SIRD SocietĂ Italiana di Ricerca Didattica
Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research anno III 2/3 numero numero 42009 dicembre giugno 2010
Direttore LUCIANO GALLIANI Condirettore PIERO LUCISANO Comitato Scientifico ROBERTA CARDARELLO ARMANDO CURATOLA FRANCO FRABBONI ALESSANDRA LA MARCA GIOVANNI MORETTI ACHILLE M. NOTTI
Comitato dei referee Il Comitato dei referee è composto da 15 studiosi di chiara fama italiani e stranieri. I nomi dei revisori di ogni annata vengono resi pubblici nel primo numero dell’annata successiva. Il responsabile della procedura di referaggio è il condirettore scientifico della Rivista Piero Lucisano.
Procedura di referaggio Ogni articolo, anonimo, è sottoposto al giudizio di due revisori anch’essi anonimi. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso un giudizio positivo. I giudizi dei revisori vengono comunicati agli autori, comprese eventuali indicazioni di modifica. In tal caso, gli autori devono provvedere a modificare i propri contributi sulla base delle indicazioni ricevute dai revisori. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non vengono pubblicati. Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010
Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. www.pensamultimedia.it info@pensamultimedia.it Lecce - Brescia
Progetto grafico copertina Valentina Sansò
SOMMARIO editoriale 7
PIETRO LUCISANO Contro la cultura del ‘giudizio senza critica’
ricerche 9 21 35 53 75 91 105 115
GUIDO BENVENUTO • GIUSEPPE CARCI Passaggi di corso degli studenti e orientamento all’università: uno studio sull’Università Sapienza di Roma MARIA GRAZIA CELENTANO Interfacce e sistemi a realtà virtuale per un apprendimento esperienziale ADA MANFREDA Mappatura dei bisogni e pedagogia della salute Un caso di studio ANTONIO MARZANO • ARCISIO BRUNETTI L’insegnamento della geometria nella scuola secondaria di I grado Contributi di una ricerca ELISABETTA NIGRIS Il passaggio fra scuola e università: un’analisi didattica ELISA TRUFFELLI Comprendere per migliorare lo studio: analisi e riflessioni a partire da un’esperienza biennale di sostegno alla matricole universitarie SILVIA ZANAZZI Sviluppo dell’intelligenza culturale Case study: il programma tirocini del consorzio IES FRANCO ZAMBELLI • CRISTINA FACCO Il secchione: rappresentazioni di studenti Uno studio esplorativo
studi 127
GIORDANA SZPUNAR Dewey, la teoria dell’arco riflesso e la transazione
informazioni 143
ANTONIO MARZANO Convegno Annuale SIRD: 10 anni di ricerca educativa in Italia
hanno collaborato PIETRO LUCISANO Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma lucisano.studiericerche@gmail.com GUIDO BENVENUTO Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma guido.benvenuto@uniroma1.it GIUSEPPE CARCI Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma giuseppe.carci@libero.it MARIA GRAZIA CELENTANO EspérO – spin-off - Università del Salento mariagrazia.celentano@unile.it ADA MANFREDA Dipartimento di Scienze Pedagogiche Psicologiche e Didattiche, Università del Salento ada@amalteaonline.com ANTONIO MARZANO Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Salerno amarzano@unisa.it ARCISIO BRUNETTI Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Salerno ELISABETTA NIGRIS Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione “Riccardo Massa”, Università di Milano Bicocca elisabetta.nigris@unimib.it ELISA TRUFFELLI Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Università di Bologna elisa.truffelli@unibo.it SILVIA ZANAZZI Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma silviazanazzi@yahoo.com FRANCO ZAMBELLI Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova franco.zambelli@unipd.it CRISTINA FACCO Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova
cristina.facco@inwind.it GIORDANA SZPUNAR Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma giordana.szpunar@gmail.com
editoriale PIETRO LUCISANO
Contro la cultura del ‘giudizio senza critica’ Una rivista scientifica non è un deposito di pubblicazioni che abbiano tutte le caratteristiche per poter essere considerate durante un concorso o nella valutazione del proprio dipartimento, anche se noi ci siamo messi in regola per poterlo essere. Una società scientifica, parimenti, non dovrebbe essere un luogo in cui ci si incontra per prendere accordi su come gestire il ricambio generazionale. Una società scientifica dovrebbe essere il luogo di incontro di ricercatori appassionati di qualcosa, impegnati a costruire sapere intorno a un argomento di studio. Impegnati a costruire conoscenza in modo scientifico, con passione e rigore, con la mente e con il cuore, capaci ancora di indignarsi e di dissentire, capaci di prendere la parola, e alzare la voce quando necessario, magari senza perdere il vizio della buona educazione. La nostra società si occupa di ricerca sui processi di apprendimento insegnamento e intorno a questi saperi costruisce conoscenza da un lato cercando di evitare che le esperienze del passato vengano disperse, dall’altro cercando di trovare nuovi e più efficaci percorsi per aiutare ad apprendere, a crescere con senso critico e gioia di vivere, a sviluppare un senso di cittadinanza attiva, a vivere con motivazione le proprie esperienze, ad avere l’intelligenza di che cosa si vuole. Questi due impegni la lotta alla dispersione della scuola, intesa nel senso di dispersione della conoscenza e del rispetto delle conoscenze del passato e talvolta anche delle proprie esperienze più recenti (fenomeno, dunque, ben più grave della dispersione-abbandono-selezione che in fondo riguarda solo alcune centinaia di migliaia di studenti espulsi dai sistemi formativi) e la ricerca di nuovi percorsi sono messi fortemente alla prova nella stagione presente. Il forte rapporto università – ricerca – scuole che in passato aveva aiutato questo comparto, sia pure confrontandosi con un difficile retaggio del passato e una politica più attenta a parole che nei fatti, a raggiungere risultati di buon livello sembra in crisi. In crisi per l’ostilità di chi governa che, peraltro, ha rinunciato al raccordo organico con la ricerca educativa e con le componenti attive del mondo della scuola che aveva contrassegnato le precedenti stagioni; ostilità che si traduce in tagli di risorse, campagne di delegittimazione, interventi centralistici su sistemi teoricamente autonomi, ma anche in crisi per la difficoltà a identificare nuovi percorsi di rilancio delle prospettive sociali e economiche di questo paese e dunque di un deficit complessivo della cultura in cui siamo immersi. Questa grande dispersione della scuola porta non solo a perdere qualità nella scuola, quale che sia lo sforzo e l’impegno di chi insegna, maestri, professori, ricercatori, docenti universitari, questa dispersione colpisce la società tutta, come se una sorta di ruggine lavorasse con costanza sulle nostre sinapsi, portando ad accettare in tutti i luoghi della società forme di linguaggio e di comportamento che rappresentano un arretramento rispetto al percorso della nostra civiltà. A fronte di questa difficoltà e della paura che una qualche consapevolezza di questo problema genera in tutti è stata proposta una curiosa soluzione: “la cultura della valutazione”.
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editoriale
Ora i pedagogisti discutono di valutazione almeno dagli inizi del secolo scorso e tutti ricordiamo l’impegno di Borghi, De Bartolomeis, Calonghi, Corda Costa, Gattullo, Laeng, Visalberghi e di tanti altri colleghi per capire come utilizzare misure, valori, linguaggi per aiutare in un rapporto complesso come quello che tiene insieme nella scuola insegnanti, ragazzi e genitori, a promuovere la crescita dei ragazzi e della scuola stessa. Mentre servirebbe una scuola di valutazione stiamo assistendo al generarsi di una cultura che potremmo definire del Giudizio senza critica. In questa cultura va di moda cercare e trovare colpevoli utilizzando generalizzazioni improprie; definire piramidi di merito cercando di allineare tutti su comportamenti medi; fare misure di massa con strumenti approssimativi, usare i numeri per darsi ragione e considerarli falsi se ci danno torto. Non è estraneo a questo processo l’uso smodato di termini poco definibili come qualità e competenze, la promozione a esperti di aree disciplinari di esperti provenienti da altri settori, ecc. Ma un editoriale non consente una analisi puntuale come meriterebbe il fenomeno in questione. Consente lo spazio ad un appello allo studio del dibattito sulla valutazione scolastica che si è svolto in Italia dagli anni Cinquanta agli anni Novanta e al non cedimento alla cultura del Giudizio senza critica. Giudicare è un brutto vizio che alcuni cercano di far passare per necessità, giudicare e intervenire in fretta è ancora più stupido. E poiché la cosa è seria mi permetto di ricordare che se è ragionevole parlare di una cultura della valutazione è meglio riferirla ai ragionamenti che hanno salvato la Maddalena dalla lapidazione e che hanno spinto alla prudenza e alla pazienza il padrone del campo di grano in cui era stata seminata zizzania1. Allora proviamo a immaginare che qualcuno costruisca deweyanamente “proposizioni di apprezzamento”, per il lavoro degli insegnanti (nelle condizioni date e con i salari correnti), per le famiglie e il loro impegno, per i ragazzi, per i ricercatori e che questo apprezzamento possa diventare credito e fiducia per un sistema, quello della scuola, in cui la fiducia e l’ottimismo sono come il lievito. Qualcosa di questo genere accomuna nello spirito i lavori che vengono pubblicati su questo numero, e qualcosa di analogo è emerso nel seminario dei dottorandi di ricerca di Linguaglossa. Sul fatto che l’educazione sia un’emergenza sembra siano d’accordo tutti. Sui caratteri di questa emergenza e sulle vie d’uscita ci sono conoscenze consolidate, assunti, che sono alla base della ricerca educativa e didattica e ci sono valori che si ritrovano nella maggior parte delle nostre ricerche. Questi assunti e questi valori non accompagnano i ragionamenti dei decisori politici, come non li accompagnano i tanti dubbi che compongono le nostre certezze. Una rivista serve per pubblicare, per conoscerci, per raggiungere il pubblico e per farci sentire.
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La parabola (MT, 13, 24-29) spiega i rischi che si corrono introducendo sistemi di selezione in ingresso senza dotarsi degli strumenti per farlo in modo serio.
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ricerche Passaggi di corso degli studenti e orientamento all’università: uno studio sull’Università Sapienza di Roma Student changes of course and orientation in the university: a study on Sapienza, University of Rome GUIDO BENVENUTO • GIUSEPPE CARCI
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Nell’università italiana l’introduzione del sistema dei crediti (DM 509/99) e la possibilità di cambiare percorso con il riconoscimento di parte o della totalità dei crediti potrebbero consentire agli studenti di raggiungere con minor tempo gli obiettivi educativi. In questa ricerca si analizzano le caratteristiche della mobilità studentesca (passaggi di corso e/o trasferimenti di ateneo), il suo impatto sulla carriera accademica dello studente e le condizioni che favoriscono i “passaggi di successo”, attraverso un’analisi longitudinale delle carriere dei 407.239 immatricolati alla Sapienza dall’a.a. 1991/1992 all’a.a. 2006-2007. I risultati mostrano la mobilità, concentrata soprattutto nei primi due anni di corso, è legata all’inattività dopo il primo anno e rappresenta un ri-orientamento: si laurea il 21% degli inattivi che effettuano un passaggio, rispetto al 9% degli inattivi che rimangono nello stesso corso.
In the Italian university the introduction of credit system (DM 509/99) and the possibility to change major with the approval of part or all the loans could enable students to achieve educational goals with less time. In this research we analyze the characteristics of student mobility (changes of major and/or university transfer), its impact on the student’s academic career and the conditions that favor the “ successful change”, through a longitudinal analysis of the careers of 407,239 registered at Sapienza, University of Roma, from the academic year 1991/1992 to 20062007. The results show mobility, mainly concentrated in the first two years of course, is due to inactivity after the first year and represents a re-direction: graduated 21% of inactive taking a change of major, compared with 9% of the idle remain in the same course.
Parole chiave: dispersione universitaria, abbandono universitario, mobilità studentesca, studio di coorte, successo accademico, orientamento universitario
Key words: attrition, university dropout, student mobility, longitudinal study, academic success, academic guidance
Guido Benvenuto – Prof. Associato, Pedagogia Generale e Sociale, Sapienza, Università di Roma, guido.benvenuto@uniroma1.it Giuseppe Carci – Dottorando in Pedagogia Sperimentale, Sapienza, Università di Roma, giuseppe.carci@libero.it
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L
a scarsa “produttività” dell’università italiana, in riferimento al fenomeno della dispersione, al basso tasso di laureati e al carente collegamento con il mondo del lavoro, è un tema ricorrente e diventato centrale in tempi piuttosto recenti. L’università è stata indicata come “fabbrica di disoccupati” o come “area di parcheggio” e il dibattito su questi temi ha attraversato gli anni Ottanta e Novanta (De Francesco,Trivellato, 1978; Cavalli, 1991; Moscati, 1983; 1990; 1997; Benvenuto, Serpente, 1998). I recenti interventi di riforma del sistema universitario italiano (DM 509/99 e 270/2004) sembrano non aver inciso in modo determinante sui mali storici che affliggono l’Università italiana già dai tempi in cui era in vigore il Vecchio ordinamento (tasso di abbandono molto elevato, basso numero di laureati; età media dei laureati oltre i 27 anni, crescita continua della percentuale di studenti fuori corso). Tali criticità, seppure attenuate, emergono, infatti, ancora oggi nei principali rapporti di ricerca sull’università elaborati a livello nazionale ed internazionale. A livello europeo, l’ultimo rapporto annuale dell’Ocse (2008) sulla qualità dei risultati dei sistemi di istruzione terziaria, dei 30 paesi membri1, delinea un quadro molto negativo per quanto riguarda l’Italia, che occupa uno degli ultimi posti in riferimento al tasso di laureati e alla capacità di attrazione degli studenti e di contenimento dell’abbandono (Ocse, 2008). Oltre a ciò, la quota di studenti che abbandonano gli studi prima di conseguire il titolo finale è la più alta rispetto a quella di tutti i paesi considerati dall’Ocse: in Italia si registra un valore di circa il 50% di abbandoni universitari, vale a dire oltre il 20% circa in più rispetto alla media europea (intorno al 30%). A livello nazionale, prendendo in considerazione il Rapporto del Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU) del 2008 è possibile rilevare ulteriori criticità del sistema, che vanno a sommarsi a quanto già emerso dalle indagini internazionali: • la lentezza nel completamento degli studi (su 10 studenti iscritti, 4 non rispettano la durata legale del corso di studi); • l’aumento degli studenti “inattivi”, vale a dire immatricolati o iscritti che non hanno sostenuto alcun esame o acquisito crediti nell’ultimo solare; • gli abbandoni tra il I e II anno che, dopo una lieve flessione nei primi anni della riforma (da attribuire anche ai passaggi da Vecchio a Nuovo ordinamento), oscillano intorno al 20%. Un’ulteriore considerazione sui dati relativi al sistema universitario riguarda la metodologia utilizzata, a livello nazionale e internazionale, per il calcolo degli indicatori sui risultati ottenuti dagli studenti. Tali indicatori possono essere elaborati attraverso due distinti tipi di analisi, sulla base dei dati che si hanno a disposizione: • “per contemporanei” (o trasversale), utilizzando dati in forma aggregata, fornisce una fotografia della popolazione studentesca in un determinato istante temporale; • “per coorti” (o longitudinale), utilizzando dati individuali, segue la carriera universitaria di ogni studente, dal momento dell’immatricolazione e, per ogni anno accademico, fino a un dato momento. Per valutare in modo preciso e affidabile i risultati degli studenti universitari (performance,
1 Ogni anno l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) pubblica il volume Education at a Glance, una raccolta di dati e analisi sull’istruzione, che fornisce una gamma di indicatori comparativi e aggiornati sui sistemi scolastici dei 30 stati membri e di alcune economie partner.
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produttività, successo), sarebbe necessaria l’analisi longitudinale delle carriere degli studenti, come sottolineato nei rapporti dell’Ocse e del Cnvsu. La mancanza di un archivio unico, contenente i dati sugli studenti universitari, non consente, però, di disporre di indicatori costruiti su dati individuali e longitudinali, ma su dati in forma aggregata e questo condiziona la corretta rilevazione dei fenomeni in questione e, quindi, le azioni di contrasto. Anche nella gran parte degli studi svolti negli ultimi decenni in Italia, sull’incidenza e le determinanti dell’abbandono nell’università italiana, gli statistici, gli economisti, i sociologi e i pedagogisti sono stati costretti ad utilizzare dati aggregati sugli studenti (Aina, 2005; Cingano, Cipollone 2007; Ugolini, 2000) e gli unici studi che hanno preso in considerazione dati individuali sugli studenti, sono stati realizzati in singoli atenei, dove vi era la disponibilità di avere informazioni a livello individuale, presso i sistemi informativi (Alì, 1988; Broccolini, Staffolani, 2005; Cingano, Cipollone, 2007; De Francesco, Trivellato, 1978; Gorelli, 1995; Maruotti, Petrella, 2008). Le indagini che utilizzano i dati aggregati collocano, infatti, nelle mancate iscrizioni all’anno accademico successivo dello stesso corso di laurea sia gli abbandoni che le forme di mobilità (Romano, Attanasio, 2001), in quanto all’interno dell’indicatore “mancate iscrizione al II anno di corso” calcolato dal Cnvsu vengono inclusi sia gli studenti che abbandonano effettivamente gli studi, sia gli studenti che effettuano un passaggio ad un altro Corso di laurea, Facoltà o Ateneo (cfr. Benvenuto, Carci, 2008)2. Questo accorpamento tra abbandoni degli studi e passaggi in altri contesti di studio finisce per sovrastimare l’entità del tasso di abbandono (effettivo) degli studenti e, contemporaneamente, non consente di quantificare e analizzare il fenomeno della mobilità degli studenti (i passaggi tra corsi di laurea o facoltà, i trasferimenti da e verso altri atenei). Le motivazioni di chi effettua un passaggio potrebbero essere molto diverse da quelle di chi abbandona: chi decide di cambiare corso di laurea o facoltà, probabilmente ritiene che terminare gli studi in un altro contesto potrebbe consentirgli di raggiungere il successo accademico. Rispetto alla mobilità occorre sottolineare che il meccanismo di passaggio tra corsi e/o facoltà appare, nel sistema di nuovo ordinamento (c.d. “3+2”), molto meno dispersivo di quanto accadeva nel precedente ordinamento. Con il sistema dei crediti, oggi, si può proseguire nel cambiamento di percorso con minor sprechi di tempo e con il riconoscimento di parte o della totalità dei CFU raggiunti. Un cambiamento di percorso, oggi, non è più un “cominciare daccapo” e, qualora fosse frutto di forte motivazione, il terminare gli studi in un altro contesto potrebbe addirittura essere d’aiuto a raggiungere meglio e/o con minor tempo gli obiettivi educativi che ci si era posti al momento dell’immatricolazione. Proprio sulla base di queste considerazioni si è voluta condurre una ricerca (Carci, 2010)3 per studiare il passaggio tra corsi e/o facoltà come possibile indicatore di:
2 L’inclusione dei passaggi tra gli abbandoni non avviene per una volontà precisa degli Atenei, ma a causa della mancanza di adeguate informazioni sulle carriere degli studenti: i database delle università, infatti, registrano spesso unicamente le iscrizioni e le lauree degli studenti. Così, quando uno studente non appare più nel database, lo si considera come un “non più iscritto”, non discriminando gli abbandoni, i passaggi di corso e i trasferimenti. In USA molte università stanno realizzando dei database sugli studenti, in grado di monitorare i passaggi durante gli studi. 3 La ricerca, ancora in corso, e condotta all’interno del Dottorato di Ricerca in Pedagogia Sperimentale (Università di Roma “Sapienza”), segue longitudinalmente il percorso di studi di 16 coorti di immatricolati a “Sapienza” dall’a.a. 1991-1992 all’a.a. 2006-2007.
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• dispersione: qualora portasse a rallentamenti o alla fuoriuscita dal percorso di studi universitario; • ri-orientamento positivo: qualora portasse a medio o lungo termine ad un’accelerazione e recupero del percorso con conseguimento del titolo finale.
Obiettivi e ipotesi della ricerca Per studiare i diversi gradi di dispersione universitaria, e in particolare l’abbandono universitario e la mobilità durante la carriera universitaria, si è messa a punto una dettagliata ricerca sull’Ateneo Sapienza di Roma, per: • effettuare una ricognizione della produttività studentesca attraverso un’analisi secondaria di dati a carattere longitudinale, in modo da far luce su alcuni fattori che concorrono alla determinazione di tale risultato e sugli ostacoli nel raggiungimento del successo accademico; • studiare il fenomeno dei passaggi tra corsi di studio o facoltà, nell’ottica di individuare e analizzare i passaggi “di successo” (che portano al conseguimento del titolo finale) e quelli “di insuccesso” (che conducono all’abbandono degli studi), e poter arrivare a formulare ipotesi di intervento nell’ottica di un orientamento efficace; • individuare e sperimentare una metodologia di analisi delle carriere degli studenti universitari, che consenta di avere un quadro più affidabile, nelle sue diverse forme, rispetto a quanto disponibile a livello nazionale in Italia. Partendo da questi obiettivi e sulla base dei risultati emersi nelle precedenti ricerche sul tema4 sono state formulate alcune ipotesi generali di ricerca. Tali ipotesi mirano a verificare se: • con l’introduzione del nuovo ordinamento universitario vi sia stato un incremento delle forme di mobilità studentesca (passaggi di corso di laurea e di facoltà, trasferimenti di Ateneo); • le forme di mobilità si collocano temporalmente nei primi due anni di carriera universitaria, considerati nella letteratura di riferimento i momenti di maggiore frequenza dei fenomeni legati alla dispersione (abbandoni e inattività) e alla mobilità; • l’inattività dopo il primo anno di corso, considerato un indicatore di difficoltà iniziale, incida in modo significativo sulla decisione di passare ad un altro corso di studi; • in condizioni di inattività iniziale, effettuare un passaggio di corso aumenta in modo significativo la probabilità di conseguire la laurea rispetto al rimanere nello stesso corso di laurea del primo anno;
4 Il termine immatricolato indica lo studente che per la prima volta nella sua vita si iscrive ad un corso di studi universitari; pertanto vengono esclusi tutti gli studenti che si iscrivono alla Sapienza con precedenti esperienze di studio universitario. Nel Medioevo, la matricola era il registro, o elenco, nel quale venivano inseriti i membri di una associazione. Ai membri veniva assegnato un numero progressivo (numero di matricola) che li identificava e li distingueva dagli altri membri. L’essere inserito per la prima volta nel registro-matricola era appunto l’atto di immatricolarsi.
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SIRD • Ricerche
• in condizioni di inattività iniziale, effettuare un passaggio di corso aumenta in modo significativo la produttività, in termini di esami superati, rispetto al rimanere nello stesso corso di laurea del primo anno; • sia possibile individuare alcuni fattori (legati alle caratteristiche degli studenti e ai contesti di provenienza e di destinazione del passaggio) associati in modo significativo ai passaggi che portano alla laurea rispetto a quelli che portano all’abbandono.
Popolazione di riferimento Per effettuare un’analisi della mobilità studentesca, mettendo a confronto il vecchio e il nuovo ordinamento didattico, si è scelto di includere nella popolazione di riferimento tutti gli immatricolati5 dopo la riforma del 1999 e dieci coorti di immatricolati nel vecchio ordinamento. La popolazione di riferimento è costituita dalle 16 coorti di immatricolati alla Sapienza, a partire dall’a.a. 1991/1992 fino all’a.a. 2006-2007. Con riferimento alla definizione utilizzata dall’ISTAT nell’annuale Rilevazione dell’Istruzione Universitaria (RIU), sono considerati immatricolati gli studenti che si iscrivono per la prima volta nel sistema universitario; di conseguenza, sono esclusi dalla popolazione studenti provenienti da altra sede e/o da altro corso di studi e comunque con precedenti esperienze di studio universitario. Questa scelta è dettata dalla necessità di rendere omogenea la coorte osservata e di confrontare studenti che iniziano tutti “da zero”. La popolazione è costituita da 407.239 immatricolati, di cui 261.386 immatricolati a corsi di vecchio ordinamento e 145.853 a corsi di nuovo ordinamento. Sono stati esclusi dalla popolazione di riferimento i 1.630 studenti immatricolati al nuovo ordinamento nell’a.a. 2000-2001 presso la facoltà di Ingegneria, dove è stata anticipata di un anno l’introduzione del nuovo ordinamento didattico. La scelta di escludere tali studenti è stata dettata dalla necessità di disporre di coorti omogenee rispetto al tipo di ordinamento del corso di laurea e, in tal modo, poter effettuare dei confronti attendibili tra vecchio e nuovo ordinamento.
5 La struttura multidimensionale nasce dalla Colon Classification, un tipo di classificazione bibliotecaria ideata nella prima metà del secolo scorso dal bibliotecario indiano Ranganathan. La Colon Classification si basa sull’idea che ogni libro (ma in realtà ogni fenomeno) possa essere scomposto e descritto in base a proprietà fondamentali (dette “faccette”) intrinseche all’oggetto stesso e con precise caratteristiche che: a) sono invariabili dal punto di vista semantico (ad es. la proprietà COLORE di un oggetto può variare in termini di valori che può assumere – giallo, rosso etc. – ma è invariabile come concetto; cioè quell’oggetto avrà sempre un colore); b) costituiscono un insieme aperto, per cui è sempre possibile aggiungere nuove faccette a quelle già esistenti; c) sono utilizzabili come attributi di ricerca sia singolarmente sia in combinazione.
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Grafico 1 – Immatricolati alla Sapienza, Università di Roma (aa.aa. 1991-1992/2006-2007) (Fonte: SATIS)
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Metodo di rilevazione dei dati e tecniche di analisi Per analizzare O e descrivere i fenomeni della mobilità durante gli studi si è scelto di effettuare un’analisi secondaria dei dati amministrativi sugli studenti, forniti dal SATIS (Servizi, Applicazioni e Tecnologie Informatiche della Sapienza). Occorre sottolineare che i dati contenuti negli archivi amministrativi sono raccolti con finalità burocratiche e quindi è stata necessaria una lunga e laboriosa fase di riduzione dei dati (controllo, pulizia, codifica e ridefinizione), per la costruzione di una matrice che consentisse di descrivere aspetti e dinamiche della popolazione universitaria. Le variabili contenute nella matrice sono state distinte in tre tipologie: in ingresso o di input (genere, età, voto di maturità e titolo di studio, facoltà di immatricolazione), di percorso o di throughput (posizione amministrativa e facoltà di iscrizione per ogni anno accademico, esami sostenuti e crediti acquisiti, abbandoni e forme di mobilità) e in uscita o di output (posizione amministrativa al termine della carriera). Per verificare in quali condizioni il passaggio di corso o di facoltà può rappresentare per uno studente un ri-orientamento positivo, ossia una facilitazione nel raggiungimento del successo accademico (il conseguimento della laurea), i fenomeni legati alla mobilità durante gli studi sono stati analizzati tenendo conto delle caratteristiche in ingresso degli studenti (in quanto nella letteratura di riferimento si sono dimostrati predittori significativi del successo accademico), dei contesti nei quali avvengono i passaggi (facoltà e corsi di laurea) e dell’inattività dopo il primo anno di corso, considerato un indicatore di difficoltà iniziale.
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TIPO DI VARIABILE
VARIABILI FORNITE DAL SATIS
Anagrafica
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Carriera scolastica precedente
• Tipo di diploma di scuola secondaria • Voto di maturità
Immatricolazione
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Numero di matricola Area di facoltà di immatricolazione Facoltà di immatricolazione Corso di laurea di immatricolazione Tipo di corso di laurea di immatricolazione Durata legale del corso di laurea di immatricolazione
Carriera universitaria (per ogni anno accademico)
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Posizione amministrativa all’inizio dell’anno Posizione amministrativa durante l’anno Facoltà Corso di laurea Inattività Esami superati nel corso dell’anno accademico Crediti acquisiti nel corso dell’anno accademico Media voto agli esami nel corso dell’anno accademico
Esito della carriera
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Posizione amministrativa nel 2007-2008 Stabilità rispetto alla facoltà di immatricolazione Regolarità rispetto alla durata legale del corso di laurea Stanzialità rispetto alla facoltà di immatricolazione Continuità di iscrizione Esami superati Crediti acquisiti Media voto agli esami Anni effettivi di iscrizione all’università Anni di sospensione degli studi Anni di iscrizione fuori corso Anno di laurea Voto di laurea Anni di ritardo nel conseguimento del titolo
Genere Età all’immatricolazione Luogo di Residenza Reddito
Tabella 1: Le variabili presenti nella matrice longitudinale
La prima fase di analisi dei dati è consistita nella descrizione delle caratteristiche in ingresso della popolazione di riferimento, delle caratteristiche della mobilità studentesca durante la carriera (entità e collocazione temporale del fenomeno, tasso di mobilità immediata,
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provenienza e destinazione del passaggio) e dell’esito della carriera, in termini di raggiungimento del successo. La seconda fase di analisi dei dati si è concentrata nel passaggio tra il primo ed il secondo anno di corso, considerato nella letteratura di riferimento il momento di maggiore frequenza dei fenomeni legati alla dispersione (abbandoni e inattività) e alla mobilità. L’analisi ha riguardato innanzitutto la quantificazione e la descrizione dei seguenti fenomeni: gli abbandoni durante il primo anno di corso e nel passaggio al secondo anno, il tasso di inattività, la produttività (esami sostenuti e crediti acquisiti) e il tipo di prosecuzione al secondo anno di corso (con o senza forme di mobilità). Successivamente sono state analizzate le correlazioni tra questi fenomeni e le caratteristiche in ingresso degli studenti, già individuate come esplicative o predittive dell’esito della carriera in ricerche precedenti sul tema. Sulla base dell’inattività e della mobilità tra primo e secondo anno di corso è stato possibile costruire diversi “tipi” di studenti (attivi lineari, attivi con passaggio, inattivi lineari, inattivi con passaggio), di cui si è analizzata la conclusione della carriera per costruire profili tra gli studenti che hanno effettuato un passaggio. L’ultimo tipo di analisi effettuata è stata l’applicazione di un sistema di classificazione multidimensionale5 per sintetizzare le informazioni relative alla carriera dello studente a distanza di alcuni anni dal momento dell’immatricolazione.
Grafico 2: Modello di classificazione multidimensionale degli studenti
I dati sulla posizione amministrativa dello studente e le caratteristiche del suo percorso di studi danno luogo a un codice numerico che permette di realizzare una tipologia di studente universitario al termine della carriera.
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SIRD • Ricerche
I principali risultati della ricerca La riforma del sistema universitario italiano (DM 509/99) sembra aver risolto solo in parte le criticità che affliggevano il sistema universitario italiano nel vecchio ordinamento (tasso di abbandono molto elevato, basso numero di laureati; età media dei laureati oltre i 27 anni, crescita continua della percentuale di studenti fuori corso).
Grafico 3:Tasso di abbandono fino al secondo anno di corso alla Sapienza (aa.aa. 1991-1992/2006-2007)
Per quanto riguarda le forme di mobilità durante la carriera è emerso che i fenomeni legati alla mobilità coinvolgono circa il 20% della popolazione e che gli studenti che effettuano un passaggio hanno tassi di laurea più alti rispetto a chi rimane sempre iscritto nello stesso corso di laurea. I risultati ottenuti confermano l’ipotesi che con l’introduzione del nuovo ordinamento didattico sono aumentati gli studenti che hanno effettuato un passaggio di corso, probabilmente sulla scia dell’aumento dell’offerta formativa di corsi di laurea all’interno dell’ateneo e spinti dalla possibilità di cambiare corso di studi con minor spreco di tempo, attraverso il riconoscimento di parte o della totalità dei crediti raggiunti prima del passaggio. I risultati della ricerca confermano gli esiti di studi precedenti sul tema, che evidenziavano come i passaggi di corso si concentrano maggiormente nei primi anni della carriera accademica e in situazioni di difficoltà iniziale: il non aver sostenuto esami nel corso del primo anno spinge lo studente a cambiare corso di laurea per raggiungere il successo accademico. I passaggi risultano però particolarmente efficaci, in termini di raggiungimento del successo accademico, proprio tra gli studenti inattivi dopo il primo anno di corso: si laurea il 21% degli inattivi che effettuano un passaggio di corso, rispetto al 9% degli inattivi che rimangono nello stesso corso in cui si sono immatricolati.
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Grafico 4:Tasso di passaggio di corso tra il primo e il secondo anno di corso alla Sapienza (aa.aa. 1991-1992/2006-2007)
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Grafico 5:Tasso di laurea degli inattivi alla Sapienza, per tipo di prosecuzione al secondo anno di corso (aa.aa. 1991-1992/2006-2007) (aa.aa. 1991-1992/2006-2007)
La natura amministrativa dei dati a disposizione non ha consentito di approfondire alcune dimensioni legate ai passaggi (motivazioni, aspettative e vissuto dello studente prima e dopo il passaggio), che consentirebbero di comprendere meglio i motivi legati alla scelta di lasciare un corso P di laurea e di indirizzarsi verso una particolare facoltà piuttosto che un’altra.
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Partendo dai risultati emersi nelle presente ricerca è possibile individuare, infine, alcune prospettive di ricerca e di intervento future. Innanzitutto appare prioritario realizzare studi e monitoraggi sui percorsi di studio universitari, attraverso una metodologia longitudinale, che consentano di rilevare per tempo i fenomeni dispersivi che caratterizzano la carriera della maggioranza degli studenti universitari. Andrebbe rivolta una maggiore attenzione al momento di passaggio tra I e II anno, nel quale si concentrano le maggiori criticità per molti studenti (abbandoni e inattività), attraverso l’attivazione, per esempio, di iniziative di orientamento e di tutoraggio mirate agli studenti inattivi nel primo di anno, che consentano di condurre gli studenti verso esiti più efficaci, nello stesso o in altri corsi di studio. Infine i risultati emersi nelle presente ricerca possono essere utilizzati come base per ricerche future sul tema, in particolare per lavori che intendano approfondire lo studio di questi fenomeni, includendo variabili legate anche alle motivazioni del passaggio e alle condizioni che lo hanno favorito e che hanno determinato il successo accademico in altri contesti di studio.
Riferimenti bibliografici Aina C. (2005). Parental background and college drop-out. Evidence from Italy. Mimeo: Università degli Studi del Piemonte Orientale. Alì M. (1988). La laurea difficile. Gli abbandoni nell’Università di Roma “La Sapienza”. Milano: Franco Angeli. Benvenuto G., Serpente M. (1998). Dispersione studenti e sbocchi professionali negli studi universitari. Cadmo, (6) 17/18, pp. 187-209. Benvenuto G., Carci G. (2008). La dispersione universitaria: indicatori nazionali e modelli di analisi longitudinale alla Sapienza, Università di Roma. SIPEF, 10, pp. 5-22. Broccolini C., Staffolani S. (2005). Riforma universitaria e performance accademica: un’analisi empirica presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche. Università Politecnica delle Marche, Working Paper n. 242. Carci G. (in stampa) (2010), I passaggi di corso universitari come forma di riorientamento. Un’indagine sugli studenti della Sapienza, Tesi di Dottorato di ricerca in Pedagogia Sperimentale, Sapienza Università di Roma, XXII ciclo. Cavalli A. (1991). Uno sguardo ingenuo sull’università dell’assurdo. Il Mulino, 1, pp. 101-107. Cingano F., Cipollone P. (2007). University dropout: the case of Italy.Tema di discussione n. 626, Banca d’Italia. CNVSU (2008). Nono Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario. Disponibile su <www.cnvsu.it>. De Francesco C.,Trivellato P. (1978). La laurea e il posto. Istruzione superiore e mercato del lavoro in Italia e all’estero. Bologna: Il Mulino. Gorelli S. (1995). La domanda di formazione universitaria in Italia: un nuovo metodo per l’analisi longitudinale da dati aggregati. Annali del Dipartimento studi geoeconomici, statistici e storici per l’analisi regionale, pp. 201-220. Maruotti A., Petrella L. (2008). A semiparametric model for the probability of university drop out: an italian experience. Working Paper n. 42, Dipartimento di Studi Geoeconomici, Linguistici Statistici Storici per l’Analisi Regionale, Università di Roma “La Sapienza”. Moscati R. (1983). Università: fine o trasformazione del mito? Nuovi significati e funzioni nelle diverse Italie. Bologna: Il Mulino. Moscati R. (1990). Le diseguaglianze nell’Università. Scuola Democratica, 1, pp. 96-104. Moscati R. (a cura di), (1997). Chi governa l’università? Il mondo accademico italiano tra conservazione e mutamento. Napoli: Liguori.
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ricerche Interfacce e sistemi a realtà virtuale per un apprendimento esperienziale Interfaces and virtual reality systems for experiential learning MARIA GRAZIA CELENTANO
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Le tecnologie web già da tempo sono state utilizzate in ambito formativo non solo nella tradizionale forma di elearning, ma anche come forma di apprendimento esperienziale da attuarsi in contesti virtuali. Oggi la VR ha portato ad un progressivo adattamento delle interfacce al corpo, fino a giungere allo sviluppo di avanzati sistemi in grado di coinvolgere integralmente gli apparati percettivi per determinare una completa immersione sensoriale dell’individuo nel contesto di apprendimento. È secondo quest’ottica che la VR può essere considerata un’interfaccia esperienziale, in cui la componente percettiva si fonde con l’interattività. Il contributo riporta i risultati di due progetti di ricerca interdisciplinari (MediaEvo e Wii Humans) che hanno visto, seppur con modalità e target di riferimento diversi, la sperimentazione del medesimo approccio per la creazione di ambienti educativi immersivi che integrano realtà e virtualità.
Web technologies have long been in use in training both in the traditional form of elearning and also as a form of experiential learning to be implemented in virtual contexts. Today VR has led to a progressive adaptation of interfaces to the body, reaching to the development of advanced systems able to involve fully the perceptual apparatus with determining a complete sensory immersion of the users into learning context. In this sense,VR can be considered a experiential interface in which the perceptual component blends with interactivity. The paper reports the results of two interdisciplinary research projects (MediaEvo and Wii Humans) that have tested, although with different terms and reference target, the same approach for creating immersive learning environments able to integrate reality and virtuality.
Parole Chiave: apprendimento esperienziale, realtà virtuale, collaborative learning; e-learning.
Key words: experience learning, virtual reality, collaborative learning, elearning.
Maria Grazia Celentano, Ingegnere, EspérO – spin-off Università del Salento, professore a contratto, mariagrazia.celentano@unile.it
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Dalla realtà alla virtualità Le tecnologie informatiche e gli ambienti di apprendimento tecnologici hanno avuto con il tempo un notevole impatto soprattutto sulle metodologie didattiche adottate per la trasmissione e la co-costruzione dei saperi. La possibilità di collaborare, creare, accedere o modificare contenuti in qualsiasi momento e con qualsiasi dispositivo (Web 2.0) ha favorito un già avviato processo di abbattimento della mura che fino ad oggi hanno relegato le metodologie didattiche a forme di trasmissione dei saperi in contesti formali e circoscritti all’interno di un’aula (Celentano, Colazzo, 2008). Oggi i “nativi digitali” sono ipercomunicativi, capaci di usare anche contemporaneamente molti mezzi per restare in contatto con i coetanei e per accedere alle informazioni di cui necessitavo. Scrivono e rispondono alle mail, conversano nelle chat e nei forum, pubblicano e fruiscono di contenuti audiovisivi, creano in modo collaborativo documenti multimediali, mettono a disposizione degli altri i propri contenuti, imparano condividendo le proprie esperienze. Tali caratteristiche inducono il mondo della formazione a progettare innovativi setting formativi, anche virtuali, capaci di coinvolgere e sollecitare gli individui a risolvere situazioni problematiche mettendo in atto efficaci processi creativi e decisionali frutto anche dell’interazione con gli altri soggetti del gruppo/rete. Secondo questa prospettiva il computer assume il ruolo di generatore di nuovi contesti e gli ambienti virtuali in esso implementati, non i sostituti del mondo nel quale gli esseri umani operano ed interagiscono, ma strumenti in grado di pervadere i sensi e/o di influenzare il modo in cui i soggetti si rapportano al contesto in cui l’agire si situa, e di far vivere a singoli come anche a gruppi particolari esperienze di apprendimento. In un contesto di vita reale in cui l’essere umano è continuamente coinvolto in processi di interazione, egli compie esperienze interagendo con gli altri soggetti della comunità e con il contesto. Anche il mondo virtuale propone infiniti contesti/occasioni per compiere esperienze dalle quali innescare percorsi di concettualizzazione a queste riferite. Sarà poi la riflessione sui prodotti dell’esperienza, sul processo di concettualizzazione ma anche sui processi messi in atto in ciascuno di questi momenti ad avere un effettivo impatto sulle strutture di pensiero del soggetto e quindi a favorire anche in questi contesti virtuali una forma di apprendimento esperienziale.
L’apprendimento esperienziale È di David A. Kolb (1976; 1981) e del suo socio Roger Fry (Kolb, Fry, 1975) il merito di aver definito per la prima volta il modello di apprendimento esperienziale. Un modello che è stato con il tempo ripreso ed esteso da altri autori come Le Boterf (2000) o ancor prima da Pfeiffer e Jones (1985) che riformulano il modello per tener conto del contesto sociale in cui il processo di concettualizzazione dell’esperienza avviene. Pfeiffer e Jones si rifanno ad un modello di apprendimento “attivo” in cui il soggetto svolge attività “autentiche” (tratte da problemi concreti riferiti a contesti reali) in un contesto sociale all’interno del quale l’esperienza dei singoli assume significato anche attraverso processi di negoziazione con i membri del gruppo (Quaglino, 1985, p. 100; Nune, Fowell, 1996). Secondo Kolb il modello di apprendimento esperienziale è rappresentato da un sistema ciclico composto da quattro elementi: esperienza concreta (una persona mette in atto una particolare azione e ne vede poi l’effetto nella situazione contingente), osservazione e riflessione (il soggetto comprende gli effetti del caso particolare), concettualizzazione astratta
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(il soggetto comprende il principio generale al quale sottostà il caso particolare) e sperimentazione in nuove situazioni (applicazione, attraverso l’azione, in una nuova circostanza all’interno del renge di generalizzazioni). Riflettendo su questo modello di apprendimento esperienziale, così come teorizzato da Kolb, si evince che l’apprendimento, inteso come processo di costruzione della conoscenza, avviene passando attraverso l’osservazione e la trasformazione dell’esperienza. Non, quindi, attraverso la passiva acquisizione di nozioni, concetti o relazioni. Attraverso l’esperienza concreta (sia essa una lezione, una discussione, un evento o un problema ma anche un gioco) il soggetto simula situazioni tangibili e reali. In questa fase avviene lo stimolo di reazioni e comportamenti che fanno rilevare capacità, attitudini e atteggiamenti personali. L’apprendimento si focalizza sul coinvolgimento personale del soggetto nell’esperienza. Qui si enfatizzano i sentimenti (piuttosto che i pensieri), la complessità (piuttosto che la generalizzazione), l’approccio intuitivo, per poi passare a riflettere e derivare un qualche schema più generale utilizzabile in altre circostanze (“experiencing”). Successivamente all’esperienza, l’osservazione critica della stessa anche da prospettive multiple, ci dice Kolb, consente di acquisire consapevolezza e di trasformare le percezioni. L’apprendimento si focalizza sulla comprensione dei significati attraverso l’ascolto e l’osservazione imparziale. Mediante la discussione o il brainstorming si punta ad enfatizzare la comprensione (piuttosto che l’applicazione), la profondità di analisi e la sua veridicità (piuttosto che la concreta applicabilità), la riflessione (piuttosto che l’azione). Pfeiffer e Jones (1985) nella formulazione del loro modello esplicitano la fase di osservazione distinguendo ciò che propriamente è “comunicazione” da ciò che è invece “analisi”, mettendo così in luce l’importanza del gruppo e del contesto sociale in cui l’individuo è inserito. Quando teniamo un blog ed annotiamo in modo strutturato il nostro percorso esperienziale produciamo auto-verbalizzazione, contribuiamo ad esplicitare puntualmente il vissuto che diventa patrimonio dell’intera comunità; quando cioè la propria esperienza è messa a disposizione degli altri, siamo nella fase che Pfeiffer chiama della “comunicazione”. In questa fase prodotto dell’esperienza e processo che lo ha generato sono oggetto di discussione, di ripensamento collettivo. Quando poi il soggetto si troverà a riflettere sulla propria esperienza e a confrontarla con quella raccontata dai suoi pari, effettua, dice Pfeiffer, l’“analisi o processing”. Riflettere sull’esperienza vuol dire analizzare come quella determinata situazione o problema è stato interpretato e come invece gli altri lo hanno interpretato; quali strategie sono state operate, quali le strategie alternative messe in atto dagli altri, come hanno avuto luogo le relazioni con gli altri soggetti e in che misura gli altri hanno preso parte alla propria esperienza. Questo è il momento in cui l’individuo da solo rielabora quanto vissuto e si apre alla possibilità di integrare i propri modelli operativi con modelli alternativi elaborati dai pari. Se i risultati di questa fase di analisi determinano la rielaborazione di nuovi modelli operativi, l’adozione dei quali porterà a modificare la struttura di pensiero, prende forma il processo di generalizzazione. L’esperienza viene teorizzata per riformularla secondo principi generali. Il ciclo di apprendimento esperienziale si completa di nuovo nell’esperienza. È la fase dell’applicazione. Ciclicamente una nuova situazione-problema sollecita il soggetto a ricontestualizzare quanto decontestualizzato nella fase di generalizzazione utilizzando costrutti vecchi e nuovi precedentemente prodotti per delineare un nuovo piano di azione che sarà oggetto di test in una successiva esperienza. È questa fase di applicazione che richiede al soggetto responsabilizzazione, concretezza e disposizione al cambiamento. Egli è chiamato a rimettere in pratica quanto acquisito con la prima esperienza, per dimostrare di aver maturato la capacità di fare meglio non solo in una eventuale simile situazione ma anche in attività e/o situazioni più complesse.
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Il campo virtuale di sperimentazione L’esperienza concreta, primo step del ciclo di apprendimento esperienziale di Kolb, non deve necessariamente essere legata alla partecipazione ad una attività da praticare in uno specifico luogo fisico. È possibile riconoscere alla tecnologia il merito di poter ampliare le occasioni di esperienza in termini di “tempo” e “spazio” d’azione (Celentano, 2009). Parliamo della possibilità offerta dalla tecnologia di generare esperienze che possono essere vissute in differenti “tempi” (epoche storiche) ed in ogni spazio (contesti socio-culturali) da singoli come anche da gruppi. Le tecnologie web già da tempo sono state utilizzate in ambito formativo non solo nella tradizionale forma di e-learning, ma anche come nuova forma di apprendimento esperienziale (Pannese, 2006) da attuarsi in contesti virtuali. Si tratta di forme che stimolano il discente a mettersi alla prova costruendo una conoscenza in tutto simile a quella che si sviluppa attraverso l’esperienza sul campo reale ed in cui ogni nuova situazione viene interpretata e compresa alla luce delle precedenti esperienze vissute (Bocca, 2003). Di questa tendenza ne danno prova i percorsi formativi aziendali in cui si vanno sempre più sperimentando metodologie educative innovative che tentano di adoperare le nuove tecnologie per facilitare l’apprendimento (Pannese, Carlesi, Riente, 2007). Si tratta dei “serious games”, cioè di giochi sviluppati sotto forma di simulazioni virtuali ludiche altamente interattive che richiedono all’utente di impegnarsi a sviluppare una strategia di marketing, come anche di comunicazione o un determinato comportamento, senza trascurare lo scenario e l’obiettivo da raggiungere. Senza avere la pretesa di poter sostituire l’esperienza sul campo, certamente più articolata ed efficace, gli ambienti virtuali di gioco rivelano il loro punto di forza quando si mostrano versatili (consentendo agli utenti di svolgere attività significative mediante un coinvolgimento attivo dell’utente protagonista del proprio percorso formativo), assolvendo al ruolo di ponte fra conoscenza e rappresentazione del mondo, consentendo di affrontare l’attività simulata con maggiore fiducia e consapevolezza rispetto agli effetti delle proprie azioni. I sistemi di realtà virtuale rappresentano pertanto la nuova frontiera di una formazione che guarda al modello di “apprendimento esperienziale in contesti virtuali” come ad un’occasione per estenderne le potenzialità.
La realtà virtuale Un sistema di realtà virtuale o Virtual Reality (VR) è costituito da un insieme di dispositivi informatici in grado di consentire un nuovo tipo di interazione uomo-computer (Steuer, 1992; Ellis, 1994). L’espressione “nuovo tipo di interazione” fa riferimento soprattutto alle esperienze che queste tecnologie sono in grado di suscitare nell’utente. Questi ambienti (specialmente quelli tridimensionali), generati dal computer ed in cui il soggetto o i soggetti interagiscono tra loro e con l’ambiente come se fossero realmente al suo interno (Riva, 2004), rappresentano il tentativo di rendere l’interazione con i nuovi media il più possibile simile a quella che ciascuno di noi ha all’interno di un ambiente reale. Tecnologicamente l’ambiente di VR si presenta come il risultato della combinazione di diversi oggetti statici e/o in movimento (il contenuto) che sottostanno a regole di movimento (la dinamica) all’interno di una estensione definita dallo sviluppatore e che ne delinea i confini (la geometria). È a tutti gli effetti un artefatto capace di creare una stretta relazione fra strumento tecnologico e corpo, e l’esperienza in VR può essere considerata come un
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“essere dislocati” in un ambiente simulato in cui si è in grado di compiere azioni diverse (Morganti, Riva, 2006). Come sottolineano Lakoff e Johnson (come citato da Morganti, Riva, 2006) il corpo è da una parte la cornice di riferimento nella quale tutte le nostre esperienze avvengono; dall’altra, diviene, attraverso i sensi, il principale legame fra la mente ed il mondo. E l’attività umana può essere compresa attraverso l’esperienza contestualizzata di un sistema corpo-ambiente (Heidegger, 1927), e non come il risultato di rappresentazioni del mondo scollegate da un contesto. Con la VR si è avuto un progressivo adattamento delle interfacce al corpo, fino a giungere allo sviluppo di avanzati sistemi in grado di coinvolgere integralmente gli apparati percettivi per determinare una completa immersione sensoriale (Biocca, 1995). Tutto ciò rispecchia la visione dell’esperienza e della conoscenza come qualcosa strettamente legata non solo all’azione corporea, ma soprattutto alla corporeità intesa come medium conoscitivo. Da ciò il tentativo di numerosi ricercatori di puntare sull’incremento del senso di presenza nell’ambiente virtuale e sull’elevato coinvolgimento sensoriale dell’utente. Con la realtà virtuale il corpo diventa la principale interfaccia con cui viene manipolata l’informazione disponibile. Con la realtà virtuale il corpo, che normalmente non è presente all’interno di media come il telefono o Internet, torna ad essere la principale interfaccia di interazione (pensiamo ad esempio al grande successo della console Wii). In ambito formativo una delle opportunità della realtà virtuale è rappresentata dalla possibilità offerta al soggetto di partecipare attivamente alla creazione e allo sviluppo della propria conoscenza. L’apprendimento è legato allo “scoprire” e al “fare” in prima persona, proprio come richiesto dalla prima fase del modello di Kolb. La realtà virtuale permette di “conoscere il mondo” mediante un apprendimento di tipo senso-motorio, che si rileva più naturale per l’essere umano rispetto all’apprendimento di tipo simbolico-ricostruttivo mediato dalla scrittura e tipico degli ambienti scolastici (Antinucci, 1999). Mediante l’apprendimento percettivo-motorio il soggetto opera sulla realtà con la percezione e l’azione, osserva fenomeni e comportamenti, interviene con la propria azione per modificarli, osserva gli effetti della propria azione e prova a intervenire in un ciclo continuo di apprendimento. Nel ripetere i cicli di percezione e azione, ciascuno operante sul risultato dell’altro, la conoscenza emerge nel mentre “si fa esperienza”. Questo equivale a rileggere gli ambienti virtuali da una prospettiva situata dell’apprendimento, capace di rende i processi di percezione e azione «aspetti della mente accoppiati, e cioè legati da una relazione di co-determinazione. Ciò che percepisco nell’hic et nunc dipende da quello che sto facendo, il mondo mi offre di momento in momento delle affordances o inviti all’azione che si stagliano come rilevanti all’interno di una specifica attività in corso» (Morganti, Riva, 2006, p. 10). Mantovani e Riva (1999) allargando poi l’analisi dell’interazione con il mondo VR ad un contesto più ampio come quello sociale e culturale, giungono alla conclusione che come nel mondo reale, anche in quello simulato ogni azione si svolge all’interno di una cornice di significati propri della cultura dell’utente, da cui egli ricava il senso di presenza nell’azione. La potenzialità dello strumento sta allora proprio nel consentire al soggetto di “entrare” in questo altro mondo portando con sé una storia personale e delle conoscenze proprie della sua area sociale e culturale (Morganti, Riva, 2006) da condividere con gli altri per pervenire insieme alla formulazione di nuovi assunti. L’innovatività dell’approccio dei due autori risiede nell’aver riconsiderato l’esperienza virtuale non più come un’esperienza a sé stante, piuttosto sulla base della cornice di significati sociali in cui ogni individuo è in grado di collocarla. Qualora l’ambiente VR dovesse porre l’utente dinnanzi a situazioni mai sperimentate in precedenza, questi cercherà di risolverle utilizzando le informazioni aggiuntive che sono proprie della cultura in cui è inserito (Mantovani, Riva, 2001).
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È secondo quest’ottica che «la realtà virtuale può essere considerata un’interfaccia esperienziale» (Morganti, Riva, 2006, p. 37), in cui la componente percettiva (visiva, tattile, cinestetica) si fonde con l’interattività: io conosco oggetti e mondo in cui abito ed imparo dall’esperienza diretta compiuta in tempo reale. Come ci confermano molti autori l’esperienza che può essere vissuta in tali sistemi è alquanto diversificata e varia. Mantovani (1995) mostra come in VR una esperienza possa apparire illusoria e allo stesso tempo vivida e convincente da un punto di vista sensoriale; mentre Bricken (1990) precisa che questo tipo di esperienza è possibile poiché la principale peculiarità della VR risiede nella relazione inclusiva che è possibile creare fra utente ed ambiente. La realtà virtuale così pensata diventa allora un vero e proprio “medium comunicativo” (Biocca, 1992; Riva, 1999; Riva, Mantovani, 1999) che agisce non solo fra utenti ma anche fra loro e l’ambiente in cui sono immersi (Riva, 1999). Utilizzando questo approccio comunicativo è possibile arrivare ad una definizione di realtà virtuale in termini di “esperienza umana” e ritrovare in essa tutti gli elementi costitutivi il modello di apprendimento esperienziale: setting formativo, presenza di un gruppo e pratica di negoziazione di significati. Il setting formativo, che in virtù della sua complessità deve essere in grado di coinvolgere fortemente gli individui, è rappresentato dallo stesso ambiente virtuale. Quello che l’ambiente virtuale tridimensionale offre è un contesto comunicativo interattivo molto efficace in cui l’utente entra dentro l’ambientazione ricostruita e interagisce con esso e con i suoi interlocutori avendo anche la sensazione di essere faccia a faccia con loro. L’interazione di gruppo si realizza mediante i sistemi di realtà virtuale condivisa multiutente in cui i gruppi condividono esperienze e conoscenza. Anche la negoziazione di significati, necessaria per lo sviluppo della differenza di prospettive individuali nella risoluzione di problemi e per pervenire ad una soluzione condivisa, è un elemento riscontrabile nel mondo virtuale in cui tutti percepiscono il valore della partecipazione/negoziazione come il motore fondamentale delle attività di apprendimento. Utilizzando la prospettiva della situatività nell’esperienza compiuta dal singolo, pare evidente che l’esperienza e la conoscenza divengono possibili solo dal continuo interpolarsi dell’agente e del contesto fisico ed emozionale in cui esso è inserito (Carassa, 2000). Quando però lo sguardo si allarga e la VR diviene mezzo comunicativo l’ambiente assume le sembianze di uno spazio in cui soggetti diversi interagendo negoziano le proprie esperienze. Tornando alla domanda in che misura la realtà virtuale può agevolare o favorire l’apprendimento nelle tanti fasi in cui esso si manifesta, dobbiamo fare una ulteriore considerazione. Gli uomini di oggi fanno già un grande uso di Internet, soprattutto dei nuovi modi di interazione e comunicazione: il Web 2.0. Le community sono molto popolate, così anche i siti di condivisione dell’informazione, i forum e le chat. La comunicazione sincrona va per la maggiore, e certamente questo è uno dei punti di forza dei mondi virtuali come ad esempio Second Life. I mondi 3D immersivi forniscono l’opportunità di ricreare un contesto sì fatto di ambientazioni, oggetti, situazioni che diventano elemento essenziale per condurre un’esperienza, ma anche momento e luogo di riflessione nell’azione e non solo sull’azione. Second Life, il mondo virtuale più noto del cyberspazio, è un eccellente esempio di come gli ambienti tridimensionali di realtà virtuale utilizzati nel campo dell’apprendimento1, si
1 Varie facoltà USA di architettura, la Federal National Oceanic and Atmospheric Administration, la Scuola di Diplomazia Annenberg della University of Southern California, la Suffern Middle School di New York o la IBM sono solo alcune delle istituzioni che stanno sperimentando realtà didattiche all’interno di Second Life (L’Espresso 2007).
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dimostrano essere interessanti strumenti didattici per l’apprendimento esperienziale. L’ambiente si caratterizza per alcuni elementi che rispettano esattamente i principali vantaggi dell’approccio esperienziale, quali: ruolo attivo del soggetto, focus sull’abitudine già consolidata di apprendere dall’esperienza (metodo induttivo), velocità nell’apprendimento, potenziamento del problem solving, stimolazione alla collaborazione, coinvolgimento emotivo (engagement). Da un lato l’utente si ritrova coinvolto in un ambiente simile a quello della realtà, dall’altro si riconosce immerso in una situazione, osserva, riflette, fa considerazioni e apprende. L’apprendimento scaturisce dall’esperienza diretta e dalla riflessione sull’esperienza. Il grande coinvolgimento emozionale e l’immersività che caratterizzano questi ambienti scaturiscono poi da tre fattori: una chiara identità visuale, un preciso senso del sé e del luogo. Nell’ambiente 3D l’utente si sente come nel mondo reale in “quel” luogo e in “quel” momento (è il “senso del luogo”), ha una propria rappresentazione (l’“identità visuale”), cioè un proprio avatar il cui aspetto fisico altamente personalizzabile lo rende unico in quel mondo (il “senso del sé”). Al pari dell’esperienza “naturale” nell’esperienza virtuale gli utenti non sono passivi ricettori di informazioni, ma compiono scelte deliberate all’interno del medium comunicativo in modo da definire la propria esperienza soggettiva. Nell’interagire con l’ambiente essi costruiscono la propria conoscenza di ciò che stanno percependo, si interrogano su di essa e contemporaneamente esplorano la comprensione dell’esperienza illusoria che stanno vivendo. Per questo doppio ruolo giocato dall’utente, Lauria (1997) definisce l’esperienza VR come l’essere al centro della prospettiva di osservazione ed allo stesso tempo essere al centro della sua costruzione. L’interpolarsi di questi aspetti della cognizione genera quello che (in Morganti & Riva, 2006) viene definito “senso di presenza” in un ambiente virtuale.
L’interazione di gruppo negli ambienti virtuali multi-utente Nella VR l’esperienza che può essere vissuta si rivela alquanto particolare per la sua qualità interattiva, per la possibilità di vedere, di muoversi, di toccare e di fare. Nonostante esistano diverse tipologie di ambienti, ognuna in grado di suscitare nell’utente svariati tipi di esperienza, quando per la prima volta si entra in un mondo virtuale, questo appare sorprendente: si ha la sensazione di essere proprio lì, nonostante la consapevolezza di stare in un posto creato, con l’aiuto della tecnologia, da un’altra persona. I sistemi di VR ci permettono di fare esperienze e di acquisire conoscenza proprio attraverso il senso di presenza sperimentato nell’interazione con l’ambiente e con gli altri. Il temine “interazione” dunque non si limita ad indicare la singola azione nel mondo o la sequenza di azioni più complesse che l’utente è in grado di fare con esso. Carassa, Morganti e Tirassa (2005) parlano di interazione per indicare la complessa costruzione di senso che gli esseri umani fanno nell’agire in uno spazio, sia esso simulato e no. Da ciò la possibilità di acquisire conoscenza anche quando si interagisce con e nel mondo simulato in realtà virtuale. Se condividiamo l’idea di Morganti e Riva (2006) secondo cui la conoscenza emerge da un processo di co-definizione fra soggetto che conosce e oggetto conosciuto, e aggiungiamo tra soggetti che condividono conoscenza per produrne di nuova, non sarà difficile comprendere come proprio la possibilità di interazione (soggetto-oggetto e soggetto-soggetto) risulta essere il fattore cardine attraverso il quale l’acquisizione di conoscenza si realizza. Gli esseri umani interagiscono continuamente con il contesto ambientale in cui si trovano
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mantenendo all’interno di esso una continuità nelle attività che stanno svolgendo in piena autonomia. La continuità delle azioni che essi svolgono concorre a determinare un accoppiamento fra l’essere umano (o meglio con le sue intenzioni, pianificazioni di azioni complesse ed esecuzione di movimenti) con il contesto in cui questi si trovano di volta in volta (Morganti, Riva, 2006). Se ciò è vero indipendentemente dagli strumenti di interazione che si possono utilizzare per la navigazione (mouse, tastiera, joystick ecc.) o per la comunicazione (sincrona o asincrona) allora è l’attività che le persone si trovano a svolgere nell’ambiente virtuale a determinare in che maniera questi saranno in grado di conoscere il contesto in cui si trovano e di agirlo, perché la complessità della situazione ed il significato che essi daranno all’esperienza che stanno vivendo farà sì che l’ambiente virtuale (come ogni altro ambiente) non si riduca ad essere meramente un luogo fisico bensì un luogo di possibilità (Morganti, Riva, 2006). Uno degli elementi che caratterizzano la forma di apprendimento esperienziale è la possibilità di interagire in gruppo per individuare la soluzione di problemi che vedono il contemporaneo coinvolgimento di più persone. Indispensabile è dunque la presenza di un gruppo di soggetti che vivono “insieme” un’esperienza significativa. Ecco perché gli ambienti virtuali si sono evoluti per sviluppare scenari in grado di permettere a più utenti, anche dislocati fisicamente in posti molto lontani fra loro, la contemporanea partecipazione all’esperienza simulata. I soggetti hanno la percezione di condividere uno spazio “fisico” dove si trovano ad agire altre persone ed in cui poter comunicare con gli altri utenti: l’avatar fornisce la percezione di un reciproco senso di presenza, le “interazioni in tempo reale” danno la percezione di un tempo condiviso. L’ambiente condiviso si caratterizza per la possibilità offerta agli utenti di fornire rappresentazioni, non solo del proprio punto di vista ma anche del punto di vista di altri utenti. I partecipanti possono muoversi reciprocamente, interagire con alcuni oggetti presenti nell’ambiente, ottenere una visione dall’alto e perciò complessiva di tutto quello che sta accadendo nell’ambiente ed, all’occorrenza, assumere il punto di vista di un altro avatar (Morganti, Riva, 2006, p. 118 e 150). Si tratta di luoghi artificiali in cui gli attori sono in grado di condividere le informazioni semplicemente partecipando alla stessa esperienza (Mantovani, 1995). La comunicazione fra gli utenti avviene attraverso una continua negoziazione di significati che gli attori fanno emergere nell’interazione con l’ambiente virtuale. La comunicazione da scambio di informazioni fra individui diviene condivisione di conoscenza, o meglio co-costruzione di un contesto fisico e sociale. Gli appartenenti ad un gruppo mettono in comune conoscenze (condividendo rappresentazioni del mondo), comunicano (attraverso il linguaggio, il movimento e la prossemica), colgono le opportunità d’azione (fornite dall’ambiente e dagli altri) per mettere in atto intenzionalità individuali e/o collettive. Essendo forte il senso di coesione sociale l’ambiente favorisce anche un’altra forma di apprendimento: il collaborative learning. In questo caso la tecnologia collaborativa consente agli individui di impegnarsi congiuntamente nella produzione e condivisione di conoscenza, stimolando lo scambio di saperi, consente ai partecipanti di trasformare un’esperienza condivisa carente di chiare opportunità di intervento, in un’esperienza che può essere gestita dalle comunità di appartenenza dei partecipanti medesimi. Quando allora nel mondo virtuale come anche in quello reale, l’apprendimento si connota come un’attività collaborativa e attiva, esso si adegua alle moderne teorie costruttiviste.
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I progetti di ricerca La realtà virtuale, quale ulteriore forma di apprendimento esperienziale, ha portato ad un progressivo adattamento delle interfacce al corpo, fino a giungere allo sviluppo di avanzati sistemi in grado di coinvolgere integralmente gli apparati percettivi per determinare una completa immersione sensoriale (Biocca, 1995) dell’individuo nel contesto di apprendimento. Queste le premesse comuni ai due progetti di ricerca interdisciplinari (MediaEvo e Wii Humans) che hanno visto seppur con modalità e target di riferimento diversi, la sperimentazione del medesimo approccio ai sistemi per la creazione di ambienti virtuali educativi. Wii Humans (Celentano, De Giuseppe, 2010) è un dispositivo educativo-riabilitativo per la rappresentazione dell’ambiente implementato per la prima volta nell’ambito di un progetto dell’Istituto Riabilitativo dei Padri Trinitari Ente Morale Provincia della Natività BMV OSST, come prototipo di sportello polifunzionale di cittadinanza attiva gestito da soggetti disabili. Il sistema è stato progettato e realizzato da EspérO2 con il duplice obiettivo di implementare un ambiente immersivo per consentire a giovani adulti ospiti della struttura di partecipare ad attività di utilità sociale e di far loro riacquisire e/o educare a sviluppare risorse cognitive. Il dispositivo implementa un setting di apprendimento che integra realtà e virtualità nel tentativo di agevolare nel soggetto la possibilità di comprendere il nesso territorio/mappa e realizzare il senso di cosa sia e come avvenga l’interazione digitale. Mediante il sistema Wii Humans i soggetti impossibilitati ad utilizzare le classiche piattaforme software lavorano attraverso sistemi 3D per la rappresentazione virtuale della realtà, sono riabilitati a vivere i contesti reali mediante la sperimentazione del contesto città-plastico, e ad agirli mediante manipolazione di oggetti reali e virtuali. Il sistema Wii Humans si compone infatti di un plastico che riproduce un quartiere della città e all’interno del quale sono posizionati gli oggetti da manipolare (cassonetto, lampadina, semaforo, fontana), due o più wiimote appositamente alloggiati all’interno degli oggetti che dovranno essere manipolati, un modulo SW_3OBJ per la rappresentazione dell’ambiente virtuale 3D e degli oggetti in esso manipolabili, un modulo SW_SEGN che implementa l’interfacciamento del modulo 3OBJ con un sistema touch-screen. Il plastico rappresenta, nella prima fase dell’intervento educativo/riabilitativo, l’interfaccia attraverso la quale il disabile opera nel contesto virtuale, ma con il tempo si prevede di poter sganciare il soggetto dal vincolo della concretezza del plastico, facendolo interagire con la rappresentazione bidimensionale dello stesso e, infine, auspicabilmente con la mappa della città. Il sistema integrando ambienti reali e virtuali di apprendimento presenta un elevato grado di immersività del soggetto disabile chiamato ad attivare il corpo nella interazione con gli oggetti virtuali. Le interfacce, appositamente progettate, permettono all’utente di interagire con il gioco/sistema attraverso un feedback cinestesico (attraverso sensazioni fisiche reali), e si sono rilevate fondamentali per migliorare il livello di apprendimento di soggetti disabili (i soggetti interessati dall’intervento sono affetti da ritardo mentale lieve o moderato).
2 EspérO s.r.l. è un’azienda Spin-Off dell’Università del Salento che propone Servizi Formativi Avanzati per il Management. Nasce nell’ottobre del 2009 ad opera di un gruppo di ricerca costituitosi da alcuni anni attorno alla cattedra di Progettazione e Valutazione dell’intervento formativo del prof. Salvatore Colazzo, presso il Dipartimento di Scienze Pedagogiche Psicologiche e Didattiche dell’Università del Salento, e segue come opzione teorica e di conseguenza metodologica, quella che si inquadra nei costrutti di “apprendimento esperienziale”, “apprendimento per metafora” e “outdoor training” con una specifica originale caratterizzazione.
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La piattaforma di gioco MediaEvo (De Paolis et al., 2009; De Paolis et al., 2010) è un altro caso di studio sugli ambienti di gioco simulati a realtà virtuale, implementato da un gruppo di ricerca, coordinato dal prof. G. Aloisio, presso la Scuola ISUFI dell’Università del Salento. La piattaforma implementa un ambiente tridimensionale multiplayer e multipiattaforma destinato, questa volta, a studenti della scuola media inferiore per consentire loro di apprendere usi e costumi di una città medioevale navigandola, agendola, vivendola in prima persona. MediaEvo è un progetto multidisciplinare, ancora in fase di sviluppo, che ha inteso investigare i media di ultima generazione in una prospettiva originale integrando temi pedagogici, quali le metodologie di apprendimento interattivo come il “learning by doing”, e le nuove tecnologie nel tentativo di utilizzare le potenzialità di interazione e multisensoriarità dei nuovi media per finalizzare la formazione nell’ambito dei beni culturali.Tra i vari risultati riportiamo lo sviluppo di un gioco digitale educativo caratterizzato da ricchezza di contenuti presentati, da un elevato grado di interattività e collaborazione. Progettata come un’applicazione multicanale la piattaforma MediaEvo presenta un’architettura scalabile e distribuita in grado di rispondere ad esigenze di fruizione ed interazione concorrente tipiche di sessioni di apprendimento on-line. Il sistema sperimenta altresì un ribaltamento del rapporto tra insegnamento e apprendimento, ed una pluralità di stili e modelli di apprendimento che si contrappongono a prassi di insegnamento pigre e ripetitive. Il gioco è caratterizzato da una idea di sapere-flusso aperto che rifiuta la chiusura gerarchica e predefinita dei campi e degli elementi significativi di un percorso di conoscenza. Il progetto proporre infatti una ridefinizione dinamica della conoscenza intesa come ambiente, sistema, struttura reticolare dove le interpretazioni sono in continua trasformazione e si generano costantemente nuovi nodi e nuove relazioni. I giocatori-utenti di MediaEvo sono portati a sviluppare una attitudine alla ricerca che permetterà loro di costruire i percorsi di apprendimento in un clima di condivisione delle risorse e degli sviluppi personali. Muovendo da questi obiettivi il gioco esplora ed approfondisce alcune delle attuali frontiere tecnologiche dei videogame in termini di multimodalità, multisensorialità e interoperabilità, prospettando un utilizzo più proficuo delle Tecnologie per l’Informazione e la Comunicazione (ICT) per generare apprendimenti durevoli e profondi. Si tratta sicuramente di apprendimenti di tipo attivo poiché i giocatori sperimentano un dominio conoscitivo o una situazione in forme nuove, generano nuove affiliazioni e quindi si preparano per affrontare nuovi problemi e scenari d’apprendimento all’interno del medesimo dominio conoscitivo o trasferendo le competenze in nuovi campi.
Conclusioni Vivere esperienze di apprendimento significative tra realtà e virtualità in innovativi setting di apprendimento rappresenta una ulteriore possibilità di sviluppo per l’e-learning. Oggi si rileva indispensabile pensare a dispositivi di apprendimento complessi, che vedono realtà e virtualità inscindibilmente relate in un gioco di simulazione, per agevolare nei formandi un elevato grado di apprendimento. Il gioco infatti non può essere inteso come semplice strumento di facilitazione dell’apprendimento, ma deve costituire esperienza centrale del processo che conduce la persona ad apprendere il mondo (Paparella, 2001). È nel giocare che si esplicita l’interessante contributo dell’interattività che «presuppone una concezione dinamica della comunicazione
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che vede il ricevente trasformarsi in emittente, sicché l’informazione che riceve può considerarsi in qualche modo una risposta ad una sua interazione col mezzo» (Colazzo, 2001, p. 53). Reale e virtuale possono efficacemente essere integrati per costruire innovativi setting di apprendimento perché «la realtà virtuale, pur non essendo una realtà fisica, è strutturata sul modello della realtà fisica. Nello spazio virtuale possiamo infatti istituire relazioni simili a quelle con cui ci misuriamo nello spazio reale: vicinanza, lontananza, sopra, sotto» (Colazzo, 2001, p. 59). «In effetti la vera caratteristica della realtà virtuale è che essa sta costituendo progressivamente un mondo parallelo dove tutte le funzioni presenti nel ‘mondo reale’ sono duplicate» (Ferri, 2000, p. 56). «Definiamo comunemente reale ciò che cogliamo coi nostri organi di senso e si rende evidente alla nostra consapevolezza. Irreale è ciò che non esiste, è propriamente il nulla. Tra reale e irreale, in una posizione intermedia vi è il virtuale» (Colazzo, 2001, p. 149). Infatti se «il reale abita nel tempo e nello spazio, il virtuale è ciò che aggiunge all’esperienza il campo del possibile» (Paparella, 2000, p. 25). «La legge del reale è la necessità, quella del virtuale è la libertà. Il limite del reale sono i vincoli materiali posti all’azione dal mondo che abitiamo, il limite del virtuale è la capacità immaginativa e creativa della nostra mente» (Colazzo, 2001, p. 149). È dunque nell’andirivieni tra reale e virtuale che il bambino, ci dice Paparella (2000), ma la stessa cosa potremmo dire per ogni individuo, coglie, costruisce e rinforza il senso di realtà e definisce una corretta linea di demarcazione fra necessità e possibilità. Dal tentativo di far dialogare efficacemente realtà e virtualità nascono Wii Humans e MediaEvo. Wii Humans (Celentano, De Giuseppe, 2010) risultato dell’attività di progettazione ed implementazione di un gruppo di ricerca interdisciplinare interno ad EspérO s.r.l. spin-off dell’Università del Salento, nello specifico del prof. Salvatore Colazzo (pedagogista), dott. Vito De Giuseppe (psicologo), l’ingegnere Maria Grazia Celentano e l’informatico Cosimo Manfreda, gruppo coordinato dal Prof. Nicola Paparella. Si tratta di un ambiente immersivo che permette a soggetti disabili di poter svolgere azioni per la cui complessità non sarebbero in grado di svolgere senza l’ausilio di piattaforme tecnologiche. Mediante il sistema Wii Humans i soggetti lavorano attraverso sistemi 3D per la rappresentazione virtuale della realtà, mettono alla prova contesti reali mediante la sperimentazione del contesto città-plastico, e li agiscono mediante manipolazione di oggetti reali e virtuali. Attraverso il progetto MediaEvo è stato altresì possibile sperimentare come le piattaforme per la costruzione di giochi ludici possano essere efficacemente utilizzate per sviluppare sistemi multicanale e multisensoriali nei diversi contesti di apprendimento come quello dell’edutainment nei beni culturali. Possiamo allora concludere che in ambito formativo la realtà virtuale dà prova della sua efficacia in termini di apprendimento quando al soggetto è offerta la possibilità di partecipare attivamente alla creazione e allo sviluppo della propria conoscenza attraverso strumenti che stimolano l’interazione con gli oggetti del mondo virtuale e con gli altri soggetti in un continuo processo di negoziazione di significati. Riferimenti bibliografici Antinucci F. (1999). Con il computer nelle scuole simulando (e giocando) s’impara. Quaderni di Telèma, Primavera 1999. (http://www.dienneti.it/software/articoli/computer.htm). Biocca F. (1992). Communication within virtual reality: creating a space for research. Journal of Communication, 42 (4) pp. 5-22. Biocca F. (1995). Intelligence augmentation: the vision inside virtual reality. In B. Gorayska, J. Mey (Eds.), Cognitive technology. Amsterdam: North Holland.
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ricerche Mappatura dei bisogni e pedagogia della salute Un caso di studio Mapping needs and education of health A case study ADA MANFREDA
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Una ricerca condotta presso un ospedale pubblico, con un gruppo di malati immunopatici, consente di riflettere sui criteri d’intervento educativo da adottare per intercettare i loro bisogni di salute. Atteso che, in un approccio sistemico alle problematiche della malattia e della salute, l’attivazione delle risorse proprie del paziente costituisce elemento-chiave delle possibilità di guarigione, è stata condotta una mappatura dei bisogni per la comprensione della illness perception dei malati, attraverso la raccolta e l’interpretazione delle loro narrative di malattia. L’obiettivo pedagogico è quello di realizzare un percorso verso il benessere, che possa configurarsi come il tentativo di costruire, a partire dalle storie di ciascun attore, e attraverso la relazione educativa, una narrazione comune e condivisa, nella processualità del dialogo.
Research conducted at a public hospital, with a group of patients immunopathologies, you reflect on the criteria of educational intervention to be taken to intercept their health needs. Since, in a systemic approach to issues of illness and health, the activation of the patient’s own resources is the key element of chance of recovery, was carried out a mapping of needs to the understanding of the illness perception of patients, through the collection and interpretation of their narratives of illness.The pedagogical objective is to create a path to wellness, which could be used as the last attempt, from the history of each player, and through the educational relationship, a common and shared narrative in processuality dialogue.
Parole chiave: bisogni, pedagogia della salute, illness perception, narrative di malattia, benessere, empowerment
Key words: needs, health education, illness perception, narratives of illness, wellness, empowerment
Ada Manfreda, Membro del Gruppo di ricerca in “Pedagogia della Salute” del Dipartimento di Scienze Pedagogiche Psicologiche e Didattiche dell’Università del Salento (Lecce), coordinato dal prof. Salvatore Colazzo, e-mail: ada@amalteaonline.com
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“La salute non consiste in una sempre crescente preoccupazione per se stessi, nel timore che le proprie condizioni fisiche oscillino, e nemmeno nell’inghiottire pillole amare [...]. La salute non è precisamente un sentirsi, ma un esserci, un essere nel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita”. (H.G. Gadamer, Dove si nasconde la salute)
Bisogno di salute e apprendimento del benessere Il bisogno è tema importante in pedagogia, un presupposto necessario da cui muovere per pensare e porre in essere azioni pedagogiche, formative ed educative. Il concetto di bisogno si è storicamente strutturato e sviluppato nell’ambito di diverse teorie e domini disciplinari, quale quello economico, sociale e psicologico, ciascuno dei quali, a vario titolo, volta a volta ha sviluppato questi temi dall’interno della propria specificità epistemologica (Monasta, 1998). Ci vengono oggi, per tale ragione, consegnate alcune fondamentali, quanto differenti, declinazioni di cosa sia bisogno. Far propria questa o quella accezione di bisogno, in ambito pedagogico, è tutt’altro che indifferente: è una scelta che determina conseguentemente un agire pedagogico ed educativo coerente con l’opzione fatta, ispirato a certi modelli teorici piuttosto che ad altri, a certe metodologie piuttosto che ad altre, a certi criteri di progettazione e valutazione piuttosto che ad altri. Nel nostro lavoro abbiamo assunto un costrutto di bisogno modellato sulla proposta teorica di E. Lévinas: egli ci propone un’idea di bisogno in chiave positiva, ossia come luogo di rielaborazione attiva del mondo, dell’oggetto, dell’altro e dunque di liberazione, ribaltando la più diffusa e consueta accezione negativa di bisogno, che lo intende come mancanza, carenza, assenza, privazione1. Egli coniuga strettamente bisogno con desiderio, tempo, lavoro e alterità. Così il bisogno è processo che si fonda e prende le mosse dalla spinta del Desiderio, che è insaziabile tensione al futuro, ma anche condizione necessaria affinché il bisogno possa emergere e trovare la via della sua realizzazione (Lévinas, 1977). Il desiderio, manifestazione energetica del nostro essere, è opaco e non permette di darsi una meta, di avere dei punti di riferimento; necessita di essere articolato per mezzo del linguaggio, e non già di essere superato, annullato, ignorato; necessita di farsi discorso per non divenire negatività, disperazione, dissoluzione. Il discorso realizza l’articolazione e la messa in forma del desiderio che in questo modo si converte in lavoro di assimilazione/elaborazione dell’alterità, il quale si dipana in un tempo che offre l’orizzonte della meta. Il bisogno è tutto questo processo. In questa accezione il bisogno si configura come una risorsa, una ricchezza per il soggetto che ne è portatore. Ne deriva che una vita felice non è una vita in cui il soggetto non provi più bisogno di nulla, avendo realizzato la piena soddisfazione di tutti i bisogni possibili, ma è
1 “concepire – egli scrive – il bisogno come semplice privazione significa intenderlo all’interno di una società disorganizzata che non gli lascia né tempo né coscienza. L’essenza del bisogno è costituita dalla distanza che si frappone tra l’uomo e il mondo dal quale esso dipende. […] La parte dell’essere che si è staccata dal tutto […] dispone del proprio essere e ormai il suo rapporto con il mondo è solo bisogno. Esso si libera di tutto il peso del mondo, dei contatti immediati e continui. È a distanza. Questa distanza può convertirsi in tempo e subordinare un mondo all’essere liberato, ma bisognoso”.
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piuttosto capacità costante di fissare per la propria esistenza una meta, e cioè capacità di reimmaginare per sé, ogni volta, un nuovo bisogno per darsi – di conseguenza – un progetto. Il bisogno è pertanto aspirazione a vivere una situazione di benessere, è appetito di completezza, di pienezza. Il bisogno di salute è tutto dentro questa accezione più generale di bisogno, secondo una visione del costrutto ‘salute’ come condizione di un individuo o di un gruppo che dipende solo in parte dalla capacità di alcune professionalità, con elevate competenze tecnico-sanitarie, di fronteggiare la malattia e la disabilità che ne consegue. In egual misura, se non superiore, la salute dipende dal contesto relazionale del soggetto. Se questo è in grado di offrire il necessario supporto, il malato può fronteggiare più efficacemente il suo stato e diventare esso stesso agente della possibilità di rinvenire risorse che gli consentano comunque, pur nello stato di malattia, di rimanere ancorato alla realtà, di interagire positivamente con gli altri e di conservare una capacità di prospettarsi in avanti, progettualmente. Zannini giustamente osserva che è molto importante sviluppare una cultura che consenta di comprendere l’importanza, ai fini di un intervento non strettamente ed esclusivamente medico sulla malattia, di “potenziare relazioni e situazioni che permettano ai soggetti di sviluppare emozioni positive, pur nei limiti dati dalle situazioni magari molto invalidanti”, affinché paradossalmente la malattia si converta in occasione per “migliorare la qualità del rapporto con se stessi, implementare o creare relazioni positive con gli altri”, affinché il soggetto incrementi “la capacità di far fronte alle situazioni (coping)” e sviluppi comunque “un senso di appartenenza, anche nei frangenti più difficili dell’esistenza”, quale è appunto quello che si verifica nella malattia (Zannini, 2003, p. 39). Nell’ottica della complessità, la salute è il risultato di elementi multidimensionali, su cui incidono fattori diretti, ma anche e soprattutto moltissimi fattori indiretti, ragion per cui altrettanto numerosi e interconnessi tra loro sono i livelli su cui poter intervenire per promuovere la salute e il benessere. La ricerca del mantenimento di uno stato di salute e il perseguimento del benessere appaiono relati non solo a caratteristiche individuali, ma anche al contesto ambientale e sociale in cui il soggetto vive2. La capacità di un individuo di far fronte adeguatamente, avendo potuto sviluppare le idonee competenze, a situazioni difficili e cambiamenti critici appare connessa all’ambiente in cui vive e alle risorse che è in grado di reperire in esso.Tale connessione soggetto-contesto è fortemente dinamica e bidirezionale. Ne deriva una definizione di benessere per la quale conta tanto la capacità del soggetto di individuare idonee strategie di adattamento all’ambiente quanto la capacità del soggetto di modificare intenzionalmente l’ambiente per renderlo adeguato a sé. Tale approccio, che potremmo definire ecologico, sottolinea come, in ragione della bilateralità dell’interazione individuo-ambiente, promuovere la salute significhi agire tanto sull’ambiente quanto sull’individuo3.
2 Sull’idea di malattia e di salute come costrutti storici si veda G. Corbellini, Breve storia delle idee di salute e malattia, Carocci, Roma 2004. 3 Nella Carta di Ottawa, presentata in occasione della 1° Conferenza Internazionale sulla Promozione della Salute, riunita a Ottawa il 21 novembre 1986, si tematizza questi aspetti precisando che: “La promozione della salute è il processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla. Per raggiungere uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, un individuo o un gruppo deve essere capace di identificare e realizzare le proprie aspirazioni, di soddisfare i propri bisogni, di cambiare l’ambiente circostante o di farvi fronte. La salute è quindi vista come una risorsa per la vita quotidiana, non è l’obiettivo del vivere. La salute è un concetto positivo che valorizza le risorse personali
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Si tratta di integrare nell’educazione alla salute, l’idea ben più attiva di promozione della salute. La salute è infatti il delicato equilibrio che l’individuo instaura con il proprio contesto vitale. “La salute e il benessere possono allora essere intesi, in un’ottica più marcatamente ermeneutica, come la capacità di vivere nel proprio ambiente, costruendo o implementando il proprio progetto di vita. E questo progetto non è altro che il potenziamento di sé, l’implementazione delle proprie capacità, quello che in letteratura viene chiamato empowerment. In questo senso, la salute è intesa come capacità di autodeterminazione e potenziamento di sé” (Zannini, 2003, p. 50). Possiamo dire che il focus pedagogico ed educativo è rivolto ad una sorta di “apprendimento del benessere” che, alla luce delle linee teoriche qui riassunte, si sostanzia nella formazione di un cittadino competente nel proprio quotidiano, rispetto a se stesso, agli altri, alle relazioni che struttura con gli altri e con i contesti di vita e di lavoro che lo vedono attore, in un’ottica di equilibrio. La competenza che deve scaturire da un apprendimento del benessere deve saper fare i conti con l’idea che l’esistenza di ognuno di noi è un continuum benessere-malessere e che perciò è necessario che ognuno lavori al miglioramento delle proprie condizioni di vita, tanto se è malato, quanto se sta bene, per compiere così un passaggio decisivo da un’ottica di prevenzione ad una, più propositiva e attiva di promozione. L’educazione alla salute è da intendersi perciò come attività di promozione dell’empowerment, in cui un soggetto diviene responsabile della qualità della sua vita anche e soprattutto in rapporto al suo contesto di appartenenza. Per sviluppare questo processo di empowerment è necessario indagare adeguatamente il bisogno di salute e sviluppare dei progetti formativi che partano da questo bisogno, lo facciano – ove necessario – evolvere, per consentire al soggetto di acquisire autonomia e capacità di far diventare i comportamenti, gli atteggiamenti, i significati, compatibili con una quotidiana condizione di benessere psico-fisico e sociale.
Dall’Analisi dei bisogni alla Mappatura dei bisogni Per cogliere il bisogno, poterlo comprendere, rendere produttivo e generativo di progettualità individuale e sociale, è necessario intraprendere un’azione di indagine che è propriamente indicata come Analisi dei bisogni. È oramai consolidato in ambito pedagogico indicare nell’analisi dei bisogni la fase iniziale fondamentale di ogni corretta ed efficace progettazione formativa. Costituisce il momento di valutazione ex-ante dei soggetti destinatari di un intervento educativo o formativo, propedeutico alla messa a punto di un percorso di apprendimento che sia per loro il più adeguato. La valutazione, in campo di ricerca pedagogica, ha subito nel tempo uno slittamente del focus attentivo, dal risultato finale di un processo di apprendimento verso il processo stesso e verso i contesti entro cui esso si realizza. Ciò ha significato il rivolgersi della valutazione verso alcune specifiche dimensioni del soggetto-formando, quali quella motivazionale, quella metacognitiva, quella emotivo-relazionale e sociale. Anche il senso del perché valutare subisce una sensibile trasformazione: più che strumento di controllo, assume quello di momento diagnostico e di presa di consapevolezza, ha valore formativo e diviene anche punto di partenza importante per la progettazione formativa e la ri-progettazione in corso d’opera, quan-
e sociali, come pure le capacità fisiche. Quindi la promozione della salute non è una responsabilità esclusiva del settore sanitario, ma va al di là degli stili di vita e punta al benessere”.
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do è valutazione in itinere. Peraltro l’atto di attribuzione di valore che la valutazione reca con sé è strettamente connesso al progetto per il quale la valutazione si realizza. Il progetto è la cornice che definisce la rilevanza o meno di taluni aspetti su talaltri, i criteri di lettura degli eventi rilevati. La valutazione formativa assume particolare senso quando è autovalutazione, ossia autoriflessione sulle proprie azioni, e soprattutto co-valutazione, ossia pratica sociale negoziata, trasparente e capace di sortire effetti. “La valutazione, intesa come pratica sociale negoziata, assume una curvatura fenomenologica molto interessante, in quanto pur essendo attenta all’efficacia e all’efficienza dei processi formativi, nel contempo guarda alle dinamiche intersoggettive di costruzione di senso” (Colazzo, 2008, p. 17), che si danno nell’estrinsecarsi dell’atto valutativo. Il senso di un’analisi dei bisogni si nutre dei significati propri dell’atto valutativo ex-ante ed è fortemente correlato all’accezione di bisogno a cui ci si vuole riferire e, conseguentemente, al valore e alla funzione che si vogliono assegnare ad un intervento educativo e formativo. In questo nostro lavoro, sulla base delle riflessioni esposte al paragrafo precedente, vogliamo considerare il bisogno come una risorsa, soggettivamente significativa e pedagogicamente rilevante: risorsa da interrogare ed interpretare e mettere in forma per giungere al progetto, che è esistenziale prima di tutto, e di conseguenza anche professionale e sociale. A partire da questa premessa l’analisi dei bisogni si configura come un processo volto non a trovare qualcosa che già c’è, piuttosto a cercare di far emergere il bisogno dall’opacità del desiderio, per restituirlo alla dimensione del reale, del realistico e del realizzabile, ossia alla dimensione del ‘possibile’, mediante un lavoro di articolazione del desiderio in discorso. Restituirlo alla dimensione del possibile significa far divenire il bisogno progetto (Boutinet, 2007): in ciò consiste l’attività di analisi dei bisogni a cui vogliamo riferirci. Ossia un’attività che nel mentre indaga i bisogni – che non sono degli oggetti direttamente rilevabili negli individui, né ad essi direttamente intelligibili, quanto piuttosto luoghi di senso alimentati dal desiderio –, in realtà li fa emergere, li mette in forma, li articola dall’inarticolato del desiderio, mediante un processo che è fondamentalmente interpretativo, di comprensione e di co-costruzione. Parliamo dunque di un’analisi dei bisogni di impronta fenomenologica, che si presenta aperta ed interattiva, che assume gli atteggiamenti propri dell’osservazione e dell’ascolto, “secondo una concezione partecipativa del processo valutativo che aspira a comprendere ed influenzare le strategie di costruzione dei significati dei soggetti” (Colazzo, 2008). Questo taglio prospettico con cui guardiamo all’analisi dei bisogni, in verità mette immediatamente in crisi proprio il termine ‘analisi’, il quale ha in sé un grumo di significati che poco si armonizzano con quelli di disvelamento, interpretazione e comprensione, concetti – questi ultimi – che il termine ‘analisi’ sembrerebbe persino espungere. Faremo pertanto uso del termine ‘mappatura’, che probabilmente meglio riesce a dare ragione di un lavoro che è prioritariamente un percorso di scoperta di tracce, di piccoli elementi da comporre in un disegno rappresentativo, dove acquista grande rilevanza la co-costruzione ermeneutica di letture soggettive ed oggettive situate, particolari, attente all’hic et nunc di tutti gli attori a vario titoli implicati nel processo stesso. Perché mappatura? La mappatura è un percorso di costruzione di una mappa; la mappa è una rappresentazione; rappresenta uno spazio, evidenziandone le relazioni esistenti tra i suoi elementi costitutivi, nonché le sue proprietà, o alcune di esse (laddove si vadano a realizzare delle mappe ‘tematiche’). Ricorrere al termine di ‘mappatura’ ci consente di tenere sempre ben chiaro il carattere ‘rappresentativo e interpretativo’ dell’azione di ricerca dei bisogni; la mappa non è il territorio, ne è piuttosto una sua rappresentazione e una sua interpretazione, perché nella mappa si decide di includere taluni elementi e di trascurarne talaltri.
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La ‘mappatura’ dei bisogni vale nel ‘qui ed ora’ della ricerca, nonché per l’intervento educativo e/o formativo per cui essa viene condotta; non può avere valenza di definitività e di esaustività rispetto alla realtà soggettiva, sociale, o organizzativa, esplorata; è il risultato – come abbiamo detto – di un lavoro ermeneutico condiviso, che pertanto può essere sempre rivisto, sempre modificato, ogni volta cambiato, perché è intrinsecamente aperto. Oggi, epoca di complessità e globalizzazione, i bisogni assumono un aspetto molto variegato, così come la loro messa a fuoco diviene sempre più difficile, in primo luogo perché sono venute meno le macro-categorie sociali, economiche e culturali entro cui prima era possibile racchiudere grandi porzioni di individui. La mappatura dei bisogni deve poter dare ragione di questo, deve poter riuscire a scandagliare i dettagli, individuare le emergenze specifiche di piccoli e piccolissimi gruppi, che appaiono fortemente contestualizzati e circoscritti entro un’area geografica molto definita, nella estrema dinamicità delle condizioni soggettive ed oggettive odierne che rendono gli stessi bisogni rapidamente mutevoli. Questo significa doversi mettere sulle tracce del bisogno, a livello ‘micro’, in quanto i bisogni non si esprimono in documenti ufficiali, né – spesso – sono chiaramente evidenti a coloro che ne sono portatori. Possiamo dire che a livello micro il bisogno va indovinato indiziariamente (Colazzo, 2008)4. Questo scenario, lungi dal rendere inutile e vana la mappatura dei bisogni, ne sottolinea piuttosto ed ancor più la sua necessità, non solo come fatto preliminare a qualunque attività e progetto che si pongano obiettivi formativi, ma soprattutto come attività da svolgersi costantemente e continuamente, in situazione, al fine di produrre continui ed aggiornati flussi di comunicazione-informazione-interazione, che debbono costituire humus per tutti gli attori sociali che vogliano porre in essere azioni che si inscrivono in un determinato contesto. L’aspetto cruciale su cui ci induce a riflettere lo scenario appena descritto è l’assoluta inadeguatezza di un approccio alla mappatura dei bisogni che la concepisca come mera funzione strumentale alla progettazione formativa; è necessario piuttosto che essa si configuri come ricerca qualitativa, ossia come ricerca che recupera la specificità e l’originalità dei soggetti e dei contesti, che è capace di ingaggiare con la realtà un dialogo volto a costruire ermeneuticamente chiavi di lettura, punti di ingresso per comprendere ed agire la realtà stessa, una ricerca che si confronta con temi complessi nella loro situazione naturale, che abilita la soggettività del ricercatore nei processi di costruzione dei significati della realtà con cui egli va a misurarsi. L’“oggetto” di studio, vale a dire soggetti specifici in contesti determinati, non è mai un puro oggetto, ma è soggetto interagente che concorre alla determinazione della lettura di sé, co-costruendola assieme al ricercatore-formatore. In quest’ottica la mappatura dei bisogni si configura essa stessa come vero e proprio momento formativo. La mappatura dei bisogni si caratterizza per una ‘postura metodologica’ che concerne la capacità di porsi in ascolto delle specificità e delle peculiarità della realtà da conoscere, delle trame di significati che essa possiede, la valorizzazione degli elementi caratterizzanti l’identità dei soggetti e dei contesti, la promozione della partecipazione e l’apertura alle sollecitazioni ed ai suggerimenti provenienti dal setting, senza preconcetti, senza modelli aprioristici da attuare.
4 Colazzo in particolare sostiene che “l’esperto della formazione dovrà avere familiarità con quel ‘paradigma indiziario’, figlio del pensiero abduttivo e della serendipità che Carlo Ginzburg indicava come essenziale nel campo delle discipline storiche […] potremmo dire che il bisogno formativo non si dà mai in termini espliciti, ma deve essere estrapolato attraverso un’attività di indagine di tipo indiziario, riuscendo ad andare oltre l’occultamento che in maniera, spesso inconsapevole, i soggetti compiono delle loro esigenze più profonde”.
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Rispetto ai bisogni essa non si riduce alla loro individuazione, ma si lega operativamente alla possibilità di aumentarne la consapevolezza nei soggetti di riferimento, in modo da poter progettare in modo partecipato il cambiamento (Lavanco, Novara, 2006, p. 117). La mappatura dei bisogni assume il valore di una metodologia “la cui sfida consiste nell’integrare dati strutturali e variabili più soggettive, come le rappresentazioni sociali, i modelli culturali e simbolici, le aspettative verso il futuro, i vissuti personali, che solo se messi in relazione danno significato alla realtà circostante” (Lavanco, Novara, 2006, p. 117). Ci pare che tutto ciò riesca ad essere sufficientemente compatibile con quella tensione di apertura che si vuole costantemente rimarcare come indispensabile connotato di un’azione educativa e formativa. Quell’aperto che è proprio dell’uomo, in quanto essere naturale e culturale allo stesso tempo: “è datità biologica, che determina la sua forma, così come succede per l’animale e la pianta; ma poi la natura dell’uomo è pure la sua disponibilità alla cultura, ossia il carattere aperto della sua forma: egli è l’essere che in tutta la sua esistenza si fa forma, diviene uomo attraverso un processo di progressiva umanizzazione” (Lavanco, Novara, 2006, p. 117). La formazione e le relazioni di cura sono un tassello importante del ‘farsi forma’ dell’uomo dentro una società, in una data cultura, per orientarlo e supportarlo nella sua ricerca del senso. “Educare ha senso per via del ‘bisogno di senso’ che l’uomo reca con sé. Prendere a cuore l’altro e contribuire in qualche misura al suo processo di formazione significa riconoscere importanza all’atto attraverso cui l’uomo si sottrae dall’essere determinato da mere istanze di sviluppo naturale, o da schemi di riproduzione sociale, che pure sono in ognuno di noi, per darsi un compito di sviluppo che significa diventare pienamente un soggetto, un’identità, una persona” (Lavanco, Novara, 2006, p. 117). Parlare di mappatura dei bisogni allora per gettare le basi di un agire pedagogico che vuol farsi pienamente carico della formatività5 che caratterizza ogni soggetto.
Metodi e strumenti adottati per la mappatura dei bisogni Condurre una mappatura dei bisogni, quale percorso valutativo-interpretativo capace di dialogare e raccogliere l’appetito di forma e di senso che ogni soggetto porta con sé, richiede l’uso di metodologie e di strumenti coerenti con i presupposti teorici e adeguati agli scopi che ci si prefigge. Un metodo che guarda al significato dei fenomeni studiati, in una tensione verso la comprensione e l’interpretazione di essi, come atto sociale e condiviso, è il cosiddetto metodo storico-clinico. Il metodo storico-clinico o storico-motivazionale è un precipuo metodo di ricerca il cui fulcro è la relazione osservatore-osservato, relazione che è al tempo stesso oggetto e metodo dell’osservazione condotta. È finalizzato a comprendere il significato di un dato comportamento, piuttosto che ad individuarne le cause; parte dall’osservazione di casi particolari da cui astrae un racconto tipico-ideale, secondo un processo di generalizzazione idiografica. Tutti questi aspetti del metodo retroagiscono coerentemente con i presupposti a fondamento della mappatura dei bisogni, che assume i caratteri di un processo storico-interpretativo, centrato su: interpretazione, soggettività e significato.
5 Sul concetto di formatività si veda R. Fadda, Sentieri della formazione. La formatività umana tra azione ed evento, Armando, Roma 2003.
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Esso è pertanto volto a rilevare le componenti: • epistemiche (idee, credenze, opinioni, vissuti, significati...), • intenzionali (volontà, desideri...), • emotive, • dell’agire umano, in riferimento ad uno specifico contesto. La soggettività si configura allo stesso tempo come oggetto e come fonte di conoscenza. In questa cornice teorica ed epistemologica, le interpretazioni autenticamente pedagogiche non sono causalistiche ma teleologiche, ossia seguono uno schema che non è di causa-effetto, bensì di fine-mezzo. Il metodo storico-clinico si avvale delle prassi linguistiche e discorsive (non solo verbali) come modalità di costruzione delle proprie comprensioni, basandosi: • sulla logica dell’interpretazione; • sull’assunto antropologico dell’uomo come essere datore di senso a sé e al mondo, come costruttore di significati e come comunicatore. Le narrazioni degli attori dello scenario di riferimento sono il luogo privilegiato entro cui il pedagogista ricerca, ponendosi in ascolto, in vista dell’obiettivo formativo e della esigenza di promuovere un cambiamento. Ciò comporterà a volte il tentare di far emergere una flebile voce, o aiutare a dar forma a qualcosa che ha contorni confusi e che non riesce propriamente a qualificarsi come una domanda di formazione. Quest’apporto previo del pedagogista è molto importante perché, consentendo al soggetto di trasformare un desiderio, un’intuizione di qualcosa, in un bisogno e quindi di conseguenza in una vera e propria domanda di formazione, egli realizza già formazione, aiuta il soggetto a costruire identità. Il metodo scientifico, ci avverte Bruner, non è l’unica strada per capire il mondo.Vi sono le interpretazioni narrative, le quali sono sì riferite a delle occasioni specifiche, ma allo stesso tempo possiedono valenze universali, e sono “essenziali per la vita di una cultura” (Bruner, 2001, p. 146). La narrazione è la specifica modalità umana attraverso cui si cerca e si dà forma e senso alle cose, a noi stessi, alle nostre quotidiane esperienze, alla nostra esistenza. La costruzione del significato non avviene – come afferma suggestivamente Bruner – “da un qualche apollineo sguardo da nessun luogo” ma è un venire implicati in modo costante e continuo in una cultura, con “tutto il contorno non razionale del fare significato che l’accompagna” (Bruner, 2001, p. 147). Ogni narrazione costruisce un ‘mondo possibile’. Esso può essere piuttosto aderente al mondo che tutti quanti noi quotidianamente esperiamo, ma può anche non esserlo, e dunque rappresentare un ‘mondo possibile’ che risponde a sue proprie leggi e regole. “Riuscire a sapere qual è il ‘mondo possibile’ all’interno del quale il narratore parla è uno dei principali compiti di chi ascolta, se vuole veramente capire. Una volta entrata in questo mondo, la persona cerca di ragionare in base a un principio di coerenza con le sue leggi e non con quelle che regnano in un altro mondo” (Smorti, 2007, p. 143). Bruner trova difficile distinguere nettamente la narrazione, come modalità di pensiero, dalla narrazione come ‘testo’ o discorso narrativo. Egli pertanto parla in modo indifferenziato della narrazione così come del pensiero narrativo. “Ciascuno dà forma all’altro, proprio come il pensiero diventa inestricabile dal linguaggio che lo esprime e che in seguito lo plasma” (Smorti, 2007, p. 147). Il narrare e il pensare per storie è una modalità specifica e a sé, assolutamente diversa tanto dalla logica induttiva, tanto da quella deduttiva. Quando costruiamo una storia – scrive Smorti – non soltanto diamo forma e senso agli eventi di quella storia, ma essa diviene una chiave di lettura di una classe di eventi e di situazioni che possano avere delle affinità con essa. Quella storia diviene in qualche modo emblematica e di riferimento per noi, costituisce un modello di mondo. Ciò avviene senza che valgano le regole del pensiero induttivo, il quale esige che io abbia cumulato “una quantità sufficiente di dati
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per poter formulare una legge”, ovvero del pensiero deduttivo, per cui dato un criterio generale vado a verificare se ciò che mi consta sia coerente o meno ad esso. Il pensiero narrativo “usa un tipo di logica mossa dall’esigenza di arrivare ad una rappresentazione il più possibile verosimile del mondo a partire dal minor numero possibile di esempi di questo mondo. Il pensiero narrativo si svolge nella vita quotidiana, dove è innanzitutto indispensabile fare delle scelte. E per poter fare una scelta non si può aspettare di poter ispezionare le complesse concatenazioni logiche di un ragionamento deduttivo, né raccogliere un campione di eventi statisticamente significativo” (Smorti, 2007, p. 145). Per cui intanto ci si fa un modello che possa permettere di scegliere: se il modello ha una sua coerenza e rende possibile operare scelte nella realtà viene mantenuto; se manifesta delle incongruenze rispetto ai suoi presupposti ovvero rispetto a nuovi eventi, a nuovi racconti, allora esso viene modificato. Di fronte alla narrazione si è chiamati ad interpretare. L’interpretazione caratterizza tout court il processo conoscitivo in generale, sia che esso sia scientifico o proprio delle ‘scienze umane’. Il narrare medesimo perciò è un conoscere. L’approccio biografico-narrativo consente – a nostro avviso, rispetto alla ricerca condotta – una maggiore coerenza tra metodo di indagine e ‘materia’ indagata e conseguentemente una maggiore aderenza ai significati di ‘bisogno’ e di ‘mappatura’ a cui ci siamo riferiti. Ancor più l’approccio biografico-narrativo diviene assolutamente interessante e proficuo, se impiegato in ambito di pedagogia della salute, così come noi abbiamo provato a fare con il caso di studio che qui presentiamo.
Narrazione e pedagogia della salute L’opzione metodologica operata nella nostra ricerca, è dunque a favore del metodo biografico-narrativo, confortati dal fatto che molta letteratura oramai ravvisa nei metodi di indagine di tipo qualitativo gli strumenti più idonei a ricomporre la complessità del fenomeno ‘salute’ e dunque a restituire ad esso la sua unitarietà. Gli approcci qualitativi permettono da un lato di “contestualizzare lo studio del benessere e di indagare i pattern di relazione fra benessere emozionale, parametri del contesto ambientale e sociale immediato e caratteristiche personali del soggetto” (Zani, Cicognani, 2000, p. 87); dall’altro sono molto efficaci nello scandagliare le rappresentazioni dei pazienti in ordine ai costrutti di benessere, malattia, cura, autopercezione di sé, fiducia/sfiducia, relazione medico-paziente, empowerment e senso di autoefficacia. Ciò è tanto vero che con riguardo proprio all’approccio biografico-narrativo, esso viene sempre più invocato, da quanti vogliono restituire alla medicina la sua capacità di guardare all’insieme, non solo come strumento di indagine e ricerca, ma anche come metodologia dei percorsi di formazione per operatori della salute e per pazienti, nonché – addirittura – come strategia di cura e terapia, a fianco dei protocolli più strettamenti sanitari, chirurgici e farmacologici. La narrazione consente di recuperare l’aspetto dialogico e relazionale dell’arte del guarire e per questo, da alcuni anni oramai, si fa strada, dall’interno della stessa medicina, un filone teorico e di ricerca che tenta di annettere questa importante dimensione all’interno della prassi medica. In effetti alla cosiddetta Evidence Based Medicine (EBM), ossia la medicina basata sull’evidenza e su prove scientifiche, può affiancarsi – e sono sempre di più coloro che lo auspicano, anche tra gli addetti ai lavori del mondo medico-sanitario – la cosiddetta Narrative Based Medicine (NBM), ossia una medicina basata sulla narrazione. Le narrazioni rappresentano il “risultato della costruzione da parte dei soggetti narranti
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di un complesso scenario coerente composto di eventi che sono indissolubilmente associati ad elementi affettivi, credenze personali, preferenze, conoscenze scientifiche, decisioni, azioni, e così via. Tale costruzione è sottesa dalla interpretazione, implicita o esplicita, cosciente o inconscia, degli accadimenti. Un medesimo insieme di eventi può essere ordinato temporalmente e strutturato logicamente in modi diversi da parte di diversi narratori coinvolti in modo diretto o indiretto negli accadimenti” (Giani, 2009, p. 49). Ciò significa aprire il processo diagnostico e terapeutico a pratiche innanzitutto di ascolto, di interpretazione e comprensione del paziente considerato nella sua totalità, nel suo essere un soggetto e non già la patologia di cui è portatore. La Narrative Based Medicine riabilita la globalità della persona e la complessità del suo stare bene o male, la multifattorialità delle cause e l’implicazione di elementi non solo organici ma anche sociali, psicologici e culturali nella dinamica salute/malattia, per guardare all’illness e non solo al desease6, su cui invece si concentra la medicina delle evidenze. Il concetto di illness e soprattutto quello di illness perception, ricentra la questione ‘malattia’, spostandola dal riduttivismo della sua identificazione con la mera patologia organica, verso uno sguardo sistemico-integrato al malato in tutte le sue dimensioni di vita. Con l’espressione Illness Perception si vuole indicare il sistema attraverso cui il paziente “organizza la narrazione personale della malattia, [quale] fattore fondamentale che sottende le sue decisioni ed azioni” (Giani, Garzillo, 2009, p. 29). La malattia è una condizione piuttosto articolata e complessa la cui rappresentazione si struttura mediante complessi processi di costruzione soggettiva e sociale di una trama di significati affettivi e cognitivi, entro i quali sono coinvolti ed impegnati tutti gli attori che a vario titolo sono implicati nei processi di cura. Per dare sufficientemente conto di questa dinamica di significazione, individuale e sociale insieme, appare assolutamente interessante ed opportuno integrare dati quantitativi con le narrative di malattia (Illness Narrative) del paziente, che permettono di esplorare proprio le trame di significati che egli attribuisce al suo ‘star male’ (Giani, Garzillo, 2009, p. 29). Secondo un approccio ecologico-sistemico alla salute, inoltre, la illness perception non riguarda esclusivamente il paziente, ma tutti gli attori del processo diagnostico-terapeutico e di cura, in quanto il modo attraverso cui essi percepiscono la malattia e i rischi delle complicanze connessi, influenzerà le strategie che metteranno in atto per affrontarli. Il processo decisionale in ambito medico-terapeutico è un fenomeno perciò complesso, in cui giocano un ruolo fondamentale non solo le dinamiche cognitive-razionali, ma anche quelle emotive. Le narrative di malattia (Illness Narrative, IN) costituiscono un caso particolare di narrazione e rappresentano il risultato di un processo emotivo-cognitivo mediante il quale il soggetto mette in forma e connette significati connessi alle sue emozioni e cognizioni in ordine ad un vissuto-esperienza di malattia. Tali trame di significati, organizzati narrativamente nel racconto del paziente, non sono soltanto di natura soggettiva, ma nel racconto individuale si innestano anche significati sociali, frutto di una stratificazione avvenuta nel corso del tempo in forma di tradizioni popolari, ovvero di ‘senso comune’ condiviso all’interno di specifici gruppi e/o comunità, una sorta di ‘corpus narrativo sociale’ che il soggetto utilizza pienamente, anche inconsapevol-
6 I due termini in inglese indicano entrambi la malattia, ma non sono sinonimi e dunque non sono equivalenti sotto il profilo del significato: mentre infatti il concetto di desease si riferisce alla malattia intesa come realtà organica, dunque come tutto ciò che pertiene e descrive la patologia come evento fisico, oggettivamente rilevabile, il concetto di illness rimanda invece a tutto ciò che ha a che fare con la percezione soggettiva del malatto rispetto a sé, alla propria condizione e alla risignificazione esistenziale che essa comporta.
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mente, per giungere a ‘scrivere’ la priopria illness narrative. In particolare le rappresentazioni sociali di cosa sia salute, malattia, benessere, influenzano in modo determinante le percezioni degli individui, le loro scelte, le loro opinioni, le loro pratiche sociali. Riguardo quest’ultimo aspetto ricordiamo che la ‘teoria delle rappresentazioni sociali’ tenta proprio di articolare quale sia il nesso tra fattori individuali e fattori sociali, nella costruzione di rappresentazioni che mediano costantemente le risposte comportamentali dei soggetti di fronte alle questioni quotidiane legate alla propria esistenza, comprese evidentemente quelle della salute. Questa teoria sottolinea in particolar modo “la natura sociale e collettiva della comprensione che le persone hanno di se stesse e del mondo, concentrandosi sulle concezioni condivise, sul modo in cui si sviluppano, sono comunicate, si modificano” (Zani, Cicognani, 2000, p. 69). Le rappresentazioni sociali sono una forma di ‘sapere pratico, l’elaborazione di un oggetto sociale da parte di una comunità, che permette ai suoi membri di comportarsi e di comunicare in modo comprensibile. Le rappresentazioni sociali costituiscono delle teorie ingenue, ossia forme di conoscenza tipiche del senso comune, profane; tuttavia esse organizzano il codice condiviso attraverso cui si realizza la comunicazione sociale e gli scambi interpersonali (Zani, Cicognani, 2000). Il fattore ‘rappresentazioni sociali’ costituisce un tassello importante nello studio del fenomeno salute e nella definzione di ipotesi pedagogiche di interpretazione e di intervento. La costruzione del racconto allora avviene mediante la connessione di una serie di entità e di relazioni sulla base di un lavoro intellettuale svolto dal narratore e in cui si inseriscono pure dinamiche sociali e psicologiche complesse che danno conto del contesto socio-relazionale e culturale in cui il soggetto narrante è immerso. Peraltro lo stesso evento viene narrato in forme e modi differenti dallo stesso soggetto a seconda dal tipo di interlocutore e di interlocutori che egli si troverà davanti. Possono esistere perciò numerose varianti di una stessa narrativa, “le quali si diffondono nella rete sociale dei narratori e viene ritrasmessa ad altre persone generando ulteriori versioni più o meno profondamente modificate.Tutto ciò si ripete per tutte le persone affette da un determinato tipo di patologia e per tutte le patologie in modo tale che gli episodi che costituiscono ciascuna narrativa sono narrati e rinarrati miriadi di volte contribuendo a formare concezioni sociali della salute e del malessere che differenziano in modo più o meno netto diverse comunità di individui” (Giani, 2009, p. 51). In tale logica si inscrivono anche le narrative che provengono dagli operatori sanitari, che pertanto non sono esenti – come dicevamo – da questo processo di costruzione e cocostruzione di significati attorno all’oggetto ‘salute’. Le narrative di malattia hanno elementi utili sotto il profilo epidemiologico ed offrono chiavi di lettura preziose per comprendere il significato che ciascun differente attore dei processi di cura attribuisce ad un evento di sofferenza e di malattia. Comprendere ed interpretare i significati profondi che una narrativa di malattia veicola è fondamentale in quanto sono questi gli elementi che vanno a supportare e a determinare nel paziente le sue spiegazioni del problema, le sue decisioni, le sue azioni, le sue scelte, la compliance e più in generale i suoi atteggiamenti verso se stesso e verso gli altri attori del processo di cura. Lo studio delle narrative di malattia non sono un semplice resoconto dell’esperienza di malattia, “bensì strutture concettuali complesse che [possono], fra l’altro, nascondere informazioni utili per lo sviluppo di un modello innovativo di epidemiologia bio-psico-sociale” (Giani, 2000, p. 5). Giani arriva a definire una dinamica delle illness narrative, che determinano sempre il momento e i modi attraverso cui il paziente andrà ad attivare un processo diagnostico-terapeutico. Parlando di ‘dinamica’ si sta evidentemente attribuendo un valore performativo alla narrazione, intesa come azione, come atto linguistico attraverso cui l’enunciante interagisce
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con il contesto modificandolo e modificandosi. Inizialmente il paziente avverte uno stato patologico di base che via via aumenta superando la soglia percettiva personale divenendo così una patologia di cui egli diviene cosciente. In questo momento la illness è divenuta anche desease. Laddove il malessere continui ad aumentare il paziente tende a rivolgersi alla cerchia più immediata delle sue relazioni, attivando un comportamento di richiesta d’aiuto nei confronti dei suoi familiari e degli amici più stretti. Ciò va a modificare il microsistema sociale a cui il paziente appartiene in quanto tutti i membri vengono variamente investiti e si fanno a vario titolo e modo carico della condizione di malessere di uno di loro. Questo microsistema sociale cerca di risolvere il problema attingendo alle sue conoscenze, provenienti dal senso comune, dalle tradizioni e dalle credenze popolari, nel tentativo di ripristinare l’equilibrio interrotto. Se le strategie messe in atto non funzionano allora il microsistema sociale spinge il malato a rivolgersi ad un soggetto più competente richiedendo un consiglio tecnico. In questo momento il malato si rivolge al medico, entrando così in un diverso e più ampio sistema relazionale e sociale. Il medico raccoglie la narrativa di malattia del paziente traducendola in una sorta di ‘narrativa’ tecnica, tentando di ricondurre ed inquadrare le parole del paziente all’interno di un vocabolario standard, medico, che gli possa consentire di descrivere tecnicamente la desease. Laddove il problema vada a coinvolgere altri professionisti e attori del processo di cura, verranno volta a volta, ad ogni passaggio, generate narrative e narrative di narrative in uno scambio dinamico e reciproco tra tutti gli attori del sistema. Ciascuno di essi produrrà la propria narrativa, estrapolando da quella che ha raccolto gli elementi che gli sono necessari, in ragione dei suoi obiettivi, della sua professionalità, della sua sensibilità, e da ciascuna di queste narrative soggettive scaturiranno i comportamenti degli attori medesimi. “Da questo punto di vista, il processo di cura può essere concepito come una dinamica di una rete di narrative (una per ciascun attore del processo di cura) che si influenzano reciprocamente” (Giani, 2009, p. 60). In quest’ottica è evidente che la relazione medico-paziente rappresenta solo uno dei momenti del complesso ‘sistema di narrative’ interagenti tra loro.
Il caso di studio: le Illness narrative dei pazienti IMID Presentiamo il lavoro di mappatura dei bisogni di salute condotto secondo la metodologia biografico-narrativa, mediante la raccolta e interpretazione delle Illness Narrative (IN) di un gruppo di pazienti affetti da disturbi infiammatori immunomediati (IMID - ImmunoMediate Infiammatory Disorder), in cura presso il reparto IMID dell’Ospedale di Campi Salentina (Lecce). Ho incontrato ciascun paziente singolarmente, in una stanzetta riservata dell’ospedale; abbiamo conversato per almeno mezz’ora/quarantacinque minuti; ho lasciato libero il paziente di raccontare la sua storia di malattia, intervenendo di tanto in tanto con degli input minimi, che potessero confortare l’interlocutore della mia attenzione ed interesse per la sua vicenda e allo stesso tempo per mantenere il racconto all’interno di alcuni macro-punti notevoli, che costituivano la griglia di riferimento che ho costruito in fase di definizione dell’ipotesi di mappatura dei loro bisogni, secondo le linee-guida e i criteri illustrati nel precedente capitolo. Lo strumento utilizzato è stato quello dell’intervista aperta in profondità. Ogni incontro è stato registrato su supporto digitale; successivamente ho proceduto alla trascrizione fedele di quanto raccontato dai pazienti. Ho incontrato 24 pazienti in cura
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presso il reparto ‘Centro IMID’ dell’Ospedale di Campi Salentina7. Ad ogni paziente ho assegnato un numero progressivo (nell’ordine cronologico con cui ho incontrato ed ascoltato ciascun paziente) e ciascuna loro storia è stata identificata dall’etichetta ‘paziente’ seguita dal numero progressivo assegnato a quel paziente. Delle 24 storie raccolte, ne ho utilizzato per gli scopi di ricerca e mappatura dei bisogni, 22, escludendone – in quanto non idonee allo scopo – due: quella del ‘paziente_03’ e quella del ‘paziente_22’. Il ‘paziente_03’ durante l’incontro si è mostrato quasi subito piuttosto riottoso a raccontarsi, ha eluso i miei feedback, andando subito a chiudere e troncare la conversazione, sottraendosi di fatto alla possibilità di narrare la sua condizione. Ho ritenuto di non forzare, in alcun modo, la situazione, assecondandolo e rispettando la sua posizione. La conversazione è durata pochi minuti. Il materiale è risultato insufficiente ai fini di questo lavoro. Il ‘paziente_22’ al contrario è stato subito molto disponibile, loquace, collaborativo; tuttavia si trattava di una persona appena arrivata al Centro IMID, erano ancora in corso le indagini e pertanto non conosceva ancora la diagnosi per i suoi disturbi; conseguentemente non aveva intrapreso ancora alcuna terapia. La condizione di tale paziente è risultata pertanto disomogenea rispetto a quella di tutti gli altri e dunque non integrabile nel gruppo costituente il caso di studio. Complessivamente il caso di studio risulta essere così composto: • Sesso: 19 F; 3 M • Provenienza: 18 Regione Puglia; 3 di altre regioni; 1 straniero • Dei 18 pugliesi: 11 sono della provincia di Lecce; 7 delle altre province. Dati raccolti: • registrazioni audio della durata complessiva di 12 h 37’ 05” • corpus testuale, risultato della trascrizione delle interviste, costituito da 54.123 parole, ossia 260.003 caratteri (spazi esclusi) Sul materiale narrativo è stato condotto un lavoro interpretativo che ha significato: • lettura delle narrative e individuazione delle dimensioni/nuclei tematici principali attorno a cui si presentano organizzate le narrative stesse; • scomposizione delle 22 narrative nelle dimensioni individuate e costruzione della griglia interpretativa. Output della ricerca: Griglia interpretativa. La complessità multidimensionale del caso di studio, conforta e supporta la scelta metodologica compiuta in ordine alla mappatura dei bisogni del gruppo di pazienti intervistati: solo l’approccio biografico-narrativo può consentire uno sguardo d’insieme, olistico, capace di indagare l’oggetto, nel nostro caso il bisogno di salute, riuscendo a scandagliarne gli aspetti costitutivi e allo stesso tempo a ricomporlo sinteticamente in quanto ‘fatto’ insieme individuale e sociale, concreto e situazionato. Solo così è possibile cogliere le peculiarità delle istanze soggettive e allo stesso modo come esse si inscrivono nel contesto di vita, nel sistema di relazioni intersoggettive di ciascuno e più ampiamente culturali e sociali, proprie del contesto di riferimento dei soggetti interpellati. Il gruppo di pazienti del caso di studio, sono tutti malati infiammatori cronici, che condividono analoghe vicissitudini di malattie: negli anni hanno sofferto di svariati e differenti sintomi e patologie, rispetto ai quali sono stati volta a volta curati dai diversi specialisti ri-
7 Il Centro IMID dell’Ospedale di Campi Salentina (Lecce, ASL/Le1) si occupa specificamente di Patologie Infiammatorie Croniche Immunomediate. Il responsabile del Centro è il dott. Mauro Minelli, immunologo clinico e allergolo, impegnato da anni nello studio e nella cura di queste problematiche e che qui ringrazio per avermi consentito di condurre questa ricerca.
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spetto alla singola patologia d’organo. Questo ha comportato per tutti lunghi pellegrinaggi in giro, per vari specialisti, senza poter mai risolvere veramente i loro problemi. Molti di loro, in questo percorso, finiscono quasi sempre da neurologi o in reparti ospedalieri psichiatrici e – tratto comune alla maggior parte degli intervistati – vengono curati per depressione. Quando infine arrivano al Centro IMID ricevono una diagnosi d tipo sistemico che riconduce le diverse patologie ad un’unica origine infiammatoria mediata da processi autoimmuni. Nel lavoro interpretativo delle narrative ho individuato alcuni nodi tematici attorno a quali tutti i racconti sono andati addensandosi. Si tratta di sette dimensioni, attraverso cui ho ‘spezzettato’ tutto il corpus testuale andando poi ad interpretare gli elementi emergenti per ognuna delle dimensioni, arrivando così a costruire una prima griglia interpretativa. Le dimensioni estrapolate perché ritenute significative sono: a. Disturbi: di questa dimensione fanno parte tutti quelli elementi della narrativa che danno conto della tipologia di disturbi così come li ha registrati e conosciuti il paziente, con i nomi da lui conosciuti (giusti o sbagliati che siano sotto il profilo tecnico-diagnostico), nell’ordine e nei modi che egli decide di darli. È il suo racconto dei sintomi e non già il referto di una cartella clinica; b. Immagine malattia: questa dimensione accoglie quanto il paziente racconta all’input, ricevuto durante la sua narrazione, di trovare una immagine da egli ritenuta embletica, particolarmente rappresentativa della sua condizione di malattia; c. Vissuto per dieta e cibo: dimensione riguardante tutti i vissuti, gli stati d’animo, i comportamenti, le convizioni e le credenze del paziente in ordine al significato assunto dal cibo, dopo aver avuto la diagnosi IMID e di conseguenza tutto ciò che egli collega alla pratica della dieta restrittiva che deve mettere in atto a fini terapeutici; d. Star bene: è la dimensione che accoglie come il paziente si esprime in ordine a cosa sia per lui star bene, quale significato assume per lui, cosa si aspetta rispetto alla sua condizione di salute; e. Rapporti personali e sociali: come la narrativa di malattia si organizza intorno al problema delle interazioni del paziente con i suoi familiari, il gruppo di amici, i colleghi di lavoro; quale potenziale di impatto ha, sul sistema delle relazioni del paziente, la sua malattia e/o la terapia nutrizionale; f. Fiducia/Sfiducia: attorno a questa dimensione si vanno a coagulare gli episodi riferiti dal paziente che in qualche modo hanno avuto o hanno un peso rilevante nella possibilità di nutrire fiducia nel medico o in se stessi rispetto alla possibilità di affrontare positivamente il percorso di malattia, la terapia conseguente e dunque di poter credere in un miglioramento; g. Cosa serve ai pazienti IMID: ogni paziente ha suggerito, auspicato, dal proprio punto di vista, quelli che debbano essere gli aiuti, i servizi, a supporto dei bisogni dei malati IMID al fine di poter sostenere il loro percorso di malattia e cura. La griglia interpretativa entro cui è stato scomposto e riorganizzato il corpus testuale delle narrative, mediante un loro attraversamento lungo le sette dimensioni su descritte, fa emergere in modo evidente la discrasia, nei soggetti coinvolti, tra le ambiguità e le contraddizioni che hanno vissuto e vivono nella loro condizione, e il sistema culturale di riferimento, sia sociale che medico-sanitario, deficitario nell’accogliere pienamente e integralmente la loro condizione di sofferenza, con significative ripercussioni nella quotidianità, in termini di concrete e oggettive difficoltà in ordine principalmente alla conduzione di un’esistenza integrata e di equilibrio tra tutti i fattori in gioco. 1. Riguardo alla dimensione “Disturbi” emerge chiaramente che le tipologie di sintomi sono piuttosto analoghe e ricorrenti ed anche la scansione temporale nell’arco esistenziale del paziente sono piuttosto raffrontabili e per gran parte sovrapponibili tra tutte le nar-
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rative raccolte. Fondamentalmente la comparsa dei sintomi è mediamente riscontrata nell’età adolescenziale, con un progressivo aggiungersi di disturbi via via crescenti e sempre più compromettenti le normali e semplici azioni quotidiane, soprattutto tra i venti e i trent’anni. Si verifica poi quasi sempre un momento di ‘crisi’ che viene a configurarsi come punto di non ritorno, nel senso che da quel momento in poi la situazione precipita e degenera per il malato, che è perciò costretto ad attenzionare ancor più che in passato l’insieme dei suoi problemi per tentare di trovare una via di risoluzione. Altro connotato comune delle narrative di malattia sono i frequenti e disperanti pellegrinaggi che i malati compiono per reparti di ospedale e specialisti di varia natura, senza che il tutto possa avere qualche funzione risolutiva. Come vedremo parlando della dimensione ‘fiducia/sfiducia’ questo costituisce un fattore che incide negativamente proprio sul senso di fiducia del paziente, soprattutto in se stesso e nelle sue possibilità di poter mai ritrovare, un giorno, un equilibrio. In tutti i racconti delle ‘odissee’ vissute per anni prima di approdare al Centro IMID emerge molto chiaramente che il momento in cui ciascuno di loro riceve la ‘diagnosi IMID’ rappresenta un vero e proprio momento di ‘rivelazione/insight’: essa assume infatti per il paziente una funzione di condensazione narrativa consentendogli una riorganizzazione della sua trama di racconto in ordine alla malattia e quindi una ridefinizione e rilettura della propria immagine/rappresentazione di malato. 2. Le immagini evocate dai pazienti (dimensione “Immagine malattia”) per rappresentare sinteticamente ed emblematicamente la loro malattia sembrano essere molto legate al disturbo principale di ciascun malato, ossia ciò che assume un ruolo preminente nel sistema delle sintomatologie di cui ciascuno è affetto. Dominano figure che fanno riferimento alla malattia in termini di ‘vuoto’, ‘assenza di senso’, al ‘sentirsi annientato’, ‘annullato’, ‘sensazione di essere nulla’; e ancora in modo molto affine, alcuni associano immagini di vecchiaia, di ‘pianta secca’, ossia figure che hanno a che fare con l’esistere in una condizione di assenza di vitalità, di energia; in un caso si fa espressa associazione alla morte; in due casi vengono usate le immagini di: ‘tunnel grigio senza uscita’ e ‘pozzo nero senza fondo’; in altri due casi vengono evocate figure di animali che starebbero nel corpo e lo scaverebbero (si tratta di due pazienti che in generale hanno sofferto di dolori artitrici e disfunzioni intestinali); due pazienti parlano infine della malattia come ‘inferno’ e uno di essi ci si vede dentro accanto al diavolo sulle fiamme. 3. La dimensione “Vissuto di dieta e cibo” è il perno delle narrative degli intervistati, ne è anche il nodo problematico, perché il passaggio alla terapia nutrizionale, dopo la diagnosi IMID, appare anch’esso caricarsi della valenza di un nuovo ‘punto-discrimine’ per la loro esistenza. È un fattore rilevante nel determinare la quotidianità del malato e la sua vita relazionale. Si evidenzia spesso una difficoltà, soprattutto di ordine emotivo, culturale e sociale nell’approcciare la dieta restrittiva legata alla difficoltà di risemantizzare il cibo, alla luce della diagnosi ricevuta e delle allergie e intolleranze riscontrate. Molti per paura di ritornare ad avere i sintomi provano repulsione per il cibo e quindi si attengono rigorosamente alla dieta, senza trasgressioni. Per altri invece non è facile sottrarsi alle tentazioni: riconoscono al cibo un valore importante, di soddisfazione, di socialità, di realizzazione; senza di esso comunque non sentono di vivere bene. Quella della dieta/cibo rappresenta una delle dimensioni più problematiche del fenomemo oggetto di studio, da cui è sicuramente necessario partire per andare poi ad allargare il raggio di azione di un possibile intervento pedagogico. Il nodo problematico sembra essere l’ambivalenza dei significati attorno al ‘cibo’, contemporaneamente ‘fonte di nutrimento’ e ‘fonte di intossicazione’. L’altra questione è che la terapia nutrizionale rende l’obiettivo di salute un vero e proprio compito per il soggetto: la sua salute dipende
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dalla sua partecipazione attiva e consapevole alla terapia, ed egli diviene il responsabile principale del successo della stessa e del suo mantenimento nel tempo. 5. A queste problematiche è legata anche la dimensione dello “Star bene”, condizione che per i pazienti ascoltati è influenzata dalla possibilità di poter o meno mangiare liberamente. In linea generale c’è la consapevolezza di non poter recuperare una condizione, diciamo così, originaria, ossia una condizione in cui si possa star bene e contemporaneamente mangiare tutto quello che si vuole. In quasi tutti vi è il senso della necessità della ricerca di un punto di equilibrio che riesca a tenere insieme tutte le varie istanze del soggetto, sia di salute che più in generale di realizzazione e soddisfazione personale, per non stare peggio, riuscire a tenere sotto controllo i sintomi, regolare i processi infiammatori. Questa prospettiva appare, in quasi tutte le narrative, una meta da raggiungere, sempre in fieri, piuttosto che un risultato già conquistato. L’incidenza della terapia nutrizionale e dei sintomi nella vita, nel quotidiano più minuto e semplice, fa sì che nella determinazione del senso di ‘star bene’ contribuiscano molti contingenti fattori, che investono – evidentemente – non solo la condizione ‘organica’, ma anche e soprattutto la percezione e valutazione soggettiva da parte del paziente della qualità della propria vita. Ciò anche in virtù del fatto – come già si è detto – che la terapia nutrizionale impone gioco-forza ai pazienti una ristrutturazione dell’esistenza, in tutti i rapporti sociali più significativi che la costituiscono (familiari, amicali, lavorativi). La percezione di sé può uscirne alterata, ragion per cui si rende necessario un lavoro di risignificazione del proprio tempo, del proprio menage quotidiano e di se stessi, che non sempre i pazienti sono in grado di porre in essere. 6. La dimensione “fiducia/sfiducia” rappresenta un punto sensibile, perché va ad incidere notevolmente su qualunque percorso si voglia porre in essere con questi pazienti, a cominciare proprio dalla terapia nutrizionale. Ecco perché un primissimo intervento volto al rafforzamento del senso di fiducia personale e dell’autoefficacia sarebbbe assolutamente necessario proprio per poter avere qualche possibilità di successo in sede di attuazione della terapia, visto e considerato che essa presenta le problematicità che abbiamo fin qui evidenziato. Il file rouge che attraversa i racconti è l’enorme sfiducia nei confronti dei medici e la disapprovazione per il loro modo di relazionarsi: molti pazienti denunciano il disagio e la frustazione che hanno ricavato costantemente dall’interazione con i medici, che è andato a sommarsi e ad appesantire la già difficile situazione di sofferenza e pessimismo legati alla malattia. Infine l’ultima dimensione (dimensione “Cosa serve ai pazienti IMID”) è una preziosa spia di ciò che i pazienti soggettivamente pensano sia loro necessario per star bene, seguire la terapia e vivere così la loro condizione nel modo migliore e più agevole possibile. Il dato più rilevante è che la maggior parte di loro usa termini come ‘ascolto’, ‘parola’, ‘confrontarsi’, ‘dialogo’, ‘informazione’ (un paziente ha detto ‘la parola aiuta’): ossia è molto chiaro il bisogno diffuso di parlare, raccontarsi, confrontarsi con chi condivide lo stesso problema, non sentirsi soli, abbandonati, senza punti di riferimento. A conforto di questo posso aggiungere che durante gli incontri ho sempre ricevuto dai pazienti molti ringraziamenti per ‘la bella chiaccherata’: mi hanno raccontato di essersi trovati bene, che la conversazione li aveva fatti stare bene e che avevano passato un bel momento; alcuni hanno espresso il desiderio di poter essere contattati ancora e di avere altre occasioni di quel tipo.
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Ipotesi di sviluppo Le osservazioni che possono condursi sulle implicazioni degli elementi raccolti rispecchiano pienamente la letteratura scientifica che abbiamo preso a fondamento del lavoro condotto, in ordine alle problematiche legate alla ‘salute’ e rispetto pure ai principali fattori di rischio che condizionano lo stato generale del soggetto, il suo modo di approcciare la malattia, le rappresentazioni che di essa è portatore, e soprattutto le chance di miglioramento e di efficacia della terapia, anche con riferimento al grado . In una prospettiva di sviluppo del lavoro, riteniamo necessario partire da questo ‘materiale’, altamente significativo e stimolante, e porre in essere un intervento pedagogico multidimensionale. Esso – a mio avviso – potrebbe configurarsi come una ricerca-intervento attraverso cui istituire un ‘Gruppo di Promozione del Benessere’ in cui coinvolgere i pazienti IMID. Nel Gruppo, attraverso la narratività e l’uso di focus group tematici, si potrebbe lavorare insieme a loro ai significati nodali qui emersi, al fine di disegnare dei percorsi condivisi di sviluppo dell’affettività, delle competenze relazionali e contestuali, dell’empowerment e del senso di autoefficacia. La multidimensionalità della questione ‘salute’ richiede necessariamente uno sguardo complesso: nel caso di studio illustrato si è fatto uno zoom su di una delle parti in gioco: i pazienti, ma sarebbe importante che la ricerca potesse spingersi a considerare gli altri momenti e gli altri soggetti dello scenario di riferimento, pertanto medici, familiari dei malati, contesto sociale di appartenenza, organizzazione sanitaria referente, considerata, quest’ultima, non solo evidentemente sotto gli aspetti strettamente medici, ma anche e necessariamente nella sua dimensione organizzativa, burocratica e delle culture e sub-culture che la animano. L’obiettivo pedagogico è quello di realizzare un percorso verso il benessere, che possa configurarsi come il tentativo di costruire, a partire dalle storie di ciascun attore, e attraverso la relazione educativa, una narrazione comune e condivisa, nella processualità del dialogo. Riferimenti bibliografici Boutinet J. P. (2007). Anthropologie du projet. Paris: Puf. Bruner J. (2001). L’interpretazione narrativa della realtà. In Id., La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola (pp. 145-164). Milano: Feltrinelli. Colazzo S. (2008). Valutazione. In Id. (a cura di), Progettazione e valutazione dell’intervento formativo. Milano: McGraw-Hill. Corbellini G. (2004). Breve storia delle idee di salute e malattia Roma: Carocci. Fadda R. (2003). Sentieri della formazione. La formatività umana tra azione ed evento. Roma: Armando. Giani U. (2009). Le traiettorie del malessere: modello multi metodologico per l’analisi delle narrative di malattia. In Id. (a cura di). Narrative Based Medicine e complessità (pp. 47-78). Napoli: Scriptaweb. Giani U. (2009). Prefazione.Verso un modello complesso della Medicina. In U. Giani (a cura di). Narrative Based Medicine e complessità. Napoli: Scriptaweb. Giani U., Garzillo C. (2009). Percezione della malattia e del rischio. In U. Giani (a cura di). Narrative based medicine e complessità (pp. 29-45). Napoli: ScriptaWeb. Lavanco G., Novara C. (2006). Elementi di psicologia di comunità. Dalla teoria all’intervento. Milano: McGraw-Hill. Lévinas E. (1977). Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità. Milano: Jaca Book. Monasta A. (1998). L’analisi dei bisogni. In Id. (a cura di). Mestiere: progettista di formazione (pp. 3039). Roma: Carocci. Smorti A. (2007). Narrazioni. Cultura, memorie, formazione del Sé. Firenze: Giunti. Zani B., Cicognani E. (2000). Psicologia della salute. Bologna: Il Mulino. Zannini L. (2003). Salute, malattia e cura.Teorie e percorsi di clinica della formazione per gli operatori sanitari. Milano: Franco Angeli.
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ricerche L’insegnamento della geometria nella scuola secondaria di I grado Contributi di una ricerca Geometry teaching in secondary school (first grade) ANTONIO MARZANO • ARCISIO BRUNETTI Ad Arcisio, la cui prematura scomparsa ci priva della gioia di poter vivere insieme questa pubblicazione
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Dall’analisi dei risultati delle indagini nazionali e internazionali (Invalsi, Timms, Ocse-Pisa) sulle competenze degli studenti italiani in matematica emergono diverse criticità. In particolare è stato evidenziato come gli studenti non sono in grado di utilizzare le abilità apprese in contesti meno strutturati. Alla luce di queste risultanze da più parti viene richiamata la necessità di rivedere le metodologie di insegnamento puntando su percorsi didattici orientati alla costruzione di significati degli oggetti geometrici attraverso attività laboratoriali basate sulla ricerca e sull’apprendimento collaborativo. Il contributo espone i risultati di una sperimentazione condotta nella scuola secondaria di I grado con lo scopo di valutare l’efficacia di un percorso di didattica dei triangoli basato sulla teoria di van Hiele e utilizzando un software di geometria dinamica come strumento di insegnamento-apprendimento.
The results of national and international researches (Invalsi, Timms, Ocse-Pisa) about Italian students competences in maths, show several problems. In particular they found that students cant’t use their abilities in less structured contests. They think it is necessary to check teaching methodologies and head for didactic course based on the meaning construction of geometric objects through research and cooperative learning laboratories. This work contains the results of a research made in a scuola media. The goal of this research is to evaluate the efficacy of a didactic course of triangles based on van Hiele theory using a dynamic geometry software as teaching-learning tool.
Parole chiave: triangoli, geometria dinamica, teoria di van Hiele, pensiero geometrico, risoluzione di problemi.
Key words: triangle, dynamic geometry, van Hiele theory, geometrical thinking, problem solving.
Antonio Marzano, professore a contratto, Università degli Studi di Salerno. Arcisio Brunetti, professore di matematica, scuola secondaria di I grado.
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Presentazione, obiettivi e ipotesi La problematicità legata alla didattica delle discipline è di natura duplice: va individuata, da una parte, nella trasformazione dello statuto epistemologico di ogni singola materia di studio (fenomeno che nella società complessa dell’innovazione scientifica e tecnologica è ancora più rapido) e, dall’altra, nelle difficoltà che i docenti possono incontrare nel predisporre itinerari didattici validi ed efficaci per la co-costruzione dei saperi e lo sviluppo delle specifiche competenze disciplinari. In tal senso anche l’insegnamento della geometria si trova a dover fronteggiare questi nodi problematici e gli esiti non sono incoraggianti. Dall’analisi dei risultati delle indagini nazionali e internazionali (Invalsi,Timms, Ocse-Pisa), infatti, emergono aspetti di forte criticità: nella sostanza e in sintesi, gli studenti non sono in grado di applicare le abilità apprese a scuola in un contesto meno strutturato. La lacuna riguarda il modo di pensare ed analizzare secondo, come aveva espresso Pascal, l’esprit de géométrie. In Italia, d’altra parte, sono ben note le difficoltà che incontrano gli studenti delle scuole secondarie di secondo grado nell’affrontare lo studio della geometria, ed in modo particolare nella dimostrazione dei teoremi.Tali difficoltà sono spesso dovute alla mancanza di adeguate esperienze nella manipolazione e nell’esplorazione di figure geometriche nel corso degli studi precedenti. Queste di attività sono indispensabili per far progredire gli allievi nella capacità di osservazione e di analisi. Gli studenti ricevono definizioni e spiegazioni preconfezionate e non sono stimolati a formulare congetture. Frequentemente le figure rappresentate creano dei misconcetti poiché hanno sempre una orientazione standard. Va poi aggiunto come la costruzione di figure geometriche con riga e compasso viene spesso evitata o ridotta al minimo dagli insegnanti, sia perché queste attività portano via molto tempo, sia perché le figure ottenute risultano il più delle volte poco accurate. Individuare metodologie didattiche più efficaci diventa, dunque, un’operazione cruciale oltre che significativa. In questa prospettiva la teoria sullo sviluppo del pensiero geometrico di Van Hiele1 e le critiche sollevate da Fuys, Geddes e Tischler2 nei confronti delle metodologie e dei contenuti dei libri di testo di geometria adottati nelle scuole, risultano in gran parte attuali ancora oggi. Questi autori concordano nel ritenere necessario modificare le attività e i relativi materiali presentati nei libri di testo
1 Dina van Hiele-Geldof e Pierre M. van Hiele presentano per la prima volta la teoria sullo sviluppo del pensiero geometrico nel 1957 con la dissertazione di dottorato De problematick van het inzicht gedmonstreed van het inzicht van schodkindren in meetkundeleerstof (Unpublished doctoral dissertation) all’Università di Utrecht. Segue un’intensa attività testimoniata da numerosi articoli accademici tra i quali si ricordano: (1958), A method of initiation into geometry at secondary schools. In H. Freudenthal (Ed.), Report on methods of initiation into geometry (pp. 67–80). Groningen,The Netherlands: J. B.Wolters; (1959), Development and the learning process. Acta Paedogogica Ultrajectina (pp. 1-31); (1973), Begrip en inzicht. Purmerend, The Netherlands: Muusses; (1980), Levels of thinking, how to meet them. how to avoid them. Paper presented at the presession meeting of the Special Interest Group for Research in Mathematics Education, National Council of Teachers of Mathematics, Seattle, WA.; (1984), A child’s thought and geometry. In D. Fuys, D. Geddes, & R.Tischler (Eds.), English translation of selected writings of Dina van Hiele-Geldof and P. M. van Hiele (pp. 243-252). Brooklyn: Brooklyn College; (1987), Finding levels in geometry by using the levels in arithmetic. Paper presented at the Conference on Learning and Teaching Geometry, Syracuse University, Syracuse, NY. Pierre M. van Hiele pubblicherà la sua opera fondamentale Structure and Insight: A Theory of Mathematics Education (Academic Press, New York) nel 1986. 2 Fuys D., Geddes D., Tischler R., (1984), English translations of selected writings of Dina van Hiele-Geldof and Pierre M. van Hiele, School of Education, Brooklyn College, New York. Successivamente, Fuys, Geddes e Tischler ribadiranno le loro critiche nell’articolo: The van Hiele model of thinking in geometry among adolescents,in Journal for Research in Mathematics Education Monographs n. 3, NCTM, Reston, USA, 1988.
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per favorire negli studenti lo sviluppo di processi cognitivi quali la capacità di adattare le proprie conoscenze a nuove situazioni e la risoluzione di problemi in contesti nuovi e inconsueti. Tenuto conto di queste premesse, il presente contributo espone i risultati di una sperimentazione condotta su allievi del primo anno di scuola secondaria di primo grado con lo scopo (hp) di verificare e valutare l’efficacia di un percorso di didattica dei triangoli mediante una serie di applicativi progettati, implementati e sviluppati da Arcisio Brunetti3, coautore del presente contributo, utilizzando l’ambiente di sviluppo open source Geogebra4 e seguendo un itinerario che ha avuto come base di riferimento le cinque fasi di apprendimento della teoria di van Hiele. Dopo aver illustrato brevemente il quadro di riferimento teorico e il software utilizzato, verranno descritte le diverse fasi della sperimentazione, alcune delle attività realizzate con gli alunni appartenenti al gruppo sperimentale ed i risultati ottenuti.
Il punto di partenza Una teoria che si è dimostrata particolarmente efficace nella progettazione di itinerari didattici in geometria è quella strutturata e sviluppata dei coniugi olandesi P.M van Hiele e Dina van Hiele-Geldof tra il 1957 e il 19865. Questa teoria ha motivato importanti ricerche, prima in Unione Sovietica e successivamente negli Stati Uniti, che hanno indotto numerosi cambiamenti nel curricolo di geometria adottato nei due Paesi. Secondo tale teoria lo sviluppo del pensiero geometrico degli studenti procede in modo progressivo attraverso livelli di pensiero e dipende più dall’esperienza maturata dallo studente su un determinato argomento piuttosto che dall’età o dalla maturazione biologica dello stesso (in questo senso, la teoria si discosta da quella di Piaget): le esperienze scolastiche progettate dall’insegnante sono quindi di fondamentale importanza per far progredire lo studente da un livello inferiore a quello successivo. Il modello di van Hiele6 si caratterizza essenzialmente per tre aspetti: l’esistenza di livelli di pensiero, le proprietà dei livelli e la progressione da un livello di pensiero al successivo. Van Hiele distingue cinque livelli di pensiero nella comprensione dei concetti geometrici da parte degli studenti le cui caratteristiche possono essere così descritte: • Livello 0 (Visualizzazione): Gli allievi percepiscono le figure geometriche in base al loro aspetto globale. Essi riconoscono triangoli, quadrati, rettangoli, eccetera, in base alla loro forma, ma non riescono ad individuare espressamente le proprietà di queste figure o le relazioni che intercorrono fra le varie parti che compongono la figura stessa. • Livello 1 (Analisi): Gli allievi possono analizzare le figure geometriche (anche se in modo
3 Le versioni shareware sono scaricabili dal sito: www.arcisio.com. 4 Geogebra è un software libero per l’apprendimento e l’insegnamento della matematica (www.geogebra.org/cms/). Il nome deriva da “GEOmetria e alGEBRA”. È stato sviluppato da Markus Hohenwarter presso la Florida Atlantic University per la didattica della matematica nella scuola. 5 van Hiele Pierre M., (1986), Structure and Insight: A Theory of Mathematics Education, Academic Press, New York. 6 La teoria sullo sviluppo del pensiero geometrico, è stata seguita da successivi arrangiamenti. A tal riguardo, si suggerisce: Clements D. H., Battista M.T., (1992), Geometry and spatial reasoning, in Handbook of research on mathematics teaching and learning, Macmillan, New York, pp. 420-464.
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informale), classificarle, individuare le principali proprietà ed utilizzare l’opportuna terminologia per descriverle, ma non sono in grado di collegare tra loro figure e proprietà. • Livello 2 (Deduzione informale): Lo studente espone in modo logico le proprietà delle figure, è in grado di fare brevi catene di deduzioni, di formulare definizioni ed è capace di stabilire se una determinata proprietà è condizione necessaria e/o sufficiente per classificare una figura geometrica. • Livello 3 (Deduzione formale): Lo studente può sviluppare sequenze logiche di deduzioni più lunghe, comprende il significato e il ruolo dei postulati, degli assiomi, dei teoremi e delle dimostrazioni. • Livello 4 (Rigore): Gli studenti possono lavorare in diversi sistemi assiomatici, cioè possono studiare le geometrie non euclidee e confrontarle. Circa le proprietà di ciascun livello,Van Hiele identifica alcune criteri qualitativi strutturati in maniera gerarchica e che Usiskin7 ha sintetizzato nel modo seguente: • Ordine fisso: gli studenti progrediscono attraverso i vari livelli secondo un ordine fisso; in altre parole, uno studente non può trovarsi al livello n senza aver superato prima il livello n-1. • Adiacenza: ad ogni livello di pensiero ciò che era intrinseco nel precedente livello diviene estrinseco nel livello corrente. • Distinzione: ogni livello ha i propri simboli linguistici ed una propria rete di relazioni che collega questi simboli; una relazione che è “corretta” ad un livello può rivelarsi non corretta ad un altro livello. • Separazione: due persone che ragionano a diversi livelli non possono comprendersi l’un l’altro. Questo è quello che spesso accade fra insegnante e studente. Nessuno dei due riesce a seguire il pensiero dell’altro e il loro dialogo può procedere solo se l’insegnante riesce a formarsi un’idea del pensiero dello studente e a conformarsi ad esso. Van Hiele afferma che il passaggio da un livello al successivo deve essere realizzato dagli alunni stessi e che la funzione dell’insegnante è quella di progettare attività che favoriscono questa transizione. Van Hiele ha individuato cinque fasi progressive di apprendimento per guidare l’alunno ad un più alto livello di pensiero di cui tener conto in sede di progettazione delle attività didattiche. Nello specifico: • Fase 1 – Informazione: lo studente inizia ad avere un primo contatto con gli oggetti di studio, sia attraverso il materiale che gli viene fornito, sia attraverso la discussione con l’insegnante e con i compagni. In questa fase l’insegnante si renderà conto delle conoscenze possedute degli studenti sull’argomento, del loro livello di apprendimento, di eventuali misconcetti, ecc. • Fase 2 – Orientazione rigida: lo studente inizia ad esplorare l’oggetto di studio per mezzo di attività opportunamente predisposte dall’insegnante. Il materiale è selezionato in modo che le strutture caratteristiche gli appaiano in modo graduale. Le attività consistono in compiti facili e brevi che richiedono risposte specifiche.
7 Cfr. Usiskin Z., (1982), Van Hiele levels and achievement in secondary school geometry, Final report of the cognitive development and achievement in secondary school geometry Project, University of Chicago, Department of Education.
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• Fase 3 – Esplicitazione: le esperienze acquisite sono collegate ad esatti simboli linguistici e gli studenti imparano ad esprimere le loro opinioni sulle strutture osservate durante le attività e le discussioni in classe. L’insegnante deve avere cura che durante queste discussioni venga utilizzato il linguaggio naturale. È durante questa fase che il sistema di relazioni è parzialmente formato. • Fase 4 – Orientazione libera: gli studenti applicano le conoscenze acquisite in nuove investigazioni, possibilmente per mezzo di compiti che possono essere portati a termine in modo differente. • Fase 5 – Integrazione: lo studente ha orientato se stesso, ma deve ancora acquisire una panoramica di tutti i metodi che sono a sua disposizione. Così egli cerca di condensare in un unico complesso il dominio che ha esplorato il suo pensiero. A questo punto l’insegnante può (aiutare) accelerare questo lavoro fornendo una veduta di insieme. È importante che questo quadro d’insieme non presenti nulla di nuovo per lo studente; esso deve solo essere una ricapitolazione di quello che lo studente già conosce. Durante le transizioni van Hiele considera la discussione la parte più importante del processo di insegnamento-apprendimento. In particolare nella fase di esplicitazione l’insegnante ha il ruolo di guida nel senso che inserisce la discussione nel flusso dell’attività della classe e ne influenza lo sviluppo attraverso interventi mirati allo scopo di socializzare e valutare collettivamente le strategie usate dai singoli allievi nella soluzione di un problema e costruire (quando è possibile) una o più rappresentazioni e soluzioni condivise da tutta la classe8. Circa i software di geometria dinamica (DGS: Dynamic Geometry Software), la loro comparsa è avvenuta negli anni ’80, rivitalizzando l’insegnamento della geometria e suscitando l’attenzione di molti ricercatori in tutto il mondo sul ruolo svolto da questi ambienti applicativi nei processi di insegnamento-apprendimento della geometria. L’importanza di una rappresentazione dinamica delle figure veniva d’altronde sottolineata già negli Orientamenti per la lettura dei contenuti dei “Nuovi programmi per la scuola media” del 1979: “Lo studio della geometria trarrà vantaggio da una presentazione non statica delle figure, che ne renda evidenti le proprietà nell’atto del loro modificarsi”. I DSG, quali ad esempio Cabri, Geometer’s Sketcpad, Cindirella, permettono di costruire sullo schermo del computer enti geometrici in modo rapido e preciso con azioni molto vicine a quelle utilizzate nell’ambiente “carta e matita”. Una volta create, queste figure, possono essere modificate dinamicamente con l’aiuto del mouse trascinando gli elementi base. In questo modo è possibile far assumere alla figura un’infinità di posizioni e configurazioni differenti, mentre le proprietà e le relazioni imposte al momento della costruzione si conservano quando la figura viene modificata. Come afferma Emma Castelnuovo, anche “la costruzione di una figura con riga e compasso vincola la libertà di pensiero per il fatto che porta a considerare solo un numero finito di casi: il disegno, per la sua staticità, non stimola l’osservazione e non può quindi condurre a fare scoperte” (Castelnuovo E., 2009). Queste attività contribuiscono a sviluppare un processo di apprendimento per scoperta: gli allievi, infatti, possono osservare ed esplorare la figura e le sue proprietà, formulare congetture e ricevere un feedback immediato alle loro ipotesi. In questo modo, secondo Clements9 e in coerenza con quanto affermato da van Hiele, la manipolazione dinamica aiuta
8 Cfr. Bartolini Bussi M.G., Boni M., Ferri F., (1995), Interazione sociale e conoscenza a scuola: la discussione matematica, Rapporto tecnico n.21 NRD di Modena, Comune di Modena. 9 Clements D. H., Battista M.T., Sarama J., Swaminathan S., (1997), Development of students’ spatial thinking in a unit on geometric motions and area, in The Elementary School Journal, 98 (2), pp. 171-186.
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gli studenti a transitare dal livello della visualizzazione a quello dell’analisi. Queste attività, quindi, contribuiscono allo sviluppo del pensiero matematico facilitando e mettendo in grado gli studenti di procedere ad un livello superiore. Come già anticipato in premessa, ci si è serviti dell’ambiente di sviluppo Geogebra mediante il quale sono stati progettati, implementati e sviluppati tutti gli applicativi utilizzati per la sperimentazione che viene presentata in questo contributo. Una delle funzioni più importanti dei DGS, per le implicazioni cognitive che comporta, è il dragging (trascinamento di un oggetto con il mouse). Olivero e Arzarello10 descrivono le differenti modalità di dragging osservate nel corso di sperimentazioni condotte con diversi studenti frequentanti la scuola secondaria di II grado: • Wandering dragging: trascinare a caso i componenti della figura, per scoprire eventuali regolarità, invarianti, proprietà. • Bound dragging: trascinare un punto che è già vincolato a un oggetto. • Guided dragging: trascinare i punti base della figura per darle una particolare forma. • Lieu muet dragging: trascinare un punto della figura lungo una traiettoria privilegiata (lieu muet = percorso silenzioso), costruita empiricamente mediante l’interazione percettiva tra figure sullo schermo e movimenti del mouse, in modo da conservare una certa proprietà o regolarità. • Line dragging: segnare i punti che mantengono una proprietà della figura; (con il line dragging il lieu muet diventa esplicito a livello visivo). • Linked dragging: vincolare un punto a un oggetto (ad esempio quello del line dragging, ove possibile) muovendo poi il punto sull’oggetto. • Dragging test: è la prova del trascinamento effettuata per vedere se la figura disegnata mantiene quelle proprietà geometriche che le si volevano attribuire (se ciò avviene la figura supera il test, altrimenti la figura non è stata costruita secondo le proprietà che le si volevano attribuire).
La descrizione della ricerca L’indagine ha coinvolto quattro classi del primo anno della scuola secondaria di primo grado “S. Penna” di Battipaglia per un totale di 80 alunni11. Due classi (il Gruppo di Controllo, GC), per complessivi 40 alunni, hanno seguito il percorso tradizionale con lezioni frontali e attività con “carta e matita”, mentre due classi (il Gruppo Sperimentale, GS), per un totale di 40 alunni, sono state impegnate in attività di esplorazione di figure dinamiche mediante gli applicativi all’uopo sviluppati seguendo un itinerario che ha avuto come base di riferimento la teoria di van Hiele.
10 Olivero F. (1999), Cabri-géomètre as a mediator in the process of transition to proofs in open geometric situations. In: W. Maull & J. Sharp (eds), Proceedings of the 4th International Conference on Technology in Mathematics Teaching, University of Plymouth, UK; Arzarello, Olivero, Paola, Robutti (2002), A cognitive analysis of dragging practices in Cabri environments, ZDM 2002,34(3). 11 Non potendo procedere al campionamento dei soggetti, siamo ricorsi ad un disegno quasi-sperimentale con gruppo di controllo non equivalente. “La parola quasi significa come se o in un certo grado. Così, un quasiesperimento assomiglia ad un esperimento, ma manca almeno di una caratteristica che può renderlo tale: se in un vero esperimento è possibile assegnare i soggetti alle condizioni sperimentali, in un quasi-esperimento i soggetti da assegnare alle diverse condizioni sono selezionati da gruppi già esistenti” (McBurney D. H., 2001, Metodologia della ricerca in psicologia, Il Mulino, Bologna, p.319).
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La sperimentazione, svolta nei mesi di marzo e aprile del 2009 e per una durata complessiva di 20 ore, si è concentrata sui primi tre livelli di van Hiele (visualizzazione, analisi, deduzione informale), che sono quelli più pertinenti per alunni di questa età (11-12 anni), ed è stata articolata in tre fasi. La prima fase ha avuto lo scopo di investigare e verificare le conoscenze possedute dagli alunni sui triangoli, attraverso la somministrazione di test diagnostici e la susseguente discussione in classe. Successivamente gli allievi sono stati impegnati in attività di esplorazione di figure geometriche dinamiche realizzate utilizzando l’ambiente di sviluppo Geogebra. Infine sono state somministrate delle prove per verificare il livello di analisi di figure geometriche raggiunto e la capacità di argomentare circa la risposta fornita e/o la strategia adottata. Entriamo nello specifico. La prima fase, si è detto, ha avuto lo scopo di accertare le conoscenze possedute sull’argomento dagli allievi. A tal fine è stato somministrato un test appositamente predisposto per verificare la situazione di partenza dei due gruppi. Le risposte degli studenti sono state successivamente oggetto di discussione in classe per stimolare negli allievi osservazioni ed interrogativi. In questo modo si è potuto rilevare la presenza di misconcetti e il vocabolario utilizzato alfine di chiarire il significato di alcuni termini e di introdurne di nuovi. Nella tabella 1 si riportano i risultati dell’analisi descrittiva. L’elaborazione dei dati è stata effettuata considerando i punteggi conseguiti nell’area delle conoscenze (ACn, 9 sub-item per l’accertamento delle conoscenze) e nell’area delle competenze (ACp, 13 sub-item per l’accertamento dei livelli di competenza posseduti).
ACn al pre-test ACp al pre-test
GS Media Dev 6,15 1,46 0,75 1,13
GC Media Dev 6,03 1,23 0,68 1,29
Tab. 1
Tenuto conto della numerosità ridotta del campione coinvolto, inoltre, si è ritenuto opportuno, per la verifica delle ipotesi della ricerca, utilizzare il test non parametrico di MannWhitney per il confronto dei due campioni (tabb. 2 e 3).
ACn ACp
GS GC GS GC
Media dei ranghi 41,00 40,00 42,58 38,42
Somma dei ranghi 1640,00 1600,00 1703,00 1537,00
Tab. 2 Pre-test Mann-Whitney U p
ACn 780,00 0,844
Tab. 3
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ACp 717,00 0,351
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Da un punto di vista statistico, l’analisi della situazione di partenza non ha evidenziato sostanziali differenze fra i due gruppi. Questi risultano equivalenti, con una leggera migliore prestazione complessiva (tab. 1) degli alunni del gruppo sperimentale. Circa il controllo delle prestazioni per genere, inoltre, non si sono rilevate differenze statisticamente significative tra maschi e femmine. Va sottolineato, inoltre, come il test iniziale abbia evidenziato in tutti i soggetti coinvolti ampie carenze relative da un lato all’analisi degli elementi di una figura e il riconoscimento delle proprietà e, dall’altro, alla capacità di mettere in atto nuove strategie risolutive utilizzando le conoscenze possedute (ACp). Il test iniziale comprendeva cinque domande (per un totale di num. 22 sub-item) che di seguito vengono descritte. Con la prima si chiedeva di identificare dei triangoli in un insieme di figure assegnate (fig. 1) con lo scopo di sondare l’immagine mentale che gli studenti avevano del triangolo (livello di visualizzazione). Va notato, dall’analisi delle risposte, che diversi studenti hanno considerato come triangoli le figure 1, 4 e, soprattutto, la 6. Nella discussione successiva, alla richiesta di motivare le scelte operate, sono state fornite delle spiegazioni quali: Il triangolo 1 è un triangolo con la base storta. Il Il triangolo 4 è un triangolo con un lato curvo. Il triangolo 6 è un triangolo con un pezzo mancante.
Quest’ultima risposta, in particolare, ha fatto registrare una elevata percentuale di risposte sbagliate (intorno all’84%). Alcuni alunni hanno corretto la figura prolungando i due segmenti Fig. 1 fino a formare il triangolo. Altri, invece, hanno descritto la figura 2 come un “triangolo capovolto” e la 5 come “un triangolo inclinato”. Il prototipo di triangolo che più si avvicina alla loro immagine mentale è il triangolo 3, da alcuni definito come un triangolo “perfetto” oppure con frasi del tipo “è proprio un triangolo”. La seconda e la terza domanda avevano lo scopo di comprendere se gli allievi conoscessero alcune proprietà fondamentali dei triangoli (proprietà dei lati12 e somma degli angoli interni). In queste domande si è preferito non inserire delle figure per evitare che gli allievi potessero trarre da esse un valore approssimato che influenzasse la loro risposta. 2. Due lati di un triangolo misurano rispettivamente cm 3 e cm 5. Secondo te, quale potrebbe essere la misura del terzo lato ? Segna con una croce la risposta che ritieni corretta. c c
c c
A. Cm 6 B. Cm 8
C. Cm 10 D. Qualsiasi lunghezza
12 La proprietà dei lati di un triangolo secondo cui ciascun lato è minore della somma degli altri due lati.
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La percentuale di risposte corrette è stata molto bassa in entrambi i gruppi (intorno al 15-16%). Agli alunni che hanno risposto correttamente è stato chiesto di motivare la loro risposta, ma solo tre di essi (due del GC e uno del GS) hanno risposto “altrimenti il triangolo non si chiude”. Ciò, almeno in parte, va attribuito alla poca attenzione prestata, nella scuola primaria, ad attività di esplorazione e manipolazione di figure geometriche prediligendo il calcolo di perimetro e aree che non forniscono, da soli, alcun contributo alla costruzione del pensiero geometrico. 3. Due angoli interni di un triangolo misurano 70° e 80°. Secondo te, quale potrebbe essere la misura del terzo angolo? Segna con una croce la risposta che ritieni corretta. c c
A. 30° B. 90°
c c
D. 180° E. Qualsiasi valore
Anche in questo caso la percentuale di risposte corrette è stata molto bassa in entrambi i gruppi (intorno all’11%). Con il quarto item (fig. 2) era richiesto agli allievi di classificare alcuni triangoli in base ai lati e agli angoli effettuando, se lo ritenevano necessario, anche delle misure. Lo scopo della domanda era quello di comprendere se i ragazzi fossero in grado di riconoscere i vari tipi di triangoli e classificarli in modo duplice, vale a dire se erano capaci di riconoscere che un triangolo può essere, ad esempio, sia rettangolo che isoscele. La maggior parte degli allievi ha classificato i triangoli esclusivamente rispetto ai lati inserendoli in una sola delle seguenti classi: equilatero, isoscele, scaleno e rettangolo. Per quasi tutti gli alunni, in sostanza, se un triangolo appartiene ad una classe non può appartenere contemporaneamente ad un’altra. Diversi hanno classificato il triangolo 8 come isoscele “perché il triangolo isoscele è appuntito”. Anche in questo caso l’errore è dovuto all’immagine mentale che i bambini si sono costruiti del triangolo isoscele veicolata spesso dai libri di testo che rappresentano, il più delle volte, il triangolo isoscele con la base molto più piccola rispetto ai lati obliqui e in posizione orizzontale. Anche per questo motivo il triangolo 6 è stato Fig. 2 Fig. 2 classificato unicamente come rettan-
La maggior parte degli allievi ha classificato i triangoli esclusivamente rispetto ai lati in una sola delle seguenti classi: equilatero, isoscele, scaleno e rettangolo. Per quasi tut in sostanza, se un triangolo appartiene 61 ad una classe non può appartenere contemporan un’altra. Diversi hanno classificato il triangolo 8 come isoscele “perché il triangolo
triangolo isoscele. anda (fig. 3), infine, siItaliano chiedeva di disegnare relativa• 2010 al lato AB di Giornale della Ricerca Educativa l’altezza • III • 1 / GIUGNO o scopo di sondare il concetto che gli alunni avevano di “altezza relativa alla golo e nessuno lo ha riconosciuto come triangolo isoscele. Nella quinta domanda (fig. 3), infine, si chiedeva di disegnare l’altezza relativa al lato AB di alcuni triangoli con lo scopo di sondare il concetto che gli alunni avevano di “altezza relativa alla base”. L’alta percentuale di errori, soprattutto per le altezze delle figure 2, 5 e 6 è stata certamente influenzata dall’orientamento della figura. In sostanza l’altezza viene disegnata quasi sempre all’interno del triangolo. In conclusione, le risposte fornite alla prova ci permettono di avanzare le seguenti riflessioni: gli allievi percepiscono le figure in base al loro aspetto complessivo senza essere consapevoli delle loro proprietà e delle relazioni che legano i vari elementi delle figure (Livello 0 di van Hiele); sono emersi molti misconcetti dovuti spesso alle immagini standardizzate presentate nei libri di teFig. 3 sto e alla confusione fra linguaggio naFig. 3 turale e linguaggio matematico. Nella seconda fase gli alunni del gruppo sperimentale sono stati impegnati in attività di esplorazione guidata di figure geometriche dinamiche con lo scopo di condurli alla scoperta e alla comprensione dei concetti e delle proprietà dei triangoli. Le attività hanno interessato i seguenti nodi concettuali: proprietà dei lati di un triangolo, somma degli angoli interni ed esterni, relazione fra lati e angoli di un triangolo, altezze, mediane, bisettrici, assi. Di seguito vengono brevemente descritte le attività più significative. L’elemento base di ogni attività consiste nella presentazione di una figura geometrica dinamica accompagnata da una scheda contenente delle domande. La figura dinamica è costituita, in genere, da un triangolo (fig. 4) che può essere modificato con continuità trascinando i vertici con il mouse, facendogli assumere tutte le configurazioni possibili. Le caselle di controllo permettono di visualizzare i vari elementi (altezze, mediane, bisettrici, assi, ecc.). Durante il trascinamento sullo schermo vengono visualizzate le misure delle ampiezze degli angoli e della lunghezza dei segmenti. La funzione della scheda è quella di guidare e di orientare l’osservazione degli studenti per mezzo di domande inducendoli a focalizzare la loro attenzione su una particolare proprietà; infatti, per rispondere alle domande, l’allievo deve manipolare la figura trascinando i suoi elementi “liberi” fino a quando essa non soddisfa determinate condizioni, osservare che cosa succede, fare delle congetture e verificarle. In questa fase l’attività richiede facili compiti, con poche domande dirette che richiedono una risposta specifica (orientamento guidato). Gli studenti lavorano in gruppi di due o tre elementi per favorire la discussione. Il docente riveste il ruolo cruciale di suggeritore/stimolatore, ponendo domande appropriate per favorire la discussione nei gruppi in modo da indirizzare gli studenti a trovare la soluzione. Successivamente le osservazioni e le congetture dei singoli gruppi sono condivise con l’intera classe e discusse pervenendo a conclusioni accettate da tutti.
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assumere tutte le configurazioni possibili. elle di controllo permettono di visualizzare i vari elementi (altezze, mediane, bis SIRD • Ricerche Durante il trascinamento sullo schermo vengono visualizzate le misure delle am li e della lunghezza dei segmenti.
Fig. 4
Fig. 4
Al termine segue l’attività di integrazione, affidata all’insegnante, allo scopo di sistematizzare le conoscenze acquisite in un quadro più ampio attraverso la discussione e il confronto. È questa fase che lo studentedi diventa consapevole delleorientare relazioni che intercorrono fra i vari degli studen zione dellainscheda è quella guidare e di l’osservazione elementi della figura, tenta di esprimerle a parole, impara il linguaggio tecnico che accomdomande inducendoli focalizzare lamodo, lorounaattenzione sudi una particolare proprietà; pagna l’oggetto dia studio creando, in tal rete concettuale relazioni. Si riportano, a questo punto e a manipolare titolo esemplificativo, alcune attività svolte con l’ausilio dere alle domande, l’allievo deve la figura trascinando i suoi elementi “ dell’applicativo Triangoli.
ando essa non soddisfa determinate condizioni, osservare che cosa succede, fare e verificarle. In questa fase l’attività richiede facili compiti, con poche domande Lati di un triangolo dono una risposta specifica (orientamento Questa attività ha avuto lo scopo di guidare gli guidato). allievi verso la scoperta della seguente proprietà dei lati di un triangolo: in ogni triangolo, ciascun lato è minore somma degli due denti lavorano in gruppi di due o tre elementi per della favorire laaltridiscussione. Il d lati. ruolo crucialeLa di suggeritore/stimolatore, ponendo domande appropriate per favo figura dinamica (fig. 5) è costituita da tre segmenti consecutivi la cui lunghezza può modificatada agendo sugli slider (cursori). Gli estremi e D possono essere trascinati Successivam e nei gruppiessere in modo indirizzare gli studenti a Ctrovare la soluzione. restando invariate le lunghezze dei rispettivi segmenti. Gli alunni, divisi in gruppi, avevano ni e le congetture singoli gruppi sono uncondivise con l’intera classe e di il compito di fardei coincidere i due estremi per ottenere triangolo. o a conclusioni accettate da tutti. mine segue l’attività di integrazione, affidata all’insegnante, allo scopo di sistematiz e acquisite in un quadro più ampio attraverso la discussione e il confronto. È in o studente diventa consapevole delle relazioni che intercorrono fra i vari element
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Lati di un attività triangolo Questa ha avuto lo scopo di guidare gli allievi verso la scoperta della seguente proprietà dei Questa ha avuto scopo di guidare gli allievi verso ladella scoperta della seguente proprietà lati diattività un triangolo: in lo ogni triangolo, ciascun lato è minore somma degli altri due lati. dei latiLadi figura un triangolo: in ogni triangolo, ciascun lato è minore della somma degli altri due lati. dinamicaItaliano (fig. 5) della è costituita da Educativa tre segmenti consecutivi la cui lunghezza Giornale Ricerca • III • 1 / GIUGNO • 2010 può essere Lamodificata figura dinamica è costituita da tre la cuiessere lunghezza può restando essere agendo(fig. sugli5) slider (cursori). Glisegmenti estremi consecutivi C e D possono trascinati modificata agendo suglidei slider (cursori). Gli estremi C edivisi D possono essere trascinati restando invariate le lunghezze rispettivi segmenti. Gli alunni, in gruppi, avevano il compito di far invariate le lunghezze dei rispettivi segmenti. Gli alunni, divisi in gruppi, avevano il compito di far coincidere i due estremi per ottenere un triangolo. coincidere i due estremi per ottenere un triangolo.
Costruisci, se possibile, i triangoli i cui lati hanno le lunghezze riportate se in possibile, tabella (il ilato AB è iilcui latolati piùhanno lungo). Costruisci, triangoli le lunghezze riportate in tabella (il lato AB è il lato più lungo). Lato Lato Lato Triangolo AB Lato AC Lato BD Lato Triangolo AB18 AC 9 BD14 1 1 2 18 20 9 12 14 10 2 3 20 25 12 15 10 12 3 4 25 22 15 18 12 16 4 5 22 21 18 15 16 10 5 6 21 25 15 10 10 13 6 7 25 20 10 9 13 10 7 8 20 25 9 11 10 13 8 25 11 13 Fig. 5 Fig. Fig.55
Gli alunni si sono resi immediatamente conto che in alcuni casi (triangoli 6, 7 e 8) non era possibile Gli alunni si sono resiper immediatamente alcuni casi (triangoli 7 eera 8) non Glifaralunni si sono resi immediatamente conto checonto in alcuni casi (triangoli 6,dalla 7 e lunghezza 8)6,non possibile coincidere i due estremi ottenere il triangolo eche chein ciò dipendeva dei lati, ma era possibile far coincidere i due estremi per ottenere il triangolo e che ciò dipendeva dalla farnon coincidere i due estremi per ottenere il triangolo e che ciò dipendeva dalla lunghezza dei lati, ma il erano in grado di cogliere la condizione che dovevano soddisfare i tre segmenti per ottenere lunghezza dei lati, ma non erano in grado di cogliere la condizione che dovevano soddisfare non erano inLa grado di cogliere la condizione dovevano soddisfare i tre gli segmenti ottenere il la triangolo. discussione collettiva guidatache dall’insegnante ha condotto alunni per a focalizzare i treLa segmenti per ottenere il triangolo. La discussione collettiva guidata dall’insegnante ha la triangolo. discussione collettiva guidata dall’insegnante gli alunni a focalizzare loro attenzione sulla lunghezza dei due segmenti minori ha e acondotto individuare la proprietà che devono condotto gli alunni a focalizzare la loro attenzione sulla lunghezza dei due segmenti minori loro attenzione lunghezza dei dueAlcune segmenti minorifornite e a individuare la per proprietà chequello devonoche soddisfare persulla ottenere il triangolo. risposte dagli allievi spiegare e a individuare la proprietà che devono soddisfare per ottenere il triangolo. Alcune risposte soddisfare per ottenere il state: triangolo. Alcune risposte fornite dagli allievi per spiegare quello che avevano osservato sono fornite dagli sono allievistate: per spiegare quello che avevano osservato sono state: avevano osservato • Annamaria: Ho osservato che alcuni triangoli non si possono costruire come il 6, 7 e 8, perché hanno il lato più lungo. • Giorgio: Il triangolo non si può costruire perché AC e BD sono più corti di AB. • Chiara: Quando hanno una lunghezza differente non sufficiente per non far toccare i due punti, secondo me per unire i tre punti c’è bisogno che 2 lati siano uguali e 1 maggiore, oppure uno maggiore dell’altro. • Luca: Secondo me la somma dei 2 lati minori deve essere maggiore del lato maggiore per potersi incontrare in un punto.
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Chiara: Quando hanno una lunghezza differente non sufficiente per non far toccare secondo me per unire i tre punti c’è bisogno che 2 lati siano uguali e 1 maggiore, SIRD • Ricerche maggiore dell’altro. Luca: Secondo me la somma dei 2 lati minori deve essere maggiore del lato maggi incontrare in un punto. Francesca: Secondo me i triangoli 6-7-8 non sono possibili perché se sommiamo i l un numero più piccolo del lato AB. • Francesca: Secondo me i triangoli 6-7-8 non sono possibili perché se sommiamo i lati AC e BD Antonio: Perché se AC e BD sono minori di AB, AC e BD non si possono incontrar
esce un numero più piccolo del lato AB. • Antonio: Perché se AC e BD sono minori di AB, AC e BD non si possono incontrare in nessun punto. Successivamente gli studenti sono stati coinvolti in attività di costruzione
di trian lunghezza assegnata utilizzando gli strumenti di Geogebra. Il docente non Successivamente gli studenti sono stati coinvolti in attività di costruzione di triangoli procedimento tecnico, ad esso è giunti attraverso una non discussione guidata. con lati di lunghezza assegnatama utilizzando gli si strumenti di Geogebra. Il docente ha spiegato il procedimento tecnico, ma ad esso si è giunti attraverso una discussione guidata.
Altezze di un triangolo Al termine scuola primaria, gli allievi hanno un’immagine mentale dell’altezz Altezze di undella triangolo Al termine primaria, gli allievi hanno mentale dell’altezza un ancora in della via scuola di accomodamento. Comeun’immagine risulta dalle risposte datedidagli alunni duran triangolo ancora in via di accomodamento. Come risulta dalle risposte date dagli alunni du6), la misconcezione più frequente è che il piede dell’altezza di un triangolo cade rante il pretest (fig. 6), la misconcezione più frequente è che il piede dell’altezza di un trianopposto. Questo frequente in parte attribuibile un concetto golo cade sempre sul errore lato opposto. Questo èerrore frequente è in parte ad attribuibile ad un errato di rette concetto di rettediperpendicolari. Nei librierrato di testo geometria per la scuola secondaria di primo grado l’argomento Nei libri di testo di geometria per laperpendicolari scuola secondaria die primo grado l’argomento viene dando la definizione di rette illustrando il procedimento per la loro affrontato dando la definizione di rette perpendicolari e illustrando il procedimento per la riga e compasso. nessun sforzo è fatto collegare questo concetto a loro costruzione con Normalmente riga e compasso. Normalmente nessun sforzo per è fatto per collegare questo concetto ad una situazione Il risultato che gli alunni sanno ripetere ladi rette perpend concreta. Il risultato è che concreta. gli alunni sannoè ripetere la definizione definizione perpendicolari ma il piùnel delletracciare volte incontrano difficoltà delle voltedi rette incontrano difficoltà l’altezza di nel unatracciare figura geometrica q l’altezza di una figura geometrica quando questa è posta in una posizione non standard. posta in una posizione non standard. In questo caso, ed in altri simili, occorre far precedere la trattazione da esperienze volte a ricostruire i nuovi concetti. Tali esperienze possono essere situazioni problematiche, applicate in un contesto reale e motivante per gli studenti, che non possono essere risolte con l’applicazione delle conoscenze già in loro possesso, ma necessitano di sperimentare nuove e diverse strategie. Per questi motivi, prima di affrontare lo studio delle altezze di un triangolo, gli allievi sono stati impegnati in una situazione-problema avente le scopo di condurli alla ri-costruzione del concetto di rette perpendicolari e di distanza di un punto da una retta come “distanza più breve”. Agli studenti è stato chiesto di risolvere il seguente compito un appositamente predisposto utilizzando l’ambiente di sviluppo Geogebra (Fig. 7).
Fig. 6
Fig. 6
In questo caso, ed in altri simili, occorre far precedere la trattazione da esperienze v i nuovi concetti. Tali esperienze 65 possono essere situazioni problematiche, applicat reale e motivante per gli studenti, che non possono essere risolte con l’app
Giornale Italiano della Ricerca Educativa • III • 1 / GIUGNO • 2010 stato chiesto di risolvere il seguente compito un appositamente predisposto utilizzando l’ambiente di sviluppo Geogebra (Fig. 7). stato chiesto di risolvere il seguente compito un appositamente predisposto utilizzando l’ambiente di sviluppo Geogebra (Fig. 7).
Fig. 7 Fig. 7
Un cavaliere vive in una torre e deve portare ad abbeverare il suo cavallo al fiume. Unparte cavaliere vive in torre e deve Egli dal punto A una e deve portare ad la abbeverare il suo cavallo al raggiungere riva del fiume fiume. rappresentata dalla retta PQ. Egli parte dal punto A e deve Sapresti aiutare il cavaliere ad raggiungere la riva del fiume individuare il percorso più breve per rappresentata dalla retta PQ. giungere al fiume? Sapresti aiutare il cavaliere ad individuare il percorso più breve per giungere al fiume?
Fig. 7problematica per tentativi inserendo dei punti I discenti inizialmente hanno affrontato la situazione I discenti inizialmente hanno affrontato la situazione problematica in prossimità della riva del fiume e misurando la distanza dal puntoper Atentativi fino adinserendo individuare dei punti in prossimità della riva del fiume e misurando la distanza dal punto A fiume fino ad(PQ). in- A approssimativamente il punto B che rendeva minima la distanza di A dalla retta del I discenti inizialmente hanno affrontato la situazione problematica per tentativi inserendo dei dividuare approssimativamente il punto B che rendeva minima la distanza di A dalla retta punti questo punto l’insegnante ha posto alcune domande per stimolare l’osservazione: in prossimità del fiume misurandohalaposto distanza punto A ad individuare del fiumedella (PQ).riva A questo punto el’insegnante alcunedaldomande perfino stimolare l’osapprossimativamente il punto B che rendeva minima la distanza di A dalla retta del fiume (PQ). A servazione: In che posizione devono trovarsi il segmento AB e la retta PQ? questo punto Che l’insegnante ha AB posto domande per stimolare l’osservazione: angolo forma con alcune la retta PQ? un angolo particolare? InÈ che posizione devono trovarsi il segmento AB e la retta PQ? che posizione devono il segmento AB e la retta PQ? CheInangolo forma AB con latrovarsi retta PQ? Che angolo forma AB con la retta PQ? È un angolo particolare? Gli allievi dopo aver tracciato il segmento AB e misurato l’angolo che esso forma con PQ (fig. 8a) È un angolo particolare?
sono giunti alla conclusione che il percorso più breve si ottiene quando AB forma un angolo retto allievi dopoA aver tracciato segmento AB misurato l’angolo checaso esso siforma con AB con rettaGli PQ (fig. 8b). questo punto ill’insegnante ha espiegato che in questo Glilaallievi dopo aver tracciato ilalla segmento AB eche misurato l’angolo che esso forma quando condice PQche (fig. 8a) PQ (fig. 8a) sono giunti conclusione il percorso più breve si ottiene AB e sono PQ sono perpendicolari e cheche Geogebra offre labreve possibilità di tracciare la perpendicolare ad una giunti alla conclusione il percorso più si ottiene quando AB forma un angolo forma un angolo rettoecon la retta PQil (fig. 8b). A questo punto Gli l’insegnante ha spiegato che retto retta per un punto assegnato ha illustrato procedimento tecnico. alunni sono stati invitati con la in retta PQ (fig. 8b). A questo punto l’insegnante ha spiegato cheGeogebra in questo caso si dice che ad AB questo caso si dice che AB e PQ sono perpendicolari e che offre la possibilità effettuare unaperpendicolari verifica costruendo la retta perpendicolare a PQ di passante perlaAperpendicolare ed osservandoadche e PQ sono e che Geogebra offre la possibilità tracciare una di tracciare la perpendicolare ad una retta per unilpunto assegnato e ha illustratoadil una procediessa sovrapponeva ad AB. Acquisito correttamente concetto di perpendicolare retta perad rettasi per un punto assegnato e ha illustrato il procedimento tecnico. Gli alunni sono stati invitati mento tecnico. Gli alunni sono stati invitati ad effettuare una verifica costruendo la retta uneffettuare punto, si una è proceduto ad esplorare la come variano le altezze diPQ un passante triangoloper e leAloro proprietà. verificaa PQ costruendo perpendicolare passante perretta A edperpendicolare osservando che aessa si sovrapponeva ad ed AB.osservando Acquisito che essa sicorrettamente sovrapponevailadconcetto AB. Acquisito correttamente il concetto ad una retta di perpendicolare ad una retta perdiunperpendicolare punto, si è proceduto ad per un punto, si è proceduto ad esplorare come le altezze di proprietà. un triangolo e le loro proprietà. esplorare come variano le altezze di unvariano triangolo e le loro
Fig. 8a
Fig. 8b
Anche in questo caso la Fig. figura alla scoperta delle 8a dinamica utilizzata per condurre gli Fig.alunni 8b Fig. 8a Fig. 8b proprietà delle altezze è costituita da un triangolo (fig. 9) i cui vertici possono essere trascinati. Le caselle permettono di dinamica visualizzare le altezze ai gli tre lati e l’ortocentro. Anchediincontrollo questo caso la figura utilizzata perrelative condurre alunni alla scopertaSullo delle schermo vengono visualizzate le ampiezze degli angoli interni per permettere di riconoscere i variLe proprietà delle altezze è costituita da un triangolo (fig. 9) i cui vertici possono essere trascinati. tipi di triangoli. caselle di controllo permettono di visualizzare le altezze relative ai tre lati e l’ortocentro. Sullo schermo vengono visualizzate le ampiezze degli66 angoli interni per permettere di riconoscere i vari tipi di triangoli.
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Anche in questo caso la figura dinamica utilizzata per condurre gli alunni alla scoperta delle proprietà delle altezze è costituita da un triangolo (fig. 9) i cui vertici possono essere trascinati. Le caselle di controllo permettono di visualizzare le altezze relative ai tre lati e l’ortocentro. Sullo schermo vengono visualizzate le ampiezze degli angoli interni per permettere di riconoscere i vari tipi di triangoli. Gli alunni, guidati dalle schede, visualizzando inizialmente una sola altezza e osservando la sua posizione nei diversi tipi di triangoli (acutangolo, rettangolo e ottusangolo), hanno constatato che l’altezza del triangolo non è sempre interna ad esso. La discussione collettiva ha fatto emergere anche altre caratteristiche non espressamente richieste nella scheda:
• Ins.: In quali casi l’altezza è interna al triangolo? • Valentina: Se il triangolo è acutangolo l’altezza è interna al triangolo. Se abbiamo un triangolo rettangolo l’altezza è il cateto. • Chiara: Non è vero, dipende da come facciamo l’altezza. Io ho visto che anche nel triangolo rettangolo l’altezza può essere interna. Se per esempio facciamo l’altezza che parte dall’angolo di 90° l’altezza cade dentro il triangolo anche se è rettangolo… • Emanuela: …nel triangolo rettangolo due altezze cadono sui cateti e una cade dentro il triangolo. • Luca: Anche nel triangolo ottusanFig. 9 golo due altezze cadono fuori e una cade dentro. L’altezza che parte dall’angolo ottuso cade dentroGli il alunni, guidati dalle schede, visualizzando inizialmente un posizione nei diversi tipi di triangoli (acutangolo, rettangolo e triangolo le altre due cadono fuori.
l’altezza del triangolo non è sempre interna ad esso. La discus anche altre caratteristiche non espressamente richieste nella sched
Caccia al tesoro Nella fase dell’orientamento libero gli allievi sono stati impegnati in compiti più complessi e meno familiari rispetto ai precedenti, che possono essere affrontati e risolti in modi differenti. L’alunno deve fare ricorso alle sue conoscenze e alla rete di relazioni che si è costruita per trovare una sua strategia per risolvere il problema. Si riporta di seguito una delle attività svolte. Caccia Fig. 9
Ins.: In quali casi l’altezza è interna al triangolo? Valentina: Se il triangolo è acutangolo l’altezza è interna al rettangolo l’altezza è il cateto. Chiara: Non è vero, dipende da come facciamo l’altezza. Io h rettangolo l’altezza può essere interna. Se per esempio facci 90° l’altezza cade dentro il triangolo anche se è rettangolo… Emanuela: …nel triangolo rettangolo due altezze cadono su Luca: Anche nel triangolo ottusangolo due altezze cadono fu dall’angolo ottuso cade dentro il triangolo le altre due cado
Fig. 9 al tesoro Nella fase dell’orientamento libero gli allievi sono stati impegna rispetto precedenti, possono essere ni, guidati dalle schede, visualizzando familiari inizialmente unaaisola altezza eche osservando la sua affrontati e deverettangolo fare 67 ricorso alle sue conoscenze e alla reteche di relazioni che nei diversi tipi di triangoli (acutangolo, e ottusangolo), hanno constatato risolvere ilcollettiva problema.ha Si fatto riporta di seguito una delle del triangolo non è sempre interna adstrategia esso. Laperdiscussione emergere Agli alunni re caratteristiche non espressamente richieste nella (fig.10) scheda: è stato posto il seguente problema:
Luca: Anche nel triangolo ottusangolo cadono fuorieeuna una cade dentro. L’altezza che parte Emanuela: …nel triangolo rettangolodue due altezze altezze cadono sui cateti cade dentro il triangolo. dall’angolo ottuso dentro ottusangolo il triangolo altrecadono due cadono fuori. Luca: Anchecade nel triangolo duelealtezze fuori e una cade dentro. L’altezza che parte dall’angolo ottuso cade dentro il triangolo le altre due cadono fuori.
Giornale Caccia al tesoro Italiano della Ricerca Educativa • III • 1 / GIUGNO • 2010
Caccia al tesoro Nella fase dell’orientamento libero gli allievi sono stati impegnati in compiti più complessi e meno Nella fase dell’orientamento libero gli allievi sono stati impegnati in compiti più complessi e meno familiari rispetto ai precedenti, che possono essere affrontati e risolti in modi differenti. L’alunno familiari rispetto ai precedenti, che possono essere affrontati e risolti in modi differenti. L’alunno deve fare ricorso alle sue conoscenze e alla rete di relazioni che si è costruita per trovare una sua deve fare ricorso alle sue conoscenze e alla rete di relazioni che si è costruita per trovare una sua strategia perstrategia risolvere il problema. Si riporta didiseguito unadelle delle attività svolte. per risolvere il problema. riporta seguito una attività svolte. Agli alunni (fig.10) è stato posto il Siseguente problema: Agli alunniAgli (fig.10) stato èposto il seguente problema: alunniè(fig.10) stato posto il seguente problema: Luca, Silvia e Giulio hanno ritrovato in soffitta una vecchia mappa sulla quale il pirata Barbanera aveva annotato il luogo in cui era stato sepolto il suo tesoro. “Il tesoro è stato sepolto sull’isola di Mathland. Nei pressi della vecchia torre troverai un tronco d’albero. momento gli alunni procedono per tentativi. Inseriscono un e lo trascinano A 25punto metri daPesso spunta una roccia. Il tesoro è stato sepolto una distanza di 20 metrisidal tronco (punto posizionarlo in modo da soddisfare le condizioni richieste. Maad questa strategia A) e di 28 metri dalla roccia (punto B).”
primo do di tra abbastanzaIndifficoltosa non permette di individuare in per modo esatto ilInseriscono punto doveun è stato un primo emomento gli alunni procedono tentativi. punto P e lo trascinano lito il tesoro.cercando L’insegnante chiede agli alunni di trovare un metodo più semplice per questa strategia si può essere sepolto il tesoro?Ma di posizionarlo in modo da soddisfare leDove condizioni richieste. duare esattamente il punto. Gli alunni discutendo tra loro si rendono ben presto conto che i treil punto dove è stato Fig. 10 dimostra abbastanza difficoltosa e non permette di individuare in modo esatto costituiscono seppellito i vertici diil un triangolo (fig. 11) chiede con i lati e procedono sua più semplice per Fig. 10di tesoro. L’insegnante agliassegnati alunni trovare un alla metodo zione tracciando le due circonferenze per individuare il terzo vertice. Si rendono anche conto Fig. 10 tra loro si rendono ben presto conto che i tre individuare esattamente il punto. Gli alunni discutendo soluzione nonpunti è unica. costituiscono i vertici di un triangolo (fig. 11) con i lati assegnati e procedono alla sua
costruzione tracciando le due circonferenze per individuareInil un terzo vertice. Si rendono primo momento gli anche alunni conto che la soluzione non è unica. procedono per tentativi. Inseriscono un punto P e lo trascinano cercando di posizionarlo in modo da soddisfare le condizioni richieste. Ma questa strategia si dimostra abbastanza difficoltosa e non permette di individuare in modo esatto il punto dove è stato seppellito il tesoro. L’insegnante chiede agli alunni di trovare un metodo più semplice per individuare esattamente il punto. Gli alunni discutendo tra loro si rendono ben presto conto che i tre punti costituiscono i vertici di un triangolo (fig. 11) con i lati Fig. 11 assegnati e procedono alla sua costruFig. 11 zione tracciando le due circonferenze individuare il terzo vertice. Si rene attività aiutano gli allievi a sviluppare la capacità di “modellizzazione matematica”. Fig. 11 per anchereale conto chemodello la soluzione non è unica. no deve tradurre un dono problema in un matematico, trovare la soluzione e valutare Queste attività aiutano a sviluppare la capacità di “modellizzazione matematica”. a è compatibileQueste con il attività problema reale gli (fig. 12).gliaallievi aiutano allievi sviluppare la capacità di “modellizzazione matematica”. L’alunno deve tradurre un problema reale in un modello matematico, trovare la soluzione L’alunno deve tradurre un problema reale in un modello matematico, trovare la soluzione e valutare e valutare se essa è compatibile con il problema reale (fig. 12). se essa è compatibile con il problema reale (fig. 12).
Fig. 12
alisi dei risultati
Fig. 12 Fig. 12
termine delle attività é stato somministrato ai due gruppi un post-test finalizzato a verificare il 4. Analisi dei risultati di analisi di figure geometriche raggiunto e la capacità di argomentare circa la risposta e/o la strategia adottata. Ledelle domande (suddivise in 23 sub-item) erano centrate sui seguenti 68 Al termine attività é stato somministrato ai due gruppi un post-test finalizzato a verificare il ti geometrici: livello di analisi di figure geometriche raggiunto e la capacità di argomentare circa la risposta fornita e/o la strategia adottata. Le domande (suddivise in 23 sub-item) erano centrate sui seguenti
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Analisi dei risultati Al termine delle attività è stato somministrato ai due gruppi un post-test finalizzato a verificare il livello di analisi di figure geometriche raggiunto e la capacità di argomentare circa la risposta fornita e/o la strategia adottata. Le domande (suddivise in 23 sub-item) erano centrate sui seguenti concetti geometrici: • • • • • •
proprietà dei lati di un triangolo: sub-item 1,3,4,5; proprietà degli angoli di un triangolo: sub-item 2,3,4,6,7,8,9,10; altezze di un triangolo: sub-item 11, 16, 18; mediane: sub-item12, 19,21, 22, 23; bisettrici: sub-item 13, 17; assi: sub-item 14,15, 20; Nella tabella 4 si riportano i risultati dell’analisi descrittiva. L’elaborazione dei dati è stata
Nella tabella 4 si riportano i risultati dell’analisi descrittiva. L’elaborazione dei8 dati è stata effettuata considerando i punteggi conseguiti nell’area delle conoscenze (ACn, sub-item) effettuata considerando i punteggi conseguiti nell’area delle conoscenze (ACn, 8 sub-item) e e nell’area delle competenze (ACp, 15 sub-item). nell’area delle competenze (ACp, 15 sub-item).
Nella tabella 4 si riportano i risultati dell’analisi descrittiva. L’elaborazione dei dati è stata GS GC effettuata considerando i punteggi conseguiti nell’area delle conoscenze (ACn,dei 8 dati sub-item) Nella tabella 4 si riportano i risultati dell’analisi descrittiva. L’elaborazione è statae Media Dev Media Dev nell’area delle competenze (ACp, 15 sub-item). effettuata considerando i punteggi conseguiti nell’area delle conoscenze (ACn, 8 sub-item) e ACn(ACp, al post-test 6.55 1.24 6.10 1.39 nell’area delle competenze 15 sub-item). ACp al post-test 8.85GS 2.02 1.53GC 2.48 Tab. 4Dev Media Media GS GC Dev 41.24 ACn al post-test 6.55 Tab.Dev 6.10 1.39 Media Media Dev Nell’ACn i due ACp gruppi non presentano sostanziali differenze. I 2.48 valori delle medie e delle al post-test post-test 8.85 2.02 1.53 ACn al 1.24 6.10 in linea 1.39con le nostre ipotesi, che deviazioni standard sono sostanzialmente6.55 omogenei. È nell’ACp, Tab. 42.02 Nell’ACn i dueACp gruppi non presentano sostanziali valori èdelle e dellela al post-test 1.53 tra leI2.48 le differenze diventano significative oltre 8.85 che rilevanti. Lo differenze. scarto medie pari amedie 7.33 punti, deviazionidei standard sono omogenei. È nell’ACp, in linea con le nostre ipoTab. 4 dispersione punteggi del sostanzialmente GC nettamente superiore al 50%. Nell’ACn i due gruppi non presentano sostanziali differenze. I valori delle medie e delle A sostegno di questi risultati, quanto emerso dall’utilizzazione delLo testscarto non parametrico di èManntesi, che le differenze diventano significative oltre che rilevanti. tra le medie pari deviazioni standard sono sostanzialmente omogenei. È nell’ACp, in linea con delle le nostre ipotesi, che Nell’ACn i due gruppi nondei presentano sostanziali differenze. I valori medie delle Whitney ha confermato l’efficacia della sperimentazione e corroborato le stesse ipotesi die ricerca a 7.33 punti, la dispersione punteggi del GC nettamente superiore al 50%. le differenze diventano significative oltre che rilevanti. Lo scarto tra le medie è pari a 7.33 punti, la deviazioni sono sostanzialmente omogenei. È nell’ACp, in linea con le nostre ipotesi, che (tabb. 5 e standard 6). A sostegno di questi risultati, quanto emerso dall’utilizzazione del test non parametrico dispersione dei punteggi del GC nettamente superiore al 50%. le differenze diventano significative oltre che rilevanti. Lo scarto tra le medie è pari a 7.33 punti, la sostegno questiha risultati, quanto l’efficacia emerso dall’utilizzazione del test non parametrico dileManndiA Mann-Whitney della sperimentazione e corroborato stesse dispersione dei di punteggi delconfermato GC nettamente superiore Media dei ranghial 50%. Somma dei ranghi Whitney ha confermato l’efficacia della sperimentazione e corroborato le stesse ipotesi di ricerca A sostegno di questi risultati, quanto emerso dall’utilizzazione del test non parametrico di Mannipotesi di ricerca (tabb. 5 eGS 6). 44,13 1765,00 (tabb. 5 eha 6).confermato ACn Whitney l’efficacia della sperimentazione e corroborato le stesse ipotesi di ricerca GC 36,88 1475,00 (tabb. 5 e 6). dei ranghi Somma dei ranghi GS Media 58,83 2353,00 ACp GS 1765,00 GC Media44,13 22,17 887,00 dei ranghi Somma dei ranghi ACn GC 36,88 Tab. 5 1475,00 GS 44,13 1765,00 ACn GS 58,83 2353,00 GC 36,88 1475,00 ACp Post-test GC 22,17 887,00 GS 58,83 2353,00 ACp ACn GC 22,17 Tab. 5 887,00ACp Mann-Whitney U 655,00 67,00 Tab. Tab. 55 p Post-test 0.152 p < 0,01 ACn ACp Tab. 6 Post-test Mann-Whitney U 655,00 67,00 ACn ACp Se nell’ACn i risultatip sono mediamente0.152 comparabili, nell’ACp differenze sono evidenti e p67,00 < le 0,01 Mann-Whitney U 655,00 facilmente confrontabili. In sostanza, non si hanno differenze significative fra i due gruppi quando Tab. 6 p 0.152 0,01 si tratta di affrontare problemi e situazioni di routine come, p ad< esempio, quando la figura è Tab. 6 che la somma degli angoli interni di un triangolo rappresentata nella posizione standard, riconoscere Se nell’ACn i risultati sono mediamente comparabili, nell’ACp le differenze sono evidenti e è un angolo piatto (item 2), calcolare un angolo noti gli altri due (item 3), oppure Tab.del 6 triangolo facilmente confrontabili. sostanza, non si hanno differenze significative fra i due gruppi quando Se nell’ACn i risultatidiIn sono mediamente comparabili, nell’ACp le 11-14). differenze sono evidenti e individuare gli elementi un triangolo (altezze, mediane, ecc.) (items si tratta diconfrontabili. affrontare problemi e situazioni di routine come, ad esempio, quando la figura è facilmente In sostanza, non si hanno differenze significative fra i due Le differenze diventano rilevanti, spesso con scarti superiori al 50%, quando gligruppi allieviquando devono rappresentata nella posizione standard, riconoscere che la somma degli angoli interni di un triangolo si tratta di affrontare problemi e situazioni di routine come, ad esempio, quando la figura è affrontare situazioni che per essere risolte richiedono di saper analizzare gli elementi di una figura e è un angolo piatto (item 2), standard, calcolarericonoscere un angolo che del la triangolo noti gli altriinterni due (item oppure rappresentata posizione somma angoli di un3), triangolo riconoscere nella le proprietà, oppure quando è necessario metteredegli in atto nuove strategie risolutive individuare gli elementi di un triangolo (altezze, mediane, ecc.) (items 11-14). è utilizzando un angolo le piatto (item 2), calcolareAlcuni un angolo del triangolo noti gli altri due (item 3), oppure conoscenze possedute. esempi. Le differenze diventano rilevanti, conmediane, scarti superiori al 50%, quando gli allievi devono individuare gli 4elementi di un triangolospesso (altezze, (items 11-14). Nell’item (fig. 13), si chiedeva di spiegare perché ecc.) il triangolo rappresentato era impossibile. affrontare situazioni che perrilevanti, essere risolte richiedono disuperiori saper analizzare gli elementi di una devono figura e Le differenze diventano spesso con scarti al 50%, quando gliGC. allievi Hanno risposto correttamente il 77,3% degli allievi del GS e lo 0% degli allievi del riconoscere le proprietà, oppure quando è necessario mettere in atto nuove strategie risolutive affrontare situazioni che per essere risolte richiedono di saper analizzare gli elementi di una figura e utilizzando le possedute. Alcuni riconoscere le conoscenze proprietà, oppure quando è esempi. necessario mettere in atto nuove strategie risolutive Nell’item 4 (fig. 13), si chiedeva di spiegare perché il triangolo rappresentato era impossibile. utilizzando le conoscenze possedute. Alcuni esempi.
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Se nell’ACn i risultati sono mediamente comparabili, nell’ACp le differenze sono evidenti e facilmente confrontabili. In sostanza, non si hanno differenze significative fra i due gruppi quando si tratta di affrontare problemi e situazioni di routine come, ad esempio, quando la figura è rappresentata nella posizione standard, riconoscere che la somma degli angoli interni di un triangolo è un angolo piatto (item 2), calcolare un angolo del triangolo noti gli altri due (item 3), oppure individuare gli elementi di un triangolo (altezze, mediane, ecc.) (items 11-14). Le differenze diventano rilevanti, spesso con scarti superiori al 50%, quando gli allievi devono affrontare situazioni che per essere risolte richiedono di saper analizzare gli elementi di una figura e riconoscere le proprietà, oppure quando è necessario mettere in atto nuove strategie risolutive utilizzando le conoscenze possedute. Alcuni esempi. Nell’item 4 (fig. 13), si chiedeva di spiegare perché il triangolo rappresentato era impossibile. Hanno risposto correttamente il 77,3% degli allievi del GS e lo 0% degli allievi del GC.
Fig. 13
Con il quesito 5 si poneva la seguente situazione problematica:
L’insegnante di matematica di Luca e di Silvia ha assegnato per casa il seguente esercizio: Calcola il perimetro di un triangolo isoscele avente i lati di cm 10 e cm 4. Luca ha calcolato il perimetro nel seguente modo: Invece Silvia ha calcolato il perimetro in questo modo: Secondo te chi ha risposto correttamente ? Luca
Silvia
Entrambi
Spiega perché:………………………………………………………… …………………………………………………………………………
70
P = 4 + 4 + 10 = 18 cm P = 10 + 10 + 4 = 24 cm
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Anche in questo caso, la differenza nelle percentuali di risposte corrette tra i due gruppi è stata rilevante: il 59% degli alunni del GS ha risposto in maniera corretta e nessun alunno del GC. Nella figura 14 è riportata la risposta data da un alunno del gruppo sperimentale.
Fig. 14
Negli ultimi due quesiti gli alunni dovevano ricostruire un triangolo a partire da alcuni suoi elementi. Con l’item 23 si chiedeva di ricercare il terzo vertice di un triangolo noti gli altri due vertici e il baricentro. Nessun alunno del CG ha risposto correttamente, mentre il 27,3% dello SG è stato in grado di ricostruire il triangolo spiegando il procedimento seguito (fig. 15).
Fig. 15 Fig. 15
I risultati conseguiti, per concludere, mostrano chiaramente i sensibili progressi ottenuti dagli I risultati conseguiti, concludere, chiaramente i sensibili progressi ottenuti alunni del GS, in lineaper con le ipotesimostrano formulate. In tal senso e coerentemente con l’ipotesi di dagli alunni del GS, in linea con le ipotesi formulate. In tal senso e coerentemente con nell’ACp. l’ipopartenza, l’esame delle prestazioni del GC mostra un incremento non significativo Non si tesi di partenza, l’esame delle prestazioni del GC mostra un incremento non significativo hanno differenze sostanziali fra i due gruppi se si propongono problemi e situazioni di routine (ad esempio riconoscere che la somma degli angoli interni di un triangolo è un angolo piatto, calcolare un angolo del triangolo noti gli altri due o individuare gli elementi di un triangolo ). Le differenze diventano rilevanti quando gli allievi devono affrontare situazioni che per essere risolte richiedono di saper analizzare gli elementi di una 71 figura e riconoscerne le proprietà, oppure quando è necessario mettere in atto nuove strategie risolutive utilizzando le conoscenze possedute.
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nell’ACp. Non si hanno differenze sostanziali fra i due gruppi se si propongono problemi e situazioni di routine (ad esempio riconoscere che la somma degli angoli interni di un triangolo è un angolo piatto, calcolare un angolo del triangolo noti gli altri due o individuare gli elementi di un triangolo ). Le differenze diventano rilevanti quando gli allievi devono affrontare situazioni che per essere risolte richiedono di saper analizzare gli elementi di una figura e riconoscerne le proprietà, oppure quando è necessario mettere in atto nuove strategie risolutive utilizzando le conoscenze possedute.
Conclusioni La strada della ricerca e dell’innovazione, delle prove e degli errori, costituisce lo sfondo e l’orizzonte di senso di una scuola intesa come organizzazione che matura, si sviluppa, apprende ed aiuta ad apprendere. Bisogna essere in grado, soprattutto, di coniugare il sapere, il saper fare e il saper essere: sapere cosa, sapere come e sapere chi. Bisogna “imparare a conoscere” e “imparare a fare”, passando dal concetto di abilità a quello di competenza, ma soprattutto imparare ad essere scoprendo l’altro e cooperando per raggiungere obiettivi comuni. L’innovazione, se correttamente pianificata, “entra in ogni livello del quadro educativo, una grande gerarchia che si estende dalle scuola primarie alla ricerca, e nella quale la relazione tra insegnamento ed apprendimento funziona come la colla che lega tra loro i vari livelli di scuola” (Freudenthal, 1994). In quest’ottica ci siamo orientati per attuare il percorso di sperimentazione che è stato fin qui descritto. Pur nei limiti oggettivi legati al numero di studenti coinvolti, ci sembra comunque di poter affermare che i risultati a cui siamo pervenuti possono fornire utili elementi di riflessione. Appare evidente, analizzando le risposte fornite dagli studenti del gruppo di controllo, come la maggior parte degli errori sia dovuta alla mancata sistemazione di alcuni nodi concettuali come, ad esempio, la perpendicolarità, l’angolo, le relazioni fra lati e angoli di un triangolo. Di certo possiamo affermare che, almeno in questo caso, sono mancate esperienze significative basate sull’esplorazione e sull’analisi delle figure geometriche. Le attività didattiche di geometria tradizionali, basate soprattutto sulla lezione frontale, sulla costruzione geometrica con carta e matita e sul calcolo di lunghezze, angoli o perimetri in contesti poco significativi sembrano non favorire l’acquisizione dei concetti fondamentali. Anzi, abbiamo osservato come molti misconcetti presenti all’inizio del corso permangono in percentuale non insignificante anche alla fine. Al contrario, la metodologia adottata e il percorso seguito dal gruppo sperimentale ha condotto gli allievi a ricostruire e riorganizzare le conoscenze geometriche fondamentali, rimuovendo gli ostacoli e i misconcetti emersi nella fase iniziale. L’esplorazione dinamica delle figure geometriche guidata dalle schede ha fatto maturare negli alunni una maggiore capacità di osservazione abituandoli a focalizzare l’attenzione sulle proprietà, contribuendo in tal modo a dare il giusto significato ai concetti geometrici. L’utilizzo di schede guidate spinge gli alunni ad analizzare le caratteristiche visive del triangolo e a stabilire relazioni fra i vari componenti delle sue parti. Queste attività sono essenziali per progredire verso il Livello 1, il livello di analisi nella gerarchia di van Hiele, e contribuisce alla costruzione di una rete concettuale sui triangoli e allo sviluppo del pensiero geometrico. Va rimarcato, tuttavia, che i risultati positivi conseguiti non vanno attribuiti al semplice utilizzo dell’applicativo Triangoli ma piuttosto all’impianto metodologico utilizzato. L’interazione con figure dinamiche, infatti, avvia certamente gli allievi all’esplorazione e alla sco-
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perta delle proprietà geometriche, ma il software da solo non garantisce il passaggio a livelli più alti di pensiero geometrico. Un ruolo decisivo hanno giocato la scansione delle attività sulla base delle fasi di apprendimento di van Hiele, il cooperative learning, le frequenti discussioni sulla condivisione delle esperienze, così come la presentazione agli alunni di problemi geometrici situati in concreti contesti di vita quotidiana.
Riferimenti bibliografici Bartolini Bussi M. G., Boni M. & Ferri F. (1995). Interazione sociale e conoscenza a scuola: la discussione matematica, Rapporto tecnico n. 21 NRD di Modena, Modena: Comune di Modena. Batini M., Cannizzaro L., Cavallaro B., De Santis C., Lombardi V., Meneghini M., Precario L. (2004). Figure geometriche e definizioni, Quaderni di ricerca, L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate. Cannizzaro L., Menghimi M. (2006). Il pensiero geometrico dalla conoscenza percettiva alla conoscenza razionale. In L’insegnamento della matematica e delle scienze integrate, 29 B. Paderno del Grappa: Centro Morin. Castelnuovo E. (2009). L’officina matematica. Molfetta: Edizioni La Meridiana. Clements D. H., Battista M. T., Sarama J., Swaminathan S. (1997). Development of students’ spatial thinking in a unit on geometric motions and area. In The Elementary School Journal, 98 (2), pp. 171-186. Clements D. H., Battista M.T. (1992). Geometry and spatial reasoning. In D. Grouws (Ed.), Handbook of research on mathematics teaching and learning. New York: Macmillan. D’Amore B. (1999). Elementi di didattica della matematica. Bologna: Pitagora Editrice. De Lange J. (1987). Mathematics. Insight and meaning. Utrecht: OW & OC. De Lange J. (2001).The P in PME: progress and problems in mathematics education. In M. van den Heuvel-Panhuizen (Ed.), Proceedings of the 25th PME International Conference, 1, pp. 3-4. Freudenthal H. (1994). Ripensando l’educazione matematica-Brescia: La Scuola, p. 213. Gallo E. (1997). Continuità e discontinuità nella costruzione delle conoscenze geometriche. In Notiziario U.M.I., 24 (supplemento al n. 7). Fuys D., Geddes D. & Tischler R. (1984). English translations of selected writings of Dina van HieleGeldof and Pierre M. van Hiele, School of Education. New York: Brooklyn College. Fuys Geddes & Tischler (1988). The van Hiele model of thinking in geometry among adolescents. In Journal for Research in Mathematics Education Monographs, 3. Gallo E. (1997). Continuità e discontinuità nella costruzione delle conoscenze geometriche. In Notiziario U.M.I., 24 (Supplemento al n. 7). Malara N. A. (1995). L’insegnamento della geometria nella scuola media: questioni teoriche e didattico-metodologiche. In L’insegnamento della geometria, quaderno 19/1 del M.P.I. McBurney D. H. (2001). Metodologia della ricerca in psicologia. Bologna: Il Mulino. Olivero F. (1999). Cabri-géomètre as a mediator in the process of transition to proofs in open geometric situations. In W. Maull & J. Sharp (Eds), Proceedings of the 4th International Conference on Technology in Mathematics Teaching, University of Plymouth. Speranza F. (1996). Il triangolo qualunque è un qualunque triangolo? L’Educazione matematica, 1 (1), pp. 13-28. Usiskin Z. (1982). Van Hiele levels and achievement in secondary school geometry, Final report of the cognitive development and achievement in secondary school geometry Project, University of Chicago: Department of Education.
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ricerche Il passaggio fra scuola e università: un’analisi didattica School-University transition: a teaching-learning approach analysis ELISABETTA NIGRIS
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Un’indagine condotta presso il nostro Ateneo (2005/2006) relativa agli abbandoni universitari aveva messo in evidenza come gli insuccessi degli studenti durante il primo anno potevano essere ricondotti sia alla discrepanza fra le conoscenze e competenze richieste dai docenti universitari e la preparazione degli studenti sia a fattori finora meno esplorati: modalità di scelta dell’università da parte dello studente; modalità di organizzazione dell’orientamento; sfasamento fra le modalità di interazione fra docenti e studenti a scuola (eccessivo maternage, …) e all’università (richiesta di adeguamento repentino, non considerazione degli aspetti socio-relazionali,…); scollamento fra le modalità didattiche adottate nella scuola superiore e quelle messe in atto dai docenti universitari. Negli anni 2006/2007 e 2007/2008 è stata condotta un’indagine quantitativa e qualitativa volta ad analizzare questo ultimo aspetto, da cui sono emersi interessanti risultati relativi alle aspettative degli studenti e alle loro rappresentazioni rispetto alla didattica università e alle discipline trattate, e relative al rapporto tra modalità didattiche adottate dai docenti e atteggiamento cognitivo degli studenti.
A survey conducted at our University (2005/2006) on the university dropouts had revealed how the failures of students during the first year could be attributed both to the discrepancy between the knowledge and skills required by university teachers and preparing students to be far less explored factors: how to choose the University by the student, how to organize orientation; phase shift between the modes of interaction between teachers and students at school (excessive mothering) and university (required for rapid adaptation, no consideration of social and relational); disconnection between the teaching methods adopted in high school and those implemented by academics. In the years 2006/2007 and 2007/2008 a survey quantitative and qualitative was conducted time to analyze the latter, in which were found interesting results for the expectations of students and their representations in relation to university teaching and subject matters, and relating to the relationship between teaching methods adopted by teachers and students' cognitive attitude.
Parole chiave: carriera degli studente, continuità, passaggio scuola-univeristà, didattica, ricerca qualitativo-quantitativa
Key words: student career, continuity, school-university transition, methodology of teaching, quantitive-quantitative research.
Elisabetta Nigris – Facoltà di Scienze della Formazione, Università di Milano Bicocca.
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Obiettivi e attività proposte Nell’a.a. 2007-2008 la commissione Orientamento (Rapporti Scuola-Università) del nostro Ateneo, coordinata dalla Prof.ssa Elisabetta Nigris si è posta l’obiettivo di proseguire nell’indagine sulle difficoltà e i problemi degli studenti delle scuole superiori nei primi anni di università e i motivi dei conseguenti abbandoni. A questo scopo, negli anni 2007-08 e 200809 è stato realizzato un progetto pilota con la facoltà di scienze, per mettere a punto e realizzare alcune iniziative di scambio fra scuola e università, che consentissero di indagare sulle difficoltà degli studenti nel momento del passaggio all’università e individuare alcune strategie di intervento atte a compensare lo iato fra le richieste dell’università da un lato e la preparazione e le aspettative degli studenti dall’altro. In questa ottica, si è costituito un gruppo di lavoro composto da docenti universitari delle facoltà di scienze, di statistica, di economia e di informatica; docenti e collaboratori della facoltà di scienze della formazione; insegnanti di alcune scuole superiori milanesi. Il gruppo ha concordato di invitare alcune classi del quarto anno di scuola superiore dell’area milanese coinvolte, a seguire due lezioni universitarie, allo scopo di verificare con studenti e docenti le percezioni e gli immaginari degli studenti della scuola superiori, i loro pensieri e le loro reazioni dopo avere partecipato ad un momento concreto della didattica universitaria. Le lezioni a cui far accedere gli studenti delle scuole superiori sono state scelte in base ai seguenti criteri: • lezioni del primo anno di corso; • lezioni che affrontavano un tema ex novo con gli studenti universitari, senza richiedere conoscenze acquisite in altri corsi universitari; • lezioni di docenti che si dimostravano disponibili a mettersi in gioco con studenti della scuola superiore; • lezioni di più facoltà che dovevano essere suddivise fra discipline scientifiche cosiddette “hard” e discipline invece più applicative e di più facile accesso.
Soggetti e istituzioni Le istituzioni e i soggetti che hanno partecipato all’iniziativa di scambio scuola/università sono i seguenti: • 178 studenti di 10 classi di scuola superiore (3 licei scientifici e 2 istituti superiori anche ad indirizzo tecnico), frequentanti il penultimo anno; • 12 docenti delle scuole coinvolte (materie scientifiche e economiche); • 17 docenti universitari di 6 facoltà (matematica, chimica, biologia, statistica, economia, informatica). • Docenti e ricercatori della facoltà di scienze della formazione
Strumenti di indagine Gli strumenti che sono stati messi a punto per svolgere l’indagine sono un questionario e gli indicatori per condurre le conversazioni in classe.
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• Il questionario (vedi allegato), è stato somministrato a tutti gli studenti presenti alla fine di ciascuna lezione, nella stessa aula. • Le conversazioni sono state condotte in ogni classe che ha partecipato, all’interno delle rispettive scuole, a distanza di 2-3 settimane. • L’osservazione carta e matita, relative ai comportamenti di studenti e docenti della scuola durante le lezioni universitarie. • Focus group coi docenti della scuola. Le aree tematiche intorno cui vertevano sia i questionari, sia le conversazioni sono le seguenti: 1. somiglianze e differenze rintracciate fra scuola e università: in relazione ai contenuti, al linguaggio, alle modalità di trattazione dei contenuti, alla dimensione relazionale, alla comunicazione; 2. sensazioni e percezioni riguardo al punto 1; 3. difficoltà incontrate nel corso delle lezioni; 4. valutazioni degli studenti su cosa pensano possa risultare utile per: • stare più attenti, • capire di più, • sentirsi meno estranei, • ... 5. rapporto degli studenti con le materie scientifiche e con la matematica; 6. richieste degli studenti su cosa vorrebbero sapere dell’università che non è mai stato loro spiegato; 7. richieste degli studenti su cosa vorrebbero che venisse loro offerto per inserirsi meglio in una facoltà scientifica.
Analisi dei risultati Risultati delle osservazioni Nei due anni di lavoro, si è potuto osservare come, nella complessità organizzativa dovuta al difficile tentativo di far coincidere tempi dell’università e tempi della scuola, le richieste da parte degli insegnanti e le caratteristiche dei singoli gruppi classe da un lato e i suggerimenti dei docenti universitari dall’altro, l’andamento generale dei lavori e i rapporti all’interno del gruppo possono essere considerati molto positivi. Gli insegnanti e gli studenti hanno dimostrato di aver aderito all’iniziativa con interesse e alta partecipazione. I ragazzi hanno apprezzato che le lezioni fossero vere e proprie lezioni universitarie e non lezioni costruite ad hoc per studenti liceali. In un FG un ragazzo dice: “è stato interessante perché abbiamo partecipato a delle lezioni universitarie, insieme a studenti di un’altra classe, ma non era un incontro solo per noi, erano lezioni normali”, ossia quelle rivolte agli studenti universitari nella normale programmazione universitaria. Come dichiarato da alcuni studenti, le altre lezioni a cui avevano assistito all’Università erano state infatti pensate per i liceali e non sono risultate dunque così efficaci nel mettere i ragazzi nelle condizioni dello studente universitario, per capire come funziona l’università e come “dovranno regolarsi”. In una conversazione una ragazza, che aveva partecipato a lezioni di statistica nella stessa università di Milano-Bicocca dichiara: “queste lezioni erano più autentiche, erano lezioni di fisica e matematica nuove, mentre nell’altro corso ci hanno fatto creare un questionario che potevamo benissimo fare in classe con la nostra prof.”.
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Gli accompagnatori (docenti della scuola e osservatori del team del Bicocca) hanno constatato una certa soddisfazione degli studenti e degli insegnanti contestualmente alla fine delle lezioni. È emersa, tuttavia, immediatamente la difficoltà di alcuni studenti a mantenere l’attenzione per l’intera durata della lezione, mentre altri dichiarano di aver seguito e preso appunti. Questo emerge nei FG, dalle frasi, per esempio: “era difficile seguire fino alla fine la lezione”, oppure “nella prima lezione era più difficile prendere gli appunti, il prof. usava le slide velocemente”. Altri invece dicono: “Non me l’aspettavo perché pensavo a una lezione di economia come qualcosa di trascendentale e, invece, è stato piuttosto chiaro e siamo riusciti a seguire anche se non siamo neanche all’ultimo anno di liceo”. Altri studenti hanno detto che la terminologia era “universitaria”, considerando, in positivo, giusto l’uso di questo linguaggio in quanto i docenti universitari “non possono parlare come in una scuola superiore, devono essere più specifici”. La situazione non cambia quando viene fatta la pausa intermedia. Per molti la seconda lezione sembra rivelare tempi di attenzione ancora più brevi. Gli studenti, invece, che dichiarano che la loro attenzione non è caduta sono in primo luogo quelli che hanno seguito una sola lezione o che hanno saputo rispondere alle domande poste dal docente universitario. Questo aspetto è ampiamente confermato dalle loro dichiarazioni durante le conversazioni. In sostanza, abbiamo verificato difficoltà tendenzialmente maggiori a seguire le lezioni da parte degli studenti delle classi dei tecnici, ma con l’eccezione per gli studenti che hanno partecipato a lezioni maggiormente interattive. Alcuni studenti dichiarano di aver seguito bene perché sono stati supportati dai loro docenti che li hanno aiutati a capire, contestualmente alla lezione, alcuni passaggi più complessi spiegati dal professore universitario. Questo, se da un lato mette in luce una legittima soggezione degli studenti rispetto ad un contesto e ad un docente non conosciuto, dall’altro lato dimostra un interesse per quello che succede e un rapporto di familiarità e fiducia con i propri professori. Gli studenti delle classi che hanno partecipato alle lezioni della facoltà di economia sono stati accolti, mezz’ora prima dell’inizio, dal preside di facoltà che ha dato loro il benvenuto. L’accoglienza del preside ha sorpreso in positivo gli studenti che si sono sentiti presi in considerazione. Inoltre, evidenziamo che gli studenti sono stati favorevolmente colpiti dall’intervento della prof.ssa Pomello che ha presentato brevemente la facoltà di informatica ed ha accolto le domande poste dagli studenti, alla fine della lezione proposta dalla facoltà. Analisi dei dati del questionario Attraverso due domande a risposta multipla sono stati rilevati gli elementi che sono piaciuti maggiormente della lezione e quelli che risultano più sgradevoli. L’analisi nel dettaglio di ciò che è stato apprezzato (“è piaciuto”) mette in evidenza quanto l’attenzione dei docenti universitari nei confronti degli aspetti comunicativi e relazionali siano stati accolti favorevolmente dagli studenti: considerando tutte le lezioni, questo elemento raccoglie il 43,3% di consensi. Che questo dipenda dalla scelta di lezioni/docenti dove si rileva una particolare sensibilità nei confronti di questi fattori, oppure dal fatto che comunque anche nelle molte lezioni universitarie si riscontri una maggiore cura degli aspetti comunicativo-relazionali, il dato mette in luce come sia fondamentale che la didattica universitaria consideri centrali le relazioni con gli studenti e la gestione della comunicazione in aula. Questa voce non era presente nel questionario dello scorso anno ed è stata inserita quest’anno perché era emersa più volte dalle risposte aperte e dai focus; la voce corrispondente nello scorso questionario era “dialogo con gli studenti” che raggiungeva però solo il 19,8% dei casi. Rispetto alle modalità di spiegazione, si conferma come nelle lezioni seguite gli studenti riconoscano un buon grado di chiarezza espositiva al 33,4%, anche se sicuramente non possiamo in prospettiva non interrogarci sui quasi 2/3 degli studenti che rispondono diversa-
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mente. Questo dato, andrà infatti collegato agli items successivi relativi a (efficacia degli esempi, chiarezza terminologica, legame col mondo reale e adeguatezza del numero di argomenti trattati). Infine, ancora una volta gli studenti delle superiori mettono in luce come la dimensioni di libertà e dell’autonomia di cui, secondo loro, possano beneficiare gli studenti universitari, risulta per molti (34,1%) un fattore di apprezzamento. Questo dato, se per un verso potrebbe essere considerato una risorsa rispetto al futuro buon inserimento e adattamento al mondo universitario, dall’altro lato è comunque in parte contraddittorio se consideriamo il fatto che poi chiedano una maggiore attenzione dei docenti ai ritmi e alle capacità degli studenti. Questa ambiguità, peraltro, è un dato che molti docenti riscontrano nelle matricole a anche in studenti degli anni successivi: da un lato evidenziano comportamenti poco costanti e “disciplinati” nel seguire le lezioni e la programmazione universitaria, in nome di questa autonomia e libertà, dall’altro lato però richiedono un maternage e un tutoraggio molto stretto quando si trovano in difficoltà. Le altre voci vanno invece analizzate dopo avere preso in considerazione cosa è piaciuto meno. Cosa ti è piaciuto di più della lezione che hai seguito? Piaciuto di più: Approccio comunicativo/relazione del professore Piaciuto di più: Libertà/autonomia degli studenti Piaciuto di più: Chiarezza espositiva Piaciuto di più: Argomento trattato Piaciuto di più: Metodo di spiegazione Piaciuto di più: Strumenti usati Piaciuto di più: Atmosfera Piaciuto di più: Linguaggio usato dal prpf. Piaciuto di più: Uso di esempi Piaciuto di più: Ritmo della spiegazione Piaciuto di più: Materiali usati Piaciuto di più: Ambiente fisico Piaciuto di più: Uso di termini tecnici
Conteggio
% casi colonna
129 102 100 77 77 64 55 46 46 43 31 27 6
43,3% 34,1% 33,4% 25,8% 25,8% 21,4% 18,4% 15,4% 15,4% 14,4% 10,4% 9,0% 2,0%
Dalle risposte alla domanda “cosa ti è piaciuto di meno?” emerge una certa sofferenza per il “ritmo della spiegazione” al 28,9%: come nelle conversazioni, gli studenti dichiarano che a scuola i docenti (e quindi anche gli studenti) sono abituati a rallentare o dosare il ritmo della spiegazione e la quantità dei contenuti proposti in base al ritmo e alla capacità di apprendimento dei ragazzi; secondo la percezione degli intervistati, la tendenza dei docenti universitari è quello di non adeguare la programmazione didattica in base ai ritmi dell’aula: Questo dato ci interroga sulla necessità di trovare strategie adeguate di monitoraggio dell’attenzione e dell’apprendimento almeno nei primi anni universitari, così come sul fatto che conseguentemente le prime lezioni e le lezioni del primo anno in genere debbano essere caratterizzate da una maggiore attenzione alla preparazione degli studenti, alla loro effettiva capacità di apprendimento e soprattutto all’opportunità di rivedere le modalità di conduzione della didattica, soprattutto rispetto al numero degli argomenti trattati e alla velocità con cui vengono esposti. Secondo alcuni studi, la “velocità” nel passare in rassegna diversi argomenti e/o concetti è legata a quello che viene definito “effetto power point”, ossia la tendenza a pensare che l’ausilio delle slides, di immagini e di sintesi consenta al do-
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cente di presentare una densità maggiore di argomenti in poco tempo. A questo va aggiunto il fatto che negli elementi non graditi troviamo l’uso di termini tecnici. Questo aspetto rientra nelle questioni spesso discusse rispetto alla didattica universitaria e alla didattica disciplinare in genere. Sicuramente la proprietà di linguaggio e la precisione nell’uso del linguaggio tecnico, specifico di ogni disciplina o ambito del sapere, rientra negli obiettivi che a diversi livelli e con diverse gradazioni devono porsi gli insegnanti di tutti gli ordini e gradi di scuola. Spesso, però, più un docente è competente nel suo ambito disciplinare oppure soltanto centrato sui contenuti, più considera la precisione terminologica un prerequisito e non un obiettivo. Dal punto di vista dei docenti universitari, questo contraddizione è ancora più sentita, in quanto si dà per scontato che i prerequisiti “debbano” essere acquisiti nei livelli di scuola precedenti, rimandano dunque il problema ai docenti della scuola e/o a un generale “abbassamento del livello” degli studenti, che in ogni caso non può non essere preso in considerazione. Questi dati vanno senza dubbio collegati alla domanda “come collocheresti la lezione che hai appena seguito” rispetto ad alcuni items che risultano di particolare rilevanza e a quella legata alle difficoltà riscontrate. Un’analisi approfondita delle difficoltà, infatti, mette in evidenza quanto la comprensione dei passaggi durante le spiegazioni (55,6%) e la mancanza di basi e preconoscenze (47,6%) siano nella sostanza i maggiori ostacoli degli studenti delle superiori. Conteggi Difficoltà riscontrata: Comprensione di alcuni passaggi o argomenti Difficoltà di comprensione per mancanza di basi Linguaggio Quantità dei contenuti affrontati Argomenti troppo astratti Altre difficoltà
SI SI SI SI SI SI
105 90 33 23 14 2
% casi colonna
55,6% 47,6% 17,5% 12,2% 7,4% 1,1%
La lezione è stata giudicata dagli studenti anche rispetto a degli item che ne potevano chiarire la propria percezione in una scala da 1 a 6. I risultati sono stati utilizzati per calcolare un punteggio indicizzato (Iscore) che varia da 0 a 1. Rispetto alle seguenti caratteristiche, come collocheresti la lezione che hai appena seguito? (rispondi scegliendo una gradazione da 1 a 6.)
Iscore
Chiarezza della Spiegazione Efficacia degli Esempi Chiarezza terminologica Legame col mondo reale Adeguatezza numero di argomenti trattati Esplicitazione dei passaggi logici Adeguatezza della Velocità di Esposizione Adeguatezza della durata della Lezione Tuo interesse per l’argomento trattato
0,708733 0,695346 0,686901 0,680239 0,672638 0,646774 0,642551 0,630529 0,593184
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È possibile ritenere positivi gli indici più vicini a 1, e quindi riconoscere in ordine di frequenza di risposte, nella chiarezza dell’esposizione, nell’efficacia degli esempi, nella chiarezza terminologica, nel legame col mondo reale le caratteristiche maggiormente riscontrate degli studenti durante le lezioni. Da una prima lettura, che andrebbe sicuramente approfondita, si potrebbe pensare che le difficoltà degli studenti di fronte alla velocità di spiegazione/numero degli argomenti trattati e la loro difficoltà di comprensione di alcuni passaggi e del linguaggio tecnico, potrebbe essere compensata da una ancora maggiore attenzione e cura degli esempi riportati dal docente o dei collegamenti con il mondo reale che quest’ultimo riesce a individuare e illustrare. Risulta invece piuttosto critico l’interesse per l’argomento trattato, ma è anche questo un dato piuttosto attendibile dato che nelle classi delle superiori si ritrovano sia studenti che sono maggiormente orientati ad altre facoltà sia studenti che dopo il diploma cercheranno subito un lavoro. Il secondo elemento meno gradito è infatti l’argomento trattato (20,7%), che troviamo però contestualmente anche al 25% tra i più graditi: ne deduciamo che dipenda dalle future scelte dei ragazzi che differiscono naturalmente a seconda dei soggetti. Questo livello di ambiguità e il numero più basso di frequenze tra gli elementi meno graditi, rende necessaria una ulteriore analisi comparata degli items. Cosa ti è piaciuto di meno della lezione che hai seguito? Piaciuto di meno: Ritmo della spiegazione Argomento trattato Ambiente fisico Atmosfera Uso dei termini tecnici Approccio comunicativo/relazionale del professore Chiarezza espositiva Strumenti usati Metodo di spiegazione Materiali usati Uso di esempi Libertà/autonomia degli studenti Linguaggio usato dal prof.
Conteggi
88 63 53 47 44 40 40 36 33 28 21 19 17
% casi colonna
28,9% 20,7% 17,4% 15,5% 14,5% 13,2% 13,2% 11,8% 10,9% 9,2% 6,9% 6,3% 5,6%
In questa tabella sono stati raccolti e messi in comparazione tutti gli items delle domande “cosa ti è piaciuto di più” e “cosa ti è piaciuto di meno”. Considerando le differenze di frequenza e di distribuzione percentuale, è possibile avere un quadro più preciso che permette di leggere le situazioni ambigue. È così possibile capire che “l’argomento trattato” è legato ad aspetti soggettivi, così come tutti gli item che troviamo entro il range 0-10% delle differenze percentuali (colonna diff%). Risulta quindi piuttosto positivo anche il “metodo di spiegazione”, mentre i 3 item che risultano critici rimandano all’ordine già discusso in precedenza: “ritmo della spiegazione” (-14%), l’uso di termini tecnici (-12,5%) e l’ambiente fisico (-8,4%). Le considerazioni negative sull’ambiente fisico sono emerse soprattutto quest’anno rispetto allo scorso anno, ma non sembrano influire più di tanto sulla percezione generale dell’evento didattico, se consideriamo gli altri dati quantitativi e qualitativi.
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Piaciuto di più Conteggi
Approccio comunicativo/relazionale del professore Libertà/autonomia degli studenti Chiarezza espositiva Metodo di spiegazione Linguaggio usato dal prof. Strumenti usati Uso di esempi Argomento trattato Atmosfera Materiali usati Ambiente fisico Uso dei termini tecnici Ritmo della spiegazione
129 102 100 77 46 64 46 77 55 31 27 6 43
piaciuto di meno
% casi colonna
Conteggi
43,3% 34,1% 33,4% 25,8% 15,4% 21,4% 15,4% 25,8% 18,4% 10,4% 9,0% 2,0% 14,4%
40 19 40 33 17 36 21 63 47 28 53 44 88
% casi colonna
13,2% 6,3% 13,2% 10,9% 5,6% 11,8% 6,9% 20,7% 15,5% 9,2% 17,4% 14,5% 28,9%
diff.
diff.%
89 30,1% 83 27,9% 60 20,3% 44 14,9% 9,8% 29 9,6% 28 8,5% 25 5,0% 14 2,9% 8 1,2% 3 -26 -8,4% -38 -12,5% -45 -14,6%
Contenuti trattati durante le lezioni Solo nel 16,9% dei casi gli studenti dichiarano di aver già trattato in classe i contenuti presentati durante la lezione universitaria seguita, ma più in generale intorno al 50% (16,9 + 43,1) hanno rilevato un possibile aggancio fra le loro conoscenze pregresse e i contenuti della lezione universitaria: se alcuni sostengono che si tratta di argomenti già trattati a scuola, altri affermano di avere appreso qualcosa sull’argomento attraverso altre fonti, dove si registra un 8% in più di risposte “in parte” (43%, 1% in parte già studiate a scuola e 50,2% in parte già conosciute). Frequenza I contenuti trattati durante la lezione li avevi già studiati a scuola? Si No In parte Totale Non risponde Totale
55 110 140 305 20 325 Frequenza
I contenuti trattati durante la lezione li conoscevi già? Si No In parte Totale Non risponde Totale
82
54 95 163 312 13 325
Percentuale
16,9% 33,8% 43,1% 93,8% 6,2% 100,0% Percentuale
16,6% 29,2% 50,2% 96,0% 4,0% 100,0%
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Analizzando le risposte, emerge che gli studenti che riconoscono i contenuti trattati si distribuiscono diversamente anche all’interno delle stesse classi, mostrando una probabile correlazione fra il dato e i diversi livelli di preparazione, il tempo passato dalla trattazione dell’argomento e forse anche la didattica del docente di quella data classe: nelle classi 4C del Virgilio e 4D del Primo Levi si registrano le frequenze più elevate di dichiarazione secondo cui il tema è stato trattato a scuola, mentre solo nella 4D del Virgilio gli studenti sono unanimi nel dire che l’argomento non è stato trattato precedentemente.
Beccaria Beccaria Primo Levi Virgilio Virgilio Virgilio Cremona Cremona Zappa ITT Pasolini Totale
2B 2C 4D 4C 4D 4XC 4A 4B 4Ct 4 At
Si
No
In parte
Si
No
In parte
Totale
Conteggio
Conteggio
Conteggio
Conteggio
%
%
%
7 1 8 13 0 2 4 2 1 17 55
19 23 7 7 27 14 3 1 9 0 110
16 16 16 17 4 16 23 13 16 3 140
42 40 31 37 31 32 30 16 26 20 305
16,7 2,5 25,8 35,1 0,0 6,3 13,3 12,5 3,8 85,0 18,0
45,2 57,5 22,6 18,9 87,1 43,8 10,0 6,3 34,6 0,0 36,1
38,1 40,0 51,6 45,9 12,9 50,0 76,7 81,3 61,5 15,0 45,9
Quello che però interessa in modo specifico la nostra riflessioni relativa al passaggio fra scuola e università e la possibile riduzione degli abbandoni è costituita dal fatto che la possibilità di avere già affrontato l’argomento a scuola sembra essere determinante per la buona fruizione della lezione universitaria: il 13,8% di studenti che dichiarano di avere riscontrato difficoltà nel seguire la lezione non avevano affrontato l’argomento a scuola se non in parte, mentre ben l’85,5% di studenti che hanno dichiarato di avere trattato l’argomento a scuola non hanno riscontrato difficoltà. Anche se si tratta di una variabile di difficile lettura, appare comunque evidente come possa influenzare la percezione della giornata in università.
Hai riscontrato difficoltà con gli argomenti trattati a lezione? Si No In parte Totale Non risponde Totale
83
Frequenza
Percentuale
45 121 146 312 13 325
13,8 37,2 44,9 96,0 4,0 100,0
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I contenuti trattati durante la lezione li avevi già studiati a scuola? Hia riscontrato difficoltà con gli argomenti trattati a lezione? Si No In parte
SI
NO
IN PARTE
Conteggio
% casi colonna
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% casi colonna
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% casi colonna
0 47 8
0% 85,5% 14,5%
33 24 52
30,3% 22,0% 47,7%
12 45 82
8,6% 32,4% 59,0%
• Se consideriamo questi dati come possibile stimolo all’analisi della didattica universitaria e della possibilità di plasmarla in modo da rendere meno problematico il passaggio all’università degli studenti delle scuole superiori, questo dato ci spinge a considerare che non si possono più dare per scontati i prerequisiti finora definiti nei diversi corsi e corsi di laurea, nonché ci suggerisce alcuni possibili accorgimenti che potrebbero ridurre in futuro gli abbandoni. In generale, comunque, la lezione appare comunque nel suo complesso vissuta piuttosto positivamente, soprattutto considerando che meno di un terzo degli studenti l’ha trovata pesante per la sua durata. Più specificamente, però, Il 25,2% ha rilevato la difficoltà nel potersi inserire con domande o partecipare attivamente (sia per quanto riguarda loro che gli studenti universitari presenti), il 19,8% non ha apprezzato l’assenza di pause. Solo il 14,7% ha rilevato l’assenza di controllo, da parte del docente, nella gestione dell’aula; questa questione è stata più volte ripresa nel corso dei focus e rimarcata anche nella sperimentazione dell’anno scorso.
Quali delle seguenti frasi meglio descrive la tua partecipazione alla lezione? Percezione lezione: Ti è passata la durata della lezione Ti è sembrato difficile inserirsi con le domande o partecipare attivamente Ti è pesata l’assenza di pause Rapporto docente/studente impersonale Hai notato l’assenza di controllo da parte del docente Difficoltà nel prendere appunti Altro
Frequenza
Percentuale
88 79 62 47 46 44 7
28,1% 25,2% 19,8% 15,0% 14,7% 14,1% 2,2%
Anche l’attenzione ha influito sulla percezione della lezione: il 33,2% degli studenti dichiara di essere riuscito a stare attento per tutto o quasi la lezione, il 24% per circa metà lezione, il 26,2% è stato attento per periodi frammentati, mentre il 7,4% dopo una prima parte non è più riuscito a seguire.
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Quali delle seguenti frasi meglio descrive la tua partecipazione alla lezione? Sei stato attento per tutta o quasi la lezione Sei stato attento per circa metà lezione Sei stato attento solo nella prima parte (circa 20 minuti) Hai seguito qualche parte, intervallando con momenti di distrazione Non sei riuscito a seguire niente o quasi Totale Non risponde Totale
Frequenza
Percentuale
108 78 24 85 13 308 17 325
33,2% 24,0% 7,4% 26,2% 4,0% 94,8% 5,2% 100,0%
Le cause delle disattenzioni si sono concentrati su diversi fattori: • la stanchezza fisica nel 43,4% dei casi: questo dato è collegabile alla difficoltà degli studenti della scuola superiore a mantenere una certa concentrazione e dose di attenzione per un lungo periodo (dato su cui è sicuramente necessario riflettere con gli insegnanti delle scuole superiori.) • le difficoltà di comprensione dei contenuti presentati (21,4%): il dato può essere collegato a quanto si diceva precedentemente rispetto alla necessità di monitorare in aula la comprensione degli studenti di quanto spiegato, ma anche al fatto che rimane una lezione del secondo semestre e che gli studenti sono ancora in quarta superiore. • per il 20,4% degli studenti la “noia” nei confronti della lezione: non è facile analizzare il dato senza ulteriori approfondimenti, in quanto non è possibile distinguere fra la noia sia legata ai contenuti, alle modalità di conduzione o alle caratteristiche degli studenti. • 10,2% sostiene che la sua disattenzione sia legata alla numerosità di argomenti trattati a lezione: il dato non è particolarmente significativi, ma va sicuramente considerato soprattutto se lo si mette in relazione agli items precedentemente analizzati. Un dato molto significativo rispetto alla positività dell’esperienza è riscontrabile nella percentuale di 39,1% di studenti che dichiarano un desiderio di approfondimento della materia dopo avere seguito la lezione.Tale risultato è piuttosto correlato al rapporto del singolo studente con quella data materia trattata a lezione (61,6% di associazione tra chi vuole approfondire e chi trova piacere nella materia), ma sicuramente è dovuto anche a come l’argomento è stato trattato a lezione. Analisi delle conversazioni Come già rilevato, il dato più evidente, ripetuto e sottolineato, è il fatto che l’università viene percepita come un ambiente dove gli studenti sono più “liberi”. Frasi ricorrenti sono “ c’è più libertà, c’è più autonomia”, ”sei costretto ad autogestire il tuo studio”, “è un ambiente più rilassato e più libero, lo studente è molto più autonomo e responsabile”. C’è l’idea che all’università uno studente studi finalmente solo quello che gli piace e dove non si seguono le materie “non gradite”, “è un mettersi alla prova con maggiore possibilità di scelta”. Allo stesso tempo, viene richiesto di essere “più responsabili”: utilizzando le parole degli studenti, secondo la maggior parte di loro, ”rispetto alla scuola, dove i professori ti accompagnano nella comprensione dei contenuti, e controllano persino che tu stia attento, all’università non c’è un prof-mamma, devi capire da solo, non puoi chiedere di rispiegare, ti senti un numero”.
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Gli studenti ritengono che i loro colleghi universitari siano meno controllati dai docenti, sia rispetto alla loro attenzione durante le lezioni (“Il rapporto è più impersonale: la professoressa non può fermarsi ogni volta che vede qualcuno parlare, non può richiamarli anche perché non li conosce e poi non andrebbe avanti con la lezione perché dovrebbe interrompersi spesso”) sia rispetto alla loro preparazione in itinere (“Non ci sono verifiche, ma solo gli esami finali scritti o orali, nessuna interrogazione della settimana. Puoi decidere di frequentare o meno, puoi non studiare in modo costante e rimandare all’esame, rifare l’esame. Puoi rifiutare il voto o rifare l’esame. Non devi andare tutti i giorni, a volte fai mezza giornata. L’organizzazione è individuale e non di classe, ognuno fa per sé, nessuno ti sta addosso e non ti dirà mai: domani riportami il compito firmato”). È da evidenziare che gli studenti che hanno partecipato ad alcune lezioni sono stati colpiti dalla “confusione” e dalla “scarsa attenzione “ soprattutto nelle aule grandi. Negli ultimi banchi c’erano studenti che “si facevano i fatti propri, non stavano attenti”. “C’erano molti ragazzi (studenti universitari) che continuavano a parlare e si divertivano a spingere le seggiole in avanti, mandavano sms, mangiavano,…”. C’è un certo stupore per le persone che non seguono anche perché “l’università si sceglie, nessuno ti obbliga ad andare”. Diversa percezione hanno avuto altri studenti presenti alla lezione di matematica che dicono: “dopo un’ora e mezza c’erano studenti che prendevano ancora appunti. E se uno studente disturbava era sbattuto fuori dall’aula. Un altro dato che viene rilevato è legato alla stanchezza provata dopo una lezione: molti ragazzi trovano difficile stare attenti per un “periodo così lungo”, fanno fatica a mantenere la concentrazione, a prendere appunti, ritenendo un po’ densi i contenuti e la spiegazione troppo veloce. Alcuni affermano che “la spiegazione era difficile, complicata e senza interruzioni e il discorso troppo lungo”. Per qualcuno“è stato pesante: non si riesce a seguire, non si capisce”. Dichiarano che la scuola dovrebbe prepararli ad affrontare queste difficoltà, di cui sono divenuti consapevoli (“ci vorrebbe un altro metodo di spiegazione al liceo per capire. All’università vale di più lo stile del professore, nessuno alza la mano per fare domande. Si parla di meno, c’è meno il confronto tra professore e studente. Ci sono il triplo di studenti rispetto ad una classe delle superiori”. Alcuni affermano: “…i nostri professori non ci hanno preparato bene (non tutti), non ci sentiamo pronti per affrontare il test di ingresso dell’università…”. “Se vuoi seguire devi stare in prima fila, chi era seduto dietro (come me) sentiva lo stesso però con fatica”. Il giudizio non è unanime, infatti altri affermano che “la velocità e il ritmo della lezione consentivano agevolmente di prendere appunti: a scuola siamo abituati con dei tempi cortissimi a prendere appunti (non fai a tempo a finire una frase che già ne inizia un’altra …) ”. Secondo una parte degli studenti le lezioni trattano una quantità di argomenti e contenuti di molto superiore a quella esposta nelle lezioni a scuola (“ho imparato più in una lezione che in una settimana a scuola, all’università danno più riferimenti, trovi gli appunti del professore sul sito”). Il professore all’università faceva un “badilata di esempi; gli esempi erano reali, c’era un forte collegamento con la realtà che gli studenti conoscono (caso Fiat) ”. Ma non ci si può distrarre: “i docenti universitari non possono parlare come in una scuola superiore, devono essere più specifici , al liceo si spiega in modo che tu capisca, mentre lì si spiega secondo il metodo del professore”. “I professori non ti aspettano, non puoi fare domande”. Gli studenti hanno intuito una differenza nelle modalità di studio in termini di autonomia e rielaborazione personale: “Rispetto alla lezione sei tu in un rapporto individuale […] con l’argomento. E quindi devi tentare di percepire più cose possibili, che poi ti saranno utili […] In una classe gli studenti discutono sulle pause: “in mezzo alla lezione c’era pure un intervallo, una giusta idea che ti permetteva di riprenderti un attimo, di riorganizzarti...”. Per altri invece le pause erano “eccessive nel numero, non avevamo nessun problema a seguire, non aveva senso. Ma il
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professore ha detto che era la prima lezione e non ne avrebbe più concesse così tante, solo nelle prime due lezioni per ingranare.”. Rispetto alla comprensione dei contenuti e alla reazione degli studenti nei singoli corsi, ci sono posizioni diversissime, spesso opposte fra loro, anche quando riferite alla stessa lezione (“mi mancavano le basi per seguire fisica”, “il linguaggio era tecnico, ma si capiva tutto perché erano cose che avevamo già fatto”, “fisica, l’ho trovata complicata e spiegata con una metodologia complessa, invece la lezione di matematica l’ho trovata molto semplice, parole semplici. Forse anche perché era la prima lezione del semestre di algebra e invece fisica era già il secondo modulo “.“ La lezione sugli algortimi era pesante, non avevamo le basi, quella di demografia è stata più chiara e più interessante”. “La lezione di bancaria era più pensante e più difficile, più accattivante quella di economia, anche per l’uso delle slide”. Gli studenti hanno valutato e confrontato le lezioni, apprezzando sempre gli strumenti di presentazione (lucidi scritti sul momento piuttosto che presentazioni in Power Point). I commenti relativi ai singoli argomenti, alle specifiche discipline o ai singoli corsi sembrano caratterizzate più da aspetti emotivi e soggettivi, piuttosto che argomentati secondo motivazioni ragionate e analitiche. Le posizioni variano in base a: • interesse e curiosità - oppure ostilità - personali per un certo contenuto od una certa disciplina (“le materie scientifiche mi piacciono, ma non le capisco”). • la percezione che il singolo o la classe hanno rispetto alla loro preparazione, alle loro conoscenze pregresse, rispetto a quel determinato argomento o a quella disciplina (“puoi avere un interesse per la fisica o per la matematica e non riuscire molto. La maggior parte della classe ha un interesse, ma ha difficoltà sia in matematica che in fisica. Abbiamo difficoltà di base, magari capiamo, ma abbiamo difficoltà nell’applicazione”. Al liceo classico gli studenti affermano; “facciamo poco rispetto agli altri, ma possiamo fare qualunque cosa con la nostra preparazione, chi va al classico può andare ovunque anche se le materie scientifiche hanno poco spazio”. • l’idea di “essere portati” o meno per la materia (“più o meno tutti abbiamo interesse per le materie scientifiche. Facciamo il liceo scientifico, quindi le materie scientifiche sono capite, ci piacciono”. In un’altra classe invece uno studente dice: “la maggioranza va relativamente male in matematica” e, alla domanda del conduttore “Vi piace la matematica?” rispondono: “sì …, no, dipende che parte perché finché è matematica algebrica già la posso sopportare, ma quando si passa a geometria non c’è niente da fare la mente proprio si chiude”. • Per alcuni la maggiore o minore comprensione, il maggiore o minore interesse vengono collegati al fatto che una lezione possa essere più teorica o più applicativa “era difficile perché era tutta teoria e niente pratica”; • Questo si collega in parte a quanto dichiarano rispetto al loro rapporto con le materie scientifiche: “in altre scuole (liceo scientifico) fanno matematica a un altro livello e gli studenti sono più avvantaggiati di noi. O ci mettiamo a fare la matematica che fanno in quelle scuole (è impossibile !) oppure … non ha senso …”, un altro studente dice: “ci vuole la matematica. In tutte le scuole la matematica deve esserci perché la matematica c’è, più o meno, in tutte le Università. Non è il modo in cui viene proposta la matematica a renderla ostica è proprio la matematica in generale che non va”. • Molti, infatti, fanno riferimento al fatto che il loro rapporto con le materie scientifiche, la passione per queste materie e i risultati scolastici in questi ambiti dipendono fortemente da: • una predisposizione personale (“Matematica è una materia per cui devi essere portato”); • il primo approccio con la disciplina (“Bisogna capire dall’inizio”); il fatto che non si ottengono mai risultati positivi, anche studiando e provando a recuperare ”comunque
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io escluderò le materie scientifiche abbastanza a priori senza mai davvero averle capite, senza mai averle prese in considerazione”. “Sarebbe necessario che ci facessero amare di più la matematica perché se non la ami non capisci e se non capisci le basi è uno sfacelo. Poi la odi, vai male e arrivi in quinta che dici la matematica sarà l’ultima delle mie occupazioni”. • il rapporto con il docente, la sua passione e la sua capacità di trasmettertela (gli studenti di una scuola riconoscono l’importanza di “avere dei professori che amano la propria materia e che ti trasmettono l’amore per la propria materia”. Una studentessa dice: “bisognerebbe già dal liceo portare lo studente e farlo maturare e poi impostare la materia come è fatta. Per esempio, la nostra prof. di matematica imposta le lezioni già come all’università, e questo ci aiuta. Il problema è che noi veniamo un po’ troppo aiutati , siamo presi in considerazione come persone. Bisognerebbe fare questo passo prima, oppure dopo dare un po’ più di tempo”. Un altro punto che viene ampiamente messo in evidenza da tutti i gruppi classe è quello della comunicazione e delle relazioni che intercorrono fra i diversi soggetti. Alcuni lamentano la mancanza del gruppo classe e la mancanza di dialogo. Le persone non si conoscano fra loro e il professore non conosca gli studenti. Il rapporto impersonale docenti-studenti è narrato attraverso espressioni come: “Con la docente non c’era molto rapporto, il rapporto è freddo: io preferisco così: se segui capisci, se no…”, “c’è un diverso rapporto, di indipendenza, rispetto alla scuola non si era seguiti, ognuno era libero di seguire o meno”.) “La professoressa non può richiamare, il rapporto è più impersonale: la professoressa non può fermarsi ogni volta che vede qualcuno parlare, non può richiamarli anche perché non li conosce e poi non andrebbe avanti con la lezione perché dovrebbe interrompersi spesso”. Gli studenti fanno notare poi differenze rispetto al liceo: “il rapporto con il professore, qua al liceo, ti guarda in faccia, ti conosce perfettamente, lì il professore parla a una classe di persone, non c’è più la dimensione dell’interrogazione o del professore che si rivolge a te, per cui in un certo senso è come guardare un film, puoi stare attento o no, il film va avanti lo stesso”. Rispetto a questo tema, come già relativamente al tema della libertà e responsabilità, si riscontrano delle opinioni contraddittorie e posizioni differenziate. Alcuni studenti, ad esempio, rilevano con dispiacere che all’università non c’è la continuità che invece caratterizza la scuola, che nei corsi i ragazzi e anche i professori sono sempre diversi; se per alcuni questo non permette di creare legami e relazioni, “il professore è il professore che spiega e basta; non ci sono rapporti tra professori e studenti”, per altri questo evita che i docenti “ti etichettino”, infatti “per i prof. sei solo un numero di matricola, nessun rapporto, cosa che può essere anche positiva. Il professore del liceo considera il singolo caso, ma ci sono anche le famose preferenze, di voti e quant’altro. Non penso che un prof. in università faccia preferenze, dà un venticinque a uno di cui non saprà più il nome il giorno dopo, perché è un numero di matricola e basta”. Anche riguardo alla possibilità/propensione degli studenti universitari di fare domande, da un lato viene notato che in alcuni corsi “nessuno fa domande”; ad alcuni sembra persino che esista una regola non detta secondo cui non si deve interrompere il docente. “il prof non viene mai interrotto”. Ad esempio, uno studente afferma: “a scuola i professori aspettano e coinvolgono la classe e puoi permetterti di fare domande; là assolutamente no”. Più in generale gli studenti affermano che “non c’è molta partecipazione alle lezioni, non c’è molta interazione fra docente e studente”. Anche in questo caso, per una parte degli studenti viene ritenuto un aspetto negativo per altri questo si ricollega alla maggiore libertà degli studenti universitari rispetto a quelli delle scuole superiori: “I docenti ti seguono meno; il responsabile di quello che fai sei tu”. Leggiamo poi percezioni molto negative da parte di alcuni: “il docente avrebbe dovuto interagire un po’ di più. Innanzitutto tenere il microfono vicino perché non si sentiva, variare il tono di voce (era piatto e addormentava) e poi interagire con gli studenti: fare qualche battuta, qualche domanda.
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Si sentiva poco, qualcuno lo diceva allora (la docente) alzava la voce per un po’ poi la riabbassava, nella seconda lezione si seguiva un po’ meglio, era più semplice da capire, il prof. ha affrontato più argomenti, scriveva a mano sui lucidi”. Si sottolinea l’importanza che il professore mantenga la relazione con il contatto visivo (a matematica), mentre “quello di fisica era quasi sempre voltato che scriveva”. Quasi tutti concordano sul fatto che i docenti universitari hanno diversi stili relazionali e che questo non crea problemi, sia perché si riconosce che succede anche a scuola, sia perché alcuni studenti preferiscono stili comunicativi diversi (più o meno formali, più o meno coinvolgenti, più o meno attenti): alcuni prediligono professori più dialogici e informali; altri cercano e apprezzano – in alcuni casi, perché lo ritengono un segno di maggior professionalità – uno stile più formale e accademico. Un aspetto molto menzionato dagli studenti è quello del linguaggio. La maggior parte degli studenti dichiara che viene usato un linguaggio molto specifico, molto tecnico a cui non sono abituati: “Il linguaggio è molto più specifico, più preciso; spesso i termini usati erano in inglese”. Anche in questo caso, troviamo posizioni differenti: per una parte di loro questo costituisce un ostacolo alla comprensione (“non si capiva di cosa si stava parlando”), ma troviamo alcuni per cui questo fatto costituisce un segnale della maggior competenza del professore e del fatto “che si è all’università”, quando dicono “il linguaggio era tecnico, ma si capiva tutto perché erano cose che avevamo già fatto”. Rispetto alla difficoltà di comprensione dei contenuti trattati, molti fanno riferimento alla velocità con cui spiega il professore e alla densità dei contenuti che viene illustrata in una lezione, come abbiamo già accennato. E questi due aspetti, secondo alcuni, potrebbero essere la causa del fatto che gli studenti universitari non fanno domande. Molti studenti hanno anche fatto riferimenti alle strategie utilizzate dai docenti universitari che li hanno aiutati a capire meglio i contenuti. Questi dichiarano di esser stati aiutati da: • illustrazione di esempi e riferimenti alla realtà quotidiana, (“il professore faceva degli esempi tratti dalla realtà, per esempio il caso FIAT;”); • uso di immagini (foto della realtà e non solo grafici) Un ultimo aspetto che gli studenti hanno giudicato positivamente è riferito ai materiali, all’attrezzatura e agli strumenti (grandi lavagne scorrevoli , computer, videoproiettore, microfono, …) usati a lezione che vengono descritti come sofisticati tecnologicamente, all’avanguardia. Sono letti dunque come segno di alto livello scientifico-professionale dell’università e come stimolanti: “i professori fanno lezione col microfono, usano molto il videoproiettore per fare lezione “. Anche l’ambiente è apprezzato: “è bello, grande e luminoso e stimola allo studio”. Gli edifici dell’università sono stati percepiti in positivo (“l’odore sapeva di nuovo”, era bella pulita, ben organizzata la struttura interna … c’era lo specchio in bagno!”). Per alcuni invece l’ambiente ha suscitato ansia: “l’aula grande è dispersiva, troppo spazio vuoto è sgradevole”, qualcuno dice: “l’aula era troppo grande e c’era solo luce artificiale”. Inoltre, gli studenti segnalano che i professori universitari usano sempre attrezzature multimediali (“Era interessante: avere la presentazione in PowerPoint […] delle immagini a cui fare riferimento”). mentre a scuola si usano sporadicamente anche quando ci sono. “In Università, le lezioni sono proposte con lucidi scritti sul momento o presentazioni pronte in Power Point; a scuola, siamo un po’ più spartani: a lezione non vengono mai usate né la lavagna luminosa n il videoproiettore.” Viene considerato positivamente il fatto che si possano portare in aula il portatile e il registratore, “ho visto studenti che prendono appunti col PC”. Nelle aule grandi, c’è il problema che chi non è davanti non vede. Un’osservazione comune a molti studenti riguarda infatti la struttura delle aule: data la presenza di un alto nu-
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mero di studenti, quelle a gradoni permettono di vedere e di seguire meglio le lezioni e gli studenti dicono di sentirsi maggiormente in grado di concentrarsi.
Analisi dei focus group coi docenti Dall’analisi dei focus groups viene ribadito che i docenti delle scuole hanno apprezzato la riuscita dell’iniziativa e l’apprezzamento da parte degli studenti rispetto alla proposta. Secondo gli insegnanti: questo incontro ha fornito agli studenti l’opportunità di familiarizzare con il contesto universitario e di riflettere: • sui loro comportamenti nei confronti dell’attività scolastiche: grado di concentrazione, capacità di seguire e comprendere un discorso complesso, capacità di prendere appunti, bisogno di essere continuamente monitorati e sostenuti, capacità di prendere in esame autonomamente materiali forniti dal docente, …; • sulle differenze fra le richieste della scuola e dell’università; sull’esigenza di adeguare gradualmente i loro comportamenti alle richieste che verranno fatte dai docenti universitari: richieste di maggior responsabilizzazione e autonomia nello studio e nell’organizzazione del proprio lavoro, richieste di un metodo di studi sistematico, richieste di strumenti e conoscenze di base nei diversi ambiti disciplinari. Questo secondo anno di esperienza (svolto peraltro in più facoltà) ha confermato che la possibilità di assistere a lezioni un universitarie vere e proprie non consista in uno strumento per orientare la scelta verso specifiche facoltà, quanto piuttosto una strategia per facilitare il passaggio dal sistema scolastico a quello universitario, riducendo le difficoltà incontrate dagli studenti e prevenendo i possibili disagi che possono favorire gli abbandoni universitari nel primo anno di corso. D’altro canto, anche per i docente delle scuole che hanno aderito all’iniziativa, secondo le loro dichiarazioni, questa esperienza ha rappresentato uno stimolo a osservare, analizzare e valutare più criticamente sia i comportamenti degli studenti che le loro stesse scelte didattiche. Pur con diverse declinazioni e sfaccettature, a seconda delle scuole di appartenenza, tutti i docenti hanno dichiarato che il poter partecipare a “vere e proprie” lezioni universitarie ha messi loro stessi nelle condizioni di: • conoscere maggiormente un mondo universitario in continuo cambiamento che è ormai molto diverso da quello che hanno sperimentato da studenti; • mettere a confronto la loro didattica e le loro richieste nei confronti dei loro studenti con quella dei docenti universitari (numero di pagine date da studiare, tipo di studio richiesto, atteggiamento relazionale nei confronti degli studenti, …); • aprirsi verso la possibilità di modificare entrambi. I docenti delle scuole presenti hanno dunque ribadito la richiesta: • di poter riproporre questa iniziativa anche alle future classi quarte della loro scuola, magari potendo allargare il gruppo delle classi coinvolte. ma anche la necessità di: • essere accompagnati e sostenuti dai docenti universitari (delle diverse discipline e anche dell’ambito pedagogico-didattico) nella riflessione e/o revisione rispetto alla didattica da loro proposta nella scuola; • essere accompagnati e sostenuti dal team di ricerca nel diffondere e trasferire agli altri colleghi della scuola i risultati di queste riflessioni e di questa ricerca, in modo che l’intera struttura scolastica possa beneficiare degli spunti emersi e possa procedere verso forme di cambiamento proficuo e di innovazioni didattiche.
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ricerche Comprendere per migliorare lo studio: analisi e riflessioni a partire da un’esperienza biennale di sostegno alle matricole universitarie Reading comprehension for study improving: analyses and considerations about a biennial experience of assistance lab to freshman students ELISA TRUFFELLI
•
Il problema dello scarso livello della comprensione del testo negli studenti riguarda, oltre che i vari gradi del percorso scolastico (cfr. IEA-ICONA, IEA-SAL, OCSE-PISA, ALL), anche l’istruzione universitaria come testimoniano i diversi studi realizzati in questo segmento di istruzione. Partendo da tali considerazioni in questo contributo vengono presentati i risultati di una ricerca che si è posta l’obiettivo di offrire un supporto ai lettori più “poveri” e comprendere le loro specifiche difficoltà. Questi studenti sono stati individuati sulla base dei risultati di una prova di comprensione somministrata poco prima dell’inizio del percorso universitario a due coorti di matricole della Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna per un totale di 668 studenti. Attraverso l’analisi dei punteggi per tipo di abilità accertate dalla prova sono state individuate quelle più critiche per gli studenti e coerentemente a tali esiti sono stati progettati e realizzati specifici laboratori. L’analisi di quanto emerso ha permesso una conoscenza più approfondita del profilo dei lettori “poveri” e l’elaborazione di un bilancio dell’esperienza proposta.
The problem about the low level of reading comprehension also covers students in the university population as shown by various studies in this segment of education. Starting from these considerations, this paper presents the results of a research whose aim is to provide support to “poor” readers and understand their specific difficulties. These students were identified based on the results of a reading comprehension test administered before the beginning of the degree course to two cohorts of freshmen of the Faculty of Education in Bologna for a total of 668 students. Through the analysis of scores by type of skills assessed by the test, the most critical for students were identified and specific laboratories were designed and carried out in agreement with these outcomes.The attendees were interviewed.The analysis of the findings allowed for a better understanding of the “poor” readers profile and for assessing a balance of the proposed experience.
Parole chiave: comprensione del testo, abilità di lettura, matricole universitarie, attività laboratoriali di supporto, istruzione superiore, ricerca empirica.
Key words: text comprehension, reading skills, low freshman students, laboratory activities, higher education, empirical study.
Elisa Truffelli, ricercatrice del Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Università di Bologna – e-mail: elisa.truffelli@unibo.it
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I
l presente lavoro descrive le riflessioni di ricerca elaborate sulla base dello sviluppo di un percorso di sostegno rivolto alle matricole universitarie di alcuni corsi di laurea della Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna1. Il quadro problematico dal quale si è partiti si focalizza sulle competenze in lettura degli studenti che accedono all’università. Diverse ricerche svolte su questo tema (Santos, 1990; Carelli, 1996; Oliveira, 1996; Pellegrini, 1996;Tercanlioglu, 2004;White, 2004; Roberts J. C. & Roberts K. A., 2008; Guise, Goosney, Gordon & Pretty, 2008; Lei, Rhinehart, Howard & Cho, 2010) hanno evidenziato che molti studenti presentano un basso profilo rispetto alla literacy. Anche nei segmenti di istruzione precedenti emergono questi problemi, come testimoniano i risultati delle principali indagini internazionali che si sono occupate di questo argomento (IEA-ICONA, IEA-SAL, OCSE-PISA, ALL). È unanime ormai il consenso in ambito scientifico circa il fatto che la comprensione del testo è fondamentale sia per risolvere vari problemi di vita quotidiana (leggere segnali, etichette di cibi o tabelle orarie degli autobus), sia per identificare ed estrarre dai testi scritti contenuti specifici e quindi per apprendere dai testi (ad es. Lucisano, 1994). Il sostegno degli studenti rispetto alla literacy dunque può risultare un elemento importante, in quanto la lettura e la comprensione del testo rappresentano gli aspetti primari nell’attività di studio che uno studente a qualsiasi livello scolastico e anche all’università si trova a compiere. In relazione a tali elementi, nella presente ricerca vengono analizzati i dati emersi nelle attività laboratoriali appositamente predisposte sulla base degli esiti di prove di comprensione di testi simili a quelli che sarebbero stati affrontati nel primo anno di università. Le prove sono state somministrate a due coorti di iscritti al primo anno dei corsi triennali della facoltà di Scienze della Formazione dell’ateneo bolognese, poco prima dell’inizio delle lezioni. In particolare viene delineato il profilo dei lettori “poveri” che hanno frequentato il laboratorio di supporto per metterne in luce caratteristiche, esperienze scolastiche in merito alla comprensione dei testi espositivi e argomentativi (maggiormente rappresentati nei testi d’esame) e i loro feed-back rispetto all’attività di laboratorio proposta.
Presupposti teorici La comprensione della lettura è essenziale non solo per l’apprendimento in ambito scolastico, ma anche per il successo professionale, per l’esercizio attivo della propria cittadinanza e per un apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Questo è riconosciuto anche dalla Comunità Europea nel documento Competenze chiave per l’apprendimento permanente. Un quadro di riferimento europeo (Parlamento europeo e del Consiglio, 2007); infatti tra le otto competenze chiave per l’apprendimento permanente che permettono «la propria realizzazione personale, l’inclusione sociale, la cittadinanza attiva» al primo posto troviamo la «comunicazione nella madre lingua». Essa racchiude tra i suoi elementi costituenti anche la comprensione scritta:
1 Le attività realizzate in questa indagine rientrano nell’ambito dei progetti di ricerca “Prove iniziali formative” e “Progetto per il riallineamento degli iscritti al primo anno dei corsi triennali” con il coordinamento scientifico della Prof.ssa Maria Lucia Giovannini. Alla somministrazione delle prove hanno partecipato i dottori di ricerca e gli assegnisti di ricerca del gruppo coordinato dalla prof.ssa Maria Lucia Giovannini. I laboratori sono stati condotti dalla dott.ssa di ricerca in pedagogia sperimentale Claudia Tordi e dall’autice del presente contributo.
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«La comunicazione nella madrelingua è la capacità di esprimere e interpretare concetti, pensieri,sentimenti, fatti e opinioni in forma sia orale sia scritta (comprensione orale, espressione orale,comprensione scritta ed espressione scritta) e di interagire adeguatamente e in modo creativo sul piano linguistico in un’intera gamma di contesti culturali e sociali, quali istruzione e formazione,lavoro, vita domestica e tempo libero.» (Parlamento europeo e del Consiglio, 2007, p.4).
Diverse indagini internazionali (IEA-ICONA, IEA-SAL, OCSE-PISA, ALL) si sono occupate di indagare, tra le altre cose, il livello di competenza in lettura in un numero consistente di Paesi a partire dalla scuola primaria fino ad arrivare all’età adulta, anche in ragione dell’importanza che questa capacità riveste nello svolgimento dei compiti che ciascuno di noi affronta quotidianamente e nell’attività di studio. Per quanto concerne quest’ultima ci preme sottolinearne il riconoscimento anche nell’ambito universitario: nelle prove selettive di ingresso nei corsi di laurea ad accesso limitato nella maggioranza dei casi viene valutata, tra le altre cose, pure la comprensione del testo. Tale scelta è supportata dalle argomentazioni di diversi studiosi. Per esempio Santos (1991) definisce l’abilità di lettura «fondamentale per lo studente universitario». Levine, Ferenz & Reves (2000) ribadiscono questo concetto, identificando l’abilità di lettura di testi accademici come «uno dei più importanti elementi che gli studenti universitari devono possedere» e Cabaroglu & Yurdaisic (2008) la ritengono «essenziale» per tutti i soggetti in apprendimento. Quando ci si approccia alla lettura dei testi presenti nei programmi di studio a livello universitario, il compito del lettore diventa più complesso. Questa difficoltà viene evidenziata da più autori. Bell & Limber (2010), per esempio, hanno osservato che «i testi universitari tendono a presentare frasi lunghe e difficili». Cabaroglu & Yurdaisik (2008) sostengono che le difficoltà si legano sia alla terminologia impiegata in questo tipo di testi, sia alla loro struttura: infatti; dalle interviste da loro effettuate con un gruppo di docenti universitari è emerso che gli studenti mostrano di possedere una scarsa conoscenza del lessico e della grammatica. Anche Lei, Rhinehart, Howard & Cho (2010) a conclusione del loro studio identificano nel possesso di un ampio bagaglio lessicale un elemento importante per una buona comprensione dei libri di testo universitari. Roberts J. C. & Roberts K. A., (2008) aggiungono altri elementi problematici. Se infatti le loro ricerche convergono con quanto esposto sopra, poiché rilevano che gli studenti dichiarano di avere difficoltà principalmente nella comprensione della terminologia usata nei testi universitari, esse esaminano anche il processo di rielaborazione delle informazioni richiesto in questo segmento di istruzione: leggere a livello universitario, infatti, dal punto di vista di questi autori, implica il fatto di costruire significato, arrivare a un livello di comprensione profonda del messaggio e deve contribuire a portare gli studenti all’elaborazione di un costrutto forte, stabile e articolato rispetto all’argomento studiato. Fitzgerald (2004) nel presentare una rassegna delle competenze richieste alle matricole universitarie cita tra le altre anche il «possesso di un profilo di lettore di alto livello che include capacità di analisi e abilità critica», a dimostrazione dell’elevato grado di impegno cognitivo che la lettura e comprensione dei testi richiede all’università. Le ricerche empiriche, d’altro canto, dimostrano che molti studenti universitari non presentano un livello di competenza in lettura adeguato per l’istruzione superiore (Santos 1990; Oliveira 1996; Pellegrini, 1996; Tercanlioglu 2004; White, 2004; Roberts J. C. & Roberts K. A., 2008; Guise, Goosney, Gordon & Pretty, 2008; Lei, Rhinehart, Howard & Cho, 2010). Secondo White (2004) uno dei fattori alla base di questa problematica consiste nel fatto che l’insegnamento della lettura e il supporto agli studenti in questa attività terminano alla fine del ciclo di istruzione primaria. Secondo alcuni autori anche se il meccanismo della lettura viene insegnato alla scuola
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primaria, leggere per comprendere è un compito che deve essere coltivato per diversi anni e in una certa misura dovrebbe essere promosso anche dall’università: Centofanti, Ferreira, Del Tedesco (1997), per esempio, ritengono che i docenti universitari dovrebbero orientare gli alunni al perfezionamento di questa abilità, mentre secondo Roberts J. C. & Roberts K. A., (2008) essi dovrebbero dedicare una piccola parte del loro corso all’insegnamento di strategie di lettura efficaci per permettere agli studenti di raggiungere una piena comprensione dei testi che studiano. Entrando maggiormente nel merito degli studi empirici che hanno trattato la competenza in lettura degli studenti universitari, si possono individuare due filoni. Il primo ha posto l’attenzione alle singole sotto-abilità implicate nella lettura (reading skills), per studiare i fattori che determinano una bassa performance e individuare così quali problemi si trovano a fronteggiare i lettori “poveri” (si veda ad esempio Jakson & Doellinger, 2002; Jakson, 2003; Holmes, 2009). Un secondo filone invece prende in considerazione i lettori di alto profilo e le strategie di lettura da essi impiegate, al fine di trasferirle ai lettori meno efficaci (per esempio Brookbank, Grover, Kullberg & Strawser, 1999; Tercanliogu, 2004; Roberts J. C. & Roberts K. A., 2008; Cabaroglu & Yurdaisik, 2008; Lei, Rhinehart, Howard & Cho, 2010). Il presupposto che sta alla base di questo filone di studi consiste nella convinzione che gli studenti possono essere educati ad usare strategie di lettura efficaci, arrivando in tal modo a migliorare il loro livello di comprensione (Carrel, Pharis & Liberto, 1989). Mokhtari (come citato da Tercanlioglu, 2004, p.565) ha suddiviso le strategie di lettura in tre categorie: quelle cognitive, quali l’analisi e la sintesi di ciò che viene letto, quelle metacognitive, ovvero quelle intenzionalmente pianificate per gestire la propria attività di lettura, come ad esempio l’autointerrogazione o la previsione dei contenuti che si stanno per leggere e infine quelle di supporto che corrispondono a tutti quegli interventi che aiutano il lettore a capire meglio il testo, come ad esempio il ricorso a un dizionario, la rilettura di alcune parti di testo o la sottolineatura dei concetti chiave. Per quanto riguarda l’impiego di queste strategie, Teanlioglu (2004) afferma che i lettori “poveri” anche quando si approcciano a diverse tipologie testuali usano sempre le medesime strategie. Inoltre, secondo lo studio di Bell & Limber (2010) e i precedenti studi sull’argomento cui essi fanno riferimento, i lettori di basso profilo sembrano ricorrere più spesso alla sottolineatura, evidenziando anche maggiori porzioni di testo rispetto ai buoni lettori. Questi ultimi, secondo Sousa (2006) pur facendo uso di tutti i tipi di strategie, prediligono le strategie metacognitive. Molti studenti entrano in possesso di alcune di queste strategie di lettura principalmente attraverso un percorso di prove ed errori (Roberts J. C. & Roberts K. A., 2008), mentre si potrebbe trasferire questo bagaglio esperienziale agli studenti tramite un’azione didattica specifica. Sia negli studi dedicati alle reading skills sia in quelli che si concentrano sulle strategie di lettura la focalizzazione è posta sul lettore. Artis (2008) e White (2004) pur presentando tipologie diverse di interventi a supporto dei lettori “poveri”, giungono entrambi alla conclusione che gli studenti devono imparare ad adattare il loro ritmo di lettura e le loro strategie al tipo di testo cui si trovano di fronte. Nel presente studio si è partiti dal presupposto che l’orientamento al testo è indispensabile per indirizzare il lettore verso un’azione di lettura efficace e alla scelta delle strategie che possono essere più utilmente impiegate per diversi tipi di testo. Pertanto si è cercato di dare rilievo sia al lettore e alle strategie di lettura che utilizza, cercando di promuovere una riflessione metacognitiva su di esse, sia alle tipologie di testo che si incontrano più comunemente nello studio all’università, ovvero il testo espositivo e quello argomentativo e sulle difficoltà che tali tipologie possono presentare. Per la definizione di queste due tipologie di
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testo si è fatto riferimento alle definizioni di Colombo (1992): per testo argomentativo si è inteso un «testo in cui l’emittente presenta una (o più) tesi su una materia che assume come controversa (o quanto meno controvertibile), presentando le proprie ragioni e ponendo il destinatario nella condizione di aderire o rifiutare», mentre il testo espositivo è stato definito come «testo in cui vengono presentate idee, che sono anche motivate e poste in relazione logiche e casuali, ma non si assume che siano controverse».
Disegno della ricerca e fasi di svolgimento L’impianto di questo studio biennale è stato focalizzato sull’individuazione e la raccolta di informazioni riguardo agli studenti con maggiori difficoltà nella comprensione del testo e sulla progettazione di un supporto mirato rispetto alle loro esigenze. Ciò ha comportato innanzitutto la misurazione del livello di comprensione attraverso una prova che è stata somministrata a un campione volontario di 668 matricole dei corsi triennali della Facoltà di Scienze della Formazione prima dell’inizio del primo ciclo di corsi negli a.a. 2005/06 e 2006/07. Contestualmente a questa fase sono stati raccolti anche dati sulle variabili anagrafiche e socioculturali di tutti i partecipanti. Inoltre, per offrire un’attività di sostegno mirata si è resa necessaria un’analisi dei risultati della prova per ciascuna delle abilità accertate dalla stessa; sulla base degli esiti così ottenuti si è passati alla progettazione e realizzazione di interventi a supporto degli studenti con maggiori difficoltà. Questi ultimi sono risultati 82 nel primo anno e 113 nel secondo, per un totale di 195. Infine, per tracciare un bilancio dell’esperienza di supporto alla lettura offerta loro durante lo svolgimento dell’attività di supporto e al termine della stessa sono stati rilevati dati sulle esperienze pregresse di analisi dei testi degli studenti, sulle loro strategie di lettura e feed-back relativi ai laboratori. Di seguito presentiamo nel dettaglio le fasi della ricerca. 1) Qualche mese prima dell’inizio dell’anno accademico le future matricole e i futuri iscritti al primo anno dei corsi triennali sono stati informati attraverso diversi canali comunicativi che si sarebbe svolta una prova di ingresso facoltativa, volta a misurare il loro livello di comprensione di testi simili a quelli che avrebbero affrontato nel corso del primo anno di università. Poco prima dell’inizio dei corsi è stata somministrata tale prova. Oltre a questa è stato somministrato un breve questionario conoscitivo dello studente. E’ seguita una fase di analisi ed elaborazione dei dati statistica e docimologica, che ci ha permesso da un lato di suddividere i risultati della prova per tipo di abilità accertata e dall’altro di stabilire una soglia di accettabilità del livello di comprensione del testo. I risultati così elaborati sono stati restituiti individualmente a tutti i partecipanti all’indagine. Gli studenti che si sono collocati sotto la soglia sono stati invitati a partecipare a specifiche attività di supporto. 2) In ciascuno dei due anni accademici durante i quali si è svolta l’indagine sono stati progettati i laboratori di supporto, dedicati all’analisi e alle strategie di comprensione del testo espositivo e del testo argomentativo che costituiscono le due tipologie più rappresentate nei testi universitari del primo anno della facoltà dove si è realizzata l’indagine2. Durante i laboratori è stato anche chiesto agli studenti di rispondere ad alcune domande relative alle loro precedenti esperienze inerenti alla comprensione del testo, alle loro stra-
2 La scelta di queste due tipologie testuali si è basata sull’analisi dei testi di esame previsti nel primo anno accademico nei corsi di laurea attivi presso la Facoltà di Scienze della Formazione e coinvolti in questa indagine.
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tegie di lettura con particolare riferimento all’attività metacognitiva che essi compiono come lettori: questi ultimi interrogativi avevano innanzitutto lo scopo di rendere gli studenti maggiormente consapevoli rispetto Al processo di lettura e in secondo luogo ci hanno permesso di raccogliere informazioni utili a comprendere in modo più approfondito le loro caratteristiche. 3) Al termine delle attività di laboratorio attraverso interviste di gruppo è stato chiesto agli studenti di formulare un bilancio dell’attività formativa di supporto realizzata e di esprimersi in merito alla sua utilità e ai punti di forza e di debolezza che l’hanno caratterizzata.
Partecipanti coinvolti Lo studio è stato realizzato su due coorti di studenti iscritti al primo anno dei corsi di laurea di durata triennale della Facoltà di Scienze della Formazione3. Come nella maggioranza dei casi di studi che sono indirizzati alla comprensione della lettura in studenti universitari, la partecipazione all’indagine è stata volontaria. Nell’anno accademico 2005/06 hanno partecipato alle prove di comprensione della lettura 365 studenti, mentre nell’anno accademico 2006/07 i partecipanti sono stati 303 per un totale complessivo sui due anni di 668. Nelle successive fasi della ricerca sono stati individuati due sottocampioni: il primo, costituito da tutti gli studenti che si sono collocati al di sotto della sogli di accettabilità, era costituito da 195 studenti; il secondo, composto dagli studenti che hanno partecipato alle attività laboratoriali, contava 61 studenti. L’età media dei partecipanti complessivi si attesta sui 21 anni, mentre la moda corrisponde a 19 anni. La percentuale di femmine sul totale del campione è intorno al 92% per entrambe le coorti. Ciò rappresenta una caratteristica tipica dei corsi di laurea attivi presso la Facoltà di Scienze della Formazione dove le iscrizioni storicamente registrano un numero molto consistente di femmine.
Obiettivi e scelte metodologiche Questa ricerca ha perseguito un duplice obiettivo. Da un lato la conoscenza delle caratteristiche e delle specifiche difficoltà dei lettori “poveri” in ingresso all’università. Dall’altro l’incremento del loro livello di comprensione dei testi espositivi e argomentativi, affinché questo possa avere una ricaduta positiva sulla loro attività di studio. Da questi scopi ne sono derivati altri. Nella prima fase l’obiettivo che ha guidato l’indagine si può identificare con la conoscenza e dunque la misura del livello di comprensione del testo generale e specifico per ogni abilità nel campione di studenti che hanno partecipato all’indagine. Il raggiungimento di questo obiettivo ci ha permesso, nella seconda fase, di sviluppare azioni di supporto che, oltre a perseguire gli obiettivi generali già illustrati, avevano anche le seguenti finalità specifiche:
3 Educatore Professionale, Operatore Culturale, Formatore, Educatore di Nido e di Comunità Infantile. L’unico corso di laurea, peraltro quadriennale, escluso dalla presente indagine è stato quello di Scienze della formazione primaria, poiché essendo un corso a numero chiuso prevedeva già una prova di ingresso (in questo caso a carattere selettivo) per gli studenti.
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• aumentare la consapevolezza in questi studenti delle strategie di lettura abitualmente impiegate; • aumentare la loro capacità di individuare e distinguere testi espositivi e argomentativi; • promuovere in questi studenti la riflessione metacognitiva sul processo di lettura. Infine, nella terza fase si è cercato di raggiungere una conoscenza più approfondita delle caratteristiche dei lettori “poveri” attraverso la rilevazione di dati qualitativi. Oltre a questo la fase finale è stata orientata allo sviluppo di riflessioni e bilanci sull’esperienza svolta. Tutte le informazioni raccolte sono state poi incrociate con le variabili quantitative relative alle caratteristiche anagrafiche e socio-cultutrali del campione. La realizzazione della ricerca ha previsto l’adozione di metodologia e strumenti quantitativi e qualitativi. La fase iniziale ha previsto la raccolta di dati quantitativi. Si è scelto di individuare e definire le abilità accertate dalla prova seguendo la classificazione presentata per l’indagine IEA-SAL (Corda Costa,Visalberghi, 1995), messa a punto dal Comitato Scientifico Internazionale IEA-SAL. Le abilità sono le seguenti: • abilità lessicale: conoscenza del significato di uno specifico termine o sintagma; • localizzazione di informazioni: capacità di cercare e identificare informazioni specifiche presenti nel testo; • elaborazione di inferenze: capacità di ricavare nuove informazioni partendo da quelle contenute nel testo; • riconoscimento dell’idea principale: capacità di individuare il tema centrale, lo scopo o il messaggio essenziale del testo o di ampie porzioni di esso. Si è scelto di inserire nella prova testi simili a quelli che gli studenti avrebbero incontrato nel corso del primo anno di università (ovvero espositivi e argomentativi) e che non richiedessero come presupposto per la comprensione una conoscenza specifica e preliminare dell’argomento trattato. Sulla base del punteggio sull’intera prova ottenuto da ciascuno studente è stata calcolata la soglia di accettabilità al fine di individuare un sottocampione di studenti che presentavano maggiori difficoltà nella comprensione del testo. Per la determinazione della soglia di punteggio che discriminava tra lettori di basso profilo e non, si è fatto riferimento a Gattullo, Giovannini (1989). I punteggi degli studenti sono quindi stati ripartiti secondo la distribuzione pentenaria e la soglia è stata collocata «all’interno della ripartizione medio bassa» (ib. p.180) e più precisamente a metà della fascia D, identificando dunque come lettori poveri coloro che erano ricompresi tra la metà inferiore della fascia D e la fascia E. Al termine della prova è stato somministrato un breve questionario strutturato contenente domande sulle caratteristiche anagrafiche e socio culturali degli studenti. Nella seconda fase dell’indagine si è scelto di offrire un supporto agli studenti risultati sotto la soglia di accettabilità tramite il laboratorio, per garantire l’integrazione del sapere e del saper fare. I laboratori sono stati approvati dalla Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna4. Come già anticipato le tipologie di testo usate nei laboratori sono state scelte tra quelle maggiormente rappresentate nei programmi di esame del primo anno nella Facoltà
4 La scelta delle date di realizzazione degli incontri è stata condizionata da istanze pragmatiche e da esigenze di ricerca: da un lato, infatti, si è tenuto conto della densa programmazione didattica della Facoltà di Scienze della Formazione, evitando sovrapposizione con altre attività di insegnamento, per favorire la partecipazione degli studenti; dall’altro si è scelto di anticipare il più possibile l’attività di supporto agli studenti, che è stata realizzata entro il primo semestre dell’anno accademico, affinché il supporto potesse essere fornito fin dai primi esami affrontati.
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di Scienze della Formazione di Bologna. Dall’analisi dei libri di testo adottati in questi esami è emerso che i testi argomentativi ed espositivi sono le tipologie di testo più comuni. Durante i laboratori i testi sono stati scomposti e analizzati, allo scopo di rendere gli studenti maggiormente consapevoli delle differenze tra queste due tipologie testuali. Infine, è stata stimolata una riflessione circa le strategie di lettura più adatte per ciascuna tipologia di testo e le strategie comunemente più adottate da ciascuno studente. Nell’ultima fase sono stati raccolti dati qualitativi attraverso interviste di gruppo strutturate. La griglia di intervista ha previsto i seguenti punti: • esperienze precedenti inerenti alla comprensione del testo; • riflessione sulle proprie strategie di lettura, con particolare riferimento alle strategie metacognitive e sulla autovalutazione della comprensione; • utilità del laboratorio rispetto al miglioramento del proprio livello di lettura finalizzata all’apprendimento; • fedd-back circa i punti forti e i punti deboli dell’attività di supporto svolta.
Risultati I risultati della prova che è servita a identificare i lettori “poveri” hanno avuto un andamento simile nelle due coorti considerate. Come si può leggere nella tab. 1 le abilità risultate più deboli sono l’abilità lessicale e la capacità di localizzare le informazioni: la percentuale5 delle risposte esatte agli item che misuravano queste abilità è rispettivamente del 40% e del 51,9%. Dando uno sguardo complessivo ai risultati comunque si può constatare il basso livello generale dell’intero campione, che conferma quanto riscontrato in letteratura (Santos 1990; Oliveira 1996; Pellegrini, 1996; Tercanlioglu, 2004;White, 2004; Roberts J. C. & Roberts K. A., 2008; Guise, Goosney, Gordon & Pretty, 2008; Lei, Rhinehart, Howard & Cho, 2010). Abilità
2005/06
2006/07
abilità lessicale localizzazione di informazioni elaborazione di inferenze riconoscimento dell’idea principale
40,0 51,9 61,3 63,3
43,3 51,9 62,5 63,3
TOT (N)
368
304
Tab. 1 -Percentuale di risposte esatte per abilità nelle due coorti esaminate
Nel sottocampione di studenti sotto la soglia di accettabilità questo andamento risulta più accentuato per tutte le abilità: nel grafico 1 osserviamo valori sensibilmente e significativamente più bassi (p = 0,000).
5 La percentuale delle risposte esatte è stata calcolata per ciascuna abilità sul totale degli item che la misuravano.
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In particolare lo scarto maggiore tra intero campione e lettori “poveri” si registra sia rispetto alla conoscenza dei termini in coerenza con quanto riscontrato il letteratura (Lei, Rhinehart, Howard e Cho, 2010; Cabaroglu e Yurdaisik, 2008; Roberts J. C. & Roberts K. A., 2008), sia rispetto alla comprensione globale del testo. Le differenze tra le medie dei punteggi del gruppo di studenti sotto soglia che non hanno partecipato alle attività laboratoriali in confronto a quanti hanno partecipato non sono risultate significative. Questi risultati hanno guidato la strutturazione dei laboratori che sono stati sviluppati in modo da presentare le caratteristiche e gli elementi costitutivi dei testi espositivi e argomentativi, nonché le specifiche azioni che il lettore deve compiere di fronte alle difficoltà rappresentate dalla comprensione dei termini e dalla localizzazione delle informazioni. Per quanto concerne i questionari relativi alle variabili assegnate proponiamo alcune analisi riferite ai 61 studenti che hanno preso parte alle attività di sostegno. Per tracciare un profilo dei partecipanti alle attività laboratoriali abbiamo ritenuto utile una comparazione tra loro e gli studenti sopra la soglia di accettabilità.
Graf. 1: Percentuale delle risposte esatte per abilità: confronto tra campione totale e studenti sotto soglia
Ci siamo chiesti che tipo di percorso abbiano compiuto i due gruppi prima dell’iscrizione ai nostri corsi. I dati riportati nel grafico 2 mostrano che tra i frequentanti dei laboratori vi è una quota minore di liceali e in particolare nessuno studente proveniente dal liceo classico, mentre sono più rappresentati gli studenti provenienti dagli istituti professionali (25,0% contro l’11,5%).
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Graf. 2:Tipo di scuola secondaria superiore frequentata: confronto tra studenti sopra soglia e frequentanti i laboratori
Anche l’analisi comparata del voto di maturità ci restituisce un profilo leggermente diverso tra i due gruppi: l’analisi dei dati ha mostrato una differenza significativa (p< 0,05) tra le medie relative al voto di maturità: si avvicina a 78/100 la media per i lettori sopra soglia e a 75/100 quella dei frequentanti dei laboratori. Anche in questo caso non si osservano differenze significative tra gli studenti sotto soglia che non hanno partecipato alle attività laboratoriali e quanti vi hanno partecipato. Infine, una quota significativamente maggiore (p< 0,05) di studenti frequentanti il laboratorio si era iscritta in precedenza ad altri corsi di laurea: il 30% contro il 15,8% degli studenti sopra la soglia di accettabilità e il 13,6% degli studenti sotto soglia che non hanno preso parte al laboratorio (tab. 3). I motivi che portano a cambiare corso di laurea sono molteplici e in questo studio non ci siamo proposti di indagarli, perché esulano dai nostri obiettivi di ricerca, ma questo ultimo dato potrebbe essere in linea con l’idea già espressa da alcuni autori che essere bravi lettori è un presupposto fondamentale per il successo accademico.
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Studenti sopra la soglia
Studenti sotto la soglia non frequentanti il laboratorio
Studenti frequentanti il laboratorio
Sì No
84,2% 15,8%
86,4% 13,6%
70,0% 30,0%
Totale (N)
100,0 (607)
100,0 (134)
100,0 (61)
Tab. 3 Studenti iscritti per la prima volta all’Università: confronto tra studenti con punteggi bassi e frequentanti il laboratorio
Per quanto riguarda le informazioni raccolte durante e al termine delle attività laboratoriali un primo elemento emerso riguarda la scarsa o nulla esperienza svolta a scuola in merito alla comprensione del testo: «Sì, ho fatto delle esperienze. La nostra insegnante ci aveva insegnato a trovare la tesi sostenuta dall’autore, ma oggi non me lo ricordo più» «Io e lei (altra ragazza presente) abbiamo avuto un’insegnante che non ha fatto niente. Non abbiamo imparato niente. Lavoravamo di più alle scuole medie. E alle superiori ci dava anche dei voti alti, ma non facevamo niente»
Abbiamo chiesto agli studenti di indicarci quali strategie di lettura normalmente mettono in atto per leggere e comprendere i testi. Le più adottate sono risultate la sottolineatura, l’individuazione di parole chiave e la rilettura dei passaggi meno chiari, ma non tutti hanno mostrato di avere piena consapevolezza dell’impiego di tali strategie: «Trovare le parole chiave» «Non saprei. Ripeterlo» «Ho riletto più volte le parti che mi erano meno chiare» «Nessuna in particolare» «Leggo il testo poi lo ripasso mentalmente sottolineo poco e non utilizzo strategie particolari» «Ho ripensato ai punti chiave del testo» «Sottolineatura» «Mettere a lato parole chiave»
Rispetto alle tre tipologie di strategie di lettura proposte da Mokhtari (citato in Tercanlioglu, 2004, p. 565), il nostro campione di studenti risulta essere orientato principalmente all’impiego di strategie di supporto e non risulta avere familiarità con le altre tipologie di strategie. Infatti, molti studenti hanno avuto difficoltà a rispondere alle specifiche domande concernenti le strategie metacognitive come l’attività di auotomonitoraggio del proprio processo di lettura (Mentre leggi ti fermi a chiederti se stai capendo bene il testo? Cerchi costantemente un legame logico tra ciò che leggi e il titolo dell’intero testo e/o del paragrafo che stai esaminando?) e di autovalutazione della comprensione di ciò che viene letto (Come verifichi di avere capito ciò che stai leggendo?). Alcuni studenti hanno indicato su quali elementi si basano per verificare di aver compreso il testo:
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«se so fare un riassunto» « se riesco a ripeterlo» « se lo ripeto senza averlo sotto» « se riesco a farmi degli schemi»
Nessuno, però, ha saputo indicare azioni di monitoraggio rispetto alla propria attività di lettura e comprensione. Data l’importanza riscontrata in letteratura delle strategie metacognitive, che risultano essere quelle maggiormente impiegate dai bravi lettori, abbiamo illustrato e fatto mettere in pratica agli studenti alcune di esse durante i laboratori. A conclusione degli stessi abbiamo chiesto agli studenti di esprimere un giudizio sull’utilità di questa esperienza, indicandone punti di forza e di debolezza Dalle dichiarazioni dei partecipanti il lavoro compiuto sui testi sembra aver sviluppato maggiore consapevolezza dei diversi tipi di approccio necessari per lo studio di testi espositivi e argomentativi. Inoltre gli studenti hanno dichiarato di essere entrati in possesso di strumenti utili a rendere più efficace la comprensione dei testi che studiano: «Prima non ero assolutamente consapevole dell’approccio diverso che bisogna avere per questi testi. Il laboratorio mi è stato utile» «Mi piacerebbe provare a rifare le prove di ingresso oggi: penso che le farei molto meglio» «Penso di poter migliorare la mia capacità di comprendere i testi argomentativi che sono i più difficili, ma non solo, perché ho capito quali erano (e forse sono ancora…) i miei punti deboli: lettura frettolosa, non cercavo di cogliere i collegamenti, non cercavo il significato delle parole che non conoscevo» «È utile che l’università si interessi agli studenti. Alle superiori ci hanno detto che qui nessuno ci avrebbe minimamente considerato e aiutato» «Mi è venuta voglia di mettermi alla prova: andrò a rileggere il libro che sto studiando con un approccio diverso e penso che se ho questa volontà potrò migliorare»
Inoltre alcuni studenti hanno dichiarato che lavorare con altri pari ha permesso loro di porsi delle domande che altrimenti, da soli, non si sarebbero posti: «lavorando insieme agli altri mi sto rendendo conto di avere un approccio al testo molto superficiale». L’analisi degli aspetti da migliorare rispetto all’attività di supporto offerta ha portato a sottolineare da un lato la durata limitata in termini di numero di incontri e dall’altro il numero contenuto di studenti che era possibile ammettere alla frequenza dei laboratori stessi: «secondo me un laboratorio di questo tipo sarebbe molto più utile se durasse per tutto il primo anno di università così potrei verificare i miei progressi»; «All’inizio credevo che fosse una cosa per gli studenti peggiori, ma poi ho capito che potrebbe essere per tutti».
Considerazioni conclusive e ipotesi di sviluppo Considerando il ruolo centrale che la comprensione del testo gioca rispetto all’attività di studio e le particolari difficoltà che i testi a livello universitario presentano, in questa ricerca sono state indagate le caratteristiche dei lettori “poveri” ed è stata proposta un’attività di sostegno a loro indirizzata. .Questa attività è stata sviluppata ponendo un doppio focus sul lettore e le sue strategie di lettura da un lato e sulla tipologia testuale e le sue caratteristiche dall’altro. L’orientamento al testo, infatti è stato considerato un elemento fondamentale per orientare il lettore all’impiego delle strategie di lettura più efficaci rispetto al tipo di testo.
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Un primo elemento emerso consiste nel fatto che l’intero campione di studenti che si sono sottoposti alle prove di comprensione nel suo complesso non ha ottenuto punteggi alti rispetto a nessuna delle abilità sottese alla prova. Tra queste la conoscenza dei termini e la localizzazione delle informazioni sono risultate le più problematiche per la fascia di studenti che hanno ottenuto i punteggi peggiori sull’intera prova. Il tipo di scuola secondaria frequentata sembra incidere sul rendimento in lettura: a fascia inferiore della distribuzione rispetto a quella superiore include una quota significativamente minore di liceali e maggiore di studenti provenienti dagli istituti professionali. Per comprendere più a fondo le caratteristiche di questi lettori “poveri” sono stati intervistati quegli studenti che hanno partecipato alle attività laboratoriali: essi hanno dichiarato di non aver lavorato in precedenza in maniera specifica sulla comprensione del testo, di non conoscere le specifiche differenze tra testi espositivi e argomentativi e di adottare in prevalenza strategie di lettura che in letteratura vengono definite di supporto, senza peraltro diversificarle a seconda del tipo di testo che stanno leggendo. A differenza di questi studenti, i lettori di alto profilo, pur facendo uso di tutti i tipi di strategie prediligono le strategie metacognitive (cfr. per es. Sousa, 2006). Gli studenti che hanno preso parte al laboratorio di supporto hanno restituito feed-back molto positivi rispetto all’esperienza svolta: in particolare attraverso le competenze e gli strumenti acquisiti ritengono di poter migliorare la loro efficacia nell’attività di lettura finalizzata all’apprendimento. Resi consapevoli del lavoro specifico che si può svolgere la fine di migliorare la loro comprensione dei testi, gli studenti hanno espresso l’esigenza di attività di sostegno più prolungate nel tempo, per poter essere seguiti almeno nell’arco del primo anno del loro percorso universitario. L’analisi dei dati qualitativi e quantitativi ha probabilmente risentito della distorsione del campione che è stato necessariamente selezionato su base volontaria. È possibile, infatti, che gli studenti che hanno maggiori difficoltà nella comprensione del testo abbiano scelto di non sottoporsi alla prova facoltativa proposta. Non potendo nemmeno in una prosecuzione dell’indagine disporre di dati relativi all’intera popolazione in merito al livello di comprensione del testo, si intende raccogliere informazioni su coloro che non hanno partecipato all’indagine analizzando i dati relativi alla loro carriera accademica. Infine si intende compiere un’indagine ex-post sia nei confronti degli studenti sotto soglia che non hanno partecipato alle attività laboratoriali, sia nei confronti di quanti vi hanno partecipato, per raccogliere i loro punti di vista sulla ricaduta dell’esperienza svolta e sulle loro opinioni circa l’utilità delle stesse a distanza di tempo.
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ricerche Sviluppo dell’intelligenza culturale Case study: il programma tirocini del consorzio IES Development of cultural intelligence Case study: the IES Rome’s internship program SILVIA ZANAZZI
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L’intelligenza culturale (CQ), cioè la capacità di essere efficaci in contesti caratterizzati da diversità culturale, è una competenza che può essere sviluppata attraverso l’esperienza, l’educazione e la formazione. È stato dimostrato che alcune tipologie di esperienze, tra le quali un tirocinio all’estero, favoriscono lo sviluppo del quoziente CQ. La ricerca si propone di verificare questa relazione positiva in un contesto particolare, scelto come oggetto di analisi: il programma tirocini del consorzio universitario americano IES Roma. L’analisi si basa sull’osservazione dell’esperienza di più di cento studenti americani, che negli ultimi tre anni hanno svolto un tirocinio presso organizzazioni italiane o internazionali con sede a Roma. La correlazione tra esperienza di tirocinio all’estero e sviluppo dell’intelligenza culturale trova pieno riscontro nell’esperienza di IES. Il possesso di solide competenze linguistiche, o almeno la motivazione e l’attitudine ad acquisirle e migliorarle, risulta essere un fattore chiave nella maggior parte dei casi osservati. Lo stesso dicasi per la presenza di un supporto didattico e formativo finalizzato a migliorare la consapevolezza, la motivazione e le conoscenze degli studenti, elementi costituenti le diverse dimensioni dell’intelligenza culturale.
Cultural intelligence (CQ), defined as an individual’s ability to function effectively in situations characterized by cultural diversity, can be developed through experience, education and training.The positive relationship between certain types of experiences, such as an internship abroad, and the development of CQ, has been previously demonstrated.The research described in this article aims at verifying such positive relationship in a specific context: the IES Rome’s internship program. The analysis is based on the observation of the experiences of more than a hundred American interns, who worked for Italian and international organizations in Rome within the last three years.The findings clearly confirm the correlation between an internship abroad and the development of CQ. Good linguistic skills, or at least motivation and attitude to develop them, is evidently a key factor.The availability of a cultural training is also very important in order to increase awareness, motivation and knowledge of the host country, the essential “building elements” of cultural intelligence.
Parole chiave: Intelligenza culturale (CQ), apprendimento interculturale, cultura oggettiva, cultura soggettiva, tirocinio.
Key words: Cultural intelligence (CQ), intercultural learning, objective culture, subjective culture, internship.
Silvia Zanazzi - Laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza nel 2009. Internship Coordinator presso IES Roma da settembre 2006.
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L’intelligenza culturale: definizione, inquadramento teorico e applicazioni pratiche L’intelligenza culturale1 viene definita come «la capacità di un soggetto di funzionare efficacemente in contesti caratterizzati da diversità culturale».2 Nonostante il concetto sia stato introdotto di recente all’interno delle scienze sociali3, è già presente un’ampia letteratura che lo analizza e ne valuta le possibili applicazioni concrete in ambito educativo e formativo. Dalla lettura di questi contributi emerge come il concetto di intelligenza culturale sia nato dalla necessità pratica di comprendere e misurare una forma di intelligenza fortemente correlata, ma mai perfettamente coincidente, con altre intelligenze già «codificate» nell’ambito degli studi psico-pedagogici4. La natura strumentale del concetto di intelligenza culturale non ci esime, tuttavia, dal dovere di ricercarne le radici intellettuali. I contributi più autorevoli sul tema partono dal riconoscerne i forti legami con altri ambiti di studio, primo fra tutti la comunicazione interculturale, filone nato dopo la seconda guerra mondiale per far fronte alle necessità del corpo diplomatico statunitense. Ma guardando ancora più indietro, agli inizi del 1900, è naturale che si faccia riferimento, tra gli altri, alla figura dello “straniero” di Georg Simmel, agli studi della Scuola di Chicago sulla diversità culturale nelle metropoli, alla teoria dell’”uomo marginale” di William Thomas, al lavoro di Gordon Allport sul pregiudizio e al contributo di Edward Hall sul linguaggio non verbale (Giaccardi, 2005, pp. 32-36). Quando parliamo di intelligenza culturale, quindi, trattiamo un concetto che affonda profondamente le sue radici negli studi antropologici, filosofici, sociologici, psicologici e della comunicazione, e in ultima analisi nella storia dell’uomo. La novità non sta nel contenuto teorico, ma nel tentativo di sintetizzare in un unico indicatore, denominato CQ, un insieme complesso di conoscenze, abilità, comportamenti, sensibilità e tratti della personalità. L’intelligenza culturale può differenziare fortemente le prestazioni degli individui in contesti caratterizzati da diversità culturale: dopo essere stata analizzata e scomposta in fattori osservabili e misurabili, viene oggi “affidata” prevalentemente alla teoria pedagogica e alle pratiche educative, alle quali spetta il difficile compito di svilupparla nei singoli e nella società. Dal punto di vista teorico, si concorda sul fatto che l’intelligenza culturale sia un concetto che abbraccia diverse “dimensioni”: metacognitiva, cognitiva, motivazionale e comportamentale (Ang,Van Dyne, 2008). La dimensione metacognitiva dell’intelligenza culturale fa riferimento al livello di consapevolezza rispetto ai propri assunti di base, alla capacità di metterli in discussione e di sviluppare strategie cognitive efficaci per interagire in contesti culturalmente diversi da quelli abituali. La dimensione cognitiva dell’intelligenza culturale riguarda il bagaglio di conoscenze su istituzioni, norme, pratiche e convenzioni caratteristiche di un contesto culturale specifico. La dimensione motivazionale fa riferimento alla di-
1 Nella letteratura in lingua inglese, assunta come riferimento teorico di questo lavoro, si parla di “cultural intelligence” oppure di “CQ”. 2 “An individual’s ability to function effectively in situations characterized by cultural diversity”. (Ang,Van Dyne, 2008, p. XV) 3 P.Christopher Earley e Soon Ang per primi hanno parlato di “cultural intelligence” nel 2003. 4 Howard Gardner, nel suo saggio intitolato Frames of mind, the theory of multiple intelligences, ha dimostrato che esistono diverse tipologie di intelligenza: linguistica,musicale, logico-matematica, spaziale, corporeocinestesica, personale e interpersonale. (Gardner, 1983, trad. it. 1987) Daniel Goleman, nel suo saggio Emotional Intelligence, ha approfondito il tema dell’intelligenza emotiva, cioè la capacità di gestire al meglio le emozioni proprie e altrui. (Goleman, 1995, trad.it. 1996)
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sponibilità ad investire tempo ed energie per apprendere come essere efficaci in contesti caratterizzati da diversità culturale, quella comportamentale alla capacità di realizzare comportamenti verbali e non verbali appropriati nei suddetti contesti. L’intelligenza culturale viene fatta rientrare nell’ambito delle cosiddette “differenze individuali”5, in particolare nella tipologia delle abilità/capacità. Si tratta di una caratteristica che può essere modificata attraverso l’esperienza, l’educazione e la formazione, quindi potenzialmente variabile nel corso della vita di un individuo (a differenza dei tratti della personalità che tendono a rimanere stabili nel tempo e nelle diverse situazioni). È indubbio, tuttavia, che vi siano relazioni tra l’intelligenza culturale e alcune caratteristiche della personalità. Per esempio, è stata dimostrata una relazione positiva tra l’apertura alle nuove esperienze, l’estroversione, l’essere coscienziosi e alcune dimensioni dell’intelligenza culturale. Vi sono, inoltre, fattori biografici, per esempio l’essere nati da una coppia “mista”, che possono costituire precondizioni favorevoli allo sviluppo dell’intelligenza culturale, così come alcune tipologie di esperienze correlate positivamente ad una o più dimensioni dell’intelligenza culturale. Per esempio, un’esperienza di lavoro in ambito internazionale è correlata positivamente alle dimensioni metacognitiva, motivazionale e comportamentale dell’intelligenza culturale; l’apprendimento di una lingua è correlato positivamente alle dimensioni cognitiva e comportamentale. L’interesse per l’intelligenza culturale ed il suo sviluppo sta assumendo crescente rilevanza nell’ambito degli studi di management e nella formazione aziendale. Sempre più spesso le aziende che assumono nuovo personale, o decidono di investire in risorse umane già presenti in organico, si trovano a dover inserire CQ nella lista delle competenze “chiave” per la sopravvivenza e il successo sul mercato dell’organizzazione. Le istituzioni educative e formative, in risposta ad una tale richiesta da parte dei mercati del lavoro, hanno il compito di sviluppare programmi e progetti finalizzati allo sviluppo di questa competenza nei giovani. Il mondo universitario americano, in particolare, incentiva fortemente i propri studenti a partecipare agli study abroad programs6 e, quando possibile, a fare esperienze di tirocinio all’estero, anche se non strettamente connesse al programma accademico e alle singole specializzazioni.
Il programma tirocini di IES Roma La ricerca descritta in questo articolo è basata sul case study di una organizzazione che, in un arco temporale di tre anni (2006-2009), ha sviluppato un programma tirocini ed è riuscita a renderlo un elemento distintivo della propria offerta didattica e formativa per studenti americani a Roma. Dal momento che un tirocinio all’estero è riconosciuto dalla letteratura come un fattore positivo per lo sviluppo dell’intelligenza culturale (Ang, Van Dyne, 2008, pagg. 45-52), ci si è posti l’obiettivo di verificare la suddetta relazione, delineando le condizioni che eventualmente la favoriscano o la indeboliscano, nel contesto specifico scelto come oggetto di analisi. In particolare, si è cercato di prendere in considerazione due fattori chiave
5 La letteratura di riferimento individua tre tipologie di differenze individuali: abilità/capacità, tratti della personalità e interessi (Ang,Van Dyne, 2008, pp. 7-8) 6 Per “study abroad program” si intende un periodo di studio, in questo caso universitario, svolto all’estero presso una istituzione qualificata e convenzionata con l’ateneo di provenienza. Generalmente i crediti accademici conseguiti all’estero vengono riconosciuti; l’esperienza è considerata estremamente importante nel mercato del lavoro americano, sia per chi desidera entrare nel mondo del business, sia per coloro che aspirano ad una carriera universitaria.
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e di descriverne il ruolo nella verifica dell’ipotesi sopra descritta: le competenze linguistiche degli studenti e la disponibilità di un supporto didattico e formativo. IES (Institute for the International Education of Students) è un consorzio interuniversitario, con sede centrale a Chicago (Illinois, USA), che organizza study abroad programs per studenti universitari americani. Le università aderenti al consorzio sono più di 170: si tratta di atenei pubblici e privati, situati in contesti socio geografici estremamente vari, con tradizioni, specializzazioni accademiche e “filosofie” educative molto diverse tra loro. In Italia, IES ha sede a Milano, Siena e Roma. A Roma il centro IES riceve un elevato numero di studenti (variabile tra 100 e 150 per ogni semestre) ai quali assicura assistenza logistica e mediazione culturale, oltre ad una offerta accademica varia e qualificata. Pur essendo un consorzio universitario, quindi, i servizi forniti dall’IES si estendono ben oltre quelli puramente accademici, abbracciando una visione dell’università, tipica americana, come istituzione delegata dalle famiglie ad occuparsi dell’educazione, e non solo dell’istruzione, dei giovani. Per quanto riguarda l’aspetto interculturale, IES opta per un inserimento mediato e graduale nel contesto locale, a differenza di altri programmi che adottano la strategia della full immersion. Si ritiene, infatti, che l’apprendimento interculturale si possa realizzare soltanto in una situazione di serenità e di confronto continuo. Ecco perché il personale di IES viene selezionato non solo in base alle competenze linguistiche, ma anche in base alla conoscenza diretta degli Stati Uniti e del sistema scolastico ed universitario americano. Si vuole creare attorno allo studente un ambiente familiare, in grado di rassicurarlo e di condurlo quasi “per mano” durante l’esperienza di studio all’estero. Durante il semestre o l’anno accademico a Roma, agli studenti IES viene offerta l’opportunità di candidarsi per un tirocinio part-time da svolgere presso aziende, enti ed istituzioni italiane o internazionali. Dopo una iniziale fase sperimentale (2003 – 2006), in cui soltanto un numero molto limitato di studenti ha potuto accedere a questa opportunità, si è deciso di procedere ad ampliare la rete delle organizzazioni ospitanti per dare ad un numero maggiore di persone la possibilità di fare quest’esperienza. Le testimonianze dei primi tre anni, infatti, avevano dimostrato l’importanza dell’esperienza di tirocinio nel “disegnare” un percorso di apprendimento interculturale e nel favorire l’instaurarsi di relazioni positive tra lo studente e il contesto locale. A partire dal 2006, quindi, l’IES si è posta l’obiettivo di allargare progressivamente il network delle organizzazioni ospitanti. La città di Roma è un contesto ricco di opportunità di ogni genere e il programma ha cercato di trarne beneficio, spaziando da contesti più tradizionali, come gli uffici, i musei, le gallerie d’arte, a situazioni più particolari, come la scuola pubblica, lo scavo archeologico o l’enoteca. Complessivamente, durante l’attività di ricerca si è riscontrato un atteggiamento aperto da parte delle organizzazioni pubbliche e private, un interesse per l’IES e più in generale per le istituzioni universitarie americane. Di conseguenza, l’attività di ricerca di placements7 ha avuto buoni risultati: nel 2009 il programma era in grado di garantire oltre sessanta tirocini per semestre, grazie ad un network di più di cinquanta organizzazioni ospitanti. In generale, i tirocinanti IES presentano alcune caratteristiche comuni pur provenendo da realtà sociali e accademiche completamente diverse: giovani (20-22 anni); alle prime armi in qualsiasi lavoro, ma pieni di entusiasmo, di curiosità e di aspettative; provvisti di conoscenze alquanto limitate sull’Italia e sulle sue problematiche socio-occupazionali; cresciuti con un’immagine del mondo del lavoro largamente corrispondente a quella americana, per ovvi motivi, e pertanto molto lontana dalla realtà del nostro Paese. Intraprendenti ma allo stesso
7 Per “placement” si intende un’organizzazione in grado di ospitare uno o più tirocinanti.
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tempo insicuri, pieni di energia da dedicare, ma solo in parte allo studio e al lavoro, continuamente “sotto pressione” da parte di genitori, professori e tutor, questi studenti hanno bisogno di un supporto costante per riuscire a focalizzare le energie sulle priorità che emergono giorno per giorno. Dato questo supporto costante, e dato un ambiente che riesca a valorizzarne l’apporto, il loro rendimento può essere eccezionale in termini di capacità organizzative, innovazione, autonomia e orientamento al risultato. Gli studenti di IES Roma che decidono di fare un tirocinio devono obbligatoriamente frequentare un seminario (“Internship seminar”) che prevede un incontro settimanale di un’ora e mezza per dodici settimane. L’obiettivo didattico del seminario è far acquisire agli studenti la conoscenza delle principali problematiche riguardanti i giovani italiani: le caratteristiche del sistema scolastico e universitario, le difficoltà della transizione dall’università al mondo del lavoro, il precariato, la marginalità nei circuiti di potere. La scelta di focalizzare il seminario sui giovani risponde alla finalità di creare un “ponte” tra persone della stessa età che appartengono a diverse culture e sistemi: attraversando questo ponte, diventano possibili i confronti e la comprensione reciproca, e in ultima analisi l’apprendimento interculturale, verso cui tende ogni esperienza di studio all’estero. Il seminario è parte integrante dell’esperienza di tirocinio e si è rivelato nel corso degli anni uno strumento molto importante per mantenere unito il gruppo, per sollecitare e guidare riflessioni sulle esperienze nelle diverse organizzazioni, per analizzare e discutere temi di attualità che hanno un forte impatto sulle esperienze di un giovane americano in Italia.
Sviluppo del case study: metodologia e risultati La ricerca si è basata sui dati disponibili per il triennio 2006-2009, relativi all’andamento di circa cento tirocini formativi in organizzazioni molto diverse tra loro8. Il campione è stato scelto sulla base di un criterio di convenienza, ed è costituito dall’insieme degli studenti che, nel periodo considerato, hanno deciso di effettuare un tirocinio nell’ambito del programma di IES Roma. Tutti i tirocinanti inclusi nel campione hanno partecipato, pertanto, all’Internship seminar, svolgendo i lavori di rielaborazione, condivisione e presentazione in classe delle esperienze sul campo. Dal momento che un tirocinio all’estero è riconosciuto dalla letteratura come un fattore positivo per lo sviluppo dell’intelligenza culturale (Ang,Van Dyne, 2008, pp. 45-52), ci si è posti l’obiettivo di verificare la suddetta relazione, delineando le condizioni che eventualmente la favoriscano o la indeboliscano, nel contesto particolare scelto come oggetto di analisi. In particolare, l’ipotesi da verificare è che, data una buona competenza linguistica9 e la disponibilità di un supporto didattico e formativo, un tirocinio all’estero è un fattore positivo per la crescita di CQ. Si è scelto di utilizzare l’osservazione come unico metodo di rilevazione, declinandola
8 Le organizzazioni ospitanti (circa 50) appartengono alle seguenti categorie: musei, gallerie d’arte, scuole medie inferiori e superiori, aziende, associazioni, organizzazioni non profit, centri di ricerca, università, teatri, laboratori d’arte e scientifici, scavi archeologici… 9 Per “buona competenza linguistica” si intende la capacità di comprensione della lingua corrente, anche fuori dal contesto didattico, e la capacità di esprimersi correttamente a livello orale e scritto nella vita quotidiana. All’interno del programma IES Roma la conoscenza della lingua italiana è valutata in 4 livelli: 100, 200, 300 e 400. Il concetto di “buona competenza” utilizzato in questo lavoro si riferisce ad un livello pari a 300 o superiore.
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nelle sue diverse tipologie (diretta e indiretta, spontanea o sistematica) a seconda delle fasi di lavoro e del contesto. In particolare, gli elementi utilizzati per misurare la variabile “CQ” durante le esperienze di tirocinio sono stati i seguenti: • Analisi dei testi prodotti dagli studenti durante il semestre nell’ambito dell’Internship seminar: presentazioni in classe, diari settimanali e tesina finale. • Autovalutazioni degli studenti rispetto alla propria capacità di integrazione ed efficacia nel contesto organizzativo; commenti espressi in forma orale o scritta, rispetto ai propri stati d’animo nelle diverse fasi dell’esperienza. • Valutazioni fornite dagli enti ospitanti sui risultati raggiunti dai tirocinanti durante il semestre. Le valutazioni sono espresse a livello informale durante i frequenti contatti telefonici e personali con l’Internship coordinator10 di IES Roma, e formalmente nell’ambito del questionario di valutazione di fine semestre. • Valutazione finale dell’Internship coordinator di IES Roma, espressa in forma quantitativa in base ad una Grade Scale11. Il voto si calcola in base a quattro diverse componenti, a ciascuna delle quali viene attribuito lo stesso peso (25%): partecipazione attiva in classe, diari settimanali, tesina o progetto finale, valutazione dell’organizzazione ospitante sul lavoro svolto. Nella valutazione di ciascun tirocinio si è cercato di prestare attenzione ai cambiamenti, all’evoluzione di comportamenti e degli atteggiamenti durante il semestre, considerando quindi il risultato finale anche in rapporto al punto di partenza di ogni studente coinvolto. Tuttavia, dal momento che l’intelligenza culturale è definita come “capacità di funzionare efficacemente”, è stato importante non perdere mai di vista la misura dell’efficacia nel valutare, in ultima analisi, ciascuna esperienza di tirocinio12. L’analisi dei dati ha dimostrato ampiamente l’importanza di una buona competenza linguistica di partenza. Le competenze linguistiche, l’attitudine all’apprendimento di una lingua straniera e soprattutto la motivazione ad utilizzarla al di fuori di un contesto didattico, sono condizioni essenziali per riuscire ad essere veramente “efficaci” in un contesto multiculturale. Nei testi scritti dagli studenti si nota chiaramente come coloro che possedevano, all’inizio del semestre, un buon livello di conoscenza dell’italiano siano riusciti non solo ad integrarsi nell’organizzazione presso la quale hanno svolto il tirocinio, ma anche ad essere estremamente utili e a ritagliarsi uno spazio nella gerarchia organizzativa. Per quanto riguarda gli studenti che non possedevano tale competenza, è stato possibile individuare due percorsi differenti. Per alcuni di loro, l’Italia ha rappresentato il banco di prova della propria maturità e capacità di adattamento e l’apprendimento dell’italiano rispondeva alla necessità di raggiungere questo obiettivo. Questi studenti hanno ottenuto ciò che volevano dall’esperienza di tirocinio, ma non sono mai riusciti ad essere davvero “efficaci”: il loro punto d’arrivo, infatti, è l’accettazione di un disagio, e la consapevolezza che tale condizione non è superabile, almeno nel breve tempo a disposizione. In altri casi, invece, gli studenti non avevano alcuna
10 L’Internship coordinator è la figura responsabile del programma tirocini: cura i rapporti con i soggetti ospitanti (placements) e la preselezione degli studenti, monitora l’andamento dei tirocini durante il semestre, insegna l’Internship seminar e valuta gli studenti al termine del semestre. 11 La Grade Scale utilizzata è la seguente: A (100-90): eccellente; B (89 – 80): buono; C (79-70): discreto; D (69 – 60): insoddisfacente; F (meno di 60): insufficiente. 12 La misura di efficacia utilizzata in questo lavoro è il voto finale. In particolare, si è considerata positiva in termini di efficacia una valutazione non inferiore a B (89-80).
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motivazione intrinseca che li spingesse a studiare l’italiano, se non la necessità di acquisire i crediti in ambito linguistico. Le loro testimonianze sono pervase da un forte senso di inadeguatezza, a tratti dalla tendenza ad “incolpare” altri e ad attribuire la causa di tutti i problemi all’ambiente esterno. Ammettere questi studenti al programma tirocini è stato probabilmente un errore, se si considera lo sviluppo dell’intelligenza culturale come obiettivo unico dell’esperienza. Se invece si valutano altri elementi, è possibile vedere degli aspetti postivi: questi studenti hanno imparato ad analizzare le proprie aspettative, distinguendo quelle realistiche da quelle che non lo sono; ancora più importante, hanno visto e toccato con mano, forse per la prima volta, la diversità, sentendosi loro stessi diversi. Non si può dire se questo sarebbe avvenuto ugualmente o meno, senza l’esperienza di tirocinio. La maggior parte delle osservazioni e, in particolare, l’analisi dei testi scritti dagli studenti, hanno mostrato altrettanto chiaramente il ruolo del supporto didattico e formativo nel migliorare la consapevolezza, la motivazione e le conoscenze degli studenti, elementi costituenti le diverse dimensioni dell’intelligenza culturale. E’ importante che il percorso disegnato non sia puramente accademico, ma riesca ad acquisire un più profondo valore pedagogico toccando (seppur delicatamente) aspetti cruciali come le percezioni, l’emotività, la capacità di uscire dalla propria zona di comfort, il riconoscimento e la gestione del cambiamento personale. Nelle testimonianze presentate si percepisce “in sottofondo” la presenza di questo supporto, che si rivela utile, in fase iniziale, soprattutto per lo sviluppo della dimensione metacognitiva dell’intelligenza culturale. Riunirsi in un’aula a discutere delle proprie esperienze, con la mediazione di un formatore, aiuta innanzitutto a rendersi conto del proprio “etnocentrismo”: aumenta il livello di consapevolezza rispetto ai propri assunti di base e la capacità di metterli in discussione. Il contesto didattico si rivela un elemento essenziale anche per lo sviluppo della dimensione cognitiva di CQ. Attraverso la conoscenza e la discussione di tematiche riguardanti il sistema educativo, il mondo del lavoro e delle organizzazioni in Italia, i tirocinanti riescono ad acquisire una prospettiva più ampia e ad analizzare le proprie esperienze durante il tirocinio con una maggiore consapevolezza. Esemplare il caso di una studentessa che durante l’esperienza in una scuola pubblica nell’autunno del 2008, vive in prima persona le agitazioni in seguito all’approvazione della riforma Gelmini, e grazie alle discussioni in aula sull’argomento, impara lentamente a capire il significato e il valore dello sciopero. Due estratti dai suoi diari settimanali mostrano l’evoluzione del suo atteggiamento: “Non capisco cosa sta succedendo. Invece di lavorare, studenti e insegnanti protestano per le riforme della scuola. Sarebbe meglio se rimanessero in classe, forse così la scuola potrebbe essere più efficiente. Mi sembra poco professionale da parte degli insegnanti non presentarsi a scuola per così tanti giorni di seguito. Non si ricordano nemmeno di avvertirmi”. (Ottobre 2008) “È passato più di un mese dall’inizio del semestre e sono riuscita ad insegnare inglese pochissime volte. Sono scocciata e infastidita, ma ciò che sta succedendo in questo Paese è gravissimo.Vogliono distruggere la scuola pubblica, pezzo per pezzo. La gente protesta ed è così coinvolta da abbandonare tutte le proprie attività per andare a camminare per strada, reggendo uno striscione. Vedo tutto questo e mi sento in dovere di capirlo”. (Dicembre 2008)
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Conclusioni La strada seguita dal programma tirocini di IES è stata generalmente coerente con i risultati della ricerca. Per quanto riguarda l’aspetto linguistico, si è cercato di rafforzare la collaborazione tra il programma tirocini e l’insegnamento dell’italiano, mettendo a disposizione un servizio ad hoc per tutti coloro che necessitano di un’assistenza linguistica specifica. Chi svolge attività di traduzione, per esempio, si trova spesso a dover comprendere la lingua “di settore” e apprezza l’aiuto di un insegnante madrelingua per avviare il lavoro. Anche sul fronte didattico, è riconosciuta l’importanza dell’Internship seminar e si presta molta attenzione alla numerosità dei gruppi, creando, se necessario, più sezioni con un massimo di quindici studenti ciascuna. Sono state destinate risorse economiche per consentire l’intervento di guest speakers in grado di portare la loro esperienza e per organizzare attività extracurriculari legate ai temi discussi in aula (cinema, mostre, eventi, visita di quartieri della città…). Parallelamente, però, si è deciso di eliminare i requisiti linguistici per l’accesso al programma, che prima erano inderogabili, per consentire una crescita del numero degli studenti coinvolti. Il programma tirocini, infatti, è diventato un elemento importante per la promozione del programma IES Roma e un elemento di richiamo per i potenziali clienti. Nel passaggio di prospettiva dal concetto di “studente” a quello di “cliente”, si rischia che le finalità didattiche e formative passino in secondo piano rispetto agli obiettivi commerciali. Di fronte a questo rischio, è fondamentale che il responsabile del programma tirocini sia consapevole e vigile, e riesca ad evitare distorsioni pericolose nelle finalità del programma stesso. L’obiettivo di crescita del programma è stato pienamente raggiunto e superato nel periodo considerato. Attualmente, più del 30% degli studenti IES a Roma partecipa al programma tirocini, e circa la metà di questi non ha mai studiato l’italiano. Dalle esperienze osservate fino ad oggi, è evidente che la mancanza di una competenza linguistica di base costituisce un forte limite per il “funzionamento efficace” in un contesto interculturale. Nonostante questo, nella maggior parte dei casi si osserva un cambiamento positivo negli studenti, se non altro perché sono usciti dalla propria zona di comfort. In quest’ottica, l’esperienza di tirocinio trova un suo valore in quanto prima tappa di un lungo viaggio che può portare, in ultima analisi, allo sviluppo dell’intelligenza culturale, o trovare un suo traguardo differente, ma non per questo meno importante o significativo. Nell’esperienza di questa studentessa, per esempio, il traguardo è la comprensione di un tipo di disagio che prima sembrava non riguardarla in prima persona: “Credo di aver imparato qualcosa di davvero unico […]. Ho imparato come ci si sente ad essere stranieri, e a dover faticare per comunicare qualcosa. Sono sempre stata orgogliosa delle mie capacità comunicative […]. Inutile dirlo, questa esperienza è stata una sfida inimmaginabile per me.”
Dal punto di vista del formatore, quindi, è importante saper vedere un investimento a lungo termine in ogni esperienza di tirocinio, sapendo che i risultati non sempre saranno visibili in soli quattro mesi, e non sempre corrisponderanno alle aspettative. Ciò che è stato seminato oggi a Roma potrebbe sbocciare altrove, domani, in forme diverse: «lo studente cammina per la sua via, talvolta con entusiasmo, talvolta con riluttanza, per formarsi come individuo che apprende, che cambia.»13
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ricerche Il secchione: rappresentazioni di studenti Uno studio esplorativo The swot: students beliefs An exploratory study FRANCO ZAMBELLI • CRISTINA FACCO
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Lo studio delle relazioni tra studenti, dei ruoli e delle attribuzioni di etichette che si vengono a creare nel gruppo classe costituisce un settore di indagine di particolare interesse. L’obiettivo della presente ricerca è stato quello di indagare come gli studenti tendano a rappresentare un compagno considerato secchione. L’analisi effettuata sulle risposte fornite da un gruppo di 334 alunni (181 di scuola media inferiore e 153 di scuola superiore) al questionario appositamente predisposto, ha evidenziato come il genere e degli studenti e del secchione, il livello scolastico e l’autovalutazione determinino rappresentazioni differenti rispetto alla figura del compagno considerato secchione. Questi dati suggeriscono ulteriori approfondimenti sul ruolo del secchione e su ulteriori variabili che possono influenzare le rappresentazioni degli studenti.
The study of relationships, roles and labelling in the group class constitutes a research topic of particular interest. The present research is aimed to inquire how the students represent a schoolfellow considered swot. The analysis of the answers given by a group of 334 students (181 of lower secondary school and 153 of upper secondary school) to the purposely arranged questionnaire revealed that sex of both the students and the swot, the school level and self evaluation determine different representations regarding the figure of the schoolfellow considered swot. These data suggest the opportunity to further study about the swot and the different variables that can influence the representations of students.
Parole chiave: credenze degli studenti, secchione ruolo degli studenti, relazioni tra studenti, gruppo classe, insegnamento.
Key words: students beliefs, swot, roles of students, relationships between students, class group, classroom teaching.
Cristina Facco - psicologa, cristina.facco@inwind.it Franco Zambelli – docente presso la Scuola di Dottorato in “Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione” Università di Padova (già ordinario di Pedagogia sperimentale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova), franco.zambelli@unipd.it, franco.zambelli@gmail.com
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a classe può apparire come una struttura relativamente semplice, che coinvolge due ruoli socialmente ben definiti: quelli di insegnante e di studente. In essa si possono realizzare interazioni positive e cooperative (Schmuck & Schmuck, 1992) ed esperienze interpersonali gratificanti che possono incoraggiare percezioni positive e modificare pregiudizi negativi (Boliang,Yan e Lei, 2005). Nelle interazioni tra studenti inoltre si delineano e sorgono specifici orientamenti, legati alla situazione di gruppo, che ne influenzano il senso di appartenenza e le modalità di riconoscimento. Di fatto, però, gli studenti non rivestono un singolo ruolo e alcune delle categorizzazioni o identità sociali che vengono loro attribuite sono definite dall’organizzazione formale della scuola, mentre altre sono create, sviluppate e in continua evoluzione all’interno della classe attraverso l’interazione di ciascuno nell’ambito di questo scenario (Martin, 1990). In certe condizioni, per risolvere conflitti inevitabili nei processi relazionali, gli alunni ritengono di poter etichettare e attribuire ai compagni delle etichette e degli stigmi (Brophy, 1998). Un simile processo può avere lo scopo di produrre nel ragazzo coinvolto la riduzione o l’accentuazione di quei comportamenti che vengono stigmatizzati dai compagni, al fine di essere accettato dal gruppo classe o almeno di evitare processi di esclusione. Gli alunni, infatti, tendono ad essere influenzati dall’atteggiamento degli altri compagni nei loro confronti (Furman & Gavin, 1989). All’interno di una classe si possono consolidare così dei ruoli ben precisi, che vengono usati dalla classe stessa sia per controllarne i membri, sia per confrontarsi con l’insegnante (Van Rossem & Vermande, 2004). Le questioni di ricerca concernenti la classe e le sue molteplici relazioni finora hanno tuttavia ricevuto un limitato interesse da parte dei ricercatori anche se lo studio di simili questioni e dei ruoli degli studenti costituisce un ambito di ricerca importante, utile a una migliore comprensione della dinamica complessiva della classe, necessaria a insegnanti e operatori che agiscono nella scuola.Va sottolineato quanto sia importante la comprensione di simili dinamiche anche in relazione alla loro connessione con l’orientamento motivazionale degli alunni, all’apprendimento, al rendimento scolastico e alle credenze che gli studenti sviluppano intorno a queste tematiche. Lo studio delle credenze degli studenti si è principalmente sviluppato intorno alle credenze epistemologiche, alle credenze concernenti l’organizzazione della conoscenza, alla natura del sapere, all’influenza sui processi di comprensione e interpretazione di testi, problem-solving e cambiamento concettuale (Hofer & Pintrich, 1997, 2002; Kardash & Scholes, 1996; Mason, Gava, & Boldrin, 2008; Qian & Alvermann, 1995; Schommer, 1990, 1992). Sono numerose anche le ricerche sulle credenze motivazionali (Ames, 1992; Eccles & Wigfield, 2002; Eccles & Wigfield, 1992; Schwinger, Steinmayr, Spinath, 2009; Wolters & Rosenthal, 2000). Su aspetti relativi alle dinamiche della classe e ai ruoli degli studenti, sono stati talvolta discussi il ruolo del buffone, del coccolino dell’insegnante, del secchione, del solitario, del capro espiatorio, il ruolo dell’escluso o isolato, del prevaricatore o della vittima. Uno studio condotto sul prediletto dell’insegnante (Babad, 2000) ha messo in evidenza come il ruolo che riveste lo studente tenda a determinare il comportamento e le relazioni dei compagni e degli insegnanti nei suoi confronti. Un ruolo complesso e contemporaneamente a rischio sembra quello del secchione. Secondo Hargreaves (1977), il ruolo del secchione si presenta nella situazione in cui un alunno si impegna nello studio e questo impegno minaccia gli altri, perché pone dei termini di confronto elevati. La stigmatizzazione del compagno considerato secchione e le pressioni cui è sottoposto, per i compagni diventano un mezzo per mettersi in contrapposizione anche con gli insegnanti e con gli obiettivi di studio proposti. Chiamare secchione un compagno sembra comportare quindi alcune conseguenze: costringere in parte il secchione a limitare l’impegno nello studio, allo scopo di farsi accettare dal gruppo classe, a portare gli insegnanti
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a non privilegiare questo ragazzo e soprattutto a contenerne le richieste nei confronti della classe. Nella misura in cui tali risultati sono conseguiti, le canzonature dovrebbero diminuire, almeno finché il secchione si adegua alle richieste. Verrebbe ad instaurarsi una situazione critica in quanto in essa è coinvolto non solo l’alunno ma anche l’insegnante, che però ne è ovviamente all’oscuro. Chi è oggetto di simili pressioni, a sua volta, può evitare di segnalarle all’insegnante, essendosi in qualche modo dinamicamente uniformato alle richieste dei compagni.Tale situazione tende a mettere in discussione l’insegnante stesso e la sua capacità di cogliere e affrontare adeguatamente i processi relazionali e conflittuali presenti in classe, le loro conseguenze e le eventuali ripercussioni sul piano didattico. Il problema, quindi, non risulterebbe risolto, rimanendo sotto traccia, in equilibrio instabile, e continuando a produrre i suoi effetti negativi. La pressione cui è sottoposto lo studente considerato secchione, è solitamente prolungata nel tempo e gestita collettivamente dai compagni, almeno per certi aspetti, sembrerebbe inquadrabile come una possibile forma di prevaricazione verbale esercitata nei confronti del secchione-vittima. Secondo Olweus (1993) il bullismo può assumere una forma diretta ed una indiretta. La prima si articola in prepotenze che il prevaricatore rivolge direttamente alla vittima, attaccandola a livello fisico o a livello verbale (insulti, minacce, canzonature, ecc.) o entrambe. Nella seconda forma la vittima è intrappolata in una serie di dicerie sul suo conto e di atteggiamenti di esclusione da parte dei compagni che la condannano all’isolamento. Tra le numerose questioni di ricerca affrontate nello studio della prevaricazione, alcune appaiono di un certo interesse proprio in riferimento al secchione, in particolare quelle riguardanti le caratteristiche di chi è sottoposto a pressioni e prevaricazioni, quelle relative al ruolo dell’insegnante e a risultati delle pressioni (Menesini & Fonzi,1997). Gli studi sul bullismo hanno evidenziato in particolare che la pressione cui può essere sottoposta la vittima costituisce un processo non sempre facilmente riconoscibile o individuabile dall’insegnante, in quanto gli attacchi verbali e quelli di tipo socio-emozionale hanno minore probabilità di essere riconosciuti; di fronte alle prepotenze verbali e di tipo indiretto essi esprimono un minor grado di preoccupazione ed una diminuita propensione all’intervento rispetto alle prevaricazioni fisiche (Hazler, Miller, Carney & Green, 2001). Se si considera che la molestia verbale in veste di offesa, minaccia, dileggio è la forma più comune di bullismo subita sia dai maschi che dalle femmine (Menesini & Fonzi, 1997) e che al passaggio dalla scuola elementare alla scuola media si assiste ad un incremento delle modalità indirette di prevaricazione, si può comprendere quanto gli studenti fatichino a riconoscere nei propri insegnanti una disponibilità ad intervenire con efficacia (Genta, Menesini, Fonzi & Costabile, 1996). Dagli studi sul bullismo si evidenzia anche che negli studenti vittime degli attacchi di prevaricazione il disagio appare strettamente legato a sentimenti di ansia e di paura nelle situazioni sociali, a vissuti di infelicità e di tristezza e alla tendenza ad isolarsi dagli altri (Tani, 1999). Diversi studi hanno evidenziato inoltre una ridotta ricezione da parte delle vittime dei messaggi emozionali (Ciucci & Fonzi, 1999). Il loro essere timide ed ansiose può motivarle a ricorrere frequentemente a”strategie di fuga”, come l’evitamento dello sguardo del proprio interlocutore, che se da una parte consentono di ridurre la percezione degli stimoli disturbanti, dall’altra impediscono di orientare il proprio comportamento in base allo stato d’animo dell’altro e di cogliere tutti quei segnali che possono eventualmente significare una disponibilità amichevole da parte dei compagni. Inoltre, Tomada e Tassi (1999) hanno riscontrato la tendenza da parte delle vittime ad intrattenere legami di amicizia con coetanei che condividono la loro stessa condizione in quanto ciò può funzionare come freno al superamento del proprio status di vittima.
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Data la centralità della classe e delle sue dinamiche e della risonanza che stanno assumendo i fenomeni di comportamento antisociale a scuola (Schirelli & Mariani, 2002), si sono analizzate le credenze degli studenti sulla classe e sui ruoli che in essa si sviluppano, in particolare su alcuni aspetti relativi al compagno considerato secchione. Ci si prefigge pertanto di indagare le credenze degli studenti su alcuni aspetti caratterizzanti il secchione, quali il valore che, nelle credenze degli studenti, possono avere lo studio e l’impegno scolastico per il secchione, le relazioni che instaura con i compagni di classe e con gli insegnanti e il ruolo svolto dall’insegnante in questa situazione. Una ulteriore questione che si cercherà di mettere a fuoco riguarda la possibilità di evidenziare se il secchione, in relazione alle pressioni perduranti di cui risulta oggetto, presenta caratteri della vittima di processi di prevaricazione. Sono state inoltre considerate alcune variabili in modo da verificare la loro influenza sulle risposte fornite dagli alunni. Le variabili prese in esame sono: genere dei soggetti e del compagno considerato secchione, per il diverso orientamento verso lo studio spesso mostrato da alunni e alunne, livello di scolarizzazione (ultimi anni della secondaria inferiore e primi della superiore) per le differenti richieste di impegno sollecitato dalle scuole di differente livello, rendimento scolastico dei partecipanti (auto valutato).
Metodo Partecipanti – Hanno partecipato all’indagine 334 alunni (159 maschi e 175 femmine), dei quali 181di seconda e terza media, 153 di quarta quinta superiore. Gli alunni sono distribuiti in 16 classi, delle quali 8 appartengono a 2 istituiti di Scuola Media inferiore e 8 a due differenti Licei Scientifici della provincia di Padova. Le scuole medie inferiori sono situate in piccoli centri caratterizzati da prevalente attività rurale e di piccola impresa. La componente sociale degli studenti è variata, con una presenza ormai consistente di studenti extracomunitari. Allo stesso modo, la provenienza sociale degli studenti dei licei situati comunque nelle vicinanze di Padova è notevolmente eterogenea. Strumento – È stato predisposto un questionario. Per la sua costruzione sono state preliminarmente effettuate delle interviste semistrutturate con lo scopo di raccogliere informazioni sulla figura del compagno considerato secchione, sui suoi atteggiamenti e comportamenti, sulle sue relazioni con i compagni di classe e con l’insegnante, etc.. Il questionario è risultato organizzato in tre differenti aree che riguardano aspetti diversi del ruolo del secchione, quali l’impegno nello studio (A), il suo comportamento e gli aspetti relazionali all’interno della classe e con i pari (B), le relazioni con gli insegnanti (C). I partecipanti devono manifestare il loro grado di accordo con gli item proposti su una scala a cinque livelli (1- per niente d’accordo, 2- scarsamente d’accordo, 3- abbastanza d’accordo, 4- molto d’accordo, 5- totalmente d’accordo). Infine sono stati richiesti agli alunni alcuni dati personali: sesso, classe frequentata, sesso del secchione considerato per esprimere i giudizi, autovalutazione del rendimento scolastico (scarso, sufficiente, buono). I questionari sono stati compilati durante l’orario scolastico. E’ stato ottenuto il consenso informato dai genitori; in esso sono stati garantiti l’anonimato e la riservatezza dei dati, la loro utilizzazione a solo scopo di ricerca e sono state indicate le modalità di restituzione.
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Descrizione e analisi dei dati Analisi delle componenti principali – Per verificare come siano organizzate le credenze degli studenti nei confronti del compagno considerato secchione, gli item delle diverse aree sono stati sottoposti a differenti analisi delle componenti principali. Ciascuna soluzione ottenuta è stata ruotata secondo il metodo Oblimin con normalizzazione di Kaiser. Per l’interpretazione dei fattori di ogni dimensione si è tenuto conto degli items puri e delle correlazioni item-fattore uguali o superiori a 0.38 in valore assoluto, mentre per quelle negative si è provveduto all’inversione del significato dei rispettivi items. Dato il carattere esplorativo della presente indagine sono riportati anche alcuni fattori con a di Cronbach intorno a 0.60, relativo alla consistenza interna. Nei restanti fattori tali coefficienti si distribuiscono in una gamma compresa tra .76 e .92. A) Impegno nello studio profuso dal secchione 1. Il primo fattore individuato è rappresentato dall’importanza attribuita dal secchione allo studio (% di varianza=17,26; a di Cronbach=0,76; M=3,70). Saturano item quali: - ritiene importante andare bene a scuola; - prende la scuola seriamente; - si impegna molto nello studio per essere bravo. Gli studenti mostrano un certo accordo su tale fattore e ritengono che il compagno secchione consideri importante frequentare la scuola con successo, dimostrando una notevole costanza nello studio e un impegno elevato nella riuscita scolastica. 2. Il secondo fattore riguarda il modo di studiare del secchione (% di varianza=11,48; a di Cronbach=0,69; M=3,85). Saturano item quali: - usa la logica, il ragionamento; - studia per capire; - sa sfruttare le sue capacità. Gli alunni esprimono un discreto accordo, ritenendo quindi che il secchione non impara a memoria ciò che studia, usa la logica e il ragionamento, sapendo utilizzare in modo proficuo le sue capacità e dimostrando una buona facilità e rapidità di apprendimento. B) Comportamenti scolastici del secchione 1. Il primo fattore è rappresentato dall’aiuto fornito ai propri compagni durante i compiti in classe e interazioni con i compagni nei diversi momenti della vita di classe (% di varianza=24,77; a di Cronbach=0,83; M=2,76). Saturano item quali: - aiuta solo se ha voglia; - aiuta solo se gli sei simpatico; - a richiesta di aiuto, risponde “chiedimelo più tardi”; - con lui discuto solo di cose che riguardano la scuola; - ride e scherza solo con i suoi amici più stretti. In riferimento agli item di questo fattore, i partecipanti esprimono un modesto disaccordo: ritengono quindi che il compagno risulti abbastanza disponibile ad aiutare in qualsiasi momento, senza procrastinare l’aiuto, suggerendo anche a quei compagni con i quali non ha un ottimo rapporto; inoltre, ritengono che il secchione instauri delle relazioni privilegiate con propri compagni di classe, partecipando al clima della classe. 2. Il secondo fattore riguarda il comportamento partecipativo durante la lezione in classe (% di varianza=11,64; a di Cronbach=0,76; M=3,70). Saturano item quali: - si mostra interessato; - interviene, partecipando alla lezione; - è composto; - viene preso in giro. Gli studenti manifestano un buon accordo nell’affermare che tale comportamento è caratterizzato dal partecipare attivamente alla lezione con domande e risposte rivolte all’insegnante, dal mostrarsi partecipe e coinvolto durante la spiegazione, mantenendo un atteggiamento composto, attento ed interessato e dal prendere appunti; viene, però, anche preso in giro.
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C) Relazioni tra insegnanti e secchione 1. Il primo fattore emerso è rappresentato dai privilegi riservati al secchione (% di varianza=33,94; a di Cronbach=0,92; M=3,23). Saturano item quali : - al secchione gli insegnanti danno più occasioni per recuperare; - dicono “Lo interrogheremo la prossima volta”; - “chiudono un occhio”; - gli danno un voto più alto di quello che si merita. Gli studenti si dimostrano abbastanza d’accordo sull’ottenimento di certi privilegi, i quali sono rappresentati, nel caso in cui lo studente non sia preparato come al solito, dal fornirgli più occasioni per recuperare il voto non brillante, oppure dal rimandare l’interrogazione ad un altro giorno, senza penalizzare il ragazzo e tralasciando l’episodio. Solitamente l’interrogazione del secchione è costituita comunque da poche domande e gli insegnanti tendono a sostenerlo moralmente. 2. Il secondo fattore individuato concerne l’atteggiamento di accondiscendenza verso gli insegnanti (% di varianza=10,82; a di Cronbach=0,76; M=3,81), sul quale vi è un buon accordo da parte degli allievi. Saturano item quali: - cerca di non contraddire l’insegnante per non essere “visto male”; - è accondiscendente. Il secchione cerca di non opporsi, di non andare contro l’insegnante, assecondando le sue opinioni al fine di mantenere la buona immagine che il docente ha di lui. Al fine di valutare l’influenza che alcune variabili indipendenti (genere dei partecipanti e del secchione, livello scolastico, rendimento scolastico) relative ai soggetti hanno nel determinare i giudizi di accordo o di disaccordo, sono state condotte le analisi della varianza univariate sui punteggi espressi, al fine di verificare se queste variabili modificano, in modo statisticamente significativo, i giudizi forniti dagli studenti sui quesiti presentati nel questionario. Per valutare l’influenza di specifiche variabili sulle risposte dei partecipanti si è proceduto all’ANOVA univariata. Sono stati eseguiti inoltre i confronti multipli a posteriori con il metodo di Scheffè con errore di tipo I pari a £ 0,05, per le variabili con più di due livelli che mostrano una influenza significativa, al fine di poter mettere in luce tra quali gruppi, in particolare, esistono differenze significative. In fig.1 sono riportati i punteggi medi dei fattori in cui il genere dei partecipanti influisce in modo significativo sulle risposte fornite. I ragazzi sono più convinti rispetto alle ragazze che il secchione sia caratterizzato per l’impegno nello studio (F(1,332) =10,360, p ª 0,001); sono più d’accordo nel riconoscere un atteggiamento attivo del secchione durante la lezione (F(1,332) =8,660, p ª 0,003); e, infine, sono sensibilmente più d’accordo circa l’accondiscendenza del secchione nei confronti degli insegnanti (F(1,332) = 5,139, p ª 0,024).
Area
impegno nello studio
comportamenti scolastici
relazione tra ins. e secch.
Fattore
importanza dello studio
partecipazione lezione
accondiscendenza
maschio
3,82
3,83
3,91
femmina
3,59
3,59
3,73
Genere dei partecipanti
Fig.1: M relative ai fattori influenzati significativamente dalla variabile genere dei partecipanti
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In fig.2 sono riportati i punteggi medi nel fattore in cui la variabile genere del secchione influisce in modo significativo sulle risposte fornite. L’ANOVA ha rilevato che alle ragazze secchione viene attribuita una tendenza ad imparare ciò che studiano utilizzando logica e ragionamento in misura minore dei secchioni (F(1,332) =3,904, p ª 0,049). Area - impegno nello studio Fattore - modo di studiare maschio
3,93
femmina
3,77
Genere del secchione
Fig.2: M relative al fattore influenzato significativamente dalla variabile genere del secchione
In fig.3 sono riportati i punteggi medi dei fattori influenzati da tale variabile. È emerso che gli studenti di scuola superiore sono leggermente meno in accordo rispetto agli studenti di scuola media circa il modo di studiare del compagno (F(3,330) = 16,166, p ª 0,000). I ragazzi più grandi sono meno d’accordo degli altri sul fatto che il secchione usi la logica e il ragionamento, non imparando a memoria ciò che studia. Inoltre, l’ANOVA mostra che la variabile influenza le credenze degli studenti sull’aiuto dato durante i compiti in classe (F(1,332) = 14,173, p ª 0,000). Gli studenti di scuola media sono meno d’accordo sul fatto che il secchione aiuti durante i compiti e che socializzi con i compagni rispetto ai ragazzi delle superiori. Sembra che per i ragazzi più giovani il secchione sia meno malleabile e quindi disponibile alle richieste e ai giudizi dei compagni nelle prove in classe e nei diversi momenti della vita di classe. Infine, la propensione del secchione a mantenere un buon livello di attenzione e interazione durante la lezione è confermata in particolare dagli studenti di scuola media, i quali esprimono un accordo significativamente più elevato rispetto ai compagni delle superiori (F(3,330) = 5,870, p ª 0,016). In sostanza, gli studenti più giovani coinvolti nell’indagine ritengono, in grado maggiore rispetto ai compagni degli altri livelli, che i secchioni siano particolarmente sensibili alle sollecitazioni degli insegnanti, nella direzione di dare l’immagine del bravo studente per cui possono essere canzonati. Area
impegno nello studio
comportamenti scolastici
relazione tra ins. e secch.
Fattore
modo di studiare
aiuto ai compagni
accondiscendenza
Scuola media
3,96
2,58
3,77
Scuola superiore 3,70
2,96
2,62
Livello scolastico
Fig.3: M relative ai fattori influenzati significativamente dalla variabile livello scolastico
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In fig.4 sono riportati i punteggi medi di tale variabile. Sulla base dei confronti multipli a posteriori i ragazzi con scarso rendimento scolastico rispetto agli studenti con un buon rendimento risultano molto d’accordo sull’impegno del secchione nello studio. (F(2,331) = 9,580, p ª 0,017), così come gli studenti con un rendimento scolastico sufficiente sono più d’accordo rispetto agli studenti con un buon rendimento che il secchione goda dei privilegi che gli insegnanti gli offrono durante l’interrogazione (F(2,331) = 3,540, p ª 0,030). Sembrerebbe che gli alunni che si considerano scarsi o sufficienti siano più sensibili nel ritenere particolarmente impegnato il secchione e nel rilevare una certa preferenza nei suoi confronti da parte degli insegnanti, tendendo così ad aiutarlo maggiormente rispetto al resto della classe.
Rendimento scolastico
Area
impegno nello studio
relazione tra insegnante e secch.
Fattore
importanza dello studio
privilegi riservati al secchione
scarso
4,0351
3,5230
sufficiente
3,7121
3,3030
buono
3,5873
3,0000
Fig.4: M relative ai fattori influenzati dalla variabile rendimento scolastico
Discussione e considerazioni conclusive L’analisi delle componenti principali ha consentito di isolare differenti fattori e di articolare, confermandole, le aree preliminarmente individuate per la costruzione del questionario. I fattori isolati evidenziano che gli alunni rappresentano il compagno considerato secchione come un ragazzo che attribuisce molta importanza allo studio (area A – impegno nello studio, fatt.: importanza dello studio) e che dimostra spiccato impegno, responsabilità e costanza nello studio. Non impara a memoria gli argomenti scolastici, anzi usa la logica, il ragionamento e apprende senza particolari difficoltà (area A, fatt.: modo di studiare del secchione). Nei compiti in classe è abbastanza disponibile ad aiutare i compagni, senza procrastinare l’aiuto ad un momento successivo, suggerendo anche a quei compagni con i quali non ha un ottimo rapporto. Durante la lezione, il secchione sembra partecipare moderatamente al clima della classe (area B –comportamenti scolastici del secchione, fatt.: aiuto fornito ai compagni), riuscendo ad instaurare delle relazioni soddisfacenti. Partecipa molto attivamente alla spiegazione, mostrandosi interessato e coinvolto (area B, fatt.: comportamento durante lezione), atteggiamento che a volte può portare i compagni a canzonarlo. Gli alunni partecipanti ritengono che gli insegnanti tendano a privilegiare il secchione rispetto agli altri membri della classe, a favorirlo nelle diverse situazioni scolastiche (area C – relazioni tra insegnanti e secchione, fatt.: privilegi riservati al secchione) e che, a sua volta, il secchione cerchi di essere accondiscendente nei confronti dei docenti, evitando di opporsi alle loro opinioni o giudizi e cercando di collaborare (area C, fatt.: accondiscendenza verso insegnanti). Il secchione appare un ragazzo scolasticamente attivo e impegnato, che interagisce coi
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compagni, ma che in classe è oggetto della loro attenzione: può essere preso in giro quando risulta eccessivamente pronto nelle prestazioni scolastiche. In questa dinamica, risulta coinvolto anche l’insegnante per i presunti privilegi attribuiti al secchione in quanto dagli studenti possono essere intesi come mancanza di equità. È interessante osservare un possibile esito delle pressioni della classe nei confronti del secchione, diverso da quello messo in luce da Hargreaves (1977): piuttosto che manifestarsi una diminuzione dell’impegno da parte del secchione, sembra realizzarsi uno scambio di altro tipo. Il secchione risulta disponibile ad aiutare i compagni nei compiti, cioè fa copiare. Di fatto, nella reciproca e ricorsiva complicità, contro qualsiasi principio di responsabilità nello studio, gli alunni risultano in opposizione agli insegnanti, che continuano invece ad essere all’oscuro della dinamica in atto. Per questo insieme di comportamenti e caratteristiche, nonostante il secchione sia sottoposto a pressioni ricorrenti, è evidente che la relazione che si instaura tra classe e secchione non è propriamente quella di prevaricazione vs vittima, anche se può ugualmente realizzarsi all’oscuro degli insegnanti. Il secchione risulta tuttavia oggetto di pressioni improprie e diseducative per tutti gli alunni, che riguardano questioni centrali della loro educazione scolastica e della vita della classe, quali l’impegno e la responsabilità nello studio, l’orientamento motivazionale, i processi di apprendimento e di socializzazione. L’analisi di varianza univariata ha consentito di mettere in luce l’influenza delle variabili indipendenti considerate sulle rappresentazioni degli studenti circa il compagno considerato secchione, mettendone in luce il carattere differenziato. Per quanto riguarda la variabile genere dei partecipanti i ragazzi sono più convinti rispetto alle ragazze che il secchione sia caratterizzato per l’impegno nello studio, così come sono maggiormente d’accordo nel riconoscere un atteggiamento decisamente partecipativo del secchione durante la lezione, che lo porta ad essere preso in giro e infine una sua buona accondiscendenza nei confronti degli insegnanti. Gli studenti tendono a sostenere con maggior vigore rispetto alle compagne le caratteristiche del compagno secchione. Per la variabile genere del secchione, alle ragazze secchione viene attribuita una tendenza ad imparare a memoria ciò che studiano in misura maggiore dei loro compagni secchioni. La variabile livello scolastico ha messo in evidenza come gli studenti più giovani caratterizzino il compagno considerato secchione in modo significativamente diverso rispetto agli studenti delle classi superiori. I ragazzi di scuola media sono maggiormente d’accordo che il secchione usi la logica e il ragionamento, che non aiuti in maniera considerevole durante i compiti e che interagisca relativamente con i compagni di classe. Gli studenti di scuola media sostengono, anche, una maggiore propensione del secchione a interagire durante la lezione, nella direzione di dare l’immagine del bravo studente e, di conseguenza, tendendo anche a canzonarlo. Per gli alunni più giovani il secchione è un ragazzo che cerca di mantenere il suo ruolo di bravo studente e quindi non soggetto alle pressioni della classe di uniformarsi al gruppo. I ragazzi di scuola superiore invece non vedono il secchione come un compagno diverso, ma che cerca semplicemente di aderire alle loro richieste al fine di essere accettato. Infine, per la variabile rendimento scolastico, i ragazzi con scarso e sufficiente rendimento scolastico rappresentano il secchione come uno studente particolarmente impegnato nello studio, che gode dei privilegi che gli insegnanti gli riservano maggiormente. Alla luce delle analisi di varianza condotte, le credenze degli studenti sul secchione si manifestano pertanto come notevolmente differenziate in rapporto alle variabili considerate, multidimensionali, dinamicamente in equilibrio tra pressioni e interazioni in classe. In particolare, alcune richiederebbero ulteriori approfondimenti, come ad esempio il genere, per cui la secchiona nello studio risulterebbe ricorrere significativamente meno dei secchioni
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alla logica e al ragionamento, o il livello scolastico per cui la capacità di resistere alle pressioni dei compagni viene riconosciuta in grado significativamente maggiore dai compagni delle medie. Nel caso considerato del secchione, non si tratta dunque solamente di un processo che coinvolge uno studente oggetto di pressioni e i compagni che le mettono in atto, ma della manifestazione di complesse e ramificate dinamiche presenti in classe, che coinvolgono gli stessi insegnanti e quindi i processi formativi che li riguardano. I risultati conseguiti richiedono tuttavia di essere confermati ed arricchiti anche con il ricorso a differenti procedure di indagine, ma sottolineano la centralità degli studi sulla classe e sui molteplici ruoli e dinamiche che in essa si sviluppano. Riferimenti bibliografici Ames C (1992). Goals, structures, and student motivation. Journal of Educational Psychology, 84, pp. 261-271. Babad E. (2000). Il fenomeno del “prediletto dell’insegnante”: le percezioni e il morale degli alunni. Psicologia dell’Educazione e della Formazione, 3, pp. 311-338. Boliang G.,Yan W. & Lei C. (2005). Classroom effects on the relations between children social behaviors and school adjustment. Acta Psychologica-Sinica, 37, pp. 233-239. Brophy J.E. (1998). Classroom management as socializing students into clearly articulated roles. Journal of Classroom Interaction, 33, pp. 1-4. Ciucci E., & Fonzi A. (1999). La grammatica delle emozioni in prepotenti e vittime. In Fonzi A. (a cura di), Il gioco crudele. Studi e ricerche sui correlati psicologici del bullismo, Giunti, Firenze. Eccles J. S., & and Wigfield A. (1992). Students’ motivational beliefs and their cognitive engagement in classroom academic tasks. In Schunk, D. H. e Meece, J. L. (Eds.). Student perceptions in the classroom. Hillsdale, NJ, England: Lawrence Erlbaum Associates, pp. 149-183. Eccles J. S., & Wigfield A. (2002). Motivational beliefs, values and goals. Annual Review of Psychology, 53, pp. 109-132. Furman W., & Gavin L.A. (1989). Peers’ influence on adjustment and development: A view from the intervention literature. In T. J. Berndt & G.W. Ladd (Eds.), Peer relationships in child development, New York, Wiley, pp. 317-340. Genta M.L., Menesini E., Fonzi A., & Costabile A. (1996). Le prepotenze tra bambini a scuola. Età Evolutiva, 53, pp. 73-80. Hargreaves D.H. (1977). The process of typification in classroom interaction: Models and methods. British Journal of Educational Psychology, 47, pp. 274-284. Hazler R.J., Miller D., Carney J.V., & Green S. (2001). Adult recognition of school bullying situations. Educational Research, 43, pp. 133-146. Hofer B. K., & Pintrich P. R. (1997) The development of epistemological theories: Beliefs about kwowledge and Knowing and their relation to learning. Review of Educational Research, 67, pp. 88-140. Hofer B. K., & Pintrich P. R. (Eds.) (2002). Personal epistemology:The psychology of beliefs about knowledge and knowing. Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates. Kardash C. M., & Scholes R. J. (1996). Effects of pre-existing beliefs, epistemological beliefs, and need for cognition on interpretation of controversial issues. Journal of Educational Psychology, 88, pp. 260-271. Martin W. B. (1990), Teaching, schools e society. In E. O. Miranda e Romulo F. Magsino (Eds.), The culture of the school, Basingstoke, Hampshire, The Falmer Press, pp. 311-324. Mason, L., Gava, M., & Boldrin, A. (2008). On warm conceptual change:The interplay of text, epistemological beliefs, and topic interest. Journal of Educational Psychology, 100, pp. 291-309. Menesini E., & Fonzi A. (1997).Valutazione della gravità delle prepotenze subite in un campione di ragazzi della scuola media, Psicologia Clinica dello Sviluppo, 1, pp. 117-134.
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studi Dewey, la teoria dell’arco riflesso e la transazione Dewey, the reflex arc theory and the transaction GIORDANA SZPUNAR
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Nel The Reflex Arc Concept in Psychology (1896) Dewey propone una spiegazione evolutiva e naturalistica dell’arco riflesso. Il presente lavoro offre un contributo agli attuali studi deweyani, sostenendo le seguenti tesi. 1) La prospettiva evoluzionistica e naturalistica si sviluppa non solo in relazione al processo di base dell’arco riflesso, ma coinvolge anche la complessiva conoscenza dei processi. 2) Dal punto di vista filosofico ed epistemologico, questo approccio consente di superare il tradizionale dualismo organismo e ambiente, mente e corpo, teoria e pratica. 3) La critica dell’arco riflesso rappresenta il primo e chiaro schema di “transazione”.
In The Reflex Arc Concept in Psychology (1896) Dewey proposes an evolutionary and naturalistic explanation of reflex arc. The present paper contributes to the current state of Deweyan studies by arguing the following thesis. 1) The evolutionary and naturalistic perspective is developed not only in relation to the basic process of reflex arc, but involves the overall knowledge processes as well. 2) From a philosophical and epistemological point of view, this approach allows the overcoming of traditional dualism between organism and environment, mind and body, theory and practice. 3) The reflex arc criticism represents the first and clear outline of “transaction”.
Parole chiave: dualismo, coordinamento, transazione, esperienza, apprendimento
Key words: dualism, coordination, transaction, experience, learning
Giordana Szpunar, “Sapienza” Università di Roma.
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Il concetto di arco riflesso In psicologia, quando si parla di riflesso ci si riferisce al fenomeno per il quale lo stimolo di particolari recettori sensoriali determina una risposta automatica, vale a dire indipendente dalla volontà del soggetto. L’arco riflesso è la struttura che compone il sostrato nervoso di una parte «afferente» (che porta l’impulso al centro, costituito dal midollo spinale o dal cervello) e di una parte «efferente» (che porta l’impulso dal centro ai muscoli periferici). Al centro, il contatto tra ramo afferente e ramo efferente permette all’impulso che ha origine dallo stimolo di scaricarsi direttamente sul ramo efferente e di provocare la risposta senza dover coinvolgere livelli superiori che implichino la volontà del soggetto. L’arco riflesso segue così un percorso lineare che ha inizio con lo stimolo e si conclude con la risposta, passando per il centro nervoso. I primi riferimenti al concetto di arco riflesso si possono ritrovare nella biologia di Descartes (1662, 85-86 e 145-146). Dopo aver visto una serie di sviluppi dalla metà del ’700 alla seconda metà dell’800 ad opera dei fisiologi inglesi (Whytt), francesi (Bell, Magendie, du Bois-Reymond), italiani (Galvani e Volta), tedeschi (Helmholtz), statunitensi (Spencer e Huxley), l’arco riflesso diviene oggetto di studio privilegiato della corrente riflessologica russa, passando attraverso le diverse elaborazioni di Se enov, Bechterev, Pavlov. Nel 1881 James prende in considerazione il problema dell’arco riflesso nel saggio Reflex Action and Theism. Riferendosi alla fisiologia contemporanea, egli afferma che tutta l’attività nervosa segue il modello generale dell’azione riflessa. Questo modello base si compone di tre elementi: la sensazione, lo stimolo; un elemento di mediazione (il midollo spinale o il cervello); la risposta, l’azione che conclude la sequenza. In tale sequenza il sistema nervoso centrale si presenta come la fase intermedia il cui scopo è quello di condurre all’azione, mentre la risposta, o l’azione, rappresenta il momento culminante dell’intero processo (James, 1881, 113-114). In Principles of Psychology (1890) James riprende e approfondisce questi argomenti riportando il caso esemplare di un bambino che, attirato dalla luce, tocca la candela, si brucia e ritrae la mano. Secondo la teoria tradizionale dell’arco riflesso questo processo di apprendimento sarebbe costituito da due sequenze di stimolo-risposta, due “correnti riflesse”. Nella prima, che va «dall’occhio al movimento di estensione», lo stimolo è la vista della candela, la risposta è l’azione di toccare la fiamma. Nella seconda sequenza, che va «dal dito al movimento del ritrarre la mano», lo stimolo è la bruciatura, la risposta è l’azione di ritirare la mano. Le due sequenze, che vengono rappresentate da due archi distinti tra loro, consistono in una stimolazione esterna a cui segue un’azione stabilita dal funzionamento interno. Tuttavia, continua James, «se questo fosse l’intero sistema nervoso del bambino, e se i riflessi fossero una volta per tutte organici, potremmo non avere nessuna alterazione nel suo comportamento, indipendentemente da quanto spesso l’esperienza si ripresenti. L’immagine retinica della fiamma farebbe sempre allungare il braccio, il dito che brucia lo rimanderebbe sempre indietro» (25). Invece, come si sa, il bambino che si scotta teme il fuoco, e, generalmente, è sufficiente una sola esperienza per proteggere le dita per sempre. Il processo, allora, deve essere necessariamente più complesso. La corrente che parte dall’occhio, quando raggiunge il centro inferiore della visione, stimola contemporaneamente il processo percettivo (s¹) negli emisferi; la sensazione dell’estensione del braccio invia una corrente che lascia una traccia di se stessa (m¹); il dito bruciato lascia una traccia analoga (s²); e il movimento di ritrazione lascia una traccia m². Questi quattro processi, in virtù dell’assunzione secondo la quale se i processi «una volta sono stati stimolati insieme o in successione immediata, qualsiasi stimolazione successiva di uno qualsiasi di essi (sia dall’esterno sia dall’interno) tenderà a stimolare gli altri nell’ordine originario»,
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saranno ora associati tra loro dal percorso s¹-m¹-s²-m² che procede dal primo all’ultimo. In tal modo, se qualcosa provoca s¹, le idee di estensione, di dito bruciato e di ritrazione passeranno in rapida successione nella mente. Così, quando il bambino vedrà nuovamente la fiamma la vista della candela stimolerà il riflesso dell’afferrare, ma, simultaneamente, stimolerà l’associazione dell’idea dell’afferrare con quelle conseguenti del dolore e della ritrazione della mano. L’atto dell’afferrare sarà, molto probabilmente, arrestato nel corso del movimento della mano verso la candela, il bambino ritrarrà la mano e le sue dita saranno salve. Dunque, non siamo di fronte ad archi separati che rappresentano rispettivamente lo stimolo e la risposta, ma a una successione di stimoli e risposte molto più articolata. Questi concetti relativi all’arco riflesso adombrano e contengono l’idea fondamentale del pragmatismo: nel processo descritto, infatti, l’azione risulta come fine o come culmine e fornisce di significato il processo stesso (James, 1907, 31). Gli anni della pubblicazione dei Principles of Psychology di James sono anni particolari per la riflessione deweyana. Sono gli anni del passaggio dall’idealismo allo strumentalismo, dall’assolutismo allo sperimentalismo, dall’idealismo hegeliano al naturalismo darwiniano. Come riconosciuto da Dewey stesso, James rappresenta una delle figure fondamentali nel suo progressivo allontanamento dall’idealismo giovanile (Dewey, 1930b, Welchman, 1997 e White, 1943). L’influenza di James sul pensiero deweyano riguarda, naturalmente, più nello specifico, anche il problema del concetto di arco riflesso (Backe, 1999 e Phillips, 1971). Dewey e James, come vedremo, concordano nel sottolineare che l’arco riflesso può essere considerato come il modello dell’intera azione nervosa e che non può essere diviso in elementi singoli se non in modo artificiale e funzionale.Tuttavia, mentre James afferma che le prime due fasi dell’arco non hanno esistenza separata dalla terza, Dewey è più radicale nel sostenere che la risposta si configura come tale in virtù della sua co-ordinazione con le fasi precedenti. Per comprendere la posizione di Dewey sull’arco riflesso occorre tenere presente che la sua formazione e, quindi, l’orientamento delle sue prime opere, risentono fortemente di due influenze fondamentali: quella darwiniana e quella neohegeliana. The Origin of the Species di Darwin esce nel 1859, anno di nascita di Dewey. Le idee evoluzioniste arrivano a Dewey durante gli anni del college presso l’Università del Vermont attraverso un testo di T. H. Huxley (Dewey, 1930b, 147-148) letto per un corso di fisiologia e, negli anni ’80, presso la Johns Hopkins, attraverso le lezioni di psicologia di George Stanley Hall che applica le idee evolutive allo sviluppo del bambino. Negli stessi anni l’influenza di George Sylvester Morris lo porterà ad assumere posizioni hegeliane. Hegel, come Huxley, fornisce a Dewey una risposta convincente rispetto alla sua insoddisfazione di fronte alle posizioni dualiste e atomiste degli empiristi inglesi (Dewey, 1930, 153). Lo stesso ambito psicologico si presenta in questi anni caratterizzato da cambiamenti radicali: intorno agli anni ’80 nasce la nuova psicologia sperimentale in Germania che si oppone alla psicologia inglese basata quasi esclusivamente sulla speculazione filosofica. I progressi della fisiologia, lo sviluppo della metodologia della ricerca scientifica, il potenziamento della tecnologia, la diffusione dell’evoluzionismo darwiniano, sono fattori che spingono la psicologia ad assumere uno statuto scientifico autonomo. Già nel 1884, con il saggio The New Psychology, Dewey critica la “vecchia” psicologia (la psicologia derivata dall’empirismo inglese di Locke, Hume e Mill), la quale non terrebbe in debito conto la complessità della vita mentale e si baserebbe su una serie di discutibili assunzioni atomiste e dualiste. Agli sviluppi della biologia e alla nuova prospettiva evoluzionista si deve la concezione della vita mentale come di un processo organico e unitario e il riconoscimento della relazione intrinseca tra organismo e ambiente, grazie al quale la vita psichica cessa di essere considerata proprietà di un soggetto isolato che si sviluppa nel vuoto.
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Le scienze storiche e sociali permettono di consolidare quella «relazione organica» tra individui e società emersa grazie alla biologia. In tal modo l’ambito di applicazione della psicologia viene esteso notevolmente oltre quei confini angusti in cui la tenevano ingabbiata il formalismo e il nominalismo della vecchia psicologia. Dewey tenta di conciliare lo hegelismo con il darwinismo in una psicologia che, nell’attingere sia dalla biologia sia dalla storia, si basi su una concezione della vita che includa il biologico e il socioculturale e li veda in continuità l’uno con l’altro. Questo sforzo di sintesi emerge ancora negli scritti psicologici degli anni successivi (Dewey, 1886a, 1886b e 1887, Szpunar, 2004a), ma risulta particolarmente evidente nel volume del 1887 Psychology. Nelle revisioni successive dell’opera, che rappresentano il «cambiamento graduale nella mente di Dewey dal linguaggio dell’idealismo a quello della “nuova” psicologia», la critica deweyana al «“concetto di arco riflesso” è già prefigurata» (Schneider, 1967, VIII). La menzione esplicita del concetto di “arco riflesso” fa la sua comparsa nel febbraio 1892, in alcune lezioni di filosofia che Dewey tiene presso l’Università del Michigan. Nel mese di aprile dello stesso anno Dewey scrive a James Rowland Angell informandolo che sta studiando con molto interesse la teoria dell’“arco riflesso” (Hickman, 1999-2005, 1892.04.25 (00466): J. Dewey to J. R. Angell). Nelle lezioni di filosofia del 1892 già emerge chiaramente il concetto di coordinazione1. Facendo riferimento a Spencer, James e Von Hartmann, Dewey definisce l’arco riflesso come «l’unità dell’azione nervosa» specificando, tuttavia, che il termine si riferisce non solo al riflesso più semplice della fisiologia, come il battere le palpebre, ma a «qualsiasi azione unificata, o porzione completa di condotta». Sono archi riflessi il movimento di un’ameba, l’impulso di un bambino per il cibo, la percezione di un colore, un atto virtuoso, una teoria filosofica. Ognuna di queste è «una azione unificata; e in questa unità di azione varie condizioni sono portate a maturazione o messe a fuoco. Ognuna è una co-ordinazione di certe esperienze; ognuna è una espressione, più o meno diretta, più o meno esplicita, del complesso della vita; è la molteplicità delle circostanze dell’Universo che raggiunge una unità nell’azione» (Dewey, 1892, 212). Dewey prosegue affermando che due sono gli aspetti dell’arco riflesso che, anche se di fatto non separabili, possono essere analizzati in modo distinto: un aspetto riguarda la «diversità delle condizioni implicate», l’altro riguarda «l’unità dell’azione». In questa analisi di arco riflesso Dewey parla già di controllo e rinforzo reciproco tra stimolo e azione all’interno della co-ordinazione, argomenti che riprenderà tematicamente e approfondirà nel saggio del 1896 (Dewey, 1892, 213-214). The Reflex Arc Concept in Psychology, pubblicato per la prima volta nel luglio 18962, con-
1 Il termine «coordinazione» è poi utilizzato esplicitamente da Dewey nel 1894: «il modo di comportarsi è la cosa primaria, e […] l’idea e l’eccitazione emotive sono costituite nello stesso momento; anzi, esse rappresentano la tensione di stimolo e risposta all’interno della coordinazione che determina il modo di comportarsi». (Dewey, 1894b, 174). 2 L’articolo è pubblicato per la prima volta in «Psychological Review», III, July 1896, pp. 357-370. È ripubblicato, senza revisioni, solo una volta, nello stesso anno della sua pubblicazione nei Contributions to Philosophy. Dewey stesso nel 1914 scrive a Boyd H. Bode spiegando i motivi della mancata ripubblicazione del saggio. «Non ho mai ristampato la cosa sull’Arco Riflesso a causa della terminologia della prima parte – è troppo “soggettivistica” – troppo “psichica” – circa le sensazioni ecc. – è troppo presente l’idea del flusso di coscienza. E non ho mai avuto la possibilità di riscrivere la terminologia» (Hickman, 1999-2005, 1914.03.12 (02933): J. Dewey to B. H. Bode).
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tiene l’analisi più sistematica del concetto di arco riflesso ed è un saggio che riveste una notevole importanza su più livelli. Anzitutto, lo scritto del 1896 rappresenta dal punto di vista della storia della psicologia un «colpo mortale all’introspezionismo e un manifesto del nuovo funzionalismo» (Hickman, 1998, X e Langfeld, 1994). Tuttavia, non è possibile rinchiudere il saggio nel confine della scuola funzionalista e leggerlo in un’ottica esclusivamente psicologica, poiché in esso sono presenti contributi filosofici di primo piano. Non a caso, come abbiamo visto, Dewey aveva inserito l’arco riflesso tra i principali argomenti delle sue lezioni di Introduzione alla filosofia. Lo scritto, dunque, è considerato comunemente uno dei passaggi più importanti del pensiero di Dewey, poiché vi si ritrovano, fatte le dovute distinzioni e precisazioni terminologiche e concettuali, una serie di elementi che ritorneranno nell’intera opera deweyana. Infatti, nella concezione deweyana del circuito senso-motorio, come abbiamo anticipato, emerge la combinazione delle istanze di unità e continuità derivate dal pensiero hegeliano con il naturalismo evoluzionistico di Darwin e di James, combinazione che troverà poi una piena e completa sistemazione nel concetto di transazione (Pronko & Herman, 1982, Biesta, Miedema & Ijzendoorn, 1990, Palmer, 2005,Vanderstraeten, 1998). D’altra parte, è lo stesso Dewey che in una nota di Knowing and the Known riconosce e precisa come nell’articolo del 1896 venga prefigurata per la prima volta in modo significativo la prospettiva transazionale (Dewey & Bentley, 1949, 101). La «cornice transazionale», inoltre, che trova una delle sue prime elaborazioni proprio nel saggio del 1896, è a tutt’oggi tenuta in grande considerazione sia dalla psicologia (Langfeld, 1994, Tolman & Piekkola 1989, Bredo, 1998,Vanderstraeten, 2002,Vanderstraeten & Biesta, 1998, Garrison, 1995 e 1997, Clancey, 1993, Bredo, 1994, Biesta, Miedema & van Ijzendoorn, 1990, Gibson, 1980, Jordan, 1998), sia da una serie di discipline più o meno limitrofe come la sociologia e l’economia (Khalil, 2003 e 2004, Szpunar, 2004a e 2008). The Reflex-Arc Concept in Psychology «oggi, più di cento anni dopo la sua pubblicazione, è ancora il soggetto di un interesse e una discussione considerevoli» (Hickman, 2001 e 1998, Langfeld, 1994) da una parte perché rappresenta un pilastro fondamentale all’interno dell’opera deweyana, dall’altra perché le considerazioni filosofiche, epistemologiche e pedagogiche che sviluppa rimangono a tutt’oggi estremamente attuali in campo psicologico come in altri ambiti disciplinari (McKenzie, 1972, xviii-xix).
Dall’arco al circuito riflesso Il discorso di Dewey sul concetto di arco riflesso si apre con la constatazione secondo la quale, a seguito dei numerosi risultati scientifici conseguiti dalla nuova psicologia, si pone con forza la necessità di un principio unificante, di una categoria di fondo che organizzi la molteplicità e la varietà dei fatti. E «l’idea dell’arco riflesso è nel suo complesso arrivata vicino ad incontrare questa richiesta di un’ipotesi di lavoro generale più di ogni altro singolo concetto».Tuttavia, il concetto di arco riflesso, non solo nella sua versione tradizionale, ma anche così come viene concepito nella prospettiva della nuova ricerca fisiologica, perpetua il dualismo e l’atomismo tipici della vecchia psicologia associazionistica e che affliggono la tradizione filosofica occidentale tout court. Infatti, la definizione secondo la quale un comportamento complesso è composto di sequenze di unità stimolo-risposta elementari fa pendant con la nozione empirista secondo la quale le idee complesse sono composte di idee elementari associate dalla mente. In altre parole, «il vecchio dualismo tra sensazione e idea è ripetuto nel dualismo corrente di strutture e funzioni periferiche e centrali; il vecchio dualismo di corpo e anima trova un’eco distinta nel corrente dualismo di stimolo e risposta».
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A partire da rigide distinzioni che tendono a isolare e a ipostatizzare aspetti e funzioni interne al circuito senso-motorio, lo stimolo e la risposta, la sensazione e l’azione sono viste come unità autonome, distinte e indipendenti. «Lo stimolo sensoriale è una cosa, l’attività centrale, che sta per l’idea, è un’altra cosa, e la scarica motoria, che sta propriamente per l’atto, è una terza. Conseguentemente, l’arco riflesso non è un’unità comprensiva o organica, ma un mosaico di parti slegate, una congiunzione meccanica di processi diversi» (Dewey, 1896, 96). Questo non fa che alimentare il tradizionale dualismo psicologico, nonché filosofico, che tende a non riconoscere il contributo dell’ambiente al comportamento dell’individuo. In tal modo, il principio dell’arco riflesso quale mosaico di elementi giustapposti tradisce la continuità dell’esperienza e l’unità tra l’organismo e l’ambiente circostante. Occorre, dunque, una nuova prospettiva che abbandoni l’impianto dualistico con cui viene da tempo interpretato il rapporto uomo-mondo. Come scrive Dewey nell’enunciare con chiarezza il suo programma di ricerca, «ciò che si richiede, più specificamente, è che lo stimolo sensoriale, le connessioni centrali e le risposte motorie siano viste non come entità separate e complete in se stesse, ma come divisioni di lavoro, fattori funzionali, dentro l’insieme unico concreto, ora designato come l’arco riflesso» (Dewey, 1896, 97). Il principio chiave attraverso cui garantire l’unità e la continuità dell’esperienza è quello della co-ordinazione. Per dimostrare in che modo vada inteso questo concetto, Dewey riprende il caso del bambino e della candela già preso in considerazione da James. Come abbiamo visto, l’interpretazione consueta è che in questo processo di apprendimento siano in gioco due sequenze di stimolo e risposta. Nella prima sequenza il bambino recepisce lo stimolo, la vista della candela, e risponde avvicinandosi ad essa fino a toccarla. Nella seconda sequenza, il bambino recepisce lo stimolo della bruciatura e reagisce allontanando la mano. Il modello dell’arco riflesso implica che ciascun evento sia separato dagli altri e definito indipendentemente dagli altri. I singoli eventi sarebbero collegati causalmente in una sequenza lineare secondo la quale lo stimolo 1 causa la risposta 1 e così via. Questa interpretazione lineare, riducendo gli eventi a una serie di contrazioni isolate, non spiega il modo in cui i «diversi elementi del comportamento lavorano insieme per formare un’azione integrata» (Bredo, 1998, 453), intenzionale, diretta a uno scopo. Dewey, naturalmente, non concorda con questa analisi e nel saggio del 1896 sviluppa una critica puntuale e dettagliata iniziando dalla prima sequenza. Il principio del processo non è costituito dal mero stimolo sensoriale (visivo) a cui segue meccanicamente una risposta motoria, ma piuttosto da una più complessa co-ordinazione senso-motoria («quella otticooculare») nella quale il movimento assume una importanza primaria in quanto conferisce significato all’esperienza e determina «la qualità di ciò che è esperito» (Dewey, 1896, 97). Il processo non inizia con una sensazione, ma con un’azione, l’azione del vedere, del guardare la fiamma. La «qualità sensoriale» conferisce valore all’azione, mentre il movimento la controlla. Entrambi, sensazione e movimento, «stanno dentro l’azione, non fuori». La sensazione e il movimento non sono due elementi distinti legati da una semplice successione di antecedente e conseguente, ma, al contrario, rappresentano due momenti di un unico atto. Vedere e afferrare, essendo stati «tenuti insieme così spesso da rinforzarsi reciprocamente», diventano due aspetti dello stesso processo di co-ordinazione, nel quale l’atto di vedere stimola e controlla l’atto di stendere il braccio (è la vista della fiamma che stimola il bambino a muovere il braccio in una certa direzione) e, viceversa, lo stendere il braccio stimola e controlla l’atto di guardare la candela (per arrivare a toccare la fiamma il bambino deve mantenere lo sguardo su di essa). Più radicalmente allora, vedere e afferrare sono connessi l’un l’altro di modo che l’uno dà significato all’altro (Dewey, 1896, 98).
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Una volta chiarito che quella che veniva definita la prima sequenza di stimolo-risposta è, più precisamente, una co-ordinazione senso-motoria unitaria, Dewey afferma che è completamente fuorviante ridurre il processo preso in esame a sequenze tra loro separate. Se analizziamo allo stesso modo quella che viene tradizionalmente considerata come la seconda sequenza di stimolo-risposta, la mano che si brucia a contatto con la fiamma e che conseguentemente si ritrae, possiamo arrivare alla conclusione secondo la quale anche questa non è una semplice sensazione, ma è una co-ordinazione senso-motoria. E non consiste in un «evento interamente nuovo», ma «è semplicemente il completamento o l’adempimento della precedente co-ordinazione occhio-braccio-mano». L’ordinaria interpretazione in base alla teoria tradizionale dell’arco riflesso vede nella risposta della seconda sequenza un evento nuovo, costituito dalla sostituzione della precedente sensazione di luce con la sensazione della bruciatura, attraverso la mediazione del movimento. Se così fosse, tuttavia, non ci sarebbe apprendimento e, come sottolinea anche James, il bambino posto di fronte a una situazione analoga si brucerebbe nuovamente le dita. Il fatto che le due sequenze rientrino in una co-ordinazione unitaria più ampia spiega invece perché il bambino, trovandosi in futuro in una situazione analoga, riesce ad evitare la bruciatura. «Solo perché la sensazione calore-dolore [heat-pain quale] entra nello stesso circuito di esperienza con le sensazioni ottico-oculare e muscolare [optical-ocular and muscolar quales], il bambino apprende dall’esperienza e acquisisce l’abilità di evitare l’esperienza nel futuro» (Dewey, 1896, 98). In altre parole, non si ha la sostituzione di una esperienza con un’altra. Il movimento mantiene, rinforza e trasforma la sensazione originaria, determinando lo sviluppo o, più precisamente, la «mediazione» dell’esperienza (Dewey, 1894a, 237). La sensazione iniziale ripetuta successivamente in situazioni analoghe si rivela qualitativamente differente: non solo la bruciatura conseguirà sempre all’atto del toccare la fiamma, ma il bambino è cosciente di questo. Secondo Dewey l’unità e la continuità delle co-ordinazioni senso-motorie determinano una trasformazione dell’esperienza originaria, la quale si configura secondo modalità continue e cumulative. La cosiddetta «risposta» non è una risposta allo stimolo, ma è nello stimolo stesso. «La bruciatura è l’originaria capacità di vedere, l’originaria esperienza ottico-oculare ampliata e trasformata nel suo valore. Non è più semplicemente il vedere; è il vedere-unaluce-che-significa-dolore-quando-avviene-il-contatto» (Dewey, 1896, 97). Il risultato è che l’idea dell’arco riflesso è «difettosa» e mette capo a una «psicologia disgregata», la quale, incapace di vedere che l’arco in realtà è un «circuito, una ricostruzione continua», perde di vista la «continuità dell’esperienza» sia relativamente al processo di «sviluppo dell’individuo o della razza» sia relativamente alla «analisi della coscienza matura». Nel primo caso, infatti, l’ignorare la continuità che caratterizza l’arco riflesso ci lascia «con nient’altro che una serie di contrazioni, l’origine di ognuna delle quali va ricercata al di fuori del processo di esperienza stessa, o in una pressione esterna dell’“ambiente”, o ancora in una variazione spontanea inesplicabile dall’interno dell’“anima” o dell’“organismo”» (Dewey, 1896, 99). Nel secondo caso, invece, l’ignorare l’unità dell’attività determina una separazione tra sensazione, o stimolo periferico, idea, o processo centrale, e risposta motoria, o atto, i quali devono trovare un aggiustamento reciproco «o attraverso l’intervento di un’anima extrasperimentale, o attraverso uno spingere e tirare meccanico» (Dewey, 1896, 100). Per confermare le considerazioni fatte fino a questo punto Dewey si dedica all’illustrazione di un ulteriore caso, questa volta ripreso da un’analisi di James M. Baldwin. In Feeling and Will, Baldwin descrive la «coscienza reattiva» come composta da tre elementi che sono «la coscienza recettrice, lo stimolo», l’attenzione involontaria e la reazione muscolare che segue allo stimolo, riportando l’esempio di un suono improvviso che viene percepito, registrato e al quale segue un tentativo di fuga.
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L’analisi di questa situazione, afferma Dewey, non è completa perché non tiene conto dello stato precedente alla percezione del suono: la situazione di partenza conferisce all’esperienza un significato di volta in volta diverso. «Se uno sta leggendo un libro, se sta cacciando, se sta osservando un luogo tenebroso in una notte solitaria, se sta effettuando un esperimento di chimica, in ognuno di questi casi il rumore ha un valore psichico molto differente; è un’esperienza differente» (Dewey, 1896, 100). Come abbiamo visto anche nel caso della candela e del bambino, la situazione che precede lo stimolo è già una co-ordinazione senso-motoria e lo stimolo emerge da questa co-ordinazione «come dalla sua matrice». Nel caso del rumore improvviso il suono si costituisce come spostamento dell’attenzione, come «redistribuzione delle tensioni dell’atto precedente» e, dunque, non si manifesta come un semplice stimolo o sensazione, ma come un atto, l’atto dell’ascoltare. Dunque, si ha in primo luogo un movimento che conferisce significato al suono e che, conseguentemente, determina l’azione ulteriore del fuggire via (Dewey, 1896, 101-102). Ancora, l’azione del fuggire via non si riduce a una mera risposta motoria, ma è una co-ordinazione senso-motoria e non si determina come esperienza nuova slegata dalla co-ordinazione precedente: l’esperienza del suono persiste nel suo significato nell’atto di correre via per mantenerlo e controllarlo. Durante la costruzione di un’azione si assiste, dunque, a una «interazione dinamica di movimento e percezione», a un «mutuo modellamento» degli elementi dell’azione stessa. Date queste considerazioni il processo non può essere rappresentato da un arco o da una successione di archi spezzati e slegati fra loro. Piuttosto, e più appropriatamente, deve essere tradotto in un «circuito» all’interno del quale stimolo e risposta, sensazione e movimento, si determinano reciprocamente. Questo circuito, sottolinea Dewey, «si chiama più precisamente organico che riflesso, poiché la risposta motoria determina lo stimolo, proprio come lo stimolo sensoriale determina il movimento. In verità il movimento avviene solo per determinare lo stimolo, per stabilire che tipo di stimolo è, per interpretarlo» (Dewey, 1896, 102). È solo all’interno di una «co-ordinazione» o di un «circuito» di questo genere che il bambino, guardando la candela, la «costituisce» come uno stimolo; è solo all’interno di una «coordinazione» o di un «circuito» di questo genere che il bambino, manifestando l’intenzione di toccare la fiamma, «costituisce» il movimento come una risposta. In altre parole, la sensazione e il movimento acquisiscono rispettivamente il proprio status di stimolo e di risposta in virtù del ruolo che ognuno di essi gioca nella co-ordinazione intenzionale più ampia (l’azione). Nel momento in cui un evento esterno all’organismo accade il suo significato e il suo effetto sul comportamento dell’individuo dipenderanno, dunque, da ciò che l’organismo sta già facendo. «Nessun cambiamento esterno è uno stimolo in sé e per sé. Esso diventa lo stimolo in virtù di ciò con cui è già occupato l’organismo. […] Il cambiamento ambientale diventa uno stimolo in virtù di un procedere continuo del comportamento» (Dewey, 1930a, 223). Se lo stimolo diventa tale, acquisendo significato, solo nel contesto dell’azione in corso, allora «l’unità stimolo-risposta dei teorici dell’arco riflesso era semplicemente un “arco” tagliato da un ciclo, o da una serie di cicli, di azione. Era un frammento insignificante considerato fuori del contesto» (Bredo, 1998, 454). La concezione dell’arco riflesso, separando lo stimolo dalla risposta e la sensazione dal movimento, non fa che perpetuare il dualismo metafisico «formulato per la prima volta da Platone, secondo il quale la sensazione è un ambiguo abitante nella terra di confine tra l’anima e il corpo, l’idea (o il processo centrale) è puramente psichica e l’atto (o movimento) puramente fisico». La distinzione c’è, dice Dewey, ma non è possibile assumerla come una «distinzione che in qualche modo si trova nell’esistenza dei fatti stessi» (Dewey, 1896, 104). Stimolo e risposta, sensazione e movimento non costituiscono delle entità separate. La loro distinzione non ha una natura ontologica, ma te-
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leologica, funzionale, relativa ai diversi ruoli assunti all’interno di un’azione diretta a un fine (Dewey, 1896, 104). Stimolo o sensazione, movimento e risposta rappresentano distinzioni di «funzioni flessibili», non di entità fisse. Infatti, lo stesso evento «sostiene l’una o l’altra o entrambe le parti in relazione allo spostamento di interesse» (Dewey, 1896, 102). In altre parole, lo stimolo e la risposta, propriamente intesi, non sono che due azioni coordinate che rappresentano le fasi di inizio e di completamento di un’azione più ampia. Essi acquisiscono significato in base al ruolo giocato nell’azione stessa (Dewey, 1896, 106). Il mutuo adattamento tra le varie fasi dell’azione, tra stimolo e risposta, rimane stabile finché sono stabili le condizioni del contesto. Nel momento in cui le condizioni cambiano, si rendono necessari nuovi aggiustamenti ed è in questo frangente che emerge la «mente cosciente». Per chiarire questi concetti Dewey ripropone il caso del bambino e della candela rendendolo più complesso. Si consideri il caso di un bambino che, nel toccare una luce intensa, cioè nel compiere la coordinazione “vedere la fiamma-allungare il braccio”, qualche volta ha provato un’esperienza piacevole, qualche volta ha trovato qualcosa da mangiare e qualche volta si è bruciato. In questa situazione stimolo e risposta sono entrambi «incerti», «l’uno è incerto nella misura in cui lo è l’altro» (Dewey, 1896, 106). Il bambino si trova a dover «scoprire o stabilire lo stimolo giusto» e a «scoprire o stabilire la risposta».Vista la fiamma, la risposta del bambino, vale a dire lo stendere o meno la mano, dipenderà da che tipo di luce intensa egli si troverà di fronte: il movimento sarà di un certo tipo se la luce significa bere il latte e di un altro tipo se significa bruciarsi le dita. Il dubbio sul tipo di risposta da fornire in una data situazione diventa a questo punto lo stimolo che consente di rivolgere l’attenzione all’oggetto per determinarne il significato. In altre parole, il conflitto che si genera nella condizione di dubbio all’interno della coordinazione inibisce temporaneamente l’attività (lo stendere o il ritrarre la mano) e trattiene la vista sullo «stimolo oggettivo» fin quando il bambino non sia in grado di determinarne la qualità. È proprio «in questo frangente e a causa di esso», afferma Dewey, che sorge la distinzione della sensazione come «stimolo cosciente» e del movimento come «risposta cosciente» (Dewey, 1896, 106-107). In questo modo la sensazione come stimolo non rappresenta un’esistenza psichica separata, ma una funzione che subisce uno spostamento a seconda del significato che le diverse attività assumono nel corso dell’azione. Come abbiamo visto, nella fase iniziale l’attività dello stendere (o ritrarre) la mano è la sensazione, è lo stimolo che pone il problema o che determina la richiesta dell’atto successivo. In un secondo momento sarà l’atto del vedere a costituire la sensazione, sarà lo stimolo che condurrà l’azione seguente dello stendere (o ritrarre) la mano. «In termini generali, la sensazione come stimolo è sempre quella fase di attività che richiede di essere definita affinché una coordinazione possa essere completata. Quello che la sensazione sarà in particolare in un dato momento, dunque, dipenderà interamente dal modo in cui un’attività viene usata» (Dewey, 1896, 107). La stessa riflessione vale per il movimento come risposta. Infatti, nella fase iniziale la risposta è rappresentata dal «fissare l’attenzione», dal «tenere l’occhio fisso sul vedere»: ciò permette al bambino di valutare di fronte a quale sensazione di luce si trova. In un secondo momento la risposta è rappresentata dal movimento del braccio che si ritrae: ciò permette al bambino di eliminare la sensazione della bruciatura della mano. «Non c’è niente che, in se stesso, possa essere etichettato come risposta» (Dewey, 1896, 107-108). Nella parte conclusiva del saggio Dewey sintetizza e ribadisce gli snodi principali della critica all’arco riflesso e della proposta del principio di coordinazione come categoria fondamentale, rinviando ad altra occasione l’applicazione di questo alla «questione della natura dell’evoluzione psichica, alla distinzione tra coscienza sensoriale e coscienza razionale e alla natura del giudizio» (Dewey, 1896, 108-109).
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Il principio della coordinazione e la transazione In base al principio della coordinazione, nel circuito senso-motorio stimolo e risposta non sono due entità distinte e precostituite, ma hanno esistenza solo all’interno del loro rapporto. In questo senso, le nozioni di coordinazione e di circuito senso-motorio, così come Dewey le intende e le presenta nel saggio del 1896, racchiudono, l’abbiamo già accennato, le più importanti istanze che in seguito caratterizzeranno il deweyano concetto di transazione. Come il principio di coordinazione anche il concetto di transazione risponde esplicitamente all’esigenza di rintracciare un principio fondamentale e unificante, «una ipotesi di lavoro e di controllo», capace di individuare le modalità essenziali che caratterizzano l’esperire e il conoscere dell’uomo. La coordinazione, così come la transazione, permettono a Dewey di naturalizzare l’organicismo mutuato da Hegel, rifiutando l’idealismo senza tuttavia cadere mai nel materialismo e nell’empirismo (Ryan, 1995, 126). In questa ottica, il tratto di fondo che segna la transazione e la coordinazione quali «principi unificatori» è, come vedremo, il rifiuto di ogni forma di dualismo. La prefigurazione di una “terza via”, che superi gli opposti estremismi rappresentati dall’idealismo e dal realismo, poggia, in entrambi i casi, sulle conoscenze e sulle conquiste scientifiche più recenti, in particolare quelle della biologia e della psicologia. Negli anni intorno al 1896, come abbiamo visto, proprio sulla base delle conquiste in campo biologico (con particolare riferimento all’evoluzionismo di Darwin) e sulla base dei progressi in campo psicologico (con particolare riferimento alla psicologia di James), Dewey si rende conto che i dualismi della tradizione sono il frutto di una scorretta impostazione filosofica che la coscienza assoluta dell’idealismo non risolve, ma anzi complica (Westbrook, 1991, 67). Al contrario, la prospettiva deweyana non implica una separazione tra organismo e ambiente né l’esistenza di entità precostituite e immutabili. Infatti, attraverso la critica al concetto dell’arco riflesso Dewey propone una visione circolare dell’azione che presenta l’adattamento come «una danza con un partner che agisce a sua volta, piuttosto che come adeguamento a una cosa fissa, o costrizione ad adeguarsi a se stesso» (Bredo, 1998, 458). In un celebre saggio del 1917 questa posizione emergerà con chiarezza. «Dove c’è vita – afferma Dewey – c’è un doppi collegamento mantenuto con l’ambiente» (Dewey, 1917, 7). La vita, infatti, è resa possibile solo all’interno di un ambiente e grazie alla presenza di determinate energie ambientali che alimentano lo sviluppo di certe funzioni organiche. Tuttavia, l’ambiente non fornisce solo elementi utili allo sviluppo delle funzioni vitali: le energie ambientali agiscono tanto a vantaggio quanto a svantaggio dell’organismo vivente. L’organismo, a sua volta, non subisce passivamente le influenze dell’ambiente e la sua vita non è una semplice emanazione di esso. L’essere vivente, infatti, ha il potere di agire sul proprio ambiente e di modificare la direzione degli eventi naturali. L’azione dell’organismo sull’ambiente viene intrapresa, da una parte, al fine di perpetuare le circostanze favorevoli e rendere maggiormente collaborative quelle neutre, dall’altra, per evitare l’influenza di quelle sfavorevoli. In altre parole, l’organismo necessita delle risorse ambientali per la propria esistenza, ma esercita, allo stesso tempo, un’influenza su di esse per garantire il proseguimento della propria sopravvivenza. L’adattamento dunque non è semplice accoglimento passivo da parte dell’individuo dell’ambiente in cui si trova immerso. L’essere vivente, infatti, oltre a subire i cambiamenti dell’ambiente, a sua volta agisce in modo che questi prendano certe direzioni piuttosto che altre, vale a dire, spinge i mutamenti ambientali in direzioni maggiormente favorevoli alla propria sopravvivenza. «Come la vita esige l’adattamento dell’ambiente alle funzioni organiche, così l’adattamento all’ambiente significa non accettazione passiva di questo, ma un’attività tale che i mutamenti ambientali prendano una certa direzione» (Dewey, 1917, 8).
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In altre parole, se da una parte le condizioni ambientali modificano il comportamento dell’organismo, dall’altra è lo stesso organismo che modifica la situazione ambientale. L’ambiente attuale risulta essere in parte prodotto dell’azione dell’organismo, così come l’organismo e il suo comportamento risultano essere in parte prodotti delle sollecitazioni dell’ambiente circostante. In tal modo qualsiasi separazione precostituita tra organismo e ambiente diventa insostenibile (Szpunar, 2004b). L’aspetto rivoluzionario della proposta deweyana consiste primariamente proprio nell’offrire «una visione dell’organismo come elemento che coevolve con l’ambiente che esso contribuisce a creare piuttosto che come elemento che si conforma passivamente a richieste ambientali date o come meccanismo che opera in conformità con regole interne fisse» (Bredo, 1998, 456). Il deweyano principio della «coevoluzione organismo-ambiente», elaborato attraverso la critica al concetto di arco riflesso e la successiva elaborazione del concetto di transazione, anticipa alcune posizioni della biologia contemporanea che riformulano i concetti di adattamento, evoluzione e selezione naturale escludendo qualsiasi separazione presupposta tra l’essere vivente e l’ambiente che lo circonda (Lewontin, 1998 e 2000, Szpunar, 2008). La teoria dell’arco riflesso, con la relativa concezione dualistica di stimolo-risposta che presenta l’arco stesso come un mosaico di parti giustapposte, non è altro che un residuo della tradizionale distinzione filosofica corpo-anima. Questa arbitraria separazione tra idea, stimolo, sensazione e risposta determina il problema del modo in cui questi elementi entrino in relazione tra loro. La filosofia ha risposto in diversi modi alla questione o considerando alternativamente la mente o l’attività corporea come effetti secondari l’una dell’altra (materialismo e idealismo) oppure considerando «mente e corpo come due cose distinte che interagiscono, ognuna delle quali affetta l’altra» (interazionismo) (Bredo, 1998, 460). Dewey supera le posizioni filosofiche tradizionali intendendo l’intero arco come un’unità organica, come l’unità minima della vita sensoriale. Stimolo e risposta, infatti, esistono per l’atto e perdono ogni significato se vengono considerati isolatamente. L’attività del cervello, il pensare, non può essere compresa considerandola separatamente dall’attività del corpo in cui è inserita. L’unica distinzione che può sussistere tra stimolo e risposta è, come abbiamo visto, una distinzione teleologica, cioè di funzione, relativa al ruolo svolto per il raggiungimento di un fine e la sua conservazione. Anche il rapporto tra mente e corpo, tra pensare e agire, come la relazione tra organismo e ambiente, va inteso non come un’interazione meccanica fra elementi irrelati, ma come un condizionamento reciproco e continuo tra parti strettamente connesse tra loro, vale a dire come una transazione (Phillips, 1971, 561-562). In altre parole il principio della coordinazione implica in modo evidente quel tratto qualificante che distingue la prospettiva transazionale da quella meramente relazionale e interazionale. Nella coordinazione come nella transazione, infatti, non è mai in gioco una relazione estrinseca tra due elementi precostituiti che solo in un secondo momento entrano in rapporto tra loro (interazione). Nella coordinazione e nella transazione gli elementi non sono anteriori al loro rapporto, ma si costituiscono solo al suo interno. Proprio sulla base delle cornici interpretative rappresentate dalla coordinazione e dalla transazione, i concetti di situazione, di continuità e cumulatività dell’esperienza, la logica genetica e le fasi del giudizio, il pensiero riflessivo, la continuità tra metodo scientifico e senso comune, la complementarità tra matrice biologica e matrice culturale, il ruolo del linguaggio, il circolo esperienza-natura, la continuità tra teoria e prassi, e in generale tutto il corpus di concetti che definiscono lo strumentalismo deweyano, vengono chiariti nei loro presupposti teorici di fondo (Shook, 2000 e Smith, 1973). La «ricostruzione filosofica» operata da Dewey, superando quei dualismi di stampo metafisico che avevano imbrigliato la filosofia in una condizione di sterilità e confusione, non lascia spazio al conflitto tra
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soggettivismo e oggettivismo, idealismo e realismo, relativismo e assolutismo, empirismo e razionalismo, monismo e atomismo, ma anche tra teoria e prassi, spirito e materia, esperienza e natura, induzione e deduzione, giudizi di fatto e giudizi di valore, determinismo e indeterminismo, individualismo e collettivismo, teismo e ateismo. L’idea della transazione tra organismo e ambiente e tra mente e corpo, consente a Dewey di superare le assunzioni dualistiche alla base della filosofia moderna «aggirando la scelta tra centralità del soggetto e centralità dell’oggetto, tra costruzione idealistica e rappresentazione realistica» (Vanderstraeten, 2002, 242). Oltre a prefigurare il concetto di transazione, la riflessione di Dewey sul principio della coordinazione anticipa anche alcuni aspetti della logica genetica. Tra gli interpreti recenti, soprattutto Hickman ha evidenziato questo punto, sottolineando la relazione intrinseca che lega la psicologia e la logica di Dewey (Hickman, 1998, X). L’influenza della psicologia sulla logica va vista principalmente in due direzioni. In prima istanza, la nozione della coordinazione è legata a quegli stessi principi di fondo che caratterizzeranno la costruzione del giudizio e il pensiero riflessivo, ossia la ricerca attiva di un equilibrio mai definitivo, la continuità e la cumulatività dell’esperienza, l’unità tra teoria e prassi, l’origine del pensiero in una situazione di conflitto nell’azione. L’apprendimento, come sarà anche per Piaget, «non è una serie di archi troncati ma un circuito continuo o un ritmo di equilibrio sbilanciato e ristabilito» e colui che apprende è un «giocatore attivo [… ] che porta con sé un insieme di comportamenti complessi e di aspettative dagli eventi passati». «Ogni individuo che apprende è un organismo vivente con la propria storia, i propri bisogni, i propri desideri e, forse cosa più importante, i propri interessi» (Hickman, 2001). Il rapporto tra la coordinazione e la logica genetica è, però, ancora più profondo. Secondo Hickman il circuito senso-motorio descritto da Dewey prefigura in modo diretto le cinque fasi del pensiero riflessivo. Il processo di apprendimento descritto muove da una situazione di squilibrio: il bambino scopre un oggetto nuovo. Si tratta di una situazione instabile che determina una risposta emotiva. Il bambino si trova di fronte a un problema che richiede una soluzione in base all’esperienza passata. Per ristabilire l’equilibrio è necessario un intervento, intellettuale e pratico al tempo stesso: l’esplorazione. L’esplorazione viene condotta in base a un metodo familiare già sperimentato, toccare con mano.Toccare è un esperimento, una verifica della soluzione perseguita. L’oggetto, però, si rivela diverso dai precedenti. La situazione problematica è così risolta, il bambino è in un nuovo stato di equilibrio, il circuito di apprendimento è momentaneamente concluso (Hickman, 2001, Bredo, 1998). Da qui, la visione di una costante relazione dinamica e reciproca tra organismo e ambiente, che trova la sua origine nel saggio del 1896, caratterizzerà non solo la riflessione relativa al campo della logica, ma l’intera opera deweyana in tutte le sue dimensioni. Infatti, il principio della coordinazione, così come la prospettiva transazionale, interpretano l’apprendimento come un processo di conferimento di senso operato dall’individuo, capace di trasformare l’ambiente fisico, in cui l’individuo stesso vive, in un mondo di significati nel quale gli oggetti vengono identificati sulla base delle loro funzioni. Allora, transazione e coordinazione convocano necessariamente la dimensione della differenza e della pluralità: l’apprendimento, il conferimento di senso, l’istituzione di un mondo sono possibili solo in virtù di un rapporto organico con l’ambiente circostante e con l’altro. Come la transazione, dunque, la coordinazione è un principio che implica in modo essenziale lo statuto dialogico dell’individuo e la dimensione polivoca della società, della cultura e della storia (Ballantyne, 1996). In questa ottica, la riflessione psicologica, biologica e filosofica si apre costitutivamente alla sfera estetica, pedagogica, etica e politica (Bredo, 1998), in modo da configurare un circolo, un richiamarsi costante tra la riflessione teorica e la dimensione pratica.
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informazioni Convegno Annuale SIRD: 10 anni di ricerca educativa in Italia ANTONIO MARZANO
Nel mese di febbraio si è svolto a Roma, presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, il Convegno annuale della SIRD dal titolo 10 anni di ricerca educativa in Italia: analisi storica, innovazione didattica, confronti istituzionali. L’intento è stato quello di proporre un’analisi storica delle tematiche di ricerca educativa affrontate nell’ultimo decennio, con particolare riferimento ai sei Congressi della Società e ai relativi Atti (dopo il testo-manifesto curato dal primo presidente Luigi Calonghi: Nel bosco di Chirone.Contributi per l’identificazione della ricerca didattica), ai PRIN nei nostri previlegiati settori scientifico-disciplinari Ped/03 e Ped/04, alle ricerche degli IRRSAE-IRRE, che hanno visto numerosi colleghi pedagogisti alle loro presidenze o nei consigli direttivi, fino alle ricerche collegate alle competenze delle Regioni negli ambiti dell’orientamento, della formazione professionale e permanente dei giovani e degli adulti. I lavori del convegno, introdotti dalla presentazione di Luciano Galliani, Presidente della SIRD, sono cominciati il 24 febbraio con le relazioni proposte dai membri del direttivo Roberta Cardarello, Alessandra La Marca e Piero Lucisano. Roberta Cardarello ha sottolineato come, fin dalla sua costituzione, la SIRD ha inteso promuovere la ricerca didattica attraverso la valorizzazione della ricerca empirica come istanza di produzione di un sapere, circa l’insegnamento e l’educazione, complementare rispetto a quello di più consolidate tradizioni della pedagogia italiana. Analizzando le attività di ricerca della Società negli Atti dei suoi Congressi Scientifici (1995-2008), il sistema della scuola vi ha rivestito una centralità indiscussa fin dagli esordi, con articolazioni della ricerca sulle componenti metodologiche, relazionali, tecnologiche, organizzative dell’insegnamento. Consistenti filoni di ricerca si sono esercitati su due ambiti: quello delle tecnologie e gli strumenti di e-learning e quello della valutazione ( nelle sue interne accezioni), che oggi vengono applicati e sperimentati sia in ambito scolastico che universitario, e che riguardano anche settori della formazione professionale. Nel periodo considerato, in conclusione, sono aumentate le tipologie di strumenti di ricerca impiegati (quantitativi e qualitativi) e, nel complesso, appare vistosa la costruzione di nuovi strumenti. Alessandra La Marca ha analizzato nel suo intervento le linee evolutive della ricerca relativamente ai PRIN 2000-2008 e ai COFIN 1996-1999 dell’area 11 (settori scientifico- disciplinari M-PED/03 ed M-PED/04). I progetti sono stati raggruppati in tre aree: Analisi delle pratiche educative, Insegnamento e apprendimento nei diversi contesti formativi e Valutazione dei prodotti, dei processi e dei sistemi. Nella presentazione è stato seguito un ordine legato all’analisi dei temi delle ricerche. L’illustrazione delle linee di ricerca dell’ultimo decennio è stato accompagnato da alcune considerazioni trasversali sulla metodologia impiegata, sulla valuta-
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zione dei risultati ottenuti tenendo conto dei criteri di verificabilità definiti nei vari progetti e sulla diffusione dei risultati delle ricerche esaminate. Obiettivo della relazione di Pietro Lucisano è stato di presentare l’effetto dell’intervento delle Regioni e degli Enti Locali, principalmente attraverso il Fondo Sociale Europeo, sulla ricerca nelle scienze dell’educazione e della formazione nell’ultimo decennio. È stato rilevato come l’impostazione complessiva del modello di finanziamento, legato a modalità di erogazione e di verifica prevalentemente burocratiche, indirizza i lavori verso un esito di letteratura grigia. Le ricerche sono infatti sottoposte a verifica di adempimenti formali e solo in minima parte ad analisi critica degli esiti. Le pubblicazioni non circolano nella comunità scientifica, né esiste una sede che le raccolga e le metta a disposizione dei ricercatori. Emerge quindi l’esigenza di individuare modalità che permettano di raccogliere, conservare e analizzare gli esiti delle ricerche educative, anche al fine di disseminare e rendere disponibili le conoscenze acquisite, evitare la duplicazione di finanziamenti a ricerche già svolte, sintetizzare gli esiti principali per metterli a disposizione della comunità scientifica e dei decisori istituzionali e politici. In questa prospettiva è auspicabile che le Regioni mettano in campo un progetto strategico, magari con la collaborazione della SIRD. La seconda parte della prima giornata è stata dedicata agli interventi dei Soci, che hanno presentato contributi progettuali e di ricerca intorno a tre ambiti di riflessione/confronto su l’innovazione didattica nella scuola, nell’università, nella formazione professionale e continua. I lavori nelle tre sessioni parallele,sono stati coordinati dai membri del direttivo Armando Curatola, Giovanni Moretti, Achille Notti e introdotti dalle comunicazioni in plenaria di Cosimo Laneve, Franco Frabboni, Gaetano Domenica rispettivamente su: • • •
l’analisi delle pratiche educative, come metodologia di ricerca descrittiva, narrativa e riflessiva sul sapere esperienziale, che fonda l’agire formativo e la stessa professionalità di insegnanti-educatori-formatori; l’insegnamento/apprendimento nei diversi contesti formativi, come processo ridefinibile secondo nuovi paradigmi psicopedagogici e nuove pragmatiche sociali e tecnologiche, e come percorsi finalizzati comunque alla costruzione di conoscenze-abilità-competenze; la valutazione dei prodotti, dei processi e dei sistemi formativi, come misurazione dei risultati di apprendimento e certificazione di competenze, regolazione delle dinamiche comunicative e formative, gestione delle risorse umane e organizzative, interpretazione comparativa e rendicontazione secondo valori educativi e sociali. In appendice si riporta l’elenco dei contributi e degli autori.
La seconda giornata del convegno è stata riservata dapprima alla presentazione, a cura dei coordinatori dei tre gruppi di lavoro, delle sintesi circa le tendenze, le evidenze e le risultanze emerse dalla presentazione dei contributi progettuali e di ricerca dei soci. Le relazioni hanno stimolato un vivace dibattito testimoniato dal gran numero dei successivi interventi. La parte finale del Convegno è stata dedicata al confronto istituzionale e al ruolo che una Società scientifica di ricerca come la SIRD può svolgere nella specifica situazione italiana di riforma dell’intero sistema (scuola primaria e secondaria, formazione tecnica e professionale, istruzione universitaria), e delle modalità-strumenti-funzioni della sua valutazione. Nella tavola rotonda, introdotta da Luciano Galliani – che ha sollecitato gli interlocutori a realizzare collaborazioni con la SIRD in quanto società scientifica rappresentativa di una ricerca educativa applicata all’innovazione dei processi formativi, al miglioramento delle pratiche didattiche, alla valutazione dei risultati degli apprendimenti e della qualità delle or-
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ganizzazioni formative – sono intervenuti Giovanni Biondi, Capo Dipartimento Programmazione del MIUR; Elisabetta Longo, responsabile del Coordinamento tecnico delle Regioni per l’FSE; Alessandro Ferrucci di Tecnostruttura delle Regioni e Domenico Sugamiele dirigente dell’Area Politiche e sistemi formativi dell’ISFOL. Tutti gli interventi hanno rilevato come la ricerca educativa trovi difficoltà ad incidere sulle politiche scolastiche e formative sia a livello nazionale che regionale, nonostante la partecipazione di singoli ricercatori universitari ai diversi progetti o commissioni per definire indirizzi e piani programmatici. Si sente la mancanza, ad esempio, di “Osservatori Nazionali delle Buone Pratiche di Innovazione Formativa”, a servizio delle istituzioni politiche, delle amministrazioni pubbliche, delle organizzazioni formative, degli operatori del settore, uscendo da ideologie contrapposte fondate sui sondaggi, piuttosto che suffragate da risultati di ricerca scientifica. Fra le proposte sostenute dagli interlocutori intervenuti ed evidenziate nelle conclusioni di Piero Lucisano, vanno sottolineati l’impegno a rendere sistematico il rapporto tra ricerca universitaria e progettualità innovativa del MIUR e la collaborazione con Tecnostruttura delle Regioni per realizzare un osservatorio della ricerca che valorizzi la progettualità FSE, i PON e i POR e gli altri interventi nell’orientamento, nella formazione professionale, nella formazione continua.
CONTRIBUTI PRESENTATI NEI TRE GRUPPI DI LAVORO: 1. Analisi delle pratiche educative • • • • • • • • • • • • • •
Gianbattista Amenta, Università Kore di Enna: La costruzione di esercizi di didattica orientativa Michele Baldassarre, Università di Bari: Documentare la pratica riflessiva. Una ricerca empirica Guido Benvenuto, Giuseppe Carci, Università Sapienza di Roma: Riorentarsi all’università: uno studio sui passaggi di corso Giuseppina Cappuccio, Università di Palermo: L’analisi delle buone pratiche educative: come gli insegnanti insegnano con il supporto delle nuove tecnologie Lerida Cisotto, Silvia Nardon, Nazzarena Novello, Università di Padova: Il piacere della lettura. Una ricerca empirica nella scuola primaria e secondaria Italo Fiorin, Università LUMSA di Roma: Formazione e ricerca nella scuola dell’infanzia Valentina Grion, Rossella Giolo, Università di Padova: Dimensioni emergenti del costrutto “buon comportamento scolastico” in docenti e studenti. Uno studio in un contesto valutativo Silvia Kanizsa, Università La Bicocca di Milano: Progettare un modello realistico di formazione dei maestri Daniela Maccario, Università di Torino: Che cosa fa l’educatore quando educa? Contesti e forme dell’azione educativa in ambito extrascolastico Antonella Nuzzaci, Università della Valle d’Aosta: Per un’analisi delle pratiche didattico-museali in partenariato locale: il progetto DIDarcheoMUS Carmelo Piu, Università della Calabria: Dalla ricerca-Indagine alla ricerca-sperimentazione Orlando De Pietro, Università della Calabria: Personalizzazione degli ambienti di apprendimento Alessio Surian, Federico Batini, Università di Padova e Perugia: Competenze e metodi narrativi nella messa a livello delle competenze, uno studio di caso sul progetto Rifugio Chiara Ferotti: Buone pratiche di didattica personalizzata
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Leonarda Longo, Universitàdi Palermo: L’interazione tra l’esperienza del laboratorio, del tirocinio e degli apprendimenti disciplinari Anna Nadin, Ubaldo Rizzo, Università di Padova: Web Ontology e trasformazione dei saperi professionali in un contesto formativo
2. Insegnamento e apprendimento nei diversi contesti formativi • • • • • • • • • • • • • • • •
Maria Annarumma, Università di Salerno: Processi di apprendimento e successo formativo nella prospettiva di Feuerstein Maria Grazia Cementano, Università del Salento: Interfacce e sistemi a realtà virtuale per un apprendimento esperienziale Giuseppina CompagnoUniversità di Palermo: Comunicare italiano per integrarsi nel Quadro Europeo Floriana Falcinelli, Chiara Laici,Università di Perugia: E-learning per gli insegnanti. Un ambiente collaborativo per la costruzione condivisa della professionalità docente. Riccardo Fragnito, Università Telematica Petaso di Napoli: Creatività tra arte e scienza Paolo Frignani, Loredana La Vecchia, Marco Pedroni, Università di Ferrara: Un documento per la didattica Maria Lucia Giovannini, Massimo Marcuccio,Università di Bologna: La codocenza nei precorsi integrati di istruzione professionale. I punti di vista degli attori coinvolti. Loredana La Vecchia, Antonella Nuzzaci, Università di Ferrara e della Valle d’Aosta: Credenze epistemologiche degli studenti universiatri in campo scientifico e apprendimento della scienza Eleonora Marino, Università di Palermo: Insegnamento e apprendimento nei diversi contesti formativi Marinella Muscarà, Università Kore di Enna: Integrazione scolastica e sviluppo dell’identità culturale Elisabetta Nigris,Università La Bicocca di Milano: Il passaggio dalla scuola all’università: un’analisi didattica Angela Piu, Università de L’Aquila: Giochi di simulazione e apprendimento della matematica Alberto Quagliata, Università di Roma Tre: Verso l’I-learning Ira Tannini, Università di Bologna: Una didattica per gli insegnanti di scuola secondaria. La voce degli specializzati alla Scuola di Specializzazione (SSIS) dell’Università di Bologna Simon Villani, Università di Catania: Efficacia della comunicazione educativa, contesto scolastico e apprendimento Francesco Ugolini, Università di Perugia: Formazione iniziale e formazione continua: modelli di e-learning universitario nel contesto europeo
3.Valutazione dei prodotti, dei processi, dei sistemi • • •
Vito Antonio Baldassare, Università di Bari: Didattica della ricerca scientifica in educazione tra fragilità, valutazione e proposta Mario Castaldi, Università di Torino: Valutare la qualità dell’insegnamento Lerida Cisotto, Nazzarena Novello, Università di Padova: Test per la rilevazione delle competenze di scrittura degli studenti di Scienze della Formazione Primaria
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SIRD • Informazioni
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Luciano Galliani, Cristina Zaggia, Sabrina Maniero, Università di Padova:Valutare l’orientamento Maria Lucia Giovannini,Università di Bologna: Comprendere per riuscire nello studio: analisi e riflessione a partire da un’esperienza biennale di sostegno alle matricole universitarie Massimo Marcuccio: I punti di vista degli insegnanti di italiano sulla ricaduta didattica della prova nazionale introdotta nell’esame di stato del primo ciclo Antonio Marzano, Arcisio Brunetti, Università di Salerno: Una sperimentazione di didattica della geometria Corrado Petrucco, Università di Padova: Didaduezero, lo sviluppo delle competenze digitali nella scuola e nel territorio: le opportunità del web 2.0 Giorgio Poletti, Università di Ferrara: Dall’aula informatica all’informatica in aula Maria Ranieri, Giovanni Buonaiuti, Università di Firenze: Progettare e valutare risorse didattiche per la LIM. Problemi criteri e esperienze Vega Scalera, Università di Tor Vergata, Roma: Transizioni faticose, transizioni riuscite: la valutazione delle difficoltà di inserimento nella scuola superiore Francesca Anello: La competenza linguistica tra espressione orale e scritta: la valutazione di insegnanti in formazione
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NORME EDITORIALI PER GLI AUTORI E I COLLABORATORI
NORME DI CARATTERE GENERALE Documento: • Il contributo, consegnato su file e accompagnato da versione cartacea, deve essere in formato Word, in cartelle standard di circa 3000 battute, per un massimo di circa 15 cartelle, e deve contenere per ogni autore l’indicazione di: nome (per esteso), cognome, ruolo dell’autore/i, istituzione di appartenenza e indirizzo di posta elettronica. Nel caso di più autori, i nomi vanno elencati in ordine alfabetico. • Il titolo del contributo deve essere in italiano e in inglese e non deve contenere sottotitoli. • I titoli dei paragrafi devono essere brevi e concisi, evitando possibilmente l’uso di sottoparagrafi. • Vanno evitate le composizioni in carattere neretto, sottolineato, in minuscolo spaziato e integralmente in maiuscolo. Attenzione: il contributo deve essere inedito. Può contenere eventuali note di commento a pie’ di pagina e nota bibliografica in chiusura. Il contributo non deve contenere una bibliografia generale. I riferimenti bibliografici interni al testo devono essere inseriti in parentesi tonde: cognome dell’autore a cui segue la virgola e l’anno di edizione, come da esempio riportato alla lettera A) delle note bibliografiche. La nota bibliografica a fine contributo deve rispettare la citazione interna al testo secondo le regole di seguito riportate. Abstact: L’abstract (sia in lingua italiana che in lingua inglese) va collocato dopo il titolo dell’articolo e prima del testo, e non deve superare gli 800 caratteri ciascuno (spazi esclusi). Deve anche comprendere 6 parole chiave in entrambe le lingue. L’abstract deve contenere il senso dell’intero lavoro e rispondere alle domande: perché il lavoro è stato fatto, cosa è stato fatto, cosa si è dimostrato e cosa è stato concluso. Virgolette: Le virgolette alte (o apici): “ ” si usano sia per le citazioni sia per enfatizzare alcune espressioni come “per così dire”, “il cosiddetto”, ecc... Le virgolette basse (o caporali) si usano per i discorsi diretti e per le citazioni: « ». Nel caso in cui una citazione ne contenga un’altra, riportare la citazione interna con le virgolette alte “ ” e quella esterna con le virgolette basse « ». Omissioni: si segnalano con tre puntini tra parentesi quadre […].
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Note: Saranno numerate con numeri arabi progressivi. Si raccomanda un attento controllo della corrispondenza della numerazione delle note con i rinvii indicati a esponente nel testo, sempre con numeri arabi e senza parentesi. Nel testo, il rimando alla nota al piede va posto all’interno della punteggiatura: testo1. e non testo.1 Fanno eccezione i punti esclamativo e interrogativo che precedono l’esponente di nota. Citazioni: In caso di citazioni che superino le tre/quattro righe, si devono riportare in corpo più piccolo e con i margini rientrati rispetto al testo principale, staccate da un’interlinea.
Elenco puntato: Riportare l’elenco con il trattino, con rientro del punto elenco di 0,5, e rientro del testo di 0,5. Riportare il punto e virgola alla fine di ogni punto elenco e il punto alla fine dell’elenco. Esempio: – la capacità di collegare in trame concettuali le conoscenze acquisite nei corsi universitari; – l’individuazione di motivati punti di riferimento per la scelta dei contenuti; – l’individuazione dei nodi portanti, della loro valenza didattica e delle relative difficoltà cognitive. Nel caso che il punto elenco abbia un ulteriore punto elenco al proprio interno, riportare il secondo punto elenco con il pallino, con rientro del punto elenco di 1,5 e rientro del testo di 1,5. Esempio: – Possedere padronanza culturale (storico-epistemologica) della disciplina e inquadrare con cognizione i grandi temi che essa propone, cioè: • padroneggiare i concetti nelle loro articolazioni, e la struttura sintattica, semantica e concettuale della disciplina; • inquadrare e calare nel contesto le proprie conoscenze, anche integrando quelle acquisite nei corsi universitari, per cogliere la loro valenza nella formazione culturale dell’allievo. Lineette: Si distinguono due casi: per unire due parole (es. spazio-tempo), si usa il trattino breve senza nessuno spazio, né prima né dopo. Per creare un inciso all’interno di una frase si usa il trattino medio, preceduto e seguito da uno spazio. Parole straniere: Vanno in carattere tondo le parole straniere che sono entrate nel linguaggio corrente, come: on-line, boom, cabaret, chic, cineforum, computer, dance, film, flipper, gag, garage, horror, leader, monitor, pop, rock, routine, set, spray, star, stress, tea, thè, tic, vamp, week-end, ecc. Esse vanno poste nella forma singolare. In genere vanno in carattere corsivo tutte le parole straniere. Vanno inoltre in carattere corsivo: alter ego (senza lineato breve unito), aut-aut (con lineato breve unito), budget, équipe, media (mezzi di comunicazione), passim, revival, sex-appeal, sit-com (entrambe con lineato breve unito), soft. Accenti: In italiano le vocali a, i, u, richiedono solo l’accento grave (à, ì, ù); la e richiede l’accento acuto in finale di parola in tutti i composti di che (poiché, affinché, cosicché ecc.). Si scrivono con l’accento grave: è, cioè, caffè, tè, ahimè, piè; le parole straniere entrate nell’uso della lingua italiana (gilè, canapè, bignè) e i nomi propri di persona (Noè, Giosuè, Mosè). Si accenta dà (terza persona singolare del verbo dare) e si apostrofa da’ (imperativo presente dello stesso
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verbo) per distinguerle dalla omofona da (preposizione); si afostrofa fa’ (imperativo presente di fare) ma è un grave errore accentare tanto fa (terza persona singolare dello stesso verbo) quanto fa (avverbio o nota musicale). La terza persona singolare del verbo essere, quando è maiuscola, va accentata (È) e non apostrofata (E’). Parentesi: Le parentesi tonde si usano per isolare dal contesto una frase o una parola e per evidenziare un richiamo ad altra parte del testo. Le parentesi quadre si usano all’interno delle tonde, per evidenziare un salto o una mancanza di testo, per introdurre in una citazione tra virgolette il commento dell’autore. La punteggiatura che si riferisce al testo principale va posta fuori dalla parentesi di chiusura. Segni di interpunzione e caratteri di stampa: • I segni di interpunzione (, : ; ! ?) e le parentesi che fanno seguito ad una o più parole in corsivo si compongono sempre in tondo, a meno che non siano parte integrante del brano in corsivo. • I periodi interi fra virgolette o fra parentesi avranno il punto fermo dopo la parentesi di chiusura. Si compongono in tondo: • gli articoli contenuti nelle testate di giornali, riviste, collane e in genere periodici di ogni tipo; Si compongono in tondo fra doppi apici (“tondo”): • all’interno delle citazioni, le parole che normalmente richiedono l’uso delle virgolette basse; • le parole usate in un’accezione diversa dalla loro usuale, o con particolare coloritura.
Numeri delle pagine e degli anni: vanno indicati per esteso (ad es.: pp. 112-146 e non 112-46; 113-118 e non 113-8; 1953-1964 e non 1953-964 o 1953-64 o 1953-4). L’ultima pagina di un volume è pari e così va citata. In un articolo la pagina finale dispari esiste, e così va citata solo qualora la successiva pari sia di un altro contesto; altrimenti va citata, quale ultima pagina, quella pari, anche se bianca. Le cifre della numerazione romana vanno rispettivamente in maiuscoletto se la numerazione araba è in numeri maiuscoletti, in maiuscolo se la numerazione araba è in numeri maiuscoli (ad es.: xxiv, 1987; XXIV, 1987). Immagini: Le immagini, i grafici, i diagrammi vanno riportati in bianco e nero e con risoluzione di almeno 600 pixels. È pertanto necessario verificare che ci sia una buona definizione dei colori all’interno di una scala di grigi. Le immagini vanno inserite nel corpo del testo, ma è bene anche fornire i file a parte delle immagini in formato .jpg o .tiff o .pdf. Nel caso di grafici e diagrammi è bene fornire anche il file excel da cui sono stati tratti. È comunque necessario cercare di limitare il n. di immagini e grafici presenti nel testo. Tabelle: Le tabelle vanno inserite nel corpo del testo e non devono superare in larghezza i 13 cm. Didascalie tabelle, grafici o figure: Riportare l’abbreviazione Tab. per la tabella, Fig. per figura e Graf. per grafico, seguito dal numero, dai due punti e dal titolo. Esempio: (Fig.1: Il progetto della Sird)
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Siti Internet: I siti Internet vanno citati in tondo minuscolo senza virgolette qualora si specifichi l’intero indirizzo elettronico (es.: www.libraweb.net; www.supergiornale.it). Se invece si indica solo il nome, essi vanno in corsivo alto/basso senza virgolette al pari del titolo di un’opera (es.: Libraweb; Libraweb.net); vanno in tondo alto/basso fra virgolette a caporale qualora si riferiscano a pubblicazioni elettroniche periodiche (es.: «Supergiornale»; «Supergiornale.it»). Riferimenti normativi Riportare i riferimenti per esteso, indicando il tipo di normativa, la data e il numero in grassetto, seguito da trattino e titolo in stile normale. Esempio: D.P.R. 31 luglio 1996, n. 470 - Regolamento concernente l’ordinamento didattico della Scuola di Specializzazione per la formazione degli insegnanti di Scuola Secondaria. Glossari Riportare la parola chiave in grassetto. Riportare la definizione dopo lo spazio di una riga. Esempio: Abilità (Skill) Insiemi più o meno ramificati di contenuti di conoscenza, che possono essere sistemi simbolici, corpi di credenze, quadri disciplinari, specifici quadri teorici e/o interpretativi della realtà, dell’esperienza, della condotta. Abbreviazioni (alcune) a. = annata a.a. = anno accademico a.C. = avanti Cristo ad es. = ad esempio ad v. = ad vocem (c.vo) anast. = anastatico app. = appendice art., artt. = articolo, -i autogr. = autografo, -i cap., capp. = capitolo, -i cfr. = confronta cit., citt. = citato, -i cl. = classe cm, m, km, gr, kg = centimetro, ecc. (senza punto basso) cod., codd. = codice, -i col., coll. = colonna, -e cpv. = capoverso c.vo = corsivo (tip.) d.C. = dopo Cristo ecc. = eccetera ed., edd. = edizione, -i es., ess. = esempio, -i et alii = et alii (per esteso; c.vo) f., ff. = foglio, -i f.t. = fuori testo facs. = facsimile fasc. = fascicolo Fig., Figg. = figura, -e (m.lo/m.tto)
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lett. m.lo m.lo/m.tto m.tto misc. ms., mss. n.n. n., nn. N.d.A. N.d.C. N.d.E. N.d.R. N.d.T. nota n.s. n.t. op., opp. op. cit., opp. citt. p., pp. par., parr., §, §§ passim r rist. s. s.a. s.d. s.e. s.l. s.l.m. s.n.t. s.t. sec., secc. sez. sg., sgg. suppl. supra t., tt. t.do Tab., Tabb. Tav., Tavv. tip. tit., titt. trad. v v., vv. vedi vol., voll.
= lettera, -e = maiuscolo (tip.) = maiuscolo/maiuscoletto (tip.) = maiuscoletto (tip.) = miscellanea = manoscritto, -i = non numerato = numero, -i = nota dell’autore = nota del curatore = nota dell’editore = nota del redattore = nota del traduttore = nota (per esteso) = nuova serie = nel testo = opera, -e = opera citata, opere citate (c.vo perché sostituiscono anche il titolo) = pagina, -e = paragrafo, -i = passim (la citazione ricorre frequente nell’opera citata; c.vo) = recto (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = ristampa = serie = senza anno di stampa = senza data = senza indicazione di editore = senza luogo = sul livello del mare = senza note tipografiche = senza indicazione di tipografo = secolo, -i = sezione = seguente, -i = supplemento = sopra = tomo, -i = tondo (tip.) = tabella, -e = tavola, -e = tipografico = titolo, -i = traduzione = verso (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = verso, -i = vedi (per esteso) = volume, -i
Nelle abbreviazioni in cifre arabe degli anni, deve essere usato l’apostrofo (ad es.: anni ’30). I nomi dei secoli successivi al mille vanno per esteso e con iniziale maiuscola (ad es.: Settecento); con iniziale minuscola
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vanno invece quelli prima del mille (ad es.: settecento). I nomi dei decenni vanno per esteso e con iniziale minuscola (ad es.: anni venti dell’Ottocento).
NOTE BIBLIOGRAFICHE Le citazioni bibliografiche devono essere complete di tutti gli elementi, nell’ordine in cui segue: 1. cognome e nome (appuntato) dell’Autore in tondo (se gli autori sono due o più andranno separati da una virgola); 2. data di pubblicazione contenuta tra parentesi tonda (1987); 3. titolo dell’opera in corsivo; 4. eventuale indicazione del volume con cifra romana; 5. numero dell’edizione, quando non è la prima, con numero arabo in esponente all’anno citato (es.: 19322); 6. luogo di pubblicazione (seguito da virgola); 7. nome dell’editore e, per le edizioni antiche, del tipografo; 8. rinvio alla pagina (p.) o alle pagine (pp.): esempio: pp. 1-12, 21-25, 217-218, 315-324, 495-502. Tutti i suddetti elementi vanno separati tra loro da una virgola. Alcuni esempi A) Citazioni interne al testo Il cognome di ogni autore citato va in parentesi tonda seguito da un virgola e dall’anno di edizione. Usare il punto e virgola se gli autori sono più di uno (Berndt, 2002; Harlow, 1983). ……… Kernis (1993) ………………Wegener and Petty (1994) Se i nomi degli autori non sono contenuti nel testo (Kernis, 1993) (Wegener & Petty, 1994) In citazioni successive dello stesso volume o dove sono presenti più di sei autori segnalare solo il cognome del primo autore ed inserire “et al.” Harris et al. (2001) afferma... (Kernis et al., 1993) (Harris et al., 2001) 1. Per autori con lo stesso cognome inserire l’iniziale del nome. (E. Johnson, 2001; L. Johnson, 1998) 2. Per i testi dello stesso autore pubblicati nello stesso anno usare l’ordine alfabetico (a, b, c) La ricerca di Berndt (1981a) illustra..... 3. Citazioni fonti indirette Johnson afferma che...(come citato da Smith, 2003, p. 102). 4. Fonti elettroniche Usare lo stile autore-data Kenneth (2000) spiega...
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B) Riferimenti generali Un solo autore Al cognome segue l’iniziale del nome. Berndt T. J. (2002). Friendship quality and social development. Current Directions in Psychological Science, 11, pp. 7-10. Due o più autori Lista dei nomi, virgola e iniziali dei nomi. Wegener D. T., & Petty R. E. (1994). Mood management across affective states: the hedonic contingency hypothesis. Journal of Personality & Social Psychology, 66, pp. 1034-1048. Lista di autori Kernis M. H., Cornell D. P., Sun C. R., Berry A., Harlow T., Bach J. S. (1993).There’s more to self-esteem than whether it is high or low: the importance of stability of self-esteem. Journal of Personality and Social Psychology, 65, pp. 1190-1204. Berndt T. J. (1999). Friends’ influence on students’ adjustment to school. Educational Psychologist, 34, pp. 15-28. Berndt T. J., Keefe K. (1995). Friends’ influence on adolescents’ adjustment to school. Child Development, 66, pp. 1312-1329. Wegener D. T., Kerr N. L., Fleming M. A., & Petty R. E. (2000). Flexible corrections of juror judgments: implications for jury instructions. Psychology, Public Policy, & Law, 6, pp. 629-654. Wegener D.T., Petty R. E., & Klein D. J. (1994). Effects of mood on high elaboration attitude change: the mediating role of likelihood judgments. European Journal of Social Psychology, 24, pp. 25-43. Organizzazioni American Psychological Association. (2003).
C) Riferimenti bibliografici Introduzioni e Prefazioni Citare le informazioni sulla pubblicazione specificando se: Introduzione, Prefazione, Postfazione.Tale regola è applicabile anche al contributo di un periodico. Funk R. & Kolln M. (1998). Introduction. In E.W. Ludlow (Ed.), Understanding English Grammar (pp. 12). Needham, Allyn and Bacon. Articoli Autore A. A., Autore B. B., & Autore C. C. (Anno).Titolo del contributo. Titolo del periodico, numero del volume in corsivo (numero del fascicolo), pagine. Harlow H. F. (1983). Fundamentals for preparing psychology journal articles. Journal of Comparative and Physiological Psychology, 55, pp. 893-896. Scruton R. (1996). The eclipse of listening. The New Criterion, 15(30), pp. 5-13. Article in quotidiani Henry W. A., III. (1990, April 9). Making the grade in today’s schools. Time, 135, pp. 28-31. Lettere Moller G. (2002, Agosto). Ripples versus rumbles [Lettera all’editore]. Scientific American, 287(2), 12.
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Riferimenti in volumi Autore A. A. (Anno di pubblicazione). Titolo del volume. Lettera maiuscola anche per il sottotitolo. Luogo di edizione: Casa Editrice. Calfee R. C., & Valencia R. R. (1991). APA guide to preparing manuscripts for journal publication.Washington: American Psychological Association. Curatele Duncan G. J., & Brooks-Gunn J. (Eds.). (1997). Consequences of growing up poor. New York: Russell Sage Foundation. Volumi con autori e curatori Plath S. (2000). The unabridged journals (K.V. Kukil, Ed.). New York: Anchor. Traduzioni Laplace P. S. (1951). A philosophical essay on probabilities. (F. W. Truscott & F. L. Emory, Trans.). New York: Dover. (Edizione originale pubblicata 1814). Articoli o Capitoli contenuti in un Volume Autore A. A., & Autore B. B. (Anno di pubblicazione). Titolo di capitolo. In A. Editor & B. Editor (Eds.), Tiolo del libro (pagine del capitolo). Luogo: Casa Editrice. O’Neil J. M., & Egan, J. (1992). Men’s and women’s gender role journeys: metaphor for healing, transition, and transformation. In B. R. Wainrib (Ed.), Gender issues across the life cycle (pp. 107-123). New York: Springer. Multivolumi Wiener P. (Ed.). (1973). Dictionary of the history of ideas (Vols. 1-4). New York: Scribner’s. Altri Riferimenti Bergmann P. G. (1993). Relativity. In The new encyclopedia britannica (Vol. 26, pp. 501-508). Chicago: Encyclopedia Britannica. Coltheart M., Curtis B., Atkins P., & Haller M. (1993). Models of reading aloud: dual-route and paralleldistributedprocessing approaches. Psychological Review, 100, pp. 589-608. Yoshida Y. (2001). Essays in urban transportation (Tesi di Dottorato, Boston, College, 2001). Dissertation Abstracts International, 62, 7741A. National Institute of Mental Health. (1990). Clinical training in serious mental illness (DHHS Pubbblicazione ADM 90-1679). Washington, Government Printing Office. Conferenze Schnase J. L., & Cunnius E. L. (Eds.). (1995). Proceedings from CSCL ‘95: The First International Conference on Computer Support for Collaborative Learning. Mahwah: Erlbaum. Pubblicazioni Web o articoli da un periodico Online Autore A. A., & Autore B. B. (Data di pubblicazione).Titolo dell’articolo. Titolo del Periodo Online, numero del volume(numero del fascicolo, se presente). Estratto da http://www.someaddress.com/full/url/ Articoli presenti in Database Smyth A. M., Parker A. L., & Pease D. L. (2002). A study of enjoyment of peas. Journal of Abnormal Eating, 8(3), pp. 120-125.
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Finito di stampare nel mese di GENNAIO 2011 da Pensa MultiMedia Editore s.r.l. Lecce - Brescia www.pensamultimedia.it