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SIRD SocietĂ Italiana di Ricerca Didattica

Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research anno III 2/3 numero numero 52009 dicembre

dicembre 2010


Direttore LUCIANO GALLIANI Condirettore PIERO LUCISANO Comitato Scientifico ROBERTA CARDARELLO ARMANDO CURATOLA FRANCO FRABBONI ALESSANDRA LA MARCA GIOVANNI MORETTI ACHILLE M. NOTTI

Comitato dei referee Il Comitato dei referee è composto da 15 studiosi di chiara fama italiani e stranieri. I nomi dei revisori di ogni annata vengono resi pubblici nel primo numero dell’annata successiva. Il responsabile della procedura di referaggio è il condirettore scientifico della Rivista Piero Lucisano.

Procedura di referaggio Ogni articolo, anonimo, è sottoposto al giudizio di due revisori anch’essi anonimi. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso un giudizio positivo. I giudizi dei revisori vengono comunicati agli autori, comprese eventuali indicazioni di modifica. In tal caso, gli autori devono provvedere a modificare i propri contributi sulla base delle indicazioni ricevute dai revisori. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non vengono pubblicati. Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010

Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. www.pensamultimedia.it info@pensamultimedia.it Lecce - Brescia

Progetto grafico copertina Valentina Sansò


SOMMARIO editoriale 7

PIETRO LUCISANO Se l’obbedienza non fosse una virtù

ricerche 9 23

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ANTONIO CALVANI • ANTONIO FINI • MARIA RANIERI La competenza digitale nella scuola. Modelli, strumenti, ricerche MARTA CODATO Stile d’attaccamento, impegno civico e morale e felicità: un’indagine sul fenomeno italiano della “famiglia lunga” CRISTIANO CORSINI Valutazione come classifica e autovalutazione come ricerca ROSSELLA GIOLO • VALENTINA GRION Costruire corresponsabilità formativa e valutativa nella scuola. Una ricerca sull’idea (non) condivisa di “buon comportamento scolastico” VIVIANA VINCI Analizzare una conoscenza pratica implicita: le routine di spiegazione degli insegnanti

studi 87 95

VITO ANTONIO BALDASSARRE Didattica della ricerca scientifica in educazione Tra fragilità, valutazione e proposta MARIA CINQUE La creatività come innovazione personale: teorie e prospettive educative

informazioni 115

LUCIANO GALLIANI La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia Dottorandi e docenti a confronto: il seminario SIRD


hanno collaborato PIETRO LUCISANO Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Università “Sapienza” Roma lucisano.studiericerche@gmail.com ANTONIO CALVANI Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, Università degli Studi di Firenze calvani@unifi.it ANTONIO FINI Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, Università degli Studi di Firenze antonio.fini@unifi.it MARIA RANIERI Dipartimento di Scienze dell’Educazione e dei Processi Culturali e Formativi, Università degli Studi di Firenze maria.ranieri@unifi.it MARTA CODATO Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova marta.codato@unipd.it CRISTIANO CORSINI Dipartimento di Progettazione Educativa e Didattica, Università Roma TRE cristiano.corsini@uniroma3.it ROSSELLA GIOLO Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova rogiolo@tin.it VALENTINA GRION Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova valentina.grion@unipd.it VIVIANA VINCI Dipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche, Università di Bari viviana.vinci@yahoo.it VITO ANTONIO BALDASSARRE Dipartimento di Scienze Pedagogiche e Didattiche, Università di Bari baldas@gmail.com MARIA CINQUE Dipartimento di Scienze Umane, Università di Palermo maria.cinque@gmail.com LUCIANO GALLIANI Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Padova luciano.galliani@unipd.it


editoriale PIETRO LUCISANO

Se l’obbedienza non fosse una virtù Il governo ha finalmente approvato il decreto che definisce l’impianto dei percorsi di formazione iniziale degli insegnanti e questo non può che essere considerato positivo in quanto viene riattivato il processo di formazione degli insegnanti di scuola secondaria. La SIRD nel convegno del 22 novembre alla Sapienza aveva già avviato un esame del nuovo percorso per la formazione degli insegnanti, con l’obiettivo di valutarne la fattibilità. Non si può che essere soddisfatti del ruolo riconosciuto alle Università per la formazione iniziale degli insegnanti; al tempo stesso, tuttavia, non possiamo non accorgerci del fatto che viene riproposto un modello di attivazione simile a quello che diede luogo alle SSIS: “Ci troviamo in emergenza, è necessario impegnarsi per il bene dei laureati che da tre anni non hanno possibilità di accedere a questi percorsi, si sono delineati i fini, dunque partite, i mezzi seguiranno, non vi preoccupate”. Per le SSIS ci siamo impegnati più per una militante passione per i fini del progetto che per un’accorta valutazione delle condizioni e dei mezzi necessari per realizzarlo, salvo poi essere accusati dei limiti, che avevamo indicato inevitabili nelle condizioni date. Se il Governo ha ritenuto necessaria la formazione iniziale degli insegnanti e ne ha determinato i percorsi, si tratta ora di realizzarli al meglio. Tuttavia, nell’adempiere a un dovere istituzionale esiste in chi adempie, la necessità di rispettare un codice deontologico. Un professionista, chiamato a attuare una norma per la quale non vengono garantite le condizioni per una applicazione efficace e per cui è prevedibile un esito diverso dalle finalità stesse della norma in questione e del contesto normativo ad essa sovraordinato, deve affrontare un delicato problema deontologico. Un ingegnere può o deve rifiutarsi di costruire ponti di marzapane se i suoi studi lo rendono avvertito che non resisteranno al transito di persone e mezzi? Un chirurgo può o deve rifiutarsi di operare se la sua esperienza professionale lo rende consapevole che, nelle condizioni date, questo costerebbe la vita al suo paziente? Così da studiosi di educazione – dopo aver reso avvertiti i nostri governanti, e assieme le scuole e le università che, in assenza di alcune condizioni, procedere nella attivazione dei percorsi iniziali è un atto dannoso – possiamo assumerne la gestione e ritenere le nostre responsabilità esaurite con l’averlo detto? Per poter realizzare in modo serio la formazione iniziale degli insegnanti occorre il completamento di tutte le procedure che il decreto implica (programmazione dei fabbisogni formativi; definizione dei criteri di selezione, attivazione dei bandi, reclutamento e assegnazione dei tutor).

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editoriale

Per poter procedere occorre, ancora, che siano definite le tabelle per le LM ad hoc per la scuola secondaria (e dunque che si completi l’iter di definizione delle cattedre), ma, ancor più, occorre definire i requisiti richiesti per la loro istituzione e attivazione. L’avvio dei percorsi di formazione iniziale degli insegnanti è viziato dalla assenza di qualsivoglia stanziamento di risorse umane e materiali. Sappiamo che con le attuali risorse di personale non è possibile attivare la formazione iniziale degli insegnanti nel rispetto dei requisiti previsti dalla corrente normativa in quasi nessuna sede. La possibilità che questa difficoltà venga risolta liberando le università dai vincoli ritenuti requisiti minimi per gli altri indirizzi di studio appare inaccettabile perché sarebbe come asserire che si tratta di lauree al di sotto dei requisiti minimi. Se le risorse di docenza non sono sufficienti, è necessario programmarne l’integrazione, ma sappiamo che le università non sono in grado di integrare gli organici con le loro risorse. Il nostro è un lavoro gratificante e siamo sempre stati disponibili a impegnarci più del dovuto, ma siamo anche consapevoli che non è educativo, né per il paese, né per i futuri insegnanti, avviare una prima formazione basata solo sulla buona volontà e sulla disponibilità di lavorare oltre ogni orario previsto. Anche la sola preparazione di prove di accesso valide ed affidabili per selezionare i laureati che avranno la possibilità di diventare insegnanti è materia che richiede l’attivazione di gruppi di lavoro competenti e i tempi necessari per la messa a punto di strumenti adeguati (validi, affidabili, tarati et cætera). L’esperienza ci ha insegnato che credere nel “intanto partite, poi provvederemo” e nelle “riforme a costo zero” è foriero di esperienze nefaste per chi parte e avvia le riforme confidando che, prima o poi, le scorte o i rinforzi arriveranno: per la riforma della scuola media non sono arrivate, per il 509 non sono arrivate, per il 270 le scorte sono state tagliate. Senza contare che non di rado, poi, chi è colpevole di non mandare i rinforzi si erge a giudicare lo scarso successo dell’impresa e ne penalizza i protagonisti. Sulla base di queste considerazioni chiediamo alla CRUI di istituire una commissione che definisca le condizioni di attivazione dei percorsi di formazione iniziale per insegnanti per evitare che tra gli Atenei si instauri una competizione al massimo ribasso della qualità dell’offerta formativa. Questa commissione potrebbe stabilire i requisiti minimi per poter attivare in modo efficace il servizio richiesto. In assenza di queste garanzie, merita tra colleghi pedagogisti valutare con attenzione quale sia il limite tra un corretto atteggiamento collaborativo e impegnato nei confronti delle istituzioni e la complicità nella gestione dell’ennesimo danno nei confronti dei nostri studenti, della scuola e del paese e di valutare la possibilità di assumere una comune posizione responsabile.

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ricerche La competenza digitale nella scuola Modelli, strumenti, ricerche Digital competence at school Models, tools, researches ANTONIO CALVANI - ANTONIO FINI - MARIA RANIERI Nel corso degli ultimi anni il tema della competenza digitale, nei suoi diversi aspetti, è stato oggetto di attenzione crescente. In vari documenti e comunicazioni, gli organismi internazionali hanno sottolineato la rilevanza di questa competenza per il lifelong learning e per la piena partecipazione alla cosiddetta ‘società dell’informazione’. In questo contesto, la ricerca educativa ha il compito di mettere a punto modelli concettuali realistici coerenti con gli obiettivi della scuola e facilmente integrabili nel curriculum scolastico. In questo lavoro, presenteremo un modello teorico per la rappresentazione di questa competenza, sensibile alle istanze educative, ed illustreremo una serie di strumenti per valutarla in ambito scolastico, ossia l’Instant DCA (iDCA) e il Situated DCA. Successivamente ci soffermeremo sull’iDCA e sui risultati di una sperimentazione condotta negli ultimi due anni nella scuola secondaria superiore.

Over the last years the theme of the digital competence in its different aspects has been object of a growing interest. In a number of official documents and communications, international bodies underlined the significance of this competence for lifelong learning and to participate in the so-called ‘information society’. Within this context, education research has the duty to provide realistic conceptual models coherent with the school’s objectives and which can be put into practice within the school curriculum. In the present paper, we shall introduce a theoretical model, education oriented, to represent this competence and a set of tools to assess it in the school context, i.e., the Instant DCA (iDCA) and the Situated DCA. Then we shall focus on iDCA and on the results of the testing carried out over the last two years in Secondary School.

Parole chiave: competenza digitale, valutazione, scuola dell’obbligo.

Key words: digital competence, assessment; K-12 education

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1. Introduzione Negli ultimi decenni il tema della competenza digitale, o digital literacy, si è progressivamente affermato contestualmente al processo di digitalizzazione che ha investito gran parte delle attività produttive, sociali e culturali delle nostre società contemporanee. Questo tema ha ricevuto grande attenzione da parte degli organismi internazionali, nelle cui raccomandazioni si fa sempre più rilevante la richiesta di promuovere e sviluppare nelle nuove generazioni la “competenza digitale”. Anche nel mondo della ricerca è sempre più vivo l’interesse per la definizione di questa nuova literacy e la messa a punto di modelli teorici in grado di definirla e rappresentarla. Nonostante ciò, sono ancora pochi gli strumenti di cui educatori ed insegnanti possono avvalersi per valutare e favorire questa competenza nella scuola. Esistono varie certificazioni delle competenze informatiche di base, gestite da fondazioni o società private. In Europa, la più nota è l’European Computer Driving License (ECDL). Essa ha avuto il merito di richiamare l’attenzione delle agenzie educative sulla necessità di promuovere abilità informatiche di base per tutti. Tuttavia, negli ultimi anni, sono stati messi in evidenza i suoi limiti legati all’eccessivo allineamento sulla operatività dei software proprietari e all’appiattimento delle prove sulla padronanza di specifiche abilità tecnico-procedurali. Parallelamente altri lavori hanno sottolineato la necessità di prendere le distanze da una visione orientata alla pura acquisizione di abilità tecniche: la competenza digitale è un costrutto complesso e ricco di sfaccettature, che implica una comprensione critica delle tecnologie e, in particolare, capacità di selezione delle informazioni, nonché dimensioni che investono la consapevolezza etica e relazionale. In questo quadro, la ricerca educativa ha il compito di mettere a punto modelli concettuali pedagogicamente significativi e, al tempo stesso, coerenti con gli obiettivi della scuola e facilmente integrabili nel curriculum scolastico. Nel presente contributo, introdurremo un modello di competenza digitale fondato su basi educative, con una forte rilevanza attribuita alla dimensione critica e cognitiva ed illustreremo una serie di strumenti per valutarla in ambito scolastico, ossia l’Instant DCA (iDCA) e il Situated DCA. Successivamente ci soffermeremo sull’iDCA e sui risultati di una sperimentazione condotta negli ultimi due anni nella scuola secondaria superiore.

2. La competenza digitale. Uno sguardo alla letteratura Le espressioni “Digital Literacy” e quella correlata di “Digital Competence” si stanno ormai affermando a livello internazionale sia nella ricerca che nei documenti prodotti dagli organismi internazionali. Esiste ormai una discreta convergenza tra i ricercatori nel ritenere che nel concetto di digital literacy confluiscano altre literacies legate alle TIC e più in generale ai media (Tornero, 2004; Martin, 2006; Midoro, 2007; Gapski, 2008). Ciò spiega, da un lato, la varietà dei termini impiegati per riferirsi a questo concetto (i.e. computer/IT Literacy, Information Literacy, Media Literacy, Media Education, solo per citare alcune delle espressioni più comuni), dall’altro l’enfasi che viene di volta in volta data all’uno o all’altro aspetto. Il primo ad usare l’espressione digital literacy è stato Gilster (1997), che nella sua definizione sottolinea soprattutto le capacità di pensiero critico e di valutazione dell’informazione più che le abilità tecniche: secondo questo autore, la digital literacy è fondamentalmente un atto cognitivo. A distanza di dieci anni, le definizioni si sono moltiplicate. Alcuni autori sottolineano

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come la digital literacy sia la risultante di una combinazione stratificata e complessa di capacità, abilità e conoscenze. In quest’ottica Tornero, ad esempio, afferma (Tornero, 2004, p. 31) che essa comprende “aspetti puramente tecnici, competenze intellettuali e anche competenze legate alla cittadinanza responsabile”. Altri autori, muovendo dalle prospettive teoriche della Media Education, spostano l’accento sulla comprensione critica dei media e delle loro implicazioni sociali, economiche e culturali (Buckingam, 2007). Accanto alla riflessione teorica di questi autori è importante richiamare i lavori di alcuni organismi intorno ai concetti di IT Literacy e Information Literacy. Negli ultimi anni il concetto di IT Literacy è evoluto verso approcci più riflessivi e meno tecnicistici verso le TIC, come emerge ad esempio dal Panel sull’ICT Literacy proposto nel 2002 dall’ETS (Educational Testing Service) su incarico dell’OECD. Nel Panel il concetto di ICT Literacy sta ad indicare il saper usare le tecnologie e gli strumenti comunicativi per accedere, gestire, integrare, valutare e creare informazioni allo scopo di agire adeguatamente nella società della conoscenza, riuscendo ad integrarle con successo nella vita di tutti giorni. Nell’ambito dei lavori dell’ETS è in fase di sperimentazione l’ICT Assessment, elaborato nel contesto del PISA. Esso si articola in: basic technical skills, relativa ad abilità informatiche elementari, short scenarios (ad esempio le funzioni di base di un ambiente di posta elettronica), web search (saper selezionare e valutare risultati di ricerche in internet) e simulation task (area più complessa in cui si tratta di studiare le relazioni tra variabili in condizione sperimentale)1. Parallelamente è andata avanti la riflessione intorno al concetto di Information Literacy. In particolare, nel 2000 la ACRL (Association of College and Research Libraries) ha promosso nuovi standards per la definizione dell’Information Literacy, indicando come componenti di questa competenza la capacità di comprendere i propri bisogni informativi e di valutare criticamente l’informazione e le sue fonti, (ACRL, 2000, pp. 8-13). Negli anni più recenti, con l’avvento del cosiddetto Web 2.0 e la conseguente enfasi sulla Participatory Culture (Jenkins et al, 2006) si è ulteriormente accentuata l’attenzione agli aspetti etico-sociali. I ricercatori si chiedono se e come il web possa sviluppare ethical minds (Gardner 2007), aspetto approfondito in particolare dal New Media Literacy Team presso la MacArthur Foundation, dove si sottolinea come al centro dell’indagine vadano poste dimensioni quali identity, ownership, authorship, credibility, partecipation (James et al., 2009). Anche la comunità europea ha promosso diverse iniziative negli ultimi dieci anni allo scopo di favorire lo sviluppo della digital literacy nei paesi membri dell’UE (Tornero et al, 2010). È stato costituito un gruppo di esperti per definire azioni ed interventi, sono stati avviati studi e indagini su ampia scala, e sono state pubblicate una serie di raccomandazioni. In particolare, nel dicembre 2006 il Parlamento Europeo e il Consiglio d’Europa hanno emanato la Raccomandazione sulle Competenze Chiave per il Lifelong learning (2006/962/EC), introducendo un nuovo framework per le competenze di base, ossia di quelle competenze necessarie per esercitare pienamente il diritto di cittadinanza nella società contemporanea. Secondo la definizione data in questo documento, la competenza digitale comprende la capacità di utilizzare senza incertezze e in modo critico le ICT nel lavoro, nel tempo libero e nella comunicazione. Comporta una buona conoscenza della natura, del ruolo e delle opportunità che le ICT offrono nella vita quotidiana, privata, sociale e lavorativa, ed in particolare delle potenzialità di Internet per lo scambio di informazioni e la collaborazione in rete, l’apprendimento e la ricerca. Si sottolinea altresì che l’uso delle ICT richiede un atteggiamento critico e riflessivo, ossia un’attenzione verso i problemi legati alla

1 Cfr. ICT Feasibility Study, URL: http://www.oecd.org/dataoecd/37/18/33703768.pdf.

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validità e affidabilità delle informazioni e un interesse ad impegnarsi in comunità e reti per fini culturali, sociali e/o professionali. Inoltre, la Unione europea ha recentemente commissionato uno studio sulla valutazione della media e digital literacy (Celot,Tornero, 2009). In questo studio, vengono indicate due principali dimensioni per la media literacy, ossia le competenze individuali e i fattori ambientali. La prima categoria comprende la capacità personali di accesso, uso e comprensione dei media e una serie di abilitù di carattere più sociale legate alla comunicazione e partecipazione sociale. La seconda categoria include fattori di contesto (ad esempio, la disponibilità dei media o le politiche sulla media literacy) che hanno un impatto sugli individui e sui diritti di cittadinanza. Concludendo, al di là della terminologia impiegata, tutti gli autori e le istituzioni sopra citate, manifestano la consapevolezza di trattare di un aspetto complesso e difficilmente circoscrivibile che comporta l’integrazione di dimensioni di varia natura, capacità tecniche, cognitive (e.g., problem solving, pensiero critico) e meta cognitive come pure partecipazione civica e consapevolezza etica.

3. Un modello concettuale per la competenza digitale C’è ormai ampio consenso sul fatto che una nozione di competenza digitale, se vuol essere pedagogicamente rilevante, debba spostare l’accento da una accezione puramente tecnica ad una concezione più complessa, che include una maggiore attenzione alle infrastrutture concettuali e critico logiche, alla capacità di comprendere la natura strutturale dei fenomeni tecnologici, oltre che alla conoscenza delle implicazioni sul piano etico e sociale connesse all’impiego delle tecnologie di rete. Al di là della terminologia impiegata, tutti gli autori e le istituzioni sopra citate, manifestano la consapevolezza di trattare di un aspetto complesso e difficilmente circoscrivibile che comporta l’integrazione di dimensioni di varia natura. Nel nostro caso, tra i diversi termini in uso, abbiamo preferito quello di “competenza digitale”, sia per il richiamo a questo termine nella raccomandazione europea sia perché il termine “competenza” si sta ormai affermando nel lessico educativo. Ci sembra tuttavia importante schermare questo concetto da possibili riduzionismi. Nell’ottica che intendiamo perseguire esso è: a) multidimensionale: implica un’integrazione di abilità e capacità di natura cognitiva, relazionale e sociale; non è un concetto univoco e lineare; b) complesso: non è pienamente valutabile con singole prove; una parte di questa competenza è di difficile valutazione, almeno in tempi brevi, può rimanere latente e richiedere tempi lunghi e contesti molto variati per manifestarsi; c) interconnesso: non può prescindere del tutto da altre capacità di base con cui necessariamente si sovrappone (e.g., lettura, numeracy, problem solving, capacità inferenziali e deduttive, metacognizione); d) sensibile al contesto socio-culturale: non ha senso pensare ad un modello unico di alfabetizzazione digitale ritenendolo valido sempre e ovunque, ma occorre declinarlo in relazione ai vari contesti d’uso (formazione di base, professionale, specialistica, lifelong learning). Ricercando per i nostri fini una definizione ragionevolmente semplice, ma sufficientemente esaustiva ci avvarremo della seguente:

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La competenza digitale consiste nel saper esplorare ed affrontare in modo flessibile situazioni tecnologiche nuove, nel saper analizzare selezionare e valutare criticamente dati e informazioni, nel sapersi avvalere del potenziale delle tecnologie per la rappresentazione e soluzione di problemi e per la costruzione condivisa e collaborativa della conoscenza, mantenendo la consapevolezza della responsabilità personali, del confine tra sé e gli altri e del rispetto dei diritti/doveri reciproci. Questa definizione evidenzia la coesistenza di dimensioni più marcate su tre diversi versanti, oltre alla loro integrazione: • versante tecnologico: saper esplorare e affrontare con flessibilità problemi e contesti tecnologici nuovi; • versante cognitivo: saper leggere, selezionare, interpretare e valutare dati e informazioni sulla base della loro pertinenza ed attendibilità; • versante etico: saper interagire con altri soggetti in modo costruttivo e responsabile avvalendosi delle tecnologie; • integrazione delle tre dimensioni: saper comprendere il potenziale offerto dalle tecnologie per la condivisione delle informazioni e la costruzione collaborativa di nuova conoscenza. Una rappresentazione di sintesi del modello adottato è rappresentata in fig. 1.

Figura 1- Digital Competence Framework

4. Prove instant e situate Muovendo dal modello concettuale sopra delineato e considerando la complessità del costrutto, abbiamo sviluppato due diverse tipologie di test per differenti livelli di età e ordine scolastico, ossia l’iDCA (instant Digital Competence Assessment) e il Situated DCA. In questo lavoro, ci soffermeremo sull’iDCA, mentre ci limiteremo a fare solo un rapido cenno alle Situated DCA. Le prove situate rispondono alla necessità di valutare la competenza digitale “in situa-

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zione”, ossia dinanzi a compiti più complessi rispetto a quelli valutabili con un test o un questionario. Esse si basano sulla presentazione di situazioni di uso delle tecnologie simili a quelle che si possono incontrare nella vita reale, ossia situazioni in cui non si tratta solo di applicare una specifica conoscenza bensì di confrontarsi con un problem solving tecnologico, attraverso la mobilitazione di conoscenze, capacità o atteggiamenti allo stesso tempo. Le prove sono costituite da una batteria di 4 x 2 (4 tipologie, due livelli di complessità): • nella prima tipologia (Esplorazione tecnologica) ci si deve confrontare con una interfaccia tecnologica sconosciuta che bisogna imparare a padroneggiare; • nella seconda tipologia (Simulazione) si chiede di elaborare sperimentalmente dei dati formulando ipotesi sulle relazioni possibili; • nella terza tipologia (Inquiry) si chiede di selezionare criticamente e raccogliere delle informazioni pertinenti ed affidabili intorno ad un tema prefissato; • nella quarta tipologia (Collaborazione) si deve partecipare ad una compilazione collaborativa di un documento, inserendo apporti reciproci, revisioni e commenti. L’Instant DCA, che qui presentiamo più dettagliatamente, è uno strumento “a largo spettro”, sensibile alle diverse conoscenze e capacità linguistiche e concettuali che, rilevabili con un test strutturato, in varia misura possono essere considerati parte del concetto di competenza digitale. Questo strumento è stato pensato come uno mezzo rapido di verifica, utilizzabile da interi istituti scolastici o da docenti di singole classi, in modo da offrire una valutazione automatica, di facile somministrazione e gestione. Operativamente gli item sono stati suddivisi nelle tre dimensioni (tecnologica, cognitiva, etica) presentate in figura 1 e ulteriormente articolate nelle seguenti sottocategorie (vedi figura 2).

F

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M

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d ll’Instant DCA

Figura 2 – Mappa degli indicatori dell’Instant DCA

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Per la dimensione tecnologica ci siamo limitati a tre sottocategorie, due di livello più applicativo (riconoscere interfacce e risolvere problemi comuni) ed una più astratta (comprendere il funzionamento tecnologico sotteso). Per la cognitiva, che è quella che assume maggior risalto, abbiamo valorizzato attività come estrarre dati rilevanti da un testo, valutare l’affidabilità di un’informazione, comparare informazioni contrastanti, organizzare dati con tabelle e compiere inferenze, che rappresentano un evidente punto d’intersezione tra le literacies tradizionali e la competenza digitale. Le tematiche di ordine etico e sociale sono state articolate nelle tre sottocategorie, della salvaguardia, del rispetto e della consapevolezza delle diseguaglianze tecnologiche. I test iDCA si presentano nella forma di quesiti chiusi, per lo più a scelta multipla, anche se agli item etici è spesso possibile aggiungere un commento personale. Gli item sono stati formulati tenendo conto delle capacità linguistiche ed astrattive medie di un alunno di una determinata età (14-16 anni), normalmente scolarizzato, che abbia già avuto frequentazione almeno di base con il computer. I test vengono applicati online utilizzando il LMS Open Source Moodle nell’aula informatica della scuola con la supervisione del docente2. 0-21 Compiti adatti per un computer e umani Ci sono delle cose che un computer, se ben programmato, può fare molto bene, anche meglio degli esseri umani. Per altre cose invece non riesce a cavarsela bene, anche se ben programmato. Indica, tra le seguenti, le azioni nelle quali il computer, anche se ben programmato, NON PUO' SOSTITUIRE l'uomo: (devi indicare QUATTRO risposte): Points -0,25 +0,25 -0,25 -0,25 +0,25 -0,25 +0,25 +0,25 -0,25

Answers a. Calcolare guadagni e ricavi nell’attività finanziaria di un’azienda b. Consigliare quale tipo di studi è opportuno intraprendere c. Consigliare una buona mossa in una partita a scacchi d. Controllare se le parole in un testo sono scritte in modo ortograficamente corrette e. Fare una perfetta traduzione di un testo letterario da una lingua ad un'altra f. Calcolare i livelli di temperature raggiunti da un gas sottoposto ad una determinata pressione g. Fare una battuta di spirito h. Interpretare un testo (ad esempio riassumerlo e commentarlo in modo sensato) i. Calcolare i tempi di arrivo di un missile sulla Luna

Figura 3 - Esempio di quesito a scelta multipla, punteggio e feed-back

2 Sul sito www.digitalcompetence.org/moodle sono disponibili le prove online in lingua italiana e in lingua inglese. Gli insegnanti interessati possono richiedere gratuitamente le password di accesso per le loro classi e gestire autonomamente la somministrazione dei test ai propri studenti.

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5. idca – somministrazioni nella scuola Nel corso degli ultimo anni l’iDCA è stato somministrato più volte nella scuola italiana e anche all’estero. In particolare, il test è stato validate attraverso due applicazioni nelle scuole italiane d è poi stato tradotto prima in inglese e poi in cinese per essere somministrato in Cina (Li, Ranieri, 2010). Oltre a ciò, un’indagine su larga scala con il coinvolgimento di oltre mille studenti, è stata attuata in Italia per valutare I livelli di competenza digitale degli studenti del biennio della scuola superiore. In questo paragrafo ci soffermeremo su queste applicazioni. Il test di validazione e la Ricerca Italia-Cina La prima versione delle prove, destinata agli adolescenti (studenti del biennio delle scuole superiori), è stata realizzata sotto forma di questionario cartaceo. Questa prima fase elaborativa ha condotto alla costruzione di un questionario cartaceo, composto da 87 domande. Il questionario è stato somministrato, con la collaborazione di alcune scuole superiori, a diverse classi prime e seconde di tre diversi Istituti di Istruzione Superiore, sotto il controllo dei ricercatori. Questa fase è stata affiancata da un ulteriore giro di opinioni, effettuata affidando il questionario ad un gruppo selezionato di esperti, che potevano costituire un valido criterio di riferimento per la validità di contenuto. I risultati congiunti di queste operazioni, costituite dall’item analysis sui risultati della prima fase, dai feedback provenienti dai docenti collaboratori e dai ricercatori osservatori, dai commenti e dai suggerimenti del panel di esperti, hanno portato alla modifica, integrazione ed anche alla eliminazione di alcuni item. In particolare, sono stati rimossi o revisionati gli item sui quali gli esperti avessero espresso dubbi o la cui risposta non corrispondesse alla risposta attesa. Gli item ridefiniti e selezionati dopo questa prima fase sono stati complessivamente 85. Questo gruppo di item è stato quindi implementato su un’applicazione web, per consentirne la sperimentazione su scala più ampia e verificare la realizzabilità di un’applicazione automatizzata dei test. La versione online così elaborata è stata utilizzata nel periodo febbraio-dicembre 2008. I casi raccolti in questa prima applicazione sono stati complessivamente 220 (al 1/6/2009), costituiti da alunni di classi del biennio di Istituti Superiori Statali. Grazie a questa applicazione è stata effettuata una prima item analysis significativa. Gli item sono stati successivamente tradotti in lingua inglese. A seguito di contatti con un istituto Universitario in Cina3 è stata infine realizzata una versione ridotta del test, denominata “Sperimentazione ITA-Cina”. Questi item sono stati selezionati all’inizio della sperimentazione, tenendo conto sia dei risultati dell’item analysis effettuata in precedenza sia della possibilità di adattamento degli item al contesto specifico cinese. La sperimentazione, condotta sia in Italia che in Cina, ha consentito l’effettuazione di una ulteriore e più completa item analysis. Il test ha confermato di possedere un buon livello di attendibilità. Infatti, il valore del coefficiente alpha di Cronbach è risultato soddisfacente, sia con il campione cinese (0,77) che con quello italiano (0,79).

3 Si tratta della Zeijan University di Hangzhou. La professoressa Yan Li ha effettuato il test presso alcune scuole del Jiangdong District, Ningbo City, nella provincia dello Zhejiang.

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Questo ha portato alla definizione dei 35 item utilizzati infine per la terza tappa della sperimentazione, diretta alle scuole superiori italiane, svoltasi nel periodo settembre 2009gennaio 2010, presentata in modo dettagliato nel paragrafo seguente. L’indagine su larga scala nella scuola italiana Nel periodo settembre 2009-gennaio 2010 il test iDCA è stato somministrato ad un campione di studenti tratto dalle scuole secondarie superiori italiane con lo scopo di valutare le “stato” della competenza digitale degli studenti italiani. Il sistema scolastico italiano prevede tre canali principali di scuole secondarie di secondo grado (high schools): i licei, che preparano esclusivamente per i successivi studi universitari, gli istituti tecnici, divisi in indirizzi specifici orientati al mondo delle imprese e gli istituti professionali, maggiormente orientati ad un rapido inserimento nel mondo del lavoro (vocational training). Data la formulazione dei quesiti ed il loro adattamento all’età abbiamo supposto che le prove risultassero in genere superabili da allievi considerabili “competenti digitali”, e che questi potessero dunque raggiungere un punteggio ragionevolmente alto, immaginando, in via puramente ipotetica una media complessiva di risposte corrette non inferiore alla soglia del 75%. È stato effettuato un campionamento di tipo stratificato partendo da una codifica preliminare di tutte le scuole secondarie superiori italiane, impiegando, oltre che la tipologia di scuola, anche una distinzione della macro-area geografica (Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud, Isole). Il numero totale dei rispondenti è stato pari a 1056 unità da 34 scuole e l’età media degli studenti era di 15 anni. Se esaminiamo i punteggi complessivi, i risultati risultano più bassi di quanto avevamo supposto: il punteggio medio ottenuto è stato infatti 62,5 (DEV.ST=15,8). Se applichiamo la soglia del 75% di superamento da noi ipotizzata per definire uno studente competente digitale, solo un quarto dei soggetti arriva a tale soglia (tabella 1). Distribuzione generale dei punteggi % di rispondenti >= 75% Tra 50% e 75% Tra 25% e 50% Meno di 25%

% cumulata

24% 52% 23% 1%

100% 76% 24% 1%

Tabella 1 – Distribuzione dei punteggi complessivi

Per quanto riguarda le single dimensioni e sottocategorie, una rappresentazione complessiva dei risultati è data nel grafico seguente (figura 4):

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Figura 4 – Percentuali dei punteggi medi per ogni indicatore

È evidente la netta differenza tra i dati ottenuti alle prime due sottocategorie rispetto a tutte le altre. Applicando la soglia da noi assunta (75%) questi adolescenti potrebbero essere considerati competenti digitali solo se identificassimo questo concetto con la capacità di riconoscimento iconico delle più comuni interfacce, o con la capacità di risolvere un elementare problema di malfunzionamento tecnico (accensione, caricamento, stampante, audio, video). Al di là di queste conoscenze tecnologiche di base le cose si complicano se ci spostiamo ai quesiti che implicano una conoscenza tecnologica di complessità concettuale più alta. Ad esempio se chiediamo cosa può far sì che una mail non raggiunga il destinatario, 1/3 risponde che dipende da un programma e-mail “non aggiornato” o dalla “scarsità” di memoria del computer; se chiediamo perché a volte la visualizzazione di un sito è lenta, quasi la metà ritiene che dipende da un errore di impostazione del sistema operativo; se li interpelliamo su quali possono essere gli effetti di un virus, circa 1/3 crede che un virus può produrre un guasto all’impianto elettrico del computer; se poi consideriamo che cosa si ritiene rientri nelle possibilità operative di un computer circa la metà dei rispondenti è convinto che un computer possa fare una perfetta traduzione letteraria da una lingua ad un’altra. Tutte le sottocategorie definite come cognitive non arrivano a conseguire la soglia del 75%, salvo qualche sporadico item risultato relativamente semplice, come schematizzare graficamente un breve testo, leggere un istogramma e valutare una singola informazione poco credibile reperita sul web. Complessi risultano gli item legati ad attività quali il trattamento di dati testuali, la gerarchizzazione di informazioni e la loro sintesi, la scelta di parole chiave come anche interpretare grafici dinamici (la percentuale di successo si colloca un po’ al di sotto del 70%). Anche circa la capacità di valutare criticamente le informazioni su Internet, di considerarne la pertinenza e l’affidabilità i punteggi di riuscita scendono intorno al 60% con un particolare abbassamento nell’interpretazione dei risultati dei motori di ricerca: se chiediamo

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quali sono i fattori che influiscono sull’ordine di risultati in una ricerca, oltre la metà dei rispondenti sembra ignorare che ciò dipenda dai criteri adottati dal motore di ricerca. La sottocategoria che risulta complessivamente la peggiore è quella che riguarda gli item che chiedono di manipolare, interpretare e formulare inferenze a partire da dati organizzati in tabelle o di selezionare la raffigurazione grafica di un algoritmo corrispondente ad una successione di eventi (media intorno al 43%) con punteggi solo lievemente superiori quando ci si confronta con problemi logico-formali, che comportano ad es. l’impiego degli operatori booleani (oltre un quarto mostra di non saperli usare). Sul versante etico la situazione appare variegata: se da un lato i giovani riconoscono e disapprovano comportamenti di ciberbullismo, aspetto accentuato dai numerosi commenti aggiuntivi personali (“è un atto di bullismo virtuale, istiga la violenza” “non si prendono in giro i difetti altrui pubblicamente”), non hanno però idee molto chiare relativamente al rispetto della privacy e alla sicurezza personale. La domanda risultata più difficile in assoluto è quella sul digital divide che rivela la scarsa consapevolezza relativa alle problematiche dell’accessibilità ed alle difficoltà tecniche che paesi in via di sviluppo possono avere nella comunicazione via Internet: circa la metà degli studenti afferma che la qualità di una comunicazione dipende tout court dalla quantità di immagini, audio e video, e non condivide l’opinione che un’eccessiva quantità di multimedialità possa comportare qualche problema. Questo atteggiamento è anche in questo caso confermato dalle numerose annotazioni del tipo “se ho un bel video, non capisco perché non posso inviarlo”).

6. Conclusioni La competenza digitale rappresenta una sfida rilevante per i sistemi educativi del nuovo secolo. Importante è comprendere come il concetto non sia riducibile ad un’unica componente, né valutabile con un’unica tipologia di prove: occorre optare per un approccio flessibile ed integrato, definendo anche metodologie che consentano una ragionevole comparabilità dei dati raccolti dalle diverse scuole. In questa prospettiva, abbiamo sviluppato una serie di strumenti per valutare la competenza digitale a differenti livelli di complessità e per diversi target di età. In questo lavoro ci siamo focalizzati sull’iDCA e sulle applicazioni di questo atrumento nella scuola superior. In particolare, abbiamo presentato le varie fasi di validazione dello strumento e i risultati di un’indagine su ampia scala condotta nelle scuole italiane tra Settembre 2009 e Gennaio 2010. Nel test da noi somministrato man mano che i quesiti implicano livelli cognitivi, critici o logici più alti, i punteggi si abbassano: gli adolescenti rispondono correttamente a quesiti relativi ad attività tecnologiche cognitivamente poco impegnative ma, in linea con altri lavori (Eagleton et al., 2003; Ravestein et al., 2007; Bennet et al., 2008), conseguono risultati modesti laddove entrano in gioco aspetti concettuali di complessità maggiore, quali quelli impliciti in attività quali confrontare informazioni contrastanti, valutare criticamente l’affidabilità di un sito o di un’informazione, compiere inferenze da dati. Anche sul piano più strettamente etico-sociale, gli adolescenti, pur riconoscendo e giudicando riprovevoli i comportamenti di cyberbullismo, rivelano scarsa sensibilità verso la necessità di assumere comportamenti online adeguati per la propria sicurezza e rispettosi della privacy e mostrano una completa ignoranza delle problematiche connesse alle diseguaglianze tecnologiche e al digital divide.

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Questi aspetti ripropongono una tematica classica della psicologia, da Piaget (1964) in poi, quella dell’egocentrismo infantile ed adolescenziale, cioè la sua difficoltà a comprendere che altri posseggono punti di vista diversi dai propri. Per così dire, Internet fa da cassa amplificante dell’egocentrismo giovanile. Il “net- egocentrism” spinge ad esempio a non considerare che gli altri possono non disporre della stessa tecnologia, che loro necessità ed aspettative dei lettori possono non corrispondere alle proprie (Katz, MackLin, 2007) e che un’informazione inserita in un blog possa essere letta da soggetti diversi da quelli attesi (James et al, 2009). Tutto questo comporta una maggiore rilevanza del ruolo della scuola: questa, da un lato dovrebbe indirizzare la sua attenzione su due obiettivi: da un lato assicurare che le stesse conoscenze ed abilità tecnologiche di base siano acquisite da tutti, eliminando le disparità che attualmente si conservano per il gap socio-economico e culturale esistente, dall’altro garantire, attraverso specifici interventi finalizzati, che quel tessuto di nozioni ed abilità tecnologiche di base, acquisibile in buona parte anche attraverso pratiche spontanee, si integri in una dimensione cognitiva più articolata, adeguatamente connessa con altre rilevanti capacità o competenze significative, entrando a far parte di una personalità critica, eticamente e socialmente consapevole (Buckingham, 2006; Jenkins et al., 2006; Calvani, Fini, Ranieri, 2010). Successivi lavori e ricerche della comunità internazionale dovrebbero allora concentrarsi sulla identificazione e predisposizione di attività didattiche basate su dimostrazione e worked examples, particolarmente efficaci nel suscitare riflessività e consapevolezza negli adolescenti circa le implicazioni cognitive ed etico-sociali in gioco nell’impiego delle tecnologie.

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ricerche Stile d’attaccamento, impegno civico e morale e felicità: un’indagine sul fenomeno italiano della “famiglia lunga” Attachment style, moral and civic engagement and happiness a survey on the Italian phenomenon of the “long family” MARTA CODATO In Italia, il passaggio dall’adolescenza all’età adulta si sta temporalmente allungando. Alcuni sostengono che questo sia un sano adattamento alle attuali condizioni socio-economiche, altri che sia un segno di eccessiva dipendenza e di attaccamento insicuro ansioso (Maione, Franceschini, 1999; Flett, Endler, Besser, 2009; Scabini, Cigoli, 1997; Scabini, Marta, 1996). Qui segnaliamo uno studio condotto con 1570 studenti italiani presso l’Università di Padova, che esplora le relazioni esistenti tra scelta abitativa, stile di attaccamento, convinzioni religiose, spirituali e personali, disimpegno civico e morale, felicità percepita.Vivere per conto proprio è risultato essere associato ad un attaccamento evitante o sicuro, ad un maggiore impegno sociale, a più forti convinzioni personali e spirituali.Vivere ancora con i genitori e in altre condizioni abitative (come il dormitorio) si associa ad un attaccamento ansioso, a più deboli convinzioni personali ma a più forti credenze religiose, ad un maggiore disimpegno civico e morale e a una più elevata infelicità. Indipendentemente dalla situazione abitativa, l’attaccamento ansioso si è collegato al disimpegno civico e morale, a più deboli convinzioni personali e a una maggiore infelicità. L’attaccamento insicuro evitante è risultato essere connesso a un disimpegno civico e morale e a più deboli credenze religiose e spirituali.

In Italy, the transition from adolescence to adulthood has been lengthening.There is disagreement about whether this is a healthy adaptation to current socioeconomic conditions or a sign of excessive dependency and insecure anxious attachment (Maione, Franceschini, 1999; Flett, Endler, Besser, 2009; Scabini, Cigoli, 1997; Scabini, Marta, 1996). Here we report a study of 1570 Italian undergraduates at the University of Padua exploring relations among living choice; attachment style; religious, spiritual, and personal beliefs; civic and moral disengagement; and perceived happiness. Living on one’s own was associated with avoidant or secure attachment, being more engaged in society, and stronger personal and spiritual beliefs. Living both with parents and in other living conditions was associated with anxious attachment, weaker personal beliefs but stronger religious beliefs, greater civic and moral disengagement, and greater unhappiness. Regardless of living arrangements, anxious attachment was related to civic and moral disengagement, weaker personal beliefs, and greater unhappiness. Insecure avoidant attachment was related to civic and moral disengagement and weaker religious and spiritual beliefs.

Parole-chiave: attaccamento, spiritualità, impegno civico e morale, benessere

Keywords: attachment, spirituality, civic and moral engagement, well-being

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1. Problema di partenza La presente indagine è nata dalla volontà di comprendere a fondo la questione della protratta permanenza dei giovani adulti italiani presso la casa genitoriale.Tale fenomeno definito “famiglia lunga” nel 1988 da Scabini e Donati, risulta problematico in quanto ostacola il realizzarsi di una reale emancipazione dei figli nei confronti dei genitori. I mummy’s boys & girls, invece di assumersi le responsabilità tipiche dell’adultità, quali la costruzione di una famiglia e di una propria figura professionale, continuano ad libitum a vagare nell’ossimorico (Scabini, Donati, 1988) limbo della ‘giovane-adultità’, caratterizzato da un infinito numero di opzioni e potenzialità, tra le quali nessuna viene scelta e si attualizza radicalmente a discapito delle altre. Il problema in questione è facilmente osservabile comparando il comportamento del tipico studente italiano e dello stereotipico studente americano, all’ultimo anno della scuola superiore: se l’americano medio, già dall’inizio dell’ultimo anno di scuola, invierà molteplici applications alle migliori università americane che possano rispondere ai suoi bisogni formativi, considerando altamente probabile l’allontanamento di migliaia di miglia dalla casa genitoriale; l’italiano attenderà la fine dell’anno scolastico (anzi la fine delle successive vacanze estive!) per iscriversi alla facoltà più vicina alla casa di ‘mamma e papà’ anche a costo di non rispettare i propri desideri e talenti (Alesina, Ichino, 2009). Va detto inoltre, mutuando le parole di Galimberti (2007) e Testoni (1997), che i giovani italiani soffrono di un male chiamato ‘nichilismo’, caratterizzato dalla mancanza di orizzonti, passione, investimento nel futuro e da un ripiegamento nell’attimo presente, se non addirittura nella passata infanzia. Da quanto è emerso in una ricerca svolta da Ciairano, Kliewer e Rabaglietti (2009), i giovani italiani evidenziano, rispetto agli olandesi, un livello più elevato di comportamenti a rischio, quali la delinquenza, l’uso di marijuana e di tabacco. D’altra parte una ricerca svolta da Passini ed Emiliani (2009) ha mostrato come gli Italian youths, in comparazione agli albanesi, non diano importanza all’autonomia e all’indipendenza, credano che i diritti individuali debbano essere tutelati da altri, che i doveri non siano necessariamente legati ai diritti e che il benessere individuale sia contrapposto al benessere sociale. Nel 2003 Testoni e Zamperini (p.102) scrivevano come coloro i quali si perdono nelle strade delle dipendenze, arrivando addirittura ad uccidere se stessi e gli altri, non siano tanto i figli del disagio e della miseria culturale, quanto dell’eccessivo benessere. Sono giovani che, abituati a vivere in un ‘paradiso’ in cui tutto è disponibile sempre, si annoiano. Davanti al loro malessere gli adulti, spesso, si chiedono cosa gli manchi, cosa ancora debba esser loro garantito.

2. Teorie di riferimento Per quanto riguarda le variabili che concorrono a condizionare tale situazione problematica, sono state analizzate differenti dimensioni: sociale, educativa, filosofica e psicologica. Dal punto di vista sociale: si ritiene che il fenomeno dell’amoral familism (Banfield, 1958) – diffusosi particolarmente durante il secondo dopoguerra, nel Meridione – sia stato un diretto antecedente di quello della famiglia lunga. Si parla di ‘familismo’ quando gli individui perseguono soltanto gli interessi della propria famiglia nucleare, e non quelli della comunità, che richiede la cooperazione tra soggetti non consanguinei. L’‘amoralità’ riguarda l’assenza di ethos comunitario, la mancanza di relazioni sociali morali con individui esterni alla famiglia. In base a tale fenomeno, la famiglia risulta molto più importante di tutto il resto della società, nei cui confronti c’è estrema diffidenza. Per quanto riguarda la dimensione educativa: sempre nel secondo dopoguerra, e in parti-

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colare tra gli anni ’60 e ’70, in corrispondenza dei rivolgimenti studenteschi, si è realizzata una notevole trasformazione delle pratiche educative all’interno delle famiglie italiane. Da un modello di famiglia normativa, nella quale i figli seguivano pedissequamente le regole genitoriali, arrivando a percepire come una liberazione dalla ‘prigionia’ il matrimonio e quindi l’uscita dalla famiglia d’origine; si è passati alla cosiddetta famiglia affettiva, entro cui gli scambi affettivi sono molto più frequenti e le pratiche educative, inseribili entro lo stile di parenting materno, conducono alla dipendenza dei figli piuttosto che ad una loro autonomia. All’interno della famiglia affettiva spesso viene a crearsi una sorta di squilibrio tra vicinanza ed autonomia, definito dalle ricerche internazionali come intrusiveness. Questo ultimo concetto implica il fatto di trattare il figlio come se fosse più giovane di quello che è; non riuscire a fornire l’adeguato supporto alla sua autonomia; controllarlo troppo, essendo eccessivamente critici ed esigenti nei suoi confronti; investire in una pseudo-mutualità relazionale; non rispettare i confini interpersonali (Barber, Harmon, 2002; Biringen, Robinson, Emde, 2000; Conger, Conger, Scaramella, 1997; Laing, Esterson, 1964; Minuchin, 1974). La parental intrusiveness è stata valutata sia tramite osservazioni comportamentali (Biringen et al., 2000) che con scale autocompilative (Deci, Schwartz, Sheinman, Ryan, 1981; Gavazzi, Reese, Sabatelli, 1998). Tale atteggiamento è più tipico delle madri con uno stile d’attaccamento insicuro ansioso (Adam, Gunnar,Tanaka, 2004), e si associa a difficoltà sociali ed emozionali nei figli, come un attaccamento insicuro (Pederson, Gleason, Moran, Bento, 1998), una bassa autostima (Gramzow, Elliot, Asher, McGregor, 2003), un basso senso di autoefficacia (Frodi, Bridges, Grolnick, 1985), scarse competenze sociali e abilità cognitive (Swanson, Beckwith, Howard, 2000), più elevata depressione (Blatt, 2004). Ciò, in adolescenza, si collega anche ad una bassa opinione di sé, a problemi mentali e ad uno scarso rendimento scolastico (vedi Barber, Harmon, 2002). In accordo con Lavy, Mikulincer e Shaver (2010) e in base a numerose altre ricerche, sia longitudinali che correlazionali, un figlio cresciuto in un ambiente familiare iperprotettivo-intrusivo, sviluppa quello che Bowlby (1982) chiama attaccamento insicuro (Cassidy, Shaver, 2008). Dal punto di vista filosofico: il fenomeno della famiglia lunga può agevolmente essere inserito all’interno del più ampio pensiero nichilista occidentale. Quest’ultimo, sorto nell’antica Grecia, e in particolare con la riflessione ontologica parmenidea (Severino, 1997; Testoni, 2008), implica la concezione di ogni ente come diveniente, ossia come uscente dal nulla e al nulla ritornante. All’interno di questa prospettiva la lunga permanenza a casa dei giovani italiani può essere interpretata come un atto mirante alla salvaguardia di sé nei confronti della forza trascinante e angosciante del nulla. La filosofia è la culla della tragedia greca. E della tragedia della nostra epoca. Legami essenziali uniscono alla tragedia greca la civiltà della tecnica e la tragedia del paradiso della tecnica, verso cui la nostra civiltà si sta portando (Severino, 1997, pp. 233-234).

In termini psicologici: si è ipotizzata un’associazione tra la protratta permanenza dei giovani italiani presso l’abitazione genitoriale ed una loro tendenza al possesso di uno stile d’attaccamento insicuro ansioso. Ciò anche in collegamento a quanto è stato affermato da Maione e Franceschini durante la Fedora Psyche Conference svoltasi a Copenaghen nel 1999: do young people have a real insecure (or ambivalent) attachment, or could they simply be only just a little opportunist, or even astute and well adapted to the social conditions offered by the country they live in?

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Lo stile d’attaccamento insicuro ansioso giustificherebbe la forte ansia di morte connessa alla separazione dalle figure d’attaccamento, in accordo con gli studi della Terror Management Theory (Florian, Mikulincer, Hirschberger, 2002; Mikulincer, Florian, 2000; Mikulincer, Florian, Birnbaum, Malinshkevich, 2002). Inoltre il fenomeno della famiglia lunga italiana è stato letto in relazione alle dimensioni dell’impegno morale-civile, del benessere soggettivo e del possesso di convinzioni personali, spirituali e religiose, da parte dei giovani studenti partecipanti alla ricerca. Fenomeno della famiglia lunga e attaccamento insicuro Sorta dalla compenetrazione di teorie etologiche, evoluzionistiche, psicanalitiche e cognitive, la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1969-82; 1973) introduce il concetto di sistema d’attaccamento, in base al quale il comportamento si struttura in modi che tendono ad incrementare le possibilità di sopravvivenza e riproduzione di un individuo, nonostante gli inevitabili pericoli ambientali. La relazione d’attaccamento, definibile come un rapporto con una determinata persona cui si fa riferimento quando si ha bisogno di protezione, possiede tre caratteristiche principali (Weiss, 1982): la ricerca della vicinanza; l’effetto ‘base sicura’ per il quale la figura d’attaccamento svolge il ruolo biologico e psicosociale di piattaforma da cui affacciarsi verso il mondo esterno e a cui poter tornare, in ogni momento, sapendo di ottenere accoglienza, nutrimento, conforto (Bowlby, 1988); un’altra importante prova della presenza di un legame d’attaccamento consiste nella ‘protesta per la separazione’. Un concetto chiave della teoria dell’attaccamento è quello di ‘modello operativo interno’ (internal working model, Bowlby, 1969; 1982), in base al quale le risposte dei caregivers alle domande di prossimità e protezione vengono indelebilmente memorizzate e producono effetti a lungo termine nella rappresentazione che il soggetto ha di sé e dell’altro (Bowlby, 1973 citato da Mikulincer e Shaver, 2007, p. 22). Gli internal working models (Bowlby, 1969; 1982; 1973 citato da Mikulincer, Shaver, 2007, p. 23) riproducono gli aspetti strutturali della realtà, consentendo ad una persona di predire le future interazioni e di pianificare il proprio comportamento (Bowlby, 1988). Il termine ‘operativo’ suggerisce che le rappresentazioni non costituiscono un prodotto statico, costruito una volta per tutte dall’individuo, ma al contrario un processo dinamico condizionato dall’ambiente in cui la persona è inserita. La teoria è stata originariamente testata in ricerche sul rapporto madre-bambino, utilizzando una procedura di valutazione laboratoriale chiamata Strange Situation (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978). Ainsworth e i suoi colleghi scoprirono che potevano classificare, in modo affidabile, i bambini come sicuri, ansiosi o evitanti e che tali classificazioni erano prevedibili attraverso l’osservazione domestica delle interazioni madre-bambino. Più avanti nel tempo altri ricercatori (vedi l’antologia curata da Grossmann, Grossmann, Waters, 2005) compresero come le classificazioni infantili risultanti dalla Strange Situation predicevano lo sviluppo sociale ed emozionale di un individuo lungo l’infanzia e l’adolescenza. Nel 1987, Hazan e Shaver notarono che i medesimi costrutti riguardanti le differenze tra individui – sicurezza nell’attaccamento, ansietà ed evitamento – avrebbero potuto essere utilizzati in studi concernenti relazioni romantiche o di coppia nell’adolescenza e nell’adultità. Successivamente, fu elaborato uno strumento a tre categorie per dar vita a misure bidimensionali di ansietà ed evitamento nell’attaccamento (e.g. Bartholomew, Horowitz, 1991; Brennan, Clark, Shaver, 1998), che danno vita a quattro differenti stili d’attaccamento: sicuro, evitante, preoccupato e spaventato. Le misure dell’attaccamento adulto sono state successivamente usate in centinaia di studi, corrette e integrate da Mikulincer e Shaver (2007). Que-

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sti studi mostrano che gli stili d’attaccamento valutati con strumenti autocompilativi sono collegati sia ai risultati della valutazione della storia familiare, sia a misure del successivo funzionamento relazionale e dell’adattamento psicosociale. Impegno civico e morale Un giovane adulto che lascia la casa genitoriale e inizia a funzionare autonomamente, deve badare a se stesso, fare le spese, cucinare, pulire, pagare le bollette (etc.) senza un supporto da parte dei genitori. L’assunzione di questo genere di responsabilità può facilmente estendersi ad altri domini esperienziali – come ad esempio quello della società – declinandosi concretamente in attività filantropiche. Ci si aspettava che gli studenti che vivevano ancora con i genitori, fossero meno impegnati dal punto di vista civile e morale (Gillath, Shaver, Mikulincer, Nitzberg, Erez, van IJzendoorn, 2005). Intensità delle convinzioni personali, spirituali e religiose Un aspetto della letteratura riguardante la famiglia lunga consiste nella preoccupazione che i giovani adulti dipendenti che ancora vivono con i genitori non abbiano la forza di scardinare il proprio pensiero da quello genitoriale (Diamanti, 1999). In accordo con la suddetta preoccupazione essi non sono in grado di sviluppare delle forti e autonome convinzioni riguardo alla natura della realtà e al ruolo sociale degli individui. Di conseguenza si trovano ad accettare passivamente le convinzioni genitoriali, che in molte famiglie italiane corrispondono alla religione cattolica. In collegamento con tali riflessioni, ci si attendeva che gli studenti universitari che vivevano ancora presso la casa genitoriale avrebbero avuto una poco sviluppata filosofia personale (deboli convinzioni personali) e delle più forti convinzioni religiose. Benessere soggettivo Dall’indagine IARD (Buzzi et al., 2007) è emerso che i giovani adulti che vivono per conto proprio sono più soddisfatti della propria vita rispetto a coloro che continuano a vivere con i genitori. Ci si aspettava di ottenere dei risultati simili oltre all’esistenza di una connessione tra attaccamento ansioso e basso grado di benessere.

3. Metodo I partecipanti Nella ricerca sono stati coinvolti n. 1570 soggetti di età compresa tra i 18 e i 38 anni, con una media di 22,11 (std. 2,508).Tra i partecipanti all’indagine, dei quali 580 sono maschi (37%) e 990 femmine (63%), alcuni appartenevano a facoltà inscrivibili nella categoria della scientificità o nomoteticità; altri stavano frequentavando facoltà umanistiche; altri erano iscritti a facoltà definibili ‘umanistico-scientifiche’ in quanto intersecanti quelle prettamente umanistiche e le scientifiche. Le facoltà d’appartenenza dei partecipanti sono: Medicina e Chirurgia (11,0%), Ingegneria (13,0%), Scienze MM. FF. NN (12,8%), Farmacia (11,7%),

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Lettere e Filosofia (13,1%), Scienze della Formazione (17,6%), Giurisprudenza (10,6%), Psicologia (10,2%).

Figura 1 - Distribuzione dei partecipanti in relazione alla Facoltà di appartenenza

Materiali e procedura I soggetti sono stati contattati all’interno delle aule universitarie ed è stato loro proposto di partecipare ad una ricerca rivolta agli studenti dell’università di Padova. Ai fini di determinare se la salienza di mortalità (il fatto di ricordare ai soggetti la morte) potesse influenzare la compilazione della restante parte del questionario, in accordo con gli studi della Terror Management Theory (Arndt, Greenberg, Simon, Pyszczynski, Solomon, 1998), metà dei questionari è stata consegnata con questo tipo di manipolazione e nell’altra metà non si è menzionato il concetto di morte fino alla fine. Il questionario include la ‘misurazione’ di molteplici variabili: • Lo status anagrafico è stato indagato tramite alcune domande relative all’età, al genere, al titolo di studio, al lavoro, allo stato civile, alla situazione abitativa (per conto proprio; presso la casa dei genitori o in un’altra situazione residenziale); • Lo stile d’attaccamento è stato misurato con il Relationship Scales Questionnaire o RSQ (Griffin, Bartholomew, 1994a; 1994b), una scala di autovalutazione costituita da 30 brevi asserzioni ricavate dalla misura dell’attaccamento di Hazan e Shaver (1987), dal Relationship Questionnaire di Bartholomew e Horowitz (1991) e dalla Scala dell’Attaccamento Adulto di Collins e Read (1990). Nella scala a 5 livelli dell’RSQ i rispondenti devono scegliere il grado che meglio descrive la loro tipica modalità di gestire le relazioni intime. Tale strumento si focalizza sugli internal working models, ossia sui modelli di sé e degli altri sottesi agli specifici stili d’attaccamento. L’RSQ è stato originariamente ideato con la finalità di misurare i quattro stili d’attaccamento (sicuro, preoccupato, evitante e spaventato) precedentemente misurati da Bartholomew e Horowitz (1991) con un solo item per stile. Sebbene le quattro sottoscale abbiano dimostrato bassi gradi di affidabilità e coerenza interna, il gruppo di asserzioni risulta, comunque, utile a valutare le dimensioni principali in rapporto agli stili d’attaccamento tipici dell’adolescenza e dell’adultità (Collins, Read, 1990).

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È stata condotta, infatti, nella presente ricerca, un’analisi fattoriale con metodo delle componenti principali e rotazione oblimin. L’esame dello scree plot ha evidenziato l’esistenza di tre fattori latenti, relativi all’atteggiamento nei confronti delle relazioni intime: 1. il primo fattore, denominato attaccamento insicuro ansioso si riferisce a quei soggetti che hanno un profondo bisogno di sentirsi accettati, supportati e rassicurati e sprofondano in una angoscia estrema quando la loro esigenza di vicinanza non viene appagata: essi validano la precaria autostima attraverso l’eccessiva chiusura all’interno di relazioni intime. 2. Il secondo fattore, attaccamento sicuro, individua quelle persone caratterizzate da una radicata autostima e da un senso di benessere nelle relazioni. La sicurezza nell’attaccamento implica aspettative positive in riferimento alla disponibilità altrui, nei momenti di bisogno, una visione del sé come competente e degno d’amore e una fiducia nel fatto che le difficoltà saranno affrontate con efficacia. 3. Il terzo fattore, chiamato attaccamento evitante, riguarda gli individui che evitano l’intimità con gli altri, in quanto provano disagio nell’aprirsi, nell’esprimere debolezza e dipendenza. Essi mantengono una forte autostima, negando difensivamente il valore dei rapporti stretti e mettendo in risalto l’importanza dell’indipendenza. Le loro strategie di disattivazione consistono nel tentativo di aumentare la distanza delle figure d’attaccamento, di contare solo su se stessi e di reprimere pensieri negativi e ricordi dolorosi; • Il disimpegno civile morale, ossia il ricorso a strategie di autoregolazione cognitiva finalizzate a disimpegnarsi rispetto agli standard di comportamento civico-morali, è stato indagato tramite la scala del disimpegno morale (Caprara, Fida, Vecchione, 2009) formata da 40 item e da un modello di risposta a 5 posizioni graduate da 1 (Per nulla d’accordo) a 5 (Molto d’accordo). Questa scala è stata aggiunta in seguito alla prima raccolta dei dati, di conseguenza la grandezza del campione utilizzato per le analisi riguardanti questa variabile è più piccolo (circa 800 soggetti) del campione (circa 1500 soggetti) usato per le altre analisi. • La concezione della morte. Due domande hanno consentito di indagare, da un lato, la rappresentazione della morte come annientamento o passaggio, dall’altro i sentimenti relativi alla stessa: 1) Secondo lei la morte è un passaggio dalla vita ad una altra forma di esistenza o è un annientamento, la fine di tutto?; 2) Pensando la sua morte quali sentimenti prova? • La forza delle convinzioni spirituali, religiose e personali. Ai partecipanti sono state rivolte quattro domande (estratte dallo strumento WHO QOL srpb; WHOQOL SRPB Group, 2006) relative al livello di religiosità, spiritualità e di convinzioni personali. Le domande sono le seguenti: “fino a che punto ti consideri una persona religiosa?”; “fino a che punto ti senti parte di una comunità religiosa?; fino a che punto hai delle credenze spirituali?”; “fino a che punto hai delle credenze personali?” A tali domande è stata anteposta una breve indicazione dei significati da assegnare alle espressioni ‘convinzioni personali’, ‘convinzioni spirituali’, ‘convinzioni religiose’. Una scala likert a 5 punti da per niente (1) a completamente (5) è stata usata come scala di risposta ai quattro items sopra elencati. Ai soggetti inoltre sono state poste delle questioni più prettamente concernenti la religiosità, nella sua specifica caratterizzazione monoteistica: “credi in Dio?”; “appartieni ad una religione?”; “se sì a quale?”. In particolare l’operazionalizzazione del costrutto ‘religiosità’ ha implicato la somma dei seguenti indicatori: “credi in Dio?”; “appartieni ad una religione?”; “in che grado ti consideri una persona religiosa?”; “in che grado ti consideri parte di una comunità religiosa?”.

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Risultati I risultati descrittivi in relazione a tutte le variabili compaiono, suddivisi in base al genere, nella Tabella 1. Le donne hanno un punteggio significativamente più alto, rispetto agli uomini, in rapporto all’attaccamento ansioso e sicuro e alle convinzioni religiose e spirituali. Esse sono risultate anche meno disimpegnate a livello civico e morale (più impegnate) degli uomini, in accordo con la misura del disimpegno civico e morale. La tabella 2 mostra le correlazioni tra alcune delle variabili considerate.Verranno discusse in relazione agli altri risultati presentati nelle prossime sezioni. Stile d’attaccamento e condizione residenziale Il numero di partecipanti che ancora stavano vivendo con i genitori è 1061; il numero di quelli che vivono per conto proprio è 278; il numero di quelli in un’altra condizione residenziale (come il dormitorio) è 224. Ci si aspettava che i soggetti che ancora vivevano con i genitori avessero un punteggio più alto in relazione all’attaccamento ansioso rispetto a coloro che vivevano per conto proprio. I risultati per tutte e tre le dimensioni dell’attaccamento sono visibili nella Tabella 3. Come preannunciato, i partecipanti che vivevano ancora con i genitori hanno ottenuto un punteggio più alto in relazione all’attaccamento ansioso rispetto a coloro che vivevano autonomamente: F (2, 1561) = 3.38, p < .05. Inoltre coloro i quali vivevano in un’altra condizione residenziale (come il dormitorio) sono risultati più ansiosi di quelli che vivevano per conto proprio.

Figura 2 - Stile d’attaccamento e condizione residenziale

C’è anche una associazione significativa tra condizione residenziale e attaccamento evitante. I partecipanti che vivevano per conto proprio erano significativamente più evitanti di coloro che vivevano con i genitori e di coloro che avevano un’altra condizione residenziale.

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Le differenze rispetto all’attaccamento sicuro non erano significative, ma i partecipanti che vivevano autonomamente hanno ottenuto il punteggio più alto in rapporto all’attaccamento sicuro e coloro che ancora vivevano con i genitori hanno ottenuto la media più bassa in relazione alla sicurezza nell’attaccamento. In generale questi risultati sono compatibili con le ipotesi iniziali e tutti i risultati significativi sono rimasti quando l’età è stata controllata statisticamente (c’era una piccola differenza d’età tra i gruppi relativi alla condizione residenziale, all’interno dei quali coloro che ancora vivevano con i genitori avevano un’età di 22.05, in media; coloro che vivevano per conto proprio avevano un’età media di 22.97; coloro che avevano un’altra condizione residenziale avevano una media d’età di 21.34). Disimpegno morale-civile e condizione residenziale Ci si aspettava che i giovani che continuavano a vivere con i genitori avessero un punteggio più elevato in rapporto al disimpegno civico e morale, rispetto a quelli che vivevano per conto proprio. Un’analisi della varianza ha evidenziato una significativa differenza: F (2,744) = 6.28, p < .05. Come predetto, i partecipanti che continuavano a vivere con i genitori hanno ottenuto un punteggio significativamente più alto in rapporto al disimpegno civico e morale (M = 1.87) rispetto a coloro che vivevano per conto proprio (M = 1.73). I partecipanti con un’altra condizione residenziale hanno ottenuto un punteggio intermedio rispetto agli altri due gruppi, ma non erano significativamente differenti da essi (M = 1.79). I risultati sono rimasti virtualmente gli stessi quando l’età è stata statisticamente controllata e l’età non era connessa al disimpegno morale e civile. Intensità delle convinzioni religiose, spirituali e personali in rapporto alla condizione residenziale Ci si attendeva che i giovani adulti che vivevano ancora presso la casa genitoriale avessero un punteggio più alto in relazione alle convinzioni religiose rispetto a quelli che vivevano per conto proprio e che, appunto, coloro i quali risiedevano autonomamente fossero meno religiosi. Tale aspettativa è stata confermata: F (2, 1566) = 18.31, p < .001. Le medie erano 6.65 per coloro che vivevano con i genitori, 5.73 per coloro che vivevano per conto proprio e 6.86 per coloro che hanno dichiarato di vivere in un’altra condizione residenziale. La media per coloro che vivevano autonomamente era significativamente diversa dalle altre due, le quali non differivano significativamente l’una dall’altra. Non c’erano significative associazioni tra la condizione residenziale e l’intensità delle convinzioni spirituali o personali. Felicità e condizione residenziale Ci si aspettava che i giovani adulti che continuavano a vivere con i genitori fossero meno felici di coloro che vivevano per conto proprio. Sebbene le medie fossero nella direzione attesa – 4.61 per coloro che vivevano con i genitori, 4.78 per coloro che vivevano per conto proprio, e 4.65 per coloro che si trovavano in un’altra condizione residenziale – le differenze erano solo marginalmente significative, F (2, 1564) = 2.80, p = .06.

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Combinazione delle variabili per predire il disimpegno morale e civile Dato che una delle principali preoccupazioni riguardanti il fenomeno della famiglia lunga è che sembra associarsi ad un minore impegno civico e morale, è stata condotta una analisi aggiuntiva per verificare quali variabili fossero collegate al disimpegno civico e morale. È stata realizzata una regressione stepwise, predicendo il disimpegno. Nel primo step sono stati inseriti genere ed età; nel secondo step si è aggiunta la condizione residenziale come predictor (la permanenza presso la casa genitoriale è stata codificata come 1; la condizione residenziale autonoma è stata codificata come 2). Nel terzo step si sono inserite le variabili convinzioni (i risultati sono riassunti nella Tabella 4). L’analisi ha dato risultati significativi in tutti e quattro gli step (tutti i ps < .001), e la R2 variante da .257 nel primo step a .424 nel quarto step. Le variabili predittive significative erano il genere (gli uomini sono risultati meno impegnati delle donne), l’attaccamento ansioso ed evitante (le persone con un punteggio più elevato in rapporto all’attaccamento insicuro sono risultate meno impegnate) e le convinzioni religiose (gli individui più religiosi sono risultati, in media, più impegnati). I risultati hanno evidenziato che vi è una significativa interdipendenza e correlazione tra il disimpegno, il fatto di vivere a casa con i genitori e di avere un attaccamento insicuro. Correlazioni delle due forme di insicurezza nell’attaccamento La Tabella 2 mostra come le due tipologie di attaccamento insicuro – ansietà ed evitamento – sono connesse ad altre variabili psicologiche. L’ansietà nell’attaccamento è risultata significativamente associata al disimpegno civico e morale, a più deboli convinzioni personali e ad una maggiore infelicità. L’evitamento è risultato essere significativamente collegato al disimpegno morale e civile a più deboli convinzioni religiose e spirituali, ma non significativamente associato al benessere soggettivo. Invece la sicurezza nell’attaccamento è risultata essere significativamente connessa all’impegno civico e morale, al possesso di più forti convinzioni sia personali, che spirituali e religiose e ad una significativamente maggiore felicità. Il grado di queste correlazioni era simile, e non significativamente differente, attraverso le tre diverse tipologie di condizione residenziale.

4. Discussione I risultati hanno generalmente supportato le ipotesi. Gli studenti universitari italiani che continuavano a vivere a casa con i genitori hanno ottenuto un punteggio più alto in rapporto all’attaccamento ansioso. Ciò rispetta le aspettative basate su un precedente studio italiano condotto da Maione e Franceschini (1999). Gli studenti che vivevano per conto proprio hanno totalizzato un punteggio più alto in relazione all’attaccamento evitante e marginalmente più alto in rapporto all’attaccamento sicuro. Questi risultati sono tutti compatibili con l’idea per cui è più probabile che i tardo-adolescenti e i giovani adulti attaccati ansiosamente vivano più a lungo presso la casa genitoriale rispetto a coloro i quali hanno un attaccamento sicuro o evitante. Come ipotizzato, gli studenti che vivevano ancora a casa con i genitori erano relativamente più disimpegnati a livello civico e morale, e ciò è particolarmente vero per coloro che erano attaccati in modo insicuro. Questi risultati supportano la preoccupazione riguardo alla famiglia lunga da parte degli scienziati sociali italiani (Scabini, Donati, 1988).

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Ci si aspettava che gli studenti universitari che continuavano a vivere con i genitori avrebbero avuto convinzioni religiose più forti rispetto a coloro che vivevano per conto proprio, e ciò è stato confermato. Tale risultato supporta l’idea in base alla quale i giovani adulti che vivono presso la casa parentale, con minore probabilità rispetto a coloro che vivono per conto proprio, sviluppino delle convinzioni autonome rispetto alla natura della realtà e al ruolo delle persone nella società. Essi verosimilmente tendono ad assimilare i valori dei genitori, che in molte famiglie italiane includono credenze associate al Cattolicesimo Romano. Si osservi che le convinzioni religiose sono risultate positivamente correlate alla sicurezza nell’attaccamento e all’impegno morale e civile, di conseguenza i dati non indicano che la religiosità di per sé implichi responsabilità personale o civica; infatti, l’opposto sembra essere il caso. Inoltre come ci si aspettava, gli studenti che vivevano per conto proprio hanno evidenziato un più elevato benessere soggettivo rispetto a quelli che vivevano a casa con i genitori. Sarebbe utile, nei futuri studi, esplorare le cause della felicità e dell’infelicità in relazione alle diverse condizioni residenziali. Sebbene i risultati siano tutti generalmente nella direzione attesa, gli effect sizes non sono generalmente ampi. Inoltre le relazioni tra le variabili sono simili per gli studenti che vivevano in diverse condizioni, cioè le variabili agiscono similmente a seconda delle tre differenti situazioni abitative. Ciò significa che i tardo adolescenti e i giovani adulti che continuano a vivere a casa, sono tendenzialmente meno sicuri, meno impegnati in società e meno felici, ma tra essi, quelli che si trovano nella condizione peggiore sono quelli con un attaccamento ansioso, disimpegnati e senza forti convinzioni. In ogni caso, non tutti quelli che continuano a vivere con i genitori esibiscono questa costellazione di problemi, quindi le preoccupazioni riguardo la famiglia lunga dovrebbero essere dirette specialmente alle famiglie-lunghe dei giovani adulti con un attaccamento ansioso, disimpegnati a livello civico e morale e infelici, in quanto con elevata probabilità sono caratterizzate da una particolare tipologia di pratiche educative (Cassidy, Shaver, 2008). È facile supporre che tali giovani siano più inclini all’abuso di droghe e a sensazioni di alienazione, sebbene tale possibilità debba essere più approfonditamente esplorata in studi futuri.

5. Proposta pedagogica Ci si propone di organizzare, presso l’università, dei laboratori creativi di death education. La partecipazione attiva a tali laboratori consentirà l’acquisizione, da parte degli studenti, di due crediti formativi. Educare alla morte significa promuovere, nei giovani-adulti, il coraggio di divenire adulti, abbandonando i miti relativi all’infanzia, imparando a prendere delle scelte definitive e a vivere la quotidiana imperfezione. Crescere, infatti, vuol dire accettare la perdita di parti di sé in nome del perseguimento di un proprio percorso personale e professionale. L’uscita consapevole dalla casa genitoriale comporta una rottura del protettivo legame con il passato ed una esposizione al contagio nella communitas. Quest’ultima implica un dovere di dono reciproco, un obbligo a sporgersi fuori di sé, ad esporsi alla rischiosa contiguità con l’altro (Esposito, 1998). In accordo con quanto Mantegazza sostiene (2004, pp. 58-59), il processo di crescita può essere concepito come una morte: implica l’uccisione e il tradimento della perfezione infantile. È morte di ciò che è puro e vergine e rinascita all’adultità. Il target dei suddetti laboratori sarebbe costituito da studenti universitari italiani, la cui età sia compresa tra i 18 e i 38 anni.

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La finalità precipua consiste nella promozione dell’adultità, dell’uscita dalla appagante e bellissima ‘condizione fetale’, caratterizzata da uno stato di immaturità, dipendenza e bisogno che la permanenza presso la casa genitoriale può contribuire a procrastinare. Gli obiettivi principali riguardano: • la promozione del rispetto per la dimensione della fine e del limite. È importante che la finitudine e la provvisorietà vengano percepiti non come limiti da superare, attraverso impossibili progetti di immortalità, ma come coordinate essenziali dell’essere al mondo, anzi come basi per la delineazione di una solidarietà creaturale cosmica (Mantegazza, 2004, p. 122). Horkheimer scrive in proposito (1972, p. 147): “se gli uomini considerassero davvero se stessi come esseri finiti, accomunati dalla paura del dolore e della morte, uniti nella lotta per migliorare e prolungare la vita di tutti, si verrebbe a creare la vera solidarietà che comprende il momento della religione e la grande filosofia”; • il toglimento di quella patina di scontatezza da tutti gli oggetti/situazioni/individui che si crede saranno sempre a propria disposizione (Mantegazza, 2004, pp. 17-18); • la rottura della circolarità del tempo di Internet e dei new media – caratterizzato dall’eterno presente senza progettualità – tramite l’inserimento in esso della consapevolezza della morte; • l’eliminazione della paura del tempo vuoto; • l’esaltazione dell’importanza insita nel darsi autonomamente dei confini, al cui interno giocare la propria quotidianità; • la presa di contatto dei partecipanti con la propria interiorità; • la comprensione da parte dei giovani della propria volontà più profonda e la strutturazione di progetti per concretizzarla; • la canalizzazione positiva e creativa delle emozioni negative connesse alle idee di vuoto, mancanza, solitudine, distacco, morte; • la promozione di un’autonoma espressione di sé, indipendente dalle pressioni esterne, seppur all’interno delle regole contestuali; • lo sviluppo della competenza della resilienza utile a curare le proprie ferite senza negarle, a far tesoro dei fallimenti, volgendo lo sguardo oltre, ad accettare i limiti senza farne un dramma (Cyrulnik, 2002). Cyrulnik rappresenta la resilienza attraverso l’immagine del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno portando dentro di sé il ricordo drammatico dell’abbandono e la paura della morte; • la promozione della capacità di scelta e della felicità come diritto di tutte/i (solo chi è felice può potersi pensare come fragile e precario, perché sostenuto dall’intensità della sua felicità). Il metodo: i soggetti saranno stimolati a riflettere sulle tematiche sopraindicate, attraverso dei giochi e tramite l’espressione creativa. In accordo con quanto affermano Edgar e Howard-Hamilton (1994) la death education deve svolgersi in un clima sicuro e supportivo in grado di far sentire i partecipanti liberi e, allo stesso tempo, sicuri di poter esprimere le proprie emozioni ed esperienze, in un ambiente che le accolga e le sappia gestire in modo adeguato; • si richiederà di disegnare il proprio autoritratto prima e dopo un immaginato incontro con la morte, per rappresentare il senso di crescita o di regressione che l’esperienza della morte, seppur solo pensata, suscita. È importante che i ragazzi sperimentino l’ek-stasis di una morte fittizia e artificiale, che sia frattura e individuazione, rottura della quotidianità e salto verso differenti e adulte organizzazioni di sé. La profonda consapevolezza della morte comporta un’uscita da sé, un’intuizione dell’infinita pluralità dei modi di affrontare l’avventura della vita (Mantegazza, 2004, pp. 132-135); • si porteranno i giovani a ricordare le morti di cui sono stati e sono testimoni, per far

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sentire loro una forma di potere sulla morte, che non sia necessariamente quello di procurarla; • si chiederà ai soggetti di preparare la propria morte, di anticiparla nella fantasia, di organizzarla fermandosi prima del momento decisivo. Giocare a morire, fingere di essere morti sono attività pericolose, ma educative se realizzate all’insegna della sfida della crescita; • si farà in modo che ciascuno espliciti narrativamente, anche solo nella dimensione della finzione o del gioco, il proprio implicito progetto di morte. “come ti piacerebbe morire?...come pensi la tua morte, quale morte vorresti mettere in scena, potendo scegliere?” tutte le rappresentazioni sono utili nella direzione di una gestione anticipata del distacco; • gli adolescenti saranno invitati a disegnare la loro tomba. Tale attività smuove emozioni, vissuti non sempre facili da controllare, permette anche di ragionare sull’immagine di sé che si intende lasciare. Pensare che la morte sia già presente costituisce un pretesto per modificare qualche elemento della propria vita. Preparare la morte significa percepirne la presenza potenziale ogni giorno…”anche nella luminosità della campagna a maggio o nell’addormentata città ferragostana” (Mantegazza, 2004, p. 135). Non significa vivere nell’incubo, ma, sotto il segno della comune precarietà, vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo; • si forniranno diversi materiali, come fogli, colori a tempera, pennelli, pastelli, perle, nastri. Si chiederà ai partecipanti di trovare un proprio posto nello spazio, di personalizzarlo e di utilizzare qualsiasi tipo di materiale, a propria scelta, per esprimere e canalizzare creativamente (in un ora e trenta minuti) le proprie emozioni rispetto a temi quali: la famiglia; la solitudine; la morte; l’allontanamento dalla casa genitoriale. Al termine del lavoro si chiederà di improvvisare una performance per mostrare agli altri la propria opera. Come sostiene Dallari (2005, p. 210) l’educatore, l’insegnante, l’animatore culturale, il terapeuta che vogliano avvalersi di momenti di creatività all’interno dei loro setting, devono attivare eventi molto simili a quelli messi in atto dallo sciamano che, per guarire il posseduto, generava confusione, servendosi della danza, del rito, della suggestione ipnotica del fuoco. Si vuole presentare ai partecipanti l’occasione di confondersi e di sospendere le regole su cui si struttura il principio di realtà. In tal modo l’ordine simbolico verrebbe prima sovvertito, poi ripristinato, accogliendo nuove regole e nuovi paradigmi della rappresentazione. Si possono aiutare le persone a superare la convinzione che l’ordine simbolico sia assoluto e vero, portarle a uscire dal noto, da situazioni già amministrate, strutturate e assolutamente protettive. La scoperta della propria creatività comporta l’accettazione di intraprendere un viaggio mozzafiato nell’ignoto. Quanto più facile, confortevole e rassicurante è rimanere dove si è, tra facce e luoghi familiari? Intraprendere nuove direzioni implica coraggio, o, in altre parole, fede. Fede per cui, anche quando non ci sono segnali esterni che indichino dove e come si dovrebbe procedere, si sa profondamente che non ci si perderà mai.

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Tabella 1 Risultati descrittivi relative alle principali variabili, suddivise per genere Variabile V ariabile

Femmine Femmine Media M edia S SD D

Maschi Maschi Media M edia S SD D

t ((df)! dff)! 4.22 4. 22 0.59 0. 59 4.05 4. 05 7.04 7. 04

p

Attaccamento ansioso Attaccamento ansioso 2. 2.56 56 0.78 0. 78 2. 2.38 38 0.78 0. 78 ..000 0 000 Attaccamento A ttaccamento evitante evitante 3. 3.42 42 0.88 0. 88 3. 3.40 40 0.72 0. 72 nnss Attaccamento A ttaccamento sicuro sicuro 3.27 3. 27 0.65 0. 65 3. 3.13 13 0.62 0. 62 ..000 0 000 Disimpegno D isimpegno morale morale 1. 1.76 76 0.40 0. 40 1. 1.98 98 0.46 0. 46 ..000 0 000 ccivile ivile Convinizioni C onvinizioni religiose religiose 6. 6.83 83 2.43 2. 43 5. 5.97 97 2.46 2. 46 6. 6.76 76 ..000 0 000 Convinzioni C onvinzioni spirituali spirituali 3. 3.07 07 0.98 0. 98 2. 2.79 79 1.07 1. 07 5. 5.36 36 ..000 0 000 Convinzioni C onvinzioni personali p rsonali 3. pe 3.67 67 0.79 0. 79 3. 3.69 69 0.92 0. 92 0. 0.44 44 nnss Felicità F elicità 4.68 4. 68 1.09 1. 09 4. 4.59 59 1.06 1. 06 1. 1.58 58 nnss ! df ! 1560, eeccetto ccetto per per il il Disimpegno Disimpegno morale morale civile, civile, la la cui cui df = 745. 7

Effect ssize: Effect ize: Cohen’s Cohen’ n s d and and eeffect-size ffect-size r ..23 23 e ..11 11 .22 e ..11 .22 11 ..51 51 e ..25 25 .35 e ..17 .35 17 ..27 27 e ..14 14

Tabella 2 Correlazione tra alcune variabili chiave 1 1. A Attaccamento ttaccamento ansioso ans n ioso 2. A Attaccamento ttaccamento evitante evi v tante 3. A Attaccamento ttaccamento sicuro sicuro 4. D Disimpegno isimpegno morale morale civile civile

2

3

---- ..031 031 --.022 .022 ----

4

5

6

7

..186** 186**

--.015 .015

--.043 .043

--.086** .086** --.398** .398**

--.300** .300** ..133** 133** ----

--.140** .140** --.094** .094** ..042 042

--.115** .115** ..070** 070** ----

5. C Convinizioni onvinizioni religiose religiose 6. C Convinzioni onvinzioni spirituali spirituali 7. C Convinzioni onvinzioni personali personali 8 F 8. Felicità elicità

..122** 122**

..086** 086**

8

--.055 .055 ..166** 1666**

--.194** .194** --.157** .157** --.060 .060

--.053 .053

----

..677** 677**

..108** 108**

..126** 1266**

----

..329** 329**

..118** 1188**

----

..110** 1100** ----

** p < ..01 01

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Tabella 3 Medie e Deviazioni Standard dello stile d’attaccamento dei partecipanti con diverse condizioni residenziali

Condizione Condizione Attaccamento A ttaccamento ansioso ansioso A Attaccamento ttaccamento evitante evitante A Attaccamento ttaccamento sicuro sicuro rresidenziale esidenziale M Media edia SD S D Media M edia SD S D Media M edia SD S D Con C on i 2. 2.54 54a ..79 79 3.40 3. 40aa,b,b ..80 80 3.20 3. 20 ..65 65 genitori ge nitori ((nn = 1061) 1061) Varia V aria 2.50 2. 50a ..80 80 3.37 3. 37b ..74 74 3.26 3. 26 ..62 62 ((nn = 224) 224) Per P er conto contto 2. 22.32 32b ..73 73 3.53 3 3. 53a ..95 95 3.27 3 3. 27 ..61 61 proprio pr oprio ((nn = 278) 278) i d i l i if i i diff i (p i accordo d con il test i i in una determinata colonna sono significativamente differenti in Nota. Le medie con diversi soprascritti in una determinata colonna sono significativamente differenti (p < .05) in accordo S con il test Scheffé. Tabella 4 Regressione che predice il disimpegno civile e morale da altre variabili Step Variabili Step Variabiili predittrici predittrici 1 Genere G enere Età E tà 2 Genere G enere Età E tà Condizione C ondizione residenziale residenziale 3 Genere G enere Età E tà Condizione C ondizione residenziale residenziale Attaccamento A ttaccamento ansioso ansioso Attaccamento A ttaccamento sicuro sicuro Attaccamento A ttaccamento evitante evitante 4 Genere G enere Età E tà Condizione C ondizione residenziale residenziale Attaccamento A ttaccamento ansioso ansioso Attaccamento A ttaccamento sicuro sicuro Attaccamento A ttaccamento evitante evitante Convinizioni C onvini n zioni religiose religiose Convinzioni C onvinz n ioni spirituali spirituali Convinzioni C onvinz n ioni personali personali

! ..26 26 --.05 .05 ..25 25 --.03 .03 --.12 .12 ..28 28 --.03 .03 --.10 .10 ..21 21 --.05 .05 ..13 13 ..26 26 --.03 .03 --.13 .13 ..20 20 --.05 .05 ..11 11 --.18 .18 ..00 00 --.05 .05

SE SE ..03 03 ..01 01 ..03 03 ..01 01 ..02 02 ..03 03 ..01 01 ..02 02 ..02 02 ..03 03 ..02 02 ..03 03 ..01 01 ..02 02 ..02 02 ..02 02 ..02 02 ..01 01 ..02 02 ..02 02

t 7.14 7.14 --1.34 1.34 7.04 7 .04 --0.83 0.83 --3.43 3.43 8.09 8. 09 --0.87 0.87 --2.87 2.87 5.89 5. 89 --1.52 1.52 3.53 3. 53 7.50 7. 50 --0.71 0.71 --3.81 3.81 5.91 5 5. 91 --1.31 1.31 3.05 3. 05 --3.79 3.79 0.02 0. 02 --1.26 1.26

p ..000 000 ..181 181 ..000 000 ..410 410 ..001 001 ..000 000 ..383 383 ..004 004 ..000 000 ..130 130 ..000 000 ..000 000 ..476 476 ..000 000 ..000 000 ..189 189 ..002 002 ..000 000 ..984 984 ..210 210

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ricerche Valutazione come classifica e autovalutazione come ricerca Evaluation as a ranking and self-evaluation as research CRISTIANO CORSINI Il contributo mette a confronto due approcci opposti alla valutazione della qualità di scuole e insegnanti.Viene in primo luogo presentato il progetto ministeriale di accountability educativa che basa sulla misurazione dei risultati degli studenti l’attivazione di processi di miglioramento nelle scuole. Come viene descritto nel contributo, tale approccio può avere numerose conseguenze indesiderate. L’altro metodo preso in considerazione è quello incentrato su percorsi di autovalutazione degli insegnanti coadiuvati da esperti. Il contributo descrive il percorso di autovalutazione realizzato da tre scuole primarie della periferia romana. Il percorso ha visto l’utilizzo di strumenti per la valutazione: (I) del rendimento degli studenti, (II) della percezione, da parte degli alunni, del clima di scuola, del clima di classe e dei rapporti con compagni e insegnanti, (III) della soddisfazione da parte dei genitori rispetto alla scuola e ai docenti, (IV) della valutazione dell’istituto da parte degli insegnanti, (V) del retroterra socio economico degli studenti. Mentre un approccio incentrato su una valutazione calata dall’alto può comportare effetti indesiderati sul lavoro di insegnanti ed educatori, la riflessione e la discussione avviata dagli insegnanti sulla base dei risultati e dei processi di un percorso di autovalutazione possono stimolare il miglioramento educativo.

This paper compares two approaches to schools’ and teachers’ quality assessment. The first approach is the accountability program presented by the Ministry of Education, an outcome-based top-down project which aims to improve the effectiveness of teachers and schools by assessing students’ achievement. Such a way has many pitfalls and unintended consequences and this paper aims at stressing them. The second way to schools’ assessment is an action-research approach, based on self-evaluation projects carried out by teachers and researchers. The paper describes the self-evaluation project carried out by three primary schools in Rome. Five tools have been used in order to assess (I) students’ achievement, (II) students’ perception of school and classroom climate and relationship with peers and teachers, (III) parents’ satisfaction about schools and teachers, (IV) teachers’ assessment of schools, (V) students’ background and socio-economic status. While a top-down approach to school effectiveness assessment may entails negative effects on pupils and educators, teachers’ discussion and consideration of data and process of self-evaluation programmes can lead up to improvement actions.

Parole chiave: valore aggiunto, valutazione di sistema, valutazione dei risultati, testing, autovalutazione, efficacia scolastica, miglioramento.

Keywords: value-added, accountability, outcome-based assessment, testing, selfevaluation, school effectiveness, school improvement.

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For scientific purposes treat people as if they were human beings Rom Harré, Paul F. Secord (1972, p. 84)

In un breve lasso di tempo la valutazione delle scuole e degli insegnanti è stata oggetto di due rilevanti documenti: il primo, presentato dall’INVALSI, è risalente al dicembre del 2008 (Checchi, Ichin,Vittadini, 2008), mentre il secondo, la Proposta di progetto sperimentale del MIUR (2010) per valutare le scuole e per premiare gli insegnanti meritevoli, è datato novembre 2010. Le due proposte assegnano un ruolo determinante alla misurazione del “Valore Aggiunto”, ossia dell’incidenza dei singoli istituti sul miglioramento degli studenti e sui loro apprendimenti, rilevati attraverso la somministrazione di prove standardizzate1. L’idea alla base delle proposte è quella di incentivare processi di miglioramento nelle scuole premiando2 quelle che evidenziano i miglioramenti più significativi nelle prestazioni degli studenti. Ai due documenti va riconosciuto l’indubbio merito di fare chiarezza sull’indirizzo che darà forma alla valutazione di scuole e insegnanti. La centralità assegnata al Valore Aggiunto è rivelatrice dell’assunzione dei sistemi statunitensi e britannici di accountability educativa a modello di riferimento. In tali contesti, seppur in forme diverse, la misurazione del Valore Aggiunto riveste un ruolo fondamentale nella valutazione del lavoro svolto da istituti e docenti: sulla base di esso vengono stilate classifiche di efficacia delle scuole che, in Inghilterra, sono rese pubbliche e facilmente consultabili. La logica di tali sistemi di accountability si basa sulla pretesa attivazione, in un sistema di premi e sanzioni3, di meccanismi di miglioramento nelle scuole in seguito alla pressione esercitata dalla concorrenza degli altri istituti. Considerata la scelta effettuata da INVALSI e MIUR rispetto al modello da seguire, sembra appropriato soffermarsi sul complesso tema della validità di un sistema di accountability educativa incentrato sul testing. Sebbene nei paesi dai quali si è scelto di importare il modello la questione sia da tempo oggetto di discussione, da noi è sopraggiunta solo una flebile eco di tale dibattito (Corsini, 2008a). In primo luogo, emerge un problema legato alla validità di contenuto delle prove, che fanno riferimento esclusivo a risultati scolastici di tipo cognitivo e tendono a concentrarsi su un numero ristretto di conoscenze (rilevate, nel caso delle proposte presentate da MIUR e INVALSI, per mezzo di prove oggettive). Limitandoci alle problematiche più note, documentate dalla cronaca oltre che dalla letteratura di ricerca, va sottolineato come l’impiego di misure tanto parziali e riduttive, a fronte di un’elevata posta in gioco, comporti lo schiacciamento della didattica sulle sole conoscenze oggetto di misurazione e l’addestramento degli studenti rispetto alla forma delle prove da affrontare (teaching to the test). È stato rilevato (Corsini, 2008b, pp. 605-615) inoltre che la definizione dell’efficacia degli educatori sulla base dei miglioramenti nei risultati degli allievi pone problemi di validità del costrutto. Addossare agli insegnanti tutta la responsabilità delle variazioni nel rendimento degli studenti (ammesso e non concesso che tale operazione sia legittima4) non aiuta di per sé a chiarire quali siano le caratteristiche degli insegnanti e delle scuole efficaci. Una conseguenza rilevante è che la scelta di incentrare la valutazione dell’efficacia scolastica

1 Entrambe le proposte fanno riferimento alle prove standardizzate somministrate dall’INVALSI. 2 La proposta ministeriale prevede la determinazione di una graduatoria di qualità delle scuole, basata su una misurazione del Valore Aggiunto e una ispezione degli Istituti. Alle scuole che si collocheranno nella fascia più alta della graduatoria verranno assegnati fino a 70000 euro. 3 Bassi punteggi di Valore Aggiunto possono comportare per un istituto e per il suo personale, oltre all’umiliazione causata dalla pubblicazione di risultati negativi, la riduzione dei finanziamenti e l’amministrazione controllata. 4 Si tratta di indagini correlazionali (non sperimentali) e non è dunque corretto trarre inferenze causali.

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sul Valore Aggiunto non consente automaticamente agli educatori di individuare quali elementi del proprio lavoro li hanno portati ad aggiungere o a togliere valore alla preparazione degli studenti. Conoscere la posizione della propria scuola in una graduatoria di efficacia non aiuta, di per sé, uno staff educativo a migliorare le proprie prestazioni, anche in presenza di un sistema nel quale gli istituti siano messi in concorrenza tra di loro. Secondo Fitz-Gibbon e Kochan (2000, pp. 257-280), there is no accountability without causality. Indicators about aspects which schools feel unable to alter are not fair. I modelli di accountability presi in considerazione si fondano su una visione superficiale e squilibrata del rapporto tra misurazione e valutazione. In tali contesti la misurazione non nasce e confluisce (Visalberghi, 1955) nella valutazione ma assume un ruolo egemone, inibendo la ricerca di altre rilevanti informazioni, utili a informare il giudizio sul lavoro degli insegnanti. Con ciò, viene messa in discussione la capacità di tali modelli di accountability di incidere positivamente sul lavoro dei docenti, promuovendo la consapevolezza del ruolo che essi esercitano nella promozione della crescita (non solo cognitiva) degli studenti e incentivando percorsi di autovalutazione scolastica che consentano ai colleghi di un istituto di agire come un’organizzazione che apprende.Viene così a mancare, con la validità di contenuto e costrutto, quella catalytic validity (Cohen, Manion, Morrison, 2007; Le Grange, Beels, 2005, pp. 115119)5 che dovrebbe rappresentare la ragion d’essere di un sistema di valutazione di scuole e docenti, ovvero la spinta a un reale miglioramento delle pratiche educative. Non sorprendono dunque le resistenze che la proposta avanzata dal MIUR sta incontrando nelle scuole6. Anche prescindendo dal teaching to the test, infatti, le preoccupazioni legate alla centralità assunta dalla misurazione di prestazioni nella valutazione delle scuole fanno riferimento a un complessivo immiserimento del rapporto di apprendimento-insegnamento, come evidenziano, in relazione al contesto britannico, MacBeath e McGlynn (2003, pp. 61-62), una valutazione che nasce da un modo di pensare competitivo e orientato alle classifiche conduce a un insieme di convinzioni e atteggiamenti che potrebbero essere incompatibili con un apprendimento in profondità o con l’imparare ad apprendere. Sono proprio MacBeath e McGlynn (pp. 23-41), tuttavia, a rilanciare il ruolo che la valutazione esterna può svolgere nel miglioramento del lavoro degli insegnanti, a condizione però di porsi in maniera complementare rispetto ai percorsi di autovalutazione d’istituto avviati dagli stessi docenti. In rapporto a tali percorsi la valutazione esterna può fornire uno sguardo critico e punti di riferimento che consentano al personale educativo un confronto affidabile con la qualità del servizio da essi offerto. Ed è stato proprio in base a tali esigenze che, nel 2008, le tre scuole primarie Graziosi, Pirandello e Ponte Galeria, appartenenti allo stesso Circolo Didattico della periferia ovest di Roma, si sono rivolte al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione e della Formazione della Sapienza, richiedendo un sostegno alla capillare azione di Autovalutazione che gli istituti avevano scelto di avviare. Per studenti, docenti e ricercatori del Corso di Laurea (Bacocco, 2009; Sabella, 2009)7 è stata un’importante occasione per avviare processi di ricerca provando sul campo strumenti di rilevazione relativi

5 Ovvero la capacità di un percorso valutativo di incidere sull’empowerment di chi viene valutato. 6 Nelle città nelle quali dovrebbero partire i progetti, la maggior parte dei Consigli d’Istituto ha già espresso parere negativo, cfr. Salvo Intravaia, Pagelle ai prof, il flop del progetto, la Repubblica, 18 dicembre 2010. 7 Il percorso è stato seguito dall’esercitazione di ricerca Autovalutazione nella scuola, a.a. 2008-09, condotta dai docenti Giorgio Asquini e Cristiano Corsini e dai mentori Barbara Bacocco, Morena Sabella e Silvia Sisti. L’esperienza di ricerca ha dato luogo, nel 2009, ai lavori di tesi di Bacocco e di Sabella.

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alle diverse dimensioni (contesto, relazioni interne ed esterne, processo, prodotto) della vita scolastica. Nella figura 1 vengono elencate le fasi del percorso di Autovalutazione, che si è aperto (febbraio 2008) con la scelta di procedere con la somministrazione un questionario alle famiglie degli studenti (maggio 2008) e si è chiuso con la restituzione al collegio docenti dei risultati del SASI-S e delle prove di comprensione della lettura (giugno 2009). Tutti gli strumenti utilizzati sono stati proposti dall’Università e negoziati con i componenti del nucleo di Autovalutazione delle tre scuole. La figura 2 fornisce una sintesi degli strumenti usati. Febbraiomarzo 2008 Aprile 2008

Maggio 2008 Giugno 2008 SettembreOttobre 2008 Novembre 2008 Gennaio 2009

Incontro tra la dirigenza, il nucleo di Autovalutazione e l’Università: accordi sulle aree da sottoporre a valutazione, presentazione del percorso al Collegio docenti Proposta del questionario La percezione Strumento tratto da R. Bolletta, P. Maruca, G. dei genitori, negoziazione e aggiunta di Musumeci, I genitori e la scuola 17. item maggiormente attinenti al contesto Strumento consegnato alle famiglie di 470 studenti, Somministrazione del questionario La pari al 50% della popolazione (è stata scelta una percezione dei genitori classe su due). Sono stati restituiti 459 questionari compilati. Restituzione dei risultati del questionario genitori al Collegio docenti Proposta del questionario studenti Io la penso così

Strumento tratto da R. Bolletta, L. Ruggeri, “Io la penso così…”: La percezione degli alunni18.

Somministrazione del questionario Io la penso così

Strumento somministrato ai 321 studenti delle 18 classi quarte e quinte delle tre scuole.

Restituzione dei risultati del questionario alunni al Nucleo di Autovalutazione Strumento tratto da M. Ferrari, D. Pitturelli, SASIS, Strumento di Autovalutazione della Scuola (all’Infanzia alla Secondaria), Franco Angeli, Roma, 2008. Strumento consegnato ai 101 docenti delle tre scuole. Sono stati restituiti 97 questionari compilati.

Febbraio 2009

Proposta del questionario insegnanti SASI-S al Collegio docenti

Marzo 2009

Presentazione delle modalità di compilazione e consegna al Collegio docenti dei fascicoli del SASI-S

Maggio 2009

Restituzione dei risultati del SASI-S al Nucleo di Autovalutazione

Maggio 2009

Maggio 2009 Giugno 2009

4 prove: Alla ricerca di cibo, basata su un testo informativo e tratta dalla ricerca internazionale IEA ICONAScelta, da parte del Nucleo di PIRLS; Autovalutazione, della Comprensione Re Leone e Madama Volpe (testo stimolo: della lettura come competenza degli narrativo) e La tastiera QWERTY (Testo stimolo: alunni (di classe quinta) da sottoporre a informativo), costruite nel corso dell’esercitazione valutazione. Proposta e presentazione di ricerca Misurare l’efficacia scolastica; Il mio amico Anselm (testo stimolo: narrativo), delle prove costruita nel corso dell’esercitazione di ricerca Autovalutazione nella scuola sulla base di un testo fornito dal Nucleo di Autovalutazione Somministrazione delle prove di Strumento somministrato ai 165 studenti delle 9 comprensione della lettura classi quinte delle tre scuole. Restituzione al Collegio docenti dei risultati del SASI-S e delle prove di Comprensione della lettura. Interviste con i docenti sul percorso di Autovalutazione

Figura 1. Fasi e soggetti coinvolti nel percorso di Autovalutazione

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Figura 2. Aree oggetto di valutazione e strumenti utilizzati

La restituzione dei risultati ai docenti è avvenuta sulla base delle seguenti esigenze: 1) esplicitare la distanza esistente tra le rilevazioni e i precisi livelli considerati ottimali dai costruttori degli strumenti (e condivisi dal Nucleo di Autovalutazione); 2 2) consentire un confronto tra le diverse dinamiche presenti all’interno delle tre scuole e delle singole classi; 3) mettere in relazione, via via che venivano somministrati i diversi strumenti, i risultati ottenuti attraverso di essi. I dati sono stati aggregati sia a livello di istituto sia a livello di classe.Tuttavia, in occasione delle restituzioni al collegio docenti, per non inibire il confronto e la riflessione sui risultati, a ciascuna classe è stato assegnato un codice in modo da consentire il riconoscimento solo su richiesta riservata del singolo docente. I percorsi di riflessione avviati dai docenti si sono quindi concentrati sulle aree di maggiore criticità e, in particolare, su quelle in cui le differenze tra le scuole e tra le classi sono risultate significative. Osservando la figura 3, che riporta il diverso peso esercitato da scuole e classi sulle variabili oggetto di rilevazione (l’ampiezza degli effetti è indicata dalle quote di varianza spiegata dai due livelli di aggregazione dei dati), è possibile notare come i fattori operanti a livello di classe risultino maggiormente

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determinanti. Non a caso la correlazione riscontrata tra il rendimento degli studenti alle prove di Comprensione della lettura e il Clima di lavoro in classe8 ha suscitato un prolungato dibattito tra gli insegnanti e ha spinto alcuni di essi a un confronto con i propri studenti (sui rapporti tra gli alunni e tra questi e gli insegnanti) che si è aperto proprio con una riflessione guidata dalle domande poste dal questionario.

Figura 3. Le differenze significative tra Scuole e tra Classi. Dati aggregati a livello di Scuola e di Classe, varianza spiegata (%) dal livello di aggregazione dei dati e significatività statistica

Anche se il supporto fornito dal Corso di laurea si è temporaneamente arrestato nel giugno 2009, le attività di autovalutazione avviate dai docenti non si sono interrotte. Le prove somministrate dal Servizio Nazionale di Valutazione nel corso dell’ultimo anno scolastico hanno rappresentato per i docenti (ai quali si sono aggiunti i colleghi della scuola secondaria inferiore che rappresenta il maggiore bacino di destinazione degli alunni delle tre scuole primarie) un’occasione per riavviare un programma di ricerca e miglioramento. In questo caso lo scopo sarà quello di individuare le scelte didattiche e organizzative alle quali sia possibile imputare i risultati degli studenti e valutare, nel contempo, quanto gli strumenti utilizzati dall’INVALSI consentano agli alunni di dimostrare quel che hanno appreso a scuola. 1 Riferimenti bibliografici Bacocco B. (2009). Fare la differenza. Roma: Nuova Cultura. Barzanò G., Mosca S., Scheerens J. (2000). L’autovalutazione nella scuola. Milano: Paravia-Bruno Mondadori.

8 Il coefficiente di correlazione di Pearson è pari a 0,447, sig. 0.01.

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ricerche Costruire corresponsabilità formativa e valutativa nella scuola. Una ricerca sull’idea (non) condivisa di “buon comportamento scolastico” Building a participated responsibility for education and evaluation in schools A research on a (not) shared idea of “positive school behaviour” ROSSELLA GIOLO - VALENTINA GRION Come in altre nazioni europee, la recente normativa scolastica italiana ha focalizzato l’attenzione del mondo della scuola sull’importanza del comportamento scolastico degli studenti, richiedendone una valutazione puntuale ed estesa. In tal senso le scuole si sono mosse alla ricerca di strumenti valutativi adeguati. Nell’ambito di un processo preparatorio alla costruzione di una rubrica di valutazione del comportamento, attivato in una scuola superiore, ha preso le mosse una ricerca volta ad esplorare i significati attribuiti da docenti e studenti all’idea di “buon comportamento scolastico” e se questi fossero condivisi. Con un disegno di ricerca misto le ricercatrici hanno individuato le dimensioni del costrutto “buon comportamento scolastico” in docenti e studenti. I risultati rendono evidente la necessità che le scuole attivino processi di condivisione dell’idea. Alcune implicazioni educative vengono discusse.

As in other European countries, recent Italian school legislation has turned the attention of the education community to the importance of student behavior in school, and asks for a precise and detailed evaluation of this behavior. In this light, schools have begun to look for appropriate evaluative tools. During the preliminary phases of the creation of a behaviour evaluation rubric in a high school, research was carried out with the aim of exploring and identifying the meanings given by teachers and students to the idea of “positive school behaviour”, and whether these concepts are shared. Using a mixed method design, researchers have individuated some dimensions of the construct of “positive school behaviour” in teachers and students. Results show the need for schools to now share these ideas. Some educational implications are discussed.

Parole-chiave: comportamento scolastico, valutazione, assessment, rubrica, corresponsabilità, metodo misto.

Keywords: school behavior, evaluation, assessment, rubric, shared responsibility, mixed method.

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1. La valutazione della condotta in Italia nel contesto delle politiche scolastiche europee Già da qualche anno alcune grandi nazioni europee, nell’ambito delle loro politiche scolastiche, hanno posto particolare attenzione al “comportamento scolastico” collocando la “buona condotta”, fra i prerequisiti imprescindibili per la realizzazione di contesti scolastici efficaci e garanti del benessere degli studenti, e le azioni volte a perseguirne i miglioramenti «responsabilità condivise fra governo, scuole, autorità locali, genitori e studenti stessi» (Steer, 2009, p. 5). In Francia il buon comportamento scolastico è stato definito come una delle competenze fondamentali per perseguire la formazione degli studenti, contribuire a costruire il loro avvenire personale e professionale e la loro piena riuscita nella vita e nella società1. La particolare attenzione posta dalla scuola francese all’assunzione di responsabilità (individuale e collettiva) degli allievi in riferimento al proprio comportamento scolastico è rispecchiamento dell’idea che autonomia, responsabilità, apertura agli altri, rispetto di sé e degli altri e spirito critico facciano parte di quelle competenze considerate le socle commun di tutto il sistema formativo, ossia quei “saperi irrinunciabili” nel contesto di un’educazione lifelonglearning. Nelle due grandi realtà europee di Francia e Regno Unito le indicazioni governative intorno all’idea di comportamento scolastico risultano di ampio respiro, proponendo una serie di programmi2 tesi a incentivare la riflessione e la formazione di docenti e dirigenti intorno al tema in oggetto, incentivando le partnership fra scuole e con le famiglie e le attività scolastiche finalizzate a promuovere condivisione e consapevolezze rispetto al “buon comportamento scolastico”. Inoltre riflettono l’idea che il buon comportamento non sia qualcosa di innato, ma «essenzialmente un apprendimento e perciò la sua gestione un problema educativo, piuttosto che morale» (Weare, Gray, 2003, p. 23), ossia il risultato di una progressiva diffusione, nella scuola, di una cultura della responsabilità comune, della valorizzazione e del rispetto reciproci fra attori della comunità scolastica (Steer, 2009). Forse in ritardo rispetto ad altri paesi europei, anche nell’ambito dei processi di riforma del sistema scolastico italiano si è recentemente posta una certa attenzione al tema del comportamento scolastico, con l’emanazione di una serie di norme finalizzate alla valutazione della condotta degli alunni. Al percorso normativo, seppure caratterizzato da aspetti non sempre condivisibili, perché diretti maggiormente a controllare il comportamento degli allievi “attraverso sanzioni” piuttosto che a indirizzarne la formazione (Grion, Giolo, 2010), vanno comunque riconosciuti alcuni meriti. Innanzitutto quello di avere focalizzato l’attenzione sul “comportamento”, assumendo in questo modo quest’ultimo come dimensione reciprocamente legata al rendimento scolastico e dunque influente sulle performances cognitive. Afferma ad esempio Salerni (2005) che «Mantenere la disciplina, riuscire a tenere l’ordine in classe, far rispettare le principali regole di comportamento in gruppo […è] una delle principali

1 Così viene definito da EduScol, organismo accreditato come portavoce e interprete del francese Ministère d’Education Nationale. 2 Per quanto riguarda il consistente programma inglese rivolto a gestione, formazione, valutazione del comportamento a scuola si veda la documentazione presente in http://nationalstrategies.standards.dcsf.gov.uk/primary/behaviourattendanceandseal/behaviour. Per la realtà francese si veda l’Action éducative proposta dal Ministère Éducation Nationale “Apprentissage de la responsabilité” la cui documentazione è presente in http://eduscol.education.fr/cid47749/apprendre-vivre-ensemble.html.

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preoccupazioni degli insegnanti, una precondizione per poter lavorare, e, dunque, un obiettivo il cui raggiungimento contribuisce, peraltro, in modo rilevante al successo dell’attività didattica e formativa» (p. 13). Analizzando in un loro ampio studio le relazioni fra comportamenti e apprendimenti scolastici, Petrides e colleghi (Petrides, Chamorro-Premuzic, Frederickson, Furnham, 2005) concludono che fra i maggiori foci dei governi impegnati nelle riforme scolastiche ci devono essere senza dubbio il curricolo e gli apprendimenti, ma è altrettanto importante che vengano messe in primo piano le strategie per migliorare i comportamenti, l’autostima e le relazioni sociali e personali. In tal senso lo studio e lo sviluppo di strategie finalizzate ad incentivare negli studenti processi di cambiamento degli stili di comportamento a scuola e la progettazione di ambienti formativi incentivanti l’assunzione di forme alternative di comportamento e di responsabilità sono citati dagli stessi autori come aree di ricerca particolarmente bisognose di studio e approfondimento in relazione ad una migliore qualità dei processi formativi. Una secondo rilievo positivo in relazione al contesto italiano va fatto relativamente al “Regolamento sulla valutazione degli studenti” norma cui le scuole fanno oggi riferimento per la valutazione del comportamento degli alunni. Sono rilevabili, in tale disposizione, alcuni passi degni di attenzione e ascrivibili ad una logica della responsabilizzazione e corresponsabilità degli studenti (vicina all’apprezzabile ottica francese), piuttosto che a quella del controllo sanzionatorio. L’accenno che vi si fa all’autovalutazione come momento fondamentale del processo valutativo, la necessità che quest’ultimo sia diretto a supportare consapevolezza e responsabilità, da parte degli allievi rispetto al proprio agire sociale, permettono di ritrovare in questo documento alcuni elementi tipici dell’ottica costruzionista del new assessment, prospettiva per la quale gli studenti sono coinvolti come «attori a pieno titolo della comunità di apprendimento, riconoscendo loro una piena e completa partecipazione a tutte le pratiche ivi svolte, comprese quelle valutative, continue e pervasive» (Varisco, 2004, p. 259).

2. Comportamento scolastico e formazione Come dimostrano anche le politiche scolastiche europee, da qualche tempo la considerazione verso le variabili sociali dell’educazione, oltre che verso quelle riferite alle abilità cognitive, si è imposta all’attenzione di chi, a vario titolo si occupa di educazione scolastica. Innanzitutto perché, come la ricerca psico-pedagogica sul disagio scolastico ha sottolineato, ci si è resi conto che comportamenti scolastici problematici rappresentano fattori coinvolti nel realizzarsi delle peggiori prestazioni (Petrides et al. 2005). Come rilevano anche Franta e Colasanti (1993, p. 295), gli studi su fenomeni quali l’abbandono, il disadattamento, la demotivazione hanno posto in evidenza l’importanza di porre particolare attenzione alle esperienze che gli allievi fanno nel gestire le relazioni sociali e nell’affrontare le attività didattiche e hanno sottolineato «come l’adeguamento alle richieste poste dall’istituzione scolastica sia funzione non solo di variabili cognitive, ma anche affettivo-comportamentali». Un secondo motivo che ha alimentato tale considerazione, deriva da quegli orientamenti pedagogici che ritengono l’apprendimento un fenomeno prodotto dalla partecipazione attiva dei soggetti alla costruzione delle conoscenze all’interno dei diversi contesti, ponendo l’accento sull’importanza dei processi relazionali e delle variabili contestuali che li caratterizzano. Nell’ambito di tali prospettive si è rilevata l’urgenza, da parte della scuola, di non limitarsi a trasmettere contenuti, destinati fra l’altro a mutare velocemente con il modificarsi del progresso scientifico, ma di impegnarsi allo scopo di formare persone in grado di affrontare autonomamente e con competenza i compiti che quotidianamente si presentano

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loro. È proprio in quest’ottica che Lucisano riflette: «È inutile memorizzare formule matematiche o date assunte in modo apodittico senza una comprensione profonda di ciò a cui si riferiscono. Così come è inutile imporre regole di comportamento formali alle quali non corrisponde una reale interiorizzazione e che vengono assunte e rispettate solo per timore di punizioni […]. La difficoltà della scuola a promuovere la disciplina del sapersi comportare deriva, nella maggior parte dei casi, dall’assenza della disciplina come processo di apprendimento». (2005, p. 10-11). Nella stessa prospettiva Salerni (2005) ragiona sul fatto che ottenere la disciplina in classe significa intendere la disciplina come l’effetto di un determinato intervento educativo e non come un mezzo. Intervento che deve mirare a far sentire gli studenti come parte di un gruppo, in modo che possano più facilmente e spontaneamente acquisire comportamenti disciplinari collettivamente accettabili e condivisibili. La disciplina, o se vogliamo “il buon comportamento” deve essere intesa non come il pedissequo rispetto e osservanza di determinate norme, ma come condivisione di regole di comportamento comune. Sottolineando l’importanza del “comportamento” come oggetto di apprendimento, ne deriva la necessità di indagini rivolte ad esplorare tale costrutto con lo scopo di farne emergere le componenti e conoscerne le dimensioni costitutive, per definire i criteri e le modalità che consentono di formulare giudizi valutativi accurati, soprattutto in ottica di valutazione formativa, rispetto a tali dimensioni. Va rilevato comunque che, secondo alcuni autori, il mondo della ricerca, e in particolare quello della psicologia dell’educazione, non sembra avere posto una grande attenzione al tema della valutazione del comportamento da una prospettiva specificamente “scolastica” (Shapiro, Kratochwill, 2000). Generalmente inoltre l’idea di comportamento è stata indagata all’interno di contesti caratterizzati da problematicità e/o disagio. Al contrario si ritiene che l’esplorazione del significato del “comportamento scolastico” risulti centrale in relazione ai “normali” processi di formazione e valutazione nella scuola. In controtendenza rispetto a questa situazione risulta invece lo studio di Franta e Colasanti (1993; 1995), orientato a definire le dimensioni del comportamento degli studenti in ambito scolastico. Gli autori definiscono il comportamento scolastico, o meglio, la personalità scolastica3, come costituita da due macro-aree: il comportamento sociale e quello di lavoro, nel concreto non sempre nettamente separabili. All’interno della prima macroarea si situerebbero quelle dimensioni che caratterizzano le relazioni sociali degli studenti fra di loro e con gli insegnanti. Le dimensioni appartenenti alla seconda macro-area riguarderebbero invece le componenti coinvolte nelle situazioni di compito. Le polarità positive (che per gli autori rappresentano le mete da raggiungere da parte dello studente, ossia gli obiettivi formativi della scuola) delle dimensioni appartenenti alla prima area farebbero riferimento alle buone capacità di percezione e di controllo delle situazioni e di integrazione nel gruppo. Per quanto riguarda il comportamento di lavoro, ossia di approccio al compito, un “buon comportamento” sarebbe caratterizzato da una capacità di impegno autonomo, di attenzione agli aspetti più significativi dell’attività, da una buona organizzazione di tempi e strumenti, da tranquillità e responsabilità di azione, da dinamicità nel lavoro, adattabilità ai diversi compiti e senso critico nelle proprie capacità. A differenza che nella ricerca degli autori citati, la nostra, qui presentata, non ha fatto riferimento ad un costrutto definito a priori sulla base della letteratura. Assumendo un “ap-

3 La personalità scolastica è definite dagli autori come “una totalità relazionale soggettiva che è l’esito dell’interdipendenza di componenti personali e situazionali, che costituisce una fondamentale risorsa personale dell’allievo nel suo interagire scolastico” (1993, p. 247).

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proccio naturalistico” (Lincoln, Guba, 1985), nostro interesse è stato quello di far emergere un “senso” del costrutto indagato, che fosse rappresentativo dei termini di significato che i partecipanti alla comunità scolastica hanno di esso.

3. La rubrica come strumento di corresponsabilità formativa/valutativa In un documento dell’Ente governativo inglese per l’educazione si rileva che fra i primi passi da attuare a scuola quando si voglia lavorare per il benessere dei suoi membri è quello di perseguire un consenso condiviso intorno alla terminologia di riferimento, esplorando le credenze ingenue e le possibili misconceptions dei partecipanti, elementi che possono impedire la comune comprensione, alterando l’efficacia dei processi attivati (Department for education and skills, 2005). A tale scopo i diversi momenti del processo valutativo, se assunto e realizzato in ottica new assessment, possono rappresentare contesti favorevoli alla definizione e condivisione dei significati della formazione. Nel caso specifico della ricerca di seguito presentata, il processo di costruzione di una rubrica di valutazione del comportamento scolastico si è rivelato terreno fertile in relazione alla esplicitazione e condivisione dei significati del costrutto “buon comportamento scolastico”. La rubrica, di solito definita nelle nostre scuole come “griglia valutativa”, si propone come strumento per chiarire ed esplicitare, in termini precisi e non ambigui, obiettivi, standard di apprendimento e criteri per la loro valutazione. Definita come strumento di punteggio (Goodrich, 1997) o come uno strumento per valutare un prodotto oppure una prestazione (McTighe,Wiggins,1999), la rubrica può aiutare i docenti nel loro compito valutativo delle performances dello studente. Suo scopo primario è quello di poter rendere il più possibile “oggettiva” la valutazione descrivendo dettagliatamente la prestazione che uno studente deve compiere e fornendo una scala di misurazione della stessa. Questo aspetto evidenzia subito la potenzialità della rubrica: essa riduce la soggettività nella valutazione di una abilità. Il grado di concordanza dei punteggi assegnati da due valutatori indipendenti, infatti, costituisce la misura dell’attendibilità dei criteri della valutazione stessa. Nella costruzione della rubrica è necessario operazionalizzare la prestazione da valutare, ossia descrivere dettagliatamente la forma, la topografia, i confini della prestazione da osservare, attraverso l’uso di indicatori e descrittori (Varisco, 2004). Gli indicatori permettono di individuare cosa si deve osservare di una prestazione mentre i descrittori ne offrono esempi, segnali o manifestazioni concrete che ne rendono più facile l’osservazione e l’analisi. È indispensabile, inoltre, definire i diversi livelli della prestazione chiarendo e rendendo espliciti i criteri di assegnazione del punteggio relativo a ciascun livello attraverso una rating scale. Attraverso indicatori e descrittori, che rendono evidente e trasparente le attese degli insegnanti relativamente al compito da svolgere e alle abilità da possedere, la rubrica permette agli alunni di controllare meglio i processi di realizzazione della prestazione richiesta. Inoltre la struttura stessa della rubrica fornisce loro efficaci feedback circa i propri punti di forza e le aree in cui hanno bisogno di migliorare. Infine, anche i genitori possono apprezzare l’uso della rubrica, poiché attraverso tale strumento riescono a conoscere esattamente cosa i propri figli debbano fare per raggiungere il successo scolastico. La rubrica diventa in tal modo, un potente strumento di comunicazione tra scuola e famiglia, poiché esplicita in un modo concreto e osservabile le condizioni che

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nella scuola hanno maggior valore, chiarisce la vision di fondo e la vision di eccellenza all’interno della stessa e permette di comunicarle agli studenti e ai genitori favorendo il loro coinvolgimento nel processo educativo e valutativo. In ottica new assessment, la rubrica può essere utilizzata per coinvolgere attivamente l’alunno nel proprio percorso formativo proprio in quanto può favorire l’attivazione e l’incremento di competenze non solo cognitive, ma anche e soprattutto meta-cognitive e auto-valutative, conducendolo a comprendere e condividere le procedure di valutazione e a gestire in modo sempre più competente i processi d’apprendimento (Comoglio, 2003; Glickman-Bond, Rose, 2006). In effetti «gli eventi di assessment possono non solo semplicemente produrre evidenze di apprendimento, ma costituire, essi stessi, significative occasioni d’apprendimento» (Sadler, 2010, p. 1).

4. Costruzione della rubrica di valutazione come percorso di ricerca È proprio allo scopo di definire e condividere l’idea di “buon comportamento scolastico” fra studenti e docenti di un Istituto scolastico superiore veneto, in relazione alla valutazione periodica e finale della condotta, introdotta dalla recente normativa sulla valutazione del comportamento, che ha preso le mosse una ricerca intorno al costrutto “buon comportamento scolastico”. L’esigenza manifestata inizialmente, da parte di un gruppo di docenti dell’Istituto, alle ricercatrici che sono intervenute a sostegno del percorso avviato, era quella di giungere a produrre uno strumento di valutazione del comportamento scolastico, competenza dalla natura complessa (Shapiro, Kratochwill, 2000) e perciò difficilmente valutabile. È sembrato opportuno attivare un processo di costruzione di uno strumento con utilizzo di rating scale, permettendo, tale sistema di misurazione, facile gestione da parte di personale non specificamente preparato, e il raggiungimento di dati affidabili e validi, attraverso pratiche attivabili in “contesto naturale” (Merrel, 2000). Condizione fondamentale per l’efficacia della rubrica, in riferimento a quanto precedentemente discusso, è che prestazione, indicatori e descrittori facciano riferimento a significati condivisi; la prestazione e la sua descrizione perciò si basino su una terminologia comunemente intesa da tutti i partecipanti alla comunità scolastica (Glickman-Bond, Rose, 2006). Alla luce di tali considerazioni sono emerse alcune domande di ricerca nel contesto del citato processo di costruzione della rubrica di valutazione del comportamento. Le ricercatrici cioè si sono chieste: • quale fosse l’idea di “buon comportamento scolastico” di docenti e studenti, ossia quali dimensioni la caratterizzassero; • se effettivamente l’idea di “buon comportamento scolastico” fosse condivisa da docenti e studenti, ossia se facesse riferimento a comuni dimensioni da considerare in fase di valutazione.

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5. La ricerca Partecipanti La ricerca si è svolta presso l‘Istituto Superiore di Montebelluna (TV), un Liceo a tre indirizzi: Linguistico, delle Scienze Sociali e delle Scienze Umane. La popolazione scolastica è costituita da 898 studenti, prevalentemente di sesso femminile, suddivisi in 41 classi, dalla I alla V Superiore, e da 101 docenti.Tutte le classi e tutti i docenti sono stati coinvolti nella ricerca.

6. Metodo Strumenti Il disegno della ricerca ha fatto riferimento al Mixed methods design di Tashakkori e Teddlie (2003), all’interno del quale sono previsti l’utilizzo e l’integrazione di procedure e strumenti di ricerca qualitativi e quantitativi. Gli strumenti d’indagine utilizzati sono stati: a) una domanda aperta scritta posta individualmente a ciascun partecipante: «delinea schematicamente le caratteristiche di uno studente dal “buon comportamento scolastico”»; b) una scala Likert di “senso del buon comportamento scolastico” con 17 affermazioni, ciascuna delle quali valutate su scala di intervalli a 4 valori, per indagare gli atteggiamenti dei partecipanti rispetto a tale idea4 (cfr. all. 1). Tali item-affermazioni sono stati individuati, sulla base della loro validità di contenuto, da un gruppo di esperti (15 insegnanti di diverse discipline dell’Istituto, e da 2 ricercatrici) che ha analizzato rubriche di valutazione del comportamento, di scuole nazionali e internazionali. Tali materiali sono stati il risultato di una approfondita ricerca di documentazione messa a disposizione dagli Istituti scolastici attraverso la rete Internet. La somministrazione dei due strumenti d’indagine a docenti e studenti è avvenuta in due fasi distinte, nell’ambito delle normali attività di lezione di ciascuna classe, durante un momento a ciò specificamente dedicato. In un primo momento è stato distribuito lo strumento d’indagine a domanda aperta e solo dopo il completamento della stesura del testo da parte dei partecipanti e la riconsegna del protocollo compilato ai somministratori, è stato somministrata la scala di “senso del buon comportamento scolastico. Tale successione si è resa necessaria onde evitare che le idee espresse negli item predefiniti potessero influenzare le idee ingenue dei partecipanti sul “buon comportamento scolastico. Sono stati raccolti 825 protocolli degli studenti e 31 dei docenti, per ciascuno dei due strumenti distribuiti. I numeri riflettono quelli della popolazione scolastica presente nelle classi al momento della somministrazione dei dispositivi di indagine. Vanno rilevati in tal senso i limiti di un campionamento non randomizzabile, visto il contesto “già dato” della scuola. La ricerca, quindi, cerca di fornire risultati significativi dal punto di vista teoricoconcettuale piuttosto che statistico.

4 Le affermazioni maggiormente condivise avrebbero costituito i possibili descrittori della rubrica di valutazione della condotta in co-costruzione nella scuola.

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Procedure

Sulla totalità dei dati raccolti attraverso il questionario a risposta chiusa le ricercatrici hanno operato analisi di tipo statistico. Su un numero ridotto5 di risposte alla domanda aperta hanno effettuato un’analisi qualitativa del contenuto. Per definire il numero di risposte da analizzare qualitativamente hanno seguito 2 criteri: a) il numero totale di risposte ottenute dai docenti (circa 1/3 del totale dei docenti della scuola); b) la proporzione fra il numero dei docenti e quello degli studenti presenti nella scuola. Dall’incrocio dei dati ottenuti attraverso la duplice analisi, quantitativa e qualitativa, si sono potuti delineare uno o più modelli teorici del costrutto “buon comportamento scolastico” emergente/i nel contesto analizzato; modelli costituiti dall’interazione/integrazione di categorie di analisi individuate a priori nella rubrica costruita da docenti e ricercatori e rilevate come statisticamente significative, con i significati esplicitati dai soggetti, individuati attraverso l’analisi qualitativa sulle risposte alla domanda aperta.

7. Risultati L’analisi quantitativa I dati ottenuti dalla somministrazione della scala Likert sono stai trattati utilizzando il pacchetto statistico SPSS (Statistical Package for the Social Sciences). Analisi statistiche di tipo descrittivo hanno evidenziato alcuni primi risultati degni d’interesse in relazione alle domande di ricerca (cfr. Tabb. 1 e 2). Innanzitutto si è rilevata una maggiore omogeneità da parte degli studenti rispetto ai docenti, nelle scelte di attribuzione di importanza di ciascun item. Si è inoltre individuato un differente ordine di priorità assegnato agli item da parte del gruppo degli studenti rispetto a quello dei docenti.

5 In relazione ad un’analisi di tipo qualitativo si è ritenuto di non esaminare la totalità delle risposte ottenute, ma di utilizzare dei criteri attraverso i quali ridurre il numero di risposte degli studenti. Partendo dal dato per cui i questionari dei docenti a disposizione erano circa un terzo rispetto al numero totale dei docenti, con un’equazione si è proceduto ad ottenere la stessa proporzione di questionari degli studenti rispetto alla totalità degli studenti frequentanti la scuola. Si è quindi ricavato il numero di questionari-studenti da analizzare per ciascuna classe coinvolta. Per ogni classe si è quindi proceduto ad una selezione randomizzata dei questionari in base al numero individuato.

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Studenti Item rispetta gli altri e le loro opinioni si rivolge educatamente a docenti e non docenti rispetta i materiali altrui frequenta regolarmente le lezioni utilizza correttamente ambienti e attrezzature scolastiche ed extrascolastiche rispetta l’orario di lezioni e attività extrascolastiche si impegna per migliorare il proprio apprendimento collabora con i compagni segue le indicazioni e le consegne giustifica tempestivamente assenze e ritardi usa un linguaggio corretto nelle interazioni mantiene l’ordine negli spazi che frequenta porta il materiale necessario svolge con diligenza il lavoro assegnato partecipa attivamente alle lezioni segue le lezioni con attenzione partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed extrascolastiche

Media 3,61 3,60 3,49 3,46 3,40 3,35 3,34 3,29 3,28 3,26 3,25 3,21 3,14 3,11 3,08 3,06 3,00

Std dev. ,643 ,632 ,703 ,703 ,685 ,748 ,722 ,742 ,700 ,904 ,735 ,762 ,796 ,739 ,756 ,750 ,827

Tab. 1: Statistiche descrittive: media e deviazione standard delle risposte date ai 17 item degli studenti

Docenti Item utilizza correttamente ambienti e attrezzature scolastiche ed extrascolastiche rispetta gli altri e le loro opinioni frequenta regolarmente le lezioni si rivolge educatamente a docenti e non docenti segue le lezioni con attenzione rispetta i materiali altrui svolge con diligenza il lavoro assegnato si impegna per migliorare il proprio apprendimento rispetta l’orario di lezioni e attività extrascolastiche mantiene l’ordine negli spazi che frequenta usa un linguaggio corretto nelle interazioni porta il materiale necessario partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed extrascolastiche partecipa attivamente alle lezioni segue le indicazioni e le consegne giustifica tempestivamente assenze e ritardi collabora con i compagni

Media 4,00 3,97 3,94 3,94 3,90 3,87 3,87 3,86 3,81 3,80 3,76 3,71 3,69 3,68 3,64 3,59 3,57

Tab. 2: Statistiche descrittive: media e deviazione standard delle risposte date ai 17 item dei docenti

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Std dev. ,000 ,180 ,250 ,250 ,539 ,341 ,562 ,441 ,477 ,407 ,435 ,461 ,471 ,475 ,488 ,694 ,568


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In un secondo momento, si è reso necessario valutare l’effettiva capacità della scala di conseguire l’obiettivo per cui è stata costruita: rilevare gli atteggiamenti condivisi che costituiscono l’idea di “buon comportamento scolastico”. Il presupposto della scelta degli item che costituiscono una scala Likert, infatti, è che essi siano correlati allo stesso concetto latente sottostante, ma non è detto che tale scelta, anche se operata dagli esperti, sia corretta. Bisognava accertare, quindi, attraverso il coefficiente di correlazione tra il punteggio complessivo di tutta la scala e quello di ogni singolo elemento che la costituiva, se ciascun item-affermazione si muovesse nella stessa direzione del punteggio globale. L’indice alfa di Crombach rende possibile valutare tale coerenza interna complessiva della scala utilizzata, eliminando quegli item insoddisfacenti perché caratterizzati da un indice di correlazione troppo basso. L’elevato alfa (.906), ricavato dai dati raccolti con la scala costruita, ha rilevato una elevata correlazione media tra gli elementi che la compongono., accertando la capacità di questi ultimi di essere buoni indicatori della stessa proprietà “buon comportamento scolastico”. Tuttavia, tale risultato non è sufficiente a garantire l’unidimensionalità della scala, in quanto gli elementi che la costituiscono potrebbero sottendere anche due o più proprietà. Un modo efficace per controllare l’unidimensionalità di una scala è costituito dall’analisi fattoriale (Corbetta, 2003). Com’è noto, scopo dell’analisi fattoriale è ridurre una serie di variabili fra loro correlate ad un numero inferiore di variabili ipotetiche (o fattori) fra loro indipendenti. Tale operazione consente di verificare se la scala relativa al costrutto “buon comportamento scolastico” è unidimensionale o pluridimensionale. L’analisi fattoriale condotta sugli elementi della scala (17 item) ha utilizzato il metodo di correlazione con rotazione Varimax, ed ha distribuito le saturazioni ottenute su 3 fattori: il primo saturato da 7 item-affermazioni, il secondo saturato da 4 item-affermazioni e il terzo fattore da 6. Il primo fattore è correlato con item-affermazioni relativi alla partecipazione all’attività scolastica, il secondo con item-affermazioni inerenti l’organizzazione scolastica, il terzo è correlato con item connessi al rispetto degli altri e dell’ambiente. (cfr. Tab 3).

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Fattore 1: Partecipazione all’attività scolastica segue le lezioni con attenzione svolge con diligenza il lavoro assegnato partecipa attivamente alle lezioni si impegna per migliorare il proprio apprendimento porta il materiale necessario segue le indicazioni e le consegne collabora con i compagni

,812 ,752 ,729 ,685 ,513 ,488 ,419

Fattore 2: Organizzazione scolastica giustifica tempestivamente assenze e ritardi rispetta l’orario di lezioni e attività extrascolastiche frequenta regolarmente le lezioni partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed extrascolastiche

,786 ,726 ,701 ,446

Fattore 3: Rispetto degli altri e dell’ambiente rispetta gli altri e le loro opinioni rispetta i materiali altrui usa un linguaggio corretto nelle interazioni utilizza correttamente ambienti e attrezzature scolastiche ed extrascolastiche si rivolge educatamente a docenti e non docenti mantiene l’ordine negli spazi che frequenta

,858 ,854 ,591 ,583 ,462 ,398

Tab. 3: Analisi fattoriale: Rotated Pattern Matrix

L’individuazione di questi tre fattori ci ha permesso di ricavare un’immagine più approfondita dell’idea di comportamento manifestata dai due gruppi presi in esame (docenti e studenti). Tali fattori, infatti, sono stati analizzati attraverso il test parametrico per campioni indipendenti t.di Student Test, evidenziando che il campione degli studenti si comporta diversamente rispetto al campione dei docenti in tutte le tre macroaree individuate. In particolare si vedano i seguenti risultati: 1) “partecipazione all’attività scolastica” p< 0,05 e t=5,093; 2) “organizzazione scolastica” p<0,05 e t=2,819; 3) “rispetto degli altri e dell’ambiente” p<0,05 e t=6,629. Tuttavia, una lettura più attenta dei valori assunti dalle medie di queste tre variabili permette di rilevare (cfr. Tab. 4) che, pur permanendo una differenza significativa tra le medie dei docenti e degli studenti, il fattore Organizzazione scolastica presenta una minore divergenza tra i due gruppi. La maggiore differenza si riscontra invece per il fattore Partecipazione all’attività scolastica, rivelando una più accentuata divergenza tra i due gruppi.

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Docente/Sudente

N

Mean

Mean Difference

Partecipazione all’attività scolastica

Studente Docente

825 31

21,83 25,52

3,682

Organizzazione scolastica

Studente Docente

825 31

13,0267 14,3226

1,29591

Rispetto per gli altri e per l’ambiente

Studente Docente

825 31

20,0279 22,7097

2,68180

Tab. 4: t.di Student Test

L’analisi qualitativa Il processo di analisi qualitativa si è svolto in due fasi, la prima top-down e la seconda botton up. Sono stati analizzati 31 testi di risposta dei docenti e 275 degli studenti, numeri derivati dai criteri di selezione delle risposte qualitative sopra indicati. Tramite l’ausilio del software di analisi testuale AtlasTi, i testi sono stati distinti in due corpora d’analisi, “Docenti” e “Studenti” e quindi codificati. La vera e propria codifica è stata preceduta da una serie di successive letture dei testi da analizzare. Quest’attività ha permesso di sviluppare sensibilità ai testi stessi per intuirne i significati emergenti. Nella prima fase di effettiva analisi, i 3 fattori individuati con la precedente analisi fattoriale, (cfr. Tab. 3) sono stati utilizzati come codici interpretativi6 delle porzioni di testo7. Le ricercatrici hanno voluto in questo modo verificare se essi potessero dare spiegazione anche dell’idea “iniziale” (libera cioè, dai possibili condizionamenti dovuti alla presentazione di descrittori predefiniti) di “buon comportamento scolastico” dei soggetti coinvolti. Due codificatori indipendenti hanno svolto l’analisi raggiungendo un primo accordo per il 72 % dei codici. La successiva discussione e negoziazione ha permesso di codificare unanimemente quelle porzioni di testo per cui inizialmente c’era disaccordo. I risultati ottenuti in questa prima fase di analisi hanno portato a verificare che i 3 codici permettono la codifica rispettivamente dell’86% e del 70% delle porzioni nei due corpora, (cfr. Grafici 1 e 2). L’idea di buon comportamento scolastico è cioè ampiamente spiegata, con andamento abbastanza simile nei 2 corpora, dai tre codici ricavati dalla precedente analisi fattoriale. D’altra parte tali codici rappresentano “macro-dimensioni” del comportamento scolastico, all’interno di ciascuna delle quali si declinano una serie di descrittori più specifici (cfr. Tab. 3). Va comunque rilevato che fra questi 3 codici, quelli maggiormente occorrenti in entrambi i corpora, sono il secondo fattore, “partecipazione all’attività scolastica”, (rispettivamente 33% e 27% occorrenze sul totale), e il terzo, “rispetto degli altri e dell’ambiente”,

6 Di ciascuno dei tre fattori utilizzati come codici fanno parte più descrittori, come si evince dalla Tab. 3. In tal senso una porzione di testo codificata attraverso uno dei tre codici può rappresentare uno o un altro dei descrittori componenti del fattore stesso. 7 Per “porzione di testo” s’intende l’insieme di parole dotato di significato attribuibile ad un unico codice interpretativo.

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(rispettivamente 32% e 31% di occorrenze sul totale nei due corpora “docenti” e “studenti”). Il codice “organizzazione scolastica” inteso a definire le modalità di frequenza scolastica dello studente (giustificazione tempestiva di assenze e ritardi, frequenza regolare e rispetto degli orari) occorre, in entrambi i corpora, in misura minore rispetto ai due precedenti e con percentuali molto più basse nel corpus “studenti” (12%) rispetto a quello “docenti” (21%); ciò a rilevare un’importanza molto minore attribuita dagli studenti a questi aspetti della vita scolastica, rispetto a quella assegnata dai docenti.

Graf. 1: occorrenze dei codici più frequenti nel corpus “docenti”

Graf. 2: occorrenze dei codici più frequenti nel corpus “studenti”

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Nella seconda fase, le ricercatrici hanno proceduto all’analisi dei segmenti di testo non codificabili attraverso i codici utilizzati nella fase di analisi appena descritta, con lo scopo di individuare altre diverse componenti caratterizzanti l’idea di “buon comportamento scolastico” di docenti e studenti. Alla luce delle indicazioni metodologiche di Peräkylä (2005, p. 870) «in molti casi, i ricercatori qualitativi che usano testi scritti come materiali non cercano di seguire alcun protocollo predefinito nell’eseguire la propria analisi. Leggendo e rileggendo i propri materiali empirici, essi cercano di fissare i propri temi chiave e, di conseguenza, di dipingere un quadro dei presupposti e dei significati che costituiscono la realtà culturale di cui i materiali testuali rappresentano un campione».

si è seguito un processo bottom-up, per individuare categorie di analisi che fossero espressione di significati emergenti dai testi stessi. Si sono così codificate porzioni di testo che hanno contribuito a definire ulteriori declinazioni delle tre macro-dimensioni individuate precedentemente, oppure all’emergere di alcune nuove dimensioni del costrutto “buon comportamento scolastico”. Fra i nuovi codici emergenti in entrambi i corpora, si può rilevare che il più occorrente, in maggiore percentuale nei docenti che negli studenti (rispettivamente 7% e 4%), risulta essere quello denominato “buona educazione”.Tale codice individua le porzioni di testo in cui docenti e studenti fanno riferimento alla generica “buona educazione” (nominata senza citarne specifiche caratterizzazioni) che dovrebbe contraddistinguere lo studente dal buon comportamento scolastico. Pur non rappresentando, tale codice, un preciso, specifico descrittore di buon comportamento, esso sembrerebbe potersi interpretare come elemento che conferisce ulteriore forza alla dimensione legata al “rispetto degli altri e dell’ambiente”, codice macro-dimensionale, già occorrente in misura più elevata degli altri due in entrambi i corpora. Un ulteriore codice che sembrerebbe ascrivibile all’interno dell’area rappresentata dalla macro-dimensione “rispetto degli altri e dell’ambiente”8 è quello, emergente dal corpus “studenti”, denominato “non disturba”. Gli studenti mettono ripetutamente in evidenza, quasi a chiederne un’attenzione particolare da parte della docenza nel momento della valutazione del “buon comportamento scolastico”, che «uno studente dal buon comportamento scolastico è un alunno che in classe non disturba» (studente 1), ossia che in classe deve svolgere l’attività «senza disturbare il lavoro altrui» (studente 2). Alla macro-dimensione “organizzazione scolastica”9 sembrerebbe potersi ascrivere il descrittore “rispetta regole etero-gestite”, presente in entrambi i corpora, ma con percentuali più alte in quello dei docenti. Docenti e studenti rilevano la necessità che il buon comportamento scolastico venga valutato anche per un’adesione senza compromessi, discussioni e negoziazioni, al Regolamento stabilito dall’Istituto, considerato, anche dagli studenti, aspetto normativo cui attenersi strettamente, anche se costituito da regole «imposte dal dirigente scolastico» (studente) . Per quanto riguarda l’ulteriore macro-dimensione “partecipazione all’attività scolastica”10, i docenti, ma soprattutto gli studenti mettono in rilievo la necessità che, in sede di valutazione del comportamento scolastico, sia posta maggiore attenzione ad una partecipazione

8 Cfr. terzo fattore nella Tab. 3. 9 Cfr. secondo fattore nella Tab. 3. 10 Cfr. primo fattore nella Tab. 3.

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attiva (codice “atteggiamento attivo-critico”, con percentuali rispettivamente del 3% e 5%), caratterizzata da «grande spirito critico e curiosità per il confronto e la discussione» (docente), poiché «il buon studente non è quello amorfo durante le lezioni, che non è in grado di avere una coscienza critica verso quello che succede nel mondo…» (studente). Il buon comportamento va valutato cioè anche in base alle «capacità critiche e di valutazione per quanto riguarda eventuali situazioni problematiche (ad esempio un conflitto con un insegnante) e buon senso nell’agire in tali situazioni» (studente). Altri codici sono stati individuati solo nel corpus “studenti”. Tali codici hanno permesso di individuare alcune nette differenze fra le rappresentazioni di “buon comportamento scolastico” costruite dagli studenti rispetto a quelle dei docenti. A differenza dei docenti, gli studenti ritengono che alla partecipazione attiva alle attività scolastiche dovrebbe aggiungersi un “buon rendimento scolastico” caratterizzato da uno studio «costante così da ottenere buoni voti», in modo da «conseguire sempre risultati soddisfacenti», accentuando in tal modo la dimensione cognitiva della partecipazione. Tale partecipazione dovrebbe inoltre essere connotata, secondo gli studenti, da “responsabilità” personale verso le attività scolastiche e i propri doveri.Viene alla in luce così una dimensione etica del comportamento scolastico: lo studente dovrebbe «avere la volontà di impegnarsi in ciò che fa» (studente 1) poiché «è responsabilità di ogni studente provvedere al proprio rendimento senza che l’insegnante insista troppo per fargli fare il suo dovere» (studente 2). Un’ulteriore dimensione emergente esclusivamente dal corpus “studenti” è quella definita socio-affettiva. Si tratta della dimensione del “prendersi cura”, per cui il comportamento scolastico dovrebbe essere valutato anche in relazione ad un atteggiamento di attenzione ai bisogni dei compagni e di disponibilità ad aiutare gli altri, «mantenendo un rapporto d’amicizia e solidarietà».

8. Discussione Le analisi compiute permettono di mettere in luce come, nel contesto scolastico in cui la ricerca si è svolta, l’idea di “buon comportamento scolastico” di docenti e studenti faccia riferimento a un’ampia varietà di dimensioni non del tutto condivise da docenti e studenti. La lettura dei dati quantitativi ha permesso di individuare alcune dimensioni comuni nell’idea di “buon comportamento scolastico”; dimensioni probabilmente derivanti da risorse culturali condivise da docenti e studenti, da una medesima cultura scolastica, propria del contesto geografico e culturale di appartenenza; cultura costruita lungo la propria carriera di studenti e/o di docenti. In particolare i descrittori di comportamento appartenenti a due delle macro-dimensioni, “partecipazione all’attività scolastica” e “rispetto degli altri e dell’ambiente”, individuate con l’analisi fattoriale, sembrerebbero rappresentare gli elementi di un modello condiviso di “buon comportamento scolastico”. Per quanto riguarda l’altra macro-dimensione “organizzazione scolastica” i risultati mettono in luce il diverso peso ad essa assegnato da docenti e studenti: molto più rilevante per i primi, meno significativa per i secondi. Al di là di questi macroscopici elementi comuni, restano comunque palesi le eterogeneità, rese parzialmente evidenti dall’analisi quantitativa, meglio comprese con quella qualitativa. Risultano innanzitutto evidenti le differenze fra il modello di “buon comportamento scolastico” dei docenti e quello degli studenti. Un modello “semplice” quello dei docenti, caratterizzato quasi esclusivamente dalle tre macro-dimensioni citate. Modello che in qualche modo sembrerebbe rispecchiare quello proposto istituzionalmente nel Regolamento sulla

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valutazione degli alunni emanato dal Ministero con D.P.R. n. 122 nel giugno 2009; documento in cui, all’articolo 7 riguardante la valutazione del comportamento, si decreta che l’atto valutativo deve favorire l’acquisizione di una coscienza civile basata sulla consapevolezza che la libertà personale si realizza nell’adempimento dei propri doveri – [dimensione della “partecipazione all’attività scolastica”] –, nella conoscenza e nell’esercizio dei propri diritti, nel rispetto dei diritti altrui – [dimensione del “rispetto degli altri e dell’ambiente”] – e delle regole che governano la convivenza civile in generale e la vita scolastica in particolare – [dimensione dell’organizzazione scolastica”].

In realtà l’analisi qualitativa dei protocolli d’indagine indurrebbe a ritenere che nemmeno all’interno del solo gruppo docenti l’idea di “buon comportamento scolastico faccia riferimento a dimensioni univocamente intese. Prova ne è la divergente definizione di “buon comportamento scolastico” offerta da due docenti dell’Istituto: “Stare seduto composto, non chiacchierare durante la lezione, alzare sempre la mano, alzarsi in piedi quando entra un professore, salutare, seguire le interrogazioni, tenere in ordine il banco, non arrivare mai in ritardo, portare sempre il materiale ed essere puntuale nelle consegne, rispettare il personale della scuola, …” (docente A) “Interesse ai più diversi argomenti, motivazione nello studio e nelle diverse attività scolastiche ed extrascolastiche, autostima, capacità di socializzazione, collaborazione, disponibilità ad aiutare gli altri, profondo rispetto per le persone e le cose, grande spirito critico e curiosità per il confronto e la discussione…” (docente B)

Il modello di buon comportamento scolastico” proposto dagli studenti risulta maggiormente complesso rispetto a quello emergente dai discorsi dei docenti. Quelle dimensioni cognitiva, etica e socio-affettiva, rilevate attraverso l’analisi qualitativa come componenti significative per gli studenti, ma ignorate dai docenti, conferiscono all’idea di “buon comportamento scolastico” degli studenti una pluridimensionalità e una ampiezza che rendono evidente la necessità di processi di negoziazione dell’idea stessa in relazione alle attività valutative scolastiche. Dai risultati sembrerebbe distinguersi un modello di “buon comportamento scolastico” connotato da uno spiccato senso di responsabilità personale da parte degli studenti, che ne accentuano le dimensioni: a) dell’impegno finalizzato ai buoni risultati, b) del dovere morale dello studente in quanto tale; c) della cura nei confronti dei pari. Dimensioni, le prime due, che richiamano alcune di quelle del “comportamento di lavoro” del modello di Franta e Colasanti (1995). Interessante pare inoltre l’ultima delle tre dimensioni, che confermerebbe il bisogno degli attuali adolescenti di spendersi affettivamente nella scuola, a compensazione di un ambiente familiare sempre meno significativo come riferimento per lo sviluppo di competenze socio-affettive (Sandomenico, 2007).

9. Conclusioni Riteniamo che il processo di costruzione della rubrica di valutazione del comportamento qui presentato possa rappresentare un valido percorso di lavoro all’interno di un progetto orientato all’elaborazione e all’interiorizzazione socialmente condivisa delle regole del “buon comportamento”, inteso come risultato di corresponsabilità di tutti i partecipanti alle attività di formazione. Le eterogeneità rilevate attraverso il lavoro di ricerca, in relazione all’idea di “buon comportamento scolastico”, rendono palese la necessità che nelle scuole vengano avviate attività di esplicitazione e condivisione dei significati affinché i percorsi formativi e valutativi risultino effettivamente efficaci. Riteniamo che l’attivazione di percorsi di condivisione e corresponsabilità valutativa fra i protagonisti del vivere scolastico possano garantire, al momento

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SIRD • Ricerche

valutativo, quella caratterizzazione di valutazione “trasparente, tempestiva e formativa” (art. 1 del D.P.R. 22/06/2009, n. 122)11 necessaria per giungere all’obiettivo, oggi fortemente auspicato dalla ricerca valutativa (Earl, 2003) e dettato dalla normativa scolastica, della capacità di autovalutazione. Quest’ultima infatti è individuata come presupposto fondamentale affinché l’alunno raggiunga autonomia nella capacità di gestire e monitorare il proprio processo formativo in ottica lifelonglearning (cfr. D.P.R. 22/06/2009, n. 122)12. Va rilevato infine il limite della ricerca qui proposta, rappresentando essa, solo la fase iniziale di un progetto più ampio, teso a verificare l’effettiva applicabilità didattica della rubrica costruita nel contesto della scuola. Restano ancora da controllare infatti i criteri valutativi individuati e la loro ricaduta sulle pratiche di lavoro di classe. Quanto fin qui presentato ci sembra comunque significativo in relazione al fatto che, attualmente, nella realtà scolastica italiana, la specifica questione della valutazione del comportamento sia sentita, ancora troppo spesso, come un problema personale del docente e vissuta, in nome della “libertà d’insegnamento”, come pratica da affrontare in modo del tutto soggettivo e individuale. Riferimenti bibliografici Comoglio M. (2003). Insegnare e apprendere con il portfolio. Milano: Fabbri. Corbetta P. (2003). La ricerca sociale: metodologia e tecniche. Bologna: Il Mulino. Department for education and skills (2005). Developing emotional health and well-being: a whole-school approach to improving behaviour and attendance. Estratto da http://www.standards.dfes.gov.uk. Earl L. M. (2003). Assessment as learning. Using classroom assessment to maximize student learning. Thousand Oaks: Corwin Press. Franta H., Colasanti R. A. (1993). La personalità degli allievi: una variabile imprescindibile nella valutazione scolastica. Studi e documenti degli Annali della Pubblica Istruzione, 64, pp. 295-309. Franta H., Colasanti R. A. (1995). Relazioni sociali nella scuola. Promozione di un clima umano positivo. Torino: SEI. Glickman-Bond J., Rose K. (2006). Creating and using rubrics in today classrooms: a practical guide. Norwood (MSS): Christopher-Gordon. Goodrich H. (1997). Understanding rubrics. Educational Leadership, 54 (4), pp. 14-17. Grion V., Giolo R. (2010). La valutazione del comportamento: dalla logica del controllo a quella della responsabilizzazione. Dirigenti Scuola, 3, pp. 22-26. Lincoln Y. S., Guba E. (1985). Naturalistic enquiry. Beverly Hills: Sage. Lucisano P. (2005). Prefazione. In A. Salerni. La disciplina a scuola (pp. 9-12). Roma: Carocci. McTighe J., Wiggins G. (1999). The understanding by design handbook. Alexandra,VA: Association for Supervision and Curriculum Development. Merrel K. W. (2000). Informant report: rating scale measures. In E. S. Shapiro, R. K. Thomas (Eds.). Conducting school-based assessments of child and adolescent behavior (pp. 203-234). New York: The Guilford Press. Petrides K.V., Chamorro-Premuzic T., Frederickson N., Furnham A. (2005). Explaining individual differences in scholastic behaviour and achievement. British Journal of Educational Psychology, 75 (2), pp. 239-255. Sadler D. R. (2010). Close range assessment practices with high-yeld prospects. Keinote presentation.

11 Regolamento sulla valutazione degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado. 12 Regolamento sulla valutazione degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado.

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The Fifth Biennal Northumbria/EARLI SIG Assessment Conference “Assessment for Learners”, 1-3 September 2010, Northumberland, UK. Shapiro E. S.,Thomas R. K. (Eds.) (2000). Conducting school-based assessments of child and adolescent behavior. New York: The Guilford Press. Steer S. A. (2009). Learning behaviour: lessons learned. A review of behaviour standards and practices in our schools. Estratto da http://publications.teachernet.gov.uk/eOrderingDownload/Learning-Behaviour.pdf. Tashakkori A.,Teddlie C. (Eds.) (2003). Handbook of mixed methods in social & beahavioral research. Oaks (CA): Sage. Salerni A. (2005). La disciplina a scuola. Roma: Carocci. Sandomenico C. (2007). I nuovi adolescenti: uno sguardo psico-sociologico. Relazione presentata al Convegno I.P.R.S. “L’adolescenza «liquida». Nuove identità e nuove forme di cura”, Roma 28 Maggio 2007. Varisco B. M. (2004). Portfolio.Valutare gli apprendimenti e le competenze. Roma: Carocci. Weare K., Gray G. (2003). What works in developing children’s emotional and social competence and wellbeing. Department for Education and Skills. Nottingham: Crown Printers.

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SIRD • Ricerche 4

Allegato 1: Strumento per la valutazione del comportamento scolastico, costituito da 17 item/descrittori, suddivisi in 5 aree, elaborato inizialmente da docenti e ricercatrici.

Descrittori

Indicatore: PU!TUALITA’ E FREQUE!ZA ! Frequenta regolarmente le lezioni ! Rispetta l’orario delle lezioni e delle attività extrascolastiche ! Giustifica tempestivamente le assenze e i ritardi !

Descrittori

Indicatore: RISPETTO DEI PARI ! Rispetta gli altri e le loro opinioni ! Rispetta i materiali altrui ! Usa un linguaggio corretto nelle interazioni !

Descrittori

Indicatore: RISPETTO DEI DOCE!TI/!O! DOCE!TI ! Si rivolge educatamente a docenti e non docenti ! Segue le indicazioni e le consegne !

Descrittori

Indicatore: RISPETTO DELL’AMBIE!TE SCOLASTICO ! Utilizza correttamente gli ambienti e le attrezzature scolastiche ed extrascolastiche ! Mantiene l’ordine negli spazi che frequenta !

Descrittori

Indicatore: IMPEG!O PER L’APPRE!DIME!TO ! Segue le lezioni con attenzione ! Svolge con diligenza il lavoro assegnato ! Porta il materiale necessario ! Partecipa attivamente alle lezioni ! Si impegna per migliorare il proprio apprendimento !

Descrittori

Indicatore: PARTECIPAZIO!E ALLA VITA SCOLASTICA ! Collabora con i compagni ! Partecipa responsabilmente alle attività scolastiche ed extrascolastiche !

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ricerche Analizzare una conoscenza pratica implicita: le routine di spiegazione degli insegnanti Analyzing a practical knowledge implicit: routines explanation of teachers VIVIANA VINCI Questo contributo si focalizza sul ruolo che le routine possono assumere nella ricerca didattica e nella formazione alla riflessività degli insegnanti. Dopo un’essenziale ricognizione del frame teorico che inquadra la routine all’interno di studi sociologici, psicologici e didattici, si riportano alcune risultanze di un’indagine collaborativa con insegnanti di Scuola secondaria. L’oggetto di indagine è stata la routine di spiegazione, la cui verbalizzazione ha permesso una focalizzazione anche su azioni, credenze, sentimenti e strategie didattiche nella quotidiana pratica di insegnamento. Lo strumento di indagine è stato l’intervista di esplicitazione (Vermersch, 2005). Attraverso la “presa di coscienza” degli insegnanti su una conoscenza pratica di tipo implicito (Perla, 2010) qual è la routine, la ricerca propone riflessioni interessanti anche sul piano formativo degli insegnanti.

This paper focuses on the role that routines can play in educational research and teacher training reflexivity. After a brief survey of the theoretical frame according to which the routine is included in the social, psychological and educational studies, we report some findings of a collaborative investigation with high school teachers. The object of this investigation was explanation routine, and its verbalization has also allowed to focus on actions, beliefs, feelings, and teaching strategies in daily teaching practice. The survey instrument was the explanation interview (Vermersch, 2005). Through the teachers’ awareness on a practical knowledge of implicit kind (Perla, 2010) such as the routine, the research also offers interesting reflections on a teacher training level.

Parole-chiave: ricerca didattica, analisi delle pratiche di insegnamento, routine, implicito, spiegazione, riflessività

Keywords: educational research, analysis of teaching practice, routine, implicit, explanation, reflexivity

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1. Il frame teorico polireferenziale: la routine unità di analisi per la ricerca didattica La ricerca didattica più recente focalizza sempre più la sua attenzione sull’analisi delle pratiche educative; fra queste, un’attenzione peculiare meritano le pratiche ordinarie dell’insegnamento quotidiano, le routine1 (Cortelazzo M., Cortelazzo M. A., 2004, p. 1092; Berger, 1995, p. 18). Diversamente dall’accezione comune negativa con cui il termine viene connotato – come ciò che si ripete meccanicamente – è possibile considerare la routine come risorsa utile per la ricerca sull’insegnamento e per la formazione della riflessività degli insegnanti. Prima di focalizzare la rilevanza del tema nella ricerca didattica, occorre puntualizzare il significato di “routine” attraverso una ricognizione di alcuni ambiti di indagine che ne hanno fatto oggetto di riflessione. In particolare, si prenderanno in considerazione contributi di area sociologica e psicologica2 (Vinci, 2010, pp. 41-87). Il primo contributo, viene dagli studi sulla vita quotidiana. Esiste infatti un forte legame fra la routine e il quotidiano che indica, innanzitutto, ciò che accade e si ripete ogni giorno: lo studio della vita quotidiana si focalizza sui meccanismi attraverso i quali le routine, la familiarità e il senso comune si costruiscono e si decostruiscono ogni giorno. Secondo A. Schutz (Schutz, 1979), padre della fenomenologia sociale, la conoscenza ordinaria che ha luogo nella vita quotidiana è dominata dall’atteggiamento naturale, un pensiero preriflessivo e ingenuo, capace di sospendere il dubbio che tale realtà sia diversa da quella che appare e di permettere un’interazione “scorrevole”, senza doversi porre continuamente domande di comprensione (chi è? cosa fa?) che renderebbero le attività quotidiane impossibili. Nella vita quotidiana le persone interagiscono in maniera non problematica, secondo routine e schemi di tipizzazione, utilizzati negli incontri faccia a faccia e nelle interazioni sociali per classificare eventi e persone e collocarli all’interno di modelli sociali già codificati. Le tipizzazioni sono un patrimonio di conoscenze pratiche che permette di organizzare la propria esperienza e che comprende modi di vita, metodi per gestire l’ambiente, ricette efficaci per utilizzare mezzi tipici ed adattare fini tipici a situazioni tipiche. Gli schemi tipici derivano in minima parte dalle esperienze pregresse del soggetto ma, fondamentalmente, sono tramandati come patrimonio di esperienza comune dalle generazioni passate attraverso il linguaggio, considerato mezzo “tipizzato” per eccellenza. L’atteggiamento naturale, che pone fra parentesi la vita quotidiana rivelandone le strutture nascoste – perché troppo ovvie – richiama il concetto husserliano di epoché, il sospendere o

1 La scelta di utilizzare il termine routine piuttosto che routines nella forma plurale deriva dal trattamento dei nomi stranieri entrati nell’italiano senza adattamento morfologico, cioè mantenendo la loro forma originaria, applicato a tutti i forestierismi acquisiti stabilmente e da tempo nell’italiano: il plurale resta invariato, al contrario dei neologismi recenti o dei termini fortemente specialistici, per cui è consuetudine utilizzare sempre il plurale della lingua di origine. Cfr. http://www.accademiadellacrusca.it/faq/faq_risp.php?id=3781&ctg_id=44. Diminutivo del francese route, “strada”, il lemma routine deriva dal latino via(m) r pta(m), cioè “via aperta” o “strada battuta”, e si diffonde prima nella lingua francese con routier (1442) “colui che conosce bene la strada”, poi con il successivo verbo r mpere come “facoltà di fare esperienza dall’uso più che dallo studio” e di “ripetizione della stessa azione nello stesso modo”. Cfr. M. Cortelazzo, M. A. Cortelazzo, 2004, p. 1092). La diffusione del termine routine nella letteratura scientifica si deve al sociologo Weber, con l’originale sostantivo Alltag e il termine derivato Veralltaeglichung: letteralmente “il quotidiano” e “trasformazione in pratica quotidiana”. Cfr. Berger (1995, p. 18). 2 Cfr.Vinci per una ricognizione di alcuni studi sulla routine.

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SIRD • Ricerche

mettere fra parentesi il mondo in quanto realtà che si autopresenta nella vita quotidiana: il quotidiano è l’atteggiamento con cui affrontiamo le attività di routine che rendono il mondo abitabile, caratterizzato da una disattenzione costante per la complessità del mondo stesso: «se vogliamo comprendere come si costruisce il mondo della vita intersoggettiva dobbiamo sospendere tale atteggiamento, e risalire al momento originario in cui tale atteggiamento ancora non si è consolidato. E per farlo occorre considerare problematici i presupposti dati per scontati. Detto altrimenti, proprio perché nella vita quotidiana assumiamo tale atteggiamento, dobbiamo in qualche modo estraniarci» (Sparti, 2002, p. 182).

Il senso comune, dato dalle rappresentazioni della realtà e delle regole di condotta condivise, costituisce la cultura e lo sfondo dell’esperienza ed è “dato per scontato”, come ovvio e naturale: è una sorta di tacito accordo tra i membri di un gruppo, si produce e riproduce continuamente grazie alla cooperazione di ognuno, alla ripetizione e, una volta contraddetto dall’esperienza, viene riformulato. Alle radici del senso comune e delle routine nella vita quotidiana, sedimentati in una eredità culturale messa a disposizione dalle generazioni precedenti, troviamo ragioni pragmatiche, sociali e psicologiche (Ruggerone, 2000). Da un punto di vista pragmatico la ripetizione di comportamenti evita dispendio di tempo e risorse grazie all’applicazione di una soluzione già pronta all’interno di un repertorio standard, a livello sociale mantiene integra la nostra appartenenza al gruppo o al senso comune, e a livello psicologico restituisce un senso di familiarità che ci consente di evitare quella che Jedlowski chiama la vertigine dell’indeterminazione, la vertigine generata dal sospetto dell’infinito (Jedlowski, 2005, p. 23), ossia di tutto ciò che è imprevedibile e fuori dal nostro controllo. Giddens definisce meglio questo processo come sicurezza ontologica, fiducia nella continuità della nostra identità e nella costanza del contesto sociale nel quale viviamo (Giddens, 1994, pp. 96-101), sicurezza innanzitutto psicologica alimentata dalla familiarità dell’esperienza, dall’abitudine e dalla tradizione. Anche Goffman (1969), con la sua nota concezione della vita quotidiana come rappresentazione teatrale, sottolinea il ruolo dei frames, ossia delle “cornici simboliche” che conferiscono significato agli eventi: ogni azione diversa dalle aspettative altrui rompe un rituale e necessita di una nuova negoziazione di significati e di un nuovo frame. Un secondo contributo in area sociologica allo studio delle routine viene dalla etnometodologia e dagli studi di Garfinkel sulle caratteristiche invarianti delle attività sociali. Il concetto di accountability, «adottato da Garfinkel (1967) per indicare come le persone rendano le proprie azioni spiegabili (account-able) nel momento stesso in cui le nominano (e le agiscono)»3 (Fele, 2002, pp. 54-55), indica la proprietà di essere visibile in modo evidente, descrivibile, disponibile allo scrutinio e giudicabile per la propria appropriatezza, caratterizzante sia ogni pratica, cioè azioni, gesti e comportamenti, sia qualsiasi ragionamento pratico, ossia il dichiarato. Agendo, dice Fele, «le persone si dimostrano reciprocamente che esse sono parte della stessa comunità morale» e «si ritengono vicendevolmente responsabili della ragionevolezza di ciò che stanno dicendo e facendo» (Fele, p. 53). Se le persone devono immedia-

3 Bruni, Gherardi (2007, p. 45). Il termine inglese accountability deriva letteralmente da account, ossia il racconto e resoconto impiegato per spiegare a noi stessi e agli altri ciò che sta accadendo, e nella lingua italiana non trova un’unica espressione equivalente che lo traduca, ma rimanda ad una costellazione di significati diversi traducibili come l’essere rendicontabile, descrivibile, comprensibile e spiegabile.

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tamente produrre pratiche che gli altri valutino come adeguate e appropriate alla situazione, la conseguenza sul piano sociale sarà allora la produzione di comportamenti sociali standardizzati: le routine costituiscono infatti una risposta alla continua necessità di giustificare le proprie azioni secondo procedure esplicite, che possono essere mostrate, dimostrate e comprese.Tutte le routine hanno inoltre una storia e una identità locale, sono tipiche del contesto e dell’interazione nel quale sono state generate e, quindi, sono soggette al carattere dell’indicalità (il carattere contestuale di ogni attività quotidiana). Il terzo contributo, in area sociologica, è dato dalle indagini sulle routine organizzative, suddivisibili in due correnti di pensiero: la scuola behavioristica e la suola cognitivista. La prima, behavioristica, considera le routine come sequenze ordinate di comportamenti appresi attraverso meccanismi di stimolo-risposta-rinforzo. Fra i principali esponenti di questa scuola di pensiero, Nelson e Winter (1982) sottolineano come le routine rappresentino la più importante forma di memoria di un’organizzazione, in quanto permettono ai membri di un’azienda di ricordarsi le modalità delle azioni semplicemente continuando ad agire, attraverso il comportamento. La conoscenza di un’organizzazione risiede nella memoria dei suoi membri e può essere replicata solo attraverso l’esperienza comune e condivisa. Una seconda linea interpretativa, cognitivista, reputa invece le routine come regole condizione-azione ossia, come dicono March e Simon (1958), un insieme di regole da seguire per ottenere uno scopo, come fossero programmi distinti dal piano di azione. Secondo i due autori le reazioni agli stimoli non sono, meccanicamente, sempre uguali, ma di natura diversa e polarizzate: da un lato in attività routinizzate, o programmi di azione quasi istantanei, elaborati ed appresi precedentemente come reazione appropriata ad uno stimolo di quella natura; dall’altro, invece, la reazione allo stimolo diventa un’attività di problem-solving, finalizzata alla ricerca di alternative di azione o conseguenze di azioni. Conoscere il programma di un’organizzazione permette di prevedere il comportamento dei membri dell’organizzazione e maggiore è la ripetitività delle azioni, maggiore è la programmazione e la prevedibilità di quelle attività (March e Simon, p. 51). Secondo Zamarian (2002) le conoscenze incorporate nelle routine organizzative sono tacite – difficilmente verbalizzabili – distribuite all’interno di un gruppo, cioè non possedute da singoli attori, e situate in un contesto: queste caratteristiche distintive delle routine organizzative permettono alle aziende di ottenere un vantaggio competitivo, in quanto la loro riproduzione in altri contesti diventa assai difficile, senza la possibilità di una loro codificazione esplicita. Un terzo contributo, infine, viene dalla psicologia sociale cognitiva sul ruolo che ripetizione e automatizzazione hanno nell’ordinare la cognizione: le routine offrono un format che organizza la cognizione sia per quanto riguarda la rappresentazione dello scopo da raggiungere, sia offrendo modalità operative e sequenze di azioni di risoluzione del compito socialmente sperimentate. Questo avviene attraverso la formazione di script (Fayol, Monteil, 1988, pp. 335-361; Schnk, Abelson, 1977), strutture cognitive adeguate alla risoluzione dei problemi sociali con l’ambiente circostante; nel trattare gli oggetti, è grazie a questi script che vengono elaborati schemi pragmatici funzionali e subordinati alla funzione sociale degli oggetti e delle pratiche ad essi connesse. Gli script, o copioni, rappresentano successioni di scene o episodi collegati fra loro e configurano una trama globale coerente e unitaria, un “copione di vita” o della situazione. La realtà sociale, secondo la social cognition, si presenta come insieme di copioni, di sequenze di episodi legati temporalmente o causalmente, e può essere ricostruita alla luce degli schemi cognitivi, ossia una struttura di conoscenze preesistente. Il frame, indicante appunto la cornice cognitiva che rende intelligibile un flusso di atti e che racchiude un insieme di schemi e sottoschemi cognitivi, ha la funzione di organizzare le informazioni di una situazione, richiamando automaticamente una serie di collegamenti che

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rendono la situazione percepita come tipica. Script e frame hanno la funzione pratica di indirizzarci verso l’azione indicandoci la modalità corretta di comportarci in una data circostanza4 (Sparti, p. 134). L’apprendimento di questi schemi pragmatici avviene per mezzo di memoria di azione e grazie a supporti rappresentativi iconici, si sviluppa per imitazione e per apprendimento sociale ed è influenzato dall’ambiente familiare e scolastico. E nella ricerca didattica? Quali contributi vengono offerti dallo studio della routine nell’insegnamento? Diversi studi (Clark,Yinger, 1979; Joyce, 1978-1979, pp. 66-77; Morine-Deshimer, 19781979, pp. 83-99; Shavelson, Stern, 1981, pp. 455-498; Tsui, 2003, p. 31; Nuzzaci, 2009, pp. 59-75) hanno sottolineato il supporto che la creazione di routine didattiche può fornire agli insegnanti nel rendere prevedibile i tempi, le sequenze di interazione e il comportamento degli studenti, in modo da poter ridurre il carico di informazioni da elaborare e da poter sviluppare al meglio la loro capacità di monitorare la situazione in classe. A questo proposito,Yinger definisce le routine come «insiemi di procedure stabilite che hanno la funzione di controllare e coordinare sequenze specifiche di comportamenti»5 (Altet, 2003, p. 102). L’autore classifica inoltre quattro tipologie di routine didattiche scelte nella fase di pianificazione: • activity routines, routine di azione, setting di comportamenti controllati nella pianificazione educativa; • instructional routines, routine di gestione, comprendenti metodi e strategie di insegnamento; • management routines, routine di organizzazione e controllo, finalizzate a stabilire un ordine nella classe; • executive planning routines, routine di esecuzione di un piano, costituiscono il processo mentale della pianificazione educativa e sono finalizzate alla costruzione di un modello di pianificazione che permetta agli insegnanti di far un miglior uso possibile del limitato tempo a disposizione per pianificare l’azione (Altet, 2003;Yinger, 1977;Yinger 1979, pp. 163-169; Stronge, Tucker, Hindman, 2004, pp. 97-98). Damiano (2007) definisce le routine come «sequenze di azioni professionali tenute insieme dalla loro struttura operativa – chi-dove-cosa-come – e dallo scopo cui sono ordinate. Esse sono più o meno saldamente concatenate tra loro, e si sviluppano nel tempo in modo ricorsivo» (Damiano, 2007, p. 126). Secondo l’autore le routine sono «sistemi integrati di azioni che scandiscono la giornata come sequenze regolari che si congiungono fra di loro come “moduli operativi” simmetrici in una struttura architettonica, e che vedono gli attori negli stessi spazi comportarsi nello stesso modo e procedere nello stesso ordine» (Damiano, 2006, p. 147). Differenziandole a seconda della loro cadenza temporale in quotidiane e nonquotidiane, e a seconda del loro scopo in attività operative, che producono insegnamento, e attività non-operative, cioè che producono le condizioni adeguate all’insegnamento, Damiano riconosce nelle routine le unità di analisi su cui articolare l’osservazione del lavoro di classe per la Nuova Ricerca Didattica e degli efficaci strumenti di formazione (e di auto-formazione) per l’insegnante tirocinante.

4 La comprensione di una situazione avviene in due modi: «l’uno categoriale o strutturale, ossia per classificazione spaziale, come suggerisce la frame theory; l’altro teleologico, ossia tramite l’inserimento di eventi ed episodi in una sequenza temporale-procedurale, come indica la script processing theory». 5 La definizione fornita da Yinger sulle routine educative viene contestualizzata all’interno della ricerca didattica sulle pratiche di insegnamento da Altet.

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L’autore introduce sia il concetto di macro-routine, «una serie variabile di routines ciascuna coordinata alle altre e tutte ordinate ad uno scopo comune» (Damiano, 2006), che induce ad analizzare le routine non isolatamente, ma in connessione fra loro e in rapporto al contesto specifico che le ha generate, sia di sub-routine6 (Damiano, 2007, pp. 131-133), dato dagli elementi che ciclicamente si alternano in ogni routine, fondamentali per un’analisi accurata di ciò che viene considerato ovvio nell’interazione in classe. Le routine, inoltre, permettono di esaminare «i soggetti che operano, le attività (in particolare le sequenze) ed i contesti in cui si compiono (tempi, spazi e attrezzature)» (Damiano, 2006, p. 148). Fra le più interessanti riflessioni sulle routine didattiche emerge senza dubbio quella recente di Laneve (2009), il quale sottolinea l’importanza delle routine considerate come luoghi della conoscenza localizzata e situata che, da un lato, permettono di sviluppare, sedimentare e trasmettere competenze, dall’altro, di mutare e migliorare le pratiche stesse attraverso un loro adattamento a seconda delle diverse condizioni e circostanze (Laneve, 2009, p. 42). La dipendenza da routine, che si manifesta nella resistenza verso il nuovo, l’ignoto e il rischio, rappresenta un legame indispensabile che l’insegnante o l’educatore conserva con il passato, «quel vincolo a quel sapere procedurale che lo qualifica come insegnante esperto»; in quanto attività consolidate e rassicuranti, le routine «consentono di sentirsi adeguato e capace di prendere decisioni giuste» (Laneve, 2009, p. 40). Secondo l’autore le routine didattiche costituiscono l’elemento base del patrimonio culturale ed esperienziale che qualifica l’insegnante esperto, sono cioè la base della sedimentazione di un sapere pratico, del saper insegnare: un sapere che non può essere appreso né trasmesso attraverso la sola teoria. In sintesi, alcune funzioni significative delle routine didattiche: aiutare a gestire un ambiente complesso, qual è la classe, e ad affrontare l’incertezza; controllare e coordinare sequenze specifiche di comportamenti, anticipare eventi successivi, pianificare l’azione, ordinarla e adattarla a circostanze diverse; prendere decisioni nella complessità e permettere l’innovazione; sviluppare e sedimentare competenze e, di conseguenza, permettere la creazione di una memoria del professionista esperto; trarre informazioni sul funzionamento generale di una qualsiasi organizzazione e, quindi, anche sulle regole esplicite-implicite di un particolare contesto educativo; condividere e trasmettere l’esperienza e le competenze sedimentate (una trasmissione, essenzialmente, di sapere pratico) ai novizi. Gli studi sino ad ora richiamati mostrano la rilevanza scientifica della routine come oggetto di indagine, utile per l’insegnante e per gli studi sull/nell’insegnamento. E, in tale prospettiva, presento qui di seguito le coordinate di una ricerca collaborativa7 (Perla, 2010, p. 104) con alcuni insegnanti di Scuola secondaria della provincia barese.

2. L’indagine con gli insegnanti di Scuola secondaria: le routine della spiegazione nell’insegnamento L’oggetto specifico di questa indagine è stata la spiegazione, parte essenziale della lezione che trova origine nell’antico modello della lectio Magistri: nata nell’Alto Medioevo come traspo-

6 In particolare Damiano individua quattro sub-routine: l’apertura, la sequenza, l’andatura, la conclusione. Per un approfondimento più dettagliato vedi Damiano (2007, pp. 131-133). 7 La collaboratività è «basata su un partenariato autentico (né opportunistico, né solo funzionale agli scopi della ricerca) fra ricercatori e insegnanti, si costruisce nel tempo lungo e implica un impegno alla costruzione di un sapere anche utile alla formazione dell’insegnante».

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sizione della lectio divina (lettura di un brano breve della Bibbia), è intesa come lettura ed esposizione di un testo con commento, come prolissa esposizione verbale della materia che chiede allo studente ascolto passivo, esercizio, memorizzazione ed imitazione, rispetto per l’autorità del testo e del maestro (Laneve, 2003; Tomasucci Fontana, 1997; Guasti, 1998). Questa caratterizzazione della lezione, che tanto ha influenzato l’insegnamento fino ai giorni nostri, è stato oggetto di continue critiche e sembra non trovare più rispondenza nelle reali pratiche degli insegnanti. Il problema è capire cosa accade e cosa gli insegnanti verbalizzano a proposito della loro routinaria pratica di spiegazione. L’ipotesi che sottende la ricerca è che la spiegazione messa in pratica dagli insegnanti non coincida con il modello della lectio, ma comprenda un livello di impliciti di insegnamento che vanno portati alla luce. Quali sono le routine implicite – perché fin troppo note – nella spiegazione che è possibile far emergere? Oltre la centratura che, per molto tempo, la ricerca didattica ha assunto sullo studente, questa indagine rappresenta un tentativo, sulla scia di studi assai recenti in tema di insegnamento, di allontanarsi dalla “didattica del chiaro” per esplorare la “didattica dell’implicito” (Perla, 2010), partendo dalla testimonianza dei pratici e dalla loro collaborazione nella ricerca. Le prime risultanze dell’indagine sulle routine della spiegazione hanno sollecitato inoltre alcuni interrogativi significativi su cui occorre riflettere: • è possibile la formalizzazione, da parte degli insegnanti, delle proprie pratiche routinarie? • è possibile la classificazione delle routine da parte di chi fa ricerca? • è possibile una formazione degli insegnanti alla riflessività attraverso l’esplicitazione delle routine e che tipo di ricadute può avere per gli insegnanti il “rendere chiaro” ciò che è tanto noto, ovvio e routinario, da diventare tacito e implicito? L’indagine ha coinvolto un gruppo di 30 insegnanti, con una media di 15 anni di esperienza di insegnamento, in servizio presso scuole secondarie di I e di II grado di Bari e provincia. La metodologica di indagine adottata è stata l’analisi delle pratiche dichiarate (Marcel, Olry, Rothier-Bautzer, Sonntag, 2002, pp. 135-170) dall’insegnante, al cui interno rientra un ventaglio assai variegato di elementi: giudizi percettivi, sentimenti, memorie e richiami ad esperienze e incontri passati, strategie e teorie implicite adottate in un tipo specifico di comportamento didattico, criteri valutativi di svolgimento di un’attività e di strutturazione di un problema, modi di percepire il proprio ruolo all’interno di un più vasto contesto istituzionale. Si tratta di elementi che molto spesso gli insegnanti “agiscono” senza riuscire a verbalizzarli, ma che la ricerca sul “pensiero dell’insegnante” di matrice soprattutto anglosassone ha da tempo indicato come determinanti nell’agire professionale (Clark, Peterson, 19863, pp. 255-296; Nespor, 1987, pp. 317-328; Goodman, 1988, pp. 121-137; Calderhead, Robson, 1991, pp. 1-8). La modalità di analisi si inserisce nei metodi di ricerca qualitativa di tipo grounded, che mirano alla costruzione flessibile della teoria attraverso un processo induttivo di analisi, ossia alla costruzione graduale, e soggetta a continue revisioni, di astrazioni concettuali a partire dalle informazioni descrittive contenute nei dati raccolti sul fenomeno oggetto di indagine. La grounded theory si articola in diverse fasi che prevedono: l’individuazione dell’area di indagine, della focalizzazione dell’oggetto e della tecnica per raccogliere dati e materiali di ricerca; il momento dell’analisi e di codifica dei dati (open coding), che permette sia di concettualizzare i dati, ossia elaborare dei concetti che consentano di nominare fedelmente ed “etichettare” i fenomeni indagati, suddivisi dettagliatamente in unità di analisi (parole, frasi o paragrafi), sia di categorizzare i dati, individuare cioè categorie indicanti particolari aspetti del fenomeno indagato, nelle quali sono raggruppati le varie “etichette” concettuali

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precedentemente individuate. Durante queste fasi si inizia a delineare un primo livello di teorizzazione “dal basso”, che costantemente viene rivista grazie ad un ritorno continuo al processo di analisi del materiale (Mortari, 2007, pp. 145-159). Il dispositivo metodologico utilizzato nell’indagine è stato l’intervista di esplicitazione di P. Vermersch (2005, p. 17)8, finalizzata alla verbalizzazione e alla presa di coscienza dell’azione: «se per azione si intende la concreta realizzazione di un compito, l’intervista di esplicitazione riguarda la dettagliata descrizione dello svolgimento di questa azione, così come essa è stata effettivamente messa in atto in una situazione reale» (Vermersch, p. 18). L’azione è considerata fonte prioritaria di informazioni, conoscenza autonoma, opaca, di cui Vermersch intende analizzare la dimensione procedurale, ossia la successione e concatenazione logica e cronologica degli atti elementari compiuti per il raggiungimento di uno scopo. La verbalizzazione dell’azione non è tuttavia una pratica usuale (anzi, è contro-intuitiva rispetto a giudizi, commenti e descrizioni generiche centrate sulle circostanze esterne che spontaneamente si tende a ricordare e a descrivere) e non si realizza se non grazie ad un aiuto, ad una guida, attraverso tecniche ben precise, silenzi, riformulazioni, rilanci (cosa fai esattamente? come fai?). La scelta di uno strumento metodologico qualitativo come le interviste, definite come un metodo conoscitivo per far dire la pratica (Perla, 2005, pp. 80-100), si lega alla possibilità di far esplicitare rappresentazioni, credenze, motivazioni, conoscenze tacite dell’azione, spesso ignote agli stessi intervistati, ma determinanti nella pratica didattica. Attraverso le interviste agli insegnanti si è cercato di far luce su quello che Perla definisce l’implicito pratico degli insegnanti, che non è l’inconscio profondo e rimosso di matrice psicoanalitica, ma «quella dimensione nascosta, ineffabile, oscura della pratica di insegnamento di cui il docente sa poco o perché non la conosce o perché non vuole rivelarla, a volte neanche a se stesso – ma che tuttavia innerva la pratica reale dall’interno ed è suscettibile di presa di coscienza, di consapevolizzazione, di “dicibilità”» (Perla, 2010, p. 31). L’esplicitazione di tale livello tacito, secondo Perla, non ha la sola finalità di accrescere la conoscenza sull’insegnamento da parte dei ricercatori, ma anche quella di migliorare, attraverso la “presa di coscienza” e “la presa di parola” dell’insegnante circa il suo “fare scuola” (Laneve, 2010), le stesse pratiche, con ricadute interessanti anche sul piano formativo e autoformativo dei docenti. Entro il frame teorico e metodologico di tale linea di ricerca, che vede gli insegnanti non più solo fonti di sapere dell’insegnamento ma anche alleati (Damiano, 2006) e partner nella/della ricerca, è stata adattata l’intervista di esplicitazione con una focalizzazione sui seguenti nuclei di indagine: le pratiche di spiegazione, gli step di una “giornata tipo”, le azioni più frequenti nel lavoro di un insegnante, le strategie didattiche adottate più frequentemente, le attività e le fasi di una lezione, le emozioni e i sentimenti ricorrenti, le modalità di interazione con i colleghi e con le famiglie. Il corpus discorsivo ottenuto dalle interviste di esplicitazione è stato sottoposto a lettura e analisi triangolata fra ricercatori per evitare il rischio di distorsioni interpretative e, laddove sono emerse differenze marcate di interpretazione, si è proceduto a negoziare i significati. Di seguito si riportano alcune stringhe testuali, selezionate per la loro significatività dal corpus di risposte registrato e trascritto, e suddivise sulla base delle corrispondenti domande riportate in elenco.

8 L’intervista di esplicitazione è «definibile come un insieme di comportamenti di interazione verbale e di ascolto, basati su alcune griglie di riferimento applicabili a quanto viene detto, e di determinate tecniche di formulazione di rilanci (domande, riformulazioni, silenzi) destinate a facilitare e ad accompagnare la verbalizzazione di un particolare campo dell’esperienza, in relazione a diversi obiettivi personali e istituzionali».

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1. Quali azioni si ripetono più frequentemente nel suo lavoro? Tab. 1 1. Allora, le azioni... io procedo più o meno sempre nelle stesso modo... individuo l’argomento, il problema da risolvere, la cui soluzione affido dalla classe, e parto con la provocazione... parto inizialmente con un brainstorming sull’argomento, per rilevare le preconoscenze, cioè quello che i ragazzi sanno già sull’argomento, sul tema affrontato. Dopo questa rilevazione... sono gli stessi ragazzi che vanno alla lavagna, che scrivono la parola che l’argomento stimola; vanno a scrivere con un pennarello diverso, di colore diverso... io, poi, elaboro a casa il percorso didattico da realizzare, che prevede un monitoraggio ed eventuali interventi in itinere. 2. Prendiamo l’italiano: una unità di apprendimento la progetto una volta per tutte. Una volta che l’ho progettata, in un fine settimana di solito, l’unità di apprendimento così come la svolgerò... è già bello e fatto questo lavoro... va organizzato una tantum. 3. Che cosa faccio? Dipende molto dal tipo di attività, cioè dall’argomento. 4. Dipende da come trovi la classe. A volte trovi una classe che è ben disposta in quel momento: è fresca e, quindi, agisci in un determinato modo. A volte trovi la classe che è stanca, soprattutto quando si arriva alla quinta ora, e allora si fa pratica. 5. Nella didattica vera e propria tutto è legato ai tipi di testo che abbiamo, agli alunni, alla classe, alle discipline: ci sono molte variabili.

2. Può descrivermi una “giornata tipo”? Tab. 2 1. Vuoi una lezione?... è difficile.... io ti posso descrivere un percorso. Una lezione è una azione che viene sviluppata... io seguo i ragazzi in classe... un’ora di lezione o tre ore?... vuoi 15 ore?; 2. Guarda è una realtà così complessa che è difficile da descrivere, perché le difficoltà non sono prevedibili. 3. Leggiamo la pagina, faccio rilevare quella che è la vera e propria definizione, dopo di che facciamo gli esempi; poi una lezione sul campo: io scendo nel cortile... dopo, do degli esercizi a gruppetti, oppure per singoli ragazzi, per vedere se hanno capito... Quarto step è far osservare. 4. Allora siamo, per esempio, in una seconda: devo spiegare il concetto di equivalenza delle figure. Che cosa faccio? Comincio con un’attività pratica, quindi faccio lavorare i ragazzi sul tangram, che è un gioco cinese; glielo faccio costruire, disegnare, ritagliare e faccio comporre a loro tutte le figure possibili e immaginabili; dopo che lo hanno fatto praticamente, un brainstorming: “Cosa stiamo facendo? Perché e come?”.Vediamo un po’ questo movimento di idee e, alla fine, da lì si tira fuori la teoria. Io faccio sempre così, per qualsiasi argomento, comincio sempre con un’attività pratica e poi, attraverso le loro considerazioni, tiriamo fuori la teoria; poi facciamo l’applicazione concreta, una serie di esercizi che devono fare tutti; li chiamo tutti alla lavagna, non è l’interrogazione, è l’esercitazione; dopo, partono le interrogazioni.

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3. Come comincia solitamente una lezione? Tab. 3 1. Allora, la inizio richiamando quello che si è già fatto la volta precedente, e soprattutto chiedendo se ci sono problemi nella comprensione di quello che hanno studiato... quella del controllo dei compiti è diventata una cosa proprio necessaria... dopo andiamo a vedere che cosa hanno capito... e lì emergono subito le difficoltà; andiamo prima a risolvere gli esercizi, quelle cose che non si sono capite e, poi, ascoltiamo il resto. Dopo di che procediamo, andiamo avanti con la successiva lezione e diamo subito i compiti. 2. Parto dall’osservazione del fenomeno, pianifico gli esperimenti connessi a quell’argomento, perché niente è fatto in maniera teorica... Per spiegare la fotosintesi clorofilliana porto una piantina in un vaso e comincio con l’osservazione da parte dei ragazzi e poi da lì comincio a parlare di quello che avviene nei tessuti vegetali e a capire in cosa consiste questo processo che sembra tutta teoria. 3. Partiamo dal principio: io, il primo giorno di scuola, la prima cosa che faccio è spiegare quali sono le condizioni per un approccio reciproco, per un rispetto reciproco. Per cui detto delle regole, sulle quali non si discute e, quindi, è sempre un dialogo molto aperto. I ragazzi capiscono al volo la situazione, capiscono con chi possono permettersi di fare cose, che non devono fare, e con chi, invece, non se lo possono permettere. I ragazzi sono molto intelligenti, per cui quando entro in classe, la prima regola: loro si alzano in piedi. Nessuno comincia a dire buongiorno, buonasera, tutto il resto, ma si alzano in piedi: è il saluto. Questo come rispetto, sono io che entro in classe e dico buongiorno ai ragazzi, dopo di che i ragazzi: seduti. E, quindi, si incomincia a parlare della lezione.

4. Come conclude solitamente una lezione? Tab. 4 1. La lezione si conclude con i compiti e poi le ultime raccomandazioni: “Mi raccomando, l’esercizio va svolto in questa maniera”. 2. Concludo sempre con la verifica, che può consistere o nella lettura della mappa, l’illustrazione della mappa... oppure la verifica proprio orale, o la produzione di un testo orale, oppure la realizzazione di una tabella; che so.... chiedo una tabella cronologica con gli eventi... altrimenti faccio lavorare in gruppo.

5. Come spiega un contenuto disciplinare? Tab. 5 1. La lezione deve essere interattiva... Non sto mai dietro la cattedra, anzi ci metto i ragazzi; sto quasi sempre seduta tra di loro e uno di loro, a rotazione, va alla cattedra. Dico: “Domani, qualcuno di voi potrà proporsi per una prima spiegazione”. 2. Quando devo spiegare un argomento nuovo? Parto dal brainstorming per capire che cosa sanno. 3. Chiedo che vengano qui, alla cattedra, a sostituirsi a me. 4. Soprattutto nelle prime, diciamo che passo oltre l’80% delle ore facendo pratica; però è proprio nel momento in cui, facendo pratica, troviamo la novità e spiego; spiego per 10 minuti, un quarto d’ora, la novità, però poi è pratica. 5. Sempre nel modo più pratico possibile [...] cioè, parto dal concreto sempre. 6. La lezione dialogata, sempre; è una lezione interattiva la mia, non riesco ad ascoltare solo la mia voce mentre faccio lezione. 7. In classe non mi capita più di leggere il testo, io parlo. Parlo dell’argomento e cerco anche lì di suscitare domande e risposte.

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6. Ci sono degli argomenti che ritiene più difficile da spiegare? Tab. 6 1. Quelli che non amavo, semplice. Perché quello che un insegnante non riesce a spiegare è quello che non ama moltissimo. Quello che ama lo riesce a spiegare meglio. Negli anni sono riuscita a farmi amare anche alcune cose che prima non amavo... però io devo fare anche l’analisi di me stessa; non posso svicolare rispetto a dei testi o dei temi, perché io non riesco a fronteggiarli; devo anche prepararli e devo anche studiarli per me e così farmeli piacere, perché così arriverò anche a loro. 7. Cosa funziona nella gestione di una classe? Tab. 7 1. Ci sono in generale delle buone pratiche, però diciamo che... sempre più negli ultimi anni... non abbiamo un sillabario ben preciso a cui attingere. Sappiamo che c’è tutta una pedagogia; che la pedagogia si aggiorna, che cambia, ma a noi purtroppo la teoria pedagogica non viene molto in aiuto, perché è troppo lontana, distante dalla nostra pratica. Noi abbiamo delle urgenze proprio pedagogiche; potremmo anche metterci a leggere testi filosofici, pedagogici... ben vengano; magari qualcuno... ecco potrebbe anche consigliarmi qualche buon testo, che mi aggiorni su questo, ma la nostra è proprio pratica pedagogica e noi dobbiamo cercare nella nostra esperienza e, confrontandoci, proprio delle soluzioni pratiche e molto spesso vengono proprio quando meno ce l’aspettiamo. Questa cosa mi dispiace, io vorrei avere quel vissuto, appunto tutte quelle teorie a cui attingere: “Ah! In questo caso si fa così!”. Ma non c’è per noi. 2. Stabilire le regole… Con i ragazzi ho sempre un ottimo rapporto, essendo basato sul rispetto delle regole, per cui anche se devo intervenire un po’ con forza, rimproverando, i ragazzi lo accettano, perché sanno che hanno violato delle regole. Quindi non ho problemi con loro; anzi, io con loro ho un ottimo rapporto. Ripeto, io con loro ho un ottimo rapporto, solo perché basato sul rispetto delle regole: loro lo sanno, per cui si va tranquillamente avanti; è là, dove mancano le regole, che c’è anarchia e, quindi, anche conflitto. 8. Quali sono i sentimenti e le emozioni che provi più frequentemente nel tuo lavoro? Tab. 8 1. Questo è un lavoro che... trovi solo soddisfazioni a livello morale con i ragazzi. 2. A livello economico è vergognoso quello che ci danno e non ne parliamo più. 3. Be! È ragione di vita, assolutamente. Non potrei... dico una fesseria se dico che non potrei fare altro, però mi piace molto, e quindi ci sto bene. Certo quando le cose non vanno molto bene in classe, quando è difficile la gestione della classe mi sento un poco frustrata, mi sento anche un poco così, depressa, su quelli che sono i risultati. Vorrei avere risultati più elevati, questo sì; 4. Il mio senso di frustrazione è legato più che altro alla gestione del comportamento, quest’anno, non alla gestione della didattica. 5. Alcune volte mi scoraggia constatare di non riuscire ad arrivare, ad arrivare dal punto di vista della relazione ad un alunno. 6. Il sentimento che provo spesso è impotenza, perché vorrei maggiore condivisione... un maggiore atteggiamento di ricerca... 7. Ripenso continuamente a me studentessa, non prescindo mai, anche nel momento in cui mi capita di aggredire verbalmente un alunno... se il mio stato d’animo è positivo mi blocco e ripenso a me in quel ruolo, e cerco di capire le ragioni di una determinata reazione; alcune volte no, magari ci ripenso a casa, sto male a casa. 8. Temo che la strategia utilizzata la volta precedente possa non essere stata abbastanza efficace e mi piacerebbe anche introdurre, modificare, alcuni aspetti del mio percorso di insegnamento con l’ausilio dei suggerimenti di altri colleghi.

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9. Dove e come ha imparato quello che fa in classe? Tab. 9 1. Ho imparato insegnando e dagli errori che i miei insegnanti hanno fatto con me, insomma che ho riconosciuto nel tempo. 2. In classe. Anche perché di corsi di aggiornamento ne facciamo tantissimi, però alla fine sono tutti teorici; ti aiutano pochissimo e niente; allora a livello pratico imparo continuamente, cerco di auto aggiornarmi soprattutto.

10. Ripensi a quando ha iniziato ad insegnare: è cambiato qualcosa oggi rispetto a ieri? Tab. 10 1. Il mio modo di insegnare è cambiato tantissimo: inizialmente era tutta teoria, pratica poca e niente; d’altronde un insegnante impara strada facendo, sulla pelle degli alunni, c’è poco da fare. L’esperienza uno la acquisisce così, è inutile prendersi in giro. 2. Mi rendo subito conto se il ragazzo è teso, magari allora cominciamo a scherzare un po’, la prendiamo alla larga... invece prima no. 3. Il mio approccio cambia negli anni. Non posso dire che sia sempre lo stesso, altrimenti sarei la pietra miliare della didattica. 4. Se devo paragonare quello che faccio oggi, abitualmente, con quello che facevo 10 anni fa, 15 anni fa, beh, è parecchio diverso. 5. L’aspetto umano... quello è cambiato... cambio io e, quindi, è evidente che nella relazione cambio anche in rapporto ai ragazzi. 6. Avendo acquisito molta esperienza, riesco prima che in passato a raggiungere l’obiettivo: cioè quello di legare, di avere una buona relazione con la classe, di modo che loro mi riconoscano come l’insegnante leader positivo. 7. Sicuramente ho acquisito più disinvoltura, ho acquisito più sicurezze, perché adesso, anche nella selezione degli argomenti, procedo con più... ecco, all’inizio non mi preoccupavo molto di analizzare la situazione della classe, di ritagliare la lezione sulle reali capacità della classe; procedevo più sulle mie preferenze, legata anch’io al libro di testo; anche perché nei primi anni si cambia frequentemente classe e, quindi, devi modificare anche il tuo modo di insegnare; nell’arco dell’anno passi dalla prima, la seconda, la terza… libri di testo diversi; forse è una esperienza, quella degli anni di precariato, che ci rende molto flessibile.

11. Cosa fa durante un Consiglio di classe? Tab. 11 1. Ma lì si discute, insomma, nel bene e nel male e poi, alla fine, si accettano le decisioni che vengono fuori a maggioranza... ci sono pochi momenti di incontro, poca condivisione. 2. Il collegio dei docenti è il collegio dei docenti presieduto dal dirigente; i lavori sono guidati dal dirigente; e quindi facciamo i nostri interventi, diciamo quello che pensiamo, ma non fra di noi... io certe volte sarei tentata di fare una raccolta di firme e proporre un collegio senza il dirigente. 3. C’è un ordine del giorno, che viene comunicato a tutti noi, che generalmente ha l’obiettivo di deliberare sui finanziamenti... alla fine, si rivela, ancora una volta, una pratica burocratica.

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12. Come si svolge l’incontro con i genitori? Tab. 12 1. Con i genitori... magari ci fosse collaborazione. Molto spesso i genitori non comprendono; sono distanti dalla scuola. 2. Ultimamente sono, sempre più, dei problemi di gestione di alunni, che non hanno famiglia alle spalle o famiglie distratte, o distrutte, o famiglie che sono proprio come Giano bifronte: vengono a scuola e presentano un volto, un volto molto per bene, papà e mamma insieme... si presentano molto per benino... attenti al problema... la teoria la conoscono tutta, la pratica no, è quindi è una solitudine questa. 3. I genitori vengono però, poi, il giorno dopo, veditela tu e il mese di marzo... perché non sono capaci di gestire. Oggi è venuto un genitore che ha preso a schiaffi il figlio davanti a noi... subito dopo si è messo a piangere.... ha detto: “Non sappiamo più che cosa fare”. Quindi, quando un genitore ti dice questo, si aspetta che tu glieli risolva i problemi.

Infine, si riportano alcune stringhe testuali, estrapolate da risposte diverse, nelle quali si evince la presenza di credenze, giudizi e convinzioni profondamente radicati negli insegnanti; è proprio da queste credenze che deriva la possibilità di accompagnare gli insegnanti nella esplicitazione e de-costruzione delle convinzioni sottese l’agire professionale (ad esempio, giudizi “forti” e attribuzione dell’intera responsabilità educativa sulla famiglia, verso la quale si nutrono sentimenti di sfiducia e di conseguente chiusura). Tab. 13 1. Se si riuscisse a fare tutto in classe, io farei tutto in classe; io me li terrei qui fino alla sera, ti assicuro, perché sarebbe molto più produttivo che il lavoro a casa, nel quale non credo molto; 2. Sono convinto di una cosa: i ragazzi hanno perso il rispetto dei ruoli. L’hanno perso perché in famiglia non c’è rispetto dei ruoli, nella scuola molto spesso salta, allora io baso il mio insegnamento innanzitutto sul rispetto delle regole e dei ruoli. 3. Secondo me, molti genitori hanno la cattiva abitudine di parcheggiare i figli a scuola e basta... molto spesso sono inesistenti. 4. I ragazzi stanno a scuola 5-6 ore, dopo, il grosso della giornata lo trascorrono fuori da scuola ed è lì che viene a mancare l’affetto dei genitori, che pensano di comprare questo affetto con dei videogiochi o dei telefonini, perché i ragazzi li vedi superficiali. 5. I corsi di aggiornamento andrebbero fatti direttamente nelle classi... molto spesso sono perdita di tempo. Lo dico francamente, perché sono lontani dalla realtà.

3. Alcune risultanze dell’indagine L’analisi delle risposte mostra innanzitutto una dichiarata marginalità dell’utilizzo della spiegazione intesa come lectio, come esposizione verbale dei contenuti disciplinari, strategia utilizzata per tempi limitati, descritta quasi “in controluce”, in modo generico ed evasivo, e di gran lunga trascurata rispetto ad approcci laboratoriali: gli insegnanti partono dal concreto, dalla pratica, dai tempi e dai bisogni degli studenti. Questo dato, oltre ad emergere nelle risposte alle domande specifiche sulla spiegazione, è confermato anche dalle risposte date per descrivere le attività e le fasi di una lezione: grande attenzione va a quelle iniziali e a quelle conclusive, mentre la fase centrale della le-

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zione non viene quasi mai descritta direttamente e, per molti insegnanti, sembra essere data per scontato e ovvia. La lezione inizia spesso con il riprendere i contenuti già trattati o anticipati, il verificare cosa non si è compreso, il “controllare i compiti”, il partire dall’esperienza quotidiana dei ragazzi; poi, usando le parole di un insegnante intervistato, “si va avanti” – senza specificare come – e si conclude con il dare i compiti a casa o con le verifiche finali. Alle domande centrate sulla pratica di insegnamento, i docenti rispondono spesso parlando degli studenti, focalizzando attività che vedono come soggetto-agente lo studente, piuttosto che se stessi (descrivono ad esempio la verifica, centrata sugli studenti, in modo più articolato della spiegazione, centrata su se stessi). L’insegnamento, caratterizzato da grande variabilità e flessibilità, è centrato sulla classe e regolato dai ritmi e le esigenze degli studenti. La scelta degli argomenti si misura sulla situazione e le lezioni vengono diversificate a seconda della disciplina e della classe. La didattica non è dunque solo trasmissione dei contenuti e l’insegnante non è solo il medium tra il sapere e gli studenti. Ma, oltrepassando la “didattica del chiaro” e immergendoci nell’implicito dell’insegnamento, cosa emerge dalle parole degli insegnanti? In primis, il ruolo preponderante della soggettività: gli argomenti più difficili da spiegare sono quelli che l’insegnante non ama, che ha difficoltà a comprendere o che non conosce bene. Dalle narrazioni degli insegnanti si coglie l’importanza del vissuto personale e il legame tra l’Io insegnante e l’Io studente, ossia il ricordo degli errori dei propri insegnanti che riemerge nel proprio modo di insegnare. In secondo luogo, in relazione alle emozioni e ai sentimenti più frequentemente provati nell’insegnamento, i risultati sono contrastanti: da un lato la soddisfazione morale e la gioia, legata del tutto ai successi degli studenti, dall’altro, grande senso di frustrazione o di impotenza. Fra le cause dei sentimenti negativi che, fra quelli dichiarati, risultano percentualmente prevalenti rispetto a quelli positivi, gli insegnanti annoverano lo scarso riconoscimento economico, le difficoltà di relazione e di gestione del comportamento della classe, e la mancanza di condivisione: la solitudine del ruolo che, come si vede dalle risposte, si prova soprattutto nei confronti delle famiglie e dei colleghi. Alcuni insegnanti intervistati esprimono una sorta di “sindrome del deficit”, ossia si percepiscono come privi e bisognosi di “soluzioni pratiche” e “ricette” da cui attingere, lontani dalle teorie pedagogiche e dal mondo della ricerca, così come deficitarii del confronto con gli altri colleghi. Una insegnante, parlando della seguente indagine e del ruolo di chi scrive, dice esplicitamente: “Si, mi confronto solo come me stessa e, talvolta, è angosciante. Questa è una opportunità e mi auguro, ecco anche attraverso te, di potermi confrontare con chi fa proprio il mio lavoro; se tu puoi essere un collante per me va bene”. Tutti gli insegnanti intervistati mostrano inoltre un forte interesse per la relazione con gli studenti e per le strategie di controllo e di gestione del comportamento (le “management routines” nella classificazione di Yinger, ossia le routine utilizzate per stabilire le regole del contratto didattico e controllare l’ordine in classe) che, a differenza di quelle utilizzate per veicolare contenuti, sono chiaramente esplicitate. Dall’analisi delle interviste si evince la centralità delle dimensioni implicite del sapere del pratico, una competenza pratica che si trasmette nella pratica, senza accedere al livello del discorso e della coscienza, e che rimanda al concetto bourderiano di habitus (Bourdieu, 2005): ciò che, secondo la radice latina habeo, è acquisito, incorporato, ossia l’insieme di strutture, disposizioni e azioni che orientano e rendono stabile l’agire sociale e che, come tali, sono irriflessi, abituali, dati per scontato. A questo sapere pratico, per gli insegnanti, si uniscono creatività, flessibilità e capacità di adattamento alla classe.

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E veniamo alla prima “domanda della ricerca”: È possibile formalizzare le routine? La riposta è problematica e non certo semplice. Dall’analisi delle risposte, infatti, emerge una certa difficoltà di descrizione e formalizzazione delle azioni abituali e degli aspetti standard, ovvi e routinari della propria pratica: l’insegnamento viene descritto come qualcosa di complesso e soggetto a innumerevoli variabili, che muta di anno in anno, da classe a classe e a seconda dei contenuti disciplinari da insegnare. Le risposte sono spesso generiche, lontane dalla descrizione degli aspetti procedurali dell’azione. Questa difficoltà, come si evince da molte stringhe testuali, è evidenziata dalla ricorrenza della parola “dipende”. La formalizzazione delle proprie azioni, tuttavia, non è del tutto assente dalle descrizioni degli insegnanti: non segue facilmente a domande dirette (Cosa fai? Come fai?) ma “a posteriori”, dalla narrazione di un episodio o di un esempio. Sembra infatti che molti insegnanti non abbiano sviluppato una piena consapevolezza delle proprie pratiche professionali, ma che necessitino di continui rilanci e inviti a focalizzare un particolare, l’evento unico, l’episodio. Passiamo ora alla seconda “domanda della ricerca”: È possibile classificare le routine? Data la problematicità di formalizzazione delle routine da parte degli insegnanti, la classificazione delle routine a livello di ricerca non è certo semplice e immediata, ma senza dubbio possibile: occorrono tempi lunghi, restituzioni iniziali (degli obiettivi dell’indagine) e in itinere (delle interpretazioni, da condividere e negoziare con gli intervistati), che permettano all’insegnante di ri-pensare riflessivamente la propria pratica. La possibilità di formalizzare e classificare le pratiche routinarie di insegnamento sembra in qualche modo legata allo sviluppo della riflessività degli insegnanti: da una comparazione delle interviste è emerso infatti come gli insegnanti di area scientifica, partecipanti ad una precedente indagine collaborativa (Morgese,Vinci, 2010)9, abbiano sviluppato una maggiore consapevolezza delle loro azioni nella loro dimensione procedurale, a differenza del gruppo di insegnanti di area umanistica, i quali hanno invece riportato più frequentemente i “perché” del loro insegnamento, giudizi, credenze e opinioni personali. Capire quanto queste differenze siano il riflesso di differenze nelle didattiche disciplinari, piuttosto che il risultato della maggiore riflessività sviluppata da un gruppo di insegnanti durante la ricerca stessa, rappresenta un’interessante prospettiva di indagine sulla quale si intende tornare a riflettere. Per ora, tuttavia, non si può non considerare l’influenza della ricerca e le sue ricadute, in termini di autoformazione, come una prima risposta alla terza “domanda della ricerca”: È possibile formare gli insegnanti alla riflessività attraverso l’esplicitazione delle proprie routine? Solo all’interno di un autentico rapporto di partenariato Scuola-Università (che sia programmato, continuo, ri-progettato e alimentato dei contributi degli insegnanti) la ricerca didattica può, usando le parole di Perla, dare piena espressione al suo intento: «agevolare – con lo stesso insegnante – l’individuazione di un senso intersoggettivo del “non-ancora-noto” delle azioni professionali, facendolo emergere alla consapevolezza al solo scopo di migliorare l’azione magistrale. Esplicitare per meglio educare, dunque,

9 Il gruppo di insegnanti di discipline scientifiche è stato coinvolto in una precedente ricerca in cui sono state somministrate alcune interviste semistrutturate sull’immaginario scientifico, la formazione culturale e le pratiche di insegnamento scientifico, e in cui si è fatto ricorso ad una particolare tecnica di verbalizzazione, “le istruzioni al sosia”. L’analisi comparativa dei due corpus testuali (sets) e la suddivisione in nodi concettuali (code) è stata condotta grazie al supporto del software di analisi qualitativa dei dati Nvivo8. Cfr. http://www.qsrinternational.com/.

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può essere l’assunto di una ricerca il cui scopo risiede certamente nell’analisi degli impliciti delle pratiche di insegnamento ma anche, parimenti, nel tentativo di migliorare le pratiche stesse al fine di renderle, sempre più, pratiche “magistrali”: pratiche di eccellenza, sul piano didattico generale, disciplinare, di cultura dell’insegnamento» (Perla, 2010, p. 90).

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studi Didattica della ricerca scientifica in educazione Tra fragilità, valutazione e proposta Teaching of science in education Between fragility, evaluation and proposal VITO ANTONIO BALDASSARRE Le riflessioni che vengono presentate in questo contributo, vogliono essere l’avvio di un percorso, con intenzione costruttiva, di discussione e di definizione di alcune modalità operative e di alcune indicazioni metodologiche nel settore della ricerca empirica in campo educativo. Le domande alle quali occorre dare risposte sono le seguenti: Quali differenze intendiamo stabilire tra metodo e itinerario? Che cosa intendiamo dire con le espressioni “metodologia della ricerca” o “sapere metodologico”? La realtà educativa è dinamica, complessa, imprevedibile; quindi, la ricerca in l’educazione ha come funzione quella di produrre conoscenze che, in un tempo e in uno spazio variabili, permettano di trovare soluzioni ai problemi che si pongono. Non si tratta tanto di fornire ragguagli sui modelli teorici o metodologici, ma di chiamare a raccolta questi ultimi, di rielaborarli per chiarire i problemi e trovarne le soluzioni.

The reflections we present in this contribution, are the start of a path with a constructive intention, of discussion and of definition of some operational formalities and metho dological indications in the sector of empirical research in education.The questions to which to give answers are the following:Which differences do we want to establish between method and itinerary? What do we mean by the expressions “research methodology” or by “ methodological knowledge”? Educational reality is dynamic, complex, umpredictable; consequently, research in education has as function that of producing a certain kind of knowledge that let in a certain time and space effective solutions to the problems we meet in the ground. It is not the matter of theoretical discussions about methodological or theoretical patterns, but of gathering theoretical and methodological patterns in order to clarify the problems and find the solutions.

Parole chiave: ricerca in educazione, metodologia della ricerca in educazione, ricerca empirica, ricerca qualitativa.

Key words: research in education, methodology of research in education, empirical research, qualitative research.

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1. La premessa Per lo studente universitario che si cimenta nel lavoro finale di tesi, che lo costruisce passo dopo passo, che lo redige nella sofferenza e nel tormento, che lo discute davanti alla Commissione, si tratta di qualcosa che va parecchio oltre un semplice esercizio che sfocia in un voto finale. Si tratta, infatti, dell’impegno di una persona che lascia qualcosa di se stessa in qualche pagina riempita con fatica e trepidazione. Non se ne esce mai indenne, comunque, da un’opera di tal genere che impegna lo studente per parecchi mesi se non per qualche anno. La tesi di laurea è di per sé, e in maniera contraddittoria, espressione di un rituale accademico, ma nello stesso tempo risponde alle esigenze di una pedagogia che si interroga continuamente e cerca di rispondere alle esigenze di innovazione che giungono dal mondo che ci circonda. È ovvio che, in ragione di tutto questo, si mette in moto tutta una serie di dispositivi di sostegno per aiutare e accompagnare lo studente nel suo lavoro di ricerca utilizzando oggi la rete per rendere più immediata e continua la comunicazione, ma attivando anche insegnamenti teorici di carattere metodologico, seminari, incontri individualizzati. Sono questi i pilastri di sostegno di quella che potremmo chiamare, in senso generale, la formazione alla ricerca che nell’istituzione universitaria si realizza in termini, potremmo dire, di iniziazione, preparazione, inquadramento, accompagnamento alla ricerca. La diversità dei termini mette in evidenza un po’ anche la diversità degli obiettivi che ci si propone di raggiungere; manca, tuttavia, qualcosa che potremmo, dovremmo chiamare finalità di formazione specifica ed esplicita alla ricerca in campo educativo, pedagogico e didattico. Vi sono, di fatto, domande urgenti e significative alle quali occorre dare risposte altrettanto urgenti e rilevanti. Una prima domanda è la seguente: fino a che punto il lavoro di ricerca realizzato in fase di formazione svolge un compito di supporto autentico per una formazione alla ricerca nei nostri settori finalizzata a competenze attese anche di carattere professionale? (Brophy, Pinnegar, 2005). Non si tratta piuttosto di un mero esercizio iscritto in un corso di studio la cui dimensione pedagogica non va oltre la durata del corso di studio? Non accade, quindi, così che si pensi di lasciare nell’implicito l’aspettativa che la realizzazione di un lavoro di ricerca svolto e sostenuto in un ambiente pedagogico, costituisca, di per sé, un apprendimento che pone le premesse di ricerche future (possibili, se si vuole)? Può una ricerca portata a termine come conclusione di un ciclo di studio conferire all’autore un riconoscimento, uno statuto e una competenza nel campo della ricerca? Dobbiamo riconoscere che i lavori e le riflessioni sulla formazione alla ricerca si sono limitati finora o ad aspetti generali riguardanti l’elaborazione della tesi di laurea oppure ad aspetti particolari su problemi specifici riguardanti la realizzazione della stessa, senza iscriversi più ampiamente nella problematica delle relazioni tra lavoro di ricerca di ricerca sulla formazione e di formazione alla ricerca.

2. La Prospettiva didattica: Quale sapere sulla ricerca per quali pratiche formative? Da quando nelle nostre Università si è diffusa la presenza di insegnamenti pedagogici differenziati con particolare riferimento ad alcuni settori come quelli di pedagogia sperimentale, di docimologia, di didattica, ecc. sono proliferati lavori a carattere didascalico-didattico, destinati a studenti e formatori, che hanno sviluppato essenzialmente gli aspetti tecnici dell’investigazione e della ricerca empirico-sperimentale talvolta preceduti da una introduzione di carattere epistemologico. Tali lavori, più che opportuni senza alcun dubbio, hanno cercato di rispondere alle esigenze degli studenti e dei giovani studiosi nella loro impresa di ricerca. Hanno dato risposta alle difficoltà di determinare un oggetto di ricerca, di scegliere una problematica pertinente, di condurre un’indagine, di definire e utilizzare uno strumento di indagine, di raccogliere e manipolare dei dati, di redigere un rapporto di ricerca usando un linguaggio appropriato.

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Sono scaturite da tali esigenze manuali e guide metodologiche che hanno indirizzato il giovane ricercatore, passo dopo passo, nell’itinerario della sua ricerca. La loro caratteristica è quella di presentare sotto forma di itinerari formalizzati, di tecniche e procedure da riprodurre rigorosamente e che finiscono col variare solo sulla base degli indirizzi epistemologici degli autori che le hanno elaborate. Seguendo itinerari pre-costituiti di tale natura sembrerebbe risolto, in teoria, il problema di come destreggiarsi. In effetti, invece, sorgono difficoltà anche nel gioco relazionale tra giovani ricercatori e direttore di ricerca incaricato di accompagnarli lungo un cammino disseminato di imboscate di ogni genere. Ritengo sia proprio nell’implementazione delle procedure metodologiche formalizzate che sorgono gli ostacoli più ricorrenti.

2.1. Breve nota storica La formazione alla ricerca in generale e in modo specifico nel settore dell’educazione non è un tema gran che coltivato nell’ambito della stessa ricerca in educazione. Un certo interesse in sede internazionale nella promozione della ricerca in educazione si manifesta negli anni ’60 del secolo scorso. Iniziò in quegli anni un vasto movimento di sviluppo della ricerca in educazione come strumento per guidare la politica e la pratica educativa. Sino a quel momento la ricerca in educazione era un’attività tipicamente accademica sia in Italia, sia negli altri Paesi europei ed extraeuropei finalizzata fondamentalmente agli sviluppi della carriera universitaria. Le esigenze di professionalità nel settore della ricerca in educazione crescono, in quel periodo, in ragione anche dello stanziamento di fondi un po’ più consistenti destinati alla ricerca e della nascita di istituti o centri specifici di ricerca. In Europa, il Consiglio d’Europa istituisce agli inizi degli anni settanta un Comitato per la Ricerca in Educazione che emana delle raccomandazioni tendenti a sollecitare la formazione alla ricerca. Negli Stati Uniti l’Office of Education offre sostegno alla formazione alla ricerca in campo educativo e la American Educational Research Association (AERA) si è dato come compito quello di promuovere la formazione alla ricerca. In Italia solo a partire dagli anni ’80 si avvia un vero e proprio itinerario di formazione alla ricerca con l’istituzione del dottorato di ricerca. Ma il termine ricerca nel contesto che ci appartiene può assumere diversi significati. E’ possibile individuare una linea di demarcazione fondamentale tra le diverse filosofie della scienza. Nei paesi di lingua inglese e in quelli scandinavi esiste una tradizione dominante che riconosce come proprio l’approccio empirico-analitico fondato sulla filosofia dell’empirismo logico. In effetti, tale approccio è stato talmente dominante che solo recentemente alcuni studiosi sono diventati più guardinghi sulla loro appartenenza. Negli altri Paesi europei sono rintracciabili diversi approcci alla ricerca in educazione. La fenomenologia, l’esistenzialismo, l’ermeneutica, il marxismo sono da considerare forti alternative di pensiero atte a guidare gli interessi conoscitivi e la metodologia di approccio. Si può dire oggi che tali alternative hanno guadagnato terreno anche nei paesi di più stretta tradizione “empirista“ . D’altra parte, come abbiamo più volte sostenuto (Baldassarre, 1995), anche all’interno della tradizione empirico-analitica, il termine ricerca viene usato secondo diversi gradi di rigore che vanno dalla sperimentazione controllata con la misurazione quantitativa all’osservazione naturalistica fino all’analisi qualitativa dei dati. Senza entrare qui in questioni più specifiche, va detto in termini chiari che il termine ricerca qui viene usato sia per la ricerca cosiddetta fondamentale, sia per la ricerca applicata, sia per la ricerca orientata alle conclusioni, sia per quella orientata alle decisioni. Se, nell’ambito della ricerca qualitativa, noi prendiamo, ad esempio, in considerazione l’uso dell’analisi narrativa, ci rendiamo conto che, mentre esiste in maniera diffusa, la presentazione di elementi narrativi della storia, delle focalizzazioni del canovaccio come costrutti che possono essere usati per leggere testi di ricerca che utilizzano tale metodologia, e noi ce ne siamo anche occupati (Baldassarre,

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1999), quando il lettore interessato a questa metodologia di ricerca si accosta ai testi con in mente questi elementi, le domande che presumibilmente si presentano alla sua mente sono le seguenti: Qual è l’aspetto essenziale della storia che è presente nel testo? Chi e che cosa rappresentano i caratteri centrali? A nome e nella prospettiva di chi la storia viene raccontata? In che modo le parti, gli eventi e i significati sono connessi tra loro? È vero che un progetto di ricerca è qualcosa che va al di là di tali elementi essenziali, ma un’ analisi può cominciare con tali focalizzazioni; passando in rassegna elementi specifici, i lettori possono pervenire alla comprensione di aspetti più complessi. L’esempio preso in considerazione non significa che nell’ambito della ricerca qualitativa non vi sia una grande varietà di metodologie praticabili per insegnare a fare ricerca secondo questo indirizzo, ma significa che l’uso dei testi narrativi può essere utile per coloro che si accostano alla ricerca qualitativa. Vi sono a questo proposito ricerche recenti che possono aiutare a sviluppare formazione alla ricerca (Poulin, 2007, pp. 431-458). Un giovane ricercatore in campo educativo ha bisogno, comunque, di una preparazione su tutti e due i versanti, il quantitativo e il qualitativo. Conta, a mio avviso, pensare che l’idea guida è quella che corrisponde ad una “indagine rigorosa” come l’hanno, a suo tempo, definita Cronbach e Suppes (1969). Tale indagine non comprende soltanto gli studi empirici all’interno di un continuum al quale ho appena fatto riferimento, ma anche le analisi logiche e filosofiche e gli studi storici, purché tutti e ciascuno presentino “i materiali grezzi che hanno a che fare con l’ argomento e i processi logici per mezzo dei quali essi vengono rielaborati per rendere credibile la conclusione che se ne trae” (Cronbach, Suppes, 1969, p. 15).

3. Didattica della ricerca scientifica Vanno subito dichiarati due nodi problematici che emergono non appena ci si ferma a riflettere su questo passaggio tematico: da una parte le esigenze scientifiche della ricerca da coniugare con gli imperativi dell’azione educativa; dall’altra, la mobilitazione pluridisciplinare che fa entrare in tensione le discipline di riferimento, pur nella affermazione di una necessità di autonomia. Poiché manca una posizione epistemologica netta e consensuale su questi due nodi problematici, la dimensione metodologica e, di conseguenza, la pretesa di una didattica della ricerca accusa la sua mancanza di una coerenza complessiva e, quindi, mostra la sua fragilità. Essa appare un po’ come un amalgama di “tecniche”, di “percorsi”, di “metodi”, di “metodologie” prese in prestito alle diverse scienze umane e sociali che sono state mobilitate. Il sapere metodologico che viene messo insieme e “trasmesso” al giovane ricercatore per la realizzazione della sua ricerca presenta due caratteristiche: a) è analitico; b) è procedurale. a) Analitico in quanto somma di metodologie presentata spesso sotto forma tipologica e secondo una valenza dicotomica: vengono presentati in maniera contrapposta i metodi clinici e i metodi sperimentali, la ricerca-conoscenza e la ricerca-azione, la ricerca fondamentale e la ricerca applicata e così via. Sì, si percepiscono le convergenze possibili tra i diversi metodi, ma essi restano prigionieri di stereotipi che, siccome appartengono a tipologie fondate su criteri di classificazione diversi, rimangono poco chiari e scarsamente operativi per giovani ricercatori ai quali si promettono, invece, punti di riferimento e inquadramenti complessivi efficienti. b) Procedurale in quanto esso appare come un insieme di metodi definiti a priori, successione di fasi più o meno rigide che il giovane studioso deve riprodurre per portare avanti la sua ricerca. Il sapere metodologico che ne scaturisce offre il fianco a più di una riflessione, in quanto è esso

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stesso all’origine delle difficoltà del ricercatore principiante nella sua impresa di ricerca, nel senso che non permette di superare la logica di un lavoro di ricerca in divenire per soddisfare le esigenze di una formazione alla ricerca fondata su competenze riconoscibili e riconosciute e nel senso che si rivela poco adatto alla diversità delle ricerche che dovrebbe consentire di mettere in moto. Prendo in considerazione un triplice ordine di riflessioni.

3.1. L’inadeguatezza di ordine epistemologico Il ricercatore navigato vive le sue esperienze di ricerca all’interno di un quadro istituzionale e scientifico ben definito, è abituato a manipolare concetti e metodi che gli sono familiari e non risente necessariamente il peso dei vincoli metodologici, né la rigidità dei modelli. Ma è, poi, effettivamente nella posizione corretta per rendersene pienamente conto?. Gli oggetti di ricerca che tratta si situano, di solito, in un preciso campo di studio di sua competenza, corrispondono alle sue espressioni e, proprio per queste ragioni, corrispondono anche agli strumenti metodologici e concettuali che egli maneggia con abilità. Quando, poi, si rende conto che lo strumento non si piega perfettamente alle sue esigenze, si prende la libertà di adattarlo. Molto diversa è la condizione e la posizione del giovane ricercatore, il cui oggetto di ricerca è innanzitutto una scelta personale e non si iscrive, quindi, ipso facto in una problematica o in una batteria di strumenti metodologici già definite, né si sente autorizzato e competente per correggere una procedura metodologica che egli sta scoprendo ed è sollecitato a rispettare. Il giovane ricercatore si imbatte nelle rigidità delle procedure che non sono all’origine necessariamente suscettibili di adattamento automatico alle situazioni prese on esame. Il suo candore di neofita rivela quel che gli occhi del ricercatore navigato non sono abituati forse a discernere e cioè, l’inadeguatezza di ordine epistemologico tra una concezione procedurale e analitica della ricerca e la diversità delle situazione educative. Se è possibile, in effetti, studiare i fenomeni educativi alla luce di teorie e di metodi predeterminati, di illustrare il proprio aspetto di studio da un punto di vista definito a priori e di iscriverne lo studio in un quadro strumentale tipo, non è possibile ridurre la ricerca in educazione a questo tipo di percorsi. Si sente pure libero il sociologo o lo psicologo di fare riferimento al campo dell’educazione per testare le sue teorie, di farne un laboratorio di studio, di fare in ultima analisi delle ricerche sull’educazione. Ciò facendo, essi affinano i loro modelli concettuali e metodologici e incrementano il patrimonio euristico dei ricercatori per l’educazione. Ma questi ultimi non possono assoggettare il loro oggetto di ricerca alle esigenze della conoscenza scientifica e renderla suddita di problematiche predeterminate. La realtà educativa, infatti, dinamica, complessa, imprevedibile, non deve piegarsi alle volontà teoriche e tecniche di un ricercatore. La ricerca in l’educazione ha come funzione quella di produrre conoscenze che, in un tempo e in uno spazio variabili, permettano di trovare soluzioni ai problemi che si pongono. Non si tratta più allora di fornire ragguagli sui modelli teorici o metodologici, ma di chiamare a raccolta questi ultimi, di rielaborarli per chiarire i problemi e trovarne le soluzioni. La ricerca, anche quella empirica, in educazione è nello stesso tempo ricerca sull’educazione e ricerca per l’educazione. Dal punto di vista epistemologico occorre fondamentalmente rispondere alla domanda su quale sia il tipo di sapere metodologico per la ricerca in educazione capace di raccogliere la sfida della creatività senza nascondere il bisogno della standardizzazione delle procedure.

3.2. Il problema della finalizzazione Quando il giovane ricercatore, sia egli un laureando o un dottorando, giunge al termine della sua ricerca, dopo aver più o meno subito con rassegnazione e diplomazia il rituale della discussione

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e deve decidere di orientarsi verso un lavoro o continuare la sua attività professionale, che cosa se ne fa della sua ricerca? In che cosa questa tappa della sua formazione gli sarà stata utile? Quali competenze avrà sviluppato? Naturalmente ce lo stiamo chiedendo in modo particolare per l’ambito specifico della ricerca in campo educativo. Sicuramente egli avrà imparato a utilizzare entro un preciso quadro di riferimento alcune procedure definite, ma avrà soprattutto imparato a rispondere alle esigenze del suo “mestiere” di “novizio” nell’attività di ricerca. Possiamo onestamente dire che, qualunque sia il settore nel quale si evolverà la sua professionalità (nuova ricerca accademica, ricerca-azione, consulenza, insegnamento, ecc.) è abbastanza improbabile che egli possa sfruttare in modo diretto l’apprendimento realizzato. Fino a che punto, infatti, esiste la probabilità di trovare, soprattutto nel nostro settore, due situazioni di ricerca che possano considerarsi simili al punto da richiedere tecniche e percorsi identici? In che modo il giovane ricercatore, convinto che la ricerca si conduca in una logica di riproduzione di procedure predefinite, riuscirà a dar prova di adattamento e costruire egli stesso la procedura che meglio si confà al suo studio?. Una concezione analitica della metodologia e una logica di formazione basata sulla riproduzione mimetica appaiono limitate per le competenze che sviluppano sul piano professionale. Ma il discorso vale ancora di più dal punto di vista umano. Infatti, la logica di formazione tecnica basata sul mimetismo tende a presentare il metodo come il punto fisso epistemologico a partire dal quale è come se si pretendesse di tagliare di netto e separare il vero dal falso. È come se il giovane ricercatore potesse dire a se stesso: “Se ho rispettato la procedura, la mia ricerca avrà rigore scientifico e, di conseguenza, i risultati della mia ricerca saranno validi. Si tratta di un atteggiamento rassicurante per chiunque rifiuti l’insopportabile e infinita relatività della conoscenza. Ma il ricercatore autentico si troverà sempre di fronte ad un magma metodologico il cui territorio variegato riduce a niente le pretese illusorie di una verità assoluta. La metodologia non potrà mai essere questa specie di meta-scienza, giudice imparziale della conoscenza, la cui padronanza del codice dia la chiave della verità. Già alcuni anni fa, esplorando un qualche circuito virtuoso (Baldassarre, pp. 27-38) per la ricerca in educazione, individuavo nel “mettersi in ricerca” l’opportunità specifica di “formazione finalizzata alla promozione delle capacità di far abitare insieme il locus della Ricerca e il locus dell’Azione”. Il significato è quello di impegnare i giovani ricercatori a interrogare gli itinerari muniti di segnali (di boe), di paletti, di confini che indirizzano verso la ricerca della verità, è quello di impegnarli sulla via della relatività, e, quindi, della tolleranza. Il giovane ricercatore viene indirizzato così verso la formazione di una professionalità in una prospettiva di adattabilità, verso la formazione di un uomo che sfugga a ogni dogmatismo: questi penso che siano i punti nodali per la realizzazione di una ricerca in formazione e di una formazione alla ricerca, che prenda forza da un accompagnamento teorico e pratico.

3.3. Quali tracce del travaglio di ricerca nei prodotti pubblicati? Siamo di solito abituati a leggere degli ottimi lavori di dottorato, delle tesi non meno degne di attenzione e che sono stati svolti secondo procedure conformi a canoni metodologici indicati. Il che costituisce senza dubbio la prova che certe situazioni di ricerca si iscrivono pienamente in una procedura determinata e che si dimostra ben adattata, ma non dimostra per niente che la somma delle procedure possa coprire l’insieme delle situazioni di ricerca. Se quella scarpetta è riuscita a rendere celebre Cenerentola, essa non è assolutamente un modello universale. Quante altre ragazze hanno cercato di farci entrare il loro piede! Analogamente, quanti ricercatori fanno dei contorsionismi senza effetto per entrare nel novero dei riferimenti metodologici imposti dal successo di quelli che li hanno utilizzati! Che cosa effettivamente conosciamo dei processi di ricerca reale, degli itinerari effettivamente seguiti dai ricercatori, ivi compresi quelli il cui prodotto finale attesta una conformità fedele ai percorsi canonici?

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Quanti di questi prodotti nascondono le oscillazioni vissute dal ricercatore, i suoi dubbi, i suoi incessanti movimenti di andata e ritorno, un cammino caotico, esitante dietro l’ortodossia di una linearità di facciata? Sicuramente esiste una differenza sostanziale tra l’itinerario reale del ricercatore e il percorso che poi invece propone al lettore, tra la logica dell’indagine fatta di aggiustamenti e di incertezze e una logica di restituzione che si presenta con i caratteri della persuasività e del protocollo. In ultima analisi, gli studi standardizzati, le spiegazioni metodologiche collocate per tradizione in apertura di tesi o di trattazione riusciranno a convincerci che una concezione analitica della metodologia sia operante per l’insieme delle situazioni di ricerca e per coloro che sono nella fase dell’apprendimento della ricerca? Quanti di costoro vivono la loro ricerca come il percorso del combattente in cui la maggiore difficoltà è proprio quella di riuscire a iscriversi in un quadro imposto, per decidersi finalmente a mettere la targa di un metodo ortodosso su un percorso che gli rassomiglia solo da lontano? Quante contorsioni semantiche per realizzare quel grande scarto metodologico tra ciò che è stato realmente fatto e ciò che viene ritenuto utile scrivere del proprio tragitto? Ebbene, i percorsi sono sempre sinuosi e nessun metodo tipo prêt-à-porter permette di programmarli alla lettera. Se vogliamo esprimere in modo radicale il nostro pensiero alla fin fine nessuno di noi che cerca di insegnare a fare ricerca in campo educativo ha visto se stesso davvero alle prese con un insegnamento vero e proprio su come fare ricerca e questo “noi” include anche chi sta scrivendo ora intorno a questo problema e, credo, che questo valga per chiunque. Tutti noi abbiamo imparato a fare ricerca “lungo il percorso”, lo abbiamo imparato facendo e… continuiamo ancora ad impararlo. La ricerca non è quel lungo fiume tranquillo che pretende di farci leggere il resoconto del suo autore.

4. Nota conclusiva Le riflessioni che ho presentato in questo breve contributo, vogliono essere l’avvio di un percorso, con intenzione costruttiva, di discussione e di definizione di alcune modalità operative e di alcune indicazioni metodologiche nel settore della ricerca empirica in campo educativo. Alcune domande alle quali occorre dare risposte le poniamo fin da ora. Quali differenze intendiamo stabilire tra metodo e itinerario? Che cosa intendiamo dire con le espressioni “metodologia della ricerca” o “sapere metodologico”? Sono queste alcune delle domande alle quali cercare di dare delle risposte.

Riferimenti bibliografici Baldassarre V. A. (1995). Introduzione alla ricerca empirica in educazione. Bari: Edizioni dal Sud. Baldassarre V.A. et alii (1999). La vita come paradigma. Bari: Edizioni dal Sud. Baldassarre V. A. La ricerca in educazione: un circuito virtuoso. Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Educazione, 5 (2), pp. 27-38. Brophy J., Pinnegar St. (Eds.) (2005). Learning from research on teaching: perspective, methodology, and presentation. London: Elsevier, Jai. Cronbach L. J., Suppes P. (Eds.) (1969). Research for tomorrow is schools: disciplined inquiry for education report. London: Macnillon. Poulin K. (2007). Teaching qualitative research: lessons from practice. The Counseling Psychologist, 35 (3), pp. 431-458.

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studi La creatività come innovazione personale: teorie e prospettive educative Creativity as a personal innovation: theories and educational perspectives MARIA CINQUE È presentato lo stato dell’arte sulle teorie e le ricerche sulla creatività. Dopo aver delineato una mappa dei diversi approcci, si ripercorrono le tappe principali degli studi – soprattutto di matrice pedagogica e psicologica – e si analizzano alcuni modelli noti. Siccome la letteratura scientifica in materia si è arricchita ultimamente di contributi di ambito sociologico e organizzativo, al fine di trovare un minimo comun denominatore si propone una griglia di analisi comparativa degli indici di creatività e dei fattori che ne inibiscono il pieno sviluppo, elaborata confrontando 18 autori che hanno studiato la creatività in ambiti diversi. Una volta chiariti i diversi aspetti del costrutto “creatività”, si affronta il problema pedagogico di come sviluppare la capacità creativa delle persone in tutte le fasi della loro vita. Educare e formare alla creatività si può e si deve, a tutte le età; per riuscirci, occorre sfatare i ‘falsi miti’ della creatività e restituire un senso etico e relazionale a questo termine tanto abusato.

This paper aims to provide an analysis of the state of the art theories and studies of creativity. After outlining a map of the different approaches, it covers the main steps of the history of studies – especially the pedagogical and psychological ones – and it analyzes some already known models. The literature on creativity has been recently enriched by the contribution of sociological and organizational context and in order to find a lowest common denominator, it is proposed a grid of comparative analysis of the attributes of creativity and factors inhibiting its full development, drawn from a comparison of 18 authors who have studied creativity in different fields. What emerges is a kaleidoscopic vision of the phenomenon, which is furthermore investigated in the light of some brilliant insights of Italian educational research. It is important to educate for creativity, at all ages. It is therefore necessary to debunk the ‘myths’ of creativity and return a sense of ethics and relationship that term much abused. Only in this perspective it is possible to speak of education for creativity.

Parole chiave: creatività, educazione alla creatività, innovazione personale, università

Key words: creativity, education for creativity, personal innovation, university

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1. La deriva semantica del termine «La creatività sfida una definizione precisa» affermò lo psicologo Paul Torrance (1988, p. 43). Il termine non possiede infatti un significato chiaro e univoco; è una voce impiegata in molteplici contesti e, molto spesso, la sua area semantica è difficile da circoscrivere perché si sovrappone a quella di altre parole come fantasia, immaginazione, innovazione. Se poi ci si riferisce alle teorie e alle ricerche sulla creatività, in senso stretto, si può scoprire che il significato e l’impiego plurimo del termine non scompare e la ricerca scientifica è ricca di sfaccettature e angolature con cui è possibile affrontare il tema della creatività. Confrontando in senso diacronico le definizioni proposte da alcuni dizionari italiani si percepisce come l’evoluzione degli studi sulla creatività, avviati a fine Ottocento ma che ebbero un notevole impulso a partire dagli anni Cinquanta del 20° secolo – negli Stati Uniti e poi in Europa – abbia modificato, anche in Italia, il modo di intendere e concepire il pensiero creativo. Questo mutamento è stato frutto di un vasto dibattito scientifico che ha coinvolto esperti di varie discipline: neuroscienze, psicologia, filosofia, pedagogia, sociologia, economia, comunicazione. La dilatazione del concetto di creatività a cui si assiste ripercorrendo la storia degli studi in materia può lasciare sbalorditi. Da dote innata ad abilità da acquisire, da momento straordinario e/o privilegio di poche persone ‘geniali’ a proposta educativa globale per attuare, a livello individuale, un cambiamento che aiuti la persona a essere se stessa e, a livello sociale, l’ideale di un umanesimo autentico, ovvero di una cultura fondata sull’uomo e che si ispira alla tradizione cinquecentesca europea anche negli studi americani. Etimologicamente, il termine creatività deriva dal latino creare, verbo dotato di una radice (KAR), che si ritrova nel sanscrito *KAR-OTI (creare, fare) e *KAR-TR (colui che fa, creatore), nel greco KRAINO (creo, produco, compio), KRANTOR e KREION (dominatore, e propriamente colui che fa, che crea) e KRONOS (il creatore, il tempo, padre di Giove). La nozione di “creazione” appartiene in prima istanza al linguaggio della Rivelazione biblica (La Genesi inizia infatti con l’espresione “Bereshìt Barà Eloìm”); nessun altro popolo prima di quell’ebraico possedeva il verbo “creare” né tanto meno il concetto di creazione. L’idea di creatività come attributo di un essere umano nasce solo nel Novecento perché l’atto creativo è stato a lungo percepito come caratteristica precipua ed esclusiva della divinità: «Che l’uomo potesse essere creativo nel pensiero e nell’azione era considerato blasfemo fino a qualche secolo fa» (Bendin, 1990, p. 13)1. Per questo motivo molti ancora oggi, nel riferirsi all’uomo, preferiscono usare il termine “originalità” piuttosto che “creatività”.

1 Esistono alcuni tratti comuni, quasi ‘universali’, come appare dal confronto tra i diversi miti di creazione e dall’uso di metafore presenti in varie lingue. Widmann (2004) prendendo in esame i diversi miti della creazione – dalla tradizione giudaico-cristiana, da quella babilonese, da quella egiziana, eschimese ecc. – estrapola alcuni elementi narrativi cui le diverse culture attribuiscono valore simbolico: l’atto creativo avviene nel buio ed è anzitutto un’illuminazione, ha il potere di fare luce, di rendere le cose più chiare (coscienti); l’atto creativo è erompente e dirompente, a rappresentare il carattere improvviso e compiuto della creazione; il risultato dell’atto creativo è sempre una trasformazione del caos in cosmos, un passaggio da livelli di conoscenza-coscienza approssimata, nebulosa e indifferenziata verso livelli di conoscenza-coscienza più elevata, integrata e ordinata. Analogamente, Sassoon (1994, pp. 163-164) sottolinea come nella lingua di tutti i giorni siamo abituati a utilizzare alcune metafore per parlare del fenomeno della creatività: la metafora della luce (oltre alla classica figura stereotipata della ‘lampadina’, basti pensare a locuzioni come: portare alla luce, rendere chiaro, gettare luce, teoria illuminante ecc.); la metafora della procreazione o della gestazione e del parto (per es: concepire/ generare/partorire un’idea; periodo di incubazione ecc.); la metafora del mosaico (che pone l’accento sul

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È interessante seguire l’evoluzione del significato dell’aggettivo creativo. Così come è accaduto al corrispettivo francese, l’antico aggettivo ha trovato nel 20° secolo una nuova vitalità ed estensione per influenza dell’inglese creative, che indica l’uso di quelle competenze (skills) necessarie a produrre qualcosa di nuovo o un lavoro artistico (Oxford Dictionnary, 2002). Grazie a queste contaminazioni l’aggettivo creativo a partire dagli anni Settanta del secolo precedente si è caricato di connotazioni che lo rendono sinonimo di ‘produttivo’, ‘inventivo’, ‘fantasioso’ e, soprattutto, si è trasformato in un sostantivo che riguarda una specifica attività professionale (il dizionario Zingarelli indica, per la prima volta nel 1970, il creativo , inteso come figura professionale: «chi elabora annunci pubblicitari»). Oggi il termine viene impiegato più estesamente per definire diverse professionalità, non solo del settore del marketing ma anche in quello della moda, del design in generale In alcuni contesti, però, l’aggettivo creativo ha assunto anche un significato deteriore. Ciò è accaduto perché si è prodotta nel linguaggio comune una deriva del termine creativo che ha portato a qualificarlo come contrario alla logica e alla razionalità (da qui alcune locuzioni negative come finanza creativa, etica creativa). La deriva semantica è stata tale che, come osserva Bartezzaghi (2009, p. 9), nessuno oserebbe oggi definire creativo un artista: «Il creativo più creativo dovrebbe essere l’artista, ma curiosamente è raro sentire applicare il sostantivo ad artisti affermati nel campo delle arti diciamo maggiori. Dire che Eugenio Montale o Federico Fellini o Carmelo Bene siano ‘creativi’ parrebbe una diminuzione piuttosto che un elogio. Creativo si applica molto meglio ad aspiranti artisti, artefici che personalizzano la propria opera fino a sperare che gli altri si accorgano delle loro qualità artistiche» (Bartezzaghi, 2009, p. 9). La creatività non è quindi più considerata come qualcosa di eccezionale, ma come un elemento quotidiano nella vita di tutti individui, risorsa fondamentale a cui attingere nelle diverse occasioni della vita e del lavoro. In una prospettiva più ampia la creatività è altresì considerata un patrimonio comune che può essere sviluppato al fine di una miglior economia individuale e sociale. Da qui il valore attribuito a tutti gli sforzi per rendere più creativi il comportamento, il pensiero, nonché l’impegno allo sviluppo e alla stimolazione di tutte le potenzialità individuali.

2. Il dibattito scientifico I primi studi sulla creatività risalgono alla seconda metà dell’Ottocento e si concentrano sulla base biologica ed ereditaria del talento. Francis Galton, cugino di Charles Darwin, cercò di dimostrare che le variazioni che si potevano osservare nell’intelligenza umana erano il prodotto di processi biologici geneticamente determinati (Hereditary Talent and Character, 1865). Il tratto creativo, caratteristica individuale del genio, fu anche associato alla parte irrazionale della psiche, alle sue pulsioni, ponendo sempre più l’enfasi sulla somiglianza con la malattia mentale. Esemplare in questo senso è il contributo di Lombroso del 1894 – Genio e follia – in cui l’uomo di genio, il criminale ed il folle sono accomunati dal loro essere ‘eccessivi’ rispetto alla popolazione generale. Pur partendo dallo studio delle cause genetiche della creatività, all’inizio del Novecento

carattere combinatorio di ogni procedimento in cui, a partire da elementi preesistenti, si perviene a qualcosa di nuovo); la metafora del labirinto (da un ‘groviglio’, da un ‘ginepraio’ che rappresenta l’impasse in cui si trova bloccato il pensiero comune, l’idea creativa è quella che consente di imboccare la via d’uscita, un sentiero mai esplorato prima).

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alcuni studiosi cominciarono a valutare la possibilità di tener conto di altre determinanti oltre alla base biologica. Nel 1920 Lewis Terman dell’Università di Stanford diede avvio a un programma estensivo di ricerca per stabilire i fattori che influenzano la creatività e il talento. Nel 1925 pubblicò il primo volume della sua opera Genetic Studies of Genius, un’indagine basata su un campione di 1300 bambini ‘dotati’ intellettualmente, che dimostrava che non esiste un legame diretto tra quoziente intellettivo e successo in età adulta. Questa conclusione fu supportata anche dallo studio retrospettivo sul genio effettuato da un’assistente di Terman, Catherine Cox, che nel 1926 pubblicò The Early Mental Traits of Three Hundred Geniuses. Cox scoprì che i successi di persone che avevano dato un contributo importante nei diversi campi della cultura, della politica, dell’arte, della scienza non dipendevano tanto dal loro QI, ma “dalla persistenza di motivazione e impegno, fiducia nelle proprie capacità e grande forza di carattere” (Cox, 1926, p. 18). A dispetto di queste prime evidenze, per un lungo periodo la creatività fu identificata con l’intelligenza e solo negli anni Cinquanta del 20° secolo le ricerche in questo settore ebbero una spinta decisiva grazie allo psicologo statunitense Joy Paul Guilford che nel 1950, in qualità di presidente uscente dell’American Psychological Association, lanciò un appello per lo studio della creatività, sottolineando l’esigenza di un’apertura di interessi su questo particolare campo d’indagine, allora molto trascurato dalle ricerche psicologiche Con il passare del tempo e lo sviluppo della ricerca scientifica, la letteratura sull’argomento si è arricchita di nuovi contributi da parte di varie discipline e il tema creatività è stato indagato da molteplici punti di vista.

3. Le difficoltà e i diversi approcci Più di dieci anni fa Sternberg (1999, pp. 4-8) compì una ricognizione completa sul panorama degli studi della creatività e osservò che storicamente questo filone di ricerca aveva dovuto affrontare diversi ostacoli, dovuti probabilmente a un ampio retaggio culturale che considerava la creatività come qualcosa di ‘mistico’, di non spiegabile. I principali impedimenti alle ricerche scientifiche sulla creatività sono stati identificati da Sternberg anche nel fatto che questa ha rappresentato per anni un ambito periferico rispetto ai principali interessi della psicologia, focalizzati soprattutto sullo studio dell’intelligenza e sulla sua misurazione (QI); inoltre la creatività ha risentito della difficoltà di definizione di criteri di base e di metodi di misurazione; infine, hanno prevalso nella pratica approcci unidisciplinari, talvolta prevalentemente applicativi (creatività come Problem solving), o con intento dicharatemente commerciali. Simonton (1984, p. 76), riprendendo una griglia di analisi della creatività elaborata da Rhodes (1961) – le cosiddette “4 P” della creatività – raggruppa le definizioni in quattro categorie: • processo: raggruppa tutte le definizioni che si basano sulla descrizione di un percorso mentale e del pensiero o di un’analisi dell’informazione; questo tipo di ricerca è riconducibile ad autori come Koestler (1964), Ghiselin (1952) e Rossman (1931); • prodotto: intendendo come tale non solo qualcosa di tangibile, ma anche un’idea, una teoria, che saranno riconosciuti come creativi se soggetti in qualche modo esperti della materia li riterranno tali; in questa categoria si riconoscono autori come Mackinnon (1962) e Barron (1969); • persona: comprende tutte le definizioni e le analisi che provengono dagli psicologi della

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personalità; a questo filone appartengono la maggior parte degli autori, in primis Guilford (1950) e Cropley (1967); • persuasione: questa è la visione in cui si riconosce lo stesso Simonton, ritenendo che un individuo possa dirsi creativo nel momento in cui sia in grado di impressionare gli altri con la sua creatività e la sua leadership. In altri modelli analoghi la quarta P sta per Place, posto e sull’analisi del contesto si è concentrata la ricerca più recente, come vedremo, tanto che accanto al modello delle 4 P è stato elaborato (Florida, 2002) un modello delle 3 T (talento, tolleranza, tecnologia) per misurare la creatività delle città. Melucci (1994, pp. 14-15) afferma che nelle definizioni scientifiche di creatività si possono distinguere tre diversi piani: • carattere genetico, relative alle origini della funzione, della capacità o dell’atto creativo; queste definizioni si concentrano sui modi di formazione e di attivazione della creatività chiedendosi da dove venga o come nasca e mettendo l’accento, a seconda delle teorie, sull’atto creativo o sulla capacità come potenziale o sulla funzione della mente (Barron, Harrington, 1981); • aspetto morfologico, si occupano della struttura dell’esperienza creativa e la attribuiscono poi a certe funzioni e qualità della mente (Koesteler, 1964; Matussek, 1974; Arieti, 1979; Rothenberg, 1979); • il terzo tipo, più recente, si occupa della creatività prevalentemente dal punto di vista del processo o delle abilità, cioè delle operazioni creative e del loro prodotto (Guilford, 1950, 1970; Rubini, 1980; Weisberg, 1986). Queste tre prospettive non sono in sé contraddittorie ma riguardano diversi stadi di analisi che sono potenzialmente complementari e implicano modelli conoscitivi diversi. Anche Magyari-Beck (1990) ha sviluppato una tassonomia tridimensionale per classificare le ricerche sulla creatività, che è stata ulteriormente raffinata da Wehner et al. (1991). Le prima dimensione è l’aspetto preso in considerazione: il tratto, il processo o il prodotto. La seconda dimensione è il livello sociale: individuo, gruppo, organizzazione o cultura. La terza dimensione riguarda l’approccio e può essere suddivisa in due sottodimensioni: empirico versus teorico, qualitativo versus quantitativo. Dalla combinazione di questi approcci scaturiscono quattro categorie di studio: empirico quantitativo, empirico qualitativo, teorico quantitativo, teorico qualitativo (Wehner et al., 1991, p. 262). A nostro avviso il vasto dibattito scientifico potrebbe essere organizzato intorno a tre macroaree: • gli studi e le ricerche di ambito psicologico e pedagogico, che includono varie correnti di pensiero (psicoanalisi, comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo), con diversi tipi di modelli (fattoriali, a fasi, multidimensionali ecc.) e differenti approcci (psicometrico, didattico, sperimentale ecc.); • l’analisi psico-sociale che ha indagato l’attività creativa in relazione all’ambito e al contesto di realizzazione e che si è occupata anche dei meccanismi di comunicazione e diffusione dell’innovazione; • le discipline legate all’organizzazione aziendale, che hanno analizzato le figure creative nelle scienze del management e della comunicazione, con approccio prevalentemente empirico.

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Ciascuna disciplina ha approfondito un determinato ambito come ha dimostrato uno studio, di natura qualitativa e con intenti tassonomici, compiuto nel 2009 da Kahl, Hermes da Fonseca e Witte sugli abstract delle dissertazioni contenute nel database on-line Dissertations Abstract (PQDT, Pro Quest Dissertation and Theses), basandosi sulla tassonomia di Magyari-Beck (1990) e Wehner et al (1991), sopracitata. I risultati di questo studio hanno dimostrato che creatività e innovazione non sono immediatamente sovrapponibili e che ci sono discipline che si occupano maggiormente della creatività (soprattutto psicologia e pedagogia), mentre altre si concentrano sull’innovazione (scienze sociali, ingegneria, organizzazione aziendale ed economia). Lo studio del tratto creativo (ovvero delle qualità individuali della creatività) è privilegiato nelle ricerche di matrice pedagogica e psicologica; quello del processo creativo è adottato negli studi interdisciplinari e in quelli delle scienze sociali; lo studio del prodotto creativo è più frequente nelle ricerche di organizzazione aziendale ed economia. Queste ultime, inoltre, prediligono l’analisi del livello organizzativo, mentre tutte le altre discipline si concentrano maggiormente sull’individuo e sul gruppo. La maggior parte degli studi recenti si avvale di un approccio empirico (sia qualitativo sia quantitativo), mentre nel passato prevaleva l’interesse teorico.

Fig. 1 – Una mappa delle diverse classificazione degli studi sulla creatività

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4. Le interpretazioni Diverse sono le spiegazioni della creatività a seconda del background dello studioso che la interpreta. La creatività è stata interpretata in prospettiva psicanalitica2 come la capacità di far ricorso a contenuti inconsci o preconsci, come sublimazione o ‘deviazione’ della libido, ‘compensazione’ di desideri insoddisfatti o capacità di elaborare conflitti e difficoltà interne, trasformandoli in opportunità di crescita personale. Per gli psicologi della Gestalt, il pensiero creativo (o pensiero produttivo) è caratterizzato dall’istantaneità della risposta adeguata chiamata insight, intuizione. L’attenzione alle strutture è ciò che permette al pensiero produttivo di operare una ristrutturazione ovvero di cogliere nuove proprietà degli elementi del problema, i quali vengono così pensati e utilizzati in nuovi ruoli o in diversa prospettiva (Wertheimer, 1945)3. La psicologia comportamentista spiega i processi psicologici come un insieme di associazioni tra stimoli e risposte con il supporto di rinforzi, partendo dall’assunto per il quale l’azione umana è governata essenzialmente da fenomeni esterni. All’interno di questa corrente gli psicologi associazionisti (Mednick, 1962, pp. 220-232)4 forniscono una spiegazione della creatività in termini di particolari associazioni tra stimoli e risposte, caratterizzati dal fatto che gli elementi vengano correlati in modo inusuale. La creatività è stata interpretata anche come bisociazione (Koestler, 1964), l’operazione che riunisce due schemi di riferimento, contesti associativi o strutture di ragionamento che sarebbero normalmente considerate incompatibili; l’individuo creativo è pertanto colui che riesce a operare contemporaneamente su piani cognitivi diversi e a metterli poi in contatto tra di loro. Il pensiero creativo è stato definito come pensiero ‘bifronte’ o ‘gianico’ (Rothenberg, 1979), derivando il termine dalla divinità che guardava in due direzioni grazie ai suoi volti opposti; i prodotti artistici e scientifici si determinerebbero quindi nella combinazione consapevole di termini antitetici e apparentemente paradossali. Forma recente di associazionismo è il neo-associazionismo che considera fattori essenziali del pensiero l’abitudine, l’esperienza passata e la ripetizione5. In netto contrasto con le teorie behavioriste si pongono le teorie cognitiviste: l’individuo cessa di essere considerato un elemento passivo il cui comportamento è plasmato dall’ambiente che lo circonda, per divenire presenza attiva. Questo filone di ricerca ha portato all’identificazione della creatività con la soluzione di problemi. Gli studiosi cognitivisti (Guilford, 1950; Torrance, 1977; Pagnin, Vergine, 1974; Rubini, 1980). hanno prodotto un gran numero di mappe indicanti le abilità cognitive ed i costrutti che sorreggono l’attività creativa (cfr. Tab. 1). Un ruolo importante viene giocato dalla metacognizione: l’attività di ri-

2 Tra gli esponenti più illustri di questa corrente: Freud, Junk, Rank, Klein e, più recentemente, Segal, Kris, Kubi e Arieti. 3 Per Wertheimer per esempio, la creatività “è la melodia al di sopra delle singole note. 4 Per Mednick, proprio nella capacità associativa delle idee risiederebbe la caratteristica del pensiero creativo. 5 Weisberg (1986) sostiene che occorre pensare al soggetto creativo come ad un individuo che, di fronte al problema in cui è impegnato, cerca di recuperare informazioni dalla propria memoria e di immaginare possibili soluzioni alla luce di alcuni criteri definiti che egli (o il contesto in cui opera) si è dato. La creatività non ha quindi nulla di diverso rispetto al pensiero quotidiano, dato che basato sulla continuità con il passato. Un’interpretazione ‘continuista’ della creatività intellettuale è sostenuta anche da Gruber (1989) per il quale non esistono illuminazioni improvvise ma gli insight hanno una loro microgenesi conoscibile e riconducibile a sub-mete, false partenze e rinvii. Non esistono rotture radicali ma amplificazione di piccole differenze.

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flessione e riconoscimento dei propri processi cognitivi. La creatività si sviluppa e si accresce attraverso diversi momenti osservativi e auto-osservativi. In una visione personalista (Rogers, 1954; Maslow, 1962) l’attitudine creativa viene considerata come l’espressione del perfetto funzionamento dell’individuo, dovuto al raggiungimento di un equilibrio stabile tra le varie componenti comportamentali. Si tratta di una corrente che ha tentato di sottrarre la dimensione creativa dalle associazioni con la sofferenza e la patologia tipiche delle interpretazioni ottocentesche del genio creativo6. La teoria costruttivista mette in relazione lo sviluppo del pensiero creativo con la necessità di un’attiva partecipazione nel processo stesso7.

5. I modelli Per spiegare il meccanismo che regola o da cui ha origine la creatività sono stati elaborati vari modelli, tra cui quelli fattorialisti (di orientamento cognitivista), che considerano il pensiero creativo un’unità articolata, scomponibile in parti chiamate fattori e individuabili attraverso indagini e analisi statistiche. I modelli più noti sono quelli di Thurstone, Guilford, Torrance e di De Bono (Tab. 1). Thurstone (1941)

7 attività intellettive primarie

Vernon (1960)

Idem

Guilford (1956)

un modello di “struttura dell’intelletto”

Torrance (1977)

Componenti del processo creativo

Edward De Bono (1991)

riprende la distinzione di Guilford tra convergenza e divergenza

-

visualizzazione di figure geometriche in diverse posizioni dello spazio (S); rapidità nel calcolo numerico (N); rapidità nella percezione dei dettegli (P); capacità di cogliere idee e significati (V); fluidità verbale (W); memoria di parole, lettere e numeri (M); abilità intuitiva (I) una gerarchia, al vertice della quale si troverebbe un’attitudine generale che comprende un’abilità verbale-scolastica e una pratica operativa un cubo formato da 120 elementi, disposti su tre assi: le operazioni (cognizione, memoria, pensiero divergente, pensiero convergente, valutazione); i contenuti (figurale, simbolico, semantico, comportamentale); i prodotti (unità, classi, relazioni, sistemi, trasformazioni, implicazioni). originalità ( unicità) fluidità (quantità) flessibilità (cambiare direzione) elaborazione (scegliere ed elaborare) pensiero verticale (fondato sulla programmazione lineare di una serie di gradini logici da affrontare uno dopo l’altro) pensiero laterale (basato sulla ricerca deliberata di nuove prospettive, nuovi punti di vista).

Tab. 1 – Abilità cognitive e costrutti che sorreggono l’attività creativa autore della T

6 Rogers (1954) ritiene che la molla principale della creatività sia la tendenza insita nell’uomo ad attuare le proprie potenzialità. Per Maslow (1962) la creatività è correlata all’autorealizzazione dell’essere umano ottenibile solo con il soddisfacimento dei bisogni fondamentalicompetenza (la celebre in ‘piramide’). un settore, sono in grado di 7 e Per i costruttivisti l’apprendimento avviene attraverso l’esplorazione, l’esperienza e la manipolazione di oggetti e materiali. Già Vygotskij (1933) aveva posto l’accento su un’appropriata interazione fra il fanciullo e il gruppo degli adulti e/o di pari che favorisca, arricchisca ed espanda le possibilità creative. In seguito, Piaget (1972), basandosi sulla sua teoria degli stadi di sviluppo del pensiero, stabilisce un collegamento diretto fra sviluppo del pensiero creativo ed apprendimento attivo, che comporti attenzione agli interessi, propensioni e caratteristiche del fanciullo. A

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In diretto contrasto con l’idea di una creatività come tratto generalizzato da misurare utilizzando particolari test psicometrici (diversi da quelli per il quoziente d’intelligenza) è l’idea di Gardner (1983; 1993). Per il noto autore della Teoria delle intelligenze multiple, che distingue una serie di abilità intellettive specifiche per diversi campi, la creatività dipende essenzialmente dall’incontro tra il tipo di intelligenza individuale prevalente e le condizioni culturali e sociali che permettono il suo manifestarsi. La creatività si esprime in una disciplina o in un settore disciplinare, in relazione alla dominanza di una o più intelligenze. Creativi sono coloro che, avendo raggiunto un alto grado di competenza in un settore, sono in grado di elaborare soluzioni nuove. Secondo gli studi di Sternberg e Lubart (1996), la creatività consiste fondamentalmente nella “capacità di produrre qualcosa di nuovo (originale, inatteso) e appropriato (utile, adattabile al compito prefissato)”. I due elaborarono una teoria nota come Investment theory of creativity (Sternberg, Lubart, 1991; 1995; Sternberg, 2006). Alcuni studiosi, a partire da Wallas (1926), hanno cercato di comprendere il processo creativo scomponendolo in distinte fasi. Nella Tab. 3 sono riportati alcuni dei modelli di scomposizione del processo creativo. Wallas (1926) Rossman (1931)

4 fasi 7 fasi

Osborn (1953)

7 stadi

Taylor (1959)

5 tipologie

Jaoui (1993)

5 tappe

Cszíkszentmihalyi (1996)

3 gradi

Johnson-Laird (2005)

5 componenti (NONCE) che riguardano il rapporto individuo/società in relazione al ‘nuovo’

3 processi computazionali

preparazione, incubazione, illuminazione e verifica osservazione di un bisogno o di una difficoltà; analisi del bisogno; rassegna di tutte le informazioni disponibili; formulazione di tutte le soluzioni oggettive; analisi critica di tutte queste soluzioni per ciò che riguarda i loro vantaggi e svantaggi; nascita della nuova idea (invenzione); sperimentazione per saggiare la soluzione più promettente, e selezione e perfezionamento del prodotto finale attraverso alcuni o tutti i precedenti gradi. orientamento, preparazione, analisi, ideazione, incubazione, sintesi, valutazione espressiva, in cui l’originalità e la qualità del prodotto sono irrilevanti (ne sono esempio i disegni infantili); produttiva, che si manifesta in rappresentazioni realistiche e implica il controllo e la padronanza della situazione (ne sono esempi i giochi dei bambini più grandi); inventiva, che produce oggetti originali e ingegnosi e implica flessibilità nel percepire relazioni insolite e collegare elementi prima separati; innovativa, che produce modificazioni significative nei principi o nei fondamenti di una disciplina o di una corrente artistica (si tratta di una forma di creatività posseduta da pochi individui; emergente, che produce principi totalmente nuovi a partire da esperienze comuni ed è estremamente rara. la nascita di un’intenzione; la preparazione; l’incubazione; l’illuminazione; la verifica l’applicazione nuova di una ‘regola’ esistente; l’estensione di una regola esistente a un campo nuovo; l’istituzione di una regola del tutto nuova Novelty: novità per l’autore del processo; Optional: novità opzionale per la società; Nondeterministic: processo non deterministico per la società; Contraints: vincoli dettati dal paradigma del genere; Elements: uso di elementi preesistenti. il processo neo-darwiniano, che rispecchia l’evoluzione darwiniana per prove ed errori, dove la variazione è casuale ed i vincoli agiscono come filtri; il processo multistadio, dove i vincoli governano il processo solo in parte e altri vincoli agiscono come filtro; il processo neolamarkiano, dove i vincoli governano il processo e la scelta tra le alternative possibili è casuale.

Tab. 2 – Il processo creativo

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Negli studi più recenti il concetto stesso di creatività viene ricondotto verso “componenti strettamente sociali” (Perry-Smith, Shalley, 2003, pp. 89-106) Gli stimoli e le pressioni che l’ambiente esercita sulla creatività individuale e collettiva sono oggi al centro di una fioritura di studi che stanno riportando in auge il concetto di genius loci: alcune manifestazioni della creatività a livello ‘locale’ possono essere riconosciute e ‘misurate’ solo assumendo come paradigma il contesto culturale di riferimento8.

6. La personalità creativa Molti studiosi si sono concentrati sull’analisi della personalità creativa, sia ‘retrospettivamente’, cioè prendendo in esame i tratti di personaggi illustri, sia ‘prescrittivamente’, discutendo sulle capacità da potenziare ai fini di un’educazione alla creatività. Amabile (1996) ipotizza che alcuni tratti della personalità possano essere caratteristici di soggetti particolarmente creativi; in particolare evidenzia l’indipendenza di giudizio, l’autoconfidenza, l’attrazione per la complessità, l’orientamento estetico, la capacità di assumersi rischi. Per cercare un minimo comune multiplo dei diversi approcci, abbiamo analizzato comparativamente gli attributi della creatività in 18 autori9. Da questa analisi è scaturita una griglia di 36 attributi della persona creativa e 29 fattori (individuali) di inibizione della creatività. Accanto a ciascuna colonna sono indicati quanti dei 18 autori menzionano quel determinato tratto (attributo o fattore di inibizione). Abbiamo volutamente riportato solo i tratti indicati da almeno 5 autori (Tab. 3). Dall’analisi comparata emergono anche dei paradossi e delle contraddizioni: la creatività è insieme intuizione e metodo, meccanismo inconscio e conscio, è frutto dell’esperienza e, insieme dell’ingenuità, è momento straordinario ma anche processo ordinario, oltre che innata può essere acquisita. La creatività è insieme disciplina nel lavoro e capacità di porre ordine nel caos; la creatività non teme il disordine, è preferenza per la complessità, propensione al rischio. Secondo Bruner (1962) la figura retorica che meglio esprime il concetto di creatività è il chiasmo, in cui si crea un incrocio immaginario tra due coppie di parole, in versi o in prosa, con uno schema sintattico di AB,BA. La creatività, secondo Bruner, è la capacità di conciliare gli opposti, concordia discors, è insieme distacco e impegno, passione e decoro, dilazione e immediatezza.

8 In un suo contributo recente, Who’s Your City, Richard Florida (2008), spiega come oggi scegliere dove vivere sia tanto importante quanto la scelta del partner o del lavoro. In questo senso la creatività è, come molti altri fenomeni, glocal ovvero inserita in una visione che è locale e globale al tempo stesso. Questo tipo di approccio ci conduce a un campo che è stato molto esplorato dai sociologi, quello della diffusione dell’innovazione, che a partire dai primi studi di Tarde (1903), è stato oggetto di indagine di numerosi studiosi tra i quali soprattutto da Ryan e Gross (1943) e di Rogers (1962), che identificò il processo di diffusione dell’innovazione come essenzialmente di natura comunicativa, in cui entrano in gioco caratteristiche e orientamenti personali. Al confine tra questi due campi di indagine (creatività e innovazione) si pongono alcuni studiosi, come per es. Kirton (1976), che individua due tipologie di soggetti creativi: adaptors (che modificano e sviluppano idee all’interno di un contesto pre-esistente);innovators (che ristrutturano il contesto teorico culturale di riferimento). 9 Gli autori presi in esame appartengono alle tre macroaree sopra identificate (ambito psico-pedagogico, ricerca sociologica, discipline aziendali) e sono in ordine alfabetico: Amabile, Barron, Freud, Gardner, Gruber, Guilford, Kirton, MacKinnon, Maslow, Newell, Rogers, Rothenberg, Runco, Simon, Simonton, Sternberg, Torrance, Wallach.

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evidenzia l’indipendenza di giudizio, l’auto-confidenza, l’attrazione l’orientamento estetico, la capacità di assumersi rischi. Per cercare un minimo comune

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Attributi della persona creativa Acutezza di osservazione Anticonformismo Apertura all’esperienza Apertura al processo primario Autostima Autonomia Capacità di concentrazione Capacità di influenzare/persuadere Capacità di pensiero divergente Capacità di sintesi Capacità di utilizzare simboli (astrazione) Capacità di pensare per immagini (immaginazione) Capacità di porre ordine nel caos Capacità di fare analogie Competenza intellettuale Curiosità Disciplina nel lavoro Emotività Flessibilità Fluidezza di pensiero Fluidezza verbale Focus di valutazione interno Indipendenza di giudizio Individualismo Integrazione delle contraddizioni Intuizione Motivazione intrinseca Non temere il disordine Originalità Persistenza Preferenza per la complessità Propensione al rischio Sensibilità ai problemi Tendenza all’esplorazione Tolleranza all’ambiguità Valorizzazione del lato estetico s

Tot 5 6 8 6 5 8 8 5 5 5 5 7 6 4 6 7 10 8 6 7 6 6 9 8 6 6 12 8 10 12 4 10 6 5 6 7

Fattori individuali di inibizione della creatività Affezionarsi alla prima idea Apatia o acquiescenza Attaccamento alla routine Diffidenza nei confronti delle intuizioni Eccessiva delimitazione dei problemi Eccessiva fretta di riuscire Eccessiva preoccupazione per l’opinione altrui Eccesso di specializzazione Giudizi affrettati Incapacità di collegare il problema all’ambiente Incapacità di vedere i problemi da più punti di vista Incapacità di vedere i rapporti più nascosti Mancanza di iniziativa e di intraprendenza Mancanza di tempo Mancata analisi dell’ovvio Mancata distinzione tra causa ed effetto Paura del cambiamento Paura dell’insuccesso Paura delle critiche Paura di vedersi rubare un’idea Porre ai problemi condizioni troppo restrittive Rigidità Riluttanza a cambiare abitudini Riluttanza ad interrogarsi o a dubitare Scarsa motivazione e volontà Sopravvalutazione degli strumenti della logica Stereotipi ed idee preconcette Tensione, ansia Timore di percorrere vie non battute

Tot 7 9 7 8 8 5 6 6 5 7 8 6 8 5 7 9 8 8 8 6 7 9 7 7 7 6 6 5 9

Tab. 3 – Attributi e fattori individuali di inibizione della creatività

Questo ci riporta alla duplice etimologia del termine: quella latina, creo, capacità immaginativa, e quella greca, kraino, che significa compiere, realizzare. La creatività non è solo immaginazione e talento, ma implica anche la capacità di mettere in pratica le idee. La creatività è insieme libertà e responsabilità, capacità di realizzare se stessi e abilità di connettersi agli altri, di ‘fare rete’. Indubbiamente un agire creativo che non fosse libero sarebbe una contraddizione in termini, ma un agire creativo che non fosse responsabile sarebbe deflagrante e pericoloso. Nello stesso tempo ci sono poche opportunità nella vita per realizzarsi compiutamente come quando si crea qualcosa, finché si ripetono stereotipi già consolidati il livello di creatività è così esiguo da non poter neppure essere valutato. Ma è solo in un contesto in rete che il contributo creativo riceve il suo riconoscimento e diventa fattore di stimolo per gli altri e di progresso per la società. La creatività è prassi in senso aristotelico: è la capacità di unire abilità logiche e analogiche ed è orientata a capire, interpretare, ma soprattutto a produrre risultati positivi. Il pensiero creativo è una maniera di osservare il mondo cogliendo dettagli rilevanti e facendo domande non ovvie. Secondo Gardner l’atto creativo non è un ‘fuoco di paglia’, non è un evento isolato. La creatività evoca uno stile di vita, si identifica in un atto di singolarità, richiama piut-

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tosto una forma mentis e non tanto una combinazione di tecniche. Ponendo a confronto la personalità sintetica e la personalità creativa, Gardner osserva che il fine di quest’ultima è: «[…] estendere la conoscenza, scompigliare i contorni di un genere, guidare un insieme di pratiche verso nuove, impreviste direzioni […]» (Gardner, 2006, trad. it. 2007, p. 108)

7. I valori della creatività La creatività è la “risposta che apre” affermava lo psicologo Aldo Carotenuto (1991), nell’arte come nella vita. Un modo di vivere unicamente teso a evitare la sofferenza rischia di essere banalmente piatto e rischiosamente patologico, oltre che di privare l’esistenza di quelle dinamiche creative attraverso le quali si può creare il senso della propria vita. La creatività è in ciascuno di noi, si configura come dotazione di ogni essere umano in quanto tale: quando si avverte la propria vita come significativa si diventa capaci di ‘costruire’ qualcosa di inconfondibile e originale, in cui si riflette ed esprime liberamente l’individualità. Già Rogers (1954) aveva inteso la creatività come l’espressione più piena di quella tendenza a realizzare se stessi e a sviluppare in modi realmente efficaci le proprie potenzialità; essa costituisce “la molla stessa dell’esistere e della crescita psicologica”. Per Rogers la creatività è dunque un modo di concretizzarsi dell’imperioso bisogno umano a espandersi, a svilupparsi, a maturare e ad attivare le capacità dell’Io, sino al loro completo accrescimento e alla consapevole valorizzazione (Rogers, 1954, pp. 98 sgg). A un livello più ampio, la creatività è in grado di configurarsi come una vera e propria idea profetica – già delineata da Mencarelli negli anni Settanta –, provvista di un’incisiva reale forza promozionale della libertà e dell’imprenditorialità umana. Parlare di creatività significa dunque esprimere il presagio di una grande rinascita educativa grazie alla quale si possono realizzare le aspettative classiche di una formazione umanamente genuina. Grazie alla sua capacità di ‘programmare’ cultura, di realizzare valori (di libertà, giustizia, lealtà, amore, esteticità ecc.), la creatività si configura come opzione formativa fondamentale, principio regolativo della crescita umana per il quale trova piena giustificazione e assume consistenza la locuzione coniata da Mencarelli (1976, p. 79) di umanesimo dell’autenticità. I valori a cui è improntata questa attitudine che, rifiutando ogni curvatura individualistica, richiama l’uomo a una dimensione etica, sono: personali, cioè mirati all’autorealizzazione della personalità secondo una molteplicità di direzioni, che le impediscono di chiudersi in se stessa e la rendono atta a realizzarsi responsabilmente in una società pluralistica; storico-sociali, comprensivi dei beni che assicurano all’uomo una convivenza caratterizzata da civiltà e riguardano perciò specialmente quei valori che rientrano nell’universo sociale e giuridico-politico (Mencarelli, 1977, II); culturali, nel duplice significato di cultura intesa sia in senso antropologico-sociale, – che richiede lo sviluppo di una coscienza interculturale che curi la compenetrazione costante tra culture differenti –, sia in senso ‘tradizionale’, intesa quale patrimonio delle opere che l’umanità ha creato e che arricchisce costantemente nel tempo (in campo artistico-letterario, scientifico, filosofico, etico-politico, ed anche nel settore dei costumi e del folklore) (Mencarelli, 1977, III). Se assumiamo il termine creatività come equivalente del potenziale umano – cioè delle virtù che sono proprie dell’essere umano –, dobbiamo constatare che, quando si definisce creativa una persona si parla della creatività come di ‘abito’ (La Marca, 2005), come capacità, da parte di una persona educata in un determinato modo e che ha fatto propri alcuni valori educativi. Essere creativi vuol dire vedere le cose da un punto di vista personale, procedere

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con le proprie forze, capacità, possibilità; vuol dire affrontare la vita con spirito di ricerca, con atteggiamento coraggioso di fronte al rischio, alla lotta, alla sofferenza, all’insuccesso; vuol dire saper vivere con se stessi e in relazione con quanti hanno avuto o hanno un peso determinante nella nostra vita, nella nostra stessa formazione.

8. Recuperare un senso etico e relazionale Purtroppo, come abbiamo visto in precedenza, nel linguaggio comune si è prodotta una sorta di deriva semantica del termine creatività, intesa ora come capacità di pochi eletti ora come dimensione contrapposta alla logica e alla razionalità10. Anche in campo scientifico si sono inevitabilmente diffuse alcune ‘semplificazioni’ sul concetto di creatività. Secondo un’indagine condotta da Teresa Amabile, studiosa di Management alla Harvard Business School, e pubblicata nel 200411 vi sono alcuni luoghi comuni relativi alla creatività che possono essere facilmente sfatati12: • • • • • •

solo i creativi hanno creatività; il denaro è una forte motivazione; lo stress da scadenza alimenta la creatività; la paura spinge all’innovazione; competere è meglio che collaborare; organizzazione snella = organizzazione creativa.

Questi ‘falsi miti’ rivelano come si sia diffusa una cultura che vede la creatività solo come funzionale all’efficienza e all’innovazione aziendale. Viceversa, Amabile auspica un nuovo, rivoluzionario punto di vista sul lavoro e sulla creatività: quando le persone sono impegnate in lavori che amano e sono immerse in un’attività nella quale sono valorizzati e riconosciuti, allora la creatività è veramente ‘rigogliosa’. Il contrassegno della creatività non può essere quello di una dimensione efficientista, bensì quello di una dimensione prettamente ‘umanistica’, come abbiamo visto sopra. Già anni fa Rollo May, uno dei padri fondatori del counseling insieme a Rogers, affermava: «Il significato di creatività si è smarrito disastrosamente, nel convincimento che si tratti di qualcosa cui ricorriamo occasionalmente, soltanto nei giorni di festa. La premessa da cui dobbiamo partire per discernere il vero significato di creatività è invece che in essa si esprime l’uomo normale nell’atto di realizzare se stesso, non come prodotto di

10 Alcune indagini condotte da Eurisko e da Ipsoa dimostrano che per gli italiani, specie per i più giovani, creatività significa essere trasgressivi, rompere gli schemi, anche solo nel modo di vestire e di portare i capelli. La maggior parte degli intervistati percepisce la creatività più come dono innato che come talento da sviluppare, più come attività di autogratificazione che come impegno nella produzione di idee e scoperte utili e innovative. 11 L’articolo si intitola The 6 myths of creativity, e, pur riferendosi al mondo delle imprese, è applicabile anche al campo educativo-pedagogico Disponibile all’url: http://www.fastcompany.com/magazine/89/creativity.html (visitato il 12/10/2010). 12 Amabile ha studiato 12.000 appunti quotidiani creati da 238 professionisti attivi nel campo della creatività nei settori più disparati e ha codificato i dati raccolti in base ai contesti principali in cui le persone avevano difficoltà con problemi particolari o si sono trovate a creare nuove idee.

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uno stato morboso, bensì come rappresentazione del massimo sforzo di equilibrio emotivo. Questo equilibrio si ritrova nell’opera dello scienziato o dell’artista, del pensatore o dell’esteta o nel normale rapporto di una madre con il figlio».

“Bisognerebbe restituire alla parola creatività la sua dimensione progettuale ed etica” – afferma Testa: la creatività è il nuovo che produce qualcosa di buono per una comunità. Recuperare il senso etico e relazionale dell’agire creativo e considerare la creatività come opzione fondativa dell’educazione e della formazione dell’uomo contemporaneo sono due facce della stessa medaglia. Erich Fromm sottolineava che “essere creativi significa considerare tutto il processo vitale come un processo della nascita e non interpretare ogni fase della vita come fase finale. Molti muoiono senza essere nati completamente. Creatività significa aver portato a termine la propria nascita prima di morire” (Fromm in Anderson, 1972, p. 77). Il compito di essere architetti della propria esistenza – e della propria creatività - si realizza grazie a una consolidata capacità di deliberazione e di progetto, di autocostruzione ideale e di comportamento creativo: si compie cioè attraverso operazioni di decisione e di scelta che riguardano non tanto e non solo la vita individuale, ma anche la coscienza collettiva quale si realizza nel mondo civile e nell’universo culturale (Bertin, 1998, p. 79).

9. La creatività come chiave per il futuro Indubbiamente, nella cosiddetta ‘società dell’informazione e della conoscenza’ la creatività assume un’importanza strategica a livello sia individuale sia organizzativo. A livello individuale, oggi una persona non si trova più a occupare lo stesso ruolo per anni. A livello organizzativo la competitività tra le aziende si fonda proprio sul capitale umano, ovvero sul potenziale creativo e innovativo delle risorse che la compongono. In questo contesto, coloro che sanno pensare creativamente riescono a risolvere problemi esistenti, o a riconoscere e risolvere nuovi problemi e ad aprire nuovi orizzonti. «La stagione postfordista chiede un’organizzazione del lavoro il cui centro e la cui risorsa fondamentale sono rappresentati da una soggettività non caratterizzata tanto dalla qualificazione tecnico-professionale, quanto dalla capacità di sostenere la complessità delle relazioni interpersonali, la filosofia e i processi dell’innovazione» (Rossi, 2009, pp. VIII-IX).

La creatività è dunque un importante fattore adattivo per i singoli, per le imprese, per le organizzazioni, per i sistemi sociali e questo ha enormi ripercussioni sui sistemi educativi. Agli studenti, non più di quaranta anni fa, era sufficiente completare la propria scolarizzazione ed entrare in una carriera lavorativa che spesso durava tutta la vita. Lo sviluppo dell’informazione era lento. La vita della conoscenza era misurata in decenni. Oggi, questi principi fondamentali sono stati alterati. Le conoscenze sono in crescita esponenziale. In molti campi la vita della conoscenze è ora misurata in mesi. Per combattere la rapida obsolescenza delle conoscenza occorre abilitare modalità di pensiero creativo, come sottolineava Delors nel rapporto Nell’educazione un tesoro (1997): «Più che mai, il ruolo fondamentale dell’educazione sembra essere quello di dare agli individui la libertà di pensiero, di giudizio, di sentimento e d’immaginazione di cui essi hanno bisogno per poter sviluppare i propri talenti e per rimanere per quanto è possibile al controllo della propria vita.

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Questo imperativo non è di natura semplicemente individualistica: a quanto insegna la recente esperienza, ciò che potrebbe apparire soltanto come un mezzo dell’individuo per difendersi contro un sistema alienante o percepito come ostile, offre talvolta alle società anche le migliori possibilità di progresso. La diversità delle personalità individuali, il loro spirito di autonomia e di iniziativa, e persino il piacere della provocazione, sono altrettante garanzie della creatività e dell’innovazione […]» (Delors, 1997, p. 88).

Analoga è la posizione espressa da Morin, nel volume, I sette saperi necessari per l’educazione del futuro (1999, trad. it. 2001). Come già in Una testa ben fatta (1999, trad. it. 2000), Morin presenta un quadro ricco e ambizioso della visione dell’educazione e del suo ruolo nel mondo. Il suo approccio è sempre pluridisciplinare, anche per combattere contro uno dei suoi peggiori mali, la frammentazione dei saperi; la sua visione è globale, planetaria. L’autore presenta i sette saperi che, a suo parere, dovrebbero essere fondamentali negli insegnamenti per “integrare le discipline esistenti e stimolare gli sviluppi di una conoscenza atta a raccogliere le sfide della nostra vita individuale, culturale e sociale”. (Morin, 1999, trad. it. 2001, p. 7). I sette saperi identificati da Morin (combattere contro la menzogna, pertinenza della conoscenza, insegnare la condizione umana, insegnare l’identità terrestre, insegnare ad affrontare le incertezze, insegnare la comprensione, insegnare l’etica del genere umano) non sono saperi disciplinari ma auspicano quell’umanesimo dell’autenticità che, come abbiamo visto in precedenza, è per alcuni autori il vero significato (etico e sociale) da dare alla parola creatività. I sette saperi di Morin – come le “cinque chiavi per il futuro” di Gardner (2006) – non esauriscono la loro portata all’interno delle istituzioni scolastiche ma sono competenze che riguardano tutto l’arco della vita13.

10. Educare all’innovazione personale La molteplicità di situazioni formative nelle quali gli individui adulti possono trovarsi e che implicano, per essere tali, un qualche cambiamento sono anche intrinsecamente creative. Occorre costruire però un clima adatto e soprattutto intraprendere azioni incisive che sortiscano risultati duraturi. In definitiva, educare alla creatività vuol dire formare la persona nella sua interezza (a 360° come si dice spesso), educarla al bene comune, a una cittadinanza mondiale attiva e responsabile, al dialogo e ai rapporti interdisciplinari e interculturali, educarla al servizio degli altri, a fare bene il bene». Ma vuol dire anche prepararla a plasmare il proprio futuro in maniera significativamente soggettiva. Questo implica la capacità di leggere e interpretare

13 A questo proposito va ricordata la Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio d’Europa del 18 Dicembre 2006, che ha stabilito un elenco di “Competenze Chiave lungo tutto l’arco della vita”. La Raccomandazione definisce le competenze come “conoscenza, abilità e capacità”, identificandone otto chiave di cui le ultime quattro in particolare sono strettamente legate ai concetti di Creatività e Innovazione: per es. “la capacità di esprimersi” (l’espressione di sé), “la consapevolezza culturale”, “il senso e lo spirito d’iniziativa” e “le abilità individuali di trasformazione delle idee in azioni o quelle di creatività e l’assunzione di rischio”. Questi concetti sono stati ulteriormente ribaditi e rafforzati attraverso le “Conclusioni del Consiglio d’Europa sulla Creatività e l’Innovazione nel sistema di formazione e d’istruzione” del 22 maggio 2008, nelle quali si fa esplicito riferimento al ruolo chiave dei sistemi educativi come “triangolo dei saperi” e come promotore dello sviluppo delle capacità creative e innovative per promuovere la coesione sociale, la competitività economica e lo sviluppo dei talenti. Il Consiglio d’Europa ha anche stabilito il 2009 come Anno Europeo della Creatività e dell’Innovazione.

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il presente, ascoltare con spirito critico le opinioni dominanti, per poter elaborare una propria mappa sulla cui base scegliere e progettare con creatività il futuro (Rossi, 2009, p. 63). La creatività, afferma Testa, è una «…trama fatta di mille trame... Ma cosa significa effettivamente “educare alla creatività”? • • • • • • •

Già Torrance (1977) aveva sostenuto che educare alla creatività vuol dire: valorizzare le idee nuove; sensibilizzare i soggetti agli stimoli; abituarsi alla tolleranza verso idee nuove; abituare il soggetto a stimare il proprio pensiero creativo; incoraggiare ed apprezzare l’apprendimento autonomo; provocare la necessità di pensare creativamente; formare educatori animati da spirito creativo.

Di solito si parla di educazione alla creatività pensando a percorsi da attuare nella scuola primaria o, nella migliore delle ipotesi, in quella secondaria. Nel curriculum universitario non si dà molto rilievo all’argomento. Numerosi studi sottolineano invece come si possa educare alla creatività a qualsiasi età. Nel caso specifico degli studenti universitari, la creatività è un processo intellettuale, uno ‘spazio’ in cui uno studente motivato manifesta – all’interno del proprio profilo culturale (per es. studente di medicina, di ingegneria, di chimica ecc.) – un’apertura ad altri temi. La creatività è quindi un sapere traslazionale e meta-disciplinare: si stimola attraverso il contatto con saperi ‘altri’ si esplicita attraverso la possibilità di trasferire da un contesto all’altro contenuti/tecniche/linguaggi/metafore della conoscenza. Alla base di tutto ciò sta la consapevolezza dell’importanza dell’espressione creativa di idee, esperienze ed emozioni in un’ampia varietà di media, compresi la musica, la letteratura e le arti visive. Accanto a queste, un ruolo fondamentale gioca oggi un uso significativo – e non passivo – delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in particolare di Internet. Per questo riteniamo che, al di là delle iniziative che si intraprendono nelle scuole, occorre pensare e realizzare percorsi formativi per lo sviluppo della creatività anche all’interno delle università, i quali favoriscano la definizione dell’identità individuale, la costruzione delle relazioni interpersonali (la connettività), la gestione delle diversità e quindi dei talenti, il processo di produzione di significato (sensemaking) sia a livello individuale sia a livello organizzativo. Il discorso sulla creatività, se riferito agli studenti universitari, che si trovano nella fase di passaggio dalla giovinezza all’età adulta, si interseca con la complessità della nozione di cambiamento in età adulta. La nozione di creatività riguarda infatti azioni trasformative, innovative e associative che possono essere rivolte sia verso una realtà esterna sia nella direzione della realtà intima degli individui, configurando un cambiamento che, in senso pedagogico, è «quell’esperienza temporale più o meno lunga, dalla quale si esce con una diversa percezione di sé» (Demetrio, 1990, p. 81). In questo senso educare alla creatività significa in primis educare all’innovazione personale e poi alla capacità di apportare trasformazioni nel mondo circostante. Educare alla creatività in ambito universitario significa integrare la formazione curricolare con percorsi diversi, personalizzati, che non implichino tanto l’acquisizione di tecniche e metodi di creatività, quanto la forma mentis adatta all’innovazione. La creatività non dovrebbe riguardare rare occasioni “di convivialità” ma dovrebbe entrare a fare parte del curriculum universitario. Del resto se esaminiamo il concetto medievale di universitas, possiamo osservare come tutti gli attributi della creatività che abbiamo identificato, fossero già presenti in quella nozione: a) universitas come ‘comunità di maestri e alunni; b) universitas come ‘totalità’, in

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riferimento alle aree dello scibile che possono essere insegnate; c) universitas come ‘universalità’ dei risultati dello sforzo di ricerca, caratterizzato da un rigore metodologico che ne rende intersoggettivamente validi gli esiti; d) universitas come aspirazione alla costruzione di un’unità del sapere che possa essere tale sia in rapporto alla cultura del tempo, sia in rapporto alla sintesi che ciascuno ne elabora attraverso il proprio percorso formativo.

11. Conclusioni Diverse sono le prospettive da cui è stata studiata la creatività (comportamentismo, cognitivismo, costruttivismo, personalismo, connettivismo …); ciascuna di esse ha dato un contributo alla focalizzazione di aspetti differenti: lo studio delle aree cerebrali deputate al pensiero creativo, la ricerca biografica retrospettiva (dei geni e dei personaggi illustri) e longitudinale (dei gifted), l’analisi dei profili psicometrici, la creazione di modelli computazionali, l’ideazione e la sperimentazione di test per misurare la creatività, l’analisi fattoriale, l’analisi dei processi, l’analisi delle interazioni, etc. La creatività è stata di volta in volta identificata con l’inconscio, le pulsioni, con l’intelligenza (o una parte di essa), con la metacognizione, con l’apprendimento attivo e con l’autorealizzazione personale. La ricostruzione delle teorie che negli ultimi 60 anni hanno contribuito a definire la ‘galassia semantica’ del concetto “creatività” ci ha portati dunque a ri-delineare un quadro di luci e ombre da cui emergono i contributi specifici delle varie scuole. Le stesse contraddizioni, che inevitabilmente affiorano, servono a mantenere il valore dell’agire creativo nella logica della complessità, evitando possibili semplificazioni, inevitabilmente banalizzanti e superficiali. Alcuni luoghi comuni rischiano di appiattire la creatività in una visione deterministica che non tiene conto del fatto che la creatività non è un concetto monodimensionale, ma è piuttosto un orizzonte, un’idea-guida che emerge «dai processi di emancipazione in atto […], dalla diffusa ansia di libertà, dalla esigenza di autenticità umana insistentemente reclamata davanti ai tentacoli della massificazione», come affermava già negli anni Settanta del XX secolo Mario Mencarelli. In una prospettiva esistenziale la creatività appare, secondo Bertin (1998), come momento di problematizzazione rispetto al momento dalla ragione – intesa come esigenza di soluzione del problematico, di composizione del diverso, di soppressione del contraddittorio – e della tematica della ‘progettualità esistenziale’. In relazione a quest’ultima, la creatività rappresenta sicuramente «un fattore di dilatazione e di espansione della vita personale, interpersonale e collettiva» (Bertin, 1998, p. 79). Affermare che l’odierna domanda di educazione e formazione è, in fin dei conti, domanda di creatività, significa avvertire una «forte correlazione tra la richiesta di uno sviluppo più autentico della personalità e di una rigenerazione morale della società e la richiesta di una proposta valoriale che include le mete della difesa e della coltivazione della dignità e singolari della persona» (Rossi, 2009, p. 13). Bruner osserva che «una ricerca sulla creatività è giustificata […] dall’antica aspirazione dell’umanista perpetuamente volto a cercare l’eccellenza dell’uomo: ogni nuovo atto creativo può elevare l’uomo a una nuova dignità» (Bruner, 1962, trad. it. 1976, pp. 41 e 43). Educare alla creatività vuol dire rendere gli studenti consapevoli che, per trovare soluzioni ai problemi, occorre «imparare a imparare» (La Marca, 2009), formulando ipotesi, ponendo domande a se stessi e agli altri, scomponendo il problema e cercando informazioni attendibili e il più possibile complete per la ricostruzione degli aspetti della situazione, collaborando con il gruppo, evitando valutazioni frettolose e giudizi anticipati, prendendo decisioni con-

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seguenti alle informazioni acquisite, modificando, quando necessario, il punto di vista iniziale. Il pensiero creativo deve aver luogo al di là dei limiti conosciuti, fuori dagli schemi. È necessario sviluppare la curiosità, allontanarsi dalle idee considerate a priori come ‘razionali’ e dai procedimenti formali, valutare l’aleatorio e analizzare molteplici soluzioni alternative. Solo in questo modo si realizza l’ideale auspicato da Mario Mencarelli: «… antidoto alle frizioni negative, alle divisioni, alle lacerazioni che tormentano il nostro tempo, la creatività tutela il modo di essere della persona, richiede una società democratica, sollecita alla testimonianza di valori autentici…» (Mencarelli, 1976, p. 119).

Solo connettendo le principali teorie della creatività a opzioni pedagogiche generali e diluendone il significato con riferimento alle più vaste prospettive di educazione dell’uomo contemporaneo, è possibile comprendere la portata educativa dell’agire creativo, che consente il passaggio dalla ‘razionalità tecnica’ alla ‘razionalità riflessiva’, urgentemente rivendicata in un contesto sociale, educativo, tecnologico in continuo divenire. Riferimenti bibliografici Amabile T. M. (1996). Creativity in context: update to the social psychology of creativity. Boulder CO.: Westview Press. Anderson H. H. (1972). La creatività e le sue prospettive. Brescia: La Scuola. Arieti S. (1979). Creatività. La sintesi magica. Roma: Il Pensiero Scientifico. Barron F. (1969). Creative person and the creative process. New York: Holt, Rinehart, & Winston. Barron F., Harrington D. M. (1981). Creativity, intelligence and personality. Annual Review of Psychology, 32, pp. 439-476. Bartezzaghi S. (2009). L’elmo di don Chisciotte. Contro la mitologia della creatività. Roma-Bari: Laterza. Bendin M. (1990). Creatività, come sbloccarla, stimolarla e viverla. Milano: Arnoldo Mondadori. Bertin G. M. (1998). Il principio di creatività nel pensiero di Mario Mencarelli e l’educazione permanente. In S. S. Macchietti (a cura di). Mario Mencarelli per una pedagogia di frontiera. Roma: Bulzoni. Bruner J. S. (1962). On knowing: essays for the left hand (trad. it. Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Armando, Roma 1976). Carotenuto A. (1991). Trattato di psicologia della personalità. Milano: Raffaello Cortina. Cinque M. (2010). Agire creativo. Teoria, formazione e prassi dell’innovazione personale. Milano: FrancoAngeli. Cropley A. J. (1967). Creativity. London: Logmans, Green and Co. (trad. it. La creatività, La Nuova Italia, Firenze 1969). Delors J. (1997). Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’Unesco della Commissione internazionale sull’educazione per il Ventunesimo Secolo. Roma: Armando. Demetrio D. (1990). L’età adulta. Roma: La Nuova Italia Scientifica. Florida R. (2002). The rise of the creative class: and how it’s transforming work, leisure, community and everyday life. New York: Basic Books (trad. it. L’ascesa della nuova classe creativa, Mondadori, Milano 2003). Gardner H. (1983). Frames of mind.The theory of multiple intelligences. New York: Basic Books (trad. it. Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Feltrinelli, Milano 1987). Gardner H. (1993). Multiple intelligences: the theory in practice. New York: Basic Books (trad. it. Intelligenze multiple, Anabasi, Milano 1994). Gardner H. (2006). Five minds for the future. Boston: Harvard Business School Press (trad. it. Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano 2007). Ghiselin B. (1952). The creative process, Berkeley (CA): University of California Press.

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informazioni La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia Dottorandi e docenti a confronto: il seminario SIRD Research in doctoral/graduate schools in Italy A comparison of doctoral students and teachers: the SIRD Seminar LUCIANO GALLIANI – Presidente Sird L’articolo racconta l’iniziativa della SIRD – Società Italiana di Ricerca Didattica, giunta alla IV° edizione, del Seminario di confronto fra dottorandi e docenti svolta nel settembre 2010. Dall’esperienza positiva condotta si traggono indicazioni per una riflessione più ampia sullo sviluppo in Italia delle Scuole di Dottorato, con riferimento ai principi elaborati a Salisburgo nel 2005 dall’EUA – European University Association e rivisitati a Berlino nel giugno 2010. In particolare si analizza criticamente la situazione delle Scuole e dei Dottorati di area pedagogica in relazione alla composizione disciplinare per garantire “massa critica e diversità”, alla adozione di strategie di internazionalizzazione, e all’apertura al mondo del lavoro, con la promozione dell’inserimento professionale dei giovani dottori di ricerca.

The article describes a SIRD – Società Italiana di Ricerca Didattica – initiative, now in its 4th edition, a Seminar comparing doctoral students and university lecturers, held in September 2010. From the positively conducted experience indications are drawn for a broader reflection on the development of the PhD in Italy, with reference to the principles established in Salzburg in 2005 by EUA - European University Association - and revisited in Berlin in June 2010. In particular, it critically analyzes the situation in educational area Doctoral schools and Doctorates in relation to the disciplinary composition to ensure “critical mass and diversity”, the adoption of internazionalized strategies and openness to the working environment, with the promotion of employability of young PhDs.

La SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), consolidando una tradizione di collaborazione tra diversi contesti formativi e produttivi di ricerca educativa, come sono le scuole di dottorato in Italia, ha organizzato alle pendici dell’Etna (Linguaglossa Catania) nei giorni 23-24-25 settembre 2010 il 4° Seminario di confronto tra dottorandi e docenti, dopo quelli di Veroli (2005) e di Roma (2007 e 2009). Hanno presentato e discusso con docenti e colleghi i loro progetti di ricerca 20 giovani dottorandi di 2° anno (Tabella in appendice) provenienti da 14 Scuole di dottorato, scelti dal Direttivo SIRD, salvaguardando rappresentanze territoriali e varietà di tematiche in ambiti scientifici di PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pedagogia sperimentale).

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L’iniziativa – che ha visto la partecipazione attiva e interessata di una quarantina di dottorandi tra relatori e matricole e di dieci docenti (senior/fellow) con compiti di valutazione criticoformativa in itinere – si è svolta con buon successo e soddisfazione, reciprocamente espressa anche in pubblico nel confronto formale e informale sia tra dottorandi sia tra dottorandi e docenti. L’atmosfera di dialogo intenso e di condivisione costruttiva, facilitata in verità dall’isolamento dell’agriturismo e dall’inusuale continua pioggia battente, ha permesso di valorizzare: apprezzamenti e critiche, originalità individuali, ipotesi scientifiche, coerenze di metodi/strumenti di indagine, incidenza delle diversità organizzative e tematiche (multi/inter/mono disciplinari) nei e dei singoli dottorati/scuole locali, collegamento delle ricerche con diversi ambiti del mondo del lavoro e non solo accademici. Partendo da queste prime impressioni sull’esperienza e seguendo la fine analisi condotta da Giovanni Moretti (2009) sui lavori del terzo seminario, sembra opportuno ampliare la riflessione a come le Scuole di Dottorato si stanno evolvendo in Italia, con particolare riferimento alla ricerca pedagogica ed educativa, per rispondere alle nuove proposte di riforma universitaria da un lato, e al ruolo della ricerca scientifica (e dei giovani al suo interno!), dall’altro lato, per l’innovazione dei sistemi culturali, formativi, sociali ed economici del Paese e per la loro competitività internazionale. Il punto di partenza è sicuramente l’implementazione dei dieci principi di Salisburgo del febbraio 2005 (“Doctoral Programmes for the European Knowledge Society”) elaborati nell’ambito del Processo di Bologna, che sono stati la base per le riforme intervenute nei paesi dell’European Higher Education Area e dell’European Research Area. Un mese prima in Italia (gennaio 2005) il CNVSU – Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario emanava un “Documento di indirizzo sulla istituzione di Scuole di Dottorato di Ricerca”, motivato dal fatto che la loro attivazione dovesse essere un elemento premiante ai fini della ripartizione delle borse, così come recitava il comma 3 dell’art. 17 del Decreto sulla programmazione triennale universitaria 2004-2006 (n.262 del 5/8/04), che al comma 2 prevedeva un DM specifico con “i criteri per l’istituzione nell’ambito delle Università delle Scuole di Dottorato di ricerca connotate oltre che dal possesso dei requisiti di cui al comma 1 (quelli attuali), dall’afferenza di uno o più corsi della medesima macro-area scientifico-disciplinare, da stretti rapporti con il sistema economico-sociale e produttivo, nonché da documentate e riconosciute collaborazioni con Atenei ed enti pubblici e privati anche stranieri”. Rilevato che il Decreto specifico non è mai stato emanato e che la normativa attualmente in vigore risale al DM/224 del 30 aprile 1999, il Documento di indirizzo del CNVSU, che considerava le prime esperienze in corso e quelle in via di realizzazione raggruppandole in tre categorie (Scuola Unica di Ateneo, Scuola di Area, Scuola integrativa), contribuì ad estendere l’innovazione rendendo obbligatori alcuni requisiti. Innanzitutto rispetto all’organizzazione dell’attività formativa e della sua trasparenza, in secondo luogo all’apertura verso l’esterno con sistematici rapporti con le realtà produttive e sociali del territorio, in terzo luogo all’internazionalizzazione e alle collaborazioni, co-tutele, co-valutazioni. In verità la situazione italiana si presenta oggi – anche per la nostra area pedagogica – abbastanza frammentata con dottorati su tematiche settoriali e spesso all’interno di modelli di Scuole assai diversi e non facilmente conciliabili, spesso lontane dalle buone pratiche in grado, per il CUN di allora (2004), “di aggregare aree scientifiche che hanno affinità metodologiche e culturali e di proporre approfondimenti tra loro coerenti, in grado di favorire percorsi comuni, connessioni multidisciplinari e ricerche di confine tra i diversi saperi”. Ci dobbiamo interrogare se questa è la via giusta da perseguire nei nostri Atenei, collegandola alle scelte di nuova organizzazione, proposta dal disegno di legge Gelmini con l’aggre-

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gazione di più Dipartimenti e Facoltà, già in attuazione in molte Università, con motivazioni amministrative di contenimento dei costi. La stessa riduzione e compattamento dei settori scientifico-disciplinari, proposta dal CUN, si muove in una logica funzionale prevalente di facilitazione nel reclutamento e nell’utilizzazione del personale docente. La risposta è fortemente condizionata dai comportamenti dei singoli Atenei rispetto alle forme di collaborazione regionale e interregionale che dovranno per dimensione e/o vorranno per scelta operare nell’offerta formativa e nell’organizzazione della ricerca. Nel meeting dell’EUA-European University Association –Council for Doctoral Education – sulla valutazione dei risultati dell’implementazione dei principi di Salisburgo, tenuto alla Free University di Berlino nel giugno 2010, presenti rappresentanti di 165 istituzioni di 36 Paesi, il primo punto delle condizioni per il successo delle Scuole dottorali unifica due principi prima distinti, “Critical mass and critical diversity”, che dipendono dall’ambiente di ricerca e dall’offerta di una alta qualità della formazione. “Critical mass does not necessarily mean a large number of researchers, but rather the quality of the research”. Per assicurare massa critica e diversità ai programmi di dottorato servono, da un lato, strategie per focalizzare i punti di forza e le buone pratiche della ricerca nelle specifiche aree e, dall’altro lato inserirsi in larghi network di ricerca internazionali, nazionali e in collaborazioni di gruppo regionali/interregionali. Un contributo importante in questa direzione è stato offerto, prima di Salisburgo II, dal CONVUI -Coordinamento dei Nuclei di Valutazione delle Università Italiane, chiamati a valutare le scuole di dottorato nei singoli Atenei con specifico questionario proposto nel 2006 e corretto nel 2007 e 2008. Nella relazione conclusiva dell’Assemblea di Siena nel giugno 2008 il CONVUI ha indicato le quattro caratteristiche che definiscono l’identità di una Scuola rispetto al tradizionale Corso di Dottorato: • organizzazione in più Indirizzi, con una base comune scientifica e metodologica; • didattica strutturata e comune a tutti gli indirizzi, preferibilmente nel primo anno; • apertura internazionale, con un anno all’estero e, ove possibile, titoli in co-tutela; • sistema di valutazione della Scuola e dei dottorandi basato su revisori esterni. In Italia, che conta ben 44 dottorati in discipline di carattere pedagogico, le Scuole di Dottorato nelle Scienze dell’Educazione e della Formazione sono soltanto sei (Roma Tre, Cattolica di Milano, Macerata, Messina, Firenze, Padova) mentre in tutte le altre sedi, in cui esistono autonomi Dipartimenti di Scienze dell’Educazione o integrati con altre discipline umanistiche e sociali i Dottorati, che fanno riferimento ai settori scientifico-disciplinari MPED/01/02/03/04 con un florilegio di denominazioni, sono inseriti in Scuole dottorali più ampie, anche con modalità consortili. È legittimo un rilievo critico a questa abitudine a preferire un collegamento interno al proprio Ateneo con colleghi di altre aree e settori scientifico-disciplinari o addirittura di altre macro aree, piuttosto che ricercare forme consortili di collaborazione con i colleghi pedagogisti di altri Atenei in Scuole regionali o interregionali per garantire “massa critica e diversità”. Forse anche per questo la qualità e il peso della nostra ricerca pedagogica e didattica, sembra incidere poco, anche per l’esiguità quantitativa (numero e finanziamenti) dei PRIN, sulle politiche formative nazionali e regionali. Una seconda riflessione, evidenziata dal CONVUI (2008) e dalle Raccomandazioni di Salisburgo II (2010) concerne le strategie di internazionalizzazione delle Scuole Dottorali, con specifico riferimento: a) all’inserimento di componenti stranieri nei Comitati Scientifici e di visiting professors nei Collegi dei Docenti; b) all’attivazione di programmi di collaborazione con “co-tutela di tesi” o rilascio di titoli

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congiunti con Scuole Internazionali, incentivando la mobilità individuale dei giovani dottorandi; c) all’utilizzazione di profili e modalità internazionali sui requisiti richiesti per l’ammissione (uguaglianza di opportunità, utilizzo della lingua inglese, progetti di ricerca con referenze scientifiche e non temi scritti, borse e residenzialità, ecc.) per favorire il reclutamento di studenti stranieri meritevoli; d) alla partecipazione dei dottorandi a programmi e progetti di ricerca internazionali, che vedano il coinvolgimento di stakeolders pubblici e privati, direttamente provenienti dal mondo della produzione e dei servizi. Nonostante gli accordi tra CRUI e Rettori delle Università francesi, spagnole, tedesche e svizzere, le tesi di dottorato pedagogiche in co-tutela, con doppio titolo riconosciuto dai due Paesi, sono ancora praticate in pochissime delle nostre Scuole. Quasi nessuna Scuola rilascia il titolo di “Doctor Europaeus” in aggiunta al normale titolo di dottore, anche se le condizioni sono abbastanza abbordabili: valutazione della tesi da parte di due docenti di Paesi diversi, un membro della commissione giudicatrice deve provenire da un Paese diverso da quello in cui la tesi viene discussa, la ricerca presentata nella tesi deve essere stata condotta in parte durante un soggiorno di almeno tre mesi in un Paese dell’Unione Europea e la sua discussione deve avvenire almeno in parte in una delle lingue europee ufficiali. Esiste infine nel nostro ambiente pedagogico una sola Scuola Dottorale Internazionale, quella in “Culture, Education, Communication”, con una Sezione italiana in “Innovazione e valutazione dei sistemi di istruzione”, composta principalmente da docenti dell’Università di Roma Tre. Una terza riflessione, richiamata dal CONVUI e dalle Raccomandazioni di Salisburgo II, riguarda la valorizzazione del titolo di “dottore di ricerca” con l’apertura al mondo del lavoro e la promozione dell’inserimento professionale dei giovani dottori di ricerca. Da indagini condotte nell’ultimo decennio da molte Università e dall’ “Indagine sulle condizioni di lavoro e le aspirazioni professionali dei dottorandi di ricerca” svolta dall’ADI (Associazione Dottorandi e dottori di ricerca Italiani) nel 2007, risultano dati preoccupanti: quasi la metà ritiene che l’obiettivo del dottorato di formare professionalità qualificate nel campo della ricerca sia stato mancato; quasi il 60% è dell’avviso che per reperire occupazione il dottorato è poco utile, anche se prevede di ottenere occupazione presso imprese private, smettendo di fare ricerca, desiderata da oltre l’80%; oltre il 90% dei dottorandi ritiene che il titolo a cui aspirano non offra adeguate prospettive di inserimento professionale. Oltre 10.000 dottori concludono i propri studi ogni anno in Italia e in ambito scientificotecnologico, economico-sociale e medico si ritiene che una situazione virtuosa debba prevedere la carriera accademica per non più del 50% di loro. È comunque evidente che l’Università deve riflettere sul terzo livello della formazione, proponendo soluzioni legislative riferite: a) all’accreditamento e assicurazione della qualità delle Scuole attraverso monitoraggio e valutazione (rapporti interni, peer review internazionale, opinioni dottorandi, documentazioni di outcomes); b) al ritorno a procedure concorsuali su base nazionale per il reclutamento universitario; c) all’incentivazione e allo sviluppo di strutture di ricerca nella pubblica amministrazione (es.: scuola) e nel sistema delle imprese e dei servizi in modo da assicurare loro innovazione e capacità competitiva, creando valide alternative alla carriera universitaria; d) all’organizzazione negli Atenei – in analogia a quanto avviene nei paesi anglosassoni – di uffici per il job placement o career centers, con il compito di guidare i Dottori di ricerca verso un impiego coerente, per contenuti e retribuzione, con la formazione ricevuta, an-

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SIRD • Informazioni

che attraverso i previsti contratti di “alto apprendistato”, e soprattutto un servizio nazionale specifico (magari congiunto) dei Consorzi AlmaLaurea e Stella. Il dottore di ricerca, a partire dalle raccomandazioni della Commissione Europea (Mobility of Researchers between Academia and Industry, 2006) dovrà sempre di più essere “un professionista della forma della conoscenza-azione, le cui competenze vanno riconosciute attraverso azioni istituzionali di valorizzazione professionale e attraverso la governance della transizione tra Università e mercato del lavoro”: questa l’ipotesi del progetto di ricerca svolto dalla Fondazione FREREF, coordinato dal CIRDFA (Centro Interateneo per la Ricerca e la Formazione Avanzata),diretto dal collega U. Margiotta con sede all’Università di Venezia, che ha coinvolto sei paesi europei (Francia, Polonia, Germania, Spagna, Belgio, Romania) intercettando difficoltà e potenziali delle Scuole di Dottorato e dei dottorandi intervistati (2010). Nella nostra aerea pedagogica devono continuare in tutte le Scuole di Dottorato le buone pratiche di formazione alla ricerca di insegnanti, formatori ed educatori, non solo giovani ma soprattutto in servizio nella scuola, nel mondo delle imprese e degli enti di formazione professionale e continua, nel sistema dei servizi sociali alla persona, per riqualificare i contesti formali dell’istruzione e della formazione e per collegare in rete i ricercatori sul campo ai ricercatori universitari. La SIRD, come comunità scientifica, ritiene di dover continuare ad investire sui giovani ricercatori, curando la loro formazione di terzo livello, aprendo nuove strade per riconoscere l’originalità della ricerca e garantire la qualità istituzionale necessaria allo sviluppo professionale dei giovani ricercatori e al trasferimento di competenze in contesti diversi di lavoro. Inoltre, nel momento in cui con la riorganizzazione dei Dipartimenti si prospettano soluzioni sempre più difficili per l’autonomia e l’evidenziazione dell’area pedagogica, la SIRD propone che anche i nostri Dottorati seguano come strada privilegiata quella di dar vita a Scuole di Dottorato interateneo e internazionali, collegando gruppi di ricercatori specifici dei nostri settori scientifico-disciplinari.

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Tabella 1 Dottorando

Università

Titolo

Patrizia Ascione Giuseppina Cannella

Roma Tre Palermo

Angelo Cappello Alessandra Cerrito

Messina Messina

Eugenio Di Rauso

Padova

Cosimo Di Bari Daniela Frison

Firenze Padova

Eleonora Guglielman

Roma Tre

Arianna Lazzari

Bologna

Veronica Miceli

Lecce

Nazzarena Novello

Padova

Giorgia Peano Ljuba Pezzimenti

Torino Macerata

Pasquale Renna

Bari "Aldo Moro"

Milena Rombi

Roma “La Sapienza”

Lucia Rudelli

Milano - Cattolica

Rebecca Sansoè

Torino

Ludovica Scoppola

Roma “La Sapienza”

Marta Sponsiello

Roma - Tor Vergata

Viviana Vinci

Bari "Aldo Moro"

Una teoria grounded per l’I-learning L’innovazione dei processi di insegnamento-apprendimento con l’uso delle ICT Intelligenze collettive, connettive e identità tecnologiche Problematiche comportamentali in età evolutiva: il bullismo e il bullismo al femminile Fattori di miglioramento della didattica nelle lauree erogate in modalità integrata Gli apocalittici e la critica dei media: quale attualità formativa? Strategie di ricerca-intervento nelle imprese per la formazione continua e lo sviluppo delle competenze Disabilità e inclusione digitale. L’accessibilità nell’e-learning come fattore di integrazione La professionalità delle insegnanti di scuola dell’infanzia: discussione di alcuni risultati preliminari di una ricerca bolognese Fra memoria e partecipazione: studi di caso per una Pedagogia di comunità Le competenze di scrittura degli studenti in Scienze della Formazione Primaria. Rilevazione, valutazione, intervento Bambini rom nelle classi multiculturali e giustizia educativa Il senso delle discipline per gli insegnanti, “epistemologie” della storia insegnata La promozione della salute per i soggetti di cultura islamica in Italia Apprendere la storia contemporanea: indagine sui profili di conoscenza storica in ingresso all’Università Valutare gli insegnanti tra dimensione comunitaria e organizzativa Formazione professionale e giovani immigrati. Un approccio antropologico educativo L’educazione musicale nella scuola secondaria superiore di prima grado: indagine descrittiva sulle conoscenze e abilità musicali degli studenti in uscita dalla scuola media L’esperienza educativa nei mondi immersivi online. Fare etnografia in Second Life Analisi delle routine degli insegnanti:la spiegazione Tabella 1

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NORME EDITORIALI PER GLI AUTORI E I COLLABORATORI

NORME DI CARATTERE GENERALE Documento: • Il contributo, consegnato su file e accompagnato da versione cartacea, deve essere in formato Word, in cartelle standard di circa 3000 battute, per un massimo di circa 15 cartelle, e deve contenere per ogni autore l’indicazione di: nome (per esteso), cognome, ruolo dell’autore/i, istituzione di appartenenza e indirizzo di posta elettronica. Nel caso di più autori, i nomi vanno elencati in ordine alfabetico. • Il titolo del contributo deve essere in italiano e in inglese e non deve contenere sottotitoli. • I titoli dei paragrafi devono essere brevi e concisi, evitando possibilmente l’uso di sottoparagrafi. • Vanno evitate le composizioni in carattere neretto, sottolineato, in minuscolo spaziato e integralmente in maiuscolo. Attenzione: il contributo deve essere inedito. Può contenere eventuali note di commento a pie’ di pagina e nota bibliografica in chiusura. Il contributo non deve contenere una bibliografia generale. I riferimenti bibliografici interni al testo devono essere inseriti in parentesi tonde: cognome dell’autore a cui segue la virgola e l’anno di edizione, come da esempio riportato alla lettera A) delle note bibliografiche. La nota bibliografica a fine contributo deve rispettare la citazione interna al testo secondo le regole di seguito riportate. Abstact: L’abstract (sia in lingua italiana che in lingua inglese) va collocato dopo il titolo dell’articolo e prima del testo, e non deve superare gli 800 caratteri ciascuno (spazi esclusi). Deve anche comprendere 6 parole chiave in entrambe le lingue. L’abstract deve contenere il senso dell’intero lavoro e rispondere alle domande: perché il lavoro è stato fatto, cosa è stato fatto, cosa si è dimostrato e cosa è stato concluso. Virgolette: Le virgolette alte (o apici): “ ” si usano sia per le citazioni sia per enfatizzare alcune espressioni come “per così dire”, “il cosiddetto”, ecc... Le virgolette basse (o caporali) si usano per i discorsi diretti e per le citazioni: « ». Nel caso in cui una citazione ne contenga un’altra, riportare la citazione interna con le virgolette alte “ ” e quella esterna con le virgolette basse « ». Omissioni: si segnalano con tre puntini tra parentesi quadre […].

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Note: Saranno numerate con numeri arabi progressivi. Si raccomanda un attento controllo della corrispondenza della numerazione delle note con i rinvii indicati a esponente nel testo, sempre con numeri arabi e senza parentesi. Nel testo, il rimando alla nota al piede va posto all’interno della punteggiatura: testo1. e non testo.1 Fanno eccezione i punti esclamativo e interrogativo che precedono l’esponente di nota. Citazioni: In caso di citazioni che superino le tre/quattro righe, si devono riportare in corpo più piccolo e con i margini rientrati rispetto al testo principale, staccate da un’interlinea.

Elenco puntato: Riportare l’elenco con il trattino, con rientro del punto elenco di 0,5, e rientro del testo di 0,5. Riportare il punto e virgola alla fine di ogni punto elenco e il punto alla fine dell’elenco. Esempio: – la capacità di collegare in trame concettuali le conoscenze acquisite nei corsi universitari; – l’individuazione di motivati punti di riferimento per la scelta dei contenuti; – l’individuazione dei nodi portanti, della loro valenza didattica e delle relative difficoltà cognitive. Nel caso che il punto elenco abbia un ulteriore punto elenco al proprio interno, riportare il secondo punto elenco con il pallino, con rientro del punto elenco di 1,5 e rientro del testo di 1,5. Esempio: – Possedere padronanza culturale (storico-epistemologica) della disciplina e inquadrare con cognizione i grandi temi che essa propone, cioè: • padroneggiare i concetti nelle loro articolazioni, e la struttura sintattica, semantica e concettuale della disciplina; • inquadrare e calare nel contesto le proprie conoscenze, anche integrando quelle acquisite nei corsi universitari, per cogliere la loro valenza nella formazione culturale dell’allievo. Lineette: Si distinguono due casi: per unire due parole (es. spazio-tempo), si usa il trattino breve senza nessuno spazio, né prima né dopo. Per creare un inciso all’interno di una frase si usa il trattino medio, preceduto e seguito da uno spazio. Parole straniere: Vanno in carattere tondo le parole straniere che sono entrate nel linguaggio corrente, come: on-line, boom, cabaret, chic, cineforum, computer, dance, film, flipper, gag, garage, horror, leader, monitor, pop, rock, routine, set, spray, star, stress, tea, thè, tic, vamp, week-end, ecc. Esse vanno poste nella forma singolare. In genere vanno in carattere corsivo tutte le parole straniere. Vanno inoltre in carattere corsivo: alter ego (senza lineato breve unito), aut-aut (con lineato breve unito), budget, équipe, media (mezzi di comunicazione), passim, revival, sex-appeal, sit-com (entrambe con lineato breve unito), soft. Accenti: In italiano le vocali a, i, u, richiedono solo l’accento grave (à, ì, ù); la e richiede l’accento acuto in finale di parola in tutti i composti di che (poiché, affinché, cosicché ecc.). Si scrivono con l’accento grave: è, cioè, caffè, tè, ahimè, piè; le parole straniere entrate nell’uso della lingua italiana (gilè, canapè, bignè) e i nomi propri di persona (Noè, Giosuè, Mosè). Si accenta dà (terza persona singolare del verbo dare) e si apostrofa da’ (imperativo presente dello stesso

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verbo) per distinguerle dalla omofona da (preposizione); si afostrofa fa’ (imperativo presente di fare) ma è un grave errore accentare tanto fa (terza persona singolare dello stesso verbo) quanto fa (avverbio o nota musicale). La terza persona singolare del verbo essere, quando è maiuscola, va accentata (È) e non apostrofata (E’). Parentesi: Le parentesi tonde si usano per isolare dal contesto una frase o una parola e per evidenziare un richiamo ad altra parte del testo. Le parentesi quadre si usano all’interno delle tonde, per evidenziare un salto o una mancanza di testo, per introdurre in una citazione tra virgolette il commento dell’autore. La punteggiatura che si riferisce al testo principale va posta fuori dalla parentesi di chiusura. Segni di interpunzione e caratteri di stampa: • I segni di interpunzione (, : ; ! ?) e le parentesi che fanno seguito ad una o più parole in corsivo si compongono sempre in tondo, a meno che non siano parte integrante del brano in corsivo. • I periodi interi fra virgolette o fra parentesi avranno il punto fermo dopo la parentesi di chiusura. Si compongono in tondo: • gli articoli contenuti nelle testate di giornali, riviste, collane e in genere periodici di ogni tipo; Si compongono in tondo fra doppi apici (“tondo”): • all’interno delle citazioni, le parole che normalmente richiedono l’uso delle virgolette basse; • le parole usate in un’accezione diversa dalla loro usuale, o con particolare coloritura.

Numeri delle pagine e degli anni: vanno indicati per esteso (ad es.: pp. 112-146 e non 112-46; 113-118 e non 113-8; 1953-1964 e non 1953-964 o 1953-64 o 1953-4). L’ultima pagina di un volume è pari e così va citata. In un articolo la pagina finale dispari esiste, e così va citata solo qualora la successiva pari sia di un altro contesto; altrimenti va citata, quale ultima pagina, quella pari, anche se bianca. Le cifre della numerazione romana vanno rispettivamente in maiuscoletto se la numerazione araba è in numeri maiuscoletti, in maiuscolo se la numerazione araba è in numeri maiuscoli (ad es.: xxiv, 1987; XXIV, 1987). Immagini: Le immagini, i grafici, i diagrammi vanno riportati in bianco e nero e con risoluzione di almeno 600 pixels. È pertanto necessario verificare che ci sia una buona definizione dei colori all’interno di una scala di grigi. Le immagini vanno inserite nel corpo del testo, ma è bene anche fornire i file a parte delle immagini in formato .jpg o .tiff o .pdf. Nel caso di grafici e diagrammi è bene fornire anche il file excel da cui sono stati tratti. È comunque necessario cercare di limitare il n. di immagini e grafici presenti nel testo. Tabelle: Le tabelle vanno inserite nel corpo del testo e non devono superare in larghezza i 13 cm. Didascalie tabelle, grafici o figure: Riportare l’abbreviazione Tab. per la tabella, Fig. per figura e Graf. per grafico, seguito dal numero, dai due punti e dal titolo. Esempio: (Fig.1: Il progetto della Sird)

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Siti Internet: I siti Internet vanno citati in tondo minuscolo senza virgolette qualora si specifichi l’intero indirizzo elettronico (es.: www.libraweb.net; www.supergiornale.it). Se invece si indica solo il nome, essi vanno in corsivo alto/basso senza virgolette al pari del titolo di un’opera (es.: Libraweb; Libraweb.net); vanno in tondo alto/basso fra virgolette a caporale qualora si riferiscano a pubblicazioni elettroniche periodiche (es.: «Supergiornale»; «Supergiornale.it»). Riferimenti normativi Riportare i riferimenti per esteso, indicando il tipo di normativa, la data e il numero in grassetto, seguito da trattino e titolo in stile normale. Esempio: D.P.R. 31 luglio 1996, n. 470 - Regolamento concernente l’ordinamento didattico della Scuola di Specializzazione per la formazione degli insegnanti di Scuola Secondaria. Glossari Riportare la parola chiave in grassetto. Riportare la definizione dopo lo spazio di una riga. Esempio: Abilità (Skill) Insiemi più o meno ramificati di contenuti di conoscenza, che possono essere sistemi simbolici, corpi di credenze, quadri disciplinari, specifici quadri teorici e/o interpretativi della realtà, dell’esperienza, della condotta. Abbreviazioni (alcune) a. = annata a.a. = anno accademico a.C. = avanti Cristo ad es. = ad esempio ad v. = ad vocem (c.vo) anast. = anastatico app. = appendice art., artt. = articolo, -i autogr. = autografo, -i cap., capp. = capitolo, -i cfr. = confronta cit., citt. = citato, -i cl. = classe cm, m, km, gr, kg = centimetro, ecc. (senza punto basso) cod., codd. = codice, -i col., coll. = colonna, -e cpv. = capoverso c.vo = corsivo (tip.) d.C. = dopo Cristo ecc. = eccetera ed., edd. = edizione, -i es., ess. = esempio, -i et alii = et alii (per esteso; c.vo) f., ff. = foglio, -i f.t. = fuori testo facs. = facsimile fasc. = fascicolo Fig., Figg. = figura, -e (m.lo/m.tto)

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lett. m.lo m.lo/m.tto m.tto misc. ms., mss. n.n. n., nn. N.d.A. N.d.C. N.d.E. N.d.R. N.d.T. nota n.s. n.t. op., opp. op. cit., opp. citt. p., pp. par., parr., §, §§ passim r rist. s. s.a. s.d. s.e. s.l. s.l.m. s.n.t. s.t. sec., secc. sez. sg., sgg. suppl. supra t., tt. t.do Tab., Tabb. Tav., Tavv. tip. tit., titt. trad. v v., vv. vedi vol., voll.

= lettera, -e = maiuscolo (tip.) = maiuscolo/maiuscoletto (tip.) = maiuscoletto (tip.) = miscellanea = manoscritto, -i = non numerato = numero, -i = nota dell’autore = nota del curatore = nota dell’editore = nota del redattore = nota del traduttore = nota (per esteso) = nuova serie = nel testo = opera, -e = opera citata, opere citate (c.vo perché sostituiscono anche il titolo) = pagina, -e = paragrafo, -i = passim (la citazione ricorre frequente nell’opera citata; c.vo) = recto (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = ristampa = serie = senza anno di stampa = senza data = senza indicazione di editore = senza luogo = sul livello del mare = senza note tipografiche = senza indicazione di tipografo = secolo, -i = sezione = seguente, -i = supplemento = sopra = tomo, -i = tondo (tip.) = tabella, -e = tavola, -e = tipografico = titolo, -i = traduzione = verso (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = verso, -i = vedi (per esteso) = volume, -i

Nelle abbreviazioni in cifre arabe degli anni, deve essere usato l’apostrofo (ad es.: anni ’30). I nomi dei secoli successivi al mille vanno per esteso e con iniziale maiuscola (ad es.: Settecento); con iniziale minuscola

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vanno invece quelli prima del mille (ad es.: settecento). I nomi dei decenni vanno per esteso e con iniziale minuscola (ad es.: anni venti dell’Ottocento).

NOTE BIBLIOGRAFICHE Le citazioni bibliografiche devono essere complete di tutti gli elementi, nell’ordine in cui segue: 1. cognome e nome (appuntato) dell’Autore in tondo (se gli autori sono due o più andranno separati da una virgola); 2. data di pubblicazione contenuta tra parentesi tonda (1987); 3. titolo dell’opera in corsivo; 4. eventuale indicazione del volume con cifra romana; 5. numero dell’edizione, quando non è la prima, con numero arabo in esponente all’anno citato (es.: 19322); 6. luogo di pubblicazione (seguito da virgola); 7. nome dell’editore e, per le edizioni antiche, del tipografo; 8. rinvio alla pagina (p.) o alle pagine (pp.): esempio: pp. 1-12, 21-25, 217-218, 315-324, 495-502. Tutti i suddetti elementi vanno separati tra loro da una virgola. Alcuni esempi A) Citazioni interne al testo Il cognome di ogni autore citato va in parentesi tonda seguito da un virgola e dall’anno di edizione. Usare il punto e virgola se gli autori sono più di uno (Berndt, 2002; Harlow, 1983). ……… Kernis (1993) ………………Wegener and Petty (1994) Se i nomi degli autori non sono contenuti nel testo (Kernis, 1993) (Wegener & Petty, 1994) In citazioni successive dello stesso volume o dove sono presenti più di sei autori segnalare solo il cognome del primo autore ed inserire “et al.” Harris et al. (2001) afferma... (Kernis et al., 1993) (Harris et al., 2001) 1. Per autori con lo stesso cognome inserire l’iniziale del nome. (E. Johnson, 2001; L. Johnson, 1998) 2. Per i testi dello stesso autore pubblicati nello stesso anno usare l’ordine alfabetico (a, b, c) La ricerca di Berndt (1981a) illustra..... 3. Citazioni fonti indirette Johnson afferma che...(come citato da Smith, 2003, p. 102). 4. Fonti elettroniche Usare lo stile autore-data Kenneth (2000) spiega...

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B) Riferimenti generali Un solo autore Al cognome segue l’iniziale del nome. Berndt T. J. (2002). Friendship quality and social development. Current Directions in Psychological Science, 11, pp. 7-10. Due o più autori Lista dei nomi, virgola e iniziali dei nomi. Wegener D. T., & Petty R. E. (1994). Mood management across affective states: the hedonic contingency hypothesis. Journal of Personality & Social Psychology, 66, pp. 1034-1048. Lista di autori Kernis M. H., Cornell D. P., Sun C. R., Berry A., Harlow T., Bach J. S. (1993).There’s more to self-esteem than whether it is high or low: the importance of stability of self-esteem. Journal of Personality and Social Psychology, 65, pp. 1190-1204. Berndt T. J. (1999). Friends’ influence on students’ adjustment to school. Educational Psychologist, 34, pp. 15-28. Berndt T. J., Keefe K. (1995). Friends’ influence on adolescents’ adjustment to school. Child Development, 66, pp. 1312-1329. Wegener D. T., Kerr N. L., Fleming M. A., & Petty R. E. (2000). Flexible corrections of juror judgments: implications for jury instructions. Psychology, Public Policy, & Law, 6, pp. 629-654. Wegener D.T., Petty R. E., & Klein D. J. (1994). Effects of mood on high elaboration attitude change: the mediating role of likelihood judgments. European Journal of Social Psychology, 24, pp. 25-43. Organizzazioni American Psychological Association. (2003).

C) Riferimenti bibliografici Introduzioni e Prefazioni Citare le informazioni sulla pubblicazione specificando se: Introduzione, Prefazione, Postfazione.Tale regola è applicabile anche al contributo di un periodico. Funk R. & Kolln M. (1998). Introduction. In E.W. Ludlow (Ed.), Understanding English Grammar (pp. 12). Needham, Allyn and Bacon. Articoli Autore A. A., Autore B. B., & Autore C. C. (Anno).Titolo del contributo. Titolo del periodico, numero del volume in corsivo (numero del fascicolo), pagine. Harlow H. F. (1983). Fundamentals for preparing psychology journal articles. Journal of Comparative and Physiological Psychology, 55, pp. 893-896. Scruton R. (1996). The eclipse of listening. The New Criterion, 15(30), pp. 5-13. Article in quotidiani Henry W. A., III. (1990, April 9). Making the grade in today’s schools. Time, 135, pp. 28-31. Lettere Moller G. (2002, Agosto). Ripples versus rumbles [Lettera all’editore]. Scientific American, 287(2), 12.

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Riferimenti in volumi Autore A. A. (Anno di pubblicazione). Titolo del volume. Lettera maiuscola anche per il sottotitolo. Luogo di edizione: Casa Editrice. Calfee R. C., & Valencia R. R. (1991). APA guide to preparing manuscripts for journal publication.Washington: American Psychological Association. Curatele Duncan G. J., & Brooks-Gunn J. (Eds.). (1997). Consequences of growing up poor. New York: Russell Sage Foundation. Volumi con autori e curatori Plath S. (2000). The unabridged journals (K.V. Kukil, Ed.). New York: Anchor. Traduzioni Laplace P. S. (1951). A philosophical essay on probabilities. (F. W. Truscott & F. L. Emory, Trans.). New York: Dover. (Edizione originale pubblicata 1814). Articoli o Capitoli contenuti in un Volume Autore A. A., & Autore B. B. (Anno di pubblicazione). Titolo di capitolo. In A. Editor & B. Editor (Eds.), Tiolo del libro (pagine del capitolo). Luogo: Casa Editrice. O’Neil J. M., & Egan, J. (1992). Men’s and women’s gender role journeys: metaphor for healing, transition, and transformation. In B. R. Wainrib (Ed.), Gender issues across the life cycle (pp. 107-123). New York: Springer. Multivolumi Wiener P. (Ed.). (1973). Dictionary of the history of ideas (Vols. 1-4). New York: Scribner’s. Altri Riferimenti Bergmann P. G. (1993). Relativity. In The new encyclopedia britannica (Vol. 26, pp. 501-508). Chicago: Encyclopedia Britannica. Coltheart M., Curtis B., Atkins P., & Haller M. (1993). Models of reading aloud: dual-route and paralleldistributedprocessing approaches. Psychological Review, 100, pp. 589-608. Yoshida Y. (2001). Essays in urban transportation (Tesi di Dottorato, Boston, College, 2001). Dissertation Abstracts International, 62, 7741A. National Institute of Mental Health. (1990). Clinical training in serious mental illness (DHHS Pubbblicazione ADM 90-1679). Washington, Government Printing Office. Conferenze Schnase J. L., & Cunnius E. L. (Eds.). (1995). Proceedings from CSCL ‘95: The First International Conference on Computer Support for Collaborative Learning. Mahwah: Erlbaum. Pubblicazioni Web o articoli da un periodico Online Autore A. A., & Autore B. B. (Data di pubblicazione).Titolo dell’articolo. Titolo del Periodo Online, numero del volume(numero del fascicolo, se presente). Estratto da http://www.someaddress.com/full/url/ Articoli presenti in Database Smyth A. M., Parker A. L., & Pease D. L. (2002). A study of enjoyment of peas. Journal of Abnormal Eating, 8(3), pp. 120-125.

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Finito di stampare nel mese di MARZO 2011 da Pensa MultiMedia Editore s.r.l. Lecce - Brescia www.pensamultimedia.it


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