Giornale Italiano della Ricerca Educativa 8/2012

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno V numero 8 Giugno 2012


Direttore LUCIANO GALLIANI - Università degli Studi di Padova Condirettore PIETRO LUCISANO - Sapienza Università di Roma Comitato Scientifico ROBERTA CARDARELLO - Univeristà degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA - Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE - Université Catholique di Lovanio MARIA LUCIA GIOVANNINI - Alma Mater Studiorum – Università di Bologna ALESSANDRA LA MARCA - Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI - Università degli Studi di Roma 3 ELISABETTA NIGRIS - Università degli Studi di Milano Bicocca ACHILLE M. NOTTI - Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV - City University di Mosca RENATA VIGANÒ - Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Redazione ANNA SERBATI - Università degli Studi di Padova Procedura di referaggio Gli articoli proposti, inediti e non ancora sottoposti ad altre riviste, saranno soggetti ad un procedimento di revisione, che prevede giudizi indipendenti da parte di studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. I giudizi saranno espressi in conformità a quanto previsto dalle norme ISI e comunicati agli autori insieme alle eventuali indicazioni di modifica. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non saranno pubblicati. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. Nel caso di giudizi fortemente contrastanti, verrà utilizzato un terzo revisore. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore della rivista Luciano Galliani e il condirettore Piero Lucisano. Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Abbonamenti Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com

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SOMMARIO Editoriale 9

LUCIANO GALLIANI Tirocinio Formativo Attivo. Dal progetto pedagogico-professionale ai dispositivi didattico-organizzativi

Ricerche 13

CHIARA BERTOLINI – ROBERTA CARDARELLO Leggere insieme per comprendere il testo: descrivere e valutare i processi comunicativi Shared reading for comprehending texts: describing and assessing communicative processes

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ANNA BONDIOLI – DONATELLA SAVIO Promuovere l’alleanza tra insegnanti e genitori: un processo partecipativo di valutazione formativa in un servizio di scuola dell’infanzia Promoting the alliance between teachers and parents: a participatory process of formative evaluation in a nursery school service

41

LERIDA CISOTTO – NAZZARENA NOVELLO La scrittura di sintesi di studenti del primo anno di Scienze della Formazione Primaria The Writing Synthesis Competence of the Education first year students

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PIETRO DI IORIO – ACHILLE M. NOTTI – ROSANNA TAMMARO Le prove d’ingresso all’università The university admission tests

75

MONICA FERRARI – FILIPPO LEDDA Riflettere sulla qualità interculturale della scuola italiana grazie allo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado Reflecting upon intercultural quality of italian secondary school thanks to the Self-Evaluation Tool for Secondary School Educational Intercultural Processes

93

MARIA LUCIA GIOVANNINI – ALESSANDRA ROSA La valutazione di impatto dei progetti di formazione all’insegnamento dei docenti universitari: quali indicazioni dalle rassegne delle ricerche empiriche? Impact evaluation of instructional development programmes in higher education. Evidence from empirical research reviews

105

ALESSANDRA LA MARCA Il Progetto PQM (Progetto Qualità e Merito). Interventi a supporto della qualità dell’insegnamento-apprendimento nella scuola secondaria di primo grado The PQM Project (Quality and Merit Project). Actions to support teaching and learning quality in secondary school


121

KATIA MONTALBETTI – LUCIA RUDELLI Valutare serve? L’esperienza della valutazione trentina Evaluation is useful? The Experience of Trentino’s evaluation

133

ELISABETTA NIGRIS – LUISA ZECCA Valutazione di processo nella formazione post-universitaria Process evaluation in post-graduate scientific training: a case study

145

LOREDANA PERLA – NUNZIA SCHIAVONE – VIVIANA VINCI La memoria del tirocinio. Una ricerca sulla scrittura documentale degli studenti universitari The training memory. A survey on documentary writing of University students

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MAURIZIO SIBILIO Elementi di complessità della valutazione motoria in ambiente educativo Elements of complexity of motor assessment in a learning environment

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PAOLO SORZIO Innovazione istituzionale, culture situate e professionalità degli insegnanti. Un’etnometodologia della contestualizzazione didattica del “Curricolo per competenze” The relationship between institutional change, situated cultures and teachers’ agency. An ethnomethodological approach to the contextualisation of the ‘Curriculum for Competences’

187 Norme editoriali


hanno collaborato •

CHIARA BERTOLINI Assegnista di ricerca, Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università di Modena e Reggio Emilia – chiara.bertolini@unimore.it • ROBERTA CARDARELLO Professore ordinario di Didattica e Pedagogia speciale, Dipartimento di Educazione e Scienze Umane, Università di Modena e Reggio Emilia – roberta.cardarello@unimore.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– •

ANNA BONDIOLI Professore ordinario di Pedagogia generale e sociale, Università di Pavia – bondioli@unipv.it • DONATELLA SAVIO Ricercatore di Pedagogia generale e sociale, Università di Pavia – donatella.savio@unipv.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– •

LERIDA CISOTTO Professore associato di Didattica generale e di Didattica della lingua italiana, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata, Università degli Studi di Padova – lerida.cisotto@unipd.it • NAZZARENA NOVELLO Dottore di Ricerca, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata, Università degli Studi di Padova – nazzarena.novello@unipd.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– •

PIETRO DI IORIO Responsabile GED, Università degli Studi di Salerno – diorio@unisa.it • ACHILLE M. NOTTI Professore ordinario di Pedagogia sperimentale e Docimologia, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Filosofiche e della Formazione, Università degli Studi di Salerno – a.m.notti@unisa.it • ROSANNA TAMMARO Ricercatrice di Pedagogia sperimentale, Dipartimento di Scienze Umanistiche, Filosofiche e della Formazione, Università degli Studi di Salerno – rtammaro@unisa.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– • •

MONICA FERRARI Professore straordinario di Pedagogia generale e sociale, Università di Pavia – monica.ferrari@unipv.it FILIPPO LEDDA Insegnante di scuola secondaria di secondo grado, dottore di ricerca in Sanità pubblica e Scienze formative, Università di Pavia – filippo.ledda@unipv.it

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MARIA LUCIA GIOVANNINI Professore ordinario di Pedagogia sperimentale, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna – marialucia.giovannini@unibo.it ALESSANDRA ROSA Assegnista di ricerca di Pedagogia sperimentale, Alma Mater Studiorum - Università di Bologna – alessandra.rosa3@unibo.it

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ALESSANDRA LA MARCA Professore Ordinario di alessandra.lamarca@unipa.it

Didattica

e

Pedagogia

Speciale,

Università

di

Palermo

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KATIA MONTALBETTI Ricercatrice e coordinatore CeRiForm – Centro Studi e Ricerche sulle Politiche della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore – katia.montalbetti@unicatt.it • LUCIA RUDELLI Dottore di ricerca in Pedagogia (Education) e collaboratore CeRiForm - Centro Studi e Ricerche sulle Politiche della Formazione, Università Cattolica del Sacro Cuore – lucia.rudelli@unicatt.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– •

ELISABETTA NIGRIS Professore Associato di Didattica generale, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, Università di Milano-Bicocca – elisabetta.nigris@unimib.it • LUISA ZECCA Assegnista di ricerca, Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, Università di Milano-Bicocca – luisa.zecca@unimib.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– •

LOREDANA PERLA Professore Associato di Didattica generale, Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi di Bari Aldo Moro – l.perla@sc-formaz.uniba.it • NUNZIA SCHIAVONE Dottore di ricerca in Progettazione e valutazione educativa, Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi di Bari Aldo Moro – schiavonefp@virgilio.it • VIVIANA VINCI Professore a contratto in Programmazione e valutazione educativa, dottore di ricerca in Progettazione e valutazione educativa, Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli Studi di Bari Aldo Moro – vivianavinci@yahoo.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– •

MAURIZIO SIBILIO Professore Ordinario di Didattica e Pedagogia Speciale, Università degli studi di Salerno – msibilio@unisa.it –––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––– •

PAOLO SORZIO Ricercatore di Pedagogia generale, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Trieste psorzio@units.it

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Editoriale Tirocinio Formativo Attivo. Dal progetto pedagogico-professionale ai dispositivi didattico-organizzativi LUCIANO GALLIANI

Il Tirocinio Formativo Attivo, che finalmente per iniziativa del Ministro Profumo si sta attivando nelle Università in regime transitorio (Art.15 del DM 249 del 10 settembre 2010), richiede per i concorrenti gli stessi prerequisiti necessari per le abolite SSIS – Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario, che prevedevano nel curricolo biennale un intero semestre per la formazione socio-psico-pedagogica. Essa era finalizzata a rendere consapevoli i futuri insegnanti del ruolo dell’educazione scolastica nel processo di sviluppo dei ragazzi, nelle modalità e negli stili del loro apprendimento, nella condivisione dei valori di uguaglianza e di cittadinanza sociale, nel progetto di vita che ciascuno costruisce per il futuro. Questa osservazione preliminare è necessaria per comprendere la filosofia che ha ispirato il progetto di formazione iniziale degli insegnanti di ogni ordine e grado, con il ridisegno di un percorso integrato per l’acquisizione di cinque aree di conoscenze e competenze, di cui quella disciplinare e quella psico-socio-pedagogica sono demandate alle apposite lauree magistrali. Nel TFA in regime transitorio è prevedibile quindi che vengano selezionati laureati con buona preparazione nelle discipline oggetto delle rispettive Classi di concorso, ma con nessuna conoscenza di psicologia dell’educazione e dello sviluppo, di psicologia sociale, di sociologia dell’educazione, di pedagogia e di storia della scuola. È allora consigliabile che, nei 18 CFU previsti per le Scienze dell’educazione (didattica generale, pedagogia e didattica speciale, pedagogia sperimentale e valutazione), si faccia spazio alla pedagogia, con particolare riferimento ai suoi aspetti sociali e interculturali, non solo per l’insegnamento nella scuola secondaria di 2° grado ma anche in quella di 1° grado. Va rimarcata l’onerosità dell’impegno dei pedagogisti, in particolare dei settori scientifico-disciplinari M-Ped/03 e M-Ped/04, poco più di 200 in Italia tra ordinari, associati e ricercatori, che dovranno sobbarcarsi il 50% delle attività di insegnamento e di tirocinio indiretto nei 780 TFA previsti nei 56 Atenei. È una situazione assolutamente straordinaria, sostenibile in futuro solo con un impegno prioritario a dotare i settori di nuovi posti di ricercatore universitario. Il progetto formativo unitario sulle competenze, ispirato alla ricerca OCSE sull’insegnante di qualità, finalizza il TFA (art 2) ad acquisire competenze metodologico-didattiche integrate tra didattica generale e didattiche disciplinari, competenze relazionali e competenze organizzative, queste ultime particolarmente necessarie per lo sviluppo dell’autonomia della scuola e il suo collegamento con il territorio. Costituisce “parte integrante dei percorsi formativi” anche l’acquisizione di competenze di lingua inglese (livello B 2), competenze digitali e competenze didattiche per l’integrazione degli alunni con disabilità. Per queste ultime il percorso curricolare prevede 6 CFU specifici e almeno 75 ore di tirocinio diretto e indiretto. Per la lingua inglese sarebbe opportuno attivare i Centri Linguistici di Ateneo, prevedendo percorsi laboratoriali fino alla certificazione finale per tutti coloro che sono sprovvisti del titolo e che lo chiederanno esplicitamente, naturalmente comprendendone i costi nella tassa di iscrizione. Una proposta sulle competenze digitali è stata elaborata dalla SIREM – Società Italiana di Ricerca sull’Educazione Mediale, andando

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oltre la semplice verifica dell’alfabetizzazione informatica, certificata dalla cosiddetta patente ECDL conseguita durante i percorsi universitari precedenti, ritenuta insufficiente rispetto alla “media literacy” di cui parla la “Risoluzione del Parlamento europeo del 16 dicembre 2008”. Le capacità di utilizzare i linguaggi multimediali – per rappresentare e comunicare le conoscenze, per scegliere learning object e risorse nella rete ma anche per produrre contenuti digitali con gli allievi e per costruire ambienti e comunità on line – possono essere direttamente sviluppate se queste attività verranno applicate nei Laboratori di didattica disciplinare e in quelli pedagogico-didattici integrati, oltre che nelle attività di tirocinio diretto nelle classi (tecnologie di supporto alle lezioni) e indiretto (produzione di Unità di Apprendimento e analisi con registrazione video delle simulazioni e delle performance in aula). Il progetto formativo unitario del TFA va sperimentato attraverso un “modello empirico integrato” tra le scienze dell’educazione, la didattica delle discipline, il tirocinio diretto e indiretto con i laboratori pedagogico-didattici e la relazione finale degli allievi. Va superata innanzitutto la “separazione”, che ha contraddistinto in senso negativo le SSIS, tra esperti di didattica ed esperti disciplinari. Se concepiamo la didattica, sia generale che disciplinare, come una “scienza della prassi educativa” che ha per oggetto “l’azione insegnativa dentro e fuori la scuola”, per usare una nota espressione di Damiano, e per segni distintivi “la logica induttiva prassi-teoria-prassi, il metodo empirico, la ricerca-azione, lo stile sperimentale”, come argomentava Frabboni vent’anni fa alla costituzione della Società Italiana di Ricerca Didattica, allora anche il TFA può realizzarsi come una “organizzazione sistemica delle azioni formative dell’insegnare finalizzata ad ottimizzazione dei processi dell’apprendere”, di cui saranno protagonisti i futuri insegnanti. Le tre fasi/dimensioni dell’“agire didattico”, che si realizza ad un tempo come “transazione tra persone” (in primo luogo docenti e allievi) e “trasposizione didattica dei saperi” (in prima istanza adeguandoli alle capacità/diversità degli allievi), sono conosciute, nella ricerca e nelle pratiche educative, come “progettazione”, “comunicazione” e “valutazione”. L’essere in grado di progettare, comunicare e valutare implica una “integrazione” innanzitutto tra la competenza metodologico-didattica e quelle relazionale e organizzativa, ma l’oggetto comune su cui operare è il sapere disciplinare. Imparare a progettare “azioni insegnative” vuol dire non solo individuare scopi educativi, analizzare bisogni formativi, definire obiettivi istruttivi, descrivere i risultati attesi in termini di conoscenze disciplinari – abilità applicative – competenze professionali, ma anche costruire Unità Didattiche o di Apprendimento, sapendo scegliere coerenti metodi e strumenti di intervento (lezione frontale, discussione, simulazione, cooperazione, laboratorio, lavoro di gruppo, nuove tecnologie) e di valutazione (prove strutturate, semi-strutturate, non strutturate; rubriche; artefatti; questionari; portfolio, ecc.). Queste ultime attività implicano un approfondimento teorico ed esercitazioni pratiche sia sulle tematiche della “comunicazione” che su quelle della “valutazione”. Nel primo caso approfondendo gli aspetti sintattici (codici verbali, gestuali, prossemici, grafici, iconici, audiovisivi, multimediali), semantici (comprensione e trasferimento dei contenuti scientifici, ricerca delle informazioni, gestione della conoscenza) e pragmatici (relazione interattiva, problem solving, partecipazione immersiva) della comunicazione didattica nei diversi contesti in presenza e on line in cui l’insegnante si trova ad operare. Nel secondo caso approfondendo le tre categorie funzionali della valutazione educativa: quella formativo-regolativa, che riguarda lo svolgersi dei processi di insegnamento-apprendimento; quella sommativo-certificativa, che si applica ai risultati/prodotti (conoscenze, abilità, competenze) degli allievi; quella diagnostico-orientativa, che controlla i percorsi formativi, assicurando il miglioramento della qualità delle organizzazioni e del sistema complessivo di istruzione. Concepire in modo integrato la didattica generale e la didattica delle discipline porta ad una visione condivisa della professionalità docente:

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• per dare intenzionalità culturale e formativa ai saperi, ricostruendo gli sforzi, le difficoltà e gli errori, che gli scienziati hanno incontrato per arrivare alle discipline come sono oggi; • per trasformare il sapere “sapiente”, elaborato all’interno delle comunità scientifiche, in sapere “insegnato” o forse “insegnabile” all’interno delle diverse comunità dei learners; • per passare dai saperi ingenui ai saperi scientifici e dai saperi informali ed esperienziali, sempre più collegati ai nuovi media e a Internet, ai saperi formali della scuola; • per trasdurre le “forme scientifiche” dei saperi nelle “forme didattiche” delle discipline scolastiche, configurate diversamente per ogni ordine e grado di scuola, secondo percorsi curricolari, indicazioni programmatiche, quantità orarie, articolazioni temporali, disposizioni organizzative, autonomie istituzionali; • per valorizzare tutto ciò che non è prevedibile nell’evento didattico specificatamente situato e condizionato dalle variabili del contesto e delle differenze/diversità delle persone, considerando anche le loro motivazioni, emozioni, sentimenti. In coerenza con il “modello empirico integrato” di TFA, così come è configurato dal Decreto istitutivo e dalla Relazione illustrativa, è legittimo individuare coerenti “dispositivi didattico-organizzativi”, che assicurino le integrazioni tra le previste attività di insegnamento, di tirocinio diretto e indiretto, di laboratorio pedagogico-didattico, con una conseguente proposta di distribuzione e articolazione dei CFU. INSEGNAMENTI: 18 CFU di Scienze dell’educazione (4 Pedagogia e Storia della scuola, 4 Didattica, 4 Valutazione, 6 Pedagogia e didattica speciale) e 18 CFU di Didattiche disciplinari con laboratori e laboratori pedagogico-didattici (suddivisione interna a seconda delle Classi di abilitazione), con analoga articolazione delle attività e dei crediti proposta di seguito. } Lezioni espositive in aula a 100 o più corsisti per 2 o 3 crediti per ogni disciplina (da 16 a 24 ore circa, considerando una base di 8 ore di lezioni per credito). } Forum di gruppo on line con max 20/25 corsisti per discussioni e approfondimenti delle lezioni (da 4 a 6 ore) e dei testi scritti proposti (da 30 a 45 ore di studio individuale). } Laboratori di progettazione/produzione di Unità Didattiche o Unità di Apprendimento con 20/25 corsisti per 2 o 3 crediti (da 50 a 75 ore) sperimentando almeno per 1 CFU la compresenza dei docenti di scienze dell’educazione e di didattiche delle discipline, con relativi tutor di supporto scelti dai docenti. TIROCINIO DIRETTO E INDIRETTO: 16 CFU + 3 CFU (Didattica speciale) con responsabilità congiunta dei docenti di scienze dell’educazione e delle didattiche disciplinari. } Osservazione nelle scuole (es: attività collegiali, POF, organizzazione, contesto socioculturale, ecc.) e nelle classi (analisi libera, applicazione di modelli osservativi, analisi di sequenze didattiche e di azioni formative, case study) per 4 CFU (100 ore). } Analisi e discussione di gruppo delle pratiche osservate (con possibile utilizzo anche dell’on line) per 1 CFU (25 ore). } Laboratorio di microteaching con simulazione di una UD progettata e con analisi autoscopica e di gruppo della videoregistrazione e conseguenti correzioni (2 CFU per 50 ore). } Esperienze di miniteaching nelle classi con presentazione delle UD progettate e simulate e loro valutazione con il tutor docente, gli allievi e i compagni corsisti (2 CFU per 50 ore). } Affiancamento al docente tutor nelle classi con varie modalità di gestione delle attività didattiche e di valutazione degli allievi (6 CFU per 150 ore). } Le 75 ore (3 CFU), destinate alla “maturazione di competenze per l’integrazione degli alunni con disabilità” possono distribuirsi nelle attività dirette e indirette sopra articolate, secondo le scelte dei docenti di Pedagogia e didattica speciale.

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LABORATORIO PEDAGOGICO-DIDATTICO: 1 CFU (25 ore) da considerare come attività di tirocinio indiretto condotte in compresenza dai docenti di scienze dell’educazione e delle didattiche disciplinari. } Rielaborazione e confronto delle pratiche educative e delle esperienze di tirocinio condotte nelle scuole. } Valutazione collegiale (docenti tutor, docenti di didattica generale – speciale - disciplinare, coordinatore didattico) delle attività di tirocinio. } Progettazione delle Relazioni finali, seguite dal docente tutor e congiuntamente da un docente universitario di scienze dell’educazione e da uno e di didattica disciplinare.

Le proposte sopra indicate vanno interpretate come linee-guida, da adattare alle singole situazioni degli Atenei, per attivare dispositivi didattico-organizzativi fondati sulla collaborazione sia tra docenti universitari delle Scienze dell’Educazione e delle Didattiche disciplinari sia tra docenti universitari e insegnanti scolastici, che intervengono con diverse funzioni (tutoraggio in classe e coordinamento del tirocinio). Sarebbe preferibile che alla Commissione di Ateneo per il TFA – che le Università hanno istituito in vario modo, ma nella quale devono essere presenti oltre ai disciplinaristi delle ex-Facoltà di Lettere, Scienze, Ingegneria, Giurisprudenza, almeno due pedagogisti di MPed/03 (Didattica e Pedagogia Speciale) e di M-Ped/04 (Pedagogia sperimentale e Valutazione) – fossero affidati compiti non solo di progettazione, ma anche di gestione centralizzata delle prove di ammissione, dei rapporti con la Direzione Regionale della Scuola per la scelta degli Istituti in cui svolgere il tirocinio diretto, per il governo successivo dei docenti coordinatori dei tirocini, per il coordinamento dei Presidenti dei singoli Consigli dei Corsi di TFA promossi dai Dipartimenti di riferimento.Tenendo conto delle precedenti esperienze delle SSIS e dei Corsi abilitanti nazionali svolti negli anni scorsi, sarebbe utile per una più efficiente gestione attivare una Segreteria didattica unica per docenti, tutor, tirocinanti, supportata tecnicamente da una piattaforma tecnologica come Moodle o da un sistema informatizzato, che permetta di gestire in modo trasparente e interattivo sia le numerose pratiche amministrative (si pensi al riconoscimento dei titoli di studio e di servizio dei candidati o agli affidamenti e contratti per docenti e tutor di supporto alle attività di insegnamento) sia le pratiche didattiche (si pensi alle attività di tirocinio diretto nelle scuole e indiretto nelle aule e nei laboratori universitari). È evidente che la scelta fra un sistema di governo centralizzato oppure decentrato ai singoli Dipartimenti (o Scuole, dove sono già funzionanti) dipende dalle diverse condizioni degli Atenei e da considerazioni di opportunità, che dovrebbero comunque garantire una offerta formativa omogenea per qualità della docenza e dei servizi didattici e amministrativi. La formazione iniziale universitaria, infatti, influirà fortemente sulle modalità con cui il futuro insegnante gestirà e interagirà nell’azione didattica, per cui il TFA assume una funzione paradigmatica, soprattutto per la sua capacità di far costruire modelli di azione e di routine esperte, di mobilitare risorse personali e di contesto per risolvere problemi, di far ricorso a pratiche riflessive per controllare le azioni e se stessi nell’azione didattica, di far condividere pratiche educative (narrate e documentate) al fine di migliorare e innovare. Il TFA è anche una grande occasione per riaccreditare la funzione dell’ Università nel suo rapporto con la Scuola, oltre la formazione iniziale degli insegnanti e dei dirigenti verso la formazione permanente, necessaria a consolidare e sviluppare la professionalità docente, ma anche verso una maggiore collaborazione nelle varie forme di ricerca-azione e di ricerca educativa, basata sulle evidenze empiriche, per dare consistenza scientifica alle indicazioni programmatiche ministeriali e alle decisioni organizzative, didattiche, valutative degli operatori nei singoli Istituti scolastici.

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Ricerche Leggere insieme per comprendere un testo: descrivere e valutare i processi comunicativi Shared reading for comprehending texts: describing and assessing communicative processes CHIARA BERTOLINI – ROBERTA CARDARELLO* L’articolo intende descrivere e valutare i processi comunicativi realizzati da piccoli gruppi di bambini impegnati in un compito di comprensione di testi con il supporto di un adulto. La ricerca qui presentata costituisce un approfondimento analitico di una sperimentazione condotta con bambini di scuola dell’infanzia per promuoverne la capacità di comprensione attraverso ripetute esperienze di lettura di figure e materiali visivi. Il focus è sul comportamento verbale dell’adulto, teso a sostenere l’interazione tra pari nel compito di lettura, e sulle modalità di partecipazione e di interazione dei 6 bambini esaminati. Il primo risultato dello studio è la costruzione di una griglia per la categorizzazione dei comportamenti dell’adulto e dei bambini impegnati in un compito di lettura/comprensione. Le comunicazioni dei bambini sono state categorizzate per documentare il loro impegno nel compito di lettura, quelle dell’adulto sulla base dello schema di intervento sperimentale progettato. Vengono illustrati lo strumento di analisi e i risultati della sua applicazione a 18 conversazioni. Sono discusse e ipotizzate ulteriori linee di ricerca.

The article intends to describe and assess the communicative processes carried out in small groups of children involved in a text comprehension task with adult support. The research presented here constitutes an in depth analysis of an experiment carried out with preschool children to encourage their ability to understand through repeated activities of reading pictures and visual material. The focus is on the verbal behavior of the adult, intended to sustain the interaction between peers in the reading task, and in the ways of participation and interaction between the 6 children examined. The study’s first outcome is the construction of a table for categorizing the behavior of the adult and children involved in a reading/comprehension exercise. The children’s communications were categorized in order to document their effort in the reading task and those of the adult on the basis of the planned experimental intervention outline. The tools of analysis and the results of their application on 18 conversations are illustrated. Ulterior lines of research are discussed and suggested.

Parole chiave: interosservazione, interazione tra pari, stimolazione della comprensione, testo visivo, età prescolare, analisi conversazionale

Key words: inter observation, interaction between peers, stimulation of understanding, visual text, preschool age, conversation analysis

* La ricerca è stata condotta e sviluppata congiuntamente da entrambe le autrici. Nella redazione del testo Roberta Cardarello ha scritto i paragrafi 1 e 2, e Chiara Bertolini i paragrafi da 3 a 7.

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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • V • 8 / GIUGNO • 2012

Premessa La valutazione dei risultati delle azioni educative è senza dubbio un tema di indiscussa rilevanza sia politico-culturale che scientifica. Tuttavia, la prospettiva di valutare i processi educativi che si associano agli output del sistema educativo appare almeno altrettanto urgente e al tempo stesso poco praticata. La stessa descrizione dei processi didattici, infatti, è spesso sbrigata con il ricorso a poche variabili, grossolane e macrodidattiche, tanto da renderla poco utilizzabile quando si voglia adottare qualche innovazione. Anzi, forse la misura dell’irrilevanza pedagogico-didattica delle poche variabili di processo ‘scolastico’ che vengono studiate appare evidente qualora se ne debbano trarre indicazioni operative di condotta didattica: il fatto che la riproduzione di un processo didattico virtuoso, o la sua replica da parte di altri, sia di fatto impossibile rappresenta la testimonianza più evidente della pochezza della conoscenza di cui disponiamo circa i processi didattici.Talvolta perfino la ricerca sperimentale, che pure è impegnata nella documentazione dei processi didattici, confeziona dei resoconti prodighi di dati quantitativi sugli esiti e i risultati, ma estremamente poveri sul piano delle procedure e della didattica, soprattutto a livello di aula, che invece potrebbero utilmente essere tematizzati dalla ricerca empirica. In linea con tale aspirazione, il lavoro qui presentato intende render conto di elementi processuali della didattica di aula, realizzata durante un intervento sperimentale, e in particolare della comunicazione tra adulti e bambini che discutono in piccolo gruppo. Il contesto della ricerca è costituito da un progetto PRIN (Nardi, 2007) che ha inteso verificare l’efficacia di curricoli centrati su testi visivi nella promozione della capacità di comprensione nella lettura. Le ipotesi sono state articolate in riferimento a diverse fasce di scolarità e con l’adozione di molteplici e differenziati “testi visivi”.

1. Il contesto della ricerca L’Unità locale a cui chi scrive afferisce ha ideato e sperimentato un training di sollecitazione dell’abilità inferenziale per bambini di età prescolare. L’ipotesi da verificare era che tale training, imperniato sulla lettura di materiali visivi, incrementasse la comprensione di testi verbali, e segnatamente la capacità inferenziale dei bambini. L’intervento è stato articolato in nove incontri nel corso dei quali i bambini sono stati invitati a leggere cartoni animati, sequenze di immagini ed immagine statiche. Durante ciascun incontro, il compito dell’adulto è stato quello di sollecitare e sostenere i bambini nell’esplorazione dei testi e nell’attività inferenziale secondo uno schema d’intervento (che d’ora in poi chiameremo copione) che prevedeva l’impiego della tecnica del rispecchiamento verbale (Lumbelli, 1982) e di alcune tipologie di stimoli e domande ricavate dallo studio della letteratura (Crowell, 1981; Hansen, Pearson, 1983; Bassa Poropat, De Vecchi, 1985; Shapiro, Hudson, 1991; Lumbelli, 2003; Kunen, Duncan, 2005; Cardarello, 2009). Per l’argomentazione teorica, si rinvia a Bertolini (2009) e Bertolini (in corso di stampa). Mantenendo costanti i materiali ed il copione dell’adulto, l’intervento è stato modulato in due forme, che coincidono con due gruppi sperimentali equivalenti. Per le modalità procedurali si rinvia nuovamente a Bertolini (2009) e Bertolini (in corso di stampa). Nel gruppo sperimentale (n=18), che chiameremo GSI, sono stati condotti incontri individualizzati in cui l’adulto ha cercato di sollecitare l’attività inferenziale attraverso la “tecnica del rispecchiamento” centrata sul pensiero del singolo bambino (Lumbelli, 1993; Lumbelli, Ricossa, 2005; Cardarello, 2009). Nel secondo gruppo sperimentale (N=18), che

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chiameremo GSG, gruppi di 3 bambini sono stati impegnati nella lettura congiunta dei medesimi materiali , e dunque nella soluzione dei medesimi problemi di natura inferenziale. L’adulto aveva la preoccupazione prevalente di stimolare le letture individuali e di sostenere il confronto tra pari (Palincsar, Brown 1984; Pontecorvo et al. 2004; Bassa Poropat, De Vecchi 1995; McGee, Johnson 2003). L’analisi dei risultati alle prove di comprensione iniziali e finali di un gruppo di controllo e di quello sperimentale inteso nella sua globalità (GSI + GSG) ha dimostrato l’efficacia dell’intervento sperimentale. Il confronto degli esiti ottenuti dai due gruppi sperimentali (GSI vs GSG) segnala, tuttavia, alcune differenze. L’intervento condotto in piccolo gruppo (GSG) sembra aver determinato i progressi più rilevanti tra i bambini che prima del training avevano maggiori difficoltà di comprensione. L’intervento individualizzato (GSI) sembra, invece, aver determinato gli incrementi più consistenti tra bambini con capacità di comprensione iniziale medie1. Gli interventi individualizzati sostenuti dal rispecchiamento verbale vantano ormai una lunga serie di successi (Lumbelli, 2009) per l’attenzione e la stimolazione ‘su misura’ che garantiscono al bambino che riesce a concentrarsi e ad esprimersi, ed è pienamente coinvolto nel compito. Le attività in piccolo gruppo, se pure abitualmente praticate in molte scuole dell’infanzia, non assicurano, almeno in via teorica, ai bambini un’esperienza della stessa intensità e la medesima attiva partecipazione. L’efficacia della stimolazione in gruppo poi è risultata particolarmente interessante perché sembra giovare soprattutto ai bambini più deboli sul piano della comprensione. Ci siamo proposte perciò di analizzare lo svolgimento delle interazioni in piccolo gruppo e di rendere conto della comunicazione, tra i bambini, e con l’adulto, che vi si era svolta, con l’intento di monitorare le forme di supporto realizzate dall’adulto, e di rilevare la partecipazione e il coinvolgimento cognitivo dei bambini.

2. Obiettivi della ricerca esplorativa Il nostro obiettivo generale è, dunque, quello di riconoscere come ha funzionato l’intervento di stimolazione condotto in piccolo gruppo (GSG). In particolare, ci si è interrogati su alcune questioni: a. se e come l’adulto ha implementato il comportamento di supporto previsto dal copione; b. l’intensità della partecipazione realizzata dai bambini; c. l’esistenza di una correlazione tra il comportamento verbale dell’adulto e la partecipazione dei bambini; d. il ruolo dei diversi materiali (cartoni animati, sequenze di immagini e immagini singole) rispetto al comportamento verbale dell’adulto ed al coinvolgimento dei bambini; e. l’esistenza di una correlazione tra la partecipazione di ciascun bambino ed il suo progresso nella comprensione del testo. Per descrivere l’interazione in piccolo gruppo, e dunque per rispondere agli interrogativi precedenti, è stato necessario tradurre i concetti implicati in manifestazioni riconoscibili e pertinenti; per questa ragione obiettivo non secondario della ricerca è stato quello di costruire uno strumento capace di sintetizzare i fenomeni interattivi e in particolare i comportamenti comunicativi strettamente connessi al compito di comprensione dei testi visivi.

1 A partire dalla distribuzione dei punteggi iniziali della prova di comprensione del testo orale (TOR), sono stati costruiti tre livelli di prestazione: basso, medio e alto. Per maggiori dettagli si vedano Bertolini (2009) e Bertolini (in corso di stampa).

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Dal momento che il presente contributo rappresenta una prima esplorazione condotta su una piccola parte degli incontri realizzati, i risultati ottenuti dall’utilizzo dello strumento sono da intendere non solo come primi indizi rispetto al funzionamento dell’intervento sperimentale condotto in piccolo gruppo (GSG), ma anche, e soprattutto, come indicatori dell’efficacia della griglia di analisi della conversazione.

3. I partecipanti Questa prima nostra esplorazione ha coinvolto 6 dei 18 bambini che hanno partecipato agli incontri di gruppo (GSG). L’analisi ha interessato due piccoli gruppi, ciascuno dei quali composto da una bambina e due bambini di simili prestazioni iniziali al test di comprensione del testo orale (TOR). 5 bambini appartengono al livello di prestazione iniziale medio, uno a quello alto2. Il piccolo gruppo A ha un punteggio medio iniziale pari a 10,67 (ds= 0,58). Il piccolo gruppo B presenta un punteggio medio iniziale di 8,67 (ds= 0,58). I 18 incontri che hanno visto la partecipazione dei due gruppi sono stati interamente audio registrati e successivamente trascritti. L’analisi delle conversazioni è avvenuta a partire dalle trascrizioni.

4. Metodologia L’analisi delle interazioni che si sono realizzate durante gli incontri condotti in piccolo gruppo (GSG) ha richiesto una stima quantitativa degli scambi verbali e la costruzione di un sistema di categorie utile per interpretare il comportamento verbale dell’adulto e dei bambini. Per ogni incontro è stato conteggiato il numero totale di turni di parola dell’adulto e di ciascun bambino. Un turno coincide con la semplice presa di parola, perciò sono stati considerati tali sia interventi brevi, di una o due parole, sia interventi lunghi costituiti da più righe di trascrizione (Laeng, 1992; Fele, 2007). Il contenuto comunicativo di ciascun turno è stato “categorizzato sulla base della funzione comunicativa individuata come rilevante” (come sarà indicato di seguito). All’interno di ciascun turno, specialmente quando lungo, sono state spesso riconosciute più funzioni e, dunque, più categorie. L’esame del comportamento verbale dell’adulto ha impiegato categorie desunte dal copione di intervento progettato allo scopo di prescriverne il ruolo ed i compiti. Sono, dunque, state rilevate le seguenti categorie: • le domande programmate di natura inferenziale formulate durante ciascun incontro. Si tratta di quesiti programmati, costruiti prima della conduzione dell’intervento a partire da un’attenta analisi a tavolino di ciascun materiale (Crowell, 1981; Hansen, Pearson 1983); • i rispecchiamenti verbali nelle varie forme che possono assumere, intesi come riprese fedeli in forma dubitativa delle parole dei bambini (Lumbelli, 1982) (es. “Hai detto che… ho capito bene?); • gli interventi di sollecitazione impiegati per invitare in modo esplicito ma aperto i bambini, soprattutto quelli più restii a parlare, ad esprimere un’opinione rispetto alla lettura del materiale in esame (Bassa Poropat, De Vecchi 1985) (es. “Cosa ne pensi?”, “Vuoi aggiungere delle cose?”, “Ti sembra di essere d’accordo?”); • le domande metacognitive che avevano lo scopo di invitare i bambini a riflettere sul proprio processo di pensiero (Cardarello, 2002) (es. “Cosa hai visto che ti fa pensare che …”);

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• gli interventi di modeling, vale a dire le verbalizzazioni da parte dell’adulto dei ragionamenti utili ad elaborare la risposta corretta a ciascun quesito inferenziale affrontato (Cardarello, 2009; Lumbelli, 2003). Oltre a queste categorie previste dal copione d’intervento, che traducono i criteri teorici che hanno ispirato la sperimentazione, ne sono state individuate altre due: • gli interventi gestionali impiegati per mantenere l’ordine nel gruppo (es. “Vedo che stai guardando fuori dalla finestra. Noi stiamo discutendo a proposito di…”, “Potrai andare in bagno tra qualche minuto. Ora stiamo cercando di capire cosa fa…”,…). Si tratta di interventi di gestione inevitabili nella situazione collettiva, ma non specificamente connessi al compito di interosservazione, dunque considerati come periferici, o non pertinenti al compito, nelle attività di lettura congiunta (Panofsky, 1989; Dickinson, 2001). • la categoria altro che ha raccolto interventi che non avevano per oggetto il compito di lettura dei testi (es. “Sul pavimento ci sono tante formiche che vengono dal cortile”, “Oggi è il tuo compleanno. Auguri!”,…). Più impegnativa è stata l’individuazione di categorie per l’analisi del comportamento verbale dei bambini che fossero funzionali ed efficaci per gli obiettivi di ricerca. La definizione delle categorie ha subito svariate revisioni e modifiche per rispondere sia alle caratteristiche dei materiali conversazionali ottenuti, sia all’esigenza di riconoscere comportamenti comunicativi rilevanti. Inizialmente, sono state esaminate le analisi e gli strumenti che vari autori hanno progettato per la valutazione della comunicazione tra bambini a scuola (Compagnoni et al., 1989; Panofsky, 1989; Bassa Poropat, De Vecchi, 1995; Compagnoni, 1996; Sharan, Sharan, 1998; Caronia, 1999; Pontecorvo et al., 2004; Gariboldi, 2007; Pappas, Brown, 1987). Da tale letteratura provengono ben note categorie quali, per esempio, la convergenza, l’opposizione, la disputa e la negoziazione. Tuttavia, l’applicazione di tale sistema categoriale alle conversazioni raccolte è risultata impraticabile. Durante gli incontri, infatti, molto stretta è stata la collaborazione tra i bambini nel costruire una comune interpretazione del testo. Essi comunicavano tra loro in modo sinergico, influenzandosi reciprocamente e continuando il pensiero dell’altro come se fosse il proprio: perlopiù riprendevano le parole dei compagni per ampliarle in certe parti e per modificarle in altre. Considerando la complessiva interazione come una costruzione congiunta del pensiero e delle idee dei partecipanti, si è deciso, allora, di isolare i comportamenti particolarmente produttivi e quelli chiaramente divergenti rispetto al compito. Per i bambini, dunque, sono state selezionate, e ritenute cruciali, le seguenti funzioni comunicative: • gli enunciati ideativi, intesi come il primo intervento dei bambini in risposta ad una domanda programmata dell’adulto, il cui contenuto fosse inerente alla sollecitazione ricevuta. Abbiamo ritenuto che tale categoria potesse essere utile per riconoscere la presenza di bambini più ideativi e propositivi di altri, vale a dire che tendevano più spesso dei compagni a rispondere per primi ai quesiti inferenziali (Sharan, Sharan 1998; Pontecorvo et al. 2004; Panofsky, 1989; Pappas, Brown, 1987); • le domande inerenti al compito di lettura che i bambini spontaneamente formulavano ai compagni del gruppo (Bassa Poropat, De Vecchi 1995; Compagnoni et. al. 1989) (es. “Ha preso la scala. Ma scusa, come ha fatto a non cadere se il bambino era uguale alla scala con il cane?”); • gli interventi gestionali impiegati dai bambini per coordinare l’interazione o per richiedere il turno di parola (es. “Stava parlando la Sara”; “ Non ho finito di parlare”); • la categoria altro ha raccolto interventi non pertinenti al compito di lettura (es. “Perché sul pavimento ci sono delle formiche?”; “Lo sai che oggi compio gli anni!).

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Abbiamo considerato le prime due categorie come indicatori di partecipazione cognitiva alle attività, al contrario le ultime due come segnali di un’interazione periferica al compito di interosservazione. Per ogni incontro e per ciascun bambino è stato calcolato il volume di interazione pertinente sottraendo dal numero di turni totali dei bambini il totale degli interventi gestionali e della categoria altro. Tale volume di interazione pertinente può essere infatti considerato un indicatore di partecipazione attiva e di coinvolgimento cognitivo dei bambini nel compito proposto. La tabella 1 mostra la griglia di codifica costruita ed impiegata per l’analisi delle nove sedute di stimolazione prese in considerazione. Le conversazioni sono state codificate da un soggetto estraneo alla progettazione e alla realizzazione dell’intervento sperimentale2.

Tab.1: Griglia di codifica per l’analisi delle interazioni verbali durante gli incontri in piccolo gruppo

2 La codifica è avvenuta ad opera della Dott.ssa Omayra Prampolini nel corso del suo lavoro di tesi di laurea in Scienze della Formazione Primaria.

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5. Risultati I risultati ottenuti dall’applicazione dello strumento per l’analisi delle interazioni verbali sono da intendere sia come primi indizi dello svolgimento dell’intervento sperimentale condotto in piccolo gruppo (GSG) che, e soprattutto, come indicatori della funzionalità dello strumento stesso. Il conteggio delle diverse manifestazioni comunicative di adulto e bambini è stato sottoposto ad alcune analisi di tipo statistico, per rispondere agli interrogativi iniziali. a. Il ruolo dell’adulto Un primo risultato interessante riguarda la distribuzione dei turni di parola. Nei 18 incontri esaminati, l’adulto ha preso la parola 1759 volte mentre i bambini 2288 volte. Dei turni totali, il 43% risulta essere dell’adulto ed il 57% dei bambini. Da notare è la divergenza della distribuzione ottenuta rispetto a dati analoghi raccolti da Pontecorvo esaminando i quotidiani scambi conversazionali tra bambini ed insegnante: l’insegnante parlava per il 70% del tempo con poche e rituali interazioni con i bambini (Pontecorvo et al., 2004). Durante le sedute sperimentali esaminate, pare invece che l’adulto sia stato in grado di lasciar parlare tra loro i bambini limitando il suo intervento. Dal confronto tra il copione previsto e la sua realizzazione sembra, inoltre, che le parole dell’adulto siano state centrate sul compito di lettura assegnato. Il grafico 1 riporta la distribuzione delle categorie del comportamento verbale nei 18 incontri. Rispetto al totale delle funzioni comunicative codificate, l’85% di queste è congruente con il compito assegnato, a testimonianza della capacità dell’adulto di attenersi alla consegna concordata. Il comportamento più frequentemente adottato è stato quello del rispecchiamento verbale, che ha coperto il 42% delle funzioni totali, seguito dalle sollecitazioni (20%), che erano inviti espliciti ed aperti ad esprimere opinioni e interpretazioni sul testo iconico. Sembra, dunque, che l’adulto abbia cercato di far emergere e circolare le letture dei bambini, lasciando spazio al loro confronto e ai loro ragionamenti nella interpretazione dei testi. Decisamente meno frequenti risultano le domande programmate (9%), gli interventi metacognitivi (7%) e gli interventi di modeling (7%). Da sottolineare, infine, lo scarso impiego delle categorie gestionale (9%) ed altro (6%) a testimonianza della forte centratura della conversazione sul compito di lettura dell’immagine.

Graf.1: Distribuzione delle funzioni comunicative dell’adulto

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b. La partecipazione ed il coinvolgimento dei bambini Dalla distribuzione delle categorie impiegate per l’esame del comportamento verbale dei bambini nei 18 incontri analizzati, emerge una scarsa frequenza delle categorie gestionali ed altro che coprono rispettivamente il 5,7% ed il 7,4% dei turni totali dei bambini, a testimonianza delle rare occasioni di distrazione del gruppo. Nell’86,9% dei turni di parola dei bambini, essi hanno interagito tra loro o con l’adulto pertinentemente al compito (interazione pertinente). Possiamo, dunque, affermare che l’attività interosservativa ha visto una partecipazione attiva ed un rilevante coinvolgimento cognitivo dei bambini. Ciò conferma, anche dal versante dei partecipanti, la forte centratura delle conversazioni sull’attività di lettura congiunta dei materiali visivi. c. La correlazione tra il comportamento verbale dell’adulto e quello dei bambini L’analisi correlazionale condotta tra le funzioni comunicative svolte dall’adulto e quelle svolte dai bambini rileva aspetti d’interesse. Se da un lato, l’interazione pertinente dei bambini non correla né con gli interventi metacognitivi (p=0,455), né con quelli di sollecitazione (p=0,085), dall’altro la correlazione risulta statisticamente significativa con i rispecchiamenti verbali (p=0,027*). I rispecchiamenti, dunque, oltre a rappresentare la categoria che l’adulto impiega più di frequente, appaiono l’elemento comunicativo più efficace nel promuovere le verbalizzazioni pertinenti dei bambini, anche rispetto agli interventi di sollecitazione, che erano inviti espliciti ad intervenire. d. Il ruolo dei diversi materiali L’analisi della varianza (ANOVA) ha confrontato la distribuzione, da un lato, delle funzioni comunicative svolte dall’adulto e, dall’altro, del volume di interazione pertinente dei bambini rispetto a due fattori: il materiale (cartone animato, immagine in sequenza ed immagine singola) ed il piccolo gruppo di bambini (A e B). Come si ricorderà, la presente esplorazione ha esaminato le interazioni raccolte in due dei nove piccoli gruppi che hanno partecipato alla sperimentazione. L’effetto del gruppo non è risultato significativo né per ciò che concerne il comportamento verbale dell’adulto3 né per quello dei bambini (p=0,057). Anche l’interazione gruppo-materiale non risulta significativa4. È, dunque, possibile considerare come equivalenti i due gruppi coinvolti (A e B). L’analisi della varianza ha rilevato, invece, un legame tra i materiali e le funzioni comunicative svolte da adulto e bambini. Per ciò che concerne l’adulto, non emergono differenze significative tra i materiali per quanto riguarda i rispecchiamenti verbali (p=0,259) e gli interventi di sollecitazione (p=0,304). Ciò significa che in tutti gli incontri l’adulto ha rispecchiato e sollecitato i bambini un numero simile di volte. L’effetto del materiale risulta, invece, significativo (p=0,000**) per ciò che concerne gli interventi metacognitivi, la cui frequenza d’impiego è minima durante la lettura dell’immagine in sequenza, mentre è massima quando l’incontro ha per tema le immagini singole (Grafico 2). Un’indagine esplorativa ancora in corso sembra indicare una

3 Per ciò che riguarda il comportamento verbale dell’adulto, l’effetto del gruppo non è significativo né in relazione ai rispecchiamenti (p=0,127), né agli interventi di sollecitazione (p=0,266) né agli interventi metacognitivi (p=0,255). 4 Per ciò che concerne il comportamento verbale dell’adulto, l’interazione gruppo-materiale non è significativa in relazione ai rispecchiamenti (p=0,069), né agli interventi di sollecitazione (p=0,243) né agli interventi metacognitivi (p=0,149). L’interazione gruppo-materiale non risulta significativa neppure per ciò che riguarda il totale di interazione pertinente dei bambini (p=0,064).

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maggiore concentrazione di errori di lettura quando i bambini lavorano con le immagini singole. Potrebbe essere questo uno dei motivi del più frequente impiego degli interventi metacognitivi, che potrebbero essere stati utilizzati per sostenere i bambini a ricercare nel testo indizi utili a riconoscere, da un lato, l’erroneità della lettura fornita, dall’altro, a ristrutturare tale lettura verso significati più coerenti e compatibili.

Graf. 2: Distribuzione degli interventi metacognitivi svolti dall’adulto in funzione del materiale impiegato

L’effetto del materiale risulta statisticamente significativo anche per ciò che concerne il volume di interazione pertinente dei bambini (p=0,004*), che è massimo negli incontri che vedono l’impiego dell’immagine in sequenza (Grafico 3). Questo dato insieme al precedente – il minor impiego di interventi metacognitivi – pare indicare l’immagine in sequenza come il materiale che più efficacemente ha promosso il coinvolgimento dei bambini. Durante la lettura delle immagini in sequenza i bambini si sono confrontati in modo serrato. L’adulto non ha avuto bisogno di sollecitare la discussione, né di sostenere il flusso dei pensieri fino alla realizzazione delle inferenze corrette.

Graf. 3: Distribuzione del volume totale di interazione pertinente dei bambini in funzione del materiale impiegato

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e. I progressi nella comprensione del testo Sebbene nelle prove finali tutti i bambini coinvolti nella presente esplorazione mostrino un incremento nella capacità di compiere inferenze a proposito del testo verbale (TOR), l’analisi correlazionale non rileva alcun legame tra il volume di interazione pertinente di ciascun bambino e i suoi progressi, né nella prova di comprensione del testo orale (TOR) (p=0,511), né nel sub-test inferenziale (p=0,178). Questi risultati parrebbero suggerire l’inopportunità di considerare il tasso di partecipazione verbale dei bambini come unico indicatore del loro coinvolgimento cognitivo nell’ attività di stimolazione. La lettura delle conversazioni raccolte sembrerebbe mostrare, infatti, che i bambini pensano ed elaborano le proprie letture contaminandole con quelle dei compagni anche quando non parlano. La loro partecipazione è da intendere attiva anche quando ascoltano gli altri ed in silenzio raffinano e modificano i propri percorsi cognitivi. Tuttavia, questi primi dati dovranno essere verificati alla luce dell’analisi di un numero maggiore di sedute sperimentali.

6. Alcune riflessioni conclusive L’indagine esplorativa, oggetto del presente contributo, ha preso le mosse dall’esigenza di descrivere i processi comunicativi e interattivi realizzati in un setting di piccolo gruppo, in cui bambini di scuola dell’infanzia si sono impegnati in un compito di lettura/comprensione, con il supporto di un adulto. L’intento della ricerca è stato di mettere a punto uno strumento per l’analisi dell’interazione, in tale contesto, in grado di rappresentarne anche sul piano quantitativo la qualità e l’intensità, e di testarlo su un corpus provvisorio di 18 conversazioni. Le parole di bambini ed adulti sono state distinte e categorizzate alla luce delle funzioni comunicative salienti e rilevanti. Le categorie relative al comportamento dell’adulto sono state prevalentemente desunte dal copione di intervento e sollecitazione previsto. La comunicazione dei bambini è stata schematizzata in modo da rendere conto del contributo sia individuale che ‘di gruppo’ al ‘compito’, e del volume di partecipazione (interazione pertinente). Dall’applicazione della griglia di analisi alle 18 interazioni finora esaminate risulta che le funzioni comunicative maggiormente impiegate dall’adulto sono state quelle relative al rispecchiamento verbale ed alle sollecitazioni che paiono anche essere equamente distribuite tra i materiali impiegati, ad indicare la regolare implementazione del copione di stimolazione. Solo l’utilizzo degli interventi metacognitivi sembra risentire del tipo di materiale impiegato: infatti l’adulto ne ha impiegato un numero maggiore durante la lettura delle immagini singole, forse nel tentativo di sostenere il gruppo a superare le più frequenti difficoltà di lettura. I bambini risultano aver partecipato attivamente alle sedute di lettura congiunta. Essi hanno parlato più spesso dell’adulto e quasi sempre sono intervenuti riportando contenuti pertinenti al compito di lettura del materiale. Il loro coinvolgimento pare essere stato promosso dal rispecchiamento condotto dall’adulto piuttosto che dai suoi inviti espliciti ad esprimere un’opinione (interventi di sollecitazione). La lettura della sequenza di immagini pare essere stata l’attività che ha dato luogo ai confronti più serrati ed intrinsecamente motivati tra i bambini. È, infatti, a proposito di tale materiale che si è assistito ad una diminuzione degli interventi dell’adulto ed a un aumento dell’interazione pertinente dei bambini. Per quanto riguarda lo strumento di analisi, sembra che le categorie individuate riescano a tradurre operativamente gli assunti teorici che hanno ispirato l’intervento sperimentale,

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in particolare per quanto riguarda l’azione dell’adulto. Si tratta inoltre di un sistema d’analisi che con un numero ridotto di categorie riesce ad essere sufficientemente esaustivo del comportamento verbale dell’adulto. Ciò ne rende agevole e sostenibile l’impiego anche a proposito di corpora di dati più ampi. Per ciò che concerne, poi, la possibilità di descrivere il processo di partecipazione dei bambini, la griglia d’analisi si rivela in grado di coglierne sinteticamente ed efficacemente la partecipazione complessiva, ovvero il disinteresse (interazione pertinente). Ma ne va rilevato tuttavia almeno un elemento di criticità. Come si ricorderà, non è emersa alcuna correlazione tra il volume di interazione pertinente di ciascun bambino e il suo incremento alle prove di comprensione del testo orale: questo probabilmente sta ad indicare la necessità di operazionalizzare in modo più sottile i concetti di partecipazione attiva e di coinvolgimento cognitivo anche attraverso altri indicatori, che rendano conto più puntualmente dell’elaborazione e del contributo dei singoli bambini. Del resto una verifica di questi primi risultati implica l’estensione dell’indagine agli altri ‘piccoli’ gruppi coinvolti nella sperimentazione. La mancata correlazione ci induce per ora a ritenere che i bambini osservati siano stati stimolati a elaborare e raffinare il loro pensiero, contaminandolo con le letture dei compagni, durante tutto l’incontro, anche quando sembrava che semplicemente ascoltassero.

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Ricerche Promuovere l’alleanza tra insegnanti e genitori: un processo partecipativo di valutazione formativa in un servizio di scuola dell’infanzia* Promoting the alliance between teachers and parents: a participatory process of formative evaluation in a nursery school service ANNA BONDIOLI – DONATELLA SAVIO*

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L’articolo presenta un’esperienza di valutazione, durata tre anni, che ha coinvolto genitori e insegnanti di tutte le scuole dell’infanzia del Comune di Modena. Il principale obiettivo del progetto era quello di incoraggiare una discussione comune tra genitori e insegnanti sui convincimenti e le pratiche educative al fine di rafforzare l’identità pedagogica dei servizi educativi locali ed aiutare gli educatori e le famiglie a riflettere sul loro peculiare ruolo nella crescita dei bambini. L'esperienza si presenta come un esempio di valutazione partecipativa democratica in cui i diversi stakeholders (insegnanti e genitori) sono coinvolti nella esplicitazione di valori, criteri, idee di “buona” educazione a scuola e a casa, e sono chiamati, su questa base, ad apprezzare i loro sforzi nel garantire buone condizioni per la crescita infantile. Il documento presenta gli strumenti elaborati e utilizzati, il modo in cui il processo di valutazione è stato sviluppato e un commento critico dell'esperienza nel suo complesso.

The paper addresses an experience of evaluation that lasted three years and which involved parents and teachers of all the nursery schools of Modena Municipality.The main goal of the project was to encourage a joint discussion between parents and teachers on educational beliefs and practices in order to reinforce the pedagogical identity of the local educational services and to help educators and families to reflect on their peculiar roles in children’s growth. The experience is presented as an example of participatory democratic evaluation in which different stakeholders (teachers and parents) are involved in explicitating values, criteria and ideas of “good” education at school and at home. On this basis, they are asked to evaluate their own efforts in assuring good conditions to children’s growth.The paper shows which instruments were envisaged and used, how the evaluation process was developed, and a critical comment on the whole experience.

Parole chiave: scuola dell’infanzia, valutazione partecipativa, valutazione formativa, Stakeholders , genitori/insegnanti

Key words: nursery school, participatory evaluation, formative evaluation, stakeholders, parents/teachers

Anna Bondioli ha scritto i paragrafi 1 e 3, Donatella Savio i paragrafi 2 e 4.

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Introduzione Il coinvolgimento dei cosiddetti stakeholders in percorsi di valutazione formativa appare un aspetto cuciale per innescare processi riflessivi e di empowerment che consentano, attraverso l’assunzione di responsabilità condivise, il miglioramento delle pratiche educative. Nei servizi per l’infanzia, in particolare, il confronto paritario tra insegnanti e genitori su ciò che “è” e “fa” la qualità educativa a scuola e in famiglia costituisce una strategia essenziale, seppur molto poco utilizzata, di effettiva partecipazione e di innesco di progetti migliorativi. La realizzazione di tale confronto attraverso strumenti e percorsi valutativi è stata molto poco praticata e la ricerca che verrà presentata nei prossimi paragrafi ne costituisce un tentativo di esplorazione. Prima di entrare nel merito dell’esperienza che ha visto coinvolti insegnanti e dei genitori delle scuole dell’infanzia del Comune di Modena in un percorso pluriennale di valutazione della qualità del contesto educativo (scolastico e famigliare), presentiamo il quadro teorico di riferimento e il modello valutativo prescelti.

1. Valutazione e partecipazione È nostra convinzione, argomentata in più luoghi (Bondioli, Ferrari, 2000a; Bondioli, Ferrari, 2004), che la valutazione in ambito educativo, per essere efficace, debba essere “collegiale” e condivisa e coinvolgere, tramite un processo di negoziazione, i cosiddetti stakeholders, coloro che hanno una qualche posta in gioco nell’ “oggetto valutato” (nel caso della scuola: insegnanti, genitori, amministratori, studenti, ecc.). È infatti la sinergia di intenti e azioni tra i diversi soggetti implicati a rendere efficace l’intervento educativo e la valutazione, intesa come riflessione partecipata su tale intervento, viene allora a configurarsi come uno strumento essenziale di assunzione di consapevolezza e decisionalità condivise. La prospettiva di riferimento è la “valutazione di quarta generazione” (Guba, Lincoln, 1987) che abbraccia un paradigma costruttivista e considera la valutazione come un processo aperto, transattivo e negoziale. Tratti caratteristici di tale paradigma sono: la convinzione del carattere co-costruito dei dati valutativi e della necessità di una attribuzione di senso altrettanto co-costruita; l’intento democratico di dar voce e potere a tutti coloro che sono implicati in un progetto, in un servizio, in una realtà educativa indipendentemente dalla loro posizione gerarchica all’interno dell’istituzione; la convinzione che il coinvolgimento delle diverse parti in gioco, anche se potenzialmente in conflitto quanto a interessi e bisogni, sia necessario al fine di una assunzione di responsabilità condivisa; il dialogo, il confronto e la negoziazione come modalità procedurali tipiche. Entro questo quadro di riferimento, arricchito da ulteriori suggestioni provenienti da una pluralità di approcci1, siamo venute maturando l’idea che la qualità di un’istituzione educativa vada giudicata sulla base di parametri “intrinseci” alla sua funzione formativa (trasmissione e produzione di cultura), e che la realizzazione di tale funzione richieda la partecipazione di tutti gli attori sociali in gioco, secondo una prospettiva sistemica ben illustrata dal modello dell’ecologia dello sviluppo umano (Bronfenbrenner, 1979).

1 Ci si riferisce ai seguenti approcci: Democratic evaluation (House, Howe, 1999; House, 2005), Participatory evaluation (Cousins, Earl, 1992; Ulrik,Wenzel, 2003), Communicative evaluation (Nieme, Kemmis, 1999), Empowerment evaluation (Fetterman 1994, 2000), Qualità negoziata (Becchi, Bondioli, Ferrari, 2000; Bondioli, Ferrari, 2004; Bondioli, Savio, 2010).

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Concepire la qualità di un’agenzia educativa come un processo partecipativo comporta una serie di conseguenze: • gli educatori/insegnanti non sono gli unici o i più importanti responsabili del processo educativo che viene condiviso anche dagli allievi e dalle loro famiglie; • la chiarificazione dei “fini” per cui i diversi attori sociali partecipano è indispensabile per rilevare la loro compatibilità e la loro possibilità di composizione; • altrettanto importante è la chiarificazione dei valori cui i diversi attori e gruppi sociali fanno riferimento e che influenzano il modo di concepire e attuare il processo educativo; • il processo decisionale, pur nel rispetto della specificità dei ruoli e delle competenze, è condiviso così come l’assunzione di responsabilità; la realizzazione della finalità formativa è un compito comune; • l’interazione è basata sullo scambio (di idee, conoscenze, informazioni, opinioni) e sul confronto; • il processo è aperto verso l’esterno in relazione a tutti i soggetti o i gruppi che possono esserne interessati. La realizzazione di tali convincimenti in concreti percorsi valutativi ha consentito la messa a punto di un modello (Bondioli, Ghedini, 2000; Bondioli, Ferrari, 2000a, 2004; Bondioli, 2004; Bondioli, Savio, 2009; Savio, 2011), che è quello adottato nell’esperienza che verrà presentata, che si caratterizza per i seguenti aspetti: • oggetto della valutazione è il “contesto educativo” inteso come insieme delle risorse materiali, umane e simboliche organizzate e messe in gioco allo scopo di produrre una ricaduta formativa sui destinatari dell’azione educativa (Bondioli, 2004); • gli stakeholders coinvolti sono chiamati ad assumere una postura “riflessiva” nei confronti delle pratiche e dei convincimenti educativi (Gusmini, 2004); • il processo è innescato dall’utilizzo “critico” di strumenti di valutazione da parte dei partecipanti (auto-valutazione)2; • momento cruciale del processo è la restituzione dei dati valutativi via via raccolti e la loro discussione da parte dei diversi stakeholders coinvolti (Becchi, 2000; Bondioli, Ferrari, 2000b; Ferrari, 2004); • è indispensabile una figura di valutatore che sappia svolgere una funzione di facilitazione della comunicazione e della negoziazione tra i partecipanti3.

2. Una valutazione formativa a più livelli Il modello di valutazione cui facciamo riferimento, lo si è accennato, ha un carattere eminentemente formativo. Scriven (1967) parla di valutazione formativa in relazione anche a

2 Ci si riferisce a strumenti che indicano gli aspetti del contesto educativo (item) sui quali esercitare la valutazione, precisando, per ciascuno di essi, quali informazioni vadano raccolte, gli standard di ottimalità e i criteri sulla cui base compiere l’apprezzamento. Nel corso del processo gli stessi strumenti vengono valutati (valutazione criteriale) per verificare se sono consoni ai valori e all’ethos dei partecipanti e utilizzati solo in seguito a tale verifica. Il confronto tra i parametri valutativi espressi dallo strumento e la percezione delle caratteristiche del contesto educativo sollecita nei partecipanti l’esplicitazione di idee e valori taciti che consente l’avvio del processo di negoziazione. 3 Tale figura è responsabile del processo valutativo, addestra i partecipanti all’uso degli strumenti, e, soprattutto, promuove processi di riflessione facilitando i processi di negoziazione e confronto nei momenti di “restituzione”.

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programmi educativi, caratterizzandola nel modo seguente: l’atto valutativo coglie la realtà valutata nel suo divenire e ne identifica i punti di forza e di debolezza con lo scopo di agire ulteriormente per migliorarla; proprio perché l’obiettivo è il miglioramento della realtà valutata, il processo valutativo non può prescindere dalla partecipazione degli attori di quella realtà, in quanto dal loro intervento dipende la possibilità di modificarla mentre la “costruiscono”. La metafora utilizzata da Stake, e riportata da Scriven (1991, p. 169), per illustrare la valutazione formativa è quella del cuoco che assaggia una pietanza mentre la prepara per “aggiustare” via via gli ingredienti e ottenere il risultato migliore possibile. Secondo il nostro modello, la dimensione propriamente formativa si annida proprio nel coinvolgimento degli attori della realtà valutata. Nello specifico ci riferiamo primariamente alla partecipazione degli insegnanti/educatori a un percorso di valutazione del servizio educativo in cui operano, che può limitarsi al loro contributo nella discussione dei dati raccolti da un valutatore esterno o implicare da parte loro l’assunzione di un ruolo attivo come valutatori interni, nel qual caso il processo si può definire auto-valutativo4. In ogni caso tale coinvolgimento sollecita in chi ne è protagonista un processo riflessivo su “ciò che fa”, sul “perché lo fa” e su come “lo vorrebbe fare”. Questo processo comporta almeno due ricadute formative. In primo luogo promuove quella conversazione con la situazione che caratterizza il professionista riflessivo descritto da Schön (1983), il quale affronta i problemi unici incontrati nella pratica avviando un processo d’indagine che lo porta ad elaborare teorie e soluzioni inedite per quella realtà, per renderla “come la vorrebbe”, quindi a nuove acquisizioni. In secondo luogo la riflessione sul dato valutativo relativo al proprio contesto favorisce l’esplicitazione delle dimensioni implicite del proprio fare educativo, lo svelamento dei convincimenti che in modo non del tutto consapevole lo orientano nutrendo pedagogie latenti (Becchi, 2005). In questo caso la ricaduta formativa sta appunto nell’acquisizione di una maggiore consapevolezza circa la propria identità educativa, intendendo con essa il complesso intrecciarsi tra valori e convincimenti educativi di riferimento, pratiche ideali che li incarnano e pratiche effettivamente messe in atto (Savio, 2011). Gli attori di una realtà che partecipano all’atto della sua valutazione risulteranno dunque “tras-formati” da quell’atto. Fetterman (2000) a questo proposito parla di empowerment evaluation, in quanto i protagonisti si “tras-formano” potenziando capacità fondamentali per la loro emancipazione: le capacità di far riferimento ai principi e alle pratiche valutative per monitorare il proprio intervento, di formulare esplicitamente i propri obiettivi, di perseguirli intenzionalmente, quindi di autodeterminarsi e di assumere responsabilità. Di più. Il riferimento a Fetterman permette di precisare un’ulteriore dimensione fondamentale per la ricaduta formativa del nostro modello valutativo: il carattere sociale del processo. L’empowerment evaluation viene descritta come un evento eminentemente sociale governato dagli stakeholders, cioè da coloro che hanno una qualche posta in gioco nella realtà valutata, e caratterizzato in tutte le sue fasi dalla negoziazione democratica e quindi dalla cocostruzione di significati (circa i valori, gli obiettivi, le procedure, gli esiti ecc.) condivisi. Analogamente, nel modello di valutazione formativa cui ci riferiamo, la riflessione sui dati valutativi non avviene in solitudine ma in un momento collegiale, in cui il valutatore

4 Se, in riferimento a un certo servizio educativo, gli attori da coinvolgere nel processo valutativo sono prima di tutto gli operatori, in quanto principali “costruttori” di quel servizio, si è già detto che la partecipazione può e dovrebbe essere allargata a tutti coloro che in qualche misura detengono interessi e responsabilità nei confronti di tale servizio, come ad esempio i genitori, che infatti hanno svolto un ruolo primario nell’esperienza presentata più avanti.

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esterno restituisce agli attori della realtà valutata gli esiti della valutazione e promuove il confronto su di essi. Il confronto individuale con gli esiti della valutazione, propria e/o altrui, di per sé innesca i processi riflessivi di cui abbiamo detto e la loro ricaduta formativa. Ma il rapportarsi dialogicamente, in gruppo, ad altri punti di vista individuali, che hanno auto-valutato diversamente la stessa realtà o esprimono considerazioni diverse sugli stessi dati, potenzia l’approfondimento riflessivo: il confronto con la disomogeneità di valutazioni, descrizioni, riferimenti valoriali rispetto a un contesto educativo per il quale si hanno interessi e responsabilità comuni, sollecita reciprocamente e circolarmente nei partecipanti una più precisa e argomentata esplicitazione del proprio punto di vista, che alimenta la crescita di consapevolezza circa la propria identità educativa e quindi, lo abbiamo detto, la capacità di autodeterminare intenzionalmente il proprio fare educativo. Ancora. Il processo di valutazione partecipata ha un effetto formativo legato al gruppo. Innanzitutto perché “forma” un gruppo: poiché il nostro modello prevede che la promozione del confronto tra i punti di vista individuali sia orientata alla negoziazione di un punto di vista comune, le identità educative individuali trovano una qualche composizione in un’identità educativa comune che, definendo valori, obiettivi, pratiche di riferimento del servizio cui si appartiene, consolida l’esistenza del gruppo come “soggetto” con chiari obiettivi e responsabilità. Ciò comporta una trasformazione “psicologico-politica” nei protagonisti. Dal punto di vista psicologico, i membri del gruppo rafforzano il loro senso di appartenenza all’identità educativa condivisa e quindi la compartecipazione consapevole al perseguimento degli intenti che governano il fare comune. Dal punto di vista “politico”, il fatto che il senso del gruppo si costituisca sulla base della partecipazione democratica, e non come arroccamento difensivo causato da fragilità di vario genere, fa crescere nei protagonisti anche il senso che esso è un “soggetto sociale”, con un ruolo e una responsabilità rilevanti nei compiti educativi della società civile. Di più. Questo processo si traduce in un’apertura al confronto con tutti gli attori educativi di quella società e in un impegno politico per allargare il cerchio partecipativo alimentando la contrattazione di patti educativi responsabili. Così, anche se il nostro modello è nato ed è stato elaborato principalmente in riferimento a gruppi di insegnanti/educatori operanti nello stesso servizio, la sua “vocazione” è quella di alimentare l’apertura dei processi di valutazione formativa partecipata, coinvolgendo il più possibile tutti gli stakeholders di una certa impresa educativa. Prima di tutto i genitori, i partner educativi più prossimi agli insegnanti/educatori, come mostreremo nel prossimo paragrafo.

3. L’esperienza L’esperienza che qui viene presentata si colloca a pieno titolo nel framework concettuale presentato nei paragrafi precedenti. Si è trattato di un’esperienza di valutazione partecipata che ha visto coinvolti insegnanti e genitori delle scuole dell’infanzia del Comune di Modena nel corso di un triennio5. Le ragioni che hanno spinto i responsabili pedagogici del servizio a intraprendere un percorso di questo tipo sono state molteplici. Nell’alveo di

5 Il percorso si è articolato nell’arco di un decennio. Qui si presenta soltanto il triennio nel quale l’esperienza valutativa è stata rivolta alla totalità dei genitori.

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una tradizione di partecipazione propria dei servizi per l’infanzia modenesi6 si voleva promuovere un dialogo paritario tra genitori e insegnanti sull’educazione dei bambini verificando se e quanto credenze e pratiche pedagogiche fossero condivise. In linea con l’approccio ecologico di Bronfenbrenner (1979) si pensava che la cooperazione tra famiglia e scuola (mesosistema nel modello ecologico) fosse un aspetto cruciale e strategico per la crescita infantile e che tale cooperazione dovesse passare attraverso l’esplicitazione e la messa in comune di idee sul bambino e sull’educazione oltre che sul confronto circa le pratiche educative a casa e a scuola. Si riteneva inoltre che, qualunque potesse essere l’esito della verifica, la discussione comune tra genitori e insegnanti sulle credenze e le pratiche educative avrebbe aiutato sia gli uni che gli altri a riflettere sulla peculiarità del proprio ruolo nella crescita dei bambini e sulle modalità attraverso cui renderlo maggiormente sinergico. Non solo. Sostenere nei genitori e negli insegnanti la consapevolezza di agire per un fine comune – l’educazione del bambino – avrebbe rafforzato il “patto educativo” e quindi l'identità pedagogica dei servizi educativi locali. In questa prospettiva l’impiego di forme di valutazione partecipata che vedessero coinvolti a ugual titolo insegnanti e genitori sembrava essere una strategia utile per avviare una riflessione sulla qualità del progetto e dell’offerta educativi a casa e a scuola. 3.1. I partecipanti e le modalità di partecipazione L’impresa valutativa ha visto coinvolte diverse figure: il consulente scientifico7, i coordinatori pedagogici8, la totalità degli insegnanti e dei genitori. Data la numerosità dei partecipanti e la complessità dell’impresa gli incontri di discussione per decidere le azioni da intraprendere e di “restituzione” per riflettere sui dati via via raccolti si sono svolti secondo una struttura di gruppi di lavoro a più livelli, caratterizzata da scambi di informazione sia in orizzontale che in verticale. gruppo di coordinamento+ consulente scientifico ↓ insegnanti + coordinatore (per ogni scuola) ↓ coordinatori pedagogici + rappresentanti dei consigli di gestione9 ↓ assemblee insegnanti + genitori (di sezione e scuola) ↓ assemblee plenarie (aperte a insegnanti e genitori di tutte le scuole + coordinatori pedagogici e consulente scientifico) Quadro 1. La struttura dei gruppi di lavoro

6 Per una sintetica presentazione si veda D’Alfonso, Rilei (2010). 7 Anna Bondioli è stata il consulente scientifico del progetto. 8 Negli anni in cui si è svolta l’esperienza i coordinatori pedagogici erano 5 a ciascuno dei quali erano affidate dalle 4 alle 5 delle 22 scuole dell’infanzia del Comune di Modena. 9 I Consigli di gestione sono composti da genitori, in numero di tre per sezione, eletti ogni due anni da tutti i genitori della scuola, da una rappresentanza degli insegnanti e dei collaboratori scolastici e dal coordinatore pedagogico.

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Ogni fase del percorso è stata decisa, via via, in modo partecipato; analogamente i risultati delle valutazioni sono stati discussi in ciascuna di esse. 3.2. La valutazione criteriale della SOVASI Il modello valutativo prescelto prevedeva, come già è stato osservato, l‘utilizzo di uno strumento di valutazione come “reattivo” per innescare il processo congiunto – tra genitori e insegnanti – di riflessione sulla qualità della scuola. La scelta è caduta sulla scala SOVASI (Harms, Clifford, 1980), nella versione tradotta e adattata alla situazione italiana10, che era già stata usata in anni precedenti dagli insegnanti delle scuole dell’infanzia modenesi (Bondioli, 2010)11. La prima fase che ha visto coinvolti i genitori nel processo valutativo è avvenuta nell’anno scolastico 2000-01 chiedendo sia agli insegnanti che ai genitori di indicare quali item della SOVASI, a loro parere, fossero più importanti per definire la qualità della scuola. Tale valutazione “criteriale” aveva come scopo quello di avvicinare le famiglie alla conoscenza di uno strumento di valutazione della qualità della scuola dell’infanzia che permettesse un confronto con gli insegnanti a partire da una base e da un lessico comuni ma anche, e soprattutto, quello di verificare quanto fosse condivisa tra genitori e tra insegnanti e famiglie l’idea di scuola e di educazione. Non solo. In vista dell’elaborazione di uno strumento di valutazione che consentisse anche alle famiglie di apprezzare la qualità della scuola, si intendevano individuare quegli aspetti del contesto educativo che sia gli insegnanti che i genitori ritenevano qualificassero una “buona” scuola dell’infanzia. Hanno partecipato alla valutazione criteriale della SOVASI tutti gli insegnanti delle 21 scuole dell'infanzia del Comune di Modena e 1135 genitori (76%). La scelta è stata fatta individualmente da ogni insegnante e da ogni coppia di genitori dopo aver letto la descrizione di tutti i 37 item. La seguente tabella mostra gli item più votati da insegnanti e genitori.

10 La SOVASI (Scala di valutazione della scuola dell’infanzia), traduzione e adattamento della ECERS (Early Childhood Environment Rating Scale) alla situazione italiana, frutto del lavoro di Monica Ferrari e Antonio Gariboldi, è stata pubblicata nel 1994. È una scala ordinale costituita da 37 item suddivisi in 7 aree: Cure di routine (item 1-5: 1. Benvenuto e commiato, 2. Pasti e merende, 3. Riposino, 4. Cambi, 5. Pulizia personale), Arredi e materiali a disposizione dei bambini (item 6-10: 6. Arredi per le cure di routine, 7. Arredi per le attività di apprendimento, 8. Relax e ambiente confortevole, 9. Disposizione della sezione, 10. Materiale messo in mostra per i bambini), Esperienze cognitive e linguistiche (item 11-14: 11. Competenza linguistica passiva, 12. Competenza linguistica attiva, 13. Concettualizzazione e ragionamento, 14. Linguaggio spontaneo), Attività motorie fini e globali (item 15-20: 15. Motricità fine, 16. Supervisione degli adulti delle attività di motricità fine, 17. Spazio per attività di motricità globale, 18. Attrezzature per le attività di motricità globale, 19. Tempo programmato per le attività di motricità globale, 20. Supervisione degli adulti delle attività di motricità globale), Attività creative ed espressive (Item 21-27: 21. Attività artistiche, 22. Musica e danza, 23. Costruzioni, 24. Sabbia e acqua, 25. Gioco simbolico, 26. Organizzazione della giornata, 27. Supervisione delle attività creative ed espressive da parte degli adulti), Sviluppo sociale (item 28-33: 28. Spazio per poter stare soli, 29. Gioco libero, 30. Raggruppamenti, 31. Consapevolezza delle specificità, 32. Clima sociale, 33. Iniziative per bambini con particolari problemi o handicap), Bisogni degli adulti (item 34-37: 34. Area degli adulti, 35. Opportunità di crescita professionale, 36. Zona riservata agli incontri con gli adulti, 37. Iniziative per i genitori). Ciascun item presenta 4 situazioni corrispondenti livelli di qualità ordinati gerarchicamente: (1) inadeguata, (3) minima, (5) buona, (7) eccellente. 11 Nel triennio precedente era stato realizzato un percorso nel quale tutte le insegnanti delle scuole modenesi avevano utilizzato la SOVASI per la valutare la propria scuola dell’infanzia (Bondioli, 2010).

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Tab. 1. Esiti della valutazione criteriale della SOVASI

L’esito della consultazione, discussa all’interno ai diversi livelli indicati nel Quadro 1, mostra una comunanza di scelte - gli stessi 7 item compaiono tra i primi 12 scelti sia per i genitori che per gli insegnanti - ed è stato percepito da genitori e insegnanti come indice di condivisione dell’identità della scuola dell’infanzia modenese, un servizio con un’offerta formativa caratterizzata da una gamma di specifiche attività di apprendimento proposte in maniera sistematica. L’esito è apparso anche come una conferma della “trasparenza” del servizio nei confronti delle famiglie e come il frutto della tradizione partecipativa delle famiglie alla vita della scuola. 3.3. La costruzione degli strumenti valutativi La valutazione “criteriale” costituiva solo il primo passo verso il coinvolgimento di insegnanti e genitori in un processo comune di valutazione della scuola per il quale era necessario mettere a punto uno strumento, analogo alla SOVASI, che consentisse alle famiglie di esprimere la propria valutazione. Ma, su quale base, attingendo a quali informazioni e/o avvalendosi di quali osservazioni dirette, i genitori avrebbero potuto apprezzare la qualità educativa della scuola dell’infanzia frequentata dal proprio figlio? Il primo problema era appunto verificare quali item della SOVASI potessero essere apprezzati anche dai genitori, mantenendo i medesimi criteri di qualità indicati nello strumento per gli insegnanti. Si è pertanto avviata una seconda consultazione, rivolta ancora una volta a tutti gli insegnanti e tutti i genitori delle scuole dell’infanzia modenesi12, con la richiesta di indicare, per ciascun item, il grado (basso, medio, alto) di valutabilità. L’esito della consultazione è il seguente: 13 item della SOVASI sono stati maggiormente “votati” dai genitori come valutabili. Di questi, 11 sono stati indicati come valutabili anche dalla maggioranza degli insegnanti. Dei 13 item individuati ne troviamo ben 7 indicati, nella precedente consultazione, come “importanti” a definire la qualità della scuola.

12 A questa consultazione hanno partecipato 1135 genitori (70%) e la totalità degli insegnanti.

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Tab. 2: Item “valutabili” Legenda: in grassetto item che, nella consultazione precedente, genitori e insegnanti avevano considerato “importanti” a definire la qualità della scuola (concordanza tra genitori e insegnanti); contrassegnati da asterisco gli item che, nella nuova consultazione, sono stati considerati ampiamente valutabili solo dai genitori.

Gli item così identificati sono stati in parte modificati, mantenendo sia la struttura che la progressione dei livelli della scala SOVASI, in modo che i genitori potessero valutarne la qualità secondo criteri analoghi a quelli degli insegnanti (scala di valutazione della scuola per genitori). Inoltre, poiché si intendeva avviare un confronto tra insegnanti e genitori per verificare quanta sinergia ci fosse tra scuola e ambiente domestico nel perseguire un progetto educativo condiviso, 10 dei 13 item dello strumento per la valutazione della scuola da parte dei genitori sono stati modificati, sempre mantenendo struttura e progressione dei livelli della SOVASI, per permettere alle famiglie di autovalutare la qualità della proposta educativa a casa. Qui di seguito si fornisce un esempio delle modifiche apportate all’item 13 della SOVASI “Concettualizzazione e ragionamento” (riportato nella colonna sinistra del Quadro 2) per renderlo utilizzabile dai genitori.

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Concettualizzazione e ragionamento (SOVASI, item 13) STRUMENTO DI VALUTAZIONE DELLA SCUOLA PER GLI INSEGNANTI

Concettualizzazione e ragionamento STRUMENTO DI VALUTAZIONE DELLA SCUOLA PER I GENITORI

Concettualizzazione e ragionamento STRUMENTO DI AUTOVALUTAZIONE PER I GENITORI

Punteggio 1 = inadeguato. Non vi sono giochi, materiali o attività che amplino e incoraggino le attività logiche (ad es.: i bambini non hanno la possibilità di fare paragoni, di produrre sequenze, di compiere categorizzazioni).

Punteggio 1 = inadeguato. Nella sezione in cui è inserito il bambino non si notano materiali specifici che incoraggino le attività logiche (possibilità di fare paragoni, di produrre sequenze temporali, di compiere misurazioni e classificazioni, di fare osservazioni naturalistiche mediante le quali studiare alcune semplici fenomeni). Per quanto a conoscenza dei genitori le educatrici non propongono ai bambini esperienze che incoraggino la concettualizzazione e il ragionamento.

Punteggio 3 = minimo. Vi sono giochi e materiali o attività, ma utilizzati solo con l’insegnante oppure non facilmente disponibili. Oppure l’attività logica è svolta sotto la guida dell’insegnante ma utilizzando materiali non strutturati.

Punteggio 3 = minimo. In sezione è visibile del materiale che potrebbe sollecitare attività di concettualizzazione e ragionamento (carte in sequenza, blocchi logici, puzzle, bilance, misure) ma esso appare sparso e non organizzato tanto da far pensare che non sia utilizzato per attività specifiche. Occasionalmente si può notare che i bambini utilizzano tale materiale.

Punteggio 1 = inadeguato. A casa il bambino non ha a disposizione materiali o giocattoli che possano sollecitare le capacità di concettualizzazione e ragionamento (puzzle, carte in sequenza, materiali per classificazioni e confronti). Raramente le situazioni di vita quotidiana costituiscono occasioni per riflettere insieme sui fenomeni naturali e per sollecitare il bambino a trovare una risposta ai propri “perché”. Non si ha tempo di rispondere in maniera adeguata alle curiosità espresse dal bambino o il bambino non sembra considerare l’adulto come interlocutore al proposito (non fa domande, non chiede “perché”, ecc.).

Punteggio 5 = buono. Il numero di giochi e materiali o attività utilizzati regolarmente è sufficiente. I bambini ne usufruiscono per libera scelta assistiti da un in segnante che li aiuta a ragionare parlando e ponendo domande che stimolano la loro capacità di ragionamento.

Punteggio 5 = buono. La sezione ha una ricca dotazione di materiale per le attività di concettualizzazione (carte in sequenza, blocchi logici, puzzle, bilance, misure, ecc.). Tali materiali sono organizzati in centri di interesse cosicché i bambini appaiono invogliati ad adoperarli. Le educatrici coinvolgono spesso i bambini in attività di questo tipo. Ne è segno il fatto che i bimbi a casa si impegnino spontaneamente in tali attività, mostrino curiosità nei confronti dei fenomeni del mondo fisico, raccontino ciò che hanno imparato a scuola.

Punteggio 7 = eccellente. Tutto ciò che è compreso al punto 5 ma, in più, c’è un preciso progetto per sviluppare nei bambini, singolarmente e in gruppo, capacità di ragionamento. L’insegnante incoraggia i bambini a ragionare durante tutto il giorno usando gli eventi quotidiani e le esperienze.

Punteggio 7 = eccellente. Tutto ciò che è compreso al punto 5 e, in più, si è avuto modo di notare come il bambino, da quando frequenta la scuola, si dimostri interessato ai fenomeni del mondo fisico, mostri un’evoluzione nelle capacità logiche (messa in sequenza di azioni nel tempo, individuazione di nessi causa-effetto, ecc.), sia in grado di compiere confronti, conteggi, misurazioni. I genitori sono stati informati dell’esistenza di un progetto specifico che la scuola realizza per sviluppare le capacità logiche e di ragionamento: conoscono la gamma delle attività proposte e il loro significato.

Punteggio 3 = minimo. A casa il bambino ha a disposizione alcuni materiali o giocattoli che possono sollecitare le capacità di concettualizzazione e ragionamento (puzzle, carte in sequenza, materiali per classificazioni e confronti). Tali materiali vengono usati autonomamente dal bambino senza la cooperazione dell’adulto. Solo occasionalmente il bambino esprime le proprie curiosità e sporadicamente se ne dà risposta. Il piccolo non è sollecitato a fare confronti, a esprimere nessi logici nel dialogo quotidiano. Punteggio 5 = buono. I materiali che il bambino ha a disposizione vengono utilizzati con l’adulto in forme di gioco condiviso. Quando si presenta l’occasione, vuoi perché il bambino esprime le proprie curiosità, vuoi perché chiede spiegazioni, l’adulto, prima di fornire la risposta corretta, cerca di conoscere ciò che pensa il bambino, lo invita a formulare il proprio pensiero in una forma più compiuta, aspetta, prima di dare le proprie autorevoli risposte, di aver compreso il punto di vista del bambino. Punteggio 7 = eccellente. I genitori conoscono quali attività vengono svolte nella scuola a favore dello sviluppo della concettualizzazione e del ragionamento, sono stati informati delle caratteristiche della mente infantile e delle strategie più efficaci per incoraggiare i bambini a osservare e riflettere. C’è continuità tra il programma pedagogico svolto a scuola e il modo con cui a casa si sollecita il bambino a elaborare il proprio pensiero in forma logica.

Quadro 2. L’item Concettualizzazione e ragionamento nei tre strumenti utilizzati

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Gli strumenti adottati e elaborati sono stati tre, come indicato nel seguente prospetto Genitori: valutazione della scuola (analogo della SOVASI) 1. Benvenuto e commiato

Genitori: valutazione ambiente educativo domestico/autovalutazione (analogo della SOVASI)

nsegnanti: valutazione della scuola/autovalutazione (SOVASI)

2. Pulizia personale

2. Pulizia personale

1. Benvenuto e commiato

2. Pulizia personale 3. Arredi

4. Disposizione della sezione 5. Materiale in mostra

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6. Competenza linguistica passiva

6. Competenza linguistica passiva

8. Concettualizzazione e ragionamento

8. Concettualizzazione e ragionamento

7. Competenza linguistica attiva 9. Linguaggio spontaneo

7. Competenza linguistica attiva 9. Linguaggio spontaneo 10. Motricità fine

10. Motricità fine

11. Attività artistiche

12. Organizzazione della giornata 13. Clima sociale

11. Attività artistiche

12. Organizzazione della giornata 13. Clima sociale

1. Benvenuto e commiato 3.

Arredi

4. Disposizione della sezione 5. Materiale in mostra

6. Competenza linguistica passiva 7. Competenza linguistica attiva

8. Concettualizzazione e ragionamento 9. Linguaggio spontaneo 10. Motricità fine

11. Attività artistiche

12. Organizzazione della giornata 13. Clima sociale

Quadro 3. Gli item dei tre strumenti adottati

3.4. Il momento valutativo Nell’anno scolastico 2002/03 si è svolto il momento valutativo vero e proprio che ha visto impegnati: tutti gli insegnanti delle 21 scuole dell’infanzia nel valutare individualmente la propria sezione solo per gli item della SOVASI presenti nella scala per i genitori; 1377 genitori (77%) che in coppia hanno valutato la sezione frequentata dal proprio bambino con lo strumento di valutazione della scuola per i genitori, e l’ambiente educativo “di casa” con la scala di autovalutazione per i genitori. Gli esiti della valutazione sono stati discussi ai diversi livelli indicati nel Quadro 1, soffermandosi soprattutto sul confronto tra le valutazioni espresse dagli insegnanti e quelli delle famiglie sulla scuola e tra queste e quelle emerse dall’autovalutazione da parte delle famiglie. Il primo riscontro rilevato è stato relativo alla buona qualità del servizio percepita sia da parte dei genitori che degli insegnanti (Cfr. Grafico 1).

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Graf. 1: Valutazione della scuola: confronto genitori/insegnanti

Le medie delle valutazioni espresse dai genitori sulla scuola variano da 5 (buono) a 6 per tutti gli item tranne uno (arredi per le attività di apprendimento). Le valutazione degli insegnanti appaiono più elevate di quelle dei genitori tranne che per tre item – arredi per attività di apprendimento, organizzazione delle sezione, materiale in mostra – dove collimano. La fase valutativa conferma che tra insegnanti e famiglie la percezione della realtà educativa e della sua qualità risulta ampiamente condivisa: vi è ampia concordanza di vedute e di giudizio.

Graf. 2: Genitori: valutazione della scuola/autovalutazione

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Anche l’autovalutazione da parte dei genitori mostra una percezione diffusa dell’ambiente domestico come luogo educativo di qualità sinergico a quello scolastico (Cfr. Graf. 2). I genitori si autopromuovono pur giudicando più positivamente l’ambiente scolastico (tranne che per l’item Pulizia personale). Il requisito per il giudizio di eccellenza (livello 7) è però raramente attribuito dai valutatori mostrando un margine di miglioramento e soprattutto la necessità di uno sforzo ulteriore per giungere a una piena condivisione, tra insegnanti e genitori, del progetto educativo sul bambino, da realizzarsi in autonomia ma in modo coerente e condiviso13. La discussione di questi risultati tra insegnanti e genitori ha portato a sottolineare la comunanza di convincimenti e intenti educativi rinsaldando ancora una volta l’idea di andare in una direzione comune; dall’altra ha mostrato l’esistenza di una zona di fragilità della condivisione suscettibile di miglioramento.

4. Commenti e considerazioni conclusive Ci pare che l’esperienza presentata abbia attivato i vari processi che caratterizzano la valutazione formativa partecipata, rendendo possibile l’approfondimento del dialogo e il consolidamento del patto educativo tra genitori e insegnanti. Con la mossa dedicata al confronto sugli aspetti educativi rilevanti della scuola dell’infanzia, l’identità educativa del servizio è stata esplicitata, discussa e quindi condivisa tra insegnanti e genitori, acquisendo certo contorni più definiti e di conseguenza maggiore possibilità di essere perseguita e sostenuta intenzionalmente da entrambe le parti in causa. Il momento della valutazione del servizio da parte sia degli insegnanti che dei genitori, sugli aspetti condivisi come rilevanti, ha avuto come risultato giudizi comuni di buona qualità, dato che, oltre a gratificare e rassicurare, può aver rafforzato in entrambi la consapevolezza ma anche il desiderio di partecipare a un’impresa comune ponendo le basi della volontà/capacità di autodeterminazione. Ancora. L’auto-valutazione dei genitori sugli stessi aspetti ritenuti rilevanti per l’identità educativa del servizio ha ottenuto un giudizio positivo, anche se non tanto quanto quello rilevato per la scuola, e ciò conferma che quegli aspetti educativi sono davvero significativi per i genitori tanto che li sostengono attivamente anche a casa. Ma questo passaggio assume dal nostro punto di vista una valenza soprattutto sul piano “psicologico” e “politico”. Auto-valutando la propria capacità educativa su aspetti condivisi come importanti con gli insegnanti, i genitori psicologicamente hanno avuto modo di rafforzare il loro senso di appartenenza e di partecipazione a una certa identità educativa; d'altra parte, sono stati sollecitati a riconoscere il significato sociale e dunque politico del loro ruolo educativo, in quanto anello fondamentale della rete che la società civile intesse per assolvere ai propri compiti educativi. Ciò dà anche l’opportunità di riconoscere che la responsabilità educativa deve essere condivisa tra genitori e insegnanti, e quindi di sostenere il senso e il valore della costruzione di un patto educativo tra scuola e famiglia. D’altra parte, le

13 Il livello corrispondente al Punteggio 7 = eccellente presenta, per tutti gli item, una situazione nella quale i genitori conoscono quali attività vengono svolte nella scuola a favore dell’aspetto considerato dall’item, sono stati informati delle caratteristiche dello sviluppo infantile al proposito e delle strategie più efficaci per promuoverlo, una situazione nella quale c’è continuità tra il programma pedagogico svolto a scuola e il modo con cui anche a casa lo si promuove.

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valutazioni e auto-valutazioni hanno rilevato che i genitori promuovono in famiglia lo sviluppo e l’educazione dei bambini in maniera sinergica con quanto avviene a scuola, e questo, in qualche misura, dice che il patto educativo con gli insegnanti già “gode di ottima salute” e, dicendolo, ancora lo rafforza. In definitiva, ci pare che la partecipazione a questo percorso possa aver sostenuto nei protagonisti la crescita di consapevolezza personale e sociale circa le specificità dei rispettivi ruoli educativi ma anche circa la loro integrazione in un'identità educativa riconosciuta come riferimento comune in termini politici, di impegno responsabile e condiviso. Per quanto concerne i possibili sviluppi, gli esiti del percorso suggeriscono una direzione precisa. Come abbiamo visto, i dati valutativi sia dei genitori che degli insegnanti, pur esprimendo giudizi ampiamente positivi, non soddisfano in nessun caso i requisiti dell'eccellenza. Tali requisiti comprendono la presenza di una progettualità educativa condivisa ed esplicita tra genitori e insegnanti, la quale, quindi, sarebbe riconosciuta carente nei giudizi dati da entrambe le parti. Dunque in questo caso il progetto migliorativo, che sempre scaturisce da un processo valutativo formativo in quanto orientato all'azione ulteriore (Scriven, 1967), andrebbe elaborato attorno alla possibilità di rendere la progettualità educativa del servizio più fruibile e “partecipabile” per i genitori. Per concludere, una questione aperta. Si è detto che i servizi per l'infanzia di Modena da sempre sono impegnati sul fronte della partecipazione dei genitori, e aggiungiamo che tale partecipazione è uno dei valori di riferimento dell’identità educativa modenese (cfr. nota 6). Ciò significa che il terreno in cui si è sviluppata l’esperienza che abbiamo presentato era senz'altro fertile e non “ingenuo” rispetto ad essa. Il fatto che le procedure, i processi, gli strumenti proposti per attivare una valutazione riflessiva partecipata tra insegnanti e genitori siano stati accolti e attivati senza difficoltà potrebbe dunque, in certa misura, dipendere dalle condizioni favorevoli del contesto coinvolto. Resta aperta la questione di quanto un percorso analogo sarebbe facilmente e favorevolmente accolto, nonché fruttuosamente esperito, da protagonisti meno avvezzi a pratiche e valori partecipativi. Questione aperta che indica una direzione di possibile, futuro approfondimento.

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Ricerche La scrittura di sintesi di studenti del primo anno di Scienze della Formazione Primaria The Writing Synthesis Competence of the Education first year students LERIDA CISOTTO – NAZZARENA NOVELLO L’obiettivo di questo studio è di esplorare le componenti di elaborazione concettuale della scrittura di sintesi a partire da testi-fonte diversi. Il compito è fra i più richiesti in ambito universitario e fra i più impegnativi, poiché comporta l’attivazione simultanea di strategie esperte di comprensione dei testi e di produzione di un testo nuovo, integrando concetti attinti da più fonti. Sono state coinvolti nella ricerca 150 studenti del primo anno di Scienze della Formazione Primaria che hanno svolto la prova in condizioni controllate. I dati emergenti dalle analisi attestano la profonda debolezza delle competenze di scrittura di sintesi. Le carenze riguardano il piano linguistico (ortografia, morfologia…), ma, in forma ancora più vistosa, le componenti testuali, sia in fase di comprensione che di produzione scritta. Rispetto al primo processo, le sintesi rivelano scarsa informatività e debole integrazione, nel senso che non riportano concetti centrali, trasversali alle fonti, e i dati informativi si susseguono a collezione o elenco. Dal punto di vista della produzione scritta, la maggior parte delle sintesi rispecchia strategie compositive ingenue: il nuovo testo include alcune informazioni attinte dalle fonti, ma senza un criterio guida, né una struttura generale di riferimento. Di conseguenza le sintesi risultano poco coese e male organizzate.

This research aimed at exploring the competences of the writing synthesis from multiple text-sources. This complex task is often required in the university and implied the simultaneous management of comprehension and composition expert strategies and processes. Participants were 150 first-year Education students, attending the university in North-East Italy, who carried the test under controlled conditions. The data analysis showed the worrying difficulties of the student in the writing competences, particularly in the textual dimensions, both in phases, comprehension and written production. On the first trial, the syntheses reveal poor informativeness and week integration, as missing key concepts which cut across the sources. Also, the information are willing to list or collection. From the point of view of written production, most of the syntheses reflect ingenuous compositional strategies: the students included some concepts drown from the sources in a new test, but without a guiding idea, nor general structure. So, the syntheses are poorly cohesive and organized.

Parole chiave: scrittura di sintesi, informatività, integrazione, organizzazione, coesione, coerenza

Key words: writing synthesis, informativeness, integration, organization, cohesion, coherence

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1. Il problema e gli obiettivi La percezione della necessità di riflettere sulla scrittura e sulle pratiche didattiche per il suo insegnamento in ambito universitario si è scontrata a lungo con l’idea che l’alta formazione non se ne dovesse occupare: è spontaneo credere, infatti, che gli studenti, giunti a livelli avanzati del percorso formativo, sappiano scrivere. Nell’ultimo decennio, tuttavia, tale idea è stata insidiata da ricerche che hanno evidenziato rilevanti criticità in questo campo (Accademia della Crusca, 2009; Stefinlongo, 2002; Sposetti, 2008). Docenti di corsi di laurea a indirizzo sia umanistico che scientifico lamentano la scarsa qualità delle produzioni scritte degli studenti universitari, molte delle quali presentano vistose carenze sul piano linguistico e di elaborazione concettuale. Le ricerche internazionali attestano la posizione di debolezza dell’Italia. L’indagine OCSE-PISA, ad esempio, condotta con quindicenni per rilevare la literacy in lettura (capacità di capire, usare e riflettere sui testi scritti), registra, dal 2000 al ‘09, un declino sensibile delle competenze linguistiche: aumenta la percentuale di giovani con valutazione bassa, mentre diminuisce quella con valutazione medio-alta. La stampa locale e nazionale hanno lanciato il problema al grande pubblico, ma è l’Università a essere direttamente interpellata. La situazione è ancor più preoccupante se ci si riferisce a studenti di Scienze della Formazione Primaria, corso di laurea in cui si formano i futuri insegnanti. L’allarme investe due ordini di problemi: il primo riguarda le ricadute negative delle carenze di scrittura sull’intera carriera accademica degli studenti. Il secondo è relativo al loro futuro professionale: l’insegnamento nella scuola primaria, che presuppone una padronanza solida delle competenze di scrittura, al fine di poterle insegnare. La ricerca di seguito esposta si inquadra nella problematica sopra descritta ed è parte di una più ampia indagine diretta alla messa a punto di un test per rilevare le competenze di scrittura degli studenti del primo anno di Scienze della Formazione Primaria. Nello specifico, lo studio mira ad esplorare le componenti di elaborazione concettuale della scrittura di sintesi a partire da testi-fonte diversi. La scelta è stata indotta dalla considerazione che il compito è fra i più richiesti in ambito universitario, ad esempio, in molte prove d’esame, nella stesura della tesi, di una relazione o di un saggio scientifico. Esso è anche fra i più impegnativi, poiché comporta l’attivazione simultanea di strategie esperte di comprensione dei testi e di produzione di un nuovo testo, tramite l’integrazione di concetti attinti dalle fonti in una nuova struttura di significato. L’aggravio cognitivo sotteso alla scrittura di sintesi è alla base di numerose difficoltà incontrate dagli studenti, la maggior parte dei quali tende a procedere secondo la strategia inesperta del “copia e cancella”, producendo sintesi carenti sotto il profilo concettuale. Lo studio mira inoltre a far emergere le principali carenze degli studenti in questo campo, al fine di implementare interventi tempestivi per il recupero.

2. Componenti della scrittura di testi Ogni scrittura, indipendentemente da lunghezza o funzione, è prodotto complesso di un repertorio articolato di abilità, la cui orchestrazione rappresenta uno dei principali elementi di complessità dello scrivere. Oltre ad aspetti prassico-motori richiesti dalla trascrizione, intervengono componenti di tipo linguistico (ortografia, sintassi …) e testuale (capacità espositive,coerenza, coesione…). Tali abilità si supportano a vicenda nel rendere uno scritto chiaro, informativo, appropriato. L’ortografia delle parole, le scelte lessicali, la costruzione sintattica delle frasi, lo sviluppo logico degli argomenti, una struttura testuale ben impostata… concorrono nell’insieme a generare l’unità di significato sottesa a un riassunto, una re-

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lazione, un saggio scientifico o la risposta a una domanda. Questi rappresentano gli usi quotidiani dello scrivere nella vita delle persone, le quali producono non parole o frasi isolate, ma unità complesse di significato, comunemente definite come testi. Dagli anni ottanta del secolo scorso, il testo è stato al centro dell’attenzione di due filoni di ricerca: la linguistica testuale e la psicolinguistica cognitiva. Dal punto di vista linguistico, il testo è guardato come unità sovraordinata all’unità grammaticale dell’enunciato. La sua definizione è questione aperta nella linguistica contemporanea: si va da un’accezione molto ampia, propria della semiotica, per la quale è testo ogni atto comunicativo con significato compiuto, ad altre più ristrette, specifiche dell’analisi letteraria, in cui gli aspetti distintivi della testualità sono individuati negli elementi di connessione tra le frasi che producono la “testura” e nelle caratteristiche dei diversi generi. Una definizione largamente condivisa è la seguente: il testo (dal latino textum: tessuto), è unità linguistica di significato che comunica un contenuto in modo unitario e completo, secondo le intenzioni dell’emittente e le necessità interpretative del ricevente (Sabatini, 2009; Lo Duca, 2004). A differenza dell’approccio tradizionale focalizzato su componenti strumentali dello scrivere, la linguistica testuale è impegnata a dar conto degli aspetti distintivi che qualificano un insieme di frasi come “testo” (Damiani, 2008; Serianni, 2009). Costrutti quali “complessità sintattica” e “densità lessicale”1, al centro della linguistica degli enunciati, non riescono a spiegare in modo soddisfacente fenomeni linguistici complessi, ricorrenti nel testo, come la pronominalizzazione o l’ordine delle parole. Fra gli indici di testualità, spicca il rilievo di coesione e coerenza (Beaugrande, Dressler, 1981). La coesione riguarda il testo come fatto linguistico e si riferisce ai nessi (ricorrenza lessicale, pronomi, ellissi, preposizioni, congiunzioni…) con cui le unità informative sono legate tra loro per costruire la configurazione del testo. I nessi coesivi funzionano come gli snodi logici del testo che filtrano in lingua le operazioni corrispondenti della mente (Halliday, Hasan, 1976; Pallotti, 2009). La coerenza riguarda i rapporti logici tra le parti del testo, resi espliciti tramite gli elementi coesivi. Un testo è coerente se alla struttura sintattica di superficie corrisponde continuità di significato. Quando questa emerge come tratto d’insieme dal raccordo logico di tutte le parti del testo, la coerenza è globale. Se la continuità si limita ai legami semantici di unità informative adiacenti la coerenza è locale (Van Dijk, 1985; Cisotto, 1995). Secondo studi condotti sul rapporto tra coesione, coerenza e qualità della scrittura, gli scrittori maturi tendono a costruire testi a coerenza globale, in cui le informazioni sono integrate in enunciati complessi. Gli scrittori immaturi producono invece enunciati semplici, di una sola informazione, collegati in forma associativa in sequenze frasali a collezione o elenco (McCutchen, Perfetti, 1982; D’Amico, Devescovi, Tonucci, 2002). Nel tentativo di spiegare la complessità del testo, la linguistica testuale trova consonanza negli studi della psicologia cognitiva, che analizza i processi di pensiero attivati durante la composizione di un testo scritto. Il modello classico di riferimento è quello di Hayes e Flower (1980)che prospetta lo scrivere come attività di problem-solving, in cui intervengono operazioni cognitive complesse: pianificazione strategica di alternative, definizione di obiettivi generali e specifici, organizzazione delle idee in una struttura generale, revisione in funzione

1 La complessità sintattica riguarda le scelte operate per la costruzione di frasi e le connessioni che rendono fluente o meno lo scritto (Northwest Regional Laboratori, 2004; Higgins, Miller, Wegmann, 2006). La densità lessicale è riferita alle proprietà delle parti del discorso e al loro ruolo nel determinare forma e significato della frase: la preferenza, ad esempio, per la ripresa di un referente testuale con una forma pronominale, anziché una forma lessicalmente piena o per la comunicazione di un evento con sintagma nominale anziché in forma verbale (Manzotti, Zampese, 2010).

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della coerenza globale. Quanto più intenso sarà lo sforzo di elaborazione concettuale del compito, tanto più il testo risulterà rispondente ai criteri di testualità.Viceversa, quanto più ridotta sarà l’implicazione cognitiva, tanto più chi scrive si limiterà a “dire pensieri”, collezionandoli in catene associative. Il testo risulterà debole in termini di coerenza e coesione (McNamara, Crossley, McCarthy, 2010).

3. Un testo particolare: la scrittura di sintesi da fonti multiple Il testo di sintesi è identificato come atto letterario che coinvolge lettura e scrittura sia nella fase di costruzione di significato da testi diversi, sia nella costruzione di significato per un nuovo testo (Nelson, 2001b). In entrambi i casi, la manipolazione di significati passa attraverso la capacità di governare l’attività di lettura in funzione della comprensione (Cisotto, Novello, 2010). Tuttavia, per comporre la sintesi, lo studente, oltre al ruolo di lettore, che egli assume nel momento in cui ricava ed elabora le informazioni dei testi, deve investirsi anche del ruolo complementare di scrittore, quando costruisce il significato del nuovo testo (Boscolo, 2004). La relazione tra lettura e scrittura è stata esplorata da due grandi filoni di studio, noti come “discourse synthesis” e “reading-to-write” (Spivey, 1997). Essi descrivono la scrittura di sintesi da testi-fonte come attività impegnativa, che implica l’interazione tra il farsi del testo, l’informazione ricavata dai materiali di partenza e le conoscenze pregresse dello scrittore (O’Hara et al., 2002). Lo sforzo cognitivo è assai più elevato di quello richiesto dalla sintesi da un’unica fonte (Wiley e Voss, 1999). Infatti, costruire una sintesi a partire da più testi implica la connessione dei nuclei concettuali secondo relazioni multiple, il monitoraggio della comprensione e la trasformazione di conoscenze in una nuova struttura di significato. In quest’ottica, il compito di sintesi va inteso come processo di appropriazione e trasformazione di saperi e testi di altri autori, secondo il punto di vista del lettore, che seleziona il materiale ritenuto rilevante e tralascia informazioni meno significative (Boscolo, 2004). Si viene a creare, così, un vero e proprio intertesto, definito dalla rete dei concetti principali appartenenti a ciascun testo di partenza.Tramite tale intertesto lo studente elabora un modello mentale nuovo sull’argomento presentato dai testi-fonte. La costruzione di buone sintesi scritte è però operazione difficile e, per realizzarla, scrittori poco abili e scrittori esperti adottano strategie differenti: i primi tendono a procedere in forma associativa (step by step), copiando fedelmente frasi dai testi-base e giustapponendole senza un qualche criterio guida. Essi non riescono a creare macroproposizioni in cui i dati informativi dei singoli testi sono integrati fra loro. Gli scrittori abili, invece, integrano le informazioni dei testi a livelli crescenti, applicando tre tipi di operazioni al materiale di partenza: selezione, organizzazione e connessione (Nelson, 2001a). Il processo selettivo interviene per mantenere solo i concetti rilevanti delle fonti. Essi entreranno a far parte della rappresentazione semantica dell’argomento, che è più povera di dettagli rispetto ai testi di partenza, ma più ricca delle relazioni nuove create dal lettore durante il processo di comprensione. Sul processo di selezione influiscono l’età del lettore, la conoscenza pregressa dell’argomento e il suo grado di comprensione (Wiley,Voss, 1999; O’Hara et al., 2002). Il materiale selezionato viene poi organizzato in una nuova struttura testuale retta da relazioni logiche. La natura di tali relazioni differisce da un lettore all’altro, poiché dipendente dai criteri assunti nel valutare l’importanza delle informazioni dei testi: di tipo testuale, intertestuale, retorico o personale (Mateos, Solè, 2009). Il terzo processo di trasformazione è la connessione più o meno scorrevole e fluida delle informazioni. L’operazione è assai impegnativa, poiché le informazioni linguistiche non bastano per costruire una buona sintesi: esse interagiscono con il modello

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di situazione (Kintsch, van Dijk,1978; van Dijk, Kintsch,1983), ossia con le conoscenze -sul mondo, sui testi e la lingua- che concorrono a colmare i vuoti semantici del testo. L’attivazione di un modello situazionale appropriato consente di trasformare una lista di proposizioni in un insieme di significati organici, rendendo esplicite le relazioni sottese con legami di significato che assicurano coerenza e fluidità espositiva. L’attività implica la capacità di smontare e rimontare testi, di riorganizzarli in strutture diverse, discriminando l’essenziale e i dettagli (Novello, Cisotto, Del Longo, 2011). In breve, dopo che si è costruito una sorta di testo interiore (Boscolo, 2004), il lettore veste i panni dello scrittore e tenta di integrare i concetti più importanti: riorganizza il contenuto, seleziona ciò che ritiene rilevante e segnala le connessioni fra le idee compatibilmente con l’obiettivo per il quale scrive e tenendo presente l’ipotetico lettore. Il processo è di tipo generativo, nel senso che, uno scrittore esperto si impegna a creare vari tipi di collegamento fra concetti apparentemente scollegati dei testi-base (Nelson, 2001b), attivando numerosi processi cognitivi e linguistici.

4. La valutazione di sintesi scritte La scrittura da fonti è dunque attività impegnativa, in cui intervengono abilità elevate sia di lettura che di scrittura e operazioni di trasformazione della conoscenza. Inquadrato in una prospettiva ampia, il processo può prefigurare una fra le competenze richieste per la partecipazione alla società della conoscenza (Linn,1999, Luke, Freebody, Lau, Gopinathan,2005; Gamire, Pearson, 2006). Per costruire la sintesi lo studente deve fare uso versatile dei saperi, attivando capacità di pianificazione, negoziazione e problem-solving,. In tal senso, la sintesi può divenire un ponte tra ciò che si forma in età di scolarizzazione e ciò che esige il mondo del lavoro (Tynjälä, 2001). Ma quando una sintesi è ben fatta? Per rispondere alla domanda è necessario assumere un punto di vista duplice: va considerata, da un lato, la qualità concettuale della sintesi in sé, in quanto risultato del processo di comprensione; dall’altro, è necessario esaminare la qualità dell’esposizione scritta. A tal proposito, nota Colombo (2002), nel valutare la sintesi, non è facile separare quanto è dovuto alla comprensione da ciò che va ricondotto alla rielaborazione concettuale intervenuta in sede di composizione. In una ricerca recente, Boscolo, Quarisa e Arfè (2007), per valutare le sintesi scritte di studenti universitari, hanno messo a punto degli indici di comprensione e di produzione. Essi sono riferiti a tre dimensioni: la prima è l’informatività, ossia il grado con cui la sintesi riprende le informazioni presenti nelle fonti. Nella ricerca citata, fonti diverse presentavano uno stesso argomento -La motivazioneda tre angolazioni. Alcuni concetti erano comuni ai tre testi, altri erano a diverso grado di importanza in ogni testo, altri ancora erano dettagli. Per comporre la sintesi, lo studente doveva fare un’operazione ‘setaccio’, trattenendo concetti rilevanti e trasversali alle fonti. La seconda dimensione riguarda l’integrazione intertestuale, che si esprime nel grado con cui il lettore collega le informazioni selezionate in una rappresentazione mentale coerente,composta di una rete di proposizioni interrelate(Kintsch, van Dijk,1978; Kintsch,1998). La terza dimensione concerne l’organizzazione testuale e la coesione. Una sintesi, oltre a essere informativa e integrata, deve essere anche ben scritta. Per creare un testo coeso e con struttura testuale chiara, segnalata da espedienti retorici e tipografici (Meyer,1977), le informazioni vanno raggruppate in paragrafi riferiti ai nuclei concettuali dell’argomento e ogni frase va connessa alla successiva. La sintesi scritta va analizzata anche per la qualità linguistica con cui è esposta. In merito,

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si rende opportuno un rapido richiamo a procedure di valutazione dei testi scritti (si veda, sull’argomento, Lucisano, 2010). Il processo è di rilevante complessità e la ricerca sul tema non è concorde. Alcuni studi sostengono la bontà di un approccio olistico, basato su procedure top-down (dal tutto alle parti), altri privilegiano un modello analitico, in cui si adotta una procedura bottom-up. La scelta dell’una o dell’altra modalità condiziona la scelta della scala di valutazione. Le scale di valutazione più note sono quella globale e quella analitica (Knoch, 2011). Nel primo caso, si esamina la scrittura come un prodotto che è più della somma delle parti: i diversi aspetti del testo (lessico, sintassi…) sono considerati come elementi che agiscono insieme per offrire al lettore un’impressione generale di qualità del testo (Elliot, Plata, Zelhart, 1990). La scala olistica dà luogo a un giudizio qualitativo, a cui si può pervenire tramite l’analisi delle caratteristiche del testo descritte in termini di singoli indicatori. A ognuno di questi è attribuito un punteggio che esprime un certo livello di prestazione. Alla fine del processo valutativo, però, si sceglie sempre un punteggio che riflette la qualità complessiva dell’elaborato (Hamp-Lyons, 1991; Barkaoui, 2007). La forza del punteggio olistico sta nella sua praticità (impiego veloce), una variabile di indiscusso valore negli studi su larga scala. Inoltre, se si raggiunge una profonda conoscenza del costrutto da valutare, l’approccio olistico presenta alta validità e affidabilità (Perkins, 1983; Barkaoui,2007). Alcune ricerche empiriche sollevano però dei dubbi in merito. Assumendo una scala olistica basata su una rubrica di indicatori, si può supporre che i valutatori adottino sempre gli stessi criteri nell’analisi dei testi e nel formulare il giudizio. È probabile perciò che essi manifestino un accordo temporaneo sul modo con cui interpretare voci e livelli della rubrica, ma è difficile trovare l’accordo completo sui punteggi da attribuire agli indicatori (inter-rater scoring). Anche la rivalutazione dello stesso testo in tempi successivi da parte del medesimo valutatore dà luogo a punteggi diversi: intra-rater scoring (Charney, 1984; Lumley, McNaamara,1995). Altra critica mossa al metodo olistico riguarda il fatto che, pur se il valutatore segue con scrupolo la rubrica valutativa, le limitazioni dello strumento lo porteranno ad assegnare un punteggio finale che dipende molto da un numero ridotto di caratteristiche del testo (Stewart, Grobe, 1979; Engber, 1995; Sakyi, 2001). L’approccio analitico si basa sull’assunto che la conoscenza delle parti può contribuire alla comprensione del tutto. Il punto di forza risiede nel fatto che l’analisi di singoli indicatori permette di misurare con precisione ciò che si intende rilevare, fornendo informazioni dettagliate sulla prestazione dello studente nelle componenti della scrittura (Weigle, 2002). Al valutatore è richiesto di contare e registrare i casi in cui si manifestano le variabili del testo (Cooper, 1977; White, 1985). In questa direzione, alcuni studiosi sono riusciti a elaborare rubriche di valutazione con cui valutare le prestazioni di scrittura. Ne è un esempio il ‘6+1 Trait® Writing Model of Instruction & Asses-sment’ del Northwest Regional Education (1999), il cui scopo è di migliorare le pratiche valutative dei testi scritti mediante il ricorso a indicatori comuni. Si sono individuate sei misure: idee, loro organizzazione, scelta delle parole, espressioni personali, fluidità dei contenuti, convenzioni linguistiche, e, per ciascuna, si sono definiti standard di prestazione. I sostenitori del metodo analitico rivendicano la maggiore affidabilità e obiettività della valutazione, poiché le operazioni di registrazione della risposta, condivisione dei criteri di analisi, lettura dei risultati e di accordo fra valutatori risultano semplificate rispetto al metodo globale (Hamp-Lyons, 1991; White, 1985). L’applicazione del metodo non è però così semplice. Innanzitutto, la valutazione analitica è meno pratica rispetto alla scala olistica, poiché richiede più tempo per applicare a ogni scritto i criteri stabiliti (East, 2009). Secondariamente, come è emerso anche nel progetto del Northwest Regional Education, è ricorrente la difficoltà a definire gli elementi costitutivi di una buona scrittura, ad articolare standard precisi e a rintracciarli nel testo. Chi valuta, a volte, tende a trascurare i criteri stabiliti e ricorre ad altri soggettivi, definendo quale sia

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buona o cattiva scrittura a prescindere dall’accordo fra esperti. Infine, molte rubriche basate sul metodo analitico considerano in primis abilità strumentali di scrittura, poiché facilmente rilevabili dal testo di superficie. Meno analizzate risultano invece abilità di ordine superiore, riferite alla costruzione del testo: lo sviluppo delle idee, la loro organizzazione, la struttura testuale, il grado di coerenza e di scorrevolezza. In ultima analisi, la diversità di posizioni e accenti attesta delicatezza e complessità del valutare le competenze di scrittura, materia critica e aperta dal punto di vista scientifico. Nella presente ricerca si è optato per la scala solistica, preferita a quella analitica, confortati anche dallo studio di Boscolo, Arfè e Quarisa (2007), da cui sono stati tratti gli indici per la valutazione delle sintesi. Come si è visto, questo tipo di scrittura richiede la gestione simultanea di numerosi aspetti, riconducibili al processo di comprensione e a quello compositivo. La valutazione separata delle operazioni dell’uno e dell’altro avrebbe potuto comportare l’impoverimento del giudizio: sotto tale profilo, la scala olistica è stata ritenuta allora più autentica e rispondente a un processo più naturale (White, 1985).

5. La ricerca: strumenti, soggetti e metodo Lo strumento messo a punto per rilevare le competenze di scrittura delle matricole di Formazione Primaria era composto di otto sezioni: tre rivolte a indici linguistici – ortografia, morfologia, lessico – e cinque a indici di testualità – coesione, coerenza, comprensione, punteggiatura, produzione di sintesi scritte. La formulazione definitiva dello strumento è il risultato di più revisioni, effettuate dopo aver somministrato le prove a due gruppi pilota. Sono state coinvolti nella ricerca 150 studenti del I anno di Scienze della Formazione Primaria di Padova e Portogruaro nel febbraio 2010. La maggior parte era di età tra 19 e 23 anni, di sesso femminile, di cittadinanza italiana e non aveva maturato esperienza come insegnante. La carriera scolastica di provenienza era varia: licei (classici, scientifici, psico-pedagogici), istituti tecnici e professionali e lauree già conseguite, molte in Scienze dell’Educazione. La somministrazione delle prove è avvenuta alla presenza dello sperimentatore, il quale, dopo aver illustrato il compito, ha consegnato a ogni studente il fascicolo delle prove. Per evitare episodi di copiatura, in ogni fascicolo le prove seguivano un ordine diverso. Il tempo concesso è stato di due ore, una delle quali riservata al compito di sintesi, focus specifico del presente studio. Di seguito, se ne illustreranno condizioni di svolgimento e risultati. Per lo svolgimento della prova, sono stati consegnati agli studenti tre testi-fonte, tratti da manuali universitari, che illustravano il tema della motivazione da tre prospettive: della psicologia generale, della psicologia dell’apprendimento e neurobiologica. Si è richiesto di scrivere una sintesi in forma di testo informativo di massimo 150 parole, utilizzando i concetti delle tre fonti e integrandoli tra loro. I testi-fonte, identificati per comodità con A, B, C, erano stati adattati rispetto a tre variabili: • la lunghezza: ogni testo era composto in media di 285 parole e 11 Unità T. L’UT è unità di misura molto adottata nell’analisi dei testi scritti e corrisponde a una proposizione principale presente nello scritto e alle subordinate ad essa collegate (Hunt, 1983). L’insieme dei tre testi comprendeva 32 UT; • la dimensione concettuale: si è fatto in modo che in ogni testo vi fossero alcuni concetti fondamentali (2 nel testo A e C, 3 nel testo B). Fra i concetti fondamentali, 2 erano trasversali ai tre testi; • il lessico: parole a elevato grado di specificità sono state sostituite da altre più comprensibili, essendo gli studenti non ancora addentro al tema della motivazione.

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Le caratteristiche dei testi erano, in breve, le seguenti: • testo A: 280 parole, 11 UT, 2 concetti fondamentali. Presentava il tema della motivazione in ottica neurobiologica; • testo B: 290 parole, 11 UT, 3 concetti fondamentali. Illustrava l’argomento nella prospettiva della psicologia generale; • testo C: 284 parole, 10 UT, 2 concetti fondamentali. Affrontava il tema dal punto di vista della psicologia dell’apprendimento. Le sintesi sono state analizzate secondo gli indici di comprensione e produzione indicati dalla ricerca di Boscolo, Quarisa e Arfè (2007). L’affidabilità degli indici, calcolata per le due misure – comprensione e produzione –, è .821 (Alfa di Cronbach). Gli indici di comprensione comprendono: a) il numero di unità di informazione presenti nella risorsa originale (i testi-fonte) e mutuate nella sintesi. Si è attribuito 1 punto ad ogni unità di informazione correttamente riportata; b) l’informatività: si riferisce alla rete di idee principali che rendono chiaro il significato globale dei testi. Si è dato 1 punto per ogni idea principale ricavata dai testi e inclusa nella sintesi; c) l’integrazione: consiste nel grado con cui un lettore connette concettualmente due o più unità informative tratte da fonti differenti. Si sono considerati due tipi di integrazione: quella costruita con nessi retorici (Meyer, Rice, 1984) e la costruzione di una nuova macroproposizione, che combina più unità informative dei testi fonte (Kintsch, van Dijk, 1978). Per ogni unità informativa di una fonte connessa in modo coerente a un’unità informativa di un’altra fonte si è proceduto attribuendo il punteggio come segue: 1 punto per unità informative connesse per giustapposizione, applicando la sola cancellazione, 2 punti, per unità informative connesse in piccoli nuclei informativi secondo la strategia di costruzione locale, 3 punti, quando la connessione tra unità informative rispondeva a una strategia di costruzione globale, 4 punti, quando le unità informative erano integrate in una vera e propria macroproposizione che fungeva da struttura sovraordinata. Per la produzione, gli indici assunti sono stati due, riferiti entrambi all’organizzazione testuale: a) la coesione: riguarda la scorrevolezza del contenuto del testo. Per valutarla si è considerata la proporzione di nessi semantici corretti tra le frasi e il numero di frasi nel testo (Scinto, 1984). Il punteggio massimo raggiungibile è 1, in quanto, se la sintesi è composta, ad esempio, da 7 frasi e tutti i nessi tra una frase e l’altra sono corretti, si avrà 7/7 = 1; b) la struttura del testo: per la sua valutazione sono state quattro misure, a ciascuna delle quali è stato attribuito 1 punto (il punteggio oscilla quindi da 0 a 4): • top-level structure: è riferita alla gerarchica delle informazioni in base a relazioni di importanza e reciprocità (Meyer, Rice, 1984); • paragrafazione: l’organizzazione del testo in paragrafi o unità tematiche; • topic sentence: presenza o meno di un’asserzione generale in apertura di paragrafo con funzione di presentazione dei contenuti della sintesi; • conclusione: la presenza di un’affermazione finale di riepilogo o di un’asserzione che esprime il punto di vista dello scrittore. Obiettivo prioritario della ricerca era quello di mettere a fuoco le strategie di elaborazione concettuale adottate dagli studenti nella costruzione di sintesi scritte da fonti multiple. Come anticipato, il compito assume un rilievo del tutto particolare, dal momento che, in ambito universitario, sono frequenti le richieste di scrittura che implicano la capacità di condensare informazioni e concetti tratti da fonti diverse in uno scritto unitario e coerente. La complessità dei processi implicati in tale operazione e la loro gestione simultanea inducono a ipotizzare

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l’emergere di difficoltà consistenti più nelle misure testuali che in quelle linguistiche. Sotto questo profilo, si prevede, in particolare, che le principali carenze degli studenti riguardino la selezione dei concetti rilevanti e l’integrazione di quelli trasversali alle fonti. Nelle sintesi prodotte tenderanno a prevalere forme di coerenza locale, con meccanismi coesivi di tipo associativo e disposizione dei concetti a elenco. Esse risulteranno perciò poco informative, a basso livello di integrazione e organizzazione. Inoltre, poiché la sintesi implica strategie di manipolazione dei testi per la composizione di un nuovo testo, è attesa una relazione tra indici di comprensione e di produzione. Nello specifico, si prevede che il grado di organizzazione della sintesi si leghi in modo significativo a operazioni di selezione dei concetti dalle fonti e di costruzione di una rete semantica integrata sull’argomento.

6. Analisi dei dati I dati sono stati sistematizzati in matrice. La procedura seguita per l’attribuzione del punteggio alle prove è stata quella di codificare le prestazioni con 1 per risposta corretta e 0 per risposta errata. La ragione di tale procedura riguarda l’affidabilità generale, che aumenta se si riconducono le prove a un’unica scala dicotomica. È stato possibile rilevare, così, la percentuale di correttezza di ogni prova e gli errori più frequenti. L’attendibilità della rilevazione è stata misurata anche controllando il grado di accordo tra giudici indipendenti attraverso il calcolo dei coefficienti degli indici di accordo ([n. accordi/n.accordi +n. disaccordi] x 100). Si è riscontrato un accordo pari a 82%. Si è controllata la validità sugli indicatori utilizzati per misurare uno stesso costrutto e riportando i risultati alle teorie di riferimento. Sui dati sono state effettuate l’analisi descrittiva, l’analisi delle correlazioni e l’analisi della varianza. Come mostrano i grafici dell’analisi descrittiva (fig. 1), le misure linguistiche registrano, in media, valori più alti rispetto a quelle testuali. Le percentuali più alte riguardano le voci: punteggiatura e ortografia (82%). Intorno al 70% si collocano lessico, morfologia e coesione. La comprensione è bassa (35%) e ancor di più la coerenza (23%). La sintesi registra percentuali di correttezza del 58% negli indici di comprensione e del 48% in quelli di produzione. I dati disaggregati, mostrano che, nell’ortografia, la voce più debole riguarda apostrofi e accenti (fig. 2) e, nella morfologia, l’uso di ausiliari (fig. 3). Nella comprensione, spicca la difficoltà a individuare l’argomento centrale (23%) (fig. 4) e, nella coerenza, la criticità sta nel riordino di una sequenza di frasi in modo logico (fig. 7).

Fig. 1: Percentuali di correttezza per tipo di prova

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Fig. 2: % correttezza per compiti di ortografia

Fig. 3: % correttezza per compiti di morfologia

Fig 4: % correttezza per compiti di comprensione

Fig 5: % correttezza per compiti di coerenza

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Entrando nel merito degli esiti rilevati nelle sintesi scritte, si è proceduto in primo luogo alla classificazione delle difficoltà riscontrate. Il passaggio prevede l’analisi qualitativa ed è interessante per i collegamenti con l’analisi descrittiva. 15% degli studenti non ha rispettato il vincolo delle 150 parole e il 16% è caduto in errori di tipo linguistico. Il 24% non ha individuato i concetti principali o li ha relegati in posizione marginale e il 5% delle sintesi presenta incoerenze. Il 20% procede per giustapposizione, associando una frase all’altra, senza un criterio guida e il 19% riporta dettagli irrilevanti. Infine,l’organizzazione delle sintesi è tipo sequenziale. Per rilevare le misure di tendenza centrale, si sono sottoposti i dati ad analisi descrittiva (fig. 6). Dal punto di vista degli indici assunti, le sintesi sono risultate moderatamente informative (M = 3.61), scarsamente integrate (M=1.47) e poco organizzate (M = 1.30). Anche la media della coesione registra valori bassi (M = 0,3). I dati sono stati sottoposti quindi all’analisi delle correlazioni (Pearsons’ correlation). Presentano tutte un livello di significatività pari a 0,01. Gli indici più alti si registrano tra i fattori “unità di informazione” e ‘coesione’ (.746); valori intermedi sono emersi tra ‘informatività’ e ‘coesione’ (.478) e tra ‘informatività’ e ‘unità di informazione’(.456). Valori più bassi riguardano le relazioni tra il fattore ‘integrazione’ e i fattori ‘informatività’, ‘organizzazione’ e ‘coesione’. La relazione tra unità di informazione e coesione, interpretata alla luce dell’analisi descrittiva non può essere letta come indice di buona sintesi. Infatti, il valore molto basso della coesione sta a indicare che, nella costruzione del nuovo testo, le unità informative sono state semplicemente giustapposte e legate tramite la forma coesiva più semplice: la ripresa del nome con funzione di soggetto logico delle singole unità informative, oppure l’uso di nessi coesivi di tipo coordinativo (‘e’, ‘poi’). La lettura trova conferma nelle altre due relazioni: tra ‘unità di informazione’ e’informatività’ e tra ‘coesione’ ‘informatività’. Esprimono entrambe un orientamento compatto, coerente con la precedente relazione: da un lato, si desume che l’alto valore registrato dalle unità informative attinte dai testi-fonte non è garanzia di sintesi efficace, in quanto l’indice basso dell’informatività fa intuire che le unità informative sono riferite a dettagli, più che a concetti centrali e trasversali alle tre fonti. Dall’altro, proprio la mancanza dei concetti principali impedisce di costruire delle sintesi a forte organizzazione interna e struttura concettuale integrata. Si spiega così anche il valore basso della coesione, dove i legami scandiscono una sequenza di enunciati a elenco, oppure la costruzione locale di piccoli nuclei informativi. Scarseggiano, invece, nessi coesivi complessi, funzionali alla costruzione globale e/o di macroproposizioni con il ruolo di strutture sovraordinate di significato. In altre parole, i nessi coesivi hanno funzione associativa più che integrativa e il loro apporto all’organizzazione della sintesi e alla sua struttura concettuale è dunque modesto.

Fig. 6: Sintesi da fonti: medie per indici di comprensione e produzione

Si è applicata infine l’analisi multivariata (Manova) per esplorare l’impatto di età e titolo di studio sulle sintesi scritte. I partecipanti sono stati divisi in cinque fasce d’età (19-22 a.;

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23-26 a.; 27-30 a.; 31-34 a.; 35-38 a.) e tre gruppi per il titolo di studio (liceo, diploma di scuola professionale, laurea precedente). Si è rilevato un valore statisticamente significativo dell’impatto di età e titolo di studio sulle misure delle sintesi scritte: F (20.520) = 1,660, p <.05, p = 0,061. In particolare, è stato trovato un effetto principale per titolo di studio, età e integrazione: F (4131) = 2,983, p <.05, p = 0,104). I punteggi medi di ‘unità di informazione’, ‘informatività’ e ‘coesione’ aumentano solo per gli studenti con un diploma di “liceo” e di età compresa tra i 31 ei 34 anni. Invece, i punteggi medi dei partecipanti con diploma di scuola professionale o laurea precedente diminuiscono con l’età in tutti e tre gli indici: ‘unità di informazione’, ‘informatività’ e ‘coesione’. Il grafico con i punteggi medi per il fattore ‘integrazione’ (fig. 7) mostra gli effetti del titolo di studio per le fasce d’età nella scrittura di sintesi. Gli effetti più forti si registrano negli studenti di liceo dell’ultima fascia d’età e nei giovani studenti con un diploma di scuola professionale. Per il fattore ‘organizzazione’ (fig. 8), si osserva, anche in tal caso, un valore crescente per gli studenti con titolo liceale e un lieve incremento per i già laureati. La media si abbassa per gli studenti con diploma professionale.

Fig. 7: Diagramma sulle strategie di integrazione

Fig. 8: Diagramma sulle strategie di organizzazione

7. Discussione Le tendenze generali che si possono evincere dai dati forniscono ampie conferme alle ipotesi. In primo luogo, le misure testuali (coerenza, coesione, comprensione) risultano compromesse più di quelle linguistiche. La ragione è comprensibile. Mentre la conoscenza di regole consente l’applicazione tecnica di queste ultime, non così per le componenti testuali (Bonomi, Stefinlongo, 2002), che comportano l’impegno attivo del pensiero nella ricerca di forme linguistiche esplicative dei significati intesi. La problematica,come si è visto, si palesa soprattutto nella prova di sintesi. Nel costruire sintesi scritte con informazioni attinte da più fonti, le difficoltà degli studenti investono le operazioni più complesse, sia del comprendere che del produrre. In merito al primo, il valore basso registrato dall’integrazione dei concetti, seguito da quello dell’informatività della sintesi lascia supporre che la maggior parte degli studenti abbia adottato la strategia elementare di “estrazione” delle informazioni dai testi, tipica dei lettori inesperti: la cancellazione (Kintsch, van Dijk, 1978), combinata al ‘copia e incolla’ (Brown, 1987). Fare sintesi concettuale di più testi non è operazione di sola estrazione di dati informativi da giustapporre in sequenza, ma ne richiede anche la manipolazione al fine di costruire un nuovo testo dal significato generale, in cui le informazioni, oltre a essere mantenute o escluse, sono

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anche sussunte. Quanto più queste sono elaborate, tanto maggiori saranno le relazioni stabilite, e tanto più articolata l’organizzazione del contenuto (Nelson, 2001). Se si incrocia il basso valore dell’integrazione con il dato relativo alla mancanza dei concetti principali, si può meglio comprendere la scarsa informatività delle sintesi. La lettura combinata dei due esiti sta a indicare che i concetti riportati, oltre a essere elencati, sono anche poco rilevanti. Ciò significa che, durante la lettura delle fonti, gli studenti non hanno assunto quale idea guida la coerenza globale. Solo tale criterio avrebbe consentito di trattenere le informazioni selezionate dai testi in una rete di senso e di servirsene poi in fase di scrittura. Per quanto riguarda la produzione scritta, spicca il valore basso di entrambi gli indici: coesione e struttura. I nessi utilizzati dagli studenti sono di tipo locale, nel senso che servono a tenere uniti segmenti di informazione, anziché proposizioni. La procedura seguita è la trasposizione diretta di informazioni dai testi letti alla sintesi in fase di composizione. Nel processo così semplificato non c’è spazio per l’elaborazione profonda dei dati e la valutazione di aspetti strategici, ad esempio, le aspettative del lettore o gli obiettivi della sintesi. Questa si sviluppa con il tipico andamento lineare, a zig-zag (McCutchen, 1986), dove brevi nuclei informativi si richiamano tra loro solo per il fatto di riferirsi a uno stesso argomento. Si comprende allora il motivo per il quale risulti debole anche il valore medio della struttura, indice privilegiato della coerenza globale, dal quale inferire il grado di comprensione delle fonti. Se costruita da lettori/scrittori maturi, la sintesi è introdotta da una frase di presentazione generale dell’argomento (topic sentence), presenta uno sviluppo gerarchico dei concetti che ne riflette il grado di importanza (top-level structure), si articola in unità tematiche di spiegazione dei concetti (paragrafazione) e termina con un’asserzione di riepilogo (conclusione). La prima e l’ultima categoria sono meccanismi metaespositivi (Meyer, 1977) utilizzati da scrittori abili, che padroneggiano gli aspetti strategici dello scrivere. La funzione di tali congegni non è di semplice corredo retorico ai contenuti, ma di chiarificazione del loro diverso rilievo sul piano della struttura concettuale. Ciò vale in particolare nel compito di sintesi da più fonti, dove introduzione e conclusione contribuiscono a fornire un inquadramento generale dell’argomento. Nella maggior parte delle sintesi non c’è traccia di congegni metaespositivi. L’aspetto più insidioso è rappresentato però dalla debolezza anche di altre categorie tipicamente attese in una prosa espositiva: gerarchia delle informazioni e organizzazione in paragrafi o unità tematiche. In breve, le sintesi degli studenti riproducono una rappresentazione incompleta e frammentata del significato complessivo delle fonti. La bassa qualità sembra riflettere la mancanza di strategie di comprensione utili alla costruzione di una rete semantica integrata sull’argomento (Dornisch e al., 2009), ma anche di conoscenza specifica su come si gestiscono compiti di lettura in funzione della scrittura (Wiley, Voss, 1999).Tale interpretazione è rafforzata dall’analisi delle correlazioni. In linea con le ipotesi, sono emerse relazioni significative per i fattori “coesione” e “integrazione”. Correlano entrambi con tutte le altre misure: l’integrazione con informatività, organizzazione e coesione; la coesione con unità di informazione, integrazione e informatività. L’integrazione è la misura più indicativa della comprensione: è, di fatto, il processo con cui chi legge costruisce la rete semantica che tiene insieme in modo coerente i dati informativi. Nel compito di sintesi, è inevitabile che tale fattore intersechi il processo di scrittura, l’organizzazione in primo luogo, ma anche i nessi coesivi che sanciscono i rapporti – di analogia, confronto, causa-effetto... – tra i concetti delle fonti. La relazione tra indici di comprensione e di produzione non può essere letta a favore degli studenti, dal momento che, nell’analisi descrittiva, integrazione, coesione e struttura registrano medie basse. Gli studenti tendono a semplificare il compito, ripetendo il contenuto del materiale di partenza (Campell et al., 1998; Froese et al., 1998), oppure mettendo in evidenza un testo particolare in ogni paragrafo e riportando, di ogni fonte, ciò che gli autori

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hanno presentato (Granello, 2001). Alcuni studenti applicano strategie inappropriate, elaborando la sintesi con riferimento a un’unica fonte. Inoltre, anche nelle produzioni migliori, i connettivi utilizzati sono di carattere associativo. Analizzando le sintesi prodotte, è insorto un dubbio relativo alla consegna del compito: ci si è chiesti se le strategie di costruzione della sintesi avrebbero potuto essere migliori se le istruzioni fossero state meglio precisate. Chiedere di scrivere un testo informativo, può indurre a collezionare le idee frequenti e più importanti dei testi-fonte. Diversamente, la richiesta di produrre una sintesi in forma di testo comparativo, avrebbe incentivato, forse, la ricerca di similitudini o contrasti tra i concetti delle fonti (Mateos e Solè, 2009).Va sottolineato in merito che i modi con cui gli studenti leggono e scrivono testi risentono anche del significato attribuito a tali pratiche all’università, dove si legge e si scrive soprattutto per acquisire conoscenze in settori conoscitivi distinti (Lea, Street, 1998). Non si può escludere quindi che gli studenti incontrino difficoltà ad integrare concetti di fonti diverse, in base alla credenza, ingenua, ma radicata, che si studia da singoli testi e che le conoscenze apprese in ambiti diversi sono oggetto specifico di valutazione da parte del docente. Un terzo aspetto, inatteso, è emerso dalla Manova tra età, titolo di studio e misure della sintesi. Il dato è degno di interesse e riguarda la relazione tra titolo di studio e strategie di integrazione e di organizzazione delle informazioni. Il titolo di studio che sembra fare la differenza è la maturità liceale: gli studenti che ne sono in possesso risultano favoriti nel tempo sia nelle capacità di lettura in funzione dell’apprendimento, sia nella capacità di produrre sintesi ben organizzate. Una possibile spiegazione del risultato si può individuare nella maggiore attenzione dedicata alle scritture per lo studio nei licei: riassumere, parafrasare, prendere appunti. Di contro, sorprende il dato relativo agli studenti oltre l’età media in possesso di laurea precedente. Essi registrano un trend simile a quello di studenti con titolo professionale: peggiorano entrambi, progressivamente, sia in lettura che in scrittura. L’esito, mentre conferma la differente preparazione tra scuole superiori già evidenziata in altre ricerche (Boscolo e al., 2007), induce a interrogarsi sul motivo per il quale studenti già laureati non conseguano buoni risultati in un compito che implica capacità di lettura e di scrittura. Una chiave interpretativa può essere trovata nella stessa introduzione di questo contributo. Ad eccezione dei pochi corsi di laurea il cui piano di studi prevede insegnamenti dedicati ad abilità di lavoro sui testi, la maggior parte dei contesti accademici concepisce lettura e scrittura alla stregua di strumenti con cui “estrarre” informazioni dai testi e “raccontare” poi ciò che si è studiato. Poco praticata è invece la funzione elaborativa di lettura e scrittura, con cui lo studente può imparare a pensare meglio sugli argomenti di studio, sviluppando una modalità matura e complessa di apprendimento.

8. Conclusioni Gli autori del presente contributo avrebbero accolto di buon grado esiti contrastanti con le ipotesi iniziali. Lo studio fornisce, invece, una conferma dello stato di debolezza delle capacità di lettura e scrittura degli studenti universitari. L’indagine è limitata a un campione modesto del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria: questo ne è il limite, senza dubbio. Tuttavia, la tendenza emersa è piuttosto chiara e non lascia spazio a interpretazioni di segno molto diverso: i giovani che si accingono a diventare insegnanti tendono a fare un uso replicativo delle conoscenze, estraendole dai testi e riportandole nelle sintesi a elenco, con la tipica modalità del knowledge-telling (Bereiter, Scardamalia, 1987). L’intervento di un processo riflessivo con cui elaborare il testo in funzione della scrittura di sintesi rimane così solo un auspicio.

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Alla scuola superiore, gli studenti imparano che una buona scrittura richiede l’elaborazione di concetti e l’espressione del proprio punto di vista in forma corretta. Sebbene non insegnato in modo esplicito, anche l’Università richiama l’abilità di esprimere idee e conoscenze tramite testi integrati e ben organizzati,nei quali lo scrittore è invitato a dimostrare la validità di una posizione teoretica o la rilevanza di risultati empirici. L’apprezzamento per lo stile elaborativo di lavoro sui testi scaturisce dall’obiettivo più ambito di un curricolo universitario: formare negli studenti processi di pensiero complessi, che li mettano in grado di affrontare con la giusta maturità i contesti sociali e lavorativi. In quest’ottica, l’arricchimento del repertorio di saperi è concepito in vista dell’imparare a leggere le situazioni in profondità, ponendosi delle domande, ipotizzando soluzioni, applicando il pensiero critico. Per il corso di laurea di Formazione Primaria, si auspica inoltre che un apprendimento per elaborazione profonda possa tradursi nel tempo in uno stile riflessivo di insegnamento. Le lacune degli studenti spesso lamentate dai docenti si prestano allora a un’altra interpretazione. Gli errori di tipo linguistico sono solo la punta dell’iceberg di difficoltà più consistenti di lavoro sui testi. Esse emergono con singolare evidenza proprio nella sintesi che, in quanto compito “ibrido”, richiede l’uso integrato di capacità di lettura e di scrittura. Essa è prevista da molte attività in ambito universitario: la stesura della tesi ne è un esempio, ma lo sono anche compiti come le relazioni di tirocinio o la formulazione di risposte a domande poste in sede d’esame. Considerati i significativi risvolti sulla carriera accademica degli studenti, è forse opportuno che l’Università inizi ad affrontare il problema delle abilità di scrittura nell’ottica della formazione, andando oltre la denuncia e il rammarico per esiti poco soddisfacenti. Inoltre, per quanto riguarda i corsi di laurea destinati alla formazione dei futuri insegnanti vi è un motivo in più: l’insegnamento delle abilità di scrittura a giovani allievi. In tale direzione, uno sviluppo della presente indagine, previsto fin dal suo avvio, è la messa a punto di un modello di laboratorio per le abilità di scrittura. (Piemontese, 2002). Oltre a porre tempestivo rimedio a lacune ricorrenti sul piano strumentale, esso dovrà perseguire anche l’obiettivo di introdurre gli studenti ad atteggiamenti e strategie con cui gestire compiti autentici di scrittura richiesti in ambito universitario.

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Ricerche Le prove d’ingresso all’università The university admission tests

PIETRO DI IORIO – ACHILLE M. NOTTI – ROSANNA TAMMARO Iscriversi all’università è un passaggio molto delicato che dovrebbe richiedere un’accurata e seria riflessione sulle potenzialità e attitudini, la valutazione del profitto scolastico passato e una profonda interrogazione circa la professione che si intende svolgere. L’aumento del numero di immatricolazioni negli anni ha inoltre sottolineato, sempre di più, il problema degli abbandoni e la forte discrepanza fra numero di iscritti e numero di studenti laureati nei tempi previsti. Dagli anni ’90, pertanto, le università hanno scelto di utilizzare prove di selezione come strumento di orientamento, di programmazione delle iscrizioni, di controllo del rischio di dispersione e di prevenzione dell’eccessiva durata degli studi universitari. Nel presente articolo vengono illustrati ed analizzati i risultati emersi da una ricerca riguardante l'analisi delle prove di selezione al corso di laurea in Scienze della Formazione primaria dell'Università degli studi di Salerno, relative agli ultimi cinque anni, e il confronto fra esiti delle prove, titoli di studio pregresso e carriere degli studenti.

Going to university is a very delicate step that would require careful and serious reflection on the potential and skills, evaluation of past academic achievement and a deep question about the profession you have in mind. The increase in the number of registrations over the years has also stressed, increasingly, the problem of dropouts and the strong discrepancy between the number of subscribers and number of students graduate on time. Since the 90s, therefore, the universities have chosen to use selection tests as a means of orientation, planning of enrollment, the risk of loss of control and prevention of the excessive length of university studies.The present article discusses and analyzes the results of a research on the analysis of the selective tests for the degree course in Primary Education Science, at University of Salerno, for the last five years, and the comparison of outcomes of tests, qualifications and previous students’ careers.

Parole chiave: qualità, valutazione, prove di profitto, item analysis

Key words: quality, evaluation, test, item analysis

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Premessa I sistemi di istruzione superiore sono, sempre più, attori chiave nelle strategie di crescita della società europea e il rapido diffondersi del ricorso agli strumenti della quality assurance impongono e sottolineano, con sempre maggiore forza, una particolare attenzione alla valutazione della qualità della formazione delle istituzioni scolastiche e, di conseguenza, dei processi e dei prodotti da essi derivanti. La qualità della formazione è un fattore fondamentale per la crescita di un Paese. Oggi più che mai, infatti, in quasi tutte le moderne organizzazioni (pubbliche o private) si sta affermando una cultura della qualità finalizzata al raggiungimento di obiettivi comuni di miglioramento e modernizzazione; una cultura, ancor più necessaria se riferita, come nel caso delle università, ad un’organizzazione che ricopre un ruolo centrale nello sviluppo delle risorse critiche per la crescita competitiva di un territorio e rappresentate dal capitale umano delle giovani generazioni. La piena consapevolezza di tali necessità ha pertanto determinato un continuo “processo d’accusa” alla qualità delle istituzioni scolastiche italiane in generale ed a quella delle università in particolare, considerate indispensabili e necessarie non solo nell’ottica della competizione fra i vari Paesi e le varie realtà territoriali ma anche, e soprattutto, per la stessa qualità della vita dei cittadini: lo sviluppo e la competitività di un territorio dipende dal livello di istruzione e di professionalità degli operatori che ogni realtà è in grado di mettere in campo, dalla cultura dei suoi cittadini. Il quadro che emerge dal rapporto “Education at a glance” diffuso dalla OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) non è certo confortante. “L’Italia ha sviluppato molteplici dispositivi per comparare la performance e l’accountability dell’offerta formativa ma dispone di meno dispositivi di verifica dell’accountability nella regolamentazione. L’Italia ha una lunga storia di esami su scala nazionale ai livelli d’istruzione secondaria inferiore e superiore. […] ma non sono previste ispezioni scolastiche, né valutazioni del proprio operato da parte di ciascuna scuola. […] Sebbene sia richiesto alle scuole di presentare rapporti di conformità alle autorità di livello superiore, tale dispositivo assicura che esse osservino leggi e regolamenti, tuttavia, [...] esso non riguarda la qualità dell’istruzione né individua punti di forza e di debolezza di ogni istituto scolastico (Education at a glange 2011 (Uno sguardo sull’istruzione) – Nota paese Italia, OECD 2011). L’Università oggi ha la responsabilità di formare non solo i nuovi ricercatori e le figure professionali di punta, ma la maggior parte dei nuovi lavoratori, i lavoratori della conoscenza, interpretando le aspettative, spesso sotto traccia, del mondo del lavoro. Essa non può e non deve essere più considerata come atto conclusivo di un percorso formativo, bensì come un riferimento continuo, permanente del sapere, del saper fare e del saper essere che coinvolgerà sempre di più l’intera vita di una persona (lifelong learning). Negli ultimi decenni, perciò, gli Atenei italiani hanno sperimentato e a volte subito profondi cambiamenti di tipo strategico e organizzativo, dovuti da un lato alla nuova normativa che ha dato autonomia agli Atenei, dall’altro ai mutamenti del mercato del lavoro e dell’economia; cambiamenti che hanno spinto le Università a sperimentare modelli di organizzazione che pongono al centro della gestione universitaria i processi di apprendimento più che i contenuti di insegnamento, con la conseguente attenzione verso la qualità delle strutture e dei processi, la comunicazione interna ed esterna, il monitoraggio delle carriere degli studenti, il loro placement sul mercato del lavoro e, infine, il rapporto con la realtà del territorio e con il mondo del lavoro (Comacchio, Pastore, 2005). La legislazione in materia di Università si è concentrata, e a ragione, sulla governance delle

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università pubbliche. La messa in atto di un sistema di governance migliore, infatti, da un lato porterebbe ad un aumento dei finanziamenti, dall’altro darebbe segnali “di prezzo” migliori agli studenti ed alle stesse università (OCSE Rapporto Italia 2011, Sintesi Valutazioni e raccomandazioni, 2011). L’Università, pertanto, sta accettando, con crescente consapevolezza, di sottoporsi a meccanismi continui di verifica e l’imminente istituzione di un’Agenzia di valutazione rappresenta una prova importante dell’attenzione che anche i rappresentanti governativi del Paese rivolgono a tale tema. La nuova agenzia di valutazione del sistema universitario, ANVUR, ha, tra gli altri, il compito di definire chiari criteri di valutazione dei risultati per le università e di creare un sistema di valutazione e riconoscimento che risponda a tali criteri. I dati che ne scaturiranno dovrebbero concentrarsi sui risultati conseguiti dagli studenti ed essere idonei per raffronti di valutazione comparativa tra le università (OCSE Rapporto Italia 2011, Sintesi Valutazioni e raccomandazioni, 2011). Un buon sistema universitario deve prevedere momenti di analisi delle esigenze e dei requisiti di tutti gli attori coinvolti nell’intero processo, azioni di pianificazione degli interventi e delle metodologie formative, di valutazione dei risultati conseguiti e di raffronto tra questi ultimi e le esigenze individuate nella prima fase. Esso può essere considerato di “qualità”, soltanto se prevede tutti i momenti appena individuati, correlati ed interagenti tra loro, in maniera coordinata, efficace ed efficiente. In tale percorso assume valenza primaria la riflessione sul servizio all’utenza; diventa essenziale un approccio conoscitivo capace di indicare parametri utili a calibrare l’offerta e, quindi, produrre risultati di sicura valenza. Uno strumento di controllo del processo formativo dimostratosi utile a tale scopo ed ampiamente utilizzato, è rappresentato dalle prove di accesso all’università attraverso le quali si verificano le conoscenze e/o competenze degli studenti in ingresso con il duplice scopo di orientare e programmare le iscrizioni da un lato e, contemporaneamente, controllare il rischio di dispersione che si produce a seguito di una scelta non ponderata. Iscriversi all’università è, infatti, un passaggio molto delicato che dovrebbe richiedere, da parte degli studenti, un’accurata e seria riflessione sulle proprie potenzialità e attitudini, la valutazione del profitto scolastico passato e una profonda interrogazione circa la professione che si intende svolgere. L’aumento del numero di immatricolazioni negli anni ha inoltre sottolineato, sempre di più, il problema degli abbandoni e la forte discrepanza fra numero di iscritti e numero di studenti laureati nei tempi previsti. Sebbene, infatti, in Italia il numero di laureati sia cresciuto rispetto al passato, il divario con le altre nazioni è ancora abbastanza ampio. L’università italiana produce un numero di laureati ancora insufficiente a colmare la carenza di formazione universitaria rispetto ai paesi OCSE; eravamo e rimaniamo un Paese con un ritardo in quanto a diffusione dell’istruzione universitaria. Secondo il rapporto OCSE 2011, infatti, i laureati in Italia sono il 14% della popolazione adulta e il 20% della fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, contro il 37% della media Ocse.1 Per tutte queste ragioni, a partire dal 1985, attraverso alcuni regolamenti del Ministero dell’Università e della Ricerca e, successivamente, con l’entrata in vigore della legge n. 264 del 1999, è stata istituita in Italia la regolamentazione agli accessi per l’iscrizione ad alcuni

1 L’obiettivo strategico pari al 40% della popolazione di età compresa tra i 30 e i 34 anni laureata, che la Commissione Europea ha individuato come meta da raggiungere entro il 2020, è per l'Italia ancora molto lontano.

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corsi di laurea al fine di evitare l’ingresso ad una popolazione studentesca fortemente differenziata in merito a preparazione culturale, motivazione e in particolar modo interesse. Il ricorso a test per regolamentare gli accessi, inoltre, si è reso necessario allorché si è constatato un forte squilibrio tra le strutture didattiche disponibili e le aspiranti matricole (Sirigatti, Stefanile, Pasca, 1997) e la sua introduzione ha determinato una diminuzione degli abbandoni confermata anche da alcune ricerche effettuate sull’argomento (Cacioppo, 1995; Andreani Dentici, 2001). Tale pratica, dunque, largamente diffusa in molte istituzioni universitarie estere, si è affermata in Italia con il duplice scopo di equilibrare il rapporto tra numero di studenti e qualità e capacità delle strutture universitarie e per regolare l’offerta di professionalità richieste dal mercato.

1. La ricerca: obiettivi, fasi e metodologia Partendo dalle considerazioni sopra riportate e in continuum con i risultati di una precedente ricerca effettuata sempre sulle prove di ingresso ma con riferimento a tutti i corsi di laurea della Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Salerno (Notti, 2010), il gruppo di ricerca ha pertanto elaborato e realizzato il progetto di ricerca i cui esiti saranno oggetto del presente articolo. Gli obiettivi del progetto sono stati diversi, così come differenti sono state le fasi di attuazione. Per quanto concerne gli obiettivi, il progetto è stato realizzato con una duplice finalità: da un lato, verificare la qualità, validità ed affidabilità delle prove di accesso somministrate agli studenti preiscritti al corso di laurea di Scienze della formazione primaria nell’ultimo quinquennio; dall’altro indagare ed evidenziare se, come e quanto possa esistere una relazione fra i risultati emersi dalle suddette prove, il precedente percorso scolastico e la carriera universitaria. Costruire una prova di profitto non è sicuramente semplice ed è ancor più difficile se essa nasce con l’intento di operare una selezione e precludere, nel nostro caso, la possibile iscrizione ad un corso di laurea. Per questo motivo risulta necessario verificare la qualità degli strumenti utilizzati, al fine di suggerire i doverosi adeguamenti per rendere tali prove congruenti alle finalità per le quali vengono costruite: una prova costruita male fornisce conseguentemente risultati poco affidabili se non addirittura completamente inaffidabili. Ciò significa porre attenzione non solo al versante prettamente contenutistico, ai saperi minimi da accertare, ma anche e, potremo aggiungere “soprattutto”, alla parte non immediatamente visibile e ancora parzialmente trascurata relativa alla “costruzione tecnica” della prova, ovvero la sua precisione, la sua chiarezza, e la percezione che da essa si ricava. Per questo motivo è necessario operare al fine di costruire prove che siano valide ed attendibili, ovvero prove i cui risultati siano congruenti con gli obiettivi prefissati e al tempo stesso univocamente interpretabili. Tutto ciò potrebbe apparire ovvio e scontato ma in realtà così non è. Molto spesso, infatti, accade che gli studenti, pur padroneggiando le abilità sottoposte a controllo, non riescono a fornire adeguate prestazioni. Una siffatta situazione si verifica nel momento in cui gli studenti incontrano difficoltà nella comprensione del quesito, nella sua interpretazione; disagio derivante, nella maggior parte dei casi, dalla mancanza di chiarezza, da parte di coloro che hanno costruito la prova, rispetto alla situazione problematica di cui si richiede la soluzione. L’elaborazione di una prova con le caratteristiche precedentemente indicate (precisione,

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chiarezza, etc.) presuppone, dunque, un lavoro faticoso, impegnativo e per nulla semplice; un’attività per la quale è necessario seguire, in modo dettagliato, determinate fasi in modo da poterne assicurare la qualità. Nel corso di laurea di Scienze della Formazione primaria dell’università di Salerno, le prove di accesso relative all’ultimo quinquennio sono state elaborate da commissioni, rimodulate annualmente, composte da sei/otto docenti facenti capo ai diversi settori scientifici oggetto della suddetta prova. Il primo passo da compiere quando si deve costruire una prova “ad hoc”, in linea generale ma anche in riferimento al lavoro compiuto dalle sopra citate commissioni, è definire preliminarmente le abilità-obiettivo che si intendono sottoporre a controllo. Una prova che voglia definirsi “oggettiva” non può, infatti, prescindere da un’analisi accurata e preliminare degli obiettivi da verificare e, conseguentemente, dei quesiti ad essi collegati da rivolgere agli studenti. Soltanto successivamente, ovvero dopo aver somministrato la prova, si potrà procedere a verificare la congruenza didattica di tali obiettivi attraverso un accurato esame delle risposte fornite da ciascun allievo alle singole domande. La “qualità, validità ed affidabilità” delle domande è infatti strettamente correlata alle risposte fornite dagli studenti. Nel momento in cui si mira, cioè, a giudicare sia l’efficacia diagnostica dei quesiti sia la qualità delle risposte e quindi il grado di apprendimento che esse consentono di misurare, occorrerà procedere all’analisi delle scelte compiute di volta in volta dagli allievi, comparandole tra loro e ricavando dati valutativi dall’osservazione pragmatica degli stessi. Nella fase preliminare dei lavori, pertanto, il gruppo di ricerca, coadiuvato dal C.S.I (Centro dei Servizi Informatici di Ateneo) e dal responsabile della gestione elettronica documentale dell’ateneo salernitano, Ing. Pietro Di Iorio (coautore del presente articolo), ha provveduto ad acquisire, su supporto elettronico, tutta la documentazione inerente le prove oggetto di indagine (dall’A.A. 2006/07 all’A.A. 2010/2011) e ad effettuare le relative tabulazioni dei risultati determinati per le successive elaborazioni. I primi dati acquisiti sono stati quelli relativi al numero di studenti che hanno fatto richiesta di iscrizione alla prova di selezione e alla distribuzione dei quesiti nelle diverse aree oggetto di verifica. (tav. 1)

Tav.1: Tabella riepilogativa di partecipanti, ammessi e distribuzione quesiti nelle prove

Come si evince chiaramente dalla tabella, nel corso degli anni il numero di studenti iscritti alla prova selettiva di ammissione si è progressivamente ridotto sino a sfociare, nell’ultimo biennio, in un vero e proprio dimezzamento rispetto ai tre anni precedenti. Tale

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situazione, molto probabilmente, è stata però determinata, come si vede, dalla drastica diminuzione (da 350 ad 80) – stabilita a livello ministeriale – del numero di posti disponibili messi a concorso e non sembra legata, allo stato dei fatti, ad altre variabili. Negli stessi ultimi due anni, inoltre, si può notare una differente ripartizione dei quesiti all’interno della prova con un aumento sufficientemente significativo delle domande relative all’area 1 e 2 (cultura linguistica, ragionamento logico e cultura pedagogico didattica) e la rispettiva diminuzione dei quesiti previsti per le restanti aree tematiche (cultura letteraria, storico-sociale, geografica, matematico-scientifica) quasi a voler sottintendere una maggiore influenza ed importanza delle prime sulle seconde per l’eventuale superamento della prova nonché per il successivo percorso di studi. In linea generale, comunque, va ricordato che la struttura delle prove, così come gli argomenti in esse contenuti sono stati sempre stabiliti, con decreto del ministro, a livello nazionale: 80 quesiti a scelta multipla con un’unica “chiave di correzione” e tre o quattro distrattori. A livello locale, invece, si è proceduto a stabilire i criteri di valutazione, a costruire la prova, ad effettuare la sua correzione mediante lettura ottica ed, infine, a definire e pubblicare la graduatoria finale di merito. Dopo questo iniziale momento dedicato prevalentemente al reperimento di tutti i dati relativi sia agli studenti preiscritti al corso di laurea, sia alle prove ad essi somministrate, il gruppo di lavoro, poi, ha portato avanti la ricerca suddividendo il lavoro in tre momenti. La prima fase è stata dedicata alle elaborazioni statistiche dei risultati e all’analisi delle risposte. Per quanto concerne l’analisi statistica, al fine di cogliere la significatività dei dati, si è deciso di procedere al calcolo della media aritmetica, della deviazione standard, del coefficiente di variazione e, infine, del coefficiente alfa o “alfa di Cronbach”. Per quanto riguarda, invece, l’analisi dei quesiti, il gruppo di ricerca ha deciso di analizzare le prove mediante due differenti metodi statistici le cui caratteristiche ed assunzioni risultano fortemente differenziate: l’Item Analysis Classica (Classical Test Theory - CTT) e l’Item Response Theory (IRT). Nella CTT le risposte ottenute sono sottoposte ad analisi statistiche per rilevare gli item troppo facili o troppo difficili; per individuare se ci sono distrattori che hanno una percentuale di scelta troppo bassa o troppo alta; per verificare se gli item sono in grado di discriminare i candidati più competenti da quelli meno competenti; per poter effettuare le opportune tarature nelle prove. L’uso di tale approccio consente la misurazione del tratto latente di riferimento mediante la trasformazione del numero di risposte esatte in un punteggio globale; i valori ottenuti, tuttavia, siccome strettamente legati al campione normativo sottoposto all’analisi, non possono essere utilizzati per effettuare comparazioni tra contesti differenti e, inoltre, non riescono a chiarire del tutto il difficile rapporto che esiste fra le risposte ai quesiti (ovvero le abilità del soggetto) e le caratteristiche degli stessi quesiti rappresentati in termini di livello di difficoltà di risoluzione dell’item. L’IRT, invece, consente di valutare le performance del soggetto in funzione di un’abilità latente mediante la specificazione di un modello statistico-matematico che permette di giungere non soltanto alla valutazione della prestazione del singolo, ma anche delle caratteristiche di ogni quesito. L’utilizzo di tale approccio, inoltre, in virtù dell’indipendenza del campione, consente di giungere alla valutazione della prova individuale ed operare quindi comparazioni con quelle di altri soggetti (Lord, Novick, 1968). Le differenze esistenti fra questi due approcci sono, dunque, numerose: teorie di riferimento (Fan, 1998), parametri del modello matematico sotteso (Singh, 2004), interpretazione dell’errore standard di misura, etc. Seppure ambedue molto affidabili e nonostante i vantaggi derivanti da entrambi, sembra tuttavia necessario sottolineare che, in Italia ma anche altrove, il modello maggiormente seguito è soprattutto quello classico (Barbaranelli, Natali, 2005),

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al contrario dell’IRT che, invece, soprattutto nel nostro Paese, risulta non essere ancora molto applicato sebbene siano in aumento le ricerche condotte in merito (Cristante, Mannarini, 2003).Va altresì evidenziato che all’interno dell’IRT è possibile avvalersi di diversi modelli che si distinguono in base alla forma matematica della funzione caratteristica degli item e al numero dei parametri specificati. Nel caso precipuo della ricerca in oggetto, il modello utilizzato è quello maggiormente conosciuto come “modello di Rasch” che consente di ottenere misure oggettive, universali, che trascendono sia il particolare contesto cui la misurazione si riferisce che lo strumento utilizzato. Le ultime due fasi della ricerca, infine, sono state dedicate al confronto fra i risultati delle prove di accesso, il precedente percorso formativo degli studenti “vincitori” e la loro carriera universitaria. Quest’ultima fase, inoltre, è stata a sua volta divisa in due momenti: il primo dedicato al reperimento di tutti i dati relativi agli esami sostenuti in carriera e alla suddivisione di questi ultimi in base all’area della prova di riferimento; il secondo, invece, prettamente dedicato alle elaborazioni statistiche dei dati ed alla correlazione fra i risultati degli esami (mediati) e i risultati della prova di accesso.

2. Analisi ed interpretazione dei risultati Prima di procedere all’analisi dei dati rilevati riteniamo, però, necessario e doveroso effettuare alcune precisazioni in merito alla disamina di seguito riportata. I dati che verranno illustrati, infatti, per ovvie ragioni di sintesi, sono stati volutamente raggruppati al fine di fornire un’indicazione di massima, esemplificativa ma, comunque, sufficientemente capace di render conto dei risultati conseguiti. Per approfondimenti e possibili chiarimenti, rimandiamo, pertanto, i lettori eventualmente interessati, al testo che sarà pubblicato prossimamente e che, invece, conterrà al suo interno una descrizione analitica e particolareggiata dell’intera ricerca ivi compreso l’analisi dei quesiti secondo il “modello di Rasch” che, nel presente articolo, non vengono riportati poichè ancora in fase di completamento. Ciò premesso, procediamo ad analizzare i risultati rilevati nelle tre differenti fasi della ricerca. Il primo momento, come anticipato, è stato dedicato al calcolo di alcune funzioni statistiche che, sebbene semplici ed elementari, sono considerate abbastanza utili per cogliere la significatività dei dati. Nella tabella che segue (Tav. 2) vengono, per l’appunto, schematicamente rappresentati i risultati ottenuti dal calcolo della media, della deviazione standard, del coefficiente di variazione e dell’alfa di Cronbach per ognuno dei cinque anni oggetto d’indagine.

Tav. 2: Quadro riassuntivo elaborazioni statistiche

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La situazione che emerge dalla lettura dei dati riportati nella tabella non è particolarmente negativa ma necessita di alcune considerazioni. La prima osservazione riguarda i valori della media aritmetica che, come si nota, risultano essere abbastanza bassi per tutti gli anni considerati con una sola lieve eccezione per il 2010 dove, invece, la media dà l’impressione di essere leggermente più elevata. Tale considerazione, inoltre, assume maggiore rilevanza se si considerano due aspetti: le medie sono state calcolate senza considerare la penalizzazione prevista per le risposte errate (la prova infatti prevedeva l’assegnazione di 1 punto per le risposte esatte, -0,25 per quelle errate e 0 per le omissioni); il punteggio massimo teorico previsto per la prova corrispondeva a 80 punti. Sebbene i valori delle medie siano così bassi, è altresì evidente una buona dispersione dei punteggi ( ) ed una discreta variabilità dei risultati (CV) in base alla quale è possibile sostenere che la media è un indicatore corretto e che ci fornisce, quindi, una stima adeguata delle misure osservate. I valori molto alti delle deviazioni standard e dei coefficienti di variazione indicano quindi una forte eterogeneità dei punteggi che risulta abbastanza evidente nel grafico sotto riportato.

Grafico 1: Distribuzione pentenaria risultati prove

Quasi tutte le distribuzioni, come si evince dal grafico, sono positivamente asimmetriche e leptocurtiche: la concentrazione maggiore dei punteggi cade per tutti gli anni sottoposti all’analisi, sempre nella fascia centrale della curva e la fascia dei punteggi più bassi si presenta percentualmente superiore rispetto a quello dei punteggi più alti. L’unica eccezione riguarda l’anno 2010 all’interno del quale lo scostamento fra i “più bravi” ed i “meno bravi” sembra essere minore rispetto alle altre distribuzioni. Un’ultima riflessione va fatta, infine, in relazione ai valori derivanti dal calcolo dell’alfa di Cronbach attraverso il quale si è proceduto a verificare il grado di coerenza interna dei test. Tale coefficiente, infatti, ci fornisce indicazioni sul grado di intercorrelazione tra gli item all’intero delle singole prove ed indica in che percentuale la misura in oggetto riflette il costrutto sottostante. Ciò premesso e considerato che il valore del coefficiente è compreso tra 0 e +1 e che empiricamente si ritengono accettabili scale con >0,70, è possibile ritenere che, in generale, i risultati ottenuti evidenziano una discreta coerenza interna ed una buona omogeneità in tutte le prove oggetto di analisi.Va però anche sottolineato che, essendo tale coefficiente strettamente legato alla lunghezza della scala (a parità di condizioni, all’aumentare del numero degli item, aumenta il valore del coefficiente di attendibilità; perciò, per

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esempio, basterebbe aumentare il numero di item di una scala che ha un coefficiente sufficiente per ottenerne uno buono), tali valori – abbastanza vicini al parametro massimo – devono essere considerati puramente indicativi. Alla fase delle elaborazioni statistiche è seguita, poi, quella relativa all’item analysis che, come anticipato nella descrizione della ricerca, è stata effettuata, in prima istanza, attraverso l’utilizzo della teoria classica dei test (CTT) e sono stati, pertanto, considerati e calcolati alcuni indici ritenuti efficaci per la taratura degli stessi item ed utili per la valutazione della qualità dei vari item dal punto di vista della difficoltà, discriminatività ed affidabilità2. Prima di procedere alla presentazione dei risultati riportiamo, nella tabella che segue (Tav. 3), i parametri di riferimento della suddetta analisi, di cui si è tenuto conto nell’esame dei quesiti di tutte le prove oggetto della presente indagine.

DIFFICOLTÀ

DISCRIMINATIVITÀ

AFFIDABILITÀ

Tav. 3: tabella riepilogativa parametri di riferimento

2 La difficoltà, intesa come la resistenza che un quesito oppone alla sua corretta risoluzione, si calcola determinando il rapporto tra il numero di risposte errate a quel determinato item e il numero complessivo di allievi cui è stato somministrato. La discriminatività è la capacità di un quesito di separare la parte degli allievi che ha fornito complessivamente una prestazione migliore da quella che ha fornito la prestazione più scarsa. Per calcolare tale indice è necessario disporre in ordine decrescente di punteggio le prove, quindi determinare una fascia superiore e una inferiore di pari numerosità, sottrarre le risposte esatte del gruppo “peggiore” dal numero di risposte esatte del gruppo “migliore” e dividere il risultato per la numerosità dei gruppi. L’affidabilità, invece, è data dal prodotto dell’indice di difficoltà con l’indice di discriminatività. Per il calcolo dei suddetti indici è stato utilizzato il software di calcolo Microsoft Excel.

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I risultati dell’analisi vengono, invece, sinteticamente illustrati all’interno dei tre grafici che seguono.

Grafico 2: Indice di difficoltà

Grafico 3: Indice di discriminatività

Grafico 4: Indice di affidabilità

La lettura parallela dei grafici evidenzia una qualità ed affidabilità delle domande senza dubbio non proprio positiva. Gli item analizzati, infatti, sono risultati per la maggior parte difficili con percentuali che hanno, in alcuni casi, sfiorato quasi il 50 % dei casi (anno 2008). A tale situazione fa eco, inoltre, una percentuale di item “discretamente selettivi” relativamente bassa: come si evince infatti dall’istogramma rappresentativo dell’indice di discriminatività (grafico 2), i valori percentuali sono tutti, o quasi tutti, protesi verso parametri di sufficiente e non sufficiente selettività come a voler sottolineare una eccessiva difficoltà non solo da parte di tutti gli studenti ai quali le prove sono state somministrate ma, anche, una evidente complessità anche per quegli studenti che, in generale, nella prova, avevano ottenuto risultati “migliori”. Di conseguenza, poi, quasi tutte le prove analizzate risultano composte da item poco affidabili (grafico 3); una sola lieve differenza sembra essere rappresentata dalla prova somministrata nel 2008 per la quale, invece, la percentuale di item affidabili risulta leggermente più alta. Un ulteriore elemento da considerare che non compare nei grafici, ma che riteniamo fondamentale sottolineare – anche perché strettamente collegato ai risultati sopra illustrati – è quello relativo alla percentuale di “omissioni” presenti all’interno delle prove. In tutti gli anni e in tutte le prove si sono riscontrate, infatti, percentuali molto elevate di risposte “omesse” che, sebbene sicuramente imputabili alla penalizzazione che veniva assegnata nel caso di risposta errate (-0,25), hanno determinato anche un aumento abbastanza rilevante degli indici sopra analizzati. La situazione appena esposta ha portato, quindi, il gruppo di ricerca a porsi alcune do-

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mande e, perché no, anche a manifestare qualche perplessità: è possibile che tutto ciò possa essere attribuito alla sola affidabilità delle domande? Può tale situazione essere stata prodotta solo da errori derivanti dalla costruzione tecnica della prova o potrebbe esserci, invece, un problema riguardante i livelli di conoscenza, abilità e competenza in possesso degli studenti in uscita dalle scuole secondarie di II grado? E ancora, le difficoltà incontrate dagli studenti sono realmente collegate ad una eccessiva complessità delle prove? La seconda fase della ricerca è stata perciò dedicata all’analisi della possibile relazione esistente fra il precedente percorso formativo degli studenti ed i risultati che essi hanno ottenuto nelle prove di accesso. Considerata, tuttavia, l’ampiezza del campione e, di conseguenza, la grande varietà di istituti secondari di provenienza, il gruppo di ricerca ha ritenuto necessario raggruppare le diverse tipologie in quattro macro-gruppi: liceo psicopedagogico-istituto magistrale, liceo scientifico, liceo classico, altre tipologie.

Grafico 5: percentuali istituti superiori di provenienza

Il grafico sopra riportato conferma, in sostanza, alcune ipotesi già emerse all’interno del gruppo di ricerca. Essendo il corso di laurea in scienze della formazione primaria finalizzato alla formazione professionale di docenti per la scuola dell’infanzia e per la scuola primaria ci si attendeva una percentuale molto alta di iscrizioni da parte di studenti provenienti da licei psicopedagogici ed istituti magistrali, che, come si evince dal grafico, risulta indubbiamente confermata. All’alta percentuale di studenti provenienti da istituti psicopedagogici che hanno partecipato alla prova selettiva non corrisponde tuttavia un’analoga percentuale di studenti ammessi, nonostante una sezione della prova prevedesse domande di cultura pedagogicodidattica. La tabella ed il grafico che seguono mostrano la situazione.

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Tav. 4: Numeri partecipanti e ammessi per tipologia di maturità

Grafico 6: relazione in percentuale fra titoli di studio ed ammissione alla prova3

Come si può notare dalla lettura dei “dati” riportati nella tav. 4 e, contestualmente, della traduzione in percentuale illustrata nel grafico 5, in tutti gli anni accademici presi in esame, le percentuali di studenti con maturità psicopedagogica ammessi al corso di laurea sono quasi sempre le più basse. Nell’anno 2006/2007, ad esempio, rispetto al 35% degli studenti che provenivano da istituti socio-pedagogici (vedi grafico 4) soltanto il 15,58% di essi è risultato “vincitore” (ovvero su 443 partecipanti solo 69 sono rientrati nei primi 350 posti previsti dal bando); viceversa del 10.60% degli studenti provenienti dal liceo classico, ben il 61.94% (ovvero su 134 partecipanti ben 83 sono rientrati nei primi 350 posti previsti dal bando) ha superato la prova ed ha avuto la possibilità di immatricolarsi. Quali posso essere le cause di una tale situazione? È forse possibile ritenere che la prevalenza nel test di domande di cultura generale abbia contribuito a determinare una siffatta situazione oppure la preparazione di questi studenti non era sufficiente per la prova? Per poter fornire una risposta a tali interrogativi, il gruppo di ricerca ha deciso, quindi, di operare un confronto fra la media delle risposte esatte relative alle singole aree ottenuta dai diversi gruppi di studenti; riscontro utile anche per verificare se e quanto la specificità della preparazione derivante dalle diverse tipologie di istituti superiori possa essere messa in relazione al superamento della prova stessa.

3 Le percentuali indicate nel grafico sono state calcolate considerando il numero di soggetti che hanno partecipato alla prova di accesso provenienti dalla stessa tipologia di istituti secondari ed il numero di studenti che, all’interno di tale raggruppamento, è rientrato nella graduatoria finale di merito.

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Volendo valutare esclusivamente la qualità di “sapere” dei singoli studenti si è deciso di operare il confronto sulla media del numero di risposte corrette e non sul punteggio medio. Tale scelta è stata motivata dalla decisione di non considerare nel discorso la penalizzazione per le risposte errate, pari a -0,25 (come esplicitato nel bando), che potrebbe derivare anche da un tentativo “maldestro” degli studenti di fornire comunque una risposta. Il campione, inoltre, si è ulteriormente ristretto prendendo in esame esclusivamente gli “ammessi”, ovvero quelli che è possibile definire sensibilmente “più bravi” del gruppo. Di seguito, si riporta, a titolo esemplificativo, soltanto il grafico relativo al confronto delle medie di risposte esatte dell’area pedagogica non potendo, per motivi di sinteticità e di spazio, riportare i risultati riguardanti tutte le aree oggetto di verifica delle prove.

Grafico 7: punteggi medi area pedagogica e titolo di studio

Le considerazioni che derivano dalla lettura del grafico sono diverse. La prima osservazione riguarda l’andamento dei risultati nel corso degli anni: i punteggi medi ottenuti dagli studenti provenienti dagli istituti psicopedagogici, infatti, mostrano un percorso abbastanza lineare e crescente rispetto a quello altalenante di coloro che provengono dalle altre tipologie di maturità. Un’ulteriore considerazione riguarda poi il confronto fra i risultati medi ottenuti nei vari gruppi. A tal proposito va sottolineato che gli studenti provenienti dagli istituti socio-pedagogici (vedi tav. 4) hanno ottenuto una media di risposte esatte sempre superiore (grafico 6), negli anni, rispetto a coloro che provenivano dalle altre tipologie di maturità, ma, nonostante ciò, lo scarto tra i valori (raffigurato con le frecce verticali) non appare molto significativo, fatta eccezione per l’anno 2008/09. Questo sta ad indicare che la specificità del percorso di studi e dei contenuti in esso presenti, non ha consentito a tali studenti di “emergere” rispetto agli altri candidati nemmeno all’interno di un’area ritenuta preferenziale. La presenza dei valori medi comunque relativamente bassi (in parentesi affianco ciascun A.A. viene indicato il numero complessivo di domande per l’area pedagogica), indipendentemente dalla tipologia di maturità di riferimento, può essere, inoltre, interpretata come il segnale evidente di una situazione di difficoltà per gli A.A. 2006, 2007 e 2008 e meno accentuata per gli A.A. 2009, 2010. Partendo dalle considerazione sinora esposte e tenuto conto degli obiettivi del progetto, il gruppo di lavoro si è infine dedicato all’ultima fase della ricerca orientato allo studio di una possibile correlazione fra risultati delle prove di accesso e carriera universitaria degli studenti. Il lavoro ha comportato notevoli difficoltà legate, da una lato, al reperimento di tutti i dati relativi agli esami sostenuti dagli studenti nella loro carriera dal momento dell’imma-

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tricolazione ad oggi, dall’altro, alla suddivisione ed aggregazione di tali esami all’interno di macro settori corrispondenti alle specifiche aree tematiche oggetto di verifica all’interno della prova di accesso. Ciò premesso, il gruppo di ricerca ha, innanzitutto, ristretto il campione ai soli studenti “immatricolati puri”4 (eliminando tutti gli iscritti per il conseguimento di un secondo titolo accademico e pertanto catalogati come “immatricolato per abbreviazione di carriera”); successivamente, ha proceduto a raggruppare i vari insegnamenti in base ai diversi settori scientifico disciplinari, e a calcolare, per ciascuna area, le medie dei voti degli esami5 per confrontarle con i risultati ottenuti dagli studenti nelle prove di accesso. Essendoci precedentemente soffermati, in modo particolare, sugli aspetti inerenti l’area pedagogica e non potendo, come sottolineato più volte, illustrare nel dettaglio tutti i confronti effettuati sulle differenti aree, riportiamo di seguito, a titolo esemplificativo, solo i risultati relativi alla suddetta area, ricordando, comunque, che tutte le analisi dettagliate e le correlazioni effettuate saranno riportate all’interno di un testo di prossima pubblicazione.

Grafico 8: media punteggi esami area pedagogica

Grafico 9: Distribuzione in quartili dei punteggi delle prove di accesso degli immatricolati “puri”

4 Il numero degli studenti “immatricolati puri” dei vari anni viene riportato nelle parentesi del grafico 7. 5 Per il calcolo delle medie dei voti sono stati considerati gli esami sostenuti sino alla sessione autunnale dell’A.A. 2010/2011 (fotografia al 30/11/2011).

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La situazione che emerge dalla lettura dei due grafici è senza dubbio “particolare”. Nel confronto fra le percentuali delle medie ottenute dagli studenti negli esami relativi all’area pedagogica (grafico 7) e quelle rientranti nella distribuzione in quartili (grafico 8) effettuata sui punteggi ottenuti dai medesimi studenti nella sezione della prova dedicata alla cultura pedagogico-didattica non si rileva una relazione. Per quasi tutti gli anni accademici considerati sembra esserci una sorta di inversione: rispetto, ad esempio, al 38,96% (anno 2006) di studenti ammessi al corso di laurea con punteggi al di sopra della media (3°-4° quartile), infatti, la percentuale di studenti che supera gli esami con una votazione media e/o eccellente (da 25 a 30 e lode) è più che raddoppiata (85,72%).Viceversa alle alte percentuali relative al 1° e 2° quartile (ovvero punteggi più bassi) si contrappongono quelle molto basse corrispondenti ai voti che vanno dal 18 al 24. Un’ultima breve, ma comunque utile, riflessione riguarda, poi, le percentuali relative alla serie “nessun esame” (grafico 7): dai dati rilevati, infatti, si evince che, al 30 Novembre 2011, un discreto numero di studenti non ha ancora sostenuto alcun esame rientrante nel settore pedagogico. In modo particolare la riflessione coinvolge soprattutto gli studenti immatricolati nel 2006/2007 e, parzialmente, quelli del 2007/2008 che dopo 5 e 4 anni di corso (per cui 1 anno fuori corso nel caso dei primi) ancora non hanno effettuato esami. In conclusione possiamo dire che dall’analisi su esposta, (che, ricordiamo, illustra soltanto alcuni dei dati rilevati dal gruppo di ricerca e quindi fornisce una fotografia parziale della lavoro) la situazione che emerge è la seguente: le prove di accesso somministrate agli studenti del nostro corso di laurea si sono dimostrate poco affidabili e soltanto sufficientemente selettive; non sembra esserci una stretta relazione fra il titolo di studio pregresso ed i risultati ottenuti nelle prove di selezione e, cosa forse più preoccupante, non ci sono rapporti fra tali risultati e la carriera universitaria (relativamente all’area pedagogica analizzata nel presente articolo).

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Ricerche Riflettere sulla qualità interculturale della scuola italiana grazie allo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado Reflecting upon intercultural quality of italian secondary school thanks to the Self-Evaluation Tool for Secondary School Educational Intercultural Processes MONICA FERRARI – FILIPPO LEDDA* Nell’ambito di una ricerca, svolta tra il 2008 e il 2011, si è messo a punto e provato sul campo, in alcune realtà opportunamente individuate, uno strumento di autovalutazione, denominato Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado (SAPIENS2), utile a promuovere percorsi riflessivi tra gli insegnanti della scuola secondaria di secondo grado relativamente all’atteggiamento interculturale. Si tratta di un tema di particolare urgenza, non solo a causa dell’elevato numero di studenti non italiani presenti nelle istituzioni scolastiche del nostro Paese. Per questo è importante implementare esperienze di autovalutazione che consentano a singoli individui e a gruppi di lavoro (consigli di classi, collegi dei docenti, commissioni di insegnanti…) di riflettere sul fare educativo quotidiano e di modificare le pratiche a partire da tali occasioni di condivisione. Il percorso di indagine, orientato “verso un modello di valutazione formativa”, sulla falsariga di altri itinerari intrapresi da un gruppo di ricercatori pavesi, ha implicato il coinvolgimento di diversi attori sociali e la prova sul campo dello strumento ha avviato in singole realtà specifiche esperienze di autovalutazione. Nel contributo si presentano, in estrema sintesi, lo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado, le sue ragioni, la sua storia, le modalità di impiego consigliate e realizzate, in vista di una disseminazione dell’esperienza di indagine che si spera possa servire ad avviare itinerari di discussione e di crescita di singoli professionisti dell’educazione (ricercatori, docenti, dirigenti scolastici, ispettori tecnici, esperti…), ma anche di gruppi dotati di potere decisionale nella vita della scuola.

In the context of a research, carried out between 2008 and 2011, in some appropriately selected situations, a self-evaluation tool (known as the acronym SAPIENS2 – Self-Evaluation Tool for Secondary School Educational Intercultural Processes) has been developed and tested.This tool is useful to promote reflective paths for secondary school teachers about intercultural attitude. This is an issue particularly important, not only due to the number of non- Italian citizen students attending our country’s schools. For this reason, it is necessary to implement self-evaluation projects to allow individuals and workgroups (teachers’ board, boards of educational staff, “consigli di classe”, “collegi dei docenti”... etc.) to analyze everyday educational practices and to share experiences and decisions. The research moves “toward a formative evaluation pattern” – developed by a group of researchers from the University of Pavia – and it involved different social actors. The tool’s test “on the field” promoted specific evaluation experiences in single educational contexts. The essay presents, in short, the SelfEvaluation Tool for Secondary School Educational Intercultural Processes, its reasons, its history, the methodology used and proposed (with a view to dissemination of research experience). It is hoped that it may initiate possibilities for discussion and growth of individual educational professionals (researchers, teachers, school managers, inspectors, experts ...), but also of groups that have decisionmaking power in school life.

Parole chiave: educational evaluation,valutazione formativa di contesti e pratiche educative, autovalutazione dei docenti, pedagogia interculturale, attitudine e consapevolezza interculturale, formazione dei docenti, scuola secondaria

Key words: educational evaluation, formative evaluation of educational contexts and practices, teacher’s self-evaluation, intercultural education, intercultural awareness and attitude, teacher’s training, secondary school

* Monica Ferrari è l’autrice dei paragrafi 1 e 2; Filippo Ledda è autore dei paragrafi 3, 4, 5 e 6.

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1. Educational evaluation in prospettiva formativa Il costrutto di “valutazione della qualità educativa intrinseca”, riferito ai contesti scolastici (ma anche ai processi, alle pratiche, alle professionalità, agli strumenti pedagogici) oggetto del processo di ricerca che qui descriveremo, postula una necessaria (seppure, in questa sede, sintetica) riflessione preliminare su un dibattito internazionale, sviluppatosi nella seconda metà del Novecento1. Alcune definizioni ormai “classiche” (Beeby, 1977; Nevo, 1983;Wolf, 1987) cercano di circoscrivere il tema. L’educational evaluation, cioè la valutazione in senso educativo dei fenomeni pedagogici nella loro complessità, è un campo d’indagine relativamente “giovane”, nella più vasta “enciclopedia delle scienze dell’educazione”, che ha saputo, però, ritagliarsi uno spazio rilevante negli ultimi decenni. In un saggio pubblicato per la prima volta in Italia nel 2000, Michael Scriven, noto per aver più volte riflettuto sulla “natura” dell’operazione valutativa in riferimento ai fenomeni educativi, afferma che la valutazione è “una nuova scienza”. La riflessione epistemologica di Scriven mette in rilievo come l’evaluation sviluppi “modelli, teorie e procedure proprie”; per questo è importante, a suo avviso, discutere sui fondamenti di una “transdisciplina” che ha al centro il concetto di valore, quindi, l’attribuzione di senso e significato sociale a una serie di fenomeni: La valutazione è il processo con cui si determina il valore, il merito o la significatività di qualche entità; le valutazioni sono il risultato di tale processo. La valutazione può essere esterna o interna, o un insieme di ambedue; quantitativa o qualitativa, o un insieme di ambedue (Scriven, 2000, p. 39).

Il mondo, insomma, pare essere connotato dalle nostre valutazioni, dalla significatività che viene attribuita ai fenomeni e che appare intrinseca ai nostri atteggiamenti culturali. Potremmo dire che non riusciamo a sottrarci all’operatività valutativa; tale procedere colorerebbe di senso sociale la nostra esistenza. Non solo a parere di chi scrive, è necessario essere consapevoli del ruolo della valutazione nei diversi campi d’indagine, dell’importanza, quindi, dell’atteggiamento individuale e collettivo nei confronti dei fenomeni e dei processi conoscitivi. Quanto alla valutazione in senso educativo, si tratta di un essenziale processo euristico e di ricerca che, nel suo farsi, può cambiare i contesti in cui si danno relazioni umane connesse ai percorsi di individuazione dei singoli e dei gruppi. È ancora oggi di particolare interesse il punto di vista al riguardo di Wolf. Nel 1987, infatti, Wolf discute la definizione di Beeby di dieci anni prima, sottolineando che per educational evaluation, per valutazione in ambito educativo, si intende un processo che parte dalla raccolta sistematica dei dati (sulla base di strumenti scientificamente validati) e che inevitabilmente mira a produrre un giudizio di valore circa un fenomeno di natura educativa. Il fine in vista di un lungo processo euristico ed ermeneutico, condotto nella consapevolezza del fatto che il dato non sembrerebbe essere quindi l’immediato esito della realtà, oggettivata in alcuni dei suoi aspetti, è l’azione, l’impatto sulla situazione di partenza, il cambiamento migliorativo. Poiché

1 Senza alcuna pretesa di esaustività e per un primo riferimento bibliografico sul tema dei diversi approcci alla valutazione della scuola si veda al riguardo Vertecchi 1984-1998; Domenici, 1993; Ferrari, 1994; Ferrari, 1995; Lichtner, 1999; Bondioli, Ferrari, 2000b; Galliani, 2000; Fiorucci, 2001;Vertecchi, 2003; Bondioli, 2004; Pitturelli, 2008.

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strettamente legato al giudizio di valore intrinseco agli assunti che stanno alla base dello strumento, tale processo implica necessariamente attitudini culturali, atteggiamenti, punti di vista, ideologie dei soggetti coinvolti nel percorso stesso. Ed è proprio per questo che, in un itinerario di ricerca volto a far riflettere, in senso interculturale, sulla scuola secondaria italiana, tale approccio è, a nostro avviso, importante. Grazie a un vivace dibattito epistemologico relativo alla seconda metà del Novecento, sappiamo poi che le operazioni valutative a carattere sistematico e “formale” divergono, in ambito educativo (Nevo, 1983), quanto all’oggetto (programmi, progetti, contesti, sistemi, prestazioni di individui), agli approcci (qualitativi o quantitativi) e alle modalità con cui si articola il processo (interno o esterno) rispetto all’oggetto da valutare, ma sono caratterizzate da alcuni presupposti comuni. Tra di essi ricorderemo qui soltanto la prospettiva “politica” delle operazioni di educational evaluation, l’inevitabile incidenza del processo valutativo, se efficace, sulle attitudini culturali dei soggetti coinvolti, quasi a dire che le cose non mutano davvero, in una scuola, se non avvengono certe decisioni comuni nel gruppo di lavoro, se chi ha responsabilità educative non si fa carico in prima persona del progetto di cambiamento. In particolare, come ricordava Scriven già nel 1967 (Scriven, 1994), la prospettiva “formativa” mette l’accento proprio su tali questioni, in quanto focalizza la propria attenzione sul processo in atto. Chi lavora in tale ottica si propone anzitutto di costruire una “cultura della qualità educativa” condivisa e negoziata, a partire da una serie di operazioni sistematiche di valutazione che coinvolgono gli operatori in prima persona (Bondioli, 2004; Ferrari, 2004), anche aiutandoli a dialogare e, appunto, a condividere lessici, cultura e culture. Qualità del processo valutativo vuol dire, in tal senso, co-costruzione di un percorso di ricerca-formazione, occasione di dialogo e di confronto (Cambi, 2001, 2006) tra tutti gli attori pedagogici che ne fanno parte. Pertanto “qualità intrinseca del contesto” significherà, in tale prospettiva, analisi e discussione critica dei requisiti che garantiscono il benessere e la crescita umana, personale, professionale di tutti coloro che hanno a che fare con un dato ambiente in cui avvengono fenomeni e processi pedagogici. L’analisi della prassi e delle condizioni dell’educare, secondo metodologie e strumenti scientificamente validati e condivisi, diviene una garanzia della qualità educativa intrinseca e invita a un continuo ripensamento sul rapporto teoria/prassi nell’agire educativo, sulle mosse esplicite e/o latenti che orientano la quotidianità delle pratiche nei diversi contesti formali e informali. Qualità educativa intrinseca significa anche orientamento verso il cambiamento in senso migliorativo e condiviso della prassi, grazie a una continua crescita in consapevolezza degli attori sulle ragioni e sul divenire della proposta educativa, frutto di un processo di ricerca e di confronto critico. Il cambiamento migliorativo come fine in vista, a partire dalle piccole cose della quotidianità per giungere a modifiche più radicali degli ambienti, è tuttavia utile per motivare gli attori del percorso che necessitano di un tangibile riscontro dei loro sforzi o comunque, nel caso in cui si decida di non modificare nulla, di una ragionata (e documentata) conferma delle loro scelte. Alla fine di un percorso di valutazione formativa efficace, mirato a una crescita in consapevolezza degli operatori del settore, spesso si giunge a un cambiamento migliorativo inopinabile agli esordi. All’interno di un gruppo di lavoro, investito di facoltà di indirizzo, infatti, è auspicabile, ma non certo, che vengano elaborate (senza prefiggersi il raggiungimento di obiettivi preventivamente individuati) nuove decisioni condivise, che risultano, per ciò stesso, imprevedibili.Tale approccio alla valutazione stimola l’apertura al nuovo, essenziale per tutti i professionisti, impegnati nel decidere di fronte a situazioni complesse, e dunque anche per i professionisti dell’educazione, chiamati a crescere, a imparare insieme

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ai loro allievi, a co-costruire rinnovate proposte culturali, a transagire2 cultura. Esperienze di educational evaluation, in prospettiva formativa e trasformativa, possono offrire agli educatori l’opportunità di riflettere, con metodo, sulla fenomenologia dei processi pedagogici nel quotidiano, grazie a ricerche volte a mettere in luce alcuni aspetti chiave della qualità educativa intrinseca dei contesti interrelati in cui si situa lo sviluppo degli individui e, più, in generale, la vita di ciascuno di noi. La definizione di educational evaluation messa a punto qualche anno fa nell’ambito del progetto n. 5 del 1999-2000 – Interventi speciali per la valutazione di qualità nella scuola dell’infanzia –, coordinato da Egle Becchi, del SNQI (Servizio Nazionale per la Qualità dell’Istruzione), pone l’accento proprio su tali questioni e, pertanto, definisce la valutazione educativa come accertamento intersoggettivo di più dimensioni formative e organizzative di un contesto e indicazione della loro misurabile distanza da espliciti livelli considerati ottimali da un gruppo di riferimento, in vista di un’incidenza concreta sull’esperienza educativa (cfr. al riguardo Bondioli, Ferrari, 2000a, p.13).

Nella definizione si sviluppa e si riprende l’idea di un’operazione di valutazione formativa esperita in diverse circostanze, in quegli anni, dal gruppo pavese, in relazione ai “contesti” educativi di diversa tipologia (cfr. Bondioli, Ghedini, 2000; Bondioli, Ferrari, 2004; Becchi, Bondioli, Ferrari, 2005; Bondioli, Ferrari, 2008); si vuole promuovere una prospettiva di lavoro che produca un impatto migliorativo sulla situazione di partenza grazie al coinvolgimento attivo degli operatori nel percorso valutativo, nel processo riflessivo e nelle nuove decisioni che esso comporta. Quando si parla di “qualità educativa intrinseca” in tale prospettiva, non si intende eccellenza di un “prodotto” in relazione a standards elevati o a obiettivi/procedure prestabiliti. Tale approccio alla valutazione non mira prioritariamente al “soddisfacimento del cliente”, né tantomeno a verificare la conformità di un qualche oggetto alle specifiche di prodotto (Harvey, Green, 1993; Becchi, 2000; Ferrari, 2002). I processi valutativi, centrati su questa particolare definizione di valutazione educativa e di qualità educativa intrinseca, ribadiscono, nel loro farsi e negli intenti che li orientano, la peculiarità delle “organizzazioni” e delle agenzie educative. Tali contesti non sono equiparabili ad altre tipologie di organizzazioni umane, ma sono, piuttosto, connotati da caratteristiche del tutto particolari; si tratta di contesti in cui si danno relazioni educative e di insegnamento/apprendimento, processi culturalmente complessi e, se efficaci, transattivi, che implicano la crescita permanente di tutti gli attori e il divenire dei percorsi di individuazione dei cittadini. L’approccio alla valutazione formativa centrato sul coinvolgimento degli attori è essenzialmente intersoggettivo, mira cioè a rendere intersoggettivamente condivisibile un’operazione di attribuzione di senso che parte da punti di vista necessariamente soggettivi e ideologicamente connotati. Lo strumento di valutazione proposto, infatti, è legato al punto di vista e alle scelte di chi l’ha costruito; chi valuta lo mette in relazione con il proprio mondo, ma esprime un giudizio che viene analizzato nelle sue interrelazioni con i giudizi degli altri membri del gruppo a cui appartiene. Ed è qui che il punto di vista dei singoli viene assunto come punto di partenza di un decentramento riflessivo che appartiene a tutto il gruppo. Si tratta di un procedere doppiamente riflessivo.Vediamo perché. Anzitutto si inaugura, come si diceva, un decentramento circa il proprio fare nella quotidianità, basato sulla me-

2 Sul concetto di transazione in relazione ai fenomeni educativi cfr. Dewey, 1963; Dewey, 2000;Visalberghi, 1955.

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diazione rispetto all’azione originata dall’uso intersoggettivo degli strumenti proposti. In tal senso l’esperienza di decentramento, propria della valutazione formativa, si può connettere alla “riflessione nel corso dell’azione”. Il costrutto, a forte valenza euristica, grazie agli studi di Schön (Schön, 1993; Schön, 2006), ha segnato il dibattito recente sulla formazione dei professionisti. Schön mette in rilievo l’importanza, per il professionista esperto, di una capacità decisionale attiva nel corso dell’azione e di una epistemologia della pratica mirata a cogliere la peculiarità di tale modalità d’azione e d’intervento anche presso i “novizi”. Dicevamo, tuttavia, che l’approccio alla valutazione formativa è doppiamente riflessivo, anche perché inaugura, necessariamente, una self-evaluation. Nell’utilizzare uno strumento valutativo scientificamente validato ci si confronta comunque con una serie di immagini di scuola, di allievo, di insegnante, di cittadino presenti in quel dispositivo3. E anche quando non esiste un valutatore esterno, quando si chiede agli attori di autovalutarsi, esprimendo un giudizio sulla propria quotidianità in relazione all’item di uno strumento costruito da altri, si aprono spazi di riflessione originati appunto dal rispecchiamento in una serie di immagini inevitabilmente connesse ai giudizi di valore impliciti in quello strumento, anch’esso sottoposto a giudizio. Tale approccio critico al proprio fare e al dispositivo4 utilizzato per valutarlo è occasione per un gioco di specchi che può essere intersoggettivamente condiviso, che può divenire patrimonio comune di un gruppo di lavoro. La formazione iniziale e continua degli operatori si può (e si deve) giovare, a nostro avviso, sistematicamente di tale procedere. Va detto inoltre che il concetto di qualità educativa intrinseca di un contesto (di un progetto, di un programma educativo) è complesso poiché il “contesto” non è mai singolare, ma sempre interrelato a una serie, appunto, complessa, di livelli sistemici interconnessi (Bronfenbrenner, 1986). Chi si propone di avviare ricerche a carattere valutativo in prospettiva formativa deve quindi affrontare anzitutto tale complessità ecologica. A ciò si aggiunge, nelle agenzie educative, la dimensione plurale della qualità educativa che comprende aspetti legati alla percezione dei singoli soggetti e/o a dinamiche di gruppo, aspetti organizzativo-gestionali, aspetti oggettivamente misurabili. Per analizzare la qualità educativa intrinseca di un contesto, di un progetto, di un programma educativo è necessario far ricorso a differenti strumenti, centrati sulle specifiche dimensioni della qualità che si intendono sondare, in relazione a diversi attori, portatori di aspettative e significati diversi. In ogni caso è necessario essere consapevoli della “validità ecologica” del dispositivo che si intende utilizzare, della sua pertinenza rispetto al problema che si vuole analizzare (Bronfenbrenner, 1986), sapendo che ci si deve muovere verso l’uso di più strumenti di indagine. Nella consapevolezza di tale complessità (e senza alcuna pretesa di esaustività) abbiamo voluto costruire lo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado (denominato con l’acronimo SAPIENS2 in una sua prima versione utilizzata con le scuole coinvolte nel progetto di ricerca), mirato ad alcune questioni

3 Sul concetto di dispositivo, inteso, foucaultianamente, come “meccanismo di costituzione del senso” (Redaelli, 2011), il dibattito italiano in ambito pedagogico è assai vasto: Massa, 1986; Massa, 1987; Mantegazza, 1995; Mantegazza, 1998; Massa, 1999; Mariani, 2000, Mariani, 2008; Riva, 2008; Cappa, 2009; Ferrari, 2011. 4 Agamben utilizza un’accezione allargata del termine “dispositivo” rispetto all’uso che ne fa Foucault. Tale accezione rimanda all’idea di un congegno atto a “catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi” (Agamben, 2006, pp.21-22). Per “dispositivo” potremmo intendere allora un elemento e l’insieme degli elementi che lo comprende, un congegno, un meccanismo, uno strumento orientato intrinsecamente da un programma d’azione (cfr. Ferrari, 2011, p. 12).

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a nostro avviso urgenti, e relativo a uno specifico ambiente educativo: la scuola secondaria di secondo grado del nostro Paese.

2. Valutazione formativa in prospettiva interculturale La prospettiva interculturale che connota il percorso di ricerca qui presentato è dunque intrinsecamente connessa a un processo valutativo in senso educativo, volto a proporre occasioni di ripensamento sulla prassi ai docenti della secondaria. Sappiamo bene che l’urgenza della riflessione culturale sull’intercultura è legata anche alle contingenze storiche, economiche e sociali che caratterizzano oggi il nostro Paese, ma non si tratta solo di far fronte a una situazione, appunto, contingente. Si vuole ribadire qui, infatti, il concetto stesso dell’operatività culturale delle agenzie educative (Chervel, 1998), sottolineando quindi il fatto che tutte le istituzioni dell’educare non si limitano a trasmettere saperi, ma, piuttosto, ne producono di nuovi, in maniera più o meno consapevole, attraverso modalità che vanno indagate a partire dalla materialità delle prassi, più o meno esplicite. Ci siamo chiesti, dunque, cosa significhi oggi nella scuola secondaria italiana lavorare in prospettiva interculturale, lavorare per la cultura dell’intercultura, dato che, a nostro avviso, l’educazione interculturale è un aspetto ineludibile della qualità intrinseca di una scuola di ieri e di oggi e che da sempre nella nostra società plurale sono compresenti culture diverse. La consapevolezza (e, di conseguenza, la valorizzazione ) delle differenze culturali, come fattore di qualità di un contesto educativo, è da tempo postulata in diversi strumenti di valutazione a livello internazionale (Harms, Cryer, Clifford, 1992); il tema della “diversità come risorsa” nelle istituzioni scolastiche ha acquisito rilevanza negli ultimi anni negli strumenti valutativi costruiti anche nel nostro Paese (Ferrari, 2001; Ferrari, Pitturelli, 2008). Abbiamo voluto costruire uno strumento di analisi dell’atteggiamento interculturale della scuola secondaria italiana chiedendo agli insegnanti di esprimere il proprio punto di vista circa i processi in atto nella realtà educativa in cui operano. La nostra proposta mira quindi ad avviare operazioni di decentramento riflessivo nei singoli e nei gruppi, nella consapevolezza che l’ambiente ha un ruolo essenziale nella costruzione dei percorsi di individuazione. Un vasto dibattito internazionale, legato al tema della deprivazione culturale, offre costrutti euristici a nostro parere assai utili in questo momento nella nostra realtà e invita a discutere sui rapporti tra struttura sociale, linguaggio e processi di apprendimento, su un “curricolo latente” che si costruisce sostanzialmente fuori dalla scuola nei processi informali della nostra esistenza (Strodtbeck, 1971). Da tempo si discute della complessità dei codici comunicativi umani e dei rapporti di potere legati alle diverse tipologie di codici linguistici che adoperiamo (Bernstein, 1979), di pragmatica della comunicazione, di informazioni sulla relazione tra le persone inscritte nei circuiti ricorsivi del nostro dialogo con gli altri (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971) e anche di pedagogia della comunicazione verbale (Lumbelli, 2001). E proprio in quest’ottica per un docente, a nostro parere, è necessario chiedersi come sia possibile valutare il percorso scolastico di una persona o di un gruppo di persone in senso interculturale. Siamo, insomma, davvero certi di valutare il percorso svolto da un allievo grazie all’istituzione in cui operiamo come docenti? Oppure siamo impegnati nell’accertare il raggiungimento di certi standard di base e forse anche, quindi, nel valutare il curricolo latente più che il percorso di crescita offerto dalla scuola, nel ribadire dei rapporti di forza inscritti nei codici della comunicazione? La complessità dello stato dell’arte nel momento attuale, sia a livello del dibattito scientifico sia a livello delle molteplici esperienze realizzate, non è oggetto di questo breve saggio.

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Da più parti si sottolinea la necessità di riflettere con metodo su di un approccio interculturale che parta da una riflessione degli operatori educativi sul proprio fare nella quotidianità5 e che sia capace di coinvolgere progressivamente, nel tempo e nelle occasioni ripetute di analisi, tutti gli attori del processo. Per questo crediamo che sia necessario promuovere e sistematizzare un approccio di valutazione formativa ai progetti culturali e, dunque, interculturali della scuola: sappiamo bene che la scuola produce cultura. Tale operazione è complessa e procede a diversi livelli dentro la singola scuola e fuori di essa, nei rapporti con le altre realtà educative del territorio di diversa tipologia (anche con le famiglie, dunque). L’ educational evaluation della qualità educativa intrinseca di contesti, progetti, programmi pedagogici, se intesa in senso formativo, è, infatti, un’ importante occasione per l’ empowerment, che consente di garantire ai cittadini, a tutti i cittadini, una proposta formativa migliore proprio perché aperta al miglioramento del processo decisionale, capace di accogliere le diverse culture perché basata, intrinsecamente, sulla condivisione e sul confronto dei punti di vista.

3. Uno strumento di valutazione dell’atteggiamento interculturale della scuola secondaria italiana Non crediamo che qualcuno possa dubitare che la scuola italiana non abbia accettato le cosiddette “sfide” della modernità e che non si stia confrontando con numerose di esse (nuove tecnologie, nuove culture, nuove famiglie sollecitano nuove risposte). Per alcune si può dire che il solco sia stato tracciato da tempo (l’intercultura6) e che alcune parti del terreno siano state ampiamente arate (il Ministero dell’Istruzione ha promosso per anni la pedagogia interculturale7) e seminate (progetti a favore dell’accoglienza, per il sostegno all’apprendimento dell’Italiano come L2 etc. sono attivi da tempo in molti istituti del nostro Paese). Abbiamo sentito l’esigenza, perciò, di compiere una ricognizione sulla cultura del confronto tra diversità, che la scuola ha prodotto negli ultimi anni. Franca Pinto Minerva (2002, p. 22) così definisce l’intercultura: “È […] soprattutto un modo di essere del pensiero [...] Quello che si propone, dunque, è un “pensiero problematico”, capace di pensare la complessità e di muoversi dialetticamente tra molteplici piani esistenziali e culturali del reale. […] Educare al pensiero problematico e complesso significa

5 Si veda al riguardo, a titolo esemplificativo, Santerini, 2010. 6 La letteratura al riguardo è ormai vastissima, si veda, senza alcuna pretesa di esaustività, in riferimento a testi pubblicati nel nostro Paese, e per una bibliografia: Portera, 1997-2003; Gobbo, 1997; Gobbo, 2000; Cambi, 2001; Pinto Minerva, 2002; Demetrio, Favaro, 2002-2004; Santerini, 2003; Favaro, Luatti, 2004; Tarozzi, 2005; Portera, Dusi, 2005; Cambi, 2006; Zoletto, 2007; Fiorucci, 2008; Portera, Dusi, Guidetti, 2010; Santerini, 2010; Zoletto, 2010; Ongini, 2011. 7 Si citano qui solamente gli estremi di un percorso, comprendente un più vasto gruppo di indicazioni, che attestano l’adesione ventennale della Scuola italiana all’intercultura: la Circolare Ministeriale 26 Luglio 1990, n. 205 - La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri. L’educazione interculturale (che richiama la precedente Circolare 8 Settembre 1989, n. 301 - Inserimento degli stranieri nella scuola dell’obbligo: promozione e coordinamento delle iniziative per l’esercizio del diritto allo studio), da una parte, e, dall’altra, la Circolare Ministeriale 1 Marzo 2006, n. 24 - Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri – (emanata dal Dipartimento per l'istruzione, Ufficio per l’integrazione degli alunni stranieri, Direzione Generale per lo studente), cui ha fatto seguito il documento dell'Ottobre 2007 – La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri – dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale.

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educare a pensare in maniera complessa, cioè sviluppare una “conoscenza della conoscenza” […] che guarda se stessa mentre conosce e mentre agisce […]”. Franco Cambi (2006, pp. 8-9) vede l’intercultura come “uno dei dispositivi pedagogici-chiave” del mondo contemporaneo, capace di fare cogliere la cultura in una dimensione mondiale, attraverso la pratica del riconoscimento reciproco e del dialogo. L’intercultura viene delineata, per tanto, come un vero e proprio “spazio dell’incontro”, “modello di convivenza e di conoscenza”. Al fine di comprendere in qual modo la scuola (o almeno una sua parte) si fosse appropriata dell’intercultura, abbiamo ritenuto che sarebbe stato di un certo interesse (e, per alcuni aspetti, innovativo) riflettere sulle testimonianze di coloro i quali curano quotidianamente la qualità delle proposte educative nelle classi: gli insegnanti. Non è mancata, nel percorso triennale8 di ricerca, l’attenzione ai documenti programmatici e normativi della scuola stessa. Alla luce di quanto è stato detto sopra, abbiamo scelto di fare leva su un processo di valutazione formativa per ottenere, sia dati sulla qualità interculturale delle scuole prese in considerazione, sia risultati migliorativi dell’offerta formativa delle stesse. Dunque, tutta la ricerca non ha mai voluto assumere l'aspetto di un’ indagine sul mondo della scuola, condotta da una prospettiva esterna. È stato, piuttosto, costante il tentativo di agire nell’interesse della scuola, servendoci delle sue forze migliori e di concerto con esse. Per tanto, è stato co-costruito un dispositivo9 di valutazione, che ha il suo fulcro in uno Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado (SAPIENS2). È stato costante l’impegno a fare sì che lo stile della ricerca e lo stile dello strumento si mantenessero coerenti con l’ispirazione interculturale, ovvero che l’esperienza risultasse corale e aperta al libero confronto democratico. In tal senso va interpretato il fatto che, a corredo dello strumento, sono stati proposti due allegati, che consentivano ai docenti di esprimere il proprio giudizio sul SAPIENS2. A sottolineare l’importanza di tale valutazione, una parte della riunione per la restituzione è stata sempre dedicata alla discussione dei punti di forza e di debolezza dello strumento. Nella prima fase della ricerca, infatti, è stata elaborata una prima versione dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado (SAPIENS2), che è stata presentata a 18 testimoni privilegiati. Il gruppo era composto da vari operatori del settore educativo (insegnanti in attività e a riposo, funzionari di Uffici scolastici provinciali e pedagogisti), selezionati sulla base della loro esperienza nella costruzione di strumenti di autovalutazione o sulla base della sensibilità ai temi dell’intercultura. A ciascuno è stato chiesto di analizzare il SAPIENS2 e di valutarlo, specificando tutti i punti che a loro avviso parevano più o meno utili ai fini della ricerca. Sulla scorta dei giudizi ottenuti è stato possibile attuare una revisione dello strumento e approntarne la versione definitiva, ovvero quella che è stata proposta nelle scuole. L’efficacia del dispositivo ci pare che sia stata data dall’insieme delle diverse componenti e delle diverse fasi della ricerca e che non si sia limitato al solo momento della somministrazione dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado. A insegnanti della scuola secondaria di secondo grado, interessati all’intercultura, tale strumento propone una riflessione su sedici macro-aree tematiche, qui di seguito elencate:

8 L’indagine è stata compiuta tra il novembre 2008 e l’ottobre 2011 nell’ambito del dottorato di ricerca in Sanità pubblica e Scienze formative, presso l’Università degli Studi di Pavia, e i suoi risultati sono confluiti nella tesi di Filippo Ledda dal titolo “Analizzare il quotidiano scolastico di un gruppo classe nella Scuola secondaria in prospettiva interculturale”. Ad essa si rimanda per eventuali approfondimenti. 9 Per una più approfondita discussione delle diverse accezioni del termine cfr. Ferrari, 2011.

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Indice dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado

1. 2. 3. 4. 5.

Accoglienza delle persone con cittadinanza non italiana Relazioni tra persone di differente cultura Codici linguistici e della comunicazione Costruzione di competenze inter- e multi-culturali nei docenti Costruzione di competenze inter- e multi-culturali nel personale amministrativo, tecnico e ausiliario 6. Costruzione di competenze inter- e multi-culturali negli alunni 7. Documentazione dei progetti di inserimento realizzati dalla scuola 8. Osservazione delle dinamiche di gruppo nei processi di inserimento 9. Valutazione dei progetti e dei processi di inserimento 10. Valutazione del percorso del singolo alunno 11. Collaborazione con e tra le agenzie educative del territorio 12. Continuità 13. Educazione alla cittadinanza 14. Strumenti per il dialogo interculturale 15. Luoghi per il dialogo interculturale 16. Tempi per il dialogo interculturale.

Il percorso di riflessione proposto dallo strumento può essere considerato come suddiviso in quattro tappe: la prima corrisponderebbe alle prime tre aree, dedicate alle questioni più generali. In queste aree abbiamo scelto di soffermare l’attenzione sull’accoglienza, sulle relazioni e sul dialogo, poiché possono essere considerate come i principi di base della scuola dell’intercultura. Le seguenti aree, dalla quarta alla sesta, si concentrano sugli insegnanti, sul personale ATA e sui discenti, tutti elementi costitutivi della vita della Scuola. Dall’area 7 alla 12 si sono prese in considerazioni le pratiche, che riteniamo vadano curate, per salvaguardare la qualità - nello specifico - interculturale di un contesto educativo: l’osservazione, la documentazione, la valutazione, il lavoro “in rete”, la continuità. Nelle ultime quattro aree, quelle dei contenuti specifici, degli strumenti, dei luoghi e dei tempi, abbiamo proposto di riflettere sui fattori concreti, che possono condizionare in maniera rilevante la qualità interculturale di una scuola. Ciascun’area è costituita da due parti principali: nella prima gli autori dello strumento (Monica Ferrari e Filippo Ledda) hanno sintetizzato il cuore di ogni tema, sulla scorta della letteratura specifica. La sezione introduttiva è seguita da una più operativa, nella quale la questione principale è stata spezzata in tre sotto-questioni, con cui si potrebbe confrontare una scuola, che affronta il tema, oggetto dell’area di riflessione. Per ciascuna di esse sono state ipotizzate tre risposte, ovvero tre sotto-situazioni di qualità interculturale crescente, andando, in tal modo a comporre il profilo di tre scuole verosimili: la prima dotata di minima qualità interculturale, la seconda di qualità media (o mediocre), la terza che la esprime al massimo grado. Ad esempio, si riporta di seguito l’area 13 dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado, dedicata all’Educazione alla cittadinanza10.

10 Il tema, al centro di un dibattito assai vasto, è stato di recente oggetto di progetti di ricerca specifici cfr. ad esempio Santerini, 2010.

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Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado: Area 13. Educazione alla cittadinanza L’educazione alla cittadinanza è un’operatività culturale, che non coinvolge soltanto gli studenti migranti che arrivano nelle nostre scuole, ma, anche e soprattutto, i loro compagni italiani. L’obiettivo da raggiungere è quello di fare acquisire o di fare riemergere una consapevolezza di appartenenza a una comunità unica, l’umanità. Tale processo si realizza sviluppando la coscienza di fare parte di una delle tante micro-comunità della terra, famiglia, città, regione o nazione, ma non ne fa un pretesto di esclusione, bensì una base di partenza verso nuovi confronti. La capacità di condividere il proprio modo di essere e di vedere il mondo senza preconcetti circa il modo di essere e di vedere il mondo degli altri è il presupposto. Situazione 1

Situazione 2

Situazione 3

A. Modelli

A. Modelli

A. Modelli

Gli alunni italiani sono agevolati e indicati come modello di riferimento privilegiato rispetto ai non italiani. Prevale il costante riferimento alla realtà italiana, alle abitudini, alle tradizioni e allo stile di vita locale e nazionale. A tutti i livelli e in ogni circostanza i rapporti non sono improntati allo spirito di uguaglianza tra persone di differente provenienza culturale.

Gli alunni italiani sembrano agevolati e appaiono in taluni casi come modello di riferimento rispetto ai non italiani. In alcune circostanze particolari si fa riferimento ad usi, costumi e tradizioni di altri luoghi e Paesi. In alcuni momenti dell’anno e in occasioni costruite ad hoc ci si adopera per attivare scambi e confronti tra persone di differente provenienza culturale. B. Conoscenze

Non ci sono modelli etnici di riferimento ma ciascuna identità viene valorizzata nella sua specificità, dando spazio, nelle diverse circostanze della quotidianità scolastica, alla condivisione di esperienze e storie di vita differenti. I rapporti tra tutti i soggetti dentro la scuola sono improntati al rispetto dei singoli individui e alla libertà di pensiero.

Si informano gli alunni circa i Solo in occasione di particolari documenti nazionali e eventi si approfondisce con gli transnazionali che sanciscono i alunni la conoscenza dei diritti dell’uomo. documenti nazionali e transnazionali che sanciscono i diritti dell’uomo. C. Pratiche C. Pratiche La programmazione didattica è La programmazione didattica è centrata su tematiche proprie della centrata su tematiche proprie della tradizione culturale italiana. I tradizione culturale europea. I docenti del consiglio di classe non docenti del consiglio di classe si avvalgono della presenza di mirano alla costruzione di unità alunni di diversa provenienza didattiche interdisciplinari che culturale per costruire percorsi talora, anche sulla base degli educativi; ogni docente opera in alunni presenti, si aprono in autonomia sulla base di programmi prospettiva inter-culturale. di lavoro di carattere tradizionale.

I documenti nazionali e transnazionali che sanciscono i diritti dell’uomo sono costante riferimento per ogni attività scolastica.

B. Conoscenze

!

B. Conoscenze

C. Pratiche La programmazione didattica è centrata su tematiche proprie del patrimonio culturale mondiale. I docenti del consiglio di classe nella loro operatività didattica si avvalgono della presenza di alunni di diversa provenienza culturale per costruire percorsi educativi, che offrano maggiori prospettive di sviluppo dei temi trattati durante l’anno.

Come si può vedere, all’intestazione dell’area segue una breve definizione della materia, quindi la descrizione delle situazioni 1, 2 e 3, al cui interno le sotto-situazioni A, B e C (corrispondenti, in questo caso alla questione dei modelli di riferimento, per educare alla cittadinanza; alla questione delle conoscenze specifiche e a quella delle pratiche più coerenti con l'idea dell'intercultura) declinano il problema in tre modi differenti. Operativamente, ai docenti che hanno accettato di servirsi dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado è stato chiesto di confrontare le tre diverse sotto-situazioni con il proprio quotidiano scolastico e, quindi, di scegliere quella che maggiormente vi si avvicinava, riportando la propria risposta su un apposito foglio. In coerenza con la proposta interculturale, le somministrazioni non si sono limitate alla compilazione del SAPIENS2, ma sono state accompagnate da alcune sollecitazioni, che han-

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no suggerito un decentramento. Un questionario analitico ha chiesto ai compilatori di valutare lo strumento utilizzato per l’autovalutazione della scuola e una scheda sintetica ha permesso di “dare un voto” alle singole aree di riflessione, sulla base della loro capacità di consentire la valutazione della qualità interculturale dei processi in educazione nella scuola secondaria di secondo grado.

4. Il percorso di ricerca e le sue fasi Le scuole che hanno accettato di prendere parte alla ricerca sono state complessivamente 14, appartenenti alle principali tipologie di scuola secondaria di secondo grado (Liceo classico, Liceo scientifico, Istituto tecnico commerciale, Istituto tecnico industriale, Istituto professionale). Quanto all’ambito geografico di appartenenza, la maggior parte di esse è situata in tre città lombarde e solo un paio si trovano in due città sarde. Si è voluto, infatti, concentrare l’analisi su realtà con un alto tasso di immigrazione, senza trascurare del tutto i contesti meno multiculturali. Laborioso è stato il processo di coinvolgimento delle scuole, ma, in definitiva, la ricerca ha riguardato 116 insegnanti volontari, che, in riunioni pomeridiane, hanno valutato la qualità dei contesti educativi di appartenenza. Il percorso di valutazione prevedeva diverse fasi: innanzitutto, riunioni preliminari con dirigenti o referenti, per presentare la ricerca e concordare il lavoro da compiere, quindi la somministrazione vera e propria dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado ai docenti, essenziale per la raccolta dei dati, che sono stati elaborati dal ricercatore, in vista di una riunione di restituzione. In questa sede è stata data la possibilità ai compilatori di valutare (grazie all’ausilio di grafici, tabelle e profili sintetici) il quadro complessivo della qualità interculturale della loro scuola, emerso dalle risposte (sia allo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado, sia ai questionari di riflessione sullo strumento stesso). La discussione dei dati è stata la base per un’ultima analisi del contesto preso in esame da parte del facilitatore, che ha condensato le sue riflessioni, relative agli esiti della somministrazione e della restituzione, in un rapporto, che è stato consegnato ai docenti referenti di ciascuna scuola, per documentare, tra l’altro, il lavoro svolto.

5. Risultati parziali La sola somministrazione dello strumento è risultata utile ai valutatori, per riflettere sull’atteggiamento interculturale del loro gruppo docente e sulle esperienze di carattere interculturale realizzate, sebbene ci sia parsa di maggior efficacia la partecipazione all’intero percorso di autovalutazione. In particolare, la restituzione ha dato modo ai compilatori di ritornare sui quesiti e di riflettere su temi spesso mai affrontati tra colleghi. Ad esempio, il conteggio delle singole risposte (effettuato in precedenza dal ricercatore) ha fatto emergere la posizione degli insegnanti che hanno collaborato, rispetto alla qualità percepita di diversi aspetti della vita della scuola di appartenenza. Presentare i dati, accostati entro una tabella, ha reso possibile uno sguardo complessivo sul contesto educativo. Ne riportiamo una, a titolo d’esempio:

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Tab. 1: Valutazione della scuola. Ricorrenze delle scelte di una sotto-situazione distinte per area sulla base delle risposte dei valutatori di una scuola

RICORRENZE DELLE PREFERENZE PER SOTTO-SITUAZIONE Sotto AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA AREA -situa 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 zione A1

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1

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I docenti della scuola in questione hanno sentito come più prossime alla situazione da essi vissuta le sotto-situazioni di media qualità interculturale, proposte nello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado (il 52% delle risposte era di tipo 2); si è rispecchiato meno nelle situazioni d’eccellenza (l’11% delle risposte era di tipo 3) e per il rimanente (36%) ha fornito delle risposte di tipo 1, che indicano vicinanza ad una scuola quasi per nulla interculturale. Poiché su 7 valutatori la maggioranza ha espresso valutazioni scarse in 3 quesiti su 3 nelle aree 5 (Costruzione di competenze inter- e multi-culturali nel personale amministrativo, tecnico e ausiliario) e 14 (Strumenti per il dialogo interculturale), abbiamo dedotto che tali aspetti erano percepiti dai valutatori come problematici. Le relazioni finali – redatte sulla base di tali dati e restituite ai referenti dei gruppi dei docenti – hanno tentato di ricostruire quale fosse l’immagine della qualità interculturale dei diversi istituti, intesa globalmente, dalla maggioranza dei compilatori, per agevolare, sia la riflessione personale, sia quella che è stato possibile compiere, durante le riunioni di restituzione. Si riporta uno stralcio della relazione redatta dal ricercatore (e restituita ai docenti) sulla scuola in questione: “I dati della rilevazione sembrano suggerire che la scuola, agli occhi dei suoi insegnanti, sia riuscita a curare, al suo interno, soprattutto i rapporti tra le persone […] per merito dell’impegno particolare [...] sul fronte della trasmissione dei valori della cittadinanza democratica e, dall’altra, per merito della capacità di saper valorizzare i miglioramenti degli alunni in difficoltà, piuttosto che il puro risultato. Ancora, dal punto di vista delle prassi interne, sembra soddisfacente l’attenzione riservata alla verifica che le azioni a sostegno degli studenti neoiscritti e, in particolare, non-italiani, siano all’altezza delle aspettative. All’esterno, d’altra parte, l’istituto si giova della collaborazione delle altre scuole e partecipa con loro a esperienze in rete […].”

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Sulla base di tali documenti di sintesi, i docenti hanno potuto confrontarsi, di volta in volta, con le valutazioni da loro stessi espresse. I valutatori hanno aderito volontariamente al progetto di ricerca, sulla base delle più varie motivazioni. I gruppi non sono stati selezionati attraverso una campionatura, condotta con l’intento di renderli rappresentativi del personale docente della scuola particolare o dell’Istituzione in generale. Per il ricercatore la libera partecipazione dei docenti alla ricerca ha rappresentato un obiettivo trasversale che doveva improntare l’intera esperienza, poiché non sarebbe stato ugualmente formativo interrogarsi sul grado di interculturalità delle scuole, in un contesto di lavoro dogmatico e costrittivo. Una volta raggiunto il centinaio di docenti coinvolti, è parso opportuno sottoporre la massa dei dati raccolti al vaglio statistico. Fin dall’inizio la ricerca ha visto la collaborazione del professor Mario Grassi (ordinario di Statistica medica all’Università degli studi di Pavia) che, unitamente al dottor Davide Guido (dottorando in Sanità pubblica e Scienze formative), ha svolto un ruolo determinante nella loro elaborazione. Grazie all’Analisi delle Corrispondenze Multiple, si è così individuata una variabile latente, sottostante ai dati, che abbiamo poi denominato “attitudine interculturale11”. Soprattutto, sulla base dei valori riscontrati di tale variabile, è stato verificato che lo scaling del questionario è da considerarsi ottimale. Per inciso, la validazione statistica è requisito qualitativo irrinunciabile degli strumenti di autovalutazione del contesto educativo. La SOVASI (Harms, Clifford, 1994) e in seguito, la SVANI (Harms, Cryer, Clifford, 1992), ad esempio, erano state presentate alla comunità scientifica internazionale, tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, dopo avere superato una attenta analisi, condotta con criteri statistici. Ci è parso quindi doveroso compiere tutti gli sforzi necessari, per fornire i docenti di uno strumento, che fosse il più affidabile possibile e abbiamo constatato, grazie all’analisi statistica, quanto la sinergia di diversi saperi riesca ad arricchire un prodotto di ricerca, come si era già verificato, ad esempio, con il SASIS-TS (Ferrari, Pitturelli, 2008). Nel caso dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado, il dialogo tra i saperi assume un valore ancora superiore, dato che l’impronta dello strumento e della ricerca aveva l’ambizione di essere interculturale. A margine, sono state compiute successive elaborazioni, che hanno permesso di ordinare le sedici aree di riflessione, le situazioni (1, 2, 3), le sotto-situazioni, singolarmente (ad esempio, la 1A dell’area 1, la 2A dell’area 1...) e per tipologia (A, B, C).Tale operazione ha fornito ulteriori spunti di riflessione e commento al ricercatore. I dati che sono stati raccolti possono ritenersi rappresentativi della qualità interculturale auto-percepita all’interno dei gruppi di insegnanti che hanno utilizzato il SAPIENS2 sia a causa della natura stessa dello strumento, sia a causa delle circostanze in cui si è sviluppata la

11 Per attitudine interculturale di una scuola, intendiamo la sua disposizione a essere interculturale e a compiere qualcosa di interculturale. Quanto all’essere legato all’intercultura, si farebbe risalire il termine attitudine al latino aptitudo e, quindi ai verbi apio e apiscor. Quanto all’agire in conformità all’intercultura, lo si ricondurrebbe al verbo ago (cfr. Pianigiani, 1907, s. v. “attitudine” e Cortelazzo, Zolli, 1979, s. v.). Il Devoto (1976) riporta due diverse derivazioni del termine (dal latino medievale actitudo da un lato e aptitudo dall’altro) per due diversi significati: “atteggiamento” e “inclinazione”. Abbiamo individuato il termine attitudine, proprio, in virtù della ricchezza dei suoi significati nella lingua italiana e ci siamo sentiti particolarmente vicini a uno di questi, che rimanda a un atteggiamento culturale che dispone all’azione (cfr. www.treccani.it). Ci è piaciuto anche che in antico “attitudine” sia stato uno dei sinonimi di “opportunità” (cfr. Duro, 1986, s. v.). Non possiamo tralasciare il fatto che si tratta di una delle parole chiave di quella corrente del pensiero contemporaneo, che intreccia scienze umane e sociali, scienze storiche e psicologiche e che è anche nota come “storia delle mentalità” (cfr. Le Goff, 1974; Le Goff, 1980).

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ricerca, sia a causa dei suoi obiettivi di fondo. Ricordiamo che si è mirato a promuovere l’adesione volontaria al percorso di indagine nella convinzione che un processo autovalutivo non possa decollare altrimenti. Gli istituti secondari di secondo grado delle città contesto dell’indagine non hanno aderito alla nostra proposta nella loro totalità. Nelle scuole che hanno partecipato è stato possibile sottoporre il questionario a un gruppo di docenti, che, per quanto numeroso, non ha mai raggiunto la consistenza dell’intero corpo insegnante. Si precisa quindi che le risposte documentate, per tanto, non esprimono altro se non il pensiero di coloro che, nelle singole scuole, hanno scelto di fare parte del gruppo dei compilatori dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado. Ogni somministrazione, di conseguenza, è stata trattata come una esperienza di autovalutazione a sé stante, soprattutto, priva di intenti classificatorii degli istituti coinvolti.

6. Ulteriori risultati e prospettive di ricerca Tenuto ben presente che i risultati emersi non possono essere generalizzabili, la ricerca ha accostato alcuni dati, raggruppandoli in base a criteri geografici, con l’obiettivo di fare emergere, qualora ve ne fossero, almeno alcune linee di tendenza nell’insieme dei docenti-compilatori di un dato centro urbano. Ad esempio, in una delle realtà analizzate, 62 valutatori (provenienti da scuole diverse) hanno utilizzato lo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado (SAPIENS2) e hanno espresso quale fosse la qualità interculturale della propria scuola, così come essi la percepivano al momento della compilazione. Dallo spoglio delle risposte è stato possibile conteggiare quanti tra di loro avessero sentito più vicina alla propria realtà scolastica ciascuna risposta di ognuna delle 3 questioni, proposte dalle 16 aree di riflessione. Di seguito all’attenzione del lettore una tabella esemplificativa dell’elaborazione dei dati svolta dal ricercatore, relativa all’area 13 dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado. Tab. 2: Valutazione della scuola. Ricorrenze delle scelte di una sotto-situazione in relazione all’area 13 sulla base delle risposte dei valutatori di un gruppo di scuole RICORRENZE DELLE PREFERENZE PER SOTTO-SITUAZIONE DELL’AREA 13

sottosituazione

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Nella tabella quivi riprodotta è riportato il numero di preferenze che ha ricevuto la singola sotto-situazione (3 erano quelle possibili) dell’area 13, posta all’attenzione dei docenti-compilatori. Ad esempio, alla questione B (relativa alle “Conoscenze”), compresa nell’area 13 (Educazione alla cittadinanza), la sotto-situazione 2 (“Solo in occasione di particolari eventi si approfondisce con gli alunni la conoscenza dei documenti nazionali e transnazionali che sanciscono i diritti dell’uomo”) ha ricevuto 39 preferenze sulle 60 espresse dai docenti partecipanti (si ricorda che era data facoltà di non rispondere a tutti i quesiti). Quanto alla questione A (relativa ai “Modelli”), compresa nella stessa area, la sotto-situazione 3 (“Non ci

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sono modelli etnici di riferimento, ma ciascuna identità viene valorizzata nella sua specificità […]. I rapporti tra tutti i soggetti dentro la scuola sono improntati al rispetto dei singoli individui e della libertà di pensiero”) ha ottenuto 24 preferenze su 56. È possibile notare che nel caso della questione C (“Pratiche”) la sotto-situazione 2 (“La programmazione didattica è centrata su tematiche proprie della tradizione culturale europea. I docenti del consiglio di classe mirano alla costruzione di unità didattiche interdisciplinari che talora […] si aprono in prospettiva interculturale”) ha ottenuto 31 preferenze su 57. Grazie alla lettura della tabella riportata sopra, relativa a una sola area, è possibile comprendere le potenzialità dell’uso dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado non solo in un singolo istituto, ma anche in ambito più vasto, ad esempio in un gruppo di scuole. A conclusione della ricerca, possiamo dire di avere offerto ai docenti coinvolti un nuovo strumento di autovalutazione, che ha consentito di avviare una riflessione a più livelli sui processi interculturali nella scuola. Il confronto e la discussione tra i docenti, grazie ai dati raccolti, stimola, come nel caso di altri percorsi di autovalutazione12, un dibattito sulla coerenza tra gli obiettivi interculturali programmati e le esperienze compiute, sul dichiarato e sull’agito, sulle differenti idee di scuola e di pratiche educative. Assieme agli insegnanti, che si sono resi disponibili, abbiamo riflettuto su quelle prassi agite nella quotidianità, di cui non sempre essi stessi hanno l’occasione di discutere apertamente e che, tuttavia, veicolano contenuti latenti della comunicazione, che non poco influiscono sulla formazione. Attraverso la stesura di rapporti sui dati raccolti abbiamo compiuto anche un’opera di documentazione degli aspetti principali delle percezioni e, talora, delle discussioni dei singoli gruppi. Abbiamo fornito il nostro contributo, affinché alcune pratiche virtuose diventassero utili ad avviare processi di miglioramento della qualità di un’offerta formativa e si è cercato (in particolare, attraverso la restituzione dei dati) di promuovere scelte negoziate e condivise all’interno del gruppo dei docenti. Nel prossimo futuro ci piacerebbe poter elaborare, insieme ad altri ricercatori, un progetto di lavoro che consenta di sottoporre lo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado a un campione di realtà scolastiche, rappresentativo di quella nazionale. A nostro avviso sarebbe utile provare sul campo, in maniera sinergica, più strumenti di valutazione della qualità dei contesti educativi, anche al fine di sostenere le scuole in un percorso autovalutativo permanente. Proprio da un maggiore utilizzo dello Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado e dall’apporto di altri ricercatori non escludiamo che possano giungere indicazioni sull’efficacia dello strumento; le valuteremmo e, ove necessario, adotteremmo le modifiche più opportune. Dalla riflessione sull’educational evaluation emerge che i percorsi di valutazione formativa di progetti, contesti e professionalità sono, di fatto, interminabili, soprattutto se si affermano, poiché necessitano di strumenti sempre adeguati ai contesti e ai tempi in perpetua mutazione. In tal senso cercheremo di lavorare affinché lo Strumento per l’Autovalutazione dei Processi Interculturali in Educazione nella Scuola Secondaria di Secondo grado si renda concretamente capace di adattarsi alle mutate condizioni della Scuola italiana, con l’auspicio di averle fornito un dispositivo di lavoro sempre capace di autoriformarsi.

12 Si veda al riguardo, ad esempio, Darder, López, 1998; Ferrari, 1998; Becchi, Bondioli, Ferrari, 2005.

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Ricerche La valutazione di impatto dei progetti di formazione all’insegnamento dei docenti universitari: quali indicazioni dalle rassegne delle ricerche empiriche? Impact evaluation of instructional development programmes in higher education. Evidence from empirical research reviews MARIA LUCIA GIOVANNINI – ALESSANDRA ROSA* In questo contributo viene affrontata la problematica della valutazione dell’impatto dei progetti di formazione all’insegnamento universitario, una formazione in progressivo aumento in molti Paesi ma diversificata, quantomeno, per contenuti, durata, destinatari e tipo di obbligatorietà. Lo scopo è quello di delineare il concetto di impatto, descrivere i modelli per la sua valutazione e mettere in luce, in un’ottica di analisi critica, impostazioni e criteri usati nelle diverse rassegne delle ricerche empiriche su tale tematica.

This contribution focuses on impact evaluation of teaching development programmes for university teachers. Such programmes while increasingly implemented in many countries, vary considerably in terms of content, duration and target group as well as the extent to which their participation is recognised as a formal requirement. The scope of the article is to highlight the concept of impact, to analyze the impact evaluation models and approaches and to examine critically the criteria used in different reviews of empirical research on this issue.

Parole chiave: formazione all’insegnamento universitario, valutazione di impatto, efficacia, rassegne delle ricerche empiriche

Key words: higher education, instructional development programme, impact evaluation, effectiveness, research reviews

* Il presente contributo è frutto di un lavoro comune delle autrici, tuttavia per quanto riguarda le singole attribuzioni esse risultano così divise: Maria Lucia Giovannini paragrafi 2, 3, 5; Alessandra Rosa paragrafi 1 e 4.

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1. Introduzione Nel contesto dei rapidi e profondi cambiamenti che negli ultimi decenni hanno attraversato la società in cui viviamo, i sistemi di istruzione superiore di tutti i Paesi avanzati sono stati coinvolti da rilevanti processi di trasformazione e dalle sfide connesse alla necessità di farvi fronte, salvaguardando e rafforzando il ruolo svolto dall’università nella promozione dello sviluppo sociale, economico e culturale. Uno scenario complesso, alla luce del quale va inquadrata la professione del docente universitario sempre più articolata tra ricerca, didattica e governance degli Atenei (Galliani, 2011) e va compresa l’esigenza, sempre più avvertita e riconosciuta a livello internazionale, di innovare e diversificare la didattica universitaria attraverso la predisposizione di contesti formativi partecipativi, coinvolgenti, flessibili e maggiormente centrati sul soggetto che apprende. Il miglioramento della qualità dell’insegnamento e degli apprendimenti degli studenti costituisce, infatti, un obiettivo fondamentale del processo di trasformazione delle istituzioni universitarie e complementare a quello, altrettanto prioritario, rappresentato dall’ampliamento dell’accesso all’istruzione superiore. Il riconoscimento della necessità di supportare istituzioni e docenti nel perseguimento di tali obiettivi ha contribuito ad accrescere l’attenzione riservata al tema della formazione iniziale e continua all’insegnamento universitario. In particolare a partire dagli anni Novanta, in vari Paesi europei ed extra-europei si assiste non solo all’intensificarsi degli studi e delle occasioni di confronto e dibattito scientifico al riguardo, ma soprattutto alla creazione di apposite strutture e al moltiplicarsi di iniziative ed esperienze formative specificamente finalizzate a promuovere lo sviluppo e il potenziamento delle competenze pedagogico-didattiche dei docenti universitari (Kalman, 2008; De Ketele, 2010; Giovannini, 2010, 2011). La quantità e la varietà delle esperienze condotte a livello internazionale, unitamente all’imporsi crescente dell’obbligo di assicurazione e rendicontazione della qualità in un contesto di risorse sempre più limitate e di politiche gestionali sempre più improntate ai concetti di efficacia ed efficienza, hanno a loro volta contribuito a determinare l’esigenza di valutare l’impatto di tali progetti di formazione e sviluppo professionale, esplorandone l’effettiva utilità e rilevanza ai fini del miglioramento della qualità della didattica e dei processi di insegnamento e apprendimento. A questo proposito va sottolineato che l’insufficienza di valide e affidabili evidenze empiriche circa l’efficacia degli interventi messi in atto costituisce un tema ricorrente nella letteratura sull’argomento. In essa è frequente il rilievo espresso a proposito della sproporzione tra la numerosità delle iniziative attivate, soprattutto in alcuni Paesi come quelli anglosassoni o nordeuropei, e la scarsità di disegni valutativi in grado di coglierne gli effetti nella pratica didattica e di mettere nel contempo in luce gli elementi su cui far leva nella progettazione e realizzazione di nuove iniziative formative.

2. Obiettivi e interrogativi di ricerca A partire da tali premesse e in connessione alla necessità di accrescere, nel contesto italiano, la conoscenza della tematica qui affrontata, il presente contributo si propone di fare il punto sulle ricerche empiriche che hanno valutato l’impatto dei progetti di formazione all’insegnamento universitario nei diversi Paesi. Al fine di descrivere e mettere in luce impostazioni, modelli, criteri, evidenze e problematiche, si sono considerati non tanto i singoli studi empirici sul tema quanto le relative rassegne, data la loro disponibilità e la crescente importanza ad esse assegnata. I primi sforzi di ricognizione e di sintesi risalgono all’inizio degli anni Ottanta e si foca-

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lizzano su esperienze e ricerche svolte a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. Gli studi presi in esame da Carrol (1980) riguardano progetti formativi specificamente rivolti ai teaching assistants, così come quelli degli anni Ottanta analizzati nella rassegna di Abbott,Wulff e Szego (1989), mentre gli studi empirici considerati da Levinson-Rose e Menges (1981) sono relativi a progetti per docenti universitari con vario grado di esperienza. La rassegna di Weimer e Lenze del 1997 si rifà in gran parte ai criteri adottati da Levinson-Rose e Menges, aggiornando però la letteratura mediante l’inclusione di studi condotti negli anni Ottanta e in alcuni anni Novanta. Nel primo decennio del nuovo millennio si registrano inoltre ben cinque rassegne della letteratura sul tema. Una, pubblicata in lingua fiamminga, è di McAlpine (2003); un’altra è quella di Prebble, Hargraves, Leach, Naidoo, Suddaby e Zepke (2004) che prende in esame studi relativi al periodo 1990-2004 e, per il quinquennio successivo, è aggiornata dalla rassegna di Southwell e Morgan (2009); vi è poi la rassegna di Steinert, Mann, Centeno, Dolmans, Spencer, Gelula e Prideaux (2006) relativa al periodo 1980-2002 focalizzata però esclusivamente su progetti formativi rivolti a docenti universitari di area medica; infine, c’è la rassegna realizzata da Stes, Min-Leliveld, Gijbels e Van Petegem (2010) nella quale la ricerca della letteratura non è stata circoscritta a particolari periodi di tempo1. Una testimonianza della sempre maggiore importanza attribuita alle rassegne, connessa alla crescente esigenza di effettuare decisioni e azioni basate su evidenze empiriche, è per esempio rintracciabile nell’attenzione che il Department of Education degli Stati Uniti ha rivolto negli ultimi anni alla progressiva definizione di standard di qualità specificamente applicabili alle rassegne incentrate sulla valutazione dei programmi educativi. Anche il dibattito sulle evidenze emerse da tali programmi e sul come sintetizzarle è diventato sempre più intenso ed è tuttora assai vivace tra i ricercatori2. Connesso al concetto di impatto si pone infatti, tra gli altri, il problema dell’inferenza causale e quello del legame plausibile tra effetti e cause; è questo un problema di cui non possiamo fare a meno di sottolineare l’elevata complessità anche nel caso in cui si tratti di accertare la relazione non solo tra le attività formative rivolte ai docenti e l’apprendimento dei loro studenti, ma anche tra gli interventi dei formatori nei corsi e le performance effettiva dei docenti universitari. In relazione all’obiettivo di tipo ricognitivo e descrittivo qui privilegiato, e considerando il ruolo che sintesi e rassegne possono giocare nel supportare processi decisionali e interventi operativi fornendo agli stakeholders coinvolti la possibilità di fondare su evidenze empiriche le proprie scelte e azioni, gli interrogativi cui ci siamo proposte di dare risposta sono stati i seguenti: Quali le dimensioni e gli aspetti chiamati in causa dal concetto di impatto nell’ambito della formazione dei docenti? Quali i modelli e gli approcci valutativi utilizzati? Quanto sono stati considerati gli eventuali cambiamenti a livello di pratica didattica dei docenti “formati” e che cosa è emerso? Quanto sono state considerate le ricadute sugli apprendimenti degli studenti e, più in generale, sul contesto lavorativo? È possibile ricavare se, quando e perché funzionano le diverse iniziative formative?

1 Benché gli studi inclusi nelle rassegne siano tutti concernenti la valutazione dell’impatto dei progetti di formazione all’insegnamento universitario, è assai limitata la loro sovrapposizione. Questo dipende da vari fattori, quali l’arco di tempo considerato, la tipologia di utenti “formati” (per es. gli assistenti nelle rassegne di Carroll e di Abbott et al., i docenti di area medica in quella di Steinert et al.), il tipo di attività formativa (livelli diversi di formalizzazione), le modalità di ricerca e selezione della letteratura. 2 Si veda, per esempio, nella rivista Educational Researcher l’interessante dibattito sollecitato dal contributo di Slavin (2008) dal titolo What Works? Issues in Synthesizing Educational Program Evaluations.

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3. Il concetto di impatto e la sua valutazione Il concetto di impatto, spesso usato nella letteratura sulla formazione come sinonimo di altri termini che però non sono del tutto tali, richiama: a) la dimensione temporale, in quanto effetto/conseguenza che accade a medio/lungo termine o, secondo alcuni, anche a conclusione di un intervento formativo, b) il soggetto/livello coinvolto dall’effetto/conseguenza (individuale e/o organizzativo), c) il legame tra effetto/conseguenza e intervento (diretto e/o indiretto). Dalla considerazione di tali criteri, cui possiamo aggiungere quelli del valore dell’effetto/conseguenza (positivo/negativo) o dell’intenzionalità dell’effetto/conseguenza (previsto/imprevisto), si ricava in modo esplicito che la valutazione dell’impatto non può essere identificata soltanto con l’accertamento delle percezioni dei docenti partecipanti circa l’efficacia dei progetti formativi seguiti o delle loro autovalutazioni circa gli apprendimenti realizzati. Per cogliere effetti e ricadute della formazione nella loro molteplicità e articolazione è necessario andare oltre la superficie rappresentata dai punti di vista dei partecipanti3 e chiedersi quali siano i cambiamenti effettivamente innescati in seguito all’intervento formativo non solo nei docenti stessi, ma anche nei contesti ai quali appartengono e negli altri attori che in essi agiscono e interagiscono. Sono aspetti da cui traspare la complessità della valutazione dell’impatto; non si può infatti trascurare lo scoglio derivante dalla difficoltà, se non addirittura impossibilità, di misurare certi effetti, né sottovalutare il problema di isolare l’impatto effettivamente dovuto all’azione formativa. A ciò va aggiunto, come si è evidenziato, l’uso intercambiabile di termini non sinonimici (sottolineato per es. da Gray e Radloff, 2008), che facilitano gli equivoci e contribuiscono ad aumentare la complessità del tema. Con l’intento di migliorare e irrobustire la valutazione degli effetti dei programmi di formazione incentrati sulle competenze di insegnamento dei docenti universitari, sono stati proposti modelli valutativi basati su una concezione di impatto multidimensionale. A riferimento è stato ripreso, articolandolo, il modello gerarchico della valutazione della formazione di Kirkpatrick4 (1959, 1976, 1994, 2006). Tale modello riconosce la complessità dell’attività in questione proponendo quattro livelli di analisi caratterizzati da profondità e difficoltà crescenti: ciascun livello successivo al primo, infatti, consente una rilevazione più accurata e completa degli effetti dei progetti formativi, ma al tempo stesso implica procedure di raccolta e analisi dei dati maggiormente dispendiose in termini di tempo e di risorse. Il primo e più semplice livello, definito reaction, è costituito dal grado di soddisfazione espresso dai partecipanti in relazione all’utilità dei corsi complessivamente considerati e dal gradimento nei confronti di vari aspetti quali le modalità organizzative adottate, i contenuti trat-

3 Tali punti di vista possono tuttavia riflettere impostazioni molto diverse. Per esempio, vi sono ricercatori che, ritenendo indispensabile la valutazione dell’impatto della formazione ma assai difficile la sua realizzazione, per inferire l’impatto propongono sì l’uso di un “questionario di soddisfazione” ma lo collocano in una prospettiva sistemica della formazione tenendo conto delle dichiarazioni sulla pertinenza dell’azione formativa, sugli apprendimenti acquisiti e sull’effettiva realizzazione del loro transfer nel contesto professionale (Gerard, 2003). In tal caso i dati rilevati non corrispondono a quello che viene identificato solitamente come primo livello della formazione. 4 Kirkpatrick è considerato il padre dell’ambito della valutazione della formazione. Il termine impatto non compare nella denominazione di nessuno dei quattro livelli di esiti della formazione del suo modello; questo, tuttavia, costituisce il framework di molti modelli utilizzati nella valutazione di impatto dei progetti di formazione all’insegnamento dei docenti universitari. Essendoci limitati in questo contributo a far riferimento ai modelli considerati/delineati per tale tipo e contesto di valutazione, non vengono descritte le impostazioni sull’impatto di importanti studiosi della valutazione di progetti, quali per esempio Stufflebeam (1971, 2007) e Scriven (1972, 1991).

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tati, le metodologie didattiche utilizzate, la qualità dei formatori e delle relazioni entro il gruppo.Tali aspetti, per quanto inadeguati a cogliere l’effettivo impatto degli interventi formativi, risultano determinanti dal punto di vista della motivazione all’apprendimento dei partecipanti. Con il secondo livello, definito learning, si entra nel vivo degli effetti prodotti dai programmi sui destinatari e beneficiari diretti della formazione, in quanto l’oggetto della valutazione risulta costituito dal cambiamento nelle conoscenze, abilità e atteggiamenti dei partecipanti. Il terzo livello, definito behavior change, concerne invece l’applicazione delle competenze sviluppate durante la formazione per migliorare il proprio operato, dunque la loro traduzione in comportamenti concreti nella situazione lavorativa (transfer on the job). La considerazione di tali aspetti nelle attività di valutazione risulta fondamentale in quanto elevati livelli di soddisfazione e apprendimento non garantiscono, in modo automatico, il cambiamento delle prassi e dei comportamenti messi in atto: sul transfer incidono infatti diversi fattori, tra cui il supporto ricevuto nel periodo successivo alla conclusione delle attività formative. Il quarto e ultimo livello di valutazione, definito results, prende infine in esame le misure dell’impatto della formazione sulle finalità e sugli obiettivi dell’organizzazione. Per quanto complessi da misurare e valutare, l’importanza di considerare gli aspetti di tale livello si lega in particolare a quanto appena affermato circa i fattori che incidono sull’applicazione degli apprendimenti. Come evidenziano anche Knight e Trowler (2000), in mancanza di un impatto a livello istituzionale, e dunque di supporto e riconoscimento da parte del proprio contesto professionale, i cambiamenti innescati dai progetti formativi nei singoli partecipanti rischiano infatti di essere riassorbiti nelle prassi e nelle dinamiche tradizionali. Rifacendosi ai livelli di Kirkpatrick, nel loro modello Hoyt e Howard (1978) differenziano tre tipi di dati da utilizzare negli studi valutativi: quelli che descrivono le reazioni dei partecipanti all’esperienza formativa, i dati relativi ai cambiamenti nei comportamenti e quelli che costituiscono una diretta evidenza del miglioramento nell’efficacia didattica. Ancora più evidente è la trasposizione dei livelli di Kirkpatrick nel modello gerarchico di Smith e Beno (1993); vengono infatti considerati i dati relativi a: 1) la reazione dei partecipanti al progetto formativo dopo ogni attività, 2) i cambiamenti delle loro conoscenze relative all’insegnamento e all’apprendimento, 3) le modificazioni dei loro comportamenti e atteggiamenti, 4) l’impatto sugli studenti e sull’organizzazione. Gli effetti su quest’ultima non vengono analizzati in alcuni altri modelli di anni successivi, per esempio quello di Chism e Szabó (1997) che, oltre al grado di soddisfazione dei docenti partecipanti, fa riferimento alle ricadute dell’intervento formativo sui docenti partecipanti e sui loro studenti. Anche nel modello valutativo di Guskey (2000, 2002) si ritrovano i livelli della reaction e del learning dei partecipanti; il terzo livello del behaviour change si trasforma invece nell’uso di nuove conoscenze e abilità e il quarto viene specificato come outcomes di apprendimento degli studenti e non soltanto come risultati desiderati.Tra il secondo e il terzo livello, inoltre, viene aggiunto quello del cambiamento e supporto a livello dell’organizzazione; la valutazione dei cambiamenti prodotti a seguito degli interventi formativi rivolti ai docenti viene infatti interpretata anche come documentazione del supporto a questi fornito in termini materiali (risorse e incentivi) e simbolici (incoraggiamento, riconoscimento e valorizzazione) prima e durante la partecipazione alla formazione. Kreber e Brook (2001), dal canto loro, identificano sei livelli di valutazione dell’impatto, dal più basso al più alto: 1) percezione e soddisfazione della formazione da parte dei partecipanti, 2) convinzioni dei partecipanti sull’apprendimento e insegnamento, 3) performance d’insegnamento dei partecipanti, 4) percezioni da parte degli studenti della performance d’insegnamento, 5) apprendimenti degli studenti, 6) cultura dell’istituzione (compreso il cambiamento istituzionale). Si tratta del modello adottato in diversi studi, come pure nelle rassegne di Prebble et al. (2004) e di Southwell e Morgan (2009).

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Nella rassegna di Levinson-Rose e Menges (1981) e in quella di Weimer e Lenze (1997) sono invece state utilizzate cinque categorie, di cui tre riferite ai cambiamenti dei docenti partecipanti alla formazione (atteggiamenti, conoscenze, abilità) e due a quelli dei loro studenti (atteggiamenti e apprendimenti). Quanto alle rassegne più recenti, sono state operate in esse alcune rielaborazioni a partire dalla versione parzialmente modificata del modello di Kirkpatrick proposta da Freeth et al. (2003). In particolare sono stati rivisti il secondo e il quarto livello di analisi, cioè quelli definiti learning e results. Quest’ultimo livello è stato inteso nei termini di “apprendimento organizzativo” e di effetti prodotti sui beneficiari indiretti, vale a dire di ricadute sulla cultura, sul clima e sulle strategie istituzionali, nonché di impatto sugli studenti, aspetto già evidenziato da Kreber e Brook (2001) e da Guskey (2002), isolato dalla più ampia categoria dell’impatto istituzionale e articolato in vari tipi di outcomes relativi a percezioni, approcci e risultati di apprendimento. In relazione al livello costituito dagli apprendimenti dei docenti partecipanti, Stes et al. (2010) hanno recuperato e aggiunto il cambiamento nelle concezioni relative all’insegnamento, in quanto la presa di consapevolezza e lo sviluppo delle teorie implicite dei docenti rientrano spesso tra gli obiettivi formativi dei programmi e, aspetto che noi condividiamo, vengono ritenute di importanza critica nel favorire un’effettiva modificazione delle prassi didattiche. Gli autori delle rassegne hanno escluso dalle loro sintesi le ricerche empiriche incentrate esclusivamente su dati relativi al livello reaction, e dunque alle percezioni dei docenti circa la positività e utilità dell’esperienza e alla loro soddisfazione; tale livello nella rassegna di Stes et al. (2010) è stato addirittura eliminato dal framework adottato. Si tratta infatti di una dimensione che, in base a una posizione condivisa da vari autori (per es. Holton, 1996, nel cui modello vengono considerati i risultati relativi all’apprendimento, alla performance e all’organizzazione), non fornisce propriamente misure di impatto. Nei framework per la valutazione dell’impatto degli interventi formativi rientrano inoltre altri aspetti quali, per esempio, la loro durata, il tipo di obbligatorietà e di incentivi/riconoscimento, il livello di formalizzazione e le metodologie adottate, gli anni di esperienza e altre caratteristiche dei partecipanti. Inoltre, benché lo scopo dei progetti di formazione all’insegnamento sia quello di migliorare la qualità dell’apprendimento degli studenti accrescendo la qualità dell’insegnamento, in relazione al modello/quadro teorico di sviluppo professionale dei docenti assunto (per es. Gilbert e Gibbs, 1999) il focus del/i cambiamento/i perseguito/i dagli interventi formativi può essere posto su uno o più aspetti relativi all’attività di insegnamento (per es. comportamento didattico, cambiamento concettuale, pratica riflessiva) oppure può essere rivolto anche ad aspetti relativi agli studenti (per es. loro approccio all’apprendimento). Già da queste esemplificazioni si può comprendere la varietà delle misure e degli indicatori di impatto utilizzati nei vari studi empirici analizzati nelle diverse rassegne e la conseguente complessità di una loro comparazione.

4. Impostazioni ed esiti delle rassegne5 In base alla nostra ricognizione della letteratura internazionale, la prima rassegna specificamente incentrata sugli effetti dei programmi di formazione all’insegnamento per docenti universitari è quella effettuata da Carroll (1980), che si focalizza in particolare su iniziative

5 Rispetto alle rassegne precedentemente citate, non si considerano qui i risultati della rassegna di McAlpine (2003) in quanto pubblicata in lingua fiamminga e relativa soltanto a sette studi.

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rivolte ai teaching assistants (TAs). I 24 studi valutativi considerati nella rassegna, dalla quale sono state escluse le indagini incentrate esclusivamente su dati relativi alla soddisfazione dei partecipanti, sono stati classificati e analizzati in base ai tipi di outcomes rilevati, suddivisi in TA variables (cambiamenti nelle conoscenze, atteggiamenti e comportamenti dei partecipanti) e student variables (cambiamenti nelle attitudini e nei risultati degli studenti e nelle loro percezioni sui docenti e sui corsi), e in base al tipo di disegno adottato (correlational, preexperimental, quasi-experimental, true-experimental). Per quanto concerne i risultati emersi, la maggior parte degli studi considerati rivela effetti positivi dei programmi formativi sia sui docenti (in 14 casi su 17) sia, in misura minore (in 11 casi su 19), sui loro studenti, ma l’autore sottolinea che i dati disponibili non consentono di trarre conclusioni definitive in quanto la scarsità e la “debolezza” metodologica degli studi effettuati rendono necessari ulteriori approfondimenti e conferme attraverso l’uso di disegni valutativi più articolati, robusti e rigorosi. È quanto mettono in evidenza anche Abbott et al. (1989) nella loro rassegna relativa a 13 studi, tutti degli anni Ottanta, concernenti i teaching assistants. Quasi contemporanea alla rassegna di Carroll è quella effettuata da Levinson-Rose e Menges (1981), limitata al quindicennio 1965-1980 e in questo caso focalizzata sull’impatto di iniziative rivolte non a uno specifico target group, bensì a docenti universitari di vario grado ed esperienza. Rispetto alla precedente review cambiano anche, almeno in parte, i criteri adottati per l’individuazione, la classificazione e l’analisi dei 71 studi presi in esame. Essi si basano da un lato sulla tipologia di intervento di instructional improvement oggetto di valutazione (sovvenzioni per progetti di innovazione della didattica, workshops e seminari, analisi delle valutazioni espresse dagli studenti, esercitazioni pratiche, uso di film e videotape) e, dall’altro lato, su 5 categorie relative al tipo di effetto rilevato (cambiamenti negli atteggiamenti, conoscenze e prassi dei docenti e cambiamenti negli atteggiamenti e negli apprendimenti degli studenti). Le indagini incentrate esclusivamente su dati relativi a una o a entrambe le prime due categorie di outcome, cioè agli atteggiamenti e alle conoscenze dei partecipanti, sono state escluse dalla rassegna. Nel complesso, i risultati degli studi analizzati indicano effetti positivi per il 78% degli interventi presi in esame, anche se tale percentuale si abbassa al 62% quando si considerano esclusivamente quelli reputati dagli autori come maggiormente attendibili; sebbene nella maggior parte dei casi emergano ricadute positive, molte delle ricerche svolte vengono infatti giudicate di bassa qualità. In particolare, nella rassegna vengono messe in rilievo le seguenti criticità: gran parte dei dati si colloca al livello più superficiale rappresentato dalla soddisfazione e dalle percezioni dei partecipanti, mentre sono necessarie misure di performance volte a rilevare in modo più diretto e rigoroso i cambiamenti effettivi nei comportamenti e negli approcci adottati; non si tiene conto delle differenze individuali tra docenti e tra studenti; le variabili dipendenti considerate sono definite e operazionalizzate in maniera eterogenea e dunque poco comparabile; mancano dati di natura qualitativa; gli studi svolti sono spesso frammentati e isolati e mancano progetti di ricerca di tipo interistituzionale. La rassegna effettuata da Weimer e Lenze (1997), che rispetto alle altre si caratterizza per un approccio di tipo più qualitativo e descrittivo, si propone come aggiornamento di quella precedente. I criteri generali su cui basa la rassegna sono gli stessi adottati da Levinson-Rose e Menges, cioè il tipo di intervento e di effetti oggetto di valutazione, mentre sono almeno in parte diverse le specifiche categorie di analisi considerate; il cambiamento nel tempo delle tipologie di attività e iniziative rivolte al miglioramento dell’insegnamento universitario ha spinto infatti gli autori a rivedere parzialmente le categorie relative a tale criterio (workshops, seminari e programmi; consulenza individuale; sovvenzioni per progetti di innovazione della didattica; distribuzione di materiali; supporto tra colleghi). Per quanto concerne invece il secondo criterio, le categorie restano le stesse, ma in questo caso non vengono escluse le

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indagini incentrate esclusivamente su dati relativi alle prime due (atteggiamenti e conoscenze dei docenti). I risultati degli studi valutativi presi in esame sono ancora una volta complessivamente positivi, ma si sottolinea che le evidenze disponibili non consentono di trarre conclusioni definitive e generalizzabili circa l’efficacia degli interventi. Nonostante gli anni di distanza dalla review di Levinson-Rose e Menges, sembrano infatti permanere le stesse problematiche e criticità relative agli orientamenti e all’impianto delle ricerche, come il predominante ricorso a percezioni e punti di vista dei docenti e la carenza di evidenze empiriche più robuste e attendibili circa il cambiamento nelle loro pratiche di insegnamento e nei risultati degli studenti. In conclusione gli autori evidenziano dunque la necessità di intensificare la ricerca sul campo, di adottare disegni più sofisticati, di utilizzare misure più dirette e rigorose e di ampliare le metodologie di indagine superando un approccio prettamente quantitativo. La successiva rassegna è quella effettuata da Prebble et al. (2004) su richiesta del Ministro dell’Educazione della Nuova Zelanda, la quale prende in esame la letteratura pubblicata nel periodo 1990-2004. I criteri generali adottati per la classificazione e l’analisi dei 33 studi individuati sono, come nei due casi precedenti, il tipo di iniziativa e di effetti oggetto di valutazione, mentre sono parzialmente diverse le specifiche categorie di analisi considerate. Per quanto riguarda il primo criterio, le categorie identificate da Levinson-Rose e Menges e da Weimer e Lenze vengono aggiornate alla luce dei nuovi sviluppi nel campo (corsi brevi; programmi estesi nel tempo; formazione in situ; consulenza, valutazione tra pari e mentoring; analisi delle valutazioni espresse dagli studenti); per quanto riguarda invece il secondo criterio gli autori, facendo esplicito riferimento al modello di Kreber e Brook (2001), aggiungono alle categorie di impatto precedentemente considerate un’ulteriore dimensione relativa agli effetti a livello istituzionale, cioè sulla cultura dell’organizzazione di appartenenza dei docenti partecipanti. Vengono inoltre incluse nella rassegna le indagini riconducibili alle seguenti tipologie: studi quantitativi condotti su ampi campioni e su scala interistituzionale; studi quantitativi ma condotti all’interno di una singola istituzione; studi qualitativi sulla base di dati provenienti da più istituzioni; studi qualitativi riguardanti singole istituzioni; studi di natura teorica ma che sintetizzano gli esiti di più studi quantitativi. I risultati della rassegna, anche in questo caso complessivamente positivi circa l’impatto delle iniziative considerate, portano gli autori a concludere che attraverso una molteplicità di interventi di formazione e sviluppo professionale i docenti possono essere supportati nel miglioramento del proprio insegnamento. Si sottolinea, tuttavia, che i corsi brevi tendono ad avere un impatto limitato sul cambiamento delle concezioni e delle prassi dei docenti e risultano più efficaci per trasmettere informazioni o per la formazione in specifiche abilità e tecniche, mentre le altre tipologie di intervento sembrano in grado di produrre più rilevanti effetti sulla qualità della didattica e degli apprendimenti degli studenti. I risultati emersi, inoltre, vengono interpretati con cautela, in quanto non solo le varie ricerche condotte risultano difficilmente comparabili, ma in gran parte si limitano a valutare l’impatto dei programmi basandosi su opinioni e autovalutazioni dei partecipanti senza esaminare in modo più rigoroso e sistematico i cambiamenti nelle loro prassi e nei risultati degli studenti.Tali conclusioni vengono confermate e messe in evidenza dalla rassegna di Southwell e Morgan (2009), che prende in esami 28 studi aggiornando per il periodo 2004-2009 la rassegna di Prebble et al. (2004) e adottandone impostazione e finalità. Steinert et al. (2006) hanno effettuato una rassegna che si differenzia dalle altre in quanto incentrata su programmi di formazione all’insegnamento specificamente rivolti a docenti universitari di area medica. Tale rassegna, che ha incluso 53 studi individuati mediante il ricorso a tre diverse banche dati di natura disciplinare e circoscrivendo la ricerca al periodo 1980-2002, è stata guidata dal conceptual framework sviluppato dai ricercatori che si caratterizza

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per i seguenti aspetti: riconosce che l’insegnamento fa parte di un più ampio insieme di attività e ruoli assegnati agli accademici; sottolinea che l’impatto degli interventi volti a migliorarne l’efficacia risulta mediato da numerosi fattori di natura contestuale; evidenzia che tale impatto può e deve essere osservato a vari livelli. Per quanto concerne in particolare quest’ultimo aspetto, gli effetti dei programmi vengono classificati e analizzati in base a una versione leggermente riadattata del modello di Kirkpatrick (1998) così come modificato da Freeth et al. (2003), vale a dire considerando le seguenti categorie: reaction (punti di vista dei docenti partecipanti sull’esperienza formativa, organizzazione, contenuti, metodologia adottata); learning (distinguendo i cambiamenti nei loro atteggiamenti da quelli nelle conoscenze e abilità); behavior (cambiamenti nelle loro prassi e comportamenti); results (impatto sull’organizzazione e impatto sui colleghi e sugli studenti). Gli studi che riportano esclusivamente dati relativi alla prima dimensione sono stati esclusi dalla rassegna. Per quanto riguarda invece il tipo di intervento, a differenza delle altre review, gli autori hanno scelto di focalizzarsi principalmente sulle modalità più formali, collettive e strutturate di sviluppo professionale considerando le seguenti categorie di analisi: workshops; corsi brevi; cicli di seminari; programmi estesi nel tempo. Nel complesso, dalla rassegna emerge non solo un elevato grado di soddisfazione per tali iniziative, ma soprattutto che esse sembrano in grado di promuovere il miglioramento dei docenti e della didattica (in particolare quelle di durata più estesa); per quanto concerne l’impatto sugli studenti e quello organizzativo gli autori affermano che gli studi svolti sono ancora troppo pochi, ma anche in questo caso si riscontrano effetti complessivamente positivi. Ancora una volta, tuttavia, si sottolineano i limiti degli studi condotti e si evidenziano esigenze molto simili a quelle messe in luce dalle rassegne precedenti, quali ad esempio: utilizzare disegni più robusti e rigorosi; integrare metodi quantitativi e qualitativi; fare maggiore riferimento a misure di tipo performance-based; utilizzare varie fonti di dati e vari strumenti; aumentare la comparabilità tra gli studi svolti, ad esempio impiegando strumenti standardizzati; promuovere progetti di ricerca di tipo collaborativo e interistituzionale; indagare l’impatto a lungo termine dei programmi; dedicare più attenzione all’impatto istituzionale e a quello sull’apprendimento degli studenti. L’ultima rassegna comparsa in ordine di tempo è quella di Stes et al. (2010), che rispetto alla precedente torna ad occuparsi di iniziative di instructional development di vario tipo e rivolte a docenti universitari di diverse discipline e vari anni di esperienza. Il framework alla base di tale rassegna, che ha incluso 36 studi reperiti attraverso il database ERIC senza limitare temporalmente la ricerca, è costituito anche in questo caso da un adattamento del modello di Kirkpatrick, ma rispetto alla rassegna di Steinert e collaboratori vengono introdotti maggiori aggiustamenti: il primo livello di valutazione (reaction) viene eliminato, in quanto si ritiene che la soddisfazione dei partecipanti non dica nulla circa l’impatto degli interventi; al secondo livello (learning) viene aggiunta una sub-categoria relativa ai cambiamenti nelle concezioni sull’insegnamento, ritenute di importanza critica ai fini di una modificazione delle prassi dei docenti; gli effetti sugli studenti vengono separati dalla più ampia categoria dell’impatto istituzionale, andando a costituire un livello a sé stante. In conclusione, il modello di riferimento della rassegna risulta articolato nei seguenti livelli e sotto-livelli: 1) cambiamenti nei docenti (atteggiamenti, concezioni, conoscenze, abilità e comportamenti); 2) cambiamenti negli studenti (percezioni sui docenti e sui corsi, approcci allo studio e risultati di apprendimento); 3) impatto istituzionale (cambiamenti organizzativi). Considerando complessivamente gli studi presi in esame e i vari livelli di impatto, dalla rassegna emergono in 86 casi effetti positivi, in 17 casi effetti solo parzialmente positivi e, soltanto in 3 casi, non si riscontra alcun tipo di effetto. Sebbene dunque l’impatto delle iniziative considerate appaia generalmente positivo, anche in questo caso si suggerisce cautela nell’interpretazione dei risultati in ragione di una serie di questioni problematiche, già evidenziate dalle precedenti

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rassegne, relative alle caratteristiche della letteratura disponibile. Per quanto riguarda i tipi di outcomes misurati, ad esempio, la maggior parte degli studi considerati si concentra sugli apprendimenti (27) e sui comportamenti (31) dei docenti partecipanti, mentre minore attenzione viene dedicata all’impatto sugli studenti (12) e a quello istituzionale (9); in quasi tutti i casi, inoltre, si fa riferimento a dati di tipo self-report, cioè a quanto percepito e dichiarato dai partecipanti stessi. Dal punto di vista metodologico si sottolinea l’esigenza di disegni di ricerca più rigorosi e affidabili (esperimenti e quasi-esperimenti, mixed-method approach), di studi longitudinali e di una maggiore comparabilità tra le ricerche e tra i risultati prodotti. Viene infine indicata la necessità di indagare e approfondire la questione delle differenze di impatto connesse alle caratteristiche delle varie iniziative formative, quali durata, tipologia e destinatari; rispetto a ciò, i risultati della sintesi effettuata suggeriscono che gli interventi più estesi nel tempo incidono maggiormente sulla modificazione dei comportamenti dei partecipanti e che, rispetto ad altre forme più innovative, gli interventi di stampo tradizionale (corsi di varia durata) producono un impatto più positivo a livello degli studenti, ma si tratta di riscontri che richiedono ulteriori indagini di approfondimento e conferme.

Considerazioni conclusive Esaminando nel loro insieme caratteristiche ed esiti delle rassegne disponibili circa l’impatto delle iniziative volte a potenziare le competenze di insegnamento dei docenti universitari è possibile effettuare, a nostro avviso, alcune considerazioni generali. In primo luogo si tratta di review che, pur perseguendo obiettivi molto simili, si differenziano per vari aspetti quali le scelte effettuate in relazione alle tipologie di intervento considerate e ai criteri di analisi adottati, rendendo dunque problematica la comparazione dei risultati. Anche la scarsa sovrapposizione esistente tra gli studi e le ricerche che ciascuna di esse ha preso in esame può essere vista come un segnale di tali differenze di approccio. In secondo luogo, pur nella diversità di impostazioni e opzioni, tutte le rassegne prese in esame giungono a conclusioni simili rispetto agli effetti e ricadute degli interventi considerati ma anche rispetto ai limiti, alle perplessità e ai problemi (soprattutto di natura metodologica) che inficiano validità e attendibilità dei risultati emersi. Sembrerebbe insomma che, nel corso del tempo, non si siano fatti sufficienti sforzi in direzione di una valutazione di impatto più sistematica e rigorosa o, forse più realisticamente, non si è riusciti a perseguire tale traguardo. A meno che ci si limiti a rilevare le percezioni di impatto dichiarate dai soggetti coinvolti, vale a dire il cosiddetto impatto percepito, le difficoltà da affrontare e superare sono molteplici e per certi aspetti insormontabili. Per poter valutare l’impatto della formazione in termini di inferenza causale o di legame plausibile tra effetti e cause, occorrerebbe riuscire a comparare ciò che è accaduto con ciò che avrebbe avuto luogo in assenza dell’intervento formativo ma, al di là della indisponibilità di tali dati, resterebbe comunque il problema di come riuscire a precisare in quale misura tale differenza sia determinata dall’intervento della formazione e/o da quello di altre variabili. Un cambiamento in positivo emerge invece a livello dei modelli e presupposti teorici alla base delle rassegne, che in quelle più recenti appaiono improntati a una concezione più complessa e articolata di impatto; esso infatti arriva a inglobare le ripercussioni sul contesto istituzionale, anche se poi nella pratica tale dimensione risulta ancora scarsamente esplorata. Alla luce degli obiettivi del presente contributo l’aspetto che tuttavia ci appare più importante consiste nello scarso approfondimento, negli studi considerati dalle rassegne, di analisi longitudinali multimetodo che mirino a rilevare i processi di cambiamento durante le attività formative e a lungo termine, nonché di analisi di approfondimento delle relazioni

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esistenti tra le caratteristiche dei percorsi formativi, nonché dei partecipanti, e l’impatto degli interventi. A questo si lega, a nostro avviso, la difficoltà di trarre e ricavare dalle esperienze condotte implicazioni e indicazioni operative per la progettazione e realizzazione di analoghe iniziative. Come affermano anche Stes et al. (2010), gli studi svolti per valutare l’impatto della formazione spesso riportano solo generiche e scarse informazioni sulla natura delle iniziative prese in esame, e ciò limita la possibilità di individuare quali elementi e fattori contribuiscano maggiormente a rendere efficaci gli interventi formativi o siano maggiormente collegati ad essi. Tanto la necessità di indagare l’impatto a livello istituzionale quanto quella di soffermarsi sulla natura degli interventi si legano all’esigenza, messa in luce da alcuni autori (ad es. Chatterji, 2008), di collocare la valutazione di impatto dei programmi formativi in una prospettiva sistemica, cioè allargata alla considerazione di fattori di influenza esterni ai programmi stessi, e contestualizzata, cioè volta a leggere e interpretare i risultati alla luce delle specificità dei contesti formativi e a comprendere gli aspetti e le modalità che possono aver contribuito a determinarli, in relazione a una teoria del cambiamento. In tale ottica, infatti, gli studi valutativi e le rassegne volte a sintetizzarne gli esiti possono acquisire effettiva utilità e rilevanza nel supportare politiche, decisioni e azioni che, in questo caso, sono relative agli interventi di formazione – iniziale e continua – all’insegnamento universitario.

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Ricerche Il Progetto PQM (Progetto Qualità e Merito). Interventi a supporto della qualità dell’insegnamento-apprendimento nella scuola secondaria di primo grado The PQM Project (Quality and Merit Project). Actions to support teaching and learning quality in secondary school ALESSANDRA LA MARCA La ricerca si è svolta all’interno del progetto PQM (Progetto Qualità e Merito) durante gli anni scolastici 2010/2011 e 2011/12. L’indagine ha interessato alcuni ambiti operativi individuati come rappresentativi dell’impegno professionale degli insegnanti partecipanti al progetto; precisamente sono stati oggetto di analisi gli interventi formativi rivolti ai docenti Tutor di Progetto e quelli rivolti ai docenti Tutor di Istituto. Abbiamo voluto verificare in che modo 157 docenti (Tutor di Progetto) di scuola secondaria di primo grado (Sicilia 47, Calabria 24, Puglia 39, Campania 44), ciascuno con un’expertise professionale di almeno cinque anni, distribuiti su due ambiti disciplinari (Matematica 105 e Italiano 52), sono stati formati ed hanno a loro volta formato i Tutor di Istituto. Ci siamo proposti di offrire agli insegnanti (Tutor di Progetto e Tutor di Istituto) spunti di riflessione sui processi di insegnamento affinché essi fossero sollecitati ad interrogarsi per definire atteggiamenti, stili comunicativi, metodologie educativo-didattiche, strumenti e contenuti adeguati allo sviluppo di quelle competenze matematiche e linguistiche degli alunni che erano risultate insufficienti nell’ultima valutazione esterna effettuata dall’INVALSI. Con la ricerca abbiamo potuto mettere a fuoco ciò che un docente fa quando crea e gestisce situazioni/esperienze che ritiene possano suscitare, in altri docenti, dei cambiamenti che permettano loro di affrontare adeguatamente le difficoltà incontrate. È stato inoltre possibile, attraverso l’analisi delle pratiche educative degli insegnanti coinvolti nella ricerca, individuare metodologie didattiche per la matematica e la lingua italiana che possono migliorare la motivazione ad apprendere negli studenti della scuola secondaria di primo grado.

The research was performed within the PQM project (Progetto Qualità e Merito), in the school years 2010/11 and 2011/12. Our investigation focused on ‘areas’ considered representative of the professional commitment of teachers participating in the project: we specifically analyzed training interventions aimed at teachers who are Project tutors and at teachers who are Tutors of the Institute. We wanted to study and verify how the first were trained and how they, in turn, trained Tutor of the Intstitute. Totally 157 teachers (Project tutors) were involved.They are from different Italian regions (Sicily 47, Calabria 24, Puglia 39, Campania 44) and teach two different disciplines: Mathematics (105) and Italian (52). All the teachers work in the first years of the secondary school (11-13 years old children) and have a professional expertise of at least 5 years. Our aim was to offer teachers (Project Tutors and Tutors of the Institute) reflection cues on the processes of teaching. They were encouraged to ask questions, to define attitudes, communication styles, educational and teaching methodologies, tools and content appropriate for the development of those skills which were considered inadequate according to the results of the external evaluation of learning made by INVALSI. With the research we were able to focus on what a teacher does when he creates and manages situations / experiences in order to encourage, in other teachers, those changes that allow them to properly address the difficulties encountered. Through the analysis of educational ‘practices’ it was also possible to identify teaching methods for Mathematics and the Italian language which can enhance students' motivation to learn.

Parole chiave: analisi delle pratiche educative, motivazione, metodologie didattiche, processi di insegnamento

Key words: analysis of educational practices, motivation, teaching methodologies, processes of teaching

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Gran parte dell’impegno riformatore che ha interessato molti sistemi scolastici – e che ha toccato e tocca ancora il nostro Paese – ha posto in primo piano la questione dell’innalzamento dei livelli qualitativi di apprendimento in uscita dalla scuola, a partire da quella dell’obbligo; i risultati relativamente recenti delle indagini promosse dall’OCSE (Indagine PISA, Program for International Student Assessment) hanno rafforzato la consapevolezza dell’urgenza di affrontare la questione. Per poter innescare un processo di miglioramento dei livelli di apprendimento scolastico, occorre avere a disposizione risultati attendibili e confrontabili, raccolti mediante un efficace sistema di valutazione oggettiva degli apprendimenti degli alunni. Il contributo che un sistema standardizzato di misurazione degli apprendimenti fornisce alle scuole integra, infatti, la valutazione effettuata dagli insegnanti nelle loro classi con un punto di riferimento esterno capace di garantire la comparabilità dei risultati. La necessità di incrementare la qualità e l’efficacia dell’insegnamento scolastico induce ad interrogarsi, tra l’altro, sulle possibilità e sulle vie per offrire, attraverso la didattica, stimoli ed esperienze atti a promuovere le potenzialità personali dei discenti. Il MIUR, nell’ambito della sua complessiva strategia di rafforzamento del sistema scolastico, di innalzamento dei livelli di apprendimento della popolazione e di riduzione dei tassi di dispersione, ha avviato un’azione di supporto alle scuole, finalizzata a promuovere, sul territorio nazionale, un processo di potenziamento delle competenze chiave degli alunni. Il progetto PQM (Progetto Qualità e Merito) oggetto della ricerca, si inserisce coerentemente in questa linea di sviluppo e innovazione tracciata dal MIUR. Il progetto PQM supporta le scuole nello sviluppo di competenze ritenute indispensabili per migliorare la qualità dell’istruzione e i livelli degli apprendimenti e si propone di utilizzare i risultati di una valutazione esterna degli apprendimenti per progettare azioni di miglioramento rivolte agli studenti ma, soprattutto, agli insegnanti, mediante azioni di coaching mirate ad una didattica più efficace. All’interno del Progetto PQM è stata svolta una ricerca in cui abbiamo voluto mettere a fuoco ciò che un docente fa quando crea e gestisce situazioni/esperienze che ritiene possano suscitare, in altri docenti, dei cambiamenti che permettano loro di affrontare adeguatamente le difficoltà incontrate. L’indagine ha interessato alcuni ambiti operativi individuati come rappresentativi dell’impegno professionale degli insegnanti partecipanti al Progetto PQM; precisamente sono stati oggetto di analisi gli interventi formativi rivolti ai docenti Tutor di Progetto1 e quelli rivolti ai docenti Tutor di Istituto. Abbiamo voluto verificare in che modo 157 docenti (Tutor di Progetto) di scuola secondaria di primo grado delle Regioni Obiettivo Convergenza (Sicilia 47, Calabria 24, Puglia 39, Campania 44), ciascuno con un’expertise professionale di almeno cinque anni, distribuiti su due ambiti disciplinari (Matematica 105 e Italiano 52) sono stati formati ed hanno a loro volta formato i Tutor di Istituto.

1 I Tutor di Progetto, sono docenti di matematica e italiano selezionati dagli Uffici Scolastici Regionali e formati dall’ANSAS per predisporre e proporre i Piani di Potenziamento per gli Istituti partecipanti, per supportare i Tutor di Istituto, tramite un programma di incontri in presenza e aula virtuale, definito dall’ANSAS, per validare gli strumenti didattici e per moderare il forum di classe. I Tutor di Progetto si sono impegnati a sostenere i Tutor di Istituto nella sperimentazione aiutandoli ad essere puntuali negli incontri in presenza e online secondo il piano di lavoro concordato e a rispettare i tempi e gli impegni; li hanno agevolati nella fruizione degli strumenti forniti dall’ANSAS (cartacei e tecnologici) e sostenuti nel progettare il piano di miglioramento e nell’elaborazione del report finale.

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I Tutor di Progetto hanno “preso in carico” un gruppo di circa 10 Tutor di Istituto ciascuno e hanno lavorato all’interno del proprio network di 5 scuole, per rispondere ai bisogni formativi dei Tutor di Istituto. L’analisi delle pratiche formative dei Tutor di Progetto, da noi raccolte, ci ha permesso di verificare quali azioni formative sono risultate più efficaci per innescare l’innovazione nella didattica curricolare, come effetto finale della formazione ricevuta.

1. Il quadro teorico Lo sviluppo delle abilità cognitive attraverso l’apprendimento dei contenuti disciplinari costituisce un mandato fondamentale della scuola, a qualsiasi livello. L’attività didattica dovrebbe essere progettata come un vero e proprio “allenamento” per sviluppare negli alunni le potenzialità latenti e indirizzarle verso l’acquisizione delle competenze di base necessarie ad affrontare lo studio delle discipline (Pedone, 2008). La riflessione pedagogica sottolinea in maniera particolare la necessità di offrire, attraverso l’insegnamento, stimoli allo sviluppo di abilità cognitive complesse, di secondo livello, strategiche sul piano della conquista dell’autonomia conoscitiva e personale (Altet, Paquay, Perrenoud, 2002). Gli studi psicologici sull’intelligenza e sull’apprendimento offrono quadri descrittivo-esplicativi sempre più ricchi, che consentono di tenere conto più compiutamente del complesso intreccio delle variabili che intervengono nell’apprendimento, da quelle cognitive e metacognitive, a quelle volitivo-affettive e relazionali (La Marca, 2010). Nell’attuale enfasi che si registra a livello internazionale attorno alla “competenza”, riconosciuta comunemente quale categoria fondamentale attraverso la quale leggere i traguardi attesi e certificabili della formazione scolastica (già a partire dai primi livelli di scolarità), il significato correntemente attribuito al termine ha a che fare, in generale, con la spendibilità di quanto si apprende a scuola, con la possibilità di avvalersene come risorsa stabilizzata ma potenzialmente dinamica, da richiamare anche in situazioni che non rispecchino direttamente i contesti originali di apprendimento. In altri termini, ci si aspetta dalla scuola che promuova apprendimenti per la vita, utilizzabili, quando necessario e opportuno, nella scuola e al di fuori di essa. La competenza richiama la possibilità di mettere in rete (Allal,1999) quanto si sa e si sa fare, di attivare le proprie capacità, di valorizzare le condizioni contestuali per affrontare un compito. Uno studente raggiunge un livello di competenza ottimale non soltanto quando riesce a ‘trasferire’ da una situazione ad un’altra, da un compito ad un altro, conoscenze e procedure, ma quando sa ‘fare sintesi’, in maniera rispondente alla situazione, di ciò che ha appreso e di quanto ha disposizione per affrontare problemi contestualizzati (Zimmermann, 2001). Il criterio della competenza richiama direttamente l’attenzione didattico-valutativa sul profilo formativo in uscita dello studente (al termine di un anno o di un ciclo scolastico), che costituisce una sorta di rappresentazione ‘incarnata’ dei saperi proposti dalla scuola, fatti propri e tradotti in potenziale di azione da parte dello studente. Gli esiti formativi degli allievi costituiscono di fatto un punto di riferimento per la valutazione della produttività del servizio scolastico e per il suo miglioramento: in molti sistemi scolastici la valutazione degli Istituti e quella dei docenti avviene sulla base dei risultati formativi ottenuti dagli allievi, rilevati mediante procedure di testing degli apprendimenti somministrate a livello locale o nazionale. È stato però giustamente osservato che per valutare correttamente un docente o un intero istituto non basta esaminare i risultati finali degli alunni ma occorre prendere in considerazione il grado di miglioramento degli alunni tra l’inizio e la fine dell’anno scolastico e confrontarlo con quello ottenuto dagli altri insegnanti e dagli altri istituti.

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Recepire sul piano operativo l’esigenza di disporre di un efficace sistema di valutazione oggettiva degli apprendimenti comporta non poche difficoltà, se si considerano le differenze interindividuali tra gli allievi (in termini di apprendimenti pregressi, di attitudini, di stili e ritmi di apprendimento e così via…) a fronte di standard formativi di livello relativamente alto, quali sono quelli individuati dal criterio della competenza, così come comunemente è inteso nel dibattito pedagogico internazionale. Occorre infine considerare che la relazione tra qualità degli insegnamenti e qualità degli apprendimenti non è di tipo strettamente causale, considerata la quantità di variabili che intervengono nel determinare i risultati formativi (Damiano, 2004; Tardif, Lessard, 2000). Per l’analisi delle pratiche di insegnamento esistono diversi approcci che non sono tutti convergenti. La pluralità di approcci che si sono susseguiti nello studio delle pratiche rispecchiano una necessità metodologica di fondo: le situazioni educative e le loro complessità non possono essere comprese con un’unica, singola prospettiva; necessitano, invece, dell’articolazione di diversi approcci per individuare la molteplicità di variabili che contribuiscono anche a dare un senso a tutto quanto avviene nella classe. Come afferma Laneve (2011a) la teoria deve concretarsi e diventare “pratica educativa”. Ma viceversa, per costruire il sapere scientifico sulle pratiche educative bisogna trasformare le esperienze dell’insegnante in pratiche, le pratiche in idee, le idee in concetti, la conoscenza in teorie. In ultima analisi le teorie dell’insegnamento si costruiscono a partire dall’analisi delle pratiche didattiche correttamente raccolte e analizzate. È comunque possibile individuare, insieme alle divergenze, alcuni problemi che si manifestano costantemente in entrambi i modelli di ricerca sulle pratiche di insegnamento. Dal confronto internazionale si evidenziano delle somiglianze nei metodi e nelle tecniche usate e nei problemi ancora insoluti (Laneve, Roig Vila 2011b; Craig, 2011; Altet, 2006; Yvon, Saussez, 2010). Tutti i ricercatori condividono quanto sia difficile studiare l’azione dell’insegnante mentre essa si svolge perché è una realtà in divenire; d’altro lato siccome la rappresentazione fedele dell’azione diventa sempre più difficile con il passare del tempo, non si può fare a meno di studiare l’azione didattica nella sua immediatezza. Ma esiste anche una difficoltà epistemologica non trascurabile: la conoscenza della pratica educativa è una conoscenza “locale” e contestualizzata mentre la conoscenza scientifica “classica” è una conoscenza universale (Damiano, 2009). Al di là delle differenze epistemologiche e metodologiche unisce i ricercatori un intento comune: l’analisi delle pratiche di insegnamento si effettua principalmente per ottenere un miglioramento professionale degli insegnanti che, insieme al ricercatore esperto, cercano di innalzare la qualità del servizio scolastico. Il gruppo docente è insieme soggetto e oggetto della ricerca. Alla fine esso si interroga se e come è migliorato nel modo di affrontare e gestire le situazioni educative. Numerosi lavori relativi alla formazione dei docenti mostrano infatti che gli insegnanti in servizio apprendono principalmente attraverso la pratica, con una riflessione “nella” e “sulla pratica” (Schön, 2006; Huberman, 1989; Altet, 1994; Perrenoud, 1994; Altet, Paquay, Perrenoud, 2002). Nel corso della carriera, gli insegnanti sviluppano dei saperi d’azione nell’azione, sull’azione e per l’azione, risolvendo problemi in modo riflessivo, ricercando informazioni con criteri di pertinenza e di efficacia. Una comunità di pratiche professionali tra insegnanti presuppone l’analisi di quanto ciascuno fa e si costruisce, se è sostenuta da un sapere specialistico e orientata da un’etica; la pratica professionale produce sviluppo professionale quando è fonte di apprendimenti. Dall’esame delle ricerche svolte negli ultimi dieci anni abbiamo potuto constatare che per l’analisi delle pratiche di insegnamento non esiste ancora un modello condiviso dall’intera comunità scientifica bensì una pluralità di approcci metodologici all’oggetto di studio.

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Come in ogni ricerca qualitativa, anche per l’approccio metodologico scelto in questo caso non ci si riferisce ad un procedimento predefinito e rigido, da seguire passo passo, quasi una formula da imporre sul materiale, ma a linee indicative, che si sviluppano a partire dal materiale stesso e vanno di volta in volta a configurare percorsi differenti. Si tratta, dunque, di un’officina aperta il cui obiettivo principale è quello di formalizzare le teorie implicite nelle pratiche professionali degli insegnanti.

2. Il contesto Il progetto PQM è stato elaborato per introdurre nella scuola un sistema stabile di valutazione, che partendo dalla misurazione standard degli apprendimenti operata attraverso prove di valutazione esterna, si integri con la valutazione interna curata dai docenti e si ponga come obiettivo, da un lato, il miglioramento delle performance individuali degli alunni e, dall’altro, della professionalità dei docenti. Le finalità del Progetto PQM possono essere così sintetizzate2: – migliorare la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, utilizzando diversi strumenti e diffondendo competenze professionali e best-practices; – aumentare la responsabilizzazione delle scuole in merito all’apprendimento e a una maggiore trasparenza dei risultati, anche attraverso un’adeguata misurazione dell’uno e degli altri con prove nazionali standard; – sviluppare e diffondere nelle scuole un processo di misurazione e di valutazione mirato al miglioramento del sistema educativo, costruendo test nazionali standard in linea con le migliori pratiche internazionali; – sviluppare e diffondere un sistema di coaching innovativo della didattica, che nel predisporre interventi mirati, tenga conto dei risultati della valutazione e includa il miglioramento della qualità del percorso formativo finalizzato al potenziamento delle competenze metodologico-didattiche dei docenti in servizio; – creare una nuova modalità di verifica/valutazione nazionale per definire gli obiettivi di miglioramento dell’efficacia del sistema scolastico ed avviare un processo di autonomia responsabile. Il Progetto è partito nell’anno scolastico 2009-2010 e ha coinvolto studenti ed insegnanti delle classi prime di 320 scuole secondarie di 1° grado delle 4 Regioni “Obiettivo Convergenza” (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) e delle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia, Marche, Piemonte,Veneto, individuate dai rispettivi Uffici Scolastici Regionali secondo le modalità e i termini previsti dal Progetto. Il modello PQM si articola in quattro momenti e vede l’intervento congiunto dell’INVALSI, per quanto riguarda la predisposizione e la somministrazione delle prove di valutazione, e dell’ANSAS, per quanto concerne l’azione formativa dei tutor e il supporto costante alle scuole coinvolte nelle diverse fasi del progetto3. L’intero disegno progettuale è finalizzato ad avviare in maniera graduale la “messa a sistema” delle metodologie e degli strumenti che realizzano il ciclo virtuoso analisi-diagno-

2 Per una più ampia descrizione del Progetto si veda http://www.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/d17f8b7a-5e96-4455-93d1 cebd017cf979/prot10140_09.pdf 3 Gli attori del processo sono: MIUR, ANSAS, INVALSI, Uffici Scolastici Regionali ed Esperti (in Italiano, Matematica, Pedagogia, Didattica e Psicologia) di varie Università italiane.

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si-progettazione-elaborazione del Piano di Miglioramento mediante la disseminazione delle esperienze, dapprima nelle scuole che hanno già preso parte al progetto nelle fasi di avvio e, successivamente, anche in altre. In particolare si mira, mediante l’attuazione di una didattica maggiormente efficace in Italiano e Matematica, a fornire agli alunni svantaggiati i mezzi necessari al potenziamento dei loro processi mentali e allo sviluppo culturale e personale. Il progetto, partendo dalla misurazione standard degli apprendimenti, operata attraverso una valutazione esterna ed integrata con la valutazione interna curata dai docenti, si pone come obiettivo, il miglioramento, da un lato, delle performance individuali degli alunni e, dall’altro, quello delle competenze professionali dei docenti. Il meccanismo ‘virtuoso’ del PQM, che dalla diagnosi basata sulla misurazione oggettiva degli apprendimenti giunge al miglioramento del processo di insegnamento/apprendimento attraverso la progettazione da parte della comunità scolastica di azioni mirate, prefigura modalità che potranno diventare di riferimento per la costruzione del sistema nazionale di valutazione, come definito dalla Legge 26 febbraio 2011, n. 10. Il progetto PQM si pone come obiettivo principale lo sviluppo e la diffusione nelle scuole di un modello che promuova un sistema di “valutazione responsabile e funzionale” teso al miglioramento del sistema educativo ed alla valorizzazione dell’autonomia scolastica4. Il progetto nel suo sviluppo complessivo, è articolato in tre cicli. Il primo ciclo, sviluppatosi nel corso dell’anno scolastico 2009-2010 è stato finalizzato a progettare sul campo e ad elaborare metodologie di lavoro che portassero ad un progressivo miglioramento degli apprendimenti in ambito logico-matematico. Al termine di questa fase pilota, è stato possibile verificare l’adeguatezza del percorso intrapreso mediante le azioni di monitoraggio attivate dall’ANSAS5. Nel secondo ciclo, relativo all’a.s. 2010-2011, il progetto è stato allargato ad un maggior numero di scuole ed ampliato anche all’italiano; sono sono state inoltre estese e consolidate le metodologie didattiche sperimentate nel corso del primo ciclo6. Nell’a.s. 2011-2012 è in corso di svolgimento un terzo ciclo, durante il quale si completerà la sperimentazione del disegno progettuale nel triennio delle scuole secondarie di primo grado già coinvolte e si intraprenderà un percorso verso la disseminazione delle metodologie e degli strumenti PQM nel sistema scolastico, a supporto e complemento di cambiamenti anche strutturali. Durante questo terzo anno non sono state coinvolte altre nuove classi7 perché si intende anche accompagnare i tutor nella diffusione delle buone pratiche realizzate all’interno delle loro scuole e disseminare i risultati del progetto PQM. L’impianto formativo, a struttura piramidale, è stato impostato dall’ANSAS, per il primo e secondo anno, avvalendosi della competenza di docenti universitari accreditati a livello nazionale, che hanno prodotto materiali formativi a livello sia metodologico che disciplinare

4 La valutazione viene in tal senso considerata un “indispensabile strumento e risorsa attraverso cui adottare metodi di lavoro, tempi di insegnamento e soluzioni funzionali alla realizzazione dei piani dell’offerta formativa e alle esigenze e vocazioni di ciascun alunno” (Atto di indirizzo del Ministro, settembre 2009). 5 Nel primo anno (2009-2010) sono stati coinvolti a livello nazionale circa 80 tutor e 1150 classi di scuola secondaria di primo grado (classi prime, area logico-matematica). 6 Nel secondo anno (2010-2011) è avvenuto il coinvolgimento di circa 180 tutor e di 2338 classi di scuola secondaria di primo grado (classi seconde, area logico-matematica; classi prime, area logico-matematica e area linguistica). 7 Nel terzo anno (2011-2012) è stato mantenuto il coinvolgimento di circa 180 tutor e di 2338 classi di scuola secondaria di primo grado (classi terze, area logico-matematica; classi seconde, area logico-matematica e area linguistica).

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per l’italiano e la matematica finalizzati alla formazione dei Tutor di Progetto, la quale è stata realizzata mediante ambienti formativi on-line e seminari in presenza. L’offerta formativa per i tutor ha compreso contributi riguardanti sia la formazione tra pari – degli insegnanti delle classi sperimentali da parte degli insegnanti Tutor di Progetto (comunicazione formativa, gestione del gruppo e strategie di peer coaching) – che l’attuazione delle azioni di potenziamento e miglioramento in favore degli alunni (strumenti di rilevazione ed intervento sulla motivazione scolastica, il clima di classe, l’atteggiamento verso lo studio, la capacità di problem solving, i disturbi dell’apprendimento). La pubblicazione in piattaforma dell’offerta formativa ha consentito ai Tutor di Progetto di trovare all’interno dell’ambiente tutti i materiali relativi alle aree disciplinari dell’ italiano e della matematica e all’area trasversale. Sono stati inoltre attivati i relativi forum di approfondimento, che sono stati moderati dal gruppo degli esperti-autori ed il forum “linea diretta con l’Agenzia”. Sono stati infine creati dei gruppi di lavoro per favorire il confronto e la discussione tra docenti della stessa disciplina e territorialmente vicini. Il terzo anno è stato ampliato il gruppo degli esperti che collaborano con l’ANSAS: oltre agli esperti disciplinari di ambito logico matematico e linguistico hanno contribuito alla realizzazione del progetto anche docenti universitari esperti nel settore pedagogico e in quello psicologico. Durante l’a.s. 2011-12 sono presenti in piattaforma materiali di studio e strumenti operativi per consolidare il modello PQM e stimolarne la condivisione da parte del collegio dei docenti, al fine di formare figure di sistema che possano agire per il miglioramento all’interno della propria istituzione scolastica. Alla fine i docenti formati a livello territoriale dovrebbero essere in grado di “disseminare” nel proprio istituto, all’interno dei dipartimenti disciplinari, dei consigli di classe e dell’intero collegio, le metodologie acquisite sia in merito al processo di analisi e diagnosi, conseguente alle rilevazioni standard, sia relativamente agli aspetti metodologici e disciplinari innovativi. Sarà loro compito, in quanto tutor d’Istituto, svolgere funzioni tutoriali all’interno della propria scuola, realizzando azioni diffuse di accompagnamento professionale, con l’obiettivo di innescare azioni innovative nella didattica curricolare, cercando di far comprendere ai colleghi l’importanza della misurazione standard degli apprendimenti in quanto elemento di pianificazione strategica che integra e rafforza la valutazione interna ed il sistema di accountability8. Al fine di realizzare le attività sopra descritte, in ogni scuola sono stati individuati due Tutor di Istituto, scelti dall’istituzione scolastica fra i propri docenti di ruolo, disponibili a partecipare ad un apposito programma di formazione predisposto dall’ANSAS e ad erogare a studenti della scuola un numero minimo di 2 moduli didattici secondo le modalità previste dal progetto nazionale. La formazione dei Tutor d’Istituto si è svolta, per ognuno dei tre anni, tra il mese di Feb-

8 In quest’ambito, l’accountability corrisponde ad una strategia di riforma (Wöessman et al., 2007) che si lega strettamente ad altre due innovazioni: l’autonomia degli istituti scolastici e la piena facoltà per l’utenza di scegliere fra di essi nel momento dell’iscrizione scolastica. Esistono diverse misure di accountability, che possono riguardare gli alunni, le scuole e il personale (insegnanti e presidi). Perché si possa parlare dell’esistenza di un sistema di Accountability è necessaria la compresenza di due elementi: la pubblicità dei risultati di apprendimento delle singole scuole e l’imputazione della responsabilità dei risultati degli alunni alle scuole, soggette a sanzioni e ricompense dirette o indirette, che modificano la struttura degli incentivi cui sono esposte. La qualità e – potremmo dire – la legittimità di un sistema di accountability dipende dal modo in cui si effettuano le valutazioni (Hanushek, Raymond, 2005).

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braio (dopo la comunicazione dei risultati del primo test) ed il successivo mese di Maggio, prima della somministrazione del secondo test. I Tutor di Istituto hanno avuto il compito di sperimentare in classe le attività e le metodologie ritenute adeguate a superare le carenze evidenziate nel test iniziale. Successivamente gli insegnanti tutor sono stati coinvolti – e continuano ad essere coinvolti – in azioni di sostegno, mediante attività di tutoring rivolte ai colleghi della loro area disciplinare. Ogni anno hanno infine provveduto a raccogliere e selezionare le esperienze significative, trasformandole in learning object da mettere a disposizione della scuola e della piccola “comunità professionale” del network. La formazione dei Tutor di Istituto, raggruppati in network di 5 scuole, si è realizzata a livello territoriale, con interventi formativi sia in presenza che a distanza, su forum e aula virtuale dedicata grazie alla supervisione e al lavoro di coaching dei Tutor di Progetto. Ogni Tutor di Progetto, che ha supportato i due Tutor di ogni Istituto, ha effettuato per ogni network almeno 3 incontri in presenza e attività on line, sia in modalità sincrona, che in modalità asincrona. Il percorso formativo è stato organizzato in classi virtuali, ciascuna delle quali formata dai 10 Tutor di Istituto delle cinque scuole del network locale, guidati dal Tutor di Progetto che si sono avvalsi del supporto della piattaforma tecnologica progettata dall’ANSAS9. Il progetto di miglioramento ha avuto due linee di sviluppo: le azioni di coaching e potenziamento per gli studenti in difficoltà e le attività di formazione, (coaching e tutoring on the job) per i docenti delle scuole coinvolte. Le azioni migliorative sono state previste ogni anno nel periodo marzo-maggio, mediante la realizzazione di attività formative, di tutoring e di coaching sia su docenti che su studenti, per correggere e limitare le carenze individuate come prioritarie. Le azioni di potenziamento, di supporto e di coaching per gli studenti, sono state strutturate in moduli attentamente progettati per affrontare i nodi problematici emersi dalle prove iniziali e per promuovere l’acquisizione di strategie di studio, di riflessione e di problematizzazione efficaci per l’apprendimento matematico e della lingua italiana. Il lavoro di ogni anno è stato scandito in quattro fasi. Fase 1: Somministrazione del test in entrata La somministrazione del test predisposto dall’INVALSI è stata effettuata direttamente dalle scuole coinvolte in ottobre. Lo scopo era di misurare e valutare le competenze in entrata. Fase 2: Analisi dei risultati dei test Nel periodo novembre-gennaio, l’INVALSI ha elaborato e analizzato quantitativamente i risultati dei test. L’interpretazione e l’analisi qualitativa dei risultati è stata affidata ai Tutor di Istituto. L’analisi è servita per l’individuazione delle aree d’intervento e per la progettazione delle azioni di miglioramento. Fase 3: Attività di miglioramento Le attività di potenziamento rivolte agli studenti sulle carenze individuate sono state realizzate nel periodo febbraio-maggio. Gli interventi di sostegno ai Tutor di Istituto sono stati realizzati con una metodologia di “formazione sul campo”. Fase 4: Test in uscita e analisi dei risultati A maggio è stato somministrato un secondo test INVALSI. I risultati sono stati messi a confronto con quelli della rilevazione iniziale per verificare l’efficacia delle azioni di potenziamento messe in atto. 9 È stato inoltre istituito un Gruppo di Progetto nelle singole scuole, composto dal Dirigente scolastico, dal Referente per la Valutazione, dai 2 Tutor di Istituto e dalle funzioni strumentali per la valutazione; tale gruppo con la collaborazione del Tutor di Progetto e di eventuali esperti, ha analizzato i risultati dei test e ha progettato le azioni di miglioramento che poi sono state realizzate nei mesi di Febbraio, Marzo e Aprile dei tre anni.

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3. La ricerca La ricerca si è svolta all’interno del progetto pilota PQM durante gli anni scolastici 2010/2011 e 2011/12. Gli obiettivi che ci siamo proposti di raggiungere con la ricerca sono: a. cogliere i tratti caratterizzanti dell’intervento dei Tutor di Progetto nella formazione dei Tutor di Istituto, nell’ipotesi che si tratti di un tipo di pratica formativa che presenta peculiarità ed aspetti che devono essere oggetto di specifica riflessione sul piano teorico ed in prospettiva formativa; b. offrire agli insegnanti Tutor di Progetto e Tutor di Istituto, spunti di riflessione sui processi di insegnamento affinché essi siano sollecitati ad interrogarsi per definire atteggiamenti, stili comunicativi, metodologie educativo-didattiche, strumenti e contenuti che valorizzino ogni alunno; c. individuare metodologie didattiche per la matematica e la lingua italiana che migliorino la motivazione ad apprendere negli studenti anche attraverso un uso appropriato delle tecnologie utilizzate. La ricerca è stata articolata in due fasi. Prima fase (2010/2011): analisi e valutazione della documentazione, dei materiali didattici e degli interventi presenti in piattaforma Durante la prima fase della ricerca (a.s. 2010/11) ho inizialmente analizzato i risultati ottenuti dall’azione di monitoraggio condotta dall’ANSAS nel primo anno (2009/10)10 per raccogliere informazioni sui livelli di qualità dei processi formativi messi in atto, sul loro gradimento e la loro efficacia. In particolare, ho messo a fuoco gli aspetti relativi al miglioramento professionale dei docenti e all’efficacia degli interventi con gli alunni. Le azioni di potenziamento e miglioramento delle competenze professionali dei docenti hanno riguardato le capacità comunicative, gli strumenti di gestione del gruppo dei pari, le strategie di formazione tra pari, la capacità di autoanalisi, l’integrazione delle prove esterne con le proprie valutazioni in ottica di autoanalisi e supporto al cambiamento nell’organizzazione scolastica. Nell’analisi del lavoro svolto con gli studenti in classe, particolare attenzione è stata rivolta ad aspetti quali: la motivazione e l’atteggiamento degli studenti; il clima di classe e le strategie di lavoro collaborativo; i momenti di verifica e valutazione (integrazione delle prove esterne con le valutazioni degli insegnanti di classe, nell’ottica di progettazione del potenziamento); le azioni di recupero e potenziamento (criteri e progettazione di interventi, con particolare attenzione agli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento e a quelli disabili)11 .

10 Si veda http://pqm.indire.it/php/index.php?id_cnt=9001&read=11112 (visitato 8 febbraio 2012). 11 Mi è stato possibile visionare e analizzare i materiali, selezionati e validati dai Tutor di Progetto, nell’anno 2009/2010 perché l’Ansas ha messo a disposizione una piattaforma per la formazione on line, comprensiva di materiali, tutorial, esempi di lezioni e video. La piattaforma prevede inoltre un’area di deposito (repository) delle migliori esperienze in campo nazionale ed internazionale ma, soprattutto, i materiali e le esperienze realizzate nel corso dell’attività e dei materiali didattici ad esse connessi (learning object) per implementare la strumentazione messa a disposizione delle scuole partecipanti. L’obiettivo è quello di creare una banca dati permanente da diffondere anche alle scuole non direttamente coinvolte, sull’intero territorio nazionale, in fase successiva.

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Mi è stato possibile analizzare le azioni di coaching e di tutoring on the job finalizzate ad affrontare e risolvere i problemi nel corso del processo di insegnamento. Nel periodo tra febbraio e maggio 2011 ho verificato in che modo i Tutor di Progetto avevano supportato i Tutor di Istituto nell’elaborazione del Piano di Potenziamento per l’Istituto e nelle attività che tale piano prevedeva12. Ho potuto osservare in che modo il Tutor di Progetto svolgeva il compito di far circolare all’interno del suo network le conoscenze via via maturate dai Tutor di Istituto e in che modo abitualmente promuoveva la discussione in merito all’uso e al trasferimento di esse. Ho potuto analizzare inoltre come il Tutor di Progetto ha stimolato la discussione all’interno del suo network rispetto ai materiali prodotti dai Tutor di Istituto e come li ha affiancati nel loro eventuale adattamento/miglioramento/riprogettazione, prima dell’inserimento in piattaforma. Infine sono riuscita a verificare come i Tutor di Istituto, a loro volta, hanno progettato e realizzato i materiali didattici; hanno inserito i materiali prodotti; hanno sperimentato i materiali realizzati con gli studenti; si sono confrontati con i colleghi rispetto ai materiali e alla loro sperimentazione con gli studenti, adattando/migliorando/riprogettando i materiali prodotti in base ai feedback avuti dal Tutor di Progetto. Per svolgere questa analisi ho avuto accesso all’ambiente di raccolta delle best practice dei Tutor di Istituto predisposto dall’ANSAS. La raccolta e l’analisi delle pratiche dei Tutor di Istituto mi ha permesso di verificare in che modo il supporto dei Tutor di Progetto ha consentito ai docenti coinvolti di impadronirsi di metodi e procedure, specialmente in fase di progettazione. Successivamente, per documentare la progressione e lo sviluppo del lavoro, ho creato un dossier con le esperienze e i lavori migliori (resoconti di risoluzione di problemi, rapporti di esperienze, ed elaborati di varia natura, prodotti durante le ore previste per la formazione dei Tutor di Progetto, per l’anno 2010/11), che mi permettesse successivamente di definire i criteri con cui raccogliere i materiali più significativi prodotti durante l’intero percorso formativo del secondo anno del progetto. Il dossier è stato poi corredato dalla documentazione della genesi e dello sviluppo dei piani di miglioramento, attraverso quanto è emerso dagli incontri nei vari network e dai forum di formazione. Il materiale prodotto da ogni Tutor di Progetto è servito per analizzare le loro pratiche sulla piattaforma e i processi messi in atto dai Tutor di Istituto correlandoli con i risultati ottenuti dai loro studenti nelle attività, così come è possibile rilevare dai diari di bordo. Il diario di bordo è stato utilizzato sia dai Tutor di Progetto che dai Tutor di Istituto13. I materiali raccolti nei diari di bordo dei Tutor di Progetto e di istituto sono stati rivisti e risistemati al termine del percorso in modo da essere resi comprensibili, leggibili e privi di aspetti superflui; essi hanno fornito la base di partenza per la valutazione della ricerca. Al termine di questa prima fase è stato possibile valutare i miglioramenti professionali conseguiti dai Tutor di Progetto e la loro soddisfazione, che è correlata positivamente con i risultati formativi emersi dalle opinioni dei Tutor di Istituto e con i risultati ottenuti dagli alunni, per come sono riferiti nel report dei Tutor di Istituto.

12 Nel percorso formativo annuale dei Tutor di Istituto è previsto che, accanto ad incontri in presenza (cinque all’anno, nel periodo marzo-maggio), il Tutor di Progetto organizzi una classe virtuale, formata dai tutor dei cinque istituti che costituiscono il network locale di sua competenza. 13 Da parte mia ho scelto di compilare il diario della ricerca periodicamente: sia al termine di ogni tappa che in prossimità (subito prima e subito dopo) di ogni attività, incontro o iniziativa.

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Seconda fase (2011/2012): analisi delle azioni dell’insegnante Tutor di Progetto Il lavoro di ricerca è proseguito nell’anno 2011/2012 in cui la formazione dei Tutor di Progetto da parte dell’ANSAS è stata affidata ad esperti di area disciplinare (matematica e lingua italiana), di didattica, di programmazione e valutazione. Pertanto essendo coinvolta direttamente nella formazione dei Tutor di Progetto e indirettamente in quella dei Tutor di Istituto, nel periodo tra Ottobre e Dicembre 2011, ho avuto modo di incontrare i Tutor di Progetto delle quattro regioni meridionali (incontri seminariali e focus group); nei mesi di Dicembre e Febbraio 2012 ho moderato alcune discussioni nei forum dove i Tutor di Progetto hanno avuto modo di confrontarsi tra loro grazie ad un ambiente on line14. La rilevazione dei dati di tipo qualitativo è stata facilitata dall’uso di alcuni strumenti che si sono rivelati utili non solo come stimolo all’autoriflessione, ma anche per la valutazione degli atteggiamenti personali e di gruppo, in particolare, il diario di bordo. Esso è risultato fondamentale per facilitare la descrizione dell’esperienza, per prendere coscienza dei rispettivi ruoli all’interno del gruppo e delle dinamiche relazionali instauratesi durante gli incontri formativi, ivi comprese le situazioni di crisi e il loro superamento. Altre fonti di informazione sono state le risposte dei Tutor di Progetto a un questionario con domande aperte e i messaggi presenti nei forum di discussione; i contenuti sono stati esaminati secondo i criteri dell’analisi per teorizzazione ancorata (Paille-Mucchielli, 2005), passando da una preventiva codifica all’individuazione di categorie concettuali ricavate sulla base delle azioni ricorrenti nei differenti ambiti considerati. Mi sono soffermata, in particolare, ad operare un’analisi in riferimento al criterio dell’intenzionalità formativa, intesa come promozione attiva e razionalizzata da parte del docente Tutor di Progetto. Ho potuto verificare che l’attività formativa è recepita da chi la riceve in funzione delle proprie esperienze, delle modalità attraverso le quali se le rappresenta e le vive, dei significati che ad esse attribuisce e delle influenze che riceve nei rapporti con gli altri: aspetti che costituiscono una sinergia difficile da valutare. L’azione formativa dei Tutor di Progetto considerata dal punto di vista dell’intenzionalità, appare multiforme e con un orientamento trasformativo più o meno presente e diretto. Complessivamente le azioni dei Tutor di Progetto, da me esaminate, possono essere raggruppate in tre tipologie: pre-formative, formative e finalizzazione aperta, formative finalizzate a promuovere il cambiamento. Azioni pre-formative. Un primo insieme di azioni è accomunato da un’assenza di intenzionalità formativa esplicitamente riconosciuta. Si tratta di interventi preparatori, che mirano a creare le condizioni, interne ed esterne, affinché il processo formativo possa aver luogo. Sono azioni rivolte a rispondere a bisogni di base, per esempio la sicurezza, e a rendere l’ambiente di apprendimento favorevole ad itinerari personali di crescita. Esse risultano così articolate: azioni di supporto tecnologico volte a favorire l’uso della piattaforma; azioni per creare un clima di fiducia reciproca dirette a promuovere occasioni di accoglienza e di disponibile apertura; azioni di accompagnamento, in cui il Tutor di Progetto facilita i rapporti tra i vari Tutor di Istituto del suo network; azioni di supporto per la ricerca del materiale, nella gestione dei tempi e nell’utilizzo della piattaforma. Azioni formative a finalizzazione aperta. Un’ulteriore categoria di azioni vede il Tutor di Progetto mosso da chiara intenzione di rivolgersi direttamente ai Tutor di Istituto cui è destinato il

14 I Tutor di Progetto sono stati divisi, all’interno degli edulab (gruppi on line), in 6 gruppi. Nella suddivisione si è tenuto conto dei percorsi disciplinari e delle regioni di appartenenza.

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proprio intervento, allo scopo di contribuire al superamento dei loro problemi favorendo cambiamenti interni. Il tratto distintivo, tuttavia, sembra essere costituito da una mancata definizione delle direzioni trasformative perseguite (ad esempio, nelle opinioni, negli atteggiamenti, nelle abilità, nel patrimonio di conoscenze), secondo una logica per cui il Tutor di Progetto opera come agente che facilita trasformazioni personali che si auto-generano secondo orientamenti poco prevedibili e, dunque, poco definibili. Anche in questo caso sono riconoscibili sotto-categorie di azione: azioni per arricchire l’esperienza dei Tutor di Istituto destinatari dell’intervento, in cui il Tutor di Progetto si propone soprattutto come portatore di messaggi, contenuti culturali e modelli di comportamento, ai quali attribuisce una generale valenza positiva; azioni volte alla costruzione della relazione, in cui il Tutor di Progetto si sforza di stabilire una reciprocità comunicativa con i Tutor di Istituto quale pre-condizione per sostenere in essi processi di auto-cambiamento; azioni volte all’osservazione, conoscenza, comprensione, in cui il Tutor di Progetto assume il ruolo di osservatore che partecipa all’esperienza del Tutor di Istituto, allo scopo di arricchire gli elementi conoscitivi a disposizione nella piattaforma. Le azioni a finalizzazione aperta, inoltre, si coniugano con una certa difficoltà con la logica che è propria della progettualità formativa, che prevede l’impiego di criteri di razionalità e di controllabilità dell’efficacia degli interventi, se non altro per consentire un ritorno riflessivo capace di rafforzarne l’impatto potenziale. Azioni formative finalizzate a promuovere il cambiamento. Sono le azioni dirette a favorire forme di cambiamento o apprendimento chiaramente definite – seppur in forma ipotetica e continuamente rivedibile – e potenzialmente durevoli (nelle conoscenze, nelle rappresentazioni ed opinioni, nelle abilità, nelle capacità e competenze, nei comportamenti ecc.), considerate necessarie affinché ogni docente coinvolto nel progetto PQM migliori le proprie risorse e potenzialità, il proprio grado di autonomia e le capacità di gestire le situazioni, anche a carattere problematico. Si possono riconoscere: interventi per lo sviluppo di abilità di scelta e di azione coerente; azioni per promuovere acquisizione di strumentalità ed autonomie di base; azioni per promuovere autoconsapevolezza e senso di autoefficacia; azioni per sviluppare capacità e risorse personali (cognitive, emotivo-affettive, fisiche, ecc.). Dall’analisi delle pratiche raccolte si evidenzia che la progettazione e la revisione del piano di miglioramento15 ha costituito un momento importante di condivisione tra colleghi, in presenza e all’interno dei network, finalizzato all’individuazione dei punti di forza e di debolezza degli apprendimenti in classe; la comunicazione tra pari ha favorito l’autoriflessione. Si è visto che è stata molto apprezzata l’attività formativa svolta dai Tutor di Progetto, che hanno saputo utilizzare al meglio i diversi archivi di materiali e la piattaforma. Il sostegno che i Tutor di Istituto hanno ricevuto è stato di grande aiuto per imparare a intervenire sul proprio modo di gestire le situazioni di apprendimento in aula e il lavoro personale degli alunni, partendo dalle loro reali difficoltà. L’attuazione dei moduli di potenziamento degli apprendimenti e gli interventi di formazione tra pari hanno offerto la possibilità di sperimentare e diffondere pratiche didattiche innovative basate sull’approccio laboratoriale e il lavoro di gruppo nell’ottica dell’interdisciplinarietà. Nelle interviste i Tutor di Progetto hanno dichiarato di essere diventati più consapevoli

15 La progettazione del Piano di Miglioramento scaturisce dalla valutazione in entrata dei livelli di apprendimento degli studenti sulla base della quale si progettano le azioni migliorative, individuando gli interventi di supporto formativo necessari per gli allievi. Contestualmente la scuola può prevedere azioni di disseminazione del progetto PQM progettando azioni di formazione fra pari rivolte ai docenti.

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del fatto che aiutare i Tutor di Istituto a progettare i piani di miglioramento e a compiere scelte consapevoli richiede tempo, capacità di osservazione ed esperienza. Attraverso una continua riflessione critica sui progressi e gli errori realizzati nel corso dell’azione, i Tutor di Progetto, in quanto attori della ricerca, hanno affermato di aver conseguito un miglioramento della loro professionalità e di aver acquisito una nuova metodologia di lavoro. I Tutor di Progetto sono convinti di aver aiutato costantemente i Tutor di Istituto a riflettere sulle modalità più opportune per acquisire una fine sensibilità pedagogica che permette di non fermarsi a vedere esclusivamente quello che lo studente è, ma di immaginare anche quello che egli può essere o diventare, se opportunamente coinvolto nell’impegno e nello sviluppo delle sue potenzialità. Sono risultati complessivamente efficaci gli interventi di supporto agli insegnanti nella loro attività didattica secondo una metodologia di “formazione sul campo”, capace di incidere sui comportamenti professionali mediante un progressivo rinforzo delle competenze metodologico – didattiche applicate alle singole discipline. Dalle riflessioni e dalle pratiche raccolte si evidenzia che le prove oggettive esterne possono risultare un utile strumento per integrare i quotidiani momenti di verifica in classe anche se non attivano da sole un completo processo di diagnosi ma si limitano solo ad alcuni specifici ambiti e processi. È dunque emersa la necessità di utilizzare anche altri strumenti sia per la lettura “pedagogica” dei risultati dell’attività di apprendimento che per la rilevazione degli elementi di “contesto”, come il clima di classe e l’atteggiamento personale verso la singola disciplina da studiare.

4. Discussione dei risultati L’insieme dei dati raccolti e analizzati è stato oggetto di una specifica riflessione finale. I Tutor di Progetto hanno valutato positivamente l’iniziativa nel suo complesso perché hanno sperimentato una metodologia che ha permesso loro di supportare i Tutor di Istituto in modo adeguato alle loro aspettative. La carenza di conoscenza su “ciò che l’insegnante fa quando insegna”, ovvero sulle azioni che “in situazione” rivolge ai destinatari del proprio intervento ha costituito inizialmente un limite sia per la valorizzazione della professionalità specifica del Tutor di Progetto, sia in relazione alla costruzione di percorsi formativi congruenti con la specificità del progetto PQM. Anche in presenza di un progetto formativo rigorosamente impostato, come il PQM, occorre tenere presente che, “in situazione”, si assiste ad un intrecciarsi spesso imprevisto di operazioni ed attività, a ritorni e ripiegamenti, a modulazioni che sono legati a considerazioni di efficacia o di congruenza che l’insegnante elabora sul momento. Per questo tipo di ricerca occorre, inoltre, riservare un’attenzione specifica alle dimensioni di attribuzione di senso che sottendono le scelte che gli insegnanti compiono in “situazione”, cioè alla sfera delle loro rappresentazioni personali. Infatti, ad un’azione possono corrispondere intenzionalità e significati differenti, così come ad un’intenzione possono seguire scelte di ordine pratico-operativo non sovrapponibili, non solo da parte dei vari Tutor di Progetto, ma anche per opera di un medesimo Tutor in momenti diversi. Lo studio dell’azione formativa tra pari in condizioni naturali rappresenta un orientamento di ricerca promettente, ma ancora in costruzione.Tra gli altri aspetti da approfondire, segnaliamo l’esigenza di creare condizioni favorevoli al contatto intensivo tra ricercatori, attori e contesti formativi, nonché la necessità di arricchire il bagaglio di procedure e strumenti d’indagine, da concepire in coerenza con gli specifici problemi della ricerca didattica.

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Più il progetto di PQM è andato avanti, più è apparso evidente che le difficoltà individuate attraverso precisi indicatori disciplinari, in matematica e in italiano, erano collegate a – e spesso erano rivelatrici di – difficoltà “trasversali”alle discipline: scarsa motivazione e insufficiente competenza metacognitiva degli alunni. Ci sembra di poter affermare che le attività formative realizzate hanno consentito agli insegnanti Tutor di Istituto di promuovere, durante le attività svolte con gli studenti, le abilità metacognitive previste stimolando gli alunni ad impegnarsi, aumentando la loro motivazione e attenzione per il lavoro scolastico, imparando a collaborare in gruppo e a chiedere aiuto all’insegnante o ai compagni al momento opportuno16. Mentre è stato accertato il miglioramento della competenza didattica dei Tutor di Istituto è emersa tuttavia la necessità di ulteriori strumenti di approfondimento per permettere un maggior coinvolgimento del collegio docenti e della dirigenza scolastica affinché il “modello” possa slegarsi dal “disciplinare” e tradursi in modalità efficace di organizzazione e gestione della didattica in tutte le classi dell’istituto. La buona riuscita del percorso di formazione dei Tutor di Progetto risulta indubbiamente legata all’attuazione di un’efficace metodologia didattica modellata sulle esigenze reali degli studenti delle classi dei Tutor di Istituto. Molte riflessioni dei tutor, che sono state stimolate dalle risposte dei propri allievi alle sollecitazioni didattiche, rappresentano una risorsa per l’agire, vale a dire per la costruzione del metodo, ma interrogano anche l’essere del docente e gli possono rivelare aspetti nuovi ed inediti della sua professionalità. A completamento dell’iter formativo, previsto nell’annualità 2011/2012, sarà necesario verificare, con una nuova ricerca, se i docenti Tutor di Istituto, formati a livello territoriale dai Tutor di Progetto saranno, a loro volta, in grado di “disseminare” nel proprio istituto, all’interno dei dipartimenti disciplinari, dei consigli di classe e dell’intero collegio, le metodologie acquisite sia in merito al processo di analisi e diagnosi, conseguente alle rilevazioni standard, sia relativamente agli aspetti metodologici e disciplinari innovativi. Sarà inoltre necessario verificare se le nuove metodologie adottate nei percorsi didattici realizzati all’interno dei moduli previsti dal progetto PQM, siano efficacemente trasferibili nella normale attività didattica svolta in orario curricolare, così da divenire aspetti sistemici e stabili del processo di insegnamento-apprendimento.

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16 Nel sito PQM sono raccolte esperienze e descrizioni delle attività svolte con gli alunni.

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Ricerche Valutare serve? L’esperienza della valutazione trentina Evaluation is useful? The Experience of Trentino’s evaluation KATIA MONTALBETTI – LUCIA RUDELLI* Il contributo presenta il dispositivo metodologico progettato ed implementato nell’àmbito del progetto “Valutazione esterna delle istituzioni scolastiche e formative” affidato dall’IPRASE-Trentino all’Università Cattolica del Sacro Cuore nell’anno scolastico 2007/2008. Movendo da tale esperienza, sono sviluppate alcune riflessioni circa l’utilità della valutazione per le scuole e per i diversi stakeholders e i criteri che ne rendono possibile la sostenibilità e l’impiego strategico dei dati. Nell’articolo non si intende presentare l’intero progetto di valutazione esterna né render conto dei risultati ma focalizzare l’attenzione sulla descrizione del dispositivo metodologico ed in particolare sullo strumento di rilevazione elaborato in rapporto alle esigenze che ne hanno motivato ed orientato la strutturazione. L’attività di ricerca, in questo specifico caso declinata in termini di ricerca-intervento, ha nella costruzione di un dispositivo metodologico valido, situato e sostenibile nel tempo una condizione necessaria per poter leggere i dati in maniera corretta ed avvalorare a pieno i risultati facilitandone la ricaduta sul contesto.

The paper presents a methodological device designed and implemented for the project “External evaluation of schools and training institutions” assigned by IPRASE Trentino to Catholic University of Sacred Heart in the school year 2007/2008. Moving from this experience, the purpose of the contribution is to consider the evaluation’s usefulness for school and for different stakeholders and the criteria that make the evaluation suitable for sustainability and the strategic use of data. The focuses is not the presentation of the whole project but the description of the methodological structure in relation to the context needs. In the research activity data are important but for giving them meaning it’s necessary to create a methodological structure which have to be valid, suitable and situated.

Parole chiave: valutazione esterna, scuole, esperienze sul campo, metodi, utilità, stakeholders

Key words: external evaluation, schools, experiences on the field, methodological criteria, usefulness, stakeholders

* A Katia Montalbetti è da attribuire la redazione del paragrafo 1.2; i paragrafi 1.1. e 1.3 sono stati scritti in collaborazione.

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1. Valutare a scuola Il tema della valutazione è oggetto di crescente attenzione ed interesse in molteplici settori disciplinari e campi di attività; non mancano nella letteratura scientifica lavori mirati alla presentazione e all’approfondimento dei modelli e delle teorie della valutazione, delle prospettive d’analisi e classificazione e degli approcci valutativi (Scheerens, Mosca, Bolletta, 2011; Bartezzaghi, Guerci,Vinante, 2010; Checchi, Ichino,Vittadini, 2008; Domenici, 2003). Assai meno frequentemente la letteratura si è interrogata sull’utilità delle procedure valutative e sulle ricadute significative e durevoli in termini di cultura e di sviluppo dei processi di valutazione; in tal senso il patrimonio di esperienze non è stato avvalorato in maniera sistematica come base per la messa a punto di riflessioni utili a rendere la valutazione una leva strategica per rilanciare il sistema di istruzione e formazione. Scopo del contributo è riflettere sull’utilità della valutazione nei sistemi di istruzione e formazione movendo dall’esperienza di valutazione esterna condotta nelle scuole della Provincia Autonoma di Trento (PAT) nell’a.s. 2007/2008 dall’Università Cattolica del Sacro Cuore1. L’utilità di tale esperienza ha trovato riscontri nel tempo divenendo un termine di riferimento efficace per attività valutative condotte in altre situazioni. A livello nazionale è opportuno precisare che l’INValSI – Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di Istruzione e formazione – ha reso noto nel 2010 un modello di valutazione del sistema scolastico e delle scuole, denominato ValSiS2, nel quale è possibile rintracciare alcuni significativi rimandi all’esperienza di valutazione esterna della Provincia di Trento; in tale contesto il framework appare maggiormente articolato e unitario in ragione dell’esigenza di rispondere alla complessità, pluralità e varietà del sistema scolastico nazionale e di offrire elementi di comparabilità in termini di obiettivi e di procedure di analisi. Il riferimento concettuale scelto per l’elaborazione del framework è in entrambi i contesti il modello CIPP (Context – Input – Process – Product), nato verso la fine degli anni Sessanta negli Stati Uniti per aiutare le scuole a sviluppare un sistema che permettesse loro di dar conto del proprio operato (accountability) (Stufflebeam, 1991 e 1983; Stufflebeam, Shinkfield, 2007). Ciononostante il modello ValSiS ad oggi non rappresenta un riferimento organico e diffuso in tutto il Paese; d’altro canto negli anni molti istituti scolastici hanno intrapreso autonomi percorsi di valutazione ed hanno costruito proprie banche dati e benchmarking (Previtali, 2009). Per questo è interessante focalizzare l’attenzione sui processi valutativi implementati nelle scuole, così da interrogarsi sui motivi, sulle ragioni e sull’utilità della valutazione per il contesto. La letteratura scientifica sul tema conferma che la valutazione è uno strumento della ricerca educativa utile a conoscere le scuole, sviluppare e sperimentare modelli innovativi per l’insegnamento e l’apprendimento, offrire una critica informata sulle pratiche e una comprensione più approfondita dei processi e dei risultati (Bottani, 2009;Treellle, 2008; Martini 2008; Paletta, Vidoni, 2006). In tal senso, essa è finalizzata a migliorare la realtà esistente, aiutando, coinvol-

1 Equipe che ha operato in questo progetto: Responsabile scientifico: Prof.ssa Renata Viganò Coordinatore strategico: Dott. Luigi Serio Consulenza: Dott. Alberto Vergani Valutatori: Dott.ssa Cristina Lisimberti, Dott.ssa Caterina Carroli, Dott. Claudio Goisis, Dott.ssa Katia Montalbetti, Dott. Luca Quarantino. 2 Cfr. http://www.invalsi.it/valsis/docs/062010/QdR_I_II%20capitolo.pdf (20/01/2012).

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gendo e regolando le pratiche di quanti si occupano o sono coinvolti a vario titolo nei processi valutativi. Tale modo di impostare la questione permette di evitare che nell’analisi e implementazione dei processi valutativi prevalgano logiche irrispettose della complessità e delle specificità della scuola in quanto istituzione che esprime innanzitutto servizi educativi. La valutazione della scuola rappresenta una sfida non da subire ma da assumere come principio regolatore del propria proprio agire a livello individuale e collettivo. Non a caso già dagli anni Novanta, la preoccupazione per la qualità dell’istruzione ha dato evidenza al ruolo della valutazione dei processi formativi e all’esigenza di avviare forme di controllo organizzativo che rilevassero gli esiti delle attività scolastiche e li mettessero in relazione con gli obiettivi da conseguire e con le risorse impiegate (Lichtner, 1999; Barbier, 1998). La domanda dalla quale prende avvio il contributo risulta apparentemente banale ma essenziale: “Valutare serve?” E in modo ancora più specifico “A quali condizioni la valutazione contribuisce a innalzare la qualità del servizio educativo?”. La direzione percorsa a livello teorico indica che la valutazione serve, ovvero adempie alla sua funzione, quando è in grado di promuovere crescita interna dell’organizzazione-scuola e di facilitare una governance più efficace del territorio integrando le istanze di learning e di accountability. La questione dell’utilità della valutazione risulta centrale per le scuole, le quali faticano ad integrare le molteplici pratiche valutative, tanto che frequentemente tali iniziative entrano in concorrenza tra loro, prendono derive autoreferenziali e faticano a collocarsi all’interno di un quadro sistematico chiaro e condiviso. Nonostante la molteplicità dei processi valutativi avviati, permangono difficoltà nel garantire sostenibilità ai dispositivi attuati poiché faticano a durare nel tempo per l’eccezionalità di risorse materiali e umane che richiedono. Risulta altresì ancora da raggiungere una reale integrazione delle diverse iniziative valutative nel funzionamento ordinario delle scuole anche se è noto e condiviso che una valutazione di qualità è parte integrante di ogni azione progettuale piuttosto che un aspetto aggiuntivo e straordinario. Tale situazione può ingenerare una mera consuetudine burocratica che si risolve nella compilazione di modulistica senza una significativa ricaduta del lavoro valutativo sul contesto. Il rischio, tutt’altro che remoto, è che prevalga la logica dell’adempimento formale e che, in questa direzione, si alimenti una cultura esattamente opposta a quella della “buona valutazione” la quale è tale solo se fornisce ai vari attori del sistema informazioni, analisi e interpretazioni utili a supportare decisioni consapevoli e orientate (Viganò, 2010). In concreto, si finisce per considerare la valutazione come funzione secondaria rispetto ad altre priorità organizzative, innovative, economiche, ecc., a percepirla come un onere, a manipolarla come strategia di marketing che resta però estranea alla produzione di valore, a pretendere dalla valutazione ciò che non può garantire ignorando invece ciò che essa può dare con autorevolezza se ben impostata, ponderata, condotta, assunta (Viganò, 2011). L’istituzione di un sistema di valutazione potrebbe dare origine ad un’ulteriore sovrastruttura burocratica, se non preceduto e accompagnato da un’azione alla base della scuola finalizzata a promuovere nei soggetti la consapevolezza della valutazione come autocoscienza e come capacità pratica, riconoscendo con ciò l’essenzialità del coinvolgimento personale nel processo formativo scolastico (Scurati, 1995). Non meno urgente è innescare processi di consapevolezza culturale che permettano di riuscire a leggere e a utilizzare la valutazione come leva per migliorare in virtù della partecipazione attiva delle persone coinvolte e non di una passiva adesione (Spinosi, 2010; Castoldi, 2012). Le riflessioni sviluppate hanno orientato la costruzione dell’impianto e dell’architettura metodologica dell’attività di valutazione esterna condotta nelle scuole della Provincia di Trento; la volontà di conferire all’esperienza la necessaria solidità e autorevolezza scientifica ma anche la sostenibilità concreta deriva dalla convinzione che qualsiasi azione valutativa può essere utile se rappresenta una risorsa durevole nel tempo ai fini della conduzione e

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della buona gestione dei sistemi e dei processi formativi (Viganò, 2010). Tale modo di procedere è impegnativo poiché richiede volontà di percorrerlo e di giungere ad un modus operandi che sia a un tempo qualificato e autorevole sul piano della validità scientifica e accoglibile da un numero crescente di scuole, premesse per un ampliamento dell’esperienza e una reale integrazione nel sistema (Viganò, 2010).

2. L’esperienza di valutazione esterna nella Provincia Autonoma di Trento In questa sede non si intende presentare l’intero progetto di valutazione esterna delle scuola della provincia autonoma di Trento né render conto dei risultati ma focalizzare l’attenzione sulla descrizione del dispositivo metodologico ed in particolare sullo strumento di rilevazione elaborato in rapporto alle esigenze che ne hanno motivato ed orientato la strutturazione. In tal senso, il dispositivo metodologico costituisce il prodotto dell’attività di ricerca assunto come oggetto di analisi. L’attività di ricerca, in questo specifico caso declinata in termini di ricerca-intervento, ha nella costruzione di un dispositivo metodologico valido, situato e sostenibile nel tempo una condizione necessaria per poter leggere i dati in maniera corretta ed avvalorare a pieno i risultati facilitandone la ricaduta sul contesto. Elementi di quadro ed obiettivi. Obiettivi principali dell’azione di valutazione esterna avviata nell’a.s. 2007/20083 sono stati la rielaborazione dell’esperienza valutativa svolta negli anni precedenti ai fini di un ampliamento della base informativa e lo sviluppo di un dispositivo e di strumenti corrispondenti in vista della progressiva messa a regime su tutta la Provincia; è conseguita perciò la scelta di porre particolare attenzione ai requisiti della sostenibilità in termini di risorse, tempo ed integrazione dell’azione valutativa nell’attività ordinaria del sistema scolastico. Come è noto la provincia trentina rappresenta nel panorama nazionale una realtà particolare per la declinazione data al rapporto fra autonomia scolastica e valutazione (Alulli, 2008); in ragione delle caratteristiche proprie del contesto sono state perciò ponderate le decisioni assunte per la progettazione ed implementazione dell’azione valutativa. Nel modello costruito la valutazione esterna è considerata fattore di successo per lo sviluppo della qualità del sistema formativo, con funzioni complementari rispetto all’autovalutazione di istituto e alle altre valutazioni condotte dalla Provincia ed è intesa perciò come strumento, da integrare ad altri, finalizzato ai decisori e alle politiche educative e formative provinciali. Per evitare l’eventualità di un’iniziativa semplicemente aggiuntiva rispetto alle attività e pratiche già in essere si è proposto un percorso che privilegiasse la leva dell’integrazione fra le molteplici azioni valutative che coinvolgono le istituzioni scolastiche e formative e l’amministrazione scolastica, così da avvalorare il più possibile l’esperienza e il patrimonio informativo già accumulati. E conseguita la scelta di elaborare un dispositivo che, per poter essere progressivamente

3 Per ciò che attiene la valutazione esterna, una prima attività era stata avviata nell’a.s. 2005/2006. L’esperienza realizzata ha motivato la prosecuzione del progetto di valutazione esterna con una nuova azione, avviata nell’a.s. 2007/2008, con caratteristiche di continuità ma anche di differenziazione in prospettiva strategica e di governo del sistema. Alla sperimentazione 2007/2008 hanno partecipato 18 istituzioni scolastiche e formative (9 istituti comprensivi, 2 scuole secondarie di primo grado, 2 Centri di formazione professionale).

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integrabile a regime nell’ordinario funzionamento del sistema scolastico ed essere sostenibile sulla base di un impiego ottimale e razionale delle risorse e delle competenze esistenti, non richiedesse investimenti onerosi e carichi di lavoro eccessivamente gravosi nel medio e lungo termine per tutti i soggetti coinvolti. Descrizione del dispositivo. Come osservato la cornice teorica nella quale va inserito il dispositivo è rappresentata dal modello CIPP; in maniera coerente sono stati assunti come oggetto di analisi le quattro note dimensioni: contesto, input, processi, prodotti. Tre criteri generali hanno orientato l’elaborazione del dispositivo: a) l’opzione di dare peso alle variabili strutturali e non solo alle percezioni (oltre la cosiddetta “valutazione specchio”), b) la scelta di dare consistenza alla solidità del modello e della procedura contenendo il ruolo discrezionale dei valutatori, c) l’intento di stimolare un processo dialettico con le scuole favorendo la consapevolezza delle priorità su cui attivare le azioni future di cambiamento organizzativo. La rilevazione ha beneficiato di tre fonti di dati: a) i risultati relativi all’autovalutazione di istituto; b) i dati amministrativi del sistema; c) la rilevazione diretta sul campo. Le prime due fonti hanno permesso di ottenere informazioni rispetto prevalentemente alle dimensioni del contesto, degli input e dei prodotti; la dimensione legata ai processi è stata invece indagata in modo particolare rilevando dati ex novo. Nella logica dell’integrazione si è comunque deciso di impiegare un unico strumento – una griglia appositamente costruita – nel quale far confluire tutti i dati, di là dalla loro fonte di provenienza, e di richiedere alle scuole di procedere alla compilazione con il supporto e l’accompagnamento dei valutatori. La terzietà del valutatore è collocata in termini non tanto di esperto nel merito dei contenuti tematici e dell’insieme delle questioni attinenti la complessità del funzionamento dell’istituzione scolastica piuttosto di consulente-progettista e accompagnatore di un percorso di progressiva autonomizzazione degli istituti scolastici e formativi per acquisire la capacità di rendere conto in maniera rigorosa e corretta della loro attività, oggettivandola e documentandola; sotteso a tale modo di procedere vi è la convinzione che tale condizione sia necessaria per un’analisi corretta in prospettiva valutativa da parte sia di soggetti esterni sia dell’istituto stesso al fine di apprendere a leggere in maniera evidence-based il proprio funzionamento e di impiegare tale competenza in maniera funzionale a strategie di miglioramento e sviluppo. Il percorso proposto ha comportato fasi di lavoro in presenza e a distanza; ad ogni istituzione è stato assegnato un valutatore referente4 con il compito di accompagnarla nella compilazione della griglia, rilevare in loco informazioni aggiuntive o approfondire quanto già acquisito, stendere il report di valutazione del singolo istituto e curarne la restituzione specifica. L’attività si è sviluppata nell’a.s. 2007/2008, complessivamente tra gennaio 2008 e ottobre 2008. Hanno preso parte in tutto 18 istituzioni scolastiche e formative: suddivise in un primo gruppo di 8 istituti, per i quali la fase operativa è avvenuta tra marzo e giugno 2008, e un secondo gruppo di 10 istituti, per i quali la fase operativa è avvenuta tra maggio e settembre 2008. Di seguito è fornita una sintetica descrizione del percorso.

4 Per l’esperienza in oggetto, ogni valutatore ha seguito l’attività di 3-4 istituzioni fra le 18 partecipanti.

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Tabella 1 – Articolazione del percorso

Strumento di rilevazione. Alla luce delle esigenze di processabilità dei dati e sostenibilità delle procedure di compilazione e di analisi, lo strumento elaborato per la rilevazione consiste in una griglia, piuttosto ampia ma assai agile nella compilazione e nella struttura organizzativa, in cui ciascun istituto inserisce tutte le informazioni che lo riguardano. A ogni istituto è fornita la griglia, un breve documento di spiegazione delle modalità di compilazione e la consulenza del valutatore per eventuali dubbi o problemi; la compilazione della griglia implica la richiesta di fornire i materiali, ossia le fonti informative, preferibilmente in formato elettronico, da cui sono ricavati i dati sintetici inseriti. La struttura della griglia è comune per tutti i tipi di istituti scolastici e formativi, ma elaborata in tre versioni adattate alla specificità di ciascuna tipologia di istituto: istituti comprensivi, scuole secondarie di secondo grado, centri di formazione professionale. Movendo dalle azioni costitutive del funzionamento della scuola individuate nella precedente esperienza di valutazione esterna (progettare, organizzare, insegnare-apprendere, interagire-collaborare, valutare-comparare, innovare-sviluppare) le informazioni richieste sono organizzate in nove aree5: - informazioni di contesto sull’istituto; - rapporti con il territorio; - formazione docenti; - azione didattico-formativa; - esito formativo;

5 Le nove aree sono state definite integrando quelle considerate dalla precedente esperienza con le indicazioni emerse dai riscontri acquisiti dagli istituti scolastici, in funzione della loro complementarità, volta a coprire l’insieme dei campi in cui si articola l’attività degli istituti scolastici e formativi.

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ampliamento dell’offerta formativa; scuola-famiglia; gradimento; valutazione;

Tabella 2 – Stralcio della griglia di valutazione: area VALUTAZIONE

Come risulta dallo stralcio di griglia riportato a titolo esemplificativo, ciascuna area è articolata in più sottoaree e ognuna di queste contiene una serie di item; l’inserimento dei dati relativo a ciascun item prevede due sezioni: informazione (fra le modalità delle risposte possibili, la scuola indica quella corrispondente alla propria situazione) e supporto documentale (l’istituto indica quale documento conferma la fondatezza dell’informazione indicata e ove esso è accessibile, anche tramite indicazione di un link telematico). La griglia include anche alcuni spazi non strutturati in cui il compilatore può inserire note e indicazioni particolari. La procedura di rilevazione è costantemente accompagnata da un supporto on-line che integra i momenti di contatto presenziale e telefonico fra valutatore e scuola assicurando la continuità dei contatti fra valutatore e istituto, la trasmissione dei materiali, la possibilità di completare la griglia di valutazione con link al sito della scuola o a documenti di riferimento.

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I dati forniti nella griglia costituiscono gli elementi movendo dai quali il valutatore ricostruisce la qualità dell’area, ossia della sezione tematica della griglia corrispondente ad un’area di attività dell’istituzione scolastica, integrando con le informazioni rilevate nei documenti messi a disposizione e con ulteriori dati raccolti in loco, in occasione dei momenti di incontro con i referenti di istituto. Restituzione. Al termine della procedura, a ciascun istituto è stata assicurata la restituzione individuale dell’analisi, con la consegna di un report specifico, la cui struttura segue quella dell’articolazione della griglia di valutazione. Il report contiene una rilettura critica dei dati messi a disposizione delle scuole, organizzati per aree, e termina con una sintesi critica che pone in luce il bilancio complessivo dell’analisi e in particolare i punti di forza e le criticità o aree migliorabili emergenti coerentemente con l’obiettivo di aiutare le scuole ad individuare le priorità sulle quali intervenire. Al committente è restituito un report complessivo nel quale è proposta una rilettura trasversale di quanto emerso nelle singole realtà scolastiche e formative e sono fornite alcune indicazioni strategiche per orientare le scelte nell’àmbito delle politiche del territorio in maniera coerente alle richieste formulate in fase progettuale. Conclusioni. Il metodo-modello proposto ha assunto come criterio-cardine la sua sostenibilità in termini di lavoro richiesto a tutti gli attori coinvolti, di autonomia del processo e di durata possibile nel tempo; la volontà di non aggiungere l’ennesima attività (ossia la valutazione esterna) alle molteplici già svolte nella Provincia e l’intenzione di aiutare i singoli istituti e il sistema a spostarsi dall’asse della mera produzione di processi e prodotti valutativi a quella della loro integrazione e gestione strategica hanno sorretto le scelte compiute. Questa istanza ha fatto sì che il ruolo della terzietà (ovvero dell’essere una valutazione esterna) sia stato declinato sul piano della consulenza metodologica di àmbito valutativo affinché gli istituti, attraverso un percorso di consolidamento della metodologia informativa e valutativa, sviluppassero la capacità di impiegare la valutazione in maniera consapevole ai fini della propria gestione e governo strategico. Tale declinazione dell’aggettivo esterna unito alla parola valutazione (esternalità di metodo) è parsa la più in linea con la domanda proveniente dall’Amministrazione scolastica, anche se naturalmente è, in linea teorica, una tra le possibili (Vergani, 2010). Oltre all’esternalità di metodo, alla quale è riconducibile anche la decisione di realizzare la valutazione con un percorso partecipato tra valutatore e gruppo di referenti per conto della singola scuola, merita richiamare altre due possibili accezioni, definite di seguito in termini idealtipici: a) l’esternalità del valutatore, ossia l’idea di valutazione esterna in quanto realizzata – nel percorso e negli esiti in termini di giudizi di valore – da un soggetto individuale o collettivo esterno alla singola istituzione educativa, con la quale ha relazioni improntate alla minima implicazione possibile e in generale ad un grado modesto di dialogicità e amichevolezza; b) l’esternalità di contenuti, vale a dire che la valutazione esterna fa perno da un lato su contenuti e su fonti in parte esistenti a livello di sistema (comunque tutte sottoposte ad ulteriore verifica da parte del valutatore) e dall’altro su dati ed evidenze ricostruite in maniera originale ed autonoma dal valutatore stesso. Le tre piegature della valutazione esterna menzionate non sono inconciliabili tra loro; l’accentuazione dell’una o dell’altra va pertanto compiuta sulla base di una attenta lettura della situazione. Da ultimo merita osservare che la disponibilità, come nel caso dell’esperienza di valutazione esterna nelle scuole della Provincia Autonoma di Trento, di una base informativa affidabile è una condizione necessaria per valutare e rendere fecondo il processo valutativo; tuttavia, tale condizione da sola non è sufficiente se non è accompagnata e arricchita dalla volontà di impiegare gli esiti della valutazione per orientare il processo decisionale a diversi livelli.

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3. Profili e funzioni della valutazione Nelle riflessioni conclusive ci si interroga sull’utilità della valutazione esterna secondo un modello che tiene conto di diversi attori e dei rispettivi vantaggi e benefici che possono trarre. Entro questa cornice è possibile identificare quattro profili della valutazione (Benadusi, Giancola,Viteritti, 2008; Allulli, 2000). In primo luogo un profilo individuale della valutazione dal momento che l’esperienza di valutazione trentina è stata utile per gli insegnanti che vi hanno partecipato; alcuni indicatori di tale utilità sono stati rintracciati nel coinvolgimento fattivo ed in prima persona dei soggetti, nel supporto dato alla loro pratica quotidiana e nell’avvaloramento del loro ruolo per il cambiamento in direzione migliorativa; alcuni ulteriori riscontri rilevati nella fase restituiva e nella qualità della partecipazione all’intero processo permettono di ipotizzare che tale esperienza abbia altresì rafforzato la motivazione e contribuito a rendere i docenti più responsabili del proprio lavoro. Vi è poi un profilo gestionale e politico della valutazione; essa infatti risulta utile alla committenza per accertare ciò che accade nelle scuole, rilevare i punti deboli e quelli forti delle diverse situazioni, stabilire se il livello di risorse è adeguato e gestito al meglio; essa serve inoltre a prendere decisioni per migliorare l’efficacia e l’efficienza degli istituti e per favorire opportune riforme politiche. L’esperienza trentina dà modo inoltre di sottolineare un profilo organizzativo della valutazione esterna, la quale è servita come guida all’azione scolastica ordinaria, come supporto alla presa di decisioni e come stimolo per coinvolgere attivamente il sistema scuola nel suo complesso e i gruppi che lo compongono. In particolare per le scuole coinvolte il percorso ha acquisito un positivo valore formativo; gli istituti hanno potuto confrontare il livello di qualità dell’offerta formativa del territorio di riferimento e sono stati altresì stimolati ad approfondire la conoscenza circa il proprio funzionamento acquisendo consapevolezza delle risorse umane ma anche informative presenti la qual cosa ha posto le premesse per un reale sviluppo della singola realtà e del sistema nel suo complesso (Vergani, 2010). È legittimo ipotizzare come ulteriore beneficio il consolidamento delle reti di relazioni già attive e lo stimolo a crearne di nuove. Non va misconosciuto anche un profilo pubblico della valutazione, che mette in luce la sua utilità per i fruitori del servizio, sia gli studenti e le famiglie sia il mondo del lavoro; in particolare per i primi i dati della valutazione esterna rappresentano una base conoscitiva per scegliere la scuola e il percorso formativo più adatto al singolo studente; la valutazione aiuta inoltre a gestire le interrelazioni con il sistema produttivo, offrendo anche in questo caso, dati di conoscenza che supportano eventuali accordi e forme di collaborazione. L’esperienza svolta nel contesto trentino ha permesso di costruire un dispositivo metodologico ad oggi impiegato in attività di valutazione svolte dal team di ricerca del CeRiForm6 in altri contesti di istruzione e formazione. Sottesa alla scelta di declinare il ruolo del valutatore in termini di accompagnatore e consulente metodologico vi è la convinzione che il profilo di costui non sia riconducibile alla figura di un esperto che dispone di un kit tecnico e applica strumenti, piuttosto ad un professionista impegnato nella costruzione di un contesto nel quale fare emergere e rilevare dati e percezioni, rileggerli e attribuirvi significato secondo una concezione allargata e partecipata. Tale modo di impostare l’attività

6 Centro Studi e Ricerche sulle Politiche della Formazione – Università Cattolica del Sacro Cuore.

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valutativa – merita ribadirlo – non compromette e vanifica la tensione verso l’oggettività ma ne fa cogliere il valore aggiunto (Montalbetti, 2011). Il riferimento all’esigenza di integrare forme valutative diverse, progettate e implementate con obiettivi differenziati, ha trovato nell’esperienza trentina una felice declinazione superando la tradizionale distinzione, talvolta opposizione, fra valutazione interna collocata nella prospettiva del learning e valutazione esterna connessa con quella della accountability. La valutazione è utile quando svolge una funzione di coordinamento tra livello macro e livello micro; in tal senso, occorre imparare a rendere conto in maniera corretta e rigorosa delle attività, oggettivandole e comunicandole in modo da avviare un’analisi corretta in prospettiva valutativa da parte sia dei soggetti esterni sia degli istituti, per rileggere in maniera evidencedbased il proprio funzionamento e migliorarlo. Nella valutazione di un servizio/istituzione la dimensione della verifica dei risultati (output e outcome) va integrata con quella della crescita degli attori del servizio stesso e di questo come organizzazione impiegando dispositivi valutativi comprensibili anche fuori del singolo contesto7. Aprire il processo valutativo all’esterno offre la possibilità di fare della valutazione una leva di sviluppo del servizio integrato sul territorio, recuperando con ciò le dimensioni di sviluppo sociale e educativo che altrimenti restano esterne alla valutazione finalizzata esclusivamente alla crescita interna dell’organizzazione (Montalbetti, 2011). Sul piano metodologico, il richiamo all’opportunità di prevedere strumenti che permettano di mettere in luce la qualità dei processi va commisurato all’esigenza di dotarsi di procedure chiaramente identificabili dall’esterno che, per quanto radicate, abbiano elementi di trasferibilità e siano sostenibili nel tempo. L’autovalutazione degli istituti scolastici condotta in sinergia con la valutazione esterna può offrire dati ed elementi più rigorosi per supportare il processo decisionale sia sul versante della politica scolastica sia sul versante delle decisioni pedagogiche, metodologiche e didattiche che concorrono a definire l’offerta formativa nazionale, territoriale e di istituto (Previtali, 2007). Per non subire passivamente la valutazione esterna e al tempo stesso, avvalorare pienamente l’autovalutazione, è indispensabile costruire una cornice complessiva di senso all’interno della quale collocare le diverse forme di valutazione (valutazione degli apprendimenti, autovalutazione di istituto, valutazione dei dirigenti, valutazione dei docenti ecc.). In assenza di tale disegno condiviso sul piano teorico e provvisto di un’adeguata strumentazione metodologica per essere reso operativo, il rischio è l’acuirsi di una certa competizione delle varie iniziative, dagli esiti incerti e dai risultati prevedibilmente negativi per il sistema (Montalbetti, 2011). L’utilità effettiva dei processi di valutazione è condizione imprescindibile perché il sistema mantenga il suo dinamismo, avvalori le risorse al suo interno, sviluppi il coinvolgimento degli attori e l’interesse dei decision maker in àmbito educativo; non meno essenziale è la sua funzione in termini di stimolo e supporto alla governance del territorio in virtù del reperimento di basi informative, del monitoraggio costante e compartecipato delle azioni intraprese, della comunicazione e condivisione dei dati, dei processi avviati e dei risultati.

7 Cfr. Decreto Legislativo 27 ottobre 2009, n. 150.

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Riferimenti bibliografici Allulli G. (2000). Le misure della qualità. Un modello di valutazione della scuola dell’autonomia. Roma: SEAM. Allulli G. (2008). Autonomia e valutazione.Working paper Fondazione Agnelli, 7, http://www.fga.it/uploads/media/G._Allulli__Autonomia_e_valutazione_-_FGA_WP7.pdf [accesso novembre 2009] Associazione Treellle (2008). Sistemi europei di valutazione della scuola a confronto. Atti del seminario n. 5, Roma. Barbier J.-M. (1989). La valutazione nel processo formativo. Torino: Loescher. Bartezzaghi E., Guerci M.,Vinante M. (2010). Costruire disegni di valutazione sulla base dei fabbisogni degli stakeholder. Milano: Franco Angeli. Benadusi L., Giancola O., Viteritti A. (Eds.) (2008). Scuole in azione tra equità e qualità. Pratiche di ricerca in Sociologia dell’Educazione. Milano: Guerini. Bottani N. (2009). Il difficile rapporto tra politica e ricerca scientifica sui sistemi scolastici. FGA working paper 17, Torino: Fondazione Giovanni Agnelli. Castoldi M. (2008). Si possono valutare le scuole? Il caso italiano e le esperienze europee. Torino: SEI. Castoldi M. (2012). Valutare a scuola. Dagli apprendimenti alla valutazione di sistema. Roma: Carocci. Checchi D., Ichino A., Vittadini G. (2008). Un sistema di misurazione degli apprendimenti per la valutazione delle scuole: finalità e aspetti metodologici. Roma: Invalsi. Cravotta G., Fiorin I. (2005). La valutazione della scuola. Messina: Cooperativa S. Tommaso S.r.l. Domenici G. (2003). Manuale della valutazione scolastica. Roma-Bari: Laterza. Glas C., Scheerens J., Thomas S. M. (2007). Educational Evaluation Assessment and Monitoring: a Systematic Approach. London: Taylor & Francis Group. Lichtner M. (1999). La qualità delle azioni formative. Milano: Franco Angeli. Martini A. (2008). L’accountability nella scuola. Torino: Fondazione Giovanni Agnelli. Montalbetti K. (2011). Manuale per la valutazione nelle pratiche formative. Metodi, dispositivi e strumenti. Milano: Vita e Pensiero. Montalbetti K. (2011). La valutazione nel contesto scolastico: conoscere per migliorare. Encyclopaideia, XV, 115-126. Montalbetti K. (2011). La valutazione nel contesto scolastico. Misurare per capire. Education Sciences & Society, 2, 83-96. Paletta A.,Vidoni D. (2006). Scuola e creazione di valore pubblico. Problemi di governance, accountability e management delle istituzioni scolastiche. Roma: Armando. Previtali D. (2007). La scuola con valore sociale. Sussidiarietà e rendicontazione sociale nelle scuole dell’autonomia e delle indicazioni per il curricolo. Napoli: Tecnodid. Previtali D.,Viganò R. (2008). Il sistema integrato dei processi di valutazione. Napoli: Tecnodid. Roegiers X. (2010). L’école et l’évaluation. Des situations complexes pour évaluer les acquis des élèves. Bruxelles: De Boeck. Rudelli L. (2010). Verso il management delle istituzioni scolastiche e formative. In R. Viganò, D. Previtali, Formazione e innovazione. Il Master in Management delle Istituzioni Scolastiche e Formative (pp. 287-291). Milano: Vita e Pensiero. Sergiovanni T. J. (2000). Costruire comunità nelle scuole. Roma: LAS. Scheerens J., Mosca S., Bolletta R. (2011). Valutare per gestire la scuola: governance, leadership e qualità educativa. Milano: Bruno Mondadori. Scurati C. (a cura di) (1995). Valutare gli alunni, gli insegnanti, la scuola. Brescia: La Scuola. Spinosi M. (a cura di) (2010). Speciale valutazione. Studenti, scuole, professionalità. Napoli: Tecnodid. Stufflebeam D. L. (1983). The CIPP Model for Programme Evaluation. In G.F. Madaus, G.F. Yotros (Eds.), Evaluation models (pp. 117-141). Boston: Kluwer-Nijhoff. Stufflebeam D. L. (1991). Evaluation Guide FOR Evaluations of Programs, Services and Organisations. CREATE: Kalamazoo. Stufflebeam D. L., Shinkfield A. J. (2007). Evaluation, theory, model & applications. San Francisco: Jossy Bass. Vergani A. (2004). Casi di valutazione: processi valutativi e azioni formative. Bologna: Il Mulino. Vergani A. (2010). La valutazione esterna delle istituzioni scolastiche e formative: alcune considerazioni introduttive, http://www.valutazioneitaliana.it/new/attachments/195_professionalita_maggio2010_vergani.pdf [accesso novembre 2011] Viganò R., Cattaneo A. (Eds.) (2010). La qualità dei progetti formativi. Una ricerca promossa dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia. Milano: Vita e Pensiero.

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Ricerche Valutazione di processo nella formazione post-universitaria Process evaluation in post-graduate scientific training: a case study ELISABETTA NIGRIS – LUISA ZECCA* Questo contributo si focalizza sulla valutazione di processo del curricolo di STELLA 2011 – Scuola di Alta Formazione in esperimenti con Laser e applicazioni, per la formazione di giovani ricercatori. Dopo un quadro teorico sulla valutazione di processo e la progettazione didattica, esponiamo i risultati di uno studio di caso, indagine idiografica di tipo qualitativo ispirato alla grounded theory. Sono descritti i “concepts” del curricolo dal punto di vista di tutti i soggetti coinvolti poi confrontati con il modello di progettazione, le metodologie di insegnamento e gli apprendimenti perseguiti. Si evidenziano accordi sul valore formativo dell’apprendistato in laboratorio valutato il “luogo” più adatto per apprendere metodologie di indagine. Emerge disaccordo intorno ad un concept chiave: la sostanziale corrispondenza tra ricerca e formazione utilizzando laboratori di ricerca reali a scopi didattici.

This paper focuses on the evaluation of processes at STELLA 2011 – School for Training in Experiments with Lasers and Applications, intended for young researchers. After a theoretical framework on process evaluation and educational design, we report the findings of a case study, idiographic qualitative inquiry inspired by grounded theory. This study describes “concepts” of the curriculum from the perspective of all subjects then compared with the model design, methods of teaching and learning. There is substantial agreement on the value of apprenticeship training in the laboratory evaluated the “place” to learn more appropriate methods of investigation. Disagreement emerges around a key concept: the substantial correspondence between research and education using “real” experimental laboratories for educational purposes.

Parole chiave: valutazione di processo, grounded theory, progettazione didattica, studio di caso, ricerca didattica, laboratorio, riflessività

Key words: process evaluation, educational design, grounded theory, case study, educational research, laboratory, riflexivity

* Il presente articolo è il frutto del lavoro congiunto delle due autrici. Nello specifico Elisabetta Nigris ha redatto e curato i §§ 1, 2, 3; Luisa Zecca ha redatto e curato i §§ 4, 5, 6; il paragrafo 7 è stato co-redatto.

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1. Il contesto e l’oggetto della ricerca Dal 20 giugno all’8 luglio 2011 l’Università degli Studi dell'Insubria di Como ha organizzato una Summer School: “STELLA 2011 – Scuola di Formazione in Esperimenti con Laser e applicazioni Laser”, destinata a laureati, dottorandi, giovani ricercatori in Fisica provenienti da tutto il mondo. Il curricolo formativo ha previsto una giornata seminariale e la messa a punto di 11 laboratori di ricerca sperimentale riprodotti per essere contesti di formazione. Obiettivo della scuola è formare ricercatori attraverso l’inserimento in laboratori “reali” progettati ad hoc (innovazione didattica) e condotti da ricercatori esperti (formatori). Il percorso formativo della durata di tre settimane prevede inoltre lo studio di bozze teoriche (drafts), una giornata seminariale, la partecipazione a due laboratori liberamente scelti, uno a settimana, e la scrittura in gruppo di un articolo scientifico supervisionato dai docenti referenti, in cui sono presentati i risultati degli esperimenti condotti in laboratorio. Lo scopo originario della Scuola era quello di costruire una rete europea permanente in grado di supportare la condivisione dello “stato dell’arte” di know-how tecnico tra i laboratori attivi nel campo e la sinergia stabile tra formazione e ricerca. La scuola ha coinvolto 36 studenti, 19 professori e assistenti. Degli studenti 22 erano dottorandi, 2 Post Doc, 4 studenti di Master, 1 Assistant Professor, 2 ricercatori e 5 studenti laureati provenienti da tutto il mondo (Asia, Nord e Sud America, Europa e Australia), per tale ragione la lingua utilizzata è stata l’inglese. Inoltre, la maggior parte degli studenti (25) non aveva mai frequentato una scuola di Alta Formazione. La valutazione di Stella School è stata realizzata secondo un approccio mixed method costituito da un’indagine quantitativa (Favale, Zecca, Nigris, Bondani, 2011) e da un’indagine qualitativa. Lo studio quantitativo ha indagato le motivazioni, le aspettative, la percezione degli apprendimenti raggiunti e il grado di soddisfazione generale espresso dall’universo degli studenti con un questionario somministrato alla fine del corso. L’indagine qualitativa si è focalizzata su un laboratorio selezionato dallo staff di direzione di cui ha rilevato il progetto didattico dal punto di vista dei docenti e degli organizzatori della scuola, prima dell’inizio del percorso, e le opinioni degli studenti sul percorso svolto, al termine dello stesso. L’articolo si riferisce esclusivamente a questa indagine. Si tratta di uno studio di caso che rende evidente la riflessione metodologica sui processi di apprendimento e insegnamento relativa al laboratorio “Quantum tomography and CHSH inequality”, relativo al fenomeno di entenglement (Aczel, 2004), messo a punto e condotto dall’équipe del Prof. Paolo Mataloni.

2. La valutazione di processo La valutazione di un percorso o di un fenomeno didattico è un processo complesso teso a rilevare il cambiamento, le trasformazioni che hanno coinvolto l’intero contesto intenzionalmente progettato per l’apprendimento e ogni individuo che ne ha preso parte. La semplice misurazione dei risultati non rende disponibili informazioni utili alla correzione e alla riprogettazione dei processi di un curricolo didattico, ma si limita alla mera indicazione di quanti e quali risultati sono stati raggiunti. La valutazione di processo invece accompagna in itinere l’implementazione del progetto e risponde ai seguenti quesiti: se l’intervento raggiunge i destinatari, se le attività realizzate sono conformi alle attività progettate, se secondo i diversi punti di vista il progetto si sta avvicinando agli obiettivi, quali cambiamenti sta apportando agli individui e ai gruppi. Chiarire le condizioni per cui i risultati sono stati raggiunti è quindi il compito della valutazione di processo, il miglioramento della qualità dei

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risultati è correlato al miglioramento della qualità dei processi, la valutazione dei risultati non è infatti sufficiente. Attivare un percorso di indagine per valutare un intervento didattico significa innanzitutto comprendere quali finalità e quali obiettivi sono stati intenzionalmente ipotizzati prima della fase di attuazione e confrontare, monitorare costantemente ciò che accade per evidenziarne coerenze e scostamenti. Progettazione e valutazione sono processi strettamente connessi, circolari e continui durante la realizzazione di un progetto. La progettazione è intesa più che come applicazione di uno schema, come la creazione di modellizzazioni situate. In opposizione al programma, che determina a priori una serie di azioni in vista di un obiettivo ed è efficace in situazioni stabili e certe, la progettazione delinea una strategia che prefigura scenari d’azione e ne sceglie uno, in funzione di ciò che essa conosce di un ambiente incerto. La strategia cerca senza sosta di “riunire le informazioni, di verificarle, e modifica la sua azione in funzione delle informazioni raccolte e dei casi incontrati” (Morin 2000, p. 63). Secondo Rossi e Toppano (2009) la progettazione presenta 3 dimensioni: la finalità, le variabili didattiche e il percorso. Le finalità individuano le cornici di senso del progettista e ne rispecchiano le filosofie educative, personali rappresentazioni sull’insegnamento e apprendimento. Si tratta di pedagogie “spontanee” sull’apprendimento e sull’insegnamento che sottendono le pratiche educative, assunti impliciti ed intuitivi, in parte di senso comune, in parte assimilati dal docente durante al sua formazione e le sue esperienze didattiche. Le finalità sono dunque le direzioni, gli orizzonti che regolano le azioni didattiche (Atlet, 2003) sono connesse con le variabili didattiche in modo non deterministico, non è mai prevedibile ciò che verrà appreso. La progettazione della formazione realizza un approccio di processo, non di prodotto, questo significa fare emergere l’evoluzione del percorso. Le variabili di un percorso formativo includono gli obiettivi, i nodi epistemici da sviluppare e le metodologie adottate. La valutazione di processo mira a fare emergere i nessi tra le variabili del percorso e a descrivere i passaggi della trasposizione didattica resa attuale nell’azione di insegnamento. Per trasposizione didattica, concetto sviluppato in area francese (Chevallard, 1985) si intende la trasformazione degli oggetti di conoscenza in vista dell’insegnamento. La trasposizione didattica nel contesto preso in esame si realizza in una settimana di laboratorio in cui si attivano esperimenti cruciali per mettere in evidenza fenomeni di fisica quantistica. Nel paragrafo successivo esporremo aspetti fondanti del laboratorio di ricerca come ambiente didattico, finalizzato all’apprendimento.

3. Formazione e ricerca: l’innovazione didattica di Stella School 2011 È ormai largamente condivisa l’idea della natura culturale, sociale e costruttiva della conoscenza, concetto che trova le proprie, origini in Piaget,Vygotskij, Bruner e nei loro successori ed interpreti. L’apprendimento è un processo non soltanto intramentale ma di continue mediazioni con i significati che ogni cultura veicola, “l’intelligenza individuale non è che un momento, che un’espressione di un processo più complesso, di natura sociale” (Doise, Mugny 1982, p. 255). Il senso delle azioni deriva quindi dalla possibilità di prendere parte ad uno scopo condiviso, dalla condivisione delle rappresentazioni sulle esperienze e delle modalità con cui si svolgono. Secondo Dewey la conoscenza già formalizzata degli esperti è la meta del processo di insegnamento e apprendimento che si fonda sull’esperienza del soggetto, la riflessione avviene attraverso la presa di coscienza del dubbio, un esame analitico della situazione nuova, la formulazione di previsioni e ipotesi, e decisioni per l’azione. La ristrutturazione degli schemi cognitivi avviene attraverso processi meta-riflessivi. Nell’approccio

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trasformativo di Mezirow (Mezirow, 2003) l’apprendimento avviene attraverso un’integrazione tra cambiamento della realtà da parte dei soggetti coinvolti e il loro stesso cambiamento attraverso queste azioni. Se la conoscenza si costruisce attraverso l’esperienza, il laboratorio pare essere il luogo, il dispositivo didattico, più coerente per l’acquisizione di nuovi apprendimenti, come la vasta letteratura sui progetti “inquiry-based approach to learning” evidenziano (Barron, Darling-Hammon 2010). Il laboratorio, come ambiente di apprendimento, non è solo luogo di dimostrazione di concetti o teorie provate o osservate e non è nemmeno luogo di esercitazione con obiettivi di prestazione prefissati è luogo di formazione del “pensiero riflessivo”, critico e metacognitivo dove ripercorrere e ricostruire le domande, le ipotesi, le informazioni, le tipologie di problemi, le modalità di porli e di risolverli tipici di un determinato “oggetto” di conoscenza di una determinata disciplina. Al centro del nostro studio di caso c’è la riflessione di insegnanti e studenti sulle attività svolte durante un laboratorio messo a punto per realizzare esperimenti fondamentali nella fisica quantistica, come vedremo nei paragrafi che seguono. Il laboratorio è stato allestito per condurre esperimenti complessi tipici di un laboratorio di ricerca ma per scopi formativi tra cui quello della formazione al metodo sperimentale in uno specifico campo della fisica. Questo approccio rappresenta un’autentica innovazione didattica nella formazione scientifica post-laurea.

4. Obiettivi e metodologia dell’indagine L’indagine qualitativa che abbiamo condotto ha al suo fondamento due presupposti metodologici. Il primo risale alla seconda metà del secolo scorso in cui parte della ricerca pedagogica e didattica ha rifondato il proprio paradigma di riferimento passando da quello positivista al paradigma fenomenologico, ecologico e sistemico, superando il dibattito tra metodologie quantitative e qualitative in direzione di una pluralità di metodologie, di una complementarietà e contaminazione. La ricerca empirica di tipo idiografico a cui noi facciamo riferimento, si ispira alla Grounded Theory (Glaser, Strauss, 1967), orientamento metodologico che meglio risponde a cogliere un fenomeno o un sistema di fenomeni nella loro unicità. La GT è un metodo di ricerca qualitativa che usa un set compatibile con metodi quantitativi e sviluppa una teoria derivata induttivamente attraverso successivi livelli di analisi dei dati e di sviluppo concettuale. È un percorso euristico di codifica, comparazione e categorizzazione1 che ha come fine la comprensione di fenomeni che sono per loro natura complessi e dinamici, si tratta quindi di un’indagine conoscitiva che mira a descrivere un caso particolare. Già Dewey sosteneva che la ricerca sulle pratiche educative non poteva prescindere da una valutazione qualitativa e che fosse rischioso “separare” le variabili. Lo scopo di una siffatta teoria è la conoscenza di come si agisce in un certo contesto e di quali significati attribuiscono le persone alla loro esperienza, lo sguardo è orientato alla unicità delle situazioni cercando di comprendere in modo profondo il punto di vista dei partecipanti per pervenire ad una local theory. L’interesse è centrato sul punto di vista dei soggetti protagonisti dell’esperienza didattica e sulla costruzione di significati cui pervengono attraverso interviste e focus group. Il paradigma adottato è quello costruzionista che assume che il linguaggio non sia un sistema di simboli che rappresenta la realtà, ma uno strumento performativo e di coordinamento di attività. Il

1 L’analisi dei discorsi segue queste fasi: etichettamento descrittivo, prime categorie, macrocategorie, individuazione proprietà per intensità e frequenza, individuazione categorie centrali.

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contesto, la temporalità, la contingenza sono le caratteristiche della conoscenza che si costruisce nel dialogo e costituiscono le dimensioni di cui tenere conto nell’analisi (Caronia, 1997). Le interviste e i focus group che abbiamo condotto sono di tipo semistrutturato e “non direttivo” (Kanizsa, 1998), i temi possono essere distinti in aree di ragionamento su cui l’interlocutore riflette nel modo più libero possibile. I testi che derivano dalle interviste consentono diverse tipologie di analisi orientate all’individuazione di variabili rilevanti che emergono come categorie del discorso attraverso una procedura induttiva emergenziale. Per la raccolta dei dati sono state utilizzate: interviste semi-strutturate in profondità allo Staff di direzione della scuola2, interviste semi-strutturate in profondità ai membri del team teaching del laboratorio3. Sono stati realizzati focus group ai 2 gruppi di studenti che hanno partecipato al laboratorio. L’intervista al membro dello Staff di direzione è stata realizzata all’inizio della seconda settimana della scuola, quelle ai docenti conduttori del laboratorio prima dell’inizio del laboratorio stesso e i focus group agli studenti sono stati realizzati al termine del laboratorio, prima dell’ultima fase della scuola che ha riguardato la scrittura dell’articolo sui risultati ottenuti dalle attività sperimentali realizzate in laboratorio. Gli obiettivi dello studio sono quelli di descrivere e confrontare le valutazioni dei diversi soggetti coinvolti relativamente a: a) i “concepts” di Stella School dal punto di vista dello Staff di direzione e dei docenti; b) il progetto didattico del laboratorio preso in esame; c) la valutazione del percorso formativo e l’autovalutazione degli apprendimenti da parte degli studenti.

5. Risultati e discussione L’analisi dei discorsi, integralmente trascritti, è stata condotta in modo intersoggettivo individuando i temi principali e le espressioni peculiari dei concetti con l’obiettivo di confrontare i diversi punti di vista (staff, docenti, studenti). I risultati dello studio dei testi sono esposti in asserzioni che costituiscono prime categorie interpretative dell’oggetto preso in esame. Nei riquadri vengono citate le sequenze di discorso paradigmatiche come esempi dei dati emersi. 1. I “concepts” della scuola dal punto di vista dello Staff e dei docenti: 1.1 la condivisione del know-how per sviluppare conoscenza scientifica; 1.2 il laboratorio sperimentale come dispositivo didattico. 1.3 la scrittura collettiva di un articolo scientifico, esito del lavoro di un gruppo di ricerca “reale” in formazione e dispositivo che connette didattica e ricerca. 1.4 la corrispondenza tra ricerca e formazione Il concetto fondamentale del curricolo formativo di Stella School, descritto anche nella lettera di presentazione, assume la corrispondenza tra ricerca e formazione, l’ipotesi è che si pervenga ad una scoperta scientifica quando due o più persone iniziano la condivisione di essa. I progettisti di Stella School rimarcano spesso che la collaborazione finalizzata alla conoscenza è più efficace della competizione quando l’obiettivo è raggiungere risultati nuovi e comprendere fenomeni complessi; nel caso della fisica sperimentale riveste un ruolo chiave

2 Aree tematiche delle interviste: storia, “filosofia” e finalità di Stella School; motivazione della scelta dei laboratori di ricerca; obiettivi di apprendimento; il rapporto tra laboratorio di ricerca e laboratorio didattico. 3 Aree tematiche delle interviste: l’oggetto del laboratorio; l’organizzazione e la metodologia del laboratorio; gli obiettivi di apprendimento e le ipotesi di difficoltà di apprendimento; il rapporto tra laboratorio di ricerca e laboratorio didattico.

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l’attività di laboratorio la cui comprensione profonda richiede per lo meno l’osservazione diretta degli esperimenti. I docenti hanno scritto una bozza dell’articolo connesso al laboratorio in cui emergono le teorie, i dati salienti e lo schema dell’apparato sperimentale, i risultati e la loro analisi saranno completati dagli studenti con la supervisione dei professori. L’obiettivo dei laboratori è di riuscire ad ottenere risultati significativi che presentino qualche elemento di novità negli esiti, nei metodi di analisi o negli strumenti utilizzati4. • “Nella ricerca e nella formazione la collaborazione diventa condivisione quando si comunica con gli altri e nell’atto stesso di comunicare si impara”. (concept 1.1) • “Nella ricerca e nella formazione la condivisione della conoscenza in laboratorio tra ricercatori/docenti e studenti è un fattore chiave”. (concept 1.2) • “Insegnando si fa ricerca. Si possono ottenere risultati significativi e in parte originali, degni di pubblicazione scientifica”. (concept 1.3)

I docenti condividono con lo Staff l’idea che la conoscenza si trasmetta attraverso uno scambio che va oltre il sapere, lo stato dell’arte in letteratura, così come viene pubblicato nelle riviste. È attraverso la condivisione delle attività laboratoriali che i giovani ricercatori accedono ad una conoscenza profonda5, quella che consente di impadronirsi dei processi e delle metodologie. • “Le cose si capiscono quando sei in grado di riprodurle e di spiegarle agli altri. Quindi farle aiuta a capirle, perché farle vuol dire che le sai rifare quindi anche che le sai spiegare, questo è l'aiuto del laboratorio” (concept 1.1) • “La parte pratica aiuta anche a pensare, mentre uno fa, pensa, ragiona sulle cose. Il laboratorio è fondamentale perché se uno non ha capito la prova a fare, e si ragiona su ragionandoci la capisce meglio” (concept 1.2) • “La letteratura scientifica non è fatta oggi per divulgare, è fatta per annunciare un primato intellettuale (…) La gente non spiega i segreti…dà abbastanza in modo da dimostrare che è giusto, ma non dà troppo in modo che gli altri possano replicarlo semplicemente, questo è un punto cruciale (…). Quindi non troverà in letteratura quale iter seguire per allineare questo apparato, è un know-how che si tramanda, che fa parte del proprio curriculum” (concept 1.3)

I docenti individuano nell’attività sperimentale varie forme di relazione tra teoria e esperimento. L’attività sperimentale ha come presupposto una teoria rappresentata in formule matematiche e l’obiettivo è verificare empiricamente la bontà della formula attraverso l’accadere di un fenomeno secondo i parametri dati. La prima competenza per un fisico sperimentale è sapere come si predispone un apparato per rilevare un fenomeno. Un secondo passaggio è la capacità di sperimentazione di uno strumento o un metodo diverso per misurare fenomeni noti. L’ invenzione di un apparato nuovo, di un nuovo esperimento sulla base di una teoria rappresenta un salto di qualità ulteriore fino ad arrivare alla scoperta empirica che modifica la teoria perché nessuna delle teorie esistenti è in grado di spiegare il

4 Nelle finestre sono stati inseriti esempi paradigmatici delle affermazioni spontanee dei soggetti intervistati. 5 Questo concetto è confermato dai dati dell’indagine quantitativa.

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fenomeno osservato o immaginato, quindi diventa necessario ripensare ai sistemi concettuali e metodologici a disposizione. Nel rapporto tra teoria e pratica, tra ricerca pura e ricerca applicata, le competenze laboratoriali in senso generale rappresentano uno snodo essenziale ed imprescindibile per la formazione dei ricercatori. 2. Gli obiettivi di apprendimento del laboratorio: 2.1. il punto di vista dei docenti; 2.2 il punto di vista degli studenti; 2.3 il confronto tra “concept” e metodologie didattiche. 2.1. Queste sono le finalità individuate dai docenti: • “Conoscere le problematiche tipiche di un laboratorio di ottica quantistica”; • “Apprendere un metodo di lavoro concettuale e sperimentale per raggiungere un obiettivo, differente dalla simulazione di modelli”; • “Sapere presentare i risultati e scrivere un articolo scientifico”; • “Sapere predisporre un apparato per fare funzionare un esperimento e rilevare un fenomeno”; • “Sperimentare l’allineamento degli oggetti dell’apparato”; • “Sapere utilizzare uno strumento o un metodo diverso per misurare fenomeni noti”; • “Capire i concetti osservando i fenomeni”; • “Formulare domande, trovare indicazioni, formulare ipotesi”; • “Impareranno sicuramente una serie di cose che hanno studiato, che hanno assorbito, un po’ come concetti astratti e vedranno il corrispettivo in laboratorio. La parte bella di questo tipo di ricerca è che uno vede in laboratorio quello che ha studiato a dei corsi di meccanica quantistica, lo vede, lo capisce, lo osserva”.

2.2. Il punto di vista degli studenti. Nelle dichiarazioni sugli apprendimenti raggiunti troviamo accordo e coerenza con gli obiettivi prefissati dai docenti, gli studenti sostengono di avere approfondito conoscenze in un campo della fisica poco noto; di avere “…push the theory in an optical table” ossia di avere avuto la possibilità di confrontare le proprie teorie con l’esperimento. • “Ho imparato qualcosa di molto basilare, conoscevo la teoria, ma non avevo mai visto come applicare la teoria sul tavolo ottico, per me è stato molto utile dal punto di vista pratico”. • “Sì, io conosco la teoria, ma posso comparare alcuni elementi della teoria a un vero oggetto…O almeno un esempio di un oggetto che hai in mente”.

Molti ritengono di avere appreso non solo una metodologia applicativa (experimental skills) e procedurale per condurre l’esperimento, ma di avere nuovi quadri concettuali per capire l’esperimento, nuovi modi di pensarlo e interpretarlo. La maggior parte degli studenti ha apprezzato di dover scrivere un articolo, anche se non sempre era chiaro che la scrittura fosse parte integrante del percorso formativo e delle competenze del ricercatore.

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• “Per me la pubblicazione sarebbe qualcosa in più, pubblicare è importante, però per me la cosa più importante era imparare qualcosa, quindi la pubblicazione è su un secondo piano”. • “Sono collegate, impari qualcosa, poi lo pubblichi”. • “Per me è molto importante pubblicare, io ho bisogno di questo. Tu puoi pubblicare per i fatti tuoi, ma non puoi imparare senza supervisione”. • “Se tu scrivi tu puoi imparare di più, devi capire devi tornare indietro all’inizio per capire se ci sono delle parti complicate di cui non sei del tutto certo, devi tornarci sopra di nuovo… quindi tu impari durante la scrittura”.

Si evidenzia accordo tra docenti e studenti che individuano alcuni degli elementi chiave delle aspettative e degli obiettivi dei docenti: l’idea che sperimentando un concetto si giunga ad una comprensione più profonda; l’apprendimento di un know-how per portare a termine l’esperimento; l’acquisizione di consapevolezza dell’importanza delle procedure di sicurezza come atteggiamento di attenzione, cura e rispetto del lavoro di preparazione all’esperimento; la capacità di scrivere articoli scientifici che presentino i processi e i risultati di un esperimento in laboratorio. L’articolo secondo gli studenti è stato un forte stimolo perché l’esperimento andasse a buon fine. I docenti prevedono alcune difficoltà nel raggiungere gli apprendimenti ipotizzati, in particolare nella comprensione del funzionamento dell’apparato sperimentale per mancanza di conoscenza degli strumenti a disposizione; nel raggiungimento di un livello di comprensione concettuale profondo per l’incapacità di riconoscimento della teoria quantistica nel fenomeno rilevato dall’esperimento, dato che la teoria è contro intuitiva rispetto al senso comune ed è probabilistica, infine per la diversità degli stili di apprendimento, che non corrispondono sempre alle modalità di insegnamento e la mancanza di tempo nel curricolo da dedicare allo studio individuale.Tali difficoltà non sono emerse nelle idee degli studenti che rilevano come punto di maggiore criticità la mancanza di tempo per implementare in maniera approfondita ogni singola attività. La criticità rilevata anche dai docenti è la mancanza di tempo sufficiente per la realizzazione delle diverse attività in relazione agli obiettivi: • “...dal mio punto di vista sarebbe meglio lavorare due settimane su un topic, per scrivere poi il paper, invece di lavorare su due topics diversi, uno ogni settimana.”

2.3 Il confronto tra “concept” e metodologie didattiche: ossia come il metodo formativo ha saputo tradurre l’approccio di Stella School.Veniamo ora alle scelte di trasposizione didattica dei ricercatori/formatori riguardo agli esperimenti da proporre e alle metodologie di conduzione. La scelta di test paradigmatici per le informazioni quantistiche è focalizzata sul concetto di fotone e sulla rilevazione del fenomeno di entanglement: • “Noi vediamo l’entanglement …. Arriva un fascio laser, una sorgente di coppie di fotoni, un fascio laser è fatto di tantissimi fotoni, che sono le particelle della luce, fascio molto intenso, incide su un cristallo, nel cristallo alcuni di questi quanti di luce si dividono in due, cioè c’è un fotone che si splitta in due, una particella che dà due particelle e queste due particelle si comportano come se fossero una cosa unica, quindi questi 2 fotoni sono detti fotoni gemelli. (…) La difficoltà tecnica particolare di fare esperimenti di ottica quantistica è che sono esperimenti in cui si va a guardare la singola particella della luce (…) e quindi prendere due

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fotoni e studiarne le proprietà quantistiche è estremamente difficile. Cioè è un esperimento che una volta montato è semplice, ma riuscire a vedere il fenomeno è molto complicato, se uno sa dove andare a cercarlo…È un esperimento molto complesso da preparare, si può molto facilmente perdere tutto. Poi abbiamo pensato di fare l’esperimento a varie condizioni, secondo vari parametri. Abbiamo puntato a una condizione in cui la qualità di quello che facciamo non sarà ottima, ma questo lo renderà più robusto rispetto ad eventuali imperfezioni. Uno può decidere di avere una cosa in cui le prestazioni sono molto superiori, ma che la rende più critica, qui abbiamo scelto una condizione in cui loro potevano lavorare, non al top, ma anche in condizioni non ideali. Ci siamo messi un entry level…”

L’esperimento portato a STELLA School è stato collaudato nel laboratorio di ricerca di Roma che in questi ultimi anni è oggetto di ricerca anche per studenti e dottorandi. Un passaggio essenziale per il trasferimento dell’esperimento nella sede di STELLA School è il collaudo, la rintracciabilità dei riferimenti e una strategia di uscita in caso di errori macroscopici da parte degli studenti. Il docente è una figura di garanzia che assicura che se le cose non funzionano e gli studenti non correggono, interviene spiegando e mostrando come fare. Il docente guida i diversi passaggi, mostra come si fa, mostra l’esito delle azioni sugli strumenti, orienta l’osservazione, verifica che gli strumenti funzionino come devono, sollecita la formulazione di previsioni, l’interpretazione dei risultati e la verifica dei modelli previsti. In laboratorio si alternano momenti di spiegazione a momenti di dialogo con gli studenti, all’osservazione, alla presa delle misure, all’interpretazione delle stesse. In alcuni momenti i 4 studenti lavoreranno sugli stessi oggetti, altre volte si divideranno i compiti in modo che ognuno abbia la possibilità di seguire e osservare tutti i passaggi. Si possono individuare le fasi del percorso didattico: • conoscenza delle procedure per la sicurezza nel laboratorio; • verifica del background teorico e sperimentale degli studenti; • conoscenza, comprensione e abilità nell’uso degli strumenti del tavolo ottico e dell’intero apparato sperimentale. Gli studenti dovranno prima di tutto capire con che tipo di macchina e di sistema fisico hanno a che fare per poi poterlo padroneggiare e controllare: • allineamento, osservazione, presa delle misure, verifica della correttezza del modello. A seconda della familiarità con teorie e strumenti gli studenti potranno direttamente sperimentare; • documentazione dei risultati, preparazione slides di presentazione dell’esperimento, scrittura collettiva per l’articolo. Nella comparazione con la riflessione degli studenti sulle metodologie utilizzate dai docenti emerge un evidente accordo e la sostanziale individuazione delle fasi e dei processi attivati. In generale gli studenti hanno una percezione di qualità e completezza dell’esperimento sia nella preparazione che nella conduzione. L’impressione è che i docenti sapessero già quale sarebbe stato il processo per ottenere risultati migliori, nonostante la sorgente luminosa fosse un’innovazione tecnologica. • “Tutto era abbastanza predefinito per imparare in profondità le basi di questo esperimento (…) dopo abbiamo iniziato a preparare il set up dell’esperimento, sicuramente non tutto era stato predisposto molto bene, e abbiamo pianificato il tutto di nuovo migliorando i parametri, una parte di noi operava su questi dati e un’altra faceva il set up. Questo è stato il processo per, come dire, avvicinarci a entrambe le parti: la parte sperimentale e teorica, e dopo ogni step abbiamo discusso di cosa avevamo fatto, di cosa avremmo dovuto fare dopo”.

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Gli studenti in accordo con i docenti dichiarano che l’obiettivo del laboratorio non è soltanto il risultato, ma soprattutto il metodo: dopo la parte sperimentale ci sono discussioni su ciò che sta succedendo, sui fenomeni tipici, sulla strumentazione e sulle misurazioni. Nel piccolo gruppo il conduttore sostiene la formulazione di previsioni da parte degli studenti, che poi verranno verificate tornando in laboratorio. Questo andare e venire dalle ipotesi alla loro verifica e viceversa, che costituisce il cuore del metodo scientifico, si dimostra fondamentale in ogni apprendimento di tipo esperienziale. Gli studenti sostengono inoltre di essere stati supportati singolarmente nella comprensione delle varie fasi dell’esperimento, che la conduzione fosse modulata in base ai diversi livelli di competenza, e nello stesso tempo che la condivisione fra i partecipanti fosse privilegiata rispetto alla competizione, le discussioni nel gruppo sono ritenute fondamentali per la comprensione dei fenomeni e della teoria. • “Il conduttore ha trovato il modo di raggiungere ognuno di noi, perché puoi vedere che i livelli degli studenti sono molto diversi”. • “La teoria quantistica è molto diversa dalla classica è necessario dare agli studenti qualche integrazione alla teoria, il set up era già costruito perchè era davvero un'apparecchiatura sofisticata e non saremmo stati in grado di costruirlo in 4 giorni, nemmeno in mesi magari… il conduttore diceva cosa stava succedendo cosa si doveva fare per ottenere qualche risultato, tu hai bisogno delle discussioni per far sì che la tua mente capisca che sei in un campo differente, ed è ciò io credo che ha reso questo esperimento e questo corso totalmente differenti dagli altri”.

2.4. La corrispondenza tra ricerca e formazione. L’uso di laboratori sperimentali a scopo didattico, quarto concetto chiave della filosofia della scuola, viene discusso in modo critico da docenti e studenti. Qui si rileva un disaccordo rispetto alle ipotesi dello Staff. • “Sono strettamente legate … la ricerca aiuta la didattica e la didattica aiuta la ricerca… se fai didattica ma non fai ricerca rimani indietro, insegni cose vecchie, mentre se fai ricerca e non fai didattica, ti perdi un modo di sapere spiegare le cose agli altri, di comunicarle, quindi la tua ricerca rimane un po’ fine a se stessa. Ma per quanto mi riguarda sono processi separati”

Nel laboratorio didattico, si sfida la teoria, ma gli esperimenti funzionano, tutto è prestabilito e testato, non si originano nuove scoperte, l’innovazione del laboratorio esaminato consiste nell’uso di un nuovo laser per rilevare determinati fenomeni noti. In genere un laboratorio di ricerca si rivolge ad un utente esperto, possono esserci gli stessi strumenti, ma vengono presentati in un modo più tecnico, meno accessibile. Anche gli articoli che verranno realizzati saranno puntuali in quanto a metodo e rigore nella presentazione dei dati, nella descrizione dell’esperimento e nella discussione dei risultati, più che presentare novità e scoperte concettuali di rilievo. • “Loro faranno un esperimento in cui dovrebbero riuscire a capire tutto quello che fanno dovrebbero alla fine avere una comprensione completa, questo è l’obiettivo”. • “La teoria della meccanica quantistica è oggi una teoria assolutamente decodificata, ormai sono 100 anni, in 100 anni tutte le previsioni sono state verificate. La teoria ormai è standard, fino a quando non vediamo effetti diversi, la teoria è quella. Infatti oggi la meccanica quan-

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tistica non viene più testata, ma viene usata come strumento per le applicazioni”. • “Non saranno articoli in cui misureranno cose che nessun altro ha mai misurato, però sono articoli scientifici tout court perché sono fatti con rigore, è la descrizione di una misura, che non è originale perché è una misura che hanno fatto anche altri, però è una misura dei parametri fisici delle disuguaglianze di Bell fatta di tutto punto.”

Anche dal punto di vista degli studenti nel laboratorio didattico, si “sfida” la teoria, ma gli esperimenti funzionano, tutto è prestabilito e testato, non si originano nuove scoperte. Un laboratorio per apprendere o per fare ricerca? Qualche studente critica in modo netto il presupposto di non distinzione tra ricerca e formazione: • “Non sono sicuro dello scopo di questo corso, potrebbe essere imparare, insegnare…, ma se lo scopo è raggiungere nuovi risultati, nuovi scientificamente parlando, beh mi spiace, per questo non è abbastanza” “penso che dovrebbero dividere, chi lavora sui nuovi risultati dovrebbe lavorare due settimane, tre settimane, 4 settimane per fare l’esperimento e così potremmo ottenere i risultati, forse, raggiungere nuovi risultati. O se vogliamo imparare qualcosa in più, nuove tecniche, allora non dovremmo fare cose di così alto livello per raggiungere risultati nuovi, potremmo scrivere qualcosa ma non un paper scientifico, non nel vero senso della parola, cioè una specie di paper scientifico, ma non uno vero… per imparare come scriverlo...”.

Conclusioni Si evidenzia un sostanziale accordo tra Staff, docenti e studenti rispetto agli obiettivi d’apprendimento auspicati e quelli raggiunti ed emerge coerenza tra i processi formativi attivati, gli obiettivi e le metodologie. Nel confronto tra le interviste ai docenti e agli studenti emerge come dato da segnalare che i docenti hanno previsto la possibilità di modificare l’esperimento a seconda dell’interpretazione dei docenti sulle conoscenze e competenze degli studenti. L’obiettivo infatti non è tanto il raggiungimento del risultato “inedito” quanto rendere accessibile agli studenti il “metter mano” al tavolo ottico. Le note critiche emergono da un solo gruppo costituito da pochi studenti più esperti che obiettano l’eccesso di “didatticità” del laboratorio, poco innovativo e semplificato per le loro competenze. Se la disomogeneità, in termini di conoscenze e competenze è un valore in termini di possibilità di scambio e confronto, allo stesso tempo è un limite per chi conduce il laboratorio. La proposta didattica deve essere sufficientemente “sfidante” per i soggetti in formazione, ma non troppo complessa da essere percepita come inaccessibile. Inoltre nella progettazione della scuola va considerata e fatta emergere la gestione delle interazioni relazionali all’interno del gruppo da parte del conduttore. Più in generale, sembra essere cruciale la modalità con cui i docenti conducono il laboratorio, sia per quanto riguarda la gestione delle relazioni, sia per quanto riguarda l’integrazione fra valenza didattica dei laboratori e finalità di ricerca scientifica. Le criticità segnalate e i disaccordi aprono importanti questioni sul rapporto tra ricerca e formazione attraverso i laboratori, temi che accenniamo brevemente e che potrebbero tracciare nuove prospettive di studio e di riprogettazione del curricolo: è possibile predisporre set up o dispositivi di ricerca-formazione che permettano agli studenti di essere più attivi nel “manipolare” gli oggetti, più “sperimentatori” effettivi più che esecutori supportati

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dal tutoraggio di ricercatori più esperti, e in questa direzione, quali semplificazioni ha senso progettare? E ancora è possibile migliorare le condizioni didattiche perchè il paper costituisca effettivamente e diffusamente una leva per imparare sia modalità di scrittura di un articolo, sia concetti e metodologie coinvolti nel processo di ricerca? In conclusione il laboratorio si conferma come contesto d’apprendimento metodologico e metacognitivo, e, più che realizzare scoperte profondamente innovative, per quanto elevata possa essere la complessità degli apparati e i set up degli esperimenti messi a punto, in presenza delle condizioni descritte ha buone probabilità di formare giovani scienziati alla ricerca sperimentale.

Riferimenti bibliografici Aczel A.D. (2004). Entanglement. Il più grande mistero della fisica. Milano: Raffaello Cortina. Favale F., Zecca L., Nigris E., Bondani M. (2011). Stella for training in experiments with laser and laser applications. Short-term evaluation by quantitative methods. The European Physical Journal Special Topics, 199, 195-212. Atlet M. (2003). La ricerca sulle pratiche di insegnamento. Brescia: La Scuola. Barron B., Darling-Hammond L. (2010). Prospect and challenges for inquiry-based approaches to learning. In H. Dumont, D. Istance, F. Benavides (Eds.), The nature of learning (pp. 199-225). Paris: OECD. Caronia L.(1997). Costruire la conoscenza. Firenze: La Nuova Italia. Chevallard Y. (1985). La transposition didactique: du savoir savant au savoir einseigné. Grenoble: La Pensée Sauvage. Doise W., Mugny G. (1982). La costruzione sociale dell’intelligenza. Bologna: Il Mulino. Glaser B. G., Strauss A. L. (1967). The discovery of the grounded theory: strategies for qualitative research. New York: Aldine de Gruyter. Kanizsa S. (1998). L’intervista nella ricerca educativa. In S. Mantovani (Ed.), La ricerca sul campo in educazione. I metodi qualitativi (pp. 36-81). Milano: Bruno Mondadori. Mezirow J. (2003). Apprendimento e trasformazione. Milano: Raffaello Cortina. Morin E. (2000). La testa ben fatta. Milano: Raffaello Cortina. Rossi P.G., Toppano E. (2009). Progettare nella società della conoscenza. Roma: Carocci.

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Ricerche La memoria del tirocinio Una ricerca sulla scrittura documentale degli studenti universitari The training memory. A survey on documentary writing of University students LOREDANA PERLA – NUNZIA SCHIAVONE – VIVIANA VINCI* Le autrici presentano i risultati di un’indagine delle attività del tirocinio universitario degli aa.aa. 2009/2010; 2010/2011 nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bari svolta utilizzando un protocollo fenomenologico e un dispositivo di scrittura documentativa: “La memoria del tirocinio”. L’indagine ha evidenziato che, accanto alla struttura esplicita del tirocinio, regolata dalle norme (dall’art.18 della Legge 24 Giugno 1997, n. 196), esiste una struttura latente che regola le attività pratiche e che è emersa grazie all’uso dei dispositivi di scrittura utilizzati nel corso della ricerca. I risultati fanno emergere due aree di criticità del tirocinio: la comunicazione fra mentori e tirocinanti e lo scarso coinvolgimento degli studenti in attività pratiche. Il percorso ha infine rivelato l'importanza della scrittura come via per far luce sulle dimensioni latenti del tirocinio universitario e per la documentazione delle attività di tirocinio autentiche.

The authors present the results of a survey on the activities undertaken in the university training in aa.aa. 2009/2010, 2010/2011, Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi di Bari. Research has underlined that the training college has an explicit structure, governed by the rules (Article 18 of Law 24 June 1997, n. 196) and a latent structure that emerges by means of the use of writing devices in research. The results underline demonstrate two critical areas: the difficult communication between mentors and trainees and the inadequate involvement of students in practical activities. The course reveals the importance of writing as a way to shed light on the latent dimensions of university training and data.

Parole chiave: didattica della scrittura, tirocinio universitario, documentazione, approccio fenomenologico, analisi qualitativa, pratica riflessiva

Key words: writing didactics, university training, data, phenomenological research approach, qualitative data analysis, reflective practice

* L'articolo è il frutto di un progetto condiviso.Tuttavia Loredana Perla è autrice dei paragrafi 1 e 3; Nunzia Schiavone del paragrafo 2 e Viviana Vinci del paragrafo 2.1.

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I percorsi di Tirocinio universitario hanno, come è noto, una struttura patente, regolamentata dall’art.18 della Legge 24 Giugno 1997, n. 196 sui Tirocini formativi e di orientamento e dal relativo decreto attuativo n. 142 del 25.03.1998, e una struttura latente radicata nella comunicazione carsica che si instaura fra tutor, mentori e tirocinanti (Damiano, 2007). Di questa struttura latente, della sua essenziale consistenza, generalmente si conosce poco, per varie ragioni. Anzitutto perché il “farsi” delle storie di formazione al tirocinio degli studenti universitari prende corpo in una trama perlopiù “invisibile”, intessuta nella idiograficità di relazioni, contesti e pratiche a volte anche estremamente differenziati. I format documentali tradizionalmente utilizzati per dar conto dell’esperienza (le relazioni di tirocinio), difficilmente riescono a restituire colori e sfumature di tali trame. A ciò si aggiunga che la documentazione degli itinerari di formazione ai saperi pratici – e il tirocinio formativo universitario ne è uno dei più importanti – non è mai semplice né da realizzare, né da modellizzare: sia per la difficoltà di far luce sulle componenti implicite che lo caratterizzano (Perla, 2010), sia perché il sapere del tirocinio si costruisce in una dinamica squisitamente relazionale i cui tratti emergono nella “triangolazione” comunicativa fra tutor universitario, mentore (scolastico, di comunità, aziendale), studente. E tale triangolazione è interpretata dai suoi protagonisti in modi sempre molto variegati, a volte eccedenti le formalizzazioni esistenti (Brooks, Sikes, 1977). Sappiamo invece abbastanza bene cosa dovrebbe essere il tirocinio “in teoria”: un accompagnamento didattico dello studente all’incontro/scontro con tre livelli diversi di esperienza formativa (Demetrio, 1997): retrospettiva (la storia cognitiva ed affettiva del soggetto), situazionale (la specificità dei contesti di apprendimento); proiettiva (la prefigurazione di scenari, scopi, relazioni con la realtà del lavoro). Anche in ragione della complessità e poliedricità degli schemi formativi che lo regolano, la “posizione” del tirocinio all’interno del curricolo universitario non è ancora didatticamente ben riconoscibile: nel racconto degli studenti emergono le rievocazioni di esperienze positive e, spesso purtroppo, anche molto deludenti. Non è automatico, infatti, che il contesto di accoglienza del tirocinante sia sempre un buon contesto: spesso accade che lo studente vi sia lasciato solo, entro il mero orizzonte dell’osservazione o dell’esecutività di compiti distanti da quelli ch’egli attenderebbe di svolgere. Di qui il “paradosso” del tirocinio: a un profilo istituzionale ed epistemologico abbastanza chiaro si oppongono pratiche opache. Dalla riflessione su tale paradosso sono emerse le domande-chiave di una ricerca-formazione avviata nell’anno accademico 2010/11 nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bari che ha inteso porre la qualità pratica della formazione del tirocinio a suo oggetto di attenzione. L’obiettivo generale è stato quello di illuminare le dimensioni sottotraccia del tirocinio, documentandole attraverso la scrittura delle azioni di formazione e dei vissuti emozionali dei suoi protagonisti principali: gli studenti. Queste le domande per le quali si è cercata qualche prima, plausibile risposta: quali azioni e attività vengono esperite concretamente dallo studente nel percorso del tirocinio formativo universitario? In che modo i tirocinanti accostano l’abilità artistica dei professionisti che affiancano? E che tipo di comunicazione didattica si svolge fra tirocinante, tutor e mentore? (Becchi, Ferrari, 2009). E, infine, come è possibile far luce sulle componenti tacite di questo segmento fondamentale della formazione universitaria mirato all’apprendere dall’esperienza (Mortari, 2003)? La ricerca ha perseguito quattro scopi: a) far emergere il punto di vista dello studente-tirocinante sulle pratiche di formazione vissute;

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b) validare un dispositivo di scrittura documentale utile a raccogliere detti e non-detti della formazione del tirocinio; c) evidenziare eventuali criticità dell’esperienza al fine di migliorare il servizio del Tirocinio della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bari – anche in ragione della referenza del servizio assunta da chi scrive e del conseguente impegno sul fronte della qualità didattica universitaria – (Perla, 2004); d) individuare i tratti di qualità delle esperienze di tirocinio degli studenti da assumere sia in direzione conoscitiva (per delineare un sapere del tirocinio anche a partire dal punto di vista dello studente), sia in direzione formativa (per costruire un modello di accompagnamento didattico al tirocinio universitario attraverso la scrittura).

1. Scrivere “tirocinando”: il quadro teorico dell’indagine Come già evidenziato in lavori precedenti (Perla, 2008a, 2008b; 2009a, 2009b; 2010a; 20101b; 2011), consideriamo il paradigma fenomenologico (Mortari 2006; 2010; Giorgi 1985; Van Manen 1990; Moustakas 1994) particolarmente appropriato in tutte le indagini che vogliano cogliere le dimensioni sottotraccia delle pratiche formative, sia perché valorizza profondamente la soggettività dei protagonisti implicati, il loro “punto di vista sulle pratiche” (Perla, 2010), sia perché agevola la comprensione delle qualità dei fenomeni accostati e i significati che tali fenomeni assumono per coloro che ne fanno esperienza. Inoltre lo stile fenomenologico consente di accostare l’ “oggetto” studiato al di fuori di teorie precostituite, con delicatezza e cautela, mirando a “descrizioni interpretative” (van Manen, 1990) che fanno giungere in progress a denotare ciò che di esso è qualitativamente essenziale, mentre il ricercatore mantiene una postura di ricezione aperta all’intuizione e all’ospitalità della parola dell’altro. C’è un’altra ragione che ha giustificato la scelta, facendoci propendere per un disegno di ricerca di impianto qualitativo. L’intricata problematicità dell’esperienza di tirocinio (emersa grazie ad alcuni colloqui informali effettuati con gli studenti), ci ha convinte dell’opportunità di adottare un metodo rispettoso di pratiche mai esplorate sino ad allora per fini di ricerca e, nella nostra sede, documentate soltanto attraverso la relazione di tirocinio: un metodo a-metodico (Mortari, 2006), capace di far dire agli studenti la pratica vissuta del tirocinio al di fuori di presupposizioni categoriali, restando fedeli il più possibile al fenomeno osservato. Ciò ha comportato per noi un impegno non lieve nella descrizione analitica dei materiali verbalizzati che sono stati accostati in quanto datità originalmente offerenti e letti attenendoci, il più possibile, al “principio di evidenza” che, come è noto, impegna a formulare solo affermazioni che danno voce a tali datità con un linguaggio capace di dire con precisione le loro qualità. Ci auguriamo d’esserci riuscite. La ricerca-formazione è partita come già detto nell’a.a. 2010/2011 in concomitanza con l’avvio del percorso formativo al tirocinio interno ed esterno di un gruppo di 124 studenti afferenti al corso di laurea magistrale in Scienze dell’educazione degli adulti e della formazione continua della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. In un prima fase del percorso il referente didattico del tirocinio (componente dell’équipe di ricerca), ha incontrato gli studenti per consegnare loro un dispositivo inedito di scrittura documentale del percorso, denominato “La memoria del tirocinio”.

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Tale dispositivo ha sostituito la relazione di tirocinio come forma di accompagnamento riflessivo scritto all’esperienza che gli studenti avrebbero svolto. La proposta di sostituzione è stata approvata anche in Commissione di tirocinio sulla base della tesi che la relazione di tirocinio, in ragione della sua struttura “scientifica” e del suo registro paradigmatico, non riesce a rendere conto dei livelli informali degli apprendimenti degli studenti laddove, invece, un dispositivo di descrizione-narrazione dell’esperienza (unitamente all’adozione di un registro più informale) lasciano emergere l’”indicibile” dell’esperienza stessa: ciò che non può essere detto a voce ma solo scritto perché troppo vero (Zambrano, 2006). L’intenzione era infatti quella di dar voce all’esperienza soggettiva dello studente entro uno spazio di riflessione a posteriori su quella medesima esperienza. Oltre che agli scopi della ricerca dunque, il dispositivo ha assolto a tre funzioni (Damiano, 2004): ermeneutica, consentendo un esercizio di elaborazione dei significati dei dati di osservazione passiva e di immersione attiva del tirocinante nell’esperienza in svolgimento; formativa, attraverso la codificazione linguistica dell’esperienza assunta quale occasione di trasformazione della propria soggettività (dal ruolo di studente a quello di tirocinante); euristica, al fine di guadagnare allo sguardo del ricercatore alcuni dati utili in fase di formalizzazione di un modello replicabile per la formazione dello studente al tirocinio universitario, scopo ultimo della nostra ricerca. La scelta di uno strumento descrittivo-narrativo è stata fatta in coerenza con l’impianto di matrice fenomenologica dell’indagine: la “forza” della scrittura sta infatti nella sua matericità capace di sfidare l’invisibile (Demetrio, 2008), di reperire i meccanismi e le dinamiche meno visibili dell’esperienza narrata (Laneve, 2009). Eppoi, come attestato dagli studi narrativisti e autobiografici (Bruner,1992; 2002; Smorti, 1994, Batini, Del Sarto, 2005; Demetrio, 1996; Formenti,1998), la scrittura narrativa crea le condizioni di scoperta-rivelazione, da parte del soggetto, di quel “tempo biografico” che supera la mera ricostruzione cronologica dei fatti e diventa, invece, tempo di coscientizzazione. Tempo di autoriflessività che investe l’identità nella sua interezza. E veniamo alla presentazione del dispositivo. Esso si articola in quattro sezioni: anagrafica, progettuale, documentale, valutativa. Per economia di spazio non è qui possibile descriverlo nella sua interezza, né offrire le risultanze complete del percorso, ancora non disponibili. Previo accordo stabilito negli incontri di restituzione avvenuti con gli studenti, i corpora di scritture documentali sono stati sottoposti ad analisi qualitativa Qda (Qualitative Data Analysis), con procedura Moustakas (1994): al momento, in totale, sono stati analizzati 50 dispositivi. Tutti i dispositivi consegnati dai ragazzi sono stati infine archiviati presso il Servizio di Tirocinio della Facoltà al fine di gettare le basi della costruzione di un fondo delle memorie degli studenti inerenti alle attività formative del Tirocinio di Facoltà: l’impegno a favore del miglioramento della qualità del servizio passa anche attraverso la costituzione di un thesaurus delle esperienze di coloro che le vivono mano a mano come testimoni attivi: gli studenti. E poi, in generale, pensiamo convintamente che non possa esserci alcuna elaborazione didattica senza una riflessione approfondita su quanto costituisce la storia di quella didattica. Ecco perché la costituzione di questo fondo rappresentare il primo tassello di un progetto (Progetto T) che agevolerà in futuro la lettura e la valutazione diacronica del servizio di Tirocinio. Riportiamo in Tab.1 l’indice del dispositivo “La memoria del tirocinio” con un breve dettaglio elucidativo che descrive le sezioni in esso contenute.

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Tab. 1: Sezioni del dispositivo “La memoria del tirocinio” p I - Sezione anagrafica Scheda 1 – Anagrafica del tirocinante Scheda 2 – Anagrafica dell’ente ospitante II - Sezione progettuale Scheda 3 – Cronoprogramma Scheda 4 – Progetto di tirocinio Lista delle attività – Fase preliminare/orientativa Lista delle attività – Fase formativa di accompagnamento Lista delle attività – Fase rendicontativa finale Scheda 5 – Consuntivo III - Sezione scritture documentali Apprendisti (non) per caso: il racconto di tirocinio Le scrittura “immediata” Le scritture “pensata”

IV - Sezione valutativa Scheda 6 – Scheda di osservazione ente Scheda 7 – Io valuto

In questa sezione il tirocinante inserisce i dati relativi alla sua persona e all'Ente convenzionato indicando il nome del mentore accogliente. In questa sezione il tirocinante inserisce il cronoprogramma delle attività e il progetto di tirocinio elaborato nella triangolazione comunicativa con il tutor universitario e il mentore accogliente.

Questa sezione, la più corposa, è predisposta per accogliere due tipologie di scritture: le scritture immediate, ovvero le scritture redatte al termine della giornata di esperienza nell'ente (gli eventi ed episodi ricorrenti; le routine di azione proprie e delle persone dell’Ente; le sensazioni salienti, gli stati d’animo; le criticità; un breve giudizio finale sulla giornata trascorsa); e poi le scritture pensate, cioè scritture che ri-costruiscono l'esperienza di tirocinio attraverso la ricerca viva dei nessi e delle salienze nelle azioni che si sono svolte. Il focus dell’attenzione è dunque rivolto al mondo delle azioni. Tali scritture rispondono all'esigenza di una registrazione che "lascia tracce" (Ferraris, 2009) per voce personale. L'esperienza del tirocinio depositata in una forma scritta, documentata, diventa la condizione della valutazione riflessiva dello stesso. In questa sezione il tirocinante viene invitato a compilare una scheda di osservazione dell'ente e ad esprimere un giudizio di valutazione sull'esperienza svolta.

E veniamo alla descrizione del processo di Data Analysis e alle risultanze della ricercaformazione. L 2. L’analisi strutturale delle scritture del tirocinio

I corpora testuali degli studenti raccolti nel dispositivo “La memoria del tirocinio” (distinti in scritture immediate e scritture pensate) sono stati sottoposti ad analisi strutturale (Moustakas, 1994). L’analisi strutturale è una procedura QDA (Qualitative Data Analysis) di matrice fenomeP applicata a descrizioni, narrazioni e “raffigurazioni” autobiografiche del fenomeno nologica osservato (nel nostro caso l’esperienza del tirocinio descritta, narrata, “raffigurata” dallo studente). Lo scopo è di “ritrarre l’essenza dell’esperienza” (Moustakas, 1994) giungendo per approssimazioni successive a una categorizzazione via via più focalizzata delle sue qualità estese. L In sensibile analogia con la GT (Grounded Theory), tale metodo di analisi prevede un ritorno ricorsivo sui dati al fine di verificare se le analisi compiute dai ricercatori “raffigurino” fedelmente il fenomeno. Per noi questo ha comportato la messa in atto di una triangolazione delle nostre descrizioni interpretative dei testi degli studenti ma, anche, un doppio confronto-restituzione con il gruppo dei ragazzi coinvolti nell’indagine al fine di co-verificare insieme a loro l’attendibilità dei dati mano a mano che emergevano dalla nostra interpretazione. L’analisi si è snodata attraverso una serie ordinata di fasi che qui, per economia di spazi, descriviamo in breve, riportandone alcuni estratti esemplificativi in forma tabellare.

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1) Reviewing the Transcript: lettura delle scritture e realizzazione di note di campo al fine di ottenere una ricostruzione olistica dell’esperienza analizzata. 2) Horizonalizing the Data: individuazione ed elencazione delle affermazioni degli studenti ritenute significative rispetto al fenomeno oggetto di indagine ed etichettamento delle stesse come unità descrittive di significato. Questa operazione è definita “orizzontalizzazione” perché consente di disegnare, appunto, l’”orizzonte” dei significati in cui si situano gli scriventi ed è la fase più complessa del processo di analisi, perché interpella nel lettorericercatore una competenza raffinata di valutazione e di selezione di ciò che è più o meno rilevante delle qualità uniche dell’esperienza osservata (Giorgi, 1985). 3) Finding Themes: quando la lista delle unità descrittive di significato è completa, si procede ad una revisione delle stesse per eliminare ripetizioni ed eventuali sovrapposizioni. Le unità descrittive significative non ridondanti si raggruppano in temi o “grappoli di significato” (clusters of meaning), al fine di introdurre una forma di ordine ai dati e di convogliare le unità verso una prima selezione categoriale. 4) Developing Textural Descriptions: a questo punto abbiamo elaborato una prima descrizione delle categorie emerse inerenti all’esperienza del tirocinio. Questa operazione, denominata descrizione “tessiturale” (textural) dell’esperienza scritta è stata effettuata su entrambe le tipologie di scritture presentate dagli studenti (scritture immediate e scritture pensate) al fine di “catturare” brevemente ma efficacemente il “cosa” dell’esperienza di ciascuno studente. 5) Exercising Imaginative Variation and Developing Structural Descriptions: questa fase ha comportato l’attivazione di un processo di riflessione sui possibili significati delle affermazioni degli studenti al fine di riconoscere i temi di fondo e i contesti che rappresentassero e giustificassero più pienamente l’esperienza descritta. Si è giunti, così, a sviluppare una descrizione strutturale (Structural description) delle scritture che, a differenza della descrizione tessiturale (centrata sul “cosa” dell’esperienza) focalizza “come” il fenomeno è stato vissuto (si tratta in pratica di dar luce alle “dinamiche sottostanti l’esperienza, ai temi e alle qualità che rappresentano come i sentimenti e i pensieri vengono stimolati dall’esperienza” (Moustakas, 1994, p. 135). 6) Creating Composite Descriptions: si tratta di una descrizione di sintesi che ha composto le precedenti. 7) Synthesizing the Meanings and Essences of the Phenomenon: sulle base degli elementi emersi dalle fasi precedenti di analisi siamo giunte alla stesura di una descrizione generale in cui abbiamo identificato le “strutture invarianti essenziali” (ovvero gli ambiti di essenza o di significato universale) del fenomeno tirocinio con le relative qualità, riportate in Tab. 4 Nelle tabb. 2 e 3 riportiamo due estratti delle analisi effettuate sui corpora delle scritture diaristiche immediate e delle scritture diaristiche pensate.

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Tab. 2: Estratto di analisi delle “scritture diaristiche immediate”

Unità descrittive significative 1. Spero di imparare davvero da questa esperienza, non solo dal punto di vista “pratico”, spero di apprendere ad avere meno timore per il mio futuro professionale. 2. Mi auguro che questa esperienza mi arricchisca professionalmente e mi aiuti ad acquisire quelle competenze che nessun libro potrà mai darmi. 3. All’Università ho studiato in maniera teorica questo argomento e sarà molto interessante vedere nella pratica come si svolge questa attività! 4. Mi aspetto di conoscere l’ente nel quale sarò inserita e il tipo di lavoro che qui si svolge, ma soprattutto spero di avere un riscontro pratico dell’attività rispetto alle conoscenze teoriche acquisite all’università. 1. Ho conosciuto delle persone molto educate, che mi hanno accolto con il sorriso e mi hanno messo subito a mio agio; 2. Ho riscontrato un’accoglienza positiva e la cordialità di tutti nei miei confronti 1. Spero di fare un buon lavoro e di soddisfare le richieste del mio tutor…a pelle credo di averle fatto una buona impressione! 2. Spero sia un’occasione per “aprirmi” caratterialmente 3. Io ho tanta voglia di imparare e non voglio perdere nemmeno un passaggio della progettazione e della organizzazione del corso di formazione! 4. Spero di essere all’altezza! 5. Non voglio affrontare con insicurezza questa esperienza e soprattutto non voglio dare una cattiva impressione 6. A volta mi capita di rimanere sola nella stanza, è lì che devo dimostrare le conoscenze acquisite in pochi giorni. È comunque bello attivarsi e fare le veci (anche se per pochi minuti) e poter aiutare le persone a orientarsi e dare un contributo al centro 7. Vorrei verificare se riesco a gestire l’impatto con situazioni problematiche. 1. Inizialmente ero molto ansiosa, non sapevo cosa aspettarmi da questa esperienza, non sapevo quali persone avrei incontrato e come si sarebbero rapportate a me. 2. Ho la sensazione che sia stata una esperienza interessante e formativa. 3. Mi sento un pesce fuor d’acqua. 4. Oggi finisco insoddisfatta e delusa. 5. Sono rimasta pietrificata! Sono sicura di essere diventata rossissima in volto! Mi sono balenati mille pensieri per la testa...ci sono rimasta malissimo! 6. Non mi è assolutamente piaciuto trovarmi in questa situazione! 7. Ho un po’ di timore quando squilla il telefono, perché se loro sono impegnati devo dare io informazioni e ho paura di sbagliare! 1. Oggi ho parlato molto con la mia tutor, è una persona disponibile e alla mano. Riesce a mettermi a mio agio e sembra essere interessata alla mia vita e non solo al mio percorso formativo. 2. La mia tutor mi incoraggia, ho ricevuto dei complimenti da lei e questo mi rende soddisfatta. 3. La sig.ra R. è stata poco disponibile, molto nervosa e arrogante con gli utenti. La sua arma era il tono di voce molto alto. 4. Il sig. S. mi ha fatto gentilmente visionare il catalogo di tutti i corsi disponibili. 5. La responsabile mi ha dato delle delucidazioni sul servizio, in cosa consiste e cosa offre. 6. Con lei ho instaurato un buon rapporto! Mi dà sempre buoni consigli e spesso mi chiede feedback sull’esperienza di tirocinio. 7. Sono contenta di averla incontrata in questa esperienza di tirocinio: anche solo guardandola all’opera imparo qualcosa! 1. Avrebbero potuto dirmi sin dall’inizio di passare a loro le telefonate, la chiarezza comunicativa rispetto al compito dovrebbe essere al primo posto invece non c’è stata. 2. Una signora mi fa intendere che non ci sarebbe stato molto da fare. La giornata delle responsabili è passata leggendo il giornale e andando al bar. 3. Ho osservato le due segretarie parlar male l’una dell’altra. Si inizia a respirare un’aria pesante in questo ufficio. 4. La mia tutor mi presenta le responsabili, che non sembrano molto felici nell’accogliermi. 5. Tutti i dipendenti dell’ente sono andati al bar, mentre io sono rimasta in ufficio...non che avessi bisogno di andare al bar, ma sarebbe stata una buona occasione di socializzazione, dato che non mi conoscono quasi per nulla, sanno solo che sono una studentessa universitaria! 6. Spesso i dipendenti dell’ente non mi coinvolgono in attività che a me sembrano interessanti. 7. Cerco di far capire anche con le espressioni del viso che non sto lì per far fotocopie ma pare che non leggano il mio disappunto…

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Lista dei grappoli di significato

Attese nei confronti dell’esperienza di tirocinio

Accoglienza da parte dell’ente

Attese nei confronti di se stessi

Sensazioni e stati d’animo

La relazione con il mentore

La comunicazione con il personale dell’ente


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1. Ho affiancato il sig. S., addetto al settore formazione professionale. 2. Oggi sempre nel settore formazione, è stata una giornata improntata “finalmente” nella pratica. Il sig. Savino mi ha dato la possibilità di aiutare le persone interessate ai corsi, nella compilazione delle schede. 3. Ormai sono l’addetta alla compilazione delle schede personali o per iscrizione ai corsi. 4. Vengo chiamata dalla mia tutor per assistere ad un colloquio. 5. Mi hanno fatto partecipare attivamente all’evento. Ho accolto nell’aula magna i partecipanti e ho visionato l’aula per controllare l’audio e captare qualche commento dei partecipanti. 6. Ho passato l’intera giornata davanti al pc a fare ricerche e a compilare database. 7. Oggi ho svolto un’indagine per comprendere come le altre scuole di formazione presenti sul nostro territorio si stanno organizzando per attivare il corso di formazione di cui mi sto occupando. 8. Oggi io e la mia collega abbiamo affiancato le nostre tutor nella realizzazione di un progetto formativo. 9. Oggi il mio lavoro è consistito nell’aggiornamento della banca dati. 10. Dopo aver svolto i consueti compiti di segreteria, il mio lavoro è consistito nella preparazione e spedizione di lettere informative per promuovere i corsi offerti dall’ente 11. La mia attività è consistita nella gestione dell’aula. 12. I miei compiti sono stati: accoglienza di docenti e allievi, rilevazione delle esigenze, monitoraggio delle attività di apprendimento, organizzazione dello spazio fisico, preparazione del materiale didattico, team working e coordinamento. 1. Ho continuato il lavoro di ieri, sempre lo stesso e non ho imparato nulla di nuovo. 2. Avrei preferito essere coinvolta anche in altre attività, magari più interessanti e formative e invece sono rimasta tutta la mattinata a fare lo stesso noiosissimo lavoro. 3. Non vorrei trovarmi lì e non sapere cosa fare, io non so come si fa il tutor. Nessuno mi rassicura: cosa fa nello specifico, quali mansioni svolge? Che relazioni instaura con i corsisti? 4. I dipendenti dell’ente mi coinvolgono in attività che a me non sembrano interessanti. 5. Le due signore mi hanno fatto sentire a disagio. C’era troppo silenzio: una leggeva il giornale, l’altra si guardava intorno. 6. È stata una giornata poco proficua per me, visto che ho tratto poche informazioni da lei in quanto passava più tempo fuori per rispondere al telefono che dietro la scrivania. 7. In questo posto manca una macchinetta per il caffè!!! E per me, che di caffè ne bevo almeno tre al giorno, questo è una vera tragedia! 8. Anche oggi ho passato la mattinata a inserire dati...potrò sembrare ripetitiva...ma è quello che faccio ogni giorno! 1. Oggi una domanda mi è sorta spontanea: “mi sto formando?”. È verso, sto imparando tante cose, le mie ansie si stanno riducendo giorno dopo giorno, non ho più paura del telefono...riesco facilmente a svolgere i compiti che mi assegnano ma sento che manca ancora qualcosa... 2. Secondo me, oggi è stata una giornata persa, non ho imparato nulla di nuovo! 3. Ho imparato ad affrontare alcune delle mie paure e a rimboccarmi le maniche di fronte ad un problema. 4. Un’occasione utile ad arricchire il mio bagaglio culturale e formativo poiché inerente al mio percorso di studi. 5. Un’esperienza utile a farmi capire quanto sia importante essere a conoscenza dei bisogni degli utenti, ai fini di fornire loro un servizio utile a soddisfare le loro esigenze. 6. Devo dire che la mia prima impressione è stata molto negativa. Mi è sembrato che fossero due persone che non avessero molta voglia di lavorare.

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La descrizione dei compiti

Le criticità

La valutazione immediata dell’esperienza


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Tab. 3: Estratto di analisi delle “scritture diaristiche pensate”

Unità descrittive significative 1. Il fine dell’azione era osservare come si svolge la selezione di un candidato partendo dalla lettura del suo curriculum vitae. Il mentore ha svolto l’azione, il mio compito era di osservare. 2. Le attività di segreteria: ricevere e smistare le telefonate in arrivo, curare l’accoglimento degli utenti, organizzare e controllare le attività di telemarketing 3. Abbiamo tralasciato le attività affinché potessimo calmarlo dandogli dell’acqua e, una volta rasserenato, abbiamo parlato e iniziato le attività ludiche 1. La mia azione ha dato luogo ha un progresso del giovane, gli ha consentito di essere più sereno senza doversi sentire in colpa per la situazione nella quale è costretto a vivere. 2. La mia azione combinata con quella della tutor e della direttrice ha consentito che i ragazzi migliorassero le loro performance e raggiungessero un livello maggiore di interesse nei confronti delle attività proposte. 3. È stata dura ma, grazie anche al mio contributo, dopo qualche settimana era già più sereno e aveva recuperato parte dei suoi handicap scolastici 1. Ripensando all’episodio ritengo che avrei potuto dimostrare più sicurezza. Questo, ritengo, mi avrebbe permesso di conseguire un esito più immediato. 2. Ripensando all’azione stessa avrei voluto saper attuare degli interventi specifici per dare un maggior apporto e riuscire a raggiungere anche gli stessi risultati in minor tempo. 1. Appena arrivato non l’ho abbracciato subito per paura di essere respinta e vista con “odio”, in quanto in quel momento ero convinta che l’unica figura che volesse avere davanti ai suoi occhi fosse quella materna. Effettivamente era così ma in cuor suo aspettava solo che qualcuno ne facesse le veci. 2. Prima di cominciare questa attività ero molto agitata perché credevo di non essere all’altezza e di non riuscire a dare un reale supporto agli utenti. 1. Nel mio futuro professionale questa esperienza rimarrà un punto fermo, un arco di tempo breve ma vissuto con intensità ed emozione. Un esempio dal quale attingere per trovare le parole e gli atteggiamenti giusti ai quali ricorrere nei momenti difficili della propria vita professionale. 2. Questi giorni sono stati per me indimenticabili, è questa un’affermazione profonda e sicura che mi sento di fare, trasmettendo questo stato d’animo alle colleghe studentesse alle quali posso dire di non perdere l’occasione di trasformare il loro tirocinio in un evento formidabile e forse irripetibile come è capitato a me. 3. Da questa esperienza ho imparato come si svolge una selezione, ho capito come si comunica in modo efficace, riconoscendo i segnali di comunicazione verbale e non verbale...questa è una delle attività che mi piacerebbe svolgere in futuro 4. Terminato il tirocinio, posso affermare di aver raggiunto gli obiettivi prefissati; ho messo in pratica le conoscenze teoriche apprese negli anni di studio universitari 5. È stata un’esperienza interessante e formativa 6. Al termine di questa esperienza di tirocinio posso affermare di aver sperimentato direttamente ogni funzione legata al momento formativo, dalla progettazione alla organizzazione di eventi, all’affiancamento nella relazione degli stessi. 7. Ciascuna attività ha auto una valenza formativa ed è servita ad accrescere le mie conoscenze, ad acquisire una valenza pratica costruendo un filo diretto tra sapere e saper fare 8. È stata per me un’occasione di conoscenza diretta del mondo del lavoro oltre che di acquisizione di una specifica professionalità. 9. L’esperienza di volontariato si è andata a definire progressivamente giorno dopo giorno, ed è stato come un gioco di conquiste di spazi, luoghi e rapporti come me stessa. 1. Ripensando all’esperienza ho appreso che è necessario affrontare le situazioni senza aver timore di sbagliare, perché è proprio quella paura che fa commettere gli errori. È importante soffermarsi su cosa è giusto e cosa è sbagliato nel momento stesso in cui si sta compiendo l’azione. Questa scrittura mi ha permesso inoltre di interrogare l’azione. 2. Mi sono resa conto che i miei pensieri erano del tutto infondati, che bastava fermarsi e riflettere, confrontarsi con gli operatori e saper chiedere aiuto. Non sempre ricevevo le risposte che desideravo ma condividere i miei dubbi mi ha aiutato molto. 3. In un primo momento ho pensato “adesso come mi comporto, cosa dico?”. Questo mi ha permesso di riflettere sull’esperienza. 1. Credo sia proprio questo l’obiettivo del tirocinio, colmare la distanza tra la formazione teorica universitaria e le esigenze del mondo del lavoro.

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Lista dei grappoli di significato

Descrizione delle azioni e dei ruoli del tirocinante

Esiti dell’azione

Possibilità di azione

Vissuti emotivi

Valutazione meditata dell’esperienza

Autovalutazione

Credenze sul ruolo del tirocinio alla luce dell’esperienza


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1. Ho testato la mia capacità di problem-solving e problem finding, ho migliorato le mie capacità comunicativa e cercato di mettere in pratica le tecniche di comunicazione efficace. Credo di essere maturata, ho superato la mia “zona di confort”. 2. Sono estremamente grata di aver vissuto questa istruttiva occasione che è stata per me motivo soprattutto di crescita umana e di maturazione. Mi sono messa in gioco totalmente e sono riuscita a scoprire in me abilità che non pensavo di avere. 3. Lavorare con i ragazzi ha trasformato radicalmente la mia visione della giovinezza. In realtà quella che ho incontrato è autentica sofferenza che interessa molti più ragazzi di quelli che immaginavo. Questo ha suscitato in me a volte un senso di frustrazione e dispiacere. Dovevo si sentirmi partecipe al loro dolore ma senza farmi sopraffare. Solo così la mia esperienza poteva essere efficace. 1. Alla luce dell’esperienza maturata, il mio consiglio è quello di incrementare le ore di tirocinio per entrare al meglio nel contesto organizzativo di una struttura. 2. È necessario un maggiore accompagnamento da parte del tutor aziendale soprattutto in fase iniziale 3. Spostare tutta l’attività nel primo semestre o iniziare l’esperienza subito dopo la sessione invernale d’esami. 4. Il mio consiglio è quello di contattare gli enti prima dell’assegnazione del tirocinante, infatti non in tutti i periodi dell’anno gli enti convenzionati sono disposti a seguire il percorso formativo di uno studente.

Cambiamenti personali

Proposte al servizio di tirocinio

e delle qualità estese

Tab. 4 Descrizione delle strutture invarianti essenziali e delle qualità estese e delle qualità estese Strutture invarianti essenziali

Qualità estese

1. CURA DELLE CONDIZIONI INIZIALI DELL’ESPERIENZA

Coordinamento tra studente-tutor-mentore

Progettazione dell’itinerario

Conoscenza fra studente e mentore Co-costruzione del progetto di tirocinio Monitoraggio periodico dell’esperienza da parte del tutor

Definizione dei ruoli e del compiti Lavoro collaborativo Costruzione di strumenti di valutazione dell’esperienza

2. CONDIZIONI CHE OSTACOLANO LA RELAZIONE STUDENTE -MENTORE

Comunicazione implicita Malessere sui luoghi di lavoro Indisponibilità allo scambio Ripetizione delle pratiche Assenza di luoghi per la riflessione condivisa

Comunicazione professionale autoreferenziale Routine d'azione Ambiguità nella comunicazione Conflittualità relazionali Comunicazione professionale autoreferenziale Routine d'azione Circolarità Pratica

3. MODALITÀ DI APPRENDIMENTO DALLA PRATICA

Apprendimento basato sull’osservazione Apprendimento basato sulla riflessione

Modeling Riproduzione dell’esperienza Circolarità Pratica-Teoria-Pratica

3. FUNZIONI DEL TUTOR

Accompagnamento riflessivo Esplicitazione delle conoscenze tacite Condivisione dei saperi della pratica

Sollecitazione della ri-costruizione dell’esperienza di tirocinio Documentazione delle azioni apprese nel corso dell’esperienza Raccolta e scambio delle storie di formazione

5. CREDENZE SUL TIROCINIO FORMATIVO

Ambiente formativo complementare alla formazione teorica Viaggio nel mondo della pratica Esperienza di formazione personale Occasione per verificare le proprie scelte professionali Esperienza che può arricchire il curriculum Pratica rifessiva

Saper apprendere dalle e nelle situazioni Consolidare il saper fare Scoprire il mondo del lavoro Imparare a prendere decisioni Verificare le proprie aspettative sul mondo del lavoro Apprendere a mettere alla prova le proprie attitudini Impegnarsi e crescere professionalmente Affinare la capacità di ricerca e di riflessione sulla pratica Sintonizzare la teoria e la pratica Sviluppare un sapere che nasce nella pratica

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2.1 L’approdo dell’analisi strutturale L’analisi ha fatto emergere attese molto elevate da parte degli studenti circa l’esperienza del tirocinio. Due in particolare le tipologie di attese. La prima ha riguardato la crescita personale: i tirocinanti hanno dichiarato di voler verificare attraverso le attività del tirocinio la loro capacità di gestire “l’impatto col mondo delle professioni” e con le situazioni problematiche col quale esso li interpella. Le aspettative non sono soltanto di maturazione di apprendimenti di conoscenze di carattere “pratico”, ma anche di verifica del livello personale di autostima che si auspica di veder aumentato attraverso lo sviluppo di una maggiore consapevolezza circa la scelta professionale maturata. La seconda tipologia di attese ha riguardato il voler apprendere dall’esperienza (Mortari, 2003), il che rimanda a una dimensione oscura emersa da gran parte delle scritture: l’implicita denuncia dell’astrattezza dei contenuti proposti nei corsi universitari e la percezione di un gap fra teoria e pratica che l’incontro con le realtà professionali potrebbe rendere evidente (Vandarlinde,Van Braak, 2010). L’accoglienza da parte dell’ente è stato il tema principale emerso dalle scritture diaristiche immediate. Tutti gli studenti hanno dichiarato di avere ricevuto una buona accoglienza da parte dell’ente ospitante e, dunque, il giudizio sul vissuto di primo contatto è stato generalmente positivo. Gli elementi di criticità hanno riguardato invece l’incontro con il mentore. In particolare gli studenti hanno dichiarato di non aver avuto molti contatti con quest’ultimo né in fase propedeutica, né in quella di immersione nell’esperienza. Anche per questo frequenti sono stati i riferimenti a sensazioni e a stati d’animo contrastanti: stati d’animo negativi generati da una comunicazione nell’ente non sempre perspicua e funzionale allo svolgimento dei compiti richiesti; sensazioni positive si registrano – a posteriori – nelle riflessioni degli studenti sull’esperienza di tirocinio vissuta e descritta come un’occasione comunque formativa, al di là della percezione di difficoltà descritta. Altra costellazione di significati emersa con chiarezza ha riguardato specificatamente la relazione fra il tirocinante e il suo mentore che ha influenzato notevolmente la valutazione della qualità dell’intero percorso. Tale relazione, descritta nella maggior parte dei casi come impegnativa, faticosa, difficile, stimolante, formativa è risultata profondamente connessa con il “profilo” personale e professionale del mentore stesso. Detto in altri termini, le caratteristiche personali e lo stile professionale del mentore sono apparsi come gli elementi determinanti per far maturare il giudizio finale sull’intera esperienza. La comunicazione con il personale dell’ente nelle descrizioni è apparsa spesso connotata da una serie di non-detti che hanno compromesso lo svolgimento delle attività da parte del tirocinante: a conferma di ciò le azioni non sono state sempre dettagliate e spesso sono state riportate descrizioni di fraintendimenti circa le consegne affidate ai tirocinanti. Al di là degli ostacoli comunicativi intercorsi, gli apprendimenti che gli studenti hanno dichiarato come “maggiormente maturati nel corso dell’esperienza” sono stati quelli inerenti al piano della progettazione (di corsi, master, lezioni, eventi); all’acquisizione di competenze comunicative, alla gestione di situazioni problematiche, all’apprendimento di abilità socio-relazionali anche se, lo sottolineiamo, alle dichiarazioni di avvenuto apprendimento non abbiamo potuto correlare descrizioni precise di piani di attività e di azioni svolte. Un ulteriore aspetto critico emergente dall’analisi inerisce alle modalità attraverso cui sono state svolte le attività di tirocinio: una gamma che andava dall’esperienza di affiancamento ai mentori, al coinvolgimento nella realizzazione di compiti “pratici”, dall’inserimento di

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dati nel database dell’ente, alla osservazione di attività gestite dal mentore o da altro personale. Non manca il racconto di esperienze di pura esecutività o di segretariato (fare fotocopie, rispondere al telefono, ricevere al desk informazioni), lontanissime dagli obiettivi dell’attività immaginata. Raramente gli studenti hanno dichiarato di aver appreso nuove conoscenze attraverso il racconto di episodi di vita professionale da parte dei propri mentori descritti in quasi un terzo delle scritture immediate come incapaci di saper condividere i loro saperi pratici. Il che ci ha fornito un’ulteriore conferma dell’assenza di dinamismi relazionali virtuosi, assimilabili per esempio a quelli di una partecipazione periferica legittimata alle attività dell’ente (legittimate peripheral partecipation, llp, Wenger, 2006). In questo dinamismo il ruolo del mentore non è mai di secondo piano (Bondioli, Ferrari, 2006). Su questo punto, dunque, l’analisi delle scritture ci ha autorizzato a parlare di comunicazione non facilitata, quando addirittura bloccata. Quanto alle descrizioni dei compiti, esse ci hanno restituito molte osservazioni del contesto, molta pratica basata sull’imitazione dell’esempio: prodromi di una didattica dell’informale da indagare, tuttavia, con ulteriori dispositivi. E ancora: dalle scritture è emersa la descrizione di un “clima” di contesto non sempre positivo e una certa routinarietà delle azioni e dei compiti che ha ridotto notevolmente la motivazione dei tirocinanti. Insomma, il profilo di esperienza emerso dalle scritture immediate non è stato molto positivo. Le scritture pensate, proprio in virtù della messa-a-distanza riflessiva dell’esperienza, hanno fortunatamente temperato la negatività dei giudizi espressi nelle scritture immediate. Commenti positivi sono emersi anzitutto circa la possibilità narrativa offerta dal dispositivo “La memoria del tirocinio” poiché ha consentito la rielaborazione dell’esperienza: il learning by thinking è apparso importante per gli studenti tanto quanto il learning by doing. L’esercizio di scrittura proposto ha inoltre favorito l’attivazione di processi metacognitivi che hanno consentito maggiore consapevolezza rispetto alle molteplici dimensioni connotanti la pratica di tirocinio: esiti dell’azione, possibilità di azione, valutazioni sull’esperienza sono stati riportati nelle scritture pensate in numero decisamente superiore rispetto a quanto era emerso nelle scritture immediate (Schön, 1993). Le descrizioni delle attività sono apparse arricchite di particolari. Quindici studenti hanno manifestato un apprezzamento molto positivo per lo stile di accompagnamento didattico del proprio mentore, orientato a favorire una modalità di fruizione attiva delle esperienze e a promuovere situazioni di condivisione riflessiva (Perrenoud, 1998; Donnay, Charlier, 1997). L’analisi dei dati ha mostrato la prevalenza di alcune relazioni all’interno dei grappoli di significato che qui di seguito riportiamo. Nelle Scritture immediate prevalgono (si veda tab. 2): grappoli di significato legati alla descrizione di eventi, episodi ricorrenti e routine di azione, accompagnati da riflessioni sull’esperienza e sulle attese verso se stessi, piuttosto che dall’esplicitazione di stati d’animo; grappoli di significato legati a stati d’animo negativi, a criticità, relative al personale, all’Ente e alla percezione del proprio ruolo al suo interno. Il grappolo di significato la comunicazione con il personale dell’ente, in particolare, denota la prevalenza di stati d’animo negativi, più che positivi, ed è legato al grappolo di significato criticità; il grappolo di significato relazione con il mentore, e quello relativo all’accoglienza da parte dell’ente, invece, risultano connotati positivamente nella maggioranza delle stringhe testuali analizzate. Il diario delle scritture immediate, oltre a descrivere molte azioni realmente compiute durante l’esperienza di tirocinio, sembra assolvere al bisogno di esternare stati d’animo – inizialmente negativi e gradualmente più positivi – paure e attese verso l’ente, verso l’esperienza di tirocinio e verso se stessi.

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La sezione dedicata alle Scritture pensate risulta, come già detto, connotata da riflessioni e valutazioni maggiormente positive, dalla constatazione dei cambiamenti personali e dalla consapevolezza sul ruolo del tirocinio e sulle prospettive lavorative alla luce dell’esperienza svolta, in particolare sul ruolo di “ponte” che l’esperienza del tirocinio svolge fra le conoscenze teoriche apprese in ambito universitario e il mondo del lavoro. Interessanti, inoltre, le diverse proposte che gli studenti hanno richiamato per il miglioramento del servizio e l’innalzamento della qualità del tirocinio (tab. 3). Le scritture pensate hanno consentito lo “svelamento” di pensieri più intimi legati all’esperienza di tirocinio e dato voce alle percezioni di inadeguatezza vissute dai tirocinanti rispetto ai compiti affidati, soprattutto nelle fasi iniziali dell’esperienza. Le fasi delle descrizioni tessiturali e strutturali hanno coinvolto i membri dell’équipe di ricerca in confronti triangolati sui materiali della ricerca e sull’interpretazione dei grappoli di significato rispetto ai quali il criterio regolativo è stato quello della “fedeltà” alle descrizioni dello studente. Lo scopo dell’analisi è stato infatti quello di giungere per approssimazioni successive e categorizzazioni via via più focalizzate a delineare alcune strutture invarianti essenziali, riportate nella tabella conclusiva n. 4 con le relative qualità estese (cioè le qualità emerse con più frequenza nel corso dell’analisi).

3. Per un accompagnamento didattico al tirocinio attraverso la scrittura Non rimane spazio che per un primo tratteggio di alcune provvisorie conclusioni. L’indagine ha messo in luce il profilo di un’esperienza di tirocinio assai complessa per gli studenti, enucleabile in alcune “strutture invarianti essenziali” emerse allo sguardo analitico che intendiamo assumere come ambiti di un lavoro teorico scientifico da approfondire, anche in funzione del miglioramento del servizio della Facoltà. È emersa forte la necessità di attivare un sistema integrato del tirocinio universitario. L’analisi delle scritture degli studenti ha illuminato numerose opacità nei nessi relazionali fra i soggetti deputati all’accompagnamento formativo (tutor universitario, mentore aziendale): tali nessi appaiono deboli, a volte persino inesistenti. La comunicazione didattica è frammentata, né esiste un piano di attività concordate. Eppure, a cominciare dall’accezione veicolata nel suo etimo, il tirocinio dovrebbe costituire il contesto protetto in cui lo studente è accompagnato (e valutato) da persone appartenenti alla comunità d’opera nella quale egli aspirerebbe ad entrare. E invece. In assenza di raccordi fondamentali quali quelli fra tutor e mentori, non trovano il giusto spazio neanche i programmi di sviluppo delle competenze trasversali e distintive promosse da quelle comunità d’opera: non è casuale che la progettazione dei percorsi di tirocinio sia stata descritta dagli studenti come labile e poco coordinata, i ruoli non ben definiti, e la percezione confermata da pratiche perlopiù esecutive. Insomma, le modalità di accompagnamento didattico costituiscono un capitolo critico. Va anche detto che il mentore non dovrebbe essere lasciato solo dall’Università, esattamente come l’allievo in formazione non può apprendere da solo certe competenze (Bondioli, Ferrari, 2006, p. 21). Per i mentori accoglienti, dunque, andrebbe programmata una formazione specifica da parte dell’Università. Urge inoltre la promozione di azioni consistenti di integrazione progettuale fra la cultura universitaria della preparazione al lavoro e la cultura aziendale dell’ apprendere dal lavoro. Questo nesso appare cruciale anzitutto sul piano dell’incontro formativo fra mondo dell’Università

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e mondo del lavoro (e dunque chiede all’Università passi precisi: una mappatura qualitativa degli enti convenzionati, una progettazione integrata dei percorsi di tirocinio interno ed esterno, la costruzione di un “alfabeto” comune circa ciò che si intende per esperienza formativa di tirocinio) e, poi, sul piano dell’incontro orientato fra mondo dell’offerta (Università) e mondo della domanda (mercato del lavoro). Il percorso di tirocinio può diventare un luogo preziosissimo di orientamento propedeutico alla scelta lavorativa; l’occasione in cui lo studente non fa solo esperienza del lavoro ma matura la scelta del lavoro e legge meglio la sua vocazione. Il tempo del tirocinio è dunque già un tempo di orientamento la cui efficacia è direttamente proporzionale al grado di congruenza che si riesce a raggiungere nelle azioni previste dalla progettazione integrata. Dalla ricerca è emerso che, al momento, questa congruenza non c’è, oppure che è appena abbozzata: fra obiettivi del tirocinio universitario e pratiche esperite negli enti esiste una dissonanza che va corretta. Ovviamente questo non significa prefigurare la trasformazione dell’Università in un’agenzia di servizi e di consulenza (non è questo il mandato formativo dell’Università), ma di avvicinare cultura del lavoro e formazione universitaria (Fabbri, Rossi, 2008); di stabilire contatti, reciprocità, interscambi col mondo delle produzioni, accompagnando lo studente nell’impresa del pro-gettarsi nel lavoro. Altro punto critico inerisce al modello di apprendimento prevalente nelle descrizioni degli studenti, basato sull’osservazione-riproduzione dell’esperienza del loro mentore (quando c’è!) piuttosto che sulla riflessione-esplicitazione della stessa. Ciò richiede la definizione di un’architettura formativa orientata a sostenere la circolarità pratica-teoria-pratica, cuore pulsante dell’esperienza del tirocinio. Un’altra importante prospezione aperta dalle conclusioni dell’indagine inerisce poi al piano della didattica del tirocinio interno: sarebbe auspicabile ridefinirne alcune funzioni. Elenchiamo le più rilevanti: – realizzare dispositivi che consentano la ricostruzione riflessiva dell’esperienza di tirocinio (“La memoria del tirocinio” ne è stato un tentativo riuscito); – promuovere negli studenti e nei mentori la competenza documentativa di prodotti e processi dell’esperienza; – costruire una memoria delle storie di formazione del tirocinio. Centrale a questo proposito, anche in ragione del successo del dispositivo adottato, è il ruolo che può svolgere la scrittura nella formazione al tirocinio. Si tratta di un fronte di lavoro nuovo che, anche grazie agli esiti della nostra indagine, a nostro avviso si prospetta ricco di effetti. Il dispositivo “La memoria del tirocinio” ha sostituito la vecchia “relazione di tirocinio” e il suo esercizio di scrittura, impersonale e condensato, senza rimpianto alcuno da parte dei ragazzi. Essa ha facilitato la rielaborazione dell’esperienza vissuta oltre la mera descrizione, il dire di sé al lavoro oltre il mero riferirne. Intendiamo riproporlo alla luce di qualche integrazione riveniente dalla individuazione delle “strutture invarianti focalizzate” emerse dalle scritture degli studenti. E questi potrebbero essere gli ambiti sui quali far posare l’attenzione dei ragazzi: 1. I maestri interiori. L’ingresso e l’intera permanenza del tirocinante nel contesto lavorativo è anzitutto l’incontro con un mentore, figura di mediazione per eccellenza dell’esperienza. Tale incontro avviene prima in sé stessi, perché le passate esperienze di formazione lasciano sempre in retaggio una serie di modelli interiori che condizionano lo sguardo del tirocinante. La scrittura potrebbe risultare assai funzionale all’esplorazione biografica dei propri maestri interiori e poi all’attivazione del confronto riflessivo coi maestri-mentori incontrati nell’esperienza del tirocinio (Bondioli, Ferrari, 2006). 2. I contesti. L’Ente con la sua storia, la sua struttura organizzativa, le sue routines, la sua cultura implicita, costituisce l’ambiente principale dell’apprendimento del tirocinio. Si tratta

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di un contesto da scoprire, descrivere, valutare. L’esplorazione scritta potrebbe riguardare la descrizione attenta degli ambienti ma anche della documentazione utilizzata dagli operatori, l’esplicitazione delle norme tacite che regolano le azioni e costituiscono ciò che soggiace (cultura implicita) a ciò che appare (cultura esplicita). Scrivere il “luogo” delle azioni del tirocinio è condizione prima per costruire lo spazio dell’esperienza interiore riflessiva sul sé-in-azione in quel luogo. 3. Le azioni degli operatori e le azioni proprie. Una ricostruzione delle azioni altrui (dei soggetti dell’Ente e dei fruitori dell’Ente), e poi delle azioni proprie del tirocinante (quelle che si decide di intraprendere, quelle nelle quali si è invitati ad agire, quelle che sono state programmate e non svolte) consente di monitorare la significatività del percorso ma anche di autovalutare il livello di implicazione dello studente nell’esperienza, la sua effettiva utilità formativa. Si potrebbe suggerire la traccia delle attività da “mappare”: i tipi di intervento, i metodi, i ruoli, le risorse ecc. Descrivere come avviene un colloquio, le prese di decisione, le modalità della comunicazione, i gesti professionali del mentore o degli operatori, il loro “fare” nell’azione insomma, agevola l’emergere e la messa a fuoco dal parte del tirocinante dei ragionamenti induttivi che regolano tale fare. 4. Le azioni dei fruitori del servizio dell’Ente. Ulteriore dominio da descrivere/narrare riguarda i fruitori del servizio. Chi sono? Con quale frequenza incontrano ed “abitano” gli spazi dell’Ente? Cosa fanno? La scrittura invita lo studente a posare lo sguardo sulle loro azioni. 5. Le fonti documentali del tirocinio. Quali materiali vengono archiviati dall’Ente? Quali sono i documenti scritti dagli operatori? Che tipo di strumenti vengono utilizzati dagli operatori? A quali documenti è consentito l’accesso del tirocinante? Una ricognizione delle fonti documentali dell’ente è via per comprenderne la cultura organizzativa, per ricostruire habitus e routines di azione. 6. Il sentire dell’apprendere dalla pratica. La vita quotidiana ha sempre una tonalità emotiva perché “l’esserci è sempre consegnato al sentimento della propria situazione”(Sini, 1991, pp. 4748). Cosa caratterizza tale sentire? Cosa se ne può scrivere? (Perla, 2007) 7. Le credenze del tirocinio. Le credenze sono concezioni ingenue, in larga parte tacite, che influenzano interpretazione e processi cognitivi e metacognitivi del soggetto che apprende (Nespor, 1977; Semeraro, Biasutti, Acquario, 2006). Quali credenze gli studenti palesano riguardo le attività del tirocinio? In quali rappresentazioni la pratica del tirocinio viene concettualizzata? Tornano alla mente le parole di G. Lukàcs in un suo saggio ancora attualissimo Narrare o descrivere? (Lukàcs, 1970): la codificazione narrante restituisce l’eccedenza dell’esperienza che la ricostruzione in forme e registri scientifici non consente, o consente fino a un certo punto. L’indagine sull’utilizzo della scrittura documentale nell’accompagnamento al tirocinio ce ne ha dato una prima, provvisoria conferma.

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Ricerche Elementi di complessità della valutazione motoria in ambiente educativo Elements of complexity of motor assessment in a learning environment MAURIZIO SIBILIO Dagli studi sulla valutazione didattica ed educativa emergono suggestioni interessanti per una rivisitazione delle prassi valutative in ambito motorio in relazione agli elementi di specificità che conferiscono ad esse una particolare dimensione formativa. Il presente studio argomenta sul piano teorico la valenza di un approccio integrato alla valutazione che si avvalga dei contributi offerti dalle riflessioni sulla valenza formativa di un authentic assessment nei contesti scolastici quale modalità qualitativa da integrare alle tradizionali pratiche quantitative utilizzate in ambito didattico-motorio.

Interesting suggestions emerge from the studies on the educational assessment for a review of the traditional assessment practices in the motor field, in relation to the specific elements that give them a particular educational dimension.The present study argues on a theoretical level the value of an integrated approach to assessment that makes use of the contributions coming from the reflections on the educational value of an authentic assessment in school settings as a qualitative way to integrate with quantitative traditional practices used in the teaching-learning motor field.

Parole chiave: valutazione autentica, didattica del movimento, approcci qualitativi, corporeità, capacità motorie, autobiografia motoria

Key words: authentic assessment, movement teaching, qualitative approach, corporeity, motor skills, motor autobiography

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Introduzione L’attuale tendenza a riconoscere la complessità della dinamica interattiva che lega l’insegnamento all’apprendimento, per la quale il temine insegnare assume significato solo in ragione della constatazione dell’avvenuto processo di apprendimento, orienta gli studi sulla valutazione dell’insegnamento verso una matrice teorica capace di comprendere la dimensione processuale di tale oggetto di indagine. Infatti se è possibile ricercare un significato autonomo dell’apprendimento, e quindi indipendente da azioni intenzionali finalizzate a determinarlo, risulta improponibile dare compiutezza al termine insegnamento in assenza di una rigorosa valutazione dei suoi effetti. Il riconoscimento del significato dell’azione didattica che viene definita insegnamento è quindi dipendente dalla capacità di valutarne gli esiti, accertando la coerenza tra intenzionalità e risultati di apprendimento. Si tratta, in prima istanza, di assumere necessariamente una posizione paradigmatica che garantisca, attraverso la valutazione, il riconoscimento di qualità emergenti dal processo di insegnamento-apprendimento, il quale si caratterizza come un sistema dinamico aperto, interattivo e sistemico che si struttura a partire «dalle relazioni fra l’individuo concreto e la situazione concreta […], e dalle mutue relazioni fra i sistemi funzionali che compongono l’individuo» (Pellerey, 1980 p. 100). In questo senso l’integrazione di informazioni di vario tipo e di varia natura, che coinvolge le caratteristiche individuali e le peculiarità del contesto, tradotte in elementi quantitativi e qualitativi, conferisce alla valutazione una specifica connotazione irriducibile ad una visione elementaristica, in quanto «i processi sono tutt’altro che stabili, e non possono essere frammentati in sistemi quasi indipendenti» (Cronbach, 1975 p.121). In tale prospettiva, la valutazione si caratterizza quale riconoscimento di attributi e valore ad un processo dinamico e interattivo che riguarda qualsiasi area del curriculo scolastico diretto al conseguimento di finalità formative ed educative. Questo orizzonte interpretativo suggerisce naturalmente l’attribuzione di tali obiettivi anche alle attività di insegnamento-apprendimento che coinvolgono il corpo e il movimento, collocando in questa comune visione di interdipendenza la programmazione didattica delle attività motorie e la valutazione degli obiettivi e dei traguardi conseguiti. L’apprezzamento della ricaduta formativa ed educativa delle attività di movimento richiede però di considerare ulteriori elementi di complessità che connotano l’esperienza didattico-motoria. Le strategie e gli strumenti valutativi da utilizzare nel processo di insegnamento/apprendimento motorio, che costituiscono infatti un aspetto rilevante dell’intervento didattico, richiedono proprio per queste caratteristiche specifiche una modalità di regolazione delle azioni messe in atto, continua e tecnicamente efficace, anche sulla base di progressivi riscontri che ne confermino l’efficacia. In questo senso la valutazione di attività di insegnamento finalizzate ad apprendimenti motori, o che utilizzino esperienze motorie per facilitare i processi di apprendimento, non si riduce semplicisticamente all’apprezzamento di esecuzioni, gesti, azioni o performance, trasferendo nei contesti educativi e formativi metodologie e protocolli quantitativi o qualitativi propri dell’ambito motorio-sportivo. Per tale ragione appare necessario accogliere le suggestioni che emergono dalla riflessione scientifica sulle pratiche valutative in ambito educativo che ha coinvolto numerosi studiosi impegnati sul piano nazionale e internazionale per una rivisitazione delle azioni docimologiche in ambito motorio, in relazione agli elementi di specificità che conferiscono ad esse una particolare dimensione formativa.

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Una valutazione efficace in questo campo dell’esperienza formativa ed educativa si configura pertanto come uno sforzo di incontro e di co-costruzione di uno spazio metateorico che comprenda l’armonizzazione di tradizioni e approcci docimologici propri delle scienze dell’educazione con strumenti e approcci specifici riconducibili alle scienze del movimento. A tale finalità risponde l’esigenza di avviare una riflessione volta all’identificazione di strumenti e modalità di valutazione coerenti con una specifica prospettiva teorica già ampiamente discussa in campo educativo, in cui confluiscano gli apporti scientifici più significativi sulle funzioni formative del corpo e dell’azione.

1. Prospettive teoriche per la valutazione in ambito motorio Le profonde trasformazioni culturali che nella seconda metà del secolo scorso hanno offerto nuove visioni del mondo, abdicando alla pretesa di una scientificità della ricerca connotata da una presunta oggettività e quindi caratterizzata dalla provata capacità di accertare attraverso i soli metodi sperimentali il raggiungimento di un sapere assoluto, hanno introdotto nuove concezioni inerenti il significato di verità scientifica e nuove modalità da utilizzare per svolgere coerentemente attività di indagine. Questo riposizionamento della ricerca scientifica, che è apparso come indirizzato a costruire una diffusa consapevolezza della naturale permeabilità di approcci di studio, ha avuto indubbie conseguenze sulla ricerca in ambito educativo, in considerazione della complessità dei propri oggetti di studio, inducendo ad una rivisitazione dei confini teorici, degli approcci metodologici e delle risorse strumentali. Questo processo culturale è stato il riflesso di una serie di considerazioni sulla natura della conoscenza scientifica in ambito educativo e sulla reale possibilità di adottare metodi capaci di dimostrare una reale coerenza con i diversi paradigmi teorici di riferimento. In tale prospettiva, in ambito educativo si è generata una visione storica e culturale del sapere scientifico che ha indotto a riflettere sull’insostenibilità di una teoria oggettiva, unificata e totalmente formalizzabile, evidenziando la parzialità di alcuni paradigmi che avevano influenzato anche le prassi valutative, mostrando chiaramente i limiti di alcune teorie, delle loro relative applicazioni e delle strumentazioni utilizzate per la valutazione. L’alternanza di paradigmi o modelli teorici e le conseguenti interazioni con la prassi hanno influenzato anche le modalità di valutazione, inducendo ad affermare la storicità delle teorie e delle tecniche utilizzate la cui evoluzione non sembra procedere per accumulazione. Si è trattato di volta in volta di un’operazione di «assimilazione che ha richiesto una ricostruzione delle teorie precedenti e una nuova valutazione dei fatti precedentemente osservati» (Khun, 1962, p. 25) alla luce dei principi di complessità che hanno inevitabilmente trasformato le modalità attraverso le quali si può svolgere il lavoro scientifico anche in campo educativo. Questo processo di ri-costruzione, che ha riguardato anche le diverse fasi di ristrutturazione dei programmi ed indirizzi ministeriali scolastici, ha interessato parimenti l’ambito docimologico, la cui complessità di riferimenti interpretativi mostra che «non vi sono criteri di giudizio permanenti» (Vertecchi, 2003, pp. 37-40). È possibile, infatti, intravedere una periodizzazione nella tradizione docimologia in campo scolastico, distinguendo tre epoche:“la valutazione tradizionale (intuitiva), la valutazione moderna (testing) e quella postmoderna (alternative assessment)” (Lichtner, 2004, p. 10) che hanno corrisposto ad altrettanti momenti storici contraddistinti da differenti approcci scientifici alla conoscenza. In ambito motorio, il passaggio sembra però essere stato più lento, necessitando tutt’oggi

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di una rideterminazione del rapporto tra teoria e prassi valutative e dell’assimilazione di teorie e conoscenze scientifiche capaci di ri-costruire e quindi di ri-apprezzare, in forma diversa e con modalità sempre più adeguate, il significato che l’esperienza motoria può assumere in campo didattico-educativo. La valutazione motoria in ambito didattico infatti non è riuscita compiutamente anche in campo scolastico ad emanciparsi dal prevalente e semplificato uso del testing, che ha significativamente ridotto l’orizzonte della ricerca didattico-motoria, ostacolando l’apprezzamento dei possibili e diversi significati che l’esperienza motoria può assumere nel processo di insegnamento-apprendimento. L’ambito motorio si è infatti caratterizzato, all’interno del processo di evoluzione e sviluppo della valutazione scolastica, come un campo di specificità le cui singolari caratteristiche non lo hanno reso agevolmente armonizzabile con gli altri approcci e strumenti docimologici adottati nei contesti educativi; infatti nella scuola sono risultati prevalenti sia approcci valutativi motori tradizionali di tipo intuitivo che test motori diffusamente adottati in altri contesti come quello sportivo o riabilitativo, ad eccezione di interessanti contributi che coniugano la valenza quantitativa del testing con la qualità delle interpretazioni del dato (Cottini, 2003). In particolare le esperienze valutative svolte nel tempo attraverso l’uso del testing classico, pur ancorate a protocolli validati scientificamente, non si sono dimostrate capaci nel loro insieme di concorrere univocamente e complementarmente alla formalizzazione dei vincoli per una loro adeguata utilizzazione nel processo di valutazione motoria applicato ai contesti educativi. Le abilità valutate attraverso tali forme di testing inoltre sono spesso risultate difficilmente trasferibili ad altri contesti e, nella maggior parte dei casi, si sono limitate a delle performance tecniche e situazionali quali risposte a specifici task motori. In questo senso e per tali ragioni la valutazione didattico-motoria in campo educativo avrebbe necessitato di una ri-costruzione teorica capace di fornire nuove chiavi di lettura delle caratteristiche del movimento in relazione ad obiettivi anche formativi ed educativi, tenendo conto della dimensione interdisciplinare dello specifico oggetto di studio. Ogni processo di valutazione del movimento in ambito educativo dovrebbe infatti prevedere approcci di indagine, protocolli e strumenti diversificati che non riducano la complessità dei significati che l’esperienza motoria può assumere nel processo di insegnamento-apprendimento, ma che, al contrario, ne valorizzino la specificità disciplinare e la funzionalità educativo-formativa sul piano interdisciplinare. A fronte di questa necessità, si richiede inoltre la predefinizione delle modalità attraverso cui è possibile riconoscere e apprezzare le diverse qualità dell’azione motoria, armonizzando tradizioni docimologiche proprie dell’ambito sportivo e prestativo con quelle diffuse in ambito educativo, prospettandone una possibile complementarietà. In questo senso, l’attività di valutazione in ambito motorio richiederebbe l'individuazione di indicatori e descrittori: – della forma del movimento; – dello spazio occupato dal movimento; – del tempo per eseguire il movimento; – della relazione tra movimento e altri soggetti ed oggetti; – dello stile esecutivo che si lega alle aspettative del contesto ed alla tipologia di compito. In questo tipo di attività docimologica, ogni fase specifica dell’azione da valutare non può essere apprezzata con approccio sommativo, ma risponde ad un principio di funzionalità per il quale ogni movimento contribuisce all’efficacia dell’esecuzione e a rendere armonica la sua forma.

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Sul piano prettamente procedurale la valutazione motoria in ambito scolastico presenta ulteriori elementi di complessità e che sono riferibili: – al dove e quindi ai luoghi nei quali avviene il movimento, che possono essere ambienti sia codificati che non codificati e che conseguentemente non sempre consentono una posizione ideale di osservazione, da parte del valutatore, che consenta una controllabilità analitica e multidimensionale in relazione alla natura situazionale del movimento; – al quando avviene il movimento all’interno dell’attività di insegnamento-apprendimento, che in alcuni casi non è linearmente predefinibile in quanto non risponde a vincoli agonistici o performativi ma esclusivamente agli obiettivi formativi della scuola; – al come si valuta il movimento, all’uso di metodologie, protocolli e strumenti compatibili con il contesto e quindi adeguati ai tempi, agli spazi, agli obiettivi e più in generale alle caratteristiche della scuola; – attraverso che cosa si valuta il movimento, e quindi quali strumenti anche tecnologici, in uso in campi diversi da quelli scolastici o atipici per il contesto scolastico, possono essere compatibili con gli obiettivi educativi e formativi. L’elemento di maggiore complessità delle procedure di valutazione motoria è dato però dalla dimensione plurale dei significati che il movimento è potenzialmente in grado di assumere nei contesti scolastici. Infatti il movimento nell’attività di insegnamento può essere sia un risultato visibile nella forma esecutiva dell’azione, che una modalità adoperata dall’insegnante per rendere maggiormente efficace la didattica e favorire i diversi apprendimenti attraverso un’interazione che si avvale non solo dei sensi tradizionalmente conosciuti, ma anche della cinestesia. La fruibilità didattica del “senso del movimento” (Berthoz, 1998) è avvalorata da una visione del corpo in atto quale fondamento delle funzioni cognitive superiori (Berthoz, 2011). La pluralità semantica del movimento, considerabile come oggetto da indagare e valutare nell’ambito del processo di insegnamento-apprendimento, richiede quindi una riconcettualizzazione da indirizzare verso nuovi principi epistemologici che inducano ad abbandonare il paradigma positivista ed empirista, ancora prevalente in campo prestativo, e a individuare una teoria della valutazione capace di offrire un modello rigoroso e affidabile di accertamento in ambito didattico-motorio che abbia una vera valenza formativa nella scuola. In questo senso, a una visione della valutazione che guarda al proprio oggetto come governato da leggi generali e regolato da meccanismi linearmente spiegabili e pertanto prevedibili, si sostituisce un nuovo orizzonte conoscitivo alimentato da una necessità di “comprensione” e di “interpretazione” dei significati assumibili dal movimento in ambito educativo. In tale prospettiva culturale, la valutazione richiederebbe una visione integrata, articolata e dialettica di numerosi saperi appartenenti ad alvei scientifici nomotetici e idiografici idonei a recuperare gli elementi contestuali, cognitivi, relazionali ed affettivi che investono la dimensione corporea e motoria coinvolta a pieno titolo nella formazione della persona. La specificità di questo ambito specifico della valutazione necessita infatti di recepire approcci di tradizione biomedica e renderli compatibili con i modelli della valutazione in campo educativo. Il riconoscimento di una valenza formativa al corpo e al movimento, confermata dai numerosi apporti scientifici che nel corso del tempo hanno offerto una visione della funzione del movimento plurale e sistemica, conferisce all’esperienza motoria nelle attività di insegnamento una posizione privilegiata nella programmazione didattica dei curricoli scolastici, richiedendo conseguentemente nuove modalità di valutazione che tengano conto della complessità e della specificità di questo ambito. Un’efficace docimologia del movimento nei contesti educativi richiederebbe quindi

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l’ancoraggio a studi capaci di favorire la costruzione dei possibili e diversi significati nel rapporto tra educazione e motricità. A tale proposito appare opportuno richiamare il modello classico di Arnold (1988), nel quale è possibile intravedere tre dimensioni formative nella relazione tra movimento, insegnamento e processi educativi: – la conoscenza del movimento (about movement) che si traduce nello studio razionale e critico di vari aspetti motori, elaborati in differenti campi disciplinari; – la conoscenza attraverso il movimento (through movement) legata all’acquisizione di competenze fisiche, sociali, intellettuali e morali attraverso l’azione motoria; – la conoscenza nel movimento (in movement) che rinvia ai saperi esperienziali e informali propri dell’elaborazione durante il movimento. In tale modello è ravvisabile l’ampio ventaglio di possibilità offerte dal movimento che in Italia si sono tradotte in un’evoluzione terminologica a cui ha corrisposto un’attribuzione di senso all’esperienza motoria in ambito educativo, consentendo di indirizzare le procedure di valutazione verso l’apprezzamento del significato in termini di “prodotto, processo o strumento”. Questa prospettiva teorica, dalla quale necessariamente conseguono scelte metodologico-procedurali, dovrebbe essere in grado non solo di favorire l’adeguata valutazione degli apprendimenti motori, ma di cogliere anche le possibilità offerte dal corpo e dal movimento per attribuire significati più ampi, multidimensionali e multisensoriali alla conoscenza, che partano da una riflessione e presa di coscienza dei meccanismi che legano il corpo e le sue potenzialità motorie ai processi di formazione. La valutazione motoria in ambito educativo in questo senso non si pone quindi acriticamente come strumento di indagine indirizzato a rispondere alla sempre crescente richiesta di oggettività in tutte le scienze, ma si configura come una misurazione che si traduce in un indicatore diretto o indiretto delle strategie messe in atto per il conseguimento di obiettivi disciplinari e interdisciplinari propri del campo educativo e formativo. Questo processo di emersione delle dimensioni formative del movimento attraverso la valutazione, implica un recupero della dimensione semantica che è indispensabile per analizzare insieme “azioni visibili” e “capacità” che le hanno determinate; questa esigenza di apprezzare e valutare attraverso un prodotto, che si definisce azione o gesto, la qualità del movimento, o le capacità e competenze indispensabili a compierlo, sottende il rifiuto di una operazionalizzazione analitica che per lungo tempo ha condotto riduttivamente, anche negli ambienti educativi come la scuola, ad atomizzare gli apprendimenti motori in unità discrete, facilmente osservabili e pertanto misurabili, dissolvendo in una programmazione rigidamente tassonomica le possibilità di formazione offerte dal corpo e dal movimento. L’ambito motorio, come tutti gli altri ambiti in cui si realizza l’esperienza educativa e formativa, presupporrebbe quindi uno sforzo scientifico-culturale più complesso a favore del riposizionamento delle funzioni dell’agency individuale all’interno del processo di insegnamento-apprendimento. In questo senso la capacità che si definisce motoria non può ridursi alla sola possibilità di reagire agli stimoli esterni, ma si traduce in azioni che esprimono la dimensione intellettiva del soggetto e dei suoi processi di selezione e di elaborazione delle informazioni provenienti dal contesto. In ambito scolastico le diverse abilità richieste dai curricoli nell’area prettamente motoria, semplici o complesse che siano, rappresentano quindi un mezzo che il soggetto utilizza quando il contesto lo richiede, in quanto ciò che rende l’azione motoria realmente “intelligente” è la sua capacità di affrontare e risolvere situazioni problematiche; quando in ambito scolastico l’azione si lega all’intenzionalità e si traduce in insegnamento del movimento o attraverso il movimento, l’esecuzione costituisce l’oggetto di studio da valutare in relazione allo scopo che persegue e alla strategia che utilizza. Tali processi richiedono una consapevolezza e un self monitoring di “quando” e “come”

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utilizzare il movimento e sono difficilmente quantificabili attraverso una valutazione basata esclusivamente sul classico testing, richiedendo una prospettiva teorica che recuperi i contributi di un’epistemologia complessa di matrice costruttivista che sposta il locus della formazione verso il ruolo attivo del soggetto agente e gli apporti provenienti dal contesto. In questo senso, tra le varie forme di costruttivismo, sociale, interazionista, situazionale e radicale, appare assolutamente cruciale individuare un minimo comune denominatore nel rifiuto di un modello didattico trasmissivo, assegnando pertanto un ruolo di primo piano a modalità didattiche che prediligano l’azione come qualità intrinseca ed estrinseca dell’insegnamento, foriera di esperienze corporee che per loro forma e natura siano in grado di arricchire di attributi, stati affettivi, forme non verbali e nuovi codici rappresentativi la struttura conoscitiva del soggetto in formazione (Pellerey, 1992). In tale quadro di riferimento i processi cognitivi sono potenzialmente traducibili in operazioni che possono essere contenute in azioni (Leont’ev, 1981) che a loro volta possono essere intenzionalmente favorite da esperienze motorie che riproducono situazioni di vita reale in cui sperimentare le proprie capacità di problem solving attraverso l’uso dei gesti e dei movimenti (Sibilio, 2011). Tali attività presentano esse stesse una propria struttura e sono realizzabili mediante una serie di azioni intenzionalmente dirette che richiedono il possesso dei presupposti in campo corporeo-chinestesico descritti negli obiettivi e nei traguardi dei curricoli scolastici italiani, ritenuti fondamentali nelle diverse fasi di un percorso evolutivo che, a partire dai primi cicli di istruzione, si prolunghi durante tutto l’arco dello sviluppo. Una valutazione che rispecchi la complessità di questo orizzonte teorico richiede di coniugare gli elementi di specificità del movimento con l’uso di procedure che prevedono l’adozione congiunta di approcci metodologici quantitativi e qualitativi (Sibilio, Aiello, 2011) fruibili nei contesti scolastici. Infatti un modello di valutazione motoria per risultare effettivamente capace di rispondere alla specificità dei bisogni propri dell’esperienza di insegnamento-apprendimento scolastico, necessita di garantire il rispetto di parametri propri della ricerca sperimentale come la standardizzazione, l’oggettività, la selettività, l’attendibilità e la validità delle misurazioni, non trascurando la complessità delle abilità attese e dei vincoli derivanti dal contesto scolastico e dalle sue aspettative (Sibilio, 2008). In questo senso, nel campo della valutazione motoria in ambito educativo i diversi fattori si configurano come unità molari ognuna delle quali ha un proprio significato che rischia di non emergere qualora non si consideri l’interdipendenza del movimento o dell’azione con le situazioni reali in cui sono suscettibili di essere utilizzati e che, in questo caso, sono vincolate alla piena funzionalità con il progetto educativo e le attività formative della scuola. La contestualizzazione consente infatti alla valutazione di assumere una “validità ecologica” e, nel caso del movimento, di giudicarne l’adeguatezza e il livello nelle sue diverse forme esecutive, apprezzando proceduralmente le straordinarie possibilità di impiegare il corpo e il movimento in una miriade di soluzioni a problemi contingenti, cognitivi e relazionali, che si rivelano cruciali in situazioni reali. In questa visione della valutazione la presunta necessità di isolare qualsiasi variabile intervenga nella misurazione di una data abilità motoria, propria di ambiti come quello sportivo, rischierebbe di trascinare un processo complesso fuori dal contesto educativo, sacrificandone il valore formativo in favore di una logica di laboratorio che si discosta, per ragioni teleologiche e pratiche, da quanto è realizzabile nei contesti scolastici. Nello stesso tempo anche in ambiti diversi rappresenterebbe solo una visione parziale della ricerca, una forzatura capace di comprimere in una sola dimensione la struttura olistica del movimento, riducendone la ricchezza del profilo interpretativo.

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Infatti le generalizzazioni e le previsioni proprie di pratiche docimologiche di stampo comportamentista, ancora in uso in ambiti diversi dalla scuola, risultano inapplicabili allorquando la valutazione si riferisce ad azioni la cui efficacia è legata a fattori situazionali, rendendo pressoché impossibile una decontestualizzazione del movimento che consenta di valutare a pieno le abilità che ne sono il presupposto. In questo senso apparirebbe inapplicabile una valutazione delle abilità allo “stato puro”, misurandole quantitativamente e qualitativamente indipendentemente dalla situazione e dal contesto; le azioni motorie da valutare nella scuola si attuano necessariamente in contesti interattivi in cui assume rilievo il feedback che consente di rimodulare coscientemente e incoscientemente l’azione. Inoltre le abilità osservate e valutate in qualsiasi contesto e situazione problematica non hanno un’autonomia propria, in quanto si svolgono sempre all’interno di azioni orientate a un fine che imprime un significato alle azioni che vengono messe in atto. Non avrebbe senso pertanto disgiungere i movimenti che il corpo compie dai contesti di azione e ciò richiede alla valutazione di affidarsi all’uso di protocolli capaci di apprezzare congiuntamente l’abilità motoria e la capacità di metterla in atto in situazioni simili e quindi di contemplare una sua possibile trasferibilità. Molto è affidato alla modalità con cui avviene l’attività di valutazione in ambito motorio e sottende quindi l’attribuzione di una dimensione interpretativa a qualsiasi prova; la valutazione non può quindi prescindere dalla considerazione che in ambito educativo la stessa prova ogni volta che si realizza rappresenta sostanzialmente un’esperienza unica e quindi irripetibile. Infatti ogni compito motorio assegnato a un soggetto richiede necessariamente l’utilizzazione di diverse abilità psicologiche come attenzione, memoria, percezione e capacità di problem solving, tutte coordinate in un’unica performance la cui forma visibile appare come esclusivamente motoria.Tale unità rende impossibile la scomposizione in singole funzioni, inducendo sul piano della valutazione una continua ricerca di metodologie e protocolli di lavoro che prevedano l’integrazione funzionale di metodologie idonee, protocolli e strumentazioni scientifiche che possano restituire appieno la complessità che caratterizza il movimento nell’attività didattica in ambiente educativo.

2. La proposta di un authentic assessment per la valutazione in ambito didattico-motorio Nella prospettiva delineata, la proposta di un authentic assessment, valorizzata dalla letteratura scientifica internazionale (Shepard, 2000) e nazionale (Domenici, 1993; Comoglio, 2002; Pellerey, 2004; Castoldi, 2005) sembra aprire nuove prospettive qualitative alla valutazione in ambito motorio nei contesti scolastici che ancora sembra opporre una forte resistenza al pieno riconoscimento di valenze formative. Un authentic assessment nell’ambito della valutazione del movimento e delle sue implicazioni all’interno dell’esperienza di insegnamento-apprendimento, si traduce nella chiara definizione di criteri, nell’uso di test autovalutativi, di check list e rating scales, nella valorizzazione del peer assessment, del feedback e dei meccanismi di transfer. Esso si configura come una ricerca che tenta di mettere in luce i presupposti che sono alla base dell’apprendimento anche attraverso il movimento e rappresenta quindi una possibilità offerta alla valutazione per promuovere e migliorare la qualità dei processi formativi, facendo emergere una visione della valutazione come ricerca sul soggetto, sul contesto e sui processi che regolano la rappresentazione che il soggetto costruisce delle sue abilità, delle sue pregresse esperienze e della relazione che esse assumono nelle diverse situazioni. Una visione sistemica quindi

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della valutazione che richiede la costruzione di presupposti che chiariscano ed evidenzino la differenza tra dichiarato, rappresentato e agito del soggetto sul piano motorio. Infatti, partendo dalle specifiche esperienze e dal significato che esse assumono per il soggetto, questo tipo di valutazione non può porsi in nessun modo come una modalità per accertare esclusivamente il livello di abilità raggiunta nei diversi ambiti e rispondere a esigenze di accountability e classificazione fortemente discriminanti e valorizzanti degli aspetti competitivi delle performance motorie. An assessment activity can help learning if it provides information to be used as feedback by teachers and their pupils in assessing themselves and each others, to modify the teaching and learning activities in which they are engaged. Such assessment becomes 'formative assessment' when the evidence is actually used to adapt the teaching work to meet the learning needs (Black et al., 2002).

Tale visione della valutazione, sintetizzata nella definizione fornita da Black et al. (2002) valorizza gli aspetti etici ed estetici dell’educazione (Kucey, Parson, 2012) e l’aspetto formativo della valutazione che si esplicita in modalità dialogiche che coinvolgono docenti e studenti, offrendosi a un processo di condivisione che trasforma l’azione docimologica in una tappa importante del percorso formativo. La comunicazione degli obiettivi della valutazione e la descrizione delle modalità, che rappresentano indiscutibilmente una garanzia di condivisione che è il presupposto per ogni attività educativa e formativa, naturalmente risultano incompatibili con alcuni protocolli di indagine che teorizzano una presunta neutralità del valutatore. Questa modalità di indagine valutativa sposta il focus della ricerca dal prodotto, che nel nostro caso è rappresentato dall’esecuzione, dalla performance o dal gesto, alla comprensione delle strategie di apprendimento dei propri allievi, consentendo a questi ultimi di riflettere sui propri processi di elaborazione e sviluppo del processo formativo anche attraverso l’impiego didattico del corpo e del movimento. Tale approccio consente inoltre di analizzare il significato degli obiettivi dell’insegnamento per gli alunni, la percezione soggettiva di ognuno, facendo emergere particolari bisogni educativi in un’ottica di individualizzazione della progettazione didattica. La proposta integra e comprende una sequenza di strategie di valutazione che emergono dalla letteratura scientifica internazionale (Kucey, Parson, 2012) e prevede anche in ambito motorio: – definizione dei criteri; – strategie di autovalutazione; – feedback; – transfer; – valutazione delle prassi didattiche. Per quanto concerne la definizione dei criteri, essa risponde a un’esigenza di trasparenza e alla necessità, da parte degli studenti, di conoscere i parametri sulla base dei quali verrà giudicato il proprio operato. Nel caso di valutazione motoria si tratta di definire preliminarmente sia l’oggetto di indagine che le modalità di valutazione. La descrizione dell’oggetto della valutazione richiede precisione e chiarezza, assicurandosi che il linguaggio e la varietà delle forme espressive per descrivere il modello prestativo, il movimento, l’esecuzione o il gesto oggetto della valutazione corrispondano adeguatamente sia ai bisogni dello studente che ai significati che i diversi termini possono assumere per ogni soggetto. Appare inoltre fondamentale chiarire ai discenti i presupposti che individualmente ren-

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dono possibile o favoriscono la performance, l’esecuzione, il movimento e il gesto per consentire un necessario e importante processo di autovalutazione e di consapevolezza metacognitiva. Such an assessment can address not only the product one is trying to achieve, but also the process of achieving it, that is the habits of mind that contribute to successful writing, painting and problem solving (Wiggins, 1989).

In questo senso, la comunicazione degli obiettivi e l’esemplificazione dei risultati attesi da ogni attività valutativa rappresenta un elemento fondamentale e precursore dell’acquisizione della capacità di autovalutazione, accrescendo attraverso questo percorso di corresponsabilizzazione formativa i livelli di motivazione degli studenti (Sibilio, 2002; Kucey, Parson, 2012). La valenza educativa di questo approccio in campo valutativo valorizza la funzione della motivazione alla partecipazione in campo scolastico e consente di riconoscere solidi ancoraggi teorici che ci riportano ad alcuni principi dell’attivismo pedagogico come riconoscimento del valore della cooperazione per rendere formativo il processo valutativo (Kucey, Parson, 2012). Le strategie di autovalutazione rispondono inoltre a esigenze cognitive e accrescono le responsabilità degli studenti rispetto all’apprendimento, facilitando la relazione collaborativa tra docente e studente (Shepard, 2000). Nello specifico ambito motorio, l’autovalutazione si configura come un processo autobiografico che consente di contestualizzare i diversi significati che le esperienze motoriosportive vissute nel corso della propria vita hanno assunto per il soggetto (D’Elia et al., 2008; Galdieri et al., 2008). Nello stesso tempo questo processo autovalutativo favorisce una consapevolezza delle possibili differenze tra la percezione soggettiva delle proprie capacità motorie e la reale dimensione che esse assumono nell’esecuzione sul piano quantitativo e qualitativo. Secondo questo approccio il docente non rinuncia alle proprie responsabilità nel processo valutativo ma assume il ruolo di facilitatore e guida, modellando le capacità di autovalutazione dei propri studenti (Kucey, Parson, 2012). Self-assessment allows students to recognize their strength and areas for improvement and areas of improvement and encourages involvement with the curriculum.They also learn to use teacher feedback, constructive criticism from other students and to identify what they need to work on and to set goals for future learning (Kucey, Parson, 2012, p.113).

L’autovalutazione è una capacità che si acquisisce, si sviluppa e necessita quindi di specifici percorsi formativi; nello stesso tempo questa capacità è il presupposto per utilizzare efficacemente strategie di feedback e per renderle disponibili al lavoro del docente-valutatore. Lo studente può infatti utilizzare il feedback come presupposto che induce l’autocorrezione, superando i limiti della segnalazione e puntualizzazione dell’errore che avevano caratterizzato il testing e valorizzando nelle diverse forme, anche indirette, i livelli di motivazione nel corso del processo di valutazione motoria (Lepper et al., 1997). Il transfer previsto in questo approccio docimologico applicato all’ambito motorio si pone come una ulteriore opportunità per rispondere adeguatamente ai programmi e alle indicazioni del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca italiano che prevedono in ogni grado di scuola di accertare l’acquisizione di capacità motorie definite generali,

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e quindi utilizzabili in situazioni e contesti diversi. Si tratta quindi di accertare non solo il possesso della performance specifica, ma la capacità di utilizzare efficacemente la stessa abilità in altre situazioni problematiche. Questa capacità di operare un trasferimento delle proprie abilità, ci riporta a indicazioni cognitiviste e nondimeno costruttiviste che suggeriscono di creare all’interno dei processi valutativi sempre nuove situazioni in cui sperimentare meccanismi di transfer realizzabili attraverso nuove interazioni. Le suggestioni offerte da un authentic assessment hanno indubbie ricadute sulle prassi didattiche, suggerendo una continua rivisitazione delle pratiche in uso, in quanto il carattere informale e altamente qualitativo di tali strategie di valutazione conduce a un posizionamento formativo e a un profondo valore educativo della valutazione dei processi di insegnamento-apprendimento, favorendo il riconoscimento e l’apprezzamento della forma e del significato plurale del movimento e dell’azione.

Conclusioni Il presente studio si è proposto di fornire una prospettiva teorica alla valutazione in ambito motorio nella piena consapevolezza della parzialità di qualsiasi approccio che induce a considerare il variegato panorama dei differenti “paradigmi”, operanti in modo più o meno esplicito e che oggi rivendicano, ognuno da un proprio peculiare punto di vista epistemico, la propria centralità nell’ambito della didattica e della valutazione. La convivenza, talora forzata, di differenti approcci valutativi “incommensurabili”, in special modo nella didattica delle attività motorie, spinge a interrogarsi sulla possibilità stessa che le diverse scuole di pensiero possano dare vita, indipendentemente dalla specificità e dalla finalità che caratterizza ogni attività di movimento a cui si riferisce la valutazione in ambito didattico, a un «paradigma unificatore per superare lo stato di frammentazione e disunità» (Ardila, 1992) attuale. Infatti, se appare estremamente difficile immaginare una teoria unificatrice che consenta di approcciare efficacemente alla valutazione didattica in ogni ambito delle attività di movimento, le suggestioni che emergono dalla specificità dei contesti educativi e da visioni eminentemente quali-quantitative, invitano a una necessaria riflessione e a un irrinunciabile tentativo di aprirsi a modalità qualitative anche in ambito motorio senza escludere la possibilità di un’integrazione di approcci alla valutazione sostanziati da visioni paradigmatiche tradizionalmente ritenute antitetiche. In tale prospettiva le scienze dell’educazione, per sviluppare questo approccio plurale della ricerca sulla valutazione motoria nei contesti educativi, devono riconoscerne la dimensione olistica e le specifiche esigenze di ri-definizione teorica. Questo specifico indirizzo di studi potrebbe offrire un contributo metateorico alla complessiva ricerca sulle scienze del movimento, favorendo in prospettiva la costruzione di un modello procedurale qualiquantitativo della valutazione in ambito motorio che abbia una propria struttura scientifica interdisciplinare e pluriparadigmatica, rendendosi potenzialmente fruibile in contesti diversificati in cui ci si propone di promuovere attraverso il movimento un più generale processo di formazione della persona.

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Ricerche Innovazione istituzionale, culture situate e professionalità degli insegnanti. Un’etnometodologia della contestualizzazione didattica del “Curricolo per competenze” The relationship between institutional change, situated cultures and teachers’ agency. An ethnomethodological approach to the contextualisation of the ‘Curriculum for Competences’ PAOLO SORZIO Lo scopo della ricerca è l’analisi delle condizioni istituzionali che configurano una complessa innovazione educativa come è il “curricolo per competenze” negli Istituti Comprensivi. Saranno presentati i dati emersi da una ricerca etnometodologica multi-sito che evidenzia le tensioni che occorrono nel processo di contestualizzazione di una riforma in realtà concrete. Emergerà una situazione che non può essere ridotta né agli effetti del modello di razionalità tecnica, né a un processo univocamente interpretato dai soggetti. Si tratta di una relazione dinamica e in evoluzione tra mandati e documenti ufficiali, professionalità degli insegnanti e dirigenti e il sapere condiviso all’interno di ciascun Istituto. I risultati dell’etnometodologia mettono in luce alcune condizioni che ostacolano lo sviluppo della professionalità degli insegnanti nel nuovo quadro di riferimento per la didattica.

In this paper, the ethnomethodological perspective is proposed to analyse the complex interplay between institutional changes, the situated cultures of schools and the teachers’ professional agency in the process of contextualisation of an educational innovation. The research objectives are the recognition of the professional culture in the teachers’ interpretation of the Reform mandate and the impact of institutional constraints in the teachers’ intended changes in practice. Data from a multi-site inquiry are presented, in order to shed light on the tensions emerging in the contextualisation of the Curriculum Reform in the Comprehensive System of Education.The impact of the Reform process onto the specific conditions of different practices is highlighted and its implications on the development of teachers’ agency are discussed.

Parole chiave: etnometodologia; contestualizzazione; riforma del curricolo; culture situate; professionalità docente

Key words: ethnomethodology; Curriculum Reform; contextualisation; situated cultures; teachers’ agency

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1. Il contesto della ricerca Nel 2007 sono state introdotte le “Indicazioni nazionali per il curricolo” (D.M. 3 Agosto 2007, n. 68), in accordo con la Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, relativa alle competenze chiave per l'apprendimento permanente (2006/962/CE). Lo scopo della Raccomandazione è l’armonizzazione dei sistemi di istruzione europei, orientandoli verso la formazione dei cittadini, in relazione all’economia della conoscenza, alla costruzione di un sistema sociale fortemente interconnesso e alla cittadinanza attiva. Si parla di “scuola delle competenze” per definire un radicale cambiamento di prospettiva, che pone al centro dell’attività didattica i processi di crescita della comprensione negli allievi, anziché trattare il loro apprendimento come l’effetto della trasmissione del sapere. La memorizzazione di fatti e la ripetizione corretta di ciò che si è appreso rappresentano soltanto alcuni aspetti del ragionamento e non possono rimanere l’unico tipo di richieste cognitive nella scuola. Secondo Resnick (1987), un soggetto competente è in grado di adattare dinamicamente il proprio processo di pensiero alla situazione, affrontando l’imprevedibilità e integrando le informazioni incorporate in differenti modalità simboliche. Inoltre, sa confrontare le proprie idee con gli altri, valutare la razionalità delle argomentazioni e riconoscere le assunzioni implicite di un discorso. Il curricolo dovrebbe essere caratterizzato da una forte integrazione tra diversi ambiti disciplinari, sulla base di alcuni nuclei fondanti, caratterizzati dalla connettività (i saperi appresi generano una rete di connessioni con altri concetti) e dalla trasferibilità (caratterizzata dalla loro applicazione a una varietà di situazioni problematiche). Il sapere appreso a scuola diventa “competenza” quando non è un insieme di conoscenze dichiarative e procedurali, da applicare a compiti ben definiti, ma quando si applica dinamicamente a problemi complessi, ovvero situazioni non standardizzate per le quali non vi sono a disposizione strategie uniformi e meccaniche (Baldacci, 2010; Castoldi, 2011). Poiché le competenze sono apprendimenti estrinsecabili in situazioni concrete, devono essere verificabili e misurabili, in relazione a definiti standards di prestazione; pertanto, la certificazione di competenze appare come essenziale alla loro stessa definizione (D.M. 27 Gennaio 2010, n. 9). Il processo di elaborazione del curricolo si configura in relazione alle diverse condizioni della pratica scolastica. La ricerca etnometodologica entra nelle culture situate della scuola, per analizzare sia gli eventi connessi alla costruzione del “curricolo per competenze”, sia il modo in cui gli insegnanti riformulano la loro professionalità all’interno di un nuovo quadro di riferimento.

2. Quadro teorico L’etnometodologia (Cicourel, 1985; Garfinkel, 1967) ha come oggetto i processi di comprensione congiunta, che i soggetti elaborano per affrontare i problemi emergenti nelle loro attività quotidiane; in particolare, il linguaggio ha una funzione performativa, perché è considerato uno degli strumenti culturali più sofisticati per definire un problema, riconoscere le condizioni che lo configurano e identificare le strategie di soluzione. Dal punto di vista etnometodologico, un processo di innovazione didattica, come il Curricolo per competenze, non è applicato uniformemente e univocamente nei diversi istituti

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scolastici. Si tratta piuttosto di un processo di “contestualizzazione”, in cui i soggetti interpretano i documenti ufficiali, riconoscono le condizioni rilevanti della loro pratica, identificano risorse e vincoli, coordinano la loro attività nel processo congiunto di costruzione del curricolo. La contestualizzazione è un campo di forze configurato da istituzioni, artefatti e discorsi, a differente livello di generalità; pertanto, il processo di innovazione didattica non è definibile soltanto come processo top-down di razionalità tecnica, ma si svolge all’interno di un campo di forze, caratterizzato da conflitti, equilibri, compromessi, elaborazioni divergenti. Per ricostruire il processo di contestualizzazione, l’etnometodologia della scuola (Ball, 2009; Darling-Hammond, 2010; Datnow, Hubbard, Mehan, 2002; Fele, Paoletti, 2003) analizza le relazioni tra discorsi istituzionali, culture situate e prospettiva personale dei soggetti implicati. Si attribuisce grande importanza sia al sistema di assunzioni di sfondo che struttura l’elaborazione congiunta dei significati, sia ai particolari dispositivi che rendono “trattabili” nell’interazione gli elementi implicati nella Riforma, ad esempio i layout dei curricoli di Istituto. Dal punto di vista analitico, possono essere identificate tre dimensioni fondamentali della contestualizzazione, in relazione dinamica tra loro. La prima componente è la struttura di base che definisce i saperi istituzionali, ovvero gli scopi, i mandati, i ruoli e le procedure di una innovazione. Due sistemi di agenzie configurano la contestualizzazione delle riforme scolastiche: il campo normativo, caratterizzato dai documenti che accompagnano i provvedimenti legislativi (quadri interpretativi, decreti attuativi, conferenze di servizio) e il campo formativo, che coinvolge i soggetti dell’editoria, dell’università e della scuola nella produzione di materiali didattici e percorsi di formazione. La seconda dimensione che caratterizza la contestualizzazione del “Curricolo per competenze” è la soggettività dei professionisti, ovvero l’auto-attribuzione della capacità di introdurre cambiamenti significativi nella pratica. I dirigenti scolastici e gli insegnanti interpretano i documenti ufficiali e li integrano nelle loro attività professionali. Si possono riconoscere tre atteggiamenti rispetto a un processo di innovazione professionale, tendenzialmente alternativi: la lealtà, la protesta e la defezione (Hirschman, 1970). Un ulteriore aspetto costitutivo riguarda le culture situate: gli individui elaborano le implicazioni di un cambiamento istituzionale all’interno di un sistema di pratica, che fornisce loro un quadro di assunzioni di sfondo (Duranti, Goodwin, 1992). Tali schemi di sfondo hanno un carattere culturale, nel senso che un parlante presuppone un significato solo se presuppone contemporaneamente che tale significato sia presupposto anche dagli interlocutori (Grice, 1989). Pertanto, le assunzioni costituiscono la struttura contestuale di base (Mercer, 2000) che supporta l’elaborazione del significato da parte dei partecipanti in un’attività pratica, coordina le loro azioni reciproche, integra le intenzioni e le conseguenze delle azioni a livello collettivo.

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Fig. 1. Schema delle dimensioni del processo di contestualizzazione

3. Obiettivi dell’indagine L’oggetto di analisi di questa ricerca è la relazione tra le condizioni istituzionali e i processi di negoziazione dei significati da parte degli insegnanti nel processo di contestualizzazione delle Indicazioni Nazionali per il curricolo delle competenze. Più in particolare, ci si domanderà: • qual è l’impatto della Riforma del curricolo sulle pratiche didattiche quotidiane e sui saperi situati degli insegnanti? • in che maniera le scuole sostengono l’elaborazione di saperi professionali durante la realizzazione del curricolo per competenze? • come gli insegnanti affrontano un cambiamento della pratica professionale, in relazione all’innovazione didattica?

4. Metodologia Un’analisi etnometodologica multi-sito è stata condotta per tre anni, in tre diversi istituti comprensivi, di due regioni differenti. I dati sono stati raccolti tramite l’analisi dei documenti prodotti dalle commissioni di insegnanti nelle scuole, interviste e note etnografiche; inoltre, le discussioni tra insegnanti nei workshop di formazione e nelle commissioni sono state trascritte secondo il modello dell’analisi del discorso in interazione, in modo da indagare i processi di costruzione di un sapere condiviso nella situazione reale (Goodwin, 1981). Secondo questa prospettiva, la costruzione congiunta del significato non avviene soltanto per accumulo di contenuti del discorso, ma è mediata dall’organizzazione emergente del parlato.

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Pertanto, si utilizzano delle convenzioni di trascrizione che divergono dal modello grammaticale, per rappresentare, tramite segni diacritici, il processo di interazione tra i partecipanti di una comunità professionale1. Ciascun atto discorsivo ha sia una funzione retrospettiva che una prospettiva: regola il significato di ciò che è stato detto precedentemente e introduce nuovi elementi contestuali per ciò che seguirà. Successivamente, i dati sono stati codificati e confrontati secondo alcune tematiche emergenti; il processo di costante comparazione dei dati raccolti in setting differenti permette la generazione di categorie per l’analisi del processo di innovazione didattica (Ragin, 1987).

5. Analisi dei dati L’etnometodologia ritiene che un’indagine empirica debba mettere a fuoco le condizioni che configurano i processi di cambiamento istituzionale, in particolare i vincoli e le risorse che strutturano l’agire degli insegnanti nella realizzazione degli scopi dell’attività didattica. I dati raccolti sono stati elaborati per ricostruire il sistema di tensioni e di significati che dinamicamente si intrecciano nell’interazione tra le componenti del processo di contestualizzazione. Di seguito, sono riportati alcuni elementi problematici che emergono nell’interazione tra le dimensioni che configurano la contestualizzazione del “Curricolo per competenze”. Gli estratti delle note etnografiche non hanno una funzione aneddotica, ma rappresentano alcuni aspetti significativi, ripresi dall’ampio data-base costituito dalle osservazioni etnografiche2. Culture situate - professionalità Nella relazione tra culture situate e professionalità emergono alcune tensioni che sono riconducibili alla difficoltà di integrare il curricolo longitudinale all’interno di uno stesso Istituto Comprensivo. Gli insegnanti della scuola primaria ritengono che nella secondaria di 1° grado non si rifletta a sufficienza sul cambiamento della didattica implicato dal Curricolo per competenze: Giulia: «sono molto chiusi, se si parla di lingua ad esempio, uno che insegna musica dice che non interessa … noi diamo di più le cose intrecciate, possiamo parlare di matematica, di lingua, ma è una questione di approccio o di modo, non è una questione di specificità». 1 Le convenzioni di trascrizione (Goodwin, 1981): = indica assenza di intervallo tra la fine di un enunciato e inizio di quello successivo [ indica sovrapposizione -- indica parola troncata : indica prolungamento dell’ultimo fonema . indica intonazione decrescente ? indica intonazione crescente , indica intonazione decrescente-crescente (0.x) indica breve pausa inferiore al secondo (n) indica pausa in secondi Grassetto indica espressione enfatica (testo) indica enunciazione non facilmente comprensibile; miglior congettura ((corsivo)) indica descrizione di attività non verbale 2 Tutti i nomi propri degli insegnanti sono pseudonimi, per garantire il diritto alla privacy

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Laura: «nei gradi scolastici successivi noi (..) cioè (..) noi facciamo tutto male (..) nei gradi scolastici successivi ti rimproverano sempre che non hai fatto questo non hai fatto quell’altro ti rimproverano che non hai fatto le cose canoniche che le basi non hai dato le basi» (13 aprile 2010 Workshop IC1).

La differenza nei saperi di sfondo tra diversi cicli scolastici emerge anche dall’analisi del discorso in interazione: gli insegnanti dei due cicli provano a parlarsi, ma seguono due modelli didattici spesso distanti, sia nelle concezioni riguardanti l’apprendimento degli allievi, sia nell’organizzazione del sapere: IC3 plenaria (09/01/2012) Partecipanti: Mario (docente di Disegno, Secondaria); Carla (docente di Inglese, Primaria); Giovanna (docente, Primaria); Dario (docente di Tecnologie, Secondaria); Marta (docente di Lettere, Secondaria); Paolo (ricercatore). Min. 53:05 Mario: sulle competenze però, che valutazione è? se non ha alcun signifi[cato su— Carla: [però se non mi ricordo male rispetto al suo intervento al collegio docenti, lui disse (0.3) allora la valutazione per competenze la stabiliamo noi. grazie a Dio siamo ancora a questo livello= Mario: =valutare per competenze vuol dire che dovresti avere una lista lunga un chilometro di competenze [nella scuola media Carla: [lo stabiliamo noi ((rumori di voci in sottofondo))= Mario: =quando esci dalla scuola media, almeno (0.2) come diceva lui prima è più (0.2) significativo in una scuola media superiore professionale dove hai delle com[petenze Carla: [è vero su sta roba è vero Mario: la competenza è relativa valutare la competenza è relativo (0.2) siamo più sulle [abilità Carla: [esatto Giovanna: [sì Mario: sulla conoscenza Paolo: però possiamo arrivare come dire a delle abilità complesse no? chiamiamole abilità per--= Mario: =sì però come diceva lui prima ci mette un po’ in difficoltà ((voci in sottofondo)) è difficile Dario: perché gli insegnanti hanno un sacco di bussole io ho la mia bussola lui ha la sua bussola ((inudibile; voci in sottofondo)) tutti han--. ma noi abbiamo bisogno di una bussola cognitiva che ci guidi in una direzione precisa perché altrimenti ((voci in sottofondo))

questo estratto è particolarmente significativo perché è parte di una discussione molto accesa, in cui si confrontano insegnanti della Primaria e della Secondaria di 1° grado. Le persone che intervengono sovrappongono frequentemente le loro voci e suscitano spesso dei commenti di fondo, inudibili alla registrazione, ma che segnalano una forte partecipazione al tema trattato. Mentre gli insegnanti della Primaria si assumono l’impegno di progettare collaborativamente, per gli insegnanti della Secondaria è fondamentale avere una forte organizzazione del sapere, prima di orientare la didattica e la valutazione. Un processo positivo nella relazione tra soggettività degli insegnanti e culture situate riguarda il modo in cui un lavoro collaborativo ha permesso di modificare alcune assunzioni di sfondo nella pratica didattica quotidiana. In diverse situazioni, le discussioni nei workshops di formazione permettono di cambiare alcune procedure didattiche, verso la costruzione di prove

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autentiche, complesse e aperte, che invitano gli allievi alla raccolta, all’elaborazione, alla valutazione della rilevanza delle informazioni. Nel caso presentato, le insegnanti stabilizzano un focus condiviso del discorso ed elaborano un sapere di sfondo. Questo workshop si svolge circa alla metà del percorso di formazione del secondo anno. Le insegnanti devono giungere ad elaborare un’attività didattica “autentica” che permetta ai bambini di sviluppare la competenza dei numeri razionali. Le insegnanti, riprendono un tema emerso la volta precedente, ovvero la possibilità di chiedere ai bambini di raccogliere dei dati su un argomento di loro interesse e poi di elaborarli in istogrammi e condurre dei confronti numerici. In quell’occasione erano emersi dei problemi riguardo la notazione frazionaria e le unità di misura. Sulla base della loro costruzione congiunta di una cultura situata, integrano alcuni elementi della competenza dei bambini (integrazione tra diverse forme di rappresentazione, astrazione) in un nucleo curricolare integrato: IC1 (12/04/2010) Partecipanti: Gabriella (docente, Primaria); Maria (docente, Infanzia);Vanessa (docente, Primaria). Min. 02:36 Gabriella: Comunque anche il (3.0) lavoro con l'istogramma che abbiamo fatto. secondo me è anche una attività che puoi proporre[con i bambini, Maria: [lo so Gabriella: visualizzano tanti bambini con tanti bambiniMaria: vorrei provarci infatti ma proprio con quello che dicevate. dov’è che l’ho visto (0.2) ah no? l’ho visto sul libro di mio figlio i diagrammi gli istogrammi[ Gabriella: [ok Maria: quelli costruiti proprio con gli ometti con le barch—= Gabriella: =infatti Maria: è quello da cui siete partiti per farlo [quello più sin:tetico quelle forme= Gabriella: [uhuhm =si chiama ideogram- ma quello dove ci sono. Maria: brava, ideogramma bel nome (0.4) mi è venuto in mente mi sono ricordata il disegno di partenza che aveva la Pina e:: con i bambini potresti fare potremmo fare questa cosa e poi trascriverlo in forma [più simbolica poi Gabriella: [sì poi ma poi ogni simbolo può diventare un mattoncino per fare la colonna dell’istogramma= Maria: =esatto trasportare poi il lavoro l’altro lavoro che bisogna fare è cominciare a prepararli alla parola scritta (0.3) e quindi alla scrittura quindi all’introduzione del simbolo. allora quello che noi facciamo è eh non so dal gesto al suono, dal suono al segno grafico, [cioè Gabriella: [uhuhm Maria: c’è questa cosa è per abituarli all’idea non solo della rappresentazione mentale ma di quella cosa che sintetizza quella roba lì con un segno= F: =sì la frazione= Maria: =convenzionale. Gabriella: puoi già sostituire il linguaggio, quindi 8 bambiniM: L’istogramma quindi sostituisce l'ideogramma[ Gabriella: [ho capito Maria: quelle forme sempre più sintetiche no? simboliche che ti allontanano dall’oggetto e, però (0.2) rimandano all’oggetto hai capito come? Questo è il processo secondo me, che è interessante[ Vanessa: [uhm Maria: che è interessante

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Questa breve discussione mostra come le insegnanti rendano rilevante un sapere condiviso per giungere a costituire un focus del discorso condiviso e a incorporare alcuni elementi che possono costruire la competenza dei bambini (integrazione tra diverse forme di rappresentazione, astrazione). Un indizio della condivisione del focus di riflessione è la rapida sequenza (indicata dal segno diacritico di “=”) con cui un’insegnante sviluppa il suo contributo a partire dall’enunciato della collega nel turno precedente. Nella successiva parte della discussione e nel workshop successivo emergerà anche la natura del compito “autentico”: infatti, i bambini condurranno un’inchiesta sulle abitudini per la colazione presso parenti e amici, uniranno i dati e li elaboreranno in istogrammi e aerogrammi “a torta” (passando quindi da unità di misura in centesimi a unità in trecentosessantesimi) e condurranno alcune interpretazioni sull’alimentazione del mattino. Struttura istituzionale - culture situate Nelle varie discussioni tra insegnanti di cicli diversi, emerge ripetutamente la difficoltà di costruire il curricolo verticale integrato e non come giustapposizione di elaborazioni separate. Sarebbe necessaria una struttura unitaria del curricolo in longitudinale, per permettere agli allievi di affrontare i nuclei fondanti del sapere in maniera più articolata e connessa; tuttavia non è facile trovare una procedura condivisa: Manuela (insegnante Primaria): «mettere insieme gli insegnanti rispetto ad aspetti trasversali, selezione dei programmi ministeriali (selezionare alcuni percorsi), è importante mettere attenzione al bambino che cresce e ai suoi apprendimenti. I dipartimenti sono occasioni di lavoro e perciò devono essere produttivi, bisogna motivare i gruppi dando delle tematiche trasversali». Ada (dirigente scolastico) «la secondaria lavora meglio per nuclei disciplinari» (25/08/2010: riunione preliminare, contratto formativo IC2).

L’analisi comparativa permette di riconoscere come i layout dei curricoli di Istituto divergano da scuola a scuola, essendo le Indicazioni nazionali molto aperte e non prescrittive. Ciascuna cultura situata elabora modi specifici di interpretazione del curricolo per competenze e di organizzazione dell’attività didattica. Laddove alcune insegnanti organizzano il curricolo di Istituto secondo una sequenza che indica, seppure problematicamente, una continuità verticale, in altri casi, il layout indica un semplice accumulo di conoscenze. Tuttavia, non sono esplicitate le attività per favorire la costruzione di competenze più avanzate da parte degli allievi. In particolare, appare significativa un’analisi del curricolo per le competenze riguardanti i numeri razionali, per il grande ruolo che assume questo tipo di competenza, sia negli apprendimenti successivi, sia nella modellizzazione di molte situazioni problematiche reali (Bowers, Cobb, McClain, 1999). Come si vede in figura 3, i layout delle tre scuole differiscono sia nella specificazione delle competenze, sia nelle categorie che sono rese esplicite (nella scuola 3 le modalità di rilevamento sono considerate informazioni rilevanti, anche se non necessariamente connesse alla valutazione di competenze).Tuttavia, non sembra chiaro in cosa le competenze si distinguano dagli obiettivi in ciascuno dei tre casi (nella scuola 3 è ritenuta fondamentale la proprietà della divisibilità). Sembra mancare un’attenzione al concetto di frazione come “rapporto”, che ha importanti implicazioni nell’apprendimento di un’unica struttura numerica che integra i diversi aspetti del concetto di numero razionale.

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Fig. 2. Layouts dei curricoli per competenze in relazione al nucleo concettuale dei numeri razionali

Scuola 1 Competenze conoscenze abilità Si muove con sicurezza nel Conoscere le frazioni e la loro Saper confrontare e ordinare le calcolo scritto e orale

utilizzazione come operatore

frazioni,

decimali

in

particolare, utilizzando la linea dei numeri Saper trasformare una frazione decimale nel relativo numero decimale e viceversa

Scuola 2 Competenze Padroneggiare

abilità

calcolo orale e scritto

conoscenze abilità di Individuare il significato e Utilizzare correttamente zero, utilizzare correttamente zero, virgola, virgola,

valore

valore

posizionale

posizionale delle cifre

delle cifre (nei numeri naturali e/o decimali).

Scuola 3 Competenze Numerica, simbolica Nodi

disciplinari:

OSA Abilità/conoscenze …… numero, Ordinare,

simbolo, trasformazione

Modalità di rilevamento Esercitazioni guidate a piccoli

confrontare, gruppi

scomporre

e

lavagna,

ricomporre individuali.

numeri interi e decimali Riconoscere

alla

e

Attività e scoperte di giochi,

costruire combinazioni di ricorrenze

relazioni tra numeri naturali: multipli,

divisori,

numeri

primi, potenze. Conoscere e utilizzare i numeri Operare con i numeri

La definizione di competenza riguardo i numeri razionali sembra poco innovativa, rimanendo entro i confini delle conoscenze/abilità delle procedure di calcolo, ordinamento e confronto e di uso di diverse forme di espressione simbolica. Pur riconoscendo l’importanza dell’autonomia delle scuole nel definire i propri percorsi didattici, tale varietà potrebbe rappresentare un problema sia perché il concetto di “competenza” non ha portato a un radicale ripensamento dell’organizzazione del sapere, sia perché una definizione sufficientemente chiara e condivisa permetterebbe di sviluppare un lavoro di rete efficace per costruire un data-base ricco, articolato e collaborativo, da cui gli insegnanti possono attingere per costruire i loro curricoli per le competenze. In questo caso, la struttura amministrativa di supporto all’autonomia scolastica dovrebbe favorire una cultura condivisa di esperienze.

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Professionalità - struttura La relazione tra professionalità degli insegnanti e struttura istituzionale rappresenta un punto di tensione molto forte, che tende a rendere problematico il passaggio dalla scuola del “programma” alla scuola delle “competenze”. Dall’analisi dei dati, emerge una costante critica all’uso di tre tipologie di valutazione che seguono scale diverse per lo stesso grado scolastico (in terza media vi sono la valutazione in decimi, la certificazione delle competenze a tre livelli, le prove INVALSI). Nonostante l’enfasi posta sui risultati delle prove PISA come parametro della qualità complessiva del “fare scuola” e come indicatore della necessità di rinnovamento, spesso gli insegnanti delle scuole secondarie sono perplessi dalla mancanza di chiarezza delle Indicazioni nazionali: Giuseppe: «conosco un collega precario che segue un curricolo per competenze in una scuola per una parte del suo monte-ore settimanale e un diverso curricolo nelle restanti ore in un’altra scuola» (15 novembre 2011, plenaria IC3). Mauro: «Il mio dirigente ci rassicura che la certificazione delle competenze alla fine della 3° media non ha nulla a che fare della valutazione dell’apprendimento, perché le competenze non sono gli apprendimenti. Ma se il prossimo anno viene un altro dirigente?» (15-11-2011, plenaria IC3). Marta: «Giustamente il collega diceva,“cosa vado a valutare, se non so quali competenze devo sviluppare nei ragazzini”, lo sappiamo?» (09-01-2012, plenaria, IC3).

Corrette o meno che siano queste affermazioni, sembrano rivelare un disagio reale dei docenti.Va rilevata l’ampia defezione degli insegnanti delle Secondarie alle attività di formazione, per quanto stabilite dal loro Collegio Docenti. Anche laddove gli insegnanti hanno contribuito in maniera propositiva allo sviluppo del Curricolo per competenze, percepiscono una frattura tra la loro professionalità come risorsa dell’innovazione e le richieste istituzionali: Alice, un’insegnante della Secondaria che ha contribuito all’elaborazione di problemi autentici di area scientifica, chiede nell’ultimo incontro: «Le prove INVALSI di 3° sono parte della votazione finale, fanno media. Come posso lavorare per competenze se poi vengono fuori delle prove che richiedono che io faccia tutto il programma? Se i genitori sanno che non ho svolto parte del programma perché ho fatto prove autentiche possono fare ricorso perché il voto è minore. Dove trovo il tempo?» (0204-2012 valutazione conclusiva dell’attività di formazione, IC2)

Considerazioni conclusive La contestualizzazione della Riforma dei curricoli è la composizione multidimensionale dei tre campi in cui si svolgono le politiche educative; il risultato non è un sistema uniforme di attività didattiche e di professionalità docente, ma una rete di differenze, organizzata attorno a dei prototipi. L’indagine etnometodologica mette in luce una serie di elementi problematici, che creano tensioni tra le componenti del sistema e limitano la capacità di agire da parte degli insegnanti. A livello delle culture professionali, gli insegnanti tendono a ritenere che la retorica della riforma non valorizzi i loro saperi, che pertanto rimangono fortemente connessi a pratiche e assunzioni di sfondo tipici della “programmazione per obiettivi”. Se il processo di riforma

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valorizzasse i saperi professionali come risorsa effettiva, questi potrebbero diventare oggetto di una riflessione sistematica da parte degli insegnanti e mobilizzati nella progettazione di nuove attività didattiche. Per quanto riguarda le pratiche istituzionali, la presenza di configurazioni differenti del curricolo implica diverse prospettive riguardo alle competenze. Un aspetto cruciale nel processo di contestualizzazione della riforma è la mancanza di cultura professionale condivisa tra docenti di diverso grado scolastico: la limitata partecipazione degli insegnanti della Secondaria di 1° grado nei corsi di formazione (o nei percorsi di ricerca-azione) rende la progettazione didattica per lo sviluppo delle competenze un processo ancora localizzato e non sistematico. A livello strutturale i diversi sistemi di valutazione, con criteri e conseguenze altamente differenziati (3 livelli su scala ordinale per la certificazione delle competenze, voti in decimi, impatto delle prove INVALSI, ancora poco chiaro agli insegnanti) produce tensione negli insegnanti. I docenti si sono sentiti pressati da una riforma per la quale mancano materiali elaborati in forma collaborativa. Il problema del “cambiamento di scala”, dalle macro-concezioni alle micro-pratiche non è univoco e semplice e non sembra adeguatamente elaborato a livello istituzionale. L’analisi etnometodologica mette in luce anche un processo di innovazione didattica e di cambiamento di prospettiva professionale per quegli insegnanti che si sono impegnati con costanza nei lavori collaborativi. Alcune attività didattiche complesse sono state costruite intersoggettivamente nel corso del tempo. Lo sviluppo di un sapere situato permette alle insegnanti di costruire un contesto di assunzioni di sfondo che supportano l’elaborazione di un focus di discorso e l’integrazione di diversi aspetti legati allo sviluppo della competenza nei bambini in un progetto unitario. Dal punto di vista metodologico, sono riconoscibili due direzioni nell’ulteriore sviluppo della ricerca: la prima è l’analisi di alcune disfunzioni nel processo di interazione, per favorire l’intersoggettività tra docenti di gradi diversi; la seconda riguarda l’astrazione delle categorie discorsive che permettono di analizzare la variazione del sapere situato degli insegnanti e il loro cambiamento di prospettiva professionale, per affrontare le innovazioni curricolari.

Riferimenti normativi D.M. 3 Agosto 2007, n. 68 - Indicazioni nazionali per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione. D.M. 27 Gennaio 2010, n. 9 – Modello di certificazione dei saperi e delle competenze acquisite nell’assolvimento dell’obbligo di istruzione. Recommendation 2006/962/EC - On key competences for lifelong learning, Official Journal L 394 of 30.12.2006.

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Norme editoriali

NORME DI CARATTERE GENERALE Documento: • Il contributo, consegnato su file e accompagnato da versione cartacea, deve essere in formato Word, in cartelle standard di circa 3000 battute, per un massimo di circa 15 cartelle, e deve contenere per ogni autore l’indicazione di: nome (per esteso), cognome, ruolo dell’autore/i, istituzione di appartenenza e indirizzo di posta elettronica. Nel caso di più autori, i nomi vanno elencati in ordine alfabetico. • Il titolo del contributo deve essere in italiano e in inglese e non deve contenere sottotitoli. • I titoli dei paragrafi devono essere brevi e concisi, evitando possibilmente l’uso di sottoparagrafi. • Vanno evitate le composizioni in carattere neretto, sottolineato, in minuscolo spaziato e integralmente in maiuscolo. Attenzione: il contributo deve essere inedito. Può contenere eventuali note di commento a pie’ di pagina e nota bibliografica in chiusura. Il contributo non deve contenere una bibliografia generale. I riferimenti bibliografici interni al testo devono essere inseriti in parentesi tonde: cognome dell’autore a cui segue la virgola e l’anno di edizione, come da esempio riportato alla lettera A) delle note bibliografiche. La nota bibliografica a fine contributo deve rispettare la citazione interna al testo secondo le regole di seguito riportate. Abstact: L’abstract (sia in lingua italiana che in lingua inglese) va collocato dopo il titolo dell’articolo e prima del testo, e non deve superare gli 800 caratteri ciascuno (spazi esclusi). Deve anche comprendere 6 parole chiave in entrambe le lingue. L’abstract deve contenere il senso dell’intero lavoro e rispondere alle domande: perché il lavoro è stato fatto, cosa è stato fatto, cosa si è dimostrato e cosa è stato concluso. Virgolette: Le virgolette alte (o apici): “ ” si usano sia per le citazioni sia per enfatizzare alcune espressioni come “per così dire”, “il cosiddetto”, ecc... Le virgolette basse (o caporali) si usano per i discorsi diretti e per le citazioni: « ». Nel caso in cui una citazione ne contenga un’altra, riportare la citazione interna con le virgolette alte “ ” e quella esterna con le virgolette basse « ». Omissioni: si segnalano con tre puntini tra parentesi quadre […].

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Note: Saranno numerate con numeri arabi progressivi. Si raccomanda un attento controllo della corrispondenza della numerazione delle note con i rinvii indicati a esponente nel testo, sempre con numeri arabi e senza parentesi. Nel testo, il rimando alla nota al piede va posto all’interno della punteggiatura: testo1. e non testo.1 Fanno eccezione i punti esclamativo e interrogativo che precedono l’esponente di nota. Citazioni: In caso di citazioni che superino le tre/quattro righe, si devono riportare in corpo più piccolo e con i margini rientrati rispetto al testo principale, staccate da un’interlinea.

Elenco puntato: Riportare l’elenco con il trattino, con rientro del punto elenco di 0,5, e rientro del testo di 0,5. Riportare il punto e virgola alla fine di ogni punto elenco e il punto alla fine dell’elenco. Esempio: – la capacità di collegare in trame concettuali le conoscenze acquisite nei corsi universitari; – l’individuazione di motivati punti di riferimento per la scelta dei contenuti; – l’individuazione dei nodi portanti, della loro valenza didattica e delle relative difficoltà cognitive. Nel caso che il punto elenco abbia un ulteriore punto elenco al proprio interno, riportare il secondo punto elenco con il pallino, con rientro del punto elenco di 1,5 e rientro del testo di 1,5. Esempio: – Possedere padronanza culturale (storico-epistemologica) della disciplina e inquadrare con cognizione i grandi temi che essa propone, cioè: • padroneggiare i concetti nelle loro articolazioni, e la struttura sintattica, semantica e concettuale della disciplina; • inquadrare e calare nel contesto le proprie conoscenze, anche integrando quelle acquisite nei corsi universitari, per cogliere la loro valenza nella formazione culturale dell’allievo. Lineette: Si distinguono due casi: per unire due parole (es. spazio-tempo), si usa il trattino breve senza nessuno spazio, né prima né dopo. Per creare un inciso all’interno di una frase si usa il trattino medio, preceduto e seguito da uno spazio. Parole straniere: Vanno in carattere tondo le parole straniere che sono entrate nel linguaggio corrente, come: on-line, boom, cabaret, chic, cineforum, computer, dance, film, flipper, gag, garage, horror, leader, monitor, pop, rock, routine, set, spray, star, stress, tea, thè, tic, vamp, week-end, ecc. Esse vanno poste nella forma singolare. In genere vanno in carattere corsivo tutte le parole straniere. Vanno inoltre in carattere corsivo: alter ego (senza lineato breve unito), aut-aut (con lineato breve unito), budget, équipe, media (mezzi di comunicazione), passim, revival, sex-appeal, sit-com (entrambe con lineato breve unito), soft. Accenti: In italiano le vocali a, i, u, richiedono solo l’accento grave (à, ì, ù); la e richiede l’accento acuto in finale di parola in tutti i composti di che (poiché, affinché, cosicché ecc.). Si scrivono con l’accento grave: è, cioè, caffè, tè, ahimè, piè; le parole straniere entrate nell’uso della lingua italiana (gilè, canapè, bignè) e i nomi propri di persona (Noè, Giosuè, Mosè). Si accenta dà (terza persona singolare del verbo dare) e si apostrofa da’ (imperativo presente dello stesso

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verbo) per distinguerle dalla omofona da (preposizione); si afostrofa fa’ (imperativo presente di fare) ma è un grave errore accentare tanto fa (terza persona singolare dello stesso verbo) quanto fa (avverbio o nota musicale). La terza persona singolare del verbo essere, quando è maiuscola, va accentata (È) e non apostrofata (E’). Parentesi: Le parentesi tonde si usano per isolare dal contesto una frase o una parola e per evidenziare un richiamo ad altra parte del testo. Le parentesi quadre si usano all’interno delle tonde, per evidenziare un salto o una mancanza di testo, per introdurre in una citazione tra virgolette il commento dell’autore. La punteggiatura che si riferisce al testo principale va posta fuori dalla parentesi di chiusura. Segni di interpunzione e caratteri di stampa: • I segni di interpunzione (, : ; ! ?) e le parentesi che fanno seguito ad una o più parole in corsivo si compongono sempre in tondo, a meno che non siano parte integrante del brano in corsivo. • I periodi interi fra virgolette o fra parentesi avranno il punto fermo dopo la parentesi di chiusura. Si compongono in tondo: • gli articoli contenuti nelle testate di giornali, riviste, collane e in genere periodici di ogni tipo; Si compongono in tondo fra doppi apici (“tondo”): • all’interno delle citazioni, le parole che normalmente richiedono l’uso delle virgolette basse; • le parole usate in un’accezione diversa dalla loro usuale, o con particolare coloritura.

Numeri delle pagine e degli anni: vanno indicati per esteso (ad es.: pp. 112-146 e non 112-46; 113-118 e non 113-8; 1953-1964 e non 1953-964 o 1953-64 o 1953-4). L’ultima pagina di un volume è pari e così va citata. In un articolo la pagina finale dispari esiste, e così va citata solo qualora la successiva pari sia di un altro contesto; altrimenti va citata, quale ultima pagina, quella pari, anche se bianca. Le cifre della numerazione romana vanno rispettivamente in maiuscoletto se la numerazione araba è in numeri maiuscoletti, in maiuscolo se la numerazione araba è in numeri maiuscoli (ad es.: xxiv, 1987; XXIV, 1987). Immagini: Le immagini, i grafici, i diagrammi vanno riportati in bianco e nero e con risoluzione di almeno 600 pixels. È pertanto necessario verificare che ci sia una buona definizione dei colori all’interno di una scala di grigi. Le immagini vanno inserite nel corpo del testo, ma è bene anche fornire i file a parte delle immagini in formato .jpg o .tiff o .pdf. Nel caso di grafici e diagrammi è bene fornire anche il file excel da cui sono stati tratti. È comunque necessario cercare di limitare il n. di immagini e grafici presenti nel testo. Tabelle: Le tabelle vanno inserite nel corpo del testo e non devono superare in larghezza i 13 cm. Didascalie tabelle, grafici o figure: Riportare l’abbreviazione Tab. per la tabella, Fig. per figura e Graf. per grafico, seguito dal numero, dai due punti e dal titolo. Esempio: (Fig.1: Il progetto della Sird)

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Siti Internet: I siti Internet vanno citati in tondo minuscolo senza virgolette qualora si specifichi l’intero indirizzo elettronico (es.: www.libraweb.net; www.supergiornale.it). Se invece si indica solo il nome, essi vanno in corsivo alto/basso senza virgolette al pari del titolo di un’opera (es.: Libraweb; Libraweb.net); vanno in tondo alto/basso fra virgolette a caporale qualora si riferiscano a pubblicazioni elettroniche periodiche (es.: «Supergiornale»; «Supergiornale.it»). Riferimenti normativi Riportare i riferimenti per esteso, indicando il tipo di normativa, la data e il numero in grassetto, seguito da trattino e titolo in stile normale. Esempio: D.P.R. 31 luglio 1996, n. 470 - Regolamento concernente l’ordinamento didattico della Scuola di Specializzazione per la formazione degli insegnanti di Scuola Secondaria. Glossari Riportare la parola chiave in grassetto. Riportare la definizione dopo lo spazio di una riga. Esempio: Abilità (Skill) Insiemi più o meno ramificati di contenuti di conoscenza, che possono essere sistemi simbolici, corpi di credenze, quadri disciplinari, specifici quadri teorici e/o interpretativi della realtà, dell’esperienza, della condotta. Abbreviazioni (alcune) a. = annata a.a. = anno accademico a.C. = avanti Cristo ad es. = ad esempio ad v. = ad vocem (c.vo) anast. = anastatico app. = appendice art., artt. = articolo, -i autogr. = autografo, -i cap., capp. = capitolo, -i cfr. = confronta cit., citt. = citato, -i cl. = classe cm, m, km, gr, kg = centimetro, ecc. (senza punto basso) cod., codd. = codice, -i col., coll. = colonna, -e cpv. = capoverso c.vo = corsivo (tip.) d.C. = dopo Cristo ecc. = eccetera ed., edd. = edizione, -i es., ess. = esempio, -i et alii = et alii (per esteso; c.vo) f., ff. = foglio, -i f.t. = fuori testo facs. = facsimile fasc. = fascicolo Fig., Figg. = figura, -e (m.lo/m.tto)

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lett. m.lo m.lo/m.tto m.tto misc. ms., mss. n.n. n., nn. N.d.A. N.d.C. N.d.E. N.d.R. N.d.T. nota n.s. n.t. op., opp. op. cit., opp. citt. p., pp. par., parr., §, §§ passim r rist. s. s.a. s.d. s.e. s.l. s.l.m. s.n.t. s.t. sec., secc. sez. sg., sgg. suppl. supra t., tt. t.do Tab., Tabb. Tav., Tavv. tip. tit., titt. trad. v v., vv. vedi vol., voll.

= lettera, -e = maiuscolo (tip.) = maiuscolo/maiuscoletto (tip.) = maiuscoletto (tip.) = miscellanea = manoscritto, -i = non numerato = numero, -i = nota dell’autore = nota del curatore = nota dell’editore = nota del redattore = nota del traduttore = nota (per esteso) = nuova serie = nel testo = opera, -e = opera citata, opere citate (c.vo perché sostituiscono anche il titolo) = pagina, -e = paragrafo, -i = passim (la citazione ricorre frequente nell’opera citata; c.vo) = recto (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = ristampa = serie = senza anno di stampa = senza data = senza indicazione di editore = senza luogo = sul livello del mare = senza note tipografiche = senza indicazione di tipografo = secolo, -i = sezione = seguente, -i = supplemento = sopra = tomo, -i = tondo (tip.) = tabella, -e = tavola, -e = tipografico = titolo, -i = traduzione = verso (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = verso, -i = vedi (per esteso) = volume, -i

Nelle abbreviazioni in cifre arabe degli anni, deve essere usato l’apostrofo (ad es.: anni ’30). I nomi dei secoli successivi al mille vanno per esteso e con iniziale maiuscola (ad es.: Settecento); con iniziale minuscola

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vanno invece quelli prima del mille (ad es.: settecento). I nomi dei decenni vanno per esteso e con iniziale minuscola (ad es.: anni venti dell’Ottocento).

NOTE BIBLIOGRAFICHE Le citazioni bibliografiche devono essere complete di tutti gli elementi, nell’ordine in cui segue: 1. cognome e nome (appuntato) dell’Autore in tondo (se gli autori sono due o più andranno separati da una virgola); 2. data di pubblicazione contenuta tra parentesi tonda (1987); 3. titolo dell’opera in corsivo; 4. eventuale indicazione del volume con cifra romana; 5. numero dell’edizione, quando non è la prima, con numero arabo in esponente all’anno citato (es.: 19322); 6. luogo di pubblicazione (seguito da virgola); 7. nome dell’editore e, per le edizioni antiche, del tipografo; 8. rinvio alla pagina (p.) o alle pagine (pp.): esempio: pp. 1-12, 21-25, 217-218, 315-324, 495-502. Tutti i suddetti elementi vanno separati tra loro da una virgola. Alcuni esempi A) Citazioni interne al testo Il cognome di ogni autore citato va in parentesi tonda seguito da un virgola e dall’anno di edizione. Usare il punto e virgola se gli autori sono più di uno (Berndt, 2002; Harlow, 1983). ……… Kernis (1993) ………………Wegener and Petty (1994) Se i nomi degli autori non sono contenuti nel testo (Kernis, 1993) (Wegener & Petty, 1994) In citazioni successive dello stesso volume o dove sono presenti più di sei autori segnalare solo il cognome del primo autore ed inserire “et al.” Harris et al. (2001) afferma... (Kernis et al., 1993) (Harris et al., 2001) 1. Per autori con lo stesso cognome inserire l’iniziale del nome. (E. Johnson, 2001; L. Johnson, 1998) 2. Per i testi dello stesso autore pubblicati nello stesso anno usare l’ordine alfabetico (a, b, c) La ricerca di Berndt (1981a) illustra..... 3. Citazioni fonti indirette Johnson afferma che...(come citato da Smith, 2003, p. 102). 4. Fonti elettroniche Usare lo stile autore-data Kenneth (2000) spiega...

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B) Riferimenti generali Un solo autore Al cognome segue l’iniziale del nome. Berndt T. J. (2002). Friendship quality and social development. Current Directions in Psychological Science, 11, pp. 7-10. Due o più autori Lista dei nomi, virgola e iniziali dei nomi. Wegener D. T., & Petty R. E. (1994). Mood management across affective states: the hedonic contingency hypothesis. Journal of Personality & Social Psychology, 66, pp. 1034-1048. Lista di autori Kernis M. H., Cornell D. P., Sun C. R., Berry A., Harlow T., Bach J. S. (1993).There’s more to self-esteem than whether it is high or low: the importance of stability of self-esteem. Journal of Personality and Social Psychology, 65, pp. 1190-1204. Berndt T. J. (1999). Friends’ influence on students’ adjustment to school. Educational Psychologist, 34, pp. 15-28. Berndt T. J., Keefe K. (1995). Friends’ influence on adolescents’ adjustment to school. Child Development, 66, pp. 1312-1329. Wegener D. T., Kerr N. L., Fleming M. A., & Petty R. E. (2000). Flexible corrections of juror judgments: implications for jury instructions. Psychology, Public Policy, & Law, 6, pp. 629-654. Wegener D.T., Petty R. E., & Klein D. J. (1994). Effects of mood on high elaboration attitude change: the mediating role of likelihood judgments. European Journal of Social Psychology, 24, pp. 25-43. Organizzazioni American Psychological Association. (2003).

C) Riferimenti bibliografici Introduzioni e Prefazioni Citare le informazioni sulla pubblicazione specificando se: Introduzione, Prefazione, Postfazione.Tale regola è applicabile anche al contributo di un periodico. Funk R. & Kolln M. (1998). Introduction. In E.W. Ludlow (Ed.), Understanding English Grammar (pp. 12). Needham, Allyn and Bacon. Articoli Autore A. A., Autore B. B., & Autore C. C. (Anno).Titolo del contributo. Titolo del periodico, numero del volume in corsivo (numero del fascicolo), pagine. Harlow H. F. (1983). Fundamentals for preparing psychology journal articles. Journal of Comparative and Physiological Psychology, 55, pp. 893-896. Scruton R. (1996). The eclipse of listening. The New Criterion, 15(30), pp. 5-13. Article in quotidiani Henry W. A., III. (1990, April 9). Making the grade in today’s schools. Time, 135, pp. 28-31. Lettere Moller G. (2002, Agosto). Ripples versus rumbles [Lettera all’editore]. Scientific American, 287(2), 12.

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Riferimenti in volumi Autore A. A. (Anno di pubblicazione). Titolo del volume. Lettera maiuscola anche per il sottotitolo. Luogo di edizione: Casa Editrice. Calfee R. C., & Valencia R. R. (1991). APA guide to preparing manuscripts for journal publication.Washington: American Psychological Association. Curatele Duncan G. J., & Brooks-Gunn J. (Eds.). (1997). Consequences of growing up poor. New York: Russell Sage Foundation. Volumi con autori e curatori Plath S. (2000). The unabridged journals (K.V. Kukil, Ed.). New York: Anchor. Traduzioni Laplace P. S. (1951). A philosophical essay on probabilities. (F. W. Truscott & F. L. Emory, Trans.). New York: Dover. (Edizione originale pubblicata 1814). Articoli o Capitoli contenuti in un Volume Autore A. A., & Autore B. B. (Anno di pubblicazione). Titolo di capitolo. In A. Editor & B. Editor (Eds.), Tiolo del libro (pagine del capitolo). Luogo: Casa Editrice. O’Neil J. M., & Egan, J. (1992). Men’s and women’s gender role journeys: metaphor for healing, transition, and transformation. In B. R. Wainrib (Ed.), Gender issues across the life cycle (pp. 107-123). New York: Springer. Multivolumi Wiener P. (Ed.). (1973). Dictionary of the history of ideas (Vols. 1-4). New York: Scribner’s. Altri Riferimenti Bergmann P. G. (1993). Relativity. In The new encyclopedia britannica (Vol. 26, pp. 501-508). Chicago: Encyclopedia Britannica. Coltheart M., Curtis B., Atkins P., & Haller M. (1993). Models of reading aloud: dual-route and paralleldistributedprocessing approaches. Psychological Review, 100, pp. 589-608. Yoshida Y. (2001). Essays in urban transportation (Tesi di Dottorato, Boston, College, 2001). Dissertation Abstracts International, 62, 7741A. National Institute of Mental Health. (1990). Clinical training in serious mental illness (DHHS Pubbblicazione ADM 90-1679). Washington, Government Printing Office. Conferenze Schnase J. L., & Cunnius E. L. (Eds.). (1995). Proceedings from CSCL ‘95: The First International Conference on Computer Support for Collaborative Learning. Mahwah: Erlbaum. Pubblicazioni Web o articoli da un periodico Online Autore A. A., & Autore B. B. (Data di pubblicazione).Titolo dell’articolo. Titolo del Periodo Online, numero del volume(numero del fascicolo, se presente). Estratto da http://www.someaddress.com/full/url/ Articoli presenti in Database Smyth A. M., Parker A. L., & Pease D. L. (2002). A study of enjoyment of peas. Journal of Abnormal Eating, 8(3), pp. 120-125.

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Finito di stampare nel mese di GIUGNO 2012 da Pensa MultiMedia Editore s.r.l. Lecce - Brescia www.pensamultimedia.it


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