Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno IV numero 7 Dicembre 2011
Direttore LUCIANO GALLIANI - Università degli Studi di Padova Condirettore PIERO LUCISANO - Università “Sapienza” di Roma Comitato Scientifico ROBERTA CARDARELLO - Univeristà degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA - Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE - Université Catholique di Lovanio FRANCO FRABBONI - Università degli Studi di Bologna ALESSANDRA LA MARCA - Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI - Università degli Studi di Roma 3 ACHILLE M. NOTTI - Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV - City University di Mosca Comitato dei referee Il Comitato dei referee è composto da studiosi di chiara fama italiani e stranieri. I nomi dei revisori di ogni annata vengono resi pubblici nel primo numero dell’annata successiva. Il responsabile della procedura di referaggio è il condirettore scientifico della Rivista Piero Lucisano. Procedura di referaggio Ogni articolo, anonimo, è sottoposto al giudizio di due revisori anch’essi anonimi. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso un giudizio positivo. I giudizi dei revisori vengono comunicati agli autori, comprese eventuali indicazioni di modifica. In tal caso, gli autori devono provvedere a modificare i propri contributi sulla base delle indicazioni ricevute dai revisori. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non vengono pubblicati. Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Abbonamenti Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com
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SOMMARIO Editoriale 7
LUCIANO GALLIANI VII Congresso SIRD: valutare per comprendere e per migliorare
Ricerche 11 23
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CARLOTTA CATERINA BORGHI Valutazione e misurazione automatizzata della produzione scritta MARIALUISA DAMINI Costruire competenze interculturali attraverso il Cooperative Learning: un percorso di ricerca-azione nella scuola secondaria di secondo grado CINZIA FERRANTI Dinamiche creative e narrazione digitale in due comunità di pratica online: il caso SAIA e la Welfare Community di Venezia ANNA SERBATI Esperienza e apprendimento: il riconoscimento formale dei saperi acquisiti in contesti informali e non formali
Studi 71 85 97 107
GIORGIO ASQUINI Dieci anni di PISA: primi bilanci e nuove prospettive ANDREA MARCO DE LUCA • PIETRO LUCISANO Item analisi tra modello e realtà RAFFAELLA SEMERARO L’analisi qualitativa dei dati di ricerca in educazione MICHELE PELLEREY La scelta del metodo di ricerca. Riflessioni orientative
Informazioni 113
GIOVANNI MORETTI La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi e Docenti a confronto: il quinto seminario SIRD
hanno collaborato LUCIANO GALLIANI Professore Ordinario, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Padova • luciano.galliani@unipd.it CARLOTTA CATERINA BORGHI Dottoranda in Pedagogia Sperimentale, Dipartimento di ricerche storico-filosofiche e pedagogiche, Sapienza Università di Roma • carlotta.borghi@uniroma1.it MARIALUISA DAMINI Dottoranda in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Padova • marialuisadamini@gmail.com CINZIA FERRANTI Dottoranda in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Padova • cinzia.ferranti@studenti.unipd.it ANNA SERBATI Dottoranda in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università degli Studi di Padova • anna.serbati@unipd.it GIORGIO ASQUINI Professore Associato, Dipartimento di Psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione, Sapienza Università di Roma • giorgio.asquini@uniroma1.it PIETRO LUCISANO Professore ordinario, Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Sapienza Università di Roma • lucisano.studiericerche@gmail.com ANDREA MARCO DE LUCA Docente a contratto, Dipartimento di Ricerche Storico-Filosofiche e Pedagogiche, Sapienza Università di Roma RAFFAELLA SEMERARO Professore Ordinario f.r. di Pedagogia Sperimentale, Università degli Studi di Padova • raffaella.semeraro@unipd.it MICHELE PELLEREY Professore Ordinario f.r., Università Pontificia Salesiana • pellerey@unisal.it GIOVANNI MORETTI Professore Associato, Dipartimento di Studi dei Processi Formativi, Culturali e Interculturali nella Società Contemporanea, Università degli Studi Roma 3 • gmoretti@uniroma3.it
Si riporta di seguito l’elenco dei membri del Comitato di referaggio dei n. 4-5-6-7 della Rivista SIRD Aureliana Alberici, La Sapienza Università di Roma; Roberto Albarea, Università degli Studi di Udine; Giuditta Alessandrini, Università degli Studi Roma 3; Vito Antonio Baldassarre, Università degli Studi di Bari; Guido Benvenuto, La Sapienza Università di Roma; Luciano Cecconi, Università degli Studi Modena e Reggio Emilia; Lerida Cisotto, Università degli Studi di Padova; Cristina Coggi, Università degli Studi di Torino; Salvatore Colazzo, Università degli Studi del Salento; Piero Crispiani, Università degli Studi di Macerata; Jean-Maria De Ketele, Université Catholique di Lovanio; Floriana Falcinelli, Università degli Studi di Perugia; Ettore Felisatti, Università degli Studi di Padova; Massimiliano Fiorucci, Università degli Studi Roma 3; Riccardo Fragnito, Università Telematica Pegaso; Paolo Frignani, Università degli Studi di Ferrara; Patrizia Ghislandi, Università degli Studi di Trento; Cosimo Laneve, Università degli Studi di Bari; Carlo Pancera, Università degli Studi di Ferrara; Nicola Paparella, Università Telematica Pegaso; Davide Parmigiani, Università degli Studi di Genova; Michele Pellerey, Università Pontificia Salesiana - Roma; Angela Perrucca, Università degli Studi del Salento - Lecce; Pier Giuseppe Rossi, Università degli Studi di Macerata; Anna Salerni, La Sapienza Università di Roma; Vincenzo Sarracino, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa - Napoli; Raffaella Semeraro, Università degli Studi di Padova; Maurizio Sibilio, Università degli Studi di Salerno; Benedetto Vertecchi, Università degli Studi Roma 3; Renata Viganò, Università degli Studi La Cattolica - Milano; Franco Zambelli, Università degli Studi di Padova; Giuseppe Zanniello, Università degli Studi di Palermo.
Editoriale LUCIANO GALLIANI
VII CONGRESSO SIRD: VALUTARE PER COMPRENDERE E PER MIGLIORARE Il VII Congresso Nazionale della SIRD – svoltosi a Padova nei giorni 1-2-3 dicembre con la partecipazione di prestigiosi studiosi e con la presentazione di 85 contributi scientifici di oltre 130 ricercatori – ha voluto richiamare la comunità accademica multidisciplinare, che si occupa di valutazione e viene chiamata a vario titolo a gestirne ed ispirarne le conseguenti politiche, ad un confronto e ad una riflessione, che riportino al centro il problema assiologico del perché esprimiamo giudizi di valore ovvero ends in view (“fini in vista di”), di cui ha ragionato magistralmente Dewey nel suo La teoria della valutazione. La valutazione, infatti, accompagna oggi più che mai gran parte delle attività delle grandi organizzazioni, sia pubbliche che private, educative, sociali e professionali. Tutti gli ambiti e livelli del sistema formativo – in particolare Scuola, Università, Formazione continua – ne sono coinvolti, anche attraverso indagini e comparazioni internazionali. Eppure non possiamo ancora affermare che si sia diffusa una “cultura della valutazione”, in grado non solo di migliorare le pratiche di insegnamento-apprendimento e di gestione delle organizzazioni educative, ma anche di direzionare le risorse pubbliche per l’istruzione e la ricerca scientifica, secondo criteri premianti la qualità e l’innovazione. Una “cultura della valutazione” non può essere tale se ignora il contributo specifico della ricerca scientifica di ambito pedagogico e docimologico, per chiudersi entro l’area, pur importante, delle scienze statistiche ed economiche.Vi è infatti una duplice complessità della valutazione educativa: una prima, riferita al sistema organizzativo dei servizi educativi alla persona dotato di autonomia (scuola e università) e, una seconda, concernente la specificità-originalità dell’educazione come “bene relazionale” di interesse pubblico non mercificabile, connessa non solo alla trasmissione, ma anche alla produzione della cultura attraverso la ricerca. Sottovalutarle entrambe conduce a dare priorità, da un lato, ad esigenze top-down di controllo e di gestione delle risorse umane e finanziarie impiegate nei servizi formativi e, dall’altro lato, all’uniformità di metodi e strumenti quantitativo-statistici, scientificamente insufficienti a valutare l’efficacia della didattica negli interventi formativi e la qualità della ricerca nei lavori scientifici individuali e di gruppo. I contributi specifici di ricerca pedagogica ed educativa, condotti nei contesti scolastici, universitari e sociali, presentati al nostro Congresso, hanno evidenziato ulteriormente la necessità di un movimento bottom-up, che coinvolga tutti gli attori interessati del sistema for-
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Editoriale
mativo (interni ed esterni: docenti, studenti, famiglie, stakeholders sociali, decisori politici), per una valutazione partecipata e condivisa nelle finalità e negli utilizzi individuali e sociali, che si vogliono fare dei suoi risultati. L’attività dell’attribuire valore a fatti ed eventi educativi, utilizzando metodi diversi e strumenti coerenti di indagine e di misurazione con trattamento-elaborazione-interpretazione dei dati raccolti, non può mai servire a separare i mezzi dai fini, ma serve a considerarli in una logica di continuità. Dobbiamo liberarci in fretta di una cultura della valutazione centrata sugli strumenti e non sugli scopi per cui li usiamo, su ragionamenti di semplificazione causale o di affrettata generalizzazione e non sulla comprensione, che cerca le difficili vie del miglioramento personale e del cambiamento organizzativo e sociale. Dei 39 punti indicati dai Governatori della Banca Europea e della Banca d’Italia,Trichet e Draghi, per risanare i conti pubblici e salvare il nostro Paese dal fallimento, due sono espliciti nel collegare l’istruzione all’economia: valutare le scuole e ristrutturare quelle “pessime”; valutare gli insegnanti e premiare quelli migliori. Il nuovo Governatore Visco nelle sue prime dichiarazioni pubbliche ha posto con forza la necessità di “investire sui giovani e sulla loro istruzione per un vero cambiamento”. Del resto l’ufficio Studi di via Nazionale da parecchi anni sostiene che il livello di istruzione della popolazione è strettamente collegato con la ricchezza del Paese e con migliori opportunità di lavoro per le persone. Crediamo anche noi che lavoro, salute, benessere materiale e spirituale, cittadinanza sociale praticata e quindi democrazia reale siano connessi ad una buona formazione per tutti. Allora perché solo il 4,8% del PIL va verso la formazione rispetto al 6,1 dei Paesi dell’OCSE? Perché su istruzione, ricerca, cultura si taglia da anni? I cattivi risultati della scuola in molte aree del Paese, la demotivazione di insegnanti e studenti, la sfiducia delle famiglie, il fatto che ogni anno 119.000 giovani vanno ad ingrossare la fascia dei “senza istruzione, senza formazione professionale e senza lavoro”di ben 4 milioni e 326.000 nati tra il 1987 e il 1993, non dipenderà forse anche da scarsi investimenti nazionali e usi inefficaci dei finanziamenti regionali messi a disposizione dal Fondo Sociale Europeo? La Fondazione Agnelli “scopre” che la scuola media (secondaria di 1° grado) è il ciclo con i risultati peggiori rispetto alla primaria e alla superiore, e ciò dieci anni dopo che si era capito il problema strutturale, ovvero la necessità del suo collegamento stretto con la scuola elementare in una prospettiva unitaria di formazione di base. La riforma Berlinguer, che, rendendo obbligatorio l’ultimo anno della Scuola dell’infanzia in continuità con il quadriennio della scuola elementare, unito nel ciclo con la scuola media, consentiva anche agli studenti italiani di uscire dalla scuola superiore a 18 anni come i loro colleghi europei, fu immediatamente messa nel cassetto dal Ministro Moratti. Ora si rileva come i docenti siano invecchiati e il 35% di loro cambi ogni anno classe e scuola a causa del precariato, con conseguenze evidentemente negative sui ragazzi. Altra “sorpresa”: gli insegnanti più preparati e motivati sono quelli usciti dalle Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario. Eppure le SSIS vengono chiuse dal sopraggiunto incompetente Ministro Gelmini e ancora si attendono da quattro anni le nuove lauree magistrali e i Tirocini Formativi Attivi per la formazione degli insegnanti. Indignazione, demotivazione, sfiducia, difesa anacronistica di una scuola che ha bisogno di essere riformata non solo nelle cornici (come le nuove tipologie di licei e istituti con nuovi programmi), ma soprattutto nella “forma morta” delle lezioni frontali, della classe, dei saperi trasmessi a ragazzi seduti sui banchi ad ascoltare, dei compiti solo individuali, delle valutazioni sommative. Anche nell’insegnamento universitario abbiamo una didattica arretrata, in cui facciamo fatica ad introdurre flessibilità nei percorsi, attività di laboratorio, lavoro di gruppo e in gruppo, tecnologie per collegare apprendimenti nei contesti formale e in-
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Editoriale
formale, interazione con esperienze di lavoro. Sicuramente allora occorre valutare, ma per andare alla ricerca di buone scuole e di buone università, e per capire quali siano le buone pratiche da cui imparare e i bravi docenti con elevata professionalità, al fine di diffondere una formazione in servizio assistita da tecnologie di rete per attivare comunità di apprendimento e di pratica fra insegnanti. Valutare non tanto per redigere graduatorie tra scuole o università (inutili sia perché rilasciano titoli dello stesso valore giuridico sia perché non vi sono borse di studio per chi volesse frequentare le migliori!) e nemmeno solo per erogare sanzioni e distribuire premi, ma “valutare per comprendere e per migliorare”, puntando sull’autovalutazione effettuata in organizzazioni formative autonome, capaci di assumere compiutamente questa responsabilità di rendicontazione culturale e sociale. Abbiamo imparato nella ricerca scientifica che vince la sfida chi costruisce comunità professionali, in cui far crescere anche i giovani più talentuosi. Se dobbiamo a tutti i costi competere, facciamolo almeno, liberi e senza barriere, come comunità di apprendimento e di pratica, perché solo per questa via passano merito ed etica.
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Ricerche Valutazione e misurazione automatizzata della produzione scritta Evaluation and automatic assessment of written composition CARLOTTA CATERINA BORGHI La ricerca intende confrontare e correlare le misure di valutatori addestrati con alcune misurazioni automatizzate di un testo scritto da studenti in ingresso nella scuola secondaria di II grado. Ulteriore obiettivo dell’indagine è l’individuazione delle variabili linguistiche e di natura socio-culturale che influenzano i risultati nella produzione scritta. La ricerca, che ha concluso la fase di try-out nell’ottobre 2010, si basa sulla prova 9 dell’indagine internazionale IEA-IPS (consigli ad un coetaneo su come scrivere un tema). I testi prodotti dagli studenti sono stati valutati da esperti formati secondo il metodo IEA-IPS (che prevede la valutazione olistica e dei tratti principali) ed elaborati da un sistema automatizzato Eulogos che fornisce dati sulla leggibilità, sull’appartenenza del corpus al Vocabolario di Base e su aspetti formali del testo.
The research described in this paper aims to compare and to correlate the evaluation by a group of trained rathers through automatic assessments of a written essay made by a sample of 6th grade’s students. The survey also wants to understand how particular linguistic skills, students’ cultural background or socio-economic status can affect the achievements of the written compositions. The research concluded the try-out phase on October 2010 and is based on the 9th test of the IEA Written Composition international survey (suggestions to a peer about how to write a good essay). The written compositions have been evaluated according to the IEA methodology (that includes a holistic valuation and valuations of the main traits) and processed by the automatic system Eulogos, that provides data on the readability, on the belonging of the corpus to a Basic Vocabulary and on textual features.
Parole chiave: valutazione, misura automatizzata, produzione scritta, abilità linguistiche, caratteristiche testuali, variabili socio-culturali
Key words: evaluation, automatic assessement, written composition, linguistic skills, textual features, cultural backround
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1. Il quadro di riferimento I percorsi di ricerca sperimentale quantitativa hanno una collaudata tradizione di rilevazione delle abilità linguistiche attraverso le prove di comprensione del testo, mentre meno numerosi sono gli studi sulla valutazione o sulla misura della produzione scritta. La scarsa diffusione di ricerche sulla produzione linguistica è determinata probabilmente dalla difficoltà di individuare adeguati strumenti di misurazione di carattere quantitativo e dall’alto grado di eterogeneità della valutazione della produzione, che può avere un ampio margine di errore. Tra le misurazioni di competenze linguistiche, ricoprono certamente un ruolo importante le indagini internazionali promosse dallo IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement), ente fondato nel 1959 con lo scopo di indagare la possibilità di svolgere indagini empiriche comparate per poter fornire utili indicazioni per le politiche nazionali in campo educativo. È del 1984 l’indagine sulla produzione scritta (IPS) o Written Composition Study, compiuta in sedici Paesi su un campione di studenti di tre popolazioni: studenti dell’ultimo anno della scuola primaria, della scuola media inferiore e superiore. L’Italia ha aggiunto un campione di studenti sedicenni per poter confrontare i risultati con gli altri Paesi, in cui l’obbligo scolastico comprende dieci anni di studi (Lucisano,1984; Corda Costa,Visalberghi, 1995; si veda anche rassegna bibliografica di Lucisano, Siniscalco, 1994). L’indagine è stata ovviamente occasione di confronto tra pedagogisti e linguisti di diversi Paesi per concordare una definizione teorica dell’area della produzione scritta, le tipologie di prove e i criteri di valutazione1. Le tipologie di scrittura proposte erano molto eterogenee tra loro e spesso differenti da quelle della tradizione scolastica italiana, che tende a privilegiare testi narrativi e non pragmatici. L’indagine prevedeva nove tipologie di prove (1. Stesura di un messaggio informativo; 2. Riassunto; 3. Ristesura di una storia; 4. Composizione descrittiva; 5. Composizione narrativa; 6. Composizione persuasiva; 7. Composizione riflessiva; 8. Composizione libera; 9. Lettera di consigli), in alcuni casi declinati in modo diverso a seconda delle popolazioni considerate (Corda Costa, Visalberghi, 1995). L’indagine aveva richiesto un’importante riflessione metodologica sulla valutazione dello scritto. Il metodo IEA IPS comprende la valutazione olistica dell’elaborato e la valutazione dei tratti principali, ovvero la qualità del contenuto, l’organizzazione e la presentazione del contenuto, lo stile e l’adeguatezza del registro e l’uso della lingua, distinto a sua volta in grammatica, lessico, ortografia, impaginazione e calligrafia; viene inoltre prevista un’eventuale valutazione della reazione emotiva del correttore di fronte alla prova. Le aree di valutazione si riferiscono alle competenze cognitive, sociali, linguistiche e motorie, secondo lo schema riportato in tabella 1.
1 Sintesi delle premesse teoriche necessarie all’indagine si trovano in Purves, Takala, 1982.
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SIRD • Ricerche
Valutazione olistica dell’elaborato
Valutazione globale Qualità del contenuto
Competenza cognitiva Valutazione dei tratti principali
Organizzazione e presentazione del contenuto
Competenza sociale
Stile e adeguatezza del registro
Competenza linguistica
Uso della lingua e aspetti formali
Grammatica Lessico Ortografia Impaginazione Competenza motoria
Calligrafia
Aspetto emotivo
Eventuale reazione del valutatore Tab. 1: Le aree di valutazione (Lloyd Jones, 1977)
Per la valutazione di ciascuna di queste aree esistono indicazioni specifiche sperimentate e declinate nelle istruzioni per la correzione. Le valutazioni prevedono un punteggio minimo di 1 e uno massimo di 5, con soglia di sufficienza 3; le prove sostenute da alunni con evidenti disagi o handicap, le prove fuori traccia, le prove indecifrabili o consegnate in bianco non sono considerate valutabili. Ogni testo è esaminato da almeno due valutatori, incrociati con sistema di controllo, previo addestramento. La fase di valutazione vera e propria, infatti, è preceduta da un importante momento di training e di confronto sulle valutazioni condotte su un gruppo limitato di prove. L’addestramento consente di limitare la percentuale di valutazioni prive di accordo o di consenso2. La diffusione e il consolidamento delle conoscenze informatiche ha aperto, d’altra parte, numerose prospettive di ricerca sulla lingua: ne sono nati nuovi ambiti disciplinari, quali la linguistica computazionale o l’analisi statistica dei dati testuali, così come sono stati definiti per la lingua anglosassone dei sistemi automatizzati di valutazione. De Mauro si sofferma sul rapporto tra linguaggio storico-naturale ed informatica, ap!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! prezzando il potenziale sostegno reciproco delle discipline: “l’informatica è in grado di aiu2 tarci nella difficile operazione che Calvino chiamava di spiazzamento: badare a quel che diciamo o scriviamo, mettendoci dal punto di vista del destinatario e delle sue conoscenze”. La complessità semiotica delle lingue storico-naturali impedisce che il rapporto tra linguistica
2 I risultati dell’indagine internazionale si trovano in Alan Purves (1992); considerando i risultati dei singoli Paesi sono stati individuati 11 fattori per saturazione, riferiti alla famiglia dello studente, alle sue letture e ai suoi compiti, al rapporto con i mass media e alla preparazione e all’aggiornamento dei docenti (Schick, De Masi, Green, 1992). I risultati dell’indagine in Italia si possono invece trovare in Lucisano, 1988 e Lucisano, Benvenuto, 1991; la metodologia elaborata per l’indagine è stata inoltre alla base di alcune ricerche, come la ricerca condotta per conto dell’IRRSAE del Molise (IRRSAE Molise, 1993). Per quanto riguarda in particolare l’analisi dei risultati della prova 9 si veda Fabi e Pavan De Gregorio (1988).
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e informatica sia lineare. In particolare la sinonimia non è calcolabile e richiede complessi processi di disambiguazione. a me pare che una lingua storico-naturale sia un insieme sufficientemente plastico per poter ammettere che una parte dei suoi usi possa essere piegata a conformarsi ai requisiti di un sistema calcolabile diventando, dunque, analizzabile a questa stregua. […] dalle aree più disparate giunge la franca ammissione della irriducibilità della produzione e ricezione di un testo a processi lineari o comunque integralmente calcolabili. Dobbiamo altresì all’informatica la percezione di quanto tuttavia di automatico e automatizzabile è insediato in questi processi. Con la loro parziale simulazione, l’informatica cessa di essere un mero complemento e ausilio e diventa per i linguisti una fonte non rinunziabile di indicazioni preziose per intendere la problematica natura più che sistemica, più che algoritmica del linguaggio storico-naturale degli esseri umani3.
In area anglosassone sono stati elaborati diversi sistemi di rilevazione automatica delle caratteristiche dei testi, che hanno mostrato valori di alta correlazione con la valutazione umana. I più diffusi e accreditati sistemi di valutazione automatizzata della produzione scritta per la lingua inglese sono: • il Project Essay Grade (PEG) (Page, 1966, 1994); • l’Intellingent Essay Assessor (IEA) nelle sue declinazioni Latent Semantic Analysis (LSA) (Landauer, Foltz, 1998) e Latent Semantic Indexing (LSI) (Landauer 2003), integrato con il sistema Semantically Enhanced Latent Semantic Analysis (SELSA) (Kanejiha, Kumar, Prasad, 2003). • l’Educational Testing Service’s Electronic Essay Rater (E-RATER), diffuso presso l’Educational Testing Service (ETS) (Burstein, 1998; Rudner, Gagne 2001) • Il Bayesian Networks (Mc Callum, Nigam, 1998; Rudnes, Liang 2002)4. Il sistema PEG rappresenta un primo tentativo di correzione automatizzata, concettualmente più semplice, ampiamente utilizzato nelle ricerche, mostrando alte correlazioni (r 0.87 su 20 variabili; r 0.50-0.66 su altre variabili). Il sistema si dimostra però datato nella possibilità di fornire solo punteggi di misurazione relativa tra prove dello stesso tipo e nella necessità di essere ricalibrato per ogni tipologia di prova. Page, ideatore del sistema PEG, usa un modello di regressione con elementi superficiali del testo (lunghezza del testo, lunghezza e numero delle frasi, numero delle parole, punteggiatura, numero di pronomi relativi o di altri connettivi) come variabili indipendenti e il punteggio del testo come variabile dipendente. L’approccio di Landauer è un modello fattoriale che privilegia i contenuti dei testi, ovvero l’aspetto semantico e informativo. LSA e LSI sono, infatti, tecniche automatizzate e statistiche per confrontare le parole di un testo. Una sintesi di ricerche effettuate utilizzando il sistema IEA ha dimostrato buone correlazioni con le correzioni umane (Chung, O’Neil, 1997). Il sistema SELSA aggiunge, invece, all’approccio LSA/LSI qualche informazione sintattica (Kanejiha et al., 2003).
3 De Mauro, 1994, pp. 114-115 e 118. 4 Gli approcci dei sistemi di misurazione automatizzata vengono descritti e analizzati in alcuni articoli comparativi e in alcune ricerche che riportano risultati di positiva correlazione (Wresch, 1993; Page, 1994; Whittington, Hunt, 1999; Rudnes, Liang, 2002; Millet, 2006).
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SIRD • Ricerche
Burstein usa un modello di regressione considerando gli elementi di contenuto come variabili indipendenti, mostrando un’alta correlazione tra variabili grammaticali e semantiche da una parte e le valutazioni globali dei testi (nel 92% dei casi predice il punteggio esatto o un punteggio molto vicino, con margine r 0.1). Dei sistemi analizzati, l’E-RATER è al momento il più diffuso, trovando una sua particolare declinazione anche per la misurazione dello scritto di studenti di madrelingua non inglese.Viene definito come un sistema ibrido poiché usa, tra le sue variabili, strutture del discorso (come il sistema PEG), analisi semantica (come il sistema LSA, IEA) e variabili sintattiche. Per misurare le variabili sintattiche E-RATER conta per esempio il numero dei complementi, delle subordinate, dei pronomi relativi e dei verbi modali, misurandone la presenza per frase e per testo. Il sistema Bayesian Network prevede due modelli applicativi nella classificazione dei testi: il modello multivariato Bernoulli, nel quale in ogni testo viene computata l’assenza o la presenza di variabili calibrate, e il modello multinominale, più adatto per analisi più complesse e in presenza di un più ampio vocabolario. Il sistema Bayesian Network raggiunge un valore predittivo in circa l’80% dei testi.
2. Il disegno della ricerca La ricerca in una prima fase si configura come ricerca per correlazioni, e si propone di individuare le inferenze e le relazioni tra la produzione scritta e altre abilità linguistiche misurate (comprensione del testo scritto, conoscenze morfologiche verbali, conoscenze lessicali). Mira inoltre a confrontare ed eventualmente correlare le valutazioni dello scritto con alcune misurazioni automatizzate. In questo modo, si vorrebbero, da un lato, identificare le variabili linguistiche che influenzano i risultati nella produzione scritta, dall’altro stabilire delle relazioni tra le misurazioni delle abilità linguistiche misurate e altre variabili di sfondo, quali il profilo socio-culturale e linguistico della famiglia di provenienza, la tipologia dell’istituto superiore frequentato dallo studente, aspetti territoriali e voto di licenza media. I dati presentati in questo articolo riportano le prime analisi effettuate relativamente a questo solo aspetto della ricerca. Una seconda fase dell’indagine ha una prospettiva descrittiva e ha lo scopo di delineare i profili linguistici in uscita dalla Scuola secondaria di primo grado, ovvero in ingresso nella Scuola secondaria di secondo grado. La descrizione delle abilità linguistiche della popolazione contribuisce a definire il profilo di uscita da un ordine di scuola e dunque di ingresso in un altro ordine di scuola. Questa fase potrebbe avere una ricaduta didattica ed essere utile nella programmazione della didattica di entrambi gli ordini di scuola. Inoltre, la codifica dei contenuti della prova di produzione scritta (prova 9-lettera di consigli indagine IEA-IPS) potrebbe permettere di misurare le unità di contenuto presenti nel testo e di riflettere sulla percezione della metodologia e della didattica della scrittura. Un ultimo scopo della ricerca, nella sua fase sperimentale, è la costruzione di un complesso e strutturato modello di misurazione e di comparazione dei risultati nella produzione scritta e nelle prove di altre abilità linguistiche. Il modello permetterebbe di definire un algoritmo per la valutazione di prove di produzione scritta; l’algoritmo dovrebbe essere capace di predire il punteggio attribuito ad una prova di produzione scritta con una approssimazione ai giudizi espressi da una giuria di esperti formati secondo il metodo IEA Written Composition. L’ipotesi è che sia possibile fornire una valutazione automatizzata di una prova scritta con un accettabile grado di affidabilità, se il modello considera tutti gli aspetti rilevanti della produzione scritta. La condizione di affidabilità deve essere convalidata da una serie di giurie di valutatori esperti secondo criteri prestabiliti.
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Obiettivo trasversale di ciascuna fase di ricerca è la ricaduta didattica. Come popolazione bersaglio si è scelto di lavorare con studenti del I anno della Scuola secondaria superiore, periodo del percorso scolastico non coinvolto da altre indagini nazionali o internazionali o da esami di Stato. La scelta della popolazione è determinata anche dalla volontà di stabilire con gli Istituti e con i docenti un rapporto di collaborazione, chiaramente svincolato da intenti di giudizio sul lavoro di studenti e docenti. È necessario che al campione siano proposti degli strumenti adeguati e somministrate diverse tipologie di prove, secondo quanto richiesto dagli obiettivi delineati; la compresenza di diversi obiettivi richiede altresì che vengano predisposte chiare metodologie d’analisi dei dati ottenuti. Coerentemente con gli obiettivi delineati, gli strumenti comprendono una prova di produzione scritta, un insieme di prove strutturate di abilità linguistiche di tipo tradizionale e un questionario. La complessità della lingua comporta l’impossibilità di misurare ogni ambito di competenza linguistica e obbliga quindi in primo luogo a una scelta delle competenze da misurare. Accanto alla produzione scritta, sono misurate la comprensione del testo, le conoscenze lessicali e morfologiche verbali. La prova di produzione scritta utilizzata è una delle prove dell’indagine internazionale IEA IPS, la prova 9, la lettera di consigli (Consigli ad un coetaneo su come scrivere un tema perché sia valutato positivamente dagli insegnanti), poiché sembra soddisfare diverse esigenze. Innanzitutto pone delle richieste precise e circoscritte, che facilitano il confronto dei testi prodotti, ma, allo stesso tempo,ottiene testi relativamente liberi, su cui è interessante l’analisi automatizzata, statistica di dati testuali o di linguistica computazionale. La scelta è inoltre motivata dal fatto che per la lettera di consigli esiste una codifica dei contenuti elaborata in sede internazionale; la codifica dei contenuti permette di misurare le unità di contenuto presenti nel testo, confrontandole eventualmente con il giudizio dei valutatori. La codifica dei contenuti offre l’opportunità, inoltre, di avviare una riflessione sulla percezione della didattica della scrittura e un confronto con i contenuti prodotti durante la somministrazione IEA a più di venticinque anni di distanza. Agli studenti viene somministrato un adattamento della prova di abilità linguistiche (ISFOL, 2010), che comprende: • Prove per misurare la comprensione del testo scritto: testi, con domande a scelta multipla, per un totale di 27 item e cloze casuale e mirato per 21 completamenti; • Prove per misurare le conoscenze lessicali in contesto: testi con domande a scelta multipla, per un totale di 22 item; • Prove per misurare l’uso dei verbi in un contesto dato: coniugazione di 10 forme verbali.; • Un breve questionario, attraverso cui rilevare le condizioni socio-culturali della famiglia di provenienza, le abitudini linguistiche e le valutazioni di licenza media. I testi di produzione scritta sono misurati da un sistema automatizzato, secondo il modello GULPEASE, integrato con gli sviluppi realizzati in ambiente Èulogos5. Le misure delle diverse caratteristiche degli elaborati scritti sono le seguenti:
5 www.eulogos.it
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SIRD • Ricerche
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Indice GULPEASE; Numero delle parole utilizzate; Numero delle frasi; Lunghezza delle frasi; Varianza delle parole; Vocabolario utilizzato (numero e percentuale del Vocabolario di base- distinto in vocabolario fondamentale, vocabolario ad alta frequenza e vocabolario ad alto uso- e vocabolario non di base).
Il disegno di ricerca contempla, ad integrazione della misurazione automatizzata, anche altre variabili linguistiche in analisi di linguistica computazionale, che considerino aspetti formali più complessi di carattere morfologico o sintattico, per raffinare la misura e completare l’aspetto descrittivo. I dati presentati in questo articolo non comprendono ancora analisi computazionali di natura morfologica e sintattica6. I testi prodotti dagli studenti devono ricevere anche una valutazione da una giuria di valutatori esperti secondo criteri prestabiliti. La produzione scritta viene valutata secondo i criteri elaborati nell’ambito dell’indagine IEA-IPS da un gruppo di valutatori esperti secondo le metodologie elaborate e sperimentate sempre in IEA-IPS. La correzione dei testi raccolti nella fase di try-out è avvenuta nell’ambito di un’esercitazione di ricerca predisposta nel corso di Laurea di Scienze dell’Educazione e della Formazione. L’analisi dei dati raccolti con le prove strutturate per le altre abilità linguistiche è avvenuta con Item analisi classica CTT (Classical Test Theory), completata da analisi con modello di Rasch IRT (Item Response Theory). Entrambe le analisi ne hanno confermata la validità.
3. Prime analisi dei dati Come stabilito nel disegno di ricerca, nel mese di ottobre 2010 si è svolta la fase di try-out. Il campione per il try-out doveva essere costituito da un minimo di 400 studenti (circa 20 classi), per consentire un’adeguata taratura delle analisi automatizzate dei testi. Sono stati coinvolti dieci Istituti superiori (nel dettaglio 4 Licei, 3 Istituti Tecnici e 3 Istituti Professionali di diverse zone della città) e ventidue classi, per un totale di 471 soggetti utili. Per l’aspetto della ricerca descrittivo dei profili in uscita, sarà inoltre necessario sottrarre gli studenti ripetenti della classe prima. Le correlazioni tra punteggi nei quattro subtest di abilità linguistica e le valutazioni secondo la metodologia IEA (eccezion fatta per il criterio di valutazione di lessico) sono sempre significative. Sono più alte le correlazioni tra i subtest e le valutazioni su aspetti strutturali e di contenuto (Tab. 2).
6 È attivata una collaborazione con la dott.ssa Montemagni, il dott. Dell’Orletta e la dott.ssa Venturi dell’Istituto di Linguistica Computazionale del CNR di Pisa.
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N 452 Lettura Lessico Verbi Cloze
Val.Gl. Cont. Org. Stile Gram. Less. Ort. R. ,479 ,487 ,398 ,359 ,132 -,005 ,135 Sig. ,000 ,000 ,000 ,000 ,005 ,917 ,004 R ,431 ,424 ,391 ,363 ,123 ,079 ,147 Sig. ,000 ,000 ,000 ,000 ,009 ,094 ,002 R ,410 ,437 ,388 ,354 ,134 ,042 ,169 Sig. ,000 ,000 ,000 ,000 ,004 ,372 ,000 R ,393 ,399 ,390 ,299 ,152 ,067 ,150 Sig. ,000 ,000 ,000 ,000 ,001 ,155 ,001 T b 2: correlazione tra subtest e valutazioni IEA
Imp. ,284 ,000 ,278 ,000 ,239 ,000 ,224 ,000
Call. ,155 ,001 ,139 ,003 ,141 ,003 ,121 0,01
Tab. 2: correlazione tra subtest e valutazioni IEA
Calcolando un punteggio fattoriale di abilità linguistica con i quattro sub test, si è ottenuta una componente che spiega il 65% della varianza dei punteggi È stata poi calcolata la correlazione tra questo punteggio fattoriale e i criteri di valutazione della produzione scritta. Anche in questo caso, ad eccezione del criterio di lessico, le correlazioni risultano sempre significative e piuttosto alte per la qualità e l’organizzazione del contenuto, oltre che per la valutazione globale (Tab. 3).
Qualità del Contenuto IEA Valutazione Globale IEA Organizzazione IEA Registro e Stile IEA Impaginazione IEA Ortografia IEA Calligrafia IEA Grammatica IEA Lessico IEA
fattoriale test abilità linguistiche ,542** ,532** ,485** ,427** ,319** ,186** ,173** ,167** ,056
Tab. 3: correlazione tra punteggio fattoriale abilità linguistiche e valutazioni IEA
Allo stesso modo, si sono calcolate le correlazioni tra il punteggio fattoriale della abilità linguistiche ricavate dai quattro sub test e le misure automatizzate della produzione scritta (Tab. 4). La maggioranza delle correlazioni risulta significativa; sono alte le correlazioni con il numero di parole e di frasi, con il numero di parole appartenenti al vocabolario fondamentale e ad alto uso.
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SIRD • Ricerche
fattoriale test abilità linguistiche Sig. R ,003 Indice GULPEASE -,139 ,000 Numero Frasi ,489 ,464 Lunghezza Frasi -,034 ,000 Numero Parole ,556 ,000 Lunghezza Parole ,282 ,000 Varianza Parole (Parole/ParoleNuove) ,344 ,000 Numero Vocabolario Fondamentale ,545 ,667 Percentuale Vocabolario Fondamentale -,020 ,000 Numero Vocabolario Alto Uso ,517 ,000 Percentuale Vocabolario Alto Uso ,209 ,000 Numero Vocabolario ad Alta Disponibilità ,240 ,176 Percentuale Vocabolario ad Alta Disp. -,063 ,000 Numero Vocabolario di Base ,547 ,053 Percentuale Vocabolario di Base 0,09 ,000 Numero Vocabolario non di Base ,432 ,057 Percentuale Vocabolario non di Base -,088 T b 4: correlazioni tra il punteggio fattoriale di abilità linguistiche e le misure automatizzate della Tab. 4: correlazioni tra ilppunteggio fattoriale di abilità linguistiche N. 465
e le misure automatizzate della produzione scritta
È stato poi S calcolato un punteggio fattoriale per le variabili di valutazione della produzione scritta secondo la metodologia IEA. Si sono ottenute diverse componenti, la prima delle quali spiega circa il 41% della varianza e la seconda il 15%. Il primo dei punteggi così ricavati (Fat1IEA) spiega il 41% della varianza. Per questo punteggio assumono un peso rilevante i criteri di valutazione globale, di qualità e organizzazione del contenuto, di registro e stile e di impaginazione. Si tratta in sostanza di quei criteri che considerano soprattutto aspetti strutturali e di contenuto e non aspetti formali. Il criterio di impaginazione, normalmente riconducibile ad aspetti più meccanici, è probabilmente associabile ai criteri strutturali e di contenuto per le particolari caratteristiche della prova scritta, una lettera. Il criterio infatti considera aspetti formali, come il rispetto dei margini, ma anche aspetti strutturali, legati al contenuto, ovvero la presenza di elementi di impaginazione tipici della comunicazione epistolare, come il destinatario o la firma. L’analisi delle componenti del primo dei due punteggi fattoriali permette anche di desumere un forte legame tra la valutazione globale e le variabili strutturali e di contenuto più che le variabili formali. Il secondo punteggio fattoriale ricavato (Fat2IEA) invece spiega solo il 15% della varianza ed è interessante rilevare che in esso assumono peso i criteri di grammatica, di ortografia e di lessico. In sostanza si possono distinguere due punteggi, uno con componenti strutturali e di contenuto, l’altro con componenti formali. La tabella sottostante (Tab. 5) riporta le correlazioni tra le misure automatizzate ricavate in ambiente Eulogos e questi due punteggi fattoriali di valutazione, Fat1IEA e Fat2IEA. Le correlazioni tra le misure automatizzate e il primo punteggio fattoriale Fat1IEA sono significative per quasi tutte le variabili; vanno segnalate, in particolare, il numero di parole e
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di frasi, la lunghezza e la varianza delle parole e il numero delle parole appartenenti a diversi vocabolari specifici. Alcune di queste correlazioni sono anche alte, come “il numero delle parole” e “il numero delle parole appartenenti al vocabolario fondamentale e al vocabolario di base”. Le correlazioni tra le misure automatizzate e il secondo punteggio fattoriale fat2IEA sono per lo più significative, tuttavia molto più basse. Risulta piuttosto evidente la differenza nelle correlazioni tra le misure automatizzate e i criteri strutturali e di contenuto da una parte e formali dall’altra. N. 452 Indice GULPEASE
fat1IEA variabili fat2IEA strutt./conten variabili formali R Sig. R Sig. -,098 ,037 ,089 ,058
Numero Frasi Lunghezza Frasi Numero Parole Lunghezza Parole Varianza Parole (Parole/ParoleNuove) Numero Vocabolario Fondamentale Perc. Vocabolario Fondamentale Numero Vocabolario Alto Uso Percentuale Vocabolario Alto Uso Numero Vocabolario ad Alta Disponibilità Perc. Vocabolario ad Alta Disponibilità Numero Vocabolario di Base Percentuale Vocabolario di Base Numero Vocabolario non di Base Perc. Vocabolario non di Base
,561 -,045 ,607 ,123
,000 ,337 ,000 ,009
-,256 -,068 -,343 ,094
,000 ,149 ,000 ,046
,460 ,605 ,092 ,462 ,058
,000 ,000 ,052 ,000 ,219
-,372 -,341 -,106 -,231 ,054
,000 ,000 ,024 ,000 ,250
,243
,000
-,182
,000
-,078 ,605 ,119 ,456 -,119
,096 ,000 ,012 ,000 ,012
,024 -,342 -,089 -,283 ,089
,607 ,000 ,058 ,000 ,059
Tab. 5: Correlazioni tra misure automatizzate e punteggi fattoriali delle valutazioni del testo scritto
Si è calcolato, infine, il punteggio fattoriale delle 16 variabili (6 formali e 10 di vocabolario) ottenute dall’analisi automatizzata in ambiente Eulogos. La prima componente che si ottiene (Fat1Eu16) spiega il 37,5% della varianza e in essa assumono molto peso il numero delle frasi, delle parole, la varianza delle parole, il numero delle parole che appartengono al vocabolario fondamentale, di alto uso e di base. Sono state dunque calcolate le correlazioni tra i singoli criteri di valutazione della produzione scritta secondo la metodologia IEA e il punteggio fattoriale delle misure automatizzate ricavate in ambiente Eulogos (Tab. 6) Il punteggio fattoriale delle misure automatizzate (Fat1EU16) correla in modo significativo con i criteri di struttura e di contenuto (valutazione globale, qualità e organizzazione dei contenuti, registro e stile, impaginazione e calligrafia); le correlazioni sono piuttosto alte in particolare per i primi criteri.
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Fat1Eu16 R Valutazione Globale IEA ,640 Qualità del Contenuto IEA ,680 Organizzazione IEA ,588 Registro e Stile IEA ,402 Grammatica IEA ,006 Lessico IEA -,092 Ortografia IEA ,002 Impaginazione IEA ,327 Calligrafia IEA ,125 N. 452
Sig. ,000 ,000 ,000 ,000 ,900 ,050 ,961 ,000 ,008
Tab. 6: correlazioni tra criteri di valutazione del testo scritto e punteggi fattoriali delle misure automatizzate
Si è poi proceduto ad analizzare la distribuzione dei punteggi dei subtest, dei criteri di valutazioni IEA e delle misure automatizzate della produzione scritta per le variabili di sfondo di natura socio-culturale, raccolte attraverso il questionario studenti.Vi si farà breve accenno per necessità di sintesi. Significative sono le distribuzioni per la scelta di tipologia di scuola (liceo, istituto tecnico e istituto professionale), l’anno di nascita, il voto di licenza media, la lingua parlata a casa, la quantità di libri posseduti e il titolo di studio dei genitori; la professione della madre ha distribuzioni significative, mentre non sono significative le distribuzioni per professione del padre.
Conclusioni Le prime analisi compiute con i dati ad oggi disponibili sul campionamento della fase di try-out mettono in luce numerose correlazioni significative, spesso alte, tra i diversi punteggi e valutazioni. Nel caso della produzione scritta si può osservare che i dati ricavati da due metodi di misura e valutazione così differenti presentano numerosissime correlazioni significative. Le correlazioni tra le misure automatizzate e la valutazione globale sono sempre significative, lo sono quasi sempre per la qualità del contenuto, per l’organizzazione del contenuto, il registro, lo stile e, nella maggioranza dei casi, per l’impaginazione. Questi dati sono piuttosto interessanti perché mostrano correlazioni tra le misure automatizzate e i criteri strutturali e di contenuto, ovvero quelle valutazioni più legate all’intervento umano; in sostanza la correlazione tra le misure automatizzate è significativa proprio con quelle Q valutazioni che appaiono così distanti da prospettive computazionali o da approcci informatici. Anche nella distribuzione delle valutazioni per le variabili di sfondo emerge il ruolo preponderante dei criteri di valutazioni strutturali e di contenuto. Il dato conferma l’aspetto processuale della scrittura, come insieme di comportamenti che conducono alla realizzazione di un testo scritto, tra i quali assumono un ruolo decisivo gli aspetti cognitivi e rielaborativi. Il disegno di ricerca prevede, d’altra parte, un campionamento ancora più ampio e soprattutto ulteriori misure di linguistica computazionale, di carattere morfologico e sintattico, che consentiranno di raffinare le analisi.
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Ricerche Costruire competenze interculturali attraverso il Cooperative Learning: un percorso di ricerca-azione nella scuola secondaria di secondo grado Building intercultural competence through Cooperative Learning: An action-research project in secondary schools MARIALUISA DAMINI La ricerca indaga il modo in cui gli insegnanti osservano, implementano ed esperiscono lo sviluppo di competenze interculturali negli studenti attraverso il Cooperative Learning all’interno di un percorso di ricerca-azione. Dopo aver rilevato, con un questionario e l’analisi di un incidente critico, l’atteggiamento degli studenti verso la diversità e averlo confrontato con ricerche precedenti, e dopo aver condiviso una definizione di “competenza interculturale”, in base alla quale è stata elaborata una griglia osservativa, gli insegnanti hanno costruito unità di lavoro cooperative, in incontri mensili. Attraverso dei focus group è stato osservato e valutato lo sviluppo di competenze interculturali. I risultati provvisori mostrano un atteggiamento iniziale di chiusura verso la diversità, che solo in alcuni casi sta cambiando, lasciando spazio ad una conflittualità che gli insegnanti cercano di affrontare e gestire.
The research investigates how teachers observe, implement and experience the development of intercultural competence in their students through Cooperative Learning within an action-research project. At the beginning students’ attitudes toward diversity have been assessed through a questionnaire and the analysis of a critical incident, a definition of intercultural competence has been shared and an observation grid has been produced. Teachers are planning cooperative lessons during monthly meetings. The progressive acquisition of intercultural competence is evaluated through focus groups. The interim results show an initial closed attitude toward diversity and an increase in the number of conflicts among pupils, that teachers are now trying to face and to manage.
Parole chiave: competenza interculturale, apprendimento cooperativo, goup investigation, ricerca-azione, focus group, professionista riflessivo
Key words: intercultural competence, cooperative learning, group investigation, action-research, focus group, reflective practitioner
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Introduzione: riflettere oggi sull’intercultura In un contesto sempre più plurale, in cui la multiculturalità si presenta come una categoria dalle sfaccettature più diverse, “descrittiva, analitica, storica, sociologica” (Pizzi, 2006, p. 114), l’intercultura si configura oggi come una “mentalità” nuova, dialogica e aperta all’incontro, che si “destruttura” rispetto ai propri pregiudizi e che nasce attraverso lo “spazio” dell’incontro, in quell’inter che la caratterizza e la costituisce. Come sottolinea Demetrio (2002, 15) il prefisso inter “segnala il riferimento ad un’azione o ad un sostantivo che, rispettivamente, indicano l’esistenza di un movimento (mettere insieme, connettere, creare legami) e, in ogni caso, di un cambiamento nei rapporti tra soggetti e parti; o di uno stato (stare insieme per comunicare, oppure, trovarsi nel mezzo)”.
Quello che viene sottolineato è quindi il dinamismo continuo che, in un’ottica interculturale, invita a leggere concetti come “identità” e “cultura” non più in maniera statica, bensì in continua evoluzione (Portera, 2006, p. 93; Santerini, 2006, p. 204). In questo senso la pedagogia interculturale, interrogando un presente caratterizzato dai cambiamenti rapidissimi a causa dei quali la diversità diventa una questione di primo piano nella vita quotidiana e nelle relazioni, e promovendo, d’altro canto, in particolare nella scuola, una disposizione alla problematizzazione e all’innovazione educativa (Gobbo, 2004, p. 38), rappresenta una vera rivoluzione copernicana (Portera, 2006, p. 93). Essa invita a leggere l’incontro con l’altro, che nasce “dal confronto e dallo scambio con altri soggetti, con altri valori, con altre rappresentazioni, con altre culture” (Susi, 1995, p. 30), come possibilità di arricchimento individuale e collettivo, in grado di far passare dall’esperienza del “dis-incontro”, ovvero dell’“incontro mancato” così come definito da Buber (Milan, 1994) a quella dell’“incontro”. L’educazione interculturale si configura, allora, oggi, come capacità di “stare nel dialogo” e come possibilità di costruire un’identità “mobile”, fondata sulla differenza (Genovese, 2006; Cambi, 2010), e in grado di riconoscerla e valorizzarla (Pinto Minerva, 2002), andando al di là di atteggiamenti di chiusura e di etnocentrismo (Sirna, 1997, p. 14), al fine di promuovere “nuovi cittadini responsabili”, capaci di valorizzare il processo di globalizzazione come autentica globalizzazione dei diritti umani (Macchietti, 2006, pp. 194195), e in grado di dare un valore nuovo e “planetario” alla cittadinanza (Santerini, 1994; 2001; 2010). Tali potenzialità si configurano come una responsabilità per chi ha a che fare con i giovani e, in particolare, per gli insegnanti, peraltro spesso estremamente consapevoli che “molti dei nostri più preoccupanti e gravi problemi sociali potrebbero essere alleviati se sapessimo come educare i nostri giovani” (Postman, 1997, p. 7). È quindi necessario pensare a percorsi educativi che, fondandosi sulla relazione in quanto potenziale di sviluppo integrale della persona, sviluppino la responsabilità, la cura, la fiducia, l’interdipendenza positiva (Catarci, 2004; Perticari, 2008, p. 94; Lamberti, 2010), finalizzate allo sviluppo armonico del sé, inteso come soggetto attivo all’interno del proprio contesto e partecipe alla vita della propria comunità attraverso le relazioni che instaura.Tuttavia, come già notava Bertolini (1988), solo superando un atteggiamento puramente interpretativo della realtà e assumendone uno trasformativo, è possibile “entrare” nella realtà per operare delle scelte all’interno di essa. Riteniamo questo cambio di atteggiamento fondamentale dal punto di vista pedagogico. Il “pensare pedagogico”, così come definito da Milan (2007), richiede, infatti, un rinnovato e, per certi versi, inusitato impegno, in cui appare imprescindibile un “compito di intuizione” della realtà, che non va quindi solo “conosciuta”, ma anche “compresa” per passare dalla semplice osservazione dei fenomeni alla possibilità di coglierli, capirli, problematizzarli, guadagnando così (e invitando gli insegnanti a guadagnare)
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“uno sguardo meno scontato sulla propria pratica educativa e una più concreta capacità di ascolto e intervento nei confronti di tutti gli allievi stranieri e non” (Zoletto, 2007, p. 11).
In questo modo, ciò che viene colto non è solo la dimensione metabletica in atto, ma il motivo per cui tali fenomeni avvengono. Questo atteggiamento ha guidato tutto il percorso di ricerca. Nell’ambito di questo progetto l’osservazione dello sviluppo di competenze interculturali, implementate attraverso l’utilizzo di una metodologia didattica a mediazione sociale quale il Cooperative Learning, ha portato gli insegnanti impegnati nel percorso di ricerca-azione ad una costante riflessione sulle modalità e gli esiti del proprio agire didattico ed educativo. Questa riflessività costante si propone come elemento importante nella costruzione di un progetto educativo che diventa pedagogico nel momento in cui, appunto, riflette su stesso e si fonda su alcune dimensioni fondamentali, quali l’intenzionalità, la responsabilità, la reciprocità, la possibilità, la temporalità, la socialità, la sistemicità e la testimonianza (Milan, 2002), che si radicano in un’etica “viva”, il cui fondamento sta nel rapporto essenza-esistenza espresso come “relazione” (Milan, 1994, p. 33; Santelli Beccegato, 2006, pp. 143144).
1. La scuola di fronte alla diversità culturale La ricerca – ancora in pieno svolgimento – si propone di indagare come gli insegnanti osservino, implementino ed esperiscano lo sviluppo di competenze interculturali nelle studentesse e negli studenti attraverso il Cooperative Learning all’interno di un percorso di ricerca-azione. La scelta del problema di ricerca è una questione estremamente rilevante come “motivo di sfondo” per tutta l’indagine. Esso, infatti, parte dall’osservazione di una crescente situazione di disagio da parte di un preciso gruppo di insegnanti di scuola secondaria di secondo grado di Verona e provincia referenti per l’educazione interculturale. A più riprese essi hanno infatti manifestato, raccogliendo anche la voce dei propri colleghi, la presenza di “atteggiamenti di chiusura” da parte dei loro studenti verso la diversità, in particolare culturale. All’interno di questo gruppo di lavoro la domanda che gli insegnanti hanno esplicitato è stata la seguente: è possibile lavorare sull’accettazione e la valorizzazione della diversità a scuola, all’interno di percorsi curricolari che potremmo definire “ordinari”? L’educazione interculturale è, infatti, un problema complesso e pluridimensionale che in Italia soffre ancora di “povertà teorica” (Abdallah-Pretceille, 1996;Tarozzi, 1998, 2011), pur essendo oggetto di ampie discussioni e riflessioni pedagogiche in tutta Europa (Alleman-Ghionda, 2009; Portera, 2003, 2008). In generale, si può affermare che i vari aspetti dell’educazione interculturale trovino come motivo unificante un approccio mirato a facilitare le relazioni a partire dal riconoscimento delle differenze, in modo da poter successivamente favorire la promozione del dialogo e dello scambio.Tuttavia, troppo spesso l’educazione interculturale è stata ridotta a momenti episodici e sporadici, al di fuori delle ore scolastiche (Tarozzi, 2011, p. 175) sebbene nel documento La via italiana per l’educazione interculturale, scritto dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale e adottato nel 2007 dal Ministero della Pubblica Istruzione appaia ben chiaro che: “adottare la prospettiva interculturale, la promozione del dialogo e del confronto tra culture, significa non limitarsi soltanto a organizzare strategie di integrazione degli
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alunni immigrati o misure compensatorie di carattere speciale. Insegnare in una prospettiva interculturale vuol dire piuttosto assumere la diversità come paradigma dell’identità stessa della scuola, occasione privilegiata di apertura a tutte le differenze” (MPI, 2007, pp. 3-4).
2. Finalità, obiettivi e ipotesi della ricerca Sulla base del quadro teorico di riferimento e delle ricerche precedenti, il fine della ricerca è quello di aiutare gli insegnanti a prendere maggiore coscienza della realtà in cui essi si trovano ad operare, aiutandoli a progettare, osservare e gestire processi interculturali all’interno del proprio “lavoro sul campo” in una logica di ricerca-azione. Nello stesso tempo, la ricerca si propone di indagare se, attraverso percorsi didattici strutturati con il Cooperative Learning (in particolare con l’approccio della Group Investigation), le alunne e gli alunni maturino, nella loro stessa percezione e nella percezione dei loro insegnanti, atteggiamenti di maggiore apertura verso la diversità. L’ipotesi di partenza è, quindi, che metodologie didattiche cooperative sollecitino negli studenti maggiori capacità di disponibilità verso l’altro (intesa come capacità di ascolto, di cambiare opinione, di partecipazione attiva durante le attività), di ascolto reciproco, interazione costruttiva (aiutare l’altro, apprezzare l’apporto che ciascuno può dare al lavoro di gruppo) che gli insegnanti che partecipano alla ricerca-azione hanno stabilito essere le capacità costitutive delle competenze interculturali. È questa maggior apertura e disponibilità che dovrebbe in qualche modo influenzare un più generale atteggiamento degli studenti verso la diversità e renderlo quindi più “accogliente”.
3. I presupposti della ricerca Passo previo per iniziare la ricerca è stato, quindi, cercare di capire se il problema che gli insegnanti esprimevano – e che avevano a più riprese espresso anche negli anni precedenti l’inizio del lavoro – poteva essere considerato un problema “isolato” oppure un sintomo di una problematica più generale. Nella costruzione del quadro di riferimento della ricerca, è stato pertanto necessario considerare le ricerche precedenti che hanno avuto come oggetto la percezione della diversità culturale da parte degli adolescenti italiani.Tra quelle analizzate, una in particolare ha costituito il punto di partenza più operativo dell’intero percorso, ovvero “L’altro/a fra noi. La percezione dei confini da parte delle e degli adolescenti italiani”, promossa nel 2008 dalla Fondazione Intercultura, e realizzata in varie città italiane. Attraverso un questionario e dei successivi focus group di approfondimento essa aveva, infatti, indagato la percezione delle e degli adolescenti rispetto a situazioni ritenute “altre”. Tale punto di partenza è apparso – e appare – indispensabile per affinare processi e strumenti di apprendimento che possano favorire il cambiamento e modificare degli atteggiamenti in direzione di un’acuita sensibilità transculturale (Aquario et al., 2008, p. 13). La ricerca si è svolta in quattro diversi contesti regionali (Veneto, Emilia Romagna, Toscana e Puglia). Per quanto riguarda il contesto Veneto, essa è stata condotta a Padova e a Vicenza e ha coinvolto due licei scientifici e tre istituti professionali per un totale di 424 questionari compilati. Ci è sembrato, quindi, che – somministrando agli studenti degli insegnanti coinvolti nel percorso di ricerca-azione il medesimo questionario – fosse possibile e produttivo un confronto nei risultati, anche perché tale campione è risultato essere simile per età e tipologia di scuola alle classi coinvolte nel progetto.
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Più in particolare, il questionario è stato predisposto, già nella ricerca precedente, sulla base di una griglia di domande che permettesse un confronto con i dati presentati a livello europeo nel rapporto Eurobarometro 2007. Le sezioni in cui è articolato il questionario sono pertanto le seguenti: la prima, di carattere più generale, chiede il genere, la classe, la scuola di appartenenza, la nazionalità dei genitori, se si è vissuto per più di tre mesi continuativi in un altro Paese, se si hanno o no amici e amiche di diversa nazionalità. Si chiede quindi di identificare come condizione di vantaggio o svantaggio l’appartenenza a determinati gruppi sociali.Viene quindi richiesto di individuare gli argomenti di conversazione più frequenti nel gruppo dei pari; poi di riflettere sull’importanza del look per farsi un’idea sugli altri e per farsi accettare dagli altri e infine di esprimere il proprio grado di accordo con alcune affermazioni relative ad atteggiamenti di apertura o chiusura verso la diversità, in particolare culturale. Si conclude con quattro domande aperte che invitano alla ricerca di una definizione di diversità, chiedendo di identificare e descrivere chi viene ritenuto diverso. Contemporaneamente, un presupposto essenziale per avviare la ricerca è stata una riflessione approfondita sul concetto di “competenza interculturale”, condotta attraverso un’analisi dello stato dell’arte di come viene definito tale concetto in letteratura, in particolare nella letteratura anglosassone e statunitense in cui le ricerche sull’intercultural competence sono maggiormente diffuse. Ciò è servito a individuare un modello di riferimento che potesse guidare il percorso di ricerca con gli insegnanti. Questa esplorazione ha inoltre permesso di ricostruire una sorta di “cornice di senso” più squisitamente pedagogica della “competenza interculturale”. Ma poiché è sembrato importante partire dal “sentire comune” rispetto a tale tematica – punto di partenza essenziale per giungere ad una definizione condivisa – attraverso una prospettiva di tipo bottom-up, è stato preso in considerazione ciò che gli insegnanti intendono per “competenza interculturale” ed è stato messo in relazione con quanto emerso dall’analisi della letteratura di riferimento. In terzo luogo, si è operata una riflessione sul Cooperative Learning – in particolare sull’approccio della Group Investigation – come metodologia didattica efficace per promuovere e sviluppare competenze di tipo interculturale.
4. Il quadro teorico di riferimento Il concetto di “competenza interculturale” è certamente molto utilizzato nei testi e contesti educativi odierni. Eppure di questo concetto manca una definizione univoca. Lo scopo della prima parte del lavoro è stata, dunque, quella di cercare di fare chiarezza costruendo una sorta di “percorso” che aiutasse a “tenere insieme” le diverse interpretazioni di uno stesso concetto. Riflettere sulla “competenza interculturale” significa, infatti, in primo luogo problematizzare tanto il sostantivo “competenza” quanto l’aggettivo “interculturale”. Non è certo qui possibile proporre una disamina adeguata di questi termini. Ci limiteremo pertanto a considerare solo alcuni aspetti, consapevoli della necessità di ulteriori problematizzazioni e approfondimenti. Innanzitutto, il concetto di competenza racchiude in sé una forte complessità di elementi tra loro interrelati. Essa infatti è un’operazione intellettuale che mette in gioco un’attività del soggetto (Rey, 2003, p. 66) e che avviene all’interno di un contesto, che è per sua natura sociale. Ma la competenza ha in sé anche un potere “generativo”. È vero infatti che il contesto è fondamentale per far nascere ed evolvere una competenza, ma ogni situazione che ogni individuo affronta nel corso della vita è di per sé nuova. Il concetto di adattamento (Oates, 2003), pertanto, e non quello di transfer (che presuppor-
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rebbe il “trasferimento”da di una capacità o di una competenza da una situazione “vecchia” ad una “nuova”), prevale nel momento in cui viene messa al centro la nozione di adattamento delle capacità o delle competenze esistenti per soddisfare le richieste dei nuovi contesti. La competenza può essere intesa quindi anche come “capacità personale ad adattarsi in modo nuovo e non stereotipato a situazioni inedite” (Rey, 2003, p. 23). Ciò che conta è, quindi, non solo padroneggiare delle procedure, ma anche mobilizzarle per fronteggiare un problema originale. Per quanto riguarda l’aggettivo “interculturale”, tanto il suffisso inter quanto l’aggettivo culturale rimandano a concetti che richiamano da un lato il senso e il valore della relazione e della relazionalità; dall’altro un modo di intendere la cultura che viene intesa come “spazio narrativo negoziato” (Mantovani, 2008), ovvero come socialmente costruita. Per quanto riguarda il primo aspetto (l’inter), l’idea di relazionalità richiama ad una corrente filosofica e di pensiero che, movendo in particolare dall’Esistenzialismo, approda alla filosofia dialogica di Buber, alla riflessione di Lévinas, al personalismo di Mounier, al decostruzionismo di Derrida. Pur consapevoli delle importanti differenze tra questi Autori, è stato importante seguire, attraverso la loro riflessione, una sorta di fil rouge nella necessità di cogliere nella presenza dell’altro, e in particolare nella relazione con l’altro, non un aspetto marginale, ma la “costitutività” del nostro essere. Per quanto riguarda l’idea di cultura, è necessario sottolineare che, grazie al contributo della psicologia sociale, è stata abbandonata – almeno sul piano “teorico” – una concezione “reificata” della cultura, per cui, ad esempio, una popolazione si identifica necessariamente con il proprio territorio o con una sorta di patrimonio comune e coerente in cui tutti gli appartenenti di quella stessa cultura possono riconoscersi. Se “reifichiamo” la cultura, infatti, “reifichiamo” anche l’identità. Per costruire competenze realmente interculturali e non multiculturali è necessaria, invece, una lettura in cui i confini vengono visti come permeabili (Hermans, 2001). Crediamo che solo questa visione del mondo possa concorrere a costruire spazi di incontro. Nessuno ha una sola identità, ma è la compresenza di più identità che invita a costruire linguaggi comuni. Questo assunto è fondamentale per sostenere la possibilità ermeneutica delle relazioni interculturali. Tra i diversi modelli con cui si è cercato nel corso degli ultimi anni di definire la competenza interculturale (Ruben, 1976; Bennett, Bennett, 1993; Byram, 1997; Olson, Kroeger, 2001; Banks, 2006; Lázár, Huber-Kriegler, Lussier, Matei, Peck, 2007; Glaser, Guilherme, Mendes Garcia, Mughan, 2007; Deardorff, 2006; 2009), la scelta è stata quella di adottare come riferimento il modello dinamico proposto da Deardorff (2009). Nella propria teorizzazione Deardorff definisce la competenza interculturale come l’abilità, basata su personali conoscenze, capacità, atteggiamenti, di comunicare in maniera efficace e appropriata in situazioni interculturali. Più nel dettaglio, il modello da lei proposto si pone come dinamico: il punto di partenza per sviluppare competenza interculturale sta in alcuni atteggiamenti che appaiono ineludibili e che fanno riferimento al rispetto, all’apertura e alla curiosità (attitudes of openness, respect and curiosity). Essi influenzano l’autoconsapevolezza culturale e la conoscenza di altre culture (knowledge) e, insieme, le abilità (skills) di stare all’interno di altre cornici culturali di riferimento. Sono quindi tali conoscenze e abilità che portano a degli effetti interiori (internal outcomes), identificabili in una maggior flessibilità, capacità di adattamento, empatia (flexibility, adaptability, empathy), i quali conducono a degli effetti esteriori (external outcomes), visibili nelle interazioni interculturali appropriate ed efficaci (appropriate and effective). Tali interazioni portano ad una ulteriore modifica degli atteggiamenti, in un processo dinamico virtualmente inesauribile. I punti salienti del modello di Deardorff appaiono, dunque, i seguenti: innanzitutto la competenza interculturale non è uno stato fisso,
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ma è processo dinamico continuo che implica diverse dimensioni mentre si sviluppa e si arricchisce. Inoltre, nel suo sviluppo, c’è una continua riflessione sulle proprie prospettive e sulla propria struttura di riferimento che può essere cambiata o anche solo relativizzata. Come nota inoltre Deardorff (2009), un punto su cui tutti gli studiosi di quest’ambito si trovano d’accordo è che per sviluppare competenza interculturale è necessario imparare a vedere il mondo, anche il proprio, da altri punti di vista. In questi termini, la competenza interculturale non riguarda solo il “saperci fare” con la diversità e in particolare con l’immigrazione, ma fa riferimento anche al modo in cui guardiamo noi stessi, ovvero il modo in cui viviamo e guardiamo il mondo. Questo significa imparare a “pensare se stessi” mentre si osservano contemporaneamente l’ “altro” e sé. Per esplorare “mondi possibili” (Sclavi, 2000) è quindi necessaria una costante pratica autoriflessiva che, attraverso l’ascolto attivo e un decentramento rispetto allo “sguardo degli altri” (Augé, 2008), richiami, da un lato, la possibilità di farsi permeare dall’alterità e, dall’altro, di pensare ogni individualità in possibile divenire. Insieme a questo modello, è stato preso in considerazione anche il modello evolutivo proposto da Bennett (1993), il quale sottolinea come lo sviluppo di competenze interculturali possa essere riassunto in un modello di maggiore o minore sensibilità interculturale corrispondente a sei fasi, che corrispondono a sei step successivi: rifiuto, difesa, minimizzazione (stadi etnocentrici); accettazione, adattamento, integrazione (stadi etnorelativi). Mentre il modello di Deardorff ha costituito una sorta di “sfondo integratore” per definire con gli insegnanti la competenza interculturale, il modello di Bennett ha aiutato a leggere i “cambiamenti” degli studenti durante il percorso di ricerca. Possiamo quindi concludere che la competenza interculturale è la capacità di stare nell’inter e nella diversità, dando ad essa un valore, accettando di essere cambiati da essa. Questo aiuta altresì a recuperare una dimensione meno ingenua del conflitto, sia intra-, sia interpersonale (Benasayag, Del Rey, 2008). In questo modo la riflessione interculturale viene ad assumere una visione più ampia e di più largo respiro, non limitandosi a processi di etichettamento di orientamenti culturali, ma essendo in grado di fare i conti con processi complessi di interazione e quindi potendo provocare pratiche di apprendimento trasformativo negli stessi soggetti coinvolti nel confronto interculturale (Mantovani, 1998; Surian, 2010). Ci è sembrato importante, a questo punto, riflettere sul Cooperative Learning come metodologia di lavoro adeguata all’interno di una riflessione interculturale. Attraverso il Cooperative Learning è infatti possibile “dare spazio al dialogo e alla negoziazione come elementi costitutivi di un’attività didattica che abbia lo scopo di focalizzare l’attenzione degli studenti sullo scambio narrativo orientato alla comprensione e al rispetto reciproco” (Aquario et al., 2008, p. 274). Il Cooperative Learning si offre come un approccio duttile, cioè ricco di risorse e potenzialità, che è in grado di fornire risposte originali, efficaci e attuali a problematiche complesse che investono il mondo della scuola. Lavorando in piccoli gruppi e cooperando per raggiungere uno scopo comune con individui di varia abilità, estrazione sociale e culturale, gli studenti imparano a conoscere meglio se stessi e a maturare sentimenti di apertura verso chi ha abilità diverse. Il Cooperative Learning, nelle sue diverse strategie d’intervento, non viene visto solo come una modalità per ovviare alle difficoltà di gestione di una classe – o di un qualsiasi gruppo di apprendimento – eterogenea, ma mette l’accento sul fatto che l’eterogeneità stessa diventa una risorsa. Quello che è in gioco è, quindi, la possibilità di vedere i percorsi di Cooperative Learning non solo come particolarmente capaci di realizzare forme di attenzione e rispetto (Batelaan, 1998), ma anche come buona pratica culturale, civile, oltre che prevalentemente scolastica (Gobbo, 2010), e realmente inter-culturale, se riconosciamo nella dimensione “tra” il fondamento pedagogico dell’intercultura (Milan, 2002) e nella dimensione della relazione interpersonale una delle “direzioni intenzionali originarie” (Bertolini, 1988). In collega-
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mento a ciò, ed entrando più nello specifico della diversità culturale, è stato considerato il fatto che numerose ricerche sperimentali (condotte in particolare negli Stati Uniti e in Israele: meta-analisi di Johnson, Johnson, Maruyama, 1983; Johnson, Johnson, 1989; e altre ricerche, tra cui: Weigel, Wiser, Cook, 1995; Sharan, 1980; Slavin, 1990, 1995) vedono il Cooperative Learning come metodologia di lavoro efficace per superare pregiudizi di tipo etnico. Ora, all’interno dei vari approcci del Cooperative Learning, si è scelto di approfondire anche con gli insegnanti – dopo una disamina più generale dei principi del metodo cooperativo – l’approccio della Group Investigation (Sharan, Sharan, 1992). La Group Investigation prende le mosse da una molteplicità di approcci differenti, a partire da Thelen (ricerche sui gruppi orientati al compito in diversi ambiti sociali), da Piaget e Sigel (scuola costruttivista della psicologia cognitiva), da psicologi come Richard DeCharms ed Edward Deci, che hanno sviluppato e studiato la teoria della motivazione intrinseca, ma anche da Dewey per il quale ogni processo di apprendimento deve necessariamente includere una serie di eventi intellettuali, emotivi e morali e dovrebbe avvenire in un contesto in cui gli studenti hanno scambi cooperativi con i propri compagni all’interno di una scuola in cui struttura e attività incarnano i principi della società democratica (Sharan, Sharan, 1992, p. 32). La Group Investigation integra, quindi, l’interazione e la comunicazione in classe con il processo di studio dei contenuti scolastici. Più gli studenti lavorano in gruppi, contenuti nel numero dei partecipanti in modo da far sì che ognuno possa partecipare a un compito chiaramente progettato e sufficientemente “interessante” perché ciascuno possa sentirsi coinvolto, più è possibile che si verifichi cooperazione e la conseguente interazione interculturale. Fondamentale per l’insegnante è, allora, creare le condizioni perché tutti possano attivamente partecipare.
5. La ricerca Partecipanti I soggetti della presente ricerca sono diciotto insegnanti di scuola secondaria di secondo grado di Verona e provincia di diverso ambito disciplinare. Gli insegnanti si sono autoselezionati dopo la presentazione del progetto di ricerca, avvenuta nel marzo 2010 in un incontro di insegnanti referenti per l’educazione interculturale di Verona e provincia, e hanno quindi aderito spontaneamente al progetto di ricerca-azione. Gli alunni coinvolti nel progetto sono stati nel primo anno di lavoro (2010-2011) 175 (144 maschi e 31 femmine) e appartengono, come poc’anzi accennato, a otto classi di cinque istituti diversi. Le classi che partecipano al progetto sono così distribuite: una classe di liceo linguistico (scientifico ex sperimentazione Brocca), due classi di istituto tecnico industriale, cinque classi di un istituto professionale per l’agricoltura. Le stesse classi continueranno il lavoro anche per l’anno scolastico successivo (2011-2012). La ricerca-azione come strategia di ricerca Sin da subito, la strategia più adeguata per questo tipo di ricerca è apparsa essere la ricercaazione, in quanto “efficace strumento di potenziamento didattico” (Kemmis, McTaggart, 1982 in Travaglini, 2002, p. 179). Se partiamo, infatti, dalla necessità – riconosciuta tanto dai docenti quanto dagli alunni – di una riflessione su un modo di “fare scuola” che tenga conto delle diversità, stimolando la cooperazione nell’apprendimento, possiamo dire che
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“il discente è teso ad apprendere per scoperta quanto più il docente è intenzionato o messo nella condizione di entrare nel vivo dell’esperienza didattica, scendendo dalla cattedra allo scopo di interagire costruttivamente con la dimensione vitale (e non ideale) della classe e dei suoi singoli componenti” (Travaglini, 2002, p. 180).
Ma, all’interno di questa ricerca, il cuore della questione non sta solo in una riflessione sul “potenziamento didattico” dell’agire educativo degli insegnanti partecipanti, che essi leggono come fondamentale secondo quanto emerso in maniera evidente nei focus group condotti nel primo anno di ricerca. Come sottolineato da Losito (Losito, Pozzo, 2005, p. 30), “la ricerca-azione è un’indagine riflessiva condotta dall’insegnante ricercatore in prima persona nel proprio contesto, a partire da una situazione problematica, con lo scopo di migliorare la comprensione della situazione in cui opera e la qualità dell’azione attraverso un coinvolgimento di tutti gli attori, mediante un controllo sistematico dei processi. I dati esaminati da una pluralità dei punti di vista in un contesto di condivisione ne costituiscono la principale forma di validazione” (corsivi dell’Autore).
Ed è appunto la pluralità dei punti di vista – quello di chi ha condotto la ricerca e quello degli insegnanti partecipanti, a cui si aggiunge anche il punto di vista delle ragazze e dei ragazzi consultati nei focus group alla fine di ogni anno di lavoro - rispetto allo sviluppo di competenze interculturali a costituire la ricchezza della ricerca-azione e della riflessione su tale ricerca-azione. Lo sviluppo di competenze interculturali negli alunni viene, infatti, ricostruito attraverso le voci degli insegnanti che, all’interno di uno spazio narrativo negoziato, danno voce al cambiamento e si vedono essi stessi cambiare. Attraverso un percorso formativo e riflessivo sin da subito co-costruito con gli insegnanti ciò che si è teso e si tende a costruire è una “comunità di ricerca” fondata da “professionisti riflessivi” (Schön, 2006). Pare essenziale, inoltre, soffermarsi su un altro elemento: nel lavoro di ricerca non viene proposto solamente di osservare che cosa accade agli alunni quando si utilizza il Cooperative Learning. Il gruppo degli insegnanti in cui avviene la ricerca-azione lavora utilizzando modalità cooperative. In questo modo il Cooperative Learning diventa anche una strategia per ripensare la scuola come Knowledge Building Community (Scardamalia, Bereiter, 1993 in Cacciamani, 2008, p. 134). In questo modo, gli insegnanti possono riscoprire dimensioni nuove avendo l’occasione di ripensarsi non più come “risolutori di problemi strumentali” e di emergenza, ma come artefici creativi e “riflessivi” del proprio agire (Schön, 1993; 2006; Mortari, 2005; 2009) e delle proprie scelte. Tutto ciò viene realizzato nei contesti di pratica quotidiana, che vengono quindi visti come “campi di esperienza problematica” che possono essere esplorati, indagati, trasformati (Engeström, 2009). Essere in ricerca significa, infatti, scegliere consapevolmente di “tenere insieme il conoscere e l’agire” (Trombetta, Rosiello, 2000, p. 9) e, soprattutto, di accettare di entrare in una dimensione “problematica” dell’esistenza. Il richiamo a Dewey e alla riflessione sull’insegnante-ricercatore appare ineludibile. Questo richiamo alla necessità dell’interiorizzazione ci spinge ad entrare nell’affascinante campo della riflessione, tema, come abbiamo visto, caro a Schön (Schön, 1983, p. 68 in: Losito, Pozzo, 2000, p. 31), che sottolinea la differenza tra reflection-in-action (riflessione durante l’azione) e reflection-on-action (riflessione sull’azione e quindi dopo l’azione), distinzione arricchita dal contributo di Killion e Todnem (1991, pp. 14-16), che, allargando il campo d’indagine di Schön, parlano di una reflection-for-action, ovvero di una riflessione che si ponga come guida per l’agire successivo. La sfida di questo lavoro è stata di porre la riflessione come guida. Ma, in particolare, sin dall’inizio, si è scommesso sul fatto che è proprio la condivisione dei saperi che contribuisce
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a costruire competenza, perché mentre impariamo saperi sperimentiamo l’agire di tali saperi. È il passaggio dall’autobiographical reflection (riflessione individuale sulle proprie storie, credenze, valori e su come questi possono influenzare le nostre azioni) alla collaborative reflection (riflessione condivisa con altri con lo scopo di integrare la propria comprensione con quella degli altri) e quindi alla communal reflection (riflessione allargata e condivisa con altri per cambiare un contesto sociale) (Stevenson, 1995, pp. 197-209). Per questo si è deciso di utilizzare la tecnica del focus group, come principale strumento di rilevazione di come gli insegnanti hanno percepito lo sviluppo di competenze interculturali, passando dall’internally directed reflection all’externally directed reflection, fondamentale per costruire soluzioni il più possibile condivise a situazioni problematiche (Hendricks, 1996, p. 26). La prima fase della ricerca Facendo riferimento a Lewin, la ricerca-azione può essere definita come una “spirale di provvedimenti” (Trombetta, Rosiello, 2000, p. 85), che si compongono di tre elementi essenziali: pianificazione, esecuzione, inchiesta sui risultati dell’azione. Quest’ultima porta, a sua volta, al quarto elemento fondamentale per “riavviare il processo”, ovvero la ri-pianificazione sulla base dei risultati. I passaggi della ricerca riprendono quindi queste fasi. Dopo aver costituito il gruppo di lavoro nel primo anno di lavoro con gli insegnanti si sono seguiti i seguenti passaggi: PIANIFICAZIONE: Per prima cosa è stato rilevato l’atteggiamento “in partenza” degli studenti rispetto la diversità attraverso il questionario già utilizzato nella ricerca precedente “L’altro/a tra noi” e attraverso la riflessione scritta su un incidente critico1. Contemporaneamente, il gruppo di insegnanti ha proceduto a dare una definizione di “competenza interculturale”, allo scopo di riempire di significato una nozione che per gli insegnanti risulta essere ambigua2. La definizione che gli insegnanti hanno condiviso è stata la seguente:“la competenza interculturale indica la capacità di interagire in modo efficace con soggetti culturalmente (non solo dal punto di vista etnico) diversi”. Essi hanno quindi confrontato questa definizione condivisa con il modello Deardorff e hanno trovato in esso delle corrispondenze. Saper interagire in maniera efficace con gli altri comporta, infatti, quegli aspetti che abbiamo sopra menzionato. In particolare, facendo riferimento alle implicazioni pedagogiche del modello di Bennett (Surian, Miltenburg, 2002), essi hanno individuato alcune dimensioni che concorrono a sviluppare competenza interculturale e che sono, come già visto in precedenza, la capacità di ascolto, di interazione (visibile anche nell’accettare di cambiare opinione e di accogliere il punto di vista dell’altro), di ascolto reciproco, interazione costruttiva (aiutare l’altro, apprezzare l’apporto che ciascuno può dare al lavoro di gruppo). Con questi indicatori è stata costruita una “griglia osservativa” che gli insegnanti hanno utilizzato in classe – seppure con ovvie difficoltà – e che hanno riportato durante i focus group. Una griglia auto-osservativa è
1 La riflessione sull’incidente critico, in particolare sulla modalità migliore per costruirli e quindi analizzarli, è ancora in via di elaborazione. È stato per ora utilizzato un incidente critico che non è emerso da una discussione con gli insegnanti e con gli alunni, ma il lavoro presuppone che negli insegnanti e negli alunni si sviluppi un’attitudine a identificare e a riconoscere le “situazioni problematiche”. 2 Ricerche precedenti (Tarozzi, 2006) confermano la difficoltà da parte degli insegnanti di attribuire e di condividere un significato rispetto al concetto di “intercultura”.
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stata costruita anche per gli studenti per aiutarli a riflettere sul proprio atteggiamento verso la diversità. All’interno di incontri di formazione mensili gli insegnanti hanno quindi acquisito le nozioni di base del Cooperative Learning e iniziato a progettare delle unità di lavoro cooperative esplicitando i punti chiave del metodo. AZIONE: Gli insegnanti hanno messo in pratica le lezioni “cooperative”, accordandosi su un numero minimo di interventi da realizzare in corso d’anno. Tali unità di lavoro cooperative sono state in alcuni casi condivise in una piattaforma moodle realizzata per tale scopo. INCHIESTA SUI RISULTATI DELL’AZIONE: Ad ogni incontro mensile è stato riservato uno spazio per discutere le difficoltà di attuazione del lavoro. Per quanto riguarda la riflessione sullo sviluppo di competenze interculturali ci sono stati due focus group con tutto il gruppo degli insegnanti nel primo anno di lavoro e otto con gli alunni (uno per classe, con un gruppo di studenti autoselezionati) sempre alla fine del primo anno di lavoro. Nei focus group degli insegnanti si è utilizzata una “scaletta”, consegnata all’inizio dell’incontro, in cui si chiedeva di individuare – attraverso il racconto di fatti e situazioni – i punti di forza e di debolezza del metodo. Gli insegnanti sono stati invitati ad identificare e a condividere che cosa stava cambiando nei loro alunni sempre facendo riferimento ad eventi specifici. Anche agli alunni è stato chiesto di rievocare fatti e situazioni in cui avevano percepito di essere “cambiati” rispetto alle capacità di ascolto, di accettazione delle differenze, di valorizzazione della diversità. È quindi stato con loro messa in relazione questa “percezione del cambiamento” con le attività cooperative. RI-PIANIFICAZIONE SULLA BASE DEI RISULTATI: I risultati del primo anno di lavoro hanno confermato una certa convinzione degli insegnanti nell’uso del Cooperative Learning, come metodologia sicuramente efficace dal punto di vista didattico. Contemporaneamente, come già accennato, essi percepiscono in loro una sensibilità maggiore rispetto a ciò che avviene nella classe. Dal punto di vista dello sviluppo di competenze interculturali essi notano dei cambiamenti in alcuni alunni, ma, in generale, sottolineano una maggior conflittualità, ancora però da approfondire, e che essi sentono di essere poco preparati a gestire. Sarà, pertanto, necessario trovare degli strumenti – educativi e didattici – per far fronte a ciò. Nel corso del secondo anno di lavoro verrà approfondito l’approccio della Group Investigation con gli alunni e prima ancora attraverso una “ricerca di gruppo” in cui gli insegnanti del gruppo di ricerca saranno in prima linea coinvolti negli incontri formativi. Strumenti e procedure per la raccolta dei dati La presente ricerca si presenta come prevalentemente qualitativa.Tutti i focus group realizzati con gli insegnanti e con gli studenti sono stati audio-registrati e sono in via di analisi utilizzando il software ATLAS-Ti. Esso, infatti, permette di operare sia un’analisi tematica verticale dei documenti ottenuti per individuare temi comuni ed aspetti simili, sia un’analisi tematica orizzontale per individuare le diverse forme in cui si presenta uno stesso tema nel corpus analizzato (Vardanega, 2008). Per gli stessi motivi, anche le risposte alle domande aperte relative al questionario e agli incidenti critici vengono analizzate con lo stesso software. Le sezioni
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quantitative del questionario verranno invece analizzate con il software SPSS (Statistical Package for the Social Sciences).
6. Risultati provvisori Come già esplicitato, i risultati raccolti sono ancora provvisori. Le analisi dei focus group e dei dati del questionario sono in via di elaborazione. Una prima pre-analisi dei dati (per ora solo qualitativa) conferma un forte atteggiamento di chiusura nei confronti della diversità, in particolare culturale, più evidente negli istituti professionali, meno evidente nell’istituto tecnico, ancora meno evidente nel liceo linguistico (un risultato simile si era evidenziato anche nella ricerca di Aquario e colleghi). Per più della metà degli studenti la diversità è collegata all’essere stranieri e questo è considerato uno svantaggio per la maggior parte di essi. Solo in alcuni casi essi ammettono che la diversità culturale possa essere considerata una ricchezza. Questo atteggiamento è peraltro confermato da una prima pre-analisi sugli incidenti critici, in cui la maggior parte degli studenti mostra atteggiamenti di “rifiuto” o “difesa” (Bennett, 1993). Una prima pre-analisi di quanto emerso nei focus group con gli insegnanti rileva che gli alunni sono stati, nel corso del primo anno di lavoro, progressivamente sempre più disponibili alla cooperazione. Tuttavia, gli stessi insegnanti dichiarano – nella maggioranza dei casi – di non aver visto dei sensibili cambiamenti nella capacità di ascolto reciproco, di interazione costruttiva, di fattiva collaborazione. Essi hanno notato in alcuni casi l’emergere di nuove conflittualità e hanno manifestato il bisogno di cercare insieme “strumenti nuovi” per poterle gestire. Dal canto loro, gli studenti hanno evidenziato che, per valorizzare davvero la diversità reciproca, il gruppo dovrebbe avere un “obiettivo comune” e nel contempo “cognitivamente interessante” perché scelto da loro, che li stimolasse così a cooperare fattivamente. Questo aspetto pare estremamente significativo, soprattutto se lo si mette in relazione con quanto viene enunciato in letteratura rispetto alla Group Investigation, come strategia per promuovere e valorizzare la diversità anche culturale (Amir et al., 1978; Sharan, 1980; Sharan, 1998; Sharan, 2010).
7. Limiti della presente ricerca e prospettive future Molti dei limiti della presentazione di questo lavoro di ricerca sono dovuti al fatto che esso è ancora in fieri ed alcune parti sono ancora da riconsiderare con attenzione. Un altro punto critico è rappresentato dalla difficoltà di generalizzare i risultati ottenuti, che è, però, una caratteristica della ricerca-azione. Paradossalmente, è tale criticità che può rappresentare una prospettiva futura di questo lavoro. L’implementazione di pratiche di ricerca-azione nelle scuole – in particolare quando coinvolgono “reti” di scuole e danno, quindi, la possibilità a chi lavora nella scuola di progettare insieme, di scambiare materiali e risorse, di condividere idee, fatiche e successi – è importantissima per chi lavora nella scuola e sperimenta spesso solitudine e insicurezza rispetto alle proprie “mappe di riferimento”, spesso non più valide per contesti in continuo cambiamento. Nello stesso tempo, attraverso tali percorsi, si potrebbe avviare una riflessione su come i comportamenti degli insegnanti - che si esplicano attraverso le pratiche educative - possano cambiare proprio grazie all’implementazione di modalità di lavoro cooperative “direttamente” sperimentate (Surian, 2010) e in che modo ciò possa essere realmente trasformativo (Engeström, in Illeris 2009). Certamente, come si diceva po-
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c’anzi, da parte degli insegnanti l’urgenza di lavorare insieme e di costruire “pratiche condivise” è sempre più sentita. Con questo lavoro si sta provando a fare un piccolo passo nella consapevolezza che in un mondo sempre più plurale diventa essenziale la scelta di un modello che implementi l’attenzione all’altro e la valorizzazione di ogni forma di diversità.
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Ricerche Dinamiche creative e narrazione digitale in due comunità di pratica online: il caso SAIA e la Welfare Community di Venezia Creative dynamics and digital storytelling in two online communities of practice: The SAIA case and the Welfare Community of Venice CINZIA FERRANTI L’articolo descrive il lavoro di ricerca centrato sul tema della co-costruzione delle conoscenze in rapporto all’emersione di dinamiche creative e all’uso della narrazione digitale in due comunità di pratica online. Si vuole comprendere, attraverso un approccio etnografico, come si sviluppano i processi conoscitivi e creativi collettivi nelle comunità stesse. In particolare le ipotesi di ricerca vogliono far emergere come i membri delle comunità co-costruiscono la propria conoscenza e se l’utilizzo di particolari supporti tecnologici (Wiki, Blog, software del Web 2.0) e della narrazione digitale influiscano nei processi di problem solving creativo aziendali. Il quadro teorico di riferimento prende in esame soprattutto il pensiero di Wenger, Engeström e de Kerckhove come sfondo per la comprensione del legame tra tecnologie, pratiche, linguaggi ai fini dell’emersione di nuove e impreviste soluzioni, anche attraverso pratiche narrative supportate da artefatti digitali.
This article describes the research work centered on the theme of co-construction of knowledge, with his connection to creative dynamics and digital storytelling in two online communities of practice.We would to understand, through an ethnographic approach, how the members develop collective creative processes in the communities themselves. In particular, the research questions want to verify how the communities co-construct our knowledge, if the use of particular media technology (as Wiki, Blog, Web 2.0 tools) and the practice of digital storytelling could influence the process of creative problem solving. The theoretical framework considers especially the thought of Wenger, Engeström and de Kerckhove as a background for understanding the link between technologies, practices and specific languages with the aim to bring out new and unexpected solutions, through narrative practices supported by digital artifacts.
Parole chiave: comunità di pratica, dinamiche creative, narrazione digitale, tecnologie della comunicazione online, tecnologie educative, teoria dell’attività
Key words: community of practice, creative dynamics, digital storytelling, online communication technologies, educational technology, activity theory
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“Whatever creativity is, it is in part a solution to a problem”. Brian Aldiss1
1. Introduzione Il primo avvicinamento al tema della mia ricerca è stato la spinta ad osservare dinamiche di co-costruzione della conoscenza all’interno di comunità di pratica online. Sono interessata a comprendere le modalità con cui i membri delle comunità vivono gli aspetti di co-costruzione delle conoscenze e le dinamiche creative che emergono nelle loro interazioni dialogiche. Tali interazioni avvengono sia in un ambiente di mediazione tecnologica, come una piattaforma, sia nei momenti formali e informali in cui i partecipanti interagiscono di persona. La mia ricerca ha come obiettivo la ricostruzione della microcultura e l’analisi delle modalità di co-costruzione delle conoscenze di due comunità, due soggetti collettivi come la Welfare Community e la SAIA Community. Si tratta anche di due contesti diversi, uno legato ai servizi sociali del comune di Venezia e l’altro ai professionisti afferenti ai servizi veterinari e al Servizio di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione delle Asl del Veneto. Esse hanno anche avuto modalità di accesso all’ambiente tecnologico diverse: la prima voluta dal servizio formazione per facilitare la comunicazione e gli scambi di un insieme molto articolato di persone legate ai diversi servizi sociali del comune e l’altra in seguito ad un percorso formativo molto lungo (otto mesi) all’interno del quale già dall’inizio destinare spazi alla crescita della comunità, per favorire l’intercambio professionale, la condivisione di problemi e soluzioni. Per raggiungere le finalità esposte ho impostato una ricerca di tipo qualitativo basata su studi etnografici di tipo blended.
2. Una prima occasione di focalizzazione: l’intervista ad Etienne Wenger Il mio interesse per la co-costruzione della conoscenza e alcuni dubbi, credo giustamente inevitabili in un percorso di formazione alla ricerca, su questioni metodologiche e sostanziali della mia ricerca mi hanno condotto a cercare un’occasione fortunata in cui ho potuto fare un’ intervista ad Etienne Wenger. Egli partecipò, nel giugno del 2010, in qualità di relatore al convegno “Corporate Storytelling”2 dove fece un intervento dal titolo “The role of storytelling in communities of practice” e tenne anche un seminario congiunto presso le scuole di dottorato di Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione di Padova e di Scienze del Linguaggio, della Cognizione e della Formazione di Venezia. La mia intervista prese forma a partire dalle seguenti domande: Cosa è interessante e possibile osservare in una comunità di pratica? Quale tipo di eventi? È possibile misurare il processo di cocostruzione delle conoscenze? Quanto importanti sono gli scambi verbali che avvengono in un ambiente di comunicazione che fa da supporto e mediazione delle relazioni online dei membri della comunità? C’è una sostanziale differenza tra comunità di pratica reale e virtuale? Tali domande vorrebbero definire meglio gli elementi da ritenersi importanti in una ricerca sulle comunità di pratica, esse sono anche di tipo metodologico e hanno indirizzato la mia conversazione della quale vorrei riportare di seguito alcuni scambi. Prima di iniziare la registrazione della conversazione con Wenger
1 “Qualunque cosa sia la creatività, è in parte la soluzione ad un problema” - “Apéritif ” in Bury my heart at W. H. Smith’s: a writing life (1990). 2 Convegno di studi organizzato dall’Università di Padova il 18 giugno 2010 in cui il relatore ospite fu Etienne Wenger con l’intervento intitolato “The role of storytelling in Communities of Practice.
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gli consegnai il foglio con le domande per consentirgli una focalizzazione sui miei interrogativi e la prima cosa che mi disse fu:“Non so se so rispondere a queste domande, io non sono un metodologo. Tendenzialmente il metodo che usiamo è quello etnografico e sono affiancato da antropologi”. Devo dire che una dichiarazione di questa natura mi fece rilassare e apprezzai molto la semplicità con cui affrontò le mie domande. Ammetto che non affrontai i temi che Wenger è solito proporre nelle sue conferenze e nei suoi scritti, per quelli possiamo sempre e fortunatamente interrogare i testi, ma mi concentrai sulle esigenze che avevo in quella fase della mia ricerca. 1) In base alla sua opinione basata sulla sua pluriennale esperienza, qual è il modo migliore per mettere a punto un sistema di osservazione di una comunità di pratica. In altre parole che tipo di “eventi” posso osservare: le relazioni tra i membri, i processi di condivisione delle conoscenze, la rete informale, i ruoli all’interno di tale rete come ad esempio quello centrale di hub nelle relazioni di aiuto e supporto oppure una singola e specifica pratica? “Una comunità è come qualsiasi altro sistema sociale, giusto? Se tu lo vuoi analizzare puoi osservare molteplici cose dalle interazioni al suo interno. Così, sai, puoi ottenere degli incontri con i membri ed essere all’interno di una comunità, interagire online, e allora ottenere una trascrizione di ciò che stanno dicendo. Potresti dare un’occhiata ad alcuni documenti che i membri della comunità si sono scambiati ma potresti anche intervistare alcuni membri in modo che siano essi stessi a dirti come applicano la loro conoscenza di comunità. Perché molto spesso il valore della comunità non si vede e percepisce dall’interno, ma si può manifestare al di fuori della comunità, quando le persone stanno nel loro mondo o sono concentrate su ciò a cui si dedicano, dovresti dare valore alla storia di come essi hanno imparato qualcosa nella comunità e di come fanno ciò in maniera diversa nella pratica. Tutto ciò non è “visibile” a chi ha un ruolo di puro osservatore, quindi ecco un paio di cose da fare: osservare la pratica ma anche intervistare i membri della comunità. Osservare è importante così come interagire, chiedere e stimolarli lo è altrettanto. Inoltre se hai tempo sufficiente a disposizione puoi cercare di avere qualche forma di interazione online. Non è così diverso studiare una comunità di pratica rispetto ad un antropologo che studia una tribù in un’isola. In quale comunità vivono? Sai, culturalmente intendo”.
2) Nelle sue indagini sulle comunità di pratica, ha mai avuto modo di misurare o esaminare processi di costruzione sociale della conoscenza? Se la risposta è sì, in che modo? Come ha definito l’unità di analisi? “L’unità d’analisi è la comunità, si tratta di un processo collettivo, tu devi pensare all’intera comunità come un luogo in cui i processi accadono e si sviluppano. E poi, ovviamente, hai anche i singoli partecipanti. Così, ancora, io posso condividere con te alcuni dei frameworks che abbiamo sviluppato per definire l’uomo, ma quello che stiamo dicendo è legato al fatto di raccogliere il valore della creazione di una storia. Non è proprio l’unità di analisi ma, se vuoi, è il punto di osservazione e può essere molto, molto difficile. Quindi tu devi fare in modo che le persone ti raccontino la storia di ciò che è successo nella comunità, ciò che è emerso di importante per loro, loro fanno una stima del capitale di conoscenze che portano fuori dalla comunità, come l’hanno applicato nella loro pratica e che differenza ha apportato alla loro professione. Tu devi aiutare loro, attraverso le interviste, a raccontarti la storia di come la comunità e la partecipazione alla comunità ha generato nuove conoscenze … rendendola diversa, trasformandola. È un genere di storia, sai, che si sviluppa attraverso diverse fasi. Perché ci sono tanti tipi di cose che tu puoi misurare, come il numero di interazioni, chi partecipa, e questo non ci dice realmente come la conoscenza sia stata creata. Per vedere in realtà la conoscenza, bisogna seguire le loro storie, potrebbe valere la pena farlo. Io ho seguito le storie e qualche volta ho misurato gli effetti di tali storie. Così, se una persona dice:“Va bene, ho sentito questo nella mia comunità e ho risparmiato tre ore”, tu puoi misurare questo, capisci? Ma misurare la conoscenza, io penso sia molto difficile e testarla pure è molto complesso, perché una comunità di pratica è molto simile a un corpus, un insieme. Dove la conoscenza è definita in precedenza tu la puoi testare perche conosci ciò prima e puoi verificare se uno studente ha imparato e appreso questa conoscenza. Ma in una
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comunità la conoscenza viene inventata, è molto difficile verificarla, a meno che non si chieda ai partecipanti che cosa pensano di aver fatto in pratica, ma non so se possiamo chiamare questo un test, perché si tratta di verifiche informali. Quindi “misurare” e “verificare” sono termini molto duri e difficili da usare. C’è qualcosa di maggiormente etnografico”.
3) Qual è l’ostacolo o la difficoltà maggiore che si incontra nella progettazione o nel mantenimento di una comunità di pratica. “Ci sono parecchi ostacoli. Progettare è molto difficile perché lo spirito di una comunità non è qualcosa che si possa stabilire a priori. Vedi, tu puoi progettare le circostanze. E così, penso che, non voglio dire che questo sia difficile o meno, ma la prima cosa che vorrei fare è cercare i leader interni, cercare le persone che pensano che essere membri di una comunità sia una buona idea, per se stessi, e sanno prendere l’iniziativa. Quando parli di progettazione e sostegno di una comunità ti puoi riferire a qualcuno che non è membro o a qualcuno che invece è interno alla comunità … c’è una grande differenza. Se sei un ingegnere e dici:“Wow, ho bisogno di una comunità, ora vado a cercare altri ingegneri” tu puoi chiamarli “hey, sono qui” per fare colazione assieme. Molto diversa è la situazione in cui sei un HR (ti occupi di risorse umane) e dici: “Mmm penso di aver bisogno di un ingegnere” c’è una grande differenza. E se pensi “Mmm, abbiamo bisogno di una comunità di ingegneri”, bene non lo puoi fare da solo, perché non sei uno di loro. Quindi devi cercare qualcuno di loro che potrà lavorare con te, per fare in modo che la comunità nasca. Una volta che tu hai trovato qualcuno di loro credo che sarai in grado di apprezzarlo e in seguito potrai supportare queste persone. Comunque io non sto dicendo che non ci sia nulla che dal di fuori si possa fare. Dal di fuori si può aiutare a sostenerli, organizzare molte questioni di tipo logistico, e anche svolgere il ruolo di coach. Sai forse gli ingegneri non conoscono molto delle comunità, quindi tu puoi insegnare loro le maniere con cui fare degli incontri, come aprire uno spazio online, come usare un Wiki per creare documenti condivisi. Ci sono molteplici tipi di sostegno che puoi dare loro, a patto che tu cerchi qualcuno che possa avere un ruolo di leadership di tale comunità, a meno che tu non conosca le loro pratiche e i loro problemi. La leadership di comunità è qualcosa di importante nelle tua ricerca, è legata a chi conduce le dinamiche di comunità. I buoni leader di comunità sono persone che vogliono apprendere: essi hanno bisogno della comunità. Essi praticano, e così rendono possibile la vita della comunità perché è funzionale al loro stesso apprendimento. Tu non puoi fare questo perché tu non stai cercando di diventare un ingegnere più esperto.Va bene, questo non significa che non ci sia un ruolo per chi non fa parte della ristretta cerchia degli ingegneri. Ho trovato organizzazioni che hanno avuto un team molto buono di supporto, un piccolo gruppo di persone che sistematicamente supportano le comunità di pratica. Essi aiutano la comunità che non è in grado di misurare i loro effetti, e ha la necessità di produrre dei report al management su ciò che essa stessa ha fatto, e che quindi può aver bisogno di un tale supporto. Avere un team di supporto è un importantissimo fattore di successo. Ma questo team è di supporto perché non è composto dai leader della comunità, ma li può aiutare in diverse maniere”.
4) Una comunità di pratica virtuale è meno o maggiormente efficace rispetto ad una tradizionale comunità face to face? “Sinceramente non conosco la risposta. Ma se, mi stai chiedendo un’opinione personale io non credo che ci siano molte differenze, perché è il livello di impegno e di coinvolgimento che conta. Se i membri di una comunità hanno bisogno degli altri come partner nell’apprendimento, possono usare qualsiasi mezzo possibile: il telefono, gli strumenti online … Voglio dire che gli incontri face to face sono un’ottima cosa, ma sono costosi e si deve programmarli. Ora, ciò che abbiamo trovato ad un livello molto pratico è che gruppi di discussione che tendono ad essere il modo ideale di interagire per una comunità non sono sempre accompagnati dal successo perché non si pianifica la partecipazione. Così ciò che ho trovato è che per le persone molto impegnate spesso il forum funziona meglio di altri strumenti. Si va da un tipo di comunità basata sul telefono dove si possono fare delle chiamate alle 11 ed è necessario ritagliare quel tempo e a quell’ora, a comunità in cui basta
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contribuire al Wiki o ai gruppi di discussione, ma questo non è mai al primo posto di una lista di priorità e così tendono un po’ tutti a far precipitare la partecipazione. Quindi ci sono problemi molto pratici legati alla differenza di partecipazione e al fatto che questa è costosa e difficile da programmare. Il telefono cellulare in qualche modo ha limitato il numero di persone che può interagire in maniera significativa. Anche se il telefono è, almeno negli Stati Uniti, magari nella nostra cultura dove si parla al telefono in teleconferenza, un buon mezzo. Poi, naturalmente, se si vuole avere un’interazione a volte non ha scelta, se le persone della comunità sono dislocate in tutto il mondo non c’è un momento in cui tutti possono essere svegli, non rimane molto margine di scelta sulle modalità per interagire in ogni paese. Ma, si sa, le grandi comunità di ingegneria i cui membri sono in tutto il mondo, e che hanno molto successo, possono organizzare degli incontri molto raramente quindi l’uso del telefono dà buoni risultati”.
Mentre ci stavamo salutando e dirigendo verso la sede del seminario che lui avrebbe tenuto, disse: “Comunque aprire uno spazio online e lasciarlo a disposizione, non funziona. Ci deve essere qualcuno che ha la responsabilità di animarlo e tenere vive le relazioni a distanza”. L’intervista ad Etienne Wenger mi ha persuasa a scegliere una modalità di indagine di tipo etnografico che sia il giusto equilibrio tra una etnografia virtuale (Hine, 2000) e una tradizionale, attraverso l’interazione diretta con alcuni membri chiave che emergono dall’analisi dei contenuti online. In seguito ho focalizzato la mia unit of analysis come intera comunità di pratica consolidando il mio interesse a comprendere come le persone co-costruiscono conoscenza, se vi sono dinamiche creative in tale processo e quanto la narrazione (digitale) faciliti l’apprendimento e la reificazione attraverso la comunicazione delle pratiche.
3. Le comunità di pratica: il caso SAIA e la Welfare Community di Venezia Le due comunità che prendo in esame nella mia ricerca sono entrambe legate ad organizzazioni nella Pubblica Amministrazione. Esse si riferiscono ad un insieme di stakeholder complessi come enti che lavorano in collaborazione con l’Istituto Zooprofilattico delle Venezie o con il Comune di Venezia assieme ad una rete di soggetti del privato sociale. La prima comunità si sviluppa a partire da un progetto formativo dal nome “SAIA Learning Community” (Sanità Animale e Igiene Alimentare) all’interno dell’Istituto Zooprofilattico delle Venezie e promosso anche dalla Regione Veneto. Il progetto è nato nel 2011 dopo una sperimentazione pilota durante il 2010 in cui si è formata una iniziale comunità di facilitatori (20 membri) che hanno il ruolo di promuovere l’interscambio professionale e la condivisione delle pratiche. Tale comunità è formata da operatori dei servizi veterinari (SVET) e dei Servizio di Igiene degli Alimenti e della Nutrizione delle Asl (SIAN). Un secondo gruppo (72 persone circa) di medici, veterinari, biologi, chimici e tecnici della prevenzione si è formato a ottobre 2011. Il progetto è inizialmente di tipo formativo ed è articolato in tre aree di intervento: una tecnologico-formativa in cui è prevista la familiarizzazione tecnologica all’uso degli strumenti di comunicazione online e agli spazi di interazione della piattaforma telematica di supporto, si svilupperanno le abilità di gestione dei processi di Information Literacy (Ferranti, 2010) in vista della soluzione di problemi professionali e si accederà a strumenti di condivisione dei problemi attraverso l’uso di ambienti web 2.0 di supporto alla comunità di pratica; un’area problem solving dove acquisiranno strumenti e strategie per la condivisione e la risoluzione di problematiche professionali; un’area tecnico-scientifica in cui si affrontano due casi di emergenza e si applicano le metodologie del problem solving per analizzare e interpretare i casi scientifici. Infine il digital storytelling sarà la metodologia che consentirà la formalizzazione di nuovi modi di raccontare problemi e soluzioni all’interno della comunità.Tale percorso si svolgerà in otto mesi circa, in cui io avrò il ruolo di mediatore tecnologico,
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con funzione di supportare l’avvio della comunità, ovvero far parte di quello che Wenger ha definito il team di supporto esterno. Nella nascente comunità sarò quindi un osservatore partecipante che cercherà anche di mettere a disposizione la propria esperienza per fare in modo che i membri della comunità abbiano una buona consapevolezza di base di cosa sia un comunità di pratica, degli strumenti tecnologici, dell’uso del digital storytelling per il problem solving e di una gestione corretta della comunicazione online. Quindi sin dalle prime attività formative si fornirà il supporto alla creazione di una comunità regionale e interaziendale, tecnologicamente mediata basata sull’idea di favorire il processo di trasformazione della iniziale comunità di apprendimento in comunità di pratica. Le tecnologie della community sono basate su Moodle3 e sulle tecnologie ad esso connesse (forum, wiki, glossario, database, blog). I dati su cui baserò le mie analisi future sono le note etnografiche sul campo prese durante il percorso, le discussioni online nei forum, l’analisi di alcuni documenti e alcune interviste etnografiche. La fase di raccolta dati partirà dal prossimo ottobre 2011 e terminerà a luglio 2012. Pertanto oltre alla descrizione del progetto in questo momento non è possibile fornire ulteriori informazioni e dati significativi per la ricerca. La seconda comunità da studiare è la “Welfare” Community del Comune di Venezia, nata circa cinque anni fa. Inizialmente era luogo di collaborazione tra operatori dislocati nel territorio provinciale. Tale comunità aveva alcune finalità: co-costruire dei documenti e delle linee elaborate nel sociale e allargare la rete sociale, fatta di attori pubblici e privati. Essa è nata dalla volontà di far interagire e integrare persone coinvolte in progetti diversi: Infanzia e adolescenza (70/80 membri), Agenda degli eventi (10 interni e 100 esterni), Formazione domiciliarità, sostenibilità dei servizi (40), Piano di zona (35 interni, 100 provenienti dall’Asl e da altri comuni, Ufficio di piano 10, 80 persone coinvolte nei tavoli di lavoro). Le tecnologie della community sono una piattaforma che integra forum, wiki, repository e feed RSS. Durante l’evoluzione della comunità essa si è trasformata principalmente in una comunità di pratica per la co-costruzione del Piano di zona4. Questo ha comportato uno spostamento e focalizzazione degli obiettivi che la comunità si era posta e ha permesso una concentrazione delle relazioni online finalizzate alla creazione condivisa e collettiva di un Piano di zona ovvero di un complesso documento che oltre a interessare in fase applicativa molti soggetti nel territorio, come destinatari della programmazione prevista dal piano, ha messo in relazione gli stessi nelle difficili fasi di realizzazione, di discussione e di decisioni collettive.
4. Il quadro teorico di riferimento Se consideriamo i primi studi di Lave e Wenger (1990) che riguardavano le comunità di pratica come spazi sociali in cui avviene l’apprendistato di alcuni mestieri5, l’apprendimento risulta essere legato ad attività situate e soprattutto al livello di partecipazione alla comunità. Nei testi successivi
3 Moodle è un LMS, ovvero un Learning Management System, un software open source che integra diverse tecnologie della comunicazione e della formazione al fine di fornire un ambiente per la progettazione e l’erogazione di corsi online. 4 Il Piano di zona è un documento di programmazione e di valutazione che ha lo scopo di guidare lo sviluppo delle comunità locali per quanto riguarda i servizi alle persone; è uno strumento “promosso dai diversi soggetti istituzionali e comunitari per: analizzare i bisogni e i problemi della popolazione sotto il profilo qualitativo e quantitativo; riconoscere e mobilitare le risorse professionali, personali, strutturali, economiche pubbliche, private (profit e non profit ) e del Volontariato; definire obiettivi e priorità, nel triennio di durata del piano attorno a cui finalizzare le risorse; individuare le unità d’offerta e le forme organizzative congrue, nel rispetto dei vincoli normativi e delle specificità e caratteristiche proprie delle singole comunità locali; stabilire forme e modalità gestionali atte a garantire approcci integrati e interventi connotati in termini di efficacia, efficienza ed economicità; prevedere sistemi, modalità, responsabilità e tempi per la verifica e la valutazione dei programmi e dei servizi” (Cairo, 2007, pp. 75-76). 5 Si tratta delle comunità di levatrici maya, di sarti in Liberia, di nocchieri, macellai e di alcolisti astinenti
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di Wenger (1996, 1998a, 1998b, 2002) le comunità di pratica assumono forme diverse, adattandosi ai reali contesti di apprendimento e di realizzazione di artefatti condivisi, legati o meno a specifici contesti lavorativi o organizzazioni. Se una comunità di pratica nasce da una motivazione legata allo sviluppo di nuove pratiche lavorative allora sono le dinamiche organizzative, comunitarie e dei singoli membri che acquistano significato rispetto agli obiettivi collettivi. Per questo motivo è necessario fare ancora riferimento alle componenti fondamentali delle comunità di pratica come luoghi in cui le persone condividono un destino comune assumendo un impegno reciproco e negoziando i significati anche nella condivisione di un repertorio linguistico e di azioni conosciute e create assieme (Wenger, 1998). Dal concetto di partecipazione su cui veniva centrato tutto l’apprendimento situato si aggiunge il processo di reificazione che apre le porte allo sviluppo della co-costruzione di artefatti. Una comunità di pratica in cui non è più fondamentale il movimento dalla periferia al centro legato all’acquisizione di maggiori expertise ma dove tutti sono chiamati a dar forma ad un apprendimento che è contestuale alla soluzione di problemi professionali e organizzativi, alla richiesta di produrre un nuovo artefatto che in parte riassume le esperienze e le competenze possedute dai singoli membri della comunità e in parte chiede di dare forma a qualcosa di nuovo in cui altre competenze possono affinarsi e nuove forme di apprendimento si configurano. A tale proposito Wenger (1998, p. 81) riguardo il rapporto tra partecipazione e reificazione scrive che “entrambi gli elementi sono sempre coinvolti, ed entrambi possono assumere diverse forme e diversi gradi. In particolare ci può essere sia un’intensa partecipazione che un’intensa reificazione. In effetti il genio creativo dei grandi scienziati e dei grandi artisti si può imputare alla loro capacità di mettere insieme le due cose: da una parte un intenso coinvolgimento nei formalismi reificativi della loro disciplina e dall’altra una profonda intuizione partecipativa di ciò che sottintendono quei formalismi”. Se applichiamo il triangolo dell’attività di Yrjö Engeström della tradizione storico-culturale di derivazione vygotskijana alla Comunità Welfare possiamo focalizzare meglio le attività o sistemi di attività presenti nella comunità di pratica. A partire dai meccanismi di apprendimento collettivo delle comunità di pratica attraverso la produzione scientifica di Engeström (1987,1995,1999) è possibile evidenziare gli elementi in gioco nella Comunità Welfare. L’idea centrale è data dal semplice triangolo dell’attività di Leont’ev (1978) che rende conto dell’attività come del processo in cui un soggetto agisce su un oggetto attraverso la mediazione di strumenti (di tipo materiale e linguistico) ai fini di trasformare tale oggetto in “esito” dell’intero processo di modifica. Possiamo individuare come soggetto la comunità di pratica stessa, come oggetto il Piano di zona e come processo di trasformazione proprio la co-costruzione del piano che potrebbe evidenziare le dinamiche della creatività di gruppo da me ipotizzata. Come elementi di mediazione si possono evidenziare sia tutti gli strumenti tecnologici (esterni o integrati nella piattaforma) che consentono le interazioni online della comunità sia le forme linguistiche e soprattutto narrative da questi permesse. Rispetto ad una comunità in presenza abbiamo il vantaggio di potere accedere a diverse forme di tracciabilità dei processi di co-costruzione interni alla comunità. Qui la partecipazione è soprattutto dovuta alla comunicazione online e ai diversi scambi di materiali nelle fasi di condivisione di obiettivi, decisioni, spunti, idee e artefatti. La situazione si arricchisce se introduciamo anche altri elementi situati in uno spazio spesso tacito (ovvero che all’interno del sistema di attività della comunità di pratica non è reso esplicito ma opera dal basso) fino ad arrivare a due livelli di profondità dedicati al ruolo della comunità intesa come intera organizzazione d’appartenenza e dell’intero territorio con le relazioni istituzionale tra gli stakeholder coinvolti nella comunità, regolate da opportune norme e dalla suddivisione delle proprie aree di attività di competenza. La comunità di pratica “Welfare” (Fig.1) diventa l’intero soggetto collettivo interessato al sistema di attività di sua pertinenza che avviene attraverso la mediazione di diversi strumenti: l’ambiente
negli Stati Uniti. Le prime quattro sicuramente legate all’apprendistato di un mestiere mentre l’ultima all’acquisizione di corretti comportamenti per uscire dalla difficoltà della dipendenza dall’alcool. Si veda Lave e Wenger (pp. 41-47).
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virtuale, alcune singole tecnologie (come il forum, il wiki, rss) l’uso del linguaggio e di un repertorio condiviso via via co-costruito e affinato grazie alle finalità della comunità “Welfare”. Non vanno dimenticate le strutture narrative che mediano l’intero processo di co-costruzione della conoscenza di tipo verbale scritto, ma che possono diventare anche digitali e multimediali facendo uso di registrazioni audio o di artefatti audio-visivi. Se vogliamo prendere in considerazione la complessità delle relazioni nei sistemi di attività espressi dalla S comunità “Welfare”, allora vanno considerati anche altri elementi (Fig.1) meno visibili all’interno della comunità stessa, ma dei quali è proficuo tenere in considerazione l’incidenza che possono avere sui sistemi di relazione dei membri.
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Fig.1: Il triangolo dell’attività di Engeström applicato alla “Welfare” Community F
Per fare un esempio concreto: i circa 200 membri della comunità che provengono dal Comune di Venezia, dalle aziende socio-sanitarie della provincia di Venezia, dalle associazioni del privato sociale, ovvero l’insieme di stakeholder primari coinvolti nel Piano di zona, vedono incidere sui loro sistemi di attività anche le norme di relazione tra questi portatori d’interesse, la suddivisione delle aree di competenza nella costruzione del Piano e i soggetti che nell’insieme rappresentano l’intero territorio senza dimenticare i destinatari ultimi dei servizi alla persona descritti e regolati dal Piano.descritti Un altroe della provincia di Venezia, senza dimenticare i destinatari ultimi dei servizi alla persona a regolati dal Piano. Un altro aspetto molto interessante per comprendere i cambiamenti delle modalità complessive dell’attività della comunità e quello di fare un confronto tra il sistema di attività prima della mediazione tecnologica e quello con la mediazione stessa. In questo modo si possono focalizzare le modalità con cui l’evoluzione dei sistemi di costruzione collettiva del Piano di Zona abbia risolto o creato nuove contraddizione tra gli elementi del triangolo.
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Fig. 2: Un confronto tra modalità di co-costruzione del Piano di Zona prima e dopo l’uso della piattaforma tecnologica
5. Le dinamiche creative collettive Per poter descrivere tali dinamiche è necessario riconoscere quali siano le caratteristiche di una dinamica creativa che non sia solo individuale, ma che scaturisca dall’interazione dei singoli in una comunità di pratica. Altro fattore a mio giudizio interessante è quello di rifarsi alla letteratura sulla creatività con un approccio basato sulla teoria dell’attività, prescindendo dagli studi sulla personalità creativa, sul talento e sul genio.Tenterò privilegiare e Morrison, 2005;di Runko, 1994) ealcuni di g principi generali trattati nei molteplici studi sulla creatività come quello di bisociazione6 (Koestler, 1975), di pensiero laterale7 (De Bono,1967, 1970, 1973) di pensiero produttivo8 (Wertheimer, 1965), di pensiero divergente9 (Guilford, N 1950,1967), di pensiero analogico (Holyoak and Kokinov, 2001; Holyoak e Morrison, 2005; Runko, 1994) e di group creativity dove si analizzano processi di ideazione collettiva (Sawyer, 2003, pp. 165189). Nella mia impostazione ho cercato di evitare di rimanere ad un livello dettagliato come quello delle numerosissime tecniche creative presenti in letteratura10. In processi creativi collettivi che scaturiscono dalle naturali condizioni di difficoltà, dalle contraddizioni nei contesti e tra i contesti, dai !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 6 La bisociazione è la capacità di connettere idee prive di apparenti relazioni; si tratta di un’operazione che unisce due “schemi di riferimento, contesti associativi o strutture di ragionamento che sarebbero normalmente considerate incompatibili” (Koestler citato in Antonietti, 1994, p. 40). 7 Il pensiero laterale si contrappone a quello verticale che segue una linea diretta, deduttiva, dentro direzioni conosciute e selettiva di soluzione dei problemi. Il pensiero laterale cerca la linea produttiva, genera nuove direzioni, è stimolatore, è sintetico, accetta gli inserimenti del caso, non ha necessariamente bisogno di de8 finire e classificare ed esplora percorsi meno probabili (De Bono, 1970, pp. 38-45). s 8 Il pensiero produttivo si mette in moto quando nella soluzione di un problema si riesce con l’insight a trovare una soluzione attraverso la ristrutturazione dei dati di partenza parziali e confusi. Si tratta di una “strutturazione del campo” che dà luogo a nuove idee e soluzioni. 9 Il pensiero divergente è una modalità di pensiero che nell’atto creativo tende alla produzione di molte ! soluzione per uno stesso problema, si tratta di vedere molti differenti sviluppi (fluidità e originalità) rispetto un situazione problematica. 10 A questo proposito si vedano gli esiti di un progetto di ricerca promosso dall’Università di Udine nel 2004 dal nome CREATE, in cui è stata fatta una rassegna molto esaustiva di oltre 200 tecniche creative. La descrizione del progetto è disponibile online al seguente indirizzo: http://www.diegm.uniud.it/create. 6
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problemi che attendono risposte e soluzioni condivise è proficuo studiare le caratteristiche di contesto che conducano a nuove conoscenze ed esiti creativi. Se il processo di ideazione e di implementazione è collettivo allora i soggetti coinvolti sono coinvolti collettivamente sia nella produzione che nella scelta della “buona” idea e nell’attività di reificazione della stessa creando e adattando materialmente, con le loro azioni e con i loro artefatti, l’idea direttrice. Questo tipo di creatività si può avvalere di facilitatori o illuminati leader che abbiamo alcune competenze nella gestione di processi creativi, ma tendenzialmente non credo che nelle organizzazioni vi sia un grande studio sulle tecniche e i metodi che favoriscono la creatività, sono piuttosto presenti altri fattori quali: • la persistenza in una situazione problematica da affrontare collettivamente; • una conformazione contraddittoria di elementi che richiedono lo scioglimento o la soluzione di tali contraddizione; • alcune attitudini all’esplorazione, all’apertura, alla capacità di andare oltre i confini, a collegare elementi distanti; • molte competenze diversificate; • attitudini di leadership e di partecipazione alla comunità; • obiettivi comuni; • attitudine e volontà a personalizzare i risultati. Così come le comunità di pratica sono sistemi emergenti in cui l’apprendimento non è letteralmente progettato ma avviene dalle forme di interazione tra i membri, anche la creatività di gruppo in una comunità di pratica ha le stesse caratteristiche. La creatività emerge dalla comunità e si presenta come una forma particolare di apprendimento in cui i comportamenti, gli scambi discorsivi, le decisioni e le idee non sono già nella mente dei suoi membri ma è il processo stesso di relazione che provoca un’insieme di insight tra i membri. Nel web marketing si parla spesso di virulenza e porosità degli insight, forme di contagio intuitivo che accelerano processi creativi individuali e di gruppo. Si tratta di due termini presi a prestito da due scienze diverse, una dalla medicina e l’altro dalla geologia. Che cosa significano riferiti agli insight? Il primo richiama le forme di contagio veloce, come avviene nelle malattie virali, il passaggio istantaneo e incontrollabile di un’intuizione, un’idea; il secondo invece è il grado di circolazione di un determinato argomento di riflessione in rete. La porosità viene rilevata attraverso tre dimensioni: la diffusione ovvero il numero di occorrenze dell’insight all’interno di un gruppo di post analizzati; l’impatto cioè il numero di commenti attivati da un post che contiene l’insight; la penetrazione ossia la dimensione relativa alle reazioni degli utenti all’insight attraverso l’analisi interpretativa dei commenti o delle risposte al post11.Tali dinamiche creative sono presenti anche nelle comunità di pratica, in quanto contesti sociali di relazione personale, concettuale e linguistica. Inoltre per comprendere i processi creativi collettivi ci può aiutare la visione di de Kerchove (1996, 1997, 1998, 2010) dell’intelligenza connettiva e delle psicotecnologie e il concetto di cross-fertilization, che implica il coinvolgimento di esperti provenienti da altri ambiti rispetto il problema in esame, che hanno metodi diversi per affrontare e risolvere le situazioni problematiche e quindi favoriscono l’interscambio tra differenti culture e modi di pensare e di agire diversi. (Koestler, 1964, p. 230 citato in Sawyer, 2006). Per ricavare un certo numero di categorie interpretative dei processi creativi si è pensato di fare alcune interviste a testimoni privilegiati, nelle quali vengono sollecitate forme di narrazione indiretta su cosa sia la creatività per l’intervistato e in cui si chiede di raccontare alcuni episodi chiave nella vita professionale e personale. In seguito dall’analisi di tali interviste e da alcuni studi sulla creatività citati precedentemente si cercherà di analizzare e interpretare gli eventi occorsi nelle due comunità di pratica oggetto della mia ricerca. Quindi la prima fase della ricerca si basa sulla rielaborazione di alcune categorie o ricerca di certi indicatori che aiutano a “far emergere” le dinamiche creative negli scambi comunicativi e negli artefatti presenti nelle piattaforme. A questa analisi più “oggettiva”,
11 A tale proposito si vedano le analisi netnografiche nel marketing al seguente indirizzo web: http://viralblog.viralbeat.com/2010/11/lanalisi-netnografica-strumento-chiave-per-misurare-la-brand-reputation-eprogettare-il-viral-dna.
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nel senso che in base ad alcune definizioni si cerca riscontro negli eventi online della comunità stessa, si aggiungono alcune interviste ad un numero selezionato di membri dove si cercherà di chiedere loro dove e quando hanno vissuto o percepito lo sviluppo delle dinamiche creative (se ricordano momenti problematici, le difficoltà e le modalità con cui la comunità intera è riuscita a superarle). È chiaro che non ritengo scontata l’esistenza di tali dinamiche, ma cercherò gli indizi e le azioni esplicite del fatto che ci sia stato un processo creativo in atto. L’idea di fondo è quella di approfondire il fatto che le persone in contesti sociali come le comunità di pratica non solo si scambiano soluzioni e pratiche di lavoro, informazioni e conoscenze, ma inventano essi stessi la conoscenza di cui hanno bisogno per perseguire gli obiettivi professionali, personali e organizzativi.
6. Il disegno di ricerca e la metodologia Inizialmente la domanda di ricerca era generale e si potrebbe sintetizzare come segue: Come cocostruiscono la conoscenza i membri di una comunità di pratica? In seguito si sono succedute molte altre domande come: Sono proprio tutte comunità di pratica quelle che si presentano come tali? Che differenza c’è tra un gruppo, una comunità e un network online? Co-costruire conoscenza implica dinamiche ed esiti di tipo creativo? Cosa rende di una comunità online un contesto creativo? È possibile osservare e far emergere dinamiche creative (se ci sono) all’interno degli ambienti tecnologici che mediano le CoP (abbreviazione dell’inglese Community of Practice)? Quali sono gli indicatori che mi guidano nell’osservazione di tali dinamiche? In che maniera le modalità comunicative e narrative facilitano le dinamiche creative e l’apprendimento (spesso legato alla risoluzione di problemi) nelle CoP interne alle organizzazioni? Che ruolo ha la tecnologia? I diversi strumenti tecnologici (wiki, forum, blog, telefono, e-mail, strumenti di comunicazione sincrona) influiscono sulla qualità della condivisione? Se sì, in che misura? In che misura le tecnologie favoriscono o ostacolano l’attività di una CoP? Una CoP che nasce in seguito ad un progetto formativo ha maggiori possibilità di evoluzione? Tali domande sono emerse durante una prima fase di approfondimento e hanno anche indirizzato la scelta di alcuni riferimenti teorici. La ricerca è di impianto qualitativo e si basa su uno studio etnografico blended delle due comunità. L’etnografia blended mette assieme le intenzioni di una etnografia virtuale (Hine, 1998, 2000) con quelle di una etnografia tradizionale. Secondo la Hine, Internet come cultura può essere osservato proprio a partire dalle sue pratiche. Ma esso è anche un artefatto culturale, quindi un prodotto della cultura mediato da un insieme di tecnologie, al servizio degli obiettivi di partecipazione e reificazione di chi è presente in rete. Quindi Internet può diventare un campo antropologico nel quale osservare le dinamiche di chi lo frequenta. Così come la Hine propone un’etnografia che ha come obiettivo la comprensione del reale modo di vivere la rete, rispettando una sorta di dimensione ecologica della ricerca, io vorrei analizzare ciò che gli ambienti tecnologici, che mediano le attività online delle mie due comunità, permettono di osservare direttamente: i discorsi, i post e le pagine wiki create dai membri delle comunità.Tuttavia, vorrei far interagire due piani delle relazioni, quello virtuale e quello reale, adottando “una metodologia di ricerca che integra dati qualitativi raccolti con metodologie sia online che offline per una etnografia ricca, non limitata solo ad Internet” (SadeBeck, 2004). Si tratta di un approccio maggiormente attento all’integrazione tra osservazioni online, note etnografiche, interviste etnografiche offline ed analisi di documenti. Esso integra metodi di analisi qualitativa ai fini di avere una più completa visione dei fenomeni in esame. Ci sono numerose difficoltà in uno studio etnografico solo virtuale soprattutto legate ai principali metodi di raccolta: il colloquio e l’osservazione online. “Le interazioni in Internet di solito avvengono in forma scritta, trasformando i tradizionali modelli di comunicazione interpersonale tra gli utenti web. Questo cambiamento influenza il carattere del colloquio online che si svolge tra il ricercatore e i soggetti della ricerca, portando alla perdita di molti livelli di significato aggiunto allo scambio puramente verbale” come gli elementi paraverbali e quelli non verbali, l’immediatezza comunicativa orale che nell’intervista face to face fornisce delle risposte più dirette e meno organizzate dall’attività di scrittura. Con questi presupposti metodologici vorrei ricostruire la storia delle due comunità (nel caso di
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SAIA community essendo una comunità che dovrà nascere mostrerò le fasi di avvio della comunità stessa), la descrizione della loro cultura e del loro ambiente, l’ analisi dei discorsi e degli artefatti digitali online e l’analisi di interviste ad alcuni membri. Prima di procedere alla raccolta dei dati attraverso analisi dei contenuti (discorsi e documenti prodotti dalla comunità) e interviste etnografiche ad alcuni membri delle comunità, ho svolto 10 interviste a testimoni privilegiati relative alle loro personali concezioni della creatività e ad episodi reali della loro vita professionale che potessero ricostruire i contesti, le dinamiche e le sensazioni legate agli atti creativi. Gli intervistati sono stati scelti in base ad alcuni semplici criteri: professioni diverse, uno dall’altro, non necessariamente considerate creative, vissute con un certo entusiasmo e passione, anche evidenziando una nota di distinzione. Si tratta di una linguista, una giornalista di guerra, un dirigente, un filosofo della scienza, un’artista, un’autrice televisiva, una comunicatrice web, un fotografo, un’artigiana e una cantante jazz. Dall’analisi di tali interviste e dalla scelta di alcuni principi creativi trovati in letteratura tenterò di trovare un set di categorie interpretative dei processi creativi interni alle comunità oggetto della mia ricerca. A partire da ottobre 2011 sarò a stretto contatto con le comunità e sarò inserita all’interno degli ambienti tecnologici che mediano le attività delle comunità. Potrò iniziare a comprendere le scelte di allestimento degli ambienti tecnologici in base alle esigenze specifiche delle due comunità, capire quali tecnologie sono privilegiate, il ruolo della narrazione digitale per la co-costruzione delle conoscenze, l’esistenza o meno di dinamiche creative, come sono stati risolti o si possono risolvere i momenti di stasi delle comunità. Per quanto riguarda gli strumenti di analisi utilizzerò Atlas.ti per l’analisi del contenuti delle 10 interviste ai testimoni privilegiati ma anche per analizzare i discorsi, gli artefatti digitali online (testi, audio e video) e le interviste etnografiche già menzionate.
7. Limiti e possibili sviluppi della ricerca Innanzitutto vi sono dei limiti nel presente articolo dettati dal fatto che la fase di raccolta dati relativa alle due comunità è appena iniziata. È quindi stato possibile solo fornire le linee progettuali per quanto riguarda SAIA community e una descrizione delle caratteristiche e degli obiettivi principali della “Welfare” Community. Rilevo anche una sostanziale difficoltà che consiste nella reale connessione tra due parti della mia ricerca, quella che riguarda le dinamiche creative collettive e quella della effettiva analisi delle comunità. Quest’ultima rappresenta il momento in cui potrò corroborare o disconfermare la mia ipotesi di esistenza di tali dinamiche, espliciterò in che termini possano emergere e come si esplichino durante il processo di co-costruzione delle conoscenze. La ricerca che sto conducendo mette assieme una tradizione consolidata di studi sulle comunità di pratica con una prospettiva non ancora estesamente esplorata in letteratura legata alle modalità con cui i membri di una comunità di pratica “creano e inventano” la conoscenza teorica, pratica, esplicita e tacita di cui hanno bisogno nelle proprie attività professionali. Spesso tali comunità sono all’interno di una organizzazione che ha essa stessa una propria mission, una vision, degli obiettivi e delle strategie di azione che si intersecano con le attività dei singoli membri delle comunità e delle comunità stesse. Posso affermare che un possibile sviluppo futuro della ricerca si possa presentare in almeno due direzioni, di sicuro interesse per chi si occupa di scienze della formazione: la prima basata sulla trasformazione dei contenuti degli studi etnografici in indicazioni per un intenzionale uso delle comunità volto a sollecitare la creatività collettiva e l’innovazione nelle organizzazioni, la seconda sullo studio e lo sviluppo delle competenze necessarie ad un formatore per dare origine, supportare e gestire tali comunità.
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Ricerche Esperienza e apprendimento: il riconoscimento formale dei saperi acquisiti in contesti informali e non formali Experience and learning: the formal recognition of prior learning acquired in non-formal and informal contexts ANNA SERBATI Il contributo presenta una ricerca che nasce nell’ambito del progetto MOIRC – Modello Operativo Integrato per il Riconoscimento e la Certificazione delle Competenze realizzato pressa la Facoltà di Scienze della Formazione di Padova nel 2010 all’interno di una macro-azione della Regione Veneto sul tema della certificazione delle competenze. La finalità dell’articolo è di fornire alcuni cenni di inquadramento teorico in tema di apprendimento dall’esperienza, la cornice politica europea e nazionale e lo sviluppo del paradigma della competenza, alcune buone prassi di riconoscimento e validazione dei saperi acquisti in ambito non formale e informale. L’articolo presenta poi brevemente il percorso pionieristico realizzato da lavoratori studenti dell’Ateneo di Padova di costruzione di un “portfolio dei risultati di apprendimento” (finalizzato all’individuazione delle competenze maturate ai fini del loro riconoscimento in termini di crediti formativi universitari), la procedura e gli strumenti di monitoraggio e rilevazione delle possibili ricadute operative, formative e istituzionali del modello, in prospettiva di formulare una proposta di costituzione di un servizio di Ateneo dedicato alla validazione e accreditamento dell’apprendimento esperienziale.
This paper presents a research carried out inside the MOIRC project – Operational Integrated Model for Recognition and Certification of Competences, realised at the Science of Education and Training Faculty of Padua University in 2010 within a wider project of Veneto Region in the field of certification of competences. The aim of the paper is to quickly describe the theoretical framework around experiential learning, the European and Italian political views and the development of “competence” paradigm and some best practices in recognition and validation of learning acquired in non-formal and informal contexts.The paper presents the pioneer path, realised by working students of Padua University, of “learning outcomes portfolio” construction (in order to identify competences to be recognised in university’s credits), the process and the tools used for evaluating and noting possible operative, formative and institutional relapses of the model, in order to propose a Service inside Padua University specialised for validation and accreditation of prior experiential learning.
Parole chiave: esperienza, riconoscimento e certificazione delle competenze, esplicitazione, portfolio dei risultati di apprendimento, accompagnatore metodologico
Key words: experience, recognition and certification of competences, learning outcomes portfolio, “explicitation”, academic adviser
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1. Inquadramento teorico della ricerca: l’esperienza generativa di apprendimento La pertinenza sociale della ricerca si inserisce in una prospettiva socio-politica europea, nazionale e regionale in cui il paradigma dell’apprendimento permanente appare non solo consolidato e condiviso, ma elemento chiave per il progresso e lo sviluppo dell’economia e della società civile. Le questioni che appaiono come rilevanti e che costituiscono interrogativi di partenza del progetto di ricerca sono relative a come possa essere riconosciuto e capitalizzato un sapere che sfugge ai contesti tradizionali e con quali processi, modelli, metodologie e strumenti sia possibile riconoscere in modo rigoroso saperi e competenze maturate nell’esperienza e certificarli all’interno di percorsi formali. L’analisi del quadro teorico ha preso avvio dalle teorie dell’apprendimento adulto e dell’apprendimento dall’esperienza qui di seguito sinteticamente descritte e dal contesto politico-legislativo internazionale e nazionale con riferimento in particolare all’istruzione superiore. Nell’odierna prospettiva di lifelong learning che si sta configurando come un orizzonte di senso, una politica, una teoria, un metodo (Alberici, 2008), sembra infatti ormai affermato che l’apprendere umano sia un fenomeno caratterizzato da irriducibile unicità: ogni momento di apprendimento è situato in un contesto e legato ad un’esperienza che ha un carattere di irripetibilità. Appare infatti piuttosto condivisibile e condiviso che l’esperienza nasca dalla vita quotidiana, tuttavia i due termini non coincidono: esistono fatti che accadono, episodi che succedono senza che diventino poi esperienza. Ma cosa intendiamo quindi per “esperienza”? Se in epoca greca per Platone e Aristotele l’esperienza coincideva con una capacità d’azione, ma anche con un potere d’azione dato dalla padronanza acquisita in un particolare ambito, in epoca medievale essa si configurava come fonte del sapere, divenendo quindi un concetto gnoseologico, non più solo legato all’abilità di agire, ma allo sviluppo di conoscenza. In epoca premoderna colui che “aveva esperienza” era ritenuto l’esperto, quella persona che negli anni aveva affrontato situazioni diversificate dalle quali aveva appreso un sapere e una saggezza trasmissibili alle generazioni future; ciò era possibile in virtù di una concezione di sapere fortemente normato dai confini precisi e ritenuto trasmissibile di generazione in generazione. Con la modernità invece il sapere cumulativo è stato sostituito da un sapere reticolare: l’esperienza non è più unica ma molteplice, i percorsi individuali non sono più assimilabili, ma complementari e interconnessi, l’esperienza è caratterizzata da singolarità e personalizzazione, è un percorso concreto e potenzialmente illimitato che l’individuo ha a disposizione, all’interno del quale sceglie ciò che per lui è più significativo e lo rielabora (Bocchi, Ceruti, 2004). Si passa da una concezione d’esperienza ben espressa dal termine Erfahrung, ossia esperienza cumulabile dal soggetto in un viaggio lungo una vita, ad una concezione espressa dalla parola diltheyana Erlebnis, cioè esperienza vissuta, comprensione di sé e del mondo, coscienza di qualcosa ogni volta rinnovata e ripensata in relazione alle precedenti. È in particolar modo con Dewey che si realizza una svolta nel rapporto tra esperienza e conoscenza, nel momento in cui entra in gioco l’educazione: è la capacità di apprendere dall’esperienza e di elaborarla come memoria per il futuro che permette un’attribuzione di significato alla singola esperienza e alle relazioni tra esse. Il pensiero è “esperienza in sviluppo” che parte proprio dall’esperienza stessa. Nella vita quotidiana di oggi fare esperienza ha una configurazione molto diversa rispetto all’epoca moderna ed è caratterizzata da alcuni tratti inconfondibili:
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• la ridefinizione dello spazio e del tempo: il mondo e il cambiamento sono continui e non seguono più una logica lineare, ma il più delle volte pluridirezionata. I confini cognitivi vengono superati e così anche quelli geo-economici, a seguito dei processi di globalizzazione; l’esperienza è nell’hic et nunc, immediata, intensa e fuggevole, perlopiù senza legami con passato e futuro, ma pervade tutte le fasi di vita e gli spazi urbani ed extra-urbani; • la frammentarietà delle esperienze in contesto globale: strettamente connesso alla nuova dimensione spazio-temporale, vi è la grande varietà di esperienze, tra loro diverse, lontane, prive di sicurezza e apparentemente di legami, che necessitano di una costruzione di connessioni e consapevolezze non più immediate; • le innovazioni tecnologiche in maniera rapida e pervasiva hanno mutato il modo di lavorare e il modo di conoscere e rappresentare la realtà. Grazie soprattutto ai media e allo sviluppo della rete informatica, le barriere si sono superate e la percezione della realtà è passata da puntuale a olistica. Tutto è conoscibile in tempo reale, pertanto la mente umana deve cambiare i propri schemi e aprire i propri orizzonti per stare al passo con i tempi. In questa nuova configurazione socio-culturale fare esperienza non può ridursi ad agire, a compiere atti ripetuti, nella concezione che Gehlen (1990) definisce “esonerante”, in quanto la ripetizione di azioni simili comporta una specie di risparmio di energia nell’evitare di porsi ogni volta domande sulla situazione e nel replicare qualcosa di noto: fare esperienza al contrario significa rompere la routine, affrontare dubbi e problematiche intraprendendo strade nuove e costruendo qualcosa che prima non c’era. Mediante l’esperienza ogni persona entra in relazione con il mondo, crea un rapporto con il contesto e con se stesso, generatore di conoscenza: ben lungi dal considerare il “fare esperienza” come l’applicare nella pratica i saperi maturati cognitivamente o, al contrario, come acquisizione induttiva di fatti spontanei della quotidianità privi di riflessione ed elaborazione personale, si considera il fenomeno dell’esperienza come formativo e fondante la costruzione del pensiero. L’esperto, non è dunque solo colui che sa fare e agire, ma chi, in quanto soggetto agente è consapevole di decisioni, ossia sa scegliere tra i mezzi possibili quelli più idonei al raggiungimento del fine prefissato (Conte, 2010). In questa concezione di matrice deweyana e alimentata da numerosi contributi psicopedagogici successivi, l’esperienza risulta essere quello che Reggio (2010) definisce un “quarto sapere”, non aggiuntivo rispetto alla triade di sapere, saper fare e saper essere, ma fondante dell’apprendimento in modo diretto e profondo dalla vita quotidiana in tutti i suoi aspetti, con riflessione e consapevolezza circa l’accaduto e le trasformazioni interne ed esterne generate dall’azione. Se non ogni esperienza genera apprendimento, ogni apprendimento costituisce un’esperienza: l’apprendimento si configura quindi come intrinsecamente esperienziale, come trasformazione compiuta dalla persona dell’aver vissuto fatti e situazioni. Riprendendo Jung (1969) si potrebbe affermare che dalle situazioni si genera apprendimento mediante un continuo movimento di aspetti consci ed inconsci di trasformazione di pensieri ed azioni in conoscenze e saperi; l’avvio di un apprendimento può partire da uno stimolo esterno, da un’idea o da un’emozione, inizialmente confusa, che si presenta al soggetto ma che egli poi analizza per comprenderlo, combinandolo con altri elementi ed altri eventi e integrando i fattori intuitivi con quelli riflessivi e metacognitivi.Viene meno la gerarchia tra conoscenza teorica e pratica e la dimensione emotiva, in passato considerata elemento perturbante, assume un ruolo determinante nel fare esperienza del mondo e di sé; l’esperienza è transazione con l’ambiente e sua successiva elaborazione, “combinazione di passività e attività parallelamente fondamentali” (Labarrère, 1985, p. 113). Non basta agire e fare per apprendere: l’apprendimento prende le mosse da fatti della vita, ma richiede un atteggiamento
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problematizzante e un’elaborazione critica del “materiale della realtà”; qui entra in gioco l’insegnamento che, ben lungi da porsi in antitesi all’apprendimento, costituisce un suo completamento e si configura sempre meno come indottrinamento di contenuti e sempre più come affiancamento per imparare un metodo di lettura e analisi dei fatti. Dewey (1995, p. 47 e 54) sostiene che “è possibile svolgere un’azione efficace e tuttavia non avere un’esperienza consapevole. L’attività è troppo automatica per permettere di avere un’idea di ciò che è in giuoco e della direzione verso la quale si procede. […] L’esperienza è limitata da tutte le cause che interferiscono con le percezioni delle relazioni tra l’agire e il subire. […] Lo squilibrio da uno dei due lati offusca la percezione delle relazioni e lascia l’esperienza parziale e contraffatta.” L’Autore fa riferimento ad un processo complesso e olistico che si gioca tra i poli dell’agire e del ricostruire, leggere e interpretare le relazioni tra le diverse percezioni che si presentano dalla realtà e che coinvolge al contempo le dimensioni pratica, emotiva ed intellettiva senza ordine di gerarchia. Dall’azione pratica si generano situazioni che arrivano alle nostre menti e il cui significato va interpretato ponendolo in relazione con concetti ed esperienze passate, che vengono così rivissute e rielaborate, scomposte e ricomposte per averne una lettura globale ogni volta nuova. In questo modo l’apprendimento si configura chiaramente come fenomeno costruito socialmente: è infatti dal contesto e dalla relazione con altri che il soggetto costruisce significati e dà forma all’esperienza e in questo dialogo capisce e riconosce anche se stesso1. Questa concezione dell’esperienza generativa di apprendimento non è ancora oggi legittimata e riconosciuta universalmente e trova anzi ancora resistenze a fronte di una consolidata tradizione depositaria del sapere, secondo la quale esistono persone detentrici dei saperi con il compito di insegnarli a coloro che invece ne sono sprovvisti. Le resistenze provengono sia dagli insegnanti/formatori, ai quali l’apprendimento dall’esperienza appare ovviamente meno strutturato e più difficilmente governabile, sia dalle stesse persone che apprendono, abituate da un lato a delegare ad altri la gestione del processo dell’imparare e quindi a non prendersene la responsabilità e dall’altro a dare “per scontato” il possesso dell’esperienza, quasi come se aver agito in varie situazioni possa corrispondere ad avere consapevolezza di ciò che si sa e si sa fare. Vi sono tuttavia alcuni approcci che possono essere definibili come affini all’apprendimento esperienziale: uno di questi è il learning by doing con le numerose metodologie didattiche attive – in modo particolare outdoor –, che hanno in comune un forte riferimento alla pratica, il legame con la dimensione contestuale e il richiamo a dimensioni non solo cognitive, ma anche emotive ed affettive, anche se non assumono l’esperienza come criterio fondante, ma rimangono in una cornice “tradizionale” di concezione dell’apprendimento. In secondo luogo, vi è vicinanza con la teoria sociale dell’apprendimento (Wenger, 1998), secondo la quale esso avviene per partecipazione attiva nella pratica di una comunità sociale e nella costruzione di una propria identità in relazione ad essa. La maggiore relazione con l’apprendimento esperienziale si ritrova però negli studi di carattere organizzativo, che si ispirano molto alla valorizzazione dell’esperienza, con approcci attivi e problematizzanti. Il riferimento più significativo è senza dubbio quello di Schön e Argyris (1978) che concentrano la propria attenzione sulla pratica riflessiva dei professionisti come chiave di elaborazione dell’esperienza e di creazione di know-how per l’organizzazione. L’attività lavorativa quotidiana del professionista si fonda infatti sul tacito conoscere nell’azione: in ogni azione
1 Il riferimento è a Buber e alla relazione Io-Tu e alla concezione dialogica del’essere umano. Cfr Buber (1993), Il principio dialogico e altri saggi. Cinisello Balsamo: San Paolo.
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esperta vi è un’attività cognitiva perlopiù non consapevole che necessita di riflessione per far emergere e criticare le tacite comprensioni sorte attorno alle esperienze ripetitive di una pratica specialistica ed eventualmente reinventare un nuovo modo di impostare il problema. In tal modo non si separano pensiero e azione, ragionando sui problemi fino a giungere ad una decisione che successivamente si tradurrà in azione2. In Kolb si ritrova invece una definizione precisa e completa di experiential learning: “offre il fondamento per un approccio all’educazione e all’apprendimento inteso come un processo di formazione continua che è essenzialmente basato nella tradizione intellettuale della psicologia sociale, della filosofia e della psicologia cognitiva3. Offre inoltre una linea guida per esaminare i collegamenti critici tra l’educazione, il lavoro e lo sviluppo personale. Offre un sistema di competenze per descrivere la domanda occupazionale, fare in modo che ad essa corrispondano gli obiettivi educativi […]. Concepisce il luogo di lavoro come un ambiente di apprendimento” e ancora “non rappresenta una terza alternativa a comportamentismo e teorie cognitive, ma una prospettiva olistica integrata sull’apprendimento che combina esperienza, percezione, cognizione e comportamento” (Kolb, 1984). L’apprendimento esperienziale è quindi un processo attraverso il quale alcune conoscenze sono create a partire da una trasformazione dell’esperienza. Si parte dai fatti (esperienza concreta) vissuti in maniera vigile (pronti a problematizzare); li si osserva e ci si riflette, sia durante l’esperienza che dopo, descrivendola (osservazioni e riflessioni); se ne dà un’interpretazione partendo da concetti che rendono esplicite le strutture esplicative, così da poterle estendere anche ad altre situazioni (concettualizzazione astratta); infine si cerca conferma della spiegazione in una nuova situazione (sperimentazione in situazione problematica)4. Ogni persona può giungere a gradi diversi della conoscenza; in ogni caso, l’apprendere richiede sempre e comunque la presenza di una rappresentazione figurativa del mondo che segue il contatto con la realtà del mondo stesso e la sua trasformazione attiva (Di Nubila, Fedeli, 2010, p. 61).
2 Il professionista pone in atto un esperimento di ristrutturazione accompagnato dalla conversazione riflessiva. In ogni fase di un processo di progettazione dell’azione il professionista è posto di fronte a dilemmi che non collimano con le categorie note e le mosse conducono per forza ad esiti problematici. La riflessione su questi esiti dà origine pertanto a nuovi esperimenti con nuovi esiti, che conducono a nuova riflessione e sperimentazione in un processo, appunto, di dialogo con la situazione: il professionista “attinge a qualche elemento del repertorio che gli è familiare, trattando detto elemento come esemplare o come metafora generativa per il nuovo fenomeno. […] Inoltre, quando chi conduce un’indagine riflette sulle similarità che ha percepito, non solo formula nuove ipotesi, ma le verifica attraverso azioni sperimentali che fungono anche da mosse per modellare la situazione e da sonde per esplorarla” (Schön, 1984). 3 Il riferimento è alle teorie di Piaget, Dewey e Lewin, precursori dell’apprendimento esperienziale. 4 Il passaggio da una fase all’altra è caratteristico di un certo tipo di riflessione, a cui Kolb ha dato i nomi di “divergente, assimilatore, convergente e accomodatore”. Per imparare dall’esperienza si dovrebbe, in teoria, percorrere l’intero ciclo. Nella pratica, vi possono essere salti di una fase, ritorni indietro, ripresa di una fase precedente. All’azione dell’esperienza concreta si contrappone la concettualizzazione astratta, costituendo così due polarità di una dimensione che va dal concreto all’astratto; lo stesso avviene per le altre due fasi: alla descrizione (con osservazioni e riflessioni) si contrappone la sperimentazione in situazione problematica. Per questo le tecniche andragogiche sono basate sull’esperienza e sulla ricerca, come il racconto autobiografico, l’analisi di casi, elementi che, dopo la riflessione, siano poi traducibili in nuove azioni concrete nel campo in cui l’adulto è maggiormente coinvolto, quello lavorativo. L’apprendimento adulto non è tanto finalizzato al conoscere per se stesso, quanto piuttosto alla soluzione di problemi di lavoro e di vita: rottura, rielaborazione e ristrutturazione degli schemi sono possibili solo mediante revisione e riflessione su esperienze vecchie e nuove per coglierne gli elementi utili a gestire problematiche presenti e future in maniera ottimale o quanto meno soddisfacente per ogni determinata situazione, in una prospettiva di empowerment. Cfr. M. Knowles (1996). Quando l’adulto impara. Milano: Franco Angeli; M. Knowles (1996), La formazione degli adulti come autobiografia. Milano: Raffaello Cortina.
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2. Il quadro politico-istituzionale della ricerca La dinamica di cambiamento continuo e costante che caratterizza la nostra società odierna, in aggiunta alla crisi che ha colpito la scena politica, istituzionale, economica e sociale mondiale, ha cambiato le dimensioni dell’apprendimento e ha generato un bisogno sempre maggiore di risposta ad esigenze di formazione da parte di contesti pubblici e privati, grandi e piccoli, professionali ed extra-professionali, orientati al profitto e no profit. Tuttavia, la formazione tradizionalmente intesa – aula, lezione, rapporto gerarchico tra chi insegna e chi apprende – si è rivelata inadeguata ad un nuovo modo di essere professionisti e ad un nuovo mercato del lavoro e ha dovuto ripensare nuove strategie di dialogo tra formale, non formale e informale dalla cui interazione si generino saperi trasferibili da un contesto all’altro e professionalità definibili come “competenti”. Il paradigma formativo inteso in modo lifelong e lifewide in tutte le sue diverse manifestazioni si configura quindi al contempo come “regolatore di cambiamento” e “fattore endogeno di sviluppo” (Galliani, 2011a): per il primo aspetto la motivazione sta nel fatto che non si danno innovazione e crescita se non vi è apprendimento, riflessione, presa di decisione e controllo delle situazioni, così per il secondo aspetto la formazione costituisce la chiave dello sviluppo poiché ogni contesto organizzativo è anche contesto educativo in cui prendono forma le identità personali e sociali. Formazione non è più quindi promuovere e insegnare conoscenze per una professione definita, ma diventa elemento complesso di saperi orientati a prestazioni eccellenti in contesti diversi, indicative di una competenza acquisita. L’avvento della competenza ha costituito un significativo cambio di paradigma rispetto al passato: oggi il professionista apprende ben oltre le frontiere dei contesti formativi e fa sintesi della conoscenza che deriva dai contesti formali, dal lavoro, dalla vita di tutti i giorni, riflette e rielabora tali apprendimenti ritraducendoli in azioni nuove in contesti diversi. L’apprendimento formale, non formale e informale5 durante tutto il corso della vita e dell’esperienza professionale si annovera, infatti, secondo Alessandrini (2004) tra i principi fondativi di una pedagogia delle risorse umane e delle organizzazioni, assieme al primato della funzione educativo-formativa del lavoro, al principio dell’intreccio tra formazione-lavoro e apprendimento, al principio dell’attribuzione di senso all’agire professionale come processo irrinunciabile per la persona e al valore dell’autoeducazione come valore-chiave del soggetto adulto. Gli apprendimenti sono fenomeni unici e personali, influenzati dai contesti in cui avvengono, siano essi formali, non formali e informali; non vi è (o non vi dovrebbe essere) una gerarchia legata al luogo in cui avviene l’apprendimento, riconoscendovi pari dignità ai saperi “comunque e ovunque acquisti” come recita il documento dell’Unione Europea del 2001. Galliani (2011b) riporta, riprendendo Bourdieu (1972) e Le Boterf (2000), che nella ricerca psico-socio-pedagogica la competenza non è più la somma di conoscenze teoriche e abilità pratiche, ma anche orchestrazione dei piagetiani “schemi di azione” integrati in abiti in grado di “generare una infinità di pratiche adattate a situazioni sempre rinnovate” e soprattutto mobilitazione e combinazione di “un insieme pertinente di risorse” interne stabili (disposizioni motivazionali, etiche, sociali, valoriali) per gestire una famiglia di situazioni professionali (definita da attività-chiave) che rispondono ad esigenze esterne e conducono
5 Le definizioni di apprendimento formale, non formale e informale si ritrovano nel “Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente”, varato dalla Commissione delle Comunità Europee nel 2000, nella successiva Comunicazione della Commissione delle Comunità Europee (2001), Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente e sono riprese nelle Linee Guida del Cedefop del 2009.
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a produrre risultati (prodotti, servizi) atti a soddisfare criteri specifici di prestazione per i destinatari. Data la natura contestuale e complessa delle competenze che risultano essere “proprietà emergenti” (Cepollaro, 2008) frutto di un processo di creazione spontaneo, si è posto il problema di come ricondurre un’esperienza di apprendimento soggettiva che coinvolge in profondità stati emotivi e cognitivi del singolo con la necessità di avere formulazioni omogenee e standardizzate della competenza come linguaggio di dialogo e scambio intra e intersoggettivo nel mondo della scuola e dell’università e nel mondo del lavoro. Il riconoscimento della competenza appare quindi come un “percorso” (Ricoeur, 2005) che coinvolge se stessi e gli altri e che richiede nuove alleanze e nuove negoziazioni tra gli attori menzionati. Si pone quindi l’interrogativo chiave di come si possano riconoscere e valutare le competenze, quali siano i modelli teorici e quindi gli strumenti e le metodologie, gli attori e i professionisti chiamati in causa. Si riscontra già nel Libro Bianco “Insegnare e apprendere verso la società conoscitiva” di Cresson (1995, p. 57) la problematica del riconoscimento delle competenze, con la proposta di creare una tessera personale delle competenze che permettesse a chiunque di far riconoscere le proprie conoscenze e competenze in tutta l’Unione europea, creando una rete di accreditamento in cooperazione tra istituti superiori, settori professionali, imprese. La Dichiarazione della Sorbona del 25 Maggio 1998 ha posto in particolare l’accento sul ruolo centrale delle Università per lo sviluppo della dimensione culturale europea ed ha individuato nella costruzione di uno spazio europeo dell’istruzione superiore uno strumento essenziale per favorire la circolazione dei cittadini, la loro occupabilità, lo sviluppo del Continente: con l’utilizzazione dei crediti ECTS diviene possibile “convalidare i crediti acquisiti per coloro che scelgono di iniziare o continuare la propria formazione in Università europee differenti o che desiderano acquisire titoli accademici in qualsiasi momento della loro vita. Gli studenti dovranno poter entrare nel circuito universitario in qualsiasi momento della loro vita professionale e provenendo dagli ambiti più diversi”. La direzione assunta dalle numerose riforme dell’istruzione superiore intraprese nel frattempo in Europa ha dimostrato la determinazione di diversi Governi di operare concretamente in tal senso. Il “Processo di Bologna” (1999) si inserisce in questo percorso e rappresenta un significativo tentativo dei ministri europei responsabili per l’istruzione di trasformare la formazione universitaria europea in un sistema più omogeneo ma soprattutto più competitivo e più attraente sia per gli studenti europei che per quelli provenienti da altri continenti6. Gli obiettivi perseguiti sono quelli di garantire la trasparenza e leggibilità dei percorsi formativi e dei titoli di studio, la possibilità concreta per studenti e laureati di proseguire agevolmente gli studi o trovare un’occupazione in un altro paese europeo, una maggiore capacità di attrazione dell’istruzione superiore europea nei confronti di cittadini di paesi extra europei e l’offerta di un’ampia base di conoscenze di alta qualità per assicurare
6 Esso consiste in un processo di riforma a carattere europeo che si propone di realizzare entro il 2010 uno Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore.Vi partecipano 46 paesi europei, con il sostegno di alcune organizzazioni internazionali. Si tratta di un grande sforzo di convergenza dei sistemi universitari dei paesi partecipanti che sta coinvolgendo direttamente tutte le istituzioni europee e le loro componenti. A livello internazionale i Ministri dell’Istruzione dei paesi partecipanti si incontrano ogni due anni per valutare i risultati raggiunti, formulare ulteriori indicazioni e stabilire le priorità per il biennio successivo. Dopo il primo incontro a Bologna nel 1999, i Ministri si sono riuniti a Praga nel 2001, a Berlino nel 2003, a Bergen nel 2005, a Londra nel 2007, a Lovanio nel 2009 e a Budapest/Vienna nel 2010. Si veda: http://www.bdp.it/processobologna/content/index.php?action=read_cnt&id_cnt=5718
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lo sviluppo economico e sociale dell’Europa. Nel 2005 i ministri decidono di adottare l’European Qualification Framework for the European Higher Education Area7, allo scopo di organizzare il percorso regolare in tre cicli, di adottare un sistema di crediti e di descrivere i percorsi tramite descrittori (i descrittori di Dublino). Qualche anno più tardi, nel 2008, la Commissione Europea, preoccupata di trovare uno strumento di dialogo tra formazione universitaria e formazione professionale, propone l’ European Qualification Framework for Life Long Learning con la finalità di costruire un dispositivo per facilitare la leggibilità in Europa dei titoli nazionali e promuovere la mobilità dei lavoratori e di coloro che percorrono un proprio cammino di apprendimento. Esso riguarda l’istruzione scolastica, la formazione professionale, l’istruzione superiore tecnica e universitaria e si basa su 8 livelli descritti in termini di “risultati dell’apprendimento”, cioè conoscenze, abilità e competenze (i tre descrittori di livello). Per quanto riguarda la competenza, l’EQF la definisce come “comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale” e la descrive in termini di “responsabilità e autonomia” via via crescenti man mano che si sale negli otto livelli che rappresentano i risultati di apprendimento relativi alle certificazioni previste dal sistema scolastico e universitario. Come giustamente rileva Luzzatto (2011, p. 36), nell’allegato della Raccomandazione si afferma che i livelli definiti dall’EQF presentano una compatibilità con il Quadro dei titoli accademici dell’Area Europea dell’Istruzione Superiore, con una corrispondenza tra il livello 6 al 1° ciclo di Bologna, il livello 7 e il 2° ciclo, il livello 8 e il dottorato, ma permane per chi opera per rendere sempre più forte il carattere student-centred dei corsi di studio universitari una difficoltà generata da tale duplicità di indicazioni secondo un approccio da un lato centrato su titoli di studio e dall’altro sulle competenze comunque acquisite. L’università italiana con la riforma dei cicli di laurea (D.M. 509/99) e con il successivo D.M. 270/2004 ha seguito e sta seguendo, in coerenza con le direttive europee, un percorso di trasformazione della didattica e della valutazione in direzione di un’offerta formativa orientata alle competenze con una progettazione dei risultati di apprendimento attesi e degli sbocchi occupazionali, con modalità di insegnamento laboratoriali partecipative e con modalità d’esame basate sull’integrazione di eterovalutazione e autovalutazione (per favorire una reale presa di consapevolezza dell’apprendimento intercorso da parte degli studenti) allineate rispetto ai risultati di apprendimento attesi del singolo insegnamento e del corso di studi (Biggs, 2003). Con le linee di indirizzo della conferenza di Napoli del 2007 dal titolo “L’università e l’apprendimento permanente” sono stati definiti in maniera più specifica gli orientamenti accademici in tema di riconoscimento delle competenze esperienziali: nel documento si fa riferimento alla necessità di riconoscimento delle esperienze e competenze apprese in altri contesti, allo sviluppo di corsi universitari (sia corsi di laurea che corsi di formazione post laurea, come i Master, i perfezionamenti, i moduli certificati) più flessibili nella durata, nei contenuti e nelle metodologie (ad esempio integrando metodologie in presenza con metodologie e-learning) per corrispondere a percorsi più specializzati e alle esigenze di professionalizzazione di adulti lavoratori e alla necessità di creazione di Centri per l’Apprendimento Permanente. Recentemente però con la Riforma Gelmini, che ha comportato una significativa razionalizzazione dell’offerta formativa e riduzione delle risorse, si è abbassato a 12 il numero
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Bologna Working Group on Qualifications Frameworks (2005) A Framework for Qualifications of the European Higher Education Area, published by: Ministry of Science, Technology and Innovation, Bredgade 43, DK-1260 Copenhagen K. Printed by: Grefta Tryk A/S. Scaricabile da: http://www.vtu.dk
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di crediti riconoscibili con percorsi di validazione dell’esperienza, già ridotti a 60 dal Decreto Mussi, costituendo un passo indietro rispetto alle direttive europee in materia e il rischio di perdita di talenti derivante dalla mancata inclusione di larghi strati della popolazione nei processi di istruzione e formazione con le conseguenti problematiche pedagogiche di equità, uguaglianza e diritto all’apprendimento (Di Rienzo, 2010). Nelle linee guida della Commissione Europea il riconoscimento dell’apprendimento non formale e informale permane invece un obiettivo importante da perseguire: come dichiarato nella Comunicazione “Europa 2020 - Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva” vengono infatti decise sette iniziative per raggiungere appunto una crescita intelligente (L’Unione dell’Innovazione, Youth on the move e Un’agenda europea del digitale), sostenibile (Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse e Una politica industriale per l’era della globalizzazione) ed inclusiva (Un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro e Piattaforma europea contro la povertà). Nella seconda iniziativa faro sopraccitata per raggiungere l’obiettivo di aumentare l’attrattiva internazionale degli istituti europei di insegnamento superiore e migliorare la qualità generale di tutti i livelli dell’istruzione e della formazione nell’UE viene citata esplicitamente la promozione del riconoscimento dell’apprendimento non formale e informale e nella penultima iniziativa faro si fa inoltre esplicito accenno alla creazione di uno strumento operativo comune per l’istruzione/formazione e l’attività lavorativa: un quadro europeo per le capacità, le competenze e l’occupazione (European Skills, Competences and Occupations framework - ESCO) finalizzato a rendere riconoscibili le competenze necessarie per il proseguimento della formazione e l’ingresso nel mercato del lavoro e in tutti i sistemi di insegnamento generale, professionale, superiore e per adulti. Un importante riferimento per le università per andare in questa direzione è EUCEN8, la più grande associazione multidisciplinare in University Lifelong Learning registrata a Bruxelles come organizzazione non governativa no profit che consta di 222 membri di 43 differenti Paesi e che si occupa proprio di dare supporto allo sviluppo e alle politiche di lifelong learning nell’istruzione superiore.
3. VAE e APEL: due approcci e pratiche per il riconoscimento e la validazione dei saperi informali e non formali9 Nello sviluppo delle politiche di lifelong learning si constata come si siano affermati in ambito americano ed europeo modelli e strumenti per riconoscere e validare l’esperienza. Il processo
8 http://www.eucen.eu/. La tematica del riconoscimento degli apprendimenti dell’esperienza è cara anche all’EUA, European University Association, che ha redatto la European universities charter on lifelong learning, recentemente tradotta dalla costituenda Rete Universitaria Italiana per l’Apprendimento Permanente – RUIAP http://www.ruiap.it/ 9 A seguito dell’analisi del quadro teorico e politico sul tema, lo studio delle teorie di riconoscimento e validazione dei saperi esperienziali si è concentrato sulle linee metodologiche proposte e sviluppate a livello europeo e sui modelli maggiormente avanzati e sviluppati, ossia la Validation des Acquis de l’Expérience francese e l’Accreditation of Prior Experiential Learning inglese: per entrare maggiormente in profondità rispetto ai principi ispiratori, alle tecniche, alle professionalità e agli strumenti utilizzati sono state condotte sei analisi di caso di buone prassi francesi e britanniche, realizzate mediante soggiorni di ricerca, interviste a referenti, studio di testi e materiali di lavoro di università dei due Paesi interessati. Le università inglesi oggetto dei casi studio sono Middlesex University, Glasgow Caledonian University e Teesside University, mentre quelle francesi sono le Università di Paris III, Paris VIII e Lille.
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di validazione degli apprendimenti è definibile come “il processo di identificare, valutare e riconoscere un’ampia gamma di abilità e competenze che le persone sviluppano nell’arco della loro vita e in diversi contesti, ad esempio attraverso l’educazione, il lavoro e le attività del tempo libero” (Colardyn, Bjornavold, 2004, p. 71) e può portare ad una certificazione da parte di un ente competente che attesta che i risultati di apprendimento (conoscenze, abilità e/o competenze) acquisiti da una persona in ambito formale, non formale e informale sono stati valutati secondo criteri predefiniti e sono conformi alle esigenze di una validazione basata su standard. Tra i metodi più diffusi mappati da una classificazione ECOTEC del 2007 (Souto Otero, Hawley, Nevala, 2008) si ritrovano primo fra tutti il portfolio, a seguire il dibattito, i metodi dichiarativi, le interviste, l’osservazione, cui se ne possono aggiungere altri come presentazione, simulazione e prove in situazioni lavorative, test ed esami (Werquin, 2010).Tutti questi devono rispettare alcuni criteri (Cedefop, 2009) quali la validità, l’attendibilità, l’imparzialità, la capacità dello strumento di permettere ai valutatori di giudicare l’ampiezza e lo spessore degli apprendimenti del candidato, la funzionalità per l’uso valutativo che era stato previsto. Sono soprattutto le metodologie qualitative di carattere narrativo, biografico e riflessivo ad avere maggiore diffusione, soprattutto perché permettono alle persone di esplicitare i loro processi di significazione, creando consapevolezza: la narrazione strutturata e guidata all’analisi di quei vissuti esperienziali che hanno generato apprendimento di saperi, dei successi e degli insuccessi e delle loro cause, dei ragionamenti messi in opera, dei saperi teorici effettivamente utilizzati nella pratica, delle rappresentazioni e dei preconcetti fonti di difficoltà persegue la finalità di individuare le competenze, riconoscibili in primis dal soggetto e quindi anche dagli altri (Serbati, 2011). La narrazione dettagliata delle esperienze e delle azioni in esse realizzate trova un valido riferimento teorico nell’intervista di esplicitazione di Vermersch (2005), tecnica che mira a creare le condizioni necessarie alla presa di coscienza e alla successiva produzione di una descrizione precisa, dettagliata e fedele dello svolgimento dell’azione. Il processo riflessivo e autobiografico ha valenza trasformativa (Lichtner, 2008) proprio perchè fa riemergere momenti passati e a volte elementi nascosti e apparentemente dimenticati10 tra i quali stabilire nuove connessioni generando nuove coerenze e prospettive. Lo strumento del portfolio, infatti, oltre a configurarsi come un prodotto finale, un inventario di documenti, una sorta di curriculum vitae molto dettagliato sotto forma di dossier personale che può essere presentato a terzi, si configura come un processo, una pratica (Rossi, 2002, p. 14) narrativa di riflessione e autovalutazione approfondita in cui la persona analizza la propria esperienza formativa, professionale ed extra-professionale passata allo scopo di rintracciare i saperi in essa maturati, prendendo così consapevolezza delle competenze maturate. Il processo è guidato dall’accompagnatore metodologico, che ha il compito di stimolare il processo fungendo da mediatore – tra il soggetto e la sua esperienza –, da facilitatore – nel riconoscimento, nella verbalizzazione e nella presa di consapevolezza delle competenze possedute, acquisite e mobilitate – e da guida – in questo percorso di ricerca e costruzione di senso del passato, del presente e del futuro (Zaggia, 2011, p. 237), nella ricerca di legami e connessioni tra saperi acquisiti in modo formale, non formale e informale, della documentazione delle proprie competenze (prove ed evidenze) e nella sistematizzazione delle competenze in modo da poter essere presentate ad una terza persona (in vista di un inserimento professionale o di un percorso formativo).
10 Demetrio parla di alterità dell’io nella riflessione autobiografica, riferendosi proprio a questi elementi nascosti che riemergono nel racconto e che sembrano quasi “altro” da chi narra, costituendosi come nuova identità che si integra con quella già consapevole alla persona. Cfr. D. Demetrio (1990). L’età adulta. Roma: NIS e D. Demetrio (1995). Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. Milano: Raffaello Cortina.
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Nel quadro attuale, rispetto alle buone pratiche esistenti, si possono distinguere due direttrici di modelli e quindi di strumenti per riconoscere e validare l’apprendimento esperienziale: da un lato quella francofona di matrice sociale, ispirata al diritto di ottenere un titolo e/o una qualifica anche se non in possesso dei requisiti richiesti dai sistemi di formazione e istruzione, e dall’altra quella anglofona, mossa da istanze sociali ma anche economiche, che prevede il riconoscimento parziale delle competenze acquisite perlopiù in contesti professionali. Per quanto riguarda la prima direttrice11, la Francia è senza dubbio il Paese in cui la Validation des Acquis de l’Expérience (VAE) ha trovato un proprio spazio non solo nella cultura e nelle prassi ma anche nella normativa: con la legge di modernizzazione sociale del 2002, infatti, ogni cittadino con almeno tre anni di esperienza può far domanda di riconoscimento degli apprendimenti pregressi per ottenere una qualifica professionale o accademica (Pirot, 2007), un titolo o certificato registrati nel Repertorio Nazionale di Certificazione Professionale (RNCP). Il dispositivo antecedente a quello VAE risale al 1985 ed è relativo alla Validazione delle Acquisizioni Personali e Professionali (VAPP) che, coerentemente con la terza mission attribuita all’università nella legge d’indirizzo del 1984 (oltre a quella della didattica e della ricerca) ossia la formazione continua, prevede il diritto di accesso a qualsiasi livello accademico anche se non in possesso dei requisiti e titoli necessari, in virtù del riconoscimento del sapere acquisito e prodotto al di fuori dell’educazione formale derivante perlopiù dall’esperienza personale o professionale. Il Decreto promuove pertanto il reingresso degli adulti usciti dal sistema di formazione iniziale (e pertanto privi di diploma) da almeno 2 anni e con età superiore ai 20 anni nell’istruzione superiore, riconoscendo quindi pari valore e dignità ai saperi dell’esperienza. Con la legge del 2002 vi è un ulteriore passo avanti in tema di riconoscimento dei saperi derivanti dall’esperienza: essa infatti permette l’ottenimento di un intero titolo e ha quindi valore certificativo12, garantendo inoltre al lavoratore un congedo di 24 ore per effettuare la convalida. Sebbene ogni organismo certificatore sia responsabile dell’organizzazione e dell’erogazione dei propri servizi di VAE, le procedure rispettano un processo molto simile, di cui si dà disposizione nella stessa legge del 2002. Una prima fase informativa è gestita dai Points Relais Conseil (PRC), organismi specificamente dedicati all’orientamento alla VAE13, e le tappe del percorso sono le seguenti:
11 In questa sede si vuole fornire solo qualche sintetico accenno al dispositivo VAE: per approfondimenti si rimanda a I. Cherqui Houot I. (2004), Validation des acquis de l’expérience et universités, quel avenir? Paris: L’Harmattan; M. Farzad, S. Paivandi (2000): Reconaissance et Validation des acquis en formation. Paris: Anthropos; A. Lainé (20062). VAE, quand l’expérience se fait savoir. L’accompagnement en validation des acquis. Ramonville Saint-Agne: Éditions Érès; S. Adjas (2006). La VAE, quand l’expérience vaut le diplôme. Paris: Les Edition Demos; J. Aubret, P. Gilbert (2003). Valorisation et validation de l’expérience professionnelle. Paris: Dunod; M.C. Pirot (2007), Reconnaissance, validation et expérience. Pratique de la “VAE”, “RAEP” et autre validations d’acquis. Paris: Presses Universitaires du Septentrion. 12 Sono riconoscibili attraverso la VAE i diplomi, i titoli e i certificati di qualifica professionale registrati nel Repertorio Nazionale delle Certificazioni Professionali, controllato e aggiornato da un’apposita Commissione Nazionale di Certificazione Professionale. 13 Spesso sono anche le singole istituzioni a predisporre nei propri siti appositi spazi dedicati alle informazioni circa le procedure VAE, con relativi adempimenti e costi.
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1. colloquio preliminare, momento in cui la persona sceglie il percorso di convalida e il titolo per cui presentare la domanda; 2. valutazione di “ricevibilità” della domanda, in cui il certificatore esamina la richiesta del candidato, presentata mediante un dossier di candidatura, e ne accerta i requisiti di ammissibilità (il candidato deve possedere almeno tre anni di attività remunerata o volontaria e l’esperienza deve correlarsi direttamente con i learning outcomes del curricolo scelto); 3. accompagnamento e stesura del dossier di analisi dell’esperienza: dopo l’iscrizione all’università, la persona può quindi presentare la domanda di convalida corredata di dossier VAE, nel quale il candidato descrive le attività esercitate, analizza la sua pratica professionale, riflette e descrive ciò che ha appreso; il candidato può disporre di un accompagnamento metodologico per l’elaborazione del dossier14 di validazione e la preparazione all’intervista con la giuria, costituito da incontri individuali, di gruppo e atelier pedagogici; 4. delibera della Giuria e conseguente convalida totale o parziale: la giuria (composta per la maggioranza da docenti, ma anche da professionisti del mestiere interessato dal titolo) esamina il dossier e i documenti allegati, convoca il candidato per un colloquio (e in alcuni casi può chiedere anche una prova reale o simulata) e decide per il rigetto della procedura o per la convalida totale o per la convalida parziale del titolo (caso in cui deve anche informare sulle conoscenze, attitudini e competenze oggetto di valutazione ulteriore per il raggiungimento della certificazione richiesta che il candidato ha 5 anni di tempo per ottenere). Per quanto riguarda la seconda direttrice15, il Regno Unito si configura con un insieme di quadri di riferimento per la formazione professionale e per l’istruzione superiore e con un insieme di approcci e strumenti per l’Accreditation of Prior Experiential Learning (APEL) diversificati tra le istituzioni, in una logica bottom up.Tali dispositivi hanno fatto la loro comparsa negli anni Ottanta, nel momento espansionistico dell’istruzione superiore e dell’avvento delle National Vocational Qualifications per la formazione professionale e si sono sviluppati negli anni seguenti in modo però disomogeneo nelle istituzioni; nel 1986 c’è stata una formale legittimazione da parte del Council for National Academic Awards (CNAA) e una sua successiva diffusione durante gli anni Novanta in un contesto politico favorevole teso ad ampliare l’accesso all’istruzione superiore da parte degli studenti in età matura, riconoscendo i loro risultati professionali e fornendo una base alternativa per proseguire negli studi universitari.
14 Il dossier è composto di più parti: in quella iniziale il candidato motiva e specifica la scelta del diploma VAE e descrive il proprio percorso formativo, professionale ed extra-professionale allegandone le prove documentali; nella seconda parte presenta dettagliatamente le attività svolte, le mansioni, le abilità e competenze maturate nelle proprie esperienze; nella parte finale allega la propria storia professionale ed eventuali ulteriori informazioni utili. È importante che nel dossier emergano l’analisi e la riflessione che il candidato fa sulla natura e i limiti dei saperi acquisiti, poichè è tale riflessione che induce il candidato a modificare la consapevolezza delle sue conoscenze e che lo aiuta a capire come ha imparato ad apprendere. 15 In questa sede si vuole fornire solo qualche sintetico accenno al dispositivo APEL e per approfondimenti si rimanda a: S. Simosko (1991). APL: accreditation of prior learning: a practical guide for professionals. London: Kogan Page; L. Nyatanga, D. Forman J.A. Fox (1998). Good practice in the accreditation of prior learning. London: Cassell Education; J. Harris (2000). Re-visioning the boundaries of learning theory in the assessment of prior experiential learning (APEL). SCRUTEA 30th Annual Conference; Quality Assurance Agency for Higher Education (2004). Guidelines on the accreditation of prior learning; D. Portwood, J. Garnett, C. Costley (2004). Bridging rhetoric and reality: accreditation of prior experiential learning (APEL) in the UK. Bolton: Universities Vocational Awards Council; M. Reynolds, R.Vince R (2007). Handbook of experiential learning and management education. Oxford: Oxford University Press.
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Secondo la Quality Assurance Agency in Higher Education (QAA) vi sono alcune differenziazioni anche terminologiche per esprimere il riconoscimento degli apprendimenti pregressi: accreditation of prior learning (APL) è l’espressione generica di accreditamento di apprendimenti pregressi, accreditation of prior experiential learning (APEL) fa riferimento fa riferimento all’accreditamento degli apprendimenti esperienziali pregressi, mentre accreditation of prior certificated learning (APCL) riguarda apprendimenti certificati in precedenza (ad esempio derivanti da percorsi formali frequentati), accreditation of prior certificated and/or experiential learning (AP[E/C]L) è l’accreditamento di apprendimenti certificati e/o esperienziali pregressi, accreditation of prior learning and achievement (APL&A) si riferisce ad apprendimenti e risultati pregressi. In tutti i casi, ciò che si accredita è il prodotto dell’apprendimento, non meramente l’esperienza condotta. Un’altra espressione frequente, utilizzata in particolar modo dalla Qualification and Curriculum Authority (QCA), è recognition of prior lerning (RPL), il cui principio regolatore è la comparazione di conoscenze, abilità e competenze del candidato con gli standard del Qualification and Credit Framework, che corrispondono a singole unità di valutazione. Il Southern England Consortium for Credit Accumulation and Transfer (SEEC, 2003) ha prodotto nel 1996 un codice di condotta per l’uso di APEL (successivamente approvato da 38 istituti di istruzione superiore), cercando di uniformare il più possibile le definizioni adottate, l’assicurazione della qualità e della trasparenza dei processi e delle procedure, l’accessibilità delle informazioni, la distribuzione di ruoli e responsabilità, la valutazione delle “evidenze” portate dal candidato. Le tappe di una procedura APEL sono, pur nell’autonomia di ogni istituzione, le seguen16 ti : 1. richiesta, da parte del candidato, delle informazioni necessarie per attivare il procedimento e primo contatto con gli enti certificatori; 2. presentazione del profilo del candidato, raccolta delle “evidenze” a dimostrazione del possesso di alcune competenze e autovalutazione; 3. elaborazione del portfolio che raccoglie la documentazione sulle evidenze e opportune riflessioni17 con il supporto dell’academic adviser; 4. valutazione delle evidenze ad opera di un panel di esperti (perlopiù si tratta di due docenti verificatori) in relazione agli standard previsti con convocazione facoltativa del candidato per un colloquio; 5. certificazione delle competenze riconosciute e feedback al candidato sulle possibilità di sviluppo.
16 Prerequisito essenziale della procedura è la volontarietà del learner, a cui devono essere forniti, da parte di esperti, supporto e guida adeguati. Il procedimento e i criteri di valutazione devono essere chiaramente definiti ed esplicitati prima dell’inizio della procedura. 17 Sebbene esistano altri strumenti di valutazione (elaborazione di progetti e diari, performance, compiti od esami, produzioni di artefatti o interrogazioni), il portfolio è il più diffuso; esso è costituito generalmente da un curriculum vitae che riporta sinteticamente l’istruzione formale ricevuta e le esperienze lavorative. Segue, per ciascuna esperienza, una job description, ovvero una descrizione dei reali compiti e mansioni svolti durante l’attività lavorativa. Il cuore del portfolio è costituito dalle aree di apprendimento, che hanno lo scopo di esplicitare quanto il candidato abbia appreso in termini di conoscenze, abilità e competenze a seguito delle esperienze precedentemente descritte; per ciascuna competenza di cui si richiede la certificazione, vanno inserite le “evidenze” a supporto della richiesta e una riflessione sui saperi posseduti.
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4. L’impostazione metodologica della ricerca L’analisi dei principali riferimenti teorici e delle direttive europee e soprattutto lo studio delle buone pratiche francesi e inglesi ha permesso di chiarire e comprendere alcuni elementi del processo di riconoscimento e certificazione delle competenze, come l’articolazione della procedura e del processo di analisi dei saperi e d’individuazione delle competenze affinché possano essere riconosciute in termini di crediti formativi universitari, il ruolo di guida dell’accompagnatore metodologico (Aubret, 2009; Lainè, 2006;Veilhan; 2008), il valore formativo dell’esplicitazione dell’esperienza (Vermersch 2005) e della capitalizzazione della propria esperienza e delle competenze in essa apprese, la valenza e le modalità di utilizzo del portfolio (Pellerey, 2000;Varisco, 2004; Ruffini – Porzio 2004; Aubret, 2001; Sansregret, 1984; Deiro, 1983; Capperucci 2007), l’importanza di una progettazione dei corsi di studio dell’istruzione superiore per risultati di apprendimento (Zaggia, 2008) che permetta di confrontare i saperi che il lavoratore studente ha acquisito nelle precedenti esperienze formative, professionali ed extra-professionali con i saperi perseguiti attraverso gli insegnamenti e le attività curricolari. Con queste basi teoriche è stato possibile costruire un modello di validazione dei saperi esperienziali applicato nell’ambito del progetto MOIRC – Modello Operativo Integrato per il Riconoscimento e la Certificazione delle Competenze finanziato dalla Regione del Veneto nell’ambito del Fondo Sociale Europeo POR 2007-2013 Asse IV – Capitale Umano (azioni di sistema per la realizzazione di strumenti operativi a supporto dei processi di riconoscimento, validazione e certificazione delle competenze) e gestito dalla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova. La presente ricerca si iscrive proprio su tale progetto regionale, inquadrandosi pertanto in una macro-azione sul tema realizzata nell’annualità 2010-11 dalla Regione del Veneto, con la volontà di dare un proprio contributo scientifico alla comunità di studio su tali tematiche e di offrire spunti di riflessione sulle possibili azioni da intraprendere nel contesto di riferimento, in vista della creazione di dispositivi e servizi accademici – basati su opportuni standard di accreditamento e strumenti metodologici di accompagnamento individuale creati ad hoc – di riconoscimento e certificazione delle competenze maturate in ambito non formale e informale, finalizzate all’inserimento in un percorso di studi o nel mondo del lavoro. Il progetto18 ha previsto il coinvolgimento di 5 corsi di laurea e laurea magistrale dell’Ateneo Patavino all’interno dei quali sono stati selezionati 44 lavoratori studenti che hanno partecipato ad un percorso sperimentale di validazione dei saperi esperienziali preparando un portfolio dei risultati di apprendimento in cui hanno analizzato mediante schede guidate il proprio percorso formativo, professionale ed extra-professionale e le competenze in essi maturate, rintracciando opportune evidenze documentali, con supporto metodologico individualizzato da parte di accompagnatori appositamente formati. I portfoli sono stati valutati da una commissione di docenti del Corso di Laurea di appartenenza in cui ciascuno studente era iscritto e sono stati riconosciuti i crediti formativi ritenuti opportuni in base alla comparazione tra learning outcomes dichiarati dagli studenti e i learning outcomes attesi dalle singole unità/insegnamenti. La strategia di ricerca che si è ritenuta più opportuna si richiama al paradigma interpretativista con intento idiografico che può penetrare e comprendere la complessa questione
18 Per approfondimenti si rimanda alla pubblicazione di progetto: L. Galliani, C. Zaggia, A. Serbati (Eds.) (2011). Adulti all’università. Bilancio, portfolio e certificazione delle competenze. Lecce: Pensa MultiMedia.
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dell’apprendimento esperienziale e della valutazione delle competenze così acquisite per poter proporre un servizio rigoroso di riconoscimento di crediti in percorsi formali per saperi guadagnati in ambiti informali e non formali. Si è scelto un approccio qualitativo all’indagine con triangolazione delle tecniche e delle fonti (Trinchero, 2004): il piano degli strumenti prevede l’utilizzo di questionari somministrati ai lavoratori studenti ex ante, in itinere ed ex post rispetto al percorso di compilazione del portfolio, l’utilizzo delle schede testuali riflessive dei portfoli, la redazione di un diario da parte dell’accompagnatore metodologico. Sulla base dei dati emergenti dall’analisi di queste fonti, per approfondire gli elementi significativi e problematici e le ricadute formative del modello, è prevista la realizzazione di interviste semi-strutturate alle tre categorie di soggetti coinvolti. Per ciascuno dei tre soggetti d’indagine, l’integrazione degli strumenti permetterà di indagare tutte le dimensioni d’interesse per la ricerca, che sono state e saranno tradotte in indicatori misurabili (Corbetta, 2003) ai fini della costruzione degli strumenti, riportate sinteticamente di seguito: • a proposito dei lavoratori studenti, le due macroaree d’indagine riguardano da un lato la dimensione formativa del percorso, in termini di ricaduta sul modo di apprendere, sul grado di consapevolezza del sapere, sul proseguimento nel percorso accademico, sul valore dell’esperienza per l’acquisizione di competenze, sulle successive scelte professionali, e dall’altro la dimensione operativa, che concerne l’efficacia percepita del percorso, l’ utilità e difficoltà delle singole schede portfolio, le pre-conoscenze e post-conoscenze a proposito di questi temi e di questi strumenti, l’ottenimento o meno di crediti formativi; • in merito ai soggetti accademici, ovvero Presidenti e docenti dei corsi di laurea e membri delle commissioni di valutazione dei portoli, le aree d’indagine sono le pre-conoscenze e post-conoscenze sulla tematica, sulla metodologia e sugli strumenti, le criticità e gli aspetti migliorabili, la sostenibilità del percorso e dello strumento e le ipotesi di ricadute sull’offerta formativa, la valenza formativa del percorso, la trasferibilità della metodologia e del dispositivo in Ateneo; • terzi soggetti coinvolti sono gli attori istituzionali a livello internazionale (Presidente uscente EUCEN), nazionali (responsabili/delegati dell’Ateneo di Padova e di altri Atenei per la formazione permanente e Presidenti di CAP) e regionali (Direzione Lavoro, finanziatrice dei progetti Asse Capitale Umano): le aree di indagine sono legate all’interesse politico e legislativo di maggiore flessibilizzazione dell’accesso universitario per studenti adulti lavoratori, alle ipotesi di dialogo tra istruzione/formazione e lavoro, alle prospettive di implementazione di un servizio di riconoscimento crediti per competenze esperienziali. La ricerca (visto il numero limitato di partecipanti) non ha naturalmente l’obiettivo di ricavare delle generalizzazioni, ma di proporre un modello trasferibile in contesti analoghi19 (Galliani, Costa, 2000): la proposta di metodologia e strumenti potrebbe infatti costituire
19 Galliani identifica due criteri che favoriscono la trasferibilità di un modello (prodotti e processi) in contesto analogo: la leggibilità dei risultati e la contestualizzazione nelle situazioni educative. La prima implica una formalizzazione delle conoscenze acquisite su teorie e percorsi di riconoscimento dell’esperienza e delle metodologie di lavoro applicabili, in modo che sia garantito un certo rigore procedurale dato dagli strumenti e dalla loro combinazione ragionata. La contestualizzazione nelle diverse situazioni educative è data dal monitoraggio del processo con strumenti e tecniche costruiti su indicatori di efficacia percepita e reale: pur proponendo processi e metodi simili, lo svolgimento di un’attività di riconoscimento dei saperi esperienziali ha un decorso unico con le proprie peculiarità, che vanno valorizzate e regolate mediante strumenti di valutazione ex ante, in itinere ed ex post.
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una buona pratica e un esempio per l’implementazione e la messa a regime di un vero e proprio dispositivo dedicato al riconoscimento e accreditamento dei saperi esperienziali, che si costituirebbe nel sopraccennato CAP – Centro per l’Apprendimento Permanente. In un sistema economico come quello nordestino in cui vi è una parte rilevante di sapere di natura tacita, appreso sul lavoro, nei processi di socializzazione e comunicazione organizzativa delle piccole imprese, dei distretti, delle associazioni, la creazione di un dialogo e di partnership delle organizzazioni con il sistema d’istruzione superiore favorirebbe la visibilità e la spendibilità in termini qualitativi e quantitativi delle risorse di capitale umano latenti, in direzione di una loro migliore ottimizzazione. L’offerta di dispositivi di riconoscimento dei saperi esperienziali e servizi diversificati di formazione continua possono infatti costituire la risposta del futuro da un lato alle esigenze delle organizzazioni e del mercato mutevole e sempre più competitivo e dall’altro a quelle delle persone e al loro bisogno di apprendere.
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Studi Dieci anni di PISA: primi bilanci e nuove prospettive Ten years of PISA: first results and prospects
GIORGIO ASQUINI Il saggio discute i principali risultati dell’indagine OCSE-PISA per il nostro paese, considerando l’evoluzione dal primo ciclo del 2000 a quello del 2009. L’Italia viene prima messa a confronto, per quanto riguarda la literacy in lettura, con i paesi che presentano un sistema d’istruzione simile per dimensioni e un’economia avanzata; successivamente si considerano i risultati interni, in particolare le differenze fra le macroaree regionali e gli indirizzi di studio.Viene data maggiore importanza all’articolazione per livelli di competenza, che risulta più informativa per intervenire sul sistema di istruzione. In conclusione vengono indicate le principali sfide per il nuovo decennio di PISA: dalla riduzione della varianza dei risultati fra le scuole al miglioramento dei risultati degli studenti immigrati, fino alle differenze fra scuola pubblica e privata.
This paper discusses OECD-PISA’s main results regarding Italy, by considering the evolution from 2000 until 2009. Firstly Italy is compared, in reading literacy, with countries which have a similar school system in dimension and which are advanced economies. Afterwards the paper considers the internal Italian results, particularly the differences between the regional macro-areas and the types of schools. It discusses the articulation of reading literacy scale, which results such more informative to improve school system. The paper concludes with the Italian challenges for the next PISA decade: the reduction of variance between schools, the improvement of immigrant students’ results and the reduction of gap between public and private schools.
Parole chiave: OCSE-PISA, valutazione, competenza in lettura, Italia, decisori politici
Key words: OECD-PISA, evaluation, reading literacy, Italy, policy makers
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1. Introduzione Cominciamo dalla stampa, intesa come quotidiani. Nel giorno immediatamente successivo (7 dicembre 2010) alla pubblicazione dei risultati dell’indagine OCSE-PISA 2009 i principali quotidiani italiani1 così lanciavano gli esiti di PISA. • Corriere della Sera: Classifiche OCSE: scuola i 15enni italiani migliorano. In Lombardia i più bravi. Riduzione del divario con gli altri paesi coinvolti, ma permangono ancora sacche di insufficienza. La Gelmini “È un risultato che ci rende orgogliosi”. • La Repubblica: Ocse: migliorano gli studenti italiani, si riduce il divario con gli altri paesi. Per la prima volta dopo dieci anni risultati confortanti per i nostri ragazzi in Lettura, Matematica e Scienze. Nella classifica internazionale recuperano da una a sei posizioni. • La Stampa: Ridotto il divario con gli altri paesi; i migliori esiti nel nord Italia. Ocse: pagella insufficiente per i quindicenni italiani. • Il Sole 24 ore: La scuola italiana frena la caduta e inizia a riprendersi (ma lentamente). Come si può notare anche solo dalla titolazione, non sono molto chiari quale siano stati i risultati dei nostri quindicenni (e gli articoli non aiutano molto di più): risultati confortanti o pagella insufficiente? Riduzione del divario o frenata della caduta? E su tutto aleggia l’orgoglio del ministro (che all’interno di un articolo definisce eccezionale il risultato dei 15enni italiani). Ma dobbiamo veramente essere orgogliosi di questo risultato? Forse è il caso di richiamare qualche principio di fondo legato alla realizzazione e al senso di PISA. Quindi ripartiamo da uno dei documenti fondativi, il Framework originale (Oecd 1999). Nelle prime righe dell’introduzione si esplicita subito che PISA mira “to monitor the outcomes of education systems in terms of student achievement, within a common international framework” (p. 3). Quindi risultati degli studenti che diventano stima dell’efficacia del sistema di istruzione, ma all’interno di un quadro di riferimento condiviso, per poter effettuare una comparazione fra sistemi educativi. E perché fare questo? “How well are young adults prepared to meet the challenges of the future? Are they able to analyse, reason and communicate their ideas effectively? Do they have the capacity to continue learning throughout life? Parents, students, the public and those who run education systems need to know” (p. 7). Per informare genitori e studenti sulla preparazione dei giovani. Questo giustifica il possibile orgoglio per risultati positivi, ma anche la possibile preoccupazione in caso contrario. PISA non è certo la prima indagine internazionale sull’istruzione2, ma ha l’ambizione (sempre dichiarata nell’introduzione del primo framework) di approfondire le relazione fra i risultati degli studenti e le caratteristiche strutturali della scuola, di farlo nel momento chiave della fine dell’obbligo scolastico (per giustificare la verifica del funzionamento del sistema), di svolgerlo con regolarità (per capire le tendenze e responsabilizzare i decisori politici circa
* Contributo presentato al V seminario SIRD – 16 giugno 2011. 1 Ci sembra doveroso iniziare il discorso partendo da come è stata presentata e percepita dai mediatori di informazione questa indagine, i cui risultati riguardano in primo luogo i decisori politici e gli studiosi di pedagogia comparata, ma che si rivolge a tutti gli stakeholders legati alla scuola, quindi insegnanti, famiglie e studenti compresi, che vengono a conoscenza dei risultati di PISA grazie all’informazione giornalistica. 2 La IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) svolge indagini comparative dalla fine degli anni Cinquanta, non solo su lettura, matematica e scienze.
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il darsi degli obiettivi). Inoltre l’autorevolezza dei risultati è legata all’ampiezza della comparazione, che nel caso di PISA è diventata effettivamente un punto di forza3. La possibilità che la serie storica dei risultati abbia una effettiva ricaduta sul sistema di istruzione è incoraggiata da alcuni studi longitudinali svolti in diversi paesi4, in cui è stata attestata una forte relazione tra i risultati di PISA e gli esiti successivi (soprattutto di studio, ma con alcune evidenze anche nella professione). Da un altro punto di vista l’interpretazione dei risultati di PISA dovrebbe spingere anche a una riflessione sulla didattica legata alle diverse literacy interessate, con particolare attenzione agli elementi strutturali dei quadri di riferimento e alle strategie metacognitive che guidano la comprensione del testo, dei problemi e dei principi scientifici5.
2. Leggere i risultati del 2009 Ma veniamo ai risultati, in bilico tra miglioramento e insufficienza come abbiamo visto sopra. Il dato tipicamente giornalistico è costituito dal confronto fra le medie: in lettura l’Italia ha un punteggio medio di 486, con una media Ocse di 493; in matematica 483 contro 496; in scienze 489 contro 501.Tutte le differenze rispetto alla media Ocse risultano significative. Poiché i principali paesi con cui ha senso confrontarsi (lasciamo perdere Corea e Finlandia), hanno ottenuto punteggi medi migliori6, la conclusione evidente è che siamo andati male in Pisa 2009. Ma, abbiamo detto, Pisa considera attentamente le tendenze, quindi è possibile confrontare i risultati con i cicli precedenti, e ognuno dei tre ambiti ha un punto di riferimento cardine, l’anno in cui è stato l’ambito principale7. Il confronto diacronico più significativo è quello relativo alla lettura (che, vedremo più avanti, assume anche forti connotazioni politiche). Nella figura 1 sono riassunti i risultati medi del gruppo più significativo di paesi (dal punto di vista della comparazione italiana). La media di riferimento è quelle definita Ocse 23, poiché solo 23 paesi Ocse hanno partecipato a tutte le rilevazioni8. Già questa ridefinizione del quadro comparativo cambia uno dei punti di riferimenti principali, la media Ocse che, rispetto a quella complessiva dei 34 paesi (487), risale a 499 (considerando solo i 23 sempre presenti). Sono stati indicati nel grafico i valori di entrata e uscita (2000 e 2009).
3 Già dalla prima edizione del 2000 i paesi partecipanti erano 35, il più alto numero fino a quel momento per indagini sull’istruzione. Poi la crescita è stata continua: 41 nel 2003, 57 nel 2006 65 (+ 9 paesi aggiunti) nel 2009. 4 Ricordiamo lo studio sulla realtà canadese (Oecd 2010a), su quella australiana (Underwood, Hillman e Rothman S. 2007), su quella danese (Jensen e Andersen 2006) e il sistema TREE (TRansition from Education to Employment) realizzato in Svizzera (Bergman, Hupka-Brunner, Keller, Meyer e Stalder 2011). 5 Ricordiamo al riguardo il volume sugli approfondimenti di Pisa 2006 (Invalsi 2010) e in particolare Asquini e Corsini (2010) e Di Chiacchio e Mayer (2010). 6 Per la lettura abbiamo il Giappone a 520, gli Stati Uniti a 500, la Germania a 497, la Francia a 496, il Regno Unito a 494. Solo la Spagna, tra i sistemi scolastici comparabili per dimensioni, ha un risultato simile al nostro (481, con differenza non significativa, cfr. Oecd 2010f). 7 Rispettivamente lettura nel 2000, matematica nel 2003, scienze nel 2006. 8 Cfr. Oecd 2010f, p.136 per le note riguardanti le comparazioni.
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Figura 1 – Risultati Pisa 2000-2009. Punteggi medi in lettura Elaborazione da Oecd 2010f, p.144 - Table A6.2 Trends adjusted for sampling differences9
La curva specifica italiana è quella che ha motivato il miglioramento nei titoli dei giornali, e presumibilmente l’orgoglio del ministro. Ed in effetti dopo due cicli in discesa (20032006) è vera l’inversione di tendenza. Ma si può anche notare che tale andamento riguarda diversi paesi, accomunati dal fatto di essere ritornati, a nove anni di distanza, sugli stessi risultati del 2000; è il caso dell’Italia (da 487 a 486), del Giappone (da 520 a 520, dopo una brusca flessione), degli Stati Uniti (da 502 a 500), della stessa media Ocse 23 (da 501 a 499). Anche la Spagna e la Francia hanno una tendenza simile, pur non recuperando il punteggio 2000, mentre il Regno Unito si mantiene costante nelle uniche due rilevazioni comparabili (2006 e 2009). L’unico caso anomalo è la Germania, che ha avuto una crescita costante, nel complesso significativa, fra il 2000 e il 2009, di 13 punti. Quindi la comparazione più importante, che considera i cicli in cui la lettura è l’ambito principale, ci dice che sostanzialmente nulla è cambiato, che il cambio generazionale completo (i quindicenni del 2009 entravano nel sistema d’istruzione proprio nel 2000) hanno raggiunto un risultato complessivo simile a quelli del 2000. La ripresa rispetto allo sprofondamento del 2006 non autorizza entusiasmi o facili ottimismi, sarebbe stato grottesco e imbarazzante per un paese che si definisce avanzato rimanere sotto i 470 punti. Quindi accontentiamoci di aver tirato il fiato, ma rimaniamo sempre ben staccati dai paesi che contano.
3. Dalle medie ai livelli Ma c’è un altro tipo di risultato da considerare, e in questo caso non è possibile neanche tirare un sospiro di sollievo. Fin dalla prima edizione di PISA l’Ocse ha privilegiato, rispetto al confronto dei punteggi medi, l’analisi dei livelli di literacy. Gli strumenti dell’indagine sono predisposti considerando con attenzione questo aspetto, prevedendo quesiti da un mi-
9 La tabella indicata considera le correzioni introdotte per le differenze campionarie esistenti nei diversi cicli. Le correzioni possono anche riguardare le tendenze demografiche (Oecd 2010f, p.153), ma i risultati non risultano molto diversi.
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nimo a un massimo di difficoltà. Parallelamente è possibile inserire ogni studente quindicenne in una fascia di livello, per cui la popolazione scolastica di un paese è articolata in gruppi di abilità. Si tratta di una modalità di presentazione e analisi dei risultati molto più utile dal punto di vista dell’analisi di sistema, perché permette di indagare una componente importante della variabilità dei risultati (anche in termini di equità) e di capire l’ampiezza dei problemi di analfabetizzazione strisciante esistenti al termine della scuola dell’obbligo. Anche in questo caso vediamo un riepilogo grafico delle fasce di livello per quanto riguarda la lettura. Per semplificare limitiamo il confronto ai cicli più significativi (2000-2009) per l’Italia, l’Ocse e la Germania.
Figura 2 – Risultati Pisa 2000-2009. Livelli di literacy in lettura10 Elaborazione da Oecd 2001 p.246 – Table 2.1a e da Oecd 2010b, p.194 - Table I.2.1
Bisogna ricordare che l’Ocse definisce gli studenti dei livelli inferiori a 2 come modest performers, noi possiamo definirli anche come cattivi lettori, mentre quelli dei livelli 5 e 6 top performers. Come si può notare l’Italia ha aumentato entrambe le categorie dei cattivi lettori, passando da un complessivo 18,9% al 21%, di studenti che hanno seri problemi nell’affrontare i compiti di lettura proposti da Pisa. Al contempo sono cresciuti anche i migliori lettori, da 5,3 al 5,8, e anche i buoni lettore (del livello 4, definiti dall’Ocse strong performers), dal 19,5 al 20,2. Naturalmente l’aumento dei buoni, e migliori, lettori è una buona notizia, ma non può non preoccupare l’aumento, più ampio, dei cattivi lettori. In pratica a fronte di un risultato nazionale medio stabile, c’è una maggiore polarizzazione della capacità di lettura degli studenti. Nel confronto si osserva che la media Ocse ha un andamento diverso: aumentano di un punto i cattivi lettori, ma con una leggera diminuzione dei quasi analfabeti del livello più basso, diminuiscono i due livelli più alti, con un netto aumento del livello di
10 In Pisa 2000 i livelli definiti erano 5, più un livello inferiore a 1 (<1) che raccoglieva gli studenti che non riuscivano a rispondere neanche ai quesiti più semplici. In Pisa 2009 è stato distinto un livello in più in alto, il livello 6, che comprende la parte più alta del precedente 5, e uno in basso, il livello 1b, che comprende la parte più alta del precedente livello <1 (di conseguenza il vecchio livello 1 è stato ridefinito 1a). Il grafico considera l’articolazione originale, pertanto il livello 5-2000 è confrontato con i corrispondenti 5+6-2009; il livello <1-2000 con i corrispondenti <1+1b-2009.
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sufficienza (2). La Germania rappresenta l’esempio virtuoso di come un paese affronta una serie di dati difficili proveniente da una rilevazione internazionale: nel 2000 i cattivi lettori erano il 22,6%, uno dei dati più alti allora, nettamente peggiore anche del nostro; 9 anni dopo la riduzione è stata netta, praticamente in media Ocse, con quasi il dimezzamento dei lettori peggiori. All’opposto sono diminuiti i top performers, ma controbilanciati dal netto aumento del livello 4, per cui le fasce alte in complesso sono più ampie. Quindi due buone notizie per i tedeschi, e non solo una, come per noi. Ma quale delle due notizie è più importante? Quella sui buoni o quella sui cattivi lettori? L’Ocse nel suo rapporto privilegia la seconda11, ma soprattutto la diminuzione dei cattivi lettore costituiva uno dei principali obiettivi della Strategia di Lisbona (CEC 2008) per il decennio 2000-2010. I paesi della comunità europea si erano impegnati a ridurre del 15% il proprio dato dei cattivi lettori, partendo proprio dal dato di Pisa 2000. Quindi per noi voleva dire passare dal 18.9 al 15,1, per i tedeschi dal 22,6 al 18,1. La verifica era fissata ai dati di Pisa 2009. Potremmo dire che anche i tedeschi non ce l’hanno fatta (sono arrivati “solo” al 18,5), ma in un quadro complessivo di fallimento europeo, l’Italia ha fornito un preoccupante contributo, peggiorando di oltre due punti. A questo punto parlare di risultato eccezionale per Pisa 2009 risulta assolutamente fuori luogo, visto che il principale impegno di politica educativa assunto in un contesto internazionale è stato clamorosamente fallito. L’importanza dell’obiettivo “ridurre i cattivi lettori” è data anche dal fatto che è stato riproposto anche per la nuova strategia per il 2020, anzi è stato rinforzato e reso più ampio: stavolta bisogna raggiungere quota 15% sul totale dei lettori, quindi per noi vuol dire scendere di 6 punti percentuali in un decennio (da notare che se avessimo centrato il primo obiettivo saremmo praticamente già in linea con il risultato 2020). Anche i tedeschi dovranno scendere, ma per loro si tratterà di consolidare una tendenza già chiara, mentre per noi vuol dire riuscire a invertirla completamente12.
4. Non solo confronto internazionale La polarizzazione dei risultati per livello degli studenti italiani spinge a osservare con più attenzione l’articolazione dei risultati interni, comparando le diverse stratificazioni nazionali. In primo luogo le aree geografiche. Ecco l’andamento dei punteggi delle macroaree che compongono il campione italiano di PISA.
11 Cfr Oecd 2010f, p.43 per i cattivi lettori e p.44 per i top performers. Bisogna aggiungere che le variazioni italiane non risultano significative, mentre la diminuzione tedesca dei cattivi lettori è significativa. 12 L’allargamento dell’obiettivo riguarda il raggiungimento di quota 15% anche per i “cattivi matematici” e “cattivi scienziati”, che partono rispettivamente da 25% e 20,6%, anche se in questi due casi almeno le tendenze rispetto alle rilevazioni originali (2003 matematica e 2006 scienze) sono di un discreto miglioramento.
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Figura 3 – Risultati Pisa 2000-2009. Punteggi medi in lettura per macroaree Elaborazione da Invalsi 2005, Invalsi 2008 e Invalsi 2011
Anche in questo caso sono stati mantenuti nel grafico i valori dei due cicli principali. Premettendo che nessuna variazione risulta significativa, se si vuole essere ottimisti, e noi vogliamo esserlo, le due macroaree meridionali migliorano leggermente il punteggio medio, con un evidente risalita rispetto al baratro in cui erano precipitate nel 2006. Ma anche in questo caso 9 anni sono serviti per tornare più o meno al punto di partenza. Un altro piccolo segnale di ottimismo può essere il relativo raggruppamento delle macroaree, che però è dovuto principalmente alla discesa dei punteggi per le macroaree settentrionali. Nel complesso resta confermata la situazione critica delle scuole meridionali, nella speranza che almeno le recenti iniziative di formazione degli insegnanti meridionali possano portare risultati positivi anche sui futuri risultati di PISA13. Purtroppo anche i dati relativi alla seconda stratificazione prevista per il campione italiano non permettono facili ottimismi.
13 Ricordiamo il “Piano di informazione e formazione sull’indagine OCSE-PISA”, coordinato dall’Invalsi, che ha coinvolto nel corso del 2008 le 4 regioni meridionali dell’obiettivo convergenza previsto dal PON “Competenze per lo sviluppo” e “Ambienti per l’apprendimento” e il successivo “Piano nazionale Qualità e Merito” coordinato dall’Ansas.
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Figura 4 – Risultati Pisa 2000-2009. Punteggi medi in lettura per indirizzi Elaborazione da Invalsi 2005, Invalsi 2008 e Invalsi 2011
L’andamento dei punteggi medi è abbastanza evidente, ma non si può sottolineare che il divario fra licei e professionali è passato da 115 a 124 punti, abbiamo quindi una scuola secondaria superiore sostanzialmente spaccata: i licei su un livello medio “europeo-avanzato”, ben sopra la media Ocse, e i professionali con risultati da paese in via di sviluppo. A ciò si aggiunga che nella rilevazione 2009 è stato aggiunto lo strato relativo alla formazione professionale gestita dalle regioni14, che comprende quasi il 5% degli studenti del campione nazionale; questo indirizzo ha un punteggio medio di 399. A questo punto diventa incomprensibile l’entusiasmo di un ministro che, dati alla mano, deve gestire un sistema di istruzione così spaccato nelle sue articolazioni. Notiamo di passaggio che tutte queste osservazioni erano già presenti nel fascicolo illustrativo dei risultati Pisa presentato dall’Invalsi in contemporanea con il rapporto nazionale, ribadite poi anche nel rapporto completo (Invalsi 2011). Se consideriamo l’articolazione per livelli la spaccatura dei risultati appare ancora più evidente.
14 In Pisa 2000 questo strato non era considerato in quanto la normativa prevedeva che gli studenti di 15 anni assolvessero l’obbligo solo all’interno degli indirizzi scolastici.
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Figura 5 – Risultati Pisa 2009. Livelli di literacy in lettura per indirizzi Elaborazione da Invalsi 2011
Non trattandosi di una comparazione, sono stati considerati tutti i livelli di lettura del ciclo 2009. Gli studenti al di sotto del livello 2, sono il 53,7% dei quindicenni della Formazione professionale e il 46,1% per gli Istituti professionali, mentre solo il 4,2% dei liceali ha gravi problemi in lettura (addirittura nessuno sotto il livello 1). All’opposto nessuno studente di qualsiasi indirizzo professionale riesce ad ottenere risultati di livello 6, laddove il risultato liceale, esteso a tutti i livelli superiori, è ampiamente migliore anche del dato Ocse.
5. Le sfide per le prossime edizioni di Pisa Quello che ci piacerebbe sentire, negli interventi dei decisori politici, sarebbe l’impegno a raccogliere le sfide che i risultati di Pisa pongono al nostro paese. Un impegno che dovrebbe coinvolgere in maniera chiara ed esplicita tutta la comunità nazionale che ha a cuore la scuola e l’istruzione. Abbiamo già detto dell’impegno assunto nel contesto europeo circa la riduzione dei cattivi lettori per il 2020. La ricomposizione della spaccatura degli indirizzi secondari è invece una sfida tutta italiana, ma il punto di vista internazionale può tornare utile. Nel quinto volume del rapporto internazionale 2009 (Oecd 2010f) c’è un grafico che ci vede spiccare, purtroppo, fra i paesi Ocse.
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Figura 6 – Varianza dei risultati in lettura. Confronto 2000-2009 Fonte: Oecd 2010f, p.77
La scelta dell’Ocse di ordinare i paesi secondo la varianza fra le scuole dimostra che questo è uno dei problemi più importanti, almeno per un sistema scolastico che vuole essere equo. Purtroppo il nostro paese mostra la varianza più alta tra i paesi Ocse ed è uno dei pochi paesi che ha avuto una crescita significativa di questo parametro tra il 2000 e il 2009, rimasto stabile per Ocse-26 (in questo caso la media è costruita sui 26 paesi che hanno partecipato alle due edizioni di Pisa confrontate), ma diminuito per diversi paesi, tra cui quella Germania che risultava, nel 2000 e con la Polonia, il paese con le differenze più marcate fra le scuole. È ragionevole chiedere impegni affinché questa varianza diminuisca? Il segnale che giunge dall’Ocse è forte e chiaro, sarebbe grave ignorarlo. Di sfide ce ne possono essere altre, come per esempio quella rappresentata dall’integrazione degli studenti immigrati. Anche in questo caso Pisa offre solidi spunti di riflessione che dovrebbero trasformarsi in azione politica.
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Figura 6 – Risultati Pisa 2009. Punteggi medi in lettura per status di immigrazione Fonte: Oecd 2010c, p.70
Sappiamo che l’andamento demografico nel nostro paese porterà ad una crescita rapida della popolazione scolastica secondaria composta da immigrati (di prima o seconda generazione), e vediamo che la differenza dei risultati è una delle più ampie fra i paesi Ocse (in Europa solo Austria e Svezia fanno peggio, il dato finlandese è anomalo in quanto il numero degli immigrati è ancora marginale). Un impegno forte nell’integrazione scolastica è prima diA tutto un dovere civile imprescindibile, ma le stime offerte da Pisa rappresentano una sfida concreta di miglioramento, a meno di voler considerare quel triangolino una sorta di zavorra inesorabile che diventi in futuro il capro espiatorio dei risultati negativi. Ancora una sfida, che però è prima di tutto una riflessione da fare sul nostro sistema di istruzione. Nel quarto volume del rapporto Ocse di Pisa 2009 (Oecd 2010e) troviamo una serie di tabelle sorprendenti, ma non troppo, sulle differenze fra tipi di scuola, riferite alla “proprietà” della scuola. Data la complessità estraiamo solo alcune parti di queste tabelle.
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Figura 7 – Risultati Pisa 2009. Punteggi medi in lettura, matematica e scienze per tipo di scuola Fonte: Oecd 2010e, pp.224-225
Si può discutere molto, e doverosamente approfondire, la distinzione fra scuole pubbliche e scuole private15, ma non può non colpire la differenza finale fra le due categorie, con 38 punti di vantaggio per la scuola pubblica, soprattutto se rapportata al dato Ocse complessivo, in cui prevalgono le scuole private di 30 punti. Entrambe le differenze risultano significative, e l’Italia è l’unico paese Ocse con una differenza significativa a favore della scuola pubblica, che prevale solo in Giappone e Olanda, ma non in modo significativo.Tra le tante differenze interne al sistema scolastico quindi va considerata anche questa (la differenza di 68 punti rispetto al dato Ocse è nettamente la più ampia esistente), per capirne i motivi e cercare una ricomposizione. La non sorpresa accennata in precedenza è motivata dal fatto che questa differenza era evidente anche nelle precedenti rilevazioni16, ma non è mai stata dibattuta e approfondita in modo adeguato. Di Pisa fortunatamente non si parla solo sui quotidiani, ed è importante segnalare l’importante dibattito che si è svolto a Torino nel maggio scorso nell’ambito del Convegno internazionale La sfida della valutazione17, che ha preso spunto proprio dal primo decennio di Pisa. Dall’intervento di Norberto Bottani riprendiamo un passo che sintetizza efficacemente il senso delle indagini valutative come Pisa:
15 Il diverso grado di dipendenza delle scuole private rispetto al pubblico è dato dalla quantità di finanziamento pubblico ricevuto: Government-dependent se superiore al 50%, Government-independent se inferiore al 50%. Da ricordare che l’attribuzione di ogni scuola partecipante a Pisa 2009 a una delle categorie si è basata sulla dichiarazione del Dirigente scolastico. 16 Cfr. i rapporti internazionali di Pisa 2003 (Oecd 2004 p.253) e Pisa 2006 (Oecd 2007 p. 230). 17 Promosso dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, i testi delle relazioni presentate al convegno sono disponibili nella pagina web della Fondazione http://www.fondazionescuola.it/iniziative/convegno-2011-sfida-valutazione/presentazione.html.
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È assodato che la valutazione esterna ha un’incidenza sull’apprendimento, sul comportamento degli insegnanti, sulle reazioni delle scuole, sui curricoli. I risultati della valutazione quando sono chiari, spiegati bene, capiti (la comprensione non è automatica e la maggioranza degli insegnanti non è stata formata per capire il senso di molti dati), hanno un effetto, modificano la didattica, i curricoli, l’organizzazione e il funzionamento delle scuole, le decisioni delle autorità scolastiche e dei responsabili politici. È un dovere per i ricercatori che realizzano le indagini raccogliere dati affidabili, ma è ugualmente doveroso essere in grado di presentarli con chiarezza, in modo che tutti i portatori di interesse per la scuola possano capire quale può essere il loro ruolo per puntare a un miglioramento.
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Studi Item analisi tra modello e realtà Item analysis between model and reality
ANDREA MARCO DE LUCA, PIETRO LUCISANO Lo scopo di questo articolo è di sottolineare la necessità di un approccio rigoroso nella costruzione di prove strutturate e i limiti sia dell’approccio tradizionale (Classical Test Theory), sia dell’approccio basato sul modello probabilistico (Item Response Theory). In particolare, attraverso gli esempi dei diversi passaggi utilizzati nell’item analisi di Rasch, si vuole evidenziare che i processi di approssimazione utilizzati per avvicinare le misure di abilità degli studenti e di difficoltà degli item al dato osservato hanno dei limiti che il ricercatore deve tenere nella dovuta considerazione per evitare generalizzazioni inappropriate.
The purpose of this article is to emphasize the need for a rigorous approach in the construction of structured multiple choice tests and limits both of the traditional approach (Classical Test Theory) and of the probabilistic model (Item Response Theory). In particular the aim, through the examples of the different steps used in Rasch’s item analysis, is to highlight that the processes of approximation, used to estimate student’s ability and item’s difficulty closer to the observed data, have limitations that the researcher must take into due consideration to avoid inappropriate generalizations.
Parole chiave: modello, item analisi, misura
Key words: model, item analysis, measure
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“Cento misure e un taglio solo” mio nonno falegname
1. Introduzione Test, valutazione, misurazione sono parole di moda, spesso inserite nelle direttive ministeriali che costantemente intervengono nella autonomia di scuola e università. Si tende a misurare tutto e con queste misure si cerca di valutare, classificare, decidere. Decine di migliaia di studenti ogni anno si vedono aperte o precluse le porte dell’università dai risultati di un test, così come con un test si decide quali candidati potranno accedere al concorso per dirigenti scolastici. Questa “cultura della valutazione”, frutto spesso d’improvvisazione, costituisce un rischio per la ricerca educativa, poiché la fretta e il decisionismo con cui, purtroppo, opera la tecnocrazia manageriale per tutelare la meritocrazia, non solo genera risultati inaccettabili, ma produce effetti di sfiducia sulla possibilità di operare in modo scientifico e al tempo stesso critico nel nostro settore di ricerca. Nel criticare l’impianto dei test costruiti dal MIUR per selezionare i dirigenti scolastici Bottani (2011) ha dovuto ricordare che per fare bene queste cose occorrono specialisti 1. Rafforziamo questa affermazione: per costruire test ben fatti occorre una conoscenza esperta, un sapere attraversato da molta pratica, che non può essere sostituito da una rapida lettura di istruzioni per l’uso. Cercare di insegnare a lavorare scientificamente alla rilevazione e alla misura di abilità e fare manutenzione di questa competenza, assomiglia alla fatica di fare acquisire buone abitudini. L’arte di fare test richiede una competenza da artigiani, ma anche la presenza di un progetto complessivo, una architettura e, dunque, di un architetto, perché in questa pratica il perché conta quanto il come. Se il progetto è insensato poco possono fare gli artigiani, se poi l’architetto sceglie artigiani che in maggioranza sono bravi, ma a fare cose diverse da quelle necessarie… Il MIUR non può scaricarsi le responsabilità del disastro delle prove per dirigenti scolastici, pubblicando i nomi delle persone incaricate di fare domande. In quel caso l’impianto era inconsistente. I singoli esperti disciplinari chiamati a proporre domande hanno però anch’essi dei torti: il primo riguarda quelli che hanno accettato di fare i fabbri, ma erano falegnami, il secondo riguarda i falegnami che non si sono ritirati quando hanno visto che il progetto era irrealizzabile. Anche i falegnami dovrebbero avere una deontologia che impedisce di accettare incarichi non ragionevolmente realizzabili.
1 “Qui inoltre abbiamo a che fare con una preselezione di dirigenti scolastici, non di semplice personale amministrativo o ausiliario. Una professione che negli ultimi anni ha subito profonde modificazioni e che non è assimilabile a quella di altri funzionari dello Stato. Bisognava avere pertanto ben chiare quali conoscenze andavano testate. Un “pasticciaccio” La costruzione di oltre 5000 quesiti è una cosa da brivido. Infatti, ogni parola conta in una domanda, La formulazione di una domanda non è mai neutra. La pulitura e ponderazione dei quesiti esige molto tempo, la preparazione delle risposte pure e la verifica finale anche. Questi lavori richiedono l’intervento di specialisti. Come sono state costruite le domande della batteria pubblicata, come sono state verificate e calibrate? Non ne so nulla, ma ho il sospetto, dopo avere letto parte dei quesiti, che non tutte le tappe richieste dagli standard qualitativi a livello internazionale per un esercizio simile siano state rispettate” (Bottani, 2011).
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2. Misurare con Misura Visalberghi nel suo Misurazione e valutazione nel processo educativo (1955) diceva «La parola misura ha due significati principali, che non sono scollegati come taluni aspetti della vita moderna potrebbero far temere. Non c’è nessuna ragione di fondo per cui la misura intesa come operazione di conteggio o confronto non debba accompagnarsi alla misura intesa come abito di equilibrio e di discrezione. Si potrebbero fare, è vero, sottili analisi circa l’origine classica dei due significati ed il loro uso rinascimentale, ma non crediamo che i risultati sarebbero in contrasto con la semplice osservazione di buon senso che l’abito stesso del misurare, implicando l’attitudine a vedere un più ed un meno dove il giudizio affrettato scorge qualità assolute, è esso stesso un abito di riflessività, di moderazione e di prudenza. Come si spiega allora che la tendenza contemporanea a misurare tutto si accompagni spesso con atteggiamenti completamente opposti?».
In generale è evidente che il lavoro di misura di abilità sia parte del discorso più ampio di costruzione di conoscenze che poi confluiscono nella valutazione. In questa stessa prospettiva la valutazione viene assunta come momento finale di un procedimento complesso e che richiede tutta una fase istruttoria di ricerca di informazioni. È vero ciò che afferma Visalberghi (1955): «la misurazione nasce dalla valutazione e nella valutazione confluisce». Nel caso di misure di abilità, a monte c’è un giudizio, sulle abilità che i misurandi debbono possedere, a questo segue la misura alla quale segue un altro giudizio che conferma o smentisce il giudizio di partenza. Le misure su cui ci fermeremo sono solo un mezzo di raccolta delle informazioni e non sono sinonimo di valutazione. La misura diretta è quella operazione che si effettua confrontando la grandezza da misurare con un’altra grandezza a essa omogenea, presa come campione: cioè, misurare una grandezza significa trovare un numero che dica quante volte tale grandezza è più grande o più piccola del campione di riferimento. Per quanto riguarda le abilità a cui si riferiscono le prove utilizzate in ambito educativo è però evidente che non è possibile effettuare misure dirette. La comprensione di un testo, ad esempio, non è considerabile in senso stretto come un oggetto (nel senso che non si può osservare e/o toccare). In questo ambito noi cerchiamo di misurare dei tratti latenti associando concetti astratti a indicatori empirici. Questa definizione consente di mettere in luce come la misurazione di un fenomeno non osservabile direttamente richieda considerazioni sia di tipo teorico, sia di tipo empirico. Dal punto di vista empirico, l’attenzione deve essere portata alle risposte ottenute tramite domande; dal punto di vista teorico è necessario approfondire il rapporto tra il concetto da misurare, ad esempio la comprensione di un testo (che non è direttamente osservabile), e le domande le cui risposte dovrebbero darne conto. Poiché il fondamento di questa operazione, cioè la relazione tra indicatori empirici e concetti, rimane difficile da esplorare, la semplice analisi di indicatori empirici può portare a inferenze non corrette o a conclusioni fuorvianti. Se le domande sono malformulate, prive di senso, tali da non individuare una sola risposta corretta, tali da implicarsi a vicenda, qualsiasi ragionamento sulle risposte è privo di senso. Per lavorare in modo assennato è necessario procedere in questo modo: 1. costruire di un modello teorico che contenga la definizione operazionalizzata del concetto (del tratto latente) e rappresenti le relazioni tra gli eventuali costrutti che sono alla base del concetto di cui vogliamo prendere misure;
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2. definire le relazioni attese tra concetti e indicatori; 3. individuare di un metodo per misurare gli indicatori.
3. Possiamo misurare le stesse cose in modo diverso Fermiamoci sul terzo punto del’elenco precedente, cioè sui sistemi di misurazione, sui loro punti di forza e limiti, in particolare a riflettere sul rapporto tra le misure ottenute e la realtà sottostante. Cominciamo a discutere confrontando due diversi modelli per misurare lo stesso tratto latente: il modello della Classic Test Theory (CTT) e il modello della Item Response Theory (IRT). Per spiegarne le differenze immaginiamo di lavorare su un piccolo set di dati.Vogliamo subito chiarire che sia la CTT, sia la IRT non possono lavorare su insiemi di dati così ridotti e che dunque gli esempi che seguono hanno solo lo scopo di far comprendere le dinamiche operative di questi sistemi di misura. Nella Tabella 1 abbiamo inserito i risultati di una prova a scelta multipla con 4 alternative di risposta. In alto è riportata la chiave e in grassetto sono riportate le risposte corrette di ciascun esaminato.
Tabella 1: esempio di risposte a una prova a scelta multipla con 4 alternative di risposta (a, b, c, d)
Nella Tabella 2 abbiamo calcolato il punteggio grezzo, ottenuto dai 9 esaminati, assegnando un punto alle risposte esatte e zero alle sbagliate.
Tabella 2: correzione dicotomica della prova in tabella 1 e relativi punteggi grezzi
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Se osserviamo (Tabella 3) le percentuali di risposte per ciascuna delle alternative di risposta di ogni singola domanda ci accorgiamo subito che non tutte le domande presentano risultati omogenei.
Tabella 3: percentuali di risposta alle singole alternative della prova in Tabella 1
L’item analisi classica, muove dall’assunto che tutte le domande di un test misurino lo stesso tratto latente, e attribuisce alle risposte corrette lo stesso punteggio Nella fase di try out della prova (fase non eludibile) vengono verificate le caratteristiche delle domande con indicatori quali la facilità della domanda e la discriminatività della domanda (punto biseriale). Questi criteri vengono utilizzati per bilanciare la prova ed escludere le domande che non funzionano bene. Dunque una prova ben fatta deve contenere item di diverso livello di facilità e item capaci di distinguere i soggetti che rispondono complessivamente bene alla prova dai soggetti che invece non lo fanno. L’assunto di misurare lo stesso tratto latente viene controllato teoricamente (ex ante) attraverso la validazione dei contenuti della prova e dell’aspetto della prova e (ex post), empiricamente, attraverso la verifica di validità del criterio e del costrutto. Un conforto quantitativo viene dall’uso di statistiche come l’alfa di Cronbach o il Kuder Richardson 20 che sintetizzano la coerenza di comportamento degli item rispetto alla prova complessiva.
Tabella 4: facilità e punti biseriali delle domande proposte in Tabella 1
Nell’item analisi classica, inoltre, si utilizza l’errore standard della media come stima della precisione delle misure sui singoli soggetti. Il limite di questo metodo rimane nel fatto che le misure sono somme di item ai quali viene attribuito lo stesso valore. Questo, anche quando una prova viene somministrata a molti soggetti, non consente di cogliere bene le differenze interindividuali, tanto che nell’uso popolare quando si correggono prove con questo metodo si tende a intervenire con correttivi poco raccomandabili come la penalizzazione degli errori o la ricerca di elementi esterni per tracciare linee di demarcazione tra candidati a pari merito.
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Per questi motivi negli anni Sessanta Rasch propose un modello diverso per misurare i tratti latenti. Proviamo a spiegarne rapidamente l’architettura. Immaginiamo che un insegnante assegni una prova con due domande difficili, una di media difficoltà e due facili a 6 studenti.
Tabella 5: esempio di risposte ad una prova di comprensione della lettura
Se confrontiamo il risultato di Dario e Fabio ci rendiamo conto che i due studenti hanno ottenuto lo stesso punteggio 2 rispondendo a domande di diverso livello di difficoltà (definendo la difficoltà come il rapporto tra risposte errate e risposte esatte). Rasch introduce un modello in cui sono messi a confronto l’abilità dei soggetti con la difficoltà delle domande e prende in considerazione la probabilità di rispondere correttamente ad un item a partire dall’abilità dei soggetti. Ne introduciamo in modo sintetico alcuni elementi a partire dai dati della Tabella 1. Nella Tabella 6 abbiamo evidenziato e inserito sia la difficoltà degli item sia l’abilità degli studenti e ricavato la probabilità di risposta esatta attesa per ciascuno studente ad ogni singola domanda.
Tabella 6: probabilità dei soggetti di rispondere correttamente ai singoli item della prova
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Abilità e difficoltà vengono calcolate attraverso la seguente formula: dove y= probabilità di rispondere correttamente e = (alla costante denominata numero di Nepero) = 2,71… x = abilità del soggetto b = difficoltà dell’item Nella Figura 1 viene rappresentata la Curva Caratteristica che il modello di Rasch attribuisce a ciascun item e nel caso presentato da un item di difficoltà (b=0,5) media.
Figura 1: curva caratteristica di un item di difficoltà media e probabilità di soluzione dell’item al variare dell’abilità dei soggetti
Possiamo, tuttavia, osservare come ancora verifichino situazioni in cui i valori attesi secondo il modello si discostino dai valori osservati empiricamente. Confrontando la Tabella 6 con la Tabella 7 possiamo vedere come i singoli casi non sempre si comportino secondo il modello teorico. Infatti alcuni rispondono a domande più difficili della loro abilità e altri sbagliano a rispondere a domande più facili della loro abilità.
Tabella 7: item risolti e item sbagliati in relazione all’abilità dei soggetti In grigio l’area relativa all’attesa di errore, in grassetto le risposte diverse da quanto atteso
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Per migliorare il rapporto tra valori attesi e valori osservati si adotta una procedura ricorsiva che avvicini il più possibile il modello teorico al dato empirico e questa procedura migliora la taratura degli item (Item calibration). Il calcolo partendo da un valore qualsiasi di abilità procede per approssimazioni successive e si conclude quando raggiunge il valore che presenta la massima approssimazione. Esiste una vasta letteratura che evidenzia i vantaggi dell’uso di questo metodo, che successivamente viene perfezionato aggiungendo nella calibrazione degli item altri parametri come il punto biseriale e la considerazione del guessing Birnbaum (1968), raggiungendo risultati sempre più vicini alla realtà. Anche per l’approssimazione vengono utilizzati procedimenti diversi dal Maximum Likelyhood (Metodo della massima verosimiglianza) al Bayesian Modal (Modello moda Bayesiana) ciascun metodo cerca di raggiungere una migliore approssimazione della misura del tratto latente ai comportamenti dei soggetti osservati. Nella Tabella 8 si rendono visibili i calcoli ricorsivi che consentono un’approssimazione delle misure di abilità di un soggetto, sulla base delle sue risposte a tre item.
Tabella 8: esempio di calcolo del valore di abilità utilizzando il Maximum Likelihood sulla base delle sue risposte a tre item
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4. Le stesse cose misurate in modo diverso danno risultati diversi È abbastanza curioso che, mentre i metodi descritti vengono applicati nella ricerca, sono disattesi quando si tratta di prendere decisioni delicate come l’ingresso in università o la scelta dei dirigenti scolastici. Tuttavia lo scopo di questa rapida rassegna non è quello di riflettere sugli aspetti migliorativi che l’IRT apporta alla misura di tratti latenti, quanto di suscitare attenzione sul fatto che comunque si tratta di approssimazioni e che ogni approssimazione contiene margini di errore. Il tema dell’errore di misura sembra rimosso da tutti coloro che vogliono utilizzare la misura a sostegno delle loro decisioni. Invece, proprio in funzione dell’uso che si vuole fare delle misure, è necessario che queste vengano assunte in primo luogo in modo accurato, ma poi anche con la consapevolezza dei limiti che si frappongono tra i nostri modelli e la realtà. Qualsiasi misura è in sostanza una approssimazione. La storia è vecchia fu Pitagora a scoprire che qualsiasi valore attribuito alla diagonale di un quadrato di lato 1 è un’approssimazione, anche se decise di tenerlo nascosto, perché metteva in crisi le sue teorie. Nella Tabella 9 sono riportate le misure di abilità sulla base delle stesse risposte relative all’esempio in Tabella 1, calcolate con il metodo CTT e con il modello di Rasch a 1, 2 e 3 parametri. Come si vede anche nella Figura 2 in alcuni casi, cambia anche la posizione relativa dei soggetti. Con campioni più ampi l’effetto è ancora più evidente (Lucisano 2010, p. 44). È dunque la scelta del modello più che le risposte dei soggetti a determinare la misura ottenuta.
Tabella 9: confronto tra le misure calcolate sulla base di modelli diversi
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Figura 2: spostamenti di rango tra soggetti sulla base dei risultati dello stesso test calcolati con metodi diversi
5. Chi è senza errore scagli la prima pietra Abbiamo detto che ogni misura contiene un margine di errore, dunque è necessario avere consapevolezza dell’incidenza dell’errore nelle nostre misure. Come afferma Culligan (2011) l’errore standard cerca di rispondere alla domanda: “Se darò di nuovo questa prova allo stesso studente che punteggio avrà?”, o ancora alla domanda “Siamo sicuri che Beatrice (della Tabella 1) sia effettivamente più brava di Alfonso, di Carla e Dorina che hanno avuto solo un punto in meno alla prova?” L’errore standard della media (Standard Error Measure, SEM) si calcola utilizzando il coefficiente di attendibilità (KR20) e la deviazione standard (s) dei punteggi attraverso la formula:
L’errore standard di misura calcolato in questo modo considera le fonti di errore che sono state usate nel calcolo del coefficiente di affidabilità. È possibile stimare a partire dall’errore standard l’effetto probabile dell’errore rispetto al punteggio osservato. Per far questo si fa riferimento alla distribuzione dei punteggi attesa sotto una curva normale. Se accettiamo che la nostra stima abbia un errore del 5%, possiamo utilizzare la misura dell’intervallo nel quale sotto la curva normale cade il 95% dei casi e cioè ±1,96 s. Moltiplicando il SEM per 1,96 otterremo la stima di quanto la misura che abbiamo rilevato potrebbe variare in più o in meno. Calcoliamo ora il SEM del TCL1(tabella1) abbiamo il valore di S che è 2,108 e KR20 = 0,59.
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A questo punto possiamo calcolare l’intervallo di confidenza delle nostre misure moltiplicando il SEM 0,35 per ±1,96, e otteniamo il valore di 2,65. Scopriamo dunque, con una probabilità del 95%, che le nostre misure contengono un errore di più o meno 2,65. Dunque la risposta è che non sappiamo se Beatrice è effettivamente più brava di Alfonso, di Carla e Dorina. Se si osserva la Figura 3 in cui abbiamo rappresentato le nostre misure vedrete che in effetti la prova ci dice solo che Alessandra è certamente più brava di Barbara e Belinda, ma per il resto ci dà poche informazioni.
Figura 3: Punteggi alla prova TCL1 con intervallo di confidenza
Anche con la IRT è possibile valutare l’errore standard di misura. In questo caso la procedura è più complessa e fornisce indicazioni sull’errore attribuibile alla misura di ciascun singolo soggetto2, con esiti in termini di ampiezza dell’errore non dissimili dal metodo tradizionale. Quello che emerge è che l’errore rimane una componente significativa delle misure che realizziamo. Abbiamo visto come gli stessi dati possono dare luogo a misure diverse in relazione al modello utilizzato per misurare. E dunque è necessario a monte scegliere il
2 L’errore standard di misura per il modello di Rasch a un parametro si calcola con la formula:
dove è l’abilità del soggetto bi è la difficoltà dell’item i P è la probabilità di rispondere correttamente all’item di difficoltà bi del soggetto di abilità Q è la probabilità di rispondere in modo sbagliato all’item di difficoltà bi del soggetto di abilità Per chi volesse approfondire l’argomento è utile consultare l’articolo di Ivailo Partchev, A visual guide to item response theory (2004) www.metheval.uni-jena.de/irt/VisualIRT.pdf
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modello più adatto al tipo di informazioni che vogliamo ricavare dai dati. Inoltre che non è sufficiente limitarsi a interpretare le informazioni, ma è necessario comprendere l’entità e il significato dell’errore che ciascuna informazione si porta appresso. In altre parole abbiamo imparato che fare calcoli non è poi così difficile. Ciò che è difficile è sapere bene che cosa si vuole fare con le misure e che è necessario dotarsi di strumenti che abbiano una forte coerenza interna. Abbiamo anche verificato che non si possono fare test con poche domande e tararli su pochi soggetti. E, ancora, soprattutto che prima di trarre conclusioni è necessario ripetere le misure più volte. Se accettiamo, infatti, di giocare con le regole della scienza non possiamo usarne una parte e rimuovere la parte scomoda e dunque dobbiamo imparare a non avere fretta, a fare bene i conti e a convivere con l’errore e a trovare tutti gli accorgimenti per ridurne la portata. E se la scienza con tutti i suoi dubbi non fa notizia, è meglio per chi fa ricerca ritirarsi che cercare in ogni modo l’ascolto dei politici e dei giornalisti rinunciando al rigore.
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Studi L’analisi qualitativa dei dati di ricerca in educazione The qualitative analysis of research data in education
RAFFAELLA SEMERARO Il saggio presenta alcune questioni cruciali che caratterizzano la ricerca in educazione, focalizzandosi sui metodi di tipo qualitativo e quantitativo, messi a confronto nella parte iniziale del saggio. L’attenzione si sposta successivamente sulle caratteristiche delle ricerche di tipo qualitativo. In riferimento alle tecniche, viene offerta una mappa articolata delle stesse (osservazione, interviste, ecc.), evidenziando come i dati derivanti dal loro uso siano prevalentemente caratterizzati da testi scritti, la cui analisi consiste nella procedura definita analisi del contenuto. Si riflette infine sulla necessità di ridiscutere i criteri di validità e affidabilità nell’ambito dell’analisi di dati di tipo qualitativo, evidenziando come alcune sostituzioni terminologiche e revisioni semantiche siano fondamentali per rispecchiare in modo adeguato i principi intrinseci della ricerca di tipo qualitativo.
The paper presents some key issues characterizing research in education, focusing on qualitative and quantitative methods, which are compared in the first part of the paper. With reference to the techniques, it is presented a map (observation, interviews, etc..), highlighting how the data arising from their use are mainly characterized by written texts, that are analyzed by the procedure defined content analysis. Finally, the author reflects on the need to re-examine the criteria of validity and reliability within a qualitative research, noting that some changes of words and meanings are fundamental to reflect adequately the basic principles of qualitative research.
Parole chiave: ricerca educativa, metodi di tipo quantitativo, metodi di tipo qualitativo, tecniche di ricerca, analisi del contenuto, validità della ricerca
Key words: educational research, quantitative methods, qualitative methods, research techniques, content analysis, research validity
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1. La ricerca La scelta delle metodologie di analisi dei dati di una ricerca dipende in prima istanza dal significato che si attribuisce a questo termine. La ricerca1 può essere definita come un’indagine condotta con sistematicità e rigore, tendente ad approfondire, accrescere, o sottoporre a prova, il complesso di cognizioni, teorie, documenti, leggi inerenti ad una determinata disciplina. Come processo, la ricerca implica l’approfondimento (il momento della “scienza normale” indicato da Kuhn nel volume La struttura delle rivoluzioni scientifiche, tradotto in Italia nel 1969) o il cambiamento (il momento della “scienza straordinaria”, secondo lo stesso autore) del complesso di cognizioni possedute in una determinata disciplina sul piano teorico ed empirico. In qualsiasi campo la ricerca venga condotta (anche in campo educativo) essa è dunque identificabile con una indagine derivante da una attività conoscitiva sistematica sul complesso di fenomeni che la comunità degli studiosi attribuisce come propri a tale campo, delimitandone il dominio di interesse scientifico. Su tale complesso si applicano i diversi settori di indagine che vengono continuamente articolandosi tramite diversi metodi di ricerca. Gli specifici fenomeni su cui indagare vanno infatti individuati conoscendo la struttura, il linguaggio, i metodi di indagine che definiscono la costruzione del sapere specifico propri dell’area prescelta, ed ipotizzando disegni di ricerca da sottoporre a prova.Tali disegni devono scaturire da un processo di problematizzazione della realtà. In questa prospettiva le fasi proprie di un progetto di ricerca possono essere così indicate: a) la individuazione di un problema da affrontare, i cui aspetti vengono delineati avvalendosi della letteratura scientifica di riferimento; b) la delimitazione del campo di ricerca; c) i tentativi di soluzione individuati nel disegno di ricerca tramite teorie (etimologicamente “ sguardi” sul mondo) congetturali, che fungono da giustificazione delle ipotesi di lavoro; d) i criteri per la messa a prova delle ipotesi; e) la scelta dei metodi di indagine; f) la raccolta e l’analisi dei dati; g) la costruzione di nuove elaborazioni teoriche e/o l’accrescimento dei dati empirici derivanti da tale prova; h) l’individuazione di nuovi problemi per il prosieguo della ricerca; i) l’elaborazione di sistemi di diffusione dei risultati della ricerca. Dal dibattito epistemologico contemporaneo, viene delineandosi una concezione della ricerca i cui tratti specifici sono le iniziali pulsioni problematiche, gli aspetti di libera esplorazione, la complessità degli approcci, l’abbandono di una logica cumulativa e piramidale nella costruzione del sapere scientifico e così via.Viene indicata la profonda interconnessione tra i processi che attraversano il mondo dei fenomeni naturali e sociali, esterni al soggetto conoscente, e i processi mentali interni allo stesso soggetto. In una parola, la ricerca non può essere progettata e realizzata secondo risultati definibili a priori, visto che la sua essenza consiste nella messa a prova di ipotesi che possono rivelarsi fallaci, e nel conseguente perenne tentativo di ricercare visioni di realtà che risultino nel tempo sempre meno erronee.
1 Vedi la relazione di R. Semeraro al Convegno Nazionale CODSE La ricerca pedagogica, educativa e formativa in Italia (Roma, 17-19 novembre 2005) dal titolo “La formazione alla ricerca nelle Scuole di Dottorato”, pubblicata nel volume a cura di U. Margiotta dal titolo La ricerca pedagogica in Italia, Mazzanti, Venezia, 2007. 2 Le caratteristiche indicate nella seconda colonna non sono sempre speculari rispetto a quelle della prima colonna.
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2. Questioni cruciali della ricerca qualitativa in educazione I metodi di ricerca in educazione sono in linea di massima collocabili in due aree che derivano dal differenziare i metodi di ricerca di tipo qualitativo, da quelli di tipo quantitativo. Attualmente i due metodi possono essere utilizzati insieme in alcuni disegni di indagine privilegiando un approccio integrato (Saukko, 2005). Bogdan e Biklen (2007) indicano un quadro sintetico (a cui abbiamo liberamente aggiunto alcune voci) delle diverse matrici giustificative dei metodi di indagine di tipo qualitativo rispetto a quelli di tipo quantitativo, evidenziando le differenze tra queste due tipologie metodologiche. QUALITATIVA / INTERPRETAZIONE Approcci Ecologico (fenomenologico, etnografico, ecc.) Narrativo
QUANTITATIVA / MISURAZIONE Approcci Sperimentale Empirico Statistico
Concetti chiave associati agli approcci Complessità Esperienzialità Situazionalità Processualità (temporalità dipendente dal processo di ricerca) Interpretazioni soggettive dei dati Attendibilità delle interpretazioni
Concetti chiave associati agli approcci Semplificazione e specificità Ricorrenza dei fenomeni
Teorie di riferimento Interazionismo simbolico Teoria fenomenologica Teoria etnometodologica Costruttivismo sociale Grounded Theory, ecc.
Teorie di riferimento Funzionalismo Empirismo logico Realismo Positivismo, ecc.
Obiettivi Descrizioni di realtà multiple Attenzione ai dati esperienziali Analisi induttive e sintesi creative Sviluppo di interpretazioni in divenire, ecc.
Obiettivi Definizione di fatti circoscritti Descrizioni statistiche Generalizzazione dei dati Procedure formali e predeterminate, ecc
Disegno di ricerca In fieri Flessibile
Disegno di ricerca Specificamente determinato Strutturato
Tecniche di ricerca Osservazione (griglie di osservazione)
Tecniche di ricerca Sperimentazione (metodologie di comparazione tra gruppi sperimentali e di controllo) Questionari a scelta multipla
Interviste libere e semistrutturate (scelta di interrogativi e sottointerrogativi) Ricerca-azione (programmazione e sequenza delle fasi operative) Self-report (descrizione dei dati) Focus group (modalità di gestione dello sviluppo del discorso comune) Studi di caso (analisi di casi emblematici) Role-playing (attribuzione di ruolo e dinamica interpersonale) Analisi dei dati Analisi di tipo induttivo (individuazione di modelli, temi, concetti, ecc.) Interpretazioni soggettive/gruppali dei dati Attendibilità delle interpretazioni
Temporalità definita a priori “Oggettività” dei dati Significatività statistica, ecc.
Cluster analysis Ricerche correlazionali, ecc.
Analisi dei dati Analisi di tipo deduttivo Controllo oggettivo delle variabili Raccolta dati di tipo statistico Validità oggettiva dei risultati
(Da: Bogdan e Biklen, 2007, pp. 44-46)
Tab. 1 - Caratteristiche della ricerca di tipo qualitativo e di tipo quantitativo2
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Come si può facilmente desumere comparando le caratteristiche dei due approcci metodologici segnalati nella tabella appena riportata, le giustificazioni di base che sottendono i due tipi di metodo possono facilmente correlarsi (come affermato dagli autori) ad approcci bottom-up e top-down. Infatti, mentre nel caso dell’applicazione di metodi di ricerca di tipo qualitativo l’analisi dei dati si poggia prevalentemente su principi interpretativi che considerano la multidimensionalità degli oggetti di indagine e fanno emergere da questi stessi oggetti l’analisi dei risultati della ricerca, nel secondo approccio vi è una predeterminazione nella giustificazione delle ipotesi di lavoro, che tende a far emergere dai fenomeni indagati solo gli aspetti che possono dar luogo a dati generalizzabili e, in qualche modo, oggettivamente strutturabili secondo criteri standard di tipo misurativo. Comparando le caratteristiche di queste due differenti tipologie di ricerca, si può affermare che nel primo caso (ricerche di tipo qualitativo) siamo di fronte allo sviluppo di interpretazione dei dati emergenti dalla realtà indagata, mentre nel secondo caso (ricerche di tipo quantitativo) l’obiettivo è quello di testare teorie. Continuando nella comparazione, le ricerche hanno nel primo caso l’obiettivo di descrivere realtà complesse, nel secondo caso stabilire ricorrenze nei fenomeni, ricorrenze tali da poter indurre a processi di generalizzazione. Nel primo caso vi è attenzione ai dati esperienziali e ad analisi di tipo induttivo, nel secondo vi è la tendenza alla standardizzazione dei dati. Le ricerche di tipo qualitativo sono dunque collegate ai paradigmi di complessità (multidimensionalità delle esperienze), di contestualità (i fenomeni vengono considerati tenendo conto delle realtà situazionali) e di processualità (i dati di indagine sono dipendenti dalla dimensione temporale che caratterizza il processo di ricerca). In sintesi si può affermare con Denzin e Lincoln (2005b) che la ricerca qualitativa è un’attività situata, che colloca l’osservatore nel mondo. Consiste in un insieme di pratiche interpretative che rendono visibile tale mondo trasformandolo. Questa concezione evidenzia alcuni approcci fondamentali che si collegano al principio della contestualizzazione dei fenomeni analizzati nella loro dinamicità e variabilità tramite i diversi percorsi di indagine. Nella ricerca qualitativa si usa non a caso il riferimento sempre più frequente alla Grounded Theory (Charmaz, 2006; Cohen, Manion e Morrison, 2007, 475-500; Bryant, Charmaz, 2008). Secondo questa teoria i dati con cui analizzare i fenomeni emergono direttamente dalle situazioni contestuali, che diventano oggetto di attenzione del ricercatore, che da queste ricava importanti dati analitici. Secondo Denzin e Lincoln (2005a, pp. 3-4) la ricerca qualitativa riguarda l’uso e la raccolta di una varietà di materiali empirici (studi di caso, esperienze personali, introspezioni, storie di vita, interviste, artefatti, testi culturali e produzioni varie, osservazioni, interazioni, materiali audio-visivi, ecc.) che descrivono momenti problematici e costruzioni di conoscenze a livello individuale e gruppale. La ricerca qualitativa racchiude un insieme di pratiche interpretative interconnesse per raggiungere una migliore comprensione della realtà. In questa prospettiva i paradigmi teorici che giustificano questi metodi di ricerca in educazione si fondano (come si può dedurre dalla tabella sopra riportata) prevalentemente su un approccio fenomenologico, il cui obiettivo è quello di conoscere eventi quotidiani in situazioni particolari (questo giustifica il riferimento a ricerche di tipo etnografico ed etnometodologico e l’attenzione a contesti culturali specifici). Le esperienze vengono interpretate seguendo pratiche di tipo induttivo e procedure interpretative differenti, a tal punto che la “realtà” risulta un fenomeno socialmente costruito. Sotto questo punto di vista è importante collegare i metodi di ricerca di tipo qualitativo con il costruttivismo socio-culturale (il riferimento inevitabile è a Vygotskij, Bruner e ad altri autori che si sono riferiti a questa prospettiva) (Liverta Sempio, 1998). In quest’ottica il ricercatore è un soggetto che costruisce insieme agli individui, o ai gruppi che partecipano alle indagini, le conoscenze e le riflessioni
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sui dati di ricerca, per cui i processi interpretativi che tutti i partecipanti attribuiscono alle esperienze risultano dunque essenziali, non accidentali o secondari (Sorzio, 2005, pp. 3549). Nelle analisi di tipo induttivo sottostanti ai processi interpretativi si procede dunque alla individuazione di concetti, di temi e di modelli che dovrebbero portare ad una lettura in profondità delle esperienze vissute. Correlando le tipologie di ricerca qualitativa con i processi educativi Cohen, Manion e Morrison (2007) e Bogdan e Biklen (2007) affermano che gli approcci tradizionali di tipo positivistico applicati a tali processi sono oggi superati da paradigmi alternativi che si rifanno ad approcci interpretativi, fenomenologici, interazionisti, etnografici, e ad analisi in ambienti “naturali”. Le prospettive recenti che riguardano la ricerca educativa si avvalgono della teoria della complessità una volta riferita alle scienze naturali, attualmente trasferita al complesso di fenomeni sociali, all’interno dei quali gli autori collocano i fenomeni educativi. Coggi (2005, pp. 26-27) afferma che la ricerca qualitativa applicata all’educazione in senso lato ha lo scopo di “comprendere la realtà educativa indagata e approfondirne le specificità mediante il coinvolgimento e la partecipazione personale del ricercatore. Quindi lo scopo della ricerca qualitativa è idiografico, ovvero tale approccio ha per oggetto di studio il particolare, il singolo, invece della legge generale che modifica e accomuna più casi, scopo quest’ultimo della ricerca quantitativa. La ricerca qualitativa procede in maniera induttiva: dall’osservazione della realtà formula e riformula le sue interpretazioni”. Considerando tale prospettiva (Trinchero, 2004, pp. 85-139) si può affermare che questi molteplici percorsi interpretativi della realtà permettono indagini in profondità che rendono possibili interpretazioni plurime, oltre che legittimare la necessità di avvalersi di molteplici tecniche che possono favorire la conoscenza di soggetti e relazioni tra soggetti in contesti educativi e formativi di tipo informale, non formale e formale.
3. Tecniche di ricerca Tutti gli autori che si sono occupati di riflettere sul collegamento tra le tipologie dei metodi di ricerca e il campo di indagine contenente la complessità dei processi educativi e formativi, concordano nel proporre una molteplicità di tecniche da utilizzare nella raccolta dei dati. In particolare, Denzin e Lincoln (2005b) presentano l’insieme di queste tecniche riferite alla ricerca qualitativa in generale, mentre Cohen, Manion e Morrison (2007) collegano una mappa molto articolata delle stesse tecniche alle indagini riferite ai processi educativi. Tenendo conto di questa seconda pubblicazione, e riportando in estrema sintesi le differenze tra queste tecniche (di cui ne segnaleremo alcune delle più usate), la prima che può essere segnalata si riferisce all’osservazione (Dovigo, 2003). Nel processo di ricerca l’osservazione offre al ricercatore l’opportunità di raccogliere dati in contesti educativi in maniera libera, partecipata (osservazione partecipante) oppure strutturata; diretta (presenza fisica dell’osservatore) o indiretta (se si utilizzano materiali come video registrazioni ed altro). Nel caso dell’osservazione strutturata, il ricercatore utilizza protocolli di osservazione (altrimenti indicati come schede osservative) in cui vengono predefiniti gli specifici aspetti da osservare nei contesti di riferimento. I setting su cui possono essere focalizzate le osservazioni sono di diversa natura e, in linea di principio, possono riguardare: setting fisici (ambienti fisici e loro organizzazione); setting umani (l’organizzazione dei gruppi e/o degli individui che vengono osservati); setting interattivi (le interazioni che hanno luogo, formali/informali, pianificate/non pianificate, verbali/non verbali, ecc.); setting relativi agli interventi educativi (le risorse formative e la loro organizzazione, gli stili pedagogici nelle istituzioni educative, i curricula, la
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programmazione didattica nelle scuole e la loro organizzazione, ecc.). Quello che preme sottolineare è che, al di là delle diverse procedure osservative utilizzate, il materiale di osservazione si traduce in testi scritti, tranne quando le osservazioni sistematiche si basano su una checklist predefinita. Questa considerazione è alla base di quanto verrà successivamente proposto in riferimento alla analisi dei dati, analisi avvalorata dalla codifica degli stessi testi. Anche le interviste (Zammuner, 1998), che riguardano lo scambio di codici verbali tra due o più persone in risposta a domande poste dal ricercatore, possono avere diverse tipologie. Considerando le interviste faccia a faccia, si parla di intervista libera o non direttiva, in cui l’interesse del ricercatore deriva dalla produzione di materiale spontaneo da parte dell’intervistato, sollecitato da interrogativi molto generali. Si parla al contrario di intervista completamente strutturata quando il ricercatore pone domande predeterminate in modo chiuso. La differenza rispetto al questionario a risposta chiusa è che le risposte dell’intervistato hanno in questo caso maggiori gradi di libertà. Un terzo tipo di intervista è quella semistrutturata in cui il ricercatore predispone una serie di domande su cui desidera ricevere risposta da parte dell’intervistato.Vengono mantenuti tuttavia anche criteri di flessibilità, nel senso che il ricercatore può utilizzare ulteriori domande rispetto a quelle previste, aumentando la quantità e qualità del materiale prodotto dall’intervistato. I dati raccolti con le interviste completamente strutturate possono essere analizzati tramite criteri di tipo quantitativo (individuando frequenze, correlazioni, regolarità, fatti oggettivi, ecc.), mentre i dati raccolti tramite le interviste libere o semistrutturate possono essere analizzati secondo criteri di tipo qualitativo (ad esempio considerando modalità di spiegazione, di selezione dei fatti e di interpretazione degli stessi, usate dagli intervistati). Anche in questo secondo caso l’analisi dei dati si fonda su un contenuto di tipo linguistico, come nel caso dei materiali osservativi sopra segnalati. Le interviste vanno in genere registrate, previo assenso degli intervistati, e i dati raccolti, a partire dalla trascrizione delle risposte, possono essere analizzati tramite l’analisi del contenuto, da cui far emergere (come si vedrà nel prosieguo di questo saggio) i nuclei di significato presenti nel testo delle risposte degli intervistati. Molti autori, oltre a Cohen, Manion e Morrison (2005), segnalano tipologie di intervista di gruppo, individuando tra queste il focus group e il brainstorming come le più interessanti. Nel focus group (vedi anche Zammuner, 2003) il conduttore coordina la discussione di un numero limitato di soggetti. L’obiettivo è quello che la discussione si focalizzi sull’argomento sul quale il conduttore intende raccogliere le opinioni (più che gli atteggiamenti) dei partecipanti. Il suo ruolo è dunque quello di stimolare la discussione in modo tale che le argomentazioni espresse abbiano come focus l’argomento prefissato. A questo scopo vengono usate dal conduttore domande “direzionali” che orientino la discussione, laddove questa dovesse allontanarsi dalla tematica che interessa approfondire. Queste interviste di gruppo possono essere realizzate in diversi contesti, ma risultano particolarmente opportune in quanto permettono di raccogliere in tempi brevi dati che emergono dagli scambi linguistici dei partecipanti. Il ricercatore può identificarsi con la figura del conduttore, oppure essere un osservatore esterno al gruppo. Il brainstorming ha delle affinità con il focus group, ma se ne differenzia in quanto gli scambi discorsivi tra i partecipanti al gruppo sono più flessibili e liberi. La figura del ricercatore tende ad assumere un ruolo defilato e a dare maggiore spazio alle espressioni dei dialoganti che risultano dunque molto spontanee. L’obiettivo è quello di sollecitare la manifestazione di idee e di associazioni mentali il più possibile non controllate e non condizionate dall’attribuzione di giudizi di valore sul loro contenuto. Anche considerando queste due tipologie di interviste di gruppo, gli scambi discorsivi all’interno dei gruppi di riferimento possono essere registrati e l’analisi dei dati può avvenire, come per altri strumenti sopra menzionati, tramite l’analisi del contenuto.
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Le ricerche etnografiche (Bogdan, Biklen, 2007, pp. 75-76; Sorzio, 2005, pp. 67-83) sono particolarmente focalizzate sui contesti operativi che caratterizzano i vari setting in educazione e si definiscono come indagini empiriche legate all’osservazione delle attività che si svolgono in questi stessi contesti in dimensione diacronica. Risulta estremamente interessante analizzare le interazioni dinamiche tra i soggetti che operano nei vari setting educativi, interazioni che esprimono gli apparati simbolici e conoscitivi degli stessi soggetti. Non a caso uno degli approcci segnalati come caratteristico delle ricerche di tipo qualitativo in educazione si riferisce all’interazionismo simbolico, cioè allo scambio di matrici di simboli sottostanti alle comunicazioni discorsive tra i soggetti, che riverberano anche i modelli culturali di cui gli stessi sono portatori. Questa indagine su campo riguarda appunto l’individuazione, nelle fasi preliminari dello svolgimento della ricerca, di questi modelli, espressi nelle fasi successive dagli scambi dialogici tra i soggetti. La raccolta dei dati di ricerca avviene tramite l’osservazione, in cui il ricercatore non assume un ruolo preminente nello svolgimento delle attività educative, ma si pone in una condizione di osservazione appunto, lasciando che l’attività dei partecipanti si esprima nella maniera più flessibile e libera. Un altro percorso di indagine può riguardare la ricerca-azione in cui il ricercatore è parte integrante del progetto di ricerca e del suo svolgimento. L’obiettivo di questa forma di ricerca è quello di procedere al raggiungimento di scopi definiti tramite la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti. Questi scopi determinano l’itinerario di ricerca e vedono le persone direttamente impegnate nella traduzione operativa degli obiettivi all’interno di vari contesti di attività. Molto spesso si tratta di risolvere, tramite l’azione, dei problemi che vengono vissuti come tali da coloro che si coinvolgono nei setting educativi. Nelle ricerche etnografiche, come nella ricerca-azione, possono essere elaborati dei rapporti scritti (sia da parte del ricercatore, sia da parte dei partecipanti alle attività educative, anche tramite selfreport), oppure possono essere analizzate le trascrizioni delle registrazioni degli scambi discorsivi, che descrivono lo svolgimento dei processi effettuato in ambedue questi percorsi. Si tratta anche in questo caso della produzione di testi scritti e si può procedere all’analisi del contenuto, come più volte già sottolineato. Ulteriori tecniche che possono essere utilizzate per l’applicazione di metodi di ricerca qualitativa possono riguardare il role-playing e lo studio di caso. Il role-playing è definito come una partecipazione di più soggetti ad una situazione sociale simulata, che va intesa come contesto che stimola il gioco di ruoli in cui si simulano episodi sociali di vita. Questa tecnica consente rappresentazioni immaginarie di situazioni in cui il soggetto deve coinvolgersi, assumendo ruoli che possono essere improvvisati o precedentemente strutturati, accompagnando la comunicazione verbale anche con tipologie di comportamento. È interessante il contesto in cui i giochi di ruolo si realizzano, soprattutto per il trasferimento di immagini soggettive dalla vita reale alla situazione simulata. In termini di ricerca, il ricercatore può osservare le sedute di role-playing e definire gli aspetti da analizzare, utilizzando le differenti procedure osservative sopra indicate (preferibilmente videoregistrazioni). Un ultimo oggetto di attenzione per raccogliere dati da analizzare secondi metodi di tipo qualitativo può essere l’analisi di un “caso” emblematico da considerare all’interno dei diversi setting educativi. Quando questo si verifica, le riflessioni sviluppate sono definite in termini tecnici “studi di caso”. Tali studi possono essere svolti dal singolo soggetto tramite osservazioni, costituire lo stimolo per discussioni di gruppo oppure riferirsi ad indagini di tipo diacronico. In tutti questi casi, l’analisi dei dati avviene in prevalenza secondo le procedure sopra indicate.
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4. Analisi dei dati Le tecniche di ricerca, appena segnalate, consentono prevalentemente una raccolta di dati che si avvale di codici verbali (scambi discorsivi, riflessioni orali) trasferiti in testi scritti. Anche i self-report elaborati dal ricercatore, o dai partecipanti alle attività dei setting educativi, sono redatti in modo scritto. Per questa ragione, l’attenzione verrà ora focalizzata sull’analisi del contenuto come procedura per elaborare i dati raccolti mediante l’uso di queste tecniche. Il modo più diffuso di analizzare i testi scritti presuppone diverse fasi di sistematizzazione dei dati. 4.1 Creazione di codici In una prima fase si considerano i testi procedendo ad una segmentazione analitica del contenuto. Lo scopo è quello di individuare in ciascun passaggio del discorso diverse unità analitiche, che possono essere parole, oppure frasi, affermazioni o interi paragrafi dai quali evincere nuclei di significato. Questi nuclei sono definiti in letteratura codici, e sono l’esito di processi inferenziali. I codici correlati a questi nuclei di significato sono spesso indicati con sigle o etichette. Questi codici possono emergere dai dati di ricerca evidenziati secondo un approccio bottom-up (ed è in genere questa la procedura più diffusa considerando la Grounded Theory), oppure possono derivare dall’applicazione di sistemi di codici già previsti. Se si utilizzano alcuni software specificamente predisposti per l’analisi del contenuto (tra i quali Atlas.ti, Nud*ist, ecc.), questa possibilità di usare schemi di codici correlabili con il progetto di ricerca, e/o emergenti dalla letteratura scientifica di riferimento, è resa più evidente. In una seconda fase occorre trovare possibili tipologie di relazione tra i codici creati, e, secondo Johnson e Christensen (2004), tali tipologie possono emergere tenendo conto dei seguenti criteri: • inclusione (il codice individuato è una parte di un altro codice dal significato più ampio); • causa-effetto (il codice individuato è il risultato, oppure la causa, di un altro codice); • generativo (il codice individuato genera un altro codice); • relazioni funzionali (il codice individuato è in funzione di un altro codice); • mezzo-fine (il codice individuato è un mezzo per raggiungere il fine segnalato da un altro codice); • sequenze (il codice individuato è una parte di una sequenza di codici); • attribuzioni (il codice individuato ricopre una caratteristica di un altro codice). 4.2 Aggregazioni di codici Le fasi del processo di codifica appena segnalate danno luogo a modifiche iniziali, tenendo conto del carattere ricorsivo e ciclico dello stesso processo. Infatti, ad una prima lettura, ne seguono delle altre in cui la costruzione di codici può essere ridefinita finché non saranno colti i molteplici nuclei di significato emergenti dai testi esaminati (anche con l’apporto di giudici indipendenti). Il passo successivo consiste nella costruzione di aggregazioni di codici. Ad esempio, nell’applicazione del software Atlas.ti, tali aggregazioni sono definite “famiglie di codici”, e vengono trasposte in forma grafica nei network, che possono essere visualizzati applicando lo stesso software. Questo passaggio può essere realizzato tenendo conto di diversi criteri
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tramite i quali creare le aggregazioni, che, proprio in virtù di questi criteri, possono assumere diverse strutturazioni interne (Bogdan, Biklen, 2007), alcune delle quali vengono di seguito presentate in modo assai sintetico. Un primo criterio di strutturazione si riferisce ad aggregazioni che definiscono la situazione: si tratta di aggregazioni che racchiudono codici che hanno a che fare con il modo in cui i partecipanti alla ricerca considerano un determinato argomento. In altre parole, il ricercatore può creare questa aggregazione mettendo insieme codici che riguardano il punto di vista dei soggetti su una particolare tematica. Un secondo criterio definisce aggregazioni che descrivono processi: in questa tipologia di aggregazione si possono includere tutti quei codici che esprimono sequenze di eventi, cambiamenti avvenuti nel tempo, o passaggi da uno status ad un altro. Per questa ragione si tratta di un criterio spesso utilizzato nell’analisi delle storie di vita. In terzo luogo, è possibile trovare aggregazioni che descrivono specifiche attività in contesti operativi: i codici che è possibile includere in questo tipo di aggregazione sono codici che descrivono specifiche modalità operative o di comportamento, che si svolgono in un determinato contesto (diversi setting educativi e formativi, tra cui contesti informali, non formali e formali). Un quarto possibile criterio è quello che dà luogo ad aggregazioni che descrivono relazioni nei micro- e nei macrosistemi sociali. Questo criterio implica la possibilità di aggregazioni che riguardano sia le relazioni a carattere informale, legate al vissuto quotidiano al di là degli apparati istituzionali (relazioni che possono instaurarsi tra le persone, come l’amicizia, i conflitti, le rivalità, ecc.), sia le relazioni a carattere formale, che descrivono rapporti basati su ruoli e posizioni sociali nelle istituzioni (relazioni intra- ed interistituzionali, ad esempio riferite alla scuola, ad altre organizzazioni formative, ecc.).
5. Ridiscussione dei criteri di validità e affidabilità nell’analisi dei dati di tipo qualitativo Guba e Lincoln (1989) sono stati tra i primi studiosi a porsi il problema della applicabilità, o meno, dei criteri utilizzati nella ricerca di tipo quantitativo (in particolare quelli di validità e di affidabilità), per comprovare la correttezza dell’analisi dei dati di ricerche di tipo qualitativo. Successivamente altri autori hanno ripreso questa importante riflessione (Cohen, Manion, Morrison, 2007, pp. 133-164) procedendo a ridefinire questi termini chiave all’interno delle due tipologie di ricerca. Considerando la ricerca qualitativa rispetto a quella quantitativa, il termine “validità” può più efficacemente essere sostituito, ad esempio, con quello di “autenticità”, e il termine di “affidabilità” con quelli di “credibilità”, “consistenza”, “applicabilità”, ecc. Secondo Saukko (2005, p. 344), esiste, nella raccolta di dati derivante dall’applicazione di metodi di ricerca di tipo qualitativo, l’incrocio tra tre diverse forme di validità, collegate rispettivamente alla dimensione contestuale, dialogica e auto-riflessiva. Anche in questo caso c’è una sostituzione dei criteri di validità usati più diffusamente nelle ricerche di tipo quantitativo. Le sostituzioni terminologiche appena indicate (come moltissime altre che potrebbero essere riportate in una trattazione molto più analitica), non si collegano unicamente ad un puro esercizio linguistico, ma dipendono dai principi intrinseci della ricerca di tipo qualitativo. Questi principi (già presentati nella Tabella 1 di questo saggio), possono sinteticamente riferirsi a setting educativi specifici e contestualmente definiti, a dati socialmente collegati
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a tali contesti e culturalmente situati, ad eventi analizzati nella loro dinamica di cambiamento e non predefiniti nei sistemi di analisi. In conseguenza di ciò, il criterio di “attendibilità” dei dati, proprio della ricerca quantitativa, può essere sostituito con quello di “approccio critico”. Nella ricerca di tipo qualitativo, infatti, la figura del ricercatore assume un suo rilievo e la valutazione dei risultati della ricerca è resa tanto più adeguata, quanto più il ricercatore assume criteri analitici sempre più raffinati. Questo è possibile rendendo accessibili ad altri interlocutori le sue procedure di indagine e scoprendo con loro altri piani analitici della ricerca. In quest’ottica è utile considerare, tra le prospettive che rendono la ricerca di tipo qualitativo interessante, quella ecologica e quella culturale. I contesti educativi possono essere sempre più adeguatamente conosciuti proprio attraverso la scoperta sempre più profonda e articolata delle varie caratteristiche che ne definiscono la complessità, evidenziata dall’insieme degli eventi ambientali e culturali che attraversano tali contesti. Per questa ragione non è possibile ipotizzare solo procedure di ricerca che semplifichino tale complessità (procedure presenti nelle ricerche di tipo quantitativo), e rendano difficile l’individuazione di diversi piani di lettura delle situazioni educative, ma è necessario far emergere prospettive nuove e non previste che possono essere individuate applicando metodi di ricerca di tipo qualitativo.
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Studi La scelta del metodo di ricerca Riflessioni orientative The choice of research method Guidance reflections MICHELE PELLEREY Nell’impostare il lavoro di indagine che un dottorando si prefigge di svolgere nel contesto del terzo ciclo universitario una questione importante è costituita dalla scelta del metodo di ricerca da valorizzare. Spesso tale scelta è dettata da questioni epistemologiche e da preferenze individuali.Tuttavia è ancora più importante garantire che il metodo adottato risulti coerente con gli obiettivi e le ipotesi di lavoro che si intendono perseguire.
In the elaboration of the doctoral dissertation one of the main point is the selection and activation of the research method. Many times that is driven by epistemological and personal preferences. However is more important that the student give the required importance to the coherence between the objectives and hypothesis intended and the method used.
Parole chiave: ricerca didattica, dissertazione di dottorato, scelta del metodo di indagine
Key words: educational research, doctoral dissertation, selection of methods
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1. Introduzione All’inizio di questa sintesi dell’intervento tenuto al quinto seminario SIRD per i dottorandi è bene ricordare come vengano descritti nel contesto del Processo di Bologna i risultati di apprendimento attesi al termine di un ciclo di dottorato. L’elaborazione di tali descrittori era stata fatta in un seminario di studio tenutosi a Dublino nel 2004. Il quadro sviluppato in tale occasione è stato poi presentato come riferimento europeo nel Summit dei ministri competenti per i problemi universitari del 2005 a Bergen. Essi fanno parte di un quadro di riferimento generale (Overarching Framework of Qualifications in European Higher Education Area) per descrivere le conoscenze, le abilità e le competenze che caratterizzano i vari livelli di qualificazione riconosciuti dalle università europee attraverso i titoli o diplomi accademici da esse conferiti. Per quanto concerne i titoli finali di terzo ciclo si è determinato che essi possono essere conferiti a studenti che: • abbiano dimostrato sistematica comprensione di un settore di studio e padronanza del metodo di ricerca ad esso associati; • abbiano dimostrato capacità di concepire, progettare, realizzare e adattare un processo di ricerca con la probità richiesta allo studioso; • abbiano svolto una ricerca originale che amplia la frontiera della conoscenza, fornendo un contributo che, almeno in parte, merita la pubblicazione a livello nazionale o internazionale; • siano capaci di analisi critica, valutazione e sintesi di idee nuove e complesse; • sappiano comunicare con i loro pari, con la più ampia comunità degli studiosi e con la società in generale nelle materie di loro competenza; • siano capaci di promuovere, in contesti accademici e professionali, un avanzamento tecnologico, sociale o culturale nella società basata sulla conoscenza. A ciò è utile aggiungere alcuni elementi di riferimento, tenendo conto di recenti vicende relative a fenomeni di plagio verificatisi a livello europeo. Tra gli standard di qualità caratterizzanti le pubblicazioni di ricerche in ambito educativo definiti dall’American Educational Research Association vengono inclusi alcuni principi etici che devono essere garantiti: a) nel reperimento e nell’uso della documentazione (es. plagio); b) nella presentazione delle diverse prospettive e contribuzioni valorizzate; c) nel controllo delle possibili distorsioni; d) nel rispetto della privacy; e) nel citare fonti e possibili finanziamenti e diritti.
2. Un guerra metodologica? Tenendo conto di questi elementi come sfondo di riferimento, esploriamo la tematica affidata. Anche perché di fronte a una specie di guerra metodologica, spesso più teorica che pratica, che sembra profilarsi in Italia, potremmo dimenticarli con grave danno. Si tratta di una contrapposizione tra fautori di un approccio definibile genericamente sperimentalista e fautori di un approccio che si può dire interpretativista; tra coloro, cioè, che intendono intervenire per migliorare e quelli che intendono solo descrivere per capire; tra chi considera come unità di analisi le azioni dei docenti e chi preferisce registrare i loro pensieri; ecc. Alla base di questa contrapposizione si può citare, a esempio, Richard Rorty (1994) che ha distinto due tipologie fondamentali di ricerca. La prima si basa su un principio di ogget-
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tività ed è interessata alle logiche interne alla comunità scientifica (ricerca per sapere). La seconda si appoggia su un principio di solidarietà ed è interessata al bene di una comunità di vita (ricerca per agire). Un altro principio spesso citato è il principio di realtà, dal quale discende l’impossibilità di definire a priori un disegno di ricerca nei suoi dettagli e rimanere rigidamente a esso legati. Un principio che può essere assunto in maniera debole (come negli esperimenti progettuali) o forte (come nella ricerca naturalistica). In quest’ultimo caso solo il ricercatore (con interviste narrative), e non con l’uso di strumenti predeterminati (test, questionari, ecc.), è in grado di sviluppare l’indagine (Mortati, 2009). Vale la pena anche di citare David P. Ausubel (1978) che ha distinto in ambito educativo tra ricerca pura e ricerca applicata. Nel primo caso i problemi emergono all’interno delle teorie e la validità di una loro soluzione può essere esaminata solo all’interno di esse. Nel secondo caso i problemi emergono nel contesto operativo e la loro soluzione può essere validata solo all’interno della pratica.
2. Un quadro di riferimento utile per evitare inutili contrapposizioni Negli anni settanta Hans Freudenthal (1978) aveva esaminato la natura scientifica della ricerca didattica partendo dalla evidenziazione dei caratteri propri di un impianto “scientifico”. In sintesi ecco le tre condizioni: a) che i problemi posti siano rilevanti e pertinenti (anche se si deve specificare da quale punto di vista); b) che l’argomentazione sia internamente coerente ed esternamente valida; c) che i problemi, le argomentazioni e le conclusioni siano rese disponibili a una discussione pubblica. In primo luogo va considerata la problematica affrontata. Essa deve essere rilevante e pertinente da uno specifico punto di vista. Da un punto di vista pratico, nel senso che si tratta problemi emergenti nel contesto dell’attività educativa o didattica e che appaiono significativi e densi di conseguenze operative. Oppure da un punto di vista teorico, in quanto si affrontano questioni presenti e percepite come cruciali, o almeno ricche di senso, dagli studiosi (pedagogisti, filosofi, psicologi, sociologi, storici, antropologi). Il giudizio di valore che ne possiamo trarre deve costituire un chiaro riferimento per scegliere una tematica e impostare il proprio lavoro. In secondo luogo, occorre adottare una valida e produttiva grammatica argomentativa. Essa deve essere poi si sviluppata in maniera coerente. Gli argomenti a favore devono essere elaborati in maniera logica e convincente, tenendo conto anche delle possibili obbiezioni. Si tratta di quella che è chiamata spesso coerenza interna del discorso; un discorso che sul piano della dialettica adottata deve risultare corretto. D’altra parte, i vari passaggi si devono appoggiare su documenti, evidenze e prove, che fanno da riscontro empirico alle varie affermazioni. La natura di questi riscontri dipende dall’approccio adottato: pratico, oppure teorico. Il terzo e fondamentale criterio a cui fare riferimento è quello della pubblicità. L’indagine deve poi essere resa pubblica. Cioè deve stata sottoposta a un’analisi critica adeguata da parte della comunità scientifica e/o da quella di coloro che agiscono nel campo educativo. La qualità dei risultati e delle conclusioni raggiunte dipende quindi da quanto si riescono a superare le critiche e le obbiezioni, da quanto si è in grado di mostrarne la pertinenza e validità, superando possibili tentativi di falsificazione. Nel caso di indagini relative alla pratica educativa occorre ricordare che i ricercatori de-
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vono giustificare se stessi anche nei riguardi di chi agisce nella pratica. Di conseguenza nel pubblico discorso relativo ai risultati dell’attività di ricerca devono trovare il loro posto anche le voci, le opinioni che provengono dal mondo della pratica.
3. Nuove sfide e prospettive Oggi il dibattito in corso a livello internazionale riguarda il cosiddetto approccio ecclettico, la prospettiva che accetta qualunque combinazione di metodi purché si giunga a qualcosa di significativo. I detrattori insistono sul tema dell’incompatibilità teorico-epistemologica tra i diversi metodi. La proposta allora è quella di un ecclettismo debole, o soft incompatibilità, basato su sensibilità al contesto, creatività, consapevolezza concettuale, coerenza e riflessione critica. Esistono, infine, orientamenti che privilegiano le cosiddette triangolazioni tra informazioni e dati che provengono da fonti metodologicamente diversificate. In tutto questo è opportuno richiamare il concetto di plausibilità delle conclusioni, concetto affine a quello di probabilità circa il verificarsi di un evento futuro. In effetti una conclusione si può definire più o meno plausibile in base alla qualità, peso e numerosità degli argomenti a favore di fronte alla qualità, peso e numerosità degli argomenti contrari. Se gran parte delle evidenze appoggiano un giudizio di affidabilità e pertinenza di una particolare conclusione, mentre si presentano pochi e deboli gli elementi a favore di una sua falsificazione, allora possiamo affermare che essa va assunta con un grado elevato di plausibilità. Ci si può chiedere a questo punto: come e perché scegliere un metodo particolare per affrontare una ricerca dottorale? A esempio, perché voi avete scelto la vostra metodologia (o il vostro mix di metodologie) nel condurre la ricerca dottorale?
4. Alcuni esempi sui quali riflettere Per favorire la riflessione comune, evoco tre tipologie diverse di ricerca dottorale che ho potuto esaminare recentemente. a) Per poter confrontare tra loro scuole dell’infanzia di due città di Paesi diversi (Italia e Francia), in particolare dal punto di vista relazionale, ci si è basati sulla raccolta di elementi informativi da tre fonti metodologiche diverse: a) apporti storico-istituzionali; b) opinioni dei docenti e dei famigliari; c) osservazione delle relazioni in classe. Ne sono derivate una serie di comparazioni che hanno portato ad alcune conclusioni supportate da informazioni e dati convenientemente esaminati ed elaborati. Quali assunzioni teoriche e implicazioni metodologiche ha comportato l’impianto di questa ricerca? Il metodo di lavoro adottato secondo voi è risultato coerente con l’obiettivo della dissertazione? b) Per testare l’ipotesi che ai tre bisogni fondamentali dell’essere umano (teoria di Deci e Ryan) era necessario da parte delle persone dare loro senso e prospettiva esistenziale, ci si è basati sull’uso di questionari validati per la popolazione italiana e applicati a un campione di studenti universitari di cinque città e quattro tipologia di facoltà. Quali assunzioni teoriche e implicazioni metodologiche ha comportato l’impianto di questa ricerca? Il metodo di lavoro adottato secondo voi è risultato coerente con l’obiettivo della dissertazione?
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SIRD • Studi
c) Per esplorare il senso di disagio dei docenti nella loro attività didattica si sono raccolte interviste-narrazioni da parte di un numero consistente di insegnanti della primaria, secondaria di primo e secondo grado, esaminando poi i protocolli raccolti per descrivere quanto da essi percepito. Quali assunzioni teoriche e implicazioni metodologiche ha comportato l’impianto di questa ricerca? Il metodo di lavoro adottato secondo voi è risultato coerente con l’obiettivo della dissertazione?
Conclusione È abbastanza evidente che la scelta del metodo di indagine è strettamente collegata a quanto si vuole ottenere come suo risultato. Spesso la scelta dell’argomento da sviluppare è sollecitata dalla scelta previa di una metodologia alla quale si attribuisce oggi particolare significato. In Italia, come in molti Paesi europei, si è avuto negli anni passati un intenso dibattito circa le metodologie più appropriate per studiare le problematiche poste dai processi educativi scolastici. Ne sono derivate scuole di pensiero che assumono prioritariamente e per ragioni epistemologiche la scelta del metodo di ricerca. In questo si è avuta una influenza non secondaria da parte della filosofia (in particolare di orientamento fenomenologico), in qualche modo rievocando in maniera aggiornata i contrasti tra scienze della natura e scienze dello spirito. Probabilmente una visione più complessiva vede i vari approcci metodologici come complementari, più che contraddittori. Tanto più che ogni conclusione rimarrà sempre provvisoria e parziale, data la complessità e dinamicità dei fenomeni studiati. D’altra parte: quante più ricerche basate su metodi diversificati tendono a convergere su conclusioni analoghe, tanto più aumenterà la plausibilità di tali risultati.
Riferimenti bibliografici Ausubel D. P. (1978). Educazione e processi cognitivi. Milano: Franco Angeli. Freudenthal H. (1978). Weeding and Sowing. Dordrecht: Springer. Mortari L. (2009). Ricercare e riflettere. Roma: Carocci. Rorty R. (1994). Scritti filosofici (vol. I.) Bari: Laterza.
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Informazioni La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia Dottorandi e Docenti a confronto: il quinto seminario SIRD The research in the doctorate schools A comparison teachers and students: the fifth SIRD seminar GIOVANNI MORETTI L’articolo presenta la quinta edizione del Seminario SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), dal titolo La ricerca nelle scuole di Dottorato in Italia. Dottorandi e Docenti a confronto, svolta a Roma nel giugno 2011. Dell’iniziativa sono messi in evidenza alcuni degli aspetti più rilevanti emersi, in particolare la necessità di implementare ulteriormente la cultura della trasparenza e della riflessione sulle difficoltà incontrate durante la ricerca, nonché della opportunità di presentare pubblicamente resoconti delle ricerche in corso, e più in generale della urgenza di garantire “Massa critica e diversità”. Da tali considerazioni l’articolo approfondisce il problema del finanziamento della ricerca, con particolare riferimento al numero esiguo di progetti PRIN approvati e finanziati nell’area di ricerca pedagogica e didattica; segnala inoltre il ruolo strategico delle riviste scientifiche di settore e riprende alcuni temi sulla formazione dei giovani ricercatori – ad esempio la definizione dei profili in entrata e in uscita – di attualità nelle discussioni svolte in incontri nazionali e internazionali.
The article deals with the fifth edition of the SIRD (Italian Society for Educational Research) conference entitled “The research within Doctoral Schools in Italy. Ph.D. students face professors”, which was held in Rome in June 2011. The article underlines some important aspects of the conference, in particular the need to improve a culture of transparency and in-depth reflection about research strengths, the opportunity to do a public presentation of on-going research reports and the general urgency to guarantee “critical mass and diversity” within the educational research. The paper deepens the problem of financing research, especially referring to the low number of PRIN projects in educational area approved and financed; then it suggests the strategic role of the scientific journals and it resumes the issue of junior researcher training – such as designing entrance and exit profiles – which is relevant in the national and international debate.
Parole chiave: dottorato, discussione pubblica, ricerca educativa, formazione alla ricerca, risorse per la ricerca
Key words: PhD, public discussion, educational research, research training, resources for research
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Giornale GiornaleItaliano Italianodella dellaRicerca RicercaEducativa Educativa••IV IV••76//DICEMBRE GIUGNO ••2011 2011
Quella che per la SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), poteva apparire una sfida difficile, persino ambiziosa, non solo è stata affrontata, ma il suo esito più evidente è diventato un appuntamento annuale molto atteso dalla comunità scientifica e fortemente partecipato. Come è noto, la SIRD, intercettando per tempo una esigenza assai diffusa tra dottorandi e giovani ricercatori, ha organizzato, con cadenza biennale, specifici Seminari di confronto tra dottorandi di secondo anno e docenti. L’esperienza ha preso avvio nel 2005, a Veroli, ed è stata riproposta con qualche modifica nel 2007 e nel 2009 a Roma. L’iniziativa, come era prevedibile, ha registrato un meritato successo, tuttavia svolgendosi ogni due anni di fatto escludeva alcuni dottorandi dalla possibilità di avvalersi della opportunità di presentare pubblicamente, alla comunità scientifica di riferimento, il proprio lavoro di tesi. Coerentemente con le finalità del Seminario, infatti, la candidatura è riservata ai dottorandi del secondo anno di corso, in modo da consentire loro di tenere conto nell’ulteriore sviluppo e messa a punto del lavoro di tesi delle eventuali riflessioni e considerazioni emerse nel corso della discussione. Questa, dunque, è stata la vera sfida: coniugare la continuità e la sistematicità dell’appuntamento con i dottorandi con la opportunità di intensificarne i tempi di realizzazione. Facile a dirsi, più difficile a farsi, riuscendo nel poco tempo disponibile a mobilitare e coinvolgere le scuole dottorali, oltre che a trovare le “risorse” per rendere possibile la partecipazione dei molti interessati alle due successive edizioni annuali sin qui svolte, la prima a Borgata Baldazza (Linguaglossa - CT) nel 2010, e la successiva, nel 2011, a Roma, dove si è tenuto nei giorni 16-17-18 giugno, presso la sede della Facoltà di Scienze della Formazione dell’ Università degli Studi Roma Tre il quinto Seminario SIRD “La ricerca nelle scuole di Dottorato in Italia. Dottorandi e Docenti a confronto”. Al buon esito della iniziativa hanno indubbiamente contribuito gli interventi di Giorgio Asquini dell’Università Roma “La Sapienza”, su Dieci anni di PISA. Primi bilanci e nuove prospettive; di Michele Pellerey, dell’Università Pontificia Salesiana di Roma, su La scelta del metodo di ricerca. Riflessioni orientative; di Raffaella Semeraro, dell’Università di Padova, su Strumenti per l’analisi qualitativa dei dati di ricerca e di Pietro Lucisano e Marco Andrea de Luca dell’Università Roma “La Sapienza” su Item analisi tra modello e realtà. Tali contributi, programmati e intenzionalmente richiesti dalla SIRD, così come previsto, sono risultati di stimolo e di interesse per i dottorandi. Quindici sono stati i dottorandi del secondo anno (tabella n. 2), in rappresentanza di otto Università, che hanno presentato il proprio lavoro di tesi, dopo che il Direttivo SIRD ha esaminato e accolto la loro candidatura. Le tematiche trattate nelle tesi hanno fatto riferimento agli ambiti scientifici PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pedagogia sperimentale). Sulla base della esperienza maturata nelle precedenti edizioni si è deciso di vincolare maggiormente i dottorandi al rispetto dei tempi stabiliti per la presentazione del lavoro di tesi (max 20 minuti), destinando maggiore spazio al momento successivo, quello della discussione pubblica (al quale sono stati dedicati per ciascun dottorando non meno di 10 minuti). In questo modo si è cercato di integrare la sinteticità dell’esposizione con la completezza e la trasparenza in merito alle procedure adottate nel lavoro di tesi, con particolare riferi-
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SIRD • Informazioni
mento alla definizione del disegno della ricerca, alla formulazione delle ipotesi, alla scelta degli strumenti di rilevazione e alla indicazione delle modalità di elaborazione e interpretazione dei dati raccolti. Mentre nel complesso tutti i dottorandi hanno rispettato il vincolo dei tempi di presentazione – con qualche “taglio” necessario e sofferto operato in itinere da parte di alcuni –, tuttavia si è rilevata la necessità di implementare ulteriormente la cultura della trasparenza e della riflessione sugli errori commessi nel corso della ricerca. Al riguardo va detto che nelle presentazioni, talvolta è emersa la tendenza a trascurare taluni aspetti, che potremmo definire errori o eventi inattesi, che sempre intervengono nel corso della ricerca e che costringono il più delle volte i ricercatori a ridefinire gli obiettivi e le ipotesi ed anche a rivedere il disegno della ricerca. Insomma si registrano alcune difficoltà a far propri in modo consapevole i momenti critici della ricerca, quelli che possono costringere il ricercatore a prendere decisioni per ridefinire uno o più aspetti del processo osservativo in corso. La discussione pubblica permette di superare eventuali reticenze e di descrivere il processo di ricerca nella sua complessità, articolandone i passaggi, le incertezze, le riformulazioni, le approssimazioni, ed anche le inadeguatezze, tutti elementi questi che, se portati a consapevolezza attraverso il confronto critico, costituiscono gli aspetti attraverso i quali il ricercatore si forma attraverso la propria attività di indagine. Occorre dunque promuovere esperienze di ricerca, attraverso cui sia possibile riflettere e sviluppare consapevolezze, ma contestualmente è indispensabile creare le condizioni che le rendano possibili, ad esempio valorizzando le reti esistenti. Per le scuole dottorali, infatti, è assai rilevante fare rete, avere la possibilità di fare sinergie con le reti esistenti, soprattutto per accompagnare e facilitare l’inserimento lavorativo dei dottorandi. In questa prospettiva sono da ritenersi sempre positive, soprattutto se “inter”, le aperture e le collaborazioni con altri soggetti, associazioni, ecc, così come vanno considerate positivamente le esperienze di apertura e confronto realizzate dalle scuole o corsi di dottorato internazionali. Le criticità che caratterizzano lo scenario attuale, nonché il processo di riforma in atto, lasciano irrisolte molte questioni, che impediscono di prefigurare eventuali soluzioni effettivamente in grado di favorire lo sviluppo di reti cooperative, sia territoriali che specialistiche, tra i dottorati in Scienze Pedagogiche. In merito a tali questioni, Luciano Galliani, presidente della SIRD, afferma: “In Italia, che conta ben 44 dottorati in discipline di carattere pedagogico, le Scuole di Dottorato nelle Scienze dell’Educazione e della Formazione sono soltanto sei (Roma Tre, Cattolica di Milano, Macerata, Messina, Firenze, Padova) mentre in tutte le altre sedi, in cui esistono autonomi Dipartimenti di Scienze dell’Educazione o integrati con altre discipline umanistiche e sociali i dottorandi, che fanno riferimento ai settori scientifico-disciplinari MPED/01/02/03/04 con un florilegio di denominazioni, sono inseriti in Scuole dottorali più ampie, anche con modalità consortili. È legittimo un rilievo critico a questa abitudine a preferire un collegamento interno al proprio Ateneo con colleghi di altre aree e settori scientifico-disciplinari o addirittura di altre macro aree, piuttosto che ricercare forme consortili di collaborazione con i colleghi pedagogisti di altri Atenei in Scuole regionali o interregionali per garantire “Massa critica e diversità”. Forse anche per questo la qualità e il peso della nostra ricerca pedagogica e didattica, sembra incidere poco, anche per l’esiguità quantitativa (numero e finanziamenti) dei PRIN, sulle politiche formative nazionali e regionali” (Giornale Italiano della Ricerca Educativa, III, 5, 2010, p.117).
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di altre macro aree, piuttosto c
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Le riflessioni critiche di Galliani, soprattutto in riferimento alla necessità di garantire Massa critica e diversità, sono effettivamente cruciali, perché è ormai evidente che in mancanza di esse si è destinati alla marginalizzazione della ricerca educativa, così come è accaduto nella assegnazione dei finanziamenti PRIN. Come si può capire, osservando la tab. 2, la semplice comparazione tra il numero dei progetti PRIN approvati per area disciplinare e entità di cofinanziamento negli anni 2005 e 2009, mostra la disparità tra quantità delle risorse assegnate alla ricerca scientifica e tecnologica nel 2005 (81.6%) e nel 2009 (74.7%), rispetto ai fondi PRIN assegnati negli stessi anni alla ricerca umanistica (25.3% nel 2005 e 19.4% nel 2009). Una situazione analoga possiamo registrarla nel numero di quelli approvati, che documenta un notevole calo, sia in termini assoluti che percentuali, nel numero dei progetti approvati nell’area della ricerca umanistica nel periodo 2005-2009. In particolare il dato che appare allarmante, è quello che, nell’ambito della diverse aree della ricerca umanistica, evidenzia all’interno nell’Area 11 “Scienze storiche, filosofiche pedagogiche e psicologiche” la differenziazione tra i diversi settori di ricerca riguardo al numero di progetti approvati, che nell’area di ricerca pedagogica e didattica si limitano a due. La carenza di fondi messi complessivamente a disposizione per la ricerca, unitamente alla scarsa considerazione dell’ambito pedagogico-didattico, sono due seri ostacoli alla necessità di garantire ai dottorandi quella massa critica, quell’insieme di soggetti, istituzionali e non, che nel fare rete possono concorrere a determinare quelle precondizioni ritenute indispensabili per formare alla ricerca attraverso la ricerca. Co-finanziamenti
Co- finanziamenti
2005 (%)
2009 (%)
(v.a) % 387 (71.3%)
81.6 %
74.7 %
355 (30.2%)
156 (28.7%)
19.4 %
25.3 %
TOTALE GENERALE
1173 (100.%)
543 (100%)
100.%
100.%
Area 11 scienze storiche, filosofiche pedagogiche e psicologiche
80
38
4.8%
6.2.%
Totale ricerca scientifica e tecnologica Totale ricerca umanistica
N° Progetti PRIN approvati
N° Progetti PRIN approvati
2005 (v.a) % 818 (69.8%)
2009
(4.2%)
(6.2%)
Tab. 1 - Numero di progetti PRIN approvati per area e entità co-finanziamento anni 2005-2009 (fonte: rielaborazione dati Miur)
Nelle duplici azioni sopra citate, contribuire a fare massa critica e creare le precondizioni per fare rete, sembra opportuno segnalare la rilevanza strategica che assumono oggi le riviste scientifiche di ambito pedagogico e didattico, sia le poche già consolidate, sia quelle di nuova istituzione, che si vanno gradualmente affermando e diffondendo. Le riviste scientifiche di settore, infatti, soprattutto con la valutazione dei contributi proposti effettuata tramite i referee (doppio cieco) e sulla base dell’apertura internazionale che le caratterizza, possono effettivamente contribuire a valorizzare e diffondere in modo sempre più rigoroso e sistematico i prodotti della ricerca, innescando in tal modo un circuito virtuoso, che nel medio periodo può indubbiamente contribuire a dare maggiore visibilità e dignità all’insieme della ricerca educativa svolta nel nostro Paese. Anche in questa prospettiva durante i lavori del quinto Seminario SIRD, i docenti (se-
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SIRD • Informazioni
nior/fellow) intervenuti, oltre a svolgere il delicato compito di valutazione critico-formativa in itinere, hanno invitato i dottorandi a praticare nuove e più flessibili modalità di diffusione dei loro lavori. Più volte infatti gli interventi dei docenti hanno fatto riferimento alla importanza di scrivere, pubblicare e diffondere gli esiti del lavoro di ricerca nel corso della ricerca stessa, ad esempio in forma di nota di ricerca, senza attendere necessariamente la conclusione della stesura della tesi, il momento della sua discussione e poi la fase più o meno lunga della sua rielaborazione per poterla eventualmente pubblicare e diffondere in forma di articolo scientifico, saggio o volume. La decisione di sistematizzare i dati raccolti nel corso dell’indagine, per predisporre un report o una nota di ricerca, da presentare e possibilmente discutere pubblicamente, in varie forme e modalità, infatti, non dovrebbe essere considerata come se fosse un diversivo o una distrazione rispetto all’attività di ricerca. Tale eventuale decisione, invece, dovrebbe rappresentare un passaggio strategico del percorso di ricerca, da prevedere sin dal suo avvio. Questa tappa di rendicontazione pubblica, infatti, se stabilita in precedenza, può consentire al ricercatore – nel nostro caso al dottorando di ricerca – di avere un immediato riscontro circa la direzione del proprio lavoro teorico ed empirico, attraverso il confronto diretto con la comunità scientifica più ampia. Non solo, il confronto comprende anche i decisori politici, che anche per questo possono più rapidamente avvalersi degli esiti delle ricerche più recenti (oppure essere motivati a farlo!), senza dover attendere i tempi tradizionali di diffusione. È noto infatti che per alcune problematiche educative emergenti spesso i dati rischiano di apparire già “vecchi” o persino superati nel momento in cui, dopo essere stati compiutamente elaborati e sistematizzati, sono pubblicati e diffusi. Ovviamente tale percorso, può acquistare peso e rilevanza, nel nuovo contesto, soprattutto grazie all’impegno delle riviste, il cui lavoro di referaggio può indubbiamente contribuire a migliorare la qualità dei prodotti di ricerca, compresi quelli eventualmente elaborati dai dottorandi. In questa direzione, di valorizzazione dei prodotti della ricerca sia dei dottorandi che dei dottori di ricerca, la SIRD ha manifestato la volontà di fare la propria parte mettendo a disposizione, tra l’altro, il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, così come testimoniano alcuni dei contributi pubblicati nel presente numero della rivista. Sono tante le motivazioni che consiglierebbero a tutti i soggetti interessati, soprattutto in questa lunga e incerta fase di transizione, di affrontare la formazione dei giovani ricercatori considerandola un investimento per il futuro del Paese e coinvolgendo attivamente gli stessi. Le università sono attualmente impegnate nella revisione degli Statuti, così come previsto dalla legge 240/2010. Le soluzioni che verranno prese non saranno ininfluenti per il futuro delle scuole di dottorato e per i dottorandi stessi. Anche per questo i dottorandi hanno chiesto di essere rappresentati nelle Commissioni statuto insieme al personale non strutturato (precari della ricerca e della docenza). In alcuni Atenei (ad esempio Pisa e Bari, anche se con diritto di parola ma senza diritto di voto) la richiesta di essere coinvolti è stata accolta, in altre realtà, invece, ci sé limitati alla consultazione durante la fase istruttoria della Commissione. È in discussione, inoltre, l’eventuale rappresentanza dei dottorandi sia nel Senato Accademico sia nei Consigli di Dipartimento. Allo stesso modo si dovrebbe prestare maggiore ascolto delle critiche avanzate alla bozza di Regolamento del Dottorato di Ricerca. Al CUN (Consiglio Universitario Nazionale), infatti, sono stati segnalati in particolare dall’ ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) alcuni elementi critici relativi al testo inizialmente fatto circolare come bozza: a) la conferma del dottorato senza borsa e delle tasse di iscrizione a carico dei dottorandi senza borsa; b) il vincolo della previsione di almeno sei borse di dottorato come requisito
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minimo per l’istituzione di un corso di dottorato; c) l’insufficiente esplicitazione e definizione del rapporto da intrattenere tra dottorati e imprese soprattutto in relazione alle caratteristiche che quest’ultime devono possedere nonché in riferimento ai criteri di selezione da adottare; d) il peso eccessivo attribuito all’Anvur. A ben guardare, il problema dei dottorandi e dei giovani ricercatori, non è quello di ottenere maggiore rappresentanza o quello di essere semplicemente “ascoltati”, ma è quello di essere considerati a tutti gli effetti membri attivi che fanno parte di una comunità scientifica. Non a caso, infatti, alcune recenti iniziative svolte sia in ambito nazionale che internazionale ci invitano ad approfondire maggiormente i profili in entrata e in uscita dei giovani ricercatori, specificandone più attentamente le caratteristiche e l’identità. In questa direzione segnaliamo, per primo, il ciclo di seminari su Ispirare l’eccellenza nella ricerca, organizzato dalla fondazione CRUI, nei giorni 18-21 aprile 2011, a Roma, il cui percorso formativo si è articolato in quattro moduli: 1) Competenze per sviluppare ed orientare la ricerca. Come sviluppare eccellenti percorsi di ricerca; 2) La valutazione della Ricerca. Diventare (o non diventare) ciò che si misura; 3) Comunicare la ricerca. Come (e perché) comunicare nella società della conoscenza; 4) Le politiche europee per la ricerca, l’innovazione e lo sviluppo (PE-RIS). Europa si, Europa no, Europa boh?. L’iniziativa assunta dalla CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), tra l’altro, ha focalizzato un aspetto importante, da affrontare con urgenza, quello delle competenze di base che un ricercatore dovrebbe sviluppare per affrontare con successo lo sviluppo di progetti e percorsi di ricerca. Tale questione cruciale è stata anche al centro del convegno nazionale tenutosi a Otranto nel mese di giugno 2011, organizzato dalla Consulta Nazionale di Pedagogia, dal titolo La formazione alla ricerca pedagogica attraverso la ricerca. I dottorandi in Scienze Pedagogiche a confronto. Il dibattito emerso nell’intergruppo relativo agli ambiti scientifici PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pedagogia sperimentale) sulla questione ha messo in evidenza la presenza di ritardi e resistenze da superare ed ha posto l’esigenza di una formazione specifica sulla metodologia della ricerca, da assumere come dimensione “trasversale”, indipendentemente dai contesti o dagli ambiti di ricerca scelti. L’intergruppo, inoltre, rispetto alla formazione dei giovani ricercatori, ha sollevato la questione della necessità di definire i profili in entrata e in uscita, tenendo sempre più presente la dimensione internazionale e la opportunità di favorire la spendibilità del titolo nei vari ambiti accademici, formativi e professionali. Anche qui è emerso la funzione strategica dello sviluppo delle reti cooperative sia territoriali che specialistiche tra i dottorati di ricerca in Scienze Pedagogiche, nonché lo sviluppo di Scuole dottorali Interateneo e Internazionali (PNR). Una proposta emersa durante i lavori del convegno, condivisa dai rappresentanti di tutte le Società pedagogiche e dalle Società scientifiche aderenti alla Consulta pedagogica, è stata quella di operare congiuntamente affinché sia istituito presso il CNR un Istituto Nazionale per la ricerca educativa. Il 29 e 30 settembre 2011, infine, si è svolto a Strasburgo, in Francia, un incontro tra dottorandi e ricercatori in cui sono stati presentati gli esiti di una ricerca condotta tramite questionario e realizzata da Eurodoc (The European Council of Doctoral Candidates and Junior Researchers), sulla condizione dei dottorandi nei paesi dell’Unione Europea. Il report della ricerca illustrato durante l’European Summit for Early Stage Researchers, non fa riferimento diretto alla nostra realtà, infatti tra gli 8.900 dottorandi di 30 paesi non è coinvolta l’Italia. La ricerca avviata nel 2008 e conclusa nel maggio 2009, tuttavia, esamina alcune questioni critiche relative ai dottorandi, che riguardano anche il nostro paese:“ i requisiti di qualificazione, i percorsi di carriera, i meccanismi di finanziamento, i modelli di formazione e supervisione, le condizioni di lavoro, i risultati attesi e raggiunti del lavoro scientifico, nonché la mobilità”.
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SIRD • Informazioni
Da quanto sin qui rilevato e argomentato possiamo trarre una riflessione generale: soprattutto in ambito educativo non possiamo limitarci alle affermazioni di principio- spesso generiche e poco impegnative- sulla ricerca e sulla formazione dei giovani alla ricerca. Considerato che molti nodi critici sono stati progressivamente individuati, anche grazie al lavoro svolto dalle Società scientifiche e pedagogiche, è opportuno affrontarli con rapidità, continuando a prendere iniziative capaci di coinvolgere in primo luogo i dottorandi, e mettere a disposizione strumenti (riviste scientifiche) per valorizzare i prodotti più significativi delle ricerche in corso. Su questa strada da vari anni ha iniziato il suo cammino l’esperienza organizzata dalla SIRD che mette a confronto Dottorandi e Docenti. Il Direttivo SIRD nel confermare la necessità di prestare attenzione continua ai temi sin qui esposti ha deciso di assumere la valutazione, per la sua rilevanza, quale tematica del VII Congresso Scientifico Nazionale (Padova 1-3 dicembre 2011), dal titolo “Università e scuola: valutare per quale società?”. Poiché la valutazione, oggi più che mai, coinvolge tutti gli ambiti e i livelli del sistema formativo – in particolare la Scuola, l’Università e la Formazione continua –, anche attraverso indagini e comparazioni internazionali, sono previste più sezioni parallele: 1) 2) 3) 4) 5) 6)
Dimensione epistemologica della ricerca tra teorie e pratiche di valutazione; Metodi e strumenti di valutazione dei risultati di apprendimento degli studenti; Qualità e valutazione delle organizzazioni scolastiche e formative; Qualità dell’insegnamento e valutazione della didattica; Innovazione didattica, nuove tecnologie e valutazione; Riconoscimento, valutazione e certificazione della competenze nei e tra i contesti formali, non formali e informali; 7) Valutazione comparativa nel sistema e tra sistemi. La SIRD, anche mediante l’organizzazione del proprio Congresso Scientifico Nazionale, si propone di riflettere sulla effettiva diffusione della “cultura della valutazione” in una prospettiva dialettica tra macro e micro, tra sistema e processo, tra accountability e improvement, nella prospettiva di irrobustire la ricerca sulla complessità “sistemica, relazionale, euristica” del processo formativo di cui la valutazione è parte costitutiva.
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Giornale Italiano della Ricerca Educativa • IV • 7 / DICEMBRE • 2011
Dottoranda/o Carlotta Caterina Borghi
Università
Orietta Ciammetti
Università Roma “La Sapienza” Università Roma Tre
Marialuisa Damini
Università di Padova
Enrico Angelo Emili
Università di Bologna
Cinzia Ferranti
Università di Padova
Elena Grassi
Università di Padova,
Loredana Lupo
Paola Parlato
Università di PalermoUniversità di Messina Università di Modena e Reggio Emilia, Università Roma Tre
Salvatore Patera
Università del Salento
Antonella Pugnaghi
Università di Modena e Reggio Emilia
Teresa Sacchi Lodispoto
Università di Roma Tre
Nunzia Schiavone
Università di Bari
Anna Serbati
Università di Padova
Cristina Mariani
Liliana Silva
Università di Bologna Università Roma “La Sapienza”
Titolo Rilevazione di abilità linguistiche attraverso l’analisi della produzione scritta Diversamente diversi. Disabilità e intercultura Costruire competenze interculturali attraverso il Cooperative Learning Strumenti compensativi e strategie inclusive nella scuola Co-costruzione della conoscenza, dinamiche creative e narrazione digitale nelle comunità online Promuovere la salute attraverso l’educazione mediale: una ricerca quasi sperimentale con bambini di 10-11 anni e i loro genitori Insegnare a studiare con le nuove tecnologie Energia: la costruzione curricolare di un concetto Libri per pensare e per crescere. Il ruolo della lettura nella strutturazione del pensiero degli adolescenti Governance territoriale e sviluppo locale. Una comparazione di caso tra Italia e Spagna La modellizzazione della realtà educativa prescolare: uno studio descrittivo dei pattern educativi nella scuola dell’infanzia I materiali didattici dei musei d’arte e archeologia del Centro di didattica museale La documentazione delle pratiche di insegnamento: un contributo per la Ricerca Didattica Riconoscimento e certificazione delle competenze tra apprendimento formale, non formale, informale Misurare l’efficacia scolastica: un’indagine empirica sul valore aggiunto nella terza classe della scuola secondaria di primo grado
Tab. 2 - Nominativi dei dottorandi, sede di provenienza e titolo tesi di dottorato
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Norme editoriali
NORME DI CARATTERE GENERALE Documento: • Il contributo, consegnato su file e accompagnato da versione cartacea, deve essere in formato Word, in cartelle standard di circa 3000 battute, per un massimo di circa 15 cartelle, e deve contenere per ogni autore l’indicazione di: nome (per esteso), cognome, ruolo dell’autore/i, istituzione di appartenenza e indirizzo di posta elettronica. Nel caso di più autori, i nomi vanno elencati in ordine alfabetico. • Il titolo del contributo deve essere in italiano e in inglese e non deve contenere sottotitoli. • I titoli dei paragrafi devono essere brevi e concisi, evitando possibilmente l’uso di sottoparagrafi. • Vanno evitate le composizioni in carattere neretto, sottolineato, in minuscolo spaziato e integralmente in maiuscolo. Attenzione: il contributo deve essere inedito. Può contenere eventuali note di commento a pie’ di pagina e nota bibliografica in chiusura. Il contributo non deve contenere una bibliografia generale. I riferimenti bibliografici interni al testo devono essere inseriti in parentesi tonde: cognome dell’autore a cui segue la virgola e l’anno di edizione, come da esempio riportato alla lettera A) delle note bibliografiche. La nota bibliografica a fine contributo deve rispettare la citazione interna al testo secondo le regole di seguito riportate. Abstact: L’abstract (sia in lingua italiana che in lingua inglese) va collocato dopo il titolo dell’articolo e prima del testo, e non deve superare gli 800 caratteri ciascuno (spazi esclusi). Deve anche comprendere 6 parole chiave in entrambe le lingue. L’abstract deve contenere il senso dell’intero lavoro e rispondere alle domande: perché il lavoro è stato fatto, cosa è stato fatto, cosa si è dimostrato e cosa è stato concluso. Virgolette: Le virgolette alte (o apici): “ ” si usano sia per le citazioni sia per enfatizzare alcune espressioni come “per così dire”, “il cosiddetto”, ecc... Le virgolette basse (o caporali) si usano per i discorsi diretti e per le citazioni: « ». Nel caso in cui una citazione ne contenga un’altra, riportare la citazione interna con le virgolette alte “ ” e quella esterna con le virgolette basse « ». Omissioni: si segnalano con tre puntini tra parentesi quadre […].
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Note: Saranno numerate con numeri arabi progressivi. Si raccomanda un attento controllo della corrispondenza della numerazione delle note con i rinvii indicati a esponente nel testo, sempre con numeri arabi e senza parentesi. Nel testo, il rimando alla nota al piede va posto all’interno della punteggiatura: testo1. e non testo.1 Fanno eccezione i punti esclamativo e interrogativo che precedono l’esponente di nota. Citazioni: In caso di citazioni che superino le tre/quattro righe, si devono riportare in corpo più piccolo e con i margini rientrati rispetto al testo principale, staccate da un’interlinea.
Elenco puntato: Riportare l’elenco con il trattino, con rientro del punto elenco di 0,5, e rientro del testo di 0,5. Riportare il punto e virgola alla fine di ogni punto elenco e il punto alla fine dell’elenco. Esempio: – la capacità di collegare in trame concettuali le conoscenze acquisite nei corsi universitari; – l’individuazione di motivati punti di riferimento per la scelta dei contenuti; – l’individuazione dei nodi portanti, della loro valenza didattica e delle relative difficoltà cognitive. Nel caso che il punto elenco abbia un ulteriore punto elenco al proprio interno, riportare il secondo punto elenco con il pallino, con rientro del punto elenco di 1,5 e rientro del testo di 1,5. Esempio: – Possedere padronanza culturale (storico-epistemologica) della disciplina e inquadrare con cognizione i grandi temi che essa propone, cioè: • padroneggiare i concetti nelle loro articolazioni, e la struttura sintattica, semantica e concettuale della disciplina; • inquadrare e calare nel contesto le proprie conoscenze, anche integrando quelle acquisite nei corsi universitari, per cogliere la loro valenza nella formazione culturale dell’allievo. Lineette: Si distinguono due casi: per unire due parole (es. spazio-tempo), si usa il trattino breve senza nessuno spazio, né prima né dopo. Per creare un inciso all’interno di una frase si usa il trattino medio, preceduto e seguito da uno spazio. Parole straniere: Vanno in carattere tondo le parole straniere che sono entrate nel linguaggio corrente, come: on-line, boom, cabaret, chic, cineforum, computer, dance, film, flipper, gag, garage, horror, leader, monitor, pop, rock, routine, set, spray, star, stress, tea, thè, tic, vamp, week-end, ecc. Esse vanno poste nella forma singolare. In genere vanno in carattere corsivo tutte le parole straniere. Vanno inoltre in carattere corsivo: alter ego (senza lineato breve unito), aut-aut (con lineato breve unito), budget, équipe, media (mezzi di comunicazione), passim, revival, sex-appeal, sit-com (entrambe con lineato breve unito), soft. Accenti: In italiano le vocali a, i, u, richiedono solo l’accento grave (à, ì, ù); la e richiede l’accento acuto in finale di parola in tutti i composti di che (poiché, affinché, cosicché ecc.). Si scrivono con l’accento grave: è, cioè, caffè, tè, ahimè, piè; le parole straniere entrate nell’uso della lingua italiana (gilè, canapè, bignè) e i nomi propri di persona (Noè, Giosuè, Mosè). Si accenta dà (terza persona singolare del verbo dare) e si apostrofa da’ (imperativo presente dello stesso
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verbo) per distinguerle dalla omofona da (preposizione); si afostrofa fa’ (imperativo presente di fare) ma è un grave errore accentare tanto fa (terza persona singolare dello stesso verbo) quanto fa (avverbio o nota musicale). La terza persona singolare del verbo essere, quando è maiuscola, va accentata (È) e non apostrofata (E’). Parentesi: Le parentesi tonde si usano per isolare dal contesto una frase o una parola e per evidenziare un richiamo ad altra parte del testo. Le parentesi quadre si usano all’interno delle tonde, per evidenziare un salto o una mancanza di testo, per introdurre in una citazione tra virgolette il commento dell’autore. La punteggiatura che si riferisce al testo principale va posta fuori dalla parentesi di chiusura. Segni di interpunzione e caratteri di stampa: • I segni di interpunzione (, : ; ! ?) e le parentesi che fanno seguito ad una o più parole in corsivo si compongono sempre in tondo, a meno che non siano parte integrante del brano in corsivo. • I periodi interi fra virgolette o fra parentesi avranno il punto fermo dopo la parentesi di chiusura. Si compongono in tondo: • gli articoli contenuti nelle testate di giornali, riviste, collane e in genere periodici di ogni tipo; Si compongono in tondo fra doppi apici (“tondo”): • all’interno delle citazioni, le parole che normalmente richiedono l’uso delle virgolette basse; • le parole usate in un’accezione diversa dalla loro usuale, o con particolare coloritura.
Numeri delle pagine e degli anni: vanno indicati per esteso (ad es.: pp. 112-146 e non 112-46; 113-118 e non 113-8; 1953-1964 e non 1953-964 o 1953-64 o 1953-4). L’ultima pagina di un volume è pari e così va citata. In un articolo la pagina finale dispari esiste, e così va citata solo qualora la successiva pari sia di un altro contesto; altrimenti va citata, quale ultima pagina, quella pari, anche se bianca. Le cifre della numerazione romana vanno rispettivamente in maiuscoletto se la numerazione araba è in numeri maiuscoletti, in maiuscolo se la numerazione araba è in numeri maiuscoli (ad es.: xxiv, 1987; XXIV, 1987). Immagini: Le immagini, i grafici, i diagrammi vanno riportati in bianco e nero e con risoluzione di almeno 600 pixels. È pertanto necessario verificare che ci sia una buona definizione dei colori all’interno di una scala di grigi. Le immagini vanno inserite nel corpo del testo, ma è bene anche fornire i file a parte delle immagini in formato .jpg o .tiff o .pdf. Nel caso di grafici e diagrammi è bene fornire anche il file excel da cui sono stati tratti. È comunque necessario cercare di limitare il n. di immagini e grafici presenti nel testo. Tabelle: Le tabelle vanno inserite nel corpo del testo e non devono superare in larghezza i 13 cm. Didascalie tabelle, grafici o figure: Riportare l’abbreviazione Tab. per la tabella, Fig. per figura e Graf. per grafico, seguito dal numero, dai due punti e dal titolo. Esempio: (Fig.1: Il progetto della Sird)
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Siti Internet: I siti Internet vanno citati in tondo minuscolo senza virgolette qualora si specifichi l’intero indirizzo elettronico (es.: www.libraweb.net; www.supergiornale.it). Se invece si indica solo il nome, essi vanno in corsivo alto/basso senza virgolette al pari del titolo di un’opera (es.: Libraweb; Libraweb.net); vanno in tondo alto/basso fra virgolette a caporale qualora si riferiscano a pubblicazioni elettroniche periodiche (es.: «Supergiornale»; «Supergiornale.it»). Riferimenti normativi Riportare i riferimenti per esteso, indicando il tipo di normativa, la data e il numero in grassetto, seguito da trattino e titolo in stile normale. Esempio: D.P.R. 31 luglio 1996, n. 470 - Regolamento concernente l’ordinamento didattico della Scuola di Specializzazione per la formazione degli insegnanti di Scuola Secondaria. Glossari Riportare la parola chiave in grassetto. Riportare la definizione dopo lo spazio di una riga. Esempio: Abilità (Skill) Insiemi più o meno ramificati di contenuti di conoscenza, che possono essere sistemi simbolici, corpi di credenze, quadri disciplinari, specifici quadri teorici e/o interpretativi della realtà, dell’esperienza, della condotta. Abbreviazioni (alcune) a. = annata a.a. = anno accademico a.C. = avanti Cristo ad es. = ad esempio ad v. = ad vocem (c.vo) anast. = anastatico app. = appendice art., artt. = articolo, -i autogr. = autografo, -i cap., capp. = capitolo, -i cfr. = confronta cit., citt. = citato, -i cl. = classe cm, m, km, gr, kg = centimetro, ecc. (senza punto basso) cod., codd. = codice, -i col., coll. = colonna, -e cpv. = capoverso c.vo = corsivo (tip.) d.C. = dopo Cristo ecc. = eccetera ed., edd. = edizione, -i es., ess. = esempio, -i et alii = et alii (per esteso; c.vo) f., ff. = foglio, -i f.t. = fuori testo facs. = facsimile fasc. = fascicolo Fig., Figg. = figura, -e (m.lo/m.tto)
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lett. m.lo m.lo/m.tto m.tto misc. ms., mss. n.n. n., nn. N.d.A. N.d.C. N.d.E. N.d.R. N.d.T. nota n.s. n.t. op., opp. op. cit., opp. citt. p., pp. par., parr., §, §§ passim r rist. s. s.a. s.d. s.e. s.l. s.l.m. s.n.t. s.t. sec., secc. sez. sg., sgg. suppl. supra t., tt. t.do Tab., Tabb. Tav., Tavv. tip. tit., titt. trad. v v., vv. vedi vol., voll.
= lettera, -e = maiuscolo (tip.) = maiuscolo/maiuscoletto (tip.) = maiuscoletto (tip.) = miscellanea = manoscritto, -i = non numerato = numero, -i = nota dell’autore = nota del curatore = nota dell’editore = nota del redattore = nota del traduttore = nota (per esteso) = nuova serie = nel testo = opera, -e = opera citata, opere citate (c.vo perché sostituiscono anche il titolo) = pagina, -e = paragrafo, -i = passim (la citazione ricorre frequente nell’opera citata; c.vo) = recto (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = ristampa = serie = senza anno di stampa = senza data = senza indicazione di editore = senza luogo = sul livello del mare = senza note tipografiche = senza indicazione di tipografo = secolo, -i = sezione = seguente, -i = supplemento = sopra = tomo, -i = tondo (tip.) = tabella, -e = tavola, -e = tipografico = titolo, -i = traduzione = verso (per la numerazione delle carte dei manoscritti; c.vo, senza punto basso) = verso, -i = vedi (per esteso) = volume, -i
Nelle abbreviazioni in cifre arabe degli anni, deve essere usato l’apostrofo (ad es.: anni ’30). I nomi dei secoli successivi al mille vanno per esteso e con iniziale maiuscola (ad es.: Settecento); con iniziale minuscola
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vanno invece quelli prima del mille (ad es.: settecento). I nomi dei decenni vanno per esteso e con iniziale minuscola (ad es.: anni venti dell’Ottocento).
NOTE BIBLIOGRAFICHE Le citazioni bibliografiche devono essere complete di tutti gli elementi, nell’ordine in cui segue: 1. cognome e nome (appuntato) dell’Autore in tondo (se gli autori sono due o più andranno separati da una virgola); 2. data di pubblicazione contenuta tra parentesi tonda (1987); 3. titolo dell’opera in corsivo; 4. eventuale indicazione del volume con cifra romana; 5. numero dell’edizione, quando non è la prima, con numero arabo in esponente all’anno citato (es.: 19322); 6. luogo di pubblicazione (seguito da virgola); 7. nome dell’editore e, per le edizioni antiche, del tipografo; 8. rinvio alla pagina (p.) o alle pagine (pp.): esempio: pp. 1-12, 21-25, 217-218, 315-324, 495-502. Tutti i suddetti elementi vanno separati tra loro da una virgola. Alcuni esempi A) Citazioni interne al testo Il cognome di ogni autore citato va in parentesi tonda seguito da un virgola e dall’anno di edizione. Usare il punto e virgola se gli autori sono più di uno (Berndt, 2002; Harlow, 1983). ……… Kernis (1993) ………………Wegener and Petty (1994) Se i nomi degli autori non sono contenuti nel testo (Kernis, 1993) (Wegener & Petty, 1994) In citazioni successive dello stesso volume o dove sono presenti più di sei autori segnalare solo il cognome del primo autore ed inserire “et al.” Harris et al. (2001) afferma... (Kernis et al., 1993) (Harris et al., 2001) 1. Per autori con lo stesso cognome inserire l’iniziale del nome. (E. Johnson, 2001; L. Johnson, 1998) 2. Per i testi dello stesso autore pubblicati nello stesso anno usare l’ordine alfabetico (a, b, c) La ricerca di Berndt (1981a) illustra..... 3. Citazioni fonti indirette Johnson afferma che...(come citato da Smith, 2003, p. 102). 4. Fonti elettroniche Usare lo stile autore-data Kenneth (2000) spiega...
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B) Riferimenti generali Un solo autore Al cognome segue l’iniziale del nome. Berndt T. J. (2002). Friendship quality and social development. Current Directions in Psychological Science, 11, pp. 7-10. Due o più autori Lista dei nomi, virgola e iniziali dei nomi. Wegener D. T., & Petty R. E. (1994). Mood management across affective states: the hedonic contingency hypothesis. Journal of Personality & Social Psychology, 66, pp. 1034-1048. Lista di autori Kernis M. H., Cornell D. P., Sun C. R., Berry A., Harlow T., Bach J. S. (1993).There’s more to self-esteem than whether it is high or low: the importance of stability of self-esteem. Journal of Personality and Social Psychology, 65, pp. 1190-1204. Berndt T. J. (1999). Friends’ influence on students’ adjustment to school. Educational Psychologist, 34, pp. 15-28. Berndt T. J., Keefe K. (1995). Friends’ influence on adolescents’ adjustment to school. Child Development, 66, pp. 1312-1329. Wegener D. T., Kerr N. L., Fleming M. A., & Petty R. E. (2000). Flexible corrections of juror judgments: implications for jury instructions. Psychology, Public Policy, & Law, 6, pp. 629-654. Wegener D.T., Petty R. E., & Klein D. J. (1994). Effects of mood on high elaboration attitude change: the mediating role of likelihood judgments. European Journal of Social Psychology, 24, pp. 25-43. Organizzazioni American Psychological Association. (2003).
C) Riferimenti bibliografici Introduzioni e Prefazioni Citare le informazioni sulla pubblicazione specificando se: Introduzione, Prefazione, Postfazione.Tale regola è applicabile anche al contributo di un periodico. Funk R. & Kolln M. (1998). Introduction. In E.W. Ludlow (Ed.), Understanding English Grammar (pp. 12). Needham, Allyn and Bacon. Articoli Autore A. A., Autore B. B., & Autore C. C. (Anno).Titolo del contributo. Titolo del periodico, numero del volume in corsivo (numero del fascicolo), pagine. Harlow H. F. (1983). Fundamentals for preparing psychology journal articles. Journal of Comparative and Physiological Psychology, 55, pp. 893-896. Scruton R. (1996). The eclipse of listening. The New Criterion, 15(30), pp. 5-13. Article in quotidiani Henry W. A., III. (1990, April 9). Making the grade in today’s schools. Time, 135, pp. 28-31. Lettere Moller G. (2002, Agosto). Ripples versus rumbles [Lettera all’editore]. Scientific American, 287(2), 12.
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Riferimenti in volumi Autore A. A. (Anno di pubblicazione). Titolo del volume. Lettera maiuscola anche per il sottotitolo. Luogo di edizione: Casa Editrice. Calfee R. C., & Valencia R. R. (1991). APA guide to preparing manuscripts for journal publication.Washington: American Psychological Association. Curatele Duncan G. J., & Brooks-Gunn J. (Eds.). (1997). Consequences of growing up poor. New York: Russell Sage Foundation. Volumi con autori e curatori Plath S. (2000). The unabridged journals (K.V. Kukil, Ed.). New York: Anchor. Traduzioni Laplace P. S. (1951). A philosophical essay on probabilities. (F. W. Truscott & F. L. Emory, Trans.). New York: Dover. (Edizione originale pubblicata 1814). Articoli o Capitoli contenuti in un Volume Autore A. A., & Autore B. B. (Anno di pubblicazione). Titolo di capitolo. In A. Editor & B. Editor (Eds.), Tiolo del libro (pagine del capitolo). Luogo: Casa Editrice. O’Neil J. M., & Egan, J. (1992). Men’s and women’s gender role journeys: metaphor for healing, transition, and transformation. In B. R. Wainrib (Ed.), Gender issues across the life cycle (pp. 107-123). New York: Springer. Multivolumi Wiener P. (Ed.). (1973). Dictionary of the history of ideas (Vols. 1-4). New York: Scribner’s. Altri Riferimenti Bergmann P. G. (1993). Relativity. In The new encyclopedia britannica (Vol. 26, pp. 501-508). Chicago: Encyclopedia Britannica. Coltheart M., Curtis B., Atkins P., & Haller M. (1993). Models of reading aloud: dual-route and paralleldistributedprocessing approaches. Psychological Review, 100, pp. 589-608. Yoshida Y. (2001). Essays in urban transportation (Tesi di Dottorato, Boston, College, 2001). Dissertation Abstracts International, 62, 7741A. National Institute of Mental Health. (1990). Clinical training in serious mental illness (DHHS Pubbblicazione ADM 90-1679). Washington, Government Printing Office. Conferenze Schnase J. L., & Cunnius E. L. (Eds.). (1995). Proceedings from CSCL ‘95: The First International Conference on Computer Support for Collaborative Learning. Mahwah: Erlbaum. Pubblicazioni Web o articoli da un periodico Online Autore A. A., & Autore B. B. (Data di pubblicazione).Titolo dell’articolo. Titolo del Periodo Online, numero del volume(numero del fascicolo, se presente). Estratto da http://www.someaddress.com/full/url/ Articoli presenti in Database Smyth A. M., Parker A. L., & Pease D. L. (2002). A study of enjoyment of peas. Journal of Abnormal Eating, 8(3), pp. 120-125.
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