practicum, Enseñanza Universitaria, Diseño curricular en la Educación Superior; Aprendizaje experiencial, Buenas prácticas en la enseñanza universitaria; Formación en alternancia.

Key words: Practicum; Higher Education; Curriculum Design in Higher Education; Experiential Learning; “Good Practices” in Higher Education; Training Through Partnership.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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El practicum en la formación universitaria

Introducción De ninguna manera podría decirse que la Universidad resulta invisible en la sociedad actual, más bien al contrario, está sometida a un constante escrutinio que le obliga a ir con paso lento y a la defensiva, tratando de justificar todo lo que hace o propone, perdiendo autonomía al ritmo de las progresivas decisiones políticas que restringen sus ámbitos de decisión y limitan sus recursos. Aquella universidad que se refugiaba en los claustros, que se sentía libre del mundanal ruido para poder crear y pensar en libertad se ha convertido en un nuevo agente social, se ha metido de lleno en la batalla científica, cultural, social y política. No solo se ha hecho visible sino que ha asumido el riesgo de concitar sobre sí expectativas y amenazas, demandas y desafíos. Se espera de ella que se convierta en motor del desarrollo científico y cultural de la sociedad a la que pertenece; en generadora de cohesión y desarrollo social a través de las herramientas de la cultura común y la profesionalización de las jóvenes generaciones. Con todo, este escenario que para la universidad europea nació en la Sorbona (1998)1 y se confirmó en Bolonia (1999)2 ha supuesto un importante proceso de reformas e inquietudes. Nos hemos mantenido durante la última década navegando entre una constelación de directivas y normas portadoras de la exigencia de cambios para diseñar un Espacio Europeo de Educación Superior, que incluyera en su seno, un espacio europeo de investigación3. El resultado de tantos años de dimes y diretes es variable y depende mucho de quien lo valore. Bolonia ha generado filias y fobias por igual y, probablemente, tanto avances como retrocesos en el diseño de los programas formativos universitarios. Siendo eso así, de lo que no cabe duda es de que los aires profesionalizadores que la filosofía de Bolonia comportaba (la career education, esto es, la vinculación entre formación y trabajo con el propósito de mejorar la empleabilidad) ha supuesto un fuerte impulso en la potenciación de los periodos de prácticas en empresas e instituciones ajenas a la universidad pero que se han vinculado a ella bajo diferentes tipos de convenios de colaboración. El PRACTICUM, que la legislación española define como “conjuntos integrados de prácticas a realizar en centros universitarios o vincu-

1 Declaración conjunta para la armonización del diseño del Sistema de Educación Superior Europeo. Ver en http://www.crue.org/export/sites/Crue/procbolonia/documentos/antecedentes/1._Declaracixn_de_la_S orbona.pdf (consultado el 11 de Junio de 2013). 2 El Espacio Europeo de la Enseñanza Superior. Declaración conjunta de los ministros europeos de educación reunidos en Bolonia el 19 de Junio de 1999.Ver en http://www.crue.org/export/sites/Crue/procbolonia/documentos/antecedentes/2._Declaracixn_de_Bolonia.pdf (consultado el 11 de Junio de 2013). 3 Comité para el Espacio Europeo de Investigación (ERAC, 2000). Espacio Europeo de Investigación. Ver en http://www.oficinaeuropea.es/politicas-ue-de-i-d-i/espacio-europeo-de-investigacion

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lados a la universidad por convenios o conciertos que pongan a los estudiantes en contacto con los problemas de la práctica profesional”4, es hoy mucho más fuerte de lo que lo era en los años 90 y como toda iniciativa educativa que crece rápidamente precisa de momentos de reflexión y de fijación de su sentido curricular para evitar que se convierta en una pieza suelta del sistema formativo y deje de cumplir la función que tiene encomendada.

1. El practicum en la Universidad Cuando hablamos de PRACTICUM estamos integrando en esa categoría todo un conjunto de actuaciones curriculares con contenidos y sentidos diferentes y a las que se ha dado, también, diversos nombres. Se trata de periodos de formación que, aunque integrados en sus planes de estudios, los estudiantes realizan fuera de la institución académica. Aunque ya existían en muchas carreras, por ejemplo en la formación de profesores (Michelini, 2003) o en ciencias de la salud (Dunn y Barnard, 1992), ha sido en los últimos años cuando se ha ido consolidando esta modalidad formativa que complementa los estudios académicos con las prácticas en centros de trabajo. Siguiendo la estela de las carreras que ya contaban con prácticas externas consolidadas, poco a poco se han incorporado a ese modelo otras muchas carreras en las que las prácticas constituían solo un complemento opcional y limitado que se ofrecía a unos pocos estudiantes. Cerrado ya el proceso de Bolonia podría decirse que, al menos en el contexto español, todas las carreras cuentan con periodos de Practicum. Y como suele acontecer en este tipo de procesos, la fase de atención a los aspectos administrativos y organizacionales (que han requerido mucha atención por ser muy diferentes a los aplicados a los otros momentos más académicos e indoor de la formación) ha dado paso a consideraciones que nos llevan a temas de calidad. No basta con contar con prácticas externas, es necesario que esas prácticas sean de calidad y cumplan los objetivos formativos que se les atribuyen. Tres consideraciones justifican, por tanto, este trabajo: 1. El Practicum existe y, de hecho, se ha generalizado a la mayor parte de las carreras universitarias. Los estudiantes pasan parte de su tiempo en empresas e instituciones donde conocen in situ el trabajo de los profesionales de su ramo y participan, en la medida en que se lo permiten, en las actividades que allí se desarrollan. 2. En algunas carreras la relevancia curricular de ese periodo de prácticas externas es muy alta, llegando a constituir en torno al 30% del periodo formativo. Exige, por tanto, una fuerte atención a sus características y ha de ser planificado de forma tal que resulte un tiempo valioso y eficaz en la formación de los estudiantes. Ello exige un notable empeño a gestores y docentes universitarios. 3. En este contexto, la cuestión de la calidad y de las “buenas prácticas en el PRATICUM” se convierte en una consideración ineludible (Shulman, 1986; Zabalza, 2012). Curiosamente, el amplio debate que existe en la actualidad sobre la enseñanza universitaria y la amplísima bibliografía que se ha ido generando durante todos estos años al respecto, apenas si le prestan atención al Practicum que se ha convertido en el missing point de los trabajos sobre la nueva universidad que pretendemos consolidar. En nuestra opinión se trata

4 BOE del 12-Enero-1993.

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de un olvido que precisamos subsanar. Sobre todo, porque estamos convencidos del gran impacto formativo que el Practicum está llamado a ejercer sobre la formación de nuestros estudiantes. Pero para que esa expectativa se cumpla es necesario que contemos con prácticas externas de calidad (Zeichner, 1986, 1990). Ryan, Toohey y Hughes (1996) hicieron una revisión de trabajos en lengua inglesa que demuestra la preocupación internacional por el tema. Y en el contexto español e iberoamericano, nuestro equipo de investigación ha ido trabajando en ello desde 1985 manteniendo un Congreso Internacional bianual sobre esta temática (los Simposios de Poio5). Esta relevancia del periodo de prácticas se justifica por muchas razones. Razones vinculadas al desarrollo institucional en unos casos (buena parte de las universidades están interesadas en vincular sus planes estratégicos a mejoras en la formación de los estudiantes y ello pasa por ofrecer buenas prácticas a los estudiantes), razones coyunturales en otros (el EEES ha ido priorizando una mayor orientación profesionalizante de las carreras y ha incorporado a la agenda de las preocupaciones universitarias la problemática del empleo de sus estudiantes) e, incluso, planteamientos didácticos de última generación (la idea de que una adecuada formación requiere de una correcta conjunción entre aprendizajes en contextos académicos y aprendizajes en contextos reales que permitan vincular lo conceptual e informativo con lo práctico y situacional, enfoque más en línea con la propuesta de la formación basada en competencias, Baldacci, 2003). Estamos, por tanto, ante una profunda innovación curricular que supone importantes modificaciones en la forma de pensar la universidad y la formación que los estudiantes reciben en ella: a) Se renuncia al sentido excluyente de la universidad como contexto formativo que actúan cerrado sobre sí mismo y sobre su propia lógica formativa. Nuevos agentes formativos entran a formar parte del plan de formación: tanto la institución académica como el profesorado están llamados a compartir la función formativa con otras instituciones y otros profesionales. b) Se enriquecen los escenarios de formación y sus contenidos. Los estudiantes se forman a través de las disciplinas académicas y las coreografías didácticas propias de la universidad pero también a través de la participación en actividades de tipo profesional supervisadas por profesionales en ejercicio. c) Se diversifica el estatus de los estudiantes y los compromisos que asumen. Durante sus periodos de prácticas desarrollarán tareas y asumirán responsabilidades diferentes a las académicas al tener que responder a las demandas que les plantean tanto los empleadores que los integran en sus organizaciones como los sujetos con los que entran en relación como estudiantes en prácticas. d) Se amplia y enriquece el contexto de aprendizaje.Ya no se trata solo de aprender a través de las explicaciones del profesor, de los libros o las actividades de laboratorio programadas en sede académica. El espectro de las experiencias de aprendizaje se amplía a los contextos reales de trabajo.Y en ese doble juego de referentes teóricos y prácticos se facilita la comprensión y el dominio de los contenidos a aprender.

5 Puede encontrarse una amplia información en http://redaberta.usc.es/poio

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Entramos con ello en el ámbito más estricto de la formación y, en sentido más profundo, en el ámbito de la calidad de la formación. El Practicum constituye no una mera aproximación a los contextos profesionales para que los estudiantes se sientan más motivados por la carrera que estudian, sino una nueva manera de afrontar su formación diversificando los escenarios y agentes formativos y enriqueciendo los significados de las cosas que van aprendiendo. El buen Practicum permite a los estudiantes tomar contacto con la realidad para la que se preparan como futuros profesionales pero ha de posibilitar, a su vez, que esa experiencia sea rica formativamente y cumpla sus objetivos de cara al aprendizaje. Este objetivo resulta ambicioso y exige un gran control de la calidad de la oferta formativa que se hace a los estudiantes. De hecho, se producen frecuentes contradicciones en la lógica bajo la que se organizan las prácticas externas en algunas Facultades: como son muchos los estudiantes que han de realizar el Practicum, se les envía a centros de prácticas poco solventes y sin una infraestructura suficiente de formación (bien porque no se garantiza que alguien vaya a tutorizar efectivamente el trabajo de nuestros estudiantes, bien porque ni siquiera nos consta que el trabajo que vayan a realizar esté directamente relacionado con el objetivo formativo de la estancia). La justificación suele tener que ver con la dificultad mencionada: “bueno, ya sabemos que no es el mejor lugar para aprender, pero por lo menos podrán enfrentarse a situaciones reales. Y, en todo caso, mejor eso que nada…”. El hecho de que la mayor parte de los estudiantes suelan regresar de las prácticas satisfechos tampoco ayuda mucho a fijar niveles de exigencia más estrictos. La necesidad de colocar en centros de prácticas a un gran número de estudiantes, tampoco permite poner el listón de las condiciones muy elevado. Sobre todo cuando las contraprestaciones que dichos centros reciben de la universidad son nulas. Afortunadamente, incluso en esas condiciones no favorables, las cosas van variando y desde hace ya algún tiempo las personas que coordinan el Practicum vigilan con especial esmero que éstas se realicen en buenas condiciones. Lo cual, no siempre resulta sencillo porque el Practicum posee características diferenciales bastante notables en relación al resto de los componentes del proceso formativo universitario. Como pieza novedosa en la estructura curricular de las titulaciones no siempre ha acabado por integrarse adecuadamente en la malla curricular. En ocasiones, todavía figura como un componente excesivamente aislado y desconectado del resto de los componentes formativos (las clases, los seminarios, las prácticas de laboratorio, los exámenes, etc.). En algunos casos, ni siquiera ha adquirido carta de identidad curricular y aparece como algo opcional al que solo unos pocos estudiantes pueden acceder. Tampoco es infrecuente que sus propósitos se alejen del sentido formativo de las carreras y tengan más una función socializadora (acostumbrarse a trabajar en una empresa o institución) y de facilitación de empleo (mejorar las posibilidades de ser contratado en aquellas empresas en las que se hacen las prácticas). Es justamente en este marco de condiciones institucionales y curriculares donde debemos situar el tema de la formación: para qué sirve el Practicum, qué se supone que ha de aportar a nuestros estudiantes.

2. Formarse durante las prácticas Si alguna justificación puede tener el Practicum, es que se trata de un momento curricular que complementa y enriquece la formación académica que se recibe en las aulas. Esta idea de la complementación integra dos importantes consideraciones: (a) que posee unos obje-

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tivos y contenidos formativos diferentes a aquellos que se abordan a través de las disciplinas; (b) se trata de unos objetivos y contenidos formativos vinculados a los de las disciplinas de forma tal que unos y otros configuran el proyecto formativo completo que desarrolla en esa carrera o Facultad. Es decir, son distintos pero no están desconectados. Más bien, al contrario, la relación entre ellos debe ser intensa y bidireccional. Esta primera condición nos permite diferenciar entre prácticas externas curriculares y otras que no lo son. Solamente de las curriculares podremos decir que constituyen el Practicum pues sólo ellas están plenamente integradas en el proyecto formativo de nuestros estudiantes. Otras prácticas ubicadas al final de la carrera, opcionales, organizadas al margen de lo que es el Plan de Estudios de nuestros estudiantes no dejan de ser momentos importantes en su desarrollo y en el proceso de transición entre la universidad y el puesto de trabajo, pero es más difícil situarlas en el marco del proyecto formativo común que una Facultad ha establecido para sus estudiantes. En consecuencia, entendemos por Practicum los momentos formativos que nuestros estudiantes desarrollan fuera de la institución académica pero que están plenamente integrados en el Plan de Estudios, esto es, en el proyecto formativo diseñado por la institución. El Practicum debe poseer su propio espacio en ese proyecto y cumplir con la función que en él se le atribuya. Tres consideraciones podemos extraer de los párrafos anteriores: – El Practicum constituye una parte importante del curso universitario y requiere procesos de planificación y seguimiento específicos, al igual que el resto de los componentes curriculares. – Siendo que se trata de algo muy diferente a las materias convencionales, requiere de actuaciones curriculares (selección, planificación, desarrollo, seguimiento, evaluación, acreditación) también diferenciadas. El hecho de que en estos periodos de prácticas van a intervenir instituciones y agentes formativos distintos a los académicos complica el proceso y obliga a procesos de planificación y seguimiento más cuidadosos si cabe. – Aunque ciertas experiencias de prácticas externas han sido planificadas como algo al margen de las carreras, su sentido como Practicum altera ese estatus independiente y las vincula al conjunto de las disciplinas y experiencias formativas que los estudiantes han de desarrollar durante su carrera. No actúan como experiencias independientes sino como acciones complementarias del resto de actuaciones formativas, cuyos objetivos deben compartir, cuyos contenidos deben ayudar a comprender mejor, cuyas competencias deben consolidar en contextos diferentes a los académicos. En realidad, el Practicum resulta un recurso curricular cuya principal aportación reside en generar un contexto experiencial enriquecido que permite una mayor integración entre teoría y práctica, entre los aprendizajes disciplinares y la aplicación del conocimiento en espacios profesionales reales. Como ha señalado Levy-Leboyer (1997), “las experiencias obtenidas de la acción, la asunción de responsabilidades reales y el enfrentamiento a problemas concretos aportan competencias que la mejor enseñanza jamás será capaz de proporcionar”(p.27). Desde esta perspectiva curricular, los mismos propósitos formativos (en términos de objetivos, aprendizajes y competencias) que se atribuyen a las diversas disciplinas del currículo habrán de proyectarse, adaptadas, a las diferentes situaciones en que la los estudiantes realizan su Practicum. Tomando en consideración todo lo hasta aquí señalado, el análisis del compromiso formativo del Practicum (las exigencias que plantea un buen Practicum, capaz de cumplir la función formativa que se le encomienda) nos plantea la necesidad de abordarlo desde una triple perspectiva: (a) como componente curricular; (b) como momento de aprendizajes; (c) como oportunidad de desarrollo personal.

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3. El practicum como componente curricular Considerar las prácticas externas como parte del currículo formativo de las diversas Facultades o Escuelas Técnicas requiere analizar en qué medida se cumplen las siguientes condiciones: a) Contar con un contexto de convenios y acuerdos con empresas e instituciones relevantes donde los estudiantes puedan desarrollar unas prácticas eficaces. Esos convenios deberían establecer con claridad los compromisos que cada institución asume. b) Una buena integración en el proyecto global de la titulación. c) Una buena estructura interna como documento curricular. d) Recursos materiales y personales puestos a disposición del desarrollo del plan de prácticas. No podremos desarrollar buenas prácticas si no contamos con centros de prácticas capaces de responder a los propósitos formativos que se les plantean (por ejemplo, si en ellos no se realizan tareas pertinentes a la carrera de nuestros estudiantes, si no poseen la tecnología requerida, si la institución no tiene experiencia en tareas formativas, si no buscan la formación de nuestros estudiantes sino su aprovechamiento como mano de obra barata). Por ese motivo es tan importante que los acuerdos interinstitucionales dejen claros los compromisos que las instituciones participantes asumen y las contraprestaciones que entre universidad y centros de prácticas se establecen (De Gregorio, 2003). Tampoco lograremos desarrollar un buen Practicum si el proyecto que lo desarrolla no cumple con las características propias de toda planificación didáctica: una buena contextualización; una explicitación de los propósitos formativos que incluyan el conjunto de aprendizajes y competencias que le corresponde desarrollar; los conocimientos conceptuales y operativos que se espera obtener durante las prácticas; las actividades o experiencias que se desarrollarán durante el periodo de prácticas; los sistemas de supervisión que acompañarán las prácticas; la forma en que serán evaluados los resultados de aprendizaje y el propio programa de prácticas. Con frecuencia, el periodo de prácticas se desgaja en exceso del conjunto de las disciplinas y otras acciones formativas que incluye una carrera universitaria. La tendencia a la atomización de las acciones formativas y a la segmentación de las mismas como unidades independientes (los modelos curriculares por yuxtaposición donde cada disciplina o unidad curricular sigue un proceso separado y sin apenas relaciones entre ellas) afecta gravemente a la articulación curricular y a la necesaria complementación entre las unidades curriculares. La conocida escalera de Harden (2000) marca los 11 peldaños que separan una estructura de unidades curriculares separadas (isolation) de un planteamiento transdisciplinar o modular. Un Practicum funcionando aisladamente (como una disciplina desligada del resto y con un profesorado distinto) tiene pocas posibilidades de cumplir con su función de integración entre teoría académica y práctica profesional. Por el contrario, desarrolla bien su función cuando se inserta en los diferentes clusters de materias que forman parte de una titulación organizada como un proyecto formativo bien integrado. En ese sentido los currículos modulares o los organizados por competencias (los situados en la parte alta de la escala de Harden)

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son aquellos en los que el Practicum encuentra mejor acomodo y ofrece resultados formativos más interesantes. Ni qué decir tiene que el Practicum constituye un componente curricular que requiere de recursos apropiados. Dado que se trata de una acción formativa out-door y claramente diferenciada de las clases y sesiones de laboratorio que se realizan en sede universitaria, el profesorado que se dedique a tutorizar el Practicum (mejor combinado con la impartición de otras materias para evitar el aislamiento curricular al que nos hemos referido) debe tener alguna experiencia en las tareas profesionales de la carrera y conocimiento de la dinámica de trabajo en los contextos profesionales a los que acuden los estudiantes en prácticas. Otros recursos materiales e informáticos serán necesarios para facilitar la movilidad de nuestros estudiantes, para gestionar el proceso y tener un seguimiento constante de la situación de los estudiantes e, incluso, para poder contar con algún tipo de contraprestaciones a los profesionales que se van a encargar de atender y completar la formación de los alumnos. Resulta difícil ser exigente con las prácticas si éstas están pobremente dotadas, si se les hace depender exclusivamente de la buena voluntad y la disponibilidad solidaria de las personas que los acogen. En definitiva, la dimensión curricular del Practicum debe garantizar que la propuesta de prácticas externas que hagamos a nuestros estudiantes esté bien integrada en el proyecto formativo que les ofrece la Facultad en la que se forman. No se trata de enviarlos fuera de la universidad para que se involucren en las actividades que vayan surgiendo, sino de hacerlo con un plan de formación bien diseñado y que esté en consonancia con las diversas fases de su avance en la carrera universitaria que cursan.

4. El practicum como situación de aprendizaje Aunque, en algunos casos, se intenta justificar el tirocinio por su importancia como transición al empleo, no es ése su auténtico sentido se si analiza bajo la perspectiva del Practicum. El objetivo de las prácticas es completar los aprendizajes y la formación que se obtiene en la universidad. Lo importante no es tener un programa vistoso o una oferta de posibilidades amplia y variada. Al final, lo que importa es lo que los estudiantes aprenden durante ese proceso. Eso es lo que va a legitimar la aparición del Practicum en nuestras titulaciones y lo que constituirá el criterio clave para su valoración como buena práctica: que los alumnos y alumnas que lo realicen obtengan aprendizajes relevantes para su formación.Y eso depende, entre otras cosas, de varios aspectos que podríamos considerar en este apartado: a) La organización interna del proceso de prácticas que se ofrezca a los estudiantes. b) El tipo de actividades y/o de compromisos que se les soliciten o encomienden. c) El tipo de supervisión que se establezca. d) El vigor y profundidad de la experiencia en relación al contexto profesional en el que desarrollen su Practicum. e) El propio diseño de la coreografía de aprendizaje que se haya planteado. Se dice que todo aprendizaje se produce como un proceso, esto es, algo que sucede en el tiempo, que posee una duración y que está constituido por un conjunto de fases secuenciadas que conducen, o eso pretenden, al resultado formativo que se desea alcanzar. Esa naturaleza procesual de los aprendizajes es la que nos lleva a reclamar una estructura de fases progresivas en el diseño del Practicum. Resulta fácil entender que todo Practicum precisa

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de una fase de preparación (normalmente en el propio centro universitario), una fase de desarrollo y una fase posterior de revisión de lo realizado. Cada una de dichas fases, y sobre todo la fase de desarrollo del Practicum, requiere, a su vez, estar organizada internamente acogiendo otras subfases que mejoren su funcionalidad dentro del plan de prácticas. Muradas y Porta (2007) insisten en la importancia de una fase de preparación que oriente el trabajo a realizar por los estudiantes a través de las consignas que les transmiten los supervisores sobre las tareas a realizar durante el periodo de prácticas y la forma de llevarlas a cabo. Su investigación comprobó cómo, por ejemplo, el nivel de reflexión de los estudiantes sobre las prácticas realizadas correlacionaba de manera directa con el desarrollo de esa fase inicial de preparación. En la fase de desarrollo se ha constatado el fuerte impacto que sobre el desarrollo del Practicum poseen tanto los modelos de supervisión habilitados (las visitas a los centros por parte de los supervisores académicos, las tutorías virtuales, los encuentros intermedios para revisar el desarrollo del proceso, etc.) como el hecho de establecer una secuencia de fases que lleven a los estudiantes y a los centros de prácticas a organizar las tareas a realizar proponiéndose objetivos intermedios y rotando por diversos departamentos de la institución donde se realizan las prácticas. Con respecto a la fase final, resultan elementos básicos del Practicum la naturaleza y contenidos de los productos finales que se soliciten a los alumnos en prácticas: los diarios, las memorias, los productos multimedia, los portafolios, etc. Cada uno de ellos posee virtualidades formativas diversas y propicia diversos modos de aprendizaje y evaluación. Un segundo aspecto importante en este apartado tiene que ver con el tipo de experiencias y/o actividades que se soliciten a los estudiantes en prácticas. Con frecuencia, suelen depender más de la coyuntura institucional que de lo previsto en el propio plan de prácticas. La presión de lo cotidiano es inevitable y, a veces, el estudiante en prácticas se ve involucrado en las tareas que van surgiendo tengan o no que ver con los propósitos de aprendizaje de sus prácticas. Este hecho no tiene por qué ser perjudicial, siempre que comporte una inmersión realista y global del estudiante en la vida de la institución. Pero actúa en detrimento de su formación si, por tener que ir apagando los fuegos que van surgiendo en el centro de prácticas, se le impide aprender cosas nuevas de una forma organizada y bajo la supervisión de su tutor o si tal implicación lo lleva a la realización de tareas marginales o ajenas a su perfil profesional (si lo que le mandan hacer son cosas irrelevantes o superficiales desde el punto de vista de la profesión para la que se prepara; la excusa habitual de que aquí “todos tenemos que hacer de todo” vale como justificación ocasional pero no puede convertirse en una regla permanente). También resulta importante que el Practicum, en sus sucesivos periodos, vaya permitiendo a los estudiantes hacer un recorrido representativo por las diversas secciones o modalidades de trabajo que se lleven a cabo en la empresa o institución en la que realiza sus prácticas. Quienes organicen el Practicum deben estar muy atentos a esta diversificación. Algunas empresas e instituciones (las escuelas, por ejemplo), siguen un ritmo estacional con acciones o prioridades diversas en distintos momentos del año, otras llevan a cabo actuaciones especializadas en sus diversos sectores o departamentos. En resumen, aquellas prácticas en las que los alumnos van progresando en su nivel de responsabilidad, en las que poco a poco van asumiendo compromisos relevantes para el funcionamiento de la organización en la que se integran, son las más interesantes y las que acaban teniendo mayor eficacia formativa en los estudiantes. En tercer lugar, un elemento esencial del Practicum es la supervisión. Dada la complejidad de un proceso formativo que se desarrolla fuera de la institución universitaria, que coimplica a diversas instituciones y personas, que se desarrolla en diversas fases y con objetivos nor-

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malmente complejos, la tarea de supervisión se hace aún más importante, si cabe. Por ello, supevisar el Practicum es una tarea compleja que requiere de competencias específicas (Rondini, 2003). Sin una adecuada supervisión, la experiencia del Practicum corre el serio riesgo de quedarse en un conjunto de momentos extra-académicos, normalmente gratificantes, pero con escasas aportaciones a la formación de nuestros estudiantes. Por eso es tan importante la supervisión: a través de ella se alinean los propósitos formativos del Practicum, se reajustas cuando se producen desviaciones, se potencia la sinergia entre los diversos implicados (especialmente entre tutores y alumnos en prácticas) y se orienta a cada estudiante en particular sobre cómo está afrontando y viviendo la experiencia. El siguiente aspecto a considerar es la calidad de las experiencias que ha proporcionado el Practicum a nuestros estudiantes. Dos cuestiones son especialmente relevantes en este punto: si las experiencias vividas son relevantes para la profesión y si el contexto en el que se han vivido ha permitido a nuestros estudiantes aprender realmente cosas novedosas para ellos (y previsiblemente para su profesión). Vivir y experimentar algo relacionado con la profesión (aunque no sea novedoso) resulta importante para todo estudiante. Pero si a eso se añade la posibilidad de aprender cosas nuevas, ésa es una plusvalía importante para el Practicum. Algunos centros de prácticas son interesantes y acogedores para nuestros estudiantes (les ofrecen la oportunidad de experimentar actividades prácticas vinculadas con la profesión) pero no son empresas o instituciones con un gran nivel de innovación (por el tipo de tecnología que emplean, por el tipo de actividades que desarrollan, por el tipo de personal que trabaja en ellas). Nuestros alumnos harán un buen Practicum de aproximación a la profesión pero no es fácil que aprendan cosas nuevas o que tengan que enfrentarse a sistemas productivos o tecnológicos punteros. En el otro polo tenemos las empresas con sistemas productivos más innovadores, con profesionales de más nivel, con tecnologías de última generación. Es posible que la flexibilidad y apertura de estas empresas para acoger alumnos sea más escasa, que se corra en ellas el riesgo de que nuestros estudiantes acaben haciendo actividades marginales, etc. Pero pese a todo, conviene ser ambiciosos y perseguir modelos de Practicum que incorporen aprendizajes innovadores y de alto nivel. Finalmente, si entendemos el Practicum como momento y situación de aprendizaje, importará mucho tomar en consideración de qué manera se ha organizado ese proceso, bajo qué enfoque de aprendizaje y priorizando qué tipo de dimensiones o propósitos formativos (Lodini, 2003; Zabalza, 2013). El tipo de aprendizaje que se genera a través del Practicum es, ante todo, un “aprendizaje experiencial” (Kolb, 1984), esto es, un aprendizaje que se alcanza a través de la experiencia práctica y personal del aprendiz.Y, en tal sentido, posee su propia coreografía (Zabalza, 2005). Siguiendo a Oser y Baeriswyl (2001) este tipo de aprendizajes posee una coreografía compleja destinada a establecer una red de conexiones entre lo que los sujetos van haciendo en el centro de prácticas con lo que han aprendido en las aulas y con lo que se describe en la bibliografía científica. La secuencia de fases que constituye un proceso de aprendizaje experiencial es la siguiente: 1. Anticipación del plan de acción a desarrollar (momento en el que se establece lo que se piensa hacer, manipular, construir, resolver, etc.) y de los problemas previsibles. Es la fase de preparación del Practicum que requiere dos tipos de intervenciones. La primera es remota y se refiere a la necesidad de convenir con los centros de prácticas el diseño básico de lo que los estudiantes harán durante las prácticas. La segunda es próxima y tiene que ver con el momento en que se presenta el Plan de Prácticas a los estudiantes y se consensuan con ellos los aspectos que requieran acuerdo mutuo.

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2. Realización de las actividades previstas en los correspondientes contextos de prácticas. 3. Construcción del significado de la acción llevada a cabo a través de un intercambio comunicativo (contar lo que se ha hecho, cómo y por qué). Este es el momento en el que los estudiantes reconstruyen su experiencia a través de narrativas (verbales o escritas) que les permiten dotar de sentido y de significado a las cosas que han hecho durante las prácticas. 4. Generalización de la experiencia a través de la identificación de los elementos comunes a las experiencias de los diversos sujetos. Es un momento de aprendizaje coral que permite aprender no sólo de la propia experiencia (necesariamente limitada) sino, también, de la experiencia que han vivido los demás durante el Practicum. La anécdota puede convertirse en categoría si se van uniendo las experiencias de los diversos estudiantes. Eso permitirá a cada uno de ellos hacerse una idea más global de lo que el Practicum aporta en sus estudios. 5. Reflexión sobre experiencias similares existentes en la bibliografía, en los libros de texto, en bases de datos, en Internet, en los temas trabajados en clase, etc. Éste es un salto de gran magnitud. Con frecuencia, los estudiantes tienden a contraponer lo que han vivido en sus prácticas con lo que han estudiado. Lo que se está buscando es no solo evitar esa contraposición, esa ruptura entre teoría y práctica, sino avanzar en la dirección contraria, que se acostumbren a acudir a la teoría para ir resolviendo los problemas que plantea la práctica. Leer sobre aspectos que han aparecido en el Practicum resulta muy importante. Y junto a los aprendizajes vinculados a la profesión, el Practicum ofrece un contexto rico de oportunidades para avanzar en las competencias genéricas de la formación: la reflexión, el saber observar, el adaptarse a una situación nueva, la capacidad para planificar y llevar a cabo un proyecto, el conocimiento in situ de la profesión y de las formas habituales de ser desempeñada, etc.

5. El practicum como experiencia personal Las particulares características del periodo de prácticas hacen que posea una dimensión personal que desborda ampliamente los objetivos de aprendizaje que se le hayan atribuido. En cualquier caso, el que tenga lugar esta experiencia personal y que el estudiante aprenda a utilizarla en beneficio de su formación global es, también, uno de los objetivos fundamentales del Practicum. Va de seu que cada sujeto va a vivir el Practicum de una manera particular. Manera que, en parte, dependerá de la propia naturaleza del periodo de prácticas (dónde vaya, qué tenga que hacer, cuánto rompa con sus rutinas habituales, qué esfuerzo le exija, etc.) y, en parte, del talante con que cada estudiante afronte y se involucre en la experiencia. Desde esta perspectiva de lo personal, el practicum es, ante todo, un encuentro. Un encuentro consigo mismo, un encuentro con profesionales reales, con los responsables de las organizaciones en las que se integran, con el trabajo que se les encomienda (que casi siempre requiere que pongan en marcha recursos personales de diverso tipo), con los clientes-pacientes-personas que atienden, etc. (Zabalza, 2013). Al final, el Practicum tiene mucho de personal.Ya había recordado Gardiner (1989) esa múltiple estructura formativa del Practicum señalando que las experiencias de formación deben impactar tanto en lo que él denominaba aprendizajes públicos (es decir, aprendizajes pertenecientes al currículo formal) como en los aprendizajes personales (esto es, aquel tipo de mejoras que tienen que ver con el propio desarrollo personal de los estudiantes). Partiendo de esa idea, identificaba tres niveles en la formación de los futuros profesionales:

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1. El primer nivel se centra en lo que se ha de aprender, los contenidos (que a veces se convierten en resultados o metas concretas que se han de alcanzar y que aparecen como requisitos para graduarse). 2. El segundo nivel se refiere al desarrollo personal y a la forma en que cada estudiante construye los significados de lo vivido en el periodo de prácticas a partir de su propia experiencia personal. 3. El tercer nivel se refiere al meta-aprendizaje: a cómo cada uno/a llega a identificar y hacerse consciente de su propio estilo de aprendizaje. Aunque toda la experiencia universitaria podría leerse desde esta triple perspectiva, es probablemente el Practicum, más que el resto de los componentes de la titulación, el momento formativo que mejor puede alinearse con la consecución de los niveles 2 y 3 de esta clasificación de Gardiner. Las particulares condiciones en que se desarrolla (fuera de la institución académica y de su cultura), las dimensiones de los sujetos que se ven envueltos en la acción (no sólo su inteligencia sino también sus emociones, sus actitudes, su capacidad de compromiso, etc.), las diversas actividades a desarrollar (algunas de gran novedad para los estudiantes, otras de notable complejidad, otras que implican el trabajar coordinadamente con otras personas, etc.) hacen del Practicum un momento muy especial de la formación universitaria. De ahí su importancia en la formación personal de nuestros estudiantes. Entre los aspectos que convendría analizar en este apartado están los siguientes: a) La dimensión axiológica y/o social de las prácticas. b) El encuentro consigo mismo. c) El componente emocional de las actividades del Practicum. d) La forma de asumir los niveles de compromiso establecidos. En primer lugar, cada vez son más, y más interesantes, las experiencias de prácticas externas que han tomado en consideración el componente axiológico y solidario de este momento formativo. Algunas instituciones y coordinadores de prácticas insisten en la importancia de este periodo formativo para desarrollar y poner en práctica valores y actitudes que se mencionan en las competencias a adquirir en la carrera pero que nuestros estudiantes pocas veces tienen posibilidades de ejercer en los contextos académicos (con todo lo que ello supone de estructura, supervisión, colaboración interinstitucional, etc.): el respeto a la diversidad, la multiculturalidad, el apoyo a los más necesitados, la implicación en proyectos de mejora social, el bilingüismo efectivo, etc. Una pedagogía universitaria que quiere ir un poco más allá de los meros aprendizajes técnicos. Los modelos curriculares actuales ya suelen incluir este componente en diversos momentos de la formación (en los intercambios, en la realización de proyectos, en la oferta de materias optativas, etc.). Pero, sin duda ninguna, es el Practicum el momento privilegiado para propiciar esta dimensión formativa. Así van surgiendo las “prácticas solidarias”, las que se llevan a cabo a través de ONGs o de instituciones directamente vinculadas con el desarrollo social, etc. En estos casos, los aprendizajes más puramente académicos se complementan con oportunidades de experimentar el vivir y comprometerse en la ayuda a personas o grupos con necesidades específicas. Especial mención merecen, en este sentido, las numerosas experiencias de Practicum que se vienen haciendo en los últimos años en torno al “aprendizaje servicio” (Puig y otros, 2007, Martínez, 2010). Por otra parte, el Practicum es un momento privilegiado para que los estudiantes puedan chequearse a sí mismos y conocer de primera mano sus puntos fuertes y débiles tanto en lo

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personal como en la forma de aprender (Moliterni, De Stasio y Carboni, 2011). Es una experiencia que suele estar cargada de elementos emocionales y, también, metacognitivos. Este es otro de los aspectos de las prácticas que las diferencia muy claramente de las actividades académicas convencionales (las clases, los seminarios, el trabajo en los laboratorios, etc.). El Practicum exige del estudiante que ponga en marcha todos sus recursos, tanto lo que sabe como lo que es. La máscara y el personaje que puede mantener durante las actividades académicas, desaparece cuando ha de enfrentarse a una situación de trabajo real en compañía de otros profesionales de los que pretende aprender. El Practicum le requiere otro tipo de competencias bien diversas de aquellas que ha de utilizar en las clases. Obviamente, esta condición es más atribuible a unos tipos de prácticas que a otros. Los estudiantes que durante el Practicum han de verse con niños, con enfermos, con clientes de diverso tipo, con sujetos diversos a los que han de atender, etc. tendrán una especial oportunidad para revisar sus características personales en relación con ese tipo de actuaciones profesionales. La Conferencia Nacional Permanente de Decanos de las Facultades de Ciencias de la Formación de Italia confeccionó en 1997 la Carta Nazionale Sul Tirocinio donde se destaca este especial objetivo del Practicum En ella se dice lo siguiente: “Dal punto di vista pre-profesionale, è ugualmente irrenunciabile, come per tutte le altre professioni che prevedono degli interventi sull’uomo (a partire naturalmente dalla medicina), prevedere delle opportunità e delle occasioni programmaticamente definite attraverso le quali lo studente- futuro professionista- possa: - prendere conttato con la realtà lavorativa che lo attende; -vedere dal vivo il dispiegarsi dell’azione pedagogica nei vari setting educativi; -mettersi pesonalmente alla prova, sia pure temporáneamente e con tutti i supporti necessari; -verificare, nei limiti del possibile, la congruità della sua scelta professionale”

Finalmente, y dentro de la misma línea de consideraciones, podemos señalar la importancia del Practicum para ir propiciando la asunción de compromisos personales, unos relacionados directamente con la profesión para la que se forman, otros vinculados a actividades genéricas de la institución en la que se realizan las prácticas. Se trata de una cualidad importante de las buenas prácticas en el Practicum: la posibilidad de que los estudiantes que lo realicen puedan-deban asumir responsabilidades (siempre relativas y supervisadas, obviamente, pues se encuentran en periodo de formación). Esos compromisos y responsabilidades irán en aumento a medida que los sujetos van aproximándose al final de su formación. Pero es una de las características más importantes de un buen Practicum y la que tanto estudiantes como empleadores (o gestores del Practicum) suelen valorar más: la capacidad de comprometerse y asumir responsabilidades por parte de nuestros estudiantes. En ese sentido, hay prácticas que son frías y burocráticas porque en ellas los estudiantes tienen escasas oportunidades de compromiso y responsabilización.Y las hay más intensas y exigentes donde, a veces desde el primer día, cada estudiante se ve enfrentado a su propia responsabilidad y ha de poner en marcha todos sus recursos para afrontar las tareas que se le han encomendado y que dependerán de él. Aunque a veces les cuesta asumir este tipo de responsabilidades, luego vienen encantados de sus prácticas y es, justamente, una de las cosas que más valoran de ellas.

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En conclusión Ir de prácticas no es solamente dejar por unos días las tareas académicas para irse de visita a una empresa o una institución relacionada con la futura profesión. El Practicum constituye una parte sustancial de la formación y juega un papel muy importante en la misma. Siempre, claro está, que sea un Practicum de calidad. Su capacidad de impacto formativo en los estudiantes va a depender de que el contexto en el que se realice el Practicum ofrezca buenas oportunidades de aprendizaje y de que su propia estructura interna como proceso formativo resulte adecuada. Por tanto, como pieza curricular, el Practicum debe poseer la condición de coherencia (que sus propósitos y el tipo de acciones que incluya estén bien alineadas con el proyecto formativo que la carrera plantea), centralidad (que tales propósitos y acciones resulten importantes para la profesión) y complementariedad (que el periodo de prácticas constituya un todo integrado con el conjunto de actividades de la carrera, de forma que se refuercen mutuamente). Pese a su novedad en la estructura ordinaria de los estudios universitarios, es justo reconocer que se ha avanzado mucho en los últimos años, sobre todo en aquellas carreas que no contaban con experiencia en ese tipo de programas formativos. También debemos aceptar que nos queda mucho por mejorar. Como puede observarse, el Practicum constituye un proceso de aprendizaje muy completo desde la perspectiva de su organización pero muy completo en lo que se refiere a sus aportaciones formativas. Un buen Practicum, tiene que responder a las exigencias que le plantean los tres ámbitos en los que juega un papel relevante: el currículo, el aprendizaje y el desarrollo personal. En cada una de esas dimensiones podemos definir indicadores o metas que nos permitan valorar hasta qué punto nuestro Practicum está cumpliendo efectivamente su función formativa.Y de esta manera podremos ir introduciendo los reajustes que consideremos pertinentes. En definitiva, lo que se pretende es que tanto la importancia del Practicum en las titulaciones, como su impacto efectivo en la formación de nuestros estudiantes (y no solo en su empleo) sea cada vez mayor.Y más reconocido por los responsables universitarios.

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Studi Il mediatore turistico, per un turismo di qualità The touristic agent, for a qualitative tourism ANNAMARIA CURATOLA Il livello di accesso alla pratica turistica e la qualità della sua piena fruizione rappresentano due interessanti declinatori della qualità dei sistemi di servizio che il sociale fornisce alla persona in risposta a bisogni che questa esprime: bisogni di esistere, di essere, di agire, di godere, di affermarsi. Di qui la necessità di fornire un fondamento teoretico alla prassi turistica, nel sua relazione domanda/offerta, che si presti ad essere di qualità, ossia in grado di garantire ai suoi utilizzatori lo svolgersi di ogni possibile forma di fruibilità, senza alcuna esclusione. Il che richiede unitarietà d’intenti, visione integrata dei problemi, forte interazione istituzionale, disponibilità di professionisti dotati di competenza professionale “mediativa”, di tipo pedagogico, e il cui filtro progettuale ed operativo è rappresentato da una matura coscienza sociale a base inclusiva/integrativa.

The level of access to the touristic practice and the quality of its full enjoyment represent two interesting indicators of the quality offered by the welfare service to the person, as the answer to his/her own needs: needs of living, being, acting, enjoying, and of self-realization. Hence, the necessity of providing the touristic practice with a theoretical foundation, regarding the demand/offer relationship, which has to be of high quality, so as to guarantee its users with all kinds of accessibility, without any exceptions. All of this requires common purposes, an integrated point of view regarding problems, a strong institutional interaction, availability of professional people endowed with professional “mediation” competence, of a pedagogic type, and whose operational plans are made up of a mature social conscience, on an inclusive/integrative basis.

Parole chiave: inclusione, turismo, mediazione, bisogni speciali, persona.

Key words: inclusion, tourism, mediation, special needs, person.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2038-9736 (in press) / ISSN 2038-9744 (on line) Giornale Italiano della Ricerca Educativa • anno VI – n. 10 – giugno 2013

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Il mediatore turistico, per un turismo di qualità

1. L’accoglienza come presupposto giustificativo per la delineazione di nuove figure professionali per il servizio turistico Le società del nostro tempo, grazie anche all’enorme sviluppo che ha assunto la tecnologia riferibile ai sistemi della comunicazione e dell’informazione, oltre che a quelli dello spostamento nello spazio fisico, sono caratterizzate da una sempre maggiore disponibilità di tempo libero cui è correlata una crescente domanda per l’ottimizzazione qualitativa della sua utilizzazione. È una domanda che trova giustificazione in un crescente bisogno di ampliamento delle conoscenze e di soddisfacimento delle varie e complesse esigenze del corpo e dello spirito nella realtà di un contesto di vita caratterizzato da forte stress relazionale, lavorativo, esistenziale. Un contesto che registra, altresì, una consistente crescita dell’attenzione per l’ambiente e la sua tutela, per le variegate realtà etniche e culturali, per la tutela delle identità storico-antropologiche, per il controllo delle risorse tecnologiche e produttive presenti sul territorio. Ovviamente, le risposte alla domanda di accessibilità e di fruibilità turistica non possono non generare e sostenere opportunità crescenti di offerta di servizio, variamente codificate, in grado di incidere anche profondamente sulla tipologia delle strutture ricettive, sulle modalità dell’organizzazione della rete dei servizi e sull’efficienza dei mezzi di collegamento tra aree anche estremamente distanti, sulle strategie comunicazionali, relazionali e di marketing. Ciò grazie al supporto di una tecnologia avanzata che consente di ampliare a dismisura gli interessi, le conoscenze, le domande, le offerte, lo spostamento, il confronto, etc. In questo scenario, che è esistenziale ma è anche economico e di mercato, non può essere tralasciato nulla. Bisogna garantire la tutela e la valorizzazione dei beni e delle risorse, sia naturali che culturali, così da ampliare e sostenere le molteplici e variegate opportunità per la fruizione integrale del tempo libero. Si avverte pure la necessità che le domande di fruizione turistica siano efficacemente coniugate con l’efficienza e la concorrenzialità dei servizi e dei relativi costi, garantendone la più totale accessibilità e, soprattutto, basate sulla qualità dell’accoglienza. È, quest’ultimo, forse il nodo cardine su cui si giocano la credibilità dell’offerta, la forza e la continuità della domanda, la difesa della consistenza del mercato e la forza del sistema produttivo, con effetti diretti sul benessere sociale. Il riuscire ad affrontare in modo razionale detta questione, in termini di qualità ed efficienza, non è sicuramente semplice, ma diventa vitale per un territorio, quale quello italiano, ricco di risorse turisticamente fruibili. Ecco perché il suo approccio richiede forte responsabilità, esteso coinvolgimento inter-istituzionale e sociale, una formazione qualificata e mirata, una forte attenzione per il mercato, la più totale valorizzazione delle risorse (ambientali e culturali). Il tutto per rendere l’offerta del servizio turistico sempre più stimolante, competitiva ed efficace. Ciò soprattutto con la presa d’atto e la convinzione che l’intero territorio italiano rappresenti un patrimonio inestimabile di beni ambientali e culturali, in grado di sostenere ogni possibile domanda turistica. Renderlo integralmente fruibile costituisce enorme opportunità sia culturale che economica, in grado di risolvere molte questioni di benessere sociale. Di conseguenza deve diventare un impegno prioritario per tutti, dai responsabili della politica e dell’amministra-

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zione pubblica ai privati che agiscono a pieno titolo nella promozione e nell’offerta di un sistema produttivo basato sui servizi turistici. A sentirsi coinvolti devono essere anche i singoli cittadini che, direttamente o indirettamente, condividono le risorse territoriali e traggono vantaggi dal flusso turistico. Il mostrare di saper “coscientizzare”, in termini di forte responsabilità, il senso e la portata di un’offerta turistica il cui livello di qualità va a declinarsi soprattutto con il livello e le modalità dell’accoglienza, rappresenta un segnale di piena maturità civile e sociale. Condizione promozionale essenziale, questa, per favorire nei “fruitori” del servizio turistico il sostanziarsi della più completa “ottimizzazione” della loro disponibilità a intraprendere un percorso di esperienze il cui grado di soddisfacimento, nei suoi esiti, diventa l’indicatore positivo più rilevante di giudizio, tale da stimolare l’implementazione di ulteriori esperienze e, di riflesso, il coinvolgimento di altri potenziali fruitori. L’offerta di un prodotto turistico “integrato” e di ottimo livello qualitativo, il cui cardine è rappresentato dalla tipologia e dal livello dell’accoglienza, senza alcuna esclusione di utenza, è condizione strategica per un positivo ritorno d’immagine, con l’effetto di una sicura implementazione dei benefici economici e, di riflesso, anche sociali. Non è azzardato, perciò, affermare che la crescita del flusso turistico dipende anche dall’accoglienza e dal grado di soddisfazione che l’esperienza fruitiva rende possibile. Per acquisire una sempre più consistente quota di mercato, è fondamentale che le organizzazioni, le agenzie, le strutture e gli ambienti di fruizione turistica siano in grado di garantire adeguati livelli di fruibilità, con una capacità di servizio rispondente ai più variegati bisogni dei clienti, ma che siano soprattutto basati su un livello di accoglienza la cui tipologia risponda ad espliciti e documentabili connotazioni di “qualità”. Connotazioni declinabili con l’assunzione di precisi indicatori riguardo l’offerta di un servizio turistico in grado di corrispondere al variegato esprimersi dei bisogni e/o delle attese del possibili suoi fruitori. Tra i più importanti, possono essere annoverati: – la formazione e l’aggiornamento professionale degli operatori di tutta la filiera turistica; – i comportamenti individuali degli operatori; – l’organizzazione e la gestione dei servizi in una logica di qualità e di sostenibilità; – l’offerta differenziata del prodotto e/o del pacchetto turistico; – le forme dell’informazione e della comunicazione; – le tecniche e gli strumenti della mediazione dei beni ambientali e culturali; – il possesso di solide competenze digitali da parte dei medesimi operatori.

2. L’esigenza di figure professionali ad alto coefficiente di formazione Il più urgente, quanto delicato, problema da affrontare, nel quadro di detti indicatori, è quello degli operatori del servizio turistico, di coloro che in concreto vanno a interfacciarsi con i fruitori del servizio stesso. L’esigenza principale è quella di disporre di operatori particolarmente qualificati, le cui competenze professionali devono scaturire dalla combinazione integrata di diversi fattori. Il principale di essi riguarda la tipologia e il livello delle conoscenze scientifiche e culturali di riferimento, che devono essere di tipo multidisciplinare e riferibili a vari campi del sapere scientifico e culturale: da quello della comunicazione a quello della conoscenza del territorio, da quello della metodologia dell’organizzazione a quello del marketing turistico, da quello specifico della elaborazione statistica dei dati a quello della psicologia sociale e del comportamento. Non meno importante, inoltre, è il possesso di conoscenze e di abilità d’uso di appropriate

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tecniche e procedure metodologiche di indagine, di raccolta e di elaborazione dei dati. Al riguardo meritano di essere segnalati i risultati di un’indagine effettuata in Grecia in ordine alle competenze informatiche degli operatori turistici (Lazarinis, & Kanellopoulos, 2010). In questo lavoro viene efficacemente rappresentato quanto essenziali siano le abilità tecnologico-informatiche per gli operatori del settore turistico ambientale e quanto le competenze connesse siano auspicate dalle aziende del settore per la creazione di un’offerta qualificata e di alto livello. Per contro si evidenzia come vi sia poca corrispondenza con le abilità previste dall’ECDL (European Computer Driving Licence), con le conoscenze possedute dagli operatori intervistati e, soprattutto, con le aspettative di formazione e delle esigenze di approfondimento professionale avvertite dagli operatori stessi. La corretta coniugazione di dette conoscenze con le abilità metodologiche di gestione dei dati d’informazione costituisce il presupposto dell’efficienza professionale. Un’efficienza che, sul campo, si traduce in proposte, improntate a una visione sinottica delle variabili di riferimento, in cui trovano adeguata rappresentazione la realtà dei luoghi, la disponibilità e la fruibilità di beni (ambientali e culturali) e dei servizi, e quant’altro può entrare in gioco per un’efficace proposta di esperienza turistica, considerando pure i possibili bisogni e le aspettative dei potenziali fruitori. Si tratta, dunque, di disporre di “professionisti” dotati di una competenza fortemente sostenuta sul piano dei contenuti culturali, in possesso di adeguata abilità metodologica basata sulla ricerca-azione, disposti a ricercare e a promuovere l’ottimizzazione delle relazioni, con una personalità disposta alla intraprendenza e alla creatività, oltre che in grado di adattarsi alla complessa varietà delle dinamiche psicologiche che emergono nel corso della relazioni con i fruitori del servizio turistico, per gestirle nel modo più adeguato. Non ultimo tra i requisiti richiesti, per la conformazione di detta competenza, è il possesso di una buona conoscenza e padronanza d’uso delle tecniche di marketing.Tutti elementi, questi, che prefigurano una formazione di base che solo specifici percorsi di laurea possono consentire, prima fra tutte quella in Scienze del turismo. Quelli appena indicati sono fattori rilevanti di professionalità, sebbene certamente non gli unici, e lo sono nella misura in cui sono in grado di favorire gli operatori del servizio turistico nella gestione del servizio stesso, a partire dalla formulazione di valide ipotesi progettuali basate su una reale “contestualizzazione” dei bisogni e delle risorse in specifici e differenziati “servizi”. Si pensa, dunque, ad una professionalità elevata e che è assolutamente indispensabile soprattutto quando detti operatori sono chiamati a stabilire una linea di condotta progettuale e operativa compatibile con una utenza fortemente variegata nella rappresentazione delle sue caratteristiche tipologiche e nella enucleazione dei propri bisogni. Utenza normalmente rappresentata dalle persone con “bisogni speciali”, soprattutto se esprimono limitazioni significative nella propria autonomia (disabili e anziani) e, quindi, necessitanti delle più varie forme di assistenza e di tutela. Un’utenza alla quale vanno garantiti adeguati livelli di accessibilità al servizio turistico, prevedendo il superamento di qualsiasi ostacolo o fattore di impedimento alla libera e più totale fruizione del servizio stesso. Sul piano della più concreta esplicitazione della tipologia di dette professionalità, emergono in netta evidenza, le seguenti tre figure: 1. Programmatore turistico 2. Promotore turistico 3. Mediatore turistico.

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Per le prime due figure professionali, esiste un quadro normativo/concettuale di riferimento (a partire dalla codificazione ISFOL) che ne delinea compiti e funzioni, sebbene esse necessitino di una codificazione più puntuale, che sia rapportata ai percorsi formativi più recenti, quali le lauree nelle Scienze del turismo, e inquadrata in un’ottica sistemica che comprenda in modo “integrato” tutte le professionalità destinate ai servizi turistici. Il mediatore turistico è, invece, una figura professionale nuova, declinata in uno studio destinato ai bisogni speciali (Curatola, 2012).

3. Le utenze con Bisogni speciali Il concetto di “bisogni educativi speciali” è uno dei più attuali temi di riflessione della pedagogia speciale. Andrea Canevaro, nei suoi lavori (1999, 2007, 2008), ha contribuito a far associare l’accezione “speciale” alla presenza di disabilità. Dario Ianes, basandosi sul modello dell’ICF, ha ampliato la categoria dei bisogni educativi speciali definendoli come una «macrocategoria che comprende dentro di sé tutte le possibili difficoltà educative-apprenditive degli alunni, sia le situazioni considerate tradizionalmente come disabilità mentale, fisica, sensoriale, sia quelle di deficit in specifici apprendimenti clinicamente significativi, la dislessia, il disturbo da deficit attentivo, ad esempio, e altre varie situazioni di problematicità psicologica, comportamentale, relazionale, apprenditiva, di contesto socio-culturale» (Ianes, & Macchia, 2008, p. 14). Secondo Montuschi la pedagogia speciale ha il compito di «rendere sempre più speciale ogni forma di intervento educativo facendo diventare patrimonio comune la capacità di cogliere i problemi e la competenza nell’affrontarli, la padronanza nell’ipotizzare opzioni nelle risposte educative» (Montuschi, 1997, pp.163-164). La risposta educativa, pertanto, deve essere inventata di continuo e per questo richiede un “pensare speciale” che inizia proprio dalla percezione globale della persona e dei suoi bisogni (Montuschi, 2004). I turisti con “bisogni speciali” sono «persone che necessitano di particolari comodità e accorgimenti per poter viaggiare e fruire delle opportunità turistiche. Possono essere persone con disabilità (fisico-motoria, intellettiva o sensoriale), con esigenze dietetiche o con allergie, con particolari esigenze di mobilità (donne in gravidanza o persone col passeggino), con problemi di salute (cardiopatici, asmatici, dializzati etc.), persone anziane etc.» (Sl&a, 2008, p. 24). Il viaggiatore con bisogni speciali, al pari degli altri, sceglie la tipologia di vacanza in base alle proprie passioni, interessi, curiosità e aspirazioni. Da qui muove la necessità di una figura professionale nuova, con compiti di “mediazione” tra detti bisogni e l’offerta di fruizione del servizio turistico, quella del “Mediatore turistico”. Figura professionale, questa, in grado di affrontare, per fini turistici, temi complessi di deprivazione della salute e, ancor più, dell’autonomia. Com’è facilmente rilevabile, dette utenze, proprio per l’eterogeneità della conformazione dei fattori personali e l’estrema varietà dei fattori ambientali, oltre che per l’infinita combinazione del rapporto tra detti fattori (la contestualizzazione), presentano una casistica non facilmente declinabile. Diventa abbastanza problematico, di conseguenza, riuscire a definire, anche in riferimento alla sola categoria generale di appartenenza, la specificità dei bisogni, che proprio per questo vengono comunemente definiti “speciali”. Per fare un esempio, una persona con ridotta capacità motoria può avere anche problemi di intolleranze alimentari, o presentare qualche problema alla vista, o entrambi i problemi. Questa persona può essere un bambino, un ragazzo, o un senior e potrebbe anche appartenere ad altra cultura o etnia. I bisogni che questa persona manifesta sono i più vari, e tutti concorrono, nel loro insieme, a stabilire una situazione particolare di bisogno, “speciale” appunto. L’esigenza di promuovere in suo favore occasioni di fruizione turistica, nonché per altre

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utenze i cui bisogni sono in parte o in tutto assimilabili, obbliga a tenere in debito conto le variabili connesse con gli specifici stati di bisogno. Bisogna muovere da esse per affrontare le strategie e le modalità d’azione più adatte al caso, evitando attentamente di pervenire a sterili e/o inappropriate generalizzazioni di proposta e di intervento. Alla luce di ciò, appare indiscutibile che l’individuazione di detti bisogni è un atto che entra in gioco nella contestualizzazione dell’esperienza turistica, sia come potenziale offerta del servizio, sia come risposta diretta alle richieste di fruizione delle istanze di mercato. Soprattutto a livello progettuale, però, il servizio turistico non può che essere pensato in termini generali, ossia destinato alla pluralità delle utenze, da quelle prive di significative difficoltà, fino a quelle che, in misura diversificata, sono condizionate in particolar modo nell’approccio alle relazioni e all’esercizio dell’autonomia. Per tali ragioni, progetti e proposte di servizio debbono essere dotati di ampia flessibilità e adattabilità alle specificità delle richieste. Il che non significa puntare su formule generalizzate di proposta per la fruizione del servizio turistico, quanto, piuttosto, prevedere e garantire la possibilità di rendere adattabile il servizio, anche in itinere, alla specificità delle richieste, con soluzioni ad hoc. È bene ricordare, in ogni caso, che ogni persona è sicuramente un individuo a sé, per cultura, per abitudini, per livello di comunicazione o per modalità di gestione della propria autonomia, per cui ha aspettative e bisogni specifici, che possono anche coincidere con quelli normalmente espressi dalle persone che appartengono ad altre categorie di “disabilità”. Realtà “diverse”, quindi, possono avere bisogni “comuni” e, perciò, possono condividere gli stessi servizi, sebbene con qualche forma di necessario adattamento (Karimi, Zhang, & Benner, 2013). Da sottolineare che il ragionamento che ha portato alla richiesta di una figura professionale nuova, quella del Mediatore turistico, nel panorama complessivo dei servizi turisti, muove dall’assunzione dei ruoli e dei compiti delle altre due figure professionali, quella del Programmatore turistico e del Promotore turistico. A queste il Mediatore turistico deve fare riferimento per la propria azione di servizio, ma nello stesso tempo diventa ad esse complementare per l’esercizio dei loro compiti promozionali e di progetto.

4. La figura del Mediatore turistico nel quadro delle professionalità turistiche Il Mediatore turistico si configura come un professionista altamente specializzato, il cui campo d’intervento va oltre quello assegnato alle tradizionali figure operanti nel settore turistico1, come quello della “guida turistica” e dell’“accompagnatore”, ed a quelle più attuali quali il responsabile del controllo di gestione (Travel manager), il capo del ricevimento, il responsabile dell’ottimizzazione della ricettività (Sales e Revenue manager), il responsabile dell’interconnessione del turismo con le manifestazioni esterne (Event manager), l’intermediario tra i fi-

1 Antonio Sereno, nell’indicare dette figure professionali sottolinea il fatto che, seppure il quadro sia «rilevante per importanza economica e per la qualificazione del settore […] paradossalmente, le professioni del turismo, anche quelle più antiche e tradizionalmente collegate al settore, sono oggi prive di normativa, con gravi conseguenze di fronte all’Unione europea che ha emanato una direttiva per la regolamentazione delle professioni nel quadro della liberalizzazione del mercato. Infatti il DPR 27 aprile 2004, ha annullato l’Art. 7 della nuova legge quadro sul turismo n. 135, del 2001, e il successivo Accordo Stato/Regioni 13 settembre 2002, nella parte in cui definisce le professioni turistiche e demanda alle Regioni la loro regolamentazione». Cfr. Professioni turistiche: novità legislative, pubblicato in Formazione e Lavoro nel turismo, 12 marzo 2010, www.formazioneturismo.com

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nanziatori e la gestione alberghiera (Asset manager), la guida che assiste il cliente negli acquisti (Personal shopper), i terapisti e gli assistenti che operano nei centri benessere delle strutture ricettive, l’assistente telematico per risolvere eventuali problemi del pc. Per certi versi il Mediatore turistico è anche Programmatore e Promotore turistico perché tra i suoi principali compiti ha anche quello di organizzare e gestire il servizio turistico “mediando” la specificità dei bisogni, anche potenziali, dei clienti (espressi con la domanda diretta o indotta) con tutte le opportunità che possono essere offerte dall’organizzazione del servizio e dal territorio, anche in termini di sostenibilità. È fondamentale sottolineare che, per la caratterizzazione della sua professionalità, il mediatore turistico deve necessariamente essere in grado di agire non solo in quelle situazioni in cui sono coinvolte utenze “ordinarie”, ma anche in quelle in cui sono protagoniste utenze con “bisogni speciali”. Il che facilita la soluzione di molteplici problemi connessi spesso con la presenza di operatori sociali, parenti e/o amici nella qualità di accompagnatori. Queste attività possono essere organizzate sia in piena autonomia sia in raccordo con enti, strutture e agenzie di servizio turistico. Il suo intervento progettuale e/o operativo, assunto sempre con corretta e responsabile ottica manageriale, deve tener conto di una duplice caratterizzazione: per un verso, essere rispettoso degli indirizzi di politica economica e delle norme che regolano la materia, per altro verso basarsi su solide valutazioni etiche riguardo ai suoi possibili effetti sull’intero contesto d’azione, anche in proiezione futura. A queste condizioni deve necessariamente aggiungersi una riflessione pedagogica, perché le parti del contesto di fruizione turistica, quelle attive (fruitive del servizio) e passive (componenti l’ambiente d’esercizio), possano entrare in relazione e produrre esiti in grado di soddisfare le reciproche attese in modo da garantire e implementare, il riprodursi e/o progredire della domanda/offerta di esperienze di fruizione turistica. Con detto ruolo, il mediatore è garanzia di un servizio turistico incentrato sulla persona (con riguardo ai suoi interessi e bisogni), pur nel rispetto più totale del contesto d’esercizio dell’esperienza turistica. Ciascun utente, infatti, deve sempre essere messo nelle condizioni di poter scegliere, liberamente, le migliori condizioni per la fruizione del servizio e poter svolgere gratificanti esperienze senza essere condizionato da ostacoli e/o impedimenti. Per diversi aspetti tale figura è simile a quella del Promoter turistico, delineata dall’ISFOL, che è colui che, per conto dei tour operator, si occupa della promozione, presso le agenzie di viaggio, dei prodotti turistici e del marketing correlato alla vendita di particolari pacchetti/viaggio (a catalogo e non). Al Promoter è richiesta una notevole conoscenza specifica dei prodotti e dei servizi proposti, considerato che deve essere nelle condizioni di poterli presentare adeguatamente nel momento in cui si relaziona con gli operatori delle agenzie di viaggio. È altresì importante che nel bagaglio del promoter figurino competenze specifiche in fatto di marketing turistico, di merchandising e di promozione delle vendite, oltre che di una conoscenza di base dell’organizzazione turistica e delle norme che la regolano, tali da consentirgli di poter interpretare le esigenze dei clienti e conoscere i punti di forza e di debolezza delle offerte. Peraltro, l’elemento più rilevante di connotazione della sua personalità è il possesso di una spiccata abilità comunicativa, non soltanto con riferimento alla sua capacità di comunicare oralmente e per iscritto, ma anche al possesso di significative doti di ascolto per poter meglio “leggere” e cogliere istanze altrui. Una capacità dialettica, infatti, è fondamentale nel momento di dover descrivere e/o presentare un prodotto o un servizio. Diventa, però, altrettanto importante possedere la capacità di ascolto ed il saper cogliere indicazioni, esigenze ed eventuali proposte provenienti da altri interlocutori e, più in generale, dal contesto in cui si opera. Il tipo di attività svolta, inoltre, richiede che il promoter sia dotato di un notevole dinami-

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smo e di una capacità di autorganizzazione superiore alla media, di un temperamento spiccato, di significative doti di carisma e di team leader. Doti possibilmente abbinate ad una buona presenza fisica. Deve, inoltre, saper valutare le esigenze dei clienti, conoscere i punti di forza del prodotto offerto e le criticità dello stesso, così come è necessaria una conoscenza adeguata dei prodotti concorrenti, al fine di una completa analisi dell’offerta, anche in via comparativa con i maggiori competitors (Vergottini, 2004). Di certo deve possedere un’approfondita conoscenza dei metodi e degli strumenti della CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa) (Beukelman & Mirenda 2005), indispensabile per facilitare la più efficace fruizione da parte del disabile (Who, 1986; National committee for the communication needs of persons with severe disabilities, 1992) delle diverse offerte di servizio turistico. Nel contesto dell’offerta turistica, certamente una siffatta declinazione del ruolo e dei compiti del promoter costituisce una novità significativa, sebbene forse sembra essere più rispondente ad esigenze di elevata professionalità, la proposta, formulata dalla medesima ISFOL, della più attuale figura di “Promotore di sviluppo turistico sostenibile”, cui si attribuisce il ruolo di “coordinatore” delle iniziative di servizio turistico. Si trattadi una funzione che, in realtà, è strettamente riconducibile alle linee guida già tracciate per il “Programmatore e del promotore turistico”, ossia quello di un pianificatore di progetti e di eventi per la qualificazione del servizio turistico. Infatti, nella proposta dell’ISFOL viene chiaramente esplicitato che il Promotore di sviluppo turistico sostenibile è colui che «coordina l’organizzazione turistica sviluppando le capacità imprenditoriali esistenti, qualificando l’offerta turistica e promuovendo la stessa a livello nazionale ed internazionale. Rappresenta la sintesi tra domanda e offerta turistica; è orientato alla sostenibilità dei flussi turistici, aperto all’innovazione, in grado di realizzare progetti integrati, finalizzati alla costruzione della rete ecologica nazionale in cui l’elemento di valorizzazione del parco (turismo agroalimentare) si coniuga con la tutela della stessa area (biodiversità, ecc.)» (FT, 2007). Alla luce di dette condizioni, pertanto, la proposta di una figura professionale innovativa, quale quella del Promotore e programmatore turistico, da cui scaturisce quella del Mediatore turistico, si presenta come un contributo di arricchimento e completamento oltremodo significativo. Infatti, la sua azione è ispirata tanto al presente quanto al futuro, come espressione di garanzia, in termini di sostenibilità, di responsabilità e di valorizzazione, verso il territorio e il sociale. Appare di per sé abbastanza evidente che dette figure si trovano a svolgere compiti abbastanza correlati e interdipendenti, in un campo d’azione e di esercizio professionale piuttosto ampio che riguarda almeno tre distinti livelli di operatività: 1. nelle strutture della pubblica amministrazione (da quella regionale a quella provinciale e comunale). Sono chiamati a formulare ipotesi di iniziativa politica e di orientamento amministrativo, ad individuare gli obiettivi da perseguire, le possibili strategie d’azione e le modalità di raccordo interistituzionale, nonché a monitorare la funzionalità delle proposte e l’efficacia dei loro esiti; 2. negli enti e nelle agenzie di raccordo tra domanda e offerta turistica (tour operator, agenzie turistiche, aggregazioni e associazioni di categoria, gruppi in rete, etc.) – devono formalizzare possibili e concrete proposte di fruizione turistica; 3. sul campo, sono tenuti ad attuare attività concrete di servizio turistico.

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Le varie funzioni, a seconda delle situazioni, sono orientate verso la priorità del servizio di “promozione” oppure verso quello della “programmazione” o, infine, quello della “mediazione”, come anche verso un servizio che implichi reciprocità e contestualità tra diverse funzioni. L’obiettivo precipuo è quello di stabilire un efficace raccordo tra domanda e offerta. Compito, questo, di fondamentale valenza per una maggiore qualità del servizio turistico offerto, anche se sembra assurgere a maggiore importanza e a più completa esplicitazione il ruolo del “mediatore turistico”. Questi deve essere in grado, tra l’altro, di promuovere e di tutelare i sentimenti di identità e di appartenenza al territorio e alla cultura, nel tentativo di conciliare anche le divergenze che scaturiscono dal confronto tra culture diverse. Un confronto che nell’attuale contesto sociale appare sempre più problematico e complesso. Per rispondere in maniera adeguata ed in tempi brevi alle istanze e alle esigenze dei suoi interlocutori, il mediatore turistico deve essere in grado di agire sull’esistente, manipolando, in modo creativo e funzionale, quanto vi è a disposizione nel territorio, ma deve anche porsi “in prospettiva”, per migliorare, attraverso la rilevazione attenta delle problematiche e della proposta di efficaci forme di approccio ai beni ambientali e culturali, la corretta fruizione delle risorse ambientali e territoriali. Con il suo atto di mediazione, cioè, deve contribuire alla valorizzazione del territorio e al miglioramento della qualità della vita. L’obiettivo è quindi di natura pedagogica, perché si basa sul presupposto che ogni persona possa e debba diventare coprotagonista di controllati e valoriali processi di sviluppo culturale e sociale. Con questa prospettiva, ogni luogo urbano città deve essere concepito e vissuto come un sistema aperto a tutti, in cui ognuno si identifichi nei processi di innovazione e cambiamento culturale ed in cui le modalità di gestione dei servizi resi alla persona – al pari dei servizi tesi al contesto fisico, strutturale economico e normativo – costituiscono ulteriore obiettivo qualificante. L’attivazione di un metodo unitario, di azione con una “cabina di controllo”, è il marchio distintivo di un salto di qualità, della trasformazione di intenzioni comuni in progettualità e realizzazioni concrete. Non si vuole sognare la città “ideale” di Tommaso Campanella, bensì edificare una “città educativa” aperta così come presentata da Franco Frabboni, in cui tutti i cittadini sono protagonisti nelle scelte e nelle modificazioni delle loro numerose morfologie, quale espressione di autentica diversità. Una “città-si”, «una città/altra (dotata di progetti, idee, speranze, utopie)» (Frabboni, 1998, p. 78) all’interno della quale tutti i “punti no” si trasformano in “punti si”. Una città costellata di tante stelle-si, illuminata con «il cielo dell’educazione» (Ibidem). Il territorio diventa, di conseguenza, «il luogo di vita del soggetto, come anche dei gruppi in relazione tra loro, esso dovrà assumere delle connotazioni che lo qualifichino come sorgente di vita, come luogo di felicità, come habitat ideale. L’ideale educativo è custodito in questo impegno volto ad elevare l’ambiente come una specie di nicchia gioiosa, che nobilita l’uomo, venuto al mondo per operare su esso, al fine di migliorarlo, renderlo accogliente ed utilizzarlo orientandone e guidandone la crescita e lo sviluppo» (Rosati, 1998, pp. 18-19). All’interno di ciascun ambiente la fruizione del tempo libero, quale quello destinato alla vacanza, rappresenta un diritto inalienabile, dal momento che la vacanza «si configura come un momento di continuità tipizzata nel complesso organico delle esperienze educative, in quanto tende ad assumere un carattere di coerenza con l’intero progetto e disegno educativo e, nello stesso tempo, ad accentuare i tratti di esperienza che riconosce nella gioiosità il proprio tono ed accento caratterizzanti» (Scurati, 1986, pp. 187-188). Per le ragioni finora espresse, il mediatore turistico deve principalmente essere in grado di presentare, in chiave educativa, la cultura ed i beni nei quali questa si configura, per con-

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sentire una positiva rappresentazione del tempo vissuto, il consolidarsi del senso etico e la percezione di sé come soggetto attivo e responsabile nella gestione del complesso delle relazioni (Curatola, 2008). In tal modo egli non può sottrarsi al ruolo, esplicito e non, di contribuire ad una vera e propria “coscientizzazione”, secondo l’accezione indicata da P. Freire (1971, 1973; Araâujo Freire, 2004). Il Mediatore turistico è anche un vero e proprio “agente culturale” allorquando si relaziona con le agenzie educative, prima fra tutte la scuola, mediante un’azione di “mediazione” tra i bisogni formativi degli allievi in età evolutiva e le potenzialità fruitiva delle risorse ambientali, assunte anche con l’ottica della sostenibilità della loro utilizzazione e/o sviluppo. Funzione mediativa che implica il suo coinvolgimento nella progettazione e nella realizzazione di iniziative di scoperta e di fruizione del territorio, mirate ad orientare i soggetti in formazione, e con essi l’intera comunità di appartenenza, verso una più approfondita conoscenza, tutela e valorizzazione delle identità e delle risorse territoriali, da quelle storico-culturali a quelle etno-antropologiche, da quelle della fisiche a quelle economiche-produttive. Un servizio turistico che è capace di guardare al territorio nella sua duplice, ma integrata, valenza connotativa: l’essere “entità fisica” ed essere “spazio culturale”. Ciò perché il territorio è, di fatto, il risultato della continua ed inesorabile trasformazione operata dall’uomo, nel tentativo di renderlo adattivo ai propri bisogni esistenziali; un contenitore inesauribile di conoscenze e di esperienze in grado di promuovere e di sostenere efficaci processi formativi e di socializzazione (Baldassare, & Scisci, 2002). Peraltro, il territorio, in ragione dell’eterogeneità che lo caratterizza, tanto nella sua dimensione fisica quanto -se non soprattutto- in quella antropologico-culturale, favorisce lo svolgersi dei processi d’indagine sui vari profili multifattoriali (naturali, culturali, sociali), con cui è strettamente correlata la maturazione della personalità e la costruzione delle identità (personali e sociali). Non a caso il territorio è stato considerato ed utilizzato come «aula didattica decentrata» (Loiodice, 1998, p. 223.) assumendo una rilevante funzione formativa. In un’ottica siffatta, chiunque si trovi ad interagire con il territorio, per esempio nel “momento” dello svolgersi dell’esperienza turistica, deve avere contezza dell’importanza del patrimonio di vita e di aggregazione, dei valori positivi insiti in questa fondamentale risorsa da preservare, sempre, così come eventualmente da riprogettare, specie quando vi è la necessità di rendere più positivi i modi di essere e le condizioni di vita individuale all’interno di esso. Una completa lettura-esplorazione del territorio, anche con visite guidate mirate, consente di conseguire molteplici obiettivi formativi, anche di tipo tematico: si possono acquisire e/o confrontare conoscenze, sperimentare valide forme di cooperazione, costruire e/o riformulare le proprie idee con nuove prospettive, giungere alla consapevolezza che territorio è un patrimonio da preservare, una risorsa fondamentale da tutelare. In questa dimensione, che ci si muova in una logica non meramente utilitaristica di tipo produttivo-economico ma si guardi in una prospettiva idonea a cogliere ogni più insita potenzialità di sviluppo, il Mediatore turistico diventa assoluto coprotagonista delle relazioni con il territorio. Egli, pertanto, nell’approcciarsi all’attività da realizzare, non potrà esimersi dall’assumere una visione integrata dei diversi fattori chiamati in causa, quali la specificità delle utenze (per ciò che riguarda bisogni e attese di servizio), il tempo libero (nel suo potenziale di esercizio e di realizzazione esistenziale), le risorse di riferimento (economiche, umane, territoriali), le dinamiche interpersonali, nonché il controllo dei riscontri e degli esiti di servizio prodotti. Le multifattorialità e l’eterogeneità di dette istanze rappresentano una opportunità d’esercizio turistico estremamente rilevante, anche se danno luogo a difficoltà di risposta di servizio affatto trascurabile. Tuttavia, questi fattori sono così dinamici e mutevoli, anche per il consolidarsi di una società sempre più multiculturale e sempre più protesa verso nuovi imputs

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di confronto, da non poter essere standardizzati in precise unità di riferimento che siano utili per l’assunzione di iniziative progettuali e di servizio turistico. Tuttavia, il considerarli contestualmente, con una visione olistica e con un’attenzione privilegiata verso i “bisogni speciali”, è la condizione più efficace per riuscire a conseguire elevati standards nella gestione del servizio turistico.

5. Il Mediatore turistico come referente privilegiato delle persone con “bisogni speciali” Con riferimento specifico all’offerta di servizi turistici per l’utenza con “bisogni speciali”, i dati statistici evidenziano come ad oggi i risultati raggiunti non si possano considerare soddisfacenti, sia sotto l’aspetto quantitativo, sia riguardo il profilo. Detta valutazione prende in esame l’intero comparto dei servizi: dai sistemi della comunicazione e dell’informazione ai mezzi di viaggio, dalle strutture della ricettività agli impianti per la fruizione dell’offerta di servizio, dai modi dell’accoglienza alle competenze richieste per il personale preposto ai servizi, fino all’assunzione del criterio fondamentale del monitoraggio e del controllo della qualità delle prestazioni offerte/ricevute. Da qui scaturisce una richiesta di mercato, sempre crescente, per l’implementazione delle iniziative, ma anche l’esigenza di un’attenzione sempre più mirata nei confronti dell’utenza con bisogni speciali. I protagonisti di tale nuova prospettiva, in primo luogo, sono certamente gli Enti e le agenzie preposte alla promozione e all’offerta del servizio turistico, ma anche gli Enti pubblici, chiamati a recitare un ruolo dominante nella vita associativa, fornendo giustificate scelte di orientamento e di supporto anche economico alle politiche di sviluppo sociale (Curatola, 2010). Per poter garantire un ottimale livello di qualità nell’offerta dei servizi turistici, diventa fondamentale che tutti i soggetti coinvolti nella gestione e nell’erogazione di tali servizi, pur nel rispetto della specificità delle rispettive competenze, propongano e sostengano le proprie azioni con una visione unitaria e integrata delle problematiche da affrontare. Ai fini del conseguimento di un risultato soddisfacente, in primo luogo è determinante il livello di ottimizzazione delle modalità organizzative e gestionali dei servizi stessi; ma diventa altresì essenziale coniugare l’opera con un buon potenziale d’uso dei moderni sistemi di programmazione e di promozione, dei mezzi d’informazione e di comunicazione, delle sempre più sofisticate tecniche di marketing, nonché con una maggiore attenzione per le tipologie di utenza e per i relativi bisogni. Non a caso si insiste sempre più sulla necessità ineludibile di promuovere e di sostenere un’efficace coniugazione tra la domanda di fruizione turistica, proveniente da utenze, anche con “bisogni speciali”, di fatto sempre più esigenti, e l’offerta di servizi di fruizione ad essa correlabili. Servizi che devono avere connotazioni di qualità e, pertanto, risultare efficacemente improntati a criteri di affidabilità, concorrenzialità e accessibilità. In questa direzione è necessario che gli agenti dell’intera filiera turistica possiedano un’adeguata conoscenza delle problematiche riconducibili all’utenza, segnatamente con riferimento alla specificità della domanda dell’utenza con “bisogni speciali”, al fine di potere efficacemente “mediare” la domanda di fruizione del servizio con le possibili offerte. Tale opera di mediazione, per un verso, richiede evidentemente un’attenzione approfondita per gli aspetti organizzativi e strutturali del servizio, avuto riguardo alle caratteristiche proprie dell’oggetto della “relazione” turistica; per altro verso, prevede una specifica competenza nella individuazione e nella gestione dei modi e dei mezzi più idonei per favorirne la fruizione.

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Nel novero delle problematiche da affrontare, certamente in primo luogo figura quella relativa al superamento di eventuali ostacoli e/o barriere che limitano o impediscono all’utenza di avere accesso all’oggetto della mediazione turistica. La riduzione o l’eliminazione delle barriere non attiene solo all’ambiente fisico, ma anche al profilo culturale di una società aperta e rispettosa dello stato di diritto; una società che è capace di proiettarsi positivamente verso il futuro, assumendo l’ottica della sostenibilità e l’obiettivo della tutela e della valorizzazione delle identità, come anche delle diversità e dell’ambiente stesso. Per cui è di fondamentale importanza l’assunzione contestuale della persona e dell’ambiente, nella loro specificità identitaria e nella loro possibile messa in relazione quale condizione determinante per la progettazione di servizio turistico di qualità. Un ambiente in cui sono presenti barriere, ad esempio, può limitare, anche significativamente, la performance di una persona, mentre altri ambienti con caratteristiche diverse, ricchi di facilitatori possono favorirla o addirittura implementarla. Investire sui facilitatori significa, infatti, includere «aspetti come un ambiente fisico accessibile, la disponibilità di una rilevante tecnologia d’assistenza o di ausili e gli atteggiamenti positivi delle persone verso la disabilità, e includono anche servizi, sistemi e politiche che sono rivolti ad incrementare il coinvolgimento di tutte le persone con una condizione di salute in tutte le aree della vita» (ICF, 2001, p.169). Ogni ausilio, arredo o dispositivo deve essere progettato secondo il principio dell’Universal Design, secondo il quale ogni attività di progettazione, applicata alla realizzazione di qualsiasi tipo di prodotto e ambiente (naturale, costruito, virtuale), deve tener conto delle necessità di tutte le persone, muovendo da alcuni inderogabili principi di carattere generale quali: equità e flessibilità, semplicità ed intuizione (l’uso del prodotto deve essere facile da capire, indipendentemente dalle conoscenze, dal linguaggio, dall’esperienza e dalle capacità di una persona), accessibilità all’informazione, tolleranza agli errori, sforzo fisico minimo, dimensione e spazio per l’uso adatto a qualsiasi utente, senza limiti per la capacità di movimento, la postura e la dimensione del corpo (Laurìa, 2003). Cosicché, i diversi prodotti pensati e realizzati, nella loro fruizione d’uso, per le persone con disabilità (provvisoria o conclamata), devono sempre e comunque essere resi accessibili a tutti, recuperando il principio che fu di Maria Montessori, per cui gli ausili, gli interventi, le strategie e i percorsi formativi pensati per le persone con disabilità, sono generalizzabili per tutti a condizione che siano ispirati a criteri di forte razionalità (ONM, 2000). Solo un “mediatore turistico”, dotato di siffatte competenze programmatiche e promozionali, e con un’elevata formazione pluridisciplinare, può affrontare efficacemente dette questioni e rendere il servizio turistico di “qualità”. Un servizio che trova collocazione in un progetto generale di implementazione economica e di sviluppo sociale e che, ispirato al principio di sostenibilità ambientale, si caratterizza per la sua rispondenza alla specificità dei bisogni, anche di quelli “speciali”.

Riferimenti bibliografici Baldassarre V.A. & Scisci M. (Eds). (2002). La scuola insegna a vivere il territorio. Guida per gli insegnanti. Milano: Franco Angeli. Beukelman D. R. & Mirenda P. (2005). Augmentative and alternative communication supporting children and adults with complex communication needs (3rd ed.). Baltimore (MD): Paul H Brookes Publishing Co. Canevaro A. (1999). Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap. Milano: Bruno Mondadori. Canevaro A. (Ed.). (2007). L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità:Trent’anni di inclusione nella scuola italiana. Trento: Erickson.

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Annamaria Curatola

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