Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno VII – numero 12 – Giugno 2014
Direttore | Editor in chief LUCIANO GALLIANI | Università degli Studi di Padova Condirettore | Co-editor PIETRO LUCISANO | Sapienza Università di Roma Comitato Scientifico | Editorial Board ROBERTA CARDARELLO | Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA | Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE | Université Catholique de Leuvain MARIA LUCIA GIOVANNINI | Alma Mater Studiorum – Università di Bologna ALESSANDRA LA MARCA | Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI | Università degli Studi di Roma Tre ELISABETTA NIGRIS | Università degli Studi di Milano Bicocca ACHILLE M. NOTTI | Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV | City University of Moscow RENATA VIGANÒ | Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Comitato editoriale | Editorial management ANNA SERBATI | Università degli Studi di Padova MARIA CINQUE | Università degli Studi di Palermo ROSA VEGLIANTE | Università degli Studi di Salerno Note per gli Autori | Notes to the Authors I contributi, in format MS Word, devono essere inviati all’indirizzo email del Comitato Editoriale: editor.sird@gmail.com Ulteriori informazioni per l’invio dei contributi sono reperibili nel sito www.sird.it __________________ Submissions have to be sent, as Ms Word files, to the email address of the Editorial Management: editor.sird@gmail.com Further information about submission can be found at www.sird.it
Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Finito di stampare: Giugno 2014 Abbonamenti • Subscription Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze • Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Progetto grafico copertina Valentina Sansò
Obiettivi e finalità | Aims and scopes Il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, organo ufficiale della Società Italiana di Ricerca Didattica (SIRD), è dedicato alle metodologie della ricerca educativa e alla ricerca valutativa in educazione. Le aree di ricerca riguardano: lo sviluppo dei curricoli, la formazione degli insegnanti, l’istruzione scolastica, universitaria e professionale, l’organizzazione e progettazione didattica, le tecnologie educative e l’e-learning, le didattiche disciplinari, la didattica per l’educazione inclusiva, le metodologie per la formazione continua, la docimologia, la valutazione e la certificazione delle competenze, la valutazione dei processi formativi, la valutazione e qualità dei sistemi formativi. La rivista è rivolta a ricercatori, educatori, formatori e insegnanti; pubblica lavori di ricerca empirica originali, casi studio ed esperienze, studi critici e sistematici, insieme ad editoriali e brevi report relativi ai recenti sviluppi nei settori. L’obiettivo è diffondere la cultura scientifica e metodologica, incoraggiare il dibattito e stimolare nuova ricerca. ___________________________________ The Italian Journal of Educational Research, promoted by the Italian Society of Educational Research, is devoted to Methodologies of Educational Research and Evaluation Research in Education. Research fields refer to: curriculum development, teacher training, school education, higher education and vocational education and training, instructional management and design, educational technology and e-learning, subject teaching, inclusive education, lifelong learning methodologies, competences evaluation and certification, docimology, students assessment, school evaluation, teacher appraisal, system evaluation and quality. The journal serves the interest of researchers, educators, trainers and teachers, and publishes original empirical research works, case studies, systematic and critical reviews, along with editorials and brief reports, covering recent developments in the field. The journal aims are to share the scientific and methodological culture, to encourage debate and to stimulate new research.
Comitato di referaggio | Referees Committee Il Comitato di Revisori include studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore e il condirettore della rivista. ___________________________________ The referees committee includes well-respected Italian and foreign researchers. The referral process is under the responsability of the Journal’s Editor in Chief and Co-Editor.
Procedura di referaggio | Referral process Il Direttore e Condirettore ricevono gli articoli e li forniscono in forma anonima a due revisori anonimi, tramite l’uso di un’area riservata nel sito della SIRD (www.sird.it), i quali compilano la scheda di valutazione direttamente via web entro i termini stabiliti. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori esprimono un parere positivo. I giudizi dei revisori sono comunicati agli Autori, assieme a indicazioni per l’eventuale revisione, con richiesta di apportare i cambiamenti indicati. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non sono pubblicati. ___________________________________ Editor in chief and co-editor collect the papers and make them available anonymously to two anonymous referees, using a reserved area on the SIRD website (www.sird.it), who are able to fulfill the evaluation grid on the web before the deadline. Only articles for which both referees express a positive judgment are accepted. The referees evaluations are communicated to the authors, including guidelines for eventual changes with request to adjust their submissions according to the referees suggestions. Articles not modified in accordance with the referees guidelines are not accepted.
INDICE Editoriale di LUCIANO GALLIANI Apprendere per insegnare
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ricerche 13
MARINA CHIARO
Le tecnologie nella progettazione didattica nella prospettiva ICF-CY The technologies for educational design in ICF-CY perspective 31
DANIELA FRISON
Formarsi alle Educational Sciences: cosa ne pensano le organizzazioni Studies on Educational Sciences: what is the position of the business world about it 41
FILIPPO GOMEZ PALOMA, LAURA RIO, DOMENICO TAFURI
TGM e Scuola Primaria. Possibili correlazioni tra abilità grosso-motorie e profitti disciplinari TGM and Primary School. Possible correlations between gross-motor skills and school marks 63
ANTONIO MARZANO, MARTA DE ANGELIS
Musica e transfer degli apprendimenti: apprendimenti musicali, abilità fonologiche e linguistiche nella scuola dell’infanzia Music and transfer of learning: learning music, phonological and language skills in kindergarten 85
MASCIA MIGLIORATI, RAFAEL RAMOS ECHAZARRETA, EMANUELE ISIDORI, CLAUDIA MAULINI
Gli stereotipi etnico-sportivi negli studenti italiani: un’indagine nelle scuole secondarie della Provincia di Roma Italian students’ ethnic stereotypes in sports: a survey in secondary schools of the Province of Rome 99
ANNA MARIA MURDACA, PATRIZIA OLIVA, ANTONELLA NUZZACI
Fattori individuali e contestuali del burnout: una ricerca descrittiva sugli insegnanti curricolari e di sostegno Individual and contextual factors of burnout: a descriptive research on teachers and teacher assistants
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MARINELLA MUSCARÀ, ROBERTA MESSINA
Globalizzazione e nuovi profili identitari tra i giovani. Alcune riflessioni sull’educazione nella società globale Globalization and new Identity Profiles among young people. Some reflections on Education in a globalized society 137
DAVIDE PARMIGIANI, ANDREA TRAVERSO, ANTONELLA LOTTI, VALENTINA PENNAZIO
Le strategie didattiche e valutative per lo sviluppo delle competenze. Una ricerca nella scuola secondaria di secondo grado Instructional and assessment strategies for competence development. A survey in the upper secondary school 155
DANIELA ROBASTO
Migliorare le strategie di studio dei ragazzi con il Questioning. Una ricerca empirica Improve study strategies of teenagers with Questioning. An empirical research 169
ALESSANDRA ROSA, LILIANA SILVA
Uno studio longitudinale sul valore aggiunto come misura di efficacia scolastica: risultati ed elementi di problematicità A longitudinal study on value-added indicators for measuring school effectiveness: results and critical aspects 185
PAOLA VERSINO
Separate special classes in order to teach the Italian language to newly-arrived migrant students? The issues at stake and the proposal of a Randomized Controlled Test Design Classi speciali separate per insegnare l’Italiano agli alunni stranieri neoarrivati? Le questioni sul tappeto e la proposta di un disegno di valutazione randomizzato
indice
anno VII | numero 12 | Giugno 2014
Editoriale LUCIANO GALLIANI
APPRENDERE PER INSEGNARE Il Direttivo della SIRD ha scelto come titolo del prossimo VIII Congresso Scientifico Nazionale – che si terrà a Salerno nei giorni 11, 12 e 13 del prossimo dicembre – APPRENDERE PER INSEGNARE. Nel 2011 a Padova nel precedente Congresso avevamo posto al centro della riflessione e della ricerca il tema: “Università e Scuola: Valutare per quale società?”, perché eravamo preoccupati per l’imporsi nel sistema scolastico di una apparente innovazione finalistica, tradotta nell’accattivante slogan della “formazione del capitale umano” e non più dell’“educazione di ciascuna persona”, il “cui maturarsi e valorizzarsi è impegno primario a cui sono subordinati quelli economico e politico” (Flores d’Arcais). Una pericolosa cornice culturale, dunque, guidata dal “paradigma meritocratico dei produttori e non da quello democratico dei cittadini” (Baldacci), a cui asservire anche la valutazione in modo specifico di prodotto e di sistema, che invece va fondata sui valori di un processo educativo, dialogico e partecipativo di tutti gli attori, coinvolti nella ricerca di un fine sociale “buono, bello, vero” (Gardner), attraverso la coltivazione dell’intelligenza secondo il “canone” della tradizione culturale europea (Vertecchi). Serve dunque un “cambio di verso”, e non solo “di passo” sull’INVALSI, sull’ANVUR e sull’ISFOL, che coinvolga la scuola, l’università e la formazione permanente nel loro insieme. Occorre partire da una riflessione generale sulle modalità sistemiche dell’istruzione, dell’educazione e della formazione, che integri i contesti formali, non formali e informali dell’apprendimento. Una parte consistente della crisi o delle difficoltà dei nostri tre sottosistemi formativi a rispondere ai bisogni educativi dei bambini, dei giovani e degli adulti – modificati profondamente dall’evoluzione economica e tecnologica della società con particolare riferimento al ruolo delle ICT – sta nella inadeguatezza della formazione iniziale e in servizio di insegnanti, docenti universitari, formatori, educatori. Se siamo ai primi posti in Europa per dispersione scolastica e agli ultimi per numero di diplomati, di laureati e di adulti nei percorsi formativi, vi sono sicuramente delle responsabilità politiche, ma le cause interne al sistema derivano principalmente da chi educa i “nativi digitali” senza saper usare criticamente le tecnologie, trasmette conoscenze dichiarative e non si preoccupa di costruisce negli allievi abilità e competenze collegate al nostro patrimonio immateriale, insegna in aula e non conosce metodi/tecniche di lavoro cooperativo, forma adulti – compresi i laureati triennali – senza riconoscere e valorizzare le esperienze-competenze pregresse. APPRENDERE PER INSEGNARE ci sembra quindi un tema da affrontare non solo con la discussione, ma anche con la convocazione prioritaria delle esperienze innovative e delle ricerche empiriche in grado di aiutarci a mettere in campo i neGiornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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cessari interventi, innanzitutto di miglioramento della formazione iniziale che manca, al di fuori della scuola dell’infanzia e primaria, di una qualunque scelta orientativa di percorsi curricolari opzionali di natura psico-socio-pedagogica o disciplinari durante le lauree triennali e magistrali, in modo da rendere più efficace il TFA abilitante, a numero programmato in funzione dei posti a concorso annuale. Intervenendo in secondo luogo con un piano di formazione in servizio degli insegnanti della scuola di ogni ordine e grado, centrato su quattro carenze professionali (educazione interculturale e diritti di cittadinanza, metodologia e didattica, tecnologie della comunicazione educativa, metodi e tecniche di valutazione educativa) e concertato con i Dipartimenti universitari che conducono ricerca scientifica nei settori sopraindicati. Avviando, in terzo luogo, nel deserto della ricerca e delle esperienze italiane, interventi di sostegno e di riqualificazione della docenza universitaria, per un innalzamento progressivo della capacità professionale oltre i modelli trasmissivi acquisiti, prevedendo anche specifici percorsi per i docenti neo-assunti e per migliorare la qualità dell’offerta formativa degli Atenei. Abbiamo previsto come Direttivo della SIRD sette sezioni tematiche in cui raggruppare i contributi di ricerca che perverranno sia in forma di full paper che di short paper, destinati poi alla pubblicazione nella Rivista o negli Atti del Congresso.
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1. Nella prima sezione i contributi di ricerca riguarderanno questioni teoriche, progettuali, organizzative, metodologiche, didattiche e valutative, relative alla formazione iniziale, in servizio e permanente dei docenti della scuola di ogni ordine e grado e dell’università con riferimento: ai processi di professionalizzazione dei docenti e di universitarizzazione della formazione; alla costruzione di rapporti di partnership tra istituzioni scolastiche e università; all’attivazione di dispositivi didattico-organizzativi e all’utilizzo di specifiche metodologie e strategie nelle differenti tipologie di formazione; alla integrazione di attività di formazione in presenza con attività di blended e-learning; all’impatto della formazione sulla professione e sulla qualità della didattica scolastica e della didattica universitaria. 2. I contributi della seconda sezione riguarderanno i progetti o i risultati di ricerche empiriche e di studi innovativi che hanno come oggetto specifico di indagine: – gli aspetti della ricerca didattica di tipo empirico relativi alla formazione e allo sviluppo della professionalità docente nelle diverse fasi (progetto, realizzazione, valutazione, diffusione e uso dei risultati) e/o ai fattori che rendono possibile tale apporto; – la crescita e qualificazione della professionalità docente, nei diversi ambiti del sistema educativo e formativo, in relazione allo sviluppo di nuove forme, modelli e pratiche, anche in collaborazione con la ricerca didattica universitaria di tipo empirico e con particolare riferimento all’esercizio della pratica riflessiva dei docenti e alla valutazione longitudinale di programmi integrati. 3. Nella terza sezione i contributi affronteranno la ricerca relativa alla progettazione curriculare, che chiede sempre con più urgenza una riflessione attenta sulla trasposizione didattica dei contenuti disciplinari, che riduca, da un lato, la distanza fra il sapere accademico degli esperti (sapere sapiente) e il sapere proposto nelle scuole e nelle aule universitarie (sapere insegnato), con le sue pratiche sociali di riferimento e, dall’altro, il distacco fra il sapere insegnato e le enciclopedie dei ragazzi e dei giovani con i loro percorsi di senso. La trasposizione didattica poi deve includere la ricerca sulle forme di mediazione comunicativa e didattica, sulle situazioni di insegnamento che possono rendere
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accessibili, chiari e comprensibili questi saperi ai diversi livelli di formulazione, alle diverse età degli allievi e ai diversi ordini e gradi di scuola e per l’università al rapporto con le applicazioni nelle professioni superiori. La quarta sezione conterrà contributi che pongono al centro il ruolo della didattica come scienza empirica e normativa, che ha per oggetto la progettazione, l’organizzazione, la gestione e l’ottimizzazione delle azioni formative, con una molteplicità di ambienti di apprendimento, di risorse e attività didattiche e con il rispettivo aumento dei modelli di complessità dei processi di insegnamento. II contributi si riferiscono a questioni teoriche, progettuali e metodologiche che riguardano il miglioramento di prodotti, processi e sistemi e le ricadute a livello formativo delle innovazioni didattiche e tecnologiche. Oggetti di ricerca possono essere nello specifico l’utilizzo delle TIC nei differenti contesti di apprendimento; le problematiche legate alle metodologie di comunicazione nei diversi ambiti disciplinari; lo studio e gli usi delle risorse aperte on line dell’apprendimento; i metodi collaborativi e cooperativi delle comunità di pratica per la costruzione delle conoscenze e lo sviluppo delle competenze. Le proposte per la quinta sezione tematica avranno ad oggetto studi e ricerche relativi alla valutazione formativa e all’assessment dei risultati degli apprendimenti che, secondo una logica proattiva, devono permettere l’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze significative, da rilevare durante la fase di attuazione di un percorso didattico. La verifica, la misurazione e la valutazione dei risultati di apprendimento conseguiti sono poi finalizzate ad individuare, in un’ottica di miglioramento, parziali adattamenti, necessari correttivi o il rafforzamento delle scelte adottate. La responsabilità sociale della valutazione, che implica certificazione e qualificazioni correlate a specifiche professioni, va condivisa tra tutti gli attori diretti e indiretti (stakeholder) che intervengono nei contesti formali, non formali e informali. L’enfasi sull’importanza di attivare procedure per stimare gli effetti degli interventi educativi delle scuole, delle università e di altre agenzie formative e lo sforzo per raggiungere in tempi brevi risultati generalizzabili hanno spesso portato ad attenuare il rigore necessario per giungere ad asserzioni metodologicamente corrette. In questa prospettiva la sesta sezione accoglierà contributi in cui confrontarsi su modelli valutativi che definiscano con rigore le caratteristiche degli organismi di istruzione e del sistema che si intende valutare, i suoi obiettivi formativi e le variabili da osservare e misurare. In particolare è necessaria una attenta definizione degli attori che giocano nel sistema ruoli determinanti per evitare che il risultato delle azioni educative sia stimato in assenza di una adeguata disamina dei fattori di contesto, soprattutto quando si vuol calcolare il valore aggiunto di un intervento educativo. Con la legge 92/2012 il d.lgs 13/2013 l’Apprendimento Permanente diventa anche in Italia “diritto” di ogni persona, in ogni fase della vita e nell’ambito di un Sistema condiviso e territorialmente integrato di servizi di istruzione, formazione e lavoro. Ciò permetterà l’individuazione e il riconoscimento delle competenze acquisite nella propria storia personale, formativa, professionale nei contesti non formali e informali. Per orientare e accompagnare, soprattutto gli adulti, alla validazione degli apprendimenti pregressi e alla loro certificazione servono esperti formati, come avviene in ambito europeo. I contributi di questa settima sezione riguarderanno esperienze e ricerche avviate per condurre processi di ricostruzione autobiografica e di identificazione e formalizzazione dei saperi esperienziali, progettando e applicando strumenti come il bilancio di competenze, il portofolio e/o dossier degli apprendimenti. In alcuni Atenei si è dato
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vita a servizi di supporto allo sviluppo del Lifelong Learning, terza missione universitaria, che vanno presentati e diffusi a livello nazionale. Nel novembre del 2012 abbia lanciato un MANIFESTO PER LA RICERCA EDUCATIVA E L’INNOVAZIONE DIDATTICA, sottoscritto da tutte le nostre Società
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scientifiche pedagogiche, nel quale individuavamo otto emergenze educative, che vogliamo brevemente richiamare e che riproporremo al terzo ministro e al terzo Presidente del Consiglio succedutisi ad oggi. A dire il vero Renzi ha cominciato a porre prioritariamente all’attenzione del Paese proprio le prime due emergenze (la fiducia nell’educazione e la centralità dei luoghi formativi) visitando le scuole e finanziando le ristrutturazioni edilizie degli Istituti, con la speranza che vengano riservati spazi per i laboratori e le attività di recupero e di animazione sociale, in modo da tenere aperte tutte le scuole al pomeriggio. Sulla terza emergenza che riguarda il perseguimento coerente di una strategia per la formazione iniziale e in servizio degli insegnanti della scuola, abbiamo precedentemente richiamato la scelta strategica che dovrebbe assumere il MIUR, essendoci già i finanziamenti, e le Università, che possono ricevere premialità proprio per la qualificazione della didattica. La quarta emergenza, riguardante l’innovazione dei mediatori culturali e didattici, nonostante il gran parlare di “Scuola digitale”, ci vede ancora arrancare nelle retrovie europee per quanto riguarda i collegamenti di rete e le attrezzature d’aula e mobile, a meno di agganciare i finanziamenti all’Agenda Digitale. Desta preoccupazione la mancanza di competenze digitali per la didattica da parte degli insegnanti, soprattutto con l’arrivo degli “e-book di testo”, una contraddizione in termini, confermata da una iniziativa nazionale intelligente di insegnanti e di istituti in rete che stanno producendo in autonomia i materiali didattici multimediali per tutte le discipline, gestendone la distribuzione gratuita nelle scuole. La quinta emergenza, riguardante l’apprendimento permanente e la formazione degli adulti, sembra essere stata affrontata con sollecitudine avviando i tavoli interistituzionali fra Stato-Regioni-Forze sociali per l’attivazione entro il 2014 del Sistema nazionale di certificazione delle competenze. Tutti gli attori formativi e sociali, in particolare la scuola attraverso i CPIA e le università attraverso centri/servizi per l’apprendimento degli adulti, sono chiamati a procedere finalmente a validazione, riconoscimento e certificazione delle competenze acquisite in contesti non formali e informali. La RUIAP – Rete Universitaria Italiana per l’Apprendimento Permanente sta avviando un progetto di MOOCs e di Master per la formazione di operatori esperti nei processi di accompagnamento degli adulti alla identificazione e certificazione degli apprendimenti pregressi. Sulla settima emergenza riguardante la valutazione nella scuola e nell’università abbiamo detto all’inizio e ci pare che qualche segnale di cambiamento sia avvenuto con la scelta del nuovo Presidente dell’INVALSI di area psicopedagogica e con le richieste di revisione delle procedure dell’ANVUR da parte del CUN e della CRUI. La sesta e l’ottava emergenza (numero adeguato di ricercatori e precarietà delle professioni educative) rappresentano situazioni di grande complessità, finora soltanto annunciate dalla politica con tentativi legislativi e amministrativi assolutamente inadeguati. Vogliamo sperare che nell’agenda delle riforme per i prossimi “mille giorni” si affrontino seriamente queste questioni. Il Congresso di dicembre della SIRD sarà una occasione importante per dimostrare quanto sia determinante la ricerca educativa per identificare i problemi da risolvere e per individuare le azioni per il miglioramento del nostro sistema formativo.
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Le tecnologie nella progettazione didattica nella prospettiva ICF-CY
Marina Chiaro – Università Roma Tre – marinachiaro@gmail.com
The technologies for educational design in ICF-CY perspective This paper explains the theoretical assumptions, the methodology and the first evidences emerged from the research project of the PhD School in Education and Social Service at the University of Roma Tre. The research deals with the opportunity to evaluate how the training of teachers in service delivered through a blended modality, on themes relating to Learning Disability (LD) may facilitate the design of inclusive teaching strategies. The aspect of the training was related in particular to the possibility for teachers to build up Communities of Practice such as to continue their interactions as well from the perspective of longlife learning. The conceptual framework of the research is the International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth (ICF-CY) with the chapter “Products and Technology” component included in “Environmental Factors” of the classification.
Parole chiave: inclusione scolastica, tecnologie della comunicazione ed informazione (TIC), ICF-CY, progettazione didattica inclusiva, formazione degli insegnanti, comunità di pratica.
Keywords: inclusion, information and communication technology (ICT), ICF-CY, inclusive educational design, teachers’ training, community of practice (CoP).
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ricerche
Questo lavoro presenta i presupposti teorici, la metodologia e le prime evidenze emerse dal progetto di ricerca relativo alla Scuola Dottorale in Pedagogia e Servizio Sociale dell’Università di Roma Tre. La ricerca ha l’obiettivo di valutare quanto la formazione in servizio di insegnanti curricolari dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado, erogata con modalità blended, su tematiche relative ai Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA), possa facilitare la progettazione di strategie didattiche inclusive. L’aspetto della formazione è stato riferito in particolare alla possibilità per gli insegnanti di costituire delle Comunità di Pratica tali da continuare le loro interazioni anche nell’ottica del longlife learning. Il tema di ricerca ha come riferimento la prospettiva culturale dell’International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth (ICF-CY) ed in particolare il ruolo dei “Fattori Ambientali”, inseriti nel capitolo “Prodotti e Tecnologie”, come facilitatori del funzionamento degli allievi.
Le tecnologie nella progettazione didattica nella prospettiva ICF-CY
Introduzione
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In questo lavoro vengono illustrati i presupposti teorici e la metodologia progettata per l’attività di ricerca, i cui risultati sono attualmente in fase di approfondimento, svolta presso la Scuola Dottorale in Pedagogia e Servizio Sociale dell’Università di Roma Tre, riguardo la possibilità di esplorare quanto la formazione permanente e continua di insegnanti curricolari in servizio, dell’infanzia, primaria, secondaria di primo e secondo grado, erogata con modalità blended, ovvero utilizzando sia gli incontri in presenza sia le tecnologie per l’informazione e la comunicazione, su tematiche relative ai Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA), possa facilitare la progettazione di strategie didattiche inclusive nella prospettiva dell’ICF-CY. A tal fine, gli obiettivi della ricerca, dettagliati nel prosieguo del lavoro insieme al piano di indagine, sono stati esplorati presso un gruppo di docenti, durante la loro frequenza al Master in “Didattica e Psicopedagogia per gli alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento” presso l’Università degli Studi di Roma Tre del Dipartimento di Scienze della Formazione1. Le prime evidenze relative alla fase descrittiva del fenomeno oggetto di studio sono descritte di seguito in questo lavoro, mentre l’analisi e le conclusioni finali della ricerca, che sono attualmente in corso di elaborazione ed approfondimento, saranno oggetto di una successiva fase di presentazione2. Il tema di ricerca ha come riferimento il quadro concettuale dell’International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth (ICFCY) (OMS, 2002, 2007) ed in particolare il ruolo dei fattori ambientali, inseriti nel capitolo “Prodotti e Tecnologie”, come facilitatori del funzionamento degli allievi. Come noto, infatti l’ICF-CY definisce le componenti della salute ed alcune componenti del benessere correlate alla salute che, nel caso dei bambini e degli adolescenti, comprendono le funzioni mentali dell’attenzione, della memoria e della percezione, nonché attività come il gioco, l’apprendimento, la vita familiare e l’istruzione in diversi domini. Questi sono definiti mediante due “termini om-
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Si tratta di insegnanti in servizio iscritti al Master in “Didattica e Psicopedagogia per gli alunni Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA)” nel corso dell’A.A. 2011/2012 presso l’Università degli Studi di Roma Tre del Dipartimento di Scienze della Formazione in convenzione con il MIUR. Il lavoro conclusivo sarà realizzato integrando opportunamente tutte le informazioni disponibili di seguito elencate: i risultati delle distribuzioni semplici di frequenze delle due fasi con i relativi test di significatività; l’analisi fattoriale dei risultati dell’applicazione della scala Likert; gli aspetti qualitativi emersi dalla selezione delle tesi redatte dai corsisti al termine della frequenza al Master ritenute di particolare interesse ai fini della ricerca in quanto relative a casi di progettazioni didattiche inclusive che abbiano tenuto conto delle nuove tecnologie secondo la classificazione ICF-CY.
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brello” (OMS, ICF-CY, 2007 p. 22): il funzionamento, che cattura e comprende tutte le funzioni corporee, le attività e la partecipazione, e la disabilità, che racchiude le menomazioni, le limitazioni dell’attività e le restrizioni della partecipazione. I fattori ambientali3 nell’interazione con la persona in un determinato contesto, possono incidere positivamente o negativamente sui livelli di attività e di partecipazione. L’incidenza positiva li rende “facilitatori”, mentre l’incidenza negativa li rende “barriere”. La presenza di ausili o tecnologie assistive costituisce una forma di modificazione ambientale che può incidere fortemente nella qualità del funzionamento e del benessere psico-fisico della persona. Partendo dal presupposto che la scuola viene considerata, in modo maggiormente puntuale nell’ICF-CY, quale area fondamentale di vita e di esperienza della persona, la prospettiva di utilizzo di tale classificazione specificamente nei contesti educativi e scolastici ne evidenzia le peculiarità di strumento adeguato ad attivare procedure di osservazione sistematica sia delle caratteristiche individuali e dei fattori personali, sia dei fattori ambientali di vita della persona, cogliendone le interazioni, nell’ambito di una concezione culturale del funzionamento umano, della salute e della disabilità ispirata dai principi dell’inclusione. Infatti, l’obiettivo di costruire una società inclusiva non può non partire dalla costruzione di una scuola inclusiva i cui principi ispiratori “radicati nella lotta alla discriminazione, alla diseguaglianza e all’esclusione dall’istruzione in particolare delle fasce più deboli, sono tesi alla rimozione delle barriere che ostacolano l’apprendimento e la partecipazione di tutti gli allievi alla vita scolastica” (Chiappetta Cajola, 2013b, p. 9).
1. Ipotesi di ricerca In considerazione di quanto esposto la ricerca è stata finalizzata a valutare se e quanto, per insegnanti in servizio, la possibilità di partecipare ad un progetto formativo erogato con modalità blended su tematiche relative ai Disturbi Specifici di Apprendimento faciliti la realizzazione di una progettazione didattica inclusiva. È stato approfondito, inoltre, il ruolo attribuito dagli insegnanti alle nuove tecnologie nella progettazione didattica inclusiva così come declinate nella classificazione ICF-CY. Le ipotesi della ricerca sono state indotte da alcune riflessioni. La prima riguarda la percezione di una situazione di perdurante difficoltà nella realizzazione
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I fattori ambientali vengono definiti, nell’ICF-CY come “gli atteggiamenti, l’ambiente fisico e sociale in cui le persone vivono e conducono la loro esistenza” (OMS, ICF-CY, 2007, p. 20). L’interazione persona-ambiente richiede di prestare una particolare attenzione ai fattori ambientali nel caso dei bambini e degli adolescenti. Infatti gli ambienti dei bambini e degli adolescenti possono essere considerati come una serie di sistemi successivi che li circondano, dal più immediato al più distante, aventi ognuno un’influenza diversa, che varia in funzione dell’età o dello stadio evolutivo raggiunto. In considerazione della posizione di dipendenza in cui si trovano i bambini durante lo sviluppo, gli elementi fisici e sociali dell’ambiente hanno un impatto significativo sul loro funzionamento pertanto i fattori ambientali negativi hanno spesso un impatto più forte sui bambini che sugli adulti; per gli adolescenti, si diversificano gradualmente nel contesto più ampio della comunità e della società. La presenza di ausili o tecnologie assistive costituisce una forma di modificazione ambientale che può facilitare il funzionamento in un bambino con menomazioni fisiche significative.
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di un reale processo inclusivo scolastico e sociale nella scuola primaria e nella scuola secondaria di I e II grado. Questa situazione dipende da molteplici fattori, quali la carenza di formazione degli insegnanti, l’impegno collettivo nella costruzione di risposte condivise ed adeguate alle esigenze individuali degli allievi, la qualità dei programmi, la rigidità del curriculum e delle procedure valutative, la predominanza del modello medico alla disabilità, l’esclusione fisica dalle classi regolari, nonché la perdurante carenza di collaborazione tra l’insegnante di sostegno e gli insegnanti curricolari che, impedendo di fatto il necessario coinvolgimento di tutti i docenti nei processi inclusivi, istituzionalizza sul campo il binomio docente di sostegno-allievo disabile (Canevaro, Mandato, 2004, pp. 59-60). Pertanto nella definizione del tema di ricerca sono stati effettuati approfondimenti specifici, come descritto nel paragrafo successivo (cfr. par. 1.1), sul rapporto tra nuove tecnologie e formazione degli insegnanti con particolare riferimento alla possibilità di costituire delle Comunità di Pratica che, a seguito della partecipazione al Master, possano facilitare successive interazioni anche nell’ottica del longlife learning. Tutto ciò nella prospettiva di promuovere, mediante la conoscenza e nel riguardo delle rispettive professioni, modalità collaborative sia a livello progettuale che operativo-procedurale, in grado di supportare l’individuazione di strategie educative consone alle caratteristiche degli allievi, tali da favorire sia lo sviluppo degli apprendimenti sia il processo di integrazione. Una seconda riflessione si riferisce alla presenza nelle scuole di un numero crescente di alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA)4 e di allievi con Bisogni Educativi Speciali (BES)5 (Associazione Treellle, Caritas italiana & Fondazione Agnelli, 2011; MIUR, 2013), che ricomprendono anche gli allievi con DSA (Ianes, 2013, p. 21). Per tali studenti un passo positivo verso una scuola inclusiva è stato fatto con la Legge n.170 del 2010 e con le successive Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con DSA (D.M. n. 5.669 del 2011),
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In Italia l’art. 1 della Legge 170 8-10-2010 riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento (DSA) che “si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana” (art. 1, p. 1). Conseguentemente all’approvazione di tale Legge, il MIUR pubblica periodicamente importanti statistiche su gli alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento iscritti a scuola. Questi nell’anno scolastico 2010/2011 sono stati 65.219 e per l’anno scolastico 2011/2012 sono stati pari a 90.030 (Fonte: MIUR (2013)- Direzione Generale per gli Studi, la Statistica e per i Sistemi Informativi – Servizio Statistico. “Alunni con Disturbi Specifici di Apprendimento AA.SS. 2010/2011 e 2011/12”). Gli studenti con BES , introdotti nel 1978 con il Rapporto Warnock, “…riguardano allievi con qualsiasi difficoltà di tipo evolutivo nel funzionamento del soggetto dal punto di vista educativo e dell’apprendimento e che presentano uno stato di difficoltà in cui può venirsi a trovare un bambino, un preadolescente o un adolescente a causa di differenti problematiche personali e sociali, che non sono causate esclusivamente da una disabilità…” (Warnock, 1978; UNESCO, 1997). In Italia con il D.M. del 27/12/2012, nel par. 1, p. 2, viene indicata come area dei Bisogni Educativi Speciali (in altri paesi europei: Special Educational Needs), l’area dove sono comprese tre grandi sotto-categorie: quella della disabilità; quella dei disturbi evolutivi specifici e quella dello svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. In particolare nel D.M. citato viene esplicitato che nei disturbi evolutivi specifici vengono ricompresi i DSA.
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ma in particolare, per gli allievi con DSA, come per tutti i BES, è stata indicata esplicitamente dal MIUR nel 2012 (D.M. 27.12.2012) la possibilità di utilizzare la classificazione ICF-CY come strumento di intervento per una progettazione didattica in ottica inclusiva con particolare attenzione all’uso delle nuove tecnologie, così come descritto di seguito nel paragrafo 1.2. 1.1 Le nuove tecnologie per la formazione degli insegnanti Nel contesto attuale la formazione degli insegnanti è considerato uno dei fattori chiave per garantire la qualità dell’istruzione e migliorare il livello di istruzione (Commissione delle Comunità Europee, 2007) ed è rilevante l’esigenza di un’offerta formativa strutturata come un apprendimento permanente in ottica lifelong learning che sia, tra l’altro, in grado di rispondere alle carenze di condivisione e collaborazione che sono oggi riscontrate nelle diverse realtà scolastiche. Infatti ai docenti si chiede di adottare impostazioni dell’apprendimento più collaborative e costruttive in modo da svolgere un ruolo di coadiutori e di responsabili della gestione della classe, piuttosto che di formatori ex-catedra (Commissione delle Comunità Europee, 2007, p. 5). Questi ormai irrinunciabili ruoli richiedono una formazione specifica su tutta una serie di competenze tecnologiche, informatiche e modalità didattiche per realizzare un improcrastinabile “passaggio al futuro” (Galliani, 2009, p. 101), in considerazione anche delle eterogenee composizioni delle classi, con presenza di alunni provenienti da contesti diversi, culture diverse, con Bisogni Educativi Speciali e quindi anche per gli allievi con DSA. Pertanto gli insegnanti sono tenuti a sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie ed a rispondere alle richieste di apprendimento dei singoli. In tal senso il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, al fine di eliminare la carenza di abilità nelle Tecnologie dell’Informazione e la Comunicazione (TIC) ed il digital divide6 già nel 2002 aveva predisposto un piano di formazione tecnologica per tutto il personale delle scuole, docenti curricolari e di sostegno inclusi, la cui importanza è stata ribadita anche nel Decreto Direttoriale del 2012 con esplicito riferimento alla necessità per gli insegnanti di sostegno di acquisire competenze con le TIC (D.D. n. 7, 16/04/2012); mentre nel 2013 è stato approvato dal Parlamento il pacchetto per Istruzione, Università e Ricerca, che contiene, tra le altre, la norma che nel capitolo formazione punta ad un rafforzamento delle “competenze relativamente ai processi di digitalizzazione e di innovazione tecnologica” (Legge n. 128, 2013, art. 16). L’aspetto problematico della formazione degli insegnanti, considerato nel tema della ricerca, è stato affrontato riflettendo anche sulla possibilità di costituire e favorire la costituzione delle Comunità di Pratica (CdP), introdotte da Wenger (1998). Queste sembrano rappresentare un utile modello per affrontare il problema della gestione della conoscenza, in quanto si basano su una nuova teoria del-
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Nel piano sull’Innovazione nella Scuola e nell’Università (2002), sono state individuate in particolare le seguenti quattro aree prioritarie di intervento: l’innovazione del sistema scolastico, con l’apertura a nuove metodologie e nuovi contenuti didattici; il cablaggio degli istituti e la loro messa in rete; la creazione di comunità virtuali all’interno del sistema Scuola-Università; l’utilizzo dell’e-learning per l’erogazione di corsi per studenti, insegnanti e personale non docente.
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l’apprendimento definita come il risultato di una partecipazione attiva alle pratiche di una o più comunità sociali cui l’individuo appartiene (più o meno consapevolmente e a diversi livelli di coinvolgimento) e del processo di identificazione/adesione alle stesse comunità (Wenger, 1998, p. 6). Le CdP risultano idonee a supportare l’attività quotidiana dei docenti per facilitare l’inclusione scolastica di tutte le diversità, come dimostrato anche da alcune ricerche di settore, dalle quali emerge l’esigenza sia da parte degli inseganti di sostegno che di quelli curricolari, di sviluppare adeguate competenze comunicative-relazionali per migliorare l’integrazione degli allievi disabili attraverso la messa in comune di conoscenze e di esperienze, il dialogo ed il confronto, oltre che la riflessione critica sulle proprie azioni (Chiappetta Cajola, 2009 p. 53). Poiché nella realtà le CdP possono assumere molte forme, in quanto possono rappresentare comunità che svolgono la loro attività in presenza, on-line oppure in modalità blended, ovvero utilizzando sia gli incontri in presenza sia il Web, il progetto di ricerca, come descritto in maggior dettaglio in seguito, ha considerato come unità di analisi insegnanti in servizio che per il loro aggiornamento professionale hanno usufruito di una modalità formativa erogata in modalità blended. Tale scelta risulta coerente con quanto descritto nell’ipotesi della ricerca secondo la quale provare ad utilizzare le tecnologie a disposizione per rendere la didattica più diversificata, più multidimensionale, più inclusiva può rappresentare una sfida al cambiamento (Zambotti, 2013, p. 290). Ciò è in linea peraltro con gli impegni stabiliti dalla cooperazione italiana che, nel G87, si è impegnata ad estendere l’utilizzo delle TIC per la formazione degli insegnanti e per rafforzare le strategie educative ad alto valore inclusivo. 1.2 Le tecnologie nella classificazione dell’ICF-CY Nella fase di definizione del problema di ricerca si è tenuto conto anche delle TIC, classificate peraltro nell’ICF-CY, come risorsa per una efficace progettazione inclusiva che non può non tener conto della capillarità della loro diffusione e della facilitazione che possano avere nelle diverse attività che ciascuno di noi è chiamato ad assolvere nei diversi contesti della vita quotidiana, nella scuola, nel tempo libero, nell’uso domestico, nella formazione extrascolastica e nell’università. Infatti, il loro impiego anche nelle scuole, rappresenta un vantaggio per tutti al fine di promuovere un’integrazione scolastica realmente inclusiva e che non si esaurisca in “fare le cose come gli altri, ma piuttosto in quella di offrire la possibilità di fare le cose con gli altri” (Fogarolo, 2012 p. 46). Un aspetto non trascurabile, che crea difficoltà ad una maggiore diffusione delle TIC, riguarda le modalità di progettazione dei prodotti tecnologici che usualmente tengono conto degli utenti “normodotati” costringendo coloro che hanno dei bisogni speciali ad adattarsi a quanto già realizzato. La tematica è stata affrontata specificatamente nel 2003 nel “Libro Bianco Tecnologie per la Disabilità. Una società senza esclusi”, dove è stato ribadito e confermato l’impegno ineludibile di rendere accessibili a tutti le tecnologie dell’informazione e della comunicazione,
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Digital Opportunities for All: Meeting the Challenge. Final Report of the Digital Opportunity Task Force (DOT Force). Maggio 2001. In http://www.g8italia.it/_en/docs /STUWX141.htm
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promuovendone l’uso e la diffusione mediante modalità di semplificazione e di facilitazione. Nello stesso documento si opera la distinzione, in funzione del loro impiego, tra le tecnologie informatiche individuali, che costituiscono il settore vero e proprio degli ausilii o delle tecnologie assistive e le tecnologie informatiche per la comunicazione, quale può essere internet. In questo quadro il concetto di ausilio è stato coniugato contestualmente a quello di accessibilità, in quanto il primo sta ad indicare l’adattamento della persona all’ambiente, ed è complementare al secondo che rappresenta invece l’adattamento dell’ambiente alla persona8. Entrambe le questioni sono state considerate estremamente rilevanti e, nell’ottica dell’approccio proprio della cosiddetta “progettazione universale”9, la Legge Stanca n. 4 del 2004 è stata dedicata all’accessibilità dei siti web ed alla progettazione dei software didattici; mentre nel 2009 la Legge n. 18 ha indicato specificatamente che questi debbano essere pensati accessibili già in fase di progettazione. Inoltre, come noto le TIC a scuola possono assolvere diverse funzioni: da quelle abilitanti a svolgere attività di base per l’esperienza scolastica che altrimenti non potrebbero essere eseguite, definite Tecnologie Assistive (TA) a quelle di supporto ad una progettazione didattica avanzata per l’intera classe (supporto di software didattici, internet, e-learning, etc.), ovvero uso di “software didattici ed uso didattico del software” (Guerreschi, 2009 p. 77), che riguardano tutti gli studenti, non soltanto gli allievi disabili, con il rischio, però, di inserire ulteriori elementi di esclusione per questi ultimi, nel caso in cui non venissero rispettate le opportune norme di accessibilità ed usabilità10 dei software, definite peraltro a livello internazionale. La rilevanza delle nuove tecnologie in fase di progettazione didattica è stata approfondita in relazione al quadro concettuale della classificazione ICF-CY che applicata nei diversi contesti educativi per l’osservazione degli allievi e del loro “funzionamento” in senso dinamico-evolutivo, in interazione con i fattori ambientali, è finalizzata ad una progettazione educativo-didattica significativamente orientata alla prospettiva inclusiva (Ianes, 2013, p. 23; Chiappetta Cajola, 2013a p. 54). Il concetto di inclusione fa riferimento a principi di non discriminazione, di
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L’Unione Europea ha definito con l’e-Accessibility for people with disabilities (2002) l’accesso ai servizi da parte di cittadini disabili per mezzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tenuto conto dei loro specifici bisogni. Per approfondimenti si rimanda al Consiglio di Lussemburgo dell’8 ottobre 2001, ed al “Piano d’Azione e-Europe 2002”. 9 Principio della “Progettazione Universale” o Universal Design o Progettazione per tutti o Design for All: Principi di progettazione secondo i quali si deve sempre tener conto della varietà di esigenze di tutti gli utenti. Nel campo informatico questa è strettamente connessa al problema dell’accessibilità ed ha come punti di riferimento principali l’equità e la flessibilità, l’uso semplice ed intuitivo, l’informazione accessibile, la tolleranza agli errori, lo sforzo fisico minimo, lo studio di dimensioni e spazi adatti a qualsiasi utente, senza limiti per la capacità di movimento, la postura e la dimensione del corpo. (Definizione tratta dal Glossario curato da Fogarolo, sul Portale Handitecno in http://handitecno.indire.it/). L’ETSI (EuropeanTelecommunicationsStandardsInstitute) definisce i parametri tecnici di accessibilità per le TIC in conformità con i principi del Design for All, considerando le capacità e condizioni fisiche dei potenziali utenti. 10 Lo standard ISO 9241 definisce l’usabilità come “la misura in cui un prodotto può essere usato da determinati utenti per raggiungere determinati obiettivi con efficacia, efficienza, e soddisfazione, in un determinato contesto d’uso”.
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pari dignità ed equità sociale, con profili ideali di vita e di società: in tale contesto risulta rilevante il ruolo e l’impiego delle tecnologie a supporto della partecipazione e dell’acquisizione di conoscenze e competenze da parte degli studenti disabili. Tale aspetto è stato dettagliato nella componente “Fattori Ambientali” dell’ICF-CY con il capitolo “Prodotti e Tecnologie” dove sono stati declinati specificatamente una serie di codici per i giochi (Chiappetta Cajola, 2012, p. 155) per l’istruzione, la ricreazione e lo sport. La classificazione ICF-CY prevede tutti gli aspetti delle TIC finora descritti ed in particolare evidenzia gli impatti positivi nelle usuali attività quotidiane: l’adozione e l’uso delle tecnologie idonee ed efficaci rappresentano un sostegno all’autonomia ed all’apprendimento dell’individuo; costituiscono un utile e concreto ponte fra progetto di vita e la sua realizzazione; gettano le basi per un lavoro condiviso e sinergico tra professioni; accentuano il ruolo di protagonista dello studente disabile e forniscono energia e vitalità al processo inclusivo globale. Azioni che sono tutte in linea con l’idea di persona e di collettività che anche l’ICF-CY propone e sostiene, così come sottolineato anche nelle Linee Guida del MIUR del 2009 relative al processo di integrazione scolastica degli alunni con disabilità che “non può adagiarsi su pratiche disimpegnate che svuotano il senso pedagogico culturale e sociale dell’integrazione trasformandola da un processo di crescita per gli alunni con disabilità e per i loro compagni a una procedura solamente attenta alla correttezza formale degli adempimenti burocratici” (Linee Guida MIUR, 2009, p.3). Infine, la rilevanza dell’impiego delle tecnologie come risorsa inclusiva è stata analizzata anche alla luce del recente orientamento di ricerca Evidence Based Education (EBE), nell’ambito del quale studi più volte ripetuti nel tempo con metodi quantitativi di largo spettro hanno mostrato che l’uso delle tecnologie per apprendere non comporta alcuna differenza statisticamente significativa per l’apprendimento stesso, in quanto l’effect size (ES)11 rimane al di sotto di una soglia significativa in tutte le tipologie di impiego tecnologico, ad esclusione dei video interattivi. Questo dato è presente nel lavoro di Hattie (2009)12 un autore che ha sintetizzato ben 800 meta-analisi relative ai risultati degli apprendimenti di soggetti in età scolare. Però, i dati di Hattie evidenziano anche che risultati migliori sono individuabili nei confronti di strategie didattiche in contesti molto interattivi, in cui si dà risalto al feed-back, all’apprendimento tra pari, al controllo dell’apprendimento da parte dello studente, in cui comunque gli insegnanti abbiano preventivamente ricevuto adeguata formazione. Vi sono, comunque, poi delle situazioni per le quali la logica della comparazione sperimentale, metodologia su cui si basa l’EBE, presenta alcune problematiche, come il caso dell’educazione speciale, in quanto si rendono più difficili indagini sperimentali con gruppi di controllo data l’ampia variabilità dei problemi che i soggetti presentano che rende complicata se non impossibile la definizione di gruppi omogenei, rendendo neces-
11 L’Effect Size (ES), usato per valutare l’efficacia della variabile sperimentale, è un indice che misura quanto è grande una differenza tra i risultati del gruppo sperimentale e del gruppo di controllo. Tale differenza si calcola in rapporto alla Deviazione Standard o sigma (la deviazione standard è una misura della dispersione della media che indica quanto i dati di una distribuzione di raccolgono o si allontanano dal valor medio). L’ES diventa rilevante se è superiore a 0,4. 12 Computer Assited Instruction ES=0,37; Web Based Learning ES=0,18; Video interattivo ES=0,52; Simulazione ES=0,33; Educazione a distanza ES=0,09.
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sario ricorrere ad altre metodologie, come disegni centrati su singoli soggetti o metodi misti (Calvani, 2012, p. 24). Al di là delle criticità specifiche del settore, secondo Calvani “…se possiamo dunque dimostrare che le tecnologie contribuiscono a migliorare qualche aspetto del contesto e della vita scolastica, senza effetti controproducenti sugli apprendimenti, sarebbe poco sensato contrastarne l’impiego..” (Calvani, 2013, p. 55), soprattutto in un’ottica di politica inclusiva. Infatti, l’utilizzo delle tecnologie può portare numerosi vantaggi sul piano della comunicazione, condivisione, conservazione e gestione di risorse didattiche interne alla scuola. Il fatto poi che i contenuti diventino manipolabili, editabili, individualizzabili in rapporto ai diversi livelli di difficoltà di apprendimento, appare oggi una delle opportunità maggiori che le tecnologie offrono alla scuola. A ciò si aggiunge l’ampliamento delle opportunità relazionali ed informative per mezzo della rete, un insegnante, infatti, può dialogare in modo personalizzato con i propri allievi tramite strumenti del web 2.0 (blog, mobile…) e più in generale strategie didattiche basate sull’e-learning 2.0 possano conseguire qualche risultato nel senso di favorire e-inclusion, e-partecipation, anche se al momento le evidenze non sono decisive.
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2. Metodo di ricerca Nel quadro concettuale fin qui delineato, il piano complessivo della ricerca è stato progettato sulla base dell’approccio dei metodi misti che comporta l’uso dei metodi quantitativo e qualitativo in un singolo studio mediante la pianificazione di un disegno integrato13 (Creswell, Plano Clark, 2011) che combina insieme la raccolta e l’analisi di un set di dati (quantitativi o qualitativi) all’interno di un tradizionale disegno di ricerca di tipo o quantitativo o qualitativo. Il secondo set di dati è solitamente di supporto allo studio più ampio che fa da cornice. Nel caso del piano della ricerca oggetto di presentazione, come studio di cornice è stata prescelta la realizzazione di una indagine quantitativa di tipo longitudinale o diacronico che, per le sue caratteristiche, consente di misurare eventuali variazioni nel tempo dei medesimi indicatori misurati sugli stessi casi oggetto di studio (Corbetta, 2003, vol. 2, p. 194). La scelta del metodo risulta coerente con la finalità principale dello studio relativa alla possibilità di valutare, presso il campione coinvolto, l’eventuale presenza della relazione/impatto tra la partecipazione ad un corso di formazione con parziale utilizzo delle nuove tecnologie (blended) e ricadute su modalità progettuali inclusive. Tale approccio metodologico, in considerazione degli orientamenti della metodologia della ricerca Evidence Based Education, che ritiene accettabili solo indagini di tipo Randomized Controlled Trial (RCT)14, riguarda un’applicazione meno “rigida” delle procedure EBE, in quanto può “...accogliere anche indagini quasi sperimentali o raccolte empiriche sistematiche oppure osservazioni ripetute in condizioni controllate...” (Calvani, 2012, p. 26).
13 Creswell e Plano Clark hanno individuato quattro disegni misti di base: convergente parallelo, sequenziale esplicativo, sequenziale esplorativo e integrato. 14 Il metodo RCT impiega un gruppo sperimentale ed un gruppo di controllo casuale. La randomizzazione riguarda la scelta casuale degli elementi che vanno a costituire il campione.
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Il secondo set di dati ha riguardato, invece, un approfondimento qualitativo condotto mediante il vaglio, la selezione e la successiva analisi delle tesi finali, redatte dagli insegnanti al termine del periodo di formazione, ritenute più significative per l’argomento oggetto di studio, con la finalità di integrare i risultati ottenuti dalla fase quantitativa. I risultati finali della ricerca, pertanto, saranno elaborati considerando una opportuna lettura integrata di tutte le informazioni rilevate dalle due fasi che compongono il piano globale della ricerca. Dall’indagine quantitativa, in particolare, saranno elaborati e rappresentati i valori delle distribuzioni di frequenze, finalizzati a valutare eventuali variazioni significative emerse tra la prima e la seconda rilevazione, con specifici approfondimenti realizzati mediante l’analisi fattoriale15; mentre gli aspetti qualitativi riguarderanno la selezione di alcune tesi redatte dai corsisti al termine della frequenza al Master, ritenute di particolare interesse ai fini della ricerca, in quanto relative a casi di progettazioni didattiche inclusive che abbiano tenuto conto delle nuove tecnologie secondo la classificazione ICF-CY. Prima di rappresentare alcune delle evidenze emerse dall’indagine quantitativa, obiettivo di tale lavoro, vengono descritte alcune delle fasi che caratterizzano il disegno dell’indagine e che nello specifico riguardano: l’individuazione del campione dei soggetti da studiare; la definizione dello strumento di rilevazione; la modalità di rilevazione dei dati; l’analisi e l’interpretazione finale dei risultati (Lucisano, Salerni, 2012, p. 47).
3. Indagine quantitativa: Campione, strumento di rilevazione ed analisi dei risultati Definizione del Campione In coerenza con gli obiettivi della ricerca, dove era centrale valutare l’aspetto della formazione dei docenti organizzata in modalità blended sulle tematiche dei DSA, il campione è stato costituito da 105 insegnanti in servizio iscritti al Master in “Didattica e Psicopedagogia per gli alunni Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA)” nel corso dell’A.A. 2011/2012 presso l’Università degli Studi di Roma Tre del Dipartimento di Scienze della Formazione, realizzato in modalità blended in convenzione con il MIUR. Il campione prescelto rientra nell’ambito del gruppo dei campioni non probabilistici ed in particolare in quelli a scelta ragionata, in quanto le unità non sono selezionate casualmente ma sono individuate tra quelle che si ritengono maggiormente connesse al fenomeno oggetto di studio. In altri termini per tale tipologia campionaria si individuano aree di analisi dove si suppone che il fenomeno sottoposto a rilevazione si manifesti in maggiore misura e si esegue una rilevazione delle unità che sono concentrate in queste aree (Cicchitelli, Herzel, Montanari, 1992, p. 66). Inoltre, come precedentemente anticipato, poiché la metodologia prescelta è di tipo longitudinale/diacronica, presso il campione sopra individuato sono state
15 L’analisi fattoriale è una tecnica statistica che permette di ottenere una riduzione della complessità del numero di fattori che spiegano un fenomeno. Si propone di determinare un numero di variabili “latenti” più ristretto e riassuntivo rispetto al numero di variabili di partenza. Per approfondimenti cfr: Barbaranelli, 2003; Soliani, 2008.
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effettuate due rilevazioni, in due precisi periodi temporali, all’inizio del percorso formativo (giugno 2012) ed al termine della stessa attività formativa (dicembre 2012), in modo da apprezzare eventuali differenze riscontrate tra le due fasi e di misurarne anche la relativa significatività mediante opportuni test statistici16. Strumento di rilevazione dei dati Al campione così definito sono state effettuate interviste “personali” o “face to face” mediante la somministrazione di un questionario semi-strutturato17, che ha costituito lo strumento di rilevazione (Zammuner, 2000) e dove sono stati declinati opportunamente gli obiettivi di ricerca che hanno riguardato prevalentemente due macro aree tematiche: la prima riferita ad indagare gli aspetti specifici delle motivazioni degli insegnanti nei confronti della partecipazione al corso di formazione, con particolare riferimento al ruolo da loro attribuito alle nuove tecnologie nella progettazione didattica; la seconda finalizzata ad analizzare il comportamento professionale degli stessi docenti durante l’attività quotidiana in relazione alla realizzazione del processo di inclusione degli allievi con DSA ed all’utilizzo della classificazione ICF-CY nelle fasi di progettazione didattica. Sulla base di tali aree tematiche sono state definite le domande del questionario finalizzate alla conoscenza dei seguenti aspetti: le diversità presenti in classe, quali alunni con BES, DSA o con disabilità18; le dotazioni tecnologiche disponibili a scuola e la loro possibilità di impiego nella attività didattica; la conoscenza da parte degli insegnanti della classificazione ICF-CY come strumento di progettazione ed il suo eventuale utilizzo nell’attività didattica; il grado di formazione degli insegnanti sulle tecnologie e le loro aspettative a seguito della frequenza del Master; il punto di vista degli insegnanti sul ruolo e sull’importanza attribuita alle tecnologie nella progettazione didattica. In particolare quest’ultimo aspetto è stato rilevato mediante l’impiego della scala Likert costituita, come noto, da una serie di affermazioni o item sui quali l’intervistato è stato chiamato ad esprimere il suo grado di accordo/disaccordo scegliendo tra cinque modalità di risposta (del tutto d’accordo, abbastanza d’accordo, né d’accordo né in disaccordo, abbastanza in disaccordo, del tutto in disaccordo). Analisi dei risultati Come precedentemente descritto, la prima parte del progetto di ricerca ha previsto la realizzazione di due rilevazioni quantitative in tempi successivi: all’inizio della partecipazione degli insegnanti al corso di formazione (giugno 2012) ed al termine dello stesso (dicembre 2102). Al fine di ottenere una prima descrizione dell’argomento studiato, è stata effettuata l’elaborazione statistica di tutte le risposte registrate nei due periodi considerati, rappresentata mediante distribuzioni di frequenze, assolute e relative, alle quali, in seguito, è stato applicato il test t di Levene19 per misurare la significatività delle eventuali differenze riscontrate.
16 Per approfondimenti sui test statistici e la loro applicabilità cfr: Barbaranelli, 2003; Soliani, 2008. 17 Il questionario è stato somministrato nel corso dell’attività formativa “La Valutazione per gli alunni con DSA – Corso Base”. 18 La domanda del questionario prevede la rilevazione della presenza di allievi con BES, DSA e Disabilità: i dati di analisi e di approfondimento sono riferiti alle situazioni in cui è presente almeno un allievo con DSA. 19 Le assunzioni di validità di un test parametrico sul confronto tra due o più medie sono:
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Poiché nel questionario era presente anche la possibilità di esprimere il grado di accordo su particolari item, ritenuti rilevanti per valutare il punto di vista degli intervistati sul ruolo e sull’importanza attribuita alle tecnologie nella progettazione didattica, l’analisi dei dati ha previsto, oltre le suddette variazioni percentuali, anche uno specifico approfondimento mediante l’utilizzo dell’analisi fattoriale20 che, come noto, è finalizzata ad individuare quei fattori che possano meglio rappresentare le componenti sottese ai valori di accordo/disaccordo espresse dagli intervistati e che permettono di individuare e definire i presunti “pilastri dell’accordo” (Corbetta, 2003, vol. 2, p. 230).
4. Prime evidenze della indagine quantitativa
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Dall’analisi dei risultati della indagine quantitativa, l’aspetto problematico della formazione in servizio degli insegnanti, che rappresenta una delle aree di studio della ricerca, emerge anche dalle motivazioni dichiarate dai docenti relative alla loro necessità di partecipare al Master. Questo, infatti, essendo organizzato in modalità blended, ha contribuito in parte a limitare quegli aspetti che risultano tutt’ora essere carenti, quali la possibilità di colmare il digital divide e migliorare lo scambio e la condivisione delle informazioni ed esperienze didattiche fra gli insegnanti stessi. In particolare le risposte ottenute a tali tipologie di motivazioni, riportate nel Graf. 1, pur non risultando rilevanti all’inizio del percorso formativo, risultano decisamente più elevate al termine della frequenza al Master: segno evidente che i docenti hanno acquisito durante la loro attività formativa una maggiore consapevolezza della necessità di intervento sugli aspetti considerati. Quanto affermato risulta dalla variazione statisticamente significativa delle seguenti risposte relative alle motivazioni indicate per la scelta di frequentare il Master: la flessibilità della proposta didattica, che dal 6,7% di valori registrati nella prima raggiunge il 26,9% nella seconda fase (+20,2 p.p.) e l’opportunità offerta dalla possibile condivisione di materiale didattico e dal confronto con altre esperienze, che varia dal 6,7%, ad inizio rilevazione, al 19,2%al termine del percorso formativo (+12,5 p.p.). Rilevante, anche se non statisticamente significativo, il fattore legato alla necessità, dichiarata da parte dei docenti, di acquisire una maggiore competenza tecnologica:
l’indipendenza dei dati entro e tra campioni; l’omogeneità della varianza: il confronto tra due o più medie è valido se e solo se le popolazioni dalle quali i campioni sono estratti hanno varianze uguali; i dati degli scarti rispetto alla media sono distribuiti normalmente. In particolare il test t di Student prevede che le varianze delle due sottopopolazioni siano uguali tra loro. È quindi necessario verificare l’ipotesi nulla di omogeneità delle varianze: se tale ipotesi viene rifiutata, la procedura standard è inadeguata. Per ovviare a tale problema si preferisce quindi di solito ricorrere a test che siano affidabili anche nel caso della non normalità della distribuzione come ad esempio il test di Levene, utilizzato in SPSS, che consiste nell’applicare alla due serie di scarti (in valore assoluto) il test t di Student, nell’assunzione che, se i loro valori medi risultano significativamente diversi, le due varianze dei dati originali sono diverse. Inoltre il test t di Student, che usa Levene, per campioni appaiati o dipendenti (prima e dopo il trattamento) confronta le medie di delle due osservazioni appaiate come segue: l’analisi è applicata ad una nuova serie di dati risultante dalle differenze tra gli elementi di ciascuna coppia. 20 Cfr. nota 15.
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dal 13,5% al 24,4% (+10,9 p.p.). Infine è da segnalare, per entrambe le fasi, la percentuale del 74% degli insegnanti che ha partecipato al corso per “accrescere la qualità professionale, attraverso il confronto con esperti esterni e colleghi”. ,-./0123.141506-072418.22934"1:.7791;.66493;0720147<459170//.1=-.1>0<4549701>4145<34?03541.1 @-05291A.5203BC93591>41.664937.;07291471;9>./42D1E/07>0>F E1<)1,+3+56)36;+,;+136;+,25//1,.3)1*@6;5+65/5+71*3+567,.683<<1,+567,8;5*5.4365 7,./3;5A,)544361)6+:,),65H,6)362:.41,.56/A,)*1
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Graf. 1: Motivazioni di iscrizione al Master
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Ad integrazione dell’analisi dei motivi manifestati dagli insegnanti, è importante osservare quanto da loro espresso in termini di accordo/disaccordo sulle affermazioni o item riportate nella Tab. 121. In particolare l’analisi delle preferenze espresse per l’item 8 “gli insegnanti hanno bisogno di essere formati all’uso delle tecnologie” assume variazioni statisticamente significative per il “completo accordo”: dal 58,8% della prima rilevazione raggiunge l’82,7% della seconda. Per quanto concerne l’altro tema rilevante del progetto di ricerca, la che laovvero partecipazione al possibilità di utilizzare la Classificazione ICF-CY nella progettazione didattica, dalle risposte ricevute emerge che la partecipazione al Master ha consentito agli insegnanti di acquisire una maggiore conoscenza dell’ICF-CY. Infatti, come è possibile osservare nel Graf. 2, sono state registrate variazioni statisticamente signifi-
21 Nella Tabella 1 sono riportate le 14 affermazioni rispetto alle quali gli insegnanti hanno espresso il loro grado di accordo nelle due fasi di rilevazione (Pre e Post). Gli item, per alcune affermazioni, sono stati rappresentati considerando insieme gli alunni con Disabilità, con BES e con DSA. Poiché tutti gli intervistati hanno dichiarato di avere in classe almeno un DSA, le risposte riportate rappresentano il valore corretto da attribuire !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! tale tipologia di allievi. I dettagli delle risposte per allievi disabili sono disponibili per $ ! una eventuale successiva analisi. Per gli allievi con BES tali risultati sono identici a quelli con DSA. tale tipologia di allievi. I dettagli delle risposte per allievi disabili sono disponibili per
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!
cative per tutte le tipologie delle risposte previste: quelle positive aumentano dal 20% della prima fase al 69,6% della seconda fase (+49,6 p.p.); contestualmente quelle negative diminuiscono dal 41,9% all’8,9% (-33,0 p.p.). +,-,./01234+56+78
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Graf. 2: Conoscenza dell’ICF-CY
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A fronte di tale incremento, però, l’utilizzo dell’ICF-CY in ambito didattico risulta comunque ancora limitato, in quanto, solo il 31,8% dei docenti che, nella prima fase, hanno affermato di conoscere la Classificazione hanno avuto anche la possibilità di poterla utilizzare nella pratica didattica; mentre per la seconda fase tale valore è del 26,4% (cfr. Graf. 3). Dal Graf. 4, che si riferisce alle sole risposte di quegli insegnanti che nella domanda precedente avevano affermato di aver avuto modo di utilizzare l’ICF-CY nell’insegnamento degli alunni con disabilità (cfr. Graf. 3), si evidenzia che nella prima fase nessun insegnante ha dichiarato di aver utilizzato il capitolo dei prodotti e tecnologie, mentre nella seconda rilevazione il 15,4% dei docenti ha successivamente avuto modo di impiegarlo nella attività didattica ai fini progettuali. )*+*,-./+0/1/+12+-.23244*56+3789:;9<+=633>2=?6@=*06=./+*1+ *3-==2+A/=+BCDE (!#% -.
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Graf. 4: Capitoli dell’ICF-CY utilizzati
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Italian Journal of Educational Research
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Graf. 4: Capitoli dell’ICF-CY utilizzati
(Il graficodell’ICF-CY 4 riporta le percentuali riferite agli insegnanti Graf. 4: Capitoli utilizzati
che hanno risposto “si” alla domanda riportata nel grafico 3) (
Importante anche il grado di accordo rilevato in merito alla necessità di conoscere le tecnologie per gli allievi con DSA: infatti aumenta significativamente dal 46,2% al 64%, il totale disaccordo per l’affermazione “non è necessario che tutti gli insegnanti conoscano le tecnologie per allievi con DSA” come si evince dall’item 5 della Tab. 1 (vedi pagina seguente).
5. Conclusioni In conclusione, anche se per gli insegnanti intervistati è nota l’importanza delle tecnologie nella progettazione didattica finalizzata ad una migliore integrazione per allievi con DSA, così come risulta dal loro grado di accordo dichiarato su tali aspetti! (item 4 e 5 della Tab.1), le prime evidenze finora rappresentate sembrano confermare le ipotesi poste alla base della ricerca. Infatti, dai risultati precedentemente commentati, emerge che la partecipazione degli insegnanti all’attività di formazione, organizzata in modalità blended, può contribuire a costituire delle Comunità di Pratica, in quanto, le motivazioni sottese alla decisione di frequentare tale corso hanno riguardato prevalentemente la possibilità di effettuare confronti con esperti esterni e colleghi e quella di poter scambiare materiali ed esperienze di pratiche didattiche. Pertanto l’opportunità di costituire delle comunità professionali, in ottica di lifelong learning, che possano dar luogo a strategie collaborative e di condivisione delle conoscenze, all’aggiornamento, allo sviluppo ed alla integrazione dei loro reportori professionali (Wenger, McDermott & Snyder, 2002) risulta ancora più cruciale per rispondere alle esigenze di una formazione continua e permanente sull’evoluzione delle molteplici tematiche ed esigenze attuali quali l’approfondimento e l’applicazione di strategie didattiche innovative per gli allievi con DSA. Infine, la necessità di acquisire una maggiore competenza tecnologica è una esigenza che si palesa con maggior convinzione dagli insegnanti al termine del corso di formazione, in linea peraltro con i valori incrementali registrati nelle due fasi per la conoscenza della Classificazione ICF-CY e dell’aumento significativo
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Item
1
Periodo
Pre Post
2
Pre Post
3
Pre Post
4
Pre Post
5
Pre Post
6
Pre Post
7
Pre Post
8
Pre Post
28
9
Pre Post
10
Pre Post
11
Pre Post Pre
12 Post
13
Pre Post
14
Pre Post
Affermazione
La scuola attuale insegna a usare il computer e Internet in modo efficace
Le competenze digitali sono indispensabili nella società attuale
Del tutto d’accordo
Abbastanza d’accordo
Né d’accordo né in disaccordo
Abbastanza in disaccordo
Del tutto in disaccordo
Non so
Totale
3,9
30,4
18,6
29,4
15,7
2,0
100,0
2,6
28,9
21,1
31,6
14,5
1,3
100,0
68,6
29,4
1,0
1,0
100,0
64,5
28,9
5,3
39,2
49,0
7,8
2,0
34,2
52,6
10,5
1,3
Il ruolo delle tecnologie in fase di progettazione didattica per gli alunni Disabili/DSA/BES è importante
50,0
42,2
5,8
0,0
2,0
100,0
50,7
45,3
1,3
1,3
1,3
100,0
Non è necessario che tutti gli insegnanti conoscano le tecnologie per allievi Disabili/DSA/BES
2,9
5,9
3,9
38,2
46,2
2,9
100,0
2,7
6,7
2,7
22,7
64,0
1,3
100,0
Le scuole dovrebbero dotarsi di ausili e tecnologie assistive per Disabili/DSA/BES
76,5
20,5
1,0
0,0
1,0
1,0
100,0
78,7
17,3
1,3
1,3
1,3
100,0
Tutti gli insegnanti dovrebbero utilizzare le tecnologie didattiche nel loro lavoro quotidiano
41,2
41,2
13,7
2,9
50,7
38,7
9,3
1,3
58,8
35,3
2,9
82,7
16,0
1,3
6,9
29,4
15,7
23,5
24,5
5,4
10,8
14,9
31,1
37,8
63,7
26,5
5,9
0,0
2,9
L’uso delle tecnologie da parte degli allievi Disabili/DSA/BES contribuisce in modo decisivo alla loro integrazione
Gli insegnanti hanno bisogno di essere formati all’uso delle tecnologie L’uso di software didattici dovrebbe essere limitato a particolari occasioni, sia con gli allievi Disabili/DSA/BES sia con gli altri allievi Le scuole dovrebbero organizzare periodicamente corsi di formazione/aggiornamento sulle tecnologie per Disabili/DSA/BES L’acquisizione di competenze tecnologiche da parte degli allievi può avere un forte impatto sulle loro future possibilità di impiego La progettazione di piattaforme elearning secondo criteri di inclusione costituisce un vantaggio per tutti gli utenti, a prescindere dalla presenza o meno di alievi Disabili/DSA/BES L’acquisizione di competenze digitali deve costituire una priorità nella progettazione di percorsi formativi per Disabili/DSA/BES L’e-learning è una risorsa strategica fondamentale per la formazione degli insegnanti
1,3 1,0
100,0 1,0
100,0
1,3
100,0
1,0
100,0 100,0
2,0
1,0
100,0 100,0 100,0 100,0
1,0
100,0 100,0
74,7
18,7
1,3
1,3
2,7
1,3
52,0
36,3
8,7
1,0
1,0
1,0
70,7
28,0
1,3
57,8
31,4
5,9
70,7
25,3
4,0
21,6
51,0
18,6
3,9
32,0
45,3
17,3
5,3
49,0
38,3
4,9
2,9
50,7
41,3
5,3
2,7
100,0 100,0
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1,0
1,0
100,0
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2,0
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100,0 100,0
1,0
3,9
100,0 100,0
Tab. 1: Grado di accordo espresso dagli insegnanti nelle due fasi22
dell’utilizzo del capitolo dei prodotti e tecnologie nella progettazione didattica per allievi con DSA rilevato nella fase finale della frequenza al Master. Come descritto precedentemente tali conclusioni saranno integrate con gli ulteriori approfondimenti previsti dalle elaborazioni derivanti dalle singole fasi che compongono il disegno integrato del piano di ricera.
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22 Per la lettura della tabella cfr. nota 21.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa
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Italian Journal of Educational Research
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Formarsi alle Educational Sciences: cosa ne pensano le organizzazioni
Daniela Frison – Università di degli Studi di Padova – daniela.frison@unipd.it
Studies on Educational Sciences: what is the position of the business world about it What is the added value of humanities? What about the importance of university studies on Educational Sciences? The article explains the results of the interviews which have been made to 15 tutors working for companies involved in a project of intervention research. The realization of these researches have been based on the companies’ needs and on their business interests, and they have been managed by final-year students, attending Courses of Degree in Lifelong Education Sciences and Management of Educational Services of Padua University. In detail, the interviews have studied the epistemological and institutional set of the organizations regarding the academic research, its educational areas, and the role of the student-researcher involved in it.
Parole chiave: University-Business Dialogue, Knowledge Triangle, Higher Education, Educational Sciences, Ricerca Collaborativa, Apprendimento
Keywords: University-Business Dialogue, Knowledge Triangle, Higher Education, Educational Sciences, Collaborative Research, Learning
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
31
ricerche
Qual è il valore aggiunto di una cultura umanistica? E, in particolare, di una formazione universitaria nel campo delle educational sciences? L’articolo presenta i risultati emersi dalle interviste a 15 tutor aziendali coinvolti nella realizzazione di ricerche-intervento realizzate a partire da fabbisogni ed interessi aziendali e condotte da laureandi dei corsi di laurea in Scienze della Formazione Continua e Programmazione e Gestione dei Servizi Educativi, Scolastici e Formativi dell’Università di Padova. Precisamente, le interviste hanno indagato la postura epistemologicoistituzionale dell’organizzazione nei confronti della ricerca accademica in ambito “formativo” e della figura di studente-ricercatore accolta.
Formarsi alle Educational Sciences: cosa ne pensano le organizzazioni
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“I cittadini non possono relazionarsi bene alla complessità del mondo che li circonda soltanto grazie alla logica e al sapere fattuale. La terza competenza del cittadino, strettamente correlata alle prime due, è ciò che io chiamo immaginazione narrativa. Vale a dire la capacità di pensarsi nei panni di un’altra persona, di essere un lettore intelligente della sua storia, di comprenderne le emozioni, le aspettative e i desideri”. Con queste parole Martha Nussbaum apre uno dei capitoli del suo Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (2011, p. 111), volendoci richiamare alla centralità che la formazione ad un pensiero critico interdisciplinare, alle arti, alla letteratura, all’immaginazione riveste accanto ad una formazione più direttamente orientata al profitto inteso come crescita del prodotto interno lordo. L’autrice riporta l’attenzione verso un orientamento formativo che ponga l’accento sulla partecipazione attiva del bambino alla ricerca e alla problematizzazione citando le teorie pedagogiche che hanno guidato Froebel, Pestalozzi, Montessori, Dewey nei loro interventi educativi volti a sollecitare “la mente a diventare attiva, competente e responsabilmente critica verso le complessità del mondo” (ibidem, p. 35). Si tratta di un approccio, sottolinea la Nussbaum, che dovrebbe proseguire dall’infanzia fino agli studi universitari al fine di fornire alle organizzazioni e alle democrazie intelligenze flessibili e creative che sappiano promuovere innovazione e sviluppo. E dunque, quale può essere il contributo che i giovani formatisi ad una cultura umanistica possono portare nelle organizzazioni? E, in particolare, i giovani formatisi alle Educational Sciences? L’articolo si focalizzerà sui risultati emersi dalle interviste semi-strutturate a 15 tutor aziendali, coinvolti nello sviluppo di ricerche-intervento realizzate in partnership con l’Università di Padova, sui temi della formazione e dell’apprendimento nelle organizzazioni. Dal 2008 è attivo presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova, il Progetto PARIMUN, acronimo di Partenariato Attivo di Ricerca Imprese-Università: esperienza di University-Business Dialogue in ambito umanistico (CEC, 2009). Il progetto, all’avvio della sua sesta edizione, favorisce infatti l’incontro tra humanities e business promuovendo la realizzazione di ricerche intervento sollecitate da questioni e bisogni proposti dalle organizzazioni coinvolte sui temi del HR management, della formazione degli adulti e della formazione professionale, della valutazione della qualità e della formazione e, più in generale, dell’apprendimento delle persone che lavorano nelle organizzazioni e delle strategie per favorirlo e accompagnarlo (Munari, 2011). PARIMUN favorisce così l’inserimento nel tessuto organizzativo nazionale, e soprattutto veneto, di laureandi di livello magistrale in Scienze della Formazione Continua e in Gestione e Programmazione dei Servizi Educativi, Scolastici e Formativi affidando loro il ruolo di “ricercatori junior”; un ruolo che si esplicita nella conduzione di tesi di laurea svolte in stretta collaborazione con le imprese coinvolte e sotto la supervisione e l’accompagnamento accademico. Studenti ed im-
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prese possono aderire volontariamente al progetto e sono chiamati ad impegnarsi, fin dal suo avvio, nel condividere e negoziare domande di indagine e disegni di ricerca che siano di primario interesse per l’organizzazione, si tratti di un’impresa privata, di una pubblica amministrazione, di un ente di formazione, di una cooperativa di servizi alla persona, ecc. Nell’ambito di un’indagine più ampia (Frison, 2011) realizzata al fine di rilevare le ricadute formative dell’esperienza di ricerca collaborativa sui tre attori coinvolti - laureando, docente universitario, referente dell’organizzazione - sono stati intervistati 15 referenti aziendali appartenenti ad organizzazioni di servizi alla persona o alle imprese (9), pubbliche amministrazioni (5) e aziende private (1). Le interviste semi-strutturate sono state condotte al termine del percorso di ricerca realizzato da 18 “ricercatori junior” (d’ora in avanti RJ) e sono state analizzate mediante analisi di contenuto qualitativa (Cicognani, 2002), carta e matita, e restituzione delle categorie emerse mediante il software Free Mind Map. L’intervista ha inteso indagare la postura epistemologico-istituzionale dell’organizzazione nei confronti della ricerca accademica in ambito “formativo” e della figura di studente-ricercatore accolta. La dinamica tra organizzazione e studente ha infatti promosso nelle imprese coinvolte l’esplorazione di una nuova modalità di relazione con l’università e con gli studenti, non propriamente assimilabile alle consuete pratiche di stage o tirocinio curriculare né alle altrettanto conosciute forme di apprendistato (Nyerere, Friso, 2012), poiché basata sulla collaborazione intorno allo sviluppo di una ricerca sul campo. L’intervista ha portato l’attenzione su numerosi elementi di peculiarità propri della ricerca partenariale. Innanzitutto, i referenti aziendali hanno evidenziato gli eventi significativi che, al loro sguardo, avrebbero contrassegnato il percorso dei laureandi. Emerge, a tale proposito, una convergenza di attenzione sulla fase definita di “trattamento della domanda” e di “costruzione degli strumenti di indagine” (fig. 1). Si tratta evidentemente delle fasi di avvio della ricerca che maggiormente richiedono il confronto continuo tra università e organizzazioni e che vedono lo studente destreggiarsi in un ruolo di trait d’union tra quelli che potremmo definire i suoi due committenti: l’università alla quale dovrà restituire una tesi di laurea e l’impresa per la quale dovrà produrre un rapporto di ricerca sul tema condiviso e concordato.
Fig. 1: Riflessioni sugli eventi significativi per il RJ
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La scelta e la costruzione degli strumenti di indagine viene così a costituire una fase cruciale di incontro e confronto con l’organizzazione, trattandosi di una decisione negoziata che definirà il vero e proprio lavoro sul campo del ricercatore. Sono fasi strettamente connesse agli “oneri” che i rappresentanti delle organizzazioni intervistati hanno evidenziato tracciando le caratteristiche che contraddistinguono il ruolo di un’organizzazione implicata in una ricerca partenariale (fig. 2): primo fra tutto l’investimento di tempo. Il referente aziendale si trova infatti ad “accompagnare”, “affiancare”, soprattutto nelle sopra citate fasi di avvio del lavoro, il giovane ricercatore. D’altro canto, le organizzazioni dichiarano di trarre un importante “valore aggiunto” dalle occasioni di incontro con le altre organizzazioni aderenti al progetto e con l’università.
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Fig. 2: Riflessioni sulle peculiarità del ruolo dell’organizzazione
Le organizzazioni colgono inoltre nella ricerca partenariale promossa dal progetto PARIMUN un’“opportunità di riflessione”. I referenti aziendali citano, infatti, tra i guadagni della propria partecipazione al progetto: l’opportunità di “prendersi del tempo per ragionare”, di “avere delle riflessioni teoriche sul proprio lavoro” e di porsi domande. E al contempo sottolineano che lo “sguardo terzo”, portato dal ricercatore junior, è quello di “una persona terza che ti guarda dentro”, con “sguardo esterno, lucido” che diventa “supporto per riflettere” (fig. 3). I rappresentanti aziendali sembrano domandare e ricercare una postura riflessiva che porti nuove suggestioni all’organizzazione. E se, da una parte, sottolineano la dimensione formativa che l’esperienza della ricerca partenariale costituisce per lo studente in Scienze della Formazione (come “esercizio di autonomia” ed “opportunità formativa”), dall’altro ne evidenziano le ricadute formative per l’organizzazione stessa. Il confronto con l’altro più che opportunità di scoperta dell’altro, in questo caso l’università, sembra delinearsi come opportunità di osservazione di sé e delle proprie dinamiche organizzative. È da sottolineare che nel Progetto PARIMUN il rapporto con l’università è indiretto e mediato dal ricercatore. È infatti il laureando a gestire la relazione con l’organizzazione e a mediare quella tra università e impresa. Il rapporto tra i due committenti risulta invece occasionale e discontinuo e può concretizzarsi in momenti di incontro esclusivamente nelle fasi cruciali della ricerca: al suo avvio, ad esempio, per formulare le domande di
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Fig. 3: Riflessioni sulle peculiarità del ruolo di studente-ricercatore
indagine e chiarire pienamente il fabbisogno dell’organizzazione, o in chiusura, in sede di restituzione dei risultati. In effetti, tra le criticità evidenziate, le organizzazioni segnalano che il rapporto dell’organizzazione è con il ricercatore in senso stretto più che con l’università, esplicitando una richiesta di maggior prossimità con i docenti supervisori. Le organizzazioni vedono proprio in un accorciamento della distanza università-imprese e in un rapporto più diretto tra le due (e meno mediato dal ricercatore dunque) uno dei possibili sviluppi della ricerca partenariale e di PARIMUN confidando, peraltro, in un maggiore coinvolgimento della direzione aziendale negli aspetti metodologici oltre che un maggiore coinvolgimento di tutto il personale aziendale nella condivisione degli stati di avanzamento della ricerca. Si tratta di azioni di miglioramento che, secondo le organizzazioni, potenzierebbero la già rilevante “sensibilizzazione alla concretezza” promossa dalla ricerca. Tra gli elementi di innovatività del progetto (fig. 4), l’organizzazione, infatti, rileva la centralità di un primo avvicinamento tra università e territorio oltre al fatto che l’università promuova ricerche che partono da un “bisogno aziendale” evidenziando come questo incrocio di interessi e bisogni sia consolidato nell’ambito della ricerca industriale e applicata ma ancora poco diffuso in ambito umanistico.
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Fig. 4: Riflessioni sugli elementi di innovatività della ricerca partenariale
Grazie all’opportunità della ricerca condivisa “l’università va verso il mondo reale”, sostengono i referenti aziendali; si avvicina al mondo del lavoro e può “mettere in pratica” la sua teoria poiché, come diceva Lewin, “research that produces nothing but books will not suffice”, certo che al momento teorico dovesse intrecciarsi il momento dell’agire (1948, p. 203). La ricerca partenariale così promossa ha “valore per il Paese” oltre che “valore etico” e riconosce un nuovo ruolo allo studente, un “ruolo innovativo” (fig. 4) che, come già anticipato, non è incasellabile nelle comuni e ormai consolidate esperienze di stage e tirocinio, né di apprendistato in azienda, entrambe miranti ad una dimensione professionalizzante e di orientamento al lavoro (Neyrere, Friso, op. cit.) che nell’esercizio della ricerca empirica nelle organizzazioni viene ampliato dallo sviluppo di un’attitudine, responsabile, alla ricerca autonoma, come la definisce Nussbaum (op. cit.). Il fabbisogno che emerge dalla parte delle organizzazioni implicate in PARIMUN sollecita una riflessione sulle pratiche e richiama quel ruolo di professionista-ricercatore tanto caro a Schön e al suo interesse verso un superamento del “solco tra università e professioni, tra ricerca e pratica, tra pensiero e azione” (1993, p. 25). “Nel momento in cui tanto la prassi organizzativa quanto la ricerca accademica sono concepite come forme di indagine, è possibile riarticolare la visione tradizionale del loro rapporto in modo tale da promuovere sia conoscenze utilizzabili sia ricerche “robuste”. Non si penserà più a questo rapporto nei termini di un’applicazione da parte dei professionisti delle conoscenze prodotte dai ricercatori, bensì in quelli di una collaborazione tra indagatori che svolgono ruoli differenti e
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si basano su competenze e metodi differenti ma complementari”. Le parole di Argyris e Schön (1998, p. 47) riassumono efficacemente le finalità della ricerca partenariale promossa da PARIMUN e le richieste mosse dai referenti aziendali di un avvicinamento tra università e imprese. In questa direzione l’indagine consente di tracciare alcune linee di riflessione rispetto al ruolo rivestito dalle organizzazioni nella ricerca accademica e dal contributo che la ricerca, condotta da laureandi nell’ambito delle Scienze dell’Educazione e della Formazione, può ad esse apportare. Innanzitutto si delinea un possibile ruolo “formativo” dell’organizzazione. La ricerca partenariale, come anticipato, coinvolge l’organizzazione implicandola in un rapporto nuovo con l’università rispetto al consolidato ruolo di supervisione aziendale rivestito nelle tradizionali convenzioni di stage. Non a caso i referenti intervistati evidenziano l’onere costituito dall’accompagnamento del ricercatore e dall’investimento di tempo che questo comporta, ma sottolineano al contempo il “ruolo innovativo dello studente” e il “taglio di ricerca-consulenza” proprio della presenza dello studente PARIMUN in azienda (fig. 4). Il ruolo formativo dell’organizzazione è rilevante nella realizzazione di una ricerca quanto quello dell’università. La scarsa implicazione dell’uno o dell’altro committente è parimenti sfavorevole per la buona riuscita di un progetto di ricerca. Emerge inoltre la centralità rivestita dalla ricerca come opportunità di riflessione e di analisi delle pratiche. I referenti aziendali riportano chiaramente come PARIMUN divenga opportunità per l’organizzazione di “fermarsi a riflettere su come lavora”, “di approfondire temi strategici” mediante un’esperienza progettuale che vede l’università e l’impresa equamente coinvolte in un processo a “doppia valenza”, “costruttivo”, “strategico”, in cui è centrale la “negoziazione” (fig. 4). Università e azienda sono chiamate dunque ad operare in regime di complementarietà. Come ribadiscono ancora una volta Argyris e Schön il ricercatore “si unirà ai professionisti nelle loro organizzazioni e collaborerà con loro nella conduzione dell’indagine progettuale” e nello stesso tempo cercherà di acquisire consapevolezza e di aiutare i professionisti a divenire consapevoli a loro volta (op. cit., p. 64). Gli autori sottolineano, infatti, la centralità dell’acquisire consapevolezza per i professionisti e per gli stessi ricercatori. I professionisti, in particolare, immersi nell’azione e nella quotidianità aziendale possono trovarsi incapaci di esplicitare la conoscenza relativa all’azione; possono non scorgere dati che risulterebbero visibili ad uno sguardo esterno ma che risultano a loro opacizzati dalla quotidianità e dal focus sul business e sull’operatività; inoltre, evidenziano gli autori, queste stesse “dinamiche quotidiane” possono impedire loro di assumere una visione di più ampio respiro, che l’operatività costringe invece al breve termine del risultato immediato dell’azione. È qui che portano il loro contributo i ricercatori junior, favorendo “l’esplicitazione sistematica di tutto ciò che normalmente rimane implicito” (Munari, 2010, p. 54) e fornendo al personale dell’impresa l’opportunità di una figura esterna che porti nuove suggestioni e costringa all’interrogazione e alle conversazione grazie agli strumenti propri della ricerca in educazione e formazione che invitano alla riflessione e alla presa di consapevolezza. Si pensi, ad esempio, a strumenti quali l’intervista di esplicitazione (Vermersch, 2005) e l’intervista narrativa (Atkinson, 2002) e alle occasioni di riflessione promosse dalla restituzione di osservazioni e analisi dei dati su esperienze relative ai processi di change mananament, alla formazione esperienziale in impresa, al ruolo della formazione nel family business e nel passaggio generazionale, alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, per attingere solo ad alcuni degli ambiti di studio e di ricerca presi in considerazione dalla ricerche elaborate nell’ambito del progetto PARIMUN. Sono
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proprio le dimensioni psicologiche, antropologiche, culturali e formative a cui le ricerche PARIMUN sono interessate, a costituirne un elemento di peculiarità e una leva sulla quale agire affinché le organizzazioni possano trarre dai lavori realizzati spunti e opportunità di auto-osservazione e riflessione. Un ulteriore elemento emergente dall’indagine ha a che vedere con quella che potremmo definire “curiosità metodologica”, intesa etimologicamente come cura dei criteri metodologici che nella ricerca partenariale vengono a sommarsi a quelli organizzativi. Dalle interviste ai referenti aziendali emerge la richiesta di un maggior coinvolgimento negli aspetti metodologici e nelle fasi di raccolta ed analisi dei dati oltre ad un maggiore coinvolgimento del personale di tutta l’impresa. Il ricercatore junior è invitato a muoversi in un regime di trasparenza, prendendo accordi con la direzione dell’impresa e annunciando il suo lavoro e la sua presenza nel contesto organizzativo, ma ciò pare non soddisfare pienamente tale richiesta di partecipazione che invita dunque ad elaborare una nuova unità di misura della vicinanza e dello scambio dei due committenti. Come già anticipato, non va dimenticato che la ricerca nell’ambito delle Educational Sciences tocca la risorsa-persona e ogni strumento di indagine elaborato deve con attenzione e delicatezza inserirsi negli equilibri aziendali. È dunque fondamentale promuovere la condivisione degli strumenti e delle loro finalità e accordare tempi e modalità di somministrazione per assecondare una legittima richiesta di trasparenza e condivisione. Un ulteriore avvicinamento tra università e impresa intorno a scelte e criteri metodologici può infatti fornire alle organizzazioni l’occasione per comprendere meglio come agisca l’università nella ricerca accademica e da quali finalità vengano guidate le sue proposte metodologiche. Infine, un ultimo aspetto emergente riguarda le priorità reciproche di impresa e università. Ciascuno dei due interlocutori coinvolti nella ricerca partenariale, infatti, ha modo di cogliere le priorità dell’altro soggetto coinvolto e di confrontarsi con esse. Che cosa l’università osserva e coglie primariamente nell’agire aziendale? E che cosa l’impresa osserva e coglie nell’agire accademico? Questo scambio di sguardi risponde alla richiesta dei referenti aziendali di avere a propria disposizione uno “sguardo esterno, lucido”, “una persona terza che ti guarda dentro” e che smuove inevitabilmente l’ordine consolidato delle priorità costringendo ad un “rapporto di scambio” e ad un “impegno biunivoco” (fig. 4). Riprendendo Nussbaum, la ricerca partenariale pare rappresentare per l’università e per le Educational Sciences in particolare, una strategie innovativa per offrire agli studenti l’opportunità di “interrogarsi sui problemi del mondo reale” (op. cit., p. 82), quegli stessi problemi che saranno chiamati ad affrontare quando entreranno a pieno titolo nel mercato del lavoro. Al contempo, la testimonianza dei tutor aziendali, evidenzia come essa possa costituire per le imprese un’opportunità di presa di “consapevolezza della realtà nella quale si trovano ad operare” (Munari, 2011, p. 20). La ricerca partenariale pare offrire così a tutti gli interlocutori coinvolti un’occasione di interrogazione, di conversazione e di esplicitazione, in una parola, di dialogo tra università e business.
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TGM e Scuola Primaria. Possibili correlazioni tra abilità grosso-motorie e profitti disciplinari Filippo Gomez Paloma - Università degli Studi di Salerno - fgomez@unisa.it Laura Rio - Università degli Studi di Salerno Domenico Tafuri - Università degli Studi di Napoli “Parthenope” - tafuri@uniparthenope.it
TGM and Primary School. Possible correlations between gross-motor skills and school marks Today, gradually, it has come to the conviction that it could not study the mind without taking into consideration the fact that it is strongly influenced by the brain, and especially from the body. Over the last fifteen years, in various research fields there was a proliferation of studies about “embodied” cognition, ie the emerging view that considers cognitive processes deeply rooted in the interaction of the body with the world. Starting from this theoretical framework, the aim of this work was to descend in the educational context and check for possible correlations between motor skills and school marks of the first quarter of disciplinary pupils belonging to five different age groups. For a sample of 200 students were administered the TGM (Test of Evaluation of gross motor skills, Dale Ulrich, 1992) and the results were statistically analyzed according to Pearson and Spearman’s coefficient. The results showed, although not always with particularly significant indices, since the sample relatively low, some interesting positive correlations between these two macro-variables, opening up some interesting reflections on the introductory basis theories.
Parole chiave: Embodied Cognition, abilità grosso-motorie, TGM, voti profitto, Scuola Primaria
Keywords: Embodied Cognition, grossmotor skills, TGM, school marks, Primary School
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Oggi, pian piano, si è giunti alla convinzione di non poter studiare la mente senza tener conto del fatto che essa è fortemente influenzata dal cervello e soprattutto dal corpo. Negli ultimi quindici anni, in diversi campi di ricerca si è avuto il proliferare di studi sulla cognizione “embodied”, ossia la visione emergente che considera i processi cognitivi profondamente radicati nell’interazione del corpo con il mondo. Partendo da questo quadro teorico introduttivo, l’obiettivo del lavoro è stato quello di calarsi nel contesto educativo e verificare la presenza di possibili correlazioni tra le abilità motorie e i voti di profitto disciplinari del I quadrimestre di alunni appartenenti a cinque fasce d’età differenti. Ad un campione di circa 200 alunni è stato somministrato il TGM (Test di Valutazione delle abilità grossomotorie, Dale Ulrich, 1992) al termine delle attività svolte durante il I Quadrimestre e i risultati sono stati analizzati statisticamente secondo gli indici di Pearson e Spearman. I risultati hanno dimostrato, seppur non sempre con indici particolarmente significativi, trattandosi di un campione relativamente basso, alcune interessanti positività di correlazione tra queste due macrovariabili, aprendo delle interessanti riflessioni sulle teorie introduttive di base.
TGM e Scuola Primaria. Possibili correlazioni tra abilità grosso-motorie e profitti disciplinari
Introduzione
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Fino al ventennio scorso, l’approccio più significativo nell’ambito della scienza cognitiva intendeva la mente come il software di un computer, nel senso che si riteneva importante analizzarne solo il funzionamento, senza indagare le relazioni che potevano esserci con l’hardware, il cervello e il corpo (Borghi, Iachini, 2002). Oggi, pian piano, si è giunti alla convinzione di non poter studiare la mente senza tener conto del fatto che essa è influenzata dal cervello e soprattutto dal corpo. Allo stesso tempo, si è andata creando una forte relazione tra tre processi fondamentali che precedentemente sono stati costantemente scissi l’uno dall’altro, ossia la percezione, l’azione e la cognizione: Susan Hurley nel 1998 considerava la mente come un “sandwich mentale”, in cui la percezione e l’azione sono considerate marginali rispetto alla cognizione, intesa come la polpa. Secondo questa teoria la mente è, appunto, considerata come un sandwich con due estremità poco proteiche, il sensoriale ed il motorio, e con al centro la carne, ovvero i processi cognitivi. Negli ultimi quindici anni si è avuto il proliferare di studi e ricerche sulla cognizione “embodied” e “grounded”, senza tralasciare l’impostazione della tradizionale scienza cognitiva che risulta di difficile scomparsa. Difatti non esiste una sola teoria “embodied”, ma ne esistono diverse: alcune evidenziano l’importanza radicale dell’esperienza e della percezione, altre quella del corpo e dell’azione. A seconda della preminenza dell’una o dell’altra, ci troviamo di fronte a due modelli principali di Embodied Cognition (anche se esistono delle forme miste). Nel caso prevalga la valorizzazione della percezione, parliamo di modello “fenomenologico”, nel caso in cui prevalga l’azione motoria parliamo, invece, di modello “pragmatico”. Diversi studiosi, anche contemporanei, hanno dato maggiore adito alla logica della percezione: si pensi alla “Fenomenologia della Percezione” di Merleau-Ponty nel 1945, l’analisi del tatto di Husserl nel 1952, fino ad arrivare al recente primato riscontrato nelle citazioni di Gallagher e Zahavi (2009). Diversa è, invece, la logica adottata dal modello pragmatico, dove la supremazia dell’azione può essere rivista secondo differenti chiavi di approccio: parliamo, ad esempio, del pragmatismo americano (Dewey, 1949) che intende i concetti non come semplici rappresentazioni di oggetti, ma come l’insieme delle istruzioni utili all’interazione con gli oggetti finalizzati all’azione (Caruana, Borghi, 2013); parliamo, ancora, dell’approccio ecologico di Gibson, basato principalmente sul concetto di “affordance”, ossia l’insieme delle qualità fisiche di un oggetto che suggeriscono a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo. Ogni oggetto possiede le sue affordance, così come le superfici, gli eventi e i luoghi. L’individuo non percepisce solo una copia di ciò che il mondo esterno gli rimanda, ma capta una serie di informazioni di alto ordine utili alla sua azione (Gomez Paloma, 2013). L’ultimo filone teorico, recentemente riscoperto, è quello del comportamentismo logico di Gilbert Ryle, secondo cui la mente non è un’arena interiore, un teatro in cui vengono proiettati tutti gli input sensoriali e per-
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cettivi, così come voleva Descartes, piuttosto la mente è ciò che il corpo fa, l’atto esterno come risposta o disposizione a rispondere ad uno stimolo specifico (Ryle, 1976). Ritornando al significato specifico dell’etichetta “Embodied Cognition”, nel corso degli ultimi anni sono state suggerite delle precisazioni terminologiche, che hanno dato una maggiore chiarezza al significato principale: Fischer nel 2012 organizza in modo gerarchico le nozioni di cognizione “grounded”, “embodied”, “situated” ed “enacted”. Nonostante vengano utilizzate in modo commutabile, queste etichette celano al loro interno delle posizioni teoriche differenti. Il termine “grounded” ha al suo interno il richiamo al vocabolo “ground”, suolo, precisando che i processi cognitivi non si esauriscono solo nell’importanza degli stati corporei (embodied) necessari alla cognizione, ma anche ai vincoli del mondo fisico che includono “anche” il sistema sensorimotorio. Barsalou (2010) non a caso afferma che i processi cognitivi sono molteplici e includono non solo simulazioni, ma azioni situate (situated) ed anche stati corporei. L’enattivismo, infine, pone al centro della sua riflessione la percezione, intesa come un particolare tipo di attività esplorativa, basata su solidi rapporti causali tra i diversi domini di esplorazione. Concludendo, al di là delle diverse distinzioni terminologiche, è possibile associare il concetto di “grounded” all’idea di fondare i processi cognitivi su elementi sensoriali, quello di “embodied” e “situated” al recupero di elementi corporei e quello di “enacted” al dominio motorio (Caruana, Borghi, 2013). Diversi modelli sperimentati nel mondo hanno utilizzato la scuola di pensiero dell’Embodied Cognition come approccio scientifico alla didattica (in letteratura, musica, arte, tecnologia…). Ellen Esrock (2012), ad esempio, parla di “incarnazione nella letteratura e arte visiva” raccontando la particolare storia della lettura di un romanzo: l’autore si focalizza prima sulla descrizione della mano di una sarta che si muove seguendo le onde di un morbido tessuto, poi dell’osservazione del dipinto di una donna che ricama il suo fazzoletto. In entrambi i casi, dice Esrock, è come se fosse possibile percepire la tensione fisica delle dita o della proprietà tattile della stoffa, sentendosi in un qualche modo tuffato corporeamente in quella descrizione e osservazione. È come se stesse avvenendo una simulazione di ciò che è rappresentato con immagini o raccontato con parole. Leon van Noorden e Marc Leman (2012) parlano, invece, di cognizione musicale incarnata, vedendo la musica come esperienza basata sull’azione e sulla percezione. Non a caso, dicono gli autori, molte persone quando ascoltano la musica cominciano a far muovere il proprio corpo o parte di esso; questo per far presumere che è proprio attraverso il movimento che viene dato un senso alla musica. Inoltre, il tradizionale approccio alla cognizione musicale centrato solo sulla conoscenza e sull’analisi della struttura delle note (senza alcun riferimento al corpo) sta pian piano dissolvendosi, lasciando spazio ad un presente che costruisce la conoscenza proprio attraverso la fisiologia umana e il movimento in funzione di una virtù cognitivamente incarnata. Parallelamente alle recenti scoperte neuro scientifiche e psicobiologiche, sono state attuate una serie di modifiche legislative in campo educativo mostrando un forte interesse nell’importanza formativa del corpo e del movimento: basti pensare alle attuali Indicazioni Nazionali per il curricolo della Scuola dell’Infanzia e del Primo Ciclo d’Istruzione (2012). Già la Scuola dell’Infanzia mira a sviluppare gradualmente nel bambino la capacità di leggere e interpretare i messaggi provenienti dal corpo proprio e altrui, rispettandolo e avendone cura. Mira, altresì, a sviluppare la capacità di esprimersi e di comunicare attraverso il corpo per giungere ad affinarne le capacità percettive e di conoscenza degli oggetti, la capacità di orientarsi
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nello spazio, di muoversi e di comunicare secondo immaginazione e creatività. Nella Scuola Primaria, invece, l’alunno è condotto all’acquisizione di diversi schemi motori, al riconoscimento e valutazione di traiettorie e distanze, all’elaborazione ed esecuzione di semplici sequenze di movimento, alla partecipazione attiva alle varie forme di attività sportiva rispettando le regole di gioco e di comportamento. Nell’ottica di adottare il filone “Embodied Cognition” come paradigma psicopedagogico con il quale operare didatticamente, è necessario, inoltre, l’utilizzo di strumenti ben costruiti e standardizzati che includano abilità motorie di base. In ambito educativo l’attenzione non è tanto rivolta al raggiungimento di risultati di prestazioni motorie, bensì alla valutazione qualitativa della sequenza armonica dello sviluppo delle abilità grosso-motorie. La padronanza delle principali abilità grosso-motorie richiede infatti che il bambino sviluppi uno schema maturo di movimento e ciò è più importante rispetto ai risultati quantitativi espressi in termini di tempo, distanza e accuratezza della prestazione. Williams (1983) definisce lo sviluppo grosso-motorio come l’uso progressivamente sempre più abile della totalità del corpo in un’attività che coinvolge ampi gruppi muscolari e che richiede la coordinazione spaziale e temporale del movimento simultaneo di vari segmenti corporei. Lo sviluppo grosso-motorio riguarda prevalentemente abilità che sono usate per spostare il corpo da un posto all’altro (locomozione) e per muovere e prendere oggetti. Molti autorevoli studiosi concordano sul fatto che le abilità grosso-motorie si sviluppano in modo sequenziale (Gallahue, 1982; Robertson, 1984; Williams, 1983; Zaichkowsky, Martinek, 1980). È generalmente accettato che le persone progrediscano attraverso i vari stadi motori con un ritmo diverso, che dipende da fattori sia biologici che ambientali (Seefeldt, Haubenstricker, 1982). Seefeldt e Haubenstricker (1982) notano infatti che quando non sono ancora padroneggiati dei livelli adeguati di performance relativamente ad abilità e schemi grosso-motori fondamentali, le persone incontrano degli ostacoli che possono ridurre il loro potenziale di apprendimento in molte altre abilità più avanzate anche in ambiti diversi da quello motorio o sportivo.
1. Obiettivo Partendo da questo quadro teorico introduttivo, l’obiettivo del lavoro è stato quello di calarsi nel contesto educativo e verificare la presenza di possibili correlazioni tra le abilità grosso motorie e i voti di profitto disciplinari del I quadrimestre di alunni appartenenti a cinque fasce d’età differenti.
2. Metodo Il contesto in cui si è svolta questa ricerca (di tipo empirico) è quello scolastico di Nola (NA), selezionato in seguito ad un positivo feedback ricevuto da un precedente percorso di formazione con il dirigente e il personale docente del I Circolo Didattico. La scelta del campione è ricaduta su circa 200 alunni frequentanti l’istituto, appartenenti a cinque fasce d’età differenti (10 classi dalla 1° alla 5° Primaria aderenti al Progetto di Alfabetizzazione Motoria 2010/2013) e regolarmente autorizzati alla somministrazione dei test e all’accesso dei voti di profitto scolastici del I quadrimestre dai genitori di ciascuno.
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Con l’aiuto del docente esperto di Educazione Fisica, operante nel suddetto Progetto, è stato somministrato il TGM (Test di Valutazione delle abilità grosso-motorie, Dale Ulrich, 1992) al termine delle attività svolte durante il I Quadrimestre. Il test sullo sviluppo grosso-motorio è un test a somministrazione individuale, che valuta la funzionalità grosso-motoria di bambini di età compresa tra i 3 e i 10 anni. Il test misura 12 abilità grosso-motorie che sono frequentemente oggetto di insegnamento con bambini in età prescolare, nelle prime classi di scuola primaria. Le abilità sono raggruppate in due subtest, ognuno dei quali, attraverso degli items, valuta un diverso aspetto dello sviluppo grosso-motorio: la locomozione e il controllo dell’oggetto. Principi standard di somministrazione degli items – Compilare in modo appropriato l’apposita scheda di registrazione dell’alunno. – Far precedere la prova di valutazione da una accurata dimostrazione dell’item da parte di una persona abile e da una chiara richiesta verbale. – Far provare l’item così da accertarsi che l’alunno abbia capito bene cosa deve fare in quell’item. – Fornire delle dimostrazioni ulteriori quando l’alunno sembra non aver capito il compito. – Somministrare l’item che sarà valutato per l’attribuzione del punteggio. Criteri standard di attribuzione dei punteggi Ogni abilità grosso-motoria include tre o quattro componenti di esecuzione. In genere, questi criteri rappresentano uno schema maturo di esecuzione di quella abilità. Qui di seguito sono elencate le operazioni specifiche nell’attribuzione dei punteggi per ogni item. 1. Richiedere all’alunno di compiere tre prove di ogni item. 2. Osservare bene l’alunno mentre esegue la prova concentrandosi sulle modalità di esecuzione. 3. Nei casi in cui l’alunno esegue la prova in modo corretto due volte su tre, si segna «1» nella casella corrispondente, nella apposita colonna della scheda di registrazione. Nei casi in cui l’alunno non esegue quella prova o la esegua in modo corretto una sola volta, si segna «0». Elenco dei test TGM Dati Antropometrici (utili per riflettere su eventuali aspetti prestazionali che in questo caso non sono stati presi in considerazione) – Peso – Altezza Subtest 1: Locomozione Questo subtest misura le seguenti sette abilità: 1. corsa 2. galoppo 3. saltelli in avanti su un piede 4. balzi in avanti 5. salto in lungo da fermo 6. saltelli in avanti alternati su un piede 7. galoppo laterale
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Subtest 2: Controllo di oggetti Questo subtest misura altre cinque abilitĂ : 8. colpire una pallina con una racchetta da tennis 9. far rimbalzare una palla da fermo 10. ricevere con le mani una palla lanciata 11. calciare una palla correndo 12. lanciare una pallina con una mano Schede rilevazione dati
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Fig. 1: Schede rilevazione dati (Ulrich, 1992)
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Schede di conversione dei punteggi
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Fig. 2: Schede di conversione dei punteggi (Ulrich, 1992)
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Con l’aiuto di un docente referente è stato possibile accedere a tutti i voti di profitto degli alunni nelle diverse discipline (nel rispetto delle norme vigenti sulla privacy) per poter successivamente operare le possibili correlazioni in merito. Trattandosi di docenti diversi che potrebbero adottare criteri e parametrazioni differenti di votazione, per le correlazioni è stata effettuata una standardizzazione secondo cui: “voto standardizzato=(X-media)/DS”, dove X è il voto singolo dello studente per una materia, media è la media per classe di quella materia e DS è la deviazione standard. L’analisi statistica è avvenuta, invece, mediante due diversi tipi di indice di correlazione: il coefficiente di correlazione di Pearson, che esprime l’indice di una eventuale relazione di linearità tra due variabili statistiche, e l’indice di correlazione R per ranghi di Spearman, ossia la misura statistica non parametrica della correlazione che esprime un’eventuale relazione monotona delle variabili.
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Tab.1: Analisi descrittiva. Media dei voti degli alunni in tutte le discipline e nei due subtest.
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3. Risultati
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Tab.2: Correlazione tra le discipline e i subtest secondo lâ&#x20AC;&#x2122;indice di Pearson.
Tab.3: Correlazione tra le discipline e i subtest secondo lâ&#x20AC;&#x2122;indice di Spearman.
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Tab.4: Correlazione di Pearson tra le discipline e il subtest 1 per classe.
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Tab.5: Correlazione di Pearson tra le discipline e il subtest 2 per classe.
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Tab.6: Correlazione di Pearson tra le discipline e la media dei subtest per classe.
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Tab.7: Correlazione di Spearman tra le discipline e il subtest 1 per classe.
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Tab.8: Correlazione di Spearman tra le discipline e il subtest 2 per classe.
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Tab.9: Correlazioni di Spearman tra le discipline e media dei test con suddivisone delle classi
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4. Analisi e conclusioni Partendo dall’analisi della Tab.1, trattandosi di un’analisi statistica descrittiva, è stato possibile rilevare qualche indicazione sulla media generale del profitto degli alunni: essa oscilla tra il 7.739 della classe 4b (italiano) e il 8.805 della classe 2a (musica). Questo ha dimostrato che si tratta in primis di un range molto piccolo e che in genere i voti sono abbastanza alti per tutti gli studenti e tutte le classi. Inoltre riguardo i due subtest è stato possibile stabilire il valore medio più alto, ossia 19.247 per la classe 3a nel subtest 1 e 15.083 per la classe 1a per il subtest 2. La Tab.2 riporta i risultati dell’analisi statistica mediante il coefficiente di correlazione di Pearson tra i due subtest e le diverse discipline. Da questa analisi è stata rilevata una significativa correlazione tra le discipline di matematica, musica e scienze motorie con il subtest 1 (in realtà le discipline lo sono anche con il subtest 2 solo che i coefficienti di correlazione sono più piccoli e non statisticamente significativi); questo potrebbe essere giustificato dalla teoria del Decision Making (Iannello et al. 2007) che implica la necessità di un’analisi iniziale e una presa di decisione dell’eseguire una o più abilità grosso-motorie (appartenenti al subtest 1), analogamente a quanto avviene per le discipline di matematica (es. risoluzione di problemi) o musica (es. approccio ad uno strumento musicale o ad un nuovo spartito). Di matrice negativa è stata rilevata, invece, la correlazione con i voti relativi al comportamento: a voti più alti nel comportamento sono associati voti più bassi nei test di verifica. Una possibile spiegazione è che avere voti del comportamento alti è legato soprattutto all’avere un atteggiamento tranquillo (anche fisicamente). Se questo è vero, allora si potrebbe giustificare la correlazione negativa con i due subtest, i quali richiedono, invece, l’acquisizione di alcune abilità motorie che necessitano di esperienze attive e creative. Su questo punto potrebbe essere interessante riflettere su come nella scuola italiana il contraddittorio degli obiettivi e traguardi dell’educazione fisica delle Indicazioni Nazionali 2012 e il voto di condotta, inteso come tranquillità fisica e assenza di disturbo legato al movimento, ancora prevalgono nella cultura professionale del docente e dell’istituzione scolastica tutta (Siegel, 2001; Rosati, 2005; Gamelli, 2006). A conferma di ciò, anche l’analisi statistica secondo l’indice di correlazione per ranghi di Spearman (Tab. 3) ha riportato risultati analoghi alla Tab. 2. Le Tab. 4 e 5 mostrano un quadro differente dalle precedenti tabelle: mentre inizialmente l’analisi degli alunni era unica (come se si trattasse di una sola classe), qui le classi sono state analizzate separatamente: nello specifico, la classe 3a è significativamente e positivamente correlata con il subtest 1 in quasi tutte le discipline (tra le varie classi sono i coefficienti di correlazione più alti). Osservando la Tab. 5, un particolare spunto di riflessione è possibile per l’analisi avvenuta sulle classi prime (a e b): esse mostrano per il subtest 1 una correlazione positiva su tutte le discipline (anche se non significativa), mentre per il subtest 2 una correlazione negativa (sempre non significativa). Come citato precedentemente, i due subtest valutano abilità differenti ed essendosi rilevata una particolare correlazione con il subtest 1, che valuta le abilità di locomozione, è possibile ricollegarsi al fatto che gli alunni di fascia d’età minore siano pronti alle attività di movimento libero del corpo, ma non a quelle di interazione specifica con un oggetto. Fra i 3 e i 6 anni il bambino ha raggiunto le competenze di base motoria, ma è con il proseguire degli anni che evolve quanto ad equilibrio e coordinazione globale e fine (Le Boulch, 1999). Le Tab. 7 e 8 ripetono quanto già fatto nella Tab. 2, ma, come per le precedenti tabelle (5 e 6) l’analisi è avvenuta per classi separate e con un indice di correlazione diverso: Spearman. I risultati in generale hanno confermato le correlazioni della Tab. 2.
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Infine la Tab. 6 e 9 mostrano la stessa analisi delle Tab. 4 e 5 e Tab. 7 e 8, solo con riferimento alla correlazione tra le varie discipline e la media dei due subtest. Quest’ultima corrrelazione è risultata solo aggiuntiva dato che i valori hanno nuovamente confermato le precedenti riflessioni. A fronte di un quadro teorico introduttivo all’interno del quale in diverse forme è stata differenti volte ribadita l’importanza di una cognizione incarnata, ossia la visione emergente che considera i processi cognitivi profondamente radicati nell’interazione del corpo con il mondo, e di una analisi statistica correlativa dettagliata di quelli che sono i voti di profitto disciplinari del I quadrimestre di alunni appartenenti a cinque fasce d’età differenti e le abilità grosso motorie, considerate il primo gruppo di abilità acquisite dai soggetti nell’età evolutiva, le conclusioni sono alquanto positive e, quindi, promettenti. I risultati hanno dimostrato, seppur non sempre con indici particolarmente significativi, trattandosi di un campione relativamente basso, la positività delle correlazioni tra queste due macrovariabili. Per quanto riguarda le possibili prospettive future, esse ricadono proprio sulla scelta di un campione più alto per poter ulteriormente confermare i dati statistici qui ottenuti, e di fondamentale importanza sarebbero gli spunti di riflessione sul ruolo attivo del docente in questa “embodied mission”. Nell’azione didattico-comunicativa anche il ruolo del corpo del docente è fondamentale (Cozzolino, 2003): se la funzione cognitiva viene compiuta attraverso il sistema verbale, quella affettiva e dei rinforzi positivi è quasi del tutto svolta dal linguaggio corporeo mediante la postura, i gesti, lo sguardo, la distanza interpersonale e i segnali non verbali del parlato.
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Musica e transfer degli apprendimenti: apprendimenti musicali, abilità fonologiche e linguistiche nella scuola dell’infanzia Antonio Marzano - Università degli Studi di Salerno - amarzano@unisa.it Marta De Angelis - MIUR
Music and transfer of learning: learning music, phonological and language skills in kindergarten Studies on Music and Language have shown several relevant analogies (like, for instance, early sound perception, rhythm, pre-musical and pre-linguistic vocalization and the emergence of singing and speech) with respect to children’s learning process. This paper aims at describing the Transfer of Learning across Music and Language domains in early childhood in order to give children the opportunity to develop their potential (intended as latent qualities, abilities or attitudes) in Emergent Literacy. The defined approach has been to adopt Music Training as a tool to encourage children’s phonological skills. The main result of the in-depth analysis carried out with pre-school children shows promising results with respect to the improvement of the aforementioned skills. Lastly, this paper proposes the activation of interdisciplinary projects to enable children to develop skills in new fields (different from the experimented ones) by using Transfer of Learning also to prevent possible learning difficulties.
Parole chiave: didattica, transfer degli apprendimenti, educazione musicale, scuola dell’infanzia, consapevolezza fonologica.
Keywords: didactics, transfer of learning, music education, kindergarten, phonological awareness skills.
L’articolo nasce dall’ideazione comune dei due autori che, quindi, ne condividono l’impianto e i contenuti. Nello specifico, Antonio Marzano ha redatto il paragrafo 1, Marta De Angelis i paragrafi 2, 3. Entrambi gli autori il paragrafo 4. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Musica e linguaggio sono stati oggetto di numerosi studi che hanno mostrato significative analogie durante la loro acquisizione da parte dei bambini (percezione precoce del suono, ritmo, vocalizzi pre-musicali e pre-linguistici, l’emergere di canto e parola). Il presente articolo nasce dall’esigenza di descrivere un transfer degli apprendimenti tra musica e linguaggio nella prima infanzia affinché venga data ai bambini la possibilità di sviluppare appieno il loro potenziale nei settori della musica e dell’alfabetizzazione emergente. Il risultato principale dell’analisi effettuata con bambini frequentanti una scuola dell’infanzia nella provincia di Salerno mostra risultati promettenti per quanto riguarda il miglioramento delle suddette competenze. L’articolo, infine, propone l’attivazione di progetti interdisciplinari per consentire ai bambini di sviluppare le competenze in campi d’esperienza/discipline diversi da quelli sperimentati, utilizzando il transfer degli apprendimenti anche per prevenire eventuali difficoltà di apprendimento.
Musica e transfer degli apprendimenti: apprendimenti musicali, abilità fonologiche e linguistiche nella scuola dell’infanzia
1. Presentazione, ipotesi ed obiettivi
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Il transfer degli apprendimenti è una delle principali finalità educative che il sistema scolastico mira a raggiungere per migliorare in modo significativo la qualità del servizio erogato. I riferimenti sempre maggiori all’acquisizione di competenze spendibili nella vita reale (life skills) presuppongono infatti una rinnovata prassi metodologico-didattica che investe tutti gli ordini di scuola e i sistemi di vita del soggetto (formali, informali e non formali)1. Ciò premesso, una domanda da porsi è la seguente: quali sono le strategie che un insegnante può mettere in atto per favorire lo sviluppo di tali competenze? Da qui il rinnovato interesse per un concetto che deriva prettamente dalla psicologia ma che può essere di valido aiuto nel processo di insegnamento/apprendimento, ovvero il transfer. Tralasciando l’utilizzo che viene fatto del medesimo termine in ambito psicoterapeutico2, ci concentreremo sul transfer of learning, inteso come la “capacità del soggetto di applicare gli apprendimenti realizzati in una situazione ad altre situazioni simili o differenti” (Bosco, 2003, p. 130). Una delle principali caratteristiche del transfer è quella di realizzarsi grazie alla mobilitazione degli apprendimenti, riservando un ruolo determinante sia al soggetto che apprende (attivo organizzatore delle proprie conoscenze) sia ai processi metacognitivi messi in atto nel controllo e nella rielaborazione dei propri saperi (Cornoldi, 1995). Il termine è stato introdotto introdotto inizialmente nell’ambito della psicologia comportamentista afferente gli studi di Thorndike e Woodworth (1901). Secondo l’ottica behaviouristica, infatti, se l’apprendimento è considerato come un processo di modifica dei comportamenti per lo stabilizzarsi e il rinforzo di nuove associazioni tra stimoli e risposte, il transfer non è che lo spostamento di queste associazioni in situazioni nuove che condividono degli elementi in comune con le esperienze di apprendimento passate. L’elemento considerato per far sì che un apprendimento potesse essere generalizzato era infatti unicamente il numero di elementi comuni presente nei due compiti.
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A tal proposito ci si riferisce sia al documento OMS del 1993 Life skills education in schools (che illustra le competenze che portano a comportamenti positivi e di adattamento per rendere l’individuo capace di far fronte efficacemente alle richieste e alle sfide della vita di tutti i giorni), sia al quadro delineato dal Parlamento e dal Consiglio d’Europa del 18 dicembre 2006 (le competenze chiave per l’apprendimento permanente). Di rilevante importanza è inoltre la Proposta di Raccomandazione del Consiglio d’Europa del settembre 2012 sul riconoscimento dell’apprendimento non formale e informale, alla luce della strategia Europa 2020. In questo caso il termine si riferisce ad un processo psicodinamico per cui un soggetto trasferisce determinati sentimenti e modalità di relazione su una persona diversa da quella originaria rispetto alla quale erano sorti.
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Oggi sappiamo che questo dato da solo non basta per far sì che ci sia un transfer in tal senso. Se con il cognitivismo emerge necessità di considerare il processo di transfer come la capacità di ritrovare ed utilizzare in maniera funzionale le abilità necessarie per far fronte ad una nuova situazione (Ausubel, 1968), nella concezione costruttivista il ruolo del soggetto che apprende si apre ad orizzonti ancora più vasti, dando maggior rilievo anche a quelli che sono i contesti culturali e sociali in cui le informazioni vengono recepite (Jonassen, 1999). Anche se la conoscenza rimane intimamente legata all’azione e all’esperienza del soggetto sugli oggetti della realtà che lo circonda, il transfer non si esaurisce nell’assimilazione e nella rielaborazione di tali informazioni ma ne diventa soltanto il punto di partenza. La cognizione diviene situata (Resnick, 1996): non solo in un individuo ma anche in un contesto, in una cultura, in un gruppo di appartenenza, in una pratica sociale. Ci si interessa dunque al modo in cui l’individuo partecipa e contribuisce alla costruzione delle conoscenze collettive (Bereiter, Scardamalia, 2003) che fanno parte del proprio contesto di appartenenza, ma anche al modo con cui il contesto e le interazioni sociali nelle quali il soggetto è inserito condizionano i suoi processi cognitivi individuali. In questa prospettiva apprendere è partecipare ad un processo di co-costruzione del sapere, un processo circolare in cui le conoscenze vengono continuamente rivisitate, riorganizzate e reinterpretate in base ai nuovi input ricevuti (Frenay, 2004). Questo implica, in campo formativo, non soltanto che lo studente possiede un ventaglio di conoscenze e competenze organizzate e rievocate secondo personali associazioni, ma che questa organizzazione è condizionata dalle sue esperienze, dai suoi interessi, dai suoi stati emotivi, dalla sua motivazione, dal contesto socio-culturale di appartenenza e dalle sollecitazioni provenienti dal setting formativo. L’apprendimento acquista allora un senso nel momento in cui si creano realmente dei collegamenti tra esperienza passata ed esperienza presente, facendo dell’alunno un active learner. Si tratta di un meccanismo abbastanza complesso, sul quale influiscono molteplici variabili ma sulle quali l’insegnante può intervenire operando attraverso un’azione didattica di teaching for transfer. Perkins e Salomon (1992) indicano alcune importanti condizioni che devono essere presenti per realizzare un transfer degli apprendimenti: – pratica approfondita e diversificata: il transfer può dipendere da una pratica estesa della prestazione in relazione alle varietà contestuali in cui questa viene messa in atto. Più si è capaci di mettere in atto determinate conoscenze ed abilità in contesti diversi, più si sarà in grado di trasformarle in competenze evocabili in situazioni nuove; – astrazione esplicita: il transfer dipende anche dal grado di astrazione che gli studenti riescono a mettere in atto nella risoluzione di un compito. In questo caso la capacità di astrazione deriva dal trasferire analoghi principi di risoluzione da una situazione all’altra; – attivo auto-monitoraggio: la riflessione metacognitiva sembra promuovere il transfer di competenze. Mentre il processo di astrazione si concentra sulla struttura del compito di apprendimento, l’auto-monitoraggio si concentra sui propri processi di pensiero. L’azione metacognitiva porterebbe più facilmente i bambini a riconoscere quando utilizzare una strategia appresa in precedenza; – suscitare la mindfullness: il termine si riferisce ad uno stato generalizzato di vigilanza sulle attività che si è impegnati a svolgere, in contrasto con una modalità reattiva e passiva in cui cognizioni, comportamenti ed altre risposte
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vengono provocate automaticamente senza attivare una riflessione critica. La mindfullness sarebbe quindi omnicomprensiva e più generale rispetto ai processi metacognitivi, favorendone dunque la loro azione. Per fare ciò sarebbe preferibile stimolare la motivazione ed il coinvolgimento degli studenti, evitando che siano costretti a subire l’azione dell’insegnante; – utilizzo di metafore ed analogie: il transfer è facilitato quando il nuovo materiale è studiato alla luce di quello precedente che funziona da analogia o metafora. Conoscenze note su un vecchio dominio possono essere trasferite ad un dominio nuovo così da comprendere meglio ciò che si è appreso. Così, ad esempio, gli studenti potranno inizialmente capire meglio com’è fatto un atomo se lo si paragona ad un piccolo sistema solare, o potranno comprendere come lavora il cuore se lo si paragona ad una piccola pompa. Naturalmente bisogna verificare in anticipo la funzionalità e l’efficacia delle analogie che verranno proposte agli allievi.
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Un’altra strategia molto efficace è quella della decontestualizzazione e la successiva ricontestualizzazione di quanto viene appreso (Tardif, Meirieu, 1999). Questo processo avviene secondo tre fasi: la contestualizzazione dell’apprendimento, la sua decontestualizzazione, la successiva ricontestualizzazione. Naturalmente è necessario che questi interventi vengano inseriti in una specifica progettazione didattica che miri allo sviluppo di competenze da parte dell’allievo. Tessaro (2002) colloca il transfer degli apprendimenti in una più ampia “progettazione per padronanze”, la quale avrebbe proprio la funzione di proporre un approccio metacognitivo allo studio attraverso sette fasi didattiche: condivisione dei saperi naturali degli allievi, mapping, applicazione (learning by doing), transfer, ricostruzione, giustificazione, generalizzazione. In tal senso, Margiotta (1997) sostiene che “l’insieme delle competenze di ogni compito esperto può dare origine, durante il processo di insegnamento, a generalizzazioni progredienti delle conoscenze solo se si insegnano all’allievo anche le regole per allargare la conoscenza e per ripercorrere i processi che l’hanno determinata. La competenza allora raggiunge un suo livello di eccellenza, cioè una esperienza esperta che può definirsi padronanza” (p. 144). Come sottolinea Le Boterf (2000), dunque, “trasferire non significa trasportare un saper fare o una competenza come se si trattasse di trasportare un oggetto [...]. La trasferibilità non è da ricercare fra le competenze, i saper fare o le conoscenze del professionista, ma nella sua capacità di stabilire dei legami, di tessere dei fili, di strutturare delle connessioni fra due situazioni. […] La trasferibilità è una risultante piuttosto che una caratteristica primaria” (pp. 137-138). Con il meccanismo del transfer si sottolinea l’importanza di “poter/saper mobilitare” le conoscenze e le abilità acquisite da un dominio cognitivo all’altro qualora la situazione lo richieda. Emerge un’altra importante peculiarità: il transfer è caratterizzato da un forte grado di interdisciplinarità. In questa sede ci si intende soffermare sullo specifico contributo che l’apprendimento musicale può apportare non solo alla facilitazione degli apprendimenti in generale ma anche all’incremento di specifiche abilità. Infatti “il moltiplicarsi delle ricerche sul transfer dell’apprendimento musicale lascia intravedere il linguaggio musicale non soltanto come esperienza valida in se stessa, ma anche come strumento veicolare di atteggiamenti cognitivi altrimenti faticosi da assumere e da far accettare, in soggetti con stili cognitivi lontani dalle logiche tradizionali dei nostri apprendimenti scolastici” (Scaglioso, 2008, p. 210). L’educazione musicale, infatti, ben si presta all’incontro con le altre discipline: numerosi studi hanno evidenziato l’influenza che training mirati di educazione musicale possono avere sulle abilità di lettura, sul ragionamento lo-
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gico-matematico e quello spazio-temporale3.Una relazione che sembra essere, sul piano dell’efficacia didattica, molto promettente è quella tra linguaggio musicale e linguaggio verbale. Moreno (2011) ha dimostrato, attraverso uno studio sperimentale, che un training musicale di soli 20 giorni condotto su bambini in età prescolare riesce ad incrementare, nel 90% dei casi, le loro prestazioni su una misura di intelligenza verbale. Anche Bolduc (2008; 2009) ha verificato una correlazione significativa tra trattamento di informazioni musicali e linguistiche nella prima infanzia, mettendo in luce, attraverso ricerche sperimentali e quasi-sperimentali, gli effetti positivi e di facilitazione che training musicali apportano allo sviluppo delle abilità linguistiche, in particolar modo di quelle fonologiche. Miglioramenti significativi si riscontrerebbero anche nel lessico in bambini che partecipano a lezioni di musica, sia a scuola che nel privato (Piro, Ortiz, 2009). Cosa accomunerebbe allora musica e linguaggio? Innanzitutto trattasi di linguaggi, ovvero espressione della facoltà di esprimersi e di comunicare utilizzando codici autonomi per elaborare e trasmettere informazioni, e in quanto tali dotati di un proprio senso e di un proprio sistema di regole. Entrambi utilizzano dei simboli per significare una realtà altra, comunicandola al fruitore in maniera lineare e sequenziale (anche se la musica è lineare sia sul piano verticale che su quello orizzontale). Analogamente alla musica, poi, l’eloquio consiste di suoni: le unità linguistiche di base sono i fonemi mentre il corrispettivo musicale è dato dalle singole note o dai singoli accordi. Ulteriori parallelismi possono essere fatti per quanto riguarda la struttura della frase: come quella verbale può essere composta da due o da molte parole, allo stesso modo il discorso musicale è costituito da incisi, frasi, periodi. Parole e musica si combinano poi nel canto: d’altra parte anche il linguaggio ha una propria melodia intrinseca che può essere persa in caso di lesioni cerebrali focali, come nel caso della disprosodia (Henson, 1977). Brown (2000) parla di una vera e propria musilingua per evidenziare la correlazione filogenetica tra musica e linguaggio. Molte somiglianze sintattico-strutturali erano state notate già da Jackendoff e Lerdahl (1982), che ne hanno comparato gli elementi sintattici e prosodici. Patel e Daniel (2003) hanno evidenziato come queste siano rilevabili e connotate da cultura in cultura: la musica di una certa cultura rifletterebbe dunque il ritmo, il tempo e la fluidità del linguaggio di appartenenza. Per quanto riguarda il versante percettivo-fonetico, poi, musica e linguaggio condividerebbero due fenomeni quali la percezione categorica e la restaurazione fonemica (Aiello, 1994). Attraverso la restaurazione fonemica le aspettative semantico-lessicali o musicali prendono il sopravvento sull’analisi acustica di una sequenza riempiendo l’informazione mancante qualora uno stimolo sonoro o verbale venga interrotto e segmentato, facendolo avvertire come un continuum (ciò sembra suggerire anche che in realtà essi sono soggetti a molte delle regole percettive descritte dalla Gestalt). La percezione categorica, invece, fa sì che un continuo sonoro linguistico o musicale venga percepito in unità discrete (note, parole o fonemi). Sloboda (1995), rifacendosi agli studi di Chomsky e Schenker sulla struttura del linguaggio e della musica, sostiene inoltre che “i bambini sembrano avere una capacità naturale di apprendere le regole del linguaggio e della musica attraverso l’esposizione a degli esempi” e che “per la musica, come per il linguaggio, il mezzo naturale è uditivo-vocale” (pp. 51). Un intervento volto a sollecitare l’acquisizione del linguaggio nel bambino at-
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Per una rassegna completa, cfr. Biasutti, Marzano (2008).
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traverso apprendimenti di tipo musicale è auspicabile allora soprattutto nella scuola dell’infanzia, periodo in cui queste acquisizioni sono entrambe affidate ad un canale prevalentemente percettivo-uditivo. L’acquisizione delle regole grammaticali e dei sistemi di scrittura convenzionali avverrà infatti in seguito, a partire dalla scuola primaria. Si può dunque ipotizzare che “se i bambini iniziano a imparare la musica molto presto, prima di iniziare a leggere – elemento positivo per la plasticità cerebrale – essi potrebbero seguire la stessa sequenze di quando imparano a parlare. […] Una volta che il bambino prende possesso della musica che sta creando, è pronto per imparare a creare la notazione. Questo avviene spontaneamente quando il bambino inventa dei segni per aiutarsi a ricordare la musica che ha realizzato” (Parncutt, 2006, pp. 90-91). La contiguità, durante lo sviluppo ontogenico del bambino, tra a acquisizione del linguaggio verbale e acquisizione del linguaggio musicale, sembra attestarsi dunque ai seguenti livelli: percezione uditiva ed ascolto, produzione vocale, scrittura non convenzionale, ritmo, memoria uditiva e consapevolezza fonologica. Procediamo, seppur brevemente, ad una loro sintetica analisi. L’ascolto riveste un’importanza fondamentale nell’acquisizione del linguaggio (sia verbale che musicale) da parte del bambino. È il suono percepito il precursore di tutte quelle che saranno le manifestazioni riguardanti le espressioni vocali e la loro successiva traduzione in segno, nonché una delle prime esperienze percettive con le quali il feto si trova ad avere contatto già durante la gravidanza. È allora importante stimolare inizialmente il bambino nella discriminazione di suoni familiari, che fanno parte dei suoi contesti di vita quotidiana: questo per provocare in lui una motivazione all’ascolto che gli permetterà di focalizzare maggiore attenzione agli stimoli presentati. Sarebbe poi vantaggioso presentare fenomeni acustici che lo aiutino gradualmente nel riconoscimento di altezza, durata, intensità e timbro dei suoni, da svolgere sempre in situazioni pratiche e ludiche. Rientrano, quindi, in questa categoria giochi finalizzati alla discriminazione di suoni e rumori (mosca cieca sonora, diari, mappe sonore, ecc.), al riconoscimento dei vari timbri (di oggetti, di animali, di strumenti musicali, ecc.), alla lunghezza dei suoni e delle parole (corti/lunghi), alla loro altezza (alti/bassi) ed intensità (forti/deboli). La capacità di produrre ed emettere suoni, tipica sia del linguaggio verbale che del canto, è disponibile al bambino già dalla nascita. Le prime manifestazioni ed interazioni verbali sono in effetti contraddistinte da un ritmo ed una musicalità molto forte (Gordon, 1997). È allora importante prevedere specifici percorsi finalizzati ad enfatizzare anche le capacità vocali del bambino, senza però sottoporlo a sforzi inadeguati. Nella scuola dell’infanzia andrebbero, ad esempio, proposti semplici esercizi di preparazione respiratoria, gare di soffio attraverso cui i bambini possono cercare di far rotolare il più velocemente una pallina, esperienze corporee attraverso cui il bambino sperimenta la respirazione diaframmatica. Possiamo mettere poi in atto dei veri e propri esercizi vocali che serviranno anche per l’articolazione e la produzione linguistica. Per quanto riguarda l’esecuzione di canti, invece, sarà bene partire da quelli spontanei del bambino, da quelli vicini al contesto e al patrimonio culturale di riferimento, tenendo conto della naturale estensione vocale e perseguendo uno stretto rapporto tra lingua parlata e cantata. Le affinità tra ritmo verbale e ritmo musicale sono molte: nel primo ad ogni parola corrisponde una struttura temporale e di accento che influenza la parola stessa, il sintagma e la proposizione, ma anche nel ritmo musicale il periodo è un susseguirsi di accenti e di pause che vanno a formare delle sequenze di carattere temporale strettamente collegate alla melodia di un brano (Fraisse, 1957). È, d’altronde, proprio il ritmo (insieme alla discriminazione dei suoni) uno dei parametri
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attraverso cui il bambino riesce a distinguere la propria lingua dalle altre. Quest’ipotesi attribuisce un ruolo centrale alla sillaba: “infatti, il ritmo di una lingua dipende dall’organizzazione temporale delle sillabe” (Guasti, 2007, p. 75). Relativamente alla scuola dell’infanzia e al primo anno di scuola primaria andrebbero proposti giochi tesi a rafforzare un pensiero musicale pre-alfabetico per il quale l’impulso ritmico, tradotto soprattutto in gestualità e in reazione corporea, diventi il principale veicolo partecipativo e interpretativo dell’esperienza e dell’espressività musicale, attuando un transfer riguardante inizialmente la correlazione suono-gesto (Rosati, 2009)4. Per Dalcroze (1907), “è attraverso i movimenti del corpo intero che siamo in grado di realizzare e percepire i ritmi” (p. 30). Le pulsazioni e le pause di un ritmo musicale dovranno allora essere accompagnate da esperienze di carattere pratico e motorio che il bambino può compiere in associazione come, ad esempio, la presentazione di stimoli ritmico-verbali associati a sincronizzazioni di carattere ritmico-motorio su di un brano ascoltato o la suddivisione di parole in sillabe associata a gesti corporei (come un semplice battito di mani o con l’utilizzo di strumenti a percussione non intonata). La notazione utilizzata per rappresentare il linguaggio musicale è, nella scuola dell’infanzia, di tipo non convenzionale. Un percorso possibile per sviluppare la scrittura spontanea anche nel linguaggio musicale potrebbe partire dall’utilizzo di strumentini ritmici o altri materiali presenti in sezione per produrre effetti sonori di diversa durata (lungo/corto), intensità (piano/forte), altezza (acuto/grave), e chiedendo poi di tradurre graficamente su dei fogli ciò che ascoltano/eseguono. L’utilizzo delle immagini è fondamentale nella creazione delle prime partiture musicali da parte del bambino laddove, ad esempio, la maggiore o minore grandezza o lunghezza di un elemento rappresentato (un animale, un oggetto, ecc.) può corrispondere ad una diversa intensità o durata dei suoni. Il metodo della ritmica integrale di Laura Bassi (1940), facendo proprio leva sul bisogno di concretezza del bambino e sul suo bisogno di ancorarsi a situazioni reali, cerca di creare un metodo che associ la durata delle figure musicali (semibreve, minima, semiminima, croma e semicroma) a delle figure sagomate che abbiano significatività nella vita del bambino (come il papà, il cagnolino, il nonno, la bambina e la gru). La corrispondenza è data, in questo caso, dal numero dei passi che ognuno di questi soggetti rappresentati riesce a compiere in un determinato intervallo di tempo. I metodi di rappresentazione possono essere vari e disparati; l’importante è lasciare spazio alla creatività del bambino nell’atto di simbolizzazione e, al contempo, non cadere nel rischio di un’eccessiva semplificazione che impoverisca la complessità del discorso musicale (Delalande, 1984). Uno degli aspetti riguardanti il rapporto tra linguaggio parlato e linguaggio musicale interessa la capacità di discriminare, ritenere e classificare i suoni percepiti in memoria. Il primo canale di accesso dei fenomeni acustici nella nostra memoria è rappresentato dalla memoria ecoica (Huron, Parncutt, 1993). Per far sì che i dati vengano immagazzinati nelle memoria a lungo termine c’è bisogno di reite-
4
Rosati definisce questa come fase di ispirazione dalcroziana. Seguirebbero una fase di ispirazione kodalyana (da affidare soprattutto al successivo biennio della scuola primaria), una fase di ispirazione orffiana (per l’ultimo biennio della scuola primaria) ed una fase dell’analisi musicale e dell’apprendimento strumentistico (per gli alunni della scuola secondaria inferiore e superiore). Queste fasi, naturalmente, non vanno considerate come chiuse e un sistema rigido, ma come un orientamento per la costruzione di un curricolo musicale verticale.
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rarli e manipolarli attraverso la memoria di lavoro. Uno dei sottosistemi della memoria di lavoro è il magazzino (o loop) fonologico che è in grado di conservare per qualche secondo le tracce acustiche consentendoci poi di classificare gli stimoli percepiti grazie ad un meccanismo dedicato alla ripetizione sub-vocalica (Baddley, Eysenk, Anderson, 2011). In ambito musicale la capacità di richiamare e riascoltare mentalmente suoni che non sono più presenti fisicamente richiama invece il concetto di audiation (Gordon, 1997), processo che sarebbe alla base dell’attitudine musicale. Secondo Indefrey e Levelt (2000), gli esseri umani sarebbero poi in grado di mettere in atto una vera e propria partitura fonologica (phonological score) attraverso la quale effettuare un attivo monitoraggio del proprio linguaggio interno, operando aggiustamenti prima che la parola sia interamente pronunciata (laddove venga percepita come errata). Questi meccanismi implicano, però e soprattutto nel linguaggio verbale, la presenza di una consapevolezza fonologica5, ovvero della “capacità di identificare le componenti fonologiche di una lingua e di saperle intenzionalmente manipolare” (Pinto, 1993, pp. 69). La natura dei primi apprendimenti del bambino è di tipo implicito, procedurale, così come i primi apprendimenti linguistici (Taylor, 2005). Allo stesso modo la precoce discriminazione di suoni che fanno parte della lingua di appartenenza non indica la presenza di una consapevolezza fonologica. Questa capacità di discriminare i suoni delle parole e di riuscire a manipolarli in contesti lessicali diversi comincia ad emergere intorno ai due anni (Pinto, Bigozzi, 2002). Naturalmente si tratta di una sensibilità ancora immatura (rudimentary awareness6), a carattere spontaneo che, tuttavia, rappresenta l’inizio di una riflessione metalinguistica che sarà più attiva a partire dai 5 anni. Vi è in effetti un’evoluzione gerarchica nell’acquisizione della consapevolezza fonologica. Morais (1989) opera una distinzione tra consapevolezza fonologica globale e analitica: la prima riguarderebbe operazioni di riflessione fonologica sulla lingua da effettuare soprattutto sulla struttura sillabica delle parole (e sarebbe tipica dell’età prescolare), mentre la seconda sarebbe relativa alla struttura segmentale profonda del linguaggio, i fonemi, operando su di essi manipolazioni e classificazioni (in età scolare). Anche se le abilità richieste per una corretta alfabetizzazione sembrano essere molteplici (lessicali, semantiche, pragmatiche, ecc.), queste sono considerate come un prerequisito importante per l’acquisizione e la produzione del linguaggio scritto in quanto consentirebbero al bambino di instaurare uno stabile rapporto tra suono e segno, avviandolo ad uno stadio prettamente alfabetico, predicendo possibili futuri disturbi nell’ambito della letto-scrittura (Bradeley, Bryant, 1983; 1985; 1996; Frith, 1985; Orsolini et al., 2003; Boewy, 2005). La consapevolezza fonologica, in ambito educativo, va favorita attraverso specifiche attività quali, ad esempio, giochi di discriminazione uditiva e giochi con la veste sonora delle parole (differenziare le parole lunghe da quelle corte, segmentare le parole in sillabe, riconoscere le rime, ecc.).
5
6
Dobbiamo operare una prima distinzione tra fonetica e fonologia: “in generale, mentre la fonetica indaga il livello articolatorio e le caratteristiche acustico – percettive dei suoni emessi da un parlante, la fonologia studia la conoscenza dei suoni di una lingua, le regole di combinazione e le caratteristiche dei fonemi all’interno delle parole” (Cacciari, 2006, p. 65). Il termine è stato coniato da Chaney (1992) per indicare la presenza di un discreto livello di consapevolezza fonologica in bambini di 3 anni, rilevabile attraverso giochi di parole, di rima e di allitterazioni.
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2. La descrizione della ricerca L’indagine esplorativa, tenendo conto delle premesse fin qui presentate, ha avuto come principale obiettivo quello di verificare se le abilità fonologiche dimostrate rilevanti ai fini dell’apprendimento della letto-scrittura possano migliorare per effetto di uno specifico training a carattere ludico-musicale. A tal fine si è utilizzato un disegno pre-sperimentale a gruppo unico con pre-test che, pur non assicurando un sufficiente livello di validità interna, può tuttavia fornire informazioni significative per la verifica di “alcune ipotesi di azioni formative, per validare delle prove di verifica, per una scelta preliminare dei test statistici da utilizzare per l’analisi dei dati” (Notti, 2012, pp. 30-31). La ricerca si è articolata in quattro fasi ed ha avuto una durata complessiva di circa quattro mesi (febbraio-maggio 2013). Si è preliminarmente proceduto alla scelta di una scuola dell’infanzia della provincia salernitana e di una sezione della scuola mediante un campionamento a grappoli. La sezione risultava costituita da 22 bambini (11 femmine e 11 maschi) frequentanti l’ultimo anno di scuola dell’Infanzia (a.s. 2012-13) dell’Istituto Comprensivo “R. Nicodemi” di Fisciano (SA); all’inizio dell’indagine, l’età media era di cinque anni e mezzo. Individuata la scuola e la sezione, si è proceduto all’analisi del POF e della programmazione didattica della sezione per verificare quali attività venissero svolte, con particolare attenzione ai campi di esperienza I discorsi e le parole e Immagini, suoni, colori. Per quanto riguarda il primo campo di esperienza, non sono stati rilevati specifici percorsi volti allo sviluppo delle abilità fonologiche, tranne che per l’apprendimento di poesie e filastrocche in rima. I bambini hanno poi partecipato, durante l’intero l’anno scolastico, ad un percorso di prescrittura e prelettura per prepararsi al successivo ingresso nella scuola primaria. Le attività hanno riguardato quasi esclusivamente l’acquisizione di capacità visuo-percettive e grafo-motorie, privilegiando dunque il carattere esecutivo dei processi di letto-scrittura, e perseguendo obiettivi quali ricalcare i contorni delle immagini e delle lettere, scrivere il proprio nome, scrivere le lettere dell’alfabeto, decodificare semplici parole; il tutto attraverso l’utilizzo di schede operative e di un libro personale. Riguardo il campo d’esperienza dedicato alle immagini, ai suoni ed ai colori, non sono stati rilevati specifici percorsi riguardanti l’incremento delle attività percettivo-uditive né di produzione di semplici sequenze musicali attraverso strumentini o notazioni informali. La produzione esecutiva che è stata però contemplata è stata relativa all’espressione canora, realizzata attraverso un laboratorio di canto in orario extracurricolare che ha coinvolto tutte le sezioni della scuola. Per verificare il livello iniziale di alfabetizzazione emergente7 raggiunto dai bambini (secondo gli stadi di Ferreiro e Teberosky, 1979), si è proceduto prelimi-
7
“Con il termine di alfabetizzazione emergente si intende designare un processo cui concorrono varie modalità, tra loro distinte anche se interdipendenti: da un lato infatti il bambino, immerso in un universo pervaso dal codice scritto, nel quale vede persone per lui significative impegnate in comportamenti alfabetizzati, procede spontaneamente alla riflessione e alla formulazione di ipotesi sulle convenzioni del linguaggio scritto e sulle regole per decodificare segni scritti in rappresentazioni significative; dall’altro, dall’esterno, gli giungono sollecitazioni ad avviare alcune attività che, come il disegno o il far finta di leggere o scrivere, si fondano sul principio della simbolizzazione per cui qualcosa sta al posto di qualcos’altro ed è in grado di evocarlo” (Pinto, 2003, pp. 33-34).
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narmente a somministrare individualmente, nell’arco di quattro giornate, alcune prove estratte da Il Portfolio per la prima alfabetizzazione (Cisotto, 2011b). Attraverso queste prove, infatti, è possibile stabilire l’emergere del rapporto suono-segno insito nel processo di fonetizzazione della parola scritta (Cisotto, 2011a). Le prove consistevano in: scrittura spontanea di parole bisillabe (a struttura sillabica regolare); scrittura spontanea di parole trisillabe (a struttura sillabica regolare); scrittura spontanea di non parole sotto dettatura; scrittura facilitata di parole con gruppo fonologico iniziale. Sembra esserci un profondo divario tra i bambini della sezione: poco più della metà (13 allievi) sembra aver già raggiunto un livello alfabetico con una corretta padronanza della trasformazione grafema- fonema, mentre 9 di essi (42%) è ancora ad un livello presillabico e non in grado, quindi, di intuire le corrispondenze tra suono e segno scritto. Si è proceduto, nei giorni successivi, a somministrare, sempre individualmente, il CMF (Test di Valutazione delle Competenze Metafonologiche8), relativo al grado di consapevolezza fonologica globale posseduto dai bambini a livello prescolare. La batteria è composta da sei prove:
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1. 2. 3. 4. 5. 6.
sintesi sillabica; discriminazione tra coppie minime di parole (uguali o diverse); ricognizione di rime; discriminazione tra coppie minime di non parole (uguali o diverse); riconoscimento della sillaba iniziale di parola; segmentazione sillabica.
Prima di procedere alla descrizione delle prove e all’analisi dei risultati, nella prossima tabella (Tab. 1) si riportano, in sintesi, i dati emersi dalla prima somministrazione del CMF.
Percentile1 < 5° 5° - 10° 11° - 25° 26° - 50°
Tot.
Prova
1
2
3
25% 17% 58% 100%
17% 33% 50% 100%
27% 37% 9% 27% 100%
4
5
6
18% 9% 37% 36% 100%
27% 18% 18% 37% 100%
9% 9% 64% 18% 100%
Tab. 1: I risultati della batteria di prove CMF (pre-test)
La prova di sintesi sillabica consiste nel riferire al bambino alcune parole suddivise in sillabe con un intervallo tra una sillaba e l’altra di circa 1 secondo. Questo ha richiesto dunque un lavoro della memoria di lavoro e, in particolare, del magazzino fonologico, dato che il bambino deve essere in grado di reiterare a livello
8 9
Marotta, Ronchetti, Trasciani, Vicari, 2008. Nella validazione psicometrica del test gli autori, dall’analisi dei risultati ottenuti nel campione nelle diverse prove che compongono il test, hanno ritenuto opportuno utilizzare i valori percentili invece delle medie e delle deviazioni standard, assumendo come fattore di “rischio” le prestazioni inferiori al 5° percentile e considerando, inoltre, come prestazioni che richiedono una particolare attenzione quelle comprese tra il 6° e il 10° percentile.
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subvocale lo stimolo presentato per poi sintetizzarlo in un’unica parola. Dai dati emerge che poco più della metà dei bambini presi in esame si attesta intorno al 50° percentile, mentre gli altri sono tutti ad un livello inferiore. Non vi sono però casi di risultati inferiori al 5° percentile. La prova di discriminazione tra coppie minime di parole è strettamente inerente alle capacità di discriminazione uditiva del bambino: vengono infatti presentate (sempre in forma orale) delle coppie di parole che possono essere uguali (es. POLLO/POLLO) oppure contenere una piccolissima variazione fonemica iniziale (es. LANA/RANA). Il compito dell’allievo è di riferire se queste ultime sono uguali o diverse. Anche in questo caso soltanto una metà dei bambini riesce a raggiungere risultati tra il 26° e 50° percentile; non sono presenti risultati inferiori al 5° percentile. Nel prova di riconoscimento di rime, data una parola-stimolo, il bambino deve essere in grado di evidenziare, tra quattro opzioni target, la parola che fa rima con la precedente senza farsi confondere dai distruttori semantici o fonologici presenti. Durante questa prova viene fornito alle parole presentate anche un supporto visivo, così da non dover sforzare troppo il bambino nella rievocazione del materiale. L’andamento di questa prova ha evidenziato risultati poco soddisfacenti: il 27% presenta risultati addirittura inferiori al 5° percentile, prestazione considerata “a rischio”. La prova di discriminazione tra coppie minime di non parole presenta le medesime caratteristiche di quella inerente alla discriminazione della coppia di parole: l’unica variazione risiede nel fatto che questa volta la distinzione avviene tra coppie di non parole (ad esempio, PACA/BACA; PASE/PASE). Il bambino non può quindi operare sul materiale a livello semantico ma deve effettuare la sua scelta soltanto operando una discriminazione uditiva tra le due parole. Si sono evidenziati, in questo caso, risultati meno soddisfacenti di quelli relativi alla presentazione di coppie di parole: vengono riconosciute in modo corretto, infatti, soltanto nel 36% dei casi. Nella prova di riconoscimento della sillaba iniziale di parola, come per il riconoscimento di rime, vengono presentate al bambino una parola stimolo e tre parole target tra cui scegliere, di cui solo una di esse ha la medesima sillaba iniziale. Anche se il 37% di essi ha una prestazione buona la situazione rimane ancora molto disomogenea: si è rilevata, infatti, una percentuale pari al 27% di bambini che ha scarsi risultati nel riconoscimento sonoro delle sillabe. Nell’ultima prova, quella di segmentazione sillabica, la situazione rilevata sembra essere più omogenea. Essa può essere considerata inversa a quella di sintesi; in questo caso, infatti, è il bambino ad effettuare la suddivisione in sillabe di parole presentate “intere” dall’esaminatore. Ciò si può spiegare, almeno in parte, considerando che la scansione in sillabe è naturalmente più ritmica e quindi più agevole da compiere rispetto alle altre prove somministrate, seppur con qualche margine di errore. Nella prossima tabella (Tab. 2), si riportano i risultati dell’analisi descrittiva. L’elaborazione dei dati è stata effettuata considerando i punteggi conseguiti nelle sei aree della prova.
(n = 22) CMF (punt. max. 90)
Min.
Mass.
Media
Dev. Std.
CV
49
84
64.59
12.77
0.20
Tab. 2: Statistiche descrittive (pre-test)
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Nella fase successiva gli alunni sono stati impegnati in attività di training ludico-musicale. Il programma ha avuto la durata di 2 mesi (da inizio aprile 2013 a fine maggio 2013) con una cadenza bisettimanale ed una durata di 45 minuti circa per ogni incontro. Le attività del training, svolte tenendo conto dei suggerimenti proposti da Perkins e Salomon (1992) precedentemente presentati, hanno riguardato le seguenti aree di interesse: – – – –
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giochi di discriminazione uditiva e ascolto; giochi ritmici; produzione ed esecuzione di semplici partiture a carattere non convenzionale; giochi con la veste sonora delle parole.
Non sono state inserite nel training attività di carattere canoro, considerata la frequenza dei bambini a un Laboratorio di canto (giochi di riproduzione di suoni, esercizi di respirazione, canti per imitazione). Ogni attività è stata infine preceduta dalla recitazione di alcuni brevi frammenti melodici che servivano da preparazione ed invito alla concentrazione rispetto ai giochi da fare in seguito. Di seguito vengono brevemente descritte alcune delle attività relative alle dimensioni considerate in relazione agli obiettivi della ricerca. Attività 1 Iniziamo con la produzione di due suoni, uno piano e uno forte (con un tamburello e con la voce), facendo notare ai bambini la differenza. Quindi chiediamo a ciascun bambino, a turno, di produrre un suono forte e uno debole con uno strumento, o battendo semplicemente le mani fra loro o sul banco, oppure con la voce. Passiamo in seguito a delle esperienze di gioco collettive per l’acquisizione del concetto di intensità e la capacità di discriminare i suoni. Piano - forte: disponiamoci in cerchio, quindi diamo inizio al gioco chiamando un bambino per nome, forte o piano. Questo deve chiamare un compagno usando la voce in modo contrario a quanto abbiamo fatto noi (piano se è stato chiamato forte e viceversa). Il gioco continua secondo il principio del contrasto: chi è stato chiamato piano deve chiamare un compagno forte e viceversa, fino a quando non si conclude il cerchio. Attività 2 Testa, pancia e piedi10. Fra le diverse componenti del suono, l’altezza è forse quella che, almeno come termine, è meno facilmente acquisita da parte dei bambini. Infatti con tale termine traduciamo in termini spaziali ciò che in realtà è esclusivamente il risultato di una percezione sonora che, come tale, non ha un effettivo sviluppo nello spazio. Pertanto è particolarmente utile legare quest’attività di discriminazione delle altezze al nostro corpo. Cominciamo facendo ascoltare ai bambini due suoni di altezza molto diversa tra loro, utilizzando uno strumento o la voce. Chiediamo poi loro di toccarsi i piedi quando sentono il suono più basso, e di toccarsi la testa quando invece sentono il suono più alto. Quando ci rendiamo conto che i bambini hanno imparato ad eseguire correttamente questo gioco introduciamo un terzo suono, di altezza intermedia: quando i bambini lo sentono devono invece toccarsi la pancia. Riprendiamo poi il gioco a vari livelli di difficoltà
10 Tratta da Disoteo (1992).
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crescente, diminuendo la differenza in altezza dei suoni proposti e proponendoli secondo un moto ascendente e discendente (Fig. 1).
Fig. 1: Altezze sonore
Attività 3 Le andature degli animali11. Per organizzare dei giochi aventi come finalità l’acquisizione e la discriminazione di ritmi diversi, utilizzeremo le sillabe ritmiche associate ai passi degli animali. Queste sono infatti molto facili da memorizzare e possono essere pronunciate con la bocca, battute con le mani, sonorizzate con i piedi o con gesti-suono. Attraverso le sillabe ritmiche è possibile sonorizzare le andature come nella figura che segue (Fig. 2):
Fig. 2: Le sillabe ritmiche (da Silano, 2012)
Attività 4 I salti della rana12. Ogni bambino, a turno, si fingerà una rana e dovrà compiere tanti salti quante sono le sillabe ritmiche di cui è composto il nome che gli verrà indicato. Successivamente i bambini dovranno formare, attraverso l’utilizzo di letterine mobili, la parola che è stata scandita precedentemente, così da riconoscere le unità che costituiscono ogni sillaba ritmica (questo anche per favorire il passaggio dalla fase sil-
11 Tratta da Silano (2012). 12 Attività adattata da Centra (2012).
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labica a quella alfabetica). Dopo aver formato la parolina ogni bambino la trascriverà sul proprio foglio stando attento anche ad indicare, attraverso dei simboli (in questo caso dei cerchietti), il numero di salti di cui è composta ogni parola (Fig. 3).
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Fig. 3: Produzione dei bambini su parole e sillabe ritmche
Infine la parola formata viene riposta nello stagno a 2 o a 3 foglie, a seconda dei salti effettuati e quindi della maggiore o minore lunghezza che la contraddistingue (Fig. 4).
Fig. 4: lo stagno delle parole dei bambini
Attività 5 Prova di scrittura di altezze. Forniamo ai bambini dei fogli contenenti 8 lineette orizzontali. Dopodiché ascolteranno 8 item comprendenti due suoni di diversa altezza e dovranno collocarli correttamente al di sopra o al di sotto della linea tracciata (il suono più alto sarà segnato sopra la riga, quello più basso sotto) (Fig. 5).
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Fig. 5: una “partitura di altezze” prodotta dai bambini
Attività 6 Attenti al suono! Proponiamo dapprima degli item composti da due coppie di melodie, a volte uguali, a volte diverse. I bambini devono battere le mani quando sentono melodie uguali, non batterle quando sentono melodie diverse. Successivamente proponiamo lo stesso gioco concentrandoci però sui suoni prodotti dalle parole. Leggiamo lentamente una coppia di parole alla volta:
LANA/LANA MELA/VELA DENTE/DENTE PALLA/PALLA SALE/SOLE LIMONE/LIMONE CARTA/MARTA
MONTE/PONTE FATA/FATA CANE/CANE VINO/VINO CASA/COSA RIGA/DIGA MATITA/MATITA
Quando ascoltano parole diverse chiediamo loro se riescono a riconoscere la lettera che ha prodotto la variazione riportando il cambiamento sulla lavagna magnetica (Fig. 6).
Fig. 6: produzione dei bambini sulla lavagna magnetica
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3. Analisi dei risultati Nel mese di giugno, al termine del training a carattere ludico-musicale, si è proceduto alla ri-somministrazione del CMF13. Si presentano di seguito le risultanze emerse (Tab. 3). Nel post-test di sintesi sillabica si nota un sostanziale miglioramento delle prestazioni: scompaiono quelle inferiori al 10° percentile, mentre quelle tra l’11° ed il 25° passano dal 17% al 42%. Rimane invariato il range riguardante le prestazioni migliori che vengono raggiunte, anche in questo caso, dal 58% dei soggetti.
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Prova
Percentile
1
2
3
< 5° 5° - 10° 11° - 25° 26° - 50°
42% 58% 100%
17% 25% 58% 100%
7% 9% 34% 50% 100%
Tot.
4
5
6
8% 17% 8% 67% 100%
25% 8% 8% 59% 100%
49% 51% 100%
Tab. 3: i risultati della batteria di prove CMF (post-test)
Per quanto riguarda il riconoscimento di coppie minime di parole non si è invece riscontrato un sostanziale miglioramento. Rimane una percentuale pari al 9% di prove ancora al di sotto della media anche se c’è un aumento di prestazioni che si collocano tra il 25° ed il 50° percentile. Anche se i bambini erano spesso impegnati, durante la normale attività scolastica, nella ripetizione di poesie e filastrocche rimate, i risultati del pre-test, nella prova di ricognizione di rime, si sono rivelati poco soddisfacenti perché l’attività di ripetizione di rime era prodotta probabilmente in modo abbastanza inconsapevole. Dopo il training questa abilità di riconoscimento sembra essere migliorata, dato che i bambini hanno potuto soffermare maggiormente la loro attenzione su “come suonano le parole”. Mentre la maggioranza si attestava prima su livelli inferiori al 10° percentile, i risultati del post-test evidenziano una percentuale superiore al 50% dei bambini ha avuto dei risultati medio/buoni. Permane ancora, però, una piccola percentuale di prestazioni non soddisfacenti. Circa il riconoscimento minimo di non parole si evidenziano differenze significative soprattutto rilevabili negli allievi che sono passati da da livelli bassi a livelli medio-alti di prestazione (il 67%). Permangono ancora talune difficoltà da parte di qualche bambino. Anche se si sono riscontrati dei miglioramenti (le prestazioni tra il 25° ed il 50° percentile sono passate dal 37% al 59%), durante la prova di riconoscimento della sillaba iniziale i bambini continuano a compiere un certo numero di errori. A nostro parere, molto spesso gli allievi sono rimasti legati al dato percettivo rappresentato dalle immagini piuttosto che da quello prettamente so-
13 In sede di validazione psicometrica del test l’attendibilità test-retest è stata controllata su di un gruppo di bambini, scelti in maniera casuale, proponendo nuovamente l’intera batteria di prove prevista a distanza di circa un mese. Il valore del coefficiente di correlazione di Spearman è risultato molto elevato per tutte le prove (Marotta, Ronchetti, Trasciani, Vicari, 2008).
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noro. Migliori risultati sono stati rilevati in riferimento alla prova di segmentazione sillabica. Non sono stati rilevate prestazioni su livelli inferiori al 10° percentile ed il range di quelle migliori è passato dal 18% (pre-test) al 51% (post-test). I risultati del post-test fin qui analizzati sono in linea con quanto emerso dall’analisi descrittiva (Tab. 4). Il valore della media (pari a 74,95) sembra confermare un evidente miglioramento nelle prestazioni degli alunni mostrando, se confrontato con quanto emerso nel pre-test (cfr. Tab. 2), un significativo incremento del suo valore (oltre il 15%). Anche lo scarto quadratico medio fornisce interessanti spunti di riflessione. La dispersione dei dati è diminuita confermando una riduzione della loro variabilità; queste considerazioni sono rafforzate anche dalla diminuzione del valore del coefficiente di variazione (CV). (n = 22) CMF (punt. max. 90)
Min.
Mass.
Media
Dev. Std.
CV
58
88
74.95
9.41
0.13
Tab. 4: statistiche descrittive (post-test)
Al fine di verificare la significatività dei risultati ottenuti, considerate le procedure di campionamento dei soggetti coinvolti e l’indipendenza delle due rilevazioni svolte (effettuate con somministrazione individuale del CMF), è stato utilizzato il test parametrico della t di Student (t-test) per due campioni dipendenti (dati appaiati). I dati, elaborati con il software di analisi statistica SPSS 19.0 (con α = 0.05), sono riportati nella prossima tabella (Tab. 5). Differenze a coppie Intervallo di confidenza per la differenza al 95% Coppia 1
Post-test – Pre-test
Inferiore
Superiore
t
df
7.498
13.229
7.522
21
p-value (2-code) 0.000
Tab. 5: t-test per campioni appaiati
Il risultato del t-test (t = 7.522; p < 0.001), unitamente a quanto emerso dall’elaborazione statistica dei dati, sembra sostenere le nostre ipotesi iniziali: le abilità fonologiche dimostrate rilevanti ai fini dell’apprendimento della letto-scrittura possono migliorare per effetto di uno specifico training a carattere ludico-musicale.
Conclusioni L’indagine esplorativa oggetto del presente contributo ha evidenziato risultanze degne di interesse in relazione alle domande di ricerca. Va, innanzitutto, rilevato come il confronto dei dati del pre-test e del post-test mostra, in generale, un significativo e complessivo miglioramento per quanto riguarda le abilità fonologiche possedute/sviluppate dai bambini. I valori relativi alla riduzione della dispersione e della variabilità dei dati, poi, è incoraggiante. L’efficacia del training appare particolarmente elevata per le abilità di sintesi e di segmentazione sillabica, utili so-
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prattutto per quei bambini che si trovavano ad uno stadio pre-sillabico di alfabetizzazione. Gli alunni che avevano invece conseguito nel pretest prestazioni migliori hanno significativamente consolidato e sviluppato le loro abilità di consapevolezza fonologica generale, acquisendo maggiore sicurezza nel riconoscimento di rime e sillabe che prima utilizzavano a livello implicito. Se, come sostiene anche Pinto (2003, p. 199), la possibilità di accedere alla dimensione fonologica della lingua e di prestare attenzione alle proprietà sonore del linguaggio favorisce una efficace acquisizione delle regole formali di corrispondenza suonosegno, è fondamentale incoraggiare l’uso di metodologie mirate a favorire tale consapevolezza fonologica nei bambini in età prescolare. In tal senso, le differenze interindividuali riscontrate nei bambini di scuola dell’infanzia, soprattutto per quanto riguarda le abilità linguistiche, potrebbero essere colmate. Che ruolo ha la musica in questo processo? Nel caso specifico dell’indagine esplorativa da noi proposta, l’aver realizzato attività di carattere ludico-musicale ha comportato un triplice vantaggio. Innanzitutto quello di rendere piacevole ed accattivante l’acquisizione di abilità fonologiche attraverso una forma ludica e vicina al modo di vivere/agire del bambino. Il gioco, come il movimento e la comunicazione, deve assumere, quindi, forme naturali e culturali ricche di risvolti in campo didattico. Deve essere teso, da un lato, al potenziamento delle abilità mentali, reattive e psicomotorie degli alunni e, dall’altro, essere caratterizzato da specifici elementi di attivazione delle facoltà immaginative e mentali (legato cioè alle percezioni psicosensoriali ed alla psicomotricità). Gli aspetti musicali del linguaggio (ad esempio il ritmo, la prosodia e le caratteristiche acustiche), infatti, ci hanno fatto comprendere come questa disciplina può essere il mezzo più idoneo per favorire un transfer in tal senso; un transfer che inizialmente, come in questo caso, è stato caratterizzato da un minor grado di astrazione e da una azione facilitatrice dell’insegnante che suggerisce agli allievi le possibili analogie tra i linguaggi per sostenere apprendimenti significativi. In secondo luogo, l’analisi dei dati ha evidenziato un incoraggiante miglioramento dei livelli medi di prestazione degli alunni diminuendo, parallelamente, le differenze interindividuali. Il terzo vantaggio è stato quello di aver proceduto ad una rivalutazione e riconsiderazione in chiave formativa della disciplina. Attraverso questa indagine è emerso innanzitutto il suo valore interdisciplinare e formativo. Concordiamo, in tal senso, con Arcomanno (1998) quando afferma che “tutte le forme di comunicazione umana, l’espressione visuale, mimica, cinestetica, musicale […] hanno un ruolo importante nei processi di sviluppo della percezione, della socializzazione e per l’assimilazione delle esperienze, tanto quanto la lingua” (p. 185). In quest’ottica ci siamo orientati per attuare il percorso di sperimentazione che è stato fin qui descritto. Le evidenze sperimentali, inoltre, suggeriscono ulteriori prospettive di ricerca per/con gli insegnanti. Pensiamo, ad esempio, all’attivazione di progetti interdisciplinari, per favorire lo sviluppo delle abilità logiche dei bambini o, ancora, il potenziamento dei meccanismi di feedback uditivo (educazione dell’orecchio musicale e discriminazione/produzione fonemica). Pur nei limiti oggettivi legati al numero di allievi coinvolti e al disegno sperimentale utilizzato, ci sembra comunque di poter concludere affermando che i risultati a cui siamo pervenuti possono fornire utili elementi di riflessione: per aprire la strada ad un ventaglio di prospettive operative innovative, per migliorare l’azione didattica e la qualità degli apprendimenti. Una prospettiva, questa, che è (e dovrebbe essere) il fine ultimo di ogni (futuro) insegnante.
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Gli stereotipi etnico-sportivi negli studenti italiani: un’indagine nelle scuole secondarie della Provincia di Roma Mascia Migliorati – Università degli Studi di Roma “Foro Italico” – mmigliorati@sorrisinelmondo.it. Rafael Ramos Echazarreta – Comunità Autonoma de La Rioja (Spagna) – ramos.echazarreta@gmail.com Emanuele Isidori – Università degli Studi di Roma “Foro Italico” – emanuele.isidori@uniroma4.it Claudia Maulini – Università degli Studi di Roma “Foro Italico” – claudia.maulini@uniroma4.it
Italian students’ ethnic stereotypes in sports: a survey in secondary schools of the Province of Rome This research aims to find out whether adolescents attending Italian secondary school have ethnic stereotypes regarding physical activities and sport. The study was made by using a quantitative methodology based on the use of a questionnaire administered to a sample of 2401 students from schools of the Province of Rome, Italy. The results of this study have shown the presence of stereotypical ideas tied to ethnicity, and sports performance in these students, which highlights the need for a pedagogical analysis of the educational implications of these stereotypes.
Parole chiave: stereotipo, sport, razza, educazione, adolescenti, scuola.
Keywords: stereotypes, sports, race, education, adolescents, school.
Ringraziamenti Si ringrazia il Dipartimento dell’Educazione, della Cultura e del Turismo del Governo de La Rioja (Spagna) per il sostegno alla ricerca post-dottorale nelle istituzioni straniere (Risoluzione n° 365 del 24/02/2012) che ha permesso lo svolgimento di questa ricerca. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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ricerche
Questa ricerca ha come obiettivo quello di scoprire se gli adolescenti che frequentano la scuola secondaria di primo grado italiana presentano stereotipi etnici legati all’ambito delle attività motorie e sportive. Lo studio è stato realizzato con una metodologia di tipo quantitativo basata sull’uso di un questionario somministrato ad un campione composto da 2401 studenti delle scuole della Provincia di Roma. I risultati dello studio hanno evidenziato la presenza negli studenti di idee stereotipate legate all’appartenenza etnica e alla performance sportiva, rilevando la necessità di una analisi pedagogica delle implicazioni educative di tali stereotipi.
Gli stereotipi etnico-sportivi negli studenti italiani: un’indagine nelle scuole secondarie della Provincia di Roma
Introduzione
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Nonostante oggi il concetto di razza si consideri superato e non venga di fatto accettato dalla pedagogia interculturale, il dibattito su etnicità e sport appare ancora fortemente condizionato da riferimenti “razziali”. Numerose ricerche dimostrano che le opinioni, i sentimenti e le convinzioni legate alla “razza” operano sempre in modo impercettibile e forte e alimentano miti erronei come, per esempio, la credenza della superiorità nello sport di un gruppo etnico rispetto ad un altro, la predisposizione naturale in determinate discipline o l’incapacità di ottenere buoni risultati da parte di persone appartenenti a determinate etnie (Harrison L., 2001). Queste idee rappresentano degli “stereotipi”, ossia un insieme di credenze incomplete e generalizzate che una persona possiede verso un gruppo sociale determinato (Allport, 1954). Gli stereotipi non hanno un fondamento scientifico provato, ma si basano su costruzioni sociali. Questi giudizi, che sono interiorizzati dalla persona, sono estremamente rigidi e difficilmente modificabili per la capacità che hanno di autoriprodursi attraverso diversi meccanismi come quello della tendenza alla conferma delle ipotesi e la profezia che si autoavvera (Mazzara, 1997). Gli stereotipi possono indurre distorsioni sistematiche nel processo di elaborazione delle informazioni (Devine, 1989) e influiscono nella costruzione dei dati ambientali, delle interpretazioni e dei ricordi. In tal senso, essi costituiscono le aspettative che guidano la valutazione di ogni persona nei confronti degli altri e influenzano il comportamento verso di essi (Hamilton, Trolier, 1986). Le ricerche internazionali (Sailes, 1993; Hayes, Sudgen, 1999; Johnson, Hallinan, Westerfield, 1999; Burden, Hodge, L. Harrison, 2004; L. Harrison, Azzarito, Burden, 2004; C. K. Harrison, Lawrence, 2004; Sheldon, Jayaratne, Petty, 2007; Azzarito, L. Harrison, 2008; Hodge, Kozub, Dixson, Moore III, Kambon, 2008; C. K. Harrison, Lawrence, Bukstein, 2011) hanno evidenziato l’esistenza di stereotipi etnici presenti in ambito sportivo e legati al determinismo biologico. Uno di questi pregiudizi maggiormente diffusi è la credenza secondo la quale le persone nere sono “naturalmente” dotate per lo sport. Questi stereotipi sono stati alimentati nel corso del tempo dalle teorie nate per spiegare le differenti prestazioni sportive tra neri e bianchi (Wiggins, 1989; Miller, 1998). Decenni di speculazioni scientifiche sulle presunte migliori qualità degli atleti neri hanno forgiato il pensiero dell’intera popolazione e, nonostante non esistano prove certe sulla loro veridicità, la società americana, ad esempio, sembra averle fatte proprie (Hoberman, 1997). Le prime ricerche che hanno indagato la presenza di stereotipi in ambito sportivo risalgono alla seconda metà del secolo scorso, quando i successi degli atleti neri, soprattutto in alcune discipline, si stavano gradualmente affermando. Uno studio condotto da Harris e Ramsey (1974) non rivelava, negli studenti analizzati della scuola secondaria di primo grado, sostanziali differenze di percezione tra atleti di differenti gruppi etnici.
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I risultati dello studio di Biernat e Manis (1994) dei primi anni novanta, riferivano che gli uomini neri venivano percepiti più atletici rispetto ai bianchi. Devine ed Elliot (1995) mostravano che l’aggettivo “atletico” era il tratto più frequentemente attribuito agli afroamericani, con un consenso pari al 74%, fra 147 studenti bianchi dell’Università Wisconsin-Madison. Numerose sono le ricerche che hanno cercato di analizzare la presenza di credenze stereotipate legate al tema dell’appartenenza etnica in ambito sportivo negli studenti universitari e delle scuole secondarie di secondo grado, soprattutto statunitensi. Lo studio di Sailes (1993), condotto con l’obiettivo di analizzare le idee di 869 studenti universitari dell’Indiana University rivelava la presenza di credenze stereotipate riguardo il tema dell’etnia e dello sport. Credenze confermate dal successivo studio qualitativo di L. Harrison, Azzarito e Burden (2004), condotto su 25 studenti iscritti ad una università del sud-est degli Stati Uniti. Emerge dalla ricerca l’opinione del campione, secondo la quale gli atleti neri sono atleti migliori dei bianchi e l’idea che le differenze etniche nello sport siano soprattutto biologiche e naturali. Percezione confermata dallo studio condotto da Azzarito e L. Harrison (2008) con 28 studenti della scuola secondaria di secondo grado (13-14 anni) e un insegnante/allenatore sportivo del sud est degli Stati Uniti, che ha rivelato l’accordo degli studenti (soprattutto bianchi e maschi) con l’idea che i neri siano fisicamente superiori. Un’altra ricerca condotta da Hodge, Kozub, Dixson, Moore e Kambon (2008) ha evidenziato la tendenza del campione, costituito da 819 studenti di differenti gruppi etnici di sei scuole secondarie di secondo grado (età compresa tra i 12 e i 18 anni) negli stati del Midwestern degli Stati Uniti, ad essere tendenzialmente in accordo con le affermazione secondo le quali, in primo luogo, i gruppi etnici minoritari (tra i quali gli afroamericani) genererebbero atleti naturalmente migliori rispetto ai bianchi e, in secondo luogo, dominerebbero la maggior parte degli sport. Con il fine di approfondire la credenza riguardo la superiorità atletica dei neri e, nello specifico, le opinioni degli studenti universitari riguardo i motivi di successo degli atleti neri in alcune particolari discipline, C. K. Harrison e Lawrence (2004) hanno condotto uno studio qualitativo con un campione di 301 studenti universitari del Midwestern (Stati Uniti). È importante sottolineare come il 25% dei partecipanti alla ricerca si è mostrato in accordo con l’affermazione secondo la quale gli atleti neri sarebbero atleti “naturali” e ha motivato il loro particolare successo in discipline (quali ad esempio il football, il basket e l’atletica) con motivazioni biologico/genetiche, storico evolutive o con riferimenti alla struttura corporea e muscolare. L’idea che i neri siano atleticamente migliori, pervade il pensiero di molti studenti. I risultati di una ricerca (C.K. Harrison, Lawrence, Bukstein, 2011) condotta con 231 studenti universitari bianchi, hanno indicato che il 17% dei partecipanti ha fatto riferimento alla superiorità atletica dei neri dovuta a presunte differenze in alcuni componenti fisiche e fisiologiche quali i tendini, la massa muscolare, la percentuale di fibre muscolari e i livelli ormonali. I dati dello studio condotto da Sheldon, Jayaratne e Petty (2007), con un campione di 600 persone bianche, americane, di età compresa tra i 18 e i 90 anni, hanno indicato che il 74% degli uomini e il 65% delle donne crede che il contributo genetico possa spiegare la differenza percepita nelle prestazioni sportive. Il 33% per cento degli uomini e il 26% delle donne ha dichiarato che i geni spiegano molto o quasi tutto della differenza tra bianchi e neri nello sport.
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I risultati delle ricerche con gli studenti americani sono in sintonia con alcuni studi condotti anche in ambito europeo e, in particolare, inglese. In questo contesto risultano essere molto significative le ricerche che hanno analizzato la presenza degli stereotipi etnici sportivi nei professionisti dello sport. A tal riguardo, la ricerca, realizzata da Rasmussen, Turner ed Esgate (2005) risulta essere particolarmente importante perché ha evidenziato l’esistenza di credenze stereotipate nel contesto specifico della corsa. Lo studio, condotto con un gruppo di 36 studenti laureandi presso l’Università di Luton ha evidenziato la credenza della innata abilità atletica dei neri nella corsa veloce, anche nei futuri allenatori. Una ricerca più recente (Turner, Jones, 2007), svolta con allenatori di buona esperienza in ambito sportivo, ha condotto a risultati, nella fase qualitativa, interessanti. Dai commenti dei partecipanti sono emerse evidenti credenze stereotipate quali la maggiore predisposizione fisiologica dei neri per la corsa, la maggiore percentuale di fibre veloci, il legame forte tra gli afro-caraibici e la corsa in velocità. Dall’analisi delle ricerche internazionali, emerge come gli studi sulla relazione tra etnia e sport siano presenti soprattutto nel contesto anglosassone e come siano quasi completamente assenti nei Paesi dell’area mediterranea. Nel caso specifico dell’Italia, risultano insufficienti le ricerche che hanno analizzato la tematica degli stereotipi etnici nel contesto delle attività motorie e sportive e le sue implicazioni pedagogiche. I risultati di un recente studio (Migliorati, 2013) hanno mostrato la presenza, negli allenatori e negli studenti di Scienze Motorie della regione Lazio, di stereotipi etnici quali la credenza della superiorità e predisposizione biologico-genetica degli atleti neri in discipline come il basket e la corsa in velocità e la minor predisposizione naturale degli stessi per il nuoto. La società italiana si presenta ormai come una società multietnica; si avverte, quindi, la necessità di sviluppare tali ricerche, anche per evidenziare la responsabilità dei principali agenti educativi (famiglia, scuola, mass media) nella costruzione e nel consolidamento di eventuali stereotipi etnici legati alla pratica motoria e sportiva nei giovani. Il rischio è che lo sport, che dovrebbe essere luogo di incontro, di dialogo, di inclusione e sviluppo di competenze interculturali (Lleixá, 2004) possa divenire terreno fertile per il consolidamento e la diffusione di forme di discriminazione e di razzismo (Refrigeri, 2011; Migliorati, 2012). Per tale motivo, il principale obiettivo di questa ricerca, che si presenta nella forma di una indagine, è quello di identificare la possibile presenza di stereotipi etnico-sportivi negli adolescenti della Provincia di Roma e, nel caso in cui esistano, analizzarne le caratteristiche.
Metodologia In questo studio è stata utilizzata una metodologia quantitativa effettuando un’analisi descrittiva e inferenziale delle variabili oggetto di ricerca e utilizzando, come strumento di raccolta dati, un questionario. La popolazione oggetto di studio è costituita dagli studenti della scuola secondaria di primo grado della Provincia di Roma, la cui estensione raggiunge un totale di 120.744 persone; questo dato, fornito dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca attraverso l’Ufficio Scolastico Regionale per il Lazio, è riferito all’anno scolastico 2012-2013. Dato che la nostra popolazione è considerata statisticamente infinita essendo costituita da più di 100.000 unità, è stata utilizzata la seguente formula:
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N = Campione
#$"%"&"" N=
Z = Livello di confidenza
"""""""""""""""'$"
pq = Varianza della popolazione E = Margine di errore
p
"
Pertanto, stimando un livello di confidenza del 95%, equivalente a una deviazione standard rispetto alla media di 2 unità Z, un di errore del 2% e una ’ t margine i o proporzione della popolazione del 50%, il campione si compone di un totale di ) di età compresa tra gli 11 e i 15 anni (età media pari a 12,5). 2401 adolescenti ’ e prima fase, una procedura t idi campionamento o È stata eseguita, in una stratifib o cato proporzionale in relazione al tipo di scuola frequentata dagli studenti (statale È stata eseguita, in ) una prima fase, una procedura di campionamento stratificato o paritaria) e, in secondo luogo, in relazione all’ubicazione geografica degli istituti b e o frequentati (della Capitale o di altre località della Provincia). La tabella seguente mostra come le proporzioni di ciascuno strato del campione siano state adattate alla percentuale effettiva di ciascun gruppo all’interno della " popolazione generale degli studenti di scuola secondaria di primo grado della provincia di PRoma. % N POPOLAZIONE PO POLAZIONE
e
u
Totale To t a le
St Statale a t a le
70772
41108
58,6% 111880 58, 6%
Pa r ita r io Paritario
7646
1218
Totale To t a le
78418
42326
u
i
%
Roma Provincia Ro ma Pr o v in c ia
,
,
8864
Roma Ro ma
6,3% 6, 3%
64,6% 120744 64, 6%
CAM CAMPIONE PIONE
Provincia Totale Roma Totale Pr ovincia To tale Ro ma Provincia Provincia To t a le 34,1% 34, 1%
93%
1407
819
2226
1%
7%
151
24
175
100%
1558
843
35,4% 35, 4%
g
Tab. 1: Popolazione e campione gdi studio
2401
e
e
e
e
In una seconda fase, per ogni strato definito nel passaggio precedente, sono state scelte le singole scuole seguendo una procedura di campionamento casuale semplice. Da queste scuole sono state poi ricavate le classi e le ultime unità di caml pionamento; vale a dire i soggetti da sottoporre ad indagine. Se ci atteniamo alle caratteristiche personali che presenta il campione, si evii denzia un’equità tra i soggetti adolescenti analizzati rispetto al genere, dato che l dei 2401 soggetti che costituiscono il campione il 50,3% sono femmine e il 49,69% sono maschi.
Graf. 1: La distribuzione del campione rispetto al genere
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Riguardo allo strumento, è stato utilizzato il questionario MACOFYD (Ponce de León, Sanz, Ramos & Valdemoros, 2010). Tale questionario che è stato elaborato per conoscere i comportamenti, le attitudini e le motivazioni rispetto alla pratica sportiva degli adolescenti e dei giovani in Spagna, è stato utilizzato in Italia in forma adattata. Nello specifico è stata modificata la domande relativa all’anno scolastico degli studenti adattandola al sistema educativo italiano ed è stata, altresì, effettuata l’integrazione di domande con la finalità di rilevare l’eventuale presenza di stereotipi etnico-sportivi. Si chiedeva agli studenti di esprimere la propria opinione rispetto alla possibile esistenza di persone atleticamente migliori o più forti fisicamente nella pratica sportiva e di indicarne, in caso affermativo, le ragioni. La forma adattata e integrata del MACOFYD è stata tradotta e validata attraverso il giudizio critico di tre esperti e un test-preliminare con un gruppo pilota, composto da 20 adolescenti. L’affidabilità delle domande proposte è stata verificata attraverso il coefficiente Alfa di Cronbach, il cui risultato ha mostrato che gli items del questionario presentavano un elevato grado affidabilità (α = 0,754). Nel presente studio si utilizzano unicamente quelle variabili che permettono di raggiungere l’obiettivo preposto: le variabili identificative del genere, dell’anno scolastico frequentato, del tipo di scuola frequentata (statale e paritaria) e della ubicazione sul territorio; le variabili che fanno riferimento alla pratica fisico-sportiva degli studenti e alla percezione di una maggiore predisposizione fisico-sportiva in relazione all’etnia, ossia la possibile credenza di una maggiore predisposizione alle attività motorie e sportive di una particolare etnia rispetto alle altre; in ultimo, le variabili che si riferiscono ai motivi espressi per argomentare l’idea di questa maggior predisposizione. L’analisi statistica effettuata sui dati raccolti di tipo descrittivo e inferenziale è stata realizzata mediante il programma di analisi statistica SPSS 21.0. L’analisi delle variabili è stata eseguita in due fasi distinte: inizialmente è stata realizzata l’analisi descrittiva con le frequenze e le percentuali delle variabili; posteriormente è stata eseguita un’analisi inferenziale utilizzando il coefficiente V di Cramer e il coefficiente di contingenza.
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Risultati I risultati del nostro studio mostrano che, nonostante un 70,4% degli studenti affermi che non esistono differenze etniche che influenzano la performance sportiva, uno su quattro degli adolescenti romani è convinto che esistano persone più adatte allo sport per ragioni di tipo etnico, così come si evidenzia nel seguente grafico:
Graf. 2: Percezione degli studenti di una differente predisposizione etnica allo sport "
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Approfondendo questo risultato, si evidenzia una relazione significativa (tabella 2), anche se di bassa intensità (0,092), con la variabile genere, scoprendo che è significativamente superiore la percentuale dei maschi, rispetto a quella delle femmine, che ritiene che esistano persone appartenenti a determinate etnie più portate per lo sport come mostrato nel grafico 3. Si Sig. g. No Nominale m in a le
p per er
nominale nom inale
Va Valore lo r e
approssimata approssimata
Ph Phii
,092 ,0 92
,000 ,0 00
V di di Cramer C ra m e r
,092 ,0 92
,000 ,0 00
,092 ,0 92
,000 ,0 00
Coefficiente e f fi c i e n t e d dii Co contingenza co ntingenza dii ccasi Nd asi vvalidi a lid i
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"" Tab. 2: Analisi relazionale tra genere e stereotipo "
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S Graf. 3: S Stereotipi etnico-sportivi in relazione al genere "
Si scopre, inoltre, una relazione significativa, anche se di bassa intensità (0,088) con la variabile anno scolastico (tabella 3), evidenziando come sia maggiore, nell’ultimo anno rispetto al primo, la percentuale di adolescenti che crede esista una migliore predisposizione fisico-sportiva delle persone in relazione al gruppo etnico (grafico 4). p Si Sig. g. Va Valore lo r e No Nominale m in a le nom nominale inale
p per er
,124 ,1 24
,000 ,000
Vd dii C Cramer ra m e r
,0 ,088 88
,0 ,000 00
,123 ,123
,000 ,0 00
Co Coefficiente e f fi c i e n t e d dii contingenza co ntingenza dii ccasi Nd asi vvalidi a lid i
approssimata approssimata
Phi Phi
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Tab. 3: Analisi relazionale tra anno scolastico e stereotipo
ricerche
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Graf. 4: Stereotipi etnico-sportivi in relazione allâ&#x20AC;&#x2122;anno scolastico "
"
Analizzando la variabile relativa alla tipologia dellâ&#x20AC;&#x2122;istituto frequentato, statale o paritario, i risultati ottenuti rivelano, come mostra il grafico 5, delle differenze minime tra gli studenti della scuole statali e quelle paritarie nella percezione di una maggiore predisposizione allo sport per ragioni etniche. Tali differenze non possono essere considerate statisticamente significative come evidenziato nella tabella 4.
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Graf. 5: Stereotipi etnico-sportivi in relazione a scuole statali e paritarie Si Sig. g. Valore Valore
approssimata approssimata
No Nominale m in a le p per er
Phi Phi
,052 ,052
,041 ,041
nominale nom inale
V de de Cramer C ra m e r
,052 ,052
,041 ,041
,052 ,052
,041 ,041
Co Coefficiente e f fic ie n t e d dii contingenza co ntingenza N di casi casi validi validi
2401
Tab. 4: Analisi relazionale tra tipo di scuola e stereotipo
r
Allo stesso modo, come emerge dal grafico 6 e dalla tabella 5, non si sono registrate differenze statisticamente significative tra la presenza dello stereotipo etnico-sportivo e la variabile relativa allâ&#x20AC;&#x2122;ubicazione della scuola ossia tra gli studenti che frequentano le scuole di Roma e quelle della Provincia di Roma.
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Graf. 6: Stereotipi etnico-sportivi in relazione all’ubicazione delle scuole Si Sig. g. Valore Valore
approssimata approssimata
No Nominale m in a le p per er
Ph Phii
,038 ,038
,183 ,183
nominale nom inale
V de de Cramer C ra m e r
,038 ,038
,183 ,183
,038 ,038
,183 ,183
Coefficiente efficiente di Co contigenza ntigenza co dii ccasi Nd asi vvalidi a lid i
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Tab. 5: Analisi relazionale tra ubicazione della scuola e stereotipo
Dall’analisi di una possibile relazione tra la presenza dello stereotipo e la pratica sportiva degli adolescenti (grafico 7) non compaiono relazioni significative (tabella 6) tra gli studenti che praticano e coloro che non praticano attività fisico-sportiva e la percezione di una superiorità nello sport di una determinata etnia.
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Graf. 7: Stereotipi etnico-sportivi in relazione alla pratica sportiva degli adolescenti "
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No Nominale minale per nominale nominale
Valore Valore
Phi Phi
Sig. Si g. approssimata approssimata
,011 ,011
,586 ,5 86
de Cramer C ra m e r V de
,011 ,011
,586 ,5 86
di Co Coefficiente efficiente di co ntingenza contingenza
,011 ,0 11
,586 ,5 86
Tab. 6: Analisi relazionale tra la pratica fisico-sportiva degli adolescenti e stereotipo
Un dato molto interessante mostra che, tra gli adolescenti che percepiscono differenze in relazione all’etnia in ambito sportivo, la quasi totalità degli stessi # (89,7%) suggerisce che le persone nere hanno una migliore predisposizione fisico-sportiva, così come si può osservare nel grafico 8: #
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Graf. 8: Percezione della predisposizione sportiva in relazione all’etnia # #
In questo contesto non emergono relazioni significative né con il genere né con l’anno scolastico frequentato dagli studenti. Per concludere, focalizzando la nostra attenzione sugli studenti adolescenti che hanno espresso l’idea dell’esistenza di differenze tra le diverse etnie nella predisposizione allo sport, e analizzando le ragioni che sono state espresse per motivare la migliore “atleticità” dei neri, si scopre che il 64% degli studenti ha fatto riferimento a fattori di tipo biologico: quindi relazionati con fattori genetici, strutturali, muscolari ecc. Il 21% del campione ha menzionato fattori culturali (come per esempio il maggior impegno nella pratica, il più forte desiderio di successo, lo stato socio-economico). Infine risulta interessante constatare che il 15% del campione, nonostante abbia affermato la predisposizione delle persone nere, sostiene di non conoscerne le ragioni. Si tratta di dati che confermano il forte potere dello stereotipo negli studenti adolescenti italiani nel momento in cui essi guardano alla pratica sportiva in generale.
Discussioni e conclusioni A partire dai risultati del nostro studio possiamo affermare che esiste una presenza di stereotipi etnico-sportivi negli studenti della scuola secondaria di primo grado della provincia di Roma. Questa affermazione emerge dal fatto che uno su quattro degli adolescenti partecipanti alla ricerca ha espresso l’opinione che la performance sportiva è influenzata dall’appartenenza etnica. È emersa infatti la credenza di una
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maggior predisposizione delle persone nere nei confronti delle attività motorie e sportive. Inoltre, tra gli studenti che hanno affermato l’esistenza di differenze nella predisposizione sportiva in relazione all’appartenenza etnica, una percentuale considerevole non è in grado di spiegarne le motivazioni. La credenza della superiorità atletica dei neri, riscontrata e verificata in una parte degli studenti analizzati, risulta in sintonia con numerose ricerche svolte in ambito internazionale negli ultimi anni quali Sailes, 1993; Biernat, Manis, 1994; Devine, Elliot, 1995; Hayes, Sudgen, 1999; Burden et al., 2004; Lawrence, 2004; Azzarito, L. Harrison, 2008; Hodge et al., 2008. I nostri risultati, invece, non sono in coerenza con i risultati di Harris e Ramsey (1974), il cui studio non rivelava la presenza di stereotipi etnici sportivi nelle studentesse analizzate. Sarebbe comunque opportuno considerare in relazione allo studio sopra menzionato il fatto che, negli anni settanta, la presenza degli atleti neri nel contesto delle attività motorie e sportive, non era così predominante come nella società attuale. La nostra ricerca ha rivelato la maggior presenza di stereotipi etnico-sportivi negli studenti maschi piuttosto che nelle studentesse. Considerazione che si mostra coerente con alcuni studi condotti nel contesto anglosassone con adolescenti come quello di Hodge, Kozub, Dixson, Moore e Kambon (2008) e anche con alcune ricerche realizzate con adulti come quella di Sheldon, Jayaratne e Petty (2007). Si è evidenziata, altresì, una relazione significativa tra la presenza dello stereotipo e l’anno scolastico frequentato. Lo stereotipo risulta essere maggiore negli studenti che frequentano l’ultimo anno della scuola secondaria di primo grado che in quelli del primo. La nostra analisi non ha invece riscontrato relazioni significative tra la presenza dello stereotipo e l’ubicazione della scuola frequentata (Roma e Provincia di Roma), né con la variabile relativa al tipo di scuola (statale e paritaria), né con la situazione di pratica fisico-sportiva degli adolescenti. Inoltre, i risultati ricavati dall’analisi dei dati mostrano che tra coloro che hanno considerato la maggior predisposizione allo sport delle persone nere, più di sei studenti su dieci hanno motivato la propria opinione attraverso spiegazioni di tipo bio-fisiologico in accordo con quanto affermato da Sheldon et al., (2007), Turner e Jones (2007), Azzarito e L. Harrison, (2008), Hodge et al., (2008), C. K. Harrison, Lawrence e Bukstein (2011). Nonostante la presenza dello stereotipo di carattere biologico risulti essere predominante, si scopre anche la presenza di motivazioni di carattere culturale espresse dai partecipanti per giustificare la maggior predisposizione atletica delle persone nere, così come emergono anche da alcune ricerche internazionali (Hayes, Sudgen, 1999; Burden et al., 2004; Lawrence, 2004; L. Harrison et al., 2004; C. K. Harrison, Lawrence, 2004; Turner, Jones, 2007; C. K. Harrison et al., 2011).
Considerazioni finali Siamo consapevoli dei limiti della nostra ricerca e della necessità di approfondire i risultati ottenuti con l’analisi di altre variabili che potrebbero determinare la presenza degli stereotipi (quali, ad esempio, gruppo etnico di appartenenza, livello socio-culturale, campioni di diversa età). Riteniamo tuttavia che sia importante sottolineare come il nostro studio abbia messo in luce la presenza di stereotipi etnici in relazione alle attività motorie e sportive negli adolescenti che frequentano la scuola italiana.
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Gli stereotipi, essendo generalizzazioni superficiali, nascondono il rischio di sottovalutare le differenze individuali e di enfatizzare, invece, le differenze tra i diversi gruppi etnici. Inoltre, esiste la possibilità che lo stereotipo sportivo possa condizionare fortemente non solo il percorso del giovane come atleta, ma il suo sviluppo come persona che vive nella società. Gli stereotipi influiscono sul processo di crescita, di maturazione e di identificazione degli adolescenti giocando un ruolo fondamentale nella costruzione della identità. L’idea consolidata dell’atleta nero come atleta eccellente è così forte e predominante da influenzare fortemente anche la stessa percezione del sé nei giovani adolescenti neri. Si tratta di una realtà complessa che questo studio non può certo esaurire e che sarà necessario analizzare attraverso ulteriori ricerche finalizzate a verificare in maniera approfondita le implicazioni pedagogiche (Migliorati, 2011) di tale presenza per farne prendere coscienza sia agli studenti ma anche agli allenatori, agli insegnanti di tutte le discipline (non solo di educazione fisica) ed agli educatori sportivi attraverso specifici programmi di formazione e di sensibilizzazione. Questi programmi dovranno essere finalizzati, in primo luogo, a rendere consapevoli gli agenti educativi dei rischi e delle influenze negative di tali condizionamenti per poi tentare di minimizzare o ridurre l’impatto negativo di tali stereotipi, che di fatto agiscono in opposizione al concetto di sport educativo e di sport per tutti (CIO, 2007) quale diritto umano e sociale sancito dalla società (Commissione delle Comunità Europee, 2007).
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Fattori individuali e contestuali del burnout: una ricerca descrittiva sugli insegnanti curricolari e di sostegno Anna Maria Murdaca - Università di degli Studi di Messina - amurdaca@unime.it Patrizia Oliva - Università degli Studi di Messina - poliva@unime.it Antonella Nuzzaci - Università degli Studi dell’Aquila - antonella.nuzzaci@univaq.it
Individual and contextual factors of burnout: a descriptive research on teachers and teacher assistants In recent years, numerous studies have paid particular attention to the conditions of wellbeing in workplace, analyzing the influence that this dimension has on psychological functioning and positive self-perception. Among the various contexts of inquiry, research has deepened the study of school context, and in particular the professional group of teachers has become progressively more and more targeted under investigation, in order to identify risk and protective factors related to the burnout syndrome maintenance.Therefore, the main objective of this study was to evaluate the relationship between individual factors such as "assertiveness" and "coping strategies" and contextual as "the perception of the work environment", "attachment to work", "organizational commitment", "involvement and work satisfaction" related to the onset of teachers burnout. Specifically, it is intended, first, to verify the existence of significant differences between teachers and teacher assistants in examined variables. Second, within each group, we intend to evaluate the differences among the different aspects of investigated factors and the relationship that each of them has with the various dimensions of burnout.
Parole chiave: teaching, professional wellbeing, burnout, coping strategy.
Keywords: teaching, professional wellbeing, burnout, coping strategy.
Anna Maria Murdaca ha contribuito a strutturare l’impianto teorico, analizzare criticamente i paradigmi teorici, a progettare la ricerca e a preparare il manoscritto e a supervisionare il lavoro. Oliva Patrizia ha contribuito a strutturare il disegno progettuale, ad analizzare e interpretare i dati. Antonella Nuzzaci ha contribuito ad interpretare i dati, a preparare il manoscritto e a supervisionare il lavoro. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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L’obiettivo principale di questo studio è valutare la relazione tra alcuni dei fattori individuali (assertività e strategie di coping) e contestuali (percezione del contesto lavorativo, attaccamento al lavoro, impegno organizzativo, coinvolgimento e soddisfazione lavorativa) che si legano alla comparsa della sindrome del burnout nell’insegnante. Lo studio ha coinvolto un gruppo di insegnanti curriculari (N=35) e un gruppo di insegnanti di sostegno (N=38), a cui sono stati somministrati dei questionari. I risultati confermano quanto emerge in letteratura nazionale e internazionale circa la presenza di evidenti elementi di complessità intrinseca legati alla categoria degli insegnanti di sostegno, più esposti degli altri a pratiche educative impegnative e a un maggior addensamento di emergenze educative, che sembrano predisporli a situazioni di maggiore rischio di esaurimento psico-fisico-sociale.
Fattori individuali e contestuali del burnout: una ricerca descrittiva sugli insegnanti curricolari e di sostegno
1. Introduzione
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Negli ultimi anni un’attenzione sempre maggiore è stata rivolta allo studio degli aspetti connessi allo stress lavoro-correlato e alla sindrome del burnout che colpisce molte categorie professionali. Numerose sono le ricerche che dimostrano quanto gli adulti lavoratori siano a rischio di manifestare elevati livelli di stress con evidenti conseguenze negative sul piano del benessere fisico e psicologico, oltre che della produttività. Freudenberg (1974) e Maslach (1976) utilizzano per la prima volta in psicologia il termine “burnout” per indicare una malattia professionale che colpisce prevalentemente le professioni d’aiuto (psicologi, psichiatri, medici, infermieri, assistenti sociali, insegnanti, volontari, ecc.) e che connota un lento e graduale processo di “logoramento” o “decadenza” delle risorse psicofisiche dovuto alla mancanza di energie e di capacità per sostenere una situazione lavorativa stressante, con conseguente calo nelle prestazioni professionali. Il burnout è considerata una sindrome multifattoriale connotata da un insieme di sintomi (fisici, psichici, comportamentali) che testimoniano il manifestarsi di un vero e proprio disagio. Esso si sviluppa progressivamente attraverso tre fasi: esaurimento emotivo, depersonalizzazione e fallimento professionale (Maslach, 1976). L’esaurimento emotivo si caratterizza per la mancanza di energia necessaria ad affrontare la realtà quotidiana e per la prevalenza di sentimenti di apatia e distacco emotivo nei confronti del proprio lavoro; la depersonalizzazione denota l’insorgere di un atteggiamento di distacco ed ostilità che contraddistingue la relazione con l’altro; infine, la consapevolezza del disinteresse e dell’intolleranza verso gli altri che suscita un senso di fallimento professionale e di inadeguatezza per il lavoro svolto, accompagnati da gravanti sensi di colpa per le improprie modalità relazionali impersonali e disumanizzate utilizzate. Il burnout può essere pertanto definito come un fenomeno psicosociale ed educativo, più complesso dello stress, all’interno del quale interagiscono fattori socio-ambientali e lavorativi e caratteristiche individuali e personologiche. Recentemente notevole interesse ha suscitato tra gli esperti lo studio dei fattori individuali e contestuali che si legano alla comparsa di tale sindrome negli insegnanti, allo scopo di comprendere e prevenire situazioni di rischio al burnout in questa categoria di professionisti che quotidianamente si trova a dover fronteggiare richieste ed aspettative ogni giorno sempre più pressanti (Jennett, Harris, Mesibov, 2003). Sebbene le ragioni possano essere di ordine diverso, è noto come gli insegnanti sperimentino situazioni stressanti nel proprio lavoro (Jennettet et al., 2003) a causa della gestione di situazioni educative sempre più complesse, difficili e contraddittorie, dettate soprattutto dalla relazione educativa che spesso comporta un elevato carico emotivo che si traduce come “fatica di insegnare” (Pedditzi, 2005), insofferenza nei confronti degli allievi accompagnata da atteggiamenti di allontanamento e di chiusura (Rossati, Magro, 1999). Tuttavia benché la maggior parte riesca a far fronte con successo a tali difficoltà o evenienze, la restante parte purtroppo non è in grado, in ragione della mancanza di risorse personali e
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di un adeguato supporto sociale e contestuale, di rispondere in maniera funzionale agli eventi stressanti, con evidenti ricadute negative sul proprio benessere individuale e sociale (Jennett et al., 2003). Studi condotti su gruppi di diversa provenienza etnico-culturale mostrano come il burnout degli insegnanti predica la loro salute psicofisica, condizionando la motivazione e la soddisfazione lavorativa di questa categoria professionale. A tale proposito, recenti indagini hanno dimostrato come un maggior grado di esaurimento emotivo e di depersonalizzazione nel docente si associ generalmente ad una scarsa percezione del proprio stato di salute (Hakanen, Bakker, Schaufeli, 2006), ad una insufficiente motivazione al lavoro (Hakanen et al., 2006; Schaufeli, Salanova, 2007) e a un maggiore rischio di autolicenziamento (Leung, Lee, 2006). Inoltre, tale stato di esaurimento psicofisico sembra essere fortemente connesso alle convinzioni di efficacia dell’insegnante (Chwalisz, Altmaier, Russell, 1992; Evers, Brouwers, Tomic, 2002; Friedman, Farber, 1992) e alla sua capacità di percepirsi adeguatamente competente rispetto al ruolo professionale che ricopre (Skaalvik, Skaalvik, 2007). Tuttavia non sono ancora del tutto chiari i meccanismi che soggiacciono alla relazione tra senso di autoefficacia e predisposizione del corpo docente al burnout (Brouwers, Tomic, 2000; Skaalvik, Skaalvik, 2007), pertanto approfondimenti e indagini più specifiche si rendono necessari al fine di individuare fattori predittivi che consentano l’elaborazione e l’implementazione di interventi psicoeducativi maggiormente efficaci. La sindrome del burnout può essere considerata un meccanismo di difesa adottato dagli insegnanti, e dagli educatori in generale, per contrastare situazioni di stress lavorativo determinato da un elevato squilibrio determinatosi tra richieste/esigenze lavorative e risorse personali e contestuali disponibili, le cui possono essere numerose e riconducibili sia a caratteristiche individuali del soggetto sia a fattori legati al contesto lavorativo. La letteratura a tal proposito ha individuato fattori e relazioni tra componenti inestricabilmente intrecciate, ma intrise di significatività, tra le quali agisce quale elemento il fattore motivazionale e l’energia spesa da un individuo che dipendono dal genere di esperienze da lui vissute (comprensibili, facili da gestire e significative) e dalle risorse disponibili (Antonovsky, 1979); queste ultime sono considerate come forma generalizzata di resistenza che, come qualsiasi altra caratteristica di questo tipo, facilita nell’individuo la gestione di una tensione efficace. In questo senso il rapporto tra risorse e orientamento al coping può essere descritto come processo dinamico e reciproco. La percezione di un individuo circa le risorse disponibili rafforza l’orientamento al coping (Wolff, Rattner, 1999) e il deficit di risorse determina esperienze che incidono negativamente sulla persona, come risultato di coping inefficace permettendo il verificarsi dello stress. Antonovsky (1979) sostiene che un individuo con un forte “senso di coerenza” sarà più efficace nella scelta di strategie di coping adeguate e nella capacità di mobilitare e utilizzare, combinandole, un insieme di risorse per affrontare lo stress (Antonovsky, 1987), mentre un individuo con un debole “senso di coerenza” sarà sopraffatto confrontandosi con fattori di stress della vita scegliendo strategie di coping meno opportune. Questo aspetto diviene estremamente importante per la gestione dello stress in contesto scolastico, che condiziona e limita una serie di eventi didattici. Nello specifico, le aspettative di carriera, la qualità delle relazioni interpersonali con i colleghi e i superiori, la struttura e il clima lavorativo (Cooper, 1988, Murdaca 2008) vengono individuati quali fattori principali dell’organizzazione aziendale maggiormente predisponenti al burnout. Il rischio viene ulteriormente aggravato se a queste caratteristiche ambientali si associano aspetti personologici e stati emotivo-motivazionali disfunzionali nell’insegnante, quali ad esempio la percezione di inefficacia personale e professionale, la bassa autosti-
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ma, la rabbia, l’introversione, la scarsa motivazione al lavoro, l’eccessivo bisogno di approvazione, l’insoddisfazione lavorativa, nonché l’uso di meccanismi difensivi inadeguati (Cherniss, 1983). I numerosi tentativi intrapresi dagli studiosi per individuare caratteristiche soggettive e contestuali che possano fungere da mediatori rispetto alle conseguenze negative e devastanti del burnout hanno rivelato che la percezione di un contesto lavorativo supportante, l’attaccamento e l’impegno organizzativo, il coinvolgimento nel lavoro, la soddisfazione lavorativa, legati ad un atteggiamento relazionale di tipo assertivo e ad adeguate capacità di coping, sembrano ridurre il rischio di burnout in ambito scolastico. In effetti, la capacità di assumere un comportamento assertivo, definendo cioè con chiarezza i propri obiettivi e progetti e realizzarli interpretando in chiave positiva le relazioni e le risorse offerte dal contesto lavorativo, è certamente una capacità relazionale indispensabile dell’insegnante per acquisire una maggiore efficacia personale e collettiva nell’insegnamento. Trovare, infatti, il giusto compromesso tra un atteggiamento aggressivo e uno eccessivamente remissivo, per esempio, aiuta a controllare livelli di rabbia disfunzionali, a gestire efficacemente lo stress lavorativo e a potenziare le proprie abilità di coping. In realtà, la letteratura mostra come molte siano le strategie che l’insegnante può utilizzare per fronteggiare in maniera adeguata lo stress lavorativo. Sorenson (1999), per esempio, suggerisce semplici tecniche che possono aiutare l’insegnante a tenere sotto controllo lo stress, come ad esempio adottare uno stile di vita equilibrato, essere in grado di riconoscere il sovraccarico lavorativo e identificare la presenza di condizioni lavorative poco gratificanti da un punto di vista organizzativo. È pur vero, però, che alcuni meccanismi estremi di coping possano essere talmente radicati e rigidi da avere un effetto negativo sulla salute mentale di colui che li mette in atto. Infatti, tentare di alleviare lo stress attaccando l’altro in maniera aggressiva, urlandogli contro e colpevolizzandolo, può far aumentare il rischio di insonnia, ansia e depressione, danneggiando ulteriormente lo stato di salute precario di colui che è in preda allo stress (Suldo, Shaunessy, Hardesty, 2008). Generalmente, in presenza di uno stimolo negativo, percepito come minaccioso, si attiva, più o meno inconsapevolmente, una risposta allo stress (Hobfoll, 1988). A tal proposito, è stato dimostrato che adeguate risorse di coping preventivo possono ridurre il numero di eventi che un insegnante interpreta come minacce di stress (McCarthy, Lambert, Brack, 1997). Secondo il modello proposto da McCarthy (2002) e i suoi colleghi, l’individuo è in grado di percepire il grado di richieste che ogni evento prevede e le risorse individuali di cui egli dispone per farvi fronte. Risultati ottimali si potrebbero avere nel caso in cui il soggetto percepisse che le risorse di cui dispone siano superiori alle richieste; in caso contrario, ovvero nel caso in cui le risorse risultassero inadeguate rispetto all’evento imprevisto, si potrebbe innescare una risposta di stress, con tutte le conseguenze negative ad essa connesse. In questo caso, dovrebbero essere rafforzati per esempio i meccanismi di coping “combattivo” al fine di ridurre l’intensità dello stress. In uno studio recentemente condotto da Betoret (2006) è stata valutata la relazione tra il senso di auto-efficacia, le risorse di coping, gli indici di stress e il burnout in un gruppo di insegnanti spagnoli. I risultati hanno messo in evidenza che gli insegnanti con maggiori capacità di fronteggiamento dello stress e un elevato senso di auto-efficacia appaiono meno stressati, più motivati e soddisfatti della loro professione e dunque a minor rischio di burnout; altre ricerche hanno poi messo in evidenza che una condizione di intenso stress può condizionare la riuscita professionale dei docenti, aumentando il rischio di abbandono entro i primi cinque anni di insegnamento (Ingersoll, Smith, 2004). L’incapacità, da parte degli organi competenti, di sostenere gli insegnanti nella loro
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attività professionale sta diventando un serio problema sia a livello nazionale che internazionale e le strategie invocate da più parti non sembrano abbastanza efficaci per ridurre lo stress degli insegnanti, soprattutto dei “principianti” o di quelli alle prime armi, con conseguente rischio di abbandono della professione. Gli interventi come il tutoraggio, la formazione per un maggior sviluppo professionale e una più elevata collaborazione tra gli insegnanti, richiamati da più parti come indispensabili, sembrerebbero avere effetti positivi sulla riduzione del rischio a stress e burnout, anche se richiedono sistematiche azioni condotte su scala nazionale. Se si vuole arrivare a mettere in atto azioni incisive dirette a ridurre i livelli di stress e il rischio di abbandono nei docenti è però necessario approfondire lo studio delle modalità con cui gli insegnanti fronteggiano lo stress e gestiscono i fattori che possono ridurre il rischio di burnout, per meglio comprendere meccanismi e strategie di coping di maggior successo. Inoltre, non bisogna dimenticare che livelli di stress elevati nell’insegnante tendono a condizionare negativamente il benessere psicologico di tutti gli attori del sistema scuola ed in particolare gli esiti degli allievi. Pertanto, comprendere i fattori causali e di mediazione responsabili della comparsa e del mantenimento del burnout dell’insegnante diventa una necessità non più prorogabile al fine di identificare strategie di fronteggiamento ed interventi più efficaci e garantire il “benessere in aula”.
2. Insegnanti di sostegno, stress e ricerca educativa Lo stress nella professione insegnante è, come abbiamo avuto modo di osservare, un fenomeno ben noto in letteratura e la ricerca educativa ha messo in evidenza come negli insegnanti di sostegno rispetto a quelli curricolari esso sia connotato da condizioni e difficoltà specifiche. Una rassegna della letteratura nazionale e internazionale sugli insegnanti di sostegno e sulla loro capacità di far fronte allo stress è ancora assai scarsa. In questo senso, esplorare e descrivere l’orientamento al coping e la disponibilità di risorse degli insegnanti nell’occuparsi di allievi con bisogni educativi speciali diviene estremamente importante in un momento in cui l’educazione attraversa un periodo di crescenti difficoltà per la estrema diversificazione delle caratteristiche della popolazione scolastica. Studi descrittivi hanno rivelato evidenti elementi di complessità intrinseca legati a questa categoria di insegnanti, più esposti degli altri a pratiche educative impegnative (Snowman & Biehler, 2000), confermando quanto evidenziato da quella ricerca che ha registrato, negli ultimi anni rsipetto al passato, un maggiore addensamento di emergenze educative e di fonti stressanti in campo scolastico (Beck, Garguilo, 2001; Billingsley, 2004; Eloff, Engelbrecht, Oswald, Swart, 2003). Più specificamente, alcuni ricercatori hanno mostrato come gli insegnanti di sostegno manifestino esigenze diverse rispetto a qualche anno fa (Bester, Swanepoel, 2000; Gersten, Keating, Yovanoff, Harniss, 2001; Canevaro, 2013) e presentino tassi di abbandono più elevati nella professione rispetto a quelli curricolari. Alla luce di tali risultati, le difficoltà incontrate dagli insegnanti di sostegno sembrano ormai diventate a livello internazionale vere e proprie urgenze educative destando non poca preoccupazione anche nei responsabili politici e negli amministratori (Payne, 2005) che hanno rivolto sempre più attenzione al problema dei processi di professionalizzazione proprio per impedire che si verifichino problemi di fronteggiamento delle difficoltà lavorative in questi soggetti. D’altra parte, nell’ultimo decennio, in particolare, si è assistito in Italia ad una profonda trasformazione in questo senso, basti pensare
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ad esempio al proliferare di iniziative dirette a qualificare la formazione degli insegnanti di sostegno ed a sostenerla sia in fase iniziale che continua attraverso la rigenerazione (o modernizzazione) delle loro competenze in direzione di un “modus operandi” all’insegna della riflessività (DSA: Legge 170/2010, Corso di specializzazione per il sostegno: DM: 249/2010). Questo anche perché la domanda di istruzione di studenti con bisogni speciali ha continuato a crescere a livello nazionale: il Miur in data 12.11.2013 ha reso disponibile i dati statistici relativi agli allievi frequentanti evidenziando come dal 2001 ad oggi essi siano complessivamente aumentati del 60% e nell’anno 2013/14 risultino in numero di 209.814 a fronte dei 202.314 dell’anno precedente) ed internazionale (Eloff, Engelbrecht, Oswald, Swart, 2003). L’educazione inclusiva sembra dunque oggi in una fase di piena attuazione divenendo speculare all’integrazione scolastica progressivamente intesa come uno strumento di trasformazione sociale diretta a disegnare una società democratica (prevalentemente dal 1977 ad oggi). Tanto è vero che la filosofia di fondo che sorregge l’educazione inclusiva comprende sia i valori democratici di uguaglianza sia quelli relativi ai diritti umani fino al riconoscimento della diversità o meglio del valore plurale di essa (Engelbrecht, 2006; Cottini, 2011). Occorre tuttavia ricordare che se la letteratura abbonda di definizioni di stress e molteplici sono le sue diverse concettualizzazioni, quando ci si riferisce agli insegnanti curricolari generalmente si fa riferimento ad un modello transazionale (Ogden, 2004; Sarafino, 2008) che concerne soprattutto la conservazione delle risorse (Hobfall, 1989). All’interno di tale modello, alcuni autori (Sarafino, 2008; Lazarus, Folkman, 1984) definiscono lo stress come la circostanza in cui le transazioni portano un individuo a percepire una discrepanza tra le esigenze fisiche o psicologiche di una situazione e le risorse biologiche, psicologiche e sociali (p. 63) di cui dispone. In questa accezione le risorse svolgono un ruolo importante nella capacità dell’individuo di fare fronte allo stress (Forshaw, 2003). Gli studi evidenziano proprio come gli insegnanti di sostegno si trovino a vivere esperienze di stress (Billingsley, 2004; Beck, Garguilo, 2001; Wisniewski, Garguilo, 1997) determinate da una serie di fattori, la cui sollecitazione è stata descritta come un processo complesso che coinvolge una interazione tra l’insegnante e l’ambiente che include precise componenti di stress e le relative risposte (Eloff, Engelbrecht, Oswald, Swart, 2003). Si possono in questa direzione rintracciare una serie di fattori di stress comunemente vissuti dagli insegnanti di sostegno, i quali avvertono, più frequentemente di quelli curricolari, un sovraccarico lavorativo causato dalla richiesta di elevati livelli di performance in diverse aree quali lo sviluppo dei programmi di studio, il controllo di condotte e comportamenti, la gestione didattica, la pianificazione delle lezioni, la collaborazione e l’amministrazione (Beck, Gargiulo, 2001; Billingsley, 2004). Gli insegnanti di sostegno sembrano sperimentare anche tassi significativamente più elevati di conflitto e ambiguità di ruolo in rapporto agli insegnanti curricolari (Gersten, Keating, Yovanoff, Harniss, 2001). Altri fattori di stress sono rintracciabili in esperienze che includono una scarsa presenza di supporti didattici, materiali e risorse (Croll, Mosè, 2000; Wisniewski, Gargiulo, 1997), di rapporti limitati e/o stressanti con i colleghi, gli amministratori e/o genitori (Otto, Arnold, 2005; Stempien, Loeb, 2002), ed una limitata formazione e scarso sviluppo professionale (Anderson, Pellicer, 2001; Croll, Moses, 2000). Le crescenti evidenze che testimoniano uno stretto legame tra stress e malattia (Ogden, 2004; Sanderson, 2004; Sarafino, 2008) indicano poi che lo stress a lungo termine mette a repentaglio la salute mentale dell’insegnante e lo colpisce anche fisicamente inducendo risposte: fisiologiche, che includono l’innalzamento della pressione sanguigna, frequenti mal di testa ecc.; psicologiche, che includono depressione e ansia; di attribuzione, che eviden-
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ziano sentimenti di inferiorità e sentimenti di rassegnazione e di impotenza (Wisniewski , Garguilo, 1997). Se allora lo stato di stress, concepito come dimensione complessa, può riguardare la professione docente in generale, in riferimento agli insegnanti di sostegno, più esposti degli altri a tale stato, presuppone l’adozione di diverse strategie di coping per affrontare il vissuto stress occupazionale. È chiaro però che diviene importante evitare che si impieghino quelle disadattive, come l’uso dei giorni di congedo per malattia, che possono inavvertitamente creare un sempre maggiore ciclo di stress culminante nel burnout e nell’eventuale decisione di lasciare la professione (Beck, Garguilo, 2001) a favore di quelle più efficaci. I modelli attuali tendono quindi a concentrarsi su un paradigma “salutogeno”, che contrasta con il modello “patogeno”, ovvero un modello concentrato sulla salute e sul benessere piuttosto che sulla malattia, che non intende lo stress come evento isolato e negativo ma come condizione “onnipresente nella esistenza umana” (Antonovsky, 1979, p. 10; 1987), che fa emergere la necessità di sviluppare quel “senso di coerenza” che consenta di spiegare come un individuo di successo o meno faccia fronte nella vita ai differenti fattori di stress. A questo proposito la ricerca mostra come per un insegnante di sostegno lavorare con studenti con bisogni speciali produca significativamente maggiore stress soprattutto proprio in riferimento a tale “senso di coerenza”. Tuttavia, considerata l’intensità e il genere di fattori di stress vissuti da questi insegnanti diviene importante ottenere una più esauriente comprensione del modo in cui essi fanno fronte a tali fattori. È per tale ragione che Lazarus e Folkman (1984) definiscono lo stress come concetto in continua evoluzione che implica sforzi cognitivi e comportamentali per gestire richieste esterne e/o interne specifiche che sono valutate come inferiori o superiori alle risorse di una persona (p. 141). Tali sforzi sono diretti a padroneggiare, a tollerare la riduzione e/o minimizzazione ambientale e le richieste interne e conflitti che gravano sulle risorse di un individuo (Schafer, 2000). Va osservato che, anche se questi sforzi sono generalmente volti a correggere o padroneggiare il problema, possono indurre l’individuo ad alterare le percezioni, tollerare o accettare il danno o la minaccia e sfuggire o evitare la situazione (Lazarus, Folkman, 1984). Sforzi di coping infatti sono ulteriormente classificati come adattivi (ad esempio, emozione concentrata, coronamento di un problema mirato e valutazione focalizzata) o disadattivi (ad esempio, rinuncia ad incolpare se stessi) (Weiten, Lloyd, 2003); di fatto però quelli specifici impiegati dagli insegnanti di sostegno non sono stati ampiamente studiati. I limitati risultati della ricerca in questo senso indicano che una frequente strategia richiamata è quella di un sistema di supporto tra pari, che prevede interazioni personali e professionali con i colleghi (Yee, 1990), oltre che adeguati supporti amministrativi (Cross, Billingsley, 1994; Wisniewski, Gargiulo, 1997), una efficace formazione inziale e continua e programmi di formazione speciali (Wisniewski, Garguilo, 1997), un’attività di supervisione e di tutorato dove gli insegnanti alle prime armi possano essere affiancati da colleghi veterani (Bernard, 1990) e accompagnati nel loro “ingresso professionale”. In particolare, Dunham (1992), per esempio, ha suggerito l’uso di self-talk positivi attingendo dai successi precedenti, mentre Bandura (1993) ha individuato che un senso di efficacia comporti una diminuzione della vulnerabilità allo stress. È vero però che se tali meccanismi sono molto conosciuti e vengono facilmente ricondotti alle diverse fonti di stress e al burnout che si verifica in particolari condizioni lavorative degli insegnanti curricolari, è altrettanto vero che il problema risiede nel fatto che le strategie di coping che impiegano gli insegnanti di sostegno per far fronte ai differenti fattori di stress rimangano ancora poco studiate. Alla luce della rassegna della letteratura e delle considerazioni sopra esposte,
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il contributo di ricerca, al fine di accrescere il dibattito in questa direzione, si pone l’obiettivo di esplorare e descrivere il ruolo dei fattori individuali e contestuali nel burnout di un campione di insegnanti curricolari e di sostegno, in riferimento all’assertività, all’orientamento e alle strategie di coping impiegate.
3. La ricerca e le ipotesi
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L’obiettivo principale di questo studio è quello di valutare la relazione tra fattori quali “assertività” e “strategie di coping” e contestuali come “percezione del contesto lavorativo”, “attaccamento al lavoro”, “impegno organizzativo”, “coinvolgimento e soddisfazione lavorativa” legati alla comparsa della sindrome del burnout negli insegnanti. Nello specifico, si intende, in primo luogo, verificare l’esistenza di differenze significative tra insegnanti di sostegno e insegnanti curriculari nelle variabili sopra considerate. In secondo luogo, all’interno di ogni gruppo, si intende valutare la differenza tra i diversi aspetti delle variabili indagate e la relazione che ognuno di queste assume in riferimento alle diverse manifestazioni assunte dal burnout. 3.1 Soggetti e procedura di campionamento È stato utilizzato un campionamento non probabilistico per convenienza, ovvero i partecipanti sono stati inclusi nello studio in funzione della disponibilità che i dirigenti scolastici di alcune scuole della Sicilia e Calabria mostravano nei confronti del progetto di ricerca. La partecipazione alla ricerca era gratuita e volontaria e avveniva esclusivamente previa sottoscrizione di un consenso informato, che garantiva il trattamento dei dati personali nel rispetto della normativa italiana (D.lgs.196/2003). Il campione risulta quindi composto da 73 insegnanti (13 Maschi e 60 Femmine) di cui 35 insegnanti curricolari (47,9%) e 38 di sostegno (52,1%). La tabella 1 mostra le caratteristiche dei partecipanti.
N
Età
Genere
Scuola
Anzianità di servizio
Maschi
Femmine
Scuola primaria
Scuola secondaria
Curricolari
35
51.6 (6.185)
6
29
13 (37.1%)
22 (62.9%)
23 (8.813)
Sostegno
38
47.37 (7.695)
7
31
7 (18.4%)
31 (81.6%)
16.24 (6.792)
Tab. 1: Caratteristiche del campione
3.2 Metodologia Strumenti e procedura Per non distogliere gli insegnanti dalla loro attività didattica, la somministrazione dei questionari è avvenuta sulla base della disponibilità di ognuno, utilizzando i locali messi a disposizione dalla scuola. Il tempo impiegato per la compilazione era di circa un’ora. L’ordine e la sequenza dei questionari erano regolati secondo una procedura a quadrato latino. Tutti i partecipanti hanno compilato:
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Scheda socio-anagrafica: appositamente predisposta per la rilevazione delle principali informazioni socio-anagrafiche: età, genere, titolo di studio, anzianità lavorativa, tipologia di incarico, ecc. Questionario sull’assertività (Alberti, Emmons, 1986). È un questionario che valuta il grado di assertività, cioè lo stile di comportamento attraverso cui l’individuo riesce ad affermare se stesso. È composto da 35 item disposti su scala Likert a 5 punti. Il questionario prevede due subscale: Stile assertivo Passivo indica la tendenza a non esprimere i propri sentimenti e desideri, a subire tacitamente prevaricazioni e richieste irragionevoli; Stile Assertivo Aggressivo tipico di chi impone i propri diritti, violando quelli degli altri e suscitando sentimenti di offesa, umiliazione e imbarazzo. LBQ – Link Burnout Questionnaire (Santinello, 2007). Il Link Burnout Questionnaire è un questionario self-report che propone dei nuovi indicatori di burnout per chi lavora nelle professioni di aiuto. L’LBQ è composto da 24 item, suddivisi in quattro subscale, ognuna con tre item con polarità positiva e tre con polarità negativa: Esaurimento psicofisico(la sensazione di sentirsi stanchi e sotto pressione, l’esaurimento delle risorse fisiche e psichiche), Deterioramento della relazione (quando la relazione di aiuto con l’utente diviene alienata fino al cinismo), Inefficacia professionale (quando i problemi professionali diventano situazioni incomprensibili) e Disillusione (quello che sembrava una passione è diventato una routine priva di significato). CISS – Coping Inventory for Stressful Situations (Endler, Parker, 2009). Il Coping Inventory for Stressful Situations (CISS) è una scala di facile somministrazione per misurare aspetti multidimensionali del coping. Si articola in tre scale, ciascuna composta da 16 item: Manovra (descrive sforzi volti a risolvere il problema ristrutturandolo cognitivamente o tentando di alterare la situazione. L’accento è fondamentalmente sul compito o sulla programmazione e sui tentativi di soluzione del problema), Emozione (descrive le reazioni emotive che sono orientate verso il Sé, con lo scopo di ridurre lo stress), Evitamento (descrive attività e cambiamenti cognitivi volti a evitare la situazione stressante. Quest’ultima comprende due sottoscale: Distrazione (evitare la situazione stressante distraendosi con altre situazioni o compiti) e Diversivo sociale (evitare la situazione stressante tramite il diversivo sociale). Questionario per la valutazione delle convinzioni di efficacia, delle percezioni di contesto, degli atteggiamenti verso il lavoro e della soddisfazione nei contesti scolastici (Steca, Picconi , Gerbino, 2002). Tutte le scale prevedono, per ciascuno degli item, un formato di risposta costituito da una scala Likert a 7 punti. Il questionario è composto da diverse scale che definiscono le Convinzioni di efficacia: Scala dell’efficacia personale percepita (12 item che valutano la convinzione dei docenti di essere all’altezza di quanto richiesto dal proprio ruolo e di far fronte ad ogni emergenza o eventualità, ad esempio nel rapporto con le famiglie o con i propri colleghi, nella gestione della classe o degli alunni difficili) e Scala dell’efficacia collettiva percepita (9 item che misurano le convinzioni di ciascun docente rispetto alla capacità della propria scuola di padroneggiare compiti complessi e di far fronte alle innumerevoli situazioni critiche, di affrontare le problematiche connesse all’abbandono scolastico, di gestire le relazioni con gli enti locali e fronteggiare le richieste dell’autonomia scolastica). Soddisfazione lavorativa (4 item che misurano il grado di soddisfazione per il proprio ruolo, le possibilità di crescita personale, l’ambiente di lavoro e il grado di appagamento di bisogni personali attraverso il lavoro). Impegno lavorativo (6 item che valutano il legame che la persona stabilisce con l’organizzazione e l’impegno per il raggiungimento degli obiettivi). Percezione del
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contesto scolastico: Scala della percezione del dirigente scolastico (7 item che misurano il grado in cui gli insegnanti valutano la capacità del proprio dirigente scolastico di individuare le risorse interne alla scuola, di promuovere la collaborazione e di stabilire chiari obiettivi), Scala della percezione dei colleghi (6 item che valutano la percezione dei rapporti di lavoro, dell’operato dei colleghi e dell’efficacia della comunicazione sia tra colleghi che tra questi ultimi gli alunni e le famiglie), Scala della percezione degli alunni (4 item che valutano la percezione delle relazioni tra docenti e alunni, dell’interesse di questi ultimi verso le materie insegnate e del rispetto mostrato verso gli ambienti e le persone), Scala della percezione delle famiglie (4 item che misurano la percezione della relazione tra docenti e genitori, del grado i cui questi ultimi partecipano e si interessano alla vita scolastica dei figli), Scala della percezione del personale tecnico-ausiliario (4 item che misurano la percezione di come il personale tecnico-ausiliario svolge il proprio lavoro in termini di competenza e flessibilità), Scala della percezione dell’ambiente fisico (4 item che misurano la valutazione delle strutture scolastiche, della loro adeguatezza alle esigenze didattiche e della sicurezza in generale).
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4. Risultati È stata effettuata un’analisi comparativa tra il gruppo di insegnanti curricolari e il gruppo di insegnanti di sostegno per verificare eventuali differenze nello stile assertivo, nei livelli di burnout, nell’utilizzo delle strategie di coping e nelle convinzioni di efficacia, percezioni di contesto e atteggiamenti verso il lavoro. Inoltre, sono stati effettuati confronti entro i gruppi tra le diverse componenti dei fattori presi in esame. Considerata la natura dei dati, si è preferito procedere con un’analisi statistica dei dati non parametrica. Assertività La tabella 2 mostra Medie e Deviazioni standard dei punteggi ottenuti al Questionario sull’assertività. Stile assertivo passivo
Stile assertivo aggressivo
M
SD
M
SD
Curricolari
65.66
10.04
23.46
5.15
Sostegno
62.89
9.35
22.50
4.60
Tab. 2: Medie e deviazioni standard Questionario assertività
Dal confronto tra i gruppi, utilizzando il test non parametrico di Mann-Whitney, non sono emerse differenze significative tra insegnanti curricolari e di sostegno né nello stile assertivo passivo [U=559,500; p=ns] né nello stile assertivo aggressivo [U=601,500; p=ns]. L’analisi entro i gruppi (test di Wilcoxon) ha, invece, messo in evidenza risultati significativi. In particolare, i dati mostrano che sia il gruppo degli insegnanti curricolari [Z=-5.161; p<.001] che quello di sostegno [Z=-5.376; p<.001] sembrano preferire uno stile di comportamento assertivo maggiormente rivolto alla passività, con la tendenza, cioè, a non esprimere i propri sentimenti e desideri e a subire tacitamente le prevaricazioni.
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Il grafico 1 mostra i punteggi medi ottenuti al Questionario sull’assertività da entrambi i gruppi di insegnanti.
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Graf. 1: Assertività
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Burnout La tabella 3 mostra Medie e Deviazioni standard dei punteggi ottenuti al LBQ – Link Burnout Questionnaire. Esaurimento psicofisico
Deterioramento relazionale
Inefficacia personale
Disillusione
M
SD
M
SD
M
SD
M
SD
Curricolari
11.80
5.604
10.57
3.837
13.74
3.633
20.77
2.860
Sostegno
13.47
6.387
11.89
3.896
13.71
3.683
20
2.671
Tab. 3: Medie e deviazioni standard - LBQ – Link Burnout Questionnaire
L’analisi dei dati non rileva alcuna differenza significativa tra i due gruppi di insegnanti nelle diverse manifestazioni del burnout: esaurimento psicofisico [U=543,000; p=ns], deterioramento relazionale [U=516,500; p=ns], inefficacia personale [U=626,000; p=ns] e disillusione [U=555,000; p=ns]. Diversamente, l’analisi condotta entro i gruppi (test di Friedman) mostra differenze altissimamente significative tra le diverse sintomatologie del burnout sia per quanto riguarda gli insegnanti curricolari [X2(3)=62.143; p<.001] sia per quanto riguarda i docenti di sostegno [X2(3)=43.782; p<.001]. Nello specifico, sembra che gli insegnanti, a prescindere dal loro incarico, mostrino profonda disillusione per il proprio lavoro, considerato routinario e privo di interesse, e percepiscano un forte senso di inefficacia professionale e esaurimento psicofisico, soprattutto in coloro che si occupano di alunni con bisogni educativi speciali. Il grafico 2 mostra i punteggi medi ottenuti al LBQ – Link Burnout Questionnaire da entrambi i gruppi di insegnanti.
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Graf. 2: Bournout
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Strategie di coping La tabella 4 mostra Medie e Deviazioni standard dei punteggi ottenuti al CISS – Coping Inventory for Stressful Situations.
Curricolari Sostegno
Manovra
Emozione
Evitamento
M
SD
M
SD
M
SD
Distrazione M
SD
Diversivo sociale M
SD
59.83
7.270
38.74
11.270
43.80
10.740
20.06
6.485
16.17
3.792
62
8.334
37.74
10.904
42.79
11.378
18.26
6.395
16.74
4.366
Tab. 4: Medie e deviazioni standard - CISS – Coping Inventory for Stressful Situations
I risultati non mostrano differenze significative tra gli insegnanti curricolari e di sostegno in nessuna delle strategie di coping indagate dallo strumento: manovra [U=571,500; p=ns], emozione [U=626,500; p=ns], evitamento [U=585,000; p=ns], distrazione [U=531,500; p=ns] e diversivo sociale [U=614,500; p=ns]. Tuttavia dati interessanti emergono dal confronto tra le diverse sottoscale del questionario, effettuato entro il gruppo degli insegnanti curricolari [X2(4)=125.381; p<.001] e entro quello di sostegno [X2(4)=130.794; p<.001]. In particolare, sembra che, nel fronteggiare eventi stressanti, tra tutte le alternative, entrambi i gruppi preferiscono utilizzare strategie di coping orientate al compito, che tentano di risolvere il problema ristrutturandolo cognitivamente e programmando tentativi di soluzione. Anche se in molti casi, l’evitamento della situazione stressante, sebbene sia una funzionalità maladattiva del coping, viene anch’essa utilizzata con più alta frequenza rispetto ad altre opzioni più funzionali. Il grafico 3 mostra i punteggi medi ottenuti al CISS – Coping Inventory for Stressful Situations.
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Graf. 3: Strategie di coping
Soddisfazione lavorativa
M (SD)
M (SD)
M (SD)
M (SD)
M (SD)
M (SD)
M (SD)
M (SD)
M (SD)
Curricolari
72.09 (4.73)
50.4 (9.48)
39.09 (9.93)
31.54 (6.66)
22.31 (3.24)
10.91 (2.57)
21.8 (4.25)
22.69 (3.89)
22.17 (4.47)
22.6 (4.29)
21.11 (5.02)
22.14 (4.57)
34.06 (5.71)
22.29 (4.5)
22.97 (3.59)
Sostegno
70 (9.76)
50.74 (8.04)
40.68 (7.74)
31.87 (6.61)
22 (4.53)
11.92 (1.84)
20.89 (4.6)
21.37 (3.9)
17.76 (4.61)
19.26 (5.74)
21.89 (4.15)
21.68 (4.71)
34.34 (5.28)
20.71 (4.8)
22.87 (4.28)
Innovazione
M (SD)
Autonomia
M (SD)
Ambiente fisico
M (SD)
Istituzioni
M (SD)
Alunni
M (SD)
Famiglie
M (SD)
Colleghi
Coinvolgimento lavorativo
Impegno organizzativo
Personale segreteria
Personale ausiliario
Dirigente scolastico
Efficacia collettiva
Efficacia personale
Convinzioni di efficacia, percezioni di contesto e atteggiamenti verso il lavoro La tabella 5 mostra Medie e Deviazioni standard dei punteggi ottenuti al Questionario per la valutazione delle convinzioni di efficacia, delle percezioni di contesto, degli atteggiamenti verso il lavoro e della soddisfazione nei contesti scolastici.
Tab. 5: Medie e deviazioni standard Questionario per la valutazione delle convinzioni di efficacia, delle percezioni di contesto, degli atteggiamenti verso il lavoro e della soddisfazione nei contesti scolastici.
Dal confronto tra i due gruppi, emergono differenze significative nella percezione delle istituzioni [U=300,000; p<.001], nella percezione dell’ambiente fisico [U=425,000; p<.01] e nel coinvolgimento lavorativo [U=476,500; p<.05]. Nello specifico, gli insegnanti curricolari, rispetto ai colleghi di sostegno, percepiscono un maggior sostegno da parte delle istituzioni, valutano le strutture scolastiche che li ospitano sufficientemente sicure ed adeguate alle esigenze didattiche e anche il loro coinvolgimento nelle attività lavorative appare più funzionale e maggiormente adattivo rispetto a quello mostrato dal gruppo di sostegno. Inoltre, confrontando le scale del questionario, si evince che la percezione dei numerosi fattori differisce in maniera significativa sia nel gruppo degli insegnanti curricolari [X2(14)=352.576; p<.001] sia in quello dei docenti di sostegno [X2(14)=419.032; p<.001]. Nello specifico, entrambi i gruppi sembrano attribuire un peso rilevante alle convinzioni di efficacia personale e collettiva, alla competenza del proprio dirigente scolastico e all’impegno investito per il raggiungimento degli obiettivi della scuola.
ricerche
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Il grafico 4 mostra i punteggi medi ottenuti al Questionario per la valutazione delle convinzioni di efficacia, delle percezioni di contesto, degli atteggiamenti verso il lavoro e della soddisfazione nei contesti scolastici.
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Graf. 4: Convinzioni di efficacia, percezioni di contesto e atteggiamento verso il lavoro
4.1 Correlazioni Sono state effettuate, all’interno di ogni gruppo, analisi correlazionali (rho di Spearman) tra i livelli di burnout e le altre variabili indagate, al fine di verificare se esiste una relazione tra i diversi aspetti e come tale relazione varia in funzione del ruolo assunto dall’insegnante (curricolare vs sostegno). Burnout e stile assertivo Per quanto riguarda il gruppo degli insegnanti curricolari, i risultati indicano che più elevato è il livello di esaurimento psicofisico del docente maggiore sarà il senso di inadeguatezza professionale percepito (r=.623; p=<.001), a discapito di un più marcato deterioramento delle relazioni interpersonali (r=.615; p=<.001). Non sembra, invece, avere un peso rilevante, nella manifestazione del burnout, lo stile assertivo adottato dall’insegnante. Nel caso degli insegnanti di sostegno, i risultati mettono in evidenza correlazioni più complesse tra i diversi sintomi del burnout e lo stile assertivo utilizzato. In particolare, a maggiore livello di esaurimento psicofisico corrisponde una scarsa qualità nei rapporti sociali (r=.666; p=<.001), scarsa autoefficacia professionale (r=.535; p=<.01) e una maggiore predisposizione ad utilizzare uno stile assertivo aggressivo (r=.376; p=<.05). Tale predisposizione all’aggressività sembra essere presente anche in quegli insegnanti che hanno perso ogni interesse e motivazione per il proprio lavoro (r=.493; p=<.01) e che non riescono più a mantenere adeguate relazioni sociali (r=.493; p=<.01). Burnout e strategie di coping Nel gruppo degli insegnanti curricolari, i dati mettono in evidenza che più le relazioni interpersonali tendono a diventare alienate e ciniche minore sarà la probabilità
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di utilizzare strategie di coping altamente funzionali quali la manovra (r=.-362; p=<.05). Non risultano significative le correlazioni tra le altre variabili. Per gli insegnanti di sostegno, invece, forse a causa del maggiore rischio di stress a cui vanno incontro nello svolgimento della loro attività didattica, le diverse manifestazioni del burnout sembrano avere un ruolo maggiormente rilevante nella definizione delle modalità di fronteggiamento dello stress. Nello specifico, l’esaurimento delle risorse fisiche e psichiche (r=.-478; p=<.01) unito alla percezione di impotenza e inefficacia professionale (r=.-365; p=<.05) sembrano impedire al docente di risolvere il problema in maniera funzionale, cioè ristrutturando cognitivamente la situazione e trovando soluzioni alternative. È pur vero, però che potrebbe anche essere che l’incapacità, da parte del docente, di utilizzare un coping centrato sul compito, modalità altamente funzionale, lo predisponga maggiormente al rischio di subire eccessivamente lo stress, con conseguente esaurimento delle risorse psicofisiche e senso di inadeguatezza professionale. Burnout e convinzioni di efficacia, percezioni di contesto e atteggiamento verso il lavoro Gli insegnanti curricolari che mostrano minore senso di efficacia personale (r=.423; p=<.05) e collettiva (r=.-415; p=<.05), che valutano meno competente il proprio dirigente scolastico (r=.-481; p=<.01) e hanno una scarsa considerazione dell’operato dei propri colleghi (r=.-598; p=<.001) e del personale ausiliario (r=.386; p=<.05) sembrano manifestare più alti livelli di esaurimento psicofisico. Una tale carenza di risorse psicofisiche si lega a minore impegno organizzativo da parte del docente (r=.-533; p=<.051), scarso coinvolgimento lavorativo (r=.-335; p=<.05) e insoddisfazione per il proprio lavoro (r=.-447; p=<.01). Inoltre, convinzioni di inefficacia personale (r=.-534; p=<.01) e collettiva (r=.-630; p=<.001), una scarsa percezione circa il lavoro del proprio dirigente scolastico (r=.-581; p=<.001), dei propri colleghi (r=.-534; p=<.001) e del personale ausiliario (r=.-607; p=<.001) si correlano a un deterioramento delle relazioni sociali, molto frequente in condizioni di burnout. La convinzione negativa di ciascun docente rispetto alla capacità della propria scuola di padroneggiare compiti complessi e di far fronte alle innumerevoli situazioni critiche (efficacia collettiva) (r=.-437; p=<.01) e la percezione del contesto scolastico, in termini di inefficienza nei rapporti con il dirigente scolastico (r=.-545; p=<.01), con i colleghi (r=.-513; p=<.01) e con il personale ausiliario (r=.-379; p=<.05) sembrano legarsi, inoltre, a una maggiore sensazione di inadeguatezza professionale e rischio burnout. Mentre una riduzione del legame che la persona stabilisce con l’organizzazione scolastica (r=.-576; p=<.001) e anche del grado di appagamento dei bisogni personali attraverso il lavoro (r=.-405; p=<.05) sembrano favorire un alto grado di disillusione per il proprio lavoro. Per quanto riguarda gli insegnanti di sostegno, un livello di esaurimento psicofisico disadattivo sembra legarsi a una scarsa fiducia nell’operato delle istituzioni (r=.-344; p=<.05) e alla percezione di non riuscire ad agire in piena autonomia (r=.-339; p=<.05). Inoltre, il senso di spossatezza sembra condizionare anche l’impegno che il docente investe nell’organizzazione (r=.-428; p=<.01) e la soddisfazione per il suo lavoro (r=.-526; p=<.01). Il deterioramento dei rapporti interpersonali sembra, invece, correlato soprattutto con i rapporti con il personale ausiliario (r=.-336; p=<.05), con le famiglie (r=.-327; p=<.05) e con gli alunni (r=.430; p=<.01), condizionando conseguentemente il più generale grado di soddisfazione e benessere legato alla propria attività lavorativa (r=.-383; p=<.05). Inoltre, a una scarsa autostima personale (r=.-437; p=<.01), a rapporti inadeguati con le famiglie (r=.-322; p=<.05), a una scarsa fiducia nell’operato delle istituzioni (r=.323; p=<.05) e a un mancato senso di autonomia sembra corrispondere un elevato
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senso di incompetenza professionale. Un tale stato di inadeguatezza, in ambito professionale, si lega a elevati livelli di insoddisfazione lavorativa (r=.-458; p=<.01) significativamente connessi al rischio burnout.
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Discussione L’obiettivo principale di questo studio era approfondire la relazione tra fattori individuali, quali lo stile assertivo e le strategie di coping, e contestuali, quali le convinzioni di efficacia, la percezione del contesto scolastico e l’atteggiamento verso il lavoro, e la comparsa della sindrome del burnout negli insegnanti. Nello specifico, la letteratura nazionale e internazionale ha, da tempo, rivelato evidenti elementi di complessità intrinseca legati alla categoria degli insegnanti di sostegno, più esposti degli altri a pratiche educative impegnative (Snowman & Biehler, 2000) e a un maggior addensamento di emergenze educative e di fonti stressanti in campo scolastico (Beck & Garguilo, 2001; Billingsley, 2004; Eloff, Engelbrecht, Oswald, & Swart, 2003). Più specificamente, alcuni ricercatori hanno mostrato come gli insegnanti di sostegno manifestino esigenze diverse rispetto a qualche anno fa (Bester & Swanepoel, 2000; Gersten, Keating, Yovanoff, & Harniss, 2001; Canevaro, 2013) e presentino tassi di abbandono più elevati nella professione rispetto a quelli curricolari. Pertanto, in questo studio, si è voluta verificare l’esistenza di differenze significative tra insegnanti di sostegno e insegnanti curriculari nelle variabili sopra considerate e valutare, all’interno di ogni gruppo di docenti, la relazione che ognuna di queste assume in riferimento alle diverse manifestazioni del burnout. L’analisi comparativa, sebbene non evidenzi differenze significative tra i due gruppi di docenti nelle variabili individuali indagate (stile assertivo, modalità di coping e manifestazioni del burnout), indica, tuttavia, che gli insegnanti curricolari sembrano attribuire maggiore peso, rispetto ai colleghi di sostegno, ai fattori contestuali, quali soprattutto il ruolo delle istituzioni, l’ambiente fisico e il grado di coinvolgimento lavorativo. Una tale differenza nella percezione del contesto e nell’atteggiamento verso il proprio lavoro potrebbe essere in parte dovuto al diverso grado di partecipazione e coinvolgimento alle attività organizzative e scolastiche che caratterizza questi gruppi di insegnanti. Ciononostante, tutti i docenti partecipanti concordano nel ritenere il senso di autoefficacia personale e collettiva, la percezione del dirigente e l’impegno organizzativo quali fattori maggiormente rilevanti nella percezione globale del contesto scolastico. Inoltre, i risultati mostrano che entrambi i gruppi di insegnanti sembrano adottare tendenzialmente uno stile assertivo passivo e una modalità di coping orientato al compito, come la manovra; anche se, pur se non in maniera significativa, evitare la situazione stressante sembra comunque una strategia di fronteggiamento adottata da molti di loro. Per quanto riguarda, infine, il burnout, gli insegnanti, a prescindere dal loro ruolo, mostrano una grave sofferenza psicologica per l’eccessivo carico di lavoro a cui sono quotidianamente sottoposti che, unita alla carenza di risorse individuali e contestuali, contribuisce alla demotivazione e disillusione nei confronti del proprio lavoro e a un profondo senso di inefficacia professionale, con importanti ricadute sul loro più generale benessere psicofisico. Sebbene non significativo, è bene sottolineare che negli insegnanti di sostegno, molto probabilmente connesso al grado di stress a cui sono maggiormente sottoposti, è evidente anche il rischio di esaurimento psicofisico che va ad aggravare un quadro psicologico già fortemente compromesso. Inoltre, dall’analisi correlazionale condotta all’interno di ogni gruppo di docenti, si evincono correlazioni significative tra le manifestazioni del burnout e gli
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altri fattori presi in esame. Nello specifico, rispetto allo stile assertivo, sembra che, soprattutto per gli insegnanti di sostegno, alti livelli di esaurimento, inefficacia e disillusione rappresentano un fattore di rischio nell’utilizzo di modalità interattive tendenti all’aggressività. Ciò potrebbe compromettere seriamente i rapporti interpersonali dell’insegnante con i colleghi, alunni e genitori, con conseguenze ancor più negative sul proprio benessere psicologico ed emotivo. È noto che di fronte ad un evento stressante le modalità di reazione allo stress sono influenzate da notevoli fattori interni ed esterni all’individuo e l’adeguatezza delle strategie adottate può rappresentare un fattore di protezione nella comparsa del burnout. In effetti, i risultati del nostro studio indicano che, utilizzare modalità di fronteggiamento altamente funzionali, quali la manovra, aiuta a contenere gli effetti negativi del burnout, contribuendo negli insegnanti curricolari ad arginare il deterioramento delle relazioni interpersonali, mentre negli insegnanti di sostegno a ridurre l’esaurimento psicofisico e il senso di inefficienza professionale. Quindi, promuovere nel docente, anche attraverso specifici training di potenziamento, l’uso di tecniche di coping più efficaci favorirebbe lo sviluppo di stati emotivo-motivazionali più funzionali, aumentando la soddisfazione e il coinvolgimento lavorativo. Rispetto al contesto, c’è da dire, infine, che la comparsa del burnout negli insegnanti curricolari sembra essere fortemente influenzata da convinzioni di efficacia personale e collettiva inadeguate e da rapporti con i colleghi, con il dirigente scolastico e con il personale di supporto fortemente insoddisfacenti, che contribuiscono non soltanto a deteriorare la qualità delle relazioni sociali ma intaccano soprattutto le risorse psicofisiche dell’insegnante e la sua percezione di competenza professionale. Diversamente, per i colleghi di sostegno, l’esaurimento psicofisico sembra essere maggiormente influenzato dalla mancanza di autonomia e dalla inadeguatezza dei rapporti con gli alunni e con le loro famiglie. Infatti, la percezione di una certa limitatezza nelle loro attività didattiche e il non riuscire, forse a causa di questa stessa restrizione, a instaurare e mantenere relazioni soddisfacenti con gli alunni che seguono e con i loro genitori provocano, in questi insegnanti, un forte senso di inefficacia e disimpegno professionale, che a lungo termine potrebbero portare a demotivazione e abbandono del proprio lavoro. In conclusione, si può affermare che, così come dimostrato in letteratura, la convinzione di efficacia personale e professionale, la percezione del contesto e l’atteggiamento verso il lavoro possono rappresentare dei potenziali fattori di rischio nei casi in cui questi risultano inadeguati e si legano a condizioni psicofisiche già fortemente compromesse o allorquando le risorse dell’insegnante sono insufficienti a fronteggiare elevati livelli di stress. Mentre questi stessi fattori possono risultare altamente protettivi se contribuiscono a mantenere l’equilibrio psicofisico del soggetto e a favorire una maggiore soddisfazione in ambito lavorativo. Ciononostante è bene sottolineare che l’efficacia professionale e la qualità dei rapporti “macro” (dirigente, colleghi, istituzioni, personale ausiliario) sembrano maggiormente influire sulla comparsa del burnout negli insegnanti curricolari, mentre la percezione di autonomia e i contatti “micro” (alunni, famiglie) sembrano regolare negli insegnanti di sostegno lo stato emotivo-motivazionale. A questo proposito, indicative rimangono quelle ricerche condotte in ambito italiano (Meazzini, 2000; Pedditzi, Nonnis, 2009) incentrate sulla soddisfazione professionale che evidenziano come gli stili comunicativi caratterizzati da passività, aggressività e mancanza di assertività siano predittori dell’esaurimento emotivo e della depersonalizzazione e quelli di assertività e a ridotta passività e aggressività siano predittori della realizzazione personale degli insegnanti (Pedditzi, 2005), richie-
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dendo in tal senso una formazione iniziale e continua adeguata orientata verso uno sviluppo appropriato delle capacità relazionali e diretta a contrastare l’uso di stili comunicativi incentrati sull’aggressività, sulla passività e sull’anassertività, oltre che volta a potenziare una comunicazione efficace (Pedditzi, Nonnis, 2009). Ciò diviene estremamente importante se si riconduce tale formazione ai profili motivazionali degli insegnanti, i quali variano durante l’arco della carriera così come la volontà di impegnarsi in nuove pratiche educative che varia a seconda delle differenti fasi professionali: pertanto sostenere e promuovere nuove competenze e conoscenze negli insegnanti, come anche la loro efficacia, diviene dunque il motore centrale per un cambiamento della professionalità nel tempo che tenda a rafforzare la capacità degli insegnanti di riuscire a comprendere ciò di cui hanno personalmente e professionalmente bisogno.
5. Limiti dello studio e conclusioni
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Lo studio presenta alcuni limiti individuabili nella esiguità del campione e nel metodo di campionamento impiegato. Si tratta di un campionamento non probabilistico per convenienza. Le ridotte dimensioni del campione e i raggruppamenti dello studio potrebbero non renderlo completamente rappresentativo della popolazione di riferimento. Tuttavia, nonostante le piccole dimensioni del campione, significativi appaiono i risultati che forniscono informazioni dettagliate sul ruolo delle convinzioni di efficacia personale, della percezione del contesto e dell’atteggiamento degli insegnanti nei confronti del lavoro nelle situazioni in cui compaiono manifestazioni di burnout. Se dunque i limiti strutturali dello studio impediscono di descrivere i meccanismi sottostanti da cui tale interazione dipende e di fornire il peso assunto dalle singole variabili, aspetti che sarebbe opportuno esplorare con un ulteriori e più approfondite indagini, interessante sembrano essere i risultati a cui giunge l’indagine come punto di partenza per future esplorazioni dirette a cercare di comprendere meglio il rapporto e il significato assunto dalle variabili socio-culturali in relazione alle misure studiate. Una delle strade potrebbe essere quelle di orientare gli studi verso la ricostruzione dei profili motivazionali degli insegnanti in formazione iniziale e continua, prestando particolare attenzione ai tre domini di autoefficacia (coinvolgimento degli studenti, strategie didattiche e gestione dell’aula), fattori principali connessi allo stress lavorativo, in termini di carico di lavoro e attività di classe, e alla soddisfazione sul lavoro (Klassen, Chiu, 2010). È noto infatti come ricerche precedenti si siano occupate di dimostrare che l’auto-efficacia negli insegnanti aumenti nelle prime fasi della loro carriera e diminuisca a fine carriera. Pertanto, risulterebbe utile, soprattutto in fase in formazione iniziale, mettere in condizione gli insegnanti di prendere coscienza delle proprie risorse personali che li aiutino ad imparare a gestire i processi di insegnamento-apprendimento, ad acquisire sistemi di contenimento dello stress, ad attivare strategie comunicative (verbali e non) in grado di cogliere e comprendere i conflitti nei processi di interazione che si svolgono nei percorsi di insegnamento-apprendimento, oltre che ad accrescere le abilità che concorrono a determinare l’autocontrollo dei propri obiettivi nel rapporto tra aspettative corrette e capacità possedute (Pedditzi, Nonnis, 2009). Tutto questo appare legato al bisogno di incrementare l’autonomia emotiva e il rafforzamento della conoscenza dei propri vissuti allo sviluppo professionale e ai programmi di formazione che, se incentrati prevalentemente nelle fasi iniziali della carriera degli insegnanti, possono
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contribuire meglio a sostenere il corredo di competenze e conoscenze che concorrono ad accrescere la loro fiducia sia nelle proprie possibilità sia nelle capacità di insegnare. Recenti studi sulla Self Determination Theory (Deci & Ryan, 1985), condotti in ambiti diversi, mostrano il ruolo cruciale dei bisogni di base nello sviluppo di motivazioni maggiormente autonome e nella promozione del benessere psicofisico dell’insegnante per lo svolgimento del proprio lavoro e per la qualità dell’insegnamento. Ciò fornisce nuove e interessanti prospettive di ricerca volte a definire e comprendere meglio il ruolo della motivazione e della soddisfazione/ frustrazione dei bisogni di base (autonomia, relazione, competenza) nello sviluppo e nel mantenimento di stati di benessere emotivo maggiormente funzionali ad una azione didattica soddisfacente e ad una complessiva efficacia professionale.
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Giornale Italiano della Ricerca Educativa
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Italian Journal of Educational Research
Globalizzazione e nuovi profili identitari tra i giovani. Alcune riflessioni sull’educazione nella società globale
Marinella Muscarà - Università degli Studi di Enna Kore – muscara@unikore.it Roberta Messina - Università degli Studi di Enna Kore – roberta.messina@unikore.it
Globalization and new Identity Profiles among young people. Some reflections on Education in a globalized society Starting from a review of the most recent theories on the effects of Globalization on Youth Identity formation and the main proposals on Identity Education and Global Education, this paper presents the results of a validation of the SAC-GL Questionnaire (Scale of measurement of the sense of belonging of global and local community), created by Muscarà and Messina, in order to verify three Identity Profiles (Bicultural- Monocultural and Confused) shaped by Arnett (2002). Based on the results achieved, the authors propose some food for thought for the possible implications in education regarding the planning of practices aimed at Bicultural Identity profile formation in which values, traditions, practices and style of life merge, in mutual relationship, with a new and complex form of a globalized society.
Parole chiave: Globalizzazione, Identità, Appartenenza, Villaggio Globale, Identity Education, Global Education.
Keywords: Globalization, Identity, Sense of Belonging, Global Village, Identity Education, Global Education.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Muovendo dalla rassegna delle teorie più recenti sugli effetti della globalizzazione nei processi di formazione dell’identità culturale dei giovani, e da una sintetica ricognizione delle principali proposte teoriche e pratiche relative alla Identity Education e alla Global Education, vengono illustrati i risultati dello studio di validazione di un apposito strumento, il questionario SAC-GL (Scala di misurazione dell’Appartenenza alla Comunità Globale e Locale) elaborato dagli autori ai fini della verificabilità dei tre profili identitari (Biculturali, Monoculturali e Confusi) teorizzati da Jeffrey Jensen Arnett (2002). Alla luce dei risultati ottenuti, gli autori propongono alcuni spunti di riflessione sulle possibili implicazioni in campo educativo, in relazione alla progettazione di pratiche orientate alla formazione di identità biculturali in cui i valori, le tradizioni, le pratiche e gli stili di vita si fondono, in un rapporto di mutua reciprocità, con le nuove e complesse forme della società globalizzata.
Globalizzazione e nuovi profili identitari tra i giovani. Alcune riflessioni sull’educazione nella società globale
Introduzione
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Sebbene il termine “globalizzazione” sia entrato nel linguaggio comune della società contemporanea, la sua definizione è però ampia e varia. Giddens definisce la globalizzazione come “l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa” (Giddens, 1994, p. 71), riconoscendo nella scomposizione delle categorie di spazio e tempo il nucleo centrale dei moderni processi di globalizzazione. Tali mutamenti hanno determinato nuovi modi di approcciare, conoscere e gestire i processi di funzionamento e i cambiamenti interni della società. Se un tempo le azioni umane erano contestualizzate all’interno di riferimenti spazio-temporali ben determinati e le conoscenze sulle azioni passate potevano essere utilizzate come strumento per controllare le azioni future, con l’avvento della modernità i riferimenti spazio-temporali delle azioni umane si sono dilatati e sono diventati, pertanto, in larga misura imprevedibili. Uno dei più potenti effetti della globalizzazione in epoca tardo-moderna consiste, dunque, nello sgretolamento dei tradizionali supporti della coesione sociale, che si traduce inevitabilmente nel dissolvimento delle vecchie forme identitarie costruite su basi relazionali salde e sicure (Bauman, 2003). Nella visione di Bauman della modernità si ritrova la preoccupazione per la definizione di un corso preciso degli eventi futuri, per il controllo di una realtà inafferrabile e indefinibile, pregna di un’ambivalenza che complica l’interpretazione della realtà, e sfocia in una dissonanza cognitiva “degradante, invalidante e difficile da sopportare” (Bauman, 2003, p. 90). In questo quadro, il progetto della “autoidentificazione” sembra essere l’unico strumento per la costituzione di una società in grado di gestirsi da sé, in maniera autonoma. Il progetto dell’auto-costituzione sociale e individuale è strettamente connesso ai processi di formazione dell’identità individuale, che, secondo Napolitani (1987), può essere ricondotta alle due dimensioni dell’idem (essere uguale a) e dell’autòs (autenticità e individualità soggettiva). Secondo Napolitani, l’idem interiorizza un intero modo di essere ereditato dal passato, dalla propria matrice di provenienza mentre l’autòs permette di riorganizzare e reinterpretare, differenziandosene, ciò che è conosciuto in qualcosa di diverso ed unico. La duplice composizione dell’identità individuale ricalca la dialettica interna alla società moderna. In altre parole, se il rispetto delle pratiche e dei costumi locali richiama l’idea dell’idem, l’onda globalizzante che spinge ad oltrepassare i confini nazionali e a creare nuove soluzioni e forme culturali può essere accostata alla dimensione dell’autòs. Questa dinamica di reciprocità crea i presupposti perché l’imperialismo culturale si trovi costretto a negoziare con tradizioni, valori, costumi e pratiche locali, impedendo in tal modo qualunque forma di omogeneizzazione e omologazione (Schachter, Rich, 2001).
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1. Gli effetti della globalizzazione sullo sviluppo dell’identità In accordo con Erikson, l’adolescenza, in quanto rappresenta l’ultima tappa dell’età infantile e il primo passo verso l’età adulta, è la fase decisiva per lo sviluppo dell’identità (Erikson, 2008). In questo passaggio, l’adolescente si confronta, da una prospettiva diversa, con una nuova immagine di sé che lo introdurrà al mondo degli adulti. Il processo di esplorazione, da cui deriva una confusione identitaria che Erikson definisce moratoria psico-sociale, rappresenta una fase di transizione finalizzata all’investigazione di “possibili sé” nell’ambito della vita relazionale, culturale e lavorativa per giungere successivamente all’assunzione di responsabilità nell’effettuare delle scelte in età adulta. In questa fase di esplorazione, la società (e in essa la scuola) risulta determinante per la proposta di quadri esperienziali nei quali incontrare e sperimentare i valori tipici ed eventualmente scegliere se riconoscersi in essi. Considerando gli studi di Erikson, Arnett (2002) fornisce numerosi spunti di riflessione a proposito degli effetti della globalizzazione sullo sviluppo dell’identità individuale. Egli sostiene che gli adolescenti dimostrano una forte predisposizione e sensibilità nell’assorbimento di stili di vita, di pratiche e di valori tipici della società globale. Secondo l’autore (Arnett, 2002; Jensen et al., 2011), gli adolescenti e i giovani adulti tendono, infatti, ad utilizzare i global media (Internet, tv satellitare ecc.) e a preferire i global brands (stili musicali, video, film, abbigliamento, ecc.) in misura più significativa rispetto ai bambini e agli adulti, oltre che a sviluppare una coscienza o consapevolezza globale. Al senso di appartenenza alla comunità nazionale o locale si è dunque progressivamente accostata una percezione del mondo come interezza (Giddens, 1991; Robertson, 1992; Tomlinson, 1999), che implica in definitiva il riconoscimento della propria appartenenza ad una comunità di individui di nazionalità e culture diverse che aderiscono a pratiche e stili di vita diffusi in tutto il mondo, come ad esempio stili musicali, film, marchi di vestiario, catene alimentari, tecnologia e strumenti di comunicazione di massa. Tali trasformazioni, hanno dunque portato, secondo Arnett, alla nascita di nuove forme di appartenenza e di identità, categorizzate in Identità Biculturali, Identità Monoculturali e Identità Confuse. Il concetto di identità biculturale, originariamente utilizzato da vari autori (Berry, 1993, 1997; Phinney, 1990; Phinney, Devich-Navarro, 1997) con riferimento ai sentimenti di appartenenza degli immigrati e dei membri delle minoranze etniche, è stato adattato da Arnett al più ampio contesto globale. L’autore riconduce, infatti, l’identità biculturale al sentimento di appartenenza rivolto contestualmente sia alla società globale sia alla comunità locale. Grazie alle innumerevoli opportunità di comunicazione virtuale (e-mail, chat rooms, interactive computer games) e alla facilità di spostamento da un luogo ad un altro del pianeta, l’individuo ha la possibilità di sviluppare sentimenti di appartenenza alla comunità mondiale e, al contempo, di utilizzare i riferimenti legati alle tradizioni, ai valori e ai costumi locali per orientare il proprio comportamento specialmente nelle interazioni quotidiane con la famiglia, con gli amici e con i membri della propria comunità (Arnett, 2002). Tuttavia, gli effetti della globalizzazione possono anche favorire la formazione di identità monoculturali sbilanciate, che sviluppano cioè un alto senso di appartenenza verso la comunità globale ovvero verso la comunità locale. La cultura globale, nonostante possa essere considerata veicolo di valori (democrazia, libertà di scelta, tolleranza, apertura al cambiamento, rispetto delle differenze), porta insito in sé il rischio di creare una cultura omogenea, nella quale tradizioni e valori locali vengono mortificati per aderire a standard condivisi ma anche omologanti. In risposta al rischio di appiattimento dei valori della cultura locale, Arnett (1996, 2001, 2002) evidenzia come specularmente si possano formare
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identità monoculturali impermeabili con un alto senso di appartenenza verso la comunità locale. Se la globalizzazione può condurre, dunque, allo sviluppo di identità biculturali o monoculturali, Arnett ammette anche la possibilità che la globalizzazione aumenti il rischio di generare uno stato di confusione identitaria: è possibile, infatti, che le persone finiscano per sentirsi escluse sia dalla comunità globale sia da quella locale. In altre parole, i valori, le pratiche e gli stili di vita e le opportunità veicolati dalla cultura globale, sebbene mettano in crisi il sentimento di appartenenza alla cultura locale, vengono contestualmente percepiti come troppo distanti dall’esperienza immediata da realizzare nel contesto più prossimo. Secondo Arnett, le cause che generano confusione identitaria vanno ricondotte per l’appunto a ciò che Giddens (1994) definisce “processo di delocalizzazione”, inteso come la perdita dei punti di riferimento e dei legami con il contesto di provenienza che, in casi estremi, può causare un forte senso di alienazione e precarietà, fino a privare l’individuo delle linee guida e degli strumenti che ha a disposizione per interpretare e dare senso alla realtà. Arnett ricorre agli studi e alle ricerche di Berry (1993, 1997, 1998) sui processi di acculturazione degli immigrati per spiegare gli effetti della globalizzazione sulla formazione dell’identità. In analogia alla condizione di marginalizzazione vissuta dall’immigrato, che perde interesse verso la cultura originaria e al contempo rifiuta o si sente rifiutato dalla cultura del paese ospitante, Arnett afferma che la condizione di confusione identitaria dell’individuo deriva tanto dalla perdita di fiducia nella cultura locale – causata dell’esposizione alla cultura globale – quanto dalla percezione di esclusione dalla stessa. Se, classicamente, l’antropologia e le scienze sociali hanno condotto i propri studi seguendo specifiche distinzioni territoriali e culturali, in un mondo caratterizzato dalla delocalizzazione culturale gli scenari oggetto di studio mutano profondamente (Fabietti, 2012). Lo spostamento e la dispersione, fisica e virtuale, di enormi masse di individui portano ad elaborare nuove concezioni della loro esistenza e nuove forme di appartenenza, con profonde ripercussioni sul piano identitario. In altre parole, non sembra più sufficiente limitarsi all’analisi delle pratiche sociali, delle rappresentazioni culturali e delle istituzioni di cui è costituita la cultura di un gruppo umano localizzato. Appare invece necessario concentrarsi sulle caratteristiche di quelle comunità immaginate che, a seguito della deterritorializzazione, gli individui producono sempre più frequentemente (Fabietti, 2012).
2. Identity Education e pedagogia della globalizzazione Sapersi adattare in maniera dinamica e flessibile ai rapidi cambiamenti è una delle competenze chiave per vivere nella società del futuro sempre più multiculturale e globalizzata. Le agenzie educative come la scuola e l’università sono dunque chiamate in causa, a vari livelli, nella progettazione di percorsi educativi mirati alla formazione di persone e cittadini in grado di agire in un contesto locale e globale. La teoria dell’Identity Education (IdEd), sviluppata recentemente da Schachter and Rich (2011), fornisce un quadro teorico e concettuale utile a promuovere l’insieme di competenze sopra richiamate. L’IdEd viene definita come l’impegno significativo degli educatori nei processi e nelle aree relative allo sviluppo dell’identità degli studenti1. Gli autori ri-
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“[…] the purposeful involvement of educators with students’ identity-related processes or contents”.
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tengono che l’educatore eserciti un ruolo fondamentale di mediazione fra gli studenti e il contesto sociale. Esso viene declinato in tre livelli: micro, intermedio e macro (Schachter, Rich, 2011). L’educatore che si muove su un livello micro dovrà concentrarsi sulle caratteristiche del contesto scolastico, come ad esempio l’ampiezza e la disposizione della classe, l’omogeneità vs l’eterogeneità del livello socio-economico e culturale degli alunni ed i loro bisogni educativi. A livello intermedio, l’analisi contestuale si focalizza invece sulle caratteristiche della comunità, della famiglia e dell’istituzione scolastica in cui l’alunno è inserito. In riferimento a questo livello, gli autori individuano alcuni aspetti determinanti riguardanti la costruzione dell’identità individuale, come ad esempio le condizioni economiche, il credo religioso, i codici culturali e le logiche adottate nell’educazione dei figli. Sul piano del macro-contesto sociale, infine, l’analisi degli autori si concentra sulle forze economiche, culturali e religiose in grado di influenzare lo sviluppo dell’identità. Poiché contesti culturali individualisti o collettivisti, indirizzati ai valori democratici o autoritari, orientati verso l’adesione alla cultura globale o locale, influenzeranno in maniera differente la costruzione dell’identità dei giovani adolescenti, l’analisi del contesto macrosociale consentirà in definitiva all’educatore di indirizzare l’IdEd in maniera diversificata e specifica a seconda dello sfondo socio-culturale in cui l’adolescente è inserito ed agisce. La riflessione di Schachter and Rich (2011), mentre enfatizza l’importanza di una pratica pedagogica orientata all’educazione e alla formazione dell’identità, riconosce, al contempo, la necessità di declinare la pratica dell’IdEd all’interno del contesto storico, sociale e culturale in cui i giovani di oggi costruiscono il proprio ruolo di cittadini del mondo. Negli ultimi decenni, le acquisizioni sugli effetti psico-sociali della globalizzazione hanno indotto diverse istituzioni e organizzazioni non governative a riconoscere l’importanza di una prospettiva globale in educazione. Nel 1997, ad esempio, la confederazione internazionale OXFAM (1997) ha sottolineato la necessità di introdurre l’educazione alla cittadinanza globale nelle scuole primarie e secondarie. Dall’analisi delle politiche educative delle nazioni europee fornita nel rapporto INDIRE del 2012, si rileva che l’educazione alla cittadinanza è inclusa in tutti i curriculi nazionali dei paesi europei secondo tre approcci fondamentali: come insegnamento a sé stante, come parte di un altro insegnamento o, infine, come sottoforma di tematica trasversale. Gli obiettivi degli insegnamenti, inoltre, non riguardano la mera trasmissione di conoscenze, ma prevedono altresì lo sviluppo di competenze, atteggiamenti e valori legati ai principi fondamentali della società democratica, come l’eterogeneità culturale, lo sviluppo sostenibile e la dimensione europea e internazionale. I contenuti della normativa europea in tema di educazione alla cittadinanza richiamano le principali tematiche della Global Education, la cui definizione originaria è stata proposta in ambito accademico da Hanvey (1976). L’autore distingue cinque dimensioni legate alla consapevolezza globale che gli studenti dovrebbero essere aiutati a sviluppare: consapevolezza prospettica, consapevolezza delle condizioni planetarie, consapevolezza trasversale delle culture, conoscenza delle dinamiche globali e consapevolezza delle scelte umane. La consapevolezza prospettica implica la capacità di cogliere la pluralità di visioni del mondo riconducibili a popoli e nazioni diverse. La capacità di assumere punti di vista e prospettive diverse è utile a comprendere l’influenza che tali interpretazioni della realtà esercitano sul comportamento umano, senza mortificare le differenze ed evitando il rischio dell’omologazione. La consapevolezza delle condizioni del pianeta implica invece la conoscenza di tematiche ed eventi globali, come ad esempio la crescita della popolazione, i fenomeni migratori, le disparità economiche, l’esaurimento delle risorse naturali, i conflitti inter e intra-nazionali. Comprendere
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le cause e gli effetti degli eventi globali significa, secondo Hanvey, acquisire una visione complessiva del mondo. La terza dimensione, la consapevolezza trasversale delle culture, è legata alla capacità di riconoscere e sviluppare un atteggiamento empatico verso pratiche, valori e stili di vita differenti da cultura a cultura. L’acquisizione della conoscenza delle dinamiche globali implica invece la necessità di concepire il mondo come sistema interconnesso, in cui i processi di crescita e le dinamiche di cambiamento a livello locale si ripercuotono a livello nazionale e internazionale e viceversa. Con l’espressione “consapevolezza delle scelte globali”, infine, Hanvey intende la capacità degli studenti di modulare le proprie scelte individuali in base alla consapevolezza delle molteplici prospettive e dinamiche di crescita e di cambiamento che riguardano il sistema globale. Recentemente, Kirkwood (2001) ha comparato le definizioni di Global Education presenti in letteratura (Alger, Harf, 1986; Anderson et al., 1994; Becker, 1979; Merryfield, 1997; Tye, 1999; Tye, Tye, 1992) e ha individuato quattro temi ricorrenti e riconducibili alle cinque dimensioni della consapevolezza globale definite da Hanvey: acquisizione di prospettive multiple, comprensione e apprezzamento delle culture, conoscenza di eventi e questioni globali e concezione del mondo come sistema interconnesso. Hicks (2003), partendo da una revisione dei trentennali lavori sulla Global Education, identifica gli elementi chiave e fornisce alcune precisazioni terminologiche utili ad un uso appropriato delle espressioni Global Perspective e Global Education. L’autore ritiene infatti che, malgrado entrambe le locuzioni facciano riferimento alla dimensione educativa legata a tematiche globali, esse vadano adeguatamente distinte. Se l’espressione Global Education fa riferimento all’area accademica che riguarda l’insegnamento e l’apprendimento di eventi e pratiche globali, la Global Perspective rappresenta l’obiettivo educativo della Global Education, cui gli studenti devono mirare e che va adeguatamente declinato nei curriculi scolastici.
3. Ipotesi e obiettivi della ricerca Richiamando gli studi di Berry (1997) sui processi di integrazione culturale, Arnett (2002) ritiene che le identità biculturali rappresentino la condizione più adattiva nel mondo globalizzato. Seguendo questa linea teorica, la nostra ipotesi di partenza assume che la globalizzazione condiziona la formazione dell’identità dei giovani adulti (emerging adulthood) generando quattro diversi profili identitari, che abbiamo così definito: – G-local Identity (Global + local) – identità biculturale in cui coesistono identità biculturale in cui coesistono senza conflitto tratti della cultura globale e tratti della cultura locale; – Global Identity – identità monoculturale sbilanciata verso la cultura globale omologante a discapito della cultura locale del territorio dove si è cresciuti e si vive stabilmente; – Local Identity – identità monoculturale sbilanciata verso la cultura locale del territorio dove si è cresciuti e si vive stabilmente ed impermeabile rispetto alla cultura globale; – Confused Identity – identità che vivono ai margini sia della cultura locale che della cultura globale e che mostrano difficoltà nel riconoscersi in entrambe per vivere in equilibrio (latenza verso l’alienazione, l’auto-dissoluzione, l’uso di droghe e alcool, il cinismo o il nichilismo circa il ruolo nel mondo).
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4. Strumenti e Metodi Alla ricerca hanno partecipato volontariamente 858 studenti dell’Università di Enna Kore. Nella prima fase, finalizzata alla prima validazione dello strumento, sono stati coinvolti 409 studenti (Maschi: N=135, Metà=23,38, DSetà=4,94; Femmine: N=274, Metà=22,43, DSetà=4,01) a cui è stato somministrato il SAC-GL (Scala di misurazione dell’Appartenenza alla Comunità Globale e Locale), un questionario che abbiamo appositamente costruito composto da due scale realizzate per misurare il senso di appartenenza rispettivamente alla comunità globale e alla comunità locale. Nella seconda fase di validazione sono stati coinvolti i restanti 449 studenti (Maschi: N=162, Metà=23,11, DSetà=5,02; Femmine: N=287, Metà=22,56, DSetà=3,44), cui è stata somministrata la seconda versione del questionario SAC-GL, accompagnata da altre misure funzionali alla definizione dei profili ipotizzati. Le due somministrazioni sono state effettuate presso le aule informatiche del Centro linguistico di ateneo. Entrambe le versioni dei questionari, precedute da una breve introduzione sugli obiettivi della ricerca e dalla definizione dei concetti di comunità globale e locale, erano accompagnate da una breve scheda anagrafica utile a raccogliere informazioni sulle caratteristiche del campione (genere, età, provenienza e corso di studi). Sono stati somministrati i seguenti strumenti: – il questionario SAC-GL2, costituito in totale da 29 item con risposta su scala Likert a 4 punti (1-Assolutamente falso per me, 4-Assolutamente vero per me). Esso è inoltre suddiviso in due sottoscale: la scala SAC-G, composta da 15 item costruiti per misurare il grado di Appartenenza alla Comunità Globale; la scala SAC-L, composta da 14 item costruiti per misurare il grado di Appartenenza alla Comunità Locale; – l’Identity Style Inventory (ISI-3) di Berzonsky (1992)3, scala Likert a 5 punti (1-Non mi rispecchia per niente; 5-Mi rispecchia totalmente), costituito da 40 item finalizzati alla misurazione di quattro stili identitari: informativo, normativo, diffuso e impegno identitario; – il Big Five Questionnaire (Caprara et al., 2000, seconda edizione), composto da 5 scale Likert a 5 punti (1-Assolutamente falso per me, 5-Assolutamente vero per me) che misurano cinque fattori di personalità. Per gli obiettivi della nostra ricerca, sono state utilizzate le sottoscale di Dinamismo, Cooperatività, Cordialità, Scrupolosità, Controllo delle Emozioni, Apertura all’esperienza e Apertura alla cultura.
5. Validazione del Questionario SAC-GL: analisi fattoriale esplorativa e confermativa Per rilevare i profili identitari ipotizzati, le due sottoscale del questionario SACGL sono state sottoposte a procedura di validazione (Churchill, 1979). Facendo riferimento agli studi recenti sui processi di funzionamento dell’identità nell’adolescenza e tardo-adolescenza (Crocetti et al., 2008a; Crocetti et al., 2008b; Berzonsky, 1989, 1990; Berzonsky, Kuk, 2000; Berzonsky, Adams, 1999) e negli immigrati
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Per richiedere una copia del questionario contattare gli autori. Validazione italiana a cura di Crocetti et al. (2009)
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(Phinney, 1990), sono stati generati 23 item per ciascuna scala (SAC-G e SAC-L). I dati ottenuti dalla prima somministrazione del questionario SAC-GL sono stati sottoposti ad una prima fase di validazione mediante l’analisi fattoriale esplorativa (EFA)4, che ha indirizzato verso una soluzione a 4 fattori5 sia nella scala SAC-G sia nella scala SAC-L. Nella seconda fase di validazione, per ogni fattore emerso nella fase esplorativa sono stati mantenuti gli item con i valori di saturazione più alti e sono state ottenute due scale composte ciascuna da 16 item. Ai dati ricavati dalla seconda somministrazione delle due scale SAC-G e SAC-L è stata applicata un’analisi fattoriale confermativa (CFA) con l’obiettivo di verificare l’adeguatezza della struttura fattoriale già emersa in sede esplorativa. Per quanto riguarda la SAC-G, la CFA ha restituito indici di fit accettabili (Tab.1) con una soluzione fattoriale a 15 item6, che ha mostrato soddisfacenti indici di affidabilità per ciascun fattore7. È emerso, inoltre, che i Fattori SAG, APG ed EAG sono positivamente correlati fra loro. Il fattore ANG, invece, ha mostrato una correlazione positiva con il Fattore EAG (Fig. 1). Indici di fit SAC-G e SAC-L df !2/ df GFI CFI RMSEA NNFI SAC-G Modello ad 1 Fattore 449 1.864,44 90 20,72 0,58 0,80 0,24 0,77 Modello a 2 Fattori 449 1.190,20 89 13,37 0,67 0,88 0,20 0,85 Modello a 3 Fattori 449 778,80 87 8,95 0,75 0,92 0,16 0,91 Modello a 4 Fattori 449 220,09 86 2,55 0,94 0,99 0,06 0,98 SAC-L Modello ad 1 Fattore 449 1.735,66 77 22,54 0,59 0,76 0,25 0,72 Modello a 2 Fattori 449 1.183,16 76 15,57 0,67 0,84 0,21 0,81 Modello a 3 Fattori 449 668,77 75 8,92 0,80 0,92 0,15 0,90 Modello a 4 Fattori 449 205,69 72 2,85 0,94 0,98 0,07 0,98 Nota: !2/ df : Chi-square/degrees of freedom; GFI: Goodness of Fit Index; CFI: Comparative Fit Index; RMSEA: Root of Mean Square Error of Approximation; NNFI: Non-Normed Fit Index. N
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Tab. 1: Indici di fit dei modelli a 4 fattori di SAC-G e SAC-L
Per quanto riguarda la scala SAC-L a 16 item, la CFA ha inizialmente rivelato indici di fit insoddisfacenti8, pertanto è stata accettata la soluzione fattoriale a 14 6
4 5
6 7 8
Per esigenza di sinteticità sono stati omessi i risultati dell’EFA. Contattare gli autori per maggiori dettagli. Fattore 1-SAG, Senso di Appartenenza alla Comunità Globale; Fattore 2-APG, Appartenenza Positiva alla Comunità Globale; Fattore 3-EAG, Esplorazione dell’Appartenenza alla Comunità Globale; Fattore 4-ANG, Appartenenza Negativa alla Comunità Globale. Dall’analisi post-hoc (Byrne, 2009) è emerso che il valore R2 dell’item 16 si è rivelato inferiore a 0,50, evidenziando in tal modo che l’item non contribuisce a spiegare il Fattore 4 (ANG) in maniera pienamente soddisfacente e quindi è stato eliminato. Fattore 1-SAG, 4 item (α=0,91); Fattore 2-APG, 3 item (α=0,91); Fattore 3-EAG, 4 item (α=0,85); Fattore 4-ANG, 3 item (α=0,87). Il valore di χ2/df è risultato leggermente superiore al cut-off di 3 e gli altri indici si sono attestati appena nella norma (cfr. Byrne, 2009). Dall’analisi post-hoc emerge che, anche in questo caso, il valore R2 dell’item 16 si è rivelato inferiore a 0,50 e l’item 5 ha registrato indici di modifica elevati, rivelando un cross-loading (Byrne, 2009) con il Fattore SAL. Per questi motivi, sono stati eliminati gli item 16 e 5.
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item che ha mostrato soddisfacenti indici di fit (Tab.1) e valori di affidabilità per ciascun fattore9. È emerso, inoltre, che i Fattori SAL, APL ed EAL sono positivamente correlati fra loro mentre il Fattore ANL correla negativamente con i Fattori SAL e APL (Fig. 1). Inoltre, in entrambe le scale SAC-G e SAC-L, è stato confrontato il modello a quattro fattori con i modelli ad 1 fattore (una sola dimensione di appartenenza)10, a 2 fattori (due dimensioni di appartenenza: positiva e negativa)11 ed a 3 fattori (tre dimensioni di appartenenza: positiva, negativa ed esplorazione)12. Poiché il valore del test Δχ2 è risultato in tutti i casi significativo, è possibile affermare che la multidimensionalità della scala è confermata. La Fig. 1 di seguito illustra i diagrammi delle due soluzioni fattoriali individuate.
129
Fig. 1: Grafici delle soluzioni standardizzate dei modelli a 4 fattori di SAC-G e SAC-L Nota: tutti i fattori saturano con un livello di significatività p< 0,001
6. Definizione dei profili di identità Prima di ottenere i profili identitari ipotizzati, i 449 soggetti che hanno compilato la versione definitiva del questionario SAC-GL sono stati suddivisi in quattro gruppi: due gruppi “ad alto senso di appartenenza alla comunità globale/locale” (composto da soggetti con valore SAG e SAL sopra la media) e due gruppi “a basso senso di appartenenza alla comunità globale /locale” (composto da soggetti con valore SAG e SAL sotto la media). Successivamente, è stato applicato un test t di Student per campioni indipendenti (Tab. 2) per verificare se e come cambiano i punteggi relativi al senso di appartenenza positiva, all’esplorazione e all’appartenenza negativa nei gruppi ad alto e a basso senso di appartenenza alla comunità globale e locale.
9
Fattore 1-SAL, 4 item (α=0,90); Fattore 2-APL, 3 item (α=0,89); Fattore 3-EAL, 4 item (α=0,87); Fattore 4-ANL, 3 item (α=0,85). 10 SAC-G: Δχ2=1.644,35, Δdf=4, p<0,001; SAC-L: Δχ2=1.529,97, Δdf=5, p<0,001 11 SAC-G: Δχ2=970,11, Δdf=3, p<0,001; SAC-L: Δχ2=977,47, Δdf=2, p<0,001 12 SAC-G: Δχ2=558,71, Δdf=1, p<0,001; SAC-L: Δχ2=463,08, Δdf=5, p<0,001
ricerche
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Fattori
Livelli Basso Alto Basso Alto Basso Alto Basso Alto Basso Alto Basso Alto
APG EAG ANG APL EAL ANL
Gruppi per Appartenenza Globale (SAC-G) N M DS t p 289 -0,37 0,84 -12,43 0,00 147 0,72 0,90 289 -0,28 0,93 -8,87 0,01 147 0,55 0,93 289 0,10 0,87 2,86 0,00 147 -0,19 1,20 289 -0,22 0,86 -6,77 0,00 147 0,43 1,12 289 -0,17 0,92 -5,06 0,00 147 0,33 1,10 289 0,10 0,90 2,82 0,00 147 -0,19 1,16
Fattori APL EAL ANL APG EAG ANG
Livelli Basso Alto Basso Alto Basso Alto Basso Alto Basso Alto Basso Alto
Gruppi per Appartenenza Locale (SAC-L) N M DS t p 286 -0,20 0,90 -6,10 0,00 150 0,39 1,07 286 -0,12 0,89 -3,42 0,00 150 0,22 1,15 286 0,14 0,87 3,99 0,00 150 -0,26 1,16 286 -0,32 0,81 -10,14 0,00 150 0,60 1,06 286 -0,24 0,87 -7,43 0,00 150 0,46 1,06 286 0,18 0,86 5,46 0,00 150 -0,35 1,15
Tab. 2: Punteggi Z, medie, deviazione standard e valori di significatività dei Fattori 2, 3 e 4 delle scale SAC-G e SAC-L differenziati per livello di appartenenza alla comunità globale e locale
130
La statistica t ha rivelato differenze significative rispetto a tutti i fattori considerati (Tab.2). Nello specifico, relativamente alla scala SAC-G, i fattori APG ed EAG sono significativamente inferiori nel gruppo a basso senso di appartenenza alla comunità globale. Diversamente, i soggetti ad alto livello di appartenenza alla comunità globale mostrano punteggi significativamente più bassi nel fattore ANG. Lo stesso comportamento si evince nei due gruppi rispetto ai fattori della scala SAC-L. Allo stesso modo, i fattori APL ed EAL risultano significativamente inferiori nel gruppo a basso senso di appartenenza alla comunità locale. Diversamente, i soggetti ad alto livello di appartenenza alla comunità locale mostrano punteggi significativamente più bassi nel fattore ANL. Lo stesso comportamento emerge nei due gruppi rispetto ai fattori della scala SAC-L. Questi risultati permettono di affermare che l’appartenenza alla comunità globale non esclude la possibilità di sviluppare un’appartenenza positiva alla comunità locale e viceversa. Sulla base di queste affermazioni e mediante l’applicazione della cluster analysis ai punteggi z dei fattori SAG e SAL con il metodo a due step di Gore (2000), sono emersi solo tre profili identitari su quattro ipotizzati (Fig. 2)13: G-local Identity (N=116; 26,54%), Global (N=226; 51,72%) ine base Confused (N=95; 21,74%). 1 Fig.Identity 2: Profili dei soggetti differenziati al livello Identity di SAG e SAL
Fig. 2: Profili dei soggetti differenziati in base al livello di SAG e SAL14
13 Poiché la cluster analysis è sensibile agli outliers, è stato eliminato il 2,7% del campione totale. È stata inoltre controllata la plausibilità di diverse soluzioni (a due, tre e quattro cluster) ed è stata infine accettata la soluzione a tre cluster in base ai criteri di parsimonia, interpretabilità e livello di varianza spiegata dal modello (almeno il 50%). 14 Nota: R2 punteggio SAG=57%; R2 punteggio SAL=70%. p
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Per verificare se e come cambiano i punteggi della scala ISI-3 e delle scale del Big Five-2 nei tre profili è stata applicata una One-way ANOVA in cui la variabile indipendente è costituita dagli stessi tre profili (G-local Identity, Global Identiy e Confused Identity) e le variabili dipendenti dai punteggi ottenuti nelle scale ISI-3 e Big Five-2. p Punti Punti Z Stile informativo nformativo Stile in Stile normativo Stile nor mativo Stile diffuso iffuso Stile di
Impegno Im m pegno
Profili identitari Profili identitari e n tity G-local Glocal Id Identity Gl obal Id Global Identity e n tity Confused Confused Id Identity e n tity G-local Identity e n tity Glocal Id Global Identity Gl obal Identity Confused Confused Id Identity e n tity G-local Glocal Id Identity e n tity Global Identity e n tity Gl obal Id Confused Confused Id Identity e n tity G-local Glocal Id Identity e n tity Gl obal Id Global Identity e n tity Confused Confused Id Identity e n tity
N 116 226 95 116 226 95 116 226 95 116 226 95
M 0, 43 0,43 --0,04 0,04 --0,30 0,30 0, 0,32 32 --0,04 0,04 --0,29 0,29 --0,21 0,21 0, 0,11 11 --0,01 0,01 0, 0,41 41 --0,08 0,08 --0,30 0,30
DS 0, 99 0,99 0,96 0,96 0,89 0,89 1,01 1,01 0,99 0,99 0,90 0,90 1,14 1,14 0,99 0,99 0,76 0,76 1,06 1,06 0,92 0,92 0,97 0,97
F
p
21,45 21,45
0,00 0,00
10,54 10,54
0,00 0,00
3,85 3,85
0,02 0,02
15,83 15,83
0,00 0,00
Tab. 3: Punteggi Z, medie, deviazione standard e valori di significatività dei fattori della ISI-3 per gruppi differenziati in base ai profili identitari
131
1
Dall’output dell’analisi della varianza si evince che i punteggi dei fattori della ISI-3 differiscono tutti significativamente (Tab. 3) nei tre profili. Il risultato più evidente consiste nel fatto che gli stili identitario, informativo, normativo e l’impegno identitario presentano i punteggi più alti nel profilo G-local Identity. Diversamente, lo stile identitario diffuso presenta il punteggio più alto nel profilo Global Identity, a cui segue quello dei Confused Identity. Il punteggio più basso in assoluto, invece, è stato ottenuto dal profilo G-local Identity. p
Punti Z Dinamismo Cooperatività Cordialità
Scrupolosità
Apertura all’esperienza Apertura alla cultura
Profili identitari G-local Identity Global Identity Confused Identity G-local Identity Global Identity Confused Identity G-local Identity Global Identity Confused Identity G-local Identity Global Identity Confused Identity G-local Identity Global Identity Confused Identity G-local Identity Global Identity Confused Identity
N 116 226 95 116 226 95 116 226 95 116 226 95 116 226 95 116 226 95
M 0,35 -0,09 -0,21 0,47 -0,12 -0,28 0,33 -0,06 -0,24 0,24 -0,03 -0,23 0,23 -0,06 -0,14 0,32 -0,07 -0,23
DS 0,98 0,98 0,97 1,06 0,91 0,95 1,11 0,92 0,95 1,03 ,94 1,04 0,91 1,02 1,03 1,11 0,95 0,88
F
p
10,61
0,00
20,12
0,00
9,80
0,00
5,91
0,00
4,39
0,01
9,59
0,00
Tab. 4: Punteggi Z, medie, deviazione standard e valori di significatività delle scale del Big Five -2 per gruppi differenziati in base ai profili identitari
Dall’analisi della varianza si evince inoltre che nei tre profili i punteggi delle scale del Big Five differiscono tutti significativamente (Tab. 4), eccetto che per la scala del controllo emotivo che non ha rivelato differenze degne di nota. Il profilo
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G-local Identity presenta i punteggi più alti mentre il profilo Global Identity si colloca ad un livello intermedio, ed il Confused Identity mostra i punteggi più bassi in assoluto in tutte le scale
Considerazioni conclusive
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Rispetto ai quattro profili identitari ipotizzati inizialmente, i risultati ne confermano solo tre: G-local Identity, Global Identity e Confused Identity. Non è stata confermata l’ipotesi di partenza relativa alla rintracciabilità del profilo Local Identity (identità monoculturale sbilanciata verso la cultura locale del territorio dove si è cresciuti e si vive stabilmente ed impermeabile rispetto alla cultura globale). Ciò può essere interpretato positivamente in quanto i risultati ottenuti sembrano smentire l’idea stereotipizzata e pregiudiziale nei confronti, in questo caso, dei giovani meridionali, i quali nell’immaginario collettivo nazionale ed internazionale sono ancora oggi prevalentemente idealizzati come identità chiuse e non inclini al cambiamento, ancorate rigidamente ai costumi, alle pratiche e agli stili di vita della cultura locale. D’altra parte, sarebbe stato allarmante il risultato opposto, dato che il questionario SAC-GL è stato somministrato in ambito universitario dove si presuppone che l’azione della formazione superiore contribuisca, dopo la scuola, a potenziare il pensiero critico degli studenti. Solo il 26,54% del campione si colloca nel profilo G-local Identity, mentre il 73,46% si distribuisce tra un profilo identitario monoculturale sbilanciato verso la cultura globale e un profilo identitario confuso dai tratti patologici. In questo quadro, si può ipotizzare che i segmenti scolastici precedenti non siano riusciti a fornire risposte sufficientemente adeguate ai bisogni degli studenti e alla sfida ineluttabile posta dai processi di globalizzazione. Occorrerebbe, dunque, interrogarsi ed effettuare una prima riflessione su quali obiettivi e quali pratiche educative la scuola dovrebbe adottare per stimolare e indirizzare la formazione di identità declinabili, nell’era della globalizzazione, all’interno di contesti sia globali che locali. La possibilità offerta dai nuovi mezzi di comunicazione di massa di sincronizzarsi, a livello planetario, con la realtà policulturale globale può rappresentare uno strumento utile per gestire l’ambivalenza e l’incertezza dell’attuale condizione sociale. Sentire di appartenere alla comunità globale, infatti, potrebbe facilitare l’apertura alla diversità e il riconoscimento della propria appartenenza ad un mondo complesso e diversificato. Tuttavia, in un contesto in cui l’avvicinamento di codici culturali diversi implica non di rado conflitti e profonde contraddizioni, i rischi per la costruzione dell’identità sono molteplici. Da un lato, la tendenza a barricarsi dietro chiusure culturali o comunitarie rinnega una realtà, quella della “unificazione del pianeta” (Bauman, 2003, p. 100) e dell’accettazione della diversità, oramai parte integrante del funzionamento sociale. Dall’altro, l’aderenza a standard e codici globali, pur riuscendo ad alleviare temporaneamente la sensazione di esclusione da questa nuova categoria di appartenenza collettiva, comporta il rischio del dissolvimento identitario (Bauman, 2003). La questione della costruzione dell’identità nell’era della globalizzazione, inoltre, porta con sé una serie di criticità, che, secondo Remotti (2010), sono riconducibili alla definizione stessa del concetto di identità. L’autore sostiene che l’identità è una costruzione mentale, il prodotto di una immaginazione funzionale a stabilire confini e definire punti fermi e stabili che consentono di orientare la vita individuale e sociale. Nell’attuale contesto globalizzato, la costruzione del mito dell’identità o ossessione identitaria rappresenterebbe una difesa contro la paura del diverso. È per queste ragioni che Remotti scinde il con-
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cetto di identità da quello di riconoscimento. Se l’identità implica l’affermazione della nostra stessa essenza (escludendo ciò che è diverso), il riconoscimento conduce invece verso la rivendicazione delle caratteristiche proprie (come ad esempio bisogni e diritti) di una data collettività partendo dalla differenziazione dalle altre collettività. In questa visione, riconoscere la diversità non implica l’esclusione, bensì la coesistenza di diverse prospettive identitarie e culturali. A tal proposito, Amin Maalouf restituisce una lucida rappresentazione dell’appartenenza cosmopolita nell’era della globalizzazione: egli si riconosce infatti in un profilo identitario unico, frutto della convivenza armonica di una pluralità di appartenenze (riconducibili, ad esempio, al gruppo religioso, etnico, linguistico e culturale) che esitano in “un ‘dosaggio’ particolare che non è mai lo stesso da una persona all’altra” (Maalouf, 1999, p. 7). In altre parole, gli individui hanno la possibilità di coltivare le profonde connessioni con gruppi e tradizioni che incontrano nel corso dell’esperienza di vita pur mantenendo la propria unicità. In tal senso, concepire la propria identità come la somma di appartenenze multiple riduce il rischio di assumere prospettive rigide, escludenti e discriminanti. Partendo da questi presupposti, risulta ancora più evidente che progettare pratiche di educazione globale significa non solo stimolare negli studenti la conoscenza, la comprensione e dunque la necessità di riconoscere l’esistenza di culture diverse, ma anche fornire loro gli strumenti cognitivi utili per esprimere criticamente e autonomamente la propria appartenenza al villaggio globale, senza dover necessariamente rinunciare alle proprie radici. In questo senso, la prevalenza di modelli nei quali vision e mission siano funzionali alle mere logiche del mercato del lavoro può ridurre le capacità della scuola di formare cittadini per una società globale. Portatore di rapide e profonde trasformazioni, il terzo millennio ha messo in discussione valori, ideali, pratiche e stili di vita ritenuti per molto tempo saldi punti di riferimento per la società. In particolare, il processo multidimensionale della globalizzazione e la sua intrinseca complessità hanno investito i giovani ed ha generato in loro un significativo senso di incertezza e di confusione, soprattutto durante la fase di definizione dell’identità culturale. Inoltre, le innumerevoli opportunità d’interazione reale e virtuale fra persone provenienti da differenti aree geografiche e culturali hanno stimolato la comparsa di nuove forme di appartenenza e di identità che valicano barriere e confini territoriali considerati a torto ben definiti. La capacità di adattamento a società multiculturali e globali si presenta, oggi, in una duplice veste: come una delle più grandi sfide per la gioventù e come emergenza educativa per le agenzie deputate all’educazione e alla formazione dei cittadini. La scuola e l’università, in particolare, hanno il delicatissimo compito e la responsabilità etica di formare i cittadini e i professionisti del futuro, avendo cura di contribuire a metterli nelle condizioni di agire autonomamente e criticamente e di identificarsi con la più ampia comunità globale, senza che ciò li spinga a sacrificare, cancellare, mortificare o disconoscere le proprie radici identitarie culturali. Insomma, “bisogna apprendere a navigare in un oceano d’incertezze attraverso arcipelaghi di certezza” (Morin, 2001).
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Le strategie didattiche e valutative per lo sviluppo delle competenze. Una ricerca nella scuola secondaria di secondo grado Davide Parmigiani – Università degli Studi di Genova – davide.parmigiani@unige.it Andrea Traverso – Università degli Studi di Genova - a.traverso@unige.it Antonella Lotti – Università degli Studi di Genova - antonella.lotti@unige.it Valentina Pennazio – Università degli Studi di Genova - valentina.pennazio@unige.it
Instructional and assessment strategies for competence development. A survey in the upper secondary school The idea of competence has been studied throughout last years and schools and universities have developed strategies for the instructional design oriented towards the competence. This research has tried to highlight whether the instructional and assessment strategies, indicated as more useful for the competence development in the international literature, are used in the Ligurian upper secondary schools. We administered a questionnaire to a representative sample of teachers and students, about the usefulness and the use of such instructional strategies. The results indicate that teachers appreciate such strategies but they have difficulty in applying them in the classroom. The pupils, sometimes, confirm the teachers’ data, sometimes, they perceive the teachers’ actions differently. This research can support the pre- and in-service teacher education, because allows us to focus the actual difficulties in carrying out the instructional and assessment strategies for the competence development.
Parole chiave: Competenze, secondaria di secondo grado, strategie didattiche, valutazione formativa, formazione insegnanti
Keywords: Competence, upper secondary school, instructional strategies, formative assessment, teacher education
Davide Parmigiani ha redatto i §§ 3, 4 e 5; Andrea Traverso ha redatto il §§ 1 e 6; Antonella Lotti ha redatto il § 2.1; Valentina Pennazio ha redatto il § 2.2. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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La nozione di competenza è stata studiata negli ultimi decenni e, parallelamente, le università e le scuole hanno implementato modalità di progettazioni per competenze. Questa ricerca ha evidenziato se le strategie didattiche e valutative, indicate come quelle più funzionali per lo sviluppo delle competenze, vengono utilizzate nella scuola secondaria di secondo grado della Liguria. È stato sottoposto un questionario a un campione rappresentativo dei docenti e degli studenti liguri, per evidenziare l’accordo e l’uso effettivo in classe delle strategie indicate. I risultati indicano che gli insegnanti apprezzano tali strategie, ma incontrano difficoltà nella loro attuazione. Gli alunni, in alcuni casi, confermano i dati dei docenti, in altri, percepiscono le azioni dei loro insegnanti differentemente. Questa ricerca può orientare la formazione degli insegnanti, in quanto permette di focalizzare le difficoltà specifiche nell’attuazione delle strategie didattiche e valutative specifiche per lo sviluppo delle competenze.
Le strategie didattiche e valutative per lo sviluppo delle competenze. Una ricerca nella scuola secondaria di secondo grado
1. Introduzione
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La sfida delle competenze ha investito la scuola italiana, in particolare, nell’ultimo decennio. Sulla base di ricerche, documenti ed esperienze nazionali ed internazionali (OECD, 1995; Le Boterf, 2000), si sono sviluppate esperienze e modalità progettuali per costruire ambienti di apprendimento orientati alle competenze (Maccario, 2012; Castoldi, 2013). A che punto è tale sviluppo? Le scuole italiane riescono a trasformare pratiche ed ambienti educativi consolidati, in spazi aperti alle competenze? Questa ricerca ha cercato di fare il punto della situazione nelle scuole secondarie di secondo grado in Liguria, evidenziando le strategie didattiche e valutative che possono caratterizzare gli ambienti di apprendimento orientati allo sviluppo delle competenze. Dopo averle delineate, abbiamo chiesto agli insegnanti e agli alunni di esprimere il proprio livello di accordo rispetto all’utilità di tali strategie all’interno di un approccio orientato alle competenze e, in merito alle pratiche quotidiane, l’effettiva applicazione di tali strategie in classe. Abbiamo ritenuto importante indagare sia la percezione di funzionalità che l’applicazione effettiva, per verificare l’esistenza di un possibile gap fra le attività in classe che gli insegnanti vorrebbero organizzare e le attività che, invece, riescono ad avviare realmente. In questo modo, saremo in grado di proporre alle scuole e agli insegnanti iniziative di formazione mirate, che puntino alle strategie ritenute maggiormente utili/funzionali allo sviluppo delle competenze, a quelle che non vengono attuate in classe e, infine, a quelle che gli insegnanti attuano ma non vengono percepite dagli alunni. Lo scopo generale della ricerca è supportare la scuola secondaria nello sviluppo di modelli progettuali e di azione didattica, che siano orientati verso la costruzione di ambienti in cui gli alunni possano sperimentare e mettere alla prova i propri saperi. Tale cambiamento rischia di essere lacerante e particolarmente faticoso per gli istituti secondari, in quanto, nonostante le prerogative fornite dall’autonomia, la struttura organizzativa della scuola non facilita la formazione di gruppi di lavoro, la flessibilità, l’autonomia di studio, la possibilità di costruire curricula fondati su esperienze di apprendimento diversificate. Per evitare che la progettazione per competenze risulti ostica o venga percepita irrealizzabile dagli insegnanti, abbiamo ritenuto fondamentale far emergere e valorizzare le strategie didattiche e valutative realmente applicate nella scuola. In questo modo, pensiamo che sia possibile avviare processi di innovazione condivisa dagli attori che gravitano nella scuola, in particolare, insegnanti, alunni, famiglie.
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2. I fondamenti teorici 2.1 Le competenze: una sfida per gli insegnanti? Lo sviluppo della competenza (Castoldi, 2011; Pellerey, 2001) è diventato nell’ultimo decennio, uno degli obiettivi che la scuola si prefigge di raggiungere attraverso la propria azione educativa. Le modalità di azione effettivamente finalizzate alla costruzione di ambienti di apprendimento per lo sviluppo di competenze (Maccario, 2012; Castoldi, 2013) ha visto l’elaborazione di differenti documenti e la realizzazione di esperienze e ricerche nazionali ed internazionali (OECD, 1995; Le Boterf, 2000). Le difficoltà maggiormente incontrate dai docenti nel progettare ambienti orientati allo sviluppo delle competenze può essere ricondotta, a nostro avviso, a due fattori: da un lato, al personale modo di concettualizzare e di intendere la competenza, dall’altro alla necessità di riflettere e modificare il proprio modo di insegnare, sulla base di strategie ritenute maggiormente idonee allo sviluppo della competenza. Il paradigma delle competenze, infatti, (Castoldi, 2011) va a modificare alle radici l’idea stessa di sapere e conoscenza, traghettandolo verso una forma didattica dinamica e determinando la necessità di ripensare nel complesso, i modi del fare scuola. Pellerey (2001) pone in evidenza il fatto che la competenza debba essere intesa come «la capacità di mobilizzare e orchestrare le risorse interne possedute per far fronte a una classe o tipologia di situazioni in maniera valida e produttiva» (pp. 235-236). La mobilizzazione delle risorse è una caratteristica precipua delle competenze, da cui deriva la loro dinamicità. Il possesso di conoscenze e abilità infatti, anche se necessario, non è sufficiente per agire con competenza. Un’azione competente si realizza quando una persona è in grado di mettere insieme le risorse personali (cognitive ed emotive) e le risorse acquisite dall’ambiente, per gestire in maniera adeguata un insieme di situazioni complesse (Sinini, 2013). Quindi, l’agire competente è rilevabile solo durante l’azione e nel contesto. Dal punto di vista metodologico e organizzativo, l’accento è conseguentemente posto sugli approcci di tipo situato (Rivoltella, 2013), problematico, dialogico; sulla valorizzazione del lavoro cooperativo e su tutte quelle forme di intervento che determinano riflessione critica e condivisa a partire da un agire concreto. Forte è il richiamo anche alle pratiche riflessive (Fabbri, 2007) che aiutano ad armonizzare il legame tra strategie didattiche e il processo cognitivo del singolo alunno, nel suo progressivo strutturarsi e svolgersi. 2.2 Le strategie didattiche e valutative orientate allo sviluppo delle competenze Per organizzare un ambiente di apprendimento orientato allo sviluppo delle competenze, è necessario attivare strategie didattiche e valutative che connotino e sottolineino l’aspetto di dinamicità del sapere evidenziato nel paragrafo precedente. La scelta delle competenze non è neutrale; essa implica una trasformazione nelle strategie didattiche. Baldacci (2010) sottolinea questo passaggio, indicando quattro principali cambiamenti: dal verbalismo all’apprendimento attivo; dall’apprendimento meccanico alla comprensione; dalla riproduzione culturale alla risoluzione di problemi; dall’apprendimento incapsulato al transfer. Anche Perrenoud (1997), commentato da Castoldi (2013, pp. 52-53), indica alcuni cambiamenti strategicodidattici che le competenze sollecitano: considerare i saperi come risorse da mobilitare; lavorare per situazioni-problema; condividere i progetti formativi con gli
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allievi; adottare una pianificazione flessibile; praticare una valutazione per l’apprendimento; andare verso una minore chiusura disciplinare. Sulla base di tali sollecitazioni, abbiamo individuato alcune strategie didattiche e valutative che, a nostro parere, sembrano rispondere maggiormente alle sfide educative generate dalle competenze. Per quanto riguarda le strategie didattiche abbiamo posto l’attenzione su: la discussione guidata, il lavoro di gruppo, il gioco dei ruoli, la simulazione, l’apprendimento per problemi/progetti e il contratto formativo. Fra le strategie valutative abbiamo selezionato invece: la valutazione formativa informale, la valutazione formativa orientata alla riflessione metacognitiva, la valutazione formativa per gestire l’approccio alla lezione, la valutazione formativa in rapporto alla gestione dei voti. La scelta delle suddette metodologie è stata guidata da tre concetti-chiave che riteniamo strettamente connessi ad una concettualizzazione della competenza come vincolata alla maturazione di un apprendimento di alto livello, critico e riflessivo: dinamicità come trasformazione; azione come risoluzione ragionata; metariflessione come progressione critica dell’azione (Alberici, 2002, 2005). Il concetto di riflessione (che accompagna, influenza e sostanzia quello di competenza) viene inteso come meccanismo dinamico riconducibile sia all’azione di insegnamento (scelte progettuali, metodologiche e valutative attuate dal docente), sia a quella di apprendimento (processi cognitivi/strategici ed emotivi messi in atto dallo studente). Tale meccanismo è ciò che permette di valutare criticamente un contenuto o un processo in un’ottica trasformativa, consentendo di interpretare un’esperienza in tutti i suoi aspetti, attribuirle un significato (Mezirow, 2003) e agire in modo appropriato apportando gli opportuni cambiamenti. Per l’insegnante, questi aspetti rimandano all’influenza reciproca tra il momento di progettazioneazione-valutazione; per lo studente, rimandano alla necessità di imparare facendo, quindi di agire per ipotesi, elaborazioni successive dove gli eventuali errori diventano feedback che stimolano la cognizione. Dalle osservazioni sopra esposte emerge come gli approcci maggiormente utili in vista dello sviluppo di competenza, sono quelli che presuppongono riflessione attiva, quindi, il coinvolgimento personale in situazione e l’attribuzione di senso all’azione da intraprendere, tenendo conto che, la competenza reale, critica e riflessiva, emerge quando il processo cognitivo, nella sua congiunzione con quello emotivo, ha la possibilità di strutturarsi e prendere forma in un contesto che porta ad apprendere attraverso la pratica e la riflessione critica sulla pratica stessa. La letteratura nazionale ed internazionale, a fondamento delle metodologie da noi prescelte, è particolarmente ampia. La discussione guidata viene ad esempio, concepita come orientata allo sviluppo del pensiero argomentativo e favorisce la dialettica, agevola la formulazione di problemi e i tentativi di rielaborazione delle ipotesi (Cacciamani, 2008). Il lavoro di gruppo consente, attraverso lo scambio e la messa in discussione delle ipotesi, l’evoluzione delle abilità sociali correlate allo sviluppo del pensiero critico (Comoglio, Cardoso, 1996; Speltini, Palmonari, 1998; Martinelli, 2004; Marttunen et al. 2005; Di Nubila, 2008; Clark et al., 2010; Marttunen, Laurinen, 2012). Il gioco dei ruoli e la simulazione consentono di assumere posizioni e quindi interpretare criticamente una situazione per sostenere posizioni argomentando e mobilizzando le conoscenze (YardleyMatwiejczuk, 1997; Holsbrink-Engels, 2001; Marttunen, Laurinen, 2001, 2002; Barkley et al., 2005). La strategia legata all’apprendimento per problemi/progetti propone situazioni problematiche abituando a muoversi per ipotesi progressive maturando la predisposizione e la disponibilità ad affrontare problemi nuovi e maggiormente complessi (Delisle, 1997; Barrows, Tamblyn, 1980; Torp, Sage,
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2002; Lambros, 2002, 2004). Il contratto formativo, strategia formativa finalizzata alla progettazione dei propri piani di apprendimento, rende consapevole l’alunno dei saperi che deve sviluppare nel corso di più azioni didattiche (Knowles et al., 2013; Casula, 2013). La valutazione formativa è indirizzata allo sviluppo di processi autoriflessivi e metacognitivi, in modo che gli studenti possano riflettere ed essere consapevoli dei propri processi apprendimento, in funzione di una loro modifica o integrazione (Scriven, 1991; Wiliam, Black, 1996; Torrance, Pryor, 1998; Bell, Cowie, 2001; McMillan, 2007; Shute, 2008; Giannandrea, 2009; RuizPrimo, 2011; Weurlander et al., 2012).
3. Il disegno della ricerca 3.1 L’obiettivo e le domande della ricerca L’obiettivo della ricerca è stato duplice: da un lato, abbiamo voluto verificare se le strategie didattiche e valutative indicate come funzionali allo sviluppo delle competenze, vengono percepite utili da insegnanti e studenti; dall’altro, se tali strategie sono effettivamente utilizzate in classe. Le domande di ricerca, quindi, sono le seguenti: (1a) quali strategie didattiche e valutative sono ritenute importanti dagli insegnanti per sviluppare le competenze? (1b) quali strategie didattiche e valutative sono ritenute importanti dagli studenti per sviluppare le competenze? (2) quali strategie didattiche e valutative sono utilizzate dagli insegnanti per sviluppare le competenze? 3.2 Il contesto, la procedura e gli strumenti 3.2.1 Il contesto Abbiamo deciso di concentrarci sulla scuola secondaria di secondo grado per due motivi. Da un lato, avevamo intenzione di analizzare le strategie didattiche e di valutazione nell’ordine di scuola maggiormente vicino al mondo del lavoro, dall’altro, volevamo rilevare le percezioni degli studenti della seconda classe, per i quali c’è già l’obbligo a lavorare per competenze e sono previste le prove INVALSI, ma sono ancora relativamente distanti dal lavoro e, desideravamo prestare attenzione agli studenti della quarta classe, per i quali non c’è ancora l’obbligo a lavorare per competenze, non sono previste le prove INVALSI, ma sono molto vicini al mondo del lavoro attraverso gli stage o le esperienze personali. 3.2.2 I questionari Per rispondere alle domande di ricerca, abbiamo costruito in parallelo due questionari. Il parallelismo indica che le diverse aree, in cui erano composti i due questionari, coincidevano. Ci interessava, infatti, che gli insegnanti esprimessero il loro parere sulle strategie didattiche e sulla valutazione orientate alle competenze e, contemporaneamente, che gli studenti confermassero o meno le posizioni espresse dagli insegnanti.
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La scelta delle aree e dei settori si è basata sulle riflessioni indicate in precedenza. In particolare, abbiamo individuato quelle strategie che meglio contribuiscono a facilitare l’organizzazione di un ambiente di apprendimento partecipato, innovativo e, in questo senso, orientato alle competenze. Area
Settore
Strategie didattiche
la discussione guidata il lavoro di gruppo il gioco dei ruoli e la simulazione l’apprendimento per problemi/progetti Il contratto formativo la valutazione formativa informale la valutazione formativa orientata alla riflessione metacognitiva la valutazione formativa per gestire l’approccio alla lezione la valutazione formativa in rapporto alla gestione dei voti
Strategie di valutazione
Item docenti 2 2 2 3 2 2 3 2 2
Item studenti 2 2 2 3 1 2 3 2 2
Tab. 1: Le aree e i settori del questionario
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Nella costruzione degli item, non abbiamo usato terminologia specialistica, manualistica o derivante da documenti ministeriali, ma esemplificazioni di attività di classe, come mostrato negli esempi contenuti nella tabella 2. Ciò per evitare che, soprattutto gli insegnanti, rispondessero sulla base di rappresentazioni indotte e mediate daa letteratura istituzionale, come le indicazioni Pecup o le circolari ministeriali. La scelta di non effettuare un test pilota potrebbe indebolire l’impianto metodologico. Tuttavia, la nostra intenzione era prioritariamente finalizzata all’esplicitazione di problemi e piste di sviluppo che caratterizzano le diverse “posizioni” all’interno delle scelte didattiche. Dalle risposte che abbiamo ottenuto non intendiamo affermare, ad esempio, che un insegnante che non usa la discussione guidata non lavora “per competenze” ma che, rispetto alla progettazione e valutazione delle competenze, non la ritiene una metodologia efficace (magari anche utilizzandola forzatamente). Area
Settore
Strategie didattiche
il lavoro di gruppo
Strategie di valutazione
Item docenti
Item studenti
Nel corso di un anno scolastico, io suddivido la classe in piccoli gruppi di 4-5 studenti a cui assegno compiti da risolvere in aula o in laboratorio l’apprendimento per Nel corso di un anno scolastico,io problemi/progetti chiedo agli studenti di realizzare un prodotto o un progetto come dimostrazione dell’acquisizione delle loro competenze la valutazione Nel corso di un anno scolastico, dopo formativa orientata una verifica scritta o orale, io discuto alla riflessione con gli studenti su com’è andata, per metacognitiva capire se il loro stile di studio è stato adatto la valutazione Nel corso di un anno scolastico, quando formativa in preparo una verifica, io decido quali rapporto alla sono gli aspetti più importanti da gestione dei voti valutare e li faccio pesare di più nel voto finale
I nostri insegnanti dividono la classe in piccoli gruppi di 4-5 studenti e assegnano loro compiti da risolvere in aula o in laboratorio I nostri insegnanti ci chiedono di realizzare un prodotto o un progetto, come dimostrazione dell’acquisizione delle nostre competenze Dopo una verifica scritta o orale, i nostri insegnanti discutono con noi su com’è andata, per capire se il nostro modo di studiare è stato adatto I nostri insegnanti ci dicono quali sono gli aspetti più importanti di un compito in classe e li fanno pesare di più nel voto finale
Tab. 2: Alcuni esempi di item
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Il questionario è stato costruito dal gruppo di ricerca, però la struttura degli item era basata sul questionario Perpe (Perceptions par les Etudiants de la Relation Professeur/Etudiants) di Gagnè (1976) in quanto la sua struttura è finalizzata a sottolineare il possibile gap tra accordo/disaccordo rispetto ad una strategia e il suo effettivo utilizzo in classe (Titone et al., 1990). Ogni item era, quindi, suddiviso in due parti. La parte superiore chiedeva agli insegnanti o agli studenti di esprimere il livello del proprio accordo/disaccordo nei confronti di una determinata strategia didattica o di valutazione, mentre la parte inferiore chiedeva la frequenza di utilizzo di quella strategia. In questo modo, abbiamo potuto analizzare il rapporto fra l’accordo (ciò che sarebbe interessante fare) e l’utilizzo (ciò che posso realmente mettere in atto). Questo è un punto particolarmente importante della ricerca sul versante docente, poiché è necessario analizzare le strategie che l’insegnante ritiene importanti e significative e la loro possibilità concreta di utilizzo. Analogamente, sarà possibile analizzare le differenze di percezione fra insegnanti e studenti. In molti casi, è emersa una dicotomia fra studenti e insegnanti sull’accordo rispetto ad una strategia o sul suo utilizzo in classe. L’insegnante dovrebbe far discutere gli alunni in piccoli gruppi o sono completamente d’accordo o sono parzialmente d’accordo o non sono né d’accordo né in disaccordo o sono parzialmente in disaccordo o sono completamente in disaccordo Nel corso di un anno scolastico, io organizzo discussioni con gli alunni suddivisi in piccoli gruppi o sempre o spesso o qualche volta o mai
Fig. 1 – La struttura degli item del questionario per gli insegnanti L’insegnante dovrebbe far discutere gli alunni in piccoli gruppi o sono completamente d’accordo o sono parzialmente d’accordo o non sono né d’accordo né in disaccordo o sono parzialmente in disaccordo o sono completamente in disaccordo I nostri insegnanti ci fanno discutere in piccoli gruppi o tutti i miei insegnanti o molti dei miei insegnanti o pochi fra i miei insegnanti o nessuno fra i miei insegnanti
Fig. 2: La struttura degli item del questionario per gli studenti
Il questionario per i docenti era composto da 20 item a risposta chiusa; mentre il questionario per gli studenti era composto da 19 item a risposta chiusa. I questionari sono stati approntati online e sono stati somministrati separatamente agli insegnanti e agli studenti. La natura del questionario e l’immediata trasparenza rispetto ai concetti indagati e agli assunti di partenza ci ha consentito di lasciare liberi gli insegnanti di compilare autonomamente il questionario in tempi e spazi personali. Invece, gli alunni lo hanno compilato sotto la guida di un membro del gruppo di ricerca che si è recato a scuola e, in accordo con i dirigenti, ha riunito a gruppi gli studenti coinvolti nel laboratorio di informatica e li ha seguiti nella com-
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pilazione online, intervenendo solamente laddove ci fossero evidenti incomprensioni terminologiche. La scelta di una terminologia non specialistica ha ridotto notevolmente questo tipo di interventi e, al contempo, ha garantito quella esigenza di trasparenza ed alleanza a cui auspicavamo. È necessario precisare che la differenza di metrica fra le scale Likert all’interno degli item (5 livelli per la scala di accordo e 4 livelli per la scala di frequenza) è stata appositamente creata per consentire ai partecipanti, da un lato, di non esprimere accordo o disaccordo rispetto ad una determinata strategia e, dall’altro, di spingere i partecipanti ad esprimere chiaramente una frequenza di utilizzo, evitando una scelta intermedia che fosse scarsamente significativa. Inoltre, era necessario rendere omologa la scala a 4 livelli, contenuta nel questionario rivolto agli studenti, incentrata sul numero di insegnanti che applica la strategia indicata, con la scala contenuta nel questionario rivolto agli insegnanti, focalizzata sulla frequenza. Ovviamente, l’analisi dei dati non consentirà nessun confronto fra le medie. 3.3 Il campione
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3.3.1 Gli insegnanti La ricerca ha coinvolto 23 istituti di scuola secondaria di secondo grado, in particolare 7 licei, 8 istituti tecnici e 8 istituti professionali.Per creare un campione stratificato proporzionale che rappresentasse in maniera significativa la popolazione di insegnanti di scuola superiore, abbiamo seguito i seguenti passi (Chiorri, 2010; Viganò, 1996): – abbiamo inizialmente creato una lista di tutte le scuole superiori della Liguria suddivise in tre categorie: licei, istituti tecnici e istituti professionali; – abbiamo sorteggiato 2 licei, 2 istituti tecnici e 2 istituti professionali da ciascuna provincia della Liguria (Imperia, Savona, Genova, La Spezia); – tutti gli insegnanti di tutte le scuole coinvolte hanno compilato il questionario; – abbiamo sorteggiato, da ogni scuola, un numero di questionari in accordo con le percentuali di ciascun strato considerato: tipo di scuola e area di insegnamento. La tabella 3 riporta nel dettaglio il campione degli insegnanti. È necessario segnalare l’aderenza fra le percentuali attese e quelle osservate. Tipo di scuola Licei Istituti tecnici Istituti professionali totale % osservata % attesa
Area di insegnamento linguistica scientifica 109 42 45 63 33 36 187 141 45,46 34,31 41,79 34,49
tecnica 17 36 30 83 20,23 23,72
totale 168 144 99 411 100,00 100,00
% osservata 40,94 34,86 24,20 100,00
% attesa 40,94 34,86 24,20 100,00
Tab. 3: Il campione degli insegnanti
Il campione degli insegnanti era formato dal 71,8% di donne e dal 22,2% di uomini. Inoltre gli insegnanti si sono ripartiti in differenti categorie di età e anzianità di servizio. Il 63,5% degli insegnanti ha un’età superiore ai 50 anni con il picco in-
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torno ai 55, mentre l’anzianità di servizio vede la moda attestarsi dai 25 ai 29 anni con il 24%, con un totale del 48,2% di insegnanti che lavora da più di 25 anni. 3.3.2 Gli studenti In analogia con gli insegnanti, abbiamo costruito il campione stratificato proporzionale degli studenti in modo che rappresentasse in maniera significativa la popolazione degli studenti di scuola superiore, abbiamo seguito i primi due passi indicati per gli insegnanti e, dopo aver sorteggiato la scuola: – abbiamo sorteggiato 4 classi seconde e 4 classi quarte, fra quelle presenti nell’istituto; – tutti gli studenti delle classi sorteggiate hanno compilato il questionario; – infine, abbiamo sorteggiato un numero di questionari in accordo con le percentuali di ciascun strato considerato: tipo di scuola e classe. Tipo di scuola Licei Istituti tecnici Istituti professionali totale % osservata % attesa
classi II 658 495 424 1577 54,51 54,51
IV 588 450 278 1316 45,49 45,49
totale 1246 945 702 2893 100,00 100,00
% osservata 43,07 32,66 24,27 100,00
% attesa 43,02 32,84 24,14 100,00
Tab. 4: Il campione degli studenti
4. I risultati e l’analisi dei dati 4.1 Le frequenze relative agli insegnanti e agli studenti 4.1.1 Le strategie didattiche Nelle tabelle 5 e 6 vengono presentate i dati relativi alle frequenze di ciascun item, rispettivamente per quanto riguarda gli insegnanti e gli studenti. Il 64,5% dei docenti, circa i due terzi, vorrebbe organizzare discussioni guidate con gli studenti ma riesce a metterlo in pratica costantemente il 36,8%. Solo il 12,2% organizza tali discussioni a piccoli gruppi. In questo caso, il livello di accordo diminuisce al 50,6%, con il 17,8% (quasi un insegnante su 5) che è contrario a tale modalità di discussione. Gli studenti, da un lato, percepiscono diversamente la situazione, in quanto solo il 14,6% di loro dice che tutti o molti insegnanti organizzano discussioni, dall’altro, concordano con i docenti per le discussioni in gruppo: il 97,2% di loro dichiara che non accade in classe e, curiosamente, solo il 39,1% di loro le vorrebbe in gruppo, mentre il 36% è contrario. I dati sul lavoro di gruppo indicano che circa un insegnante su cinque dichiara di organizzare lavori di gruppo, anche se due insegnanti su tre lo riterrebbero importante (l’11,8% è contrario). La percentuale si abbassa leggermente nel secondo item, relativo all’organizzazione tecnica del lavoro di gruppo per facilitare il suo buon funzionamento, tramite l’assegnazione di ruoli specifici. Gli studenti affermano che solo il 7,8% di insegnanti organizza lavori di gruppo, anche se il 61,4% lo riterrebbe importante. Però il 18,7%, una percentuale più elevata degli insegnanti, è contrario. Tale percentuale sale al 24,2% nel secondo item.
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Area Strategie didattiche
Strategie di valutazione
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Settore
Frequenze item docenti Item 1 Item 2 Item 3 % accordo utilizzo accordo utilizzo accordo utilizzo la discussione guidata %1 64,5 36,8 50,6 12,2 %2 9,1 63,2 17,8 87,8 il lavoro di gruppo %1 67,6 24,0 65,5 23,2 %2 11,8 76,0 12,8 76,8 1 il gioco dei ruoli e la simulazione % 37,1 9,6 74,1 21,0 %2 24,9 90,4 6,5 79,0 l’apprendimento per problemi/progetti %1 66,3 16,5 73,1 29,6 78,5 26,5 2 % 6,8 83,5 6,5 70,4 3,7 73,5 Il contratto formativo %1 77,5 66,2 67,7 63,6 %2 7,8 33,8 20,6 36,4 1 valutazione formativa informale % 96,7 90,0 83,1 77,6 %2 0,3 10,0 5,8 22,4 valutazione formativa e riflessione %1 97,0 91,0 90,2 66,4 91,2 71,1 2 metacognitiva % 1,0 9,0 1,0 33,6 1,5 28,9 valutazione formativa e approccio alla %1 74,0 45,5 57,1 34,3 lezione %2 9,3 54,5 11,3 65,7 la valutazione formativa in rapporto alla %1 61,1 35,8 92,7 87,1 gestione dei voti %2 15,9 64,2 1,8 12,9 -
Legenda: %1 Per la colonna relativa all’accordo: Somma di “sono parzialmente d’accordo” e “sono completamente d’accordo”; per la colonna relativa all’utilizzo: somma di “sempre” e “spesso” %2 Per la colonna relativa all’utilizzo: Somma di “sono parzialmente in disaccordo” e “sono completamente in disaccordo”; per la colonna relativa all’utilizzo: somma di “qualche volta” e “mai”
Tab. 5: I dati degli insegnanti
Il gioco dei ruoli (item 1) è praticato da un insegnante su dieci (9,6%). Il 37,1% lo ritiene una strategia utile ma il 24,9% è contrario. La simulazione, invece, (item 2) è attuata da un insegnante su cinque (21%) e tre insegnanti su quattro la percepiscono molto utile. Per gli studenti, solo il 2,2% dichiara di vivere esperienze continuative di gioco dei ruoli in classe, d’altronde, il 44,2% di loro è contrario all’utilizzo di questa strategia didattica. Gli studenti percepiscono favorevolmente l’uso della simulazione (55,7%) e il 9,2% dichiara che tutti o molti insegnanti la attuano in classe. La strategie dell’apprendimento per problemi/progetti nella sua completezza è praticata dal 16,5% degli insegnanti, anche se due terzi di loro la ritiene importante. Però, più di un insegnante su quattro (29,6% e 26,5%) propone situazioni problematiche all’inizio delle lezioni e richiede l’elaborazione di un prodotto/progetto come dimostrazione dell’acquisizione delle loro competenze. Anche gli studenti affermano che tale strategia è poco attuata in classe (7,4%), sebbene sia importante per il 60%. Essi, però, non vogliono che la lezione parta da situazioni difficili (46,3%). Il contratto formativo e la condivisione con gli studenti degli obiettivi educativi, i metodi di insegnamento e gli strumenti di valutazione, viene attuata da due insegnanti su tre, anche se, nel secondo item, il 20,6% degli insegnanti è contrario. Gli studenti confermano parzialmente i dati degli insegnanti. Infatti, uno studente su tre (32,6%) dichiara che molti o tutti i suoi insegnanti concordano con loro gli obiettivi, i metodi e le modalità valutative.
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Area Strategie didattiche
Settore la discussione guidata il lavoro di gruppo il gioco dei ruoli e la simulazione l’apprendimento per problemi/progetti Il contratto formativo
Strategie di valutazione
valutazione formativa informale valutazione formativa e riflessione metacognitiva valutazione formativa e approccio alla lezione la valutazione formativa in rapporto alla gestione dei voti
% %1 %2 %1 %2 %1 %2 %1 %2 %1 %2 %1 %2 %1 %2 %1 %2 %1 %2
Frequenze item studenti Item 1 Item 2 Item 3 accordo utilizzo accordo utilizzo accordo utilizzo 65,5 14,6 39,1 2,8 12,3 85,4 36,1 97,2 61,4 7,8 54,8 4,3 18,7 92,2 24,2 95,7 33,2 2,2 55,7 9,2 42,4 97,8 18,7 90,8 60,0 7,4 26,4 13,1 58,9 10,6 14,3 92,6 46,3 86,9 17,3 89,4 80,8 32,6 8,0 67,4 81,9 24,2 66,5 19,2 7,3 67,5 17,9 65,0 83,8 23,5 54,6 9,2 78,6 14,4 6,2 65,4 16,6 46,0 8,4 63,8 63,8 8,7 75,5 10,7 11,9 49,0 6,6 55,9 60,0 16,6 70,8 46,0 18,9 63,9 10,6 76,5 -
Legenda: %1 Per la colonna relativa all’accordo: Somma di “sono parzialmente d’accordo” e “sono completamente d’accordo”; per la colonna relativa all’utilizzo: somma di “tutti i miei insegnanti” e “molti dei miei insegnanti” %2 Per la colonna relativa all’utilizzo: Somma di “sono parzialmente in disaccordo” e “sono completamente in disaccordo”; per la colonna relativa all’utilizzo: somma di “pochi fra i miei insegnanti” e “nessuno fra i miei insegnanti”
Tab. 6: I dati degli studenti
4.1.2 Le strategie valutative Il 96,7% degli insegnanti, praticamente la totalità, ritiene importante la valutazione formativa informale, in particolare percepisce necessario porre pone piccole domande informali agli studenti per verificare come sta andando la comprensione dell’argomento e il 90% dichiara di farlo spesso o sempre. Per l’83,1% è importante (e ilA 77,6% lo mette in pratica) girare fra i banchi e, mentre gli studenti fanno un’esercitazione, chiedere agli studenti come la stanno affrontando, quali sono le cose che ricordano, che non capiscono, ecc. Analogamente, per il 97% (e il 91% lo mette in pratica) sono importanti gli aspetti metacognitivi legati alla valutazione formativa. Quindi, dopo una verifica scritta o orale, è rilevante discutere con gli studenti su com’è andata, per capire se il loro stile di studio è stato adatto. Però, mentre il 90,2% ritiene importante chiedere agli alunni come studiano a casa e quali tecniche usano per ricordare/memorizzare, solo 2 insegnanti su 3 lo mettono in pratica (66,4%). Infine, il 91,2% dei docenti ritiene fondamentale consigliare modalità su come studiare a casa l’argomento che è stato affrontato in classe e il 71,1% lo mette in pratica regolarmente. LLa valutazione formativa in rapporto alla gestione della lezione e dei voti è percepita meno importante da parte degli insegnanti. Tre insegnanti su quattro (il 74% e il 45,5% lo mette in pratica) ritengono importante confrontarsi con gli studenti su come sarebbe opportuno affrontare la lezione e il 57,1% (e solo un insegnante su 3 lo mette in pratica) ritiene importante chiedere agli studenti il loro parere su come è stato affrontato l’argomento. La valutazione formativa in rapporto alla gestione voti, è ritenuta importante dal 61,1% degli insegnanti che assegna più voti alla stessa verifica in modo che lo studente capisca quali sono le parti realmente positive e quali no, però lo mette in pratica solo un insegnante su tre (35,8%). Invece, il 92,7% degli insegnanti (e
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l’87,1% lo mette in pratica) decide quali sono gli aspetti più importanti da valutare e li fa pesare di più nel voto finale. Per gli studenti, la percezione dell’utilizzo delle tecniche di valutazione formativa è differente rispetto agli insegnanti. A fronte di un generale accordo, i dati che indicano che tutti o molti insegnanti la utilizzano sono più bassi rispetto a quanto dichiarato dai docenti: 24,2; 19,2 (per la valutazione formativa informale), 23,5; 9,2; 14,4 (per la valutazione in funzione della metacognizione), 8,7; 10,7 (in rapporto all’approccio alla lezione). Infine, rispettivamente per il 16% e il 46% degli studenti, tutti o molti dei loro insegnanti assegnano più voti alla stessa verifica e indicano gli aspetti importanti e li fanno pesare diversamente nel voto finale. 4.2 Le differenze fra le variabili 4.2.1 Fra gli insegnanti
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L’analisi della varianza ha evidenziato alcune differenze significative nell’utilizzo delle strategie didattiche e di valutazione utilizzate dagli insegnanti, in rapporto ad alcune variabili. Nella tabella 7, tali differenze vengono sintetizzate. Area
Settore
Item
Tipologie di Genere scuola F(2,*) Sig. F(1,*) Sig. Strategie La discussione Item 1 didattiche guidata Item 2 9,234 ,000 Il lavoro di gruppo Item 1 12,676 ,000 Item 2 5,136 ,006 il gioco dei ruoli e Item 1 9,284 ,000 la simulazione Item 2 l’apprendimento per Item 1 7,373 ,001 problemi/progetti Item 2 Item 3 9,299 ,000 contratto formativo Item 2 4,172 ,042 Strategie formativa informale Item 1 10,739 ,001 valutative riflessione Item 1 7,822 ,005 metacognitiva Item 2 12,647 ,000 Item 3 2,518 ,082 6,646 ,010 gestione dei voti Item 1 Item 2 * Nota: i gradi di libertà variano fra 381 e 401
Età F(6,*) 2,564 2,368
Sig. ,019 ,029
Anzianità di servizio F(7,*) Sig. 2,363 ,023 2,238 ,031 2,690 ,010 2,948 ,005 -
Classe di concorso F(2,*) Sig. 8,451 ,000 10,212 ,000 7,427 ,001 3,293 ,038 13,553 ,000 10,356 ,000 3,858 ,022 8,085 ,000 9,998 ,000 6,496 ,002 3,059 ,048
Tab. 7: Le differenze fra gli insegnanti
I test post hoc evidenziano le differenze fra i gruppi compresi nelle variabili prese in esame. Gli insegnanti degli istituti professionali e tecnici utilizzano maggiormente, rispetto ai colleghi dei licei, la discussione guidata, il lavoro di gruppo e l’apprendimento per problemi/progetti; mentre il gioco dei ruoli è applicato maggiormente negli istituti professionali. Gli insegnanti dei licei, invece, applicano maggiormente la valutazione formativa orientata alla riflessione metacognitiva, in particolare, consigliando modalità su come studiare a casa l’argomento che è stato affrontato in classe. Dal punto di vista del genere, le professoresse utilizzano maggiormente il contratto formativo, concordando con gli studenti gli obiettivi educativi, i metodi di insegnamento e gli strumenti di valutazione formativa informale e metacognitiva. Analizzando le differenze fra le età degli insegnanti, emerge che il gioco dei ruoli è maggiormente utilizzato dai docenti fra 40 e 49 e
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fra 60 e 64 anni. Analogamente, gli insegnanti con 15-19 e più di 35 anni di servizio utilizzano maggiormente il lavoro di gruppo; mentre il contratto formativo è applicato in maggior misura dai docenti con 10-14 e più di 35 anni di servizio. Gli insegnanti dell’area tecnica utilizzano maggiormente la discussione in gruppo e, insieme ai colleghi dell’area scientifica, il lavoro di gruppo. Gli insegnanti delle aree linguistica e tecnica utilizzano maggiormente il gioco dei ruoli. Gli insegnanti scientifici propongono maggiormente situazioni-problema, mentre quelli tecnici richiedono di realizzare un prodotto o un progetto come dimostrazione dell’acquisizione delle loro competenze. I linguistici e gli scientifici utilizzano maggiormente la valutazione formativa, i linguistici anche in rapporto ai voti. Infine, l’analisi fattoriale dei dati relativi agli insegnanti (condotta sugli item che presentano una correlazione >.40) indica l’emersione di tre fattori latenti: – la gruppalità: gli item sulla discussione in gruppo, il lavoro di gruppo e quelli relativi all’apprendimento per problemi/progetti, evidenziano un’attenzione degli insegnanti agli aspetti collaborativi e, in particolare, ai saperi che si sviluppano in situazioni condivise; – la progettazione condivisa: gli item sul contratto formativo indicano che, in vista di attività orientate alle competenze, gli insegnanti ritengono rilevante condividere obiettivi e modalità di lavoro con gli alunni, probabilmente, per incentivare forme di autonomia nel perseguire gli obiettivi di apprendimento; – il metodo di studio: gli item sulla valutazione formativa in funzione della riflessione metacognitiva, sottolineano la rilevanza che gli insegnanti attribuiscono all’approfondimento delle strategie di studio. 4.2.2 Fra gli studenti L’analisi della varianza ha evidenziato anche alcune differenze significative fra gli studenti, in rapporto ad alcune variabili. Nella tabella 8, tali differenze vengono sintetizzate. Area
Settore
Item
Strategie didattiche
La discussione guidata
Item 1 Item 2 Il lavoro di gruppo Item 1 Item 2 il gioco dei ruoli e la Item 1 simulazione Item 2 l’apprendimento per Item 1 problemi/progetti Item 2 Item 3 Il contratto formativo Item 1 Strategie formativa informale Item 1 valutative Item 2 riflessione metacognitiva Item 1 Item 2 Item 3 approccio alla lezione Item 1 Item 2 gestione dei voti Item 1 Item 2 * Nota: i gradi di libertà variano fra 2698 e 2824
Tipologie di scuola F(2,*) Sig. 29,622 ,000 18,088 ,000 4,174 ,015 60,027 ,000 3,489 ,031 14,297 ,000 12,664 ,000 4,563 ,011 32,214 ,000 25,924 ,000 23,730 ,000 12,781 ,000 8,527 ,000 3,979 ,019 3,178 ,042 4,154 ,016 27,320 ,000
Genere F(1,*) 6,183 6,722 4,875 3,946 14,212 21,642 5,202 6,164 10,551 47,383 35,369 52,396 20,483 9,531 3,921
Sig. ,013 ,010 ,027 ,047 ,000 ,000 ,023 ,013 ,001 ,000 ,000 ,000 ,000 ,002 ,048
Classe F(1,*) 5,308 6,998 8,429 45,369 16,557 5,617 6,992 20,234 11,321 -
Sig. ,021 ,008 ,004 ,000 ,000 ,018 ,008 ,000 ,001 -
Tab. 8: Le differenze fra gli studenti
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I test post hoc evidenziano le differenze fra le tipologie di scuola. Gli studenti degli istituti professionali indicano che i loro insegnanti organizzano un maggior numero di discussioni sia guidate che in gruppo. Negli istituti tecnici e professionali vengono organizzati più lavori di gruppo, in particolare, nei professionali, tali attività sono strutturate con ruoli e compiti precisi. Inoltre, dal punto di vista degli studenti, negli istituti professionali si svolgono attività legate al gioco dei ruoli, mentre nei licei si effettuano più simulazioni. I professionali e i tecnici avviano attività legate all’apprendimento per problemi/progetti in misura leggermente superiore, mentre gli studenti dei licei dichiarano di svolgere attività legate al contratto formativo. Gli studenti dei licei affermano che i loro insegnanti utilizzano maggiormente la valutazione formativa, in particolare attraverso domande informali per verificare come sta andando la comprensione dell’argomento, la discussione dopo una verifica e in rapporto alla gestione dei voti. Gli studenti dei professionali e dei tecnici percepiscono maggiormente la valutazione formativa quando gli insegnanti girano fra i banchi e chiedono come stanno affrontando un’esercitazione, quali sono le cose che ricordano, quali tecniche hanno usato per studiare a casa. Gli studenti maschi dichiarano che si svolgono maggiori discussioni e lavori in gruppo, gioco dei ruoli, apprendimento per problemi/progetti e valutazione formativa. Le studentesse dichiarano di svolgere più attività legate al contratto formativo. Gli studenti della seconda classe indicano più attività legate alle discussioni guidate, al lavoro di gruppo, al gioco di ruoli e alla valutazione formativa informale e come approccio alla lezione. Gli studenti della quarta classe dichiarano che i loro insegnanti attuano più iniziative relative alla gestione voti.
5. Discussione In generale, i dati indicano che le strategie didattiche legate allo sviluppo delle competenze non sono utilizzate in maniera consistente e continuativa nella scuola secondaria di secondo grado. Ciò emerge sia dai dati relativi agli insegnanti, che da quelli relativi agli studenti. D’altra parte, però, assistiamo ad un ampio e generale accordo sull’importanza e la rilevanza di tali strategie. In pratica, gli insegnanti vorrebbero utilizzarle ma non riescono a metterle in pratica in classe quotidianamente. È opportuno, quindi, approfondire tale questione. Probabilmente, la discrasia fra accordo ed utilizzo è dovuta ad una serie di fattori come: la struttura dell’ambiente di apprendimento, la disponibilità ad apprendere da parte degli studenti, gli spazi e i tempi a disposizione, la possibilità di utilizzare strumentazioni tecnologiche, la mancanza di formazione. Inoltre, possono esserci problemi e/o difficoltà legate al contesto: classi numerose o particolarmente agitate, frazionamento delle ore, difficoltà nel costruire l’orario. Se focalizziamo alcuni aspetti specifici, la discussione guidata risulta generalmente apprezzata ma non organizzata in gruppo. Probabilmente, essa tende ad essere gestita ed interpretata in modo direttivo, vale a dire, l’insegnante si rapporta con la classe nel suo complesso e guida la discussione dando la parola a turno agli studenti. La discussione, in questo modo, tende ad essere verticale e, quindi, si strutturano poche interazioni orizzontali. Ciò indica una distanza fra l’intenzione di sviluppare la discussione fra gli studenti e la pratica della discussione fra pari che, probabilmente, viene ritenuta difficilmente attuabile. Anche gli studenti, pur apprezzando le discussioni, non intendono svolgerle in gruppo. Il lavoro di gruppo appare come la questione centrale, in quanto il suo apprezzamento è ambivalente: da un lato, viene ritenuto importante ma, dall’altro, i dati indicano una certa ritrosia
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nell’organizzarlo e nel ritenerlo effettivamente funzionale alle competenze, sia dal punto di vista degli insegnanti che degli studenti. Analogamente, tali osservazioni possono essere sottolineate per il gioco dei ruoli, le simulazioni, l’apprendimento per problemi/progetti e il contratto formativo. Sembra che la conoscenza tecnica di tali strategie sia tendenzialmente limitata per cui, quando esse vengono applicate, gli insegnanti percepiscono la loro difficoltà nel realizzarle. Analizzando le differenze fra le età degli insegnanti, emerge un elemento inaspettato. Il gioco dei ruoli, il lavoro di gruppo e il contratto formativo è utilizzato anche dai docenti con età elevata e molti anni di servizio. Questi dati sfatano, almeno in parte, la credenza per la quale solo gli insegnanti giovani sono in grado di attivare strategie didattiche innovative. Probabilmente l’esperienza nella gestione della classe assume un ruolo importante. A differenza delle strategie didattiche, i dati indicano che la valutazione formativa, oltre ad essere considerata rilevante, è anche utilizzata massicciamente dagli insegnanti. Il problema, in questo caso, è la discrasia con le percezioni degli studenti che, invece, ne sottolineano uno scarso utilizzo. Probabilmente, gli insegnanti sono sensibili alle questioni relative alla valutazione formativa e ne mettono in pratica alcune tecniche iniziali che, probabilmente, derivano dalla propria esperienza. Non conoscendole, però, in maniera approfondita, non riescono a progettarle in maniera continuativa ed evidente. Di conseguenza, gli studenti non le percepiscono. È opportuno sottolineare che, dall’altra parte, gli studenti possono essere concentrati esclusivamente sul risultato e sulla gestione dei voti, che risulta l’aspetto percepito in modo comune da insegnanti e studenti.
6. Conclusioni Al termine di questo percorso, possiamo affermare che gli insegnanti sono interessati alle strategie didattiche e valutative legate alle competenze, provano a metterle in pratica, ma si scontrano con variabili contestuali e personali. La cultura didattica all’interno dell’aula scolastica è orientata alla costruzione di un ambiente di apprendimento funzionale allo sviluppo delle competenze, ma gli insegnanti faticano a realizzarlo concretamente nel corso della quotidianità. Da un lato, gli attori che gravitano attorno alla scuola – in primis, insegnanti e studenti – percepiscono l’importanza dell’applicabilità delle competenze in classe ma, dall’altro, si intuiscono le difficoltà nell’organizzare un ambiente didattico dinamico, in cui gli alunni possano esplicitare ed estrinsecare la mobilizzazione degli apprendimenti. I risultati della ricerca, però, ci permettono di orientare e indirizzare al meglio le prospettive di formazione nelle scuole, partendo dalle difficoltà e dai limiti espressi. In tal modo, la formazione può legarsi più facilmente al contesto, puntando su strategie didattiche e valutative apprezzate dagli insegnanti, ma poco utilizzate. In questo modo, riteniamo possibile evitare idee di competenza distanti dalla realtà scolastica e prospettare modalità progettuali realizzabili nella didattica quotidiana. Infine, la ricerca suggerisce di affrontare alcuni aspetti organizzativi che possono andare incontro alle difficoltà degli insegnanti nell’applicare le strategie didattiche per le competenze: modificare gli spazi e i tempi della scuola; incentivare le attività collaborative; promuovere strategie fondate sulle situazioni problema. Tali aspetti traducono la sfida didattica che le scuole devono affrontare per accogliere le sollecitazioni imposte dalle competenze. La questione centrale per la scuola secondaria è riuscire ad evolversi progressivamente, per indirizzarsi verso
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modalità organizzative che facilitino la flessibilità, la variabilità e la trasferibilità dell’apprendimento, intese come sintesi di esperienze educative strettamente legate alle competenze.
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Migliorare le strategie di studio dei ragazzi con il Questioning. Una ricerca empirica
Daniela Robasto - Università degli Studi di Torino – daniela.robasto@unito.it
Improve study strategies of teenagers with Questioning. An empirical research The national and international surveys on the level of competence of the Italian (adults or fifteen schooled) highlight some critical skills, both cross-cutting nature or related to the subject content. At the same time, the business side, emerge the specific requirements of a flexible worker, able to work in a team and able to field the metacognitive thinking. The article presents the results of an empirical study, conducted in the Piedmont area of a sample of high school adolescents, aimed to check whether the technique of Questioning, can be efficiently dealt with, at least in part, to some of the problems that emerged from the investigations mentioned. The results outline some of the strengths of the technique include the ability to move the profile of study of the students, changing from superficial profile in reflective and metacognitive profile.
Parole chiave: competenze critiche, problem solving, approcci d’insegnamento, Questioning, profilo di studio, strutture di pensiero.
Keywords: Critical skills, Problem solving, approaches to teaching, Questioning, Profile Study, structures of thought.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Le indagini nazionali e internazionali sui livelli di competenza degli italiani (adulti o quindicenni scolarizzati) mettono in risalto alcune competenze critiche, sia di natura trasversale sia legate a contenuti disciplinari. Contemporaneamente, dal versante impresa, emergono richieste specifiche di un lavoratore flessibile, in grado di lavorare in squadra e capace di mettere in campo il pensiero metacognitivo. L’articolo presenta i risultati di una ricerca empirica, svolta sul territorio piemontese su un campione di adolescenti liceali, tesa a controllare se la tecnica del Questioning, possa rivelarsi efficace per rispondere, almeno in parte, ad alcune delle criticità emerse dalle indagini citate. I risultati delineano alcuni punti di forza della tecnica tra cui la possibilità di spostare il profilo di studio degli studenti da tendenzialmente superficiale a riflessivo e metacognitivo.
Migliorare le strategie di studio dei ragazzi con il Questioning. Una ricerca empirica
1. Competenze critiche e competenze emergenti nelle indagini internazionali e nazionali
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Sono stati recentemente resi pubblici i risultati OCSE PIAAC1 (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), indagine ideata dall’OCSE a cui hanno partecipato, nella sua prima edizione 24 paesi nel mondo (Europa, Asia, America), tra cui l’Italia. Al campione italiano2, composto da 12.000 soggetti con un età compresa tra i 16 ed i 65 anni, è stato sottoposto un questionario (Background Questionnaire) ed alcuni test cognitivi per rilevare le competenze essenziali per poter esercitare un ruolo attivo nella propria vita adulta3. Tali competenze, definite dall’OCSE foundations skills, riguardano la lettura (Literacy), le abilità logico-matematiche (Numeracy) e le competenze collegate alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT). Nella somministrazione del 2012 l’Italia ha scelto di non somministrare i test riguardanti il Problem solving, optando, invece, per quelli relativi ai Reading Components, le prove che rilevano le abilità di lettura di base. Sono stati definiti sei livelli di proficiency, basati su intervalli di punteggi che variano su una scala da 0 a 500 punti. L’intervallo di punteggi è stato suddiviso nel modo seguente: below level 1 (0-175); livello 1 (176-225); livello 2 (226-275); livello 3 (276-325); livello 4 (326-375); livello 5 (376-500). I dati4 del campione italiano non sono incoraggianti: gli italiani adulti si collocano all’ultimo posto della graduatoria nelle competenze alfabetiche (area literacy5) ed in penultima posizione nelle competenze matematiche (area numeracy),
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PIAAC 2012 rappresenta l’evoluzione delle indagini IALS (International Adult Literacy Survey) e ALL (Adult Literacy and Lifeskills Survey) sugli adulti ed è complementare all’indagine PISA, dedicata all’analisi dei livelli di competenza degli studenti quindicenni. I risultati dell’indagine PIAAC sono stati pubblicati l’8 ottobre 2013. Il campione italiano è stato estratto con un sistema di campionamento probabilistico, stratificato e a due stadi (1°stadio: estrazione delle famiglie dalle liste anagrafiche di comuni italiani; 2°stadio: estrazione casuale dei membri delle famiglie). Il response rate nel nostro paese è stato pari al 56%, percentuale simile a quello di altri paesi comparabili in termini di dimensioni e livello di sviluppo socio-economico (Germania, 55%; Spagna, 48%; Gran Bretagna, 59%). L’obiettivo dichiarato di PIAAC è di esaminare due insiemi di competenze di carattere generale (information processing skills e generic skills) utilizzate nei luoghi di lavoro, che dovrebbero costituire un bagaglio di base indispensabile per affrontare con successo numerose attività dell’agire sociale. Si veda G. Di Francesco, Le competenze per vivere e lavorare oggi: principali evidenze dall’indagine PIAAC / ISFOL. ISFOL, Roma 2013, Isfol Research Paper 9. In G. Di Francesco (ibidem) si leggono a p. 13 le seguenti definizioni “Literacy è l’inte-
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competenze basilari per affrontare adeguatamente i problemi che possono emergere nelle diverse situazioni della vita adulta. PIAAC ha inoltre rilevato ulteriori dati su quanto le persone “credano” di mettere in atto alcune competenze, sia nella vita personale sia durante l’attività lavorativa. PIAAC ha, infatti, raccolto dati su altre competenze “percepite” come importanti nelle attività lavorative del campione. La strategia di self report utilizzata è quella del Job requirement approach6 (JRA). Nella parte “JRA” dei risultati di PIAAC, è emerso che ai lavoratori italiani pare vengano maggiormente richieste capacità di problem solving, rispetto ad altri tipi di competenze quali quelle attinenti alle aree literacy, numeracy, o ICT. Va ribadito, che secondo il metodo utilizzato in questa indagine, tale dato è stato raccolto tramite le auto-dichiarazioni dei rispondenti e pertanto non è possibile avere un confronto con l’effettiva richiesta di competenze “sul campo”. Purtroppo, come si è precedente dichiarato, l’Italia ha scelto di non somministrare i test cognitivi proprio sull’area problem solving e quindi, non è possibile procedere con un confronto tra le competenze maggiormente richieste dal mercato del lavoro (secondo i rispondenti) e quelle effettivamente possedute dai rispondenti stessi. Altre indagini internazionali sul campione italiano, possono tuttavia offrire alcuni spunti per ipotizzare il livello di competenza degli italiani sull’area problem solving. Ad esempio, entrando nel dettaglio delle valutazioni OCSE PISA, potrebbe essere utile soffermarsi sulle percentuali di studenti italiani classificati a livello 67 (il più alto in OCSE PISA) i quali sono coloro che dimostrano di essere in grado di concettualizzare, generalizzare e utilizzare informazioni basate sulla propria analisi e modellizzazione di situazioni problematiche e complesse. A questo livello, gli studenti sono capaci di pensare e ragionare in modo avanzato e di sviluppare nuovi approcci e nuove strategie nell’affrontare situazioni problematiche inedite. Proprio per il costante riferimento a situazione problematiche (complesse e/o inedite), i risultati delle prove OCSE PISA8, potrebbero essere utili anche per sti-
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resse, l’attitudine e l’abilità degli individui ad utilizzare in modo appropriato gli strumenti socio-culturali, tra cui la tecnologia digitale e gli strumenti di comunicazione per accedere a, gestire, integrare e valutare informazioni, costruire nuove conoscenze e comunicare con gli altri, al fine di partecipare più efficacemente alla vita sociale”. La Numeracy è definita come “l’abilità di accedere a, utilizzare, interpretare e comunicare informazioni e idee matematiche, per affrontare e gestire problemi di natura matematica nelle diverse situazioni della vita adulta”. Il fine di tale operazione è rendere possibile stimare il mismatch tra competenze possedute e competenze richieste dal lavoro. Tramite tali dati, è possibile inoltre comprendere come le competenze siano mantenute attive durante i compiti lavorativi o eventualmente vadano “perse” a causa del non utilizzo. Il metodo, già applicato in diverse survey nazionali quali la British Skills Survey16 (regno Unito), OAC17 (Italia), O*NET (USA). Con tale metodo si chiede ai soggetti di valutare il livello di competenze necessarie e richieste “sul campo” per svolgere uno specifico lavoro. Nonostante il metodo JRA sia stato utilizzato in molte indagini nazionali, in PIAAC, per la prima volta è stato utilizzato per un confronto internazionale. Il JRA valuta quattro categorie skill domains: “competenze cognitive” (cognitive skills); competenze sociali e di relazione” (interaction and social skills); competenze fisiche o manuali” (physical or manual skills); “competenze di apprendimento” (learning skills). Fonte OCSE PISA 2012. Va precisato che PISA 2012 ha indagato anche l’area Problem Solving. I risultati di tale
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mare, trasversalmente, le più alte competenze di problem solving del campione. In Italia circa il 2% degli studenti raggiunge il livello 6 (2,2% per le competenze scientifiche; 0,4% per le competenze in lettura). Come si evince dalla Fig.1, in PISA 2012 (ma così era anche in PISA 2009), quasi la metà degli studenti italiani si è collocata, invece, sui più bassi livelli della scala: la percentuale cumulata da “sotto il livello 1” al livello 2, raggiunge, infatti, circa il 45% dei casi. 4123001"51"6.78393:;<"53=01">9?53:@"19<01<:1A"BC3<"D<937<@6<A"EF-B"#&(#A"""""""""""""""""""""""""""""""""""""" GC3H?3:;3"83C63:9?<01A" ,&$&&'" #+$&&'"
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Fig. 1: Distribuzione percentuale dei livelli9 di competenza sull’area Matematica, in Italia (Elaborazioni proprie, su date base OCSE PISA 2012)
Viene quindi da chiedersi cosa significhi, nei termini di competenza raggiunta, essere tra il livello 1 e 2 e se su tali livelli sia possibile intravedere una qualche abilità nell’affrontare situazioni problematiche complesse. Secondo quanto esplicitato dal team di ricerca PISA, gli studenti che raggiungono i livelli più bassi della scala sono in grado di rispondere a domande che riguardino contesti loro familiari, nelle quali siano fornite tutte le informazioni pertinenti e sia chiaramente definito il quesito. Essi sono in grado, inoltre, di individuare informazioni e di mettere in atto solo procedimenti di routine all’interno di situazioni esplicitamente definite e seguendo precise indicazioni. Tali studenti sono anche capaci di compiere azioni ovvie che procedano direttamente dallo stimolo fornito. In estrema sintesi: gli studenti che si collocano intorno al livello 1 non hanno gli strumenti per muoversi all’interno di un mondo complesso e affrontare un compito che richieda flessibi-
area, come si legge nel Rapporto Nazionale OCSE PISA 2012 a cura di INVALSI, “saranno oggetto di approfondimenti e uscite futuri, a livello tanto nazionale che internazionale” (Rapporto INVALSI 2012, p. 12). Solo recentemente, con il V Rapporto PISA 2012 dal titolo “Creative Problem Solving Students’ skills in tackling real-life problems Volume V”, l’OCSE ha pubblicato i primi dati di PISA 2012 relativi al Problem Solving. """""""""""""""""""""""""""""""""""""""" """"""""""""""""""""" Dalle prime analisi di delinea un campione italiano al quindicesimo posto sull’area Pro9 non 6+1OCSE come nelle OCSEPer in quanto il sottolivello 1 ed il blem Solving (510 punti su una emedia di rilevazioni 500 punti). maggiori approfondil menti si veda http://www.oecd.org/pisa/keyfindings/PISA-2012-results-volume-V.pdf. I dati analitici sui risultati nazionali non sono ancora disponibili nel momento in cui il Il report dell’indagine è consultabile su presente paper viene redatto. 9h Il livelli presentati nel grafico in Fig. 1 sono 6 e non 6+1 come nelle rilevazioni OCSE in quanto il sottolivello 1 ed il livello 1 sono stati fatti qui confluire in un’unica catego-" " ria.
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lità, anche di grado minimo. Le difficoltà riscontrate negli studenti italiani, quindi, non evidenziano tanto (o solo) una carenza di competenze tecnico-specifiche o disciplinari quanto piuttosto una carenza di un pensiero flessibile e metacognitivo, in grado cioè di pensare sul pensare, per mettere in campo idonee strutture di autoregolazione10 dei propri comportamenti. Tali dati riguardanti il sapere squisitamente procedurale (o il “non sapere” in situazioni problematiche complesse) non ci fa ben supporre relativamente alle capacità di problem solving di questi stessi studenti, qualche anno più tardi, quando si accingeranno ad entrare nel mondo del lavoro. Ciò sembra stridere con la richiesta di competenze del mondo impresa. A tal proposito, l’indagine Excelsior11, che delinea un confronto tra domanda e offerta di lavoro, attraverso l’analisi delle competenze richieste, può essere utile per controllare quali siano, attualmente, i profili di competenza richiesti. Nel Rapporto Excelsior 2013, nella sezione La domanda di professioni e di formazione delle imprese italiane, emerge un disallineamento tra domanda e offerta di lavoro. Le imprese chiedono sempre più al lavoratore competenze “trasversali” (soft skill) non direttamente legate ad una mansione specifica. Il dato era già, almeno in parte, emerso nei rapporti Excelsior dei due anni precedenti (2011, 2012), con riferimento alle assunzioni non stagionali; nell’ultimo triennio emerge come competenza trasversale maggiormente richiesta, la capacità di lavorare in gruppo, ritenuta di grande importanza per stabilire le assunzioni non stagionali programmate. Al secondo posto tra le competenze più richieste vi è la flessibilità e la capacità di adattamento. Anche in questo caso si tratta di una tendenza trasversale, che coinvolge tutti i settori e tutte le aree territoriali, sempre con una prevalenza per coloro con più elevati livelli d’istruzione12. Sempre nell’indagine Excelsior 2013, si traccia, inoltre, il profilo contrattuale che le imprese possono offrire nel caso di nuove assunzioni. A seconda del settore di riferimento, le assunzioni non dirette, ossia tramite contratti atipici, variano da un minimo del 7% circa (settore turistico, dove invece sono fortemente presenti le assunzioni a termine o stagionali) fino ad un massimo del 50% circa (settore chimico), con una media di circa il 30% delle “assunzioni” atipiche totali italiane. Il dato Excelsior è in linea anche con le rilevazioni ISTAT circa le tipologie contrattuali somministrate nel corso del 2012 (circa il 30% di contratti atipici, con percentuali più alte nel Nord Ovest d’Italia). Parrebbe, dunque, che, anche contrattualmente, si chieda al lavoratore di essere tendenzialmente autonomo, flessibile e in grado di portare avanti un progetto con un buon grado di indipendenza ma anche di interdipendenza, per potersi interfacciare con il team aziendale con cui collabora.
10 Si veda a tal proposito il modello RIZA descritto da R. Trinchero, 2006 e 2012. 11 Indagine sul Monitoraggio dei fabbisogni professionali dell’industria e dei servizi per favorire l’occupabilità, di Union Camere, Fondo Sociale Europeo e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il report dell’indagine è consultabile su http://excelsior.unioncamere.net/xt/flash.geoChooser/scegli-archivio.php. 12 http://excelsior.unioncamere.net/images/pubblicazioni/excelsior_2012_il_lavoro_dopo_gli_studi.pdf, p. 15.
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2. Sviluppare strutture di pensiero e strategie per apprendere più proficuamente. Una richiesta a più voci
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La scuola è pronta a formare le capacità metacognitive dei ragazzi? Se si cerca risposta al quesito nei livelli di competenza emersi nelle indagini precedentemente illustrate, la risposta parrebbe negativa; i ragazzi italiani sembrano, infatti, non adeguatamente preparati a rispondere, non solo ai quesiti OCSE PISA, non solo alle richieste delle imprese, ma anche alle richieste del Ministero della Pubblica Istruzione. Le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione13 parlano chiaro: “anche le relazioni fra il sistema formativo e il mondo del lavoro stanno rapidamente cambiando […]. Per questo l’obiettivo della scuola non può essere soprattutto quello di inseguire lo sviluppo di singole tecniche e competenze; piuttosto, è quello di formare saldamente ogni persona sul piano cognitivo e culturale, affinché possa affrontare positivamente l’incertezza e la mutevolezza degli scenari sociali e professionali, presenti e futuri. Le trasmissioni standardizzate e normative delle conoscenze, che comunicano contenuti invarianti pensati per individui medi, non sono più adeguate” (Indicazioni, 2012, p.5). Sempre le Indicazioni Nazionali, nella versione del 2007 e nella revisione del 2012, esplicitano inoltre i Traguardi per lo Sviluppo delle Competenze, definendoli in più punti del documento, come prescrittivi14 e tali traguardi non possono essere raggiunti con una didattica basata prevalentemente su contenuti, ma vanno sviluppate opportune strategie cognitive negli alunni coinvolti. Da anni sappiamo che l’intelligenza è dinamica, che si può educare15 e, grazie alla ricerca empirica, sappiamo anche quali sono i modi più efficaci per promuovere apprendimento e miglioramento delle capacità personali16. Creare le condizioni della crescita e del successo dovrebbe essere quindi l’obiettivo primario di una buona formazione scolastica. Un buon numero di docenti privilegia invece un approccio prevalentemente trasmissivo, non utilizza appieno le potenzialità dei media per la formazione (Galliani 2003 e 2006; Santonicito, 2006), lavora su contenuti e non su strategie. (Lumbelli, 2003). Il Rapporto TALIS17, ha fornito uno spaccato interessante sulle modalità con cui i docenti del ciclo di scuola secondaria di primo grado fanno lezione, si aggiornano e si autovalutano anche rispetto alla predisposizione di ambienti efficaci di insegnamento e apprendimento (Ischinger, 2009). Sui 23 paesi esaminati, l’Italia si colloca all’ultimo posto per l’utilizzo di metodi
13 D.M. 254 del 16 novembre 2012 in G.U. n. 30 del 5 febbraio 2013 14 Si leggano ad esempio, gli asserti estratto dal testo delle Indicazioni del 2012, p. 13 “… vengono fissati i traguardi per lo sviluppo delle competenze relativi ai campi di esperienza ed alle discipline. Essi rappresentano dei riferimenti ineludibili per gli insegnanti, indicano piste culturali e didattiche da percorrere e aiutano a finalizzare l’azione educativa allo sviluppo integrale dell’allievo. Nella scuola del primo ciclo i traguardi costituiscono criteri per la valutazione delle competenze attese e, nella loro scansione temporale, sono prescrittivi, impegnando così le istituzione scolastiche affinché ogni alunno possa conseguirli, a garanzia dell’unità del sistema nazionale e della qualità del servizio”. Affermazioni simili sono inoltre presenti nel testo delle Misure di Accompagnamento alle Indicazioni, pubblicato con Nota n. 2163 del 26 marzo 2014. 15 Si vedano a tal proposito gli studi di Feuerstein (1995);, Buchel (1990), Paour (2003), Martinez Beltran (2007). 16 Si vedano, tra gli altri, gli studi di Marzano et al (2001), Hattie (2009). 17 Indagine OCSE TALIS 2009, Teaching and Learning International Survey.
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didattici basati su approcci d’insegnamento costruttivisti (per la definizione si veda Peterson, 1989) importanti per poter costruire strutture di pensiero efficaci per interpretare i problemi, affrontarli, riflettere sulla propria azione. Gli approcci costruttivisti, infatti, in TALIS, sono definiti operativamente dai seguenti indicatori: un insegnante che crede che il suo ruolo sia di supportare gli studenti nella propria personale ricerca [di buone risposte]; un insegnante che crede che gli studenti debbano trovare soluzioni in primis da soli; un insegnante che crede che sia importante che gli studenti si sentano autorizzati a trovare soluzioni in autonomia anche di fronte a problemi di ordine pratico, prima che l’insegnante fornisca loro soluzioni “preconfezionate”; un insegnante che crede che sia più importante costruire strutture di pensiero, piuttosto che fornire contenuti specifici. A quest’approccio, in TALIS (Fig.2), si contrappone quello dell’insegnante trasmissivo che invece reputa importante fornire buone soluzioni ai problemi, fornire risposte chiare, corrette e rapidamente comprensibili dalla maggioranza degli studenti, fornire un solido background di conoscenze da cui dipenderà, quanto apprenderanno gli studenti in futuro; tenere il clima di classe “tranquillo” (quiet), in modo tale da favorire l’apprendimento dei discenti.
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Fig. 2: Grafico estratto da OECD TALIS Report, raffigurante il profilo dei paesi partecipanti all’indagine TALIS circa l’utilizzo di approcci d’insegnamento costruttivisti vs trasmissivi-tradizionali
Relativamente a tale indicatore, secondo il quale un certo clima disciplinare (quiet) è considerato fondamentale per creare un ambiente di apprendimento efficace, l’Italia, dimostra di essere il paese in cui gli insegnanti perdono più tempo per cercare di ripristinare l’ordine in classe. Una buona parte di questi (e altri18) risultati di TALIS aiutano a focalizzare al18 Un ulteriore dato che emerge in TALIS è che sempre l’Italia, è il paese in cui è più alta
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cuni bisogni che la scuola italiana denuncia in diverse fonti. Tralasciando qui elementi più di natura sistemica, quali i bisogni di valutazione e autovalutazione delle scuole e il necessario miglioramento dei metodi di formazione e aggiornamento delle figure docenti, si presenta di seguito una ricerca empirica volta a controllare se l’utilizzo di una tecnica di matrice costruttivista (Questioning) possa migliorare le strategie di studio dei discenti e quindi favorire il miglioramento delle abilità di problem solving.
3. Il Questioning per sviluppare strutture di pensiero
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La tecnica del Questioning, così come di seguito presentata, è stata ideata da R. Trinchero (Trinchero, 2012) all’interno di un più ampio percorso dal titolo “Impariamo a studiare!” (2010), progettato al fine di migliorare le strategie di apprendimento di bambini e adolescenti. Obiettivo dell’intervento specifico di Questioning non è tanto presentare contenuti di apprendimento quanto piuttosto far vivere ai ragazzi delle esperienze di apprendimento e guidarli a riflettere19 su di esse utilizzando il gruppo e il formatore come risorse per migliorare sia esperienza sia la qualità della riflessione su di essa (Trinchero, 2010). In tal modo si cerca di far sviluppare ai ragazzi un “habitus” per affrontare le situazioni problematiche, non solo legate allo studio ma anche agli altri ambiti della vita. Il primo traguardo per affrontare efficacemente situazioni problematiche è imparare a porsi buone domande (Gall, 1971 e 1978). Le attività proposte nell’intervento di Questioning puntano a lavorare sulla capacità (e sulla volontà20) dei ragazzi di porsi delle buone domande e di costruire delle buone risposte insieme al gruppo dei pari, anche grazie alla guida moderatrice (e non dispensatrice di risposte) del formatore. Le attività di volta in volta proposte in aula mirano ad insegnare ai ragazzi uno schema esplicito per porsi delle buone domande sulla realtà ed in particolare sui testi-stimolo che stanno studiando. Gli stimoli possono essere scritti, orali o mediali. Dello schema-guida per la formulazione dei quesiti (illustrato in fig. 3) ne è poi stata redatta una revisione maggiormente accattivante per la fruizione libera dei ragazzi. La tecnica del Questioning si basa su un format prestabilito secondo il quale, durante il primo incontro i ragazzi lavorano su un testo fornito loro dal formatore; è un testo “sul primo giorno di scuola” che di primo acchito potrebbe sembrare banale (troppo semplice per degli adolescenti che si sentono “più avanti”), in realtà all’interno del testo sono presenti numerosi impliciti, che richiedono ai ragazzi di dare diverse interpretazioni personali, indispensabili per assegnare significato alle diverse parti del testo. Tutta la classe viene chiamata poi a rispondere ad alcune domande, già fornite su un modulo prestampato; l’esercizio che ne segue è la di-
la percentuale (circa 55%) degli inseganti che dichiarano di non aver mai ricevuto valutazione e feedback nei confronti del loro operato. 19 In riferimento alla capacità di riflettere ed autoregolare il proprio apprendimento di vedano gli studi di Schunk (1998); Pellerey (2006); Zimmerman (2001). 20 Il Questioning può in tal senso essere letto come strategia per migliorare i processi di autoregolazione dell’apprendimento. Zimmermann (2001) sottolinea, infatti, come la persona in grado di autoregolare il proprio apprendimento sia: motivata alla riuscita di un compito ed in grado di utilizzare diverse strategie per lo svolgimento di questo, mettendo a controllo costantemente la propria attività per misurare l’efficacia delle strategie adottate.
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scussione in gruppo sul confronto tra le diverse risposte fornite. Durante tale fase emergono, grazie al dibattito, diversi stili di risposta, es: risposta concisa e completa, concisa e incompleta, incompleta, analitica e completa, analitica e incompleta, etc. Solitamente i ragazzi si stupiscono come su un testo così banale (e quindi secondo loro da leggere superficialmente) si possano ricavare domande e risposte così differenziate, sia nella forma che nel contenuto.
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Fig. 3: Schema di sintesi dei “quesiti tipo” che possono essere formulati sulla base di un testo fornito21
Dal secondo incontro, il format prevede che i testi-stimolo vengano segnalati al formatore dagli insegnanti di classe; viene richiesto che siano testi legati a contenuti disciplinari, su argomenti non ancora affrontati a lezione e possibilmente non tratti dai libri adottati, in modo tale che i ragazzi non siano facilitati dal fatto di affrontare una lettura già nota. I ragazzi vengono invitati a formulare tutte le domande possibili (proprio come se fossero loro gli insegnanti) in seguito a rispondere, sia alle loro domande, sia a quelle formulate dai compagni. Anche in questi i comprendono prodotti sisuperficiale individuano diversi stili, sia di domanda sia di risposta, in quanto gli allievi acquisiscono la consapevolezza che anche la domanda (e non solo la risposta) può essere, concisa, analitica, completa, incompleta, imprecisa, non comprensibile etc. Gli incontri proseguono su testi disciplinari differenti ed il confronto con il gruppo dei pari (e sempre meno con il formatore) diventa più stimolante; i ragazzi si abituano a valutare più velocemente buone domande e buone risposte sia altrui che proprie, mettendo in campo processi ripetuti di autovalutazione (Walsh, 2003). Un punto miliare di tale processo di autovalutazione consiste nel frangente in cui i ragazzi si rendono conto che quando comprendono in maniera superficiale il significato di uno o più termini nel testo non riusciranno a “tirar fuori” né buone domande, né tantomeno buone risposte sul testo stesso. Non è, infatti, un caso che dal secondo incontro, il formatore faccia trovare in aula un dizionario, spesso consultato dal gruppo senza che sia il formatore a richiederne l’uso. Quando il lavoro sui testi disciplinari volge al termine, se le ore rimanenti lo rendono possibile, l’in"""""""""""""""""""""""""""""""""""""""" """"""""""""""""""""" tervento di Questioning si conclude con la “gara delle domande e delle risposte” in 2 2010 (protocollo di sperimentazione “Portfolio-Impariamo a Studiare!” cui c la classe, divisa in due squadre, si sfida nella formulazione delle migliori domande e delle migliori risposte. "
21 Lo schema è tratto da R. Trinchero 2010 (protocollo di sperimentazione “Portfolio-Impariamo a Studiare!” consultabile su www.edurete.org).
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4. La strategia di ricerca per controllare l’efficacia del Questioning
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Le best practices didattiche, nella scuola italiana esistono. Ciò che manca è spesso la sistematizzazione e capitalizzazione delle buone prassi che possono migliorare le strategie di apprendimento dei ragazzi e delle ragazze. Se non documentata e resa “trasferibile”, una buona pratica nasce e muore nel contesto d’origine. L’accurata descrizione d’interventi e contesti di sperimentazione aumenta, invece, la possibilità di poter trasferire con successo a nuovi contesti l’innovazione sperimentata (Giovannini, Marcuccio, 2012). La ricerca per esperimento qui descritta si pone come obiettivo quello di verificare come l’introduzione controllata di un fattore sperimentale (l’utilizzo della tecnica del Questioning) possa avere ricadute su di un fattore dipendente (qui le strategie di studio). La ricerca è stata condotta sul territorio piemontese, adottando, in questo studio, il piano sperimentale a gruppo unico, con un campione di ricerca di 59 adolescenti (di cui il 70% di genere femminile), tra i 14 ed i 15 anni, frequentanti due quarte ginnasio di un liceo della provincia di Torino. Le due classi sono state in primis sottoposte ad un test preintervento, somministrato durante la prima settimana di ottobre e volto a rilevare le strategie di studio dei ragazzi; in seconda istanza hanno partecipato ad una fase sperimentale, della durata di 16 ore, condotta con la tecnica del Questioning in classe, infine sono state sottoposte ad un test post-intervento, somministrato nella prima settimana di dicembre e volto a rilevare un eventuale cambiamento rispetto alle strategie di studio ed apprendimento adottate. Sia la somministrazione degli strumenti di rilevazione dati sia la fase sperimentale è stata condotta dal team di ricerca, con la collaborazione e la presenza degli insegnanti di classe. I testi-stimolo utilizzati nella seconda fase della sperimentazione e scelti dagli insegnanti erano afferenti a diversi ambiti disciplinari, in particolare: italiano, lingua inglese e storia, motivo per cui durante la sperimentazione in classe sono stati coinvolti i tre insegnanti delle sopracitate discipline.
5. Strumenti di rilevazione dati e primi risultati I test Pre e test Post somministrati al campione sono strumenti ad alta strutturazione22, autocompilati, costruiti su una definizione operativa che intende rilevare il profilo di studio dei ragazzi, al fine di controllarne il cambiamento a seguito dell’intervento di Questioning. Sono stati individuati 9 profili di studio (sintetizzati in Tab.1): Evasivo; Forzato; Indifferenziato; Superficiale; Di Gruppo; Mnemonico, Organizzato; Pratico; Riflessivo.
22 Più precisamente lo strumento di rilevazione dati presenta domande ad alta strutturazione (per la rilevazione delle strategie di studio) e domande semistrutturate (per la rilevazione delle discipline in cui il ragazzo si sente maggiormente debole/forte). Un estratto dello strumento di rilevazione è presente nella Fig. 4 del presente paper. Lo strumento integrale è consultabile su www.edurete .org (pulsanti: Impariamo a studiare- Test capacità di studio-sperimentazione).
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PROFILO
CARATTERISTICHE PRINCIPALI
Evasivo
Non pianifica lo studio; non individua i concetti principali di un testo; non sintetizza le informazioni; non rilegge il testo più di una volta.
Forzato
Non pianifica lo studio; non individua i concetti principali di un testo; non si concede pause quando sente scemare l’attenzione; non è costante nello studio.
Indifferenziato
Non differenzia i concetti principali da quelli secondari; non fa delle simulazioni del discorso, non usa schemi, diagrammi e mappe di rappresentazione della conoscenza.
Superficiale
Non differenzia i concetti principali da quelli secondari; non usa schemi, diagrammi e mappe di rappresentazione della conoscenza; non tende a rielaborare le informazioni con parole proprie, non fa un elenco scritto degli argomenti che sente di non aver compreso pienamente, non approfondisce termini di cui non coglie “al volo” il significato.
Di Gruppo
Scrive su un foglio quali sono le possibili domande/esercizi che il docente potrebbe porre; si confronta con i compagni per individuare buone risposte; ritorna con i compagni sui materiali di studio per controllare eventuali differenze nelle risposte fornite agli esercizi.
Mnemonico
Non tende a sintetizzare le informazioni; non differenzia i concetti principali da quelli secondari; non utilizza organizzatori della conoscenza; nel ripasso tende a rileggere tutto il testo, senza tralasciare nulla; ripete più volte, ad alta voce, la definizione dei termini, fino a quando non sente di “saperla ripetere”.
Organizzato
Usa schemi, diagrammi e mappe di rappresentazione della conoscenza; tende a rielaborare le informazioni con parole proprie; controlla periodicamente la propria “tabella di marcia” per autovalutare come procede lo studio.
Pratico
Per studiare un concetto cerca di trovare degli esempi tratti dal mondo reale a cui il concetto si possa applicare; se trova termini non noti, li cerca su glossari, dizionari o Internet, prima di procedere nello studio; per studiare un concetto tenta di rielaborarlo con parole proprie.
Riflessivo
Distingue i concetti principali da quelli secondari; chiede informazioni al docente o ai compagni per risolvere i dubbi che non è riuscito a chiarire consultando fonti esterne; fa un elenco scritto degli argomenti che sente di non aver compreso pienamente; si annota a lato del testo asserti o concetti importanti per la comprensione; formula autonomamente domande che potrebbe ricevere dal docente e tenta di fornire risposte utilizzando parole proprie.
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Tab. 1: Sintesi dei profili di studio individuati nella definizione operativa ( Sezione Materiali, Progetto e caratteristiche principali di tali profili
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Fig. 4: In figura è possibile vedere alcuni item ad alta strutturazione elaborati per rilevare il profilo “E” (Evasivo). Il questionario completo è consultabile sul sito www.edurete.org ( Sezione Materiali, Progetto “Impariamo a studiare!”)
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La situazione iniziale ha rilevato la presenza di 6 profili di studio (sui 9 profili previsti dalla definizione operativa e sintetizzati in Tab.1), diversamente distribuiti nel campione composto da 59 casi. In particolare nel test Pre: 3 casi rientrano nel profilo Forzato (5%); 5 casi nel profilo Mnemonico (8%); 2 casi nel profilo Organizzato (3%); 13 casi nel profilo Pratico (22%); 13 casi dal profilo Riflessivo (22%) e 23 casi dal profilo Superficiale (39%). Sono invece risultati assenti, nella rilevazione iniziale in entrambe le classi23 i profili Evasivo, Indifferenziato e Di Gruppo. Nella rilevazione finale, le distribuzioni di frequenza sui profili si sono, invece, così distribuite24: 1 caso sul profilo Forzato (2%); 4 casi sul profilo di Gruppo (7%); 3 casi sul profilo Mnemonico (5%); 1 caso sul profilo Organizzato (2%); 19 casi sul profilo Pratico (32%); 24 casi sul profilo Riflessivo (41%) e 7 casi sul profilo Superficiale (12%). Come si evince dalla Fig. 5, vi è stato un leggero decremento dei profili Forzato, Mnemonico e Organizzato ed un leggero incremento del profilo Pratico. Il dato certamente più interessante è il notevole cambiamento sui profili Superficiale e Riflessivo. Mentre nella rilevazione iniziale il profilo Riflessivo era costituito da 13 casi su 59 (22%), a seguito dell’intervento di Questioning 24 casi su 59 (41%) dimostrano di rientrare in questo profilo. Di contro, mentre erano classificati nel profilo Superficiale 23 casi (39%) nelle rilevazione iniziale, a seguito dell’introduzione del fattore sperimentale risultano di profilo superficiale 7 casi su 59 (12%).
I
r
o
g
Fig. 5: Nel grafico è riportato un estratto dell’analisi delle differenze prima-dopo. Per ogni profilo, qui sintetizzato con la lettera maiuscola25 sono presentate le frequenze osservate e le frequenze percentuali, così come si sono distribuite nelle rilevazioni pre (grigio chiaro) e post (grigio scuro)
23 In particolare, nella rilevazione iniziale, nella classe A sono emersi i seguenti profili (tra p q parentesi le frequenze osservate): Forzato (2 casi); Mnemonico (1 caso); Pratico (6 casi); b e Riflessivo (5 casi); Superficiale (16 casi); nella classe B invece: Forzato (1 caso); Mnemonico (4 casi); Organizzato (2 casi); Pratico (7 casi); Riflessivo (8 casi); Superficiale (7 casi). 24 Volendo precisare anche per la rilevazione finale la distribuzione dei profili distinti c sulle due classi, è emerso quanto segue: nella classe A, profilo Di Gruppo (2 casi); Pratico (13 casi); Riflessivo (12 casi); Superficiale (3 casi); nella classe B: Forzato (1 caso); Di Gruppo (2 casi); Mnemonico (3 casi); Organizzato (1 caso); Pratico (6 casi); Riflessivo (12 casi); Superficiale (4 casi). 25 Si riporta la legenda la lettura profili: F= Forzato; G= Disa Gruppo; M= fonti Mnemometteredei meglio a fuoco il problema, consultare esterne; è in grado o o perper d nico; O= Organizzato; P= Pratico; R= Riflessivo; S= Superficiale). Nel grafico in Fig. d 5sono riportate le frequenze osservate e le frequenze percentuali, così come si sono distribuite nelle rilevazioni pre (grigio chiaro) e post (grigio scuro). Per un dettaglio sulle differenze delle frequenze osservate nelle due classi si vedano le note 22 e 23 del presente (il modulo sul lavoro. Q
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In ultimo, proprio per lo spazio dedicato, durante la sperimentazione, al confronto con il gruppo, alla comunicazione tra compagni, alla messa in atto di processi di etero valutazione tra pari, pare significativo anche lo spostamento26 di alcuni allievi (4) sul profilo Di Gruppo, su cui invece non erano stati individuati casi durante la rilevazione ad inizio percorso. Il dato assume una rilevanza ancor più particolare se si pensa alle indagini Excelsior e all’importanza del saper lavorare in gruppo e saper fare squadra considerate dai datori di lavoro tra le soft skill maggiormente appetibili. In tali risultati, nonostante la relazione non possa dirsi statisticamente significativa a causa di un campione ridotto, è possibile evidenziare delle tendenze interessanti che certamente dovrebbero essere messe a controllo con un campione di più ampie dimensioni. Sulla base delle evidenze qui riportate, sembra, infatti, che meno di una ventina di ore dedicate a un approccio didattico volto a migliorare le strategie di studio negli studenti possano effettivamente spostare l’ago della bilancia da classi con un profilo di studio tendenzialmente superficiale (quasi il 40% nella rilevazione pre) a classi dal profilo prevalentemente riflessivo (41% nella rilevazione post). Se il risultato venisse confermato in ulteriori ricerche con numerosità campionaria maggiore, la tecnica del Questioning potrebbe rispondere ad alcune delle criticità evidenziate nelle indagini citate. Il profilo Riflessivo (Tab.1), infatti, è tendenzialmente il profilo di chi sa approcciarsi correttamente a una situazione problematica (PIACC), sa distinguere le informazioni utili da quelle inutili (PISA); sa chiedere ulteriori delucidazioni per mettere meglio a fuoco il problema, sa consultare fonti esterne; è in grado di porsi quesiti significativi prima ancora che questi gli vengano posti da altri, è in grado di mettere in atto processi risolutivi non necessariamente di routine (PIAAC; PISA; Excelsior). Dalle evidenze raccolte, per raggiungere tali risultati, non sembra necessario un clima quiet, caro ai docenti italiani; neppure sembra auspicabile rivedere interamente un monte ore disciplinare (il modulo sul Questioning è stato svolto in 16 ore di incontri frontali). Ciò che invece emerge dalla ricerca è che per abbassare il livello di superficialità dei profili di studio dei propri studenti, è necessario investire tempo-scuola nell’insegnamento e nella pratica di opportune strategie elaborative e metacognitive e il Questioning può essere una di queste.
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26 Gli studenti che si sono spostati sul profilo Di Gruppo sono 2 per ogni classe. In particolare nella classe A i due ragazzi risultati nella rilevazione post con un profilo Di Gruppo, nel test pre erano entrambi nel profilo Superficiale; nella classe B invece i due profili Di Gruppo, nella rilevazione iniziale erano risultati essere Riflessivo e Pratico.
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Uno studio longitudinale sul valore aggiunto come misura di efficacia scolastica: risultati ed elementi di problematicità
Alessandra Rosa - Università di degli Studi di Bologna - alessandra.rosa3@unibo.it Liliana Silva - Università degli Studi di Bologna - liliana.silva@unibo.it
A longitudinal study on value-added indicators for measuring school effectiveness: results and critical aspects The ongoing debate about value-added models as indicators of school effectiveness highlights as a primary need the detection and analysis of longitudinal data. Consequently, the present study followed from the first to the last year a cohort of more than 700 students from 12 junior high schools in the province of Bologna. At present, value-added models are increasingly taken into account even in our country, aiming to the evaluation of the school system. Through the comparison of data obtained during the three years, results of the present research confirm some of the methodological issues already discussed in the international literature, while also providing interesting insights on the use of value-added.
Parole chiave: efficacia scolastica, valore aggiunto, accountability e miglioramento, studio longitudinale, scuola secondaria di I grado, comprensione del testo.
Keywords: school effectiveness, value-added models, accountability and school improvement, longitudinal study, junior high school, reading comprehension skills.
Benché il contributo sia frutto del lavoro congiunto delle due autrici, Alessandra Rosa ha scritto i §§ 1, 3 e 4, Liliana Silva ha scritto i §§ 2, 5 e 6. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Il dibattito degli ultimi anni sul valore aggiunto come indicatore di efficacia scolastica sottolinea l’esigenza di disegni di rilevazione e analisi dei dati di tipo longitudinale. Alla luce di tali orientamenti, il presente studio ha preso in esame una leva di oltre 700 studenti frequentanti 12 scuole secondarie di I grado della provincia di Bologna, seguendola dal momento dell’ingresso a quello dell’uscita dalla scuola media. Attraverso la comparazione dei dati emersi nel triennio, i risultati della ricerca confermano alcune problematiche di ordine metodologico evidenziate dalla letteratura internazionale, fornendo inoltre interessanti spunti di riflessione sull’uso dei modelli di valore aggiunto in un momento in cui, anche nel nostro Paese, essi sembrano godere di crescente considerazione nell’ambito delle procedure finalizzate alla valutazione di sistema.
Uno studio longitudinale sul valore aggiunto come misura di efficacia scolastica: risultati ed elementi di problematicità
1. Caratteristiche e definizioni dei modelli di valore aggiunto
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L’esigenza di una scuola equa ed efficace, che si pone in modo sempre più pressante nello scenario attuale della società della conoscenza e del lifelong e lifewide learning, evidenzia la portata culturale e politica della problematica presa in esame nel presente contributo, relativa alla misurazione dell’efficacia scolastica non solo in un’ottica di responsabilità e trasparenza nei confronti dell’opinione pubblica, ma anche nella prospettiva di un miglioramento continuo dell’offerta formativa e dei processi di insegnamento/apprendimento. La ricerca di modelli e procedure che consentano di pervenire a misure valide e attendibili dell’efficacia dei sistemi di istruzione e delle singole scuole risulta pertanto fondamentale da un lato per la cosiddetta accountability, ovvero per la rendicontazione esterna dell’operato degli istituti e degli insegnanti, divenuta centrale anche a seguito dell’accresciuta autonomia ad essi assegnata a livello gestionale, organizzativo e didattico; dall’altro lato per incentivare processi di valutazione/autovalutazione che, a partire dalla riflessione e dal confronto sui risultati emersi, consentano di definire interventi di miglioramento in relazione ai punti deboli riscontrati. Sulla base delle esigenze delineate, nell’ambito di quel filone della ricerca educativa internazionale solitamente definito come School Effectiveness Research (SER) è emersa e si affermata, soprattutto negli ultimi due decenni, la proposta di modelli basati sul valore aggiunto. Tale concetto, le cui origini vanno ricercate nel settore dell’economia e della produzione di beni materiali, è stato trasposto al settore dell’istruzione e proposto da vari studiosi afferenti al campo di indagine come possibile soluzione al problema di individuare indicatori di efficacia più affidabili e validi di quelli tradizionalmente utilizzati per la valutazione dei sistemi scolastici. Questi ultimi infatti, essendo basati sui “punteggi grezzi” degli studenti in prove standardizzate di profitto somministrate al termine di determinati gradi/cicli scolastici, sono ritenuti indicativi non tanto dell’efficacia degli istituti frequentati e dell’istruzione ricevuta, quanto piuttosto delle differenze nella composizione della popolazione scolastica in termini di background socio-culturale: è noto infatti che tra rendimento scolastico e ambiente familiare di provenienza vi è una forte associazione e che gli alunni in condizione di svantaggio ottengono, mediamente, risultati inferiori rispetto agli studenti di status più elevato. In che modo si differenziano, rispetto a tali misure, gli indicatori ottenibili mediante modelli di valore aggiunto? È possibile rispondere a tale domanda partendo dalla descrizione che ne fornisce l’OCSE in un rapporto dedicato alla tematica dal titolo Measuring improvements in learning outcomes: best practices to assess the value-added of schools, in cui essi vengono definiti come una categoria di modelli statistici che stimano il contributo delle scuole ai progressi degli studenti verso il
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raggiungimento di obiettivi educativi stabiliti o prescritti “al netto” di altri fattori che influenzano tali progressi (OECD, 2008). In altre parole, il valore aggiunto indica l’accrescimento nei livelli di apprendimento degli studenti specificamente riconducibile ai processi di istruzione, in quanto i risultati che essi ottengono nelle prove di profitto vengono elaborati statisticamente per tener conto del peso esercitato da variabili antecedenti quali il retroterra socio-culturale di provenienza e la loro “dotazione iniziale” in termini di conoscenze/competenze possedute, che costituiscono potenti predittori della riuscita scolastica. A questo proposito, è necessario sottolineare il fatto che, nell’ambito della School Effectiveness Research, l’espressione “valore aggiunto” è stata utilizzata per indicare almeno tre diversi approcci alla misurazione dell’efficacia scolastica (Schagen, Hutchison, 2003): a) misurazione del rendimento attraverso un’unica rilevazione, “depurando” però i punteggi grezzi conseguiti dall’influenza del background familiare degli studenti; b) misurazione del progresso attraverso più rilevazioni effettuate a distanza di tempo, “depurando” i punteggi grezzi conseguiti al termine di determinati periodi di istruzione dall’influenza riconducibile al rendimento pregresso degli studenti; c) misurazione del progresso attraverso più rilevazioni effettuate a distanza di tempo, “depurando” i punteggi grezzi conseguiti al termine di determinati periodi di istruzione dall’influenza sia del rendimento pregresso, sia del background familiare degli studenti. Il concetto di valore aggiunto ha dunque assunto accezioni e significati differenti ma, come testimonia ad esempio il rapporto dell’OCSE precedentemente citato, la letteratura più recente sembra ampiamente concorde nel circoscrivere l’uso di tale espressione soltanto al terzo degli approcci menzionati. In definitiva, il valore aggiunto, in quanto misura di progresso piuttosto che di status, si configura come differenza tra un risultato osservato – il punteggio effettivamente ottenuto dagli studenti nelle prove standardizzate – e un risultato atteso – determinato dalle caratteristiche di sfondo e di partenza degli studenti; se la differenza assume segno positivo si può realmente parlare di valore aggiunto, mentre in caso di segno negativo sarebbe forse più opportuno parlare di “valore sottratto”. La tecnica statistica tipicamente impiegata per determinare tale differenza è rappresentata dall’analisi della regressione, che consente di individuare e “isolare” – nell’ambito dell’analisi della varianza derivata dalla regressione – la parte di varianza associata ai risultati degli studenti che, non essendo attribuibile ai predittori inseriti nel modello, può considerarsi, con le dovute cautele, riconducibile all’effetto della scuola e dei processi di istruzione. I risultati delle analisi di valore aggiunto variano a seconda del modello adottato e la presentazione degli stessi può essere strutturata in base ai livelli di aggregazione dei dati utilizzati come riferimento per il calcolo (singolo studente, classe/insegnante, scuola, area locale o regionale), nonché in base agli usi e ai destinatari previsti. A tale riguardo, il rapporto dell’OCSE individua tre principali tipologie di impiego dei dati ottenuti mediante modelli di valore aggiunto, ciascuna delle quali implica il riferimento, almeno in via prioritaria, a diversi tipi di stakeholder: la prima è finalizzata a supportare l’accountability scolastica, la seconda le scelte degli studenti e delle loro famiglie e infine la terza il miglioramento degli istituti e dei processi educativi (OECD, 2008). I primi due obiettivi individuati hanno entrambi a che fare con l’istanza, richiamata in apertura del contributo, di una rendicontazione sociale dell’operato delle scuole mediante la pubblicazione dei risultati raggiunti dagli studenti, realizzando sistemi informativi in grado di fornire validi e attendibili indicatori di efficacia atti a supportare processi decisionali a vari livelli (dalle scelte di politica
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scolastica e allocazione delle risorse a quelle delle famiglie). Il terzo si riferisce invece alla necessità, sempre più sottolineata negli ultimi anni (ad es. Giovannini, Tordi, 2009), di un uso “interno” dei dati provenienti da valutazioni esterne, in cui le informazioni prodotte a livello di sistema sono messe al servizio dei singoli istituti per contribuire ad alimentare processi di riflessione e autovalutazione che, a loro volta, portino a definire piani di miglioramento. In quest’ottica perde importanza la creazione di “classifiche” delle scuole e degli insegnanti, rintracciabile ad esempio nella tradizione delle League Tables inglesi, mentre acquisisce valore la ricaduta formativa dei risultati, il loro porsi quali dati cui dirigenti scolastici e docenti possono fare riferimento per una migliore comprensione/regolazione del proprio agire professionale e quali informazioni utili a supportare il monitoraggio e il miglioramento continuo dei processi di istruzione.
2. Il dibattito relativo alle indagini longitudinali sul valore aggiunto 172
Il dibattito relativo alle finalità e alla definizione sempre più accurata dei modelli per l’analisi del valore aggiunto ha trovato ampio respiro all’interno delle diverse esperienze sviluppatesi in ambito internazionale. All’interno di questo quadro, una delle tematiche centrali su cui vari studiosi hanno richiamato l’attenzione è indubbiamente rappresentata dal tipo di disegno necessario nell’impostazione delle procedure di rilevazione/analisi dei dati e, in particolare, dall’importanza di adottare una prospettiva longitudinale, che in riferimento al valore aggiunto si presenta come necessaria, ma al tempo stesso problematica. Tale esigenza si ricollega non solo all’intento di pervenire a stime più corrette degli effetti complessivamente rilevabili a livello di istituto e di classe, ma anche a quello di sondare la stabilità nel tempo degli indicatori di valore aggiunto relativi alle singole scuole/classi. Per quanto alcuni autori abbiano teorizzato e avanzato ipotesi relative alle possibilità di un modello di valore aggiunto longitudinale (ad es. Gray et al., 1996; Luyten, 1994), la prospettiva a lungo termine è stata oggetto di ricerche empiriche solo negli ultimi anni (cfr. ad es. Goldhaber, Hansen, 2008). A seguito delle difficoltà riscontrate nella misurazione nel corso di un solo anno (ad es. Giovannini, Tordi, 2009) si è infatti ritenuto necessario ampliare il framework temporale della ricerca, per poter considerare i progressi degli studenti all’interno di un arco temporale più ampio. Come è stato messo in evidenza nel precedente paragrafo, per il calcolo degli indicatori di valore aggiunto sono necessarie almeno due rilevazioni dei dati sugli stessi soggetti; tuttavia, alcuni studiosi hanno indicato il triennio come l’arco temporale “minimo” per analisi che consentano di verificare la stabilità nel tempo delle misure effettuate (Kyriakydes, Creemers, 2008; Thomas et al., 2007; Van de Grift, 2009). L’ampliamento del framework temporale considerato permette infatti di ridurre gli errori di misura (Rothman, 2010) e di potenziare l’effetto formativo dei dati, valorizzando il monitoraggio continuo e quindi la possibilità di ottenere informazioni importanti per attuare miglioramenti negli istituti e nelle classi (Creemers, Kyriakydes, 2006). Come sopra accennato, gli studi longitudinali offrono vantaggi dal punto di vista dell’analisi dei dati, ma anche difficoltà e problematiche che, soprattutto se non opportunamente esplicitate e affrontate, possono indebolire la validità e l’at-
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tendibilità dei risultati ottenuti. Innanzitutto è necessario disporre di un sistema di codifica/archiviazione dei dati che consenta di seguire l’allievo per un periodo di tempo molto lungo, nel quale inevitabilmente saranno presenti variazioni (Amrein-Beardsley, 2008); occorre inoltre prevedere l’insorgere di comportamenti opportunistici da parte di alcuni soggetti interessati (ad es. effetto gaming) e curare il processo di informazione sui metodi e sui fini, che deve accompagnare la costruzione di un impianto per molti aspetti complesso e delicato (Ricci, 2008); infine è necessario considerare che le variazioni nel tempo sono il frutto di dinamiche complesse, non riconducibili esclusivamente all’effetto della scuola e alle prassi educative correnti (effetti ritardati, effetti life cycle, effetti incrociati tra ambiti disciplinari ecc). La dimensione longitudinale è inoltre strettamente collegata alla problematica dei dati mancanti: più misure sono necessarie per un calcolo accurato, più aumenta la possibilità di avere una mancanza di dati per il calcolo stesso, generando instabilità e incertezza nella restituzione di “classifiche” e risultati alle scuole (ad es. Ding, 2009; Van de Grift, 2009). Anche per i modelli di valore aggiunto, l’aspetto dei missing data fa sostanzialmente riferimento ai soggetti che, per vari motivi (trasferimenti, ritiri, bocciature, assenze ecc.), presentano dati incompleti e vengono esclusi dalle analisi; il problema riguarda inoltre gli studenti che non sono in grado di sostenere la prova (certificati, stranieri non alfabetizzati ecc.), i quali tuttavia incidono sull’efficacia complessiva della didattica. Pur costituendo uno dei principali nodi problematici messi in luce da vari studiosi, la letteratura internazionale non sembra offrire una definizione precisa della possibile soluzione. Nell’ambito dei sistemi implementati in altri Paesi per la rilevazione e l’analisi del valore aggiunto il problema è stato affrontato in diversi modi. Il TVAAS (Tennessee Value Added Assessment System) sviluppato da William Sanders, ad esempio, tratta i dati relativi ai soggetti mancanti equiparandoli alla media rilevata a livello di distretto ma, come sottolinea Kupermintz (2003), ciò può produrre distorsioni soprattutto per le classi caratterizzate da un elevato numero di dati mancanti. Portela et al. (2013), invece, propongono la definizione di un indice per la valutazione delle evoluzioni delle performance scolastiche strutturato sulle misure di valore aggiunto e sulle buone pratiche sviluppatesi nel tempo. Inserire l’impatto statistico dei dati mancanti nei modelli di valore aggiunto è certamente possibile, ma se non fatto con precisione e analitica definizione degli indici il risultato finale, ancora una volta, può generare informazioni scarsamente attendibili (Wiley, 2006). La scelta più ricorrente in letteratura sembra essere quella di escludere i soggetti con dati mancanti dalle analisi di valore aggiunto, basata in sostanza sul presupposto che essi siano distribuiti in modo casuale tra le varie scuole/classi. Van de Grift (2009), tuttavia, sottolinea come anche questa scelta sia discutibile, in quanto la distribuzione dei dati mancanti può essere considerata casuale soltanto in parte: i tassi di mobilità, di assenteismo, di ripetenza o di abbandono, ad esempio, non sono i medesimi in tutti gli istituti, ma tendono ad essere particolarmente elevati soprattutto nelle scuole caratterizzate da un’utenza di basso livello socioculturale e da indicatori di risultato sotto la media.
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3. Obiettivi e impostazione della ricerca
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Ponendosi in continuità con gli studi sul valore aggiunto già effettuati nell’ambito del Dottorato di ricerca in Pedagogia sperimentale della Sapienza - Università di Roma1, ma al tempo stesso differenziandosi da essi non solo per il livello scolastico considerato ma soprattutto per la scelta innovativa di adottare un disegno di ricerca longitudinale, nel triennio compreso tra gli anni scolastici 2008/2009 e 2010/2011 è stato realizzato uno studio nella scuola secondaria di I grado che ha coinvolto e collegato tra loro tre ricerche di dottorato2, ciascuna incentrata su uno dei tre anni del progetto ma con un progressivo ampliamento del raggio di analisi dei dati. In particolare, nell’indagine svolta nel secondo anno è stato possibile prendere in esame un arco temporale di due anni, confrontando i risultati degli allievi con quelli ottenuti, dagli stessi allievi, nell’ambito dell’indagine realizzata nel primo anno; allo stesso modo, nell’indagine effettuata nel terzo anno è stato possibile riflettere sull’andamento dei risultati relativi all’intero triennio considerato. A partire dal quadro teorico delineato nei precedenti paragrafi e sulla scorta degli studi effettuati in altri Paesi, il progetto di ricerca ha inteso esplorare nel contesto italiano potenzialità e limiti degli indicatori di valore aggiunto per la misurazione dell’efficacia scolastica. Le ipotesi formulate e sottoposte a verifica – incentrate sul confronto tra tali indicatori e quelli basati sui punteggi grezzi, sulla comparazione tra diversi livelli di analisi (scuola e classe) e sull’esame dell’andamento delle misure effettuate nell’arco di tempo in esame – hanno mirato, nel complesso, a fornire utili spunti di riflessione in merito alla seguente controversa questione: è possibile utilizzare il valore aggiunto per valutare – ed eventualmente premiare/sanzionare – le scuole e gli insegnanti? Il campione coinvolto nella ricerca, tratto da una popolazione di riferimento rappresentata da tutte le scuole secondarie di I grado attive sul territorio della provincia di Bologna nell’a.s. 2008/2009, comprende 12 istituti per un totale di 36 classi (tre per ciascun istituto) e oltre 700 studenti. La selezione delle unità di analisi da tale popolazione è avvenuta mediante campionamento per obiettivi o di giudizio o ragionato, espressioni con cui si indica quel “disegno che ha come criterio il giudizio del ricercatore stesso, che sceglie le unità di analisi proprio sulla base della sua aspettativa di ottenere risposte che meglio si confanno alle finalità dell’indagine” (Lucisano, Salerni 2002, p. 138). Tale piano di campionamento, quindi, pur essendo di tipo non probabilistico e limitando di conseguenza la possibilità di generalizzare i risultati ottenuti, è stato scelto in base alle finalità e alle caratteristiche del progetto di ricerca, rispetto alle quali risultava necessario includere nello studio scuole rispondenti ai seguenti due requisiti di fondo: la collocazione in zone e contesti diversificati, allo scopo di coinvolgere istituti caratterizzati da un’utenza eterogenea in termini di background socio-culturale; la disponibilità di
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Nell’ambito del Dottorato in Pedagogia sperimentale la tematica della misura dell’efficacia scolastica per mezzo del valore aggiunto è stata precedentemente affrontata dal dott. Cristiano Corsini (XX ciclo) e dalla dott.ssa Claudia Tordi (XXI ciclo), le cui ricerche hanno preso in esame l’ultimo anno della scuola primaria facendo riferimento, rispettivamente, alle competenze degli alunni in lettura e in matematica. Le tre indagini coinvolte nel progetto di ricerca longitudinale - coordinate e supervisionate dalla Prof.ssa Maria Lucia Giovannini e dal Prof. Pietro Lucisano - sono state realizzate dalla dott.ssa Margherita Ghetti (XXII ciclo), dalla dott.ssa Alessandra Rosa (XXIII ciclo) e dalla dott.ssa Liliana Silva (XXV ciclo).
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almeno tre classi/sezioni parallele, per consentire l’analisi della varianza intra-scuola delle misure di efficacia. La scelta dell’ambito entro cui rilevare gli apprendimenti degli studenti – da cui partire per elaborare indicatori e graduatorie di efficacia relativi alle scuole e alle classi partecipanti alla ricerca – ha privilegiato le abilità di lettura e comprensione dei testi, che indubbiamente occupano un posto di primo piano tra le abilità di base che la scuola ha il compito di fornire agli studenti: esse non solo sono di natura trasversale e dunque necessarie per affrontare con successo lo studio di qualunque disciplina scolastica, ma risultano anche indispensabili per la vita al di fuori della scuola in una società che sempre più richiede capacità di ampliamento/aggiornamento continuo delle conoscenze possedute. In ciascuno dei tre anni considerati si è dunque proceduto alla messa a punto, alla taratura e alla somministrazione di prove strutturate di comprensione del testo, utilizzando item di ancoraggio tra una prova e l’altra e sottoponendo ogni volta i risultati ad item analisi mediante procedure riconducibili al modello dell’Item Response Theory (IRT), che consente di incrementare la precisione e l’attendibilità delle misure mettendo in relazione la difficoltà dei quesiti utilizzati e l’abilità dei soggetti rispondenti. Come illustra la Tabella 1 sotto riportata, la medesima leva di studenti è stata coinvolta in un ciclo di quattro rilevazioni successive, consentendo di analizzare in prospettiva diacronica l’andamento degli indicatori di valore aggiunto nel triennio considerato. Classe prima - a.s. 2008/09
Classe seconda a.s. 2009/10
Classe terza - a.s. 2010/11
I somministrazione Ottobre 2008
II somministrazione Maggio 2009
III somministrazione Aprile/Maggio 2010
IV somministrazione Aprile/Maggio 2011
Prova di comprensione del testo entrata prima media
Prova di comprensione del testo uscita prima media
Prova di comprensione del testo uscita seconda media
Prova di comprensione del testo uscita terza media
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Tab. 1: La scansione temporale dello studio longitudinale nella scuola secondaria di I grado
Per raccogliere i dati relativi al background familiare degli studenti, indispensabili per elaborare le misure di valore aggiunto, ma anche al fine di rilevare ulteriori informazioni di contesto e di processo utili ad approfondire e interpretare tali misure – focalizzando in particolare l’attenzione sulle caratteristiche, sulle percezioni e sulle prassi degli insegnanti coinvolti –, sono stati inoltre messi a punto e utilizzati dei questionari rivolti tanto agli studenti quanto ai loro docenti di italiano.
4. Principali risultati emersi dal primo biennio dello studio Rifacendosi alle tecniche statistiche già utilizzate nel primo anno dello studio longitudinale, gli indicatori di valore aggiunto relativi al secondo anno sono stati ottenuti mediante un’equazione di regressione lineare multivariata in cui, come variabile dipendente, è stato considerato il punteggio nella prova di comprensione del testo svolta dagli studenti in uscita dalla seconda media, mentre come predittori o regressori sono stati inseriti: a) il rendimento pregresso, ovvero i punteggi nelle due prove svolte in prima3; b) l’indice socio-culturale familiare (ISC), costruito me-
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I coefficienti di correlazione osservati tra la variabile dipendente e il rendimento pre-
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diante analisi fattoriale a partire da alcune variabili di sfondo relative all’ambiente di provenienza degli studenti (tra cui il titolo di studio e l’occupazione dei genitori)4. Nel complesso, i regressori inseriti nel modello di analisi contribuiscono a “spiegare” una percentuale di varianza nei risultati degli studenti pari al 79%, che ne conferma l’elevato potere predittivo sul rendimento scolastico. Come già osservato nel primo anno dello studio e come ipotizzato in base agli esiti emersi da altre indagini effettuate in contesti diversi e/o a differenti livelli del sistema di istruzione (ad es. Choi et al., 2004; Corsini, 2009; Giovannini, Tordi, 2009), l’uso di indicatori di valore aggiunto (VA) in luogo delle tradizionali misure basate sui punteggi grezzi (PG) tende a modificare notevolmente il quadro che emerge in termini di efficacia: il confronto tra i due tipi di indicatori evidenzia infatti la presenza sia di scuole/classi risultate efficaci sulla base dei PG che, in termini di VA, mostrano invece indicatori di segno negativo, sia di scuole/classi efficaci in base agli indicatori di VA che mostrano invece, in termini di PG, valori inferiori alla media. Anche la comparazione tra i cosiddetti “effetto-scuola” ed “effetto-classe” – misurati in termini di varianza spiegata nei punteggi degli studenti a parità di altre condizioni rilevanti (rendimento pregresso e background socio-culturale) – ha rivelato risultati in linea con quanto emerge dalla letteratura internazionale (ad es. Bressoux, 1995; Luyten, 2003) e dalle precedenti ricerche sul valore aggiunto svolte nell’ambito del Dottorato in Pedagogia sperimentale (cfr. note 1 e 2): mentre nel primo caso si registra una percentuale pari al 5%, nel secondo essa sale al 18% (cfr. Tabella 2). La classe sembra dunque configurarsi come dimensione di analisi più rilevante e significativa rispetto a quella rappresentata dalla scuola nel suo insieme: lo scarto osservato tra le quote di varianza spiegata dai due livelli di aggregazione dei dati, insieme alla sostanziale disomogeneità riscontrata tra gli indicatori di VA relativi alle diverse classi appartenenti a ciascuna scuola, induce infatti a concludere che a fare realmente la differenza nei progressi degli studenti sia la specifica classe frequentata, più che l’istituto di appartenenza. Tabella ANOVA – Varianza VA tra SCUOLE Somma dei quadrati Fra gruppi
VA* Scuola Entro gruppi Totale
df
26,399
11
502,601
521
529,000
532
Media dei quadrati
F
2,400 2,488
Sig.
Quota di varianza spiegata
,005
5,0%
,965
Tabella ANOVA – Varianza VA tra CLASSI Somma dei quadrati Fra gruppi
VA* Classe
!
4
df
Media dei quadrati
96,468
35
Entro gruppi
432,532
497
Totale
529,000
532
F
2,756 3,167 ,870
Sig.
Quota di varianza spiegata
,000
18,2%
Tab. 2: Effetto-scuola ed effetto-classe
gresso sono risultati elevati – e significativi al livello 0,01 – per entrambe le prove svolte in ingresso e in uscita dalla prima: 0.84 nel primo caso e 0.85 nel secondo. La correlazione tra l’indice e la variabile dipendente è risultata elevata – e significativa al livello 0,01 – tanto a livello di scuola (0.81) quanto a livello di classe (0.73).
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Un ulteriore confronto effettuato, reso possibile dall’adozione di un disegno longitudinale e dunque dal collegamento con l’indagine svolta nel primo anno dello studio, è quello relativo alla comparazione tra gli indicatori di VA ottenuti al termine della prima media e quelli osservati al termine della seconda. Confermando i risultati di alcuni studi longitudinali condotti in altri Paesi (ad es. Aaronson et al., 2007; Bressoux, Bianco, 2004; Goldhaber, Hansen, 2008; Gorard et al., 2013; Hill et al., 2010; Thomas et al., 2007), gli esiti relativi al primo biennio della nostra ricerca mettono in luce una forte discontinuità nel tempo delle misure di valore aggiunto relative alle varie scuole e soprattutto alle singole classi, anche nei casi di permanenza dello stesso insegnante nei due anni scolastici considerati: mentre infatti i punteggi grezzi appaiono generalmente piuttosto stabili, permanendo nel biennio superiori o inferiori alla media in 10 scuole su 12 e in 31 classi su 36, gli indicatori di VA mostrano nella maggior parte dei casi notevoli slittamenti – verso l’alto o verso il basso – nel passaggio dal primo al secondo anno (si vedano, a questo proposito, gli esempi riportati nel successivo Grafico 5). Questo andamento complessivamente “fluttuante” degli indicatori di VA induce a riflettere non solo sull’affidabilità e validità delle misure di efficacia, ma anche sull’uso dei dati per esempio per classificare e premiare – come viene fatto in altri Paesi – le scuole o gli insegnanti: come valutare, ad esempio, un docente che, in riferimento ai medesimi studenti, risulti efficace nella classe prima e inefficace in seconda? Un ultimo risultato su cui vorremmo soffermarci, anche in relazione a quanto precedentemente affermato circa l’esigenza di coniugare efficacia ed equità, riguarda la “distribuzione” del valore aggiunto tra gli studenti: ci sono differenze tra gruppi di allievi di diverso livello socio-culturale? Nel Grafico 1 sotto riportato – relativo alle classi più e meno efficaci, cioè collocate agli estremi della graduatoria ottenuta al termine della seconda media – si illustra il modo in cui si distribuiscono gli allievi considerando i valori assunti dalle variabili VA (asse delle x) e ISC (asse delle y). Osservando il primo diagramma si nota che gli studenti tendono a concentrarsi nella metà destra in quanto si fa riferimento alle classi con indicatori di VA positivi, ma sembrano ripartirsi in maniera piuttosto equilibrata tra la parte superiore e quella inferiore; nel secondo diagramma si osserva una situazione speculare a quella appena descritta: in questo caso, infatti, gli studenti si concentrano nella metà sinistra in quanto si fa riferimento alle classi con indicatori di VA negativi, ma tendono a ripartirsi tra la parte superiore e quella inferiore in maniera altrettanto equilibrata. La distribuzione del valore aggiunto tra gli studenti appare dunque sostanzialmente “equa”: in altre parole, nelle classi in cui si aggiunge o si sottrae valore, ciò avviene per tutti gli studenti, senza disparità connesse al background familiare. Nella maggior parte dei casi, inoltre, le classi con VA positivo mostrano una concomitante riduzione delle differenze di rendimento tra gli studenti, con un decremento del valore assunto dal coefficiente di variazione tra la prima e la seconda media, mentre nelle classi con VA negativo il coefficiente al contrario aumenta.
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! Graf. 1: Confronto tra la distribuzione degli alunni nelle classi più efficaci (VA positivo) e meno efficaci (VA negativo)
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!!
Approfondendo ulteriormente l’analisi e articolando l’indice ISC in 5 livelli (invece di limitarsi a considerarlo come superiore o inferiore alla media) emergono tuttavia differenze, all’interno del campione preso in esame, tra gli studenti appartenenti alle modalità estreme: come mostra la seguente Tabella 3, ottiene valore aggiunto positivo il 45,7% degli studenti di livello socio-culturale basso, mentre la percentuale sale al 61,9% per quelli di livello alto; viceversa, solo il 33% degli allievi di livello socio-culturale alto ottiene valore aggiunto negativo, mentre la percentuale sale al 43,5% in relazione a quelli di livello basso. Tali dati assumono particolare rilievo se confrontati con quelli riportati nella successiva Tabella 4, in cui la distribuzione degli studenti in base alla variabile ISC viene incrociata con quella delle misure di valore aggiunto ottenute, invece che al termine della seconda media, in uscita dalla prima. Comparando le due tabelle si nota infatti un evidente “allargamento della forbice” nel corso del biennio in esame: le differenze tra gli studenti di livello socio-culturale alto e basso, che alla fine della prima media appaiono di lieve entità, tendono invece a diventare più consistenti al termine del successivo anno scolastico. Ciò induce a supporre, pur in presenza di una distribuzione del valore aggiunto complessivamente equa, che le differenze tra gli studenti più vantaggiati e svantaggiati in termini di background familiare tendano comunque a emergere e ad accentuarsi nel corso del tempo5. Indice socio-culturale (ISC) Basso
Valore aggiunto II media
Medio-basso
Medio
Medio-alto
Alto
Totale
Negativo
43,5%
38,9%
47,7%
41,1%
33,3%
42,6%
Nullo
10,9%
11,9%
11,6%
10,7%
4,8%
11,1%
Positivo
45,7%
49,2%
40,7%
48,2%
61,9%
46,3%
100% (N=46)
100% (N=126)
100% (N=172)
100% (N=168)
100% (N=21)
100% (N=533)
Totale
Tab. 3: Distribuzione degli alunni in base all’indice ISC e agli indicatori di VA: uscita seconda media
5
Per una presentazione più ampia e approfondita dei risultati emersi al termine del primo biennio dello studio si rimanda al volume di Rosa A. (2013). !
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Indice socio-culturale (ISC) Basso
Valore aggiunto I media
Negativo Nullo Positivo Totale
!
Medio-basso
Medio
Medio-alto
Totale
Alto
43,3%
41,3%
42,9%
41,3%
47,0%
38,1%
8,7%
7,9%
8,1%
10,7%
9,5%
9,0%
50,0%
49,2%
50,6%
42,3%
52,4%
47,7%
100% (N=46)
100% (N=126)
100% (N=172)
100% (N=168)
100% (N=21)
100% (N=533)
Tab. 4: Distribuzione degli alunni in base all’indice ISC e agli indicatori di VA: uscita prima media
5. Principali risultati al termine del triennio della ricerca Le analisi dei dati svolte al termine del terzo e ultimo anno della ricerca hanno seguito le procedure già adottate nei primi due anni, brevemente descritte nel precedente paragrafo, facendo riferimento ai dati ottenuti per mezzo della somministrazione delle prove di comprensione del testo e dei questionari agli studenti appartenenti al campione. È sin da ora importante sottolineare come, se all’inizio dell’indagine il campione era composto da oltre 700 studenti, al termine del terzo anno coloro che hanno sostenuto la prova durante tutte e quattro le somministrazioni e quindi inclusi nel calcolo degli indicatori di valore aggiunto sono risultati in numero nettamente inferiore (cfr. Grafico 2). La scelta fatta durante la definizione iniziale del disegno longitudinale è stata infatti quella di escludere gli studenti che non avessero completato tutte le prove della ricerca.
Graf. 2: Soggetti validi per le analisi di valore aggiunto nelle quattro somministrazioni
Rispetto ai risultati ottenuti al termine del secondo anno, la differenza tra i risultati ottenuti mediante la misura dei punteggi grezzi e degli indicatori di valore aggiunto risulta emergere nuovamente: se consideriamo le graduatorie generate per mezzo delle due misure, le differenze nelle posizioni ottenute dalle classi risultano essere quelle riportate nel seguente Grafico 3.
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Graf. 3: Differenze nelle posizioni delle classi tra le graduatorie basate sui punteggi grezzi e sugli indicatori di VA
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Per quanto riguarda invece l’analisi della varianza tra scuole e classi, considerando un peggioramento della significatività dei risultati ottenuti rispetto al secondo anno della ricerca, è possibile evincere come i progressi misurati per mezzo degli indicatori di valore aggiunto risultino variare tra le classi in misura maggiore che non tra le scuole: ad una quota di varianza spiegata dall’“effetto scuola” dell’1,8%, corrisponde infatti una quota di varianza spiegata dall’“effetto classe” dell’8,6%. Tale varianza è apprezzabile nel Grafico 4, dove al dato relativo agli indicatori di valore aggiunto misurati al termine del triennio per ogni scuola è affiancato quello delle rispettive classi, al fine di rilevare facilmente le importanti differenze tra le stesse classi all’interno delle medesima scuola.
Graf. 4: Indicatori di valore aggiunto ottenuti dalle scuole e dalle rispettive classi durante il terzo anno dell’indagine
Il terzo aspetto considerato, l’andamento longitudinale delle rilevazioni per mezzo del valore aggiunto, ci permette di considerare la differenza più apprezzabile rispetto ai dati relativi all’anno precedente: se al termine del secondo anno era stato riscontrato un aumento dell’“effetto classe” e dell’“effetto scuola” rispetto al primo anno della ricerca, al termine del triennio tale aspetto risulta essere inferiore
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rispetto a quello del secondo anno. Inoltre, gli indicatori di valore aggiunto presentano una forte disomogeneità e quindi instabilità nel triennio in esame, soprattutto tra le classi della stessa scuola, come è possibile desumere dal seguente Grafico 5 dove sono riportati, a titolo di esempio, gli andamenti nei tre anni di quattro delle scuole comprese nel campione.
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Graf. 5: Andamento degli indicatori di valore aggiunto osservati nel triennio in 4 scuole coinvolte nell’indagine e nelle rispettive 3 classi
Un’ultima considerazione riguarda invece la distribuzione del valore aggiunto tra gli studenti in relazione ai livelli socio-culturali di appartenenza: al termine del terzo anno è possibile confermare quanto già emerso alla fine del secondo (cfr. Grafico 1) e quindi una distribuzione del valore aggiunto in cui, nel complesso, non si evidenziano sostanziali differenze connesse al background degli allievi. Si rileva tuttavia, rispetto al secondo anno, una situazione diversa in merito alle differenze tra gli studenti di livello socio-culturale rispettivamente alto e basso, che sembrano tornare contenute come già messo in evidenza al termine del primo anno della ricerca. Pur trattandosi di un risultato interessante, in base al quale si potrebbe supporre che la scuola si ponga come agente di equità nei confronti degli studenti riducendo gli effetti dell’indicatore ISC, riteniamo necessari ulteriori approfondimenti ed elementi di conoscenza al fine di supportare tale interpretazione.
Considerazioni conclusive Dal presente studio longitudinale emerge come il valore aggiunto rappresenti un modello di misura dell’efficacia scolastica certamente più preciso rispetto alla misura ottenuta per mezzo dei punteggi grezzi. Emergono tuttavia anche diverse problematiche che ci permettono di mettere in discussione l’uso di questo modello come realmente valido ed equo, tra cui in particolare l’instabilità dei risultati relativi al valore aggiunto in prospettiva longitudinale. Se la letteratura evidenzia la necessità di effettuare le rilevazioni nell’arco di almeno un triennio, alcune criticità sono emerse dalla presente ricerca con riferimento alla possibilità di una misura
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che richieda somministrazioni per un arco di tempo prolungato. È stato infatti rilevato, innanzitutto, il grande problema della “mortalità” dei soggetti del campione: se all’inizio dell’indagine questo poteva comprendere oltre 700 studenti, al termine del triennio, a causa delle assenze in una o più somministrazioni, dei trasferimenti e delle bocciature, il campione si è drasticamente ridimensionato (cfr. Grafico 2). È stato inoltre sottolineato l’andamento disomogeneo degli indicatori di VA relativi alle classi nel corso del triennio, confermando quindi l’instabilità dei dati nel lungo periodo. In definitiva, la prospettiva longitudinale appare fondamentale per la definizione di un modello di efficacia scolastica strutturato sui progressi degli studenti, che necessariamente deve riferirsi a più anni; occorre tuttavia considerare le problematiche che il modello comporta, per predisporre nuove prospettive sin dalla fase di definizione del disegno stesso della ricerca. È utile inoltre considerare l’incidenza della composizione del campione degli studenti nel triennio: sin dal principio si è infatti scelto di escludere dall’analisi gli allievi certificati e gli stranieri non alfabetizzati. Risulta tuttavia necessario considerare come la misura dell’efficacia a livello di classe non possa trascurare la presenza effettiva degli alunni suddetti nelle classi stesse, così come non può non tener conto della variabilità delle caratteristiche di alcune categorie nei tre anni (come nel caso degli stranieri non alfabetizzati) (cfr. Giovannini, 2012). I limiti presentati ci permettono, pertanto, di mettere in discussione l’uso del modello del valore aggiunto nell’ambito della misura dell’efficacia di scuole e classi; in particolare, risulta pericoloso applicare la logica che ne prevede l’uso per la presentazione di graduatorie e la distribuzione di premi determinati in relazione a tali misure (Gorard et al., 2013). L’uso del modello del valore aggiunto sarebbe quindi utilizzabile perché produttore di utili feedback, ma non come unico indicatore (Scherrer, 2011). L’analisi dei risultati di uno studio longitudinale sul valore aggiunto assume così anche una valenza politica e sociale: l’obiettivo non è infatti il raggiungimento del miglior artificio statistico, ma quello di permettere che la prospettiva meramente rendicontativa sia effettivamente accompagnata da quella migliorativa e che possa essere reale strumento di sostegno per la scuola, perché riesca a garantire le conoscenze necessarie al cittadino della società della conoscenza in un’ottica di equità. In conclusione è dunque possibile affermare che le criticità messe in luce dallo studio effettuato richiedono ulteriori indagini e approfondimenti, che coinvolgano anche aspetti ed elementi qui non presi in considerazione riguardanti, ad esempio, il confronto tra ambiti disciplinari diversi o l’esplorazione delle variabili relative al contesto classe associate agli indicatori di valore aggiunto positivi e negativi. Ciò è necessario non solo per dare un ulteriore contributo al dibattito scientifico sull’argomento, ma anche al fine di supportare l’interpretazione e l’uso delle misure di efficacia scolastica mediante dati e informazioni che aiutino a comprenderne meglio il senso e la portata.
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Separate special classes in order to teach the Italian language to newly-arrived migrant students? The issues at stake and the proposal of a Randomized Controlled Test Design
Paola Versino - Università degli Studi di Milano - paola.versino@unimi.it
Classi speciali separate per insegnare l’Italiano agli alunni stranieri neo-arrivati? Le questioni sul tappeto e la proposta di un disegno di valutazione randomizzato Da anni in Italia si dibatte sull’opportunità di introdurre nelle scuole classi separate per insegnare l’Italiano agli alunni stranieri neoarrivati. I singoli istituti decidono le modalità di insegnamento della seconda lingua e questo, unito a uno scarso supporto empirico e ad una debole regolamentazione centrale, dà luogo a un variegato panorama di pratiche locali. L’articolo traccia una strada percorribile per fornire una base di evidenza empirica alle decisioni delle scuole e dei policy makers sul tema. L’esperienza degli insegnanti partecipanti al Progetto Interculture ha permesso di identificare punti di consenso e dubbi sugli effetti di diverse intensità di insegnamento dell’Italiano ai neoarrivati. Da qui muove la proposta di un esperimento randomizzato che valuti l’entità di questi effetti su tre aspetti fondamentali: abilità linguistiche, socializzazione con i pari e competenze disciplinari.
Keywords: immigrant students, newly-arrived students, second language, separate classes, experiment, RCT
Parole chiave: studenti stranieri, studenti neoarrivati, seconda lingua, classi separate, esperimento, RCT
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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In Italy there has been a long debate whether to introduce in schools separate classes for newly-arrived immigrant students, in order to teach them Italian. Single schools are entitled to decide about policies for second language teaching, with little empirical support and in lack of a central normative regulation, resultig in a wide range of local practices. This article traces a viable path that may offer an empirical basis to schools’ and policy makers’ decisions on this issue. The first step, based on the direct experience of teachers who took part in the Interculture Project, is the identification of points of consensus and doubts regarding the effects of intensive second language teaching on newly-arrived students. The second step is the consequent proposal of a randomized controlled trial that seeks to assess the effects on three essential aspects: language abilities, socialization with peers and disciplinary competences.
Separate special classes in order to teach the Italian language to newly-arrived migrant students? The issues at stake and the proposal of a Randomized Controlled Test Design
Introduction
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In many Western countries it is a well-established fact that immigrant students achieve lower results at school, compared to their native peers (Jonsson and Rudolphi, 2012; Schnepf, 2006; Marks, 2005). In the Italian school the presence of immigrant students is relatively new: thirty years ago there were only few thousands of them, but starting from the 90â&#x20AC;&#x2122;s their amount began to grow fast and it boomed in the last decade. In Italy, many researches agree that immigrantsâ&#x20AC;&#x2122; children are less likely to enroll in a high school, and are disproportionately concentrated in vocational schools. Compared to their Italian peers, immigrant students are at an increased risk of drop-out, and they have an average lower scholastic achievement (Checchi, 2009; Azzolini and Barone, 2011; Barban and White, 2011). On different levels of analysis, many factors bear on educational performance: the features of the national school system, the features of the very school of attendance and its way of organizing the teaching activities, the family background, and the individual abilities and attitudes (Nusche, 2009). The knowledge of the language of education, which is the second language for immigrant students, is a fundamental determiner of school achievement, in that it is essential for every learning process that takes place through listening, reading, writing and interacting with peers and teachers. It has been proved that a scarce use of the communication language frustrates the cognitive development, which causes an impasse or even a regression in the schooling achievement. Language underdevelopment is also correlated with little self-esteem, especially in minority children or children with learning difficulties (Green, 2000). The first paragraph of the article describes the institutional and normative framework of school decisions about non-Italian students and explains the reasons why I choose to focus attention on the teaching of second language (L2 from now on), among all the schooling activities aiming to reduce educational inequalities between migrant and native students. The absence of a standardized methodology of Italian L2 teaching that is fixed by law allows politics and ideology to impact school decisions on this matter. The great autonomy for Italian schools is currently jeopardizing the immigrant studentâ&#x20AC;&#x2122;s right to equity of treatment. Italian L2 is mostly taught in tutorial groups, but in recent years there has been a much heated debate on the advisability to teach Italian L2 to newly-arrived students intensively, in separate special classes, before they can join a regular class. The second paragraph explores the advantages and disadvantages of these two approaches through the consideration of a large group of teachers involved in the Interculture Project, supported by Fondazione Cariplo in Lombardy. Teachers from different educational levels agree on the long-term outcomes the effective teaching of Italian L2 should have: the newly-arrived students should forge closer relationships with their classmates, increase their language abilities, and be more able to understand lessons and do their homework in Italian.
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The third paragraph defines the theorical and methodological framework of my research hypotheses. Empirical evidence for L2 teaching is scarce. International studies show that an effective teaching should provide both explicit lessons about linguistic structure and opportunities to exercise the language in relations with native children. Studies, however, neither answer the key question of what is the optimum trade-off between exercising the language and learning its structure, nor offer empirical evidence on the effects of a disproportion between the two activities: these are precisely my research questions. Among the viable methods to estimate the effects of different intensity of L2 teaching on newly-arrived students, I chose the experimental method. The fourth and last paragraph proposes a randomized controlled test which seeks to assess the effects of the intensity of Italian L2 teaching on the three crucial aspects identified before by theachers and literature: language abilities, socialization with peers, and disciplinary competences.
1. Institutional and normative framework for the school support of non-Italian students In Italy, the school treatment of non-Italian students is not a matter of central regulation. Unlike what happens in other countries, Italy does not have a common national program imposed by law to integrate them in schools, and the Ministry of Education guidelines (MIUR, 2006; MIUR, 2007; MIUR, 2014) are the only weak attempt to influence school choices on this sensitive subject. By law1 the school’s teaching staff has the right to decide the school policy regarding the academic inclusion of non-Italian students. This lack of regulation at the central level is the main premise to the discretion of school treatment currently suffered by non-Italian students around the country. Thus, predominant ideological and political orientations in the teaching staff have the possibility to heavily impact on school choices. The risk is the creation of very different sets of “local rights”, as was stressed by the National Report on the Development of Education in 2008 (MIUR, 2008). The presence of newly arrived students is an additional workload for teachers, because of their specific language and disciplinary needs. No preferential treatment is provided by law to simplify teachers’ work in this situation. For instance, unlike what occurs when there are one or more disabled students, schools are not allowed to restrict the number of students in the class and teachers are not required to attend courses on language simplification techniques. Very recently2, schools have been given the possibility to design individual training plans for newly arrived immigrant students, in order to make learning activities fit for their language skills and be eligible for the distribution of specific funds, but only as a temporary additional measure and in exceptional cases3. In addition to this, the very poor central resources are channeled to few schools located in depressed areas4. As a consequence, the lack of institutional aid increases the reliance of school policies
1 2 3 4
Dlgs 286/1998 e D.P.R. 394/99. D.M. 27/12/2012 and C.M. 8/2013. Nota 23/11/2013. C.M. 6/4/2004, n. 40.
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on school resources (both human and economic), multiplies the types of support provided to address newly arrived students’ special needs and increases the risk of common-sense adjustments: for instance putting newly arrived students into the hands of the most motivated and attentive teachers, the only ones that are likely to support them to their detriment. In most cases, support provided by Italian schools to immigrant students addresses two of their main needs: acquisition of the Italian language and simplification of educational contents. I choose to focus on the first one because is a necessary precondition to integration, necessary at the same time to learn educational contents and to communicate with peers and teachers. A comparative study (Christensen and Stanat, 2007) identified some cross-country characteristics of an effective teaching of L2. First of all, countries obtaining the best results established models to conform to, and titles to achieve at the end of the courses, whose programs are based on national curricula. Secondly, teachers holding L2 courses need to be specifically trained for that. Lastly, courses are intensive and last for primary and middle school, with no interruption. In Italy, as I stated before in more general terms, there is no L2 teaching model or curriculum established at national level. Not only regular teachers generally hold L2 courses in schools, but even teachers specifically assigned by the education ministry to the schools with a high percentage of non-Italian students (the so-called “facilitators”) are not required to have attended a well-defined training (Favaro, 2002). The last critical point of comparison is the fact that Italian as a L2 programs rarely are intensive and the total autonomy of the schools in defining them is a great source of discontinuity within individual careers. These few details are enough to conclude that the quality of L2 teaching in Italy is very poor and has not improved in more than a decade. Even today, like back in 1999, we could say: The priority for teachers is language acquisition. Yet there is no coordinated or nationwide programme to assist immigrant children in learning Italian. Responsibility is passed to schools to resolve as they see fit. […] Unfortunately, the successful insertion of immigrant students depends on the efforts of single schools and teachers (Chaloff, 1999).
The following recommendations concerning L2 teaching were the only explicit ones in the Ministry of Education’s guidelines (MIUR, 2006; MIUR, 2007) before the Interculture Project (see next paragraph) was held: – social interaction with native peers has to be paired up with necessary separation of immigrant students from the rest of the class, in order to teach them L2; – it is necessary to develop different types of L2 support in order to distinguish, among immigrant students, the newly arrived ones. The purpose of the first recommendation is to prevent the immersion of newly-arrived students in regular classes, without allowing them to benefit from L2 support. This non-supportive policy of inclusion implements the “sink or swim” model, based on the belief that language acquisition in early childhood can be replicated in the school environment. The newly arrived student is required to learn language by himself, through observation and listening to native peers, and imitation. The “immersion without support” model chooses to ignore the differences between family and school environment, and between the acquisition of native and L2. In many cases it dooms newly-arrived students to be almost invisible
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among other students, and it severely reduces their understanding of lessons for a long period, making them loose self-assurance and motivation. All these difficulties have a negative impact on future performance. In Italy the model was common in the ‘80s and ‘90s, when migrant students were very rare, but now is dying out. In addition to this, the first recommendation highlighted the two elements that an effective model needs to combine: social interaction with native peers and L2 teaching specifically addressed to migrant students. There is a trade-off between the amounts of time devoted to the two elements and uncertainty regarding the effects of increasing one to the detriment of the other. In the following paragraph this very point will be analyzed in-depth through teachers’ experiences and opinions. The second recommendation officially recognized the necessity to adopt different methods in order to teach L2 at different stages of immigrant students’ careers, because each method has to meet different sets of needs. In this paper I will focus my attention on the support provided by schools to newly-arrived students right after their migration and their entry in a new educational system. After the Interculture Project, the new Ministry of Education’s guidelines (MIUR, 2014) have gone further, recommending for the first time a definite amount of time to devote to L2 teaching for newly-arrived students: 8-10 hours per week during the first 3-4 school months, and a gradual reduction after that. The policy is labeled as effective in the Ministry’s guidelines, but no empirical research in support of it is cited. The debate on the effectiveness of language teaching policies to include newly-arrived students in the Italian schools is still open, as showed by a recent claim of ASGI5 for the opening of a round table among all the actors involved (e.g. institutions, schools, scholars, associations of parents)6. There are no data on the effective diffusion of different L2 supports in Italian schools7. In this article I will consider two main types: the so-called “L2 laboratory” or tutorial group, and the so-called “welcoming class” or special separate class. The first one is considered the most widespread choice (Favaro, 2002) among Italian schools. It’s a sort of tutorial group attended by all newly arrived students together for few hours a week, whereas they stay in their regular classroom with native peers for the main part of their school calendar. This methodology puts the stress on the natural acquisition of L2 through the informal communication with native speakers. In 2008 there has been a much heated debate on the advisability to intensively teach Italian to newly-arrived students in separate special classes, before they can join a regular class. The debated was provocatively raised in the Italian parliament by a proposal of Lega Nord, the right-wing Federalist Party, and it gained a large echo on the media. The stress, in the case of special classes, is on the acquisition of L2 through the formal teaching of its structures and guided exercises. I will concentrate my attention on these two methods through the study of the controversial trade-off, in matters of time, between interaction with native peers and explicit teaching of L2 to immigrant students. In the following paragraph this
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Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Association for Law Studies on Immigration). http://www.asgi.it/public/parser_download/save/1_0131_scuola_minori_stranieri_asgidocumenti.pdf The Ministry of Education Provincial Sections collect only the number of hours devoted to second language teaching per school in a year.
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point will be discussed by teachers and the need to find empirical evidence to address different methods’ effects will emerge.
2. The Interculture Project in Lombardy: theachers’points of consensus concerning second language teaching
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Interculture Project was an educational project supported by Cariplo Foundation and carried out between 2007 and 2010 in Lombardy, with the collaboration of the Ministry of Education Regional Section and ISMU Foundation. Its aim was to support and improve school practices devoted to help integration of non-Italian students. Out of 169 applications, 29 schools were selected to partecipate in the Project: they represented different educational levels (primary, middle and high school) and different areas of Lombardy, but they had in common a high rate of immigrant students and a strong experience in the implementation of educational projects. Through the assignment of supporting facilitators, each school was helped first to select and design its own set of practices to improve the integration of immigrant students, and then to implement it. At that time, I worked as a junior researcher for an organization8 monitoring the project. My role was, first of all, to help school teachers think critically about the implemented practices and their effects, and, secondly, to collect and analize data in order to identify successful practices worth being further developed in the future. SurveyS and focus groups were used so as to explore teachers’ experiences and opinions regarding different fields of school support to non-Italian students. The survey was administered to the schools twice during the implementation phase, in order to collect descriptive data and first impressions on the developing practices. Focus groups were designed on the basis of this first data collection and along with the Scientific Committee of the Project, composed of University teachers and intercultural communication experts. It was decided to organize the discussion around five main key topics: welcome procedures, L2 teaching, curricula revision, extra-school activities and relations between school and other local subjects. The five focus groups were repeated twice in a six-month time span: during the first session the discussion the focus directed on implementation difficulties and expected effects of the practices; during the second session, the focus diverted on changes observed, work methodologies and solutions developed. Every focus group hosted at least a delegate teacher for every school that implemented an important practice on the topic: participant teachers were numbered between ten and twenty, depending on the session. The role of facilitators was covered by a senior researcher and myself, as a junior one of the same organization. The survey revealed that, among all the practices realized by the schools during the Interculture Project, L2 teaching ones were the most supported, both economically and logistically, by public administrations. This is evidence of the importance of language acquisition for the general integration of immigrant students and their families in the society. Furthermore, the survey revealed that only a couple of schools didn’t carry out any intervention of L2 teaching or welcome proce-
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A.S.V.A.P.P (Association for the Development of Public Policies Evaluation and Analysis) http://www.prova.org/
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dure. The priority given by schools to this two types of support emerged clearly and immediately during the focus groups, too. In a hypothetical situation of very poor resources at their disposal, teachers agree on the schools’ strong need to keep alive at least these activities. The target population of both of them are the newlyarrived students, clearly the most disadvantaged and in need of support among non-Italian students. In particular L2 teaching meets newly-arrived students’ need to self-communicate without help provided by cultural mediators or more skilled migrant students. The acquisition of the communication language eases educational learning, and both of these skills gratify newly-arrived students in several ways. For instance, they allow the newly-arrived student a more and more complete fruition and enjoyment of schooling time, thus decreasing the social gap between them and native peers. Being able to make the best of their newly gained language abilities, the migrant students see an increase in their motivation to learn more and more Italian. On the school side, the faster newly-arrived students increase L2 ability the bigger the savings, because they will be no more in need of cultural mediators and welcome activities. Secondly, the faster students’ educational abilities grow, the faster teachers can give up special homework, have the students follow the common program, and mark their progresses. For all these reasons teachers considered L2 teaching to be a basic school service, very unlikely to be quit because it meets fundamental needs of newly-arrived students as well as organizational and educational needs of the school institution. Despite the institutional and normative framework doesn’t provide opportunities to share common methods and gain consensus around them, the majority of teachers taking part in the focus groups did agree at least on the main results they expected from an effective L2 teaching: improved language abilities, improved socialization among peers and increased educational performance. The improvement in language abilities is a direct outcome of the L2 teaching, occurring in a short time and easy to test with specific tools (almost all the schools involved in the Interculture Project used to do that with different methods, at the beginning and at the end of a school year). On the other hand, the improvement in socialization among peers and the increasing in educational performance are long-term results, mediated by the acquisition of language abilities and not so easy to test for schools. In fact, very few schools measured the improvement in socialization with peers and they did it only providing schemes to help teachers’ observation. No school specifically measured educational performance, and only two or three took in consideration data collected for other purposes, i.e. the marks during the school year or the number of absences. Teachers agree also on the need to measure these results before the beginning of L2 teaching (immediately after the student’s entry in the school), at the end of the school year, but also at different times during it. In the last paragraph you can see how, within a randomized controlled trial, I design to test all these abilities on newly-arrived students. The second main finding of this exploration is the strong disagreement, among teachers taking part in the focus groups, on a central issue. What is the optimal equilibrium between amounts of time devoted to the two fundamental elements of language acquisition: the interaction with native peers on one hand and the explicit teaching of language on the other? In teachers’ opinions this equilibrium could substantially modify the effects of L2 teaching, both in the short and in the long term. Teachers don’t call into question the necessary separation between the newly-arrived students and their native peers required by the L2 teaching. They know very well the acquisition of L2 ability is a necessary condition to understand subjects’ contents and to socialize with Italian peers. In spite of this, almost half
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the teachers attending the focus groups is convinced that devoting a very big part of newly arrived students’ schooling time to L2 teaching goes to the detriment of socialization with native peers and, to a second extent, even of L2 acquisition too. The assumption that lies behind this idea is that the time spent in regular classes is useful to absorb the language and create the condition of socialization with native peers, even when the newly-arrived student doesn’t have basic language abilities to communicate with them. For this reasons many teachers refuse to take into account intensive methods of L2 teaching, even if temporary: in their opinion, it prevents newly-arrived students’ effective integration. In summary, I found two quite opposite opinions among teachers: on one side, the supporters of little time amount of L2 teaching, with newly-arrived students spending the most of their schooling time in their regular classes; on the other side, the supporters of large time amount of L2 teaching, with newly-arrived students spending the most of their schooling time in separate classes. In order to achieve the same results, the supporters of little L2 teaching give priority to communication with native peers, whereas the supporters of intensive L2 teaching consider it as secondary. These findings stress teachers’need for empirical evidence to support their work and schools’ decisions on the matter. In the next paragraph I will discuss my decision to help collecting empirical evidence through the design of a randomized controlled trial. At first, my impression looking into this dilemma was that the teachers know very little about different elements and stages of language acquisition. To understand the extent to what this is true, in the next paragraph we ought to make a short digression in linguistic research, mainly American, concerning L2 teaching.
3. Research framework and hypoteses 3.1 Theorical framework The knowledge of a language is made up of several skills: reading and writing skills, listening and speaking skills. All of them are extremely necessary to fully learn L2 so as to attend school successfully and integrate into the society of arrival. Research in learning of L2 has mainly focused on the reading and writing skills (literacy), and studies agree that to acquire them an explicit and focused teaching of particular competences (lexicon, grammar, syntax, phonetics, and orthography) is needed. Oral skills have received poor attention from researchers instead: even United States based research, the most flourishing in the field, has left out any attempt to determine best ways of teaching and promoting listening and speaking skills in school classes (Goldenberg and Coleman, 2010). It is however widely agreed9 that oral skills development is correlated to the improvement of literacy skills, though no causal chain between the two has ever been established. In order to better understand the matter, is fundamental to distinguish between the fluency in “conversational language” and “academic language”: the first one is acquired in a relatively short time span, but it takes longer to master the second one. This distinction recalls the one between BICS and CALP (Cummins, 1984) or the Italian one between Italbase and Italstudio (e.g. Favaro, 1999 and 2002; Balboni, 2008)
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The two most important American reviews about research on English teaching to ELLs (English Language Learners), published in 2006 by CREDE and NLP, agree on this point.
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and is cited in the Ministry of Education’s guidelines as well (MIUR, 2006; MIUR, 2014). The aforementioned correlation between reading and writing skills on one side, and listening and speaking skills on the other, is bigger in the academic language and smaller in the conversational language. The two kinds of language are to be kept distinct: the ability of a newly-arrived student to relate with peers in the conversational language is not an indication of her or his ability to understand a lesson or succeed in an oral test. Anyway the conversational language and the academic language are not completely unrelated: the fluency in the first is a necessary first step (but not sufficient) toward the fluency in the second. To master the conversational language it may be enough to speak it every day with native speakers, but to master the academic language it is necessary a thorough teaching of the language structures. An effective teaching of a L2 for the academic use must take into account two factors: – the opportunity to practice the oral language, possibly in significant and motivating situations, with the aim of developing listening and speaking abilities with conversational language; – a thorough and explicit teaching of the language structures necessary to the development of reading and writing skills, and to upgrade from the conversational language to the listening and reading of the academic language. Research gives no hint as to what the optimal balance between the two factors may be (Goldenberg and Coleman, 2010). There is no answer to the Interculture Project teachers’ need for an assessment of the optimal intensity of explicit teaching of L2 during the first year of attendance of newly-arrived students. The answer to this need is the design of a randomized controlled trial, which I will describe in the next paragraph. In the light of what linguistic research tells us, we can try and analyze the opposite opinions expressed on the matter by the Interculture Project teachers. Those in favor of a “light” L2 teaching avouch that the interaction with local peers allows newly-arrived students to practice conversational language and establish positive relationships. Research says that conversational language can be learned just by practice, but that may not apply to the particular condition of newly-arrived students. If not adequately motivated by teachers, local peers may avoid the interaction with the foreign student, as it requires much willingness and patience, with the perspective of a poor and unproductive communication from a scholastic point of view. Teachers themselves may not be willing to engage in the study of the practices that could ease the interaction between newly-arrived students and local peers. Even though they spend most of the time in their regular classes, newly-arrived students face the risk of finding themselves isolated, without any positive relationship with their peers, and unable to learn and practice even the conversational language. My design of a randomized controlled trial will investigate the proportion of this phenomenon. Interculture Project teachers that lean toward a “light” L2 teaching also assert that the interaction with local peers makes the newly-arrived students get a hang of Italian more easily, which will come in handy for a good educational performance. Research, however, shows that the development of oral skills in everyday language are only slightly correlated to the abilities in reading and writing, and that in order to achieve the oral skills in academic language students must receive and explicit teaching of the language. It is likely that a greater number of hours dedicated to the explicit teaching of L2 are directly correlated to a broader grasp of the abilities that are necessary to a good educational performance. This infe-
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rence favors the “heavy” L2 teaching, which should be more effective to the learning of academic language. Those Interculture Project teachers in favor of a “heavy” L2 teaching imply that it promotes positive relationships with local peers. They suggest that this way the newly-arrived students will be able to communicate more effectively in a shorter span of time, having a better knowledge of their L2. Although this may be true, I mentioned before that an effective learning of L2 relies both on the explicit teaching and on the opportunity of practicing it, possibly in significant and motivating situations. If L2 teaching is too “heavy”, it will shrink down to the minimum the opportunities to practice the language with local peers and this may affect the learning of the conversational language necessary to build relationships. My design of a randomized controlled trial will investigate also this effect. 3.2 Research hypotheses
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These considerations lead to the formulation of the hypotheses regarding the comparative effects of the two intensities of L2 teaching. The effect of the “heavy” L2 teaching in respects of the “light” one could be a significantly increased learning of reading and writing skills, a non-significantly increased learning of listening and speaking skills of academic language, and a non-significantly decreased learning of oral skills of conversational language. As to the building of positive relationships with local peers, the “heavy” L2 teaching will have a significantly weaker effect than the “light” one on the short run, but significantly stronger on the long run. The hypotheses tend to favour the “heavy” L2 teaching, but only the measure of the effects from a randomized controlled trial can substantiate or discard them, and identify the optimal intensity of L2 teaching. This will finally give an answer to the question posed by the teachers of the Interculture Project. 3.3 Choosing the method for the evaluation of the effects Thanks to teachers’ experience and to linguistic research, I was able to define my cognitive objective: analyzing the effects of more and less intensive L2 support on educational performance and peer-relations of newly-arrived students, during the first year of school in the new country of residence. I am aware that in doing so I am entering the field of public policy analysis (Regonini, 1989). Within this framework I am interested in analyzing the effects of an activity, not in reconstructing the decision-making process that has led to its implementation. In the vocabulary of effect analysis the first word I need to use is “treatment”: I will use it to indicate an action to which correspond clear expected results. There are several methods aiming at reconstructing the counterfactual situation, so as to reach plausible estimates of a treatment’s effects. The main distinction is between experimental and non-experimental10 methods. The experimental method
10 Part of the literature calls them “quasi-experimental” methods, as a tribute to Donald Campbell, author with Julian Stanley of one of the first and basic works about the topic, published in 1966.
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(RCT11) is considered the most robust method to estimate effects, the “gold standard” among all the existing ones (D. J. Torgerson, C.J. Torgerson, 2008), because it provides the unique possibility to avoid distortions coming from two sources: selection bias and maturation. Maturation is the natural tendency of a phenomenon to evolve during a certain period of time, regardless of the treatment’s implementation. Selection bias is the natural tendency of individuals to choose among the alternatives they are facing, depending on their individual characteristics: observable (gender, age, social status) or unobservable (attitudes, preferences, motivation) from the outside (Martini, Sisti, 2009). This doesn’t mean estimates provided using non-experimental methods are not reliable at all, but the error could be bigger. As I’m saying below this point, the use of RCT method has a lot of limitations and in a high number of situations the only possibility to provide empirical evidence is the use of non-experimental methods. In order to obtain strong estimates of the effects using RCT method, is required the random assignment of individuals coming from a very large sample to the treatment. Randomization represents at the same time the strength and the weakness of this method. Below, I will mention the pros and cons of using RCT and the considerations pushing me to adopt it in this attempt to provide empirical evidence. Let’s begin with the pros. Randomization is the random assignment of individuals to groups. If the sample of individuals is very large, randomization creates groups in which there is an equivalent distribution (same mean, variance, quantiles) of individual features, either observable or unobservable by the researchers (D. J. Torgerson, C.J. Torgerson, 2008). By preventing individuals to choose the group in which they want to be or the treatment they want to access, randomization prevents selection bias: such as the influence of personal attitudes, preferences and features on the possibility to receive the treatment. After the period of treatment, by the confront of (at least) two groups of individuals statistically equivalent, one assigned to a treatment and the other excluded from it, we can single out the differences between the groups specifically caused by the treatment. In this way we take into account the maturation bias, originated by events happened during the treatment period that can distort its effects. In conclusion, thanks to randomization in a large sample, we can identify the treatment’s effect as the difference between the two means12 on the supposed result variable: the one measured within the treated group and the other within the ‘control’ group. As I will explain below, in my RCT design I consider three different treatments corresponding to three different amount of time devoted to L2 teaching. In conclusion, the superiority of RCT method in providing internally robust13 estimates of the effects is uncontested. This is the main reason why I chose to use it to provide empirical evidence on the effects of different intensity of L2 teaching. The cons of using the RCT method are its limited possibilities of application in reality. Manipulating the selection of individuals through random assignment poses different kinds of problems. First of all, there are problems related to the research implementation. RCTs can’t be designed and implemented ex-post, when the policy has already been realized: this restrict the application of the method to
11 Randomized Controlled Trial. 12 For a formal dissertation about this point, see: Martini and Sisti (2009), pp. 149-161. 13 External validity is a goal that is only possible to approach, although no method can obtain it for sure.
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new policies and extends the research time, because at least three to five years have to pass before obtaining an estimation of the effects. On another hand, the need of a control group composed of individuals randomly excluded from the fruition of the treatment makes universalistic policies’ effects not estimable using RCT method. For instance is possible to use RCT method in order to assess the effects of a training program for adults, but it’s impossible to use it in order to assess the effects of the primary school for children because the attendance is compulsory (Martini, Sisti, 2009). Not less concerning, moral and political problems are to be borne in mind when considering the use of the RCT method. For many people, the exclusion of potential beneficiaries from the fruition of a treatment is morally intolerable, even if the aim of the experiment is precisely to establish with more certainty what type of benefits it provides to them (Orr, 1999). Political opposition to the use of RCT method is also very common, because the benefits are hard to explain to common people via mass media communication. Finally, unaccommodating attitudes are very common among social workers and service operators: this is understandable because in many cases they have to face potential beneficiaries’ objections, when trying to justify a logic they don’t understand. Unaccommodating attitudes can be a powerful source of problems, the most dangerous one being the randomization’s subversion. Service operators are the ones performing and managing the treatment, thus they have the power to admit individuals to the fruition of the treatment even though they are assigned to the control group. Usually they believe the new treatment to be more effective than the previous one and consequently they act in the interests of the beneficiaries (D. J. Torgerson, C.J. Torgerson, 2008). An example can be the teacher who gives the possibility to attend a new remedial course to a troubled students assigned to the control group. If researchers aren’t able to identify these situations and correct them, collected data are not reliable. All these limitations must not induce researchers to give up working with RCT method, but only to contemplate very carefully if it’s appropriate to the specific situation. RCT method requires uncertainty about the expected results of an action to be widespread among decision-makers and operators. This is precisely the case of L2 teaching’s intensity: the heated debate that was raised by the Lega Nord’s proposal in 2008 divided politicians, media, experts and teachers on the effects of special classes on newly-arrived students’ integration within school and society. If this were not the case, the experiment could be compromised from the very beginning (Martini, Sisti, 2009). A second very important condition to be able to estimate the effects of a treatment using RCT method is the presence of a discontinuity, between different moments or between different groups of individuals. This allows the researchers to identify a treatment-variable. In the simplest case it is a dummy variable: the code ‘0’ is assigned to data collected on individuals belonging to control group or to data collected when the treatment was not yet implemented, whereas the code ‘1’ is assigned to data collected on treated group or to data collected when the treatment was implemented. In my RCT design, as I will explain in the next paragraph, I decided to use a treatment-variable with three codes, because I want to split my sample in three groups corresponding to different intensity of L2 teaching to newly arrived students.
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4. The proposal of a Randomized Controlled Trial design 4.1 Effects on what? The outcome-variables Outcome-variables are observable and measurable variables, through which we can estimate the expected results of the treatment. As noted before14, teachers agreed on the expected results of L2 teaching. The following are to be expected in a short-term: – achievement of a good level of L2 abilities; – positive socialization with native peers. In the long run, otherwise, we should expect: – achievement of a higher level of L2 abilities; – maintenance of positive socialization with native peers; – acquisition of educational contents. I want to measure the newly-arrived student’s level of L2 ability through a standardized test. The level of language ability could be represented: – globally, by the level acquired on CEFRL15 scale ; – more specifically, by one mark for every ability field (written comprehension, oral comprehension, written production, oral production). The results of a test aiming to assess the level of ability in the L2 achieved by a student, if written in the second language itself, may not exactly be reliable, because the comprehension of the test instructions requires the same ability that is to be measured by the test (Koretz, 2008). Unfortunately in Italy it is almost impossible to use tests written in all the primary languages of immigrant students, because of the large variety of countries they come from. Following Interculture teachers’ suggestion, researchers need to administer the test to newly arrived students of the sample more than two times (before and after the treatment): intervals between each administering should be shorter during the treatment (for instance every three months) and longer after its end (for instance only at the end of the following school years). I want to measure the level of social integration/isolation of the newly arrived students within their classroom using the Moreno’s sociogram, a diagram analyzing the interactions of individuals within a community. The sociogram needs to be administered to all members of the class, in order to reconstruct the position of immigrant students (leader, popular, outcast, marginal, solitary) within the social network of their peers. Moreno’s sociogram could be administered together with the language ability test. Finally, I want to measure the educational performance through the INVALSI test, administered by INVALSI in all the Italian School but not at the end of every school year. Concerning this, is important to keep in mind the fact that the educational performance has to be measured also in the following school years after the treatment, when all newly-arrived students of the
14 See paragraph 2. 15 Common European Framework of Reference for Languages.
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sample return to a common status-quo situation. If we suppose our sample to be composed only of middle school students, the treatment could take place during the first year because at the end of second and third year INVALSI is going to administer the test. To measure educational performance of newly-arrived students is better to consider only the portions of the test concerning not-linguistic abilities (science, mathematics). To help the interpretation of test results other data have to be collected, through questionnaires administered to teachers more connected with newly-arrived students and consequently more able to evaluate the occurrence of expected results in their careers: – the questionnaire exploring social relations with peers has to be administered to the teacher with more hours of lessons in the class; – the questionnaire exploring educational acquisition has to be administered to the teacher, among the ones related to a scientific subject, with more hours of lessons in the class; – the questionnaire exploring L2 acquisition has to be administered to the main teacher of L2 (if there are more than one).
198 4.2 Effect of…what? The exposure-variable The exposure-variable I chose is the L2 teaching to newly arrived students. It has three modalities, corresponding to each time intensity and the group assigned to it: – 10% of weekly school hours devoted to L2 teaching – Group 1; – 50% of weekly school hours devoted to L2 teaching – Group 2; – 100% of weekly school hours devoted to L2 teaching – Group 3. The control group is Group 1. The amount of time devoted to L2 teaching here is very limited, but can’t be 0% because it would arise teachers’ and families’ protest and it would incremented the possibility of randomization’s subversion. Another reason to prefer a limited amount of hours devoted to L2 teaching instead of no one is the recognition that this situation probably is the most common in Italian schools and thus corresponding to the status-quo. The L2 teaching method has to be the same in the three groups, in order to maintain only time-intensity as a variation between them, thus the difference between variables’ codes can be identified as the effect of this variation. Newly-arrived students entering in the school after the beginning of the school year don’t enter into any of the groups. Anyway, they can receive the same type of L2 support, if provided by other teachers in separate classrooms. The exclusion from the experiment of the newly-arrived students after the beginning of the school year is needed to avoid the slowdown in the L2 teaching within the groups. The treatment period is to be one year for all the three groups. Group 1 and Group 2 slowly, and at the same time, decrease the time-intensity of the L2 teaching during the school year to facilitate the inclusion of students into their regular classrooms. In the sample will be included only newly-arrived students entering for the first time in the Italian school system at the beginning of the school year and having null or minimal L2 ability (below level A1 of CEFR scale).
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4.3 The randomization and the sample composition In most trials in the field of education, it is impossible to randomize the students per se: for ethical and organizational reasons, it is highly unlikely that teachers and parents will willingly accept the coexistence of two newly-arrived students treated differently in the same class. I chose to randomize the schools, instead of single classes, because this will minimize the risk of contamination between groups: the coexistence of more than one treatment in the same school may lead some teacher to “cheating”, for example having some students attend a greater amount of L2 teaching than expected from randomization. It is more likely that the integrity of the trial will be ensured, if all the newly-arrived students of the same school are assigned to the same kind of treatment. The precision of the evaluation relies for the most part on the number of school involved, rather than the number of newly-arrived student attending those schools (Martini and Sisti, 2009). An adequate sample should be made up of a great number of schools, even with few newly-arrived students in each school, rather than a great number of newlyarrived school for each academic year. The number of schools that should be involved in the experiment is determined using the analytical method of the Minimum Detectable Effect. Finally, it is necessary to contemplate on a method to increase the external validity of the inferences about the effect deriving from the trial. The most viable method to increase the external validity is to pick the school in a way that is representative of the statistical population, in respect of the variables that bear on the effect of the treatment. These variables must be detectable in the sample, and their distribution in the statistical population must be known: these two requirements are not easily met in most cases. An example of a viable variable is the age of arrival of foreign students, as it can affect the learning of the L2. If we assume the type of school as a measure of the age of arrival of the newly-arrived students, it could be a good option to focus the trial on a single order of school: we would be able to extend the valuation of the effects only to the population of that order of school, and thus to the corresponding interval of age of arrival. We could also pick schools of different orders in the same proportion as they are present in a certain area of study.
Conclusions This article wants to contribute to the knowledge of the topic of L2 teaching, which is the key activity for schools to support the integration of newly-arrived students. Neverthless, the topic is too often debated in Italy only by linguists and pedagogists, while it is neglected by sociologists of education and political scientists. Thanks to my participation as a junior researcher to the evaluation of Interculture Project in Lombardy, I was able to collect the opinions of teachers from different school levels, who everyday have the opportunity to observe the effects of L2 teaching policies on the newly-arrived immigrant students. Theachers’ experience is a very important source of empirical knowledge about the risks and the potentials of different intensities of language teaching on the integration of newly-arrived students. Last but not least important, the analysis of the opinions of teachers is a way to approach the topic from a practical point of view and clear the air of all prejudices and ideologies sedimented in years of public debate. Teachers’ empirical knowledge is then compared with and completed by linguistic re-
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search about L2 acquisition, creating a rare corpus of knowledge on the topic of L2 teaching intensity and its effects. The research questions and hypotheses emerging from this review concern the trade-off between exercising the language and learning its structure. What is the optimum equilibrium between these two essential activities? In the case of separate special classes for newly-arrived students, what effects can a disproportion between the two activities have on children’s language abilities, school achievement, and socialization with peers? The Randomized Controlled Trial designed in the last part of the article could represent, were it implemented, a viable option to answer those questions with a reliable estimate of the effects. This evidence would be a tool for the decision-making in schools on this matter, for the work of teachers, and for policy makers interested in favoring the integration of migrant students.
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