Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno VIII – numero 14 – Giugno 2015
Direttore | Editor in chief LUCIANO GALLIANI | Università degli Studi di Padova Condirettore | Co-editor PIETRO LUCISANO | Sapienza Università di Roma Comitato Scientifico | Editorial Board ROBERTA CARDARELLO | Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia ARMANDO CURATOLA | Università degli Studi di Messina JEAN-MARIE DE KETELE | Université Catholique de Leuvain MARIA LUCIA GIOVANNINI | Alma Mater Studiorum – Università di Bologna ALESSANDRA LA MARCA | Università degli Studi di Palermo GIOVANNI MORETTI | Università degli Studi di Roma Tre ELISABETTA NIGRIS | Università degli Studi di Milano Bicocca ACHILLE M. NOTTI | Università degli Studi di Salerno VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV | City University of Moscow RENATA VIGANÒ | Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Comitato editoriale | Editorial management ANNA SERBATI | Università degli Studi di Padova MARIA CINQUE | Università degli Studi di Palermo ROSA VEGLIANTE | Università degli Studi di Salerno Note per gli Autori | Notes to the Authors I contributi, in formato MS Word, devono essere inviati all’indirizzo email del Comitato Editoriale: editor.sird@gmail.com Ulteriori informazioni per l’invio dei contributi sono reperibili nel sito www.sird.it __________________ Submissions have to be sent, as Ms Word files, to the email address of the Editorial Management: editor.sird@gmail.com Further information about submission can be found at www.sird.it
Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Finito di stampare: Giugno 2015 Abbonamenti • Subscription Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Licosa S.p.A. – Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 – 50125 Firenze • Tel. +055 6483201 • Fax +055 641257 • mail: laura.mori@licosa.com Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Progetto grafico copertina Valentina Sansò
Obiettivi e finalità | Aims and scopes Il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, organo ufficiale della Società Italiana di Ricerca Didattica (SIRD), è dedicato alle metodologie della ricerca educativa e alla ricerca valutativa in educazione. Le aree di ricerca riguardano: lo sviluppo dei curricoli, la formazione degli insegnanti, l’istruzione scolastica, universitaria e professionale, l’organizzazione e progettazione didattica, le tecnologie educative e l’e-learning, le didattiche disciplinari, la didattica per l’educazione inclusiva, le metodologie per la formazione continua, la docimologia, la valutazione e la certificazione delle competenze, la valutazione dei processi formativi, la valutazione e qualità dei sistemi formativi. La rivista è rivolta a ricercatori, educatori, formatori e insegnanti; pubblica lavori di ricerca empirica originali, casi studio ed esperienze, studi critici e sistematici, insieme ad editoriali e brevi report relativi ai recenti sviluppi nei settori. L’obiettivo è diffondere la cultura scientifica e metodologica, incoraggiare il dibattito e stimolare nuova ricerca. ___________________________________ The Italian Journal of Educational Research, promoted by the Italian Society of Educational Research, is devoted to Methodologies of Educational Research and Evaluation Research in Education. Research fields refer to: curriculum development, teacher training, school education, higher education and vocational education and training, instructional management and design, educational technology and e-learning, subject teaching, inclusive education, lifelong learning methodologies, competences evaluation and certification, docimology, students assessment, school evaluation, teacher appraisal, system evaluation and quality. The journal serves the interest of researchers, educators, trainers and teachers, and publishes original empirical research works, case studies, systematic and critical reviews, along with editorials and brief reports, covering recent developments in the field. The journal aims are to share the scientific and methodological culture, to encourage debate and to stimulate new research.
Comitato di referaggio | Referees Committee Il Comitato di Revisori include studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore e il condirettore della rivista. ___________________________________ The referees committee includes well-respected Italian and foreign researchers. The referral process is under the responsability of the Journal’s Editor in Chief and Co-Editor.
Procedura di referaggio | Referral process Il Direttore e Condirettore ricevono gli articoli e li forniscono in forma anonima a due revisori anonimi, tramite l’uso di un’area riservata nel sito della SIRD (www.sird.it), i quali compilano la scheda di valutazione direttamente via web entro i termini stabiliti. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori esprimono un parere positivo. I giudizi dei revisori sono comunicati agli Autori, assieme a indicazioni per l’eventuale revisione, con richiesta di apportare i cambiamenti indicati. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non sono pubblicati. ___________________________________ Editor in chief and co-editor collect the papers and make them available anonymously to two anonymous referees, using a reserved area on the SIRD website (www.sird.it), who are able to fulfill the evaluation grid on the web before the deadline. Only articles for which both referees express a positive judgment are accepted. The referees evaluations are communicated to the authors, including guidelines for eventual changes with request to adjust their submissions according to the referees suggestions. Articles not modified in accordance with the referees guidelines are not accepted.
INDICE 9
Editoriale di Achille M. Notti
Il dibattito sulla scuola e nella scuola
Studi 13
MASSIMO MARCUCCIO La formazione degli insegnanti a una didattica dell’imparare a imparare. Tra scelte per l'innovazione ed elementi di problematicità Teacher training in teaching learning-to-learn key competence Choices for innovation and problematic aspects
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GIUSEPPINA RITA MANGIONE, STEFANO DI TORE, PIO ALFREDO DI TORE, FELICE CORONA Educare seamlessly. Dalla visione integrata delle teorie alle esperienze della comunità pedagogica italiana Educating seamlessly. From the integrated view of theories to the experiences of the Italian pedagogical community
Ricerche 49
BARBARA BALCONI Prove Invalsi e azione didattica: quali riflessioni sulla progettazione per competenze Invalsi tests and educational actions: reflections about designing for competences
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GIUSEPPA CAPPUCCIO La competenza digitale all’università per la progettazione di percorsi di Media Education Digital literacy at university to design Media Education
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PAOLA DAMIANI, ANGELA SANTANIELLO, FILIPPO GOMEZ PALOMA Ripensare la Didattica alla luce delle Neuroscienze. Corpo, abilità visuospaziali ed empatia: una ricerca esplorativa Rethinking didactics in light of neuroscience. Body, visuospatial ability and empathy: an exploratory research
107
MINA DE SANTIS, FLORIANA FALCINELLI, MARIA FILOMIA Riflettere sull’identità professionale mediante un’analisi della personale esperienza didattica: il caso dei PAS Reflections on professional identities through a study of a personal teaching experience: the case of PAS
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ELISABETTA DI GIOVANNI, MARIA CONCETTA GRECO Clima scolastico e variabili soggettive dei docenti di scuola secondaria School climate and personal variables of secondary school’s teachers
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VALENTINA IOBBI, PATRIZIA MAGNOLER L’insegnamento agito The acted teaching
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EMANUELE ISIDORI, MASCIA MIGLIORATI, RAFAEL RAMOS ECHAZARRETA, CLAUDIA MAULINI Il questionario per la rilevazione dei profili pedagogici degli allenatori: per un contributo alla ricerca in pedagogia dello sport The questionnaire for detecting the pedagogical profiles of sports coaches: a contribution to the research in sport pedagogy
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CONCETTA LA ROCCA ePortfolio: l’uso di ambienti online per favorire l’orientamento in itinere nel percorso universitario e-Portfolio: online environments to facilitate on-going guidance at university
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VALENTINA MAZZONI, LUIGINA MORTARI La “banalità” della ricerca educativa. Le attese delle educatrici e insegnanti della scuola dell'infanzia Dumbing down educational research. The voice of teachers in ECEC
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MARISA MICHELINI, LORENZO SANTI, ALBERTO STEFANEL La formazione degli insegnanti in fisica come sfida di ricerca: problematiche, modelli, pratiche Teacher education in physics as a research challenge: problems, models, practices
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KATIA MONTALBETTI Esperienze e rappresentazioni della valutazione negli insegnanti in formazione iniziale. Spunti per la didattica universitaria Teachers’ experiences and representations on evaluation and assessment in initial training. Reflections and considerations for University Teaching
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ANTONELLA NUZZACI L’apprendimento della “scienza dell’insegnamento”: il test di accesso del Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria predice il successo nella progettazione didattica? Learning the “science of teaching”: Does the access test of Degree Course in Primary Education Sciences predicts the success in instructional design?
indice
anno VII | numero 14 | Giugno 2015
249
SERAFINA PASTORE, MONICA PENTASSUGLIA “Another brick in the wall”? Concezioni degli insegnanti sulla valutazione: il punto di vista di chi è in formazione “Another brick in the wall”? Teachers’ conceptions about assessment: the views of teacher trainees
265
CONCETTA TINO, MONICA FEDELI I bisogni formativi dei docenti nella complessa realtà scolastica di oggi Teachers’ training needs in the complicated today’s school
Esperienze 287
FEDERICO BATINI, ALESSIO SURIAN Pas-sando attraverso la didattica Teacher training and the evaluation dimension
305
MARINA DE ROSSI, EMILIA RESTIGLIAN La formazione degli insegnanti alla didattica per competenze. Il caso delle scuole dell’infanzia di Vicenza Educating teachers for a competence-based approach to teaching. The case of the preschools in Vicenza
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ETTORE FELISATTI, ANNA SERBATI Apprendere per imparare: formazione e sviluppo professionale dei docenti universitari. Un progetto innovativo dell’Università di Padova Learning for teaching: educational and professional development for university teachers. An innovative project proposed by the University of Padova
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PIER GIUSEPPE ROSSI, LJUBA PEZZIMENTI Dalla prospettiva di studente a quella di docente From student to teacher perspective
Informazioni 355
GIOVANNI MORETTI
“La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: la nona edizione del seminario SIRD “The research at Doctoral Schools in Italy. Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”: the ninth edition of SIRD conference
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Editoriale ACHILLE M. NOTTI
Il dibattito sulla scuola e nella scuola Il dibattito sulla scuola e nella scuola ormai viaggia sul filo delle invettive, degli slogan. Sembra si sia completamente perso quel senso di razionalità che accompagna l’emanazione di provvedimenti normativi e la discussione ad essi collegata. Decisori politici, rappresentanti degli insegnanti, rappresentanti degli studenti utilizzano termini quali libertà di insegnamento, autonomia, qualità della scuola, valutazione, formazione, etc. non più come principi su cui riflettere in una logica condivisa che dia senso e significato ad un processo organico orientato ad una prospettiva di riforma ma come elementi per rivendicare diritti, o presunti tali, in una logica di acronistica contrapposizione. La logica di una riforma deve salvaguardare il diritto della politica nel disegnare un percorso e nel porre delle finalità, il diritto delle istituzioni scolastiche di liberamente organizzare le proprie attività per perseguire le finalità assegnate, il diritto degli insegnanti alla piena libertà nell’organizzazione del proprio insegnamento, ma soprattutto deve assicurare il diritto degli alunni ad avere una scuola nella quale si sentano partecipi e protagonisti. I diritti di tutti non possono essere assoluti bensì contemperare le finalità assegnate al sistema formativo e, in particolare, calibrare gli investimenti che si intendono fare nelle scuole per implementare il know how del nostro Paese. Curricoli, competenze, metodologie debbono legarsi alle capacità di una istituzione scolastica di funzionare in quanto tale con responsabilità ripartite ma con forte capacità di coesione nelle azioni di interdipendenza. Un progetto di riforma deve mirare a coinvolgere tutti coloro che poi saranno chiamati a renderlo concretamente attuabile. Va da sé che è sbagliato giudicarlo partendo da principi precostituiti in quanto ciò porterebbe solo a sbandierare le proprie verità con il solo risultato della contrapposizione. Non si può pensare che l’innovazione sia rappresentata semplicemente dalle dotazioni tecniche e strumentali e non dai metodi di insegnamento, da una adeguata riflessione tra mezzi e fini educativi, da un controllo scientifico dei progetti e risultati e dalla convinta partecipazione degli operatori scolastici ai processi di riforma e di sperimentazione. Sfuggire alle contrapposizioni, ma non defilarsi dalle scelte, è nei compiti di una società scientifica. La ricerca pedagogica deve impegnarsi ad indicare politiche educative, scientificamente evidenziate, che rendano i decisori politici in grado di impostare un processo di riforme che traguardi le esigenze culturali, sociali ed economiche del nostro Paese nel contesto dell’Unione. Il dibattito in corso ha totalmente ignorato un importante elemento di criticità del nostro sistema scolastico; la scelta fatta, alcuni anni fa, di terminare l’obbligo scolastico a sedici anni con la frequenza dei primi due anni della secondaria di seGiornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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condo grado, scelta di compromesso formativamente inutile. Se non si vuole, o non si può, estendere l’obbligo scolastico a diciotto anni si dovrebbe almeno cercare di dare un senso all’attuale percorso. I due anni di frequenza, attualmente previsti per completare l’obbligo scolastico, in realtà sono stati programmati come biennio di base nell’ambito riflettendo, in linea di massima, il percorso della secondaria superiore nei suoi diversi ordinamenti (tecnici, professionali e licei). Molti studenti, purtroppo, vivono l’esperienza del suddetto biennio come mero adempimento formale e inutile, mentre i docenti, tendenzialmente, sono condizionati dal percepire la loro presenza come transitoria. Non è più possibile rinviare un incisivo e radicale intervento su tale emergenza che si configura come la conseguenza palese della mancata riforma della scuola media, completamente abbandonata dopo il tentativo effettuato da Luigi Berlinguer. Proprio recuperando quella proposta potrebbe risultare utile ipotizzare un percorso formativo che concluda il suo ciclo con l’espletamento dell’obbligo scolastico, magari articolandolo come percorso conclusivo di una fase completa di formazione oggettivamente utile anche allo sviluppo delle competenze chiave di matrice europea e che possa costituire contemporaneamente la base per l’accesso ai “licei”. Una risposta seria al raccordo tra primaria e secondaria di secondo grado rappresenta la premessa indispensabile a qualsiasi riforma. In un quadro istituzionale che assume una nuova razionalità, la formazione degli insegnanti deve essere posta come elemento di forza di tutto il processo riformatore. L’insegnante, oltre a possedere una solida preparazione disciplinare, deve essere in grado si seguire gli avanzamenti della disciplina che insegna. La sua formazione dovrebbe così mirare all’individuazione dei nuclei fondanti delle discipline da considerare strumenti di conoscenza; a padroneggiare adeguate competenze metodologiche per favorire la comprensione della logica delle discipline; a stimolare gli studenti al gusto della scoperta; a metterli in condizione di orientarsi nella molteplicità delle fonti di accesso alle informazioni e al sapere. È essenziale, per l’insegnante, essere in grado di gestire situazioni e relazioni complesse e di muoversi in contesti in continuo mutamento. Nella loro formazione non potranno mancare strumenti teorici e pratici che permettano di interpretare la realtà per poter intervenire nella complessità del processo educativo. Avranno necessità di acquisire gli strumenti per programmare le attività in modo finalizzato, utilizzando le loro competenze disciplinari ed adattandole al contesto in cui agiscono e alle specificità dei loro studenti. Fatto salvo l’assunto che non si può insegnare quello che non si sa e che quindi una solida preparazione disciplinare è alla base di qualsiasi processo formativo, non può sfuggire la sottolineatura che la professionalità docente consiste nell’insegnare qualcosa a qualcuno che “non sa” in modo tale che questi possa impadronirsene, il che è profondamente diverso dall’utilizzare le proprie competenze nel confronto con i colleghi o all’interno, per esempio, di un laboratorio di analisi cliniche. In questa logica il problema non può essere circoscritto alla definizione di quanti debbano essere, nel percorso che porta alla laurea magistrale, i crediti aggiunti e come sia opportuno suddividerli. Il nodo riguarda, invece, in che misura debbano essere riviste le tabelle delle classi di laurea che danno l’accesso ai concorsi per l’insegnamento, sottolineando, ancora una volta, che c’è bisogno di una specificità di percorso per formare futuri insegnanti. Altro problema nodale per dare efficacia ed efficienza al sistema formativo, è quello del ruolo e della funzione della valutazione.
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La valutazione, sia essa di sistema, di processo, o del profitto, non può che essere lo strumento di regolazione del processo educativo e la sua indispensabilità consiste nel fatto che attraverso un suo corretto utilizzo possono emergere gli elementi di criticità da correggere, i punti di forza da consolidare, le scelte rilevatesi sbagliate da riconsiderare Una visione della valutazione limitata al “punire” o al “premiare” alimenta un’ottica distorcente delle sue finalità. Penalizzare una scuola per i mancati risultati, decurtando le sue già scarse risorse e, quindi, abbandonandola ad un destino di progressivo declino, significa privare, in molti casi, il territorio nel quale questa opera, pur con le sue difficoltà, dell’unica opzione possibile di sviluppo. Una valutazione corretta consiste nell’evidenziare le criticità di un’istituzione scolastica alla luce non solo dei risultati finali assoluti, ma, muovendo dal contesto di partenza, evitando di prenderlo come alibi e confrontandolo con contesti simili. Mettere tutti gli operatori scolastici, a cominciare dal Dirigente, di fronte alle loro responsabilità, significa finanziare un intervento straordinario che ponga le condizioni per potersi allineare agli obiettivi prefissati. Solo dopo questa fase, registrando la reiterazione di risultati insoddisfacenti, si possono ipotizzare azioni di penalizzazione. Anche per quanto attiene all’operato degli insegnanti, la valutazione risponde allo stesso principio di regolazione del processo di insegnamento/apprendimento e, quindi, di informazione su come esso procede. Compito dell’insegnante è intervenire per rendere più efficace il processo; compito della scuola è chiedergli cosa abbia fatto per migliorare le criticità che la valutazione aveva evidenziato. In un progetto di riforma il ruolo della valutazione del profitto, dei processi e di sistema è un elemento incontrovertibilmente essenziale; tutti la utilizziamo nell’esercizio della nostra professione docente, tutti dovremmo rispondere del nostro operato. Importante è che essa non sia vista o usata come strumento rigido di separazione e penalizzazione in un contesto di premialità e merito. I dati che le varie indagini ci forniscono vanno sempre letti alla luce di indicatori e parametri chiaramente definiti. In questi giorni abbiamo letto che il rapporto tra PIL e indebitamento ha sfiorato i 130 punti. Si tratta di un dato oggettivo; ma leggere il dato significa anche chiedersi se questo risultato è il frutto di un calo del PIL o di un aumento della spesa pubblica perché solo dando risposte a tali interrogativi è possibile assumere interventi adeguati. Anche in campo educativo nessuno può disconoscere l’utilità delle misurazioni e la necessità di essere tutti soggetti a processi di valutazione; ma deve essere altrettanto chiaro che la valutazione, prima di tutto, è lo strumento indispensabile affinché l’insegnante migliori la sua professionalità e che può anche essere, entro parametri definiti, uno strumento utile ad indicare percorsi di premialità.
editoriale
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La formazione degli insegnanti a una didattica dell’imparare a imparare. Tra scelte per l’innovazione ed elementi di problematicità Massimo Marcuccio • Università di Bologna • massimo.marcuccio@unibo.it
Teacher training in teaching learning-to-learn key competence Choices for innovation and problematic aspects The article addresses the issue of teacher education and training in school system in order to support innovative projects related to teaching learning to learn key competence. The focus is on some key and problematics decisions points that can occur whenever a school becomes involved in designing learning to learn projects: initiation of innovation, development of the construct, social context of learning to learn, use of research results. These, interpreted in the light of a model of educational practice, are used to argue the opportunity of a teacher training and education model that contributes to the development of a complex decision-making competence.
Parole chiave: Formazione degli insegnanti, Imparare a imparare, Innovazione, Competenze chiave, Processo decisionale.
Keywords: Teacher training, Teacher education, Learning to learn, Innovation, Key competencies, Decision making.
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studi
Il contributo affronta il tema della formazione degli insegnanti del sistema scolastico per supportare lo sviluppo di progetti di innovazione didattica finalizzati al promuovere la competenza chiave dell’imparare a imparare. L’attenzione è focalizzata su alcuni momenti decisionali di fondo che contraddistinguono il processo di progettazione – l’avvio dell’innovazione, la rappresentazione del contesto sociale, la messa a punto del costrutto, l’uso dei risultati delle ricerche empiriche – per evidenziarne il livello di problematicità in relazione al tema dell’imparare a imparare. Il dato, interpretato alla luce di un modello di pratica educativa, viene utilizzato per argomentare l’opportunità di un modello di formazione in ingresso e in servizio che contribuisca anche allo sviluppo di una competenza decisionale complessa.
La formazione degli insegnanti a una didattica dell’imparare a imparare. Tra scelte per l’innovazione ed elementi di problematicità
1. Il contesto
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A seguito della Raccomandazione del 18 dicembre 2006 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea (2006) relativa a «competenze chiave per l’apprendimento permanente», in tutta l’Unione europea si è avviato un processo di rinnovamento dei curricola scolastici al fine di prevedere tra i traguardi formativi delle nuove generazione otto competenze chiave1 funzionali alla realizzazione personale, alla coesione sociale e all’occupabilità in una società della conoscenza2. Il recepimento di tali traguardi formativi nel sistema scolastico italiano nei programmi dell’istruzione obbligatoria è iniziato a partire dal 2007 con le Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione (D.M. 31 luglio 2007) e il Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione (D.M. 139/07) per trovare continuità nelle nuove Indicazioni nazionali per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione del 2012 (D.M. 254/2012). In quest’ultimo provvedimento, le competenze chiave vengono assunte come «orizzonte di riferimento verso cui tendere» attraverso un processo che «non si esaurisce al termine del primo ciclo di istruzione, ma prosegue con l’estensione dell’obbligo di istruzione nel ciclo secondario e oltre, in una prospettiva di educazione permanente, per tutto l’arco della vita». Nell’ambito del costante processo di elaborazione e verifica dei propri obiettivi e nell’attento confronto con gli altri sistemi scolastici europei, le Indicazioni nazionali intendono promuovere e consolidare le competenze culturali basilari e irrinunciabili tese a sviluppare progressivamente, nel corso della vita, le competenze-chiave europee» (MIUR, 2012, pp. 13-15). Tra le competenze chiave presenti nelle Indicazioni vi è «l’imparare a imparare»3 di cui viene recepita le definizione proposta dalla Raccomandazione europea (ivi, p. 14)4.
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Le competenze chiave individuate sono le seguenti: comunicazione nella madrelingua; comunicazione nelle lingue straniere; competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia; competenza digitale; imparare a imparare; competenze sociali e civiche; spirito di iniziativa e imprenditorialità; consapevolezza ed espressione culturale. Già prima di quella data, tuttavia, in alcuni contesti sono stati avviati processi di rinnovamento dei curricolo. Si veda per esempio l’articolo di Waeytens et al. (2002) che fa riferimento all’introduzione dell’apprendere ad apprendere nei curriculi delle scuole secondarie dell’area fiamminga del Belgio. Tra le competenze chiave, l’imparare a imparare sembra possedere – non solo per il mondo della scuola – un maggiore potere evocativo legato al fatto di far leva su una delle tensioni antropologiche più profonde: il desiderio di circoscrivere e poter gestire l’indeterminatezza e l’incertezza del futuro. Il testo della definizione è riportata in un paragrafo successivo di questo contributo. Qui sottolineiamo che nel paragrafo dal titolo «Principi metodologici che contraddistinguono un’efficace azione formativa», si afferma che il «promuovere la consapevo-
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Le Indicazioni nazionali, pur nel loro relativo grado di cogenza normativa – così anche come dichiarato nello stesso documento – rivestono una particolare rilevanza rispetto al lavoro concreto nell’ambito dei singoli istituti scolastici poiché è loro intento promuovere un processo di innovazione del sistema scolastico. Tuttavia, per evitare che tale intenzionalità rimanga una mera enunciazione di principio o che venga tradotta in percorsi inattesi non desiderati, è necessario che siano analizzate le condizioni culturali e materiali di una sua applicazione. E, prima tra queste, vi è la condizione degli insegnanti senza i quali, qualsiasi processo di innovazione non può essere intrapreso. Diventa centrale, quindi, a questo proposito il tema delle risorse – presenti o da sviluppare attraverso la formazione in servizio5 e in ingresso – che gli insegnanti sono in grado di investire – tra disponibilità e resistenze – per rispondere a quanto viene loro richiesto per l’attuazione del processo di innovazione didattica. La nostra riflessione si colloca nel contesto di questo complesso processo in atto e si rivolge, in modo particolare, a chi opera a livello di formazione in ingresso e in servizio degli insegnanti – e agli insegnanti che hanno intrapreso percorsi di autoformazione – in relazione alla progettazione di interventi per promuovere la competenza dell’imparare a imparare Lo scopo è evidenziare possibili aree di problematicità – lasciate spesso sullo sfondo sebbene con rilevanti ricadute sul piano didattico – su cui i responsabili del percorso formativo dovrebbero portare la riflessione degli insegnanti al fine di promuovere lo sviluppo di processi decisionali. Per fare questo di seguito sarà dapprima proposto un modello di pratica educativa assunto come cornice teorica di riferimento attraverso cui abbiamo letto alcuni fenomeni in atto nel contesto dell’educazione per riconoscerne il carattere problematico. Vengono poi presentate quattro tra le principali aree problematiche legate ai momenti del processo formativo e ai suoi contenuti che, a nostro avviso, richiedono una deliberazione da parte degli insegnanti.
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lezza del proprio modo di apprendere» è funzionale allo sviluppo della competenza chiave dell’«imparare ad apprendere». «Riconoscere le difficoltà incontrate e le strategie adottate per superarle, prendere atto degli errori commessi, ma anche comprendere le ragioni di un insuccesso, conoscere i propri punti di forza, sono tutte competenze necessarie a rendere l’alunno consapevole del proprio stile di apprendimento e capace di sviluppare autonomia nello studio. Occorre che l’alunno sia attivamente impegnato nella costruzione del suo sapere e di un suo metodo di studio, sia sollecitato a riflettere su come e quanto impara, sia incoraggiato a esplicitare i suoi modi di comprendere e a comunicare ad altri i traguardi raggiunti. Ogni alunno va posto nelle condizioni di capire il compito assegnato e i traguardi da raggiungere, riconoscere le difficoltà e stimare le proprie abilità, imparando così a riflettere sui propri risultati, valutare i progressi compiuti, riconoscere i limiti e le sfide da affrontare, rendersi conto degli esiti delle proprie azioni e trarne considerazioni per migliorare.» (MIUR, 2012, p. 35). Le nostre riflessioni vanno collocate all’interno di un vivo dibattito sulla formazione in servizio degli insegnanti in Italia acceso anche dall’emanazione di provvedimenti normativi – che per evidenti esigenze di spazio e di finalità del contributo non possono essere adeguatamente analizzato – che prevedono una forte contrazione delle risorse economiche ad essa destinate. Si veda a questo proposito la polemica scaturita a seguito dell’emanazione del Decreto Ministeriale 762 del 2 ottobre 2014 che prevede una forte contrazione delle risorse previste dal Decreto Legge 104/13. Su questo tema si possono consultare, per esempio, le pagine web con i seguenti URL: http://www.flcgil.it/scuola/formazionedel-personale-scolastico-no-grazie.flc e http://www.cislscuolalatina.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4457:at tivita-formative-alternanza-scuola-lavoro-e-disabilita&catid=185:varie&Itemid=100015.
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2. La cornice teorica e la situazione problematica
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La pratica educativa degli insegnanti è una realtà complessa il cui studio oramai avviene attraverso modelli di tipo multidimensionale. Gli studi che hanno affrontato questo ambito di riflessione hanno proposto diversi modelli sia di insegnante – tra cui, per esempio, quelli di Clark e Peterson (1986) e di Shulman (1986; 1987), che si collocano nel filone di ricerca del teachers’ thinking, e quello di Korthagen (2004) – sia di formazione degli insegnanti – ad es., quelli di Paquay e Sirota (2001), Altet e Vinatier (2008) e, in contesto italiano, di Nigris (2004), Galliani (2006), Grion (2008). In questo contributo assumiamo come quadro teorico di riferimento il modello di «prassi educativa» elaborato da Ponte e Ax (2011) che delimita l’ambito di interesse ai processi decisionali degli insegnanti a cui viene prestata una particolare attenzione nel dibattito a livello europeo sulla formazione degli insegnanti (Caena, 2011). Le autrici definiscono il concetto di «praxis» una «pratica sociale che può sempre essere giudicata in termini di ciò che può essere considerato come desiderabile o indesiderabile» (Ponte, Ax, 2011, p. 50). In altri termini, si tratta di una «situazione sociale, in un contesto pratico concreto, limitata nello spazio e nel tempo, in cui gli esseri umani agiscono con uno scopo e si assumono la responsabilità delle proprie azioni» (Ax, Ponte, 2007, p. 14). A partire da questa definizione, Ponte e Ax costruiscono un modello di praxis utilizzando le elaborazioni teoriche messe a punto da Jünger Habermas e Karl Mannheim. Di Habermas richiamano la distinzione tra due dimensioni della società moderna: il sistema e il mondo della vita6. Di Mannheim, invece, richiamano la distinzione tra razionalità funzionale e razionalità sostanziale7. Incrociando i concetti sopra esposti vengono individuate quattro aree distinte relative alla «praxis» (ivi, p. 52) quale ambito per la presa di decisione e l’azione professionale degli insegnanti (Fig. 1).
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Secondo le autrici, con il concetto di sistema Jürgen Habermas identifica il modo in cui il mondo è organizzato. Il sistema ha una propria dinamica di autoregolazione attraverso meccanismi anonimi su cui gli individui hanno solo una piccola o nulla influenza. Sono i sottosistemi economico, legale, amministrativo e burocratico che lo guidano. Nelle società morderne assistiamo a un progressivo distacco della dimensione del sistema dai suoi fondamenti nel mondo della vita. Sono tali fondamenti che consentono la condivisione, l’attribuzione di significati, le relazioni sociali e funzionali, la solidarietà reciproca. Nel mondo della vita, invece, i soggetti organizzano la loro vita, basata sulle proprie preferenze e in dialogo con gli altri. Il mondo della vita, per Habermas, subisce sempre più un processo di colonizzazione da parte della dimensione del sistema che decurta progressivamente gli scopi personali per l’azione. Mannheim riprende da Max Weber questa distinzione. La razionalità funzionale riguarda i ragionamenti che sottostanno al modo in cui specifici obiettivi possono essere raggiunti dalla burocrazia. La razionalità sostanziale, invece, riguarda i ragionamenti dei decisori politici che offrono legittimazione a un’azione o allo scopo di un’azione.
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Fig.1: Il modello di Praxis: ambito per il processo decisionale e l’azione professionale. Fonte: Ponte e Ax (2001, p. 53) (con adattamenti)
In base a questo modello, il momento decisionale che alla base della «prassi educativa» dell’insegnante può essere descritto come un processo in cui le quattro aree rappresentano sfere di influenza che agiscono in forma integrata. Nel momento in cui l’insegnante è in procinto di prendere una decisione per l’azione, il principio guida che viene utilizzato può collocarsi sia nella dimensione del sistema che in quello del mondo della vita. La responsabilità individuale nel mondo della vita sussiste indipendentemente dalle dinamiche tese alla standardizzazione della dimensione del sistema. In egual modo, il ragionamento che soggiace alla presa di decisione, può essere contemporaneamente un ragionamento guidato da una razionalità sostanziale così come da una razionalità funzionale. Il benessere di ciascun soggetto in apprendimento, del gruppo a cui appartiene e della società in cui agisce può essere favorito solo da continui e ricorrenti bilanciamenti tra l’influenza delle quattro sfere del modello sui processi decisionali e sulle azioni degli insegnanti. Ciò significa evitare i due tipi di «fondamentalismo» rappresentati dal collocarsi, nel momento della decisone, solo nella dimensione del sistema oppure solo in quella del mondo della vita (Ax, Ponte, 2007). All’interno di questa cornice teorica, «è ragionevole attendersi che i bravi insegnanti riflettano criticamente sulle loro pratiche di insegnamento e che siano attivamente coinvolti in processi decisionali trasparenti» (ivi, p. 50). Momenti specifici sia del processo riflessivo sia di quello decisionale sono di certo il «conoscere il perché, il cosa e il come» del proprio agire8. A integrazione di quanto affermato dalle ricercatrici olandesi, va sottolineato come Habermas consideri il mondo della vita composto da tre «componenti strutturali» – la cultura, la società e la persona – strettamente interconnesse tra loro (Habermas, 1987, p. 138). È in questa interazione che si costruisce il rapporto tra il sapere della singola persona e quella della cultura di cui il sapere scientifico è una manifestazione. Ed è dal dialogo tra questi due saperi che è possibile favorire lo sviluppo – mediato dalla comunicazione – del mondo della vita. Anche in questo caso è ragionevole attendersi che i bravi insegnanti riflettano criticamente sulle loro pratiche di insegnamento e che siano coinvolti attivamente in processi decisionali trasparenti in un continuo confronto con la dimensione culturale ovvero con la produzione scientifica.
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Come si vede, in questo modello si interseca una componente riflessiva come in gran parte dei modelli di formazione degli insegnanti elaborati negli ultimi anni.
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Se, riconosciutone il valore, attribuiamo al modello di prassi educativa sopra descritto la funzione di criterio normativo-valutativo, passiamo ora ad utilizzarlo per “leggere” alcuni fenomeni in atto nel mondo dell’educazione che sembrano rendere problematica la possibilità degli insegnanti di prendere decisioni ed agire supportati da processi di riflessione. Nell’ambito del dibattito scientifico internazionale in educazione stiamo assistendo, oramai da quasi un ventennio, al crescente sviluppo culturale e istituzionale del movimento dell’evidence-based education che ha trasformato il motto “what works” nel criterio guida delle interazioni tra mondo della ricerca e centri decisionali delle politiche educative (OECD, 2007; Calvani, 2007; Vigano, 2010; Giovannini, 2012; 2014a) Il movimento si è contemporaneamente esteso all’ambito dell’insegnamento (Calvani 2011; 2012; 2013) allo scopo di promuovere l’uso delle evidenze elaborate all’interno di percorsi di ricerca nell’elaborazione delle pratiche educative. Non sono mancate critiche a questo movimento avanzate da diverse prospettive (ad. es., Biesta, 2007; Bottani, 2009) che sottolineano, con non poche analogie, il rischio di promuovere una visione “riduttiva” del fenomeno educativo. Nella diffusione di un approccio evidente-based, infatti, si intravisto la possibilità di promuovere una mentalità di tipo efficientistico a scapito di un’attenzione agli aspetti valoriali, ideali e contestuali del fenomeno educativo stesso. In tal modo verrebbe lasciata da parte la domanda sui perché dell’agire educativo – idea di società, di educazione, di scuola – per dare ampio spazio al “come” vengono realizzate certe attività. Tuttavia, questo fenomeno sembra non aver trovato egual riscontro nell’ambito della formazione degli insegnanti, soprattutto in quella in ingresso (Valcke, 2013). Sembra, infatti, che i principali approcci alle formazione degli insegnanti – l’approccio modelling (ad es., Loughran, Berry, 2005) e l’approccio dell’insegnante come ricercatore (ad es., Atkin, 1992) – non sottolineino adeguatamente l’importanza di utilizzare i dati delle ricerche presenti in letteratura per la costruzione della propria professionalità privilegiando il riferimento alla pratica agita “qui ed ora” su un piano tendenzialmente individuale. Alcuni segnali di direzione opposta, però, sembrano emergere. Infatti, di recente dall’analisi comparativa realizzata dalla Commissione europea/EACEA/Eurydice (2013), risulta che ben 14 stati dell’Unione europea su 27 abbiano inserito tra le competenze del profilo in uscita del futuro insegnante l’«abilità di utilizzare la ricerca educative nella pratica di insegnamento» (ivi, p. 30). Resta comunque il fatto che la consultazione di ricerche empiriche già realizzate sui temi di interesse non sia – così come emerge dalle ricerche – una prassi diffusa tra gli insegnanti (Hemsley-Brown, Sharp, 2003; Vanderlinde, van Braak, 2010). Rileggendo questi fenomeni alla luce del modello di pratica educativa qui assunto, possiamo affermare che sia l’atteggiamento del what works promosso dal movimento dell’evidence-based, sia gli approcci alla formazione che privilegiano un approccio che potremo chiamare “situato”, sembrano favorire lo sviluppo di una eccessiva enfasi della razionalità funzionale rispetto alla razionalità sostanziale. E questo processo di rimozione della domanda sul perché limita l’ambito di decisione e di azione degli insegnanti con un conseguente «sminuire» la loro professionalità. Circa il tema specifico dell’imparare a imparare, i fenomeni sopra descritti si intrecciano con lo sviluppo e la diffusione di una potente “retorica” pedagogica presente in molti contesti di discorso nel mondo dell’educazione da parte di soggetti quali l’OCSE o l’Unione Europea che, forti del proprio potere e prestigio istituzionale, stanno “facendo” opinione. La costruzione, diffusione e ripetizione
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(come un mantra) di una “retorica” dell’imparare a imparare può di certo rivestire un’importante funzione qualora si intenda convogliare l’attenzione e gli interessi su un determinato ambito oppure nel caso in cui si voglia creare dibattito a livello culturale con l’intenzione di influenzare le scelte politico-sociali. Tuttavia, quando queste retoriche si inseriscono nel discorso pedagogico rivolto agli insegnanti in presenza di una debole di riflessione sui fondamenti dell’agire professionale, potenzialmente possiamo assistere a un processo di condizionamento. Anche in questo caso, possiamo leggere questo potenziale fenomeno come un processo di sopravvento della dimensione del sistema sul mondo della vita degli insegnanti con il conseguente sottrarre a questi la possibilità di individuare nel proprio “mondo della vita” il senso del proprio agire professionale. In tale possibile scenario, agli insegnanti viene proposto dal sistema (l’apparato ministeriale) un fine (il perché) all’agire professionale – attraverso processi di “convincimento” estrinseco – rispetto ai quali, poi, viene chiesto di individuare – utilizzando una sola razionalità funzionale – i modi pratici per raggiungerli limitando peraltro il confronto con la ricerca scientifica. In questo caso abbiamo una eccessiva iper-enfatizzazione delle ragioni della dimensione del sistema sul mondo della vita9 laddove, all’interno del mondo della vita, non viene salvaguardato l’equilibrio comunicativo tra le componenti strutturali: persona, società e cultura.
3. L’obiettivo del contributo Per prevenire queste possibili derive dei processi di attuazione delle innovazioni didattiche, è opportuno che la «saggezza educativa» degli insegnanti (Giovannini, 2014b) e delle scuole porti a rifuggire dalla risposta immediata alle urgenze e pressioni esterne e a ricavarsi un tempo per riflettere – anche mediante un adeguato confronto gli esiti delle ricerche scientifiche – sui “perché” – in modo integrato anche con il “cosa” e il “come” – progettare interventi che possano essere di una qualche efficacia nel medio e lungo periodo. Questo anche in ragione del fatto che l’implementazione delle competenze chiave non solo richiede lo sviluppo di «adeguate strutture e metodi di insegnamento», ma anche – in ragione della loro «natura cross-curricolare» – un insegnamento interdisciplinare e trasversale alle discipline che necessita di «una pianificazione che riguarda tutta la scuola» (Cook, Weaving, 2012, p. 27)10. L’obiettivo del presente contributo è quello di presentare di seguito alcune aree decisionali relative all’introduzione di un curricolo rinnovato nella prospettiva dell’imparare a imparare nelle quali è in gioco il “perché” e non solo il “cosa” e il “come”. Si tratta di alcune tra le principali aree in cui la problematicità degli ele-
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Nel testo di Ponte e Ax (2011) si prende in esame anche il fenomeno opposto della «marginalizzazione» ossia di una iper-enfatizzazione del mondo della vita rispetto al sistema. 10 Oltre a questi aspetti viene affermata a necessità di altri elementi, tra cui: l’introduzione di metodi di insegnamento particolari, (ambienti di apprendimento interattivo, attività basate su progetto, approcci personalizzati); una cambiamento culturale verso la divisione dei valori, il lavoro di gruppo e l’assunzione di rischi; il coinvolgimento della scuola in una continua innovazione non sporadica.
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menti in questione risulta dal dibattito in corso e richiede da parte dei soggetti una scelta tra molteplici possibilità. Rilette nella prospettiva della formazione degli insegnanti, si tratta di aree problematiche rispetto alle quali gli insegnanti – durante il percorso di formazione o autoformazione – dovrebbero essere messi nelle condizione di conoscerne le diverse opzioni per poterne – in tal modo – sceglierne una in modo argomentato con la consapevolezza delle implicazioni didattiche che ne derivano. La prima area riguarda la scelta di fondo circa l’intraprendere un rinnovamento della proposta educativa della scuola nella prospettiva dell’imparare a imparare. La seconda è legata alla scelta del significato da attribuire al contesto socio-economico-politico entro il quale collocare la riflessione sull’imparare a imparare. La terza è inerente la scelta del significato da attribuire al concetto di “imparare a imparare”. La quarta area decisionale, infine, riguarda la scelta legata al se e come utilizzare le ricerche empiriche sull’imparare imparare già realizzate mantenendo ferma, tuttavia, la convinzione che «un approccio unico che funzioni per tutti gli istituti scolastici non è stato individuato» e che la progettazione dell’implementazione dell’imparare a imparare a livello di singola scuola – così come delle altre competenze chiave – dovrà essere «rispondente al particolare contesto della scuola» (ivi, 2012, p. 28).
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4. La scelta di fondo: perché una didattica dell’imparare a imparare? La trattazione del tema dell’imparare a imparare è spesso accompagnata da toni entusiastici circa la sua centralità per il sistema educativo. Ma perché introdurre un’innovazione del curricolo scolastico proponendo una didattica dell’imparare a imparare? Questo è il primo interrogativo a cui gli insegnanti di un istituto scolastico sono chiamati a rispondere. La prima e più ovvia risposta potrebbe essere che lo richiede la norma oppure che vi è profonda richiesta sociale di cui il sistema politico si fa interprete recependola come norma. In tal senso, l’imparare a imparare – insieme alle altre competenze chiave – è un “apprendimento” da sviluppare in primo luogo per garantire un efficace ingresso nel mondo del lavoro e una permanenza efficace nella società. Lo schema argomentativo che spesso viene presentato, sia nel dibattito culturale e scientifico sia nei documenti di politica educativa, quando si intende sostenere l’importanza dell’imparare a imparare può essere ricondotto ai seguenti passaggi: – per riuscire a vivere e inserirsi in una società “globale” e “dell’informazione” con le caratteristiche di trasformazione e cambiamento continui attuali è necessario essere pronti ad apprendere lungo tutto l’arco della vita; – per essere in grado di apprendere per tutta la vita è necessario aver sviluppato la competenza dell’imparare a imparare11;
11 Nella letteratura scientifica italiana, questa struttura logica viene espressa anche di recente, per esempio, in Alberici (2008, p. 33) con queste parole: «Se si considera l’apprendimento nel contesto delle moderne società complesse, nella dimensione della società globale e della conoscenza, che richiede, come condizione di sviluppo umano e di crescita economica, il potenziamento delle capabilities di fronteggiare il cambiamento e le sfide dello sviluppo lifelong, ne deriva, come condizione necessitante, la for-
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– quindi la competenza dell’imparare a imparare è necessaria per riuscire a vivere nella società attuale. – Ma l’educazione ha per obiettivo fondamentale riuscire a vivere e inserirsi nella società presente. – Quindi la competenza dell’imparare a imparare è uno degli obiettivi fondamentali a cui deve tendere qualsiasi percorso educativo, scolastico e formativo. In questa sede, non intendiamo mettere in discussione la struttura argomentativa di questo “sillogismo”, quanto piuttosto sottolineare che in relazione agli elementi presenti in esso, esiste un dibattito i cui aspetti rendono complessa e problematica l’insieme delle scelte che stanno alla base della decisione di avviare un’innovazione didattica legata all’imparare a imparare. Il primo aspetto problematico che qui evidenziamo riguarda la prospettiva temporale su cui si collocano gli argomenti avanzati a sostegno della rilevanza del tema dell’imparare a imparare e del suo insegnamento nei contesti scolastici. Parlare di società complessa, di società della conoscenza e frammentata in cui viviamo oggi, e in cui dovranno inserirsi un domani gli attuali studenti, implica l’attribuzione al tema dell’imparare a imparare di un valore di “contingenza” che rischia di ridimensionarne la piena portata educativa perché porta a interpretare l’”imparare a imparare” come risposta a esigenze attuali e future rivestendolo, in tal modo, di un carattere innovativo. È indubbio che per promuovere processi di cambiamento nei contesti sociali sia necessario “tatticamente” utilizzare talvolta il richiamo al nuovo e al contingente disancorandolo dal suo senso storico-pedagogico. Quello, però, che dobbiamo chiederci è se “strategicamente” questo possa essere sufficiente nella prospettiva di avviare un cambiamento strutturale. Non si corre il rischio, infatti, che il tema dell’imparare a imparare, letto solo in chiave di attualità, possa essere interpretato come una “moda pedagogica” che, sebbene foriera di conseguenze positive, svanirà appena sarà terminata la propulsione da parte di quegli attori che, prima o poi, volgeranno l’attenzione verso altre mete12? Non si corre il rischio che questo, a cascata, possa influire sulla motivazione di chi dovrà porre in atto il processo di cambiamento, alimentando solo una motivazione di tipo estrinseco? Nel momento in cui si intenda mettere in atto un percorso di formazione13 de-
mazione e lo sviluppo, cioè il possesso di quella che si può definire la competenza delle competenze. E cioè la competenza strategica di apprendere ad apprendere e di riapprendere, sul piano della cognizione, dell’affettività, della socialità, nella consapevolezza di sé, durante l’intero arco della vita» (Il corsivo è il nostro) 12 Tilman Grammes (2008, p. 16) definisce l’imparare a imparare come un «concetto dominante» in un «mercato della moda educativa». 13 In questo contributo il concetto di formazione degli insegnanti viene sempre inteso – in consonanza con le principali teorie dell’educazione degli adulti – come percorso di autoformazione anche nel caso in cui sia previsto il supporto di un soggetto “esterno” incaricato formalmente di gestire, anche in forma indiretta, alcuni momenti del percorso di formazione. Tuttavia, ci teniamo a precisarlo, la nostra riflessione ha anche come riferimento docenti o gruppi di docenti che intendano intraprendere, in forma autonoma, un percorso di “approfondimento” senza “delegare” ad altri né il momento decisionale di avvio delle attività né la gestione delle attività stesse. Questo non toglie che anche in quest’ultimo caso gli insegnanti possano avvalersi di risorse esterne, ma esse assumono solo una funzione consulenziale.
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gli insegnanti, diventa importante inserire all’interno di esso anche aspetti che facciano leva sul coinvolgimento di dimensioni legate ai bisogni più profondi degli insegnanti, al mloro mondo della vita. Ed è nostra convinzione che il riconoscere che l’imparare a imparare abbia un senso storico-pedagogico possa contribuire ad andare in questa direzione. È vero che – come affermano i sociologi Luhmann e Schorr (1988, p. 94) – l’imparare a imparare «esplica una rottura con la tradizione della formazione, nel momento in cui si vede nell’apprendimento dell’apprendere la figura centrale intorno alla quale gravita tutto il resto». Tuttavia – come essi stessi riconoscono – il tema era già stato trattato e sviluppato da Schleiermacher e da von Humboldt nel XIX secolo. Quest’ultimo, per esempio, ne Il piano scolastico di Königsberge e della Lituania (1809) afferma che «il fine dell’insegnamento scolastico consiste nell’esercizio delle facoltà e nell’acquisizione delle conoscenze senza le quali risulta impossibile conseguire la capacità di comprendere scientificamente. Entrambe devono essere preparate da tale insegnamento. Il giovane deve essere messo nella condizione da una parte di accumulare già ora il materiale cui deve collegarsi tutto il proprio potenziale creativo, e dall’altra di poterlo accumulare in futuro a suo piacimento, ed inoltre anche di sviluppare le proprie capacità meccanico-intellettuali. Il giovane è dunque impegnato secondo una modalità doppia in primo luogo direttamente con l’apprendimento, e quindi con l’apprendimento dell’apprendere (Lernen des Lernens)» (in Ugolini, 2013, p. 32)14. Ma la riflessione può andare ben oltre. Infatti, ripercorrendo, anche sommariamente, il percorso della storia moderna dell’educazione e della pedagogia, a noi sembra di scorgere al suo interno un “filo rosso” dell’imparare a imparare che va da Michael de Montaigne a Jan Amos Komensky, passando per Friedrich Schleiermacher15, von Humbolt e Antonio Rosmini Serbati per arrivare fino a John Dewey, Maria Montessori, Jerome Bruner sino ai giorni nostri con Robert M. Smith solo per citare alcuni dei grandi. Il poter leggere la competenza chiave dell’“imparare a imparare” come una dimensione dell’apprendimento che non solo riguarda l’oggi e il domani ma anche un passato, di certo può consentire agli insegnanti di cogliere in essa una valenza trans-temporale che ne potrebbe accrescere il valore educativo.
5. In quale contesto collocare l’imparare a imparare? Spostiamo ora l’attenzione dalla dimensione temporale ad un primo aspetto contenutistico della struttura argomentativa che viene utilizzata per sostenere l’importanza dello sviluppo dell’imparare a imparare: i concetti di “società della conoscenza” e di “società globale”. Attraverso di essi viene proposta una rappresentazione del contesto socio-economico-politico che fa da sfondo alla situazione problematica la cui soluzione viene individuata nello sviluppo della competenza chiave dell’imparare a imparare.
14 La formula «Lernen des Lernens» era già stata usata da Friedrich Schleiermacher nell’opera Gelegentliche Gedanken uber Universitäten, Berlin 1808, p. 34, ma in riferimento agli studi universitari. 15 Si tratta solo di un’ipotesi interpretativa che andrebbe sottoposta a una rigorosa verifica con puntuali studi di carattere storico-ermeneutico.
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Un primo aspetto di complessità che va subito precisato è che con espressioni come “società dell’apprendimento” (learning society) – o simili, come, per es., società dell’informazione” (information society) o “società della conoscenza” (knowledge society) – abbiamo a che fare con rappresentazioni della società il cui valore semantico varia profondamente da autore ad autore. In taluni casi, infatti, l’espressione è una rappresentazione di una “società futura” a cui si tende o si vuole tendere16. In altri casi, invece, l’espressione intende esprimere un tentativo di “descrivere” in modo sintetico la situazione della società moderna a partire da una riorganizzazione di dati, fenomeni e tendenze rilevati nella situazione attuale. In questo caso, si tratta di rappresentazioni mentali che cercano di sintetizzare un fenomeno o più fenomeni della realtà elaborate da studiosi principalmente di origine sociologica17. In altri casi ancora, ci sembra che il concetto di “società” – seguito da un aggettivo o complemento di specificazione – debba essere inteso come ideal-tipo in senso weberiano, ossia come un costrutto la cui intensione «comprende […] elementi tratti dall’esperienza, però scelti e collegati in maniera da costruire un insieme armonico e coerente, che come tale non si riscontra nella realtà, caratterizzata […] da aspetti caotici e auto-contraddittori» (Marradi, 2007, p. 3). In tal senso, la rappresentazione non ha alcuna valenza descrittiva né tanto meno nomologico/assertiva, ma intende solo assolvere a una funzione euristica, quella di fungere da guida per l’“osservazione” e termine di confronto per far emergere, per analogia o contrasto, gli aspetti della realtà osservata. Prestare attenzione a questi aspetti riveste un’importanza fondamentale poiché il rischio è che ciò che viene presentato come una “tensione” o “aspirazione” guidata da particolari valori venga scambiato per una “descrizione” della realtà; nel contempo vi è il rischio che le proposte descrittive vengano assunte come “imperativi” normativi da perseguirsi necessariamente. E che gli idealtipi vengano fraintesi come immagini descrittive o normative quando non lo sono. Questa possibile “confusione” che può essere ingenerata nel lettore, non aiuta di certo la riflessione su questi temi e ancor meno i soggetti che si apprestano a un processo decisionale. Va sottolineato un secondo livello di “complessità” presente nel discorso sulle rappresentazioni della società. Dagli ultimi decenni del secolo XX ad oggi, le società occidentali e, in parte, quelle del resto del mondo sono attraversate da una serie di profonde trasformazioni all’interno dei sistemi del sapere scientifico e tecnologico, dell’organizzazione del lavoro, del sistema politico-sociale e culturale. Si tratta di cambiamenti che si intrecciano l’un l’altro in un “groviglio” spesso inestricabile. Chi propone una rappresentazione di questo complesso intreccio di elementi, cerca sempre di costruirla cercando di individuare un elemento “portante”, chiave, cruciale – che presenti le caratteristiche di essere pervasivo e penetrante
16 Jarvis (1998), a proposito della rappresentazione della società dell’apprendimento, parla di una delle sue possibili interpretazioni nei termini di una “futuristic society”, ossia di una rappresentazione che propone una visione “futuristica” della società. Robert Maynard Hutchins, autore del volume intitolato The learning society (Hutchins, 1968), nel 1953 aveva pubblicato il volume The university of Utopia (Hutchins 1953) ove già dal titolo traspare la tensione ideale in una prospettiva futura. Ricordiamo, inoltre, che nel 1973 la statunitense Carnegie Commission on Higher Education (1973) pubblica un volume dal titolo Toward a learning society: alternative channels to life, work, and service. 17 Jarvis (1998), indica tali rappresentazioni con il termine «metaphors» la cui funzione è quella di «descrivere o illustrare un fenomeno, spesso attraverso una o l’altra delle sue caratteristiche salienti» (p. 59).
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nella società – attorno al quale far ruotare e organizzare molti altri aspetti della società che si intende “rappresentare”. Avremo a questo proposito, quindi, una “società dell’apprendimento”, ma anche una “società globale”, una “società complessa”, una “società liquida”, una “società del rischio”, una “società postmoderna”, una “società multiculturale” e così via. Tra le molteplici rappresentazioni della società attuale o “futura” – che peraltro hanno funzioni referenziali e contenuti semantici differenti come abbiamo visto – quella della learning society è quella che si è «maggiormente diffusa» per il suo «alto impatto evocativo e simbolico», (Alberici, 2008, p. 12). In questa espressione l’apprendimento e la conoscenza sono gli elementi chiave attorno a cui sono catalizzati la maggior parte dei caratteri della società sia “attuale” (con funzione descrittiva) sia “futura” (con funzione “upotico/nomotetica”)18. Il concetto di società dell’apprendimento è un concetto riemerso nell’ultimo decennio come concetto in alcuni casi integrato – in altri casi alternativo – all’educazione, alla scuola e alla competenza. Troviamo una sua prima trattazione e articolazione in modo particolare in Hutchins (1968), Faure (1973), Husen (1976), (Botkin et al. 1977) e Boshier (1980). Ma, come già anticipato, anche nel caso della società dell’apprendimento sono presenti diverse versioni e formulazioni. Michael Young (1998, p 141) afferma che il concetto di società dell’apprendimento è un «concetto problematico» i cui «differenti significati riflettono non solo differenti interessi ma anche differenti visioni del futuro e differenti politiche per raggiungerlo»19. Frank Coffield, invece, individua in letteratura diverse concezioni della società dell’apprendimento che egli denomina «modelli» (Coffield, 2000): crescita di abilità, sviluppo personale, apprendimento sociale, mercato dell’apprendimento, società locali di apprendimento, controllo sociale, autovalutazione, centralità dell’apprendimento, riforma del sistema dell’educazione e cambiamento strutturale20. Si tratta di un tentativo di di-
18 Va sottolineato, però, che l’apprendimento non riveste un ruolo fondamentale solo all’interno di queste rappresentazioni. Anche in altre “società”, infatti, l’apprendimento ha un ruolo importante. La differenza sta nel fatto che in questo caso, l’apprendimento è stato assunto come il nucleo catalizzatore attorno al quale ruotano gli altri elementi e, in quanto tale, è stato assunto come termine da inserire nell’espressione “società dell’apprendimento”. 19 Jarvis (2007) riconosce che insieme alla rappresentazione della “società dell’apprendimento” ve ne sono altre due interconnesse con l’apprendimento lifelong e con quella della società dell’apprendimento: la società dell’informazione che si riferisce alla società in cui la trasmissione della conoscenza si basa principalmente sulle più avanzate tecnologie, la società della conoscenza in cui la conoscenza diventa la principale risorsa per il funzionamento della società e per la produzione di beni e servizi. L’autore individua questa connessione: «le società che funzionano grazie all’applicazione della conoscenza devono essere società dell’apprendimento ma […] una società che pone l’apprendimento al cuore della sua cultura è una società orientata al processo e, in un certo senso, dal momento che coinvolge i processi umani, essa deve essere una società umanistica» (p. 95). 20 Anche Jarvis (1998) presenta una tipologia di “interpretazioni” di “learning society” articolata in tre tipi: società futuristica, società riflessiva, società del consumatore. Abbiamo preferito presentare il lavoro di Coffield poiché a noi sembra che la tipologia di Jarvis non rispetti il criterio dell’omogeneità dei tipi. Infatti viene confusa la valenza semantica (descrizione o normazione) con il “contenuto” semantico. Infatti parlando di società futuristica si fa riferimento alla valenza semantica non così, per esempio quando si parla di società del consumatore e di società riflessiva.
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stinguere e dare ordine ad alcune delle principali caratteristiche del concetto di società dell’apprendimento. Egli riconosce il limite della sua categorizzazione in quanto legata all’analisi dei progetti che fanno parte del programma da lui coordinato21. Per questo propone un ulteriore modello richiamandosi alla proposta di Ranson (1998) laddove si parla di “democrazia dell’apprendimento” come presupposto da cui può nascere una società dell’apprendimento. Tuttavia questi elementi sono sufficienti per trarre alcune conclusioni generali, secondo l’autore inglese: – qualsiasi discorso su “la” società dell’apprendimento deve essere abbandonato poiché esistono molteplici e contrastanti concezioni di tale concetto. E questo richiede un dibattito e una ricerca di consenso preliminari in vista di una qualsiasi applicazione di interventi pratico-operativi; – ciascuna definizione di società dell’apprendimento ha un peso e uno status differente. Alcune di esse hanno dominato per alcuni anni in alcuni paesi mentre altre sono emerse in un secondo tempo; – troppe definizioni implicano un riferimento alla partecipazione e alla offerta di situazioni di apprendimento senza alcun riferimento alle politiche, alla dimensione del potere o alle evidenti disuguaglianze come se i soggetti in apprendimento fossero tutti uguali; – ciascun modello, o combinazione di modelli, ha una sua rilevanza pratica poiché la loro scelta implica precise scelte di programmazione politica. Di fronte a questa situazione, quale immagine di società scegliere tra descrizione del presente, prefigurazione del futuro e funzione euristica? Quale immagine di società tra spazio per lo sviluppo democratico e controllo autoritario? Sono queste alcune delle scelte a cui gli insegnanti impegnati nella progettazione di interventi innovativi legati all’imparare a imparare dovrebbero essere sollecitati a fare.
21 La riflessione di Coffield si sviluppa all’interno del Programma The Learning society promosso dal 1994 al 2000 dall’Economic and Social Research Council (ESRC) britannico, la principale agenzia di ricerca e formazione inglese nell’ambito dei problemi sociali ed economici. La tipologia di modelli di “learning society” è stata elaborata dall’analisi critica delle definizioni di tale concetto utilizzate nei 14 progetti relativi alla innovazione nell’insegnamento e apprendimento nell’educazione superiore che facevano parte del Programma. 22 Kerlinger (2000, p. 4) propone questa distinzione tra concetto e costrutto: «Un concetto è una parola che esprime un’astrazione formata per generalizzazione dai particolari [… ] Un costrutto è un concetto con il significato aggiuntivo di essere stato creato o messo a punto per specifici fini scientifici». Anche Boncori (1993, p. 243-44) definisce i costrutti come «variabili ‘astratte’, frutto delle ‘costruzioni mentali’ degli scienziati (di qui il nome di ‘costrutto’)». In maniera più analitica definisce il «costrutto psicologico» come una «idea elaborata o “costruita” come prodotto dell’immaginazione informata o scientifica: è cioè un’idea teoretica elaborata per spiegare e organizzare alcuni aspetti delle conoscenze esistenti». Utilizzando una distinzione proposta da Marradi (2004, p. 18), possiamo dire che il costrutto non risponde alla funzione di «descrivere il raccordo fra un dato concetto e un dato termine come viene abitualmente inteso fra i membri di una certa comunità» ma quella di «proporre un nuovo raccordo fra un concetto e un termie. Per valutare se il primo tipo di definizione risponde alla propria funzione, l’autore propone di utilizzare il criterio della «correttezza descrittiva»; nel secondo caso, invece, individua nell’«utilità» il criterio più adeguato.
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6. Quale costrutto dell’imparare a imparare?
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Un secondo aspetto contenutistico di problematicità presente nella struttura argomentativa riportata nei paragrafi precedenti riguarda il costrutto22 stesso di imparare a imparare, in particolare la sua definizione e l’uso in ambito didattico. Entrambi questi aspetti rivestono una particolare rilevanza poiché ad essi, a cascata, sono connesse anche le scelte relative alla progettazione di tutti gli altri elementi del complesso sistema didattico: dall’approccio metodologico-didattico per favorirne la promozione negli studenti sino al sistema di valutazione. Al di là delle diverse formulazioni linguistiche con cui è stato espresso il costrutto (imparare a imparare, imparare come imparare), il suo significato è stato individuato attraverso due distinte procedure: in primo luogo, per contrasto rispetto all’area semantica di costrutti affini quali, per esempio, apprendimento, apprendimento autoregolato, apprendimento autodiretto, apprendimento autonomo, metacognizione, intelligenza23; parallelamente si è proceduto all’individuazione diretta degli elementi che ne costituiscono il significato. In entrambi i casi, il processo definitorio – sia nell’ambito politiche educative sia in quello scientifico – ha avuto come esito una molteplicità di definizioni anche molto diverse tra loro24. Solo a livello esemplificativo riportiamo tre di esse che, a nostro avviso, sono in grado di far emergere alcuni elementi della complessità di questa situazione. La prima definizione è quella di Smith (1990) che con l’espressione imparare a imparare intende l’insieme delle «conoscenze, processi e procedure attraverso cui le persone giungono a, e sono assistiti nel, prendere appropriate decisioni educative ed eseguono compiti strumentali a un apprendimento di successo lungo tutto l’arco della vita» (ivi, p. 4). Così concepito, il concetto di l’imparare a imparare «indica un processo continuo distinto dal risultato» di tale processo e, nel contempo, considera il «come imparare» sullo stesso piano del «cosa, perché, quando, dove e se imparare»25. Una seconda definizione è quella proposta da Hautamäki e colleghi (Hautamäki et al., 2002, p. 39) che è stata oggetto di ampio dibattito all’interno del contesto europeo poiché è stata la prima proposta strutturata presa successivamente a riferimento dai documenti dell’Unione europea: «abilità e volontà (willingness) di adattarsi a nuovi compiti, attivando l’impegno a pensare e un’aspettativa di riuscita (perspective of hope) attraverso il mantenimento dell’autoregolazione cognitiva e affettiva nel e dell’azione di apprendimento». La terza definizione che prendiamo in esame è quella proposta in un documento di politica educativa, la Raccomandazione del Parlamento europeo e del consiglio del 18 dicembre 2006 relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente26 fatta propria anche dalle Indicazioni nazionali del 2012: «Imparare a imparare è l’abilità di perseverare nell’apprendimento, di organizzare il proprio apprendimento anche mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a livello individuale che in gruppo. Questa competenza comprende la consapevolezza del proprio processo di apprendimento e dei propri bisogni, l’identificazione delle opportunità disponibili e la capacità di sormontare gli ostacoli per apprendere in modo efficace.
23 Un’analisi di questo aspetto va al di là degli obiettivi di questo contributo. Per esso si rimanda a Smith (1990), Marcuccio (2005), Alberici (2008), Stringher (2013). 24 Per alcune rassegne di definizioni è possibile fare riferimento a Marcuccio (2005) e Stringher (2008; 2013).
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Questa competenza comporta l’acquisizione, l’elaborazione e l’assimilazione di nuove conoscenze e abilità come anche la ricerca e l’uso delle opportunità di orientamento. Il fatto di imparare a imparare fa sì che i discenti prendano le mosse da quanto hanno appreso in precedenza e dalle loro esperienze di vita per usare e applicare conoscenze e abilità in tutta una serie di contesti: a casa, sul lavoro, nell’istruzione e nella formazione. La motivazione e la fiducia sono elementi essenziali perché una persona possa acquisire tale competenza». Di fronte a queste definizioni complesse, in letteratura sono presenti tentativi di individuare alcune categorie generali a cui ricondurre la molteplicità degli aspetti presenti nelle formulazioni definitore; si pensi, ad esempio alla classificazione – proposta da Hoskins e Fredriksson (2006) – in base al paradigma scientifico di riferimento: definizioni di matrice cognitiva e di matrice storico-culturale. Tuttavia, chi intende predisporre un intervento progettuale, troverà difficilmente utile questo tipo di rielaborazioni sintetiche poiché la necessità di un intervento operativo richiede che si debba effettuare una scelta tra la vasta gamma di definizioni presenti in letteratura oppure procedere a costruirne una propria. Ma anche in questo caso, chi si ponga in una prospettiva progettuale non può che provare una sensazione di disorientamento e/o di insoddisfazione di fronte alla definizione scelta tra le tante, data la difficoltà di una sua traduzione praticooperativa. Si tratta infatti di definizioni «lessicali»27 (Marradi 2004, p. 19) oppure «costitutive» (Kerlinger, 2000, p. 41) che definiscono un costrutto usando altri costrutti che si pongono in una posizione elevata su una «scala di generalità» (Marradi, 2004, pp. 17). Certo, una definizione ampia, generica, a maglie larghe può essere utile nell’ambito di discorso dei decisori politici o dei circoli di intellettuali perché questo tipo di definizioni sembra spiegare ogni cosa (Eccles & Wang, 2012). Di certo lo è meno per la comunità dei ricercatori e degli insegnanti che si pongono in una prospettiva progettuale. Infatti, una definizione a maglie larghe consente di incrementare le sovrapposizioni tra teorie e letterature di ricerca, rendendo meno chiaro, di certo, la sua unicità. Una definizione a maglie più strette, più dettagliata, spinge, invece, i ricercatori a rendere chiaro il suo contributo e il valore aggiunto specifico; nel contempo, offre agli insegnanti una maggiore possibilità di un intervento didattico. Di certo una definizione più ristretta favorisce la “misurazione” e lo studio dell’imparare a imparare e consente di individuare connessioni più chiare con altri costrutti e/o teorie in ambito educativo. Tuttavia – ne è un esempio la definizione proposta dalla Raccomandazione europea – in letteratura troviamo anche la tendenza a cercare di rendere più precisi i confini dell’imparare a imparare non tanto diminuendo l’estensione del costrutto e aumentandone l’intensità – individuando cioè pochi elementi/indicatori concreti
25 Questo significa dare spazio all’imparare a imparare senza cadere in quello che Hirsch (1996: 218) ha definito il formalismo ossia «la convinzione che un particolare contenuto appreso a scuola […] sia di gran lunga meno importante dell’acquisizione degli strumenti formali che consentiranno alla persona di imparare un contenuto futuro». 26 Si veda a questo proposito l’Allegato alla Raccomandazione dal titolo Competenze chiave per l’apprendimento permanente — Un quadro di riferimento europeo. 27 L’autore afferma che in letteratura queste definizioni sono chiamate anche «descrittive», «discorsive», «verbali», «nominali» o «teoriche».
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del costrutto generale attraverso una «definizione operativa»28 – ma anzi arricchendolo sempre più di elementi pur rimanendo ancora a livello di definizione lessicale. A questo punto, però, chi – dopo averla scelta – intende utilizzare una definizione dell’imparare a imparare per avviare la progettazione di un intervento didattico si trova di fronte alla necessità di compiere una successiva scelta: prendere in considerazione tutti gli elementi contenuti nella definizione e cercare di promuoverne l’apprendimento oppure selezionarne solo alcuni e solo su quelli sviluppare le attività didattiche? Nel caso si opti per quest’ultima soluzione, quali elementi dell’imparare a imparare scegliere? In base a quale criterio? Un esempio di questo tipo di situazione lo troviamo all’interno del progetto di ricerca-azione dal titolo Learning to Learn in Schools realizzato in Gran Bretagna per un decennio a partire dal 2000 (Rodd, 2002; Wall et al., 2010). L’obiettivo del progetto era indagare in che modo le strategie di insegnamento e apprendimento a livello di classe potessero migliorare lo sviluppo dei soggetti in apprendimento. Ciascuna scuola, in fase di candidatura alla partecipazione, presentava un proprio progetto di ricerca basato su un framework teorico dell’imparare a imparare – elaborato dai ricercatori universitari che accompagnavano la ricerca – all’interno del quale i gruppi di insegnanti dovevano scegliere le aree specifiche da sviluppare. Gli aspetti dell’imparare a imparare tra cui potevano scegliere erano i seguenti: stili di apprendimento, intelligenze multiple, creatività e abilità di pensiero, promozione induttiva dell’apprendimento, cicli di apprendimento (basati sull’apprendimento esperienziale), ambiente di apprendimento, coinvolgimento dei genitori e specifiche iniziative curriculari, comunicazione attraverso l’integrazione di canali comunicativi (visuale, auditivo, cinestetico)29, valutazione per l’apprendimento30.
28 Per Kerlinger (2000, pp. 41-42) una «definizione operativa» è una definizione che «assegna un significato a un costrutto […] specificando le attività o operazioni necessarie per misurarlo e valutare la misurazione». I costrutti devono possedere sia una definizione «costitutiva» sia una definizione operativa: la prima per un suo utilizzo nell’abito della riflessione teoretica; la seconda per lavorare sul piano empirico-operativo. Tuttavia, esiste uno scarto di intensità tra i due tipi di definizione. Infatti, «sebbene indispensabili, le definizioni operative offrono solo significati limitati dei costrutti. Nessuna definizione operativa può mai esprimere i ricchi e diversi aspetti di alcune variabili […] Questo significa che le variabili misurate dagli scienziati hanno spesso un significato limitato e specifico» (ivi, p. 43). 29 Durante il primo anno di ricerca, per esempio, cinque scuole hanno indagato le preferenze di stili di apprendimento e le intelligenze multiple con bambini dai tre agli otto anni; dieci scuole, invece, hanno investigato gli effetti dell’attivazione di corsi per promuovere l’imparare a imparare rivolti a studenti delle scuole medie inferiori che prevedevano il comprendere come prepararsi per l’apprendimento, lo sviluppo di strumenti a supporto di tecniche di apprendimento e l’adozione di specifiche strategie di apprendimento; sette scuole hanno indagato l’impatto dello sviluppo di abilità metacognitive sui risultati in specifiche aree del curricolo di studenti delle scuole superiori; infine molte scuole hanno indagato gli effetti sull’atteggiamento ad apprendere e sull’apprendimento di cambiamenti introdotto nell’ambiente scolastico per renderlo più favorevole alla promozione dell’apprendimento. 30 Le aree principalmente toccate dai progetti scelti dalle scuole sono stati i seguenti: comprensione di come si apprende; stili di apprendimento e intelligenze multiple; applicazione di approcci all’imparare a imparare in specifiche aree disciplinari; strategie di apprendimento dei bambini; approcci di insegnamento/apprendimento; ambienti di apprendimento; coinvolgimento dei genitori e della scuola nel suo complesso; impatto dell’imparare a imparare sulle disposizioni ad apprendere.
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Si è trattato di una delle scelte possibili che ha dovuto tener conto della novità dell’iniziativa e alla numerosità delle scuole coinvolte il cui numero è oscillato, durante lo sviluppo del progetto, intorno alla ventina. Tuttavia, il progetto ha lasciato aperto il problema circa lo sviluppo della competenza dell’imparare a imparare o solo di una sua componente.
7. In che modo favorire l’integrazione tra ricerca e pratica professionale sull’imparare a imparare? Il modello che abbiamo assunto per leggere il fenomeno dell’innovazione legata all’imparare a imparare ci ha potato a rilevare come problematico il fatto che la consultazione di ricerche empiriche già realizzate sui temi di interesse non sia una pratica diffusa tra gli insegnanti (Hemsley-Brown & Sharp, 2003; Vanderlinde & van Braak, 2010). Si tratta di un problema che riguarda non solo il processo di avvio di un’innovazione sull’imparare a imparare ma ogni altro tipo di intervento innovativo e/o di pratica educativa. Il problema si manifesta come un insieme di processi decisionali – circa i vari aspetti e dimensioni dell’innovazione – che vengono messi in atto dagli insegnanti (che nel modello costituiscono nel loro insieme uno degli elementi costitutivi del mondo della vita, ossia la persona) senza una relazione comunicativa con gli elementi costitutivi del mondo della vita, vale a dire la società e la cultura. La consultazione delle ricerche scientifiche31 – espressioni del mondo della cultura – è in grado di fornire suggerimenti utili per individuare ed elaborare indicazioni operative che possano garantire un qualche grado di efficacia nel raggiungimento degli obiettivi anche nel caso in cui le ricerche – e le esperienze progettuali – siano stati realizzati in contesti diversi da quelli in cui si intende intervenire. Per comprendere meglio il fenomeno dell’uso delle ricerche, ci possono aiutare i dati di una recente ricerca (Lysenko et al., 2014) che ha cercato di indagare – mediante la somministrazione di un questionario strutturato – i predittori di uso delle ricerche empiriche nelle pratiche didattiche di un campione di 2734 operatori della scuola (insegnanti, amministratori e professionisti) delle scuole secondarie della provincia del Quebec in Canada. La ricerca conferma il basso livello d’uso delle ricerche nella pratica didattica degli operatori rilevato in altre ricerche anche in un contesto culturale che spinge verso il loro uso. Tra i fattori, invece, che riescono a spiegarne – anche se in modo modesto – la frequenza d’uso, in ordine di influenza, vi sono: l’atteggiamento verso la ricerca; la competenza nell’ambito della ricerca (capacità di: leggere, comprendere e valutare la qualità della ricerca; usare le tecnologie per accedere alle ricerche; tradurre i risultati in pratica); la consapevolezza dei risultati della ricerca; la percezione di appartenenza a un’organizzazione che supporta l’apprendimento. Laddove si opti per un confronto con le ricerche realizzate sul tema dell’imparare a imparare, gli insegnanti coinvolti in processi di innovazione si troveranno
31 Il nostro discorso non intende essere una critica alla lettura di resoconti di esperienze progettuali reperibili in diverse forme e attraverso diversi canali. Vogliamo solo sottolineare che il valore aggiunto delle ricerche empiriche, realizzate nel rispetto dei criteri di scientificità delle comunità di riferimento, è il maggiore grado di rigore nella raccolta e analisi dei dati e, di conseguenza, nell’elaborazione degli esiti.
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a dover scegliere su quali ricerche focalizzare la propria attenzione e, soprattutto, con quale approccio analizzarle: privilegiare l’analisi dei soli esiti oppure estendere l’analisi a tutto il processo di ricerca, a partire dalle caratteristiche del contesto sino ai “perché” che hanno guidato la ricerca? In un contesto che focalizza l’attenzione sulla ricerca “what works” basata su “evidenze”, è di certo importante scoprire che cosa ha funzionato in una determinata situazione. Tuttavia, va tenuto in considerazione che gli esiti delle ricerche non sono altro che il “precipitato” di un processo complesso32 costellato di scelte che hanno profonde ricadute sugli esiti stessi. Quindi, solo ricostruendo il percorso decisionale dell’impianto metodologico di una ricerca – sviluppatosi in integrazione con il contesto e guidato anche dai “perché” dei ricercatori – è possibile cogliere appieno il significato dei suoi esiti. In tal modo si potrà andare oltre ad una consultazione delle ricerche guidata solo da una razionalità strumentale alla ricerca del che “cosa funzioni” o meno.
8. Per uno sguardo in prospettiva… 30
Le considerazioni sviluppate in questo contributo potrebbero essere percepite negativamente con diverse sfumature, soprattutto dal mondo della scuola: come un fattore di disorientamento degli insegnanti e delle scuole proprio nel momento in cui sono in atto profondi processi di cambiamento che hanno già dato vita, a partire dal 2007, a una serie di iniziative tese a promuovere lo sviluppo dell’imparare a imparare in ambito scolastico33; oppure come un lusso che possono concedersi solo i futuri insegnanti e che gli insegnanti in servizio non possono permettersi, pressati come sono dalle molteplici tensioni che oggi caratterizzano la vita della scuola di oggi. Tuttavia, se assumiamo come riferimento un modello di pratica insegnante caratterizzata da una competenza decisionale guidata da una razionalità sia so-
32 Parliamo di complessità per fare riferimento a un modello di ricerca empirica in cui la componente teorica ed empirica si integrano, con rimandi continui, in un progetto che ha come fulcro aggregante, però, la raccolta e l’analisi di dati empirici. 33 Ricordiamo, solo a titolo esemplificativo e senza pretesa di completezza, i seguenti progetti: 1) l’indagine europea, realizzata tra il 2007 e il 2008, tra i 14-enni europei volta a misurare con un questionario l’“imparare ad apprendere” a cui l’Italia, insieme ad altre sette nazioni, ha partecipato attraverso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca; 2) il progetto ScuolaEuropa 2010 Laboratori per le competenze trasversali nato dalla collaborazione tra l’Agenzia Scuola e la Direzione Generale per gli Affari Internazionali del Ministero della Pubblica Istruzione come risposta al bando 2008 della la Commissione europea “Establishment and implementation of National Lifelong Learning Strategies - Education and Training 2010” che ha inteso dare il proprio sostegno agli Stati membri nel concretizzare attività per lo sviluppo di strategie di Lifelong Learning; 3) il progetto biennale, attualmente in corso (2013-2015), finanziato dalla Commissione Europea all’interno del Programma di apprendimento permanente Leonardo da Vinci denominato TKEY - Teaching EU Key Competence in High Interaction Learning che in otto regioni italiane in collaborazione con quattro partner europei intende «stimolare una progettualità che favorisca nella programmazione didattica abituale l’inserimento di contenuti relativi alla cultura dell’imprenditorialità, alle competenze digitali e alle competenze per imparare ad imparare» (www.tkeyhil.eu).
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stanziale che funzionale e che individua nella dinamica comunicativa delle componenti strutturali del «mondo della vita» così come nella dimensione del «sistema» i perché del proprio agire, riteniamo che riflettere su alcuni momenti decisionali nodali e sulle relative opzioni di scelta possa costituire un momento importante per gli insegnanti che intraprendono un percorso di formazione o di autoformazione sulla didattica dell’imparare a imparare. Spetterà ai ricercatori e a coloro a cui sarà affidata la responsabilità di future iniziative di formazione e di autoformazione degli insegnanti affrontare la sfida di individuare le strategie più efficaci per promuovere la competenza del prendere decisioni a livelli organizzativi complessi anche nella direzione dei “perché” e in interazione con gli esiti della ricerca scientifica. Tutto ciò con la consapevolezza che i fattori fondamentali che possono favorire tale processo ciò si collocano – in primo luogo – a livello di atteggiamenti e convinzioni degli insegnanti.
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Educare seamlessly. Dalla visione integrata delle teorie alle esperienze della comunità pedagogica italiana Giuseppina Rita Mangione • Indire • g.mangione@indire.it Pio Alfredo Di Tore • Università degli Studi di Salerno • alfredo.ditore@gmail.com Stefano Di Tore • Università degli Studi di Salerno • sditore@unisa.it Felice Corona • Università degli Studi di Salerno • fcorona@unisa.it
Educating seamlessly. From the integrated view of theories to the experiences of the Italian pedagogical community
Parole chiave: seamless learning, situation awareness, enattività, corporeità, Umwelt.
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The learning is no longer related to the structural setting of traditional classroom; it is instead an “across spaces” place characterized by the possibility to build ubiquitous experiences. Such experiences are in fact no more subject to space-time limits and bounds but focused on context – student relation and on situation awareness to enhance the learning processes. Also, these experiences are often associated with next generation technologies, mobiles, wereables and interactives, which well fit to a paradigm shift marked by learning situations in enactive, embodied and readable by the student learning. In this work, we present the first theoretical and applicative results that the Italian scientific community has achieved as part of the research lines that involve around the concept of Situation Awareness and Cognitive Awareness, constituent a seamless learning.
Keywords: seamless learning, situation awareness, enactivism, corporeality, Umwelt.
Giuseppina Rita Mangione è Primo Ricercatore in INDIRE e coordina il Nucleo Territoriale SUD. Coordina la linea di ricerca sul seamless learning e approfondisce le tendenze teoriche e i principi a supporto di tale nuova modalità educativa e didattica. Pio Alfredo Di Tore è docente di sostegno nella scuola secondaria di I grado. Ha approfondito il concetto di Situation Awareness e della sensoristica applicata nel framework proposto. Stefano Di Tore, PhD, è stato assegnista di ricerca e professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università degli studi di Salerno. Ha curato la presentazione delle ricerche sperimentali. Felice Corona, Professore Associato di Didattica e Pedagogia Speciale (M-PED/03) presso l’Università degli Studi di Salerno – Facoltà di Medicina e Chirurgia, è il supervisore scientifico della ricerca.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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L’apprendimento non è più legato alla configurazione strutturale di una classe tradizionale, diviene “across spaces” e si caratterizza per la possibilità di costruire esperienze ubique. Tali esperienze non sono più soggette ai limiti e vincoli di spazio e tempo e puntano sulla relazione studente-contesto e sulla consapevolezza cognitiva necessaria per migliorare i processi di apprendimento. Tali esperienze vengono spesso associate alle tecnologie di nuova generazione, mobili, indossabili e interattive, che ben si prestano ad uno shift di paradigma caratterizzato da situazioni di apprendimento in un contesto enattivo, corporeo e leggibile per lo studente. In questo lavoro presentiamo i primi risultati, sia da un punto di vista teorico sia da un punto di vista applicativo, che la comunità scientifica italiana ha ottenuto nell’ambito delle linee di ricerca che ruotano intorno al concetto di Situation Awareness e alla Consapevolezza Cognitiva alla base di un apprendimento seamless.
Educare seamlessly. Dalla visione integrata delle teorie alle esperienze della comunità pedagogica italiana
Introduzione al seamless learning
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Il settore di ricerca relativo all’apprendimento ha accolto, negli ultimi anni, sollecitazioni provenienti da diversi campi del sapere. In particolare, se nel passato l’esperienza trasformativa era determinata da tre specifiche dimensioni (lo studente, l’educatore e il contenuto didattico), oggi è la dimensione del “contesto” ad essere il motore di nuove teorie e pratiche (Bouchard, 2011). La tensione emersa negli ultimi anni tra apprendimento formale, basato su “fixed curricula” predisposti per un’idea di apprendimento vincolata allo spazio classe, e apprendimento informale, dove gli studenti partecipano ad esperienze intenzionali ma anche al di fuori del tradizionale setting scolastico (Loi et al., 2010), ha portato gli studiosi dell’educazione formulare una idea di esperienza conoscitiva in grado di accogliere le suddette articolazioni come non dicotomiche o conflittuali (Barron, 2006; Looi et al., 2009; Sharples, 2006). In quest’ottica, svincolandosi dal “linking learning in the classroom”, l’idea di apprendimento viene legata al concetto di “individual cognition” e all’idea di una attività cognitiva “consapevole” che superi lo spazio tradizionalmente concesso all’educazione (Brown, Collins, Duguid, 1989; Resnick, 1987). L’apprendimento non è più legato allo spazio “classe” e, come sottolineato da Looi (Looi, et al., 2009; Loi et al., 2010), oggi si parla di “learning across spaces”. L’apprendimento è un elemento che si intreccia in modo naturale con tutte le attività quotidiane (life embedded). Le vie della quotidianità divengono appunto contesti e risorse per una formazione che, abbandonando vincoli situativi di luogo e tempo, si caratterizza come un’entità dinamica, costruita dall’interazione tra gli studenti e il loro ambiente (Sharples et al., 2007). L’apprendimento diventa ubiquo (DeDe, 2011) e si caratterizza per la possibilità di costruire esperienze pervasive, consapevoli, agite, incarnate. Tali esperienze vengono spesso associate alle tecnologie di nuova generazione che ben si prestano ad uno shift di paradigma caratterizzato dalla continuità di apprendimento. Smartphone, tablet, Google Glass e, in generale, le Wearable Technologies (tecnologie indossabili) equipaggiate con sensori e attuatori ci permettono di interagire con gli ambienti di vita scambiando dati con questi ambienti e con gli altri devices che ne entrano a far parte (Specht, 2014). In questa prospettiva, i dispositivi mobili dotati di sensori utilizzati dagli studenti e dai docenti possono funzionare da learning hub (Looi, et al., 2009) in grado di raccogliere i dati derivanti dall’interazione dinamica tra studente e ambiente, di dare un significato alla “situazione di apprendimento” (Bentley, Shegunshi, Scannell, 2009) e sostenere quindi un modo di apprendere seamless. L’apprendimento seamless viene definito come un learning style caratterizzato dalla possibilità di apprendere in vari scenari e dalla possibilità di passare facilmente da un contesto all’altro (es: formal e informal learning, personal e social learning, etc.) grazie all’uso di tecnologie personali e mobili che fungono da mediatori (Wong, 2012).
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La nozione di seamless learning richiama i concetti di learning anytime e learning anywhere e non solo learning everytime e learning everywhere. Questo non vuol dire che lo studente “is always doing tasks and pursuing learning especially outside of school” (Wong, 2012, p. 20), quanto piuttosto che l’obiettivo è quello di aiutare lo studente ad apprendere ogni qual volta il suo desiderio di apprendimento viene stimolato (Chen Li, Song, 2013). Nell’ultima decade, la formula del “learning anytime” e del “learning anywhere” ha contribuito a dirigere il focus dell’attenzione della comunità scientifica sulla capacità di accesso, offerta dai dispositivi quali learning hub, a “corpora” e stream di informazioni più o meno strutturati. Smartphone, tablet, glasse e sensori costituiscono punti di accesso ad informazioni e nel contempo presentano una ricchissima gamma di informazioni sul “qui ed ora” del learner, elaborare il contesto in cui si trova ad operare (Milrad et al., 2013). I dati da lavorare sono alla base della situation awareness che, come accennato in precedenza, è condizione fondamentale dell’apprendimento seamless ed enattivo (Ogata et al., 2015). In altri termini, quegli stessi dispositivi che sono considerati l’ubi consistam dell’ubiquità costituiscono il primo e necessario layer per l’indagine del “qui ed ora” del soggetto che apprende, e, di conseguenza, per la costruzione della situation awareness, che è una variabile fondamentale del processo di insegnamento-apprendimento. Alcuni percorsi di ricerca, intrapresi da quella parte della comunità pedagogica italiana tradizionalmente più attenta alla didattica enattiva, alle traiettorie di apprendimento non lineari e all’apprendimento situato, si sono concentrati proprio sull’utilizzo didattico dei sensori e delle tecnologie indossabili come sistemi di ricognizione semi-automatica del contesto di apprendimento, e si sono rivolti anche a setting tradizionali, dimostrando così che l’idea di seamless non prescinde dall’aula o dalla formalità del contesto, bensì integra e mira a comprendere meglio questi ultimi creando una continuità, grazie a dispositivi mobili e connessi in rete, con situazioni fuori dalla classe altrettanto intenzionali e formativi. L’attuale generazione di questi dispositivi integra una varietà di sensori (accelerometri, giroscopi, GPS, microfoni, sensori ottici, sensori di temperatura, di altitudine etc.) che li trasforma in strumenti non solo in grado di accedere a risorse remote, ma anche di restituire una ricca serie di dati sul contesto, sulla situazione in cui è immerso l’utente. Un framework in grado di interpretare questi dati in tempo reale potrebbe rivelarsi uno strumento particolarmente interessante per lo studio dei processi di apprendimento, sia nei setting tradizionali che nelle condizioni più immediatamente associabili all’idea di seamless. In questo lavoro, riconoscendo nel concetto di Situation Awareness un denominatore comune alle esperienze di insegnamento-apprendimento, proviamo a riunire in un’unica analisi entrambe le tendenze, quella che muove in direzione del Learning Anywhere e quella che ha provato a indagare, mutuando a volte strumenti e tecniche da altri campi del sapere, cosa accade nei tradizionali setting didattici. In questo senso, dapprima concentriamo l’attenzione sul concetto di consapevolezza in situazione come base di una pedagogia del seamless learning, per poi focalizzare l’attenzione sui primi risultati, da un punto di vista teorico e applicativo, che la comunità scientifica italiana ha ottenuto nell’ambito delle linee di ricerca che ruotano intorno al concetto di Situation Awareness. Questo studio ha come obiettivo ultimo quello di aiutare ad identificare opportunità e sfide che le ricerche italiane presentano, ma soprattutto quello di evidenziare la necessità di riportarle in una visione organica e sistemica all’interno
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di una nuova concezione della didattica che faciliti il dialogo e il confronto con gli studi internazionali.
1. Principi e teorie dell’apprendimento seamless: enattivismo, simulazione, cognizione consapevole
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Secondo Varela, Thompson e Rosch, la cognizione non è la rappresentazione di un mondo prestabilito da parte di una mente prestabilita, ma è piuttosto l’enactment, la produzione di un mondo e di una mente sulla base della storia delle diverse azioni che un essere compie nel mondo (Varela, Thompson, Rosch, 1991). L’azione, in questo senso, non si limita a reagire all’evento, lo struttura e lo precede attraverso la simulazione e l’emulazione. Nelle parole di Berthoz e Petit, “il nostro concetto di azione è molto più ricco rispetto alle attuali teorie sensomotorie, che continuano a subordinare l’azione alla categoria del movimento” (Berthoz, Petit, 2006). “La consapevolezza del fatto che l’apprendimento è in fondo lo sviluppo della nostra capacità di previsione può trovare conferma in alcuni meccanismi su cui la ricerca neuroscientifica ha di recente fornito evidenze e che spiegano sul piano sperimentale quanto la filosofia e le scienze umane già da tempo avevano intuito. Il primo di questi dispositivi è l’emulazione” (Rivoltella, 2014a). Questa visione teorica ha permesso agli studiosi di recuperare gli elementi della tradizione pedagogica attivista quali appunto il fare, il corpo e il concetto di cognizione quale azione comune e consapevole del soggetto (Coin, 2014). L’apprendimento enattivo (Rossi, 2011), connettendosi con le teorie della cognizione e del pensiero incarnato di Varela (Varela, Thompson, Rosch, 1991) sostiene che la conoscenza viene costruita mediante l’interazione del soggetto con il mondo attraverso attività motorie che coinvolgono l’intera sfera sensoriale dello studente. L’enazione è la maniera più diretta, naturale e intuitiva di apprendere e proprio perché connette l’apprendimento alla relazione dello studente con il suo spazio di azione la cognizione del soggetto viene intesa come “azione incarnata”. L’azione incarnata guida l’idea che i processi sensori e motori, così come l’azione e la riflessione debbano essere intesi come inscindibili. La consapevolezza del ruolo del corpo nella progettazione di ambienti educativi interattivi ha fatto emergere negli ultimi anni un approccio alla progettazione che poggia sul concetto di embodiment e apprendimento “somatico”. Si tratta di un approccio nuovo legato all’idea di dover interagire pienamente per creare significato (Dourish, 2004) e che richiama l’inserimento della sfera somatica nei processi conoscitivi e trasformativi (Matthews, 1998). Il “somatic learning” trasportando il corpo dello studente nella relazione con l’ambiente ne facilita il coinvolgimento nell’esperienza educativa (Horst, 2008), ne sostiene la consapevolezza e la riflessione in azione (Schön, 1983) e la conoscenza è la risultante di un processo di engaging in movement (Horst, 2008). La conoscenza diventa così “incarnata” nella corporeità e nella “organismicità” dei soggetti che apprendono e degli ambienti che sinergicamente li includono convergendo sempre più verso l’idea che il corpo possa essere considerato come una delle dimensioni strutturanti e fondanti nella formazione delle architetture della conoscenza e del pensiero (Santoianni & Sabatano, 2007). La molteplicità dei modi di includere il somatic learning negli ambienti educativi sembra incoraggiarne l’integrazione in contesti di apprendimento trasformativo e legati al dentro e fuori la scuola propri di un apprendimento seamless.
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L’apprendimento seamless (Chen, Kotz, 2000) può essere ricondotto a situazioni educative aperte alla classe dove gli studenti possono usare il loro dispositivo mobile o il loro stesso corpo come mediatore di esperienza educativa (Chen, Kotz, 2000). Il territorio è divenuto così orizzonte di senso: spazio di vita, ambito di studio, luogo delle trasformazioni in cui sperimentare direttamente L’interesse verso setting educativi innovativi ed estesi basati principalmente sulla sensoristica applicata ha portato i ricercatori a studiare nuovi strumenti per riconoscere le issues legate principalmente alla definizione di “learner’s contextual information”(informazioni di profilo in situazione) per renderle esplicite, leggibili e spendibili nel processo educativo. Consapevole del proprio agire in situazione, lo studente, con il supporto del docente o della guidance prevista nel contesto specifico, sarà in grado di attingere a “types of adaptation” (gli interventi educativi adattivi) più opportuni (Graf, Kinshuk, 2007) (Corona, Cozzarelli, Di Tore, 2013; Wrona, Gomez, 2006, Mangione, 2013) in modo da migliorare la propria esperienza.
2. Situation Awareness in Education
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Nell’ambito di questo lavoro, il concetto di Situation Awareness, per sua natura transdisciplinare e legato ad una pluralità di contesti eterogenei, viene declinato in chiave prevalentemente didattica. La situazione, in questa prospettiva, è, secondo Rivoltella, “a landscape into which learning actions make sense” (Rivoltella, 2014b). Ancora Rivoltella, altrove, fornisce una descrizione che può facilmente adattarsi alla consapevolezza di situazione, legata, in questo caso, alla figura del docente: “saper leggere, nell’ottica di una vera e propria semiotica dello spazio, i sintomi nei volti, negli sguardi, nelle dinamiche, immaginare cosa potrebbe succedere e agire di conseguenza” (Rivoltella, 2014a). Nel contesto originale, la citazione di Rivoltella è riferita alla capacità del docente di “tenere l’aula”. In questo caso, la consapevolezza della situazione è una condizione necessaria per la previsione, ed è alla base della simulazione, ovvero di “quel dispositivo didattico che consiste nel far immaginare a chi apprende quali conseguenze potrebbe produrre nel tempo la manipolazione delle variabili che regolano il comportamento di un fenomeno” (Rivoltella, 2014a). In questa chiave, i concetti di azione, simulazione, previsione divengono elementi cardine del processo di insegnamento-apprendimento, presentando come comune denominatore l’analisi, funzionale all’azione, della situazione corrente. Il concetto di Situation Awareness è stato originariamente introdotto dalla psicologia dello sport negli anni ’70, e generalmente applicato agli sport di squadra. Una definizione di SA, a cui ancora oggi molti framework fanno riferimento, risale a Endsley (1988). L’autore definisce la SA come “la percezione degli elementi dell’ambiente in un dato volume di spazio e tempo, la comprensione del loro significato e la proiezione del loro stato nel futuro immediato – the perception of the elements in the environment within a volume of time and space, the comprehension of their meaning and the projection of their status in the near future” (Endsley, 1988, p. 99). La definizione di Endsley si riferisce ad un processo articolato nei tre stadi di percezione, comprensione, proiezione. Il livello percettivo (1) riguarda la raccolta delle informazioni ambientali pertinenti, mentre il livello di comprensione (2) riguarda il modo in cui le persone combinano, interpretano, conservano e re-
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cuperano le informazioni. Il livello di comprensione quindi va oltre il livello sensoriale e concerne l’integrazione di diversi elementi di informazione e la determinazione del livello di rilevanza realtivamente agli scopi dell’attore (Endsley, 1988).
40 Fig. 1 - Il modello di SA di Endsley Tratto da “Design and evaluation for situation awareness enhancement” (Endsley, 1988)
L’ultimo stadio del processo, il livello di Proiezione (3) coinvolge invece l’abilità di progettare a partire dagli eventi correnti per anticipare eventi future e le loro implicazioni (Endsley, 1988, p. 100). Successivamente, e nell’ambito più specifico dell’educazione, il concetto di SA prende forme diverse e tiene in considerazione in particolare dell’evoluzione della tecnologia (cloud computing, mobile, semantic aware applications, smart objects, etc) e di come quest’ultima possa abilitare nuove esperienze per l’utente e una interazione “in-situ”. In ambito didattico, il contributo più rilevante è attribuibile a Miller (Miller, 2011). Secondo lo studioso la locuzione Situation Awareness incarna una teoria della percezione utile nel pensare il lavoro cognitivo e percettivo degli insegnanti. È necessario che il docente percepisca ciò che è importante in una data situazione e deduca cosa questo fa presagire rispetto agli obiettivi di tale situazione. Ciò richiede che il docente noti le caratteristiche significative della situazione in classe e comprenda quale sia il significato di queste caratteristiche in tempo utile per intraprendere un’azione – rispondere a una perturbazione, identificare una incomprensione (Miller, 2011). Il contributo di Miller appare decisamente orientato ai setting tradizionali, ed adotta esplicitamente il punto di vista del docente. Un aspetto fondamentale per insegnare con efficacia consiste, secondo lo studioso, nel percepire rapidamente il comportamento degli studenti e interpretare tale comportamento in termini di comprensione degli studenti. Queste attività sono le caratteristiche centrali che costituiscono la Situation Awareness nella didattica (Miller, 2011). Più di recente, in un lavoro che presenta il dichiarato scopo di motivare “the usage of Linked Data and Situation Awareness techniques in order to support Seamless Learning scenarios” (Orciuoli, 2014) si mostra come LinkedData e Semantic Web
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technologies possano essere molto utili per modellare e supportare la continuità di una esperienza seamless tramite eterogenee learning activities. Nel suo lavoro l’autore sottolinea come la Situation Awareness e in particolare le tecniche di Situation Recognition possono essere studiate e utilizzate per sostenere la realizzazione di differenti forme di accesso ubiquo alle risorse didattiche e ai servizi utilizzando elementi relativi al contesto - “context-specific elements” - (Orciuoli, 2014). Nel modello proposto (Fig. 2), i sensor networks rappresentano il livello infrastrutturale che garantisce l’interazione tra learner ed environment (perdendo finalmente quella unidirezionalità biunivoca learner -> network - e ritorno - frutto di distorsione prospettica), e sono costituiti prevalentemente dai sensori incorporati nei dispositivi mobili (Orciuoli, 2014).
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Fig. 2 - Supporting Seamless Learning with Semantic Technologies and Situation Awareness (Orciuoli, 2014)
Siffatti sensor networks forniscono una ricca varietà di dati relativi all’ambiente ed al contesto, ma si tratta ovviamente di raw data, di un insieme di dati grezzi in formati eterogenei e differenti livelli di dettaglio che acquistano reale valenza informativa nel momento in cui vengono modellati secondo le tecniche del layer immediatamente superiore. Nel framework proposto, infatti il Semantic Web permette di modellare e rappresentare differenti tipi di conoscenza rispetto agli ambienti, ai domini didattici, alle attività di apprendimento, agli obiettivi e ai profili degli studenti (Orciuoli, 2014). Il layer in cui i dati grezzi raccolti dai sensor netwoks e modellati in accordo alle metodologie e tecnologie semantiche acquistano significato (sono utili ad orientare processi di presa di decisione) è costituito dalla già citata Situation Awareness. In generale possiamo dire che l’introduzione delle tecnologie dovrebbe seguire un approccio educativo in grado di raccogliere i processi innovativi e reinserirli nei percorsi didattici. La situation-awareness riduce la distanza e supporta un apprendimento seamless attraverso differenti contesti di apprendimento (Wong, 2012). In questo senso la classe è sì distribuita e aperta, ma legata ad una “core situation of learn-full interaction” (Specht, Kravcik, Klemke, Pesin, Hüttenhain, 2002). L’attuale sviluppo tecnologico abilita il rilevamento (sensing) del contesto in cui opera lo studente e fornisce un feedback in tempo reale sul comportamento dello
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studente (p. 574). Ciò si può tradurre in una maggiore efficacia dei percorsi di insegnamento-apprendimento, a condizione che i dati rilevati circa il comportamento dello studente (sensing) vengono combinati in modo significativo (aggregation) predisponendo opportune strategie didattiche (control) e visualizzati in un modo intuitivo, significativo e stimolante (indication) (Specht et al., 2002).
3. Le ricerche in corso nella comunità didattica italiana 3.1 Gestione dello spazio e del tempo nell’esperienza del docente
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Abbiamo visto come ‘la percezione degli elementi nell’ambiente entro un volume dato di tempo e spazio’ sia un elemento cardine della Situation Awareness. In un articolo pubblicato su REM, gli studiosi formalizzano le seguenti domande della ricerca: Le tecnologie in classe stanno modificando la gestione dello spazio e del tempo nell’esperienza degli insegnanti? E come? Esiste una relazione tra questa modifica, l’insegnamento di qualità e le performance di apprendimento? (Ferrari, Carlomagno, Di Tore, Di Tore, Rivoltella, 2013). Alla domanda, prova a rispondere un gruppo di ricercatori provenienti da diverse Università italiane (Milano Cattolica, Salerno, Suor Orsola Benincasa di Napoli), con un lavoro sperimentale (tuttora in corso) basato sulla rilevazione della quantità di movimento del docente in presenza o meno di tecnologie orientate alla didattica (Tablet, LIM). La rilevazione della quantità di movimento, in questo caso, è affidata ad un software progettato ad hoc che utilizza come periferica di input Microsoft Kinect (Fig.3). Ai fini del presente lavoro, sembra interessante notare come la ricerca si doti di sensori mutuandoli da altri campi ed inserendoli a pieno titolo in quelle sensor networks definite in precedenza. Per gli autori videocamere e altri strumenti potrebbero infatti alterare il setting abituale e modificare turbare la raccolta dei dati, condizionando e gli esiti della ricerca. Nel caso di Kinect, i dati relativi all’identificazione del soggetto e alla posizione dei segmenti corporei vengono dedotti dal sistema stesso. Questo è possibile grazie ad algoritmi di analisi che elaborano i dati già raccolti dalle telecamere RGB e infrarossi incorporate in Kinect. Queste telecamere sono così sottili che è possibile posizionarle su una scrivania senza alterazioni evidenti del setting. Il sistema consente permette di identificare i soggetti movimento in un range di circa 3,5 metri (Ferrari et al., 2013).
! Fig. 3 – Visualizzazione del movimento (Ferrari et al., 2013) !
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Il passaggio citato dimostra come il disegno sperimentale sia senz’altro compatibile col framework proposto in precedenza, in particolare per quanto riguarda l’acquisizione e il trattamento automatico di informazioni rilevanti, effettuato in maniera tale da non influire sul setting osservato. 3.2 Sensoristica e Situation Awareness Un altro lavoro sperimentale concentra il focus sulle attività del docente, prendendone in considerazione il movimento. In questo caso, lo scopo dichiarato è di incrementare la consapevolezza (awareness) dell’apprendimento. La ricerca si concentra sul consumo calorico del docente durante l’attività didattica. L’utilizzo dei calorimetri nell’ambito della ricerca didattica in realtà prende le mosse da precedenti lavori realizzati nell’ambito delle sport sciences ma caratterizzati da una marcata impronta didattica. Rossi e Sibilio, infatti, avevano già lavorato sull’argomento in un lavoro pubblicato su una rivista scientifica dedicata alle scienze motorie (Rossi, Sgambelluri, Prenna, Cecoro, Sililio, 2013) e, nel 2010, Carlomagno et al. avevano pubblicato su Sport Sciences un lavoro che “affronta la necessità di misurare e valutare i parametri fisiologici coinvolti nella esperienza di insegnamento-apprendimento” (Carlomagno et al., 2010). Il lavoro su cui concentriamo l’attenzione è stato coordinato da Pier Giuseppe Rossi dell’Università di Macerata, e presentato in un paper pubblicato su Education, Science&Society insieme ad un altro percorso sperimentale. La prima esperienza descrive l’esperimento con Sense Wear Armband1, un Holter metabolico, costituito da un monitor portatile “multi Sensore” (Fig.4).di consumo energetico in calorie (EE), movimento, attività fisica, qualità della vita, sonno, utilizzato per recuperare informazioni sul dispendio energetico di un insegnante durante le diverse attività della lezione (Fig. 5).
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Figura 4 - Sense Wear Armband
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Il secondo esperimento (Fig. 5) utilizza il neuro-feedback integrato ad un sensore di rilevamento della temperatura del corpo alfine di capirne il ruolo dei corpo nel processo di autoregolazione e digestione della attenzione (Giaconi, Rodrigues, Rossi, Capellini, Vastola, 2013). L’attenzione degli autori alla sensoristica non si arresta ai dispositivi citati, ma guarda a tutto campo, con un interesse dichiarato per i wearable devices:
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http://sensewear.bodymedia.com/
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Altri strumenti possono essere utilizzati per migliorare la didattica. Uno strumento di monitoraggio interessante è il QSensor (Affectiva). Si tratta di un biosensore wireless indossabile che misura l’eccitazione emotiva attraverso la conduttività cutanea. La modulazione dell’attività elettrocutanea mostra i cambiamenti negli stati della persona. IL QSensor promette un uso efficace in vari campi, come l’istruzione in generale e,in particolare, i disturbi di apprendimento, la comunicazione non verbale, l’ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) (Giaconi et al., 2013).
44 Figura 5 – Dispendio energetico durante la lezione (Rossi, Sgambelluri, Prenna, Cecoro, Sililio, 2013)
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Figura 6 – Attività Cognitiva durante la lezione (Rossi, Sgambelluri, Prenna, Cecoro, Sililio, 2013)
In tutti i lavori citati, la riflessione sulla mutuazione degli strumenti è consapevole e dichiarata (Giaconi et al., 2013) e apre la strada ad un utilizzo esplorativo prima ancora che sperimentale di sensori e mezzi eterogenei. 3.3 Umwelten e Situation Awareness Una parte della comunità scientifica che si occupa di ricerca in educazione sembra dunque impegnata in una definizione e ri-definizione di metodi e strumenti che investe in maniera decisa lo stesso oggetto di studio della didattica, ampliandone i confini per individuare elementi di carattere ambientale e biologico che fino al-
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l’epoca recente sono stati considerati non pertinenti all’indagine sul processo di insegnamento-apprendimento. Una prima sistemazione teorica di questa tendenza, in Italia, è quella di Maurizio Sibilio (Sibilio, 2013) che sottolinea come una impostazione di questo tipo, contestualizzata ad una visione sistemica, complessa ed adattiva della didattica, abbia evidenti implicazioni sul concetto di apprendimento, che si configura come un processo di adattamento che si sviluppa nella Umwelt dei soggetti impegnati nell’esperienza formativa. La didattica in questo quadro si configura come attività in grado di ricavare uno spazio comune di interazione tra le differenti umwelten degli attori coinvolti nel processo. Dovremmo pensare agli ambienti di apprendimento in termini di umwelten degli studenti, perché, come sostengono gli studiosi, queste contengono le strutture che gli studenti percepiscono e con cui inter-agiscono. Queste umwelten cambiano via via che gli studenti interagiscono con i loro coetanei, gli insegnanti e le strutture materiali (Roth, Lawless, 2002). Nella proposta di Sibilio, l’indirizzo della ricerca appare spostarsi da una visione descrittiva della dimensione transdisciplinare dei sistemi, all’analisi – ad un livello funzionale all’azione - dell’architettura delle reti costituite dalle interazioni degli elementi che compongono il sistema. La prospettiva è quella della complexity education 2.0, in cui “una componente fortemente articolata del lavoro è sul favorire la nascita di fenomeni complessi - cioè, non solo promuovere l’identificazione e una più approfondita comprensione comprensione di ciò che permette ai sistemi adattivi di funzionare, ma un deliberato sforzo a innescare tali sistemi, a sostenerne l’esistenza e lo sviluppo” (Davis, Sumara, 2012). In questa visione, il dato relativo al contesto è imprescindibile: per Sibilio, “l’organismo risolve la complessità in un processo di percezione-azione che, stando alle più recenti acquisizioni della prospettiva neuroscientifica appare diverso, e per alcuni aspetti ribaltato, rispetto al paradigma cognitivista”. Il riferimento è al processo di percezione – azione nell’accezione sviluppata al College de France: la percezione non rappresenta il mondo così com’è, ma lo struttura nella Umwelt. La percezione non è subordinata ad una visione contemplativa della realtà oggettiva. Essa è strutturata per l’azione, la motiva e la prepara (Berthoz, 2009). Il termine Umwelt, ripreso da Sibilio (Sibilio, 2013) in accordo all’accezione sviluppata da Alain Berthoz (Berthoz, 2008), fa riferimento direttamente al concetto sviluppato da von Uexkull. Mondi percettivi ed effettori insieme formano una unità chiusa, l’Umwelt. Ora, secondo lo studioso, si potrebbe supporre che un animale, non è altro che una collezione di strumenti percettivi e effettori, collegati da un apparato che integra le funzioni in grado di portare avanti la vita. Questa è la posizione di tutte le teorie meccanicistiche: esse marchiano gli esseri viventi come semplici oggetti. I sostenitori di tali teorie trascurano la cosa più importante, il soggetto che utilizza gli strumenti, il soggetto che percepisce” (von Uexküll, 1934).
Conclusioni Porre al centro dell’attenzione “il soggetto che percepisce”, come avvertiva von Uexküll, sembra essere un’urgenza che caratterizza i nuovi modi di organizzare le esperienze didattiche. Lo spazio in cui il soggetto si trova ad apprendere sembra essere sempre meno un vincolo ma una opportunità per effetto dell’utilizzo di tecnologie di rilevazione basate su sensori che rendono possibile ricostruire e rior-
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ganizzare situazioni in grado di sostenere l'apprendimento seamless. Queste tecnologie garantiscono l’accesso alla rilevazione e al trattamento di dati relativi alla contesto in cui operano gli attori principali consentendo loro di comprendere meglio e intervenire sul processo di insegnamento e apprendimento. L’inserimento efficace della dimensione sensoriale delle tecnologie e dei dispositivi utilizzati per apprendere permette di leggere in modo puntuale e in time i dati che si producono durante l’esperienza didattica sostenendo così una maggiore consapevolezza in situazione. Tale consapevolezza della situazione è sicuramente la base per rendere davvero possibili scenari educativi in grado di supportare attivamente il seamless learning (Chen, Li, Song, 2013). Il presente lavoro, dopo aver introdotto i concetti chiave legati a una modalità di apprendimento seamless e aver definito le condizioni e i principi su cui tale modalità poggia, presenta le esperienze che una parte della comunità pedagogica e didattica italiana sta conducendo in questo nuovo ambito di ricerca. Tali esperienze vengono spesso associate alle tecnologie di nuova generazione (Tablet, sensoristica corporea, interfacce enattive) che ben si prestano ad uno shift di paradigma centrato sul concetto di Situation Awareness . L’analisi di queste prime esperienze fa emergere l’importanza e la necessità di organizzare le ricerche in un framework in grado di restituire un senso ai raw data potenzialmente accessibili in situazione e leggere tali informazioni al fine di aumentare il livello di consapevolezza didattica e adattare e migliorare le esperienze di apprendimento che i vari contesti di vita possono presentare al singolo soggetto integrandole al meglio con i processi e i percorsi propri di una educazione in classe.
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Prove Invalsi e azione didattica: quali riflessioni sulla progettazione per competenze Barbara Balconi • Università di Milano Bicocca • barbara.balconi@unimib.it
Invalsi tests and educational actions: reflections about designing for competences
Current pressures in the educational context have underlined the importance of two basic requirements: the enhancement of evaluation and standards (Invalsi) and the need to modify education program in order to promote competences. To answer these two instances, it was implemented the present empirical research. The research’s aim was to consider the Invalsi experience as an opportunity to start improvement processes in schools, in an alternative way from teaching to the test. Five teachers participated in the case studies. The present research highlights teaching and learning processes in the classrooms within the innovative competences perspective.
Parole chiave: valutazione, Invalsi, competenze, scuola primaria, studio di caso
Keywords: Evalutation, Invalsi test, competences, Primary School, case study
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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ricerche
Il sistema di riforme che negli ultimi anni ha coinvolto la Scuola Primaria italiana ha messo in evidenza due priorità principali: da un lato la valutazione di sistema tramite strumenti standardizzati e omogenei a livello nazionale (Invalsi), dall’altro lo sviluppo di competenze chiave di cittadinanza. Il contributo presenta uno studio empirico fondato sull’ipotesi che la rilevazione Invalsi possa essere un’occasione per promuovere una didattica per competenze, in alternativa al teaching to the test. I cinque studi di caso realizzati descrivono la metodologia utilizzata, che vede l’alternarsi di laboratori di pratiche riflessive e la gestione di attività didattiche in classe, dando evidenza dei processi di apprendimento attivati nei bambini in direzione della formazione di competenze.
Prove Invalsi e azione didattica: quali riflessioni sulla progettazione per competenze
1. Dalla valutazione degli apprendimenti alla valutazione di sistema
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Il compito dei sistemi educativi è quello di promuovere un miglioramento del capitale umano, funzionale al successo dei cittadini, attraverso un incremento della propria qualità d’azione. La forte spinta in questa direzione, ha provocato il proliferare di indagini centrate sugli outcomes degli studenti (Scheerenes, Bosker, 1997) volte a fornire indicazioni e orientamenti sull’efficacia delle politiche educative e scolastiche nazionali. Tali ricerche hanno offerto un terreno fecondo per individuare correlazioni positive tra esiti e diversi fattori del sistema scolastico. Numerosi sono gli studi sull’effectiveness of school volti ad esplorare le correlazioni fra alti livelli d’apprendimento e di successo sociale con elementi del sistema educativo quali il progetto educativo della scuola, l’autonomia scolastica e le forme del management, il clima e la professionalità del docente, i valori e gli standard di comportamento degli insegnanti, la propensione alla collaborazione, la configurazione della didattica in classe, metodi e approcci alla valutazione stessa (Bosker, Creemers, Stringfield, 1999; Hanushek, Woessmann, 2010; Scheerens, 2000). A questa richiesta si somma la necessità, a seguito dell’aumento di spazi di autonomia curricolare (crf. Legge 59/1997), di rendere trasparenti i risultati ottenuti e di mettere a punto un sistema di monitoraggio della qualità dell’apprendimento scolastico su tutto il territorio nazionale (Bottani Cenerini, 2003; Cerini, 2010). Le due direzioni verso cui la scuola si sta orientando sono quella dell’improvement e dell’accoutability (Galliani, 2014). A tal proposito è noto il cammino lento e ostico della scuola italiana verso l’Europa, nonostante le indagini comparative internazionali siano ormai integrate in modo strutturale nel sistema scolastico (le rilevazioni effettuate arrivano a coinvolgere un numero elevato di paesi, PISA 2012 ha coinvolto 65 paesi, quando nel 2000 erano solo 32) in coerenza con gli obiettivi di Europa 2020. Come evidenzia Capperucci (2011) l’opportunità di una valutazione di sistema rappresenta la volontà della scuola di raccogliere la sfida della trasparenza e di fondare le decisioni educative e didattiche sulla rilevazione sistemica di dati, nella consapevolezza che conoscere a fondo i processi di insegnamento-apprendimento sia l’unica via per governare l’autonomia scolastica. È stato dunque costituito l’Istituto Nazionale della valutazione del sistema Educativo e di Istruzione e Formazione (INVALSI), la cui azione si configura come una rilevazione di tipo censuario sul territorio nazionale, attraverso prove standardizzate di italiano e di matematica, somministrate in classi specifiche a seconda dell’ordine di scuola (classe II, V per la scuola primaria, classe III per la secondaria di primo grado, all’intero dell’Esame di Stato, la classe I della secondaria di primo grado, non partecipa più alla somministrazione e classe II per la secondaria di secondo grado). La finalità è quella di ottenere una rilevazione diacronica statistico-quantitativa delle competenze in ambito matematico-scientifico e linguistico possedute dagli studenti dei diversi ordini di scuola. La valutazione di sistema, di cui i risultati dei test fanno parte, ha come esito l’individuazione di aree di forza e di debolezza e i relativi fattori causali in modo da orientare i decisori ad attivare interventi di miglioramento (Allulli, 2000). Agire in tal senso significa spostare il senso comune at-
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tribuito alle attività valutative dalla polarità del controllo a quella della ricerca, rinunciando, quindi, alle semplificazioni, accettando la complessità e la pluralità delle variabili, avendo come finalità il miglioramento del sistema attraverso la sua reale comprensione profonda superando la logica della mera classificazione delle performances (Ambel, Fabiani, 2008). Tuttavia, tale innovazione non è stata sostenuta da riflessioni e confronti tra insegnanti e dirigenti. Inoltre la tipologia di prove standardizzate utilizzate presenta caratteristiche ‘insolite’ per il contesto scolastico italiano che percepisce i test Invalsi come oggetti ‘estranei’ alla scuola ‘reale’ formulando critiche, manifestando scetticismi e resistenze, oltre a curiosità e interesse (Pastori, 2013). Inoltre l’introduzione di queste prove ha mostrato in modo marcato la mancanza nella scuola di una “cultura della valutazione” (Maccario, 2006; Vannini, 2009; Moltabetti, 2011; Capperucci, 2011) e la difficoltà di individuare e utilizzare quanto le prove rilevano per mancanza di strumenti di analisi. Per tale ragione parte del corpo docente si è focalizzato sul raggiungimento dello standard stabilito (Ward, McCotter, 2004) mettendo in atto con gli alunni un addestramento finalizzato alla sola compilazione efficace della prova, quello che viene definito come teaching to the test (Losito, 2011; Marcuccio, 2012). Soprattutto i docenti più giovani, quando si trovano a dover contrastare le pressioni di curricoli guidati da standard (standard-driven curriculum) (Ward, McCotter, 2004, p.244) e modelli di valutazione calati dall’alto, faticano a trovare lo spazio mentale per dedicarsi ad esperienze riflessive (Mortari, 2009). Quanto appena descritto ha portato quindi ad uno sfasamento tra la richiesta istituzionale e le reazioni del mondo della scuola di fronte a tale innovazione.
2. Il costrutto di competenza: quale innovazione per l’azione didattica? La valorizzazione di tutte le forme di apprendimento, richiamata anche nella strategia di Lisbona e di Europa 2020, appare ancora più importante all’interno di una scuola chiamata non solo a promuovere e valutare conoscenze disciplinari, ma anche “competenze chiave per la cittadinanza attiva” riferite a specifici assi culturali e trasversali. All’interno del panorama appena descritto emerge, come evidenzia Pellerey (2004, p. 7), il portato deflagrante che il costrutto di competenza riveste rispetto al modo di intendere la stessa azione didattica: quello che viene richiesto al mondo della scuola è dunque un ripensamento radicale della struttura del processo di insegnamento/apprendimento. Riprendendo il pensiero di Watzlawick e collaboratori (1974) si tratta di un “cambiamento di tipo 2”, profondo e globale, in grado di modificare quindi gli assunti e la stessa esperienza scolastica. La competenza fa riferimento al discente come ad una persona che risulta essere intreccio di cognitività, affettività, individualità e socialità, pensiero e azione e la cui identità è di natura polidimensionale e dinamica. Superando sia il paradigma naturalistico-oggettivistico, sia il relativismo radicale, si guarda quindi all’azione didattica come ad un’interazione complessa tra l’allievo, l’insegnante e il contesto. L’alunno deve svolgere un ruolo attivo (proporzionalmente all’età) di rielaborazione/costruzione delle conoscenze, sviluppando nel contempo abitudini/disposizioni mentali; il docente ha il compito di costruire un ponte tra saperi e una cura verso gli aspetti emotivo-affettivi e motivazionali di ciascuno allievo, mentre il contesto di vita (comunità scolastica e ambiente circostante), rimane lo “spazio” in cui l’allievo può compiere esperienze culturali e umane significative che gli consentano di costruire un bagaglio di strumenti concettuali, metodologici afferenti ai vari saperi e maturare valori che gli permettano di strut-
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turare la propria personalità in direzione dell’autenticità e dell’apertura verso gli altri (Jonnaert, Vander Borght, 2003; Rivoltella, Rossi, 2012). La logica per competenze richiede, quindi, di considerare la scuola come ambiente che svolge la funzione “primaria” di dar senso, coerenza, praticabilità, consapevolezza ai saperi dei ragazzi (Maccario, 2006). Si tratta dunque di un apprendimento attivo e costruttivo del soggetto, che si svolge in un contesto specifico (Rossi, 2003), monitorato e orientato da una riflessione continua. Castoldi (2009) precisa il carattere di produttività, portato dal costrutto, richiamando il passaggio da un sapere più tradizionalmente scolastico ad un sapere reale che non è solo più aderente alla vita extrascolastica, ma risulta essere maggiormente pragmatico e orientato all’azione. L’innovazione didattica diviene, quindi, la ricerca di continuità tra quello che si impara dentro e fuori la scuola (Resnick, Nelson-Le Gall, 1997; Perrenoud, 2003; Pellerey, 2004; Maccario, 2006). Questo non significa rinunciare alla “natura parentetica” tipica dell’apprendimento scolastico che lo distingue dall’apprendimento informale. È questa, infatti, la condizione che consente la mediazione tra soggetto e contenuti culturali, ma anche la possibilità di costruire spazi metacognitivi per l’alunno per ragionare sulle proprie strategie di apprendimento. La sfida consiste, invece, nella valorizzazione delle possibili connessioni tra le modalità di conoscenza proposte dalla scuola e la complessità del mondo reale. Il ripensamento del processo d’insegnamento-apprendimento diviene così radicale poiché il costrutto di competenza rende il quadro di riferimento maggiormente complesso riferendosi a diverse e nuove dimensioni dell’alunno (Le Boterf, 2010): – risorse di tipo cognitivo ovvero conoscenze e abilità – risorse di tipo euristico ovvero la capacità di individuare la questione e rappresentarla al fine di risolverla; – capacità strategiche ovvero capacità di progettare la risposta di monitoraggio della soluzione proposta; – i valori del soggetto riguardanti la disciplina e il tipo di azione didattica in questione. In precedenza, la tendenza riscontrata era quella di attribuire molta importanza alla prima variabile, ossia agli aspetti prioritariamente cognitivi (conoscenze e abilità), l’innovazione dell’approccio per competenze consiste nel considerare come significative le successive risorse e capacità (Schoenfeld, 1999).
3. Obiettivi e metodologia della ricerca L’ipotesi che muove l’indagine è che l’introduzione di una valutazione esterna standardizzata provochi una ricaduta sulla didattica nella pratica quotidiana scolastica mettendo al centro dell’azione euristica i docenti attraverso percorsi di riflessività e analisi delle pratiche. (Calderhead, 1989; Clark, Lampert, 1986; Cochran-Smith, Lytle, 1999; Feiman-Nemser, Schwille, Carver, Yusko, 1999; Fenstermacher, 1994; Johnson, Golombek, 2002; Magnoler, 2012; Rivoltella, Rossi, 2012). Se l’intento è dunque quello di valorizzare il sapere dei docenti, che come sostiene Mortari (2007), è case-based thinking, la strategia d’indagine maggiormente indicata risulta essere lo studio di caso, in particolare la tipologia definita instrumental case (Stake, 1995) in quanto i casi oggetto di studio sono stati selezionati per la loro utilità strumentale nell’indagine rispetto al focus specifico di ricerca. Sono stati indivi-
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duati contemporaneamente 5 diversi studi di caso sui quali è stata attivata una procedura di analisi comparativa (Cross-case analysis, Merriam, 2001, p.40). La valenza positiva dell’avere un numero multiplo di casi da analizzare sta nel disporre di dati per operare confronti, pur considerando la valenza esemplare dei singoli casi, rispetto al fenomeno indagato.
4. Il disegno di ricerca e scelta dei soggetti Lo studio empirico si è svolto in due fasi: una esplorativa (Pastori, 2013)1 e una seconda fase di tipo interpretativo i cui risultati vengono illustrati in questa sede. Le scuole coinvolte nella seconda fase dell’indagine hanno sede a Milano e nei comuni di Mezzago e Gorgonzola. Gli insegnanti sono stati selezionati secondo i criteri che seguono: – essere docenti di italiano o di matematica nelle classi interessate dalla somministrazione delle prove Invalsi (classe II e V); – avere almeno un’esperienza di somministrazione delle prove Invalsi. Tra il ricercatore e i 5 insegnanti che nomineremo A, B, C, D, E e che hanno aderito volontariamente all’indagine, è stato condiviso un contratto in cui sono definiti i ruoli e le modalità di collaborazione. La prima intervista ha rappresentato per il ricercatore l’elemento discriminante per scegliere il docente come partecipante all’indagine. Inoltre le insegnanti A e D avevano aderito in precedenza ad una ricerca proposta sul tema della valutazione2 e collaborano a vario titolo con l’Università. Le insegnanti E e B avevano partecipato alla fase di sperimentazione pilota di somministrazione delle prove INVALSI, mostrando così una particolare e già avviata sensibilità a ragionare sulle prove come strumento di innovazione pedagogico-didattica. Infine, l’insegnante C è stata segnalata al ricercatore dal dirigente scolastico in quanto funzione strumentale alla valutazione dell’Istituto. Anche la fase di selezione è stata dunque orientata dal contesto (Damiano, 2006). Le insegnanti, partecipanti agli studi di caso, sono state dunque le seguenti: – Insegnante A: 1 insegnante di matematica, classe II, scuola di Milano, totale alunni:16. – Insegnante B: 1 insegnanti di italiano, classe II, scuola di Mezzago (MI), totale alunni: 24.
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La ricerca “Promuovere la cultura della valutazione della scuola: l’esperienza delle prove Invalsi” è stata condotta in Lombardia (2011-2012), collocandosi all’interno di un’ indagine più ampia promossa dall’USR Lombardia, “Rapporto sulla scuola inLombardia”, cui hanno collaborato il Politecnico di Milano e l’Università degli Studi di Pavia e un’unità dell’Università di Milano Bicocca. L’analisi delle evidenze empiriche raccolte da questa indagine ha orientato la strutturazione degli studi di caso (fase2- interpretativa). L’indagine si è svolta in sei scuole primarie della Lombardia, coinvolgendo anche insegnanti tutor del corso di laurea in Formazione Primaria. L’oggetto dell’indagine è stato il processo di valutazione, a seguito della re-introduzione dei voti (legge del 30 ottobre 2008, n.169, Art.2 e Art.3). La domanda di ricerca si è orientata nell’individuare quali modalità didattiche consentano di introdurre i voti, senza deteriorare il clima collaborativo costruito in classe e senza spostare l’attenzione dei bambini dai processi al prodotto.
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– Insegnante C: 1 insegnanti di italiano, classe II, scuola di Mezzago (MI), totale alunni: 26. – Insegnante D: 1 insegnante di italiano, classe V, scuola di Milano, totale alunni: 21. – Insegnante E: 1 insegnante di matematica, classe V, scuola di Gorgonzola (MI), totale alunni: 21.
5. Collective case study
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I 5 studi di caso si sono articolati nell’anno scolastico 2012/2013, nel periodo da Febbraio a Maggio. Gli insegnanti hanno partecipato a due tipologie d’incontro: la prima di tipo “diretto”, dove il ricercatore è rimasto in classe con il docente documentando l’azione didattica. La documentazione è stata realizzata attraverso audio e video-registrazioni per un totale di cinque incontri di due ore ciascuno. La seconda tipologia è stata di tipo “indiretto”, si è trattato dell’allestimento di quelli che Mortari definisce “Laboratori di Pratica Riflessiva” (LPR), (Mortari, 2009) dove ricercatore e docente hanno elaborato una riflessione sull’agire didattico messo in atto e sulla progettazione dell’incontro “diretto” successivo. Sono stati fissati cinque incontri di tipo “indiretto” di riflessione con il ricercatore, della durata di un’ora. Sono stati stabiliti quattro incontri di tipo “diretto” prima della somministrazione delle due prove Invalsi (07/05/2013: Prova preliminare di lettura per le classi II e prova di Italiano per le classi II e V primaria; 10/05/2013: Prova di matematica per le classi II e V primaria e Questionario studente per la classe V primaria), e un incontro in seguito alla somministrazione delle prove per raccogliere dei feedback dei bambini sull’esperienza vissuta. Sono stati successivamente raccolti i feed-back dei docenti durante l’ultimo incontro “indiretto”. Gli studi di caso hanno previsto dunque una struttura comune nella fase iniziale e in fase conclusiva mentre i diversi percorsi didattici si sono sviluppati secondo le esigenze della classe, le peculiarità degli alunni e la professionalità del docente, secondo una prospettiva context-oriented (Damiano, 2006). I casi sono stati documentati dal ricercatore attraverso delle macro-narrazioni dei percorsi didattici condotti nelle diverse classi e delle micro-narrazioni specifiche su alcune azioni didattiche particolarmente rilevanti (Mortari, 2007). Il materiale di documentazione raccolto è stato il più vario e dettagliato possibile per rispecchiare la profondità e la diversità di angolature con cui si è deciso di analizzare l’oggetto di ricerca (video, trascrizioni di discussioni, prodotti dei bambini, protocolli osservativi. Le selezioni individuate attraverso un’analisi trasversale dei testi raccolti, hanno costituito il resoconto prodotto dal ricercatore, sottoposto agli insegnanti in una fase di back talk. L’obiettivo di questa fase è quello di giungere ad un’interpretazione condivisa del processo attuato, condividendo con i docenti i risultati (Guba, Lincoln, 1986). Se si assume dunque il paradigma ecologico batesoniano secondo il quale è il contesto che fissa il significato, allora è importante che ogni significato attribuito ai dati venga riportato al contesto affinché i soggetti della ricerca possano esprimere le loro valutazioni e sulla base di queste arrivare ad un’interpretazione condivisa.
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6. Risultati Le competenze selezionate, oggetto d’analisi dei percorsi didattici progettati nei diversi studi di caso, sono state frutto di un’accurata riflessione dei docenti. La scelta è stata orientata da due fattori principali: – le rilevazioni ottenute dalle somministrazioni delle prove Invalsi dell’anno precedente: sono stati infatti analizzati gli item dove gli alunni hanno commesso più errori e quelli dove gli studenti stessi hanno segnalato difficoltà di comprensione di varia natura, al fine di individuare quali fossero le aree più problematiche su cui intervenire; – l’analisi degli obiettivi didattici curricolari e trasversali predisposti per il gruppo classe di riferimento, in accordo con le Indicazioni Nazionali (2012). Il primo risultato da evidenziare è stato quello di definire la progettazione didattica dei percorsi a partire da un momento valutativo. Questa tipologia di progettazione, viene definita “a ritroso”, proprio perché richiama la necessità di partire dalla valutazione nello sviluppo progettuale, ovvero nell’identificazione delle mete e dei compiti che il soggetto deve essere in grado di affrontare, per mostrarsi competente. Il processo valutativo è stato successivamente pensato in termini plurali durante tutto il percorso. Ciò è avvenuto attraverso l’accostamento di compiti autentici, osservazioni, autovalutazioni, in modo da restituire una visione allargata e complessa della competenza da sviluppare. Gli studi di caso sono stati progettati con i docenti in quest’ottica: il punto di partenza dei diversi percorsi è stata la rilevazione degli apprendimenti attraverso le prove INVALSI (2011-2012). Questo momento ha rappresentato una prima fase valutativa del docente, dove, a partire da uno strumento di valutazione esterna (la prova INVALSI), ha creato una corrispondenza con una valutazione interna, espressa in decimi, attraverso il foglio di calcolo Valtix3. Alla luce di questa prima rilevazione e delle conseguenti riflessioni con gli alunni a riguardo, all’interno del primo Laboratorio di pratiche riflessive, strutturato dal ricercatore; i docenti hanno individuato come procedere con le progettazioni, identificando sia la competenza da promuovere, sia i diversi compiti di apprendimento. Entrando nello specifico dei diversi casi: l’insegnante, dello studio di caso A, ha progettato un percorso di didattica della matematica che assumesse come prioritario il valore dell’esperienza. Dalla prima somministrazione delle prove infatti era emersa una particolare difficoltà dei bambini nell’effettuare delle generalizzazioni a partire da una situazione astratta, non sperimentata. All’interno del percorso è stata promossa la capacità di riflessione dei bambini circa le strategie di risoluzione utilizzate in diversi compiti, sostenendo l’esplicitazione dei ragionamenti ed elaborando auto-valutazioni sui lavori affrontati. Le insegnanti degli studi di caso B e C hanno promosso essenzialmente la competenza inferenziale, considerandola uno strumento essenziale per sostenere i bambini nella comprensione del testo, ma anche come competenza trasversale necessaria per generare conoscenze nuove a partire da dati conosciuti. Proprio per questo mo-
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Si tratta di un foglio di calcolo, utilizzato da una delle insegnanti e adottato dalle altre partecipanti, attraverso il quale è possibile il calcolo della percentuale delle risposte esatte delle prove e la conversione del dato in un voto in decimi.
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tivo sono stati allestiti contesti “genuini” (Dewey, 2004) dove sperimentare compiti autentici (Castoldi, 2009; Capperucci, 2011). In entrambi gli studi di caso si è evidenziata l’importanza del valore sociale dell’apprendimento: diverse delle situazioni didattiche progettate, infatti, hanno visto l’utilizzo della metodologia del lavoro di gruppo; sottolineando come la dimensione interattiva sia strettamente connessa all’approccio per competenze (Jonnaert, Vander Borght, 2003). Le insegnanti degli studi di caso D e E si sono orientate verso la promozione della competenza degli alunni di comprendere domande e quindi di porre domande, “si comincia a costruire un sapere quando ci si può porre una domanda” (De Vecchi, Carmona-Magnaldi, 1999, p.125). In entrambi i percorsi sono stati gli studenti a segnalare, dopo una prima somministrazione delle prove, una difficoltà nella comprensione delle domande, che inficiava, quindi, la correttezza delle risposte. Entrambi i percorsi hanno sottolineato l’utilità dell’apprendimento di questa competenza trasversale (Wong, 1991): comprendere la “legittimità” di alcune domande, come direbbe Von Foerster (2003), oppure quella di sapere come formularle, risultano essere un apprendimento utile rispetto ad esperienze educative formali, informali e non formali. Anche in questo caso è stata promossa con gli alunni una riflessione di tipo metacognitivo rispetto alle modalità di ragionamento utilizzate. La stessa competenza metacognitiva, diventa utile in diversi ambiti disciplinari, ma anche nella vita quotidiana: essere consapevoli delle proprie strategie cognitive, permette di incrementare il senso di efficacia rispetto a diversi compiti proposti. Queste scelte didattiche hanno permesso ai docenti di ri-pensare al proprio modello di azione d’insegnamento, riprogettandolo alla luce di situazioni che permettessero agli alunni di “costruire, modificare o rifiutare conoscenze, abilità e capacità, non più riferite strettamente ad un solo contenuto disciplinare” (Jonnaert, 2002, p.73). Come sostengono Magnoler e Sorzio (2012), questo ha portato i docenti ad una vera e propria ristrutturazione della progettazione delle attività in classe, volta alla selezione dei nuclei fondanti delle discipline, dotati di caratteristiche di generatività, connettività e trasferibilità (Castoldi, 2009). Rispetto a questo vengono ora riportarti alcune trascrizioni dei back talk degli insegnanti: “È importante fare un ragionamento con gli studenti sul modo di procedere, non deciderlo a priori” – Insegnante studio di caso A “Rispetto a tutto il lavoro svolto, quello che mi è servito di più è stato tornare a riflettere sugli obiettivi che ci si pone nel preparare un’attività, mettere quindi nero su bianco cosa voglio che imparino i miei alunni. È stato utile anche pensare insieme come predisporre il lavoro: la scelta della competenza, le modalità di presentazione, di restituzione del lavoro” – Insegnante studio di caso B “Ri-pensare alla progettazione durante il Laboratorio mi ha permesso di prendere decisioni più consapevoli, focalizzandomi sui reali bisogni del gruppo” – Insegnante studio di caso C “Non dimenticare l’idea di bambino nella sua “interezza”: quando si effettuano simulazioni piccoli esercizi simili alle prove, prendersi sempre cura degli aspetti cognitivi, metacognitivi, emotivi. Restituire l’esperienza delle prove INVALSI:
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è importante elaborare con i bambini l’esperienza appena fatta. Possibilmente effettuarne una restituzione, per rendere l’esperienza completa. Scegliere un percorso: somministrare qualche prova e sulla base dei primi risultati decidere quale percorso di lavoro attivare (quali aspetti potenziare), è un a modalità nuova di lavorare” – Insegnante studio di caso D “Ins: non avrei mai pensato di approcciarmi alle prove così, ma le domande sono lo strumento principale per conoscere di bambini e adulti. Lo scambio continuo con il ricercatore, mi ha permesso di conoscermi meglio sul piano professionale, aprendo interrogativi diversi sulle mie pratiche didattiche, soprattutto rispetto alla progettazione”- Insegnante studio di caso E Trascrizione dei back talk con i docenti dei 5 studi di caso
Un ulteriore risultato riguarda la progettazione delle situazioni didattiche dei diversi studi di caso. A partire dalle competenze selezionate come oggetto dei percorsi, si è trattato di creare le condizioni per favorire un apprendimento che l’alunno potesse padroneggiare in forma integrata e relativamente stabile (Maccario, 2006). La situazione, in tal senso, costituisce la fonte principale dell’attività del soggetto: l’allievo in prima persona deve integrare le risorse di cui dispone, le cui caratteristiche sono strettamente legate al contesto di apprendimento creato. Per favorire lo sviluppo di competenze, come suggeriscono Magnoler e Sorzio (2012), occorre elaborare un modello di didattica più aperto, orientato alla ricerca. Per esemplificare quanto detto, facendo riferimento ai percorsi didattici realizzati negli studi di caso, si faccia riferimento all’apprendimento legato alla competenza di porre di domande (studi di caso D, E). Gli alunni dopo aver analizzato la struttura delle domande delle prove Invalsi, sono stati immersi nella situazione di dover costruire le domande di una prova per i compagni, scontrandosi quindi con le reali difficoltà legate alla formulazione di domande quali, ad esempio, la chiarezza comunicativa e l’esaustività della richiesta. !"##"$"%&'(%)*+(% ,$*,"##(-%
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Domanda di un’ipotetica prova Invalsi, inventata dai bambini – Studio di caso E
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C: Io per esempio, volevo avere chiarezza qui. C’è scritto si sa e non si sa, cosa intendi? I: Tipo alcune cose, anche se non le dice nel testo si sanno, tipo che cos’è un diavolo il testo non lo dice, ma io credo che almeno la maggior parte di noi lo sa! C: Oda ha un cane, voi avete scritto non si sa, ma non lo dice neanche il testo. Se dite che si deve mettere una sola crocetta come si fa? I: Si, lo so perché poi anche io me ne sono accorto, potevi scegliere o non si sa o il testo non lo dice e io volevo cambiare in “Scegli una o due risposte”. C: Invece se posso darvi un consiglio su quella domanda, nelle risposte si poteva scrivere o non si sa oppure il testo non lo dice, non tutti e due perché confonde. Trascrizione della domanda formulata dai bambini e della successiva discussione con i compagni - Studio di caso E
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Il passaggio che questo approccio suggerisce è quello da un sapere decontestualizzato, veicolato da concetti di conoscenze a abilità, ad un sapere situato, che definisce un determinato contesto operativo in cui agire. Rispetto a quanto descritto possono essere considerati a titolo esemplificativo i lavori di gruppo condotti negli studi di caso B e C, dove a partire dalla copertina di un libro, è stato richiesto ai bambini di reperire più informazioni possibili circa la storia raccontata. C:
Dalla copertina abbiamo capito che il libro raccontava la storia di una bambina che aveva costruito una casetta sull’albero. N: La bambina è sull’albero e noi abbiamo pensato che la costruiva lì! P: Poi l’abbiamo capito anche dal titolo “ La casa sull’albero!” Ins: Forse avete messo insieme la bambina e l’albero! C: Per noi era una storia felice! Ins: Da dove l’avete capito? D: Dal viso della bambina che è sorridente! F: Dai colori vivaci della copertina! Ins: Da qualcosa d’altro? F: Dal corpo della bambina sull’albero. Ins: A voi piacerebbe avere una casetta sull’albero? Tutti: Si! C: Noi in giardino avevamo una casetta sull’albero ed era bellissimo! Trascrizione dello studio di caso B
La situazione progettata ha dunque permesso di porre al centro del processo l’attività del discente, che organizza e struttura gli stimoli esterni trasformando se stesso e la propria struttura personale. In tal senso, questa attività, viene definita da Jonnaert (2002) come un processo creativo e non come un processo recettivo, poiché implica una forte interazione tra le conoscenze nuove e quelle pregresse del soggetto. In questo caso il nuovo sono le scoperte del gruppo, le conoscenze pregresse sono date dalle esperienze dei singoli che costituiscono la base per la costruzione delle inferenze. L’altra postura parallela, trasversale ai diversi studi di caso è quella di sostenere l’esercizio metacognitivo degli alunni. Tutti gli insegnanti all’interno dei diversi studi di caso hanno elaborato una didattica metacognitiva chiedendo puntual-
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mente agli alunni di ragionare sulle strategie cognitive messe in atto per affrontare le diverse situazioni, accanto alla richiesta di autovalutare le esperienze vissute. L’obiettivo di queste azioni congiunte è stato quello di stimolare l’allievo a prendere coscienza delle proprie modalità di apprendimento in modo da potenziarne l’efficacia. Un approccio per competenze prevede dunque che l’allievo sia messo in condizione di riflettere sulle proprie personali modalità di risposta di fronte al problema e di valutare la qualità della propria risposta (Maccario, 2006). Si pensi ad esempio alle valutazioni sul test richieste in tutti gli studi di caso a seguito alla somministrazione della prova INVALSI (2011-2012). Ins: Come vi è sembrata questa prova? C: Difficile perché c’erano molte cose che non capivo tipo l’esercizio D18, D16, D15. M.: È stata difficile perché le spiegazioni erano non capibili in tanti esercizi, ad esempio D7 I: Quelle più difficili erano perchè non leggevo bene, altre perché non le ho capite subito e ci ho messo un po’ ma le ho anche sbagliate. La più difficile è stata la D3. (Trascrizione - studio di caso A)
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Secondo me le prove INVALSI sono state facili e difficili, in alcuni momenti le domande sono più difficili da fare e da capire. P: Secondo me le prove erano difficili perché c’erano molte cose di ragionamento e da capire la consegna. A: La prova è stata per me abbastanza facile perché oltre a basarsi sulla matematica e sui calcoli si è basata soprattutto sulla logica e ci ha aiutati a fare più attenzione a quello che c’è scritto sulla consegna. C: Io nelle domande cercherei di farci capire meglio l’esercizio perché alcune domande non erano chiare. L: Io suggerirei di leggere attentamente la consegna i dati poi osservare bene il disegno. Io vorrei dire alla persona che scrive l’esercizio di non mettere disegni che confondono, perché alcuni bambini non capiscono. (Trascrizione - studio di caso E) Trascrizioni di valutazioni espresse dai bambini sulle Prove Invalsi 2011/2012
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Un effetto importante che si ritrova dall’analisi di queste trascrizioni è che gli alunni non solo stanno iniziando a conoscere lo strumento Invalsi, ma iniziano a costruire un’opinione, in termini di osservazioni e suggerimenti; ma anche rispetto al modo di affrontare il test, analizzando difficoltà e punti di forza. Questo tipo di percorso didattico ha portato implicazioni su differenti piani di apprendimento: un livello più approfondito di comprensione dei concetti curricolari; un livello legato alle concezioni che gli studenti elaborano sul sapere e un livello più personale, dove gli alunni si impegnano maggiormente nel processo di apprendimento, in quanto si percepiscono come costruttori del sapere e non soltanto come esecutori di compiti. Questo fa si che si generi un rapporto più soggettivo con il sapere che può essere oggetto di analisi e revisione ed è visto in modo dinamico come risorsa per costruire nuovo sapere. Può essere riportata, a titolo esemplificativo di quanto detto, una tabella che illustra un incremento della competenza metacognitiva degli alunni, nello studio di caso A. É stato chiesto ai bambini di ragionare sulle strategie messe in atto per affrontare le prove Invalsi con l’obiettivo di non limitare l’azione al raggiungimento di uno standard pre-stabilito, ma chiedendo di operare una riflessione sul modo di procedere. Nello studio di caso A l’insegnante dopo la somministrazione della prova Invalsi (2011/2012) e dopo la somministrazione della prova Invalsi (2012/2013) ha posto ai bambini la medesima questione “Proviamo ad elencare quali strategie avete utilizzato per affrontare la prova?”: !"#$"%&'%()*+), !"#$"%&'%()*+),)+-./0(( ( +),)+-./0(( .('1'2'3(405675879( .(' 1'2'3(405675 7 879(
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Tab.1: Le strategie metacognitive – studio di caso A
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I bambini sono stati coinvolti in un’esperienza metacognitiva, in grado di promuovere la loro capacità di presa di coscienza, di esplicitazione e di controllo volontario dei comportamenti. Confrontando le due colonne si può sottolineare l’incremento del numero di strategie che i bambini riescono ad esplicitare a fine percorso rispetto alla fase iniziale, questo è dovuto al coinvolgimento degli alunni in contesti atti a promuovere la costruzione sociale di conoscenza, con l’esplicita richiesta di raccontare come si è giunti ad un dato risultato. Un’esperienza analoga di riflessione sulle strategie individuate è stata proposta nello studio di caso C, dove l’insegnante, al termine del percorso, ha chiesto ai bambini di rispondere ai seguenti item:
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Ripensando al lavoro fatto con le maestre, quali tra le seguenti strategie hai davvero utilizzato per trovare le risposte esatte? A. Se non mi ricordavo o ero indeciso, tornavo a rileggere una parte B. Ho usato la fantasia e l’invenzione per rispondere ad alcune domande C. Ho risposto a caso D. Se non capivo una parola, andavo a leggere anche la parte precedente o la seguente E. Se non capivo una parola, andavo a cercare il significato rileggendo la frase F. Ho cercato di immaginarmi quello che era raccontato G. Non ho messo crocette quando non sapevo rispondere
Graf. 1 - Le strategie usate nelle prove Invalsi – Studio di caso C
Con questo grafico si mostra la frequenza con cui sono state usate le strategie elencate dall’insegnante, durante lo svolgimento delle prove Invalsi 2012/2013. Il grafico mostra come le strategie ritenute più efficaci ai fini della comprensione del testo quali tornare a rileggere una parte di testo (Lucisano, Salerni, Benvenuto, Siniscalco,1989; Lumbelli, 2009), (strategie elencate nelle risposte A; D); vengano utilizzate dalla maggior parte della classe (20 bambini su 22 dichiarano di usare la strategia identificata dalla lettera A; 21 bambini su 22 dichiarano di usare la strategia identificata dalla lettera D. 18 bambini su 22 dichiarano di non avere mai “sparato a caso” e solo 4 dicono che a volte è capitato. Questo mostra come i bambini siano in grado di riconoscere il proprio modo di agire e di applicarlo, se ritenuto efficace, in circostanze analoghe (Flavell, 1976; Cornoldi, 1995). L’esperienza ha dunque generato apprendimenti a vari livelli: apprendimenti più semplici, ma anche “deuteroapprendimenti”, più complessi, dove gli alunni incominciano a clas-
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sificare i contesti all’interno dei quali è più appropriato agire in un modo piuttosto che in un altro, riconoscendo le proprie conoscenze e il modo in cui sono state apprese, al fine di poterle utilizzare in situazioni inedite (Pellery, 2004; Zecca, 2012). Come evidenziato dagli esempi riportati, all’interno dei percorsi didattici progettati le prove Invalsi, sono state inserita all’interno di una cornice di riflessione e di costruzione di senso condiviso tra insegnanti e alunni. La condizione necessaria, per realizzare questo fine, è stata quella di connotare l’azione didattica di una collaborazione intensiva tra insegnante e alunno, circa la progettazione, il monitoraggio e la valutazione di quanto avvenuto in classe. A questo proposito sono ora riportate alcune considerazioni formulate dai bambini circa le prove Invalsi 2012/2013 (studio di caso E), richieste dal docente come feed-back dell’esperienza:
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F: L’unica cosa che ho da dire è che non capivo alcune definizioni o consegne, quindi per me, si può tenere nel banco oltre alla penna il vocabolario per vedere alcune parole che non si conoscono. M: È più bello risolverli tutti insieme oppure in gruppo. D: Le prossime prove provate a inserire un problema da eseguire con: lo schema, i dati, espressione e rispondo. Trascrizione di una discussione con i bambini – Studio di caso E
I bambini prendendo in esame alcune componenti dell’azione didattica, hanno suggerito di estendere anche al momento di somministrazione del test due pratiche abituali della loro prassi didattica: l’uso del vocabolario e il lavoro di gruppo. Da evidenziare è il suggerimento di D. poiché può diventare un’occasione per l’insegnante per ragionare sulla varietà di metodologie di lavoro proposte, che non risulta mai essere una scelta neutra e non sempre incontra il favore di tutti i componenti della classe (Nigris, 2003). È quindi importante per il docente creare le condizioni affinchè il punto di vista degli studenti possa essere esplicitato e discusso. Per tanto si può sottolineare come gli alunni inseriscano quindi l’esperienza delle prove all’intero del processo di apprendimento dell’anno scolastico in corso, contrastando la percezione “dell’elemento sconosciuto” (Pastori, 2013).
Conclusioni Gli insegnanti, a partire da una riflessione sulle prove Invalsi, con il ricercatore e gli alunni hanno progettato situazioni e compiti complessi che hanno coinvolto gli studenti attivandoli nella ricerca di possibili soluzioni e nella costruzione di continui collegamenti sulla spendibilità effettiva degli apprendimenti conseguiti. La mobilitazione degli alunni circa i compiti di apprendimento assegnati è stata globale: sono state messe in campo risorse e schemi cognitivi in una logica integrata, così come richiesto dal costrutto di competenza (Pellerey, 2004; Maccario, 2006; Castoldi, 2009; Castoldi, Martini, 2011). L’altra postura parallela è quella dell’esercizio metacognitivo. Gli insegnanti hanno chiesto puntualmente agli alunni di ragionare sulle strategie cognitive messe in atto per affrontare le diverse situazioni, accanto alla richiesta di autovalutare le esperienze vissute. L’obiettivo di queste azioni congiunte è stato quello di stimolare l’allievo a prendere coscienza delle proprie modalità di apprendimento in modo da potenziarne l’efficacia. Un
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approccio per competenze prevede dunque che l’allievo sia messo in condizione di riflettere sulle proprie personali modalità di risposta di fronte al problema e di valutare la qualità della propria risposta (Maccario, 2006). Un effetto importante della didattica per competenze quindi, risulta quello di sviluppare negli alunni una padronanza intellettuale in relazione ai compiti di apprendimento. Non dovendo semplicemente fornire la risposta attesa, gli studenti sono stati in grado di perseverare nell’attività, valorizzare le loro acquisizioni e riflettere dunque sui loro processi di pensiero. L’esito è stato quello di una maggiore consapevolezza della trasferibilità della propria conoscenza, delle strategie di progettazione, esecuzione e revisione delle procedure applicate. In diversi degli stralci documentativi di discussione riportati si è esplicitato questo processo di co-costruzione di conoscenze oppure di ri-organizzazione del sapere. In questo senso si fa riferimento alla dimensione costruttivista del modello di didattica per competenze descritto da Jonnaert e Vander Borght (2003). La presente costruzione del processo di insegnamento, ponendo al centro l’alunno, ha implicato un coinvolgimento tale nell’intero processo che ha prodotto nei bambini una costruzione di senso condivisa dell’esperienza delle prove Invalsi. I risultati evidenziati mostrano quindi come le prove Invalsi possano essere utilizzate come strumenti di miglioramento della pratica didattica nella direzione della promozione di competenze.
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La competenza digitale all’università per la progettazione di percorsi di Media Education Giuseppa Cappuccio • Università degli Studi di Palermo • giuseppa.cappuccio@unipa.it
Digital literacy at university to design Media Education
The increasing digitization and globalization of the media, the broad diversification of media products, with the value-and ethical issues that it raises, proposes and confirms the reasons why media education is to be considered as an indispensable task for anyone involved in education. Thanks to specific educational interventions and appropriate evaluation tools for self-assessment, future educators should be helped to acquire the appropriate media skills necessary to develop the capacity to responsibly and autonomously choose proper media to design their media education courses. The media competence enhances teachers’ and educators’ ability to creatively modify learning spaces and to design a variety of stimulating activities in order to promote their pupils’ independent and aware work. This paper describes the research for the development of five digital skills, in the a.a. 2013/2014 with 154 students, in their first year of Education course of the University of Palermo. The project has involved, for 60 hours, 154 students attending the first year of Social Education who have experienced a training methodology for the promotion of media skills necessary to design paths of media education.
Parole chiave: digital literacy, media education, ricerca
Keywords: digital literacy, media education, research
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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La crescente digitalizzazione e globalizzazione dei media, l’ampia diversificazione dell’offerta mediale, con i problemi valoriali ed etici che essa pone, ripresentano e confermano le ragioni che fanno dell’educazione ai media un compito imprescindibile di chi si occupa di educazione. Con interventi educativi specifici e fornendo loro adeguati strumenti di valutazione e di autovalutazione, i futuri educatori vanno aiutati ad acquisire le adeguate competenze digitali necessarie per l’acquisizione della capacità di scelta autonoma e responsabile dei media che permetta loro di progettare percorsi di media education in ambito educativo. La competenza mediale sollecita la capacità di insegnanti ed educatori a modificare in modo creativo gli spazi di apprendimento e a progettare attività stimolanti e molteplici, che a loro volta offrano agli alunni occasioni efficaci per lavorare in modo autonomo e consapevole. Il presente contributo mostra le fasi fondamentali del percorso di ricerca per lo sviluppo di tre competenze digitali e svolto nell’a.a. 2013/2014 presso l’Università degli Studi di Palermo. L’intervento ha visto impegnati, per 60 ore, 154 studenti frequentanti il primo anno del corso di studio in Educazione di Comunità che hanno sperimentato una metodologia formativa per la promozione delle competenze digitali necessarie per progettare percorsi di media education.
La competenza digitale all’università per la progettazione di percorsi di Media Education
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Le ricerche sulla digital literacy evidenziano che i giovani acquisiscono la maggior parte delle loro competenze fuori dalle istituzioni scolastiche e formative. Tuttavia la questione è che le esperienze e le competenze che i giovani sviluppano fuori dall’ambito educativo diventano sempre più importanti in relazione ai processi di apprendimento. I new media e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione offrono quantità immense e possibilità nuove per strutturare le attività didattiche in ambienti di apprendimento specifici, in modo tale da far diventare i processi comunicativi decisamente più differenziati e complessi ma nello stesso tempo più efficaci e motivanti. I new media, infatti, non soltanto si offrono con contenuti specifici e con definizioni pari alle indicazioni degli educatori, ma dispongono anche di una ricca varietà di immagini, filmati, registrazioni audio e grafici, che sono interpretabili e accessibili a tutti. Essi offrono inesauribili possibilità di azione sui contenuti, perché possono essere variati, coordinati tra loro, trasformati, elaborati, confrontati e interpretati in modo personale. I media mettono a disposizione degli educatori ricchi e interessanti strumenti e modalità per la ricezione, l’elaborazione e la mediazione di contenuti di apprendimento. Come possiamo garantire agli studenti universitari lo sviluppo delle competenze digitali necessarie affinché diventino costruttori attivi e protagonisti nel futuro sociale, culturale, economico e politico della nostra società? Per affrontare tale sfida dobbiamo ripensare quali competenze è necessario che i giovani acquisiscano e come aiutarli a integrare le conoscenze provenienti da fonti e media diversi. È, infatti, osservabile come i cambiamenti nell’ambiente mediale stanno trasformando la nostra comprensione delle competenze e sollecitano nuovi modi di pensare e di interazione con il mondo. L’impostazione teorica e metodologica di Le Boterf (1994) e le sue riflessioni offrono spunti e indicazioni operative utili per l’Human Resource Manager, per l’educatore che si occupa di media education, per chi si occupa di orientamento al lavoro, per il politico e per il giovane cittadino mediale. Il concetto di competenza delineato da Le Boterf può rappresentare un punto di riferimento importante per un modello formativo in grado di rispondere alle reali esigenze di formazione dei futuri educatori esperti in media education, sullo sfondo di un contesto sociale e organizzativo profondamente cambiato negli ultimi anni; ma per diventare competenti nella progettazione di percorsi di media education, i futuri educatori devono acquisire le competenze digitali fondamentali. La competenza digitale, infatti, sollecita la capacità degli educatori a modificare in modo creativo gli spazi di apprendimento e a progettare attività stimolanti e molteplici, che a loro volta offrano agli studenti occasioni efficaci per lavorare in modo autonomo e consapevole. Diventa, pertanto, necessaria una didattica universitaria strettamente connessa ai problemi dell’agire quotidiano, che fornisca gli strumenti adeguati per leggere i media e insegni a progettare e realizzare percorsi di media education.
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Dato che gli attuali media contengono sistemi di segni completamente differenti tra loro, i futuri educatori dovranno estendere e sviluppare le loro competenze di base nella comunicazione in direzione di un’ampia competenza digitale. Essi dovranno sviluppare capacità comunicative sui contenuti, per stabilire e mantenere rapporti sociali e per la costruzione e il mantenimento dell’identità mediante diversi sistemi di segni. Il presente lavoro illustra un percorso di ricerca con cui si è inteso verificare la validità di una metodologia formativa finalizzata allo sviluppo di tre competenze digitali in futuri educatori: competenze fondamentali per la progettazione e realizzazione di percorsi di media education. I destinatari del percorso sono stati 154 studenti del primo anno del corso di studio in Educazione di Comunità dell’Università degli Studi di Palermo, è stato proposto un intervento formativo della durata di 60 ore per la promozione di tre competenze digitali.
1. Il quadro teorico Considerando l’impatto dei media sulla vita dei giovani emerge la necessità di esaminare le implicazioni sociali ed educative che ciò ha sulla literacy1 e sull’apprendimento in generale (Bransford, Brown e Cocking, 2000; Wells, Claxton, 2002; Livingstone, 2002), e come queste costituiscano una sorta di attrezzatura per vivere (Cole, Keyssar, 1985). Le prospettive attuali si differenziano spaziando dalla vasta analisi culturale legata alle “multiliteracy” (Cope e Kalantzis, 2000, p. 24) agli sviluppi di standard specifici per l’apprendimento e per la literacy sui media. Ancor oggi, purtroppo, l’integrazione dei new media e delle tecnologie in ambito formativo è ancora scarsa, tranne forse per l’educazione ai media. Termini quali media literacy e digital literacy sono costrutti dei mezzi di comunicazione di massa: i quotidiani, la documentazione ed i discorsi sulle politiche diffondono la nozione e l’importanza della digital literacy; l’art. 37 della Direttiva sui servizi dei media audiovisivi europei non solo tiene conto del ruolo attivo di organizzazioni come l’UNESCO e la Commissione Europea (CE) per lo sviluppo della media literacy ma ne dispone il riconoscimento e individua inoltre la media education nell’agenda politica. È in atto un processo socioculturale di ridefinizione delle literacies. Occuparsi di digital literacy nella formazione universitaria, infatti, significa interrogarsi sulle architetture che caratterizzeranno nei prossimi anni le strutture personali e sociali preposte alla costruzione ed organizzazione della conoscenza. In questo contesto, la ricerca educativa ha l’obbligo di fornire ipotesi di lavoro realistiche e modelli congruenti con le finalità stesse degli istituti formativi e concretamente impiegabili al suo interno (Calvani, Fini, Ranieri, 2009, p. 40). L’ambito della digital literacy, nonostante si sia affermato negli ultimi 30 anni, è diventato un ambito sostanziale nella riflessione educativa del nuovo millennio.
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La traduzione italiana del termine inglese literacy è complessa. Il termine italiano “alfabetizzazione” indica da un lato il processo con cui gli analfabeti diventano alfabetizzati, ed è dunque strettamente legato alla nozione di analfabetismo, e dall’altro un insieme di conoscenze e abilità di base.
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Esso rappresenta un passaggio obbligato per una riflessione più consapevole sul perché e come impiegare i media digitali in ambito educativo. Il primo autore che propone una definizione di digital literacy è Gilster (1997, pp. 1-2) il quale sostiene che la “digital literacy is the ability to understand and use information in multiple formats from a wide range of sources when it is presented via computers. The concept of literacy goes beyond simply being able to read; it has always meant the ability to read with meaning, and to understand. […] Acquiring digital literacy for Internet use involves mastering a set of core competencies. The most essential of these is the ability to make informed judgments about what you find on-line, for unlike conventional media, much of the Net is unfiltered by editors and open to the contributions of all”. Gilster sottolinea soprattutto le capacità di pensiero critico e di valutazione dell’informazione più che le abilità tecniche. Erstad (2008) propone una definizione di digital literacy come insieme di abilità, conoscenze e atteggiamenti nell’uso dei media per gestire le sfide della società dell’apprendimento. Si tratta di una definizione molto ampia legata alle sfide di quella che alcuni chiamano la società dell’apprendimento (Qvortrup, 2001), intendendo uno sguardo sulla società più attivo, orientato al processo, diverso quindi da termini quali la società delle reti, della conoscenza e dell’informazione. La digital literacy si riferisce, quindi, sia alla capacità di utilizzare le applicazioni tecnologiche sia a quella di avvalersi della tecnologia per esigenze personali o collettive e queste modalità di utilizzo sollevano importanti questioni circa nuove forme di digital divide fra la popolazione e può essere interpretata come quella identità individuale, o come il processo che la determina, che non solo permette alla persona di vivere attivamente nella società della conoscenza, ma anche di partecipare al suo sviluppo (Midoro, 2007, p. 49). La consapevolezza che è necessario promuovere le competenze sui media digitali è emersa anche nei contesti regolativi internazionali, che si pongono l’obiettivo di indicare le linee strategiche più opportune per garantire a tutti la piena cittadinanza nella società dell’informazione; la Commissione Europea, a questo proposito, ha emanato nel dicembre 2006 una Raccomandazione relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente e che richiede un cambiamento di paradigma rispetto al tradizionale sistema educativo. In particolare, la proposta europea2 punta a sviluppare nelle persone, e soprattutto nei giovani, la capacità di apprendere ad apprendere, ovvero di acquisire modelli motivazioni e capacità per guidare, anche autonomamente, un processo di continuo aggiornamento, sviluppo e/o potenziamento delle proprie competenze, tale da favorire le possibilità di autonomo controllo e progettazione d’interventi nel contesto di vita e di lavoro personale, dove acquista particolare significato la competenza digitale, cioè il saper utilizzare con familiarità e spirito critico le tecnologie per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative nel lavoro e nel tempo libero. La competenza intesa come la capacità di una persona di orchestrare e di mobilitare sia le proprie risorse interne (saperi, conoscenze, capacità, schemi operativi, motivazioni, valori e interessi, ecc.) sia le risorse esterne (tecnologie, organizzazione del lavoro, istituzioni) dando luogo, così, ad una prestazione efficace ed a un agire socialmente riconosciuto. La capacità di agire (saper agire, voler
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Commissione Europea, “Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa alle “competenze chiave per l’apprendimento permanente”.
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agire, ecc.) è la capacità del soggetto di attribuire significato alle proprie azioni, al mondo ed a se stesso nel mondo (Le Boterf, 1994, 2010; Argyris, Schon, 1974; Gilbert, Parlier, 1992; Momtmollin, 1984). Questa definizione, che condividiamo, si regge su un’ipotesi che pone la persona al centro nella costruzione della propria storia personale nei vari contesti sociali in cui è inserita. Si tratta di un costrutto complesso, di un insieme di risorse e di caratteristiche interne ed esterne alla persona che non sono più context-free, staccati dal contesto, bensì contestualizzati e mediati dall’esperienza delle persone. Inoltre, in quanto situata, la competenza si dispiega in condizioni di coscienza pratica facendo leva su una solida base di conoscenze tacite, oltre che esplicite. Di conseguenza i modi di fare esperienza, ed il modo in cui l’esperienza si struttura, sono più importanti delle caratteristiche stesse del lavoro e della competenza presi in sé. La riflessione e il lavoro di ricerca universitaria sulla digital literacy e sul concetto di competenza, di seguito presentato, si interseca con quella sulla media literacy e sulla media education: permane da un lato, cosi come sottolineano Calvani, Fini e Ranieri (2009, p. 42), l’enfasi sulla comprensione critica dei media, mentre viene rafforzata dall’altro l’attenzione verso la dimensione produttiva/creativa, sollecitata proprio dallo sviluppo dei media digitali. In un recente rapporto di ricerca promosso dall’Unione Europea la media literacy viene definita come l’espressione che descrive le abilità (skills) e le competenze (competences) necessarie per promuovere uno sviluppo, autonomo e consapevole, nel nuovo ambiente comunicativo - digitale, globale e multimediale – della società dell’informazione. Questa definizione, oltre al pregio di mantenere ferma la distinzione tra il risultato (literacy) e il processo (education), consente anche di ricomprendere i passaggi che si sono prodotti sul piano evolutivo rispetto al tema delle competenze specifiche, proprie di ciascuna classe di linguaggi. Non si tratta soltanto di acquisire nuove conoscenze, ma di imparare ad apprendere: ciò è possibile se gli insegnanti e gli educatori predispongono, orientano, differenziano e organizzano, consapevolmente e flessibilmente, le attività di insegnamento/apprendimento in accordo con le richieste del mondo mediale e se sono in grado di progettare percorsi di media education. La media education definita da Buckingham (2006; 2013) come un processo di insegnamento-apprendimento finalizzato non solo all’alfabetizzazione dei linguaggi mediali ma, anche e soprattutto, a sostenere lo sviluppo di abilità critiche importanti per una fruizione attiva dei media, e la possibilità di produrre e riutilizzare le forme comunicative e gli strumenti dei media in modo creativo, diventa un potente strumento metodologico più adeguato per promuovere le competenze digitali dei giovani. Essa ci propone un ideale educativo in cui vengono valorizzati dal punto di vista educativo-didattico sia processi cognitivi sia i processi metacognitivi messi in atto dalla comunicazione multimediale e globale e si configura come nuovo orizzonte epistemologico e metodologico in grado di focalizzare le principali dinamiche di costruzione di senso sociale, fungendo dunque non come una strategia difensiva, ma come un progetto volto allo sviluppo di un consumo consapevole e produttivo di comunicazione (Grange Sergi, Onorati, 2007, p. 68). La logica delle multiliteracies, sottolinea Rivoltella (2012, p. 139), chiede alle nostre pratiche didattiche di lasciarsi alle spalle la “vecchia” didattica costruita sul leggere e scrivere le sole forme testuali alfabetiche, tanto le “nuove” prospettive della tecnologia didattica. La prospettiva corretta considera i diversi linguaggi, compresi quelli digitali, come una specie di tastiera cognitiva che si renda accessibile e praticabile da parte degli studenti.
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2. La ricerca Partendo dalla riflessione teorica sulla digital literacy e dalle esperienze già svolte a livello nazionale e internazionale (Calvani, Fini, Ranieri, 2009; 2010; 2011; Trinchero, 2009; 2012; Jenkins, 2010), il percorso di ricerca per lo sviluppo delle competenze digitali ha previsto, per la sua realizzazione, due azioni: la prima azione è stata finalizzata a progettare e ad elaborare una metodologia formativa che avrebbe sviluppato alcune specifiche competenze digitali degli studenti universitari; la seconda azione ha sperimentato e cercato di consolidare la metodologia formativa nel corso di didattica generale del corso di studio in Educazione di Comunità dell’Università di Palermo. La metodologia di ricerca utilizzata è stata sia di tipo quantitativo sia qualitativo. I destinatari dell’intervento sperimentale sono stati 154 studenti del corso di studio in Educazione di Comunità dell’Università di Palermo. Il piano di ricerca utilizzato è stato quello “quasi sperimentale a gruppo unico” che prevede l’utilizzo dello stesso gruppo sia come gruppo di controllo sia come gruppo sperimentale.
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2.1 Ipotesi di ricerca Nell’ambito del progetto di ricerca abbiamo previsto che al termine dell’azione sperimentale sarebbero aumentate significativamente nel gruppo sperimentale prestazioni indicative dello sviluppo delle competenze digitali riguardanti la dimensione tecnologica, cognitiva e etica. Si è ipotizzato che la metodologia formativa utilizzata durante il corso di didattica generale avrebbe migliorato significativamente negli studenti universitari frequentanti: – la capacità selettiva, ossia il saper estrarre da una quantità di informazioni quelle necessarie a risolvere un problema; – la capacità di “navigare”, il sapersi orientare in strutture ipertestuali; – la capacità di saper leggere e comprendere i testi; – la competenza etica nel sapersi assumere la responsabilità per le conseguenze nell’attività mediale. Dopo la formulazione delle ipotesi particolari si è proceduto alla scelta degli strumenti di rilevazione iniziale, in itinere e finale, alla definizione del piano di ricerca e alla progettazione e costruzione della metodologia formativa che sarebbe stata sperimentata per la verifica delle ipotesi. 2.2 Gli strumenti di valutazione Come valutare e quali strumenti utilizzare per promuovere la valutazione della competenza digitale e fornire indicazioni utili per sostenerne lo sviluppo? L’efficacia formativa dell’azione sperimentale per lo sviluppo delle competenze digitali è stata misurata attraverso una serie di strumenti appositamente predisposti e ritenuti appropriati per verificare o meno le ipotesi formulate; sono stati utilizzati, nello specifico, l’Instant DCA3 (Digital Competence Assessment) per la
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Per ulteriori approfondimenti si veda A. Calvani, A. Fini, M. Ranieri (2011). La competenza
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rilevazione delle competenze digitali di Calvani, Fini e Ranieri (2011), la costruzione dei profili di competenza digitale e le rubriche di valutazione e autovalutazione delle attività declinate da ogni profilo di competenza, le verifiche durante il corso. L’Instant DCA (Digital Competence Assessment) è un questionario di facile applicazione e verifica, che analizza tre dimensioni: tecnologica, cognitiva e etica. Gli item relativi alla dimensione tecnologica riguardano principalmente il “saper individuare e risolvere” le difficoltà che si presentano lavorando con i media ed il saper leggere ed interpretare interfacce tipiche. La dimensione cognitiva rileva la capacità di comprensione dei testi e di organizzazione dei dati, altri sulle quelle di analisi e valutazione critica della pertinenza e affidabilità delle informazioni. La dimensione etica riguarda aspetti trasversali come la protezione dei dati personali, il rispetto della netiquette e la consapevolezza delle implicazioni sociali dell’uso delle tecnologie. Si è scelto di utilizzare l’Instant DCA perché è in accordo con le tre dimensioni cruciali che, secondo Jenkins (2010), giustificano l’intervento educativo sui media: la prima è relativa all’accesso alle tecnologie (participation gap), la seconda si riferisce alla comprensione critica dei media (trasparency problem) e la terza riguarda la dimensione etica (ethics challenge). Per valutare l’acquisizione delle competenze digitali sono stati costruiti dei profili di competenza in uscita, tenendo conto delle indicazioni fornite da Trinchero (2006) per il modello R-I-Z-A. Il modello R-I-Z-A è così strutturato: – – – –
(R): Risorse (le conoscenze e le capacità di base dello studente) (I): Strutture di interpretazione (come lo studente “legge” le situazioni) (Z): Strutture di azione (come lo studente agisce in risposta ad un problema) (A): Strutture di autoregolazione (come lo studente apprende dall’esperienza e cambia le proprie strategie in funzione delle sollecitazioni provenienti dal contesto).
Il modello ideato da Trinchero sottolinea il fatto che le quattro componenti della competenza possono emergere quando la persona si trova ad affrontare problemi aperti. Per rendere ogni profilo di competenza chiaro, sono stati seguiti i suggerimenti forniti da Trinchero (2012, pp. 72-77) e quindi: per le strutture di interpretazione, sono stati individuati i descrittori di competenza concretamente osservabili; per le strutture di azione, sono state descritte le azioni che gli studenti avrebbero dovuto mettere in atto per affrontare il compito; per le strutture di autoregolazione, sono state formulati i descrittori di competenza effettivamente rilevabili. Si riporta di seguito, a titolo di esempio, il profilo di competenza in uscita per l’area delle competenze legate alla dimensione etica.
digitale nella scuola.Trento: Erickson; A. Calvani, A. Fini, M. Ranieri (2010). Valutare la competenza digitale. Prove per la scuola primaria e secondaria. Trento: Erickson.
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I descrittori dei profili in uscita di ogni competenza digitale sono stati declinati nei seguenti tre livelli: sufficiente, buono, ottimo e sono state costruite tre rubriche di valutazione. Per la valutazione delle attività è stata scelta la rubrica di valutazione perché una rubrica, piuttosto che condurre all’attribuzione di un singolo punteggio, diviene una guida per valutare le prestazioni dello studente basandosi su un insieme di criteri che vanno da un livello minimo a uno massimo. La definizione chiara ed esplicita dei criteri di valutazione è fondamentale per la valutazione delle competenze digitali, poiché rende trasparente il processo di valutazione in relazione alla manifestazione di determinate competenze da parte degli studenti (Castoldi, Martini, 2011). La rubrica fornisce parametri non soggettivi di valutazione del processo di apprendimento, ma allo stesso tempo si muove in direzione della valutazione delle competenze degli studenti poiché consente di coniugare l’univocità dei riferimenti e la varietà dei percorsi possibili (Pedone, 2012, p. 80). Le tre rubriche realizzate sono state utilizzate per valutare le attività ogni 6 incontri. 2.3 L’intervento sperimentale Le attività della metodologia formativa che sono state sperimentate nel corso di didattica generale, individuano e rendono esplicite le tre aree individuate dall’Instant DCA (dimensione tecnologica, cognitiva e etica). L’intervento sperimentale ha coinvolto 154 studenti, dell’Università di Palermo, di età compresa tra 20 e i 25 anni che hanno frequentato, nei mesi di marzo – giugno dell’a.a. 2013/2014, il corso di didattica generale (9 cfu – 60 ore) del corso di studio in Educazione di Comunità. L’azione sperimentale per la sua realizzazione ha previsto e conseguito tre fasi. Nella prima fase (1 marzo-20 marzo) è stato somministrato l’Instant DCA e sono state costruite le attività per lo sviluppo delle competenze digitali. In questa prima fase, mentre si costruivano le attività, si è iniziato il corso di didattica generale introducendo il fattore ordinario.
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Contemporaneamente si è proceduto alla progettazione delle attività per la promozione delle competenze digitali; per costruire le attività ci si è ispirati alla procedura suggerita da Calonghi per la redazione e sperimentazione dei libri di testo (1979, pp. 93-313) e per la costruzione e l’adattamento dei test di profitto (1976, pp. 772-812), operando gli opportuni adattamenti richiesti dalla natura prodotti mediali. Nell’elaborare le attività si è cercato di rendere esperienziali e direttamente tangibili a diversi livelli (immaginativo, emotivo e comportamentale) i contenuti e le tematiche del corso di didattica generale che si intendevano far acquisire agli studenti, trovando di volta in volta le modalità più idonee di farne vedere e percepire meglio il significato, di farne sentire interiormente il valore, al fine di tradurre in comportamenti coerenti le idee in essi contenute (Cappuccio, 2003; 2012). Diverse attività hanno presentato allo studente delle situazioni problematiche da analizzare: gli si è richiesto di individuare gli elementi che le componevano, di formulare ipotesi di soluzione e di valutare e scegliere quella che ritenevano migliore. Come suggerito da García Hoz (1982, p. 252), sono stati predisposti dei testi che avessero bisogno di un complemento, che non dessero tutto ben definito, che obbligassero ad andare al di là, che si presentassero come qualcosa che richiede un proseguimento e che stimolassero il lavoro successivo. In questo modo si sono promosse l’autoriflessione e l’autovalutazione di ogni studente, condizioni indispensabili per giungere a un’autentica comprensione dei messaggi mediali. Alla fine di questa fase le attività finalizzate a potenziare le competenze di accesso, analisi, valutazione e produzione dei messaggi mediali sono state 15; cinque attività per ogni competenza digitale (tecnologica, cognitiva e etica). La seconda fase (21 marzo-10 giugno) dell’intervento è stata caratterizzata dall’introduzione del fattore sperimentale e nello specifico dalla somministrazione delle 15 attività secondo un calendario ben definito. L’intervento ha avuto una durata complessiva di 60 ore. Il percorso è consistito in tre incontri settimanali, della durata di 2 ore ciascuno, per un totale di 30 incontri. In ciascun incontro sono state somministrate due attività relative a due competenze digitali differenti. Ad esempio, nei primi tre incontri le attività riguardanti la dimensione tecnologica proponevano esercizi volti a promuovere la capacità e la disponibilità di ciascuno studente a esplorare alcuni nuovi software di progettazione didattica; veniva chiesto individualmente di rilevare le funzionalità e potenzialità del software e successivamente in coppia con un collega di sperimentarsi in un’attività di progettazione e rilevazione dei punti di forza e di debolezza. In questa seconda fase ogni cinque incontri sono state utilizzate le rubrica di valutazione per valutare le attività svolte dagli studenti. Alla fine dell’intervento le tre rubriche sono state sottoposte agli studenti come strumento di autovalutazione. Nella terza fase (11 giugno-11 luglio) dell’intervento sono stati elaborati i dati provenienti dalle cinque rilevazioni attraverso le tre rubriche di valutazione utilizzate durante l’intervento ed è stata effettuata la somministrazione finale dell’Instant DCA. Dopo la somministrazione dell’Istant DCA sono stati elaborati i profili prima dopo di ciascuno studente; ogni profilo è stato consegnato e discusso personalmente il giorno della verbalizzazione dell’esame dello studente.
3. Discussione dei risultati L’analisi dei dati raccolti ha consentito di cogliere i cambiamenti verificatisi negli studenti; i momenti valutativi sono serviti anche come occasione per effettuare aggiustamenti e riorganizzazioni.
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Nella fase iniziale e finale del percorso di ricerca è stato somministrato il questionario Instant DCA per indagare la dimensione tecnologica, la dimensione etica e la dimensione cognitiva degli studenti di fronte ai media digitali. Gli studenti intervistati, come già sottolineato precedentemente, sono stati 154 del corso di studi in Educazione di comunità che hanno frequentato il corso di didattica generale nell’a.a. 2013/2014. La maggior parte degli studenti aveva un’età compresa tra i 20 e i 25 anni e circa il 60% proveniva da paesi della sicilia occidentale, il restante 30% era della provincia di Palermo. Il 95% dei frequentanti era iscritta al primo anno per la prima volta dopo aver conseguito il diploma; il 3% era iscritto sempre al primo anno ma lavorava e il restante 2% era iscritto agli anni successivi al primo. Il 90% degli studenti frequentanti aveva conseguito il diploma in area umanistica (liceo socio/ psico/pedagogico, liceo classico) il restante 10% possedeva un titolo di studio in area scientifica o commerciale. La maggior parte degli studenti (89%) aveva già sostenuto e superato almeno 2 esami nel primo semestre. Nel gruppo erano presenti due studenti con disgrafia accertata.
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3.1 La rilevazione iniziale Dall’analisi iniziale dei dati rilevati dal test Instant DCA si evince una situazione non proprio brillante per gli studenti universitari intervistati. Esaminando i punteggi ottenuti dagli studenti i risultati conseguiti sono più bassi di quanto ci si aspettasse.
Grafico: percentuali dei punteggi medi per ogni indicatore
Per quanto riguarda la dimensione tecnologica gli studenti universitari, rispetto ai dati analizzati, potrebbero essere considerati sufficientemente competenti digitali nell’identificazione di interfacce e simboli e nella risoluzione di problemi tecnici comuni mentre solo il 51% raggiunge un valore medio nella comprensione concettuale più elevata della tecnologia. La dimensione cognitiva rileva che solo il 52% degli intervistati raggiunge il valore medio del punteggio per ciò che concerne la capacità di leggere, selezionare, interpretare e valutare i dati e le informazioni, provenienti dai differenti media, sulla base della loro pertinenza e attendibilità. In particolare, i valori più bassi si
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rilevano nei quesiti che richiedono di manipolare, interpretare e formulare inferenze a partire da dati organizzati in grafici e tabelle e in quelli che li mettono a confronto con problemi logico-formali. I dati relativi alla dimensione etica si mostrano variegati: le risposte ai quesiti dimostrano che gli studenti (49%) hanno ben chiaro, riconoscono e disapprovano comportamenti che sono contro la dignità e il rispetto della persona e delle differenze tra le persone; relativamente alla salvaguardia della privacy e della sicurezza personale gli studenti mostrano, invece, di avere idee confuse e scarsa consapevolezza. 3.2 La rilevazione in itinere con le rubriche L’analisi dei dati della rilevazione in itinere attraverso le tre rubriche di valutazione costruite partendo dai profili in uscita di ognuna delle tre competenze digitali e articolate in riferimento ai quattro elementi identificati nel modello R-I-Z-A, consente di affermare che, dal punto di vista qualitativo, i risultati si attestano a livelli di competenza complessivamente buoni; la significatività dei risultati ottenuti dagli studenti in riferimento agli elementi rilevanti presi a modello, seppur non generalizzabili, consentono di riflettere sulle necessità e opportunità di future applicazioni dell’intervento formativo realizzato. Nella valutazione delle risorse ovvero nella misura dello scarto tra le conoscenze possedute dallo studente sulle competenze digitali, prima e dopo l’intervento formativo, possiamo affermare che l’82% degli studenti coinvolti sono migliorati considerevolmente nei compiti di individuazione dei concetti chiave, nella loro definizione e nella loro messa in relazione. Per quanto riguarda la valutazione delle strutture di interpretazione è stato tenuto in considerazione lo scarto tra le visioni delle competenze digitali. In particolare, si è osservato che il 78% degli studenti, alla fine dell’intervento, ha raggiunto buoni livelli di prestazione nell’analizzare un testo mediale, nel dare giudizi di valore sul prodotto mediale, nel riconoscere le emozioni private e nel raccontare l’esperienza. Nel valutare le strutture di azione si è tenuto conto della differenza tra le capacità dello studente nel progettare un prodotto mediale o di applicare un modello di narrazione a un prodotto, prima e dopo l’intervento. I dati rilevati mostrano un concreto miglioramento degli studenti (72%) circa le modalità del consumo mediale, della produzione di un messaggio mediale utilizzando le regole linguistiche dei media e della valutazione di un messaggio. Gli studenti dimostrano una buona propensione ad individuare gli elementi caratterizzanti e i fatti significativi di un messaggio mediale; nello specifico il 67% è in grado di distinguere i fatti e le azioni dalle opinioni personali, il 71% sa riconoscere ciò che è essenziale da ciò che è, invece, secondario o superfluo. La valutazione delle strutture di autoregolazione ha riguardato la capacità dello studente di riflettere sul proprio processo di apprendimento e di acquisizione delle tre competenze digitali. Lo studente capace di autoregolazione considera l’apprendimento come un processo sistematico e controllabile e si assume la responsabilità dei propri risultati. Dalla lettura dei dati rilevati dalle rubriche di autovalutazione, si evince che la metà degli studenti riconosce di non aver mai, in precedenza, riflettuto sistematicamente sulla necessità di attuare delle specifiche strategie nell’utilizzo di un media; inoltre, considera quanto il percorso formativo proposto ha permesso di dare
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avvio autonomamente e responsabilmente al proprio processo di apprendimento affrontandolo con impegno e perseveranza. Infine, si rileva che gli studenti hanno imparato a monitorare il processo di soluzione di un problema, di controllare le strategie adottate e, eventualmente, a correggerle, ottenendo così prestazioni migliori. La rilevazione finale Con l’applicazione del test T per misure ripetute, abbiamo accertato la significatività delle differenze tra le medie tra i dati rilevati, con l’Istant DCA, all’inizio e alla fine dell’intervento sperimentale. La probabilità che abbiamo scelto per accettare come significativi i valori di t è stata quella di £.05 (intervallo di confidenza per la differenza al 95%). I risultati dell’elaborazione statistica consentono di potere affermare che il valore medio del gruppo, in ciascuna dimensione indagata (tecnologica, cognitiva, etica), sì è sensibilmente alzato dopo avere realizzato l’intervento. I risultati ottenuti dagli studenti sono stati messi a confronto con quelli del campione normativo (Calvani, Fini, Ranieri, 2011). Nel grafico di seguito presentato si può notare l’aumento dei punteggi medi dall’inizio dell’intervento sperimentale alla fine del percorso.
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Grafico: punteggi medi Istant DCA pre-test e post-test
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L’elaborazione del T di student conferma che il miglioramento dei punteggi medi è significativo. Ciò vuol dire che le ipotesi operative che riguardano il potenziamento delle competenze digitali sono state verificate. !"#$%&
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Differenze tra pre-test e post-test nel gruppo sperimentale (n=154)
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In particolare per ciò che concerne la dimensione tecnologica si sono verificate le ipotesi riguardanti: la capacità selettiva, ossia il saper estrarre da una quantità di informazioni quelle necessarie a risolvere un problema; la capacità di “navigare”, il sapersi orientare in strutture ipertestuali. Gli studenti registrano miglioramenti significativi nell’individuare situazioni tecniche critiche e scegliendo la strategia più adeguata per risolverle; nel descrivere un flusso di dati e nell’operare la distinzione tra reale e virtuale. Per quanto riguarda la dimensione cognitiva è stata verificata l’ipotesi relativa alla capacità di saper leggere e comprendere i testi; nello specifico si rilevano negli studenti, alla fine dell’intervento sperimentale, miglioramenti significativi nel trovare gli elementi sostanziali di un’informazione, distinguere le informazioni pertinenti da quelle non appropriate e nel rielaborarne i contenuti in forma grafica e ipertestuale; nel presentare un atteggiamento critico verso le informazioni presenti nel web. Infine, risulta verificata l’ipotesi relativa alla competenza etica nel sapersi assumere la responsabilità per le conseguenze nell’attività mediale. I miglioramenti significativi in questa dimensione si riferiscono sia alla gestione dei dati personali sia all’aumento della consapevolezza dei potenziali rischi della rete, del rispetto degli altri, dell’identificazione dei valori promossi dal prodotto, della valutazione di un messaggio mediale cogliendo i punti di vista e le intenzioni che lo costituiscono.
Conclusione Il percorso di ricerca presentato è nato dall’osservazione e constatazione di un generale fenomeno di deresponsabilizzazione delle istituzioni formative circa l’alfabetizzazione mediatica e il comportamento dei giovani nell’uso dei media. L’intervento realizzato, attraverso anche l’uso dei new media e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ha offerto possibilità nuove per strutturare le attività didattiche universitarie in ambienti di apprendimento specifici, in modo tale da far diventare i processi comunicativi decisamente più differenziati e complessi ed anche più efficaci e motivanti. Grazie alle attività realizzate, i 154 studenti del corso di didattica generale hanno migliorato: la capacità selettiva, ossia il saper estrarre da una quantità di informazioni quelle necessarie a risolvere un problema; la capacità di “navigare”, il sapersi orientare in strutture ipertestuali; la capacità di saper leggere e comprendere testi; la competenza etica nel sapersi assumere la responsabilità per le conseguenze nell’attività mediale. L’intervento sperimentale attuato non ha solo aiutato i futuri educatori a leggere e comprendere il senso di testi mediali ed a comporre nuove produzioni testuali ma ha, soprattutto, rappresentato una possibile ed efficace guida alla riflessione sistematica sul processo di lettura e scrittura utile alla comprensione della loro personale esperienza di lettori e scrittori. I risultati ottenuti non possono però farci dimenticare che, mentre è relativamente facile ottenere dei cambiamenti negli studenti quando si realizzano attività educative valide, è molto più complesso trasformare tali cambiamenti in apprendimenti stabili nel tempo se non si propongono periodicamente agli studenti universitari delle attività di rinforzo della competenza acquisita. Siamo consapevoli che le conclusioni a cui si è giunti, essendo basate su un campione non probabilistico, non consentono generalizzazioni indebite. Si deve poi tenere presente la possibilità che, oltre al trattamento, possano aver influito sui miglioramenti osservati nel gruppo anche altre variabili non controllate.
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Ripensare la Didattica alla luce delle Neuroscienze Corpo, abilità visuospaziali ed empatia: una ricerca esplorativa Paola Damiani • Università degli Studi di Torino • paola.damiani@unito.it Angela Santaniello • Università degli Studi di Salerno Filippo Gomez Paloma • Università degli Studi di Salerno • fgomez@unisa.it
Rethinking didactics in light of neuroscience. Body, visuospatial ability and empathy: an exploratory research Neuroscience and cognitive science have shown the interconnections between perception, action, emotion and cognition in knowledge/interaction with the world and their role in learning difficulties at school. It is therefore considered that the improvement of physical and emotional skills through the teaching processes in “complex classes” today. This research identifies a conceptual framework to connect development and educational perspectives and to identify the possession of skills and knowledge essential for the development of “crossmodal skills” (physical, emotional, empathy) in primary school pupils, in order to achieve adequate educational courses, for their ability and empowerment. In fact, the first data seem to support the initial hypothesis of a “general” lack of such skills.
Parole chiave: neuroscienze; classi complesse; didattica; difficoltà di apprendimento; competenze crossmodali; miglioramento
Keywords: neuroscience; complex classes; teaching; learning difficulties; crossmodal skills; improvement
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Le neuroscienze e le scienze cognitive hanno dimostrato le interconnessioni tra percezione, azione, emozione e cognizione nella conoscenza/interazione con il mondo e il loro ruolo nelle difficoltà di apprendimento scolastiche. Si ritiene pertanto che la valorizzazione delle dimensioni corporee ed emotive nella didattica possa migliorare i processi di insegnamento-apprendimento nelle “classi complesse” attuali. La ricerca presentata si propone quindi di identificare un quadro concettuale in grado di mettere in dialogo prospettive evolutive ed educative attualizzate e di rilevare il possesso di abilità e conoscenze fondamentali per lo sviluppo di “competenze crossmodali” (di tipo corporeo-emotivo-empatico) negli alunni della scuola primaria, al fine di realizzare percorsi didattici adeguati, per l’abilitazione e il loro potenziamento. In effetti, i primi dati paiono supportare l’ipotesi iniziale di una carenza “generale” di tali abilità.
Ripensare la Didattica alla luce delle Neuroscienze Corpo, abilità visuospaziali ed empatia: una ricerca esplorativa
Premessa
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L’articolo presenta un percorso di ricerca teorica ed empirica sulle nuove prospettive per il miglioramento della didattica, a partire dalla riflessione sullo scenario attuale, in relazione ai recenti contributi degli studi e delle ricerche sullo sviluppo e sull’apprendimento. In particolare, si intende indagare quelle aree lasciate tradizionalmente “scoperte” sia dai percorsi formativi degli insegnanti sia dalle pratiche didattiche ordinarie (corpo ed emozioni), che costituiscono aspetti chiave dello sviluppo umano e, al contempo, prerequisiti essenziali per gli apprendimenti scolastici, con la finalità di evidenziare relazioni e costruire ponti tra la dimensione evolutiva e la dimensione didattica, in un’interconnessione continua tra ricerca, didattica e innovazione.
1. Lo scenario introduttivo 1.1 “Comporre il puzzle” per cambiare la scuola a partire dalla didattica In questo momento di crisi profonda che coinvolge diversi sistemi a livello planetario e locale (sistema economico-finanziario; socioculturale; sanitario; etico-valoriale; scolastico…) abbiamo a disposizione numerose evidenze e spunti di riflessione, validi e condivisi, in grado di orientare e migliorare le direzioni e gli effetti dei cambiamenti in atto. Potremmo pensare a tali elementi come a tanti pezzi di un unico grande puzzle che varrebbe la pena di provare a comporre per acquisire maggiore consapevolezza. Per quanto riguarda la scuola, recenti scoperte scientifiche, orientamenti pedagogico-didattici, istanze culturali, sociali e civili, assetti istituzionali e quadri normativi paiono convergere verso alcuni aspetti e principi, tanto essenziali quanto radicali, in grado di ridefinire l’idea stessa di scuola e di rifondare (andando oltre il livello delle policy) anche il suo impianto strutturale profondo, culturale, organizzativo e didattico. Sintetizzando, possiamo ricondurre buona parte di tali aspetti e dei trend di cambiamento in atto, a livello nazionale e sovranazionale, ai processi per l’innovazione e per l’inclusione dei/nei sistemi scolastici. L’impatto più evidente e più urgente in termini di ricaduta concreta di tali processi pare essere quello sulla didattica ordinaria quotidiana e sulla professionalità dei docenti. In effetti, mentre la “scuola dell’autonomia” contemporanea (seppur nel nostro paese ancora più dichiarata che praticata) ha individuato a livello macro modelli organizzativi flessibili, reticolari e dinamici, attivati sulla base di nodi problematici autentici e significativi (alternanza scuola-lavoro e centri di ricerca; poli per la disabilità e i bisogni educativi speciali in collegamento con i servizi sanitari territoriali; rapporti con le università per il tirocinio nella formazione iniziale dei docenti…), quello che accade quotidianamente nelle aule, la pratica didattica dei
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singoli docenti o dei consigli di classe, in molti casi, risulta ancorata a modelli obsoleti, statici e scollegati dai bisogni e dalle risorse reali degli allievi, del territorio e della società-mondo. Il nostro contributo intende stringere il focus su quello che rappresenta il centro e il fine ultimo della scuola: la formazione della persona dell’allievo (Margiotta, 2014) nella sua globalità (Pavone, 2014). In particolare, intendiamo proporre alcuni spunti di riflessione sui recenti contribuiti delle neuroscienze alla conoscenza dei processi di sviluppo e di apprendimento, e relative implicazioni per la didattica, per quanto riguarda aree e dimensioni ancora misconosciute dalle pratiche ordinarie e dai percorsi di professionalizzazione degli insegnanti iniziali e in itinere. Nell’epoca dei Bisogni Educativi Speciali (BES) e delle classi complesse, con le luci e le ombre che questi comportano (D’alonzo, 2013; Pavone 2014), siamo convinti della necessità di ri-pensare la didattica in termini di didattica migliore possibile. La didattica migliore è una “buona” didattica in grado di arrivare all’allievo più fragile e al contempo di potenziare l’allievo più bravo. Non è infatti sostenibile, almeno attualmente, pensare una didattica moltiplicata e frantumata per n numero di allievi, in relazione alle caratteristiche specifiche e alle problematiche di ciascuno, ma non è più sostenibile neanche una didattica univoca e uniformante che non tenga conto dell’unicità di ogni singolo allievo, a partire dalla sua conoscenza profonda e autentica da parte dei docenti. In effetti, come riconoscono gli stessi clinici, la categorizzazione psicodiagnostica è utile nella prospettiva di identificazione di un problema/bisogno e di una cura specifici, ma il lavoro educativo e didattico con gli allievi con BES mette in primo piano le funzioni cognitive ed emotive coinvolte, le quali sono comuni a tutti gli allievi. La scuola deve lavorare sulle funzioni che si possono incrementare (attenzione, memoria, comunicazione, empatia, metacognizione…) in ciascun singolo allievo, mediante il lavoro collettivo con la classe; tutti traggono beneficio da tale rafforzamento (anche gli insegnanti). Lavorare sullo sviluppo delle funzioni è molto diverso dal lavorare con i singoli o con il gruppo sulle “etichette diagnostiche” (Di Nuovo, 2014). In effetti, negli ultimi decenni, gli studi e le ricerche sul funzionamento del cervello umano, sullo sviluppo della conoscenza e sui processi di apprendimento hanno condotto a nuove scoperte e concettualizzazioni che stanno modificando profondamente il senso del “far scuola”. Nell’assunzione inderogabile del non semplice compito di gestire le differenze delle “classi complesse” attuali, si rende urgente per gli insegnanti la necessità di essere consapevoli delle implicazioni – in termini di efficacia ed efficienza, costi e benefici – che le diverse scelte teoriche e metodologiche compiute comportano e dei modelli scientifico-culturali che le sottendono. La letteratura ha da tempo messo in luce il potere euristico dei “buoni” framework (integrati, globali e multidimensionali), la valenza del curriculo implicito e di tutti quegli aspetti collaterali (ma determinanti) connessi ai processi di insegnamento-apprendimento. Tuttavia, ricerche internazionali mostrano che la maggior parte dei docenti non è consapevole dei modelli di riferimento che sono alla base della propria azione educativa e didattica. Tali misconoscenze non risultano ininfluenti; non tutti gli approcci didattici e i modelli dell’insegnamento-apprendimento sono finalizzati alla messa in luce dei punti di forza degli studenti, oltre quelli di debolezza, e non tutti contemplano aspetti globali, multidimensionali e inclusivi. L’assunzione di una teoria di riferimento fondata sui fattori di successo e sull’idea di co-evoluzione e co-partecipazione orienta pensieri e comportamenti di docenti e studenti in una direzione
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proattiva; al contrario, teorie dell’intelligenza entitarie o visioni efficientiste dell’apprendimento costruiscono facilmente relazioni educative sterili che non conducono allo sviluppo e al cambiamento positivo dell’allievo e della classe, né alla professionalizzazione in senso migliorativo del docente. Le ipotesi esplicative sull’apprendimento, sui processi cognitivi e le progressive conoscenze sulle diverse tipologie di difficoltà dell’apprendimento si sono arricchite di feconde contaminazioni interdisciplinari, sotto la duplice spinta dei progressi in ambito scientifico e delle nuove richieste imposte dai contesti sociali postmoderni e dalla complessità crescente delle scuole (come recepito dai quadri transnazionali di Europa 2010 e 2020, in riferimento al framework delle competenze chiave per la cittadinanza attiva e l’apprendimento permanente1). Tra i primi, la rivisitazione e/o l’introduzione di costrutti per la descrizione dei funzionamenti dell’uomo, come la problematizzazione del concetto di intelligenza e di neurosviluppo, impongono una riflessione sull’idea stessa di insegnamento-apprendimento. La scelta di differenti modelli genera descrizioni e spiegazioni differenti dell’apprendimento e dei disturbi dell’apprendimento. Il superamento di modelli dello sviluppo e dell’apprendimento deterministici, a causalità diretta, a favore di modelli di tipo multifattoriale e probabilistico (Ruggerini, 2009), ha aperto il campo ad approcci integrati che contemplano prospettive piagetiane-costruttivistiche e prospettive innatistiche o modulari (Fodor, 1983) e delineano quadri neuropsicologici “complessi”, come quello neurocostruttivista (Kamiloff-Smith, 1996). Tali approcci valorizzano il ruolo della neurodiversità e della complessità dei funzionamenti in relazione ai contesti, favorendo un’apertura alla modificabilità e al potenziamento operati dall’ambiente, ad esempio, attraverso il cambiamento della nozione di funzioni cognitive danneggiate versus quella di funzioni cognitive risparmiate (Kamiloff-Smith, 2007). In generale, lo studio dell’interazione geni – comportamento – ambiente in un’ottica ecologica e sistemica ha orientato la ricerca negli ultimi anni. Le recenti teorie sullo sviluppo cognitivo si fondano su un concetto sistemico di apprendimento e le neuroscienze descrivono il cervello come un sistema complesso in cui le esperienze e le relazioni con l’ambiente modificano strutture e funzioni (Edelman, 1987). Uno degli obiettivi delle neuroscienze cognitive ha come oggetto di studio gli aspetti più sofisticati del nostro comportamento, il processo di naturalizzazione della cognizione o intelligenza sociale consistente nella comprensione della natura dei processi neurali che regolano le relazioni interpersonali, l’intersoggettività (Gallese, 2014). È bene precisare che la conoscenza dei meccanismi neurobiologici e neuropsicologici alla base dei processi di apprendimento per i docenti non può essere scontata e non deve tradursi in uno sconfinamento disciplinare che confonde ruoli e funzioni: l’insegnante non fa diagnosi e non interpreta funzionamenti profondi (ma descrive comportamenti osservabili), così come non fa interventi riabilitativi o terapeutici, bensì abilitativi ed educativi. Tuttavia, poiché le scoperte e le conoscenze delle neuroscienze costituiscono presupposti così significativi e potenti da premere l’acceleratore della fase di cambiamento della scuola, risulta indispensabile che gli insegnanti si posizionino entro questo nuovo scenario, dando voce alle loro esperienze per contribuire attivamente alla sua costruzione e per riflettere sui possibili vantaggi (e sui possibili rischi) di un cambiamento del sistema scuola in que-
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Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006.
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sta direzione. Occorre, infatti, concentrare l’attenzione anche sui percorsi che dalla scuola portano alle neuroscienze – e non soltanto il contrario – al fine di favorire un confronto attivo con i nuovi modelli scientifici e rendere più proficuo il dialogo e la progettazione di interventi “neurodidattici” (cfr. Rivoltella, 2012; Damiani, 2012) o neuroscientificamente orientati, anche alla luce delle conoscenze, delle pratiche e dei contesti autentici di lavoro e di apprendimento di insegnanti e allievi. Lo scenario futuro di tale dialogo non può essere pensato a prescindere da una fecondazione reciproca e bidirezionale tra i due mondi. Risulta fondamentale porre attenzione a non perpetrare la storica “sudditanza” della scuola dai paradigmi medici e psicologici, ma per realizzare ciò è necessario che pedagogisti e insegnanti si impegnino nella costruzione attiva di un ambito di professionalità attualizzato, multiprospettico e dinamico, aperto al confronto interdisciplinare. Negli ultimi anni, la medicina ha cercato di stringere rapporti con la pedagogia e con la didattica, in particolare per quanto riguarda il tema dei disturbi del neurosviluppo (DSM V – APA, 2013), in quanto consapevole del ruolo cruciale del contesto famigliare e del contesto scolastico per un sano sviluppo globale (biopsico-sociale) dei bambini, così come dichiarato nel modello ICF (WHO, 2001; 2017). In generale, l’aspetto educativo viene attualmente riconosciuto dai sanitari e dai neuroscienziati come essenziale sia per quanto riguarda lo sviluppo tipico sia per le situazioni di difficoltà e di sviluppo atipico. Soltanto un approccio multidisciplinare risulta in grado di attivare interventi positivi per migliorare la qualità di vita delle persone. L’educazione culturale e disciplinare costituisce solo un aspetto dello sviluppo persona; tutte le altre dimensioni, e in particolare, l’aspetto dell’intelligenza sociale-emotiva e corporea devono essere contemplate a scuola (Albertini, 2014). È oramai acquisito che la consapevolezza dei docenti dei processi alla base dei comportamenti dei propri alunni, soprattutto di quelli “problematici”, può favorire la capacità di osservare e di intervenire in modo efficace per prevenire ulteriori criticità e potenziare le conoscenze e le abilità essenziali. Senza il possesso dei prerequisiti fondamentali degli apprendimenti, o abilità di base, la stimolazione didattica non potrà essere efficace perché non potrà “agganciare” la zona di sviluppo prossimale che ne garantisce l’adeguatezza e l’efficacia per ciascun allievo. In riferimento a una prospettiva maturazionale dello sviluppo, la letteratura riconosce alla stimolazione didattica dei docenti una funzione potenziante o depotenziante concreta, nei suoi effetti di “plasticizzazione cerebrale” e conseguente modificazione delle funzioni e dei funzionamenti cognitivi degli alunni (Lucangeli, 2013). Le neuroscienze confermano quindi, da un punto di vista evidence based organico, anatomico-funzionale, ciò che altri approcci (pedagogico, filosofico, psicoanalitico) avevano da tempo messo in luce, attribuendo un ruolo centrale alla didattica: l’intervento didattico può essere interpretato come un intervento di aiuto o di danno allo sviluppo e all’apprendimento degli allievi in grado di modificare efficacemente le funzioni basali coinvolte negli apprendimenti. Le ricerche dimostrano ad esempio che l’autostima degli allievi con DSA aumenta maggiormente attraverso il potenziamento diretto (efficace) delle funzioni e delle abilità scolastiche carenti da parte dei loro insegnanti, più che attraverso sostegni generici o specifici da parte di altri professionisti, i quali nel tempo diventano poco credibili per il soggetto (De Beni, Pazzaglia, Gardini, 2007; Benso, 2010). Tuttavia, le indagini sulle percezioni, sugli atteggiamenti e sulle condotte degli insegnanti, mettono in luce il potere, spesso inconsapevole, di rendere possibile o meno il successo formativo dei propri allievi attraverso il loro lavoro ordinario e quotidiano (Hattie, 2009).
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Il nostro contributo si colloca entro tale quadro con l’obiettivo di proporre una riflessione sulla necessità di attualizzare e migliorare la didattica, verso una “buona didattica” o didattica migliore, al fine di promuovere e supportare processi di innovazione e di inclusione, per il successo formativo di ciascun allievo a partire dalla conoscenza e dalla valorizzazione di alcune fondamentali scoperte delle neuroscienze. Sintetizzando, riteniamo che una “buona didattica” sia essenzialmente una didattica valida (fondata su evidenze); etica (fondata sui valori della persona); inclusiva (adeguata a tutti); dinamica e innovativa (aperta ai cambiamenti e al “non ancora pensato”).
2. Gli aspetti chiave emergenti: esplorazione della letteratura scientifica 2.1 Recenti scoperte e teorie fondamentali in ambito neuroscientifico, a partire dall’idea complessa di intelligenza
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Dalla rassegna condotta emerge un riposizionamento e una valorizzazione del ruolo della didattica come “scienza ed esperienza - ponte” tra l’educativo e l’evolutivo. L’aspetto educativo viene riconosciuto dai medici come essenziale sia per quanto riguarda lo sviluppo tipico sia per le situazioni di difficoltà e di sviluppo atipico; l’aspetto evolutivo deve essere conosciuto dagli insegnanti per la realizzazione di processi di apprendimento-insegnamento “adeguati”. L’educazione culturale e disciplinare costituisce solo un aspetto dello sviluppo persona; tutte le altre dimensioni, e in particolare, l’aspetto dell’intelligenza sociale – emotiva e corporea devono essere contemplate a scuola (Albertini, 2014). In questa ottica, una conoscenza essenziale per i docenti riguarda il concetto di intelligenza, del suo sviluppo e delle sue relazioni con i processi di insegnamento-apprendimento. Il significato etimologico di intelletto, dal latino intus legere (leggere dentro) e inter legere (leggere tra, con l’esterno) richiama l’idea di varie forme e modalità di intelligenza, di tipo intrapersonale e interpersonale. L’intelligenza si connota come la facoltà di comprendere la realtà non in maniera superficiale ma, andando oltre, in profondità, per coglierne gli aspetti nascosti e non immediatamente evidenti, e di scoprire relazioni ed inter-connessioni tra i vari aspetti della realtà per giungere ad una comprensione più ampia e completa di essa. Emerge un’idea di intelligenza ecologica, relazionale e sistemica (Siegel, 2013), che ha i suoi prodromi nell’idea di “mente ecologica” (Bateson, 1977), coerente con la scoperta che l’ambiente “entra nel sistema - persona e, se risponde male ai suoi bisogni, può determinare lo sviluppo di un sé fragile”; i fattori ambientali correlano con l’autonomia personale e sociale e con la qualità di vita delle persone. Bateson aveva descritto l’apprendimento come un processo che consente una modificazione durevole del comportamento per effetto dell’esperienza. L’esperienza umana è innanzitutto un’esperienza emotiva profonda e relazionale di tipo interpersonale e intrapersonale; con sé e con l’altro da sé. Le ricerche della psicologia dello sviluppo e della psicopatologia hanno confermato che lo sviluppo dell’intelligenza generale è strettamente connesso allo sviluppo emotivo; quest’ultimo è costituito da una serie di processi che permettono al bambino lo sviluppo del sé e costituisce la base per lo sviluppo dell’intelligenza sociale. La regolazione delle Funzioni neuropsicologiche di base, le quali sono il motore dell’intelligenza generale (attenzione, memorie, prassie, orientamento spazio-tem-
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porale, Funzioni Esecutive), hanno sistemi di monitoraggio cognitivi e sociali, ma si fondano sulla base comune di una buona consapevolezza emotiva. Le capacità di autoregolazione sono correlate con aspetti emotivi, in termini di intelligenza emotiva e sociale. Il costrutto dell’intelligenza emotiva di Salovey e Mayer (1990) e di competenza emotiva (Saarni, 1999) definiscono sostanzialmente la capacità di un individuo di riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, di saperle comunicare attraverso le espressioni e il linguaggio della propria cultura e di regolarle in modo adeguato al contesto, guadagnando un senso di efficacia dagli scambi interattivi. L’intelligenza emotiva risulta centrale nello sviluppo del pensiero e dei processi cognitivi connessi agli apprendimenti, anche quelli scolastici, confermando l’intuizione bioniana della centralità della dimensione affettivo-relazionale per lo sviluppo del pensiero e della “mente per pensare” (Bion, 1962). In effetti, pur afferendo ad ambiti disciplinari differenti, Bion e Bruner (1964), avevano già chiaramente identificato l’importanza dell’immaginazione, dell’intuizione, della creatività e dell’emotività per la costruzione della conoscenza e di positive esperienze di apprendimento. Panksepp (1998) ha coniato il termine “Affective Neuroscience” per delineare un nuovo campo di studi e ricerche dei meccanismi neurali delle emozioni e sulla loro evoluzione. Egli descrive l’evoluzione dei neurocircuiti che sottostanno alle principali emozioni e identifica i sette principali neurocircuiti o “sistemi emotivi” che regolano i differenti aspetti della nostra vita, tutti i pensieri e tutte le azioni, evidenziando come le loro alterazioni e inibizioni siano all’origine delle principali malattie psicosomatiche e dei disturbi psicologici. I funzionamenti attivati per la comprensione del mondo (intelligenza) coinvolgono, quindi, aspetti sensoriali, visivi, percettivi, motori, empatici ed emotivi (Trevarthen, 1997). Nello sviluppo del cervello, tutte le mappe corticali si collegano in un codice che riproduce le strutture del corpo (somatotopico), a sistemi sensomotori profondi, al di sotto della corteccia, mappati nello stesso modo, i quali sono in grado di orientare e muovere l’intero corpo (Lennie et al, 1990); la visione è controllata e orientata dai moti delle parti del corpo. L’udito, la vista e il tatto possiedono un campo ambientale comune in cui intervengono in interconnessione. Negli ultimi anni, anche in riferimento alla crescente attenzione al variegato mondo delle difficoltà di apprendimento e dei disturbi evolutivi specifici, le scienze cognitive hanno indagato il ruolo centrale delle Funzioni Esecutive (FE) e hanno messo in luce la loro relazione con gli aspetti emotivi. Esse includono una varietà di processi cognitivi che influenzano significativamente le forme e le manifestazioni dell’intelligenza, le risposte comportamentali e la possibilità di apprendere in modo più o meno efficace (Benso, 2010). L’assunzione del concetto di intelligenza ecologica (interdipendenza con l’ambiente) ci aiuta a ripensare il ruolo del docente nella sua relazione con lo sviluppo delle intelligenze degli allievi. Occorre ripensare a che cosa ci si aspetta di vedere nei bambini e a che cosa ci si propone di stimolare con l’intervento ambientale didattico; quali forme di comprensione e di intelligenza si ricercano e in che modo si ritiene di stimolarle? Le neuroscienze hanno confermato la centralità dei processi mentali di relazione e di integrazione quali dimensioni chiave dell’intelligenza, necessarie per realizzare sviluppo e apprendimento. Come affermano Siegel e Bryson (2012), il funzionamento sano del cervello è un funzionamento di relazione e integrazione, equilibrata e modulata, tra emisferi destro e sinistro e tra processi “bassi” e processi “alti”. L’educazione e la cura devono favorire la possibilità di vivere esperienze di
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relazione, integrazione e flessibilità delle menti e dei corpi della persona, tra le persone e con l’ambiente (ICF, WHO, 2001; 2007). Il funzionamento del cervello e il comportamento umano intelligente sono dunque costituiti da molteplici aspetti dimensionali differenti che si influenzano reciprocamente. Non considerarli, considerarne soltanto alcuni o non considerare le loro interrelazioni pare dunque rappresentare un errore fondamentale di qualsiasi intervento – educativo e didattico o sanitario, terapeutico - che intenda favorire il loro sviluppo efficacemente. 2.2 Lo sviluppo della mente nel corpo: prospettive multidimensionali integrate
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La consapevolezza delle differenti dimensioni dello sviluppo mentale comporta anche una specifica attenzione al corpo e alla motricità, nelle loro relazioni con le altre dimensioni della persona e con l’ambiente. Tale consapevolezza è andata di pari passo con un rinnovato interesse sul ruolo del corpo nei meccanismi di apprendimento. La ricomposizione dell’errore cartesiano, riconosciuto e sanzionato in modo definitivo dalle neuroscienze (Damasio, 1995), ha aperto la pista a speculazioni e sperimentazioni feconde in ambito interdisciplinare (Gomez Paloma, 2009; 2013). Entro tale scenario, si incontrano e si fondono riflessioni neuroscientifiche, fenomenologiche e tecnologiche sul comune terreno delle “corporeità didattiche” che si strutturano a partire da un’idea del corpo quale “macchina della conoscenza” (Varela, 1990). Le riflessioni sul “Mind-Body Problem” tentano di ridurre progressivamente la distinzione tra due ontologie tradizionalmente considerate differenti: il fisico e il mentale (Thompson, 2005), secondo differenti prospettive. L’attenzione alle relazioni tra corporeità, salute e apprendimento ha condotto all’elaborazione di modelli di motricità fruibili nella didattica ordinaria, che migliorano la relazione docente-discente attraverso la costruzione di ambienti di apprendimento a partire dalle diversità di ciascun allievo (Gomez Paloma, Damiani, Ianes, 2014). Nell’esplorazione delle interconnessioni corpo-ambiente, emerge la centralità del corpo in azione, che deriva da un sempre maggiore riconoscimento del radicamento nel corpo-cervello della conoscenza. Varela sottolinea e sviluppa il ruolo attribuito da Piaget al sistema senso-motorio e afferma che la cognizione è fondata sull’attività concreta dell’intero organismo, cioè sull’accoppiamento senso-motorio. Il mondo non è qualcosa che ci è “dato” ma qualcosa a cui prendiamo parte tramite il modo in cui ci muoviamo, respiriamo e mangiamo, identificando la cognizione come “enazione”. Le neuroscienze hanno contribuito anche a modificare le teorie sulla percezione dello spazio, dimostrando come sensazione, percezione e azione costituiscano un dispositivo unitario del corpo-cervello volto alla conoscenza e all’interazione con il mondo. Berthoz (2004) ha indagato i meccanismi di funzionamento del cervello e le componenti legate al senso del movimento, una sorta di “sesto senso” in grado di anticipare ciò che sta per accadere nella realtà dello spazio circostante. Corpo, visione e movimento sono connessi tra di loro e interconnessi con altre dimensioni “primarie” dello sviluppo quali le emozioni e l’empatia. La scoperta dei neuroni specchio ha messo in luce la relazione tra imitazione ed empatia attraverso l’esperienza della simulazione empatica (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006); l’imitazione ha origine dall’esperienza del corpo e del movimento della persona in relazione. Il sistema dei neuroni a specchio costituisce il fonda-
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mento neuronale alla capacità di embodied simulation, la quale ha la funzione di permettere l’imitazione e di generare contenuti rappresentazionali. Rappresentazioni relative a sensazioni diverse (corporee, visive) coinvolgono circuiti cerebrali diversi; l’integrazione di queste modalità di elaborazione delle informazioni costituisce un obiettivo primario dello sviluppo della mente. Nel processo di sviluppo della mente, in discontinuità con le visioni egocentriche piagetiane e freudiane, la dimensione intersoggettiva risulta centrale. Le informazioni derivano dall’interazione con la madre e con i caregiver; i rapporti interpersonali, o più precisamente la loro qualità emotiva, possono facilitare o inibire la tendenza a integrare le rappresentazioni delle diverse esperienze. Le relazioni che caratterizzano i primi anni di vita assumono quindi un ruolo fondamentale nel plasmare le strutture di base che ci permettono di avere una visione coerente del mondo; le esperienze interpersonali influenzano direttamente le modalità con cui ci si costruisce mentalmente la realtà2. La soggettività pienamente auto-cosciente è frutto dello sviluppo della mente all’interno di una relazione di cura (Stern, 1998). La dimensione intersoggettiva e relazionale come dimensione di sviluppo e di apprendimento mantiene la sua significatività lungo tutto l’arco della vita. L’intersoggettività è il processo di condivisione dell’attività mentale che ha luogo tra soggetti durante un qualsiasi atto comunicativo. Questa capacità è innata e non richiede capacità cognitive astratte razionali o teoriche né dipende dall’apprendimento culturale. Nella prospettiva di Gallese (2012), l’interazione sociale non è solo “meta-cognizione sociale” ovvero pensiero esplicito rivolto ai contenuti della mente altrui attraverso rappresentazioni astratte; “le relazioni interpersonali contengono anche una dimensione esperienziale che ci permette una comprensione diretta del senso delle azioni, delle emozioni e delle sensazioni altrui. Questa dimensione dell’intelligenza sociale è incarnata in modo tale da mediare tra la conoscenza esperienziale multimodale che noi traiamo dal corpo vivo e l’esperienza che facciamo degli altri”. Come evidenzia Berthoz (1998), la percezione non è una rappresentazione: è un’azione simulata e proiettata sul mondo. La percezione non si risolve in una rappresentazione statica, ma è una simulazione interna dell’azione; è giudizio, scelta, anticipazione delle conseguenze dell’azione. Percepire un oggetto significa immaginare le azioni implicate dal suo uso, selezionare tratti particolari e ignorarne altri. Non ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello, ma utilizzando anche il nostro sistema motorio (Gallese, Keysers, Rizzolatti, 2004; Rizzolatti e Craighero, 2004). La psicologia dello sviluppo, a partire da Piaget e Bruner, ha da tempo identificato il movimento e il linguaggio come pilastri sui quali si costruisce lo sviluppo del bambino e come dimensioni chiave dell’intelligenza. È il “cervello motorio” che inizia ad attivare attività che vanno via via a definire gli apprendimenti procedurali, automatizzati (Oliverio, 2012). L’intelligenza motoria rende possibile la comprensione del mondo attraverso il corpo, il movimento e tutti i canali non linguistici (apprendimenti procedurali), ma influenza anche i successivi apprendimenti verbali e complessi. Ricerche recenti mettono in luce l’aspetto
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Tratto da “Quaderni di studio 2012 - Settore infanzia Coopelios” reperibile all’indirizzo http://ambientamento-infanzia.coopselios.com/wp-content/uploads/2013/02/strategie-e-strumenti-di-ambientamento.pdf
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neuropsicologico dello sviluppo del linguaggio – che coinvolge competenze uditive – e del movimento, il quale si correla con competenze visive, visuopercettive e visuospaziali. Studi di neuroimaging hanno dimostrato il coinvolgimento del sistema motorio durante l’osservazione di azioni comunicative della bocca. La ricerca neuroscientifica di Rizzolatti ci consegna un’immagine del linguaggio come “consonanza incarnata a livello motorio”, molto distante dall’idea di sistema linguistico monomodulare, chiuso, indipendente e disincarnato (Benso, 2015)3. Dati sperimentali sembrano indicare che le stesse rappresentazioni motorie dell’azione siano a fondamento della produzione e della comprensione; la simulazione incarnata presiede dunque non soltanto al controllo esecutivo delle azioni, ma anche alla loro comprensione. Questo meccanismo fondamentale può avere un ruolo anche in abilità cognitive sociali decisamente più complesse (Muzio, 2014). L’integrità dei sistemi senso-motori risulta, inoltre, essenziale per il riconoscimento delle emozioni mostrate da altri, consentendo la ricostruzione di che cosa si potrebbe provare in una particolare emozione, attraverso la simulazione dello stato corporeo relativo. Sarebbe questo, dunque, il processo alla base dell’empatia. Il concetto di empatia è oggetto di numerosi studi e interpretazioni, di matrice differente. Il rapporto tra empatia e corporeità viene approfondito nella “Teoria spaziale dell’empatia” di Alan Berthoz che modifica il concetto classico, ritenendola una forma di esperienza extracorporea che permette di allontanarsi dal nostro corpo e spostarsi in quello altrui. Alla base di tale ipotesi, all’empatia viene associato il concetto di spazio e dunque la manipolazione dei sistemi di riferimento spaziali. In effetti, ancor prima della scoperta dei neuroni specchio, alcuni studi avevano già messo in luce sia la sensibilità dell’uomo nei confronti del movimento animato, sia la capacità di comprendere lo sforzo e/o l’emozione che stanno dietro a un certo movimento (Johansson, 1973; Runenson, 1980; 1985). Le nostre menti sono estremamente sensibili nei confronti dei corpi umani, soprattutto di chi ci guarda con occhi interessati e ci parla con voce affettuosa. Il “senso del corpo” innato si costituirebbe a fondamento di capacità empatiche ed estetiche che ci fanno sentire bene. Secondo Trevarthen (1997), una disposizione innata per il movimento e la forma sinuosa di una linea che parte dal basso a sinistra e sale verso l’alto a destra sarebbe il segreto della gradevolezza di alcune opere d’arte. I fondamenti innati della coscienza del moto e dei movimenti procurano piacere quando li vediamo ben colti e rappresentati. 2.3 Cognizione, empatia e percezione visuospaziale: dalle neuroscienze alle implicazioni per la scuola Le caratteristiche di funzionamento della mente – evidenti, complesse e integrate – non possono più essere trascurate dalla ricerca educativa e didattica e dai percorsi formativi dei docenti per almeno due ordini di motivi: – per le ricadute sui processi di insegnamento-apprendimento per tutti gli allievi in termini di consapevolezza e di valorizzazione dei meccanismi e delle di-
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F. Benso F., Corso di Formazione S.E.F. “Il sistema attentivo esecutivo: teoria, screening ed intervento nei DSA”, Torino, 26 febbraio 2015, Sala Conferenze Holiday Inn.
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mensioni implicate, finalizzate al miglioramento degli stessi e alla possibilità di realizzare una gestione efficace della classe; – per le ricadute sui processi di insegnamento-apprendimento per gli allievi con Bisogni Educativi Speciali, per i quali il potenziamento delle aree di funzionamento e lo sviluppo o la compensazione delle aree deficitarie risultano indispensabili al fine di garantire l’opportunità di conseguire il successo formativo, come previsto dalla recente normativa (Legge 170/2010) e dalle disposizioni ministeriali sui BES (D. M. del 27 dicembre 2012; C. M. n. 8 del 06 marzo 2103). Non occorre qui ribadire che la conoscenza e l’adeguata gestione dei processi di apprendimento degli allievi con BES (interventi didattici per lo sviluppo e il potenziamento delle abilità scolastiche) non può più essere considerata competenza del docente di sostegno; al contrario, tale competenza pare rappresentare la cifra della professionalità dei docenti curriculari nei confronti delle “classi complesse attuali”, in un’ottica di piena corresponsabilità. Come già rilevato, esiste un continumm tra sviluppo tipico e atipico; le aree di funzionamento di tipo senso-motorio ed emotivo-relazionale considerate nel nostro lavoro, oltre a costituire i fondamenti neurobiologici e neuropsicologici per lo sviluppo e l’apprendimento di tutti gli allievi, risultano coinvolte in diverse situazioni di sviluppo atipico o differente, come ad esempio l’autismo, i disturbi dell’apprendimento e altri disturbi del neurosviluppo. Inoltre, occorre valorizzare l’isomorfismo tra i principi e gli orientamenti dello sviluppo e i principi e gli orientamenti dei processi di apprendimento e di insegnamento, al fine di renderli più efficaci e sostenibili. Vi sono ormai numerose evidenze empiriche sul fatto che i processi associativi e integrativi abbiano implicazioni per l’apprendimento e continuino a svilupparsi durante l’età evolutiva; le scoperte delle neuroscienze supportano l’idea che i processi di apprendimento non siano di tipo lineare stadiale, dal più semplice al più complesso, ma si costituiscano come una circolarità tra le competenze di base e le competenze complesse, per i quali le seconde verrebbero meglio apprese se apprese insieme alle prime (Andersen, Kratwhol et a., 2001). La proposta didattica deve riconoscere e valorizzare la capacità di cogliere nessi e associazioni anche dal punto di vista visivo e motorio, oltre quello logico analitico e graduale (caratteristico dei compiti e delle lezioni tradizionali); il ragionamento analogico consente di compiere dei “salti”, rispetto a quello logico, per cogliere e conoscere realtà più elaborate e complesse, in modo globale. Recenti ricerche hanno dimostrato come l’attività motoria induca la produzione di principi nutritivi del cervello, per sviluppare sinapsi; in particolare, l’esercizio fisico aerobico migliora la struttura e funzionalità ippocampale coinvolta negli apprendimenti (Chaddock et al., 2010). L’uso delle rappresentazioni motorie nell’apprendimento consentirebbe di combinare le memorie motorie, automatiche e procedurali (che sono primarie, robuste e durature) con memorie visive, visuospaziali e semantiche (queste ultime tardive, più fragili e meno durature), attraverso percorsi didattici globali che utilizzano, ad esempio, strategie di apprendimento recitato. La drammatizzazione, il gioco e l’attività sportiva risultano centrate anche sullo sviluppo delle dimensioni relazionali, emotive ed empatiche, oltre il potenziamento cognitivo strictu sensu. Non esiste esperienza cognitiva che sia priva di coloritura emotiva, spesso di livello inconscio. Per quanto riguarda il ruolo delle dimensioni spaziali, è ormai dimostrato che i bambini apprendono più facilmente nozioni di tipo spaziale che temporale, ma
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la ri-concettualizzazione di uno spazio dinamico, sensoriale e relazionale nella progettazione delle attività didattiche parrebbe facilitante. In effetti, negli ultimi anni, l’insegnamento della matematica è soggetto a revisioni e innovazioni centrate su una metodologia di tipo laboratoriale, che favoriscono un apprendimento “percettivo-motorio” piuttosto che uno “simbolicoricostruttivo” (Bartolini-Bussi, 2010). La geometria dinamica e la percezione e simulazione del movimento dei corpi in relazione costituiscono nuove frontiere della didattica. Per quanto riguarda la capacità di problem solving, la ricerca neuropsicologica ha messo in luce la sostanziale differenza tra strategie visive e strategie spaziali; solo le rappresentazioni schematiche-visuospaziali dinamiche risulterebbero adeguate alla capacità di soluzione del problema, mentre le rappresentazioni narrative visive prive di riferimenti visuospaziali, schematici e sequenziali, non permetterebbero la costruzione di un modello mentale del problema da risolvere (Passolunghi, Vercelloni, Schadee 2007). È il caso, ad esempio, dell’ancora poco noto, seppur riconosciuto anche dalla recente normativa scolastica, Disturbo Non Verbale (DNV), il quale per caratteristiche e pervasività costituisce un significativo problema che deve essere affrontato anche (e soprattutto) in ambito scolastico, ma che risulta misconosciuto e di non semplice gestione. Sul DNV il dibattito in letteratura è ancora aperto, tuttavia, dal punto di vista della ricerca didattica, siamo interessati alle dimensioni non verbali di tipo visuospaziale, in quanto dimensioni chiave riconosciute e indagate in ambito neuropsicologico, ma ancora sottostimate nelle loro implicazioni/applicazioni dalla didattica tradizionale. In generale, le abilità visuo-spaziali sono un gruppo di processi che consentono la corretta interazione dell’individuo con il mondo circostante: consistono nella capacità di percepire, agire e operare sulle rappresentazioni mentali in funzione di coordinate spaziali. La capacità visuo-spaziale percepisce e stima le relazioni spaziali tra gli oggetti o tra parti di essi, l’orientamento degli stimoli e il rapporto tra la persona e l’oggetto. Esse costituiscono i prerequisiti di numerosi apprendimenti scolastici e sono ampiamente coinvolte nelle difficoltà scolastiche e nei DSA. L’attenzione spaziotemporale in età prescolare viene interpretata come un predittore della lettura e un fattore di rischio per il disturbo di lettura; la dislessia come problema visuo-spaziale è stata dimostrata recentemente dalle ricerche del gruppo di Facoetti (2012) a conferma di quanto già rilevato da studi internazionali. Anche se i problemi visuo-percettivi non sono sufficienti o necessari a causare un DSA (Garzia, 1996), il fattore visivo spesso è coinvolto nei disturbi d’apprendimento e può alimentare il loro peggiorare, pur non costituendo il fattore eziologico primario; più in particolare, in alcuni disturbi come la disgrafia, l’integrazione tra abilità spazio-temporali e visuo-spaziali risulterebbe “insoddisfacente”. Secondo Vicari e Caselli (2011), la componente sensoriale visuo-percettiva pare evidente nei quadri con disturbo dello sviluppo della coordinazione motoria (DCD); le problematiche visuo-percettive risultano almeno parzialmente responsabili delle difficoltà motorie. Questi dati sono particolarmente significativi poiché, come rilevano gli autori, le difficoltà di coordinazione motoria di vario grado sono presenti, in diverse forme, nel 15% dei bambini in età scolare (complessivamente, in media, almeno in un alunno per classe). Le problematiche connesse, evidenti prima a livello famigliare poi a livello scolastico, riguardano quasi tutte le aree e hanno un forte impatto sulla vita quotidiana e sulla partecipazione a partire dall’età prescolare (coinvolgono attività ludico-motorie come andare in bicicletta, correre, giocare con la palla; capacità di vestirsi/svestirsi; disegnare e colorare) e sullo sviluppo
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delle abilità necessarie ai successivi apprendimenti scolastici; in particolare, tutte le attività grafiche risultano scarsamente praticate perché troppo faticose. Ianes (1994) considera le abilità visuo-spaziali come processi base per la comprensione verbale di concetti spaziali; Cornoldi, (2009) descrive la comprensione come processo di base per la competenza e/o intelligenza visuo-spaziale. Studi recenti hanno messo in luce gli aspetti specifici del disturbo di apprendimento non verbale evidenziando le interconnessioni tra le sue dimensioni; in particolare, la relazione tra Disturbo dell’Apprendimento Non Verbale (DANV) e memoria di lavoro visuo-spaziale e la relazione tra DANV e linguaggio. Nella modellizzazione di Wilson e Dehane (Dehane, 2007) sulle possibili forme di discalculia, la disfunzione dei moduli spaziale-attenzionale costituisce una criticità caratterizzante una “tipologia di discalculia”, quella che sarebbe responsabile di difficoltà nei compiti che richiedono attenzione spaziale, sottrazione, confronti di numeri o grandezze. Un’importante metanalisi condotta da Mammarella e Cornoldi (2011) ha messo in luce i limiti dell’approccio di Rourke, ma ha confermato il coinvolgimento dei seguenti aspetti nel DNV, in ordine di rilevanza: intelligenza visuospaziale; abilità visuocostruttive e coordinazione motoria; comprensione delle emozioni e abilità sociali. A scuola, le componenti evolutive interessate (memoria e percezione visiva, memoria di lavoro visuospaziale, abilità prassiche, abilità visuospaziali, abilità emotive e sociali) risultano coinvolte in modo interdipendente nei seguenti ambiti: Aritmetica (difficoltà evidenti di allineamento, incolonnamento; errori nella lettura di numeri, nel segno delle operazioni; errori procedurali); Geometria (difficoltà nel riconoscere le figure; difficoltà nel ricordare le regole; scarsa capacità di lavorare con figure astratte e loro caratteristiche); Scienze (difficoltà nello stabilire relazioni spazio-temporali, causa-effetto; scarsa comprensione di grafici e tabelle; scarso adattamento ai dati della realtà) Disegno e Prassie (scarsa rappresentazione di rapporti spaziali; disegno povero, scarsa capacità di copia e di riproduzione a memoria; scarsa abilità nell’uso di strumenti); Comprensione del testo; Geografia ed orientamento; Competenza Sociale. Come evidenzia Cornoldi (2013), al di fuori delle visioni modulari non si può più parlare di prerequisiti in senso stretto; la continuità tra i processi, l’idea delle connessioni e della neuroplasticità offre una visione più flessibile del neurosviluppo e della capacità di apprendere. Tuttavia, risulta possibile incidere dal punto di vista ambientale forzando e orientando la traiettoria di sviluppo di alcune componenti. Si può intervenire precocemente sullo sviluppo tipico e su tutti i problemi dello sviluppo; anche sui disturbi dell’apprendimento. Per concludere, possiamo quindi definire le componenti cognitive ed emotivo-relazionali, sin qui identificate, caratterizzate da un forte valore evolutivo ed educativo, come “competenze integrate - cross modali”, le quali costituiscono il fondamento dello sviluppo della mente e di tutti gli apprendimenti. Come rilevato, si tratta di aree di funzionamento interconnesse, che afferiscono a dimensioni e meccanismi di tipo crossmodale, complessi, per i quali non risulta più utile né possibile separare in modo netto gli aspetti evolutivi da quelli educativi (Albertini, 2014). I primi apprendimenti del neonato si fondano efficacemente su tali dimensioni essenziali interconnesse. Il bambino impara a organizzare percezioni come suoni, rumori, luci e forma dell’ambiente, sensazioni tattili e relazioni spaziali e, soprattutto, la relazione con il viso e il corpo della mamma in tutta la varietà di espressioni emotive, tattili e prosodiache. Prima del significato delle parole, impara il significato dei gesti attraverso la
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relazione empatica con il caregiver (di tipo emotivo-corporea), i quali assumono una valenza relazionale comunicativa che contribuirà in modo significativo allo sviluppo di funzioni cognitive complesse, come il linguaggio e le abilità sociali, influenzandone gli esiti con ricadute evidenti, ben documentate nella letteratura di settore, anche per l’acquisizione delle abilità scolastiche future. La specializzazione nella percezione delle emozioni, trasmesse ad esempio nelle espressioni facciali, dai gesti e dal tono della voce è collegata alle abilità visuo-spaziali (Calzolari, Caula, 2010).
3. Avviamento di un percorso di ricerca empirica a carattere esplorativo La ricerca che abbiamo intrapreso e che presentiamo qui sinteticamente assume la relazione tra corporeità, spazialità ed empatia, e il suo coinvolgimento nei processi di apprendimento-insegnamento scolastici, come evidenza dalla quale partire per migliorare la didattica ordinaria a favore di tutta la classe, in vista dello sviluppo e del potenziamento delle competenze cross-modali integrate.
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Teoria di partenza A partire dall’assunzione del ruolo del corpo e delle competenze corporee, spaziorelazionali ed empatiche (competenze crossmodali) come prerequisiti e abilità fondanti dello sviluppo e dell’apprendimento (o del disturbo di apprendimento e del neurosviluppo) e dell’idea che le competenze crossmodali risultino sottostimate e carenti negli allievi a scuola, riteniamo che lo sviluppo e il potenziamento di tali abilità di base possano costituire un oggetto e un obiettivo specifico della didattica (mezzo e fine) in grado di migliorare i processi di apprendimento di tutti. Riteniamo altresì che sia possibile rifondare neuroscientificamente la didattica senza snaturarla, anzi, al contrario, preservando e valorizzando il proprium disciplinare e culturale (Damiano, 2006). Una “buona” didattica innovativa ed inclusiva (la didattica migliore) è proprio quella che garantisce l’accesso culturale a tutti i suoi allievi; ma per far ciò deve essere efficace e valida (Vivanet, 2014). Sviluppo, educazione e apprendimento – o, in altri termini, la formazione della persona nella sua globalità – risultano strettamente interconnessi e segnano un nuovo campo di studi e azione interdisciplinare e interprofessionale. Paradigmi Per iniziare a riflettere su tali dimensioni, ci riferiamo ai nuovi paradigmi scientifici quali il paradigma neurocostruttivista (Kamirloff Smith,1996) e quello dell’Embodied Cognitive Science (Borghi , Caruana, 2013; Gomez Paloma, 2013). Quest’ultimo, in particolare, offre un quadro adeguato e utile, sia in quanto modello descrittivo complesso e completo, rappresentativo delle dimensioni corporee-cognitive-emotive, sia per le sue implicazioni/applicazioni operative anche in ambito abilitativo-didattico. I nuovi approcci neurocostruttivisti, invece, mettono in luce la natura probabilistica e multifattoriale delle disfunzioni neuropsicologiche e delle difficoltà di apprendimento. Ad esempio, emerge una visione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento “non proprio specifica”; essi possono essere interpretati come il risultato distale e indiretto di disfunzioni nei processi di elaborazione precoci (ad esempio l’atipico sviluppo delle abilità visive e uditive di base per la dislessia e delle abilità numeriche di base per la discalculia) piuttosto che come il risultato di uno “specifico modulo” danneggiato (ad esempio il modulo fonologico per la dislessia
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e quello numerico per la discalculia) quale attributo del soggetto (Cornoldi, 2013). La letteratura recente mette in luce l’influenza dei fattori ambientali nell’espressività dei geni: un ambiente sfavorevole può contribuire alla manifestazione del “puzzle genetico pro dislessia” e un ambiente favorevole può nascondere il “puzzle genetico pro dislessia”4. Risulta, quindi, essenziale conoscere quali siano le caratteristiche di un ambiente-scuola favorevole e comprendere come tali caratteristiche possano essere presidiate e valorizzate attraverso la didattica, in un’ottica preventiva e “rivoluzionaria” . Obiettivi Gli obiettivi della ricerca empirica, articolati in due fasi consecutive, riguardano: 1) la rilevazione di alcune capacità di base degli alunni (conoscenze e abilità relazionali visuo-spaziali e percettivo-spaziali) fondamentali per lo sviluppo delle competenze crossmodali complesse (corporee-cognitive-emotivo-empatiche), per lo sviluppo cognitivo generale e per gli apprendimenti scolastici; 2) la conseguente progettazione di percorsi didattici coerenti e adeguati al quadro teorico esplicitato. Questa seconda fase, ancora in fieri, prevede in particolare lo sviluppo e il potenziamento delle dimensioni in esame attraverso l’adozione di strategie didattiche mirate, integrate e innovative, nell’ambito del curricolo disciplinare ordinario. Impianto metodologico I Fase La prima fase prevede la somministrazione di test specifici che consentono di raccogliere informazioni sul possesso di conoscenze relazionali spazio-temporali e di abilità visuospaziali di base, negli allievi della scuola primaria. Tali informazioni, raccolte con strumenti non clinici, fondati su modelli piagetiani, verranno rilette alla luce dei nuovi quadri scientifici assunti (Embodied Cognitive Science e Neurocostruttivismo). Gli strumenti scelti sono: la Batteria del Test di orientamento destra/sinistra (Piaget-Head, 1980) e il TCR (Test of Relational Concepts, Edmonston e Thane, 1988). La Batteria dei test di orientamento permette di studiare l’acquisizione stabile della nozione destra-sinistra, attraverso la capacità di riconoscimento e dei processi di lateralizzazione, evidenziando se il bambino presenta dei problemi nell’integrare diverse strutture semplici ad un alto livello di complessità, se è capace di decentrarsi e se sa mantenere la sua lateralità spostandosi nello spazio. Con il processo di lateralizzazione vengono a formarsi l’equilibrio, gli schemi motori, cognitivi, affettivo-relazionali e linguistici; inoltre, si acquisisce la coordinazione oculo-manuale. Il TCR, uno strumento di tipo didattico validato negli Stati Uniti e attualmente in fase di validazione anche in Italia (Grimaldi et. al, 2015 in fase di pubblicazione), consente di esplorare il grado di padronanza dei concetti di relazione spazio-temporale nelle prime fasi dell’apprendimento scolastico.
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N.G. Geninati, Corso di Formazione S.E.F. “Il sistema attentivo esecutivo: teoria, screening ed intervento nei DSA”, Torino, 26 febbraio 2015, Sala Conferenze Holiday Inn.
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Tali strumenti sono stati selezionati in quanto strumenti pedagogici e non clinici, che indagano e descrivono conoscenze e abilità scolastiche e/o prescolastiche, e che sono utilizzabili in modo autonomo dai docenti, senza dover ricorrere ad esperti esterni. I dati raccolti consentono un’applicazione diretta nella didattica ordinaria; non devono cioè essere letti, interpretati e tradotti da altri professionisti. L’attività di osservazione, rilevazione e analisi dati non costituisce quindi un’attività di screening. Il campione di questa prima ricerca esplorativa è costituito da 44 alunni della scuola primaria (Campania), 19 maschi e 25 femmine, aventi età compresa tra 6 e 10 anni. Il numero di studenti coinvolti e la scelta casuale delle classi, sulla base delle disponibilità dei rispettivi docenti, caratterizzano questa prima fase esclusivamente come un’indagine esplorativa. Si prevede l’ampliamento del campione per la riedizione del protocollo sperimentale.
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Criticità e prospettive Come già rilevato, un elemento di criticità di questa prima fase della ricerca è dato dall’esiguità del campione analizzato, il quale non consente un’indagine significativa dal punto di vista quantitativo. Nella seconda fase si prevede di allargare la partecipazione a 10 scuole della Campania e 10 scuole del Piemonte, in virtù di una collaborazione già attiva tra l’Ufficio Scolastico Regionale per il Piemonte e l’Università di Salerno, per attività di ricerca. Inoltre, in base ai contributi della letteratura esposti nei precedenti paragrafi, risulta essenziale operare una lettura critica e attualizzata dei dati raccolti attraverso gli strumenti somministrati (TCR e batteria piagetiana), i quali oltre ai vantaggi già evidenziati, potrebbero comportare bias o altre problematiche nella fase di interpretazione dei dati, in relazione alla teoria da noi assunta. In effetti, come rilevato, alcuni concetti e teorie sono stati revisionati alla luce delle recenti scoperte scientifiche e l’utilizzo di strumenti di matrice piagetiana può presentare elementi di criticità che saranno esplorati all’inizio della seconda fase di ricerca. II Fase La seconda fase della ricerca empirica avrà luogo al termine dell’analisi dei dati raccolti nella I fase, nel caso in cui i risultati corroborino il primo assunto della teoria iniziale (scarso possesso da parte degli alunni di abilità e di competenze visuospaziali e crossmodali), e sarà articolata attorno alle seguenti questioni. 1. In relazione alla rilettura dei dati raccolti alla luce dei nuovi paradigmi scientifici, quali nuove ipotesi e teorie esplicative e quali nuove domande di ricerca emergono? 2. Come considerare il ruolo del corpo, della conoscenza empatica e della percezione visuo-spaziale nelle attività della didattica ordinaria? 3. Quali nuovi spazi per la ricerca didattica? In riferimento alle criticità sopra esposte, un obiettivo di ricerca della II fase sarà quello di ricercare e di individuare strumenti valutativi nuovi, coerenti con i paradigmi assunti, in grado di soddisfare i criteri richiesti dal protocollo sperimentale. Tali strumenti, infatti, oltre a soddisfare i criteri già adottati per la scelta degli strumenti della prima fase (matrice pedagogico-didattica e non clinica; fruibilità, accessibilità e piena sostenibilità per tutti i docenti), dovranno consentire
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di indagare aspetti e dimensioni dell’apprendimento, secondo il modello di interconnessioni della mente e del funzionamento della persona emergente dal quadro teorico di riferimento. Inoltre, gli strumenti osservativi e valutativi dovranno essere strumenti coerenti con il modello bio-psico-sociale e della didattica per competenze, alla base degli interventi nelle scuole attuali. Il secondo step della ricerca sarà dedicato all’identificazione di strumenti e di strategie mirati per l’intervento didattico di sviluppo e di potenziamento delle abilità esplorate e delle competenze crossmodali, attraverso una modalità di ricercaazione partecipata con i docenti, in quanto soggetti esperti dei processi di insegnamento-apprendimento nelle classi partecipanti. Analisi dei dati (parziali) e prime considerazioni La fase di somministrazione dei test e di raccolta dei dati nelle scuole della Campania (Fase I) si è conclusa a giugno scorso. Dai dati ottenuti si può osservare che: – a sei anni, il riconoscimento destra-sinistra su di sé è presente nel’86% dei bambini; – l’osservazione sull’oggetto esterno è corretto nel 34% dei destrimani e nel 9% dei mancini; – qualunque sia la dominanza, bisogna aspettare i 10 anni perché la prova si possa considerare riuscita nel 75% dei soggetti (Batteria dei test di orientamento); – la maggior parte dei bambini di 6 e 7 anni manifesta difficoltà nella conoscenza /comprensione dei concetti di relazione spaziale. I risultati del TCR mostrano la presenza di una carenza nella conoscenza/comprensione dei concetti generali di relazione spazio-temporale nell’80% degli alunni, se comparato col campione normativo USA. Tali risultati sono stati recentemente confermati su tutto il territorio nazionale e sembrano corroborare la teoria iniziale sulla presenza di carenze nelle conoscenze/competenze visuo-spaziali e spaziotemporali degli alunni. Dalla Batteria di test sull’orientamento emergono inoltre difficoltà, che risultano inattese rispetto al modello piagetiano, riguardanti le capacità di imitazione e di percezione di rapporti spaziali complessi, secondo prospettive allocentriche e multiple. Tali carenze paiono particolarmente significative in quanto si riferiscono alla capacità di mettere in relazione e di integrare informazioni (un indice di intelligenza secondo la teoria di Siegel e Bryson, 2014) e alle capacità di rispecchiamento ed empatiche (altra capacità a fondamento delle abilità cognitive generali). Al contempo, emergono anche abilità non attese nei bambini di sei/sette anni, per quanto riguarda il riconoscimento dei concetti destra-sinistra in relazione ad un altro soggetto. Riteniamo che lo sviluppo delle abilità e delle competenze da noi indagate necessiti di una stimolazione didattica adeguata e precoce, al momento ancora assente o sottostimata nelle scuole dell’infanzia e primarie. Riteniamo altresì che occorra prestare maggiore attenzione a punti di forza e capacità personali dei singoli alunni, spesso inattese (come sembrerebbe dai risultati ottenuti), quindi misconosciute e scarsamente valorizzate. La somministrazione dei test al nuovo campione di alunni consentirà di rinforzare i dati ottenuti e le relative ipotesi esplicative, al fine di definire il protocollo sperimentale per il potenziamento delle abilità e competenze critiche, attraverso alcune attività didattiche mirate. Riportiamo di seguito alcune tabelle di analisi dei dati riferite alla Batteria dei Test di orientamento destra/sinistra.
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I soggetti di prima hanno tutti 6 anni compiuti. Il riconoscimento su di sé è presente all’unanimità. Anche se i risultati positivi, secondo Piaget, si dovevano fermare a questo primo riconoscimento, una percentuale molto alta ha saputo rispondere correttamente al riconoscimento sull’altro, previsto a 8 anni.
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Nella prova dell’imitazione del cartoncino, una sola bambina esegue l’esercizio per intero e correttamente, mentre tutti gli altri alunni sbagliano. @A,.,(,B",$)$'$01-*.'$ ,$-"+"-*.'$01($ %&'01.+,/
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Tra i bambini di terza, solo un bambino risponde a tutte le domande correttamente, anche se tale capacità dovrebbe essere acquisita a sette anni.
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I bambini di quinta hanno tutti 10 anni compiuti, ma alla prova dei tre oggetti rispondono correttamente solo tre alunni.
Conclusioni Il dilemma della distanza tra il dichiarato e il praticato della “Buona Scuola Italiana” necessita di interventi urgenti e concreti, in grado di realizzare davvero il già tanto annunciato cambiamento. Per quanto riguarda il fondamentale processo di innovazione e di miglioramento della didattica, risulta essenziale che tutti i docenti possiedano idee e strumenti validi per realizzarlo in modo intenzionale, autentico e (pedagogicamente) efficace. I nuovi studi e le ricerche multi e interdisciplinari offrono numerosi spunti e stimoli in tale direzione, anche se occorre procedere con cautela al fine di evitare grossolani errori epistemologici, incursioni illegittime da un paradigma all’altro o cedere a entusiasmi dal dubbio valore scientifico, verso “Neuromiti o Neuro-manie” (Legrenzi, Umiltà, 2009). La ricerca qui presentata, anche se ancora agli inizi, consente di avviare una riflessione sui quadri scientifici attuali, a partire dall’identificazione dei “fondamentali” sui quali pensare, progettare ed agire la didattica quotidiana nelle classi complesse. La prima parte dedicata alla rassegna della letteratura, seppur non completa né esaustiva, presenta alcune giustificazioni evidence based che non possono più essere trascurate. Nella fase empirica della ricerca, ancora in fieri, le considerazioni emergenti, sopra sinteticamente esposte, paiono nello stesso tempo interessanti ed allarmanti. In particolare, le carenze evidenziate dai risultati dei due test somministrati si riferiscono proprio a quelle capacità di base che consentono a ciascuna persona di realizzare un apprendimento autentico e olistico. Gli studi sulle relazioni tra il funzionamento della memoria di lavoro, con particolare riferimento alle sue componenti visuospaziali, l’intelligenza e i disturbi del neurosviluppo (Mammarella et. al., 2014; Giofrè, Mammarella, Cornoldi, 2013) mettono in luce la necessità di riconsiderare le competenze visuopercettive e visuospaziali nei modelli e nei programmi educativi e didattici. Inoltre, come già rilevato, la capacità di mettere in relazione e di integrare le informazioni e la capacità empatica vengono riconosciute come competenze – fondamento delle abilità cognitive generali. A scuola, la qualità delle relazioni (tra insegnanti e studenti e tra pari) modera gli effetti delle abilità cognitive
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nelle performance scolastiche e nella partecipazione (Pianta , Stuhlman, 2004). Alla base del successo formativo e scolastico c’è la relazione empatica (Mason, 2013). Le dimensioni emotive ed empatiche svolgono un ruolo centrale (in senso positivo o negativo) anche oltre la scuola: nello sviluppo delle competenze-chiave trasversali sociali e di cittadinanza, nella possibilità di realizzare benessere individuale e collettivo e nella manifestazione dei disturbi del neurosviluppo, come ad esempio quelli dello spettro autistico. Le neuroscienze dimostrano il legame tra emozione e cognizione anche per quanto riguarda i processi decisionali e lo sviluppo delle competenze generali; i processi emotivi sono necessari per potere usare le conoscenze e le abilità nella vita reale, in quanto rappresentano una sorta di timone che guida il giudizio e l’azione (Immordino-Yang, Damasio, 2007). I risultati ottenuti nella nostra prima indagine esplorativa, pur nella loro valenza orientativa e non staticamente significativa, ci supportano nella scelta di avviare la seconda fase della ricerca, a partire dall’individuazione di nuovi strumenti per l’integrazione di quelli già utilizzati. In particolare, la ricerca verterà sull’identificazione di strumenti validi ed attuali, in grado di cogliere gli aspetti visuo-percettivi, spaziali, emotivi e corporei alla base delle competenze cross-modali - nel nuovo campione allargato di allievi piemontesi e campani, attraverso due somministrazioni (Test e Re-test) prima e dopo l’intervento didattico abilitativo e/o potenziante degli stessi. Vi sono vari strumenti attualmente a disposizione anche degli operatori non sanitari (conditio sine qua non per la nostra scelta); ciò che è importante è la loro coerenza con il quadro – modello da noi assunto, al fine di evitare il più possibile visioni frammentarie e consentire la messa in relazione delle osservazioni parziali ricavate dai test e dalle pratiche quotidiane dei docenti a scuola, con la complessità del funzionamenti delle persone e dei contesti. Tra i “nuovi” strumenti specifici si prevede, ad esempio, l’impiego del PR-CR2 (Prove di Prerequisito per la Diagnosi delle Difficoltà di Lettura e Scrittura, Giunti OS, 2009), per l’identificazione delle aree coinvolte negli apprendimenti e delle connessioni tra le competenze di base: analisi visiva, discriminazione uditiva e del ritmo, lavoro seriale da sinistra a destra, integrazione visuo-uditiva, globalità visiva. Particolare attenzione, infine, sarà dedicata alla fase di co-costruzione, con i docenti coinvolti nella ricerca, del protocollo per l’intervento didattico di abilitazione (nel caso di abilità e/o conoscenze mancanti) e di potenziamento (per lo sviluppo e il miglioramento) degli aspetti – chiave rilevati, secondo un modello di ricerca-partecipativa e ricerca-formativa (Damiano, 2014). Tale protocollo non costituirà un progetto eccezionale o aggiuntivo rispetto al curriculo ordinario, bensì si inserirà a pieno titolo nel circuito delle attività previste per la classe, nell’ambito del quadro delle Indicazioni Nazionali e della didattica per competenze, attraverso l’impiego di strategie “inclusive-innovative” individuate dai docenti (didattica laboratoriale; strategie narrative; didattica per problemi e progetti, ecc…). Le attività saranno rivolte a tutta la classe; ciascun allievo, con o senza BES, potrà trarne beneficio.
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Riflettere sull’identità professionale mediante un’analisi della personale esperienza didattica: il caso dei PAS Mina De Santis • Università degli Studi di Perugia • mina.desantis@unipg.it Floriana Falcinelli • Università degli Studi di Perugia • floriana.falcinelli@unipg.it Maria Filomia • Università degli Studi di Perugia • mariafilomia@gmail.com
Reflections on professional identities through a study of a personal teaching experience: the case of PAS The purpose of this research is to examine the self-employment of teachers in training, in particular, have been analyzing the representations of the course participants PAS, special routes enabling reserved to certain categories of teachers with special service requirements. The starting point was the reflection on their teaching practice, necessary to explain in cognitive terms the qualifying aspects of their experience and therefore their professional identity, the result of past experiences had as students of theoretical knowledge carried out, their educational experiences. The research involved the administration to students of a tool for self-analysis of teaching practice that would allow participants to clarify their representations. Research has shown that there is a significant discrepancy between what emerges in the reading of narratives made by the researcher and the picture that emerges in the reading of the recurrences revealed by the analysis made by the participants.
Parole chiave: identità professionale, apprendimento permanente, insegnamento, formazione docente, università
Keywords: Professional identity, lifelong learning, teaching, teacher training, università
Sono da attribuire a M. De Santis il par. 2. e le Riflessioni conclusive; a F. Falcinelli il par. 1.; a M. Filomia il par. 3.
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Lo scopo di questa ricerca è quello di esaminare il sé professionale dei docenti in formazione, mediante le analisi delle rappresentazioni di questo aspetto prodotte dai partecipanti ai corsi PAS, percorsi speciali abilitanti riservati a categorie di docenti con particolari requisiti di servizio. Il punto di partenza è stata la riflessione sulla loro pratica didattica, necessaria per esplicitare in termini cognitivi gli aspetti qualificanti la loro esperienza e dunque la propria identità professionale, frutto delle passate esperienze avute come allievi, delle conoscenze teoriche acquisite, delle proprie esperienze didattiche. La ricerca ha previsto la somministrazione ai corsisti di uno strumento di auto-analisi della pratica didattica che consentisse ai partecipanti di esplicitare le proprie rappresentazioni. La ricerca ha dimostrato che esiste una notevole discrepanza tra quanto emerge nella lettura delle narrazioni fatta dal ricercatore e l’immagine che emerge nella lettura delle ricorrenze evidenziate dall’analisi fatta dai partecipanti.
Riflettere sull’identità professionale mediante un’analisi della personale esperienza didattica: il caso dei PAS
1. La riflessione sulla pratica didattica elemento costitutivo della professionalità docente
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Nella formazione degli insegnanti particolare attenzione viene data alla rappresentazione che gli stessi hanno della pratica didattica, alle loro credenze rispetto ai processi di insegnamento/ apprendimento. Il percorso formativo rappresenta, infatti, un contesto in cui si può esplicitare e prendere consapevolezza della propria visione del sé professionale. L’identità professionale non è una caratteristica stabile del soggetto ma piuttosto un fenomeno relazione che si sviluppa nei contesti intersoggettivi come processo di interpretazione di sé in una determinata circostanza sociale (Grion, 2008, p. 89). Nel contesto attuale estremamente incerto, il rapporto tra il sé personale, gli oggetti culturali, gli altri e i compiti richiesti negli ambiti lavorativi richiedono un continuo riassestamento dell’identità professionale e una continua ridefinizione della work identity; è questo un “concetto più complesso che richiama il processo che si avvia nella costruzione del sé professionale, in cui sono l’interpretazione personale, i vissuti e le aspettative ad originare una visione del lavoro e delle attività ad esso connesse” (Magnoler, 2008, p. 43). Tale dimensione è costituita dall’integrazione dinamica degli elementi che provengono dall’esperienza pratica, vista in tutti gli aspetti organizzativi e culturali, e dagli aspetti cognitivi e psicodinamici del soggetto, attraverso i quali ogni soggetto interpreta il mondo e costruisce una relazione tra gli elementi personali e l’ambiente (Wenger, 2006). La psicologia cognitiva ha bene esplicitato come l’approccio a un nuovo contesto di conoscenza ed esperienza sia filtrato e interpretato in base alle categorizzazioni concettuali costruite dalle esperienze precedentemente realizzate. E come tali concettualizzazioni possano evolvere e trasformarsi anche grazie alla discussione che di esse viene fatta in un gruppo che condivide la stessa esperienza. Sappiamo che le rappresentazioni costituiscono una complessa organizzazione di conoscenze su cui ognuno si basa esplicitamente o più spesso inconsapevolmente per dare ordine alla sua vita sociale nonché per orientare le proprie azioni. “Esse direzionano le decisioni da prendere nella situazione in cui hanno contribuito a creare una visione […] Per gli insegnanti le rappresentazioni costituiscono l’origine dello stile di insegnamento e di pratica e, come per l’habitus, trovano una loro origine nei vissuti personali e nella cultura sociale, nei valori e nella dimensione teleologica assegnata alla propria professionalità” (Magnoler, op. cit., p. 73). Per questo una parte importante del percorso formativo proposto agli studenti dei PAS è stata caratterizzata dalla possibilità di esplicitare, con particolari strumenti predisposti per questo scopo, le rappresentazioni interne sulla propria pratica didattica. Ricordiamo che i PAS sono percorsi speciali abilitanti riservati a categorie di docenti con particolari requisiti di servizio; sono stati previsti con il regolamento
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Decreto 25 marzo 2013 n. 81 che modificava il D.M. n. 249/2010 e con il successivo D.D.G. n.58 del 25/07/2013. Il percorso formativo doveva essere indirizzato: a) alla verifica e consolidamento della conoscenza delle discipline oggetto d’insegnamento della classe di concorso e al perfezionamento delle relative competenze didattiche, b) all’acquisizione delle competenze digitali previste dalla raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006, c) all’acquisizione delle competenze didattiche atte a favorire l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità. In particolare ci è sembrato opportuno che, proprio rispetto alla loro pratica didattica, fosse necessario che riuscissero ad esplicitare in termini cognitivi gli aspetti qualificanti la loro esperienza e dunque la propria identità professionale, frutto delle passate esperienze avute come allievi, delle conoscenze teoriche effettuate, delle esperienze didattiche raccontate dagli altri, magari proprio come insegnanti precari. Il modello d’insegnante che si costruisce nella mente e che viene interiorizzato costituisce un aspetto di quella conoscenza tacita che è patrimonio personale dei soggetti, caratterizzata da complesse articolazioni di immaginazioni, percezioni, emozioni, conoscenze accumulatesi nel corso della personale esperienza, atteggiamenti, pre-giudizi, concezioni che si sono sedimentate nel tempo e che condizionano il modo di pensare e di vivere la professione che si è scelto di fare. Il percorso formativo dei PAS ha rappresentato un contesto particolarmente significativo in cui poter esplicitare e prendere consapevolezza delle personali visioni della scuola e dei processi di insegnamento apprendimento, per avviarsi alla costruzione di un’identità professionale più matura. Spesso si è costruito nella mente un modello di insegnante, talvolta rigido, di cui occorre diventare consapevoli, per modificarlo, arricchirlo, rielaborarlo proprio alla luce della pratica con il desiderio di problematizzarlo e di mettersi in una vera situazione di ricerca. Dobbiamo ricordare che il modello di insegnante che ci portiamo dietro non solo riemerge nei ricordi ma viene utilizzato proprio nei momenti topici cioè quando si devono prendere decisioni importanti o ci si trova di fronte a situazioni problematiche, a incidenti critici che richiedono un intervento immediato. Su queste credenze poco effetto hanno le lezioni teoriche, sono invece molto importanti i momenti di discussione e di riflessione in gruppo anche movendo dall’osservazione della pratica di insegnamento e dalla riflessione sulle pratiche realizzate. Occorre attivare processi riflessivi in comunità di apprendimento in cui sia possibile il confronto tra pari e la riflessione su situazioni autentiche che l’esperienza di tirocinio rende possibili. L’importante è riuscire ad osservare la situazione di pratica didattica distanziandosi dai pregiudizi, dagli stereotipi e facili schematizzazioni, ponendosi nella prospettiva dell’analisi della pratica: tale approccio vuole studiare l’articolazione dei processi educativi in situazione, al fine di rendere espliciti una serie di atti che coinvolgono educatori e ragazzi, insegnanti e studenti, nella complessità dei contesti in cui la pratica si realizza. Il concetto di pratica non è di facile definizione; tuttavia ci sembra di poter affermare che per pratica si debba intendere il complesso delle azioni che si propongono la realizzazione di un fine educativo/ didattico. La pratica didattica è vista secondo una prospettiva diacronica ed olistica, come un processo che tende verso strutture più complesse ed evolute, un processo che vede impegnati molteplici sistemi interagenti, di cui il più circoscritto, anche se comunque ampio, è il rapporto educatore/educando, insegnante/alunno. Tale processo evolve per ri-
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strutturazione incessante di premesse, interazioni, inferenze, aspettative, strategie conoscitive e rappresentazioni delle relazioni. Una riflessione sulla pratica dunque richiede una “rottura epistemologica” per analizzare gli atti concreti, ma anche i presupposti, i significati, la cornice e il contesto della scena educativa come i fondamenti di qualsivoglia elaborazione teorica ed epistemologica. L’analisi della pratica mette l’accento sul cambiamento delle strategie e sulla dinamica di processo più che sui prodotti ottenuti e i risultati raggiunti. In tale prospettiva diviene centrale lo studio del sistema di interrelazioni che i vari protagonisti dell’agire educativo cercano di costruire così come il sistema dei significati condiviso, le modalità di spiegazione, interpretazione e intervento sui fenomeni concreti. Lo scopo principale dunque di tale lavoro di analisi è certamente quello di conoscere, non in modo parcellizzato, ma secondo la logica integrata e complessa della comprensione, le dinamiche connesse alla pratica educativa, come gli educatori o gli insegnanti, nel caso delle pratiche scolastiche, agiscono in un certo contesto, ma anche i significati che le persone attribuiscono a tale azione, le attese e le aspettative che vi hanno investito, le conoscenze tacite che vi sono implicate; tutto ciò al fine di interrogare le pratiche, problematizzarle,per migliorarle e promuovere la qualità formativa, una qualità che interessa tutti i molteplici e complessi aspetti della pratica, ma in primo luogo l’azione dell’educatore/insegnante nella relazione con l’educando/studente. Per questo riteniamo che tale approccio debba essere rivolto anche a promuovere, sostenere la pratica riflessiva degli insegnanti sulle loro azioni, orientandoli a scelte e decisioni sempre più consapevoli che producano un miglioramento della pratica stessa. Per fare questo è necessario adottare alcuni strumenti per analizzare la pratica, condividendola con i colleghi, significa confrontarsi con la teoria per rappresentare e descrivere l’azione, realizzare un esercizio di codificazione linguistica, attraverso il quale sia possibile concettualizzare (individuare nel continuum dell’esperienza informazioni rilevanti e organizzarle in reti concettuali dense di significati) e modellizzare (scoprire le regolarità nelle pratiche).
2. Strumento e modalità di erogazione, supporto/accompagnamento alla riflessione e auto-analisi della pratica didattica Il percorso formativo PAS è iniziato con il Corso di Elementi di didattica generale all’interno del quale è stato brevemente presentato il progetto di ricerca e le finalità dello stesso, affinché i partecipanti fossero consapevoli dell’importanza del lavoro che sarebbe stato loro assegnato. È stata prestata particolare attenzione a due concetti fondamentali: la riflessione sull’azione e l’autovalutazione nella pratica didattica. La riflessività soprattutto nei contesti professionali risulta essere un dispositivo necessario perché permette ai professionisti “di diventare consapevoli dei modelli teorici e operativi che sottostanno alle loro pratiche, costruttori di conoscenza piuttosto che consumatori (Fabbri, 2007, p. 86). L’autovalutazione invece è una prassi didattica poco valorizzata nei contesti educativi anche se “contiene invece enormi potenzialità sia sul piano formativo, come opportunità di sviluppare maggiore consapevolezza sulla propria esperienza di apprendimento, sia sul piano valutativo” (Castoldi, 2011, p. 159), in termini di risultati attesi. Le premesse teo-
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riche hanno facilitato la presentazione dello strumento per l’analisi delle pratiche una scheda dell’(Auto)-analisi attività d’aula, composta di sei pagine e suddivisa in due parti, una riservata all’osservazione di un’esperienza didattica, l’altra alla riflessione. Si è ritenuto interessante proporre uno strumento che permettesse di far emergere le conoscenze pratiche che l’insegnante ha a disposizione e che costituiscono la base delle sue azioni, il “teacher’s pratical knowledge” (Verloop et al., 2001), per comprendere in particolare che tipo di competenze, derivate dall’esperienza, siano già possedute. Va precisato che la scheda è stata elaborata con i colleghi dell’Università di Sassari, coordinati dal prof. Paolo Calidoni, con i quali è stato condiviso il progetto di ricerca, pur avendo successivamente differenziato il percorso di analisi. La scheda è composta di tre parti. Nella prima sono richiesti alcuni dati identificativi dell’(auto)analisi: scuola in cui si svolge l’attività d’insegnamento in esame, (media, liceo, tecnico, professionale); classe (1, 2, 3, 4, 5); data d’osservazione (ggmm-anno); orario d’osservazione (inizio e fine; hhmm); numero studenti iscritti; numero studenti presenti; numero studenti di origine immigrata; numero studenti con BES iscritti; indicare la tipologia: disabilità certificata; DSA; altri BES; eventuale ingresso in ritardo o uscita anticipata di alunni; presenza di ulteriori insegnanti (sostegno/compresenza per le primarie) e ruolo (azione coordinata o non coordinata con l’insegnante/ecc). Sono stati chiesti i dati riguardanti l’aula, arredi e attrezzature chiedendo, la dove fosse possibile, di corredare la descrizione dell’aula con delle foto fatte da diversi punti di vista (dall’ingresso nell’aula, dal punto dove più spesso si trova il docente, dal punto dove più spesso si trovano gli alunni; quelli più prossimi a dove si trova più spesso il docente, quelli più remoti da dove si trova più spesso il docente, quelli con BES), nel caso di analisi di attività in aule con diversa disposizione spaziale questa parte va ripetuta per ogni attività esaminata, indicandone il numero. I partecipanti avevano a disposizione un riquadro dove disegnare la pianta dell’aula utilizzando dei simboli offerti attraverso una legenda proposta nello strumento di (auto)analisi. Nella seconda parte è chiesto ai partecipanti di esaminare un’ora della loro attività didattica, elaborando un testo scritto annotando liberamente gli aspetti “che si ritengono salienti”. I partecipanti hanno a disposizione una pagina bianca nella quale scrivere. L’oggetto dello studio è l’esperienza narrata, un racconto che parte da una consegna precisa; è, quindi, una narrazione intenzionale. Questa la consegna affidata ai partecipanti: “Annotare liberamente via via aspetti che si ritengono salienti dell’attività didattica”. Nella terza parte “Caratteri dell’azione didattica” sono stati proposti una serie di indicatori ed è stato chiesto ai partecipanti di evidenziare quali ritenevano essere presenti nella attività narrata. Gli indicatori declinano vari aspetti dell’azione didattica: la comunicazione docente-studente, la modalità di lezione, il comportamento dell’insegnante in classe, le attività didattiche, i lavori di gruppo, i tempi della didattica, lo spazio classe, i ragazzi con bisogni educativi speciali, l’uso della Lim in classe. Questa la consegna: “Dopo aver effettuato e raccolto le informazioni e annotazioni previste nelle pagine precedenti relative ad almeno un’ora di attività didattica, leggere attentamente le seguenti descrizioni di caratteri dell’azione didattica ed evidenziare, per ogni riga(item), quella più vicina alla propria azione e prevalente nella/e attività esaminata/e”. Questa terza parte è stata consegnata e compilata dai corsisti in un momento successivo alle prime due; la decisione di scindere il momento dell’osservazione da quello della riflessione scaturisce dalla convinzione che la preconoscenza degli indicatori previsti nei “caratteri dell’azione didattica”, poteva in qualche modo con-
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dizionare la compilazione della scheda, nella parte riguardante gli aspetti “salienti dell’attività didattica”. La pratica dell’indagine riflessiva risulta in sé complessa, in più, accedere alla mente con trasparenza è decisamente impossibile e per quanto si sia “autenticamente impegnati ad attivare radicalmente quella disciplina impegnata a sondare le profondità dei vissuti intrasoggettivi, di essi è possibile cogliere solo qualche frammento e di questi frammenti avere spesso niente più che una visione parziale” (Mortari, 2013, p. 233). Questa convinzione ci ha spinto a una rilettura da parte del ricercatore delle esperienze narrate per operare quella triangolazione e confronto dei punti di vista, utile ad una migliore comprensione della professionalità docente come emerge dalla esperienza didattica rappresentata.
3. Analisi dei risultati
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La scheda è stata somministrata a tutti i corsisti che hanno frequentato i PAS, presso l’Università degli studi di Perugia, nell’anno accademico 2013-2014. I docenti che hanno consegnato una scheda valida per l’analisi sono stati 111, età media 42,73 (dev. stand. 6,11). La maggior parte dei docenti partecipanti sono insegnanti precari nella scuola secondaria di primo grado, il 68%, il 2% nella scuola primaria il restante gruppo nella scuola secondaria di secondo grado (7% dal Liceo, 15% dagli Istituti tecnici, 8% dalle scuole professionali). Il 76% dei partecipanti dichiara di avere in classe ragazzi con Bisogni Educativi Speciali. La prima cosa che colpisce nella lettura delle narrazioni è lo stile di scrittura utilizzato. Come sottolinea Laneve (2011) gli insegnanti utilizzano la scrittura molto poco e principalmente per scrivere alla lavagna o per compilare, registri o documenti, come verbali, secondo una modalità, definita “burocratizzata”. Questa modalità di scrittura si ritrova nella maggioranza delle auto-narrazioni prese in esame che utilizzano un linguaggio formale anche se veniva richiesto un resoconto, una narrazione personale. La lettura delle pagine scritte dai docenti è senza dubbio interessante perché dà uno spaccato della realtà vissuta nelle classi. L’insegnante, anche se attraverso possibili omissioni, rivela il proprio agire e ne prende coscienza. È scrittura personale in cui si chiede di parlare della propria pratica come docente non di raccontare di esperienze vissute da altri colleghi o di altri aspetti della propria identità; questo è per il docente un’occasione per riflettere sulla propria professionalità, definire il senso del proprio operare, regalandosi un tempo per scrivere e raccontare che esca dal caos dell’agire quotidiano. Il confronto tra le ricorrenze individuate dalla lettura del ricercatore e quelle indicate dai docenti mettono in luce delle contraddizioni. Il 70% dei docenti ha indicato, nella griglia degli indicatori, di “comunicare agli studenti gli obiettivi della lezione”, ma dalla lettura delle narrazioni emerge solo nel 5,35% delle auto-analisi. Quando si confrontano le ricorrenze relative al tipo di attività proposte in classe il 46% dei docenti indica di “proporre attività che prevedono più fasi e fornire indicazioni sullo svolgimento delle attività, la lettura del ricercatore individua questa modalità solo nel 4,43% dei casi. La scelta didattica più raccontata è quella della lezione o dell’interrogazione, presente nel 32% delle narrazioni. Dalla lettura del ricercatore non emerge come comportamento diffuso quello di dedicare tempo alla discussione in classe, solo nell’4,4% vengono descritte situazioni in cui l’insegnante propone” una discussione e si fa moderatore riuscendo
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a coinvolgere l’intera classe” e solo nell’8% “prende spunto dalle idee dei ragazzi e lascia spazio per una discussione autonoma”; i docenti, invece, hanno scelto questo indicatore nel 56% dei casi. Interessante notare che ben il 69% degli insegnanti ha selezionato tra gli indicatori “l’insegnante gira tra i banchi e chiede agli studenti di illustrare come stanno svolgendo o hanno svolto il lavoro”, evenienza questa evidenziata dal ricercatore nelle narrazioni solo nel 14,28% dei casi. Le ricorrenze individuate dagli insegnanti restituiscono un’immagine di docente attento ai bisogni degli alunni: il 55% ritiene di rimodulare i tempi delle attività in relazione alle esigenze del gruppo classe, dalle narrazioni invece emerge solo nello 0,89%; il 39% sottolinea di “assegnare a tutta la classe le stesse attività, ma dà tempi di consegna diversi o differenziati”, cosa che nelle narrazioni emerge solo nel 3,57%. La lettura del ricercatore mette in evidenza che la pratica maggiormente descritta è quella di assegnare a tutti la stessa attività, 30,35%, senza attenzione né ai tempi né a bisogni speciali o interessi o attitudini degli studenti. A fronte dell’alta presenza nelle classi considerate di ragazzi con bisogni educativi speciali il ricercatore rileva nelle narrazioni che le attività proposte cercano di coinvolgerli molto poco, solo nel 1,78% dei casi e si rileva la stessa percentuale relativamente ad iniziative volte a “creare occasioni di collaborazione” tra gli studenti. Le percentuali delle ricorrenze che gli insegnanti presentano attraverso la griglia di indicatori sono, rispettivamente, del 33% e del 28%. Un altro aspetto presente tra gli indicatori proposti è l’uso della Lim. Presente nel 50% delle classi è usata pochissimo e altrettanto poco è fatta usare agli studenti. Dalla lettura del ricercatore l’uso della LIM è descritto solo nel 3,57% e solo nella sua funzione di scrittura e solo in un altro 3,57% per usare risorse offline e salvare dei file, i ragazzi vengono stimolati all’uso della Lim solo nel 6,25%. La rappresentazione dei docenti mostra un bassissimo uso, solo il 13% indica di usare risorse online e solo il 12% indica di incoraggiarne l’uso tra gli studenti.
4. Riflessioni conclusive Come si è potuto vedere dall’analisi dei dati sono emerse delle discordanze tra la riflessioni dei partecipanti e la lettura del ricercatore. Il processo di riflessione non può mai ritenersi concluso tanto che si ravvisa la necessità di riflettere sulla riflessione (Husserl, 2000). Il divario tra gli elementi emersi dalla duplice riflessione lascia aperti elementi di complessità relativi a diverse tematiche: la comunicazione educativa tra docente e discente, le attività proposte, la modalità di proporre le attività in aula, i tempi dell’attività didattica. La lettura dei dati suggerisce che l’immagine del sé professionale del docente non coincide con le pratiche esplicitate nella narrazione. Il 62% dei partecipanti dichiara che “fa vari tipi di domande, accoglie sempre ciò che gli studenti hanno detto, chiedendo un ulteriore approfondimento; il ricercatore evidenzia che lo fa il 6,25% mentre il 4,43 fa domande che indirizzano verso la risposta corretta. Il 38% dei partecipanti dichiara che “offre indicazioni che aiutano gli studenti a fare da soli”; il ricercatore evidenzia che lo fa il 5,35% mentre l’ 8,03% “non illustra i metodi e le procedure da usare per svolgere un compito o un’attività. Il 48% dei partecipati dichiara che “dà indicazioni su come lo studente ha svolto il lavoro e spiega in quale direzione lo studente deve esercitarsi per migliorare”; il ricercatore evidenzia che lo fa il 3,57% mentre il 5,35% non dà agli studenti feedback su compiti e interrogazioni.
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Il 41% dei partecipanti dichiara “nei momenti di passaggio da un’attività all’altra a volte si perde tempo”; il ricercatore non rileva il dato ma evidenzia che nello 0,89% vi sono momenti in cui gli studenti sono lasciati ad aspettare . Il 57% dei partecipanti dichiara che “quando richiama gli studenti, ne spiega il motivo”; il ricercatore evidenzia che lo fa il 3,57% mentre il 15,17% mantiene e ripristina l’ordine ricorrendo a richiami e rimproveri (ad esempio “basta”, “non si dicono le parolacce”). Sarebbe interessante comprendere il perché della forte discrepanza tra una lettura e l’altra e magari discuterne con gli stessi corsisti, cosa che non è stata possibile considerati i tempi di svolgimento dei PAS. Un modello di riflessione habermasiano definisce la riflessione una procedura critica ed emancipativa a livello individuale e sociale, a conferma che la pratica riflessiva per essere efficace deve essere esperita in un contesto intersoggettivo e diventare “auto-eco-riflessiva” (Mortari, 2013, p. 236). A buona ragione i due sguardi hanno fatto emergere punti di vista differenti. Con il confronto e la condivisione si indagano questioni che se, problematizzate, conducono ad una revisione e trasformazione delle stesse dando vita alla costruzione “di una scienza della pratica professionale” (Schön, 2006, p. 323). Questo è quello che si potrebbe auspicare in futuro tentando di progettare percorsi formativi che permettano agli insegnanti di comprendere davvero il significato dell’esperienza ma soprattutto di imparare a riflettere sull’azione non solo durante ma anche quando questa è terminata.
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Clima scolastico e variabili soggettive dei docenti di scuola secondaria Elisabetta Di Giovanni • Università degli Studi di Palermo • elisabetta.digiovanni@unipa.it Concetta Greco • Università degli Studi di Palermo • mariaconcetta.greco75@gmail.com
School climate and personal variables of secondary school’s teachers The theme of our research is understanding why many aspects of school climate are interrelated and how such relations influence subsequent scholastic functioning. The research is oriented towards the determination of personal and environmental factors that provide to explain several aspects of the construct. We administered a test battery to analyze: Scholastic Climate; Personal and Collective Efficacy; Organizational Commitment, Involvement, and Job Satisfaction. Findings confirm the constant influence of personal efficacy on determining of the level of job involvement and satisfaction. If teachers’ personal efficacy convictions play a significant role on stamp their scholastic perceptions and evaluations, they reflect the experience of each teacher, the history of successes and failures of individuals in their own experience of teaching.
Parole chiave: clima organizzativo, soddisfazione lavorativa, insegnanti, scuola, organizzazione, efficacia
Keywords: organizational climate, job satisfaction, teachers, school, organization, efficacy
Tutti i paragrafi sono da attribuire in parti uguali ad entrambe le autrici.
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Il tema della nostra ricerca è capire il motivo per cui molti aspetti del clima scolastico sono interconnessi e come tali relazioni influenzano il successivo funzionamento scolastico. La ricerca è orientata verso la determinazione di fattori personali e ambientali che tendono a spiegare alcuni aspetti del costrutto. Abbiamo somministrato una batteria di test per analizzare: il clima scolastico; l’efficacia personale e collettiva; l’impegno organizzativo, il coinvolgimento e la soddisfazione sul lavoro. I risultati confermano l’influenza costante dell’efficacia personale sulla determinazione del livello di coinvolgimento e di soddisfazione. Le convinzioni di efficacia personale degli insegnanti svolgono un ruolo significativo sulla determinazione delle proprie percezioni e valutazioni scolastiche. Esse riflettono l’esperienza di ogni insegnante, la storia di successi e fallimenti degli individui nella loro propria esperienza di insegnamento.
Clima scolastico e variabili soggettive dei docenti di scuola secondaria
Introduzione
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L’organizzazione scolastica è sempre più oggetto di indagini che tendono ad una concezione psichica della stessa allontanandosi da una visione relativa soltanto alle risorse materiali, che per tradizione sono scarse e inadeguate. Ci dirigiamo verso la comprensione e l’uso delle risorse immateriali, per progetto abbondanti e utili, come quelle psichiche in gran parte non utilizzate. La dimensione climatica e quindi il modello meteorologico offrono un diverso modo di gestire e progettare l’organizzazione scolastica rifiutando di definirla dipendente solo da fattori economici. Si può considerare la misura dei climi scolastici come passaggio importante da una condizione distruttiva ad una costruttiva, che si orienta ad una condizione lavorativa gradevole che faciliti lo sviluppo dei soggetti e li metta in condizioni funzionali al benessere proprio ed altrui (Catalano, 2008). La scuola è uno strumento della comunità sociale di cui fa parte e contemporaneamente è un’organizzazione in grado di influenzarne il futuro, quindi appare importante capire come l’ambiente scolastico sia in grado di favorire il benessere di chi vi lavora (Rani, Rani, 2014). Tra i fattori che più frequentemente sono risultati associati ad un buon funzionamento della scuola, ritroviamo l’impegno e la soddisfazione lavorativa degli insegnanti, il senso di efficacia collettiva, il clima organizzativo positivo (Goddard, Goddard, 2001; Somech, Drach-Zahavy, 2000). Il clima organizzativo viene definito come l’atmosfera che si respira all’interno dell’ambiente lavorativo e che influenza la motivazione personale di riuscita, potere e affiliazione (Litwin, Stringer, 1968). Il clima è la qualità relativamente duratura dell’ambiente interno di un’organizzazione, è “il valore” della rete di tensione emotiva che lega i soggetti tra di loro e il gruppo con l’organizzazione (Tagiuri, Litwin, 1968). Tale valore non è solo di tipo relazionale, sebbene le relazioni siano una variabile fondamentale nella creazione del clima, ma deriva dalla interazione di diversi fattori riferibili ad uno specifico contesto collettivo. In generale, vi sono varie definizione di clima organizzativo. Secondo Thompson (2005), il clima organizzativo può essere definito come un approccio in cui i membri dell’organizzazione osservano e caratterizzano il proprio ambiente circostante in modo attitudinale e basato su valori. In un’altra prospettiva, Atkinson e Frechette (2009) considerano il clima organizzativo come un insieme di attributi specifici a una particolare organizzazione, indotti dall’organizzazione stessa e inerenti i suoi membri e il suo ambiente. Nel 21° secolo, il clima organizzativo ha ricevuto una notevole attenzione da molti settori. Ciò è dovuto al fatto che il clima organizzativo è spesso correlato all’efficacia della scuola (Lazaridou, Tsolakidis, 2011).
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1. La visione meteorologica delle organizzazioni 1.1 Il clima nelle organizzazioni La metafora meteorologica facilita la comprensione del costrutto. Come più fattori relativi al clima ambientale (temperatura, altitudine, umidità, condizioni geologiche del territorio, ecc.), interagendo tra di loro, creano, nei soggetti presenti in quell’ambiente, una sensazione di benessere o malessere psico-fisico, così la struttura organizzativa, i supporti a disposizione, le procedure, lo stile di leadership presente, ecc. generano sensazioni positive o negative traducibili nello stare bene e nell’aver piacere ad essere in quel posto (Spaltro, 1993). Come per il clima ambientale le suddette condizioni oggettive possono essere percepite diversamente a seconda delle caratteristiche delle persone presenti in un contesto (tolleranza al caldo, condizioni di salute, ecc.), così la piacevolezza o meno del clima organizzativo dipende dalla personalità, dalle aspettative, dal sistema cognitivo degli individui che operano nei gruppi (Chintala, 2014). Tale concezione fa riferimento ad una visione multidimensionale e interattiva del fenomeno, visione relativamente recente nella letteratura aziendale (Bai, 2014). Le prime attenzioni al clima (Lewin, Lippitt, White, 1939) avvengono all’interno della prospettiva strutturale (approccio organizzativo), che considera l’atmosfera lavorativa come una caratteristica, un attributo dell’organizzazione, indipendentemente dalle persone che vi fanno parte; pertanto il clima è la risultante delle procedure adottate, delle politiche organizzative, dei criteri di suddivisione del lavoro, delle tecnologie ecc. L’organizzazione produce da sé un clima che le persone “respirano”, interiorizzano. Il limite di tale approccio è di non poter spiegare la presenza di più climi in una stessa organizzazione (Holloway, 2012). In realtà, all’interno di tale filone di studi, McGregor (1960) sottolinea il ruolo che hanno il superiore diretto e le figure chiave dell’organizzazione nel creare, a seconda delle competenze e delle capacità di gestione, una buona o cattiva atmosfera di lavoro, spiegando così, almeno in parte, la presenza di climi differenti in ambienti coordinati da capi diversi. Verso la fine degli anni Settanta, si afferma l’approccio percettivo, secondo cui il clima deriva dal significato che l’individuo attribuisce agli eventi o, meglio, a quegli eventi che ritiene importanti (James, Hater, Gent, Brumer, 1978). Il clima è dunque una rappresentazione psicologica e come tale può essere indagata mediante analisi degli effetti della personalità, delle aspettative, della realizzazione professionale, ecc. Una simile visione, più che consentire di cogliere il clima esistente all’interno del gruppo (si parla di “clima psicologico”), permette di comprendere il grado di adattamento dell’individuo al proprio ambiente di lavoro (Ali, Patnaik, 2014). Tale approccio si avvicina, nell’ambito della psicologia di comunità, a quello che Murrell definiva nel 1973 accordo psicosociale come l’incontro delle aspettative e capacità dell’individuo con le richieste e le risorse ambientali che si rendono a lui disponibili. Negli anni Ottanta, partendo da posizioni critiche sulla difficoltà di elaborare modelli soddisfacenti sia di analisi teorica sia di applicazione empirica, una pluralità di studiosi hanno affrontato il tema, elevando notevolmente il livello di conoscenza scientifica e di consapevolezza pratica. Matura la visione interattiva o interazionista, secondo cui il clima è una concezione condivisa di condizioni/situazioni organizzative, è la risultante collettiva di processi percettivi individuali, stimolati da condizioni ambientali (D’Amato, Majer, 2005).
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1.2 Il clima nelle organizzazioni scolastiche
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Viene attribuita molta importanza, nelle ricerche, al significato che gli individui assegnano agli eventi nel processo di interazione con essi, ma si riconosce che tale attribuzione di significato sia, in parte, funzione degli stessi eventi. Pertanto un aspetto importante del clima organizzativo è il comportamento dell’insegnante nei confronti del Sistema Scolastico (Raza, 2010). Il comportamento dell’insegnante potrebbe determinare un clima scolastico positivo: il modo in cui gli insegnanti percepiscono il proprio lavoro, i rapporti con i committenti e gli altri insegnanti. Halpin (1967) ha sottolineato quattro dimensioni del comportamento dell’insegnante che sono il disimpegno, l’ostacolo, lo spirito, e l’intimità. Egli ha definito il disimpegno come la mancanza di impegno per l’istituzione. Gli insegnanti di che rientrano in questa categoria godono di meno delle iniziative di lavoro proprie e non apprezzano le idee dei presidi e degli altri docenti per il miglioramento della scuola. Ricadono nella dimensione “ostacolo”, tutti quegli insegnanti che vivono gli aspetti amministrativi, la correzione dei compiti, la compilazione dei registri come attività inutili che appesantiscono il lavoro dell’insegnante. Lo Spirito inerisce un atteggiamento di vicinanza agli aspetti legati alle funzioni di insegnante, sia relazionali sia strumentali, senza che l’uno o l’altro prevalgano o inibiscano il normale espletamento della funzione docente. Infine l’intimità è invece il livello di gestione su piano emotivo delle relazioni e dei vissuti esperiti nell’organizzazione. Questa dimensione funge da supporto per la gestione dell’attività di insegnante. In sintesi, l’interesse per il clima organizzativo, in letteratura come nelle pratiche organizzative, cresce di pari passo e si intreccia con gli studi sullo sviluppo organizzativo (Ebrahimi, Mohamadkhani, 2014). Qualsiasi iniziativa di cambiamento (Selamat, Samsu, Kamalu, 2013), perché possa essere efficace, necessita di una conoscenza del contesto lavorativo, inteso sia come insieme di attività, spazi, macchinari attinenti alla organizzazione materiale del lavoro (ambiente fisico), sia come processi, procedure, regole di funzionamento (ambiente organizzato) riferibili alla organizzazione funzionale del lavoro, sia infine come insieme di valori, aspettative, interessi, competenze degli individui, che attengono alla organizzazione “socioemotiva” del gruppo (ambiente psicologico). Le analisi di clima sono, pertanto, utili strumenti per la diagnosi organizzativa, in quanto consentono di leggere alcuni comportamenti degli individui e di fornire una prima parziale interpretazione delle performance; sono dunque una fonte preziosa di conoscenza per l’efficace messa in atto di innovazioni all’interno del gruppo (Vos, Van der Westhuizen, Mentz, Ellis, 2012). Numerose ricerche (Chintala, 2014) hanno messo in rilievo gli effetti del clima su una pluralità di fattori, di estrema importanza per l’efficacia del gruppo di lavoro: ad esempio sulla soddisfazione lavorativa dei membri del gruppo, sul loro benessere psicologico, sul relativo livello di stress, sulla produttività e sulla prestazione lavorativa. Pur essendo copiosa la produzione di carattere empirico sul tema, la letteratura non addiviene ad un unico o predominante modello di analisi, né circa i fattori da esaminare (sebbene, alcune variabili, ad esempio la leadership, siano indagate pressoché da tutti), né circa le metodologie di indagine (per quanto, anche in questo caso, si riscontra una netta prevalenza dell’uso del questionario, quale strumento principe di rilevazione). Il contesto organizzativo al quale ci riferiremo in questo studio è la scuola vista come uno strumento della comunità sociale di cui fa parte e contemporaneamente un’organizzazione in grado di influenzarne il futuro. Il lavoro si inserisce in un disegno di ricerca più ampio che, per ora, vede solo i primi dati empirici circa la relazione tra alcune variabili presenti nel contesto scolastico. In primo luogo
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all’interno dell’istituzione scolastica abbiamo esaminato gli insegnanti. In questo lavoro verranno prese in considerazione le variabili psico-organizzative scolastiche, cioè variabili psicologiche relative all’organizzazione, misurabili ed utilizzabili per la previsione nelle organizzazioni scolastiche. Per clima abbiamo inteso “la qualità della vita scolastica e delle zone di benessere” (Catalano, 2008) mentre tra i costrutti che più frequentemente risultano associati ad un buon funzionamento della scuola, ritroviamo l’impegno e la soddisfazione lavorativa degli insegnanti, il senso di efficacia collettiva, il clima organizzativo positivo (Goddard, Goddard, 2001; Somech, Drach-Zahavy, 2000).
2. Obiettivi L’obiettivo di questo lavoro è ottenere un’immagine più dettagliata possibile del vissuto scolastico della professione insegnante, secondo la prospettiva meteorologica organizzativa. Nello specifico ci siamo prefissati l’analisi della percezione degli aspetti organizzativi da parte degli insegnanti; l’analisi dei diversi ambienti di lavoro e la loro funzione nella determinazione dei diversi climi; la determinazione delle differenze fra clima organizzativo e clima psicologico; l’influenza del clima organizzativo sui livelli di soddisfazione lavorativa degli insegnanti. Partecipanti Allo studio partecipano insegnanti di diverso ordine scolastico, indipendentemente dagli anni di servizio e dal diverso tipo di incarico. Per il raggiungimento di tali obiettivi, sono stati coinvolti 169 insegnanti delle le scuole secondarie di secondo grado del comune di Palermo. I partecipanti hanno un’età media di 39,11 anni (DS=4,64); il 48% di loro sono donne, il 52% uomini. Gli insegnanti che hanno partecipato alla presente ricerca hanno in media 14 anni di servizio (DS=5,21). Procedura Abbiamo evitato un campione troppo omogeneo. La ricerca è stata condotta durante la seconda parte dell’anno scolastico 2013-2014 e prevede la somministrazione di alcune misure autovalutative. Nel presente studio i dirigenti scolastici degli istituti coinvolti hanno presentato la ricerca al Collegio dei docenti spiegandone l’importanza e chiarendone le finalità, al fine di ottenere l’approvazione e il coinvolgimento di tutti i docenti. Il questionario è stato consegnato personalmente ad ogni docente, ognuno dei quali poteva compilarlo nel momento che riteneva più opportuno. Il questionario è stato compilato individualmente ed è stato garantito l’anonimato. Destinando un determinato lasso di tempo per la compilazione (da una a tre settimane) il questionario è stato raccolto, avvalendosi anche della collaborazione di due docenti. Le elaborazioni statistiche dei dati sono state effettuate con il pacchetto statistico SPSS 19.0 per Windows. Si è garantito l’anonimato dei partecipanti nel pieno rispetto della privacy, e questi sono stati informati circa gli scopi generali della ricerca. Strumenti Questo lavoro si è avvalso di reattivi precedentemente costruiti e validati volti a valutare diversi aspetti dell’esperienza personale dei docenti. Dettagliamo qui di seguito la composizione della batteria di strumenti utilizzata partendo da recenti suggerimenti in letteratura (Catalano, Romano, Lavanco, Miragliotta, 2008):
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1) Clima scolastico. È stato valutato mediante il Questionario sulla Situazione Scolastica, versione per insegnanti (QSS-I; Santinello & Bertarelli, 2002). La scala valuta il tono sociale ed emotivo dell’organizzazione scolastica derivante dalle relazioni interpersonali tra i vari attori della scuola (docenti, dirigente scolastico, genitori, studenti). È composto da 28 item, tratti dalla School Situation Survey di Helms e Gable (1989). Si compone dalle seguenti 4 sottoscale: clima emotivo della scuola, conseguente dal comportamento del preside, le aspettative, il rapporto tra genitori e insegnanti, il comportamento tra studenti e insegnanti; il clima sociale, cioè i rapporti tra scuola e territorio; gli aspetti fisici e strutturali della scuola; la dimensione disciplinare, che si riferisce al rispetto degli studenti di regole condivise. In ogni dimensione il coefficiente Alpha di Cronbach è stato calcolato per le quattro scale: rispettivamente 0.87; 0.82; 0.79 e 0.77. 2) Efficacia personale nell’esercizio della propria professione di insegnante. È stata valutata da una scala validata da Barbaranelli e Fida (2004) e composta da 11 item. Attendiblità alfa di Cronbach 0.88. 3) Efficacia collettiva che i docenti hanno nei confronti della scuola come insieme capace di raggiungere i suoi scopi istituzionali. È stata valutata mediante una scala costruita da Barbaranelli e Fida (2004) e composta da 8 item. L’affidabilità è misurata mediante Alpha di Cronbach pari a 0.87. 4) Impegno organizzativo, Coinvolgimento nel lavoro e Soddisfazione lavorativa. Il primo corrisponde all’impegno nel conseguimento degli obiettivi comuni e al senso di appartenenza, il secondo si riferisce al grado di interesse e di identificazione nel lavoro e il terzo al grado di soddisfazione nei confronti del proprio lavoro e del proprio ruolo (Barbaranelli & Fida, 2004), valutati da 7 item. Coefficienti alfa di Cronbach rispettivamente 0.84; 0.74 e 0.82. Gli item delle diverse scale sono stati inseriti nel questionario secondo un ordine casuale al fine di evitare fenomeni di response set. Per ogni affermazione i docenti dovevano esprimere il proprio grado di accordo utilizzando una scala di tipo Likert a 7 posizioni (da 1 = “Molto in disaccordo” a 7 = “Molto d’accordo”). Risultati Considerando nella sua interezza il campione di partecipanti alla ricerca, possiamo registrare i valori medi attraverso la statistica Z, media standardizzata, in corrispondenza delle dimensioni di assessment oggetto della ricerca: Efficacia Collettiva (z = .22); Disciplina (z = .20); Clima Emotivo (z = .12); Aspetti fisici e strutturali (z = .15); Coinvolgimento (z = .04); Clima sociale (z = .17); Soddisfazione (z = .18) Impegno (z = .15); Efficacia personale (z = .05). Tali risultati avvalorano la teoria sociale cognitiva che vede nella capacità dell’individuo di autodeterminarsi il perno dello sviluppo e del cambiamento umano; essa ha come elemento cardine la convinzione che l’efficacia degli individui, sia capace di influenzare intenzionalmente eventi e contesti. L’efficacia collettiva rappresenta un fattore dotato di un largo potere predittivo dell’impegno e della soddisfazione lavorativa; è dunque utilizzabile per la progettazione ed implementazione di programmi di prevenzione e sicurezza all’interno dei contesti organizzativi ed, in particolar modo, nella scuola. Le ricerche di Kohei (2014) hanno mostrato che i docenti con alto senso di autoefficacia scolastica si concentrano maggiormente sulle attività didattiche e sostengono gli alunni in difficoltà, fornendo loro feedback positivi e gratificazioni per i loro successi. Al contrario, insegnanti con un basso livello di autoefficacia tendono a desistere se gli alunni non raggiungono buoni risultati in tempi brevi e tendono a spendere parte del loro tempo in
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classe in attività ricreative non scolastiche. Einar, e Sidsel (2014) hanno evidenziato che i docenti con bassi livelli di autoefficacia scolastica sono portati ad esercitare il controllo della classe per mezzo di regole severe e restrittive e, per motivare gli studenti allo studio, utilizzano strategie che prevedono sistemi di premi e punizioni. Come da evidenze nei risultati gli insegnati nella loro esperienza a scuola danno molta importanza al ruolo degli aspetti disciplinari condivisi e interiorizzati dagli allievi. L’insegnante partecipa in modo costruttivo al lavoro in team con colleghi, portando contributi a livello pedagogico, didattico e disciplinare. L’insegnante s’identifica con il ruolo sociale e i valori caratteristici della professione docente; al di là della propria specializzazione, ogni insegnante considera la disciplina e la formazione degli allievi nella loro globalità come proprio compito professionale primario. Queste abilità fanno riferimento alle meta-competenze e alla pratica riflessiva: l’insegnante è in grado di riflettere criticamente e costruttivamente sul proprio modo di porsi quale insegnante e di sviluppare la propria professionalità conseguentemente; sa riflettere sugli aspetti disciplinari e didattici relativi al proprio campo di competenza e li struttura in modo più approfondito ed efficace sulla base di una conoscenza e di una comprensione che estende costantemente; sa apprendere dai propri errori e si rende conto che il proprio sapere è comunque limitato; sa disimparare quando è necessario (cambio di paradigmi, di metodologie, di strumenti). Infine da notare anche i livelli medi registrati sulla soddisfazione lavorativa che gli insegnanti percepiscono come sentimento di piacevolezza derivante dalla percezione che l’attività professionale svolta e che consente di soddisfare importanti valori personali connessi al lavoro; si riferisono inoltre ad uno stato emozionale piacevole o positivo che deriva dalla valutazione o dall’esperienza del proprio lavoro. I risultati di questo studio sono inoltre interpretabili in riferimento ad alcune variabili indipendenti che hanno giocato un ruolo fondante per la ricerca: genere, età, disciplina insegnata, status civile, anni di esperienza. I partecipanti alla ricerca sono stati equamente distribuiti secondo il genere: le donne sono circa il 48% e gli uomini il 52%. In media i soggetti hanno 39 anni circa. Gli insegnanti che insegnano in corsi scientifici sono in maggioranza: il 37,8 % del campione totale; gli insegnanti che insegnano in corsi umanistici sono meno in numerosità con il 35%; quelli che insegnano discipline artistiche, tecniche, religione, musica ed educazione fisica sono stati per ragioni del disegno di ricerca considerati nello stesso gruppo (27%). La maggior parte degli insegnanti che hanno costituito il campione sono sposati. Gli insegnanti non coniugati costituiscono solo il 19,6% del campione. I partecipanti hanno numerosi anni di esperienza di docenza: il 7 % ha meno di 5 anni di esperienza; il 30,4 % ha tra i 6 ei 10 anni, il 24,3% tra gli 11 ei 15 anni , il 21,7 % tra i 16 ei 20 anni e il restante 16,5 % ha più di 20 anni di esperienza. È stata riscontrata solo una differenza significativa in corrispondenza dei punteggi ai fattori climatici organizzativi secondo il genere degli insegnanti. È emersa una tendenza nei punteggi al clima emozionale a carico delle donne rispetto agli uomini, F(1, 167) = 4.09, p ≤ .05. I punteggi tra gli insegnanti in base alle categorie di insegnamento sono state analizzate attraverso l’analisi della varianza (ANOVA). L’ANOVA conferma che vi è una differenza significativa tra i punteggi nei fattori climatici organizzativi in base alle categorie di insegnamento F(2, 166) = 7.09, p ≤ .001. Gli insegnanti che insegnano discipline umanistiche riportato punteggi più alti di clima scolastico emotivo rispetto agli insegnanti che insegnano discipline
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scientifiche. Si riporta una differenza significativa nei punteggi medi ai fattori climatici organizzativi secondo lo stato civile degli insegnanti. Registriamo una tendenza media più alta degli insegnanti non coniugati rispetto a quelli sposati in relazione al fattore di Efficacia Collettiva, F (1, 167) = 4.63, p ≤ .05, e Coinvolgimento Job, F (1, 167) = 4.15, p ≤ .05. L’ANOVA ha mostrato che vi è una differenza significativa nei punteggi emersi agli aspetti disciplinari e all’impegno di lavoro a seconda dell’età degli insegnanti. Gli insegnanti più giovani (range 31-35) hanno riportato punteggi medi superiori rispetto ai colleghi più anziani in relazione alla Dimensione Disciplinare. In particolare gli insegnanti tra i 31 e i 35 anni sono più orientati verso una seria disciplina scolastica rispetto ai loro colleghi che hanno più di 46 anni, F (4, 164) = 4.83, p ≤ .001. Infine, gli insegnanti più giovani (range 31-35) sono nel lavoro più coinvolti degli insegnanti rispetto a chi supera i 41 anni di età, F(4,164) = 2.41, p ≤ .05. Le analisi mostrano una differenza significativa in corrispondenza all’anzianità di servizio degli insegnanti. C’è una tendenza per gli insegnanti con meno anni di servizio a riferire punteggi più elevati rispetto a quelli con più anzianità in relazione ai fattori Efficacia Personale e Collettiva, e anche nella Soddisfazione sul lavoro. In particolare, coloro che hanno tra gli 11 e i 15 anni di servizio hanno una maggiore percezione di Efficacia Personale [F (4, 164) = 3.28, p ≤ .01], di Efficacia Collettiva [F (4, 164) = 2.36, p ≤ .05] rispetto a chi vanta più di 20 anni di esperienza. Inoltre, gli stessi insegnanti hanno mostrato di essere più soddisfatti rispetto a coloro che hanno tra i 16 e i 20 anni di esperienza: F (4, 164) = 3.14, p ≤ .01.
Conclusioni Questo contributo rappresenta un utile elemento per la generalizzazione di un modello rivolto alla spiegazione di alcune variabili personali (soddisfazione, impegno, coinvolgimento) ritenute importanti per orientare il comportamento dell’insegnante nell’organizzazione scolastica. Abbiamo valutato il clima scolastico attraverso nove fattori climatici organizzativi e 54 voci relative a questi nove indicatori. I risultati hanno mostrato che tutti gli insegnanti hanno riportato il punteggio più alto nell’efficacia collettiva e nelle dimensioni disciplinari, ma il più basso in partecipazione al lavoro e in efficacia personale. Il motivo per cui tutti gli insegnanti hanno riportato un punteggio basso nel coinvolgimento lavorativo può essere interpretato alla luce dei compensi economici recentemente lamentati dagli insegnanti Questo elemento influisce sul clima scolastico, percepito negativamente dagli stessi insegnanti che dovrebbero lavorare con uno stipendio inadeguato alle proprie aspettative, e può anche determinare una determinante fonte di stress (Siddiqui, Fatima, Mohd, Khan, 2013). Il motivo per cui tutti gli insegnanti hanno riportato il punteggio più alto negli aspetti di efficacia e disciplinari può essere parallelo all’idea che la scuola è un’organizzazione in cui dovrebbero esistere amichevoli relazioni interpersonali. Le analisi dei punteggi al clima scolastico hanno coinvolto diverse variabili: categorie di insegnamento, età, genere, stato civile e di anni di servizio. È emerso che, in molti casi, gli insegnanti che insegnano discipline umanistiche registrano più elevati punteggi nel clima emotivo rispetto ai docenti che insegnano materie scientifiche. Ciò può essere spiegato in quanto gli insegnanti di materie umanistiche sono più vicini al loro background emotivo rispetto ai colleghi che sono di solito più empirici e meno introspettivi. In termini di genere, i risultati hanno mostrato che vi è una tendenza per le donne a dichiarare i punteggi al clima emotivo
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superiori rispetto agli uomini. Ciò può essere chiarito se si osserva la prevalenza di docenti donne nel sistema scolastico italiano e si presume la conseguente condivisione emotiva tra donne. Sorprendentemente c’è una differenza significativa nei punteggi ai fattori climatici organizzativi secondo lo stato civile degli insegnanti; c’è stata una tendenza per gli insegnanti non coniugati a segnalare punteggi più elevati rispetto a quelli sposati in relazione al fattore di efficacia collettiva. Gli insegnanti sposati sostengono quotidianamente la sfida a sostenere una famiglia compatibilmente al proprio ruolo di docente. Questo può determinare negli insegnanti sposati la sperimentazione di un conflitto di ruolo dovuto alla condizione di essere un insegnante, un genitore e un coniuge allo tempo stesso. I risultati hanno anche mostrato che gli insegnanti più giovani hanno riportato punteggi più elevati rispetto a quelli dei più giovani nell’impegno verso il lavoro e gli aspetti disciplinari. Si presume che gli insegnanti più giovani hanno grandi aspettative nei loro primi anni e sono più idealisti degli insegnanti più anziani, che sono suscettibili di sperimentare livelli più elevati di stress da lavoro. Pertanto, il livello di stress a seguito del loro fallimento nella realizzazione di grandi aspettative può spingere gli insegnanti più giovani verso l’utilizzo di più disciplina e di maggiore impegno sul posto di lavoro. Conseguentemente, i risultati hanno mostrato che vi è una tendenza in generale per gli insegnanti con meno esperienza lavorativa di riferire punteggi più elevati rispetto a quelli con più anzianità in relazione al fattore di efficacia personale, collettiva e nella soddisfazione sul lavoro. Questa constatazione non è coerente con l’idea che l’esperienza agevola il senso di autoefficacia e la soddisfazione. Tuttavia, questo risultato è pensabile considerando le opportunità di lavoro in Sicilia. Quei giovani insegnanti che hanno avuto la possibilità di avere un incarico stabile, apprezzeranno maggiormente il valore del proprio lavoro e lavoreranno con uno positivismo superiore ai colleghi precedentemente in ruolo. Lo studio condotto in questo articolo identifica solo le percezioni degli insegnanti legate a fattori climatici della scuola in base ad alcune variabili di ricerca. Si auspica uno studio condotto anche su scuole di diverso ordine e grado, e di differenti realtà socioculturali. I nostri risultati potrebbero essere usati con cautela, dal momento che è possibile individuare altri modelli relazionali utilizzando altre tecniche. Infine dovrebbe essere auspicabile testare il modello su un campione più ampio.
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Thompson M.D. (2005). Organizational climate perception and job element satisfaction: A multi-frame application in a higher education setting. E-Journal of Organizational Learning and Leadership, 4(1), pp. 5-14. Vos D., Van der Westhuizen P.C., Mentz P.J., Ellis S.M. (2012). Educators and the quality of their work environment: an analysis of the organisational climate in primary schools. South African Journal of Education, 32, pp. 56-68.
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L’insegnamento agito Valentina Iobbi • Università degli Studi di Macerata • iobbiv@gmail.com Patrizia Magnoler • Università degli Studi di Macerata • patrizia.magnoler@unimc.it
The acted teaching
Tracing out and understanding the action are challenge for research. They are accepted from different perspectives, which have their origin from sociological studies, from ergonomics, from psychology of learning and from education sciences. The aim is of optimize the relationship between research and in-service training. This is possible from paths and methodologies that allow coming into light both incorporated and tacit knowledge of the action, and the beliefs that guide action. Premise is a fruitful relationship between researchers and practical. This paper presents a study that is situated in these coordinates with the dual aim to develop training opportunities for teachers and to build a knowledge-tool that can provide a reference for the analysis of the action.
Parole chiave: insegnamento, formazione, concettualizzazione dell’azione, Didattica Professionale
Keywords: teaching, education, conceptualisation of the action, Didactique Professionnelle
La ricerca è stata condotta da Patrizia Magnoler, Valentina Iobbi e Maila Pentucci. Il presente contributo è stato collettivamente discusso e scritto da Patrizia Magnoler (1. Lo studio dell’azione per la formazione, 2. Gli elementi costitutivi dell’insegnamento, 3. L’insegnamento in movimento, limitatamente ai paragrafi: 3.1 Il contesto di ricerca, 3.2 Primi risultati: le ricorrenze, 4. Conclusione) e da Valentina Iobbi (3. L’insegnamento in movimento, limitatamente ai paragrafi: 3.3 Il movimento e 3.4 Esemplificazione di un’analisi).
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Tracciare e comprendere l’azione sono sfide per la ricerca. Esse sono accolte da diverse prospettive che traggono origine dagli studi sociologici, ergonomici, di psicologia dell’apprendimento e delle scienze della formazione. Lo scopo è di ottimizzare il rapporto tra ricerca e formazione in servizio. Ciò è possibile grazie a percorsi e metodologie che permettono di far emergere sia la conoscenza incorporata e tacita dell’azione, sia le credenze che guidano l’agire. Il presupposto è un fecondo rapporto tra ricercatori e pratici. Questo contributo presenta una ricerca che si colloca in tali coordinate con il duplice intento di sviluppare occasioni formative per gli insegnanti e di costruire un sapere-strumento che possa costituire un riferimento per l’analisi dell’azione.
L’insegnamento agito
1. Lo studio dell’azione per la formazione
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L’analisi dell’azione costituisce, da più di un ventennio in ambito francofono (Schwartz, 2000; Durand, Filliettaz, 2009; Pastré, 2011), una vera e propria rivoluzione paradigmatica e metodologica che ha un forte impatto su due aspetti: il tipo di sapere da privilegiare nella formazione e il rapporto tra ricercatori e professionisti che hanno la pratica del mestiere. In quanto al tipo di sapere è possibile rintracciare diversi focus, talvolta più generali, in altri casi più specifici. Se Schön (1983) ha posto in luce il sapere del professionista maturato e visibile nella pratica, Shulman (1987) si è concentrato sul Pensiero degli insegnanti e sulla sua influenza sulle scelte in azione. Uno sviluppo di queste due traiettorie, alimentato dagli studi ergonomici e della psicologia dell’apprendimento, è identificabile nella ricerca delle concettualizzazioni soggettive e degli organizzatori (Vinatier, 2009) operata nell’ambito della Didattica Professionale2. Essa è orientata ad identificare la particolare concettualizzazione operata da ciascun soggetto in rapporto alle situazioni e si pone nell’ottica di comprendere la diversità fra compiti prescritti (connessi alla professione) e compiti reali, così come effettivamente realizzati nella pratica (Rogalski, 1995; Leplat, 1997; Clot, 2008). Il fine è quello di comprendere la dinamica tra sujet capable et sujet épistemique (Rabardel, 1995) con l’obiettivo di ripensare una formazione che connetta il mestiere effettivo, contestualizzato e la capacità del soggetto di rendere intelligibile, a sé e agli altri, la propria pratica. Un’altra evoluzione delle traiettorie sopra descritte, anch’essa focalizzata sull’azione, si ravvisa dalla fine degli anni ’90 con il modello del Cours d’action (Theureau, 2006) che persegue lo scopo di cogliere il flusso di questa relazione e del suo evolversi in contesto. Perciò le ricerche del Cours d’action, si concentrano sull’analisi di tre momenti: il prima, il durante e il dopo l’azione. Il confronto fra questi tempi consente di comprendere le influenze dell’esperienza (coscienza preriflessiva), le assunzioni soggettive di una cultura professionale, e i comportamenti che costituiscono la parte visibile dell’accoppiamento strutturale tra soggetto e situazione. Per quanto riguarda l’insegnante, la sua azione in classe rende osservabile la modalità con la quale egli interpreta la mediazione didattica, processo nel quale si concretizza l’obiettivo principale della scuola, ovvero realizzare una Trasposizione Didattica (Chevallard, 1991; Develay, 1995) per portare gli studenti ad appropriarsi
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La Didattica Professionale è una prospettiva generatasi dall’apporto di diverse discipline (ergonomia, psicologia dell’apprendimento e didattica) fin dal 1980 in Francia. Inizialmente orientata a comprendere l’azione per formare, come afferma Pastré “Analyser l’activité des hommes au travail pour aider au développement de leurs compétences” (Pastré, 2011, 1), si è progressivamente estesa dallo studio dei mestieri a dominanza tecnica (industriale, artigianale), ai lavori di tipo gestuale (sport, danza) e solo successivamente alle professioni a carattere relazionale (insegnamento, servizio sanitario).
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del sapere. L’insegnamento si presenta quindi come un’azione complessa che si sviluppa in uno spazio interazionale fra soggetti e oggetti culturali secondo diverse logiche di funzionamento fra loro interdipendenti. Interpretare l’insegnamento come mediazione didattica conduce ad “una dislocazione del punto di vista: dai soggetti di coppia – l’insegnante e l’alunno – alle azioni che gli stessi soggetti mettono in atto interagendo con i materiali culturali – procedurali, tecnici e simbolici” (Damiano, 2013, p. 319). Non è quindi sufficiente guardare agli aspetti di comunicazione, di relazione in funzione dell’apprendimento, ma è necessario prendere in esame anche il ruolo che hanno i contenuti culturali (disciplinari) e gli artefatti sui quali si concentra sia l’azione dell’insegnante in fase di progettazione e in aula, sia quella dello studente che, in quanto attore a tutti gli effetti, trasforma quanto sta ascoltando e sperimentando per renderlo coerente col proprio mondo di conoscenze e di rappresentazioni. È l’azione, “sia quella dell’insegnante che quella degli alunni – che viene assunta come il luogo privilegiato per esplorare l’insegnamento. Tale collocazione consente all’osservatore di individuare quel che si compie in quello spazio che sta nel mezzo: ovvero la rilevanza dell’interazione con gli oggetti culturali, in termini propri di mediazione didattica” (Damiano, 2013, 319). Analizzare l’insegnamento come azione allontana sempre di più dal considerare aspetti specifici e fra loro isolati per concentrarsi sulla visione di sistema ove coabitano diverse tensioni pedagogico-didattiche (Altet, 2012). È la competenza dell’insegnante nella regolazione del sistema che diviene fondamentale per mantenere l’equilibrio fra le infinite variabili che si presentano in ogni situazione d’aula. Come rilevato da Altet e Vinatier (2008) nell’ambito di una forma di ricerca definita Analisi Plurale, l’insegnante è continuamente impegnato nella gestione sincrona di tre registri (epistemico, relazionale e pragmatico). A seconda delle diverse situazioni, possono originarsi sequenze di insegnamento che mostrano un equilibrio fra i tre registri oppure sbilanciamenti sul versante della cura dell’apprendimento, o della relazione o della gestione organizzativa della classe. Nell’insegnamento, il compito, progettato dal docente in funzione del lavoro e dell’apprendimento dello studente, ha un ruolo centrale. Esso costituisce uno spazio-tempo privilegiato nel quale, a partire dalla consegna e dai mediatori utilizzati, lo studente attua una devoluzione condizionata sia dal tipo di compito, sia dalle proprie variabili soggettive, sia dal sistema di interazioni/relazioni nelle quali è immerso. L’apprendimento si sviluppa all’interno di un processo d’azione e di decisione dello/degli studente/i, sempre in relazione con altri processi di azione e di decisione dell’insegnante. Quanto più si realizza un avvicinamento dell’insegnante e dello studente all’oggetto culturale, quante più saranno le possibilità di poter osservare un insegnamento funzionale ad un apprendimento significativo e culturalmente generativo. Indagare l’azione comporta anche un mutamento radicale nelle metodologie di ricerca. Il sapere del pratico può emergere solo nella condizione in cui egli possa mostrarlo, parlarne, condividerlo con altri. Ecco che la dimensione di collaborazione fra ricercatori e pratici appare come condizione imprescindibile, così come lo diventa la costruzione del dato, che deve essere tale da consentire l’analisi dell’azione per come si è sviluppata, o almeno parte di essa. Il modello della Ricerca Azione (Lewin, 1946¸ Elliott et al. 1993), che ha dato forma a una prima collaborazione tra ricercatori e pratici, si è progressivamente evoluto verso una maggiore attenzione al polo dell’azione (Barbier, 2007) fino a sfociare nell’attuale modello della Ricerca Collaborativa (Desgagné, 1997) che si concentra su una specifica traiettoria: fare ricerca per la formazione. È questo binomio ricerca-formazione che viene attualmente dibattuto: quando fare ricerca è anche formazione? Quando la ricerca è funzionale alla formazione?
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Quando la formazione si distingue dalla ricerca? Le risposte a questi interrogativi hanno originato differenti interpretazioni e condotto verso la realizzazione di alcuni prodotti di ricerca utili a comprendere l’insegnamento (Ria & Durand 2001; Leblanc et al. 2008; Vinatier, 2011) o anche a costruire dispositivi formativi per sviluppare le competenze connesse all’insegnamento (Altet et al., 2006). Si potrebbe dire che ricerca e formazione si sono alimentate reciprocamente nel tentativo di comprendre pour transformer e di transformer pour comprendre dove la ricerca si colloca come dimensione centrale nel prima tensione e la formazione nella seconda (Yvon, Durand, 2012). In entrambe le direzioni si ritrova lo sforzo di dare forma alle pratiche e di costruire dei saperi-strumenti capaci di raccogliere l’unicità del singolo in situazione ma anche di restituire un “sapere” più generalizzato funzionale ad esaminare l’insegnamento (Faïta, 2012).
2. Gli elementi costitutivi dell’insegnamento
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La letteratura corrente fornisce un panorama degli elementi/processi che concorrono ad individuare il sistema che caratterizza l’insegnamento. Houssaye (1998) e Develay (1995) ne hanno tracciato i soggetti fondamentali che agiscono all’interno di strutture complesse, i dispositivi didattici, i quali sottendono ipotesi relative all’apprendimento, rapporti con il sapere in genere e con l’oggetto culturale, “con il progetto e con l’azione, […] con l’ostacolo e con il tempo” (Perrenoud, 2002, p. 37). L’ideazione, la produzione e la gestione del sistema di mediatori didattici (Damiano, 2013) sono aspetti fondamentali del dispositivo funzionali ad attivare lo studente nella sua relazione con l’oggetto culturale, così come lo è il compito, riconosciuto come “mezzo” per il recupero e la ricerca delle conoscenze, capace di innescare conflitti cognitivi e quindi della problematizzazione (De Vecchi e Carmona-Magnaldi, 2002; Astolfi, 1993). La dinamica del dispositivo e la tipologia del compito possono variamente contribuire alla creazione di pratiche di libertà nello studente affinché progetti autonomamente il proprio lavoro. Questo spazio d’azione rimanda all’idea di capacit-azione (Margiotta, 2013; Sen, 1999) secondo cui promuovere capacità significa favorire sfere di libertà entro un quadro di agency. Si ripresenta quindi la devoluzione (Brousseau, 1986), intesa come responsabilità dello studente che, rispetto all’obiettivo cognitivo, prende in carico l’incertezza della risoluzione di un problema, affrontando la sfida per generare nuova conoscenza. È con quest’azione di appropriazione che il sapere, in quanto artefatto prodotto da una comunità scientifica e didattizzato dall’insegnante, diviene un sapere strumento incarnato nel soggetto e riutilizzabile in differenti contesti. L’importanza del compito all’interno del dispositivo è stata ampiamente illustrata nelle ricerche di Clanet (2012), che lo ha identificato come uno degli organizzatori che rendono visibili le diversità tra le pratiche di insegnamento dei diversi insegnanti. L’equilibrio della situazione didattica si regge su diverse tensioni: a) sul Contratto didattico (Brousseau, 1998; Bruno d’Amore, 2007) che risulta determinante nell’anticipazione che ciascuno degli attori implicati opera per prevedere ciò che potrà accadere b) sul processo di Trasposizione didattica che assume un duplice movimento: di selezione e di adattamento dei contenuti rispetto sia al sapere scientifico sia al sapere sociale (Martinand, 2001). Essa, inoltre, è pregna del rapporto che l’insegnante ha con l’oggetto culturale anche in termini etici (Rossi e Pezzimenti, 2012) c) lo spazio di Autonomia e consapevolezza che si pone tra il polo dello studente e quello dell’oggetto culturale.
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L’effettiva realizzazione dell’insegnamento si organizza secondo ricorrenze che evidenziano la presenza di una concettualizzazione relativa all’apprendimento, all’insegnamento, alla gestione della classe (i “teoremi in atto” di Vergnaud, 1996 e Vinatier, 2009).
Fig. 1 – Il sistema insegnamento
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3. L’insegnamento “in movimento” 3.1 Il contesto di ricerca In ottemperanza a quanto previsto dalla C.M. 22 agosto 2013, n. 22 - Avvio delle misure di accompagnamento delle Indicazioni nazionali 2012, nel territorio maceratese è stata costituita una rete tra scuole, con capofila l’Istituto Comprensivo Locatelli di Tolentino. Il contratto formativo concordato con gli insegnanti prevedeva l’articolazione di due diversi percorsi: di grande gruppo (25 insegnanti) e, fra questi, 5 insegnanti (piccolo gruppo) disponibili ad effettuare interviste di esplicitazione (Vermersch, 1994), videoregistrazioni delle lezioni in aula e interviste di assegnazione di senso (Faingold, 2011). L’obiettivo del percorso con gli insegnanti era così definito: analizzare il rapporto tra insegnamento e sviluppo delle competenze centrando l’attenzione sul compito e sulla mediazione. Come supportare l’insegnante nell’analisi della propria azione didattica al fine di cogliere quegli elementi sui quali intervenire per consentire allo studente di appropriarsi in modo autonomo e intenzionale degli oggetti culturali? Si è deciso di affrontare “le azioni” nella loro organizzazione sincronica e diacronica riprendendo sia l’ottica del flusso d’azione, sia le tecniche comuni alle ricerche della Didattica Professionale e del Cours d’action. Se L’insegnamento prevede un’azione progettuale nella quale l’insegnante opera delle scelte, connette e organizza secondo logiche personali e processi di simulazione, questo tipo di azione può essere rilevato attraverso interviste semi-strutturate, funzionali a far emergere il processo di anticipazione con particolare attenzione alla successione, e alla relazione tra sequenze di insegnamento previste (comprese le scelte dei mediatori, dell’organizzazione della classe). Per facilitare l’approccio descrittivo della
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propria lezione da parte dell’insegnante si è proceduto in due fasi: la prima coincidente con un’intervista di esplicitazione (Vermersch, 1994) funzionale a far emergere ciò che era importante/necessario dire in relazione ad una lezione già realizzata. I contenuti dell’intervista sono stati definiti a partire dagli elementi costitutivi l’insegnamento (così come descritti precedentemente) e dagli elementi costituenti lo schema di Vergnaud (gli obiettivi, lo sviluppo dell’azione comprese le decisioni ed eventuali spiegazioni e argomentazioni, gli elementi di regolazione dell’azione, le concezioni ritenute vere). Una seconda fase si è svolta attraverso un’intervista semi-strutturata, funzionale a tracciare la lezione progettata (che sarebbe stata videoregistrata in seguito), la quale oltre a riprendere gli elementi affrontati nella precedente intervista, mirava a rendere maggiormente espliciti i mediatori e le successioni di sequenze previste interne alla lezione. L’insegnamento “agito” in aula è stato documentato attraverso videoregistrazioni realizzate con due videocamere, una fissa e una mobile, al fine di poter cogliere processi, interazioni fra insegnante e alunni e fra alunni, utili a fornire un quadro più completo di quanto avvenuto. È seguita, quindi, una terza fase con gli insegnanti dedicata alla ricostruzione dell’azione agita per giungere all’esplicitazione delle ragioni sottese, processo che si rende più completo quando è possibile prendere in esame anche le “osservabili comportamentali” tracciate nei video (Vermersch, 2005, p. 20). A questo scopo si è utilizzata la tecnica dell’intervista di décryptage du sens di Faingold (2011) che permette “l’analyse réflexive des pratiques à partir des donnés recueilles en explicitation, pour favoriser la mise au jour d’invariants, et la formulation par les professionnels eux-mêmes d’énonces traduisant des savoirs professionnels [...]3.”(Faingold, 2011, p. 126). A completamento della raccolta delle informazioni relative alla sequenza di insegnamento sono state effettuate 6 interviste semi-strutturate ad alunni individuati dagli insegnanti come maggiormente rappresentativi della classe in base alla diversità di risultati di apprendimento. Le dimensioni esplorate erano la comprensione del lavoro svolto, le difficoltà incontrate. Per l’analisi dei dati si è proceduto nel seguente modo: a. l’analisi si è concentrata sui frammenti di testo, delle interviste e dei video, selezionati in base alla loro possibilità di far emergere come erano stati dichiarati, e quindi interpretati nell’azione dai diversi insegnanti, sia l’obiettivo della lezione, sia le modalità operative ritenute opportune per il suo conseguimento (struttura del dispositivo, del compito, le sequenze). Due ricercatori hanno elaborato la prima analisi e in seguito l’hanno confrontata con il terzo ricercatore (colui che aveva effettuato interviste e video) per raccogliere elementi di contesto a completamento di quanto identificato. Ogni ricostruzione dello svolgimento della sequenza di insegnamento è stata integrata anche con la visione emersa dagli alunni; b. l’analisi così completata è stata successivamente sottoposta agli insegnanti per una eventuale validazione o confutazione.
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di analisi riflessiva sulle pratiche a partire dai dati raccolti in fase di esplicitazione, per favorire l’emergere delle invarianti del soggetto, e la formulazione da parte degli stessi professionisti, di enunciati che traducano i loro saperi professionali. (Faingold, 2011, p.126).
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3.2 Primi risultati: le ricorrenze Già dall’osservazione dei primi video è stata tratta una descrizione delle situazioni interne ad una lezione (es. raccogliere informazioni sul sapere degli studenti, spiegare un argomento nuovo, operare sui testi) che, nei video successivi, si ripresentavano in modo analogo e con la medesima successione nelle azioni dello stesso insegnante. Tale similarità nella conduzione delle lezioni è stata posta in luce durante gli incontri di auto-confronto e validata dagli stessi insegnanti che hanno avuto modo di spiegare il perché del loro agire. Si è ravvisato così un aspetto particolare, ovvero la specularità che il docente attua nella lezione agita e la modalità con la quale ritiene si apprenda. Un’insegnante ci racconta: “io vorrei che ognuno pensasse a questo schema (di lavoro ndr) e quindi tutti lo usassero quando vanno ad affrontare ogni argomento (A, intervista 22 gennaio 2014)”. Appare quindi la possibilità che le ricorrenze siano a) il risultato di un processo culturale sull’insegnamento che si è sviluppato all’interno della comunità professionale e che ha creato delle condizioni imprescindibili (es. bisogna sapere che cosa conoscono gli studenti prima di spiegare un argomento nuovo, bisogna motivare gli studenti utilizzando diverse strategie); b) la manifestazione delle concezioni dell’insegnante (es. per costruire apprendimento credo che…). Nelle ricorrenze si evidenziano le diverse situazioni che vengono gestite secondo schemi d’azione soggettivamente costruiti e che inglobano anche tecniche di utilizzo funzionale degli strumenti per apprendere (es. per comprendere un testo prima si sottolineano i concetti importanti…) e regole d’azione (se gli studenti nonrispondono….allora…).
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Fig. 2 - Esempi di ricorrenze
3.3 Il movimento Dalla co-ricerca è scaturita la produzione di un modello, inteso come sapere-strumento (Altet, 2003) atto a supportare l’insegnante nell’analisi della propria azione, costituito da differenti elementi, emersi come rilevanti sia dalla ricognizione delle recenti ricerche sull’insegnamento agito, sia dall’analisi dei dati, e validato come efficace per la riflessione sulle pratiche entro un percorso di Ricerca Collaborativa. La creazione del movimento e della trasformazione è data dal desiderio di rappresentare il dinamismo che si è potuto osservare a partire dai dati della ricerca. Riprendendo i componenti del dispositivo sono stati individuati i seguenti indicatori:
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– i mediatori (prevalenza di mediatori di un medesimo tipo, alternanza di mediatori, coesione fra i mediatori – intesa come capacità dei diversi mediatori di supportare l’evoluzione dell’apprendere -); – la tipologia delle domande poste dal docente (a risposta “attesa”, a risposta “possibile fra altre”, a risposta interpretata dallo studente); – le operazioni cognitive indotte dai materiali e dalla consegna (esecutive e ripetitive, di selezione e riorganizzazione, di associazione/relazione, di riflessione); – la gestione di tempi e spazi (relazione quantitativa tra tempo e compito, tra organizzazione della classe e compito, lavoro a gruppi – a coppie, individuale –); – la presenza della problematizzazione (se nel compito vi è la necessità di definire o affrontare un problema); – la presenza di una valutazione (modalità di restituzione allo studente circa il lavoro che ha fatto o sta facendo) e dell’auto-co-valutazione (presenza di artefatti o processi per l’autovalutazione individuale o tra pari); – la produzione di artefatti individuali e collettivi e la loro funzione in rapporto all’obiettivo (previsti dal compito).
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Si è deciso di rappresentare le problematiche relative all’oggetto culturale, al dispositivo, alle tensioni (es. assenza, debolezza, incoerenza,…) con il tratteggio o la spaccatura (a seconda dell’intensità). Più gli elementi si presentano fra loro connessi positivamente (es. mediatori che forniscono un messaggio ben compreso dagli studenti e tempi adeguati al compito in rapporto all’obiettivo), più il dispositivo interpretato con le Ricorrenze è forte, e quindi segnato da un tratto grafico continuo e marcato; inoltre, se il compito si caratterizza come problematizzante e richiede un processo auto-valutativo, lo spazio d’azione dello studente risulta più ampio. Quest’ultimo è rappresentato da un ventaglio che si apre o si chiude in ragione delle dinamiche connesse alla possibilità di devoluzione dello studente che si osservano in azione (ad esempio il rispetto da parte degli attori di un contratto didattico “costringente”, dunque alle attese dell’insegnante, di interventi inibitori o meno degli insegnanti, o la presenza di interventi generativi di sapere da parte degli alunni…) . 3.4 Esemplificazione di un’analisi Si riporta un esempio di configurazione del modello elaborato per descrivere l’insegnamento, riferito ad una sequenza di 25 minuti relativa ad una lezione in una classe terza primaria in cui veniva introdotto un nuovo argomento nell’ambito della disciplina geo-storia da parte dell’insegnante (videoregistrazione del 5 marzo ). La rappresentazione che emerge è condivisa dall’insegnante che ha contribuito alla ricostruzione e spiegazione di alcuni passaggi dell’azione osservata. Come si può osservare, gli elementi grafici hanno subito diverse modifiche dando origine ad un sistema organizzato in modo differente (Fig. 4).
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Fig. 3 - Movimento del modello- prima analisi
L’oggetto culturale sul quale si fonda l’obiettivo della lezione (“comprendere come è apparso l’uomo e il processo di ominazione”) è tratteggiato e spezzato perché fin dalla fase di progettazione (intervista di esplicitazione del 27 febbraio) non si ravvisa una chiarezza concettuale sul concetto di ominazione tale da permettere all’insegnante di costruire una visione d’insieme della diffusione dell’uomo sulla terra a livello geo-storico. La scelta operata dall’insegnante rispecchia una sequenzialità lineare (prima, poi) che non pone in luce quegli aspetti di contemporaneità, di diversificazione delle traiettorie di sviluppo dell’uomo implicita nel processo di ominazione. Tale linearità contribuisce a offuscare eventuali passaggi riconosciuti come stimoli essenziali alla problematizzazione nell’ambito della geo-storia. In azione (videoregistrazione del 5 marzo) si osserva la scelta di diversi mediatori (simbolici, iconici) a corredo di un mediatore analogico: la simulazione di un viaggio nel tempo per coinvolgere anche emotivamente l’alunno e suscitare in lui la curiosità e quindi il meravigliarsi delle cose del mondo. Tale scelta trova giustificazione nelle convinzioni espresse dall’insegnante emerse dai dati raccolti attraverso le interviste per l’esplicitazione (sia semplice che per la decifrazione di senso): la meraviglia assume un ruolo essenziale per l’apprendimento (ad es. “la meraviglia è uno dei valori che bisognerebbe andare a ricercare perché loro danno tutto per scontato” A. intervista di esplicitazione del 22 gennaio). Questa concezione dell’insegnante trova un posto di rilievo importante nel contratto didattico: come si può rilevare dalle parole degli alunni. L’emozione, propedeutica alla meraviglia, è un concetto presente svariate volte nelle loro interviste: G: Ci ha fatto prendere i libri dell’uomo, ognuno quello che voleva […] V. ha detto siamo emozionati perché dobbiamo fare un viaggio. […] A. ha detto siamo emozionati: andiamo a fare un viaggio. (intervista con gli alunni, successiva alla lezione videoregistrata il 5 marzo)
Anche la diversità dei mediatori utilizzati, che nelle interviste con A. risulta ispirata dalla convinzione che lo studente per sviluppare uno spirito critico debba poter attingere a diverse prospettive interpretative su un medesimo fatto, si ripresenta nelle interviste agli alunni:
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Intervistatore: Cosa sono queste cose? A cosa servono? F: Per imparare. Dobbiamo imparare l’evoluzione, sapere la storia, quindi… Intervistatore: E per impararla ti servono la mitologia, la religione, la storia? F: Tante cose, sì! (intervista con gli alunni, successiva alla lezione videoregistrata il 5 marzo)
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Pur se la gestione dell’ambiente, con i bambini seduti in circolo e chiamati ad esprimere a turno le proprie opinioni (situazione presente nelle ricorrenze), dovrebbe favorire una circolarità e la partecipazione attiva degli alunni, i contenuti del dialogo non rafforzano l’oggetto culturale. Nella conduzione in aula si ravvisa una percentuale molto alta di domande retoriche alle quali gli alunni possono solo rispondere ciò che l’insegnante ha appena detto (37%) o di domande chiuse a risposta chiusa (34%). Le restanti domande sono riferite alla sfera emotiva (15%) o sono un invito a rispondere alle precedenti (14%). L’insegnante occupa un “importante” tempo di parola e gestisce l’attenzione curando gli aspetti emozionali. La problematizzazione viene interpretata dall’insegnante come insieme di richieste di spiegazioni o domande volte a suscitare la curiosità più che il dubbio o il conflitto sulle informazioni alle quali stavano accedendo durante la lezione (intervista di esplicitazione del 27 febbraio). Le operazioni cognitive richieste dal compito sono riferibili alla selezione e organizzazione di informazioni finalizzate a ricostruire il processo di ominazione. Nel sistema che si viene a creare in questa lezione, si osserva uno studente che si “adegua” al tipo di ricorrenze nelle quali viene coinvolto ed esegue i compiti previsti dal dispositivo senza manifestare un processo di integrazione delle conoscenze e senza porre questioni particolarmente utili all’appropriazione del sapere. Solo in un caso, (intervista con gli alunni, successiva alla lezione videoregistrata il 5 marzo), un’alunna ha riferito di essersi posta la domanda del perché l’uomo vive sulla terra ma tale questione non è stata effettivamente affrontata in classe. Le problematiche emerse dall’analisi dell’azione didattica secondo gli indicatori suggeriti, fanno emergere un disequilibrio fra i poli caratterizzanti la situazione didattica. Alla base di questo disequilibrio vi è una tensione problematica a livello di trasposizione didattica, di cui l’insegnante inizia a prendere consapevolezza – dichiarando la propria difficoltà nella scelta dei mediatori – in occasione dell’incontro con i ricercatori per analizzare il video. “Magari tengo in considerazione troppo il mio punto di vista e quello che serve a me piuttosto che quello che serve a loro” (intervista di esplicitazione per la decifrazione di senso del 18 marzo). Consapevole della difficoltà vissuta dagli studenti nel rapporto con l’oggetto culturale decide di chiedere aiuto anche ad un ricercatore – esperto di geo-storia – per acquisire conoscenze su altri tipi di materiali che aiutino la classe a costruire una visione più complessa del processo di ominazione. Nell’ultima lezione videoregistrata si può osservare l’insegnante impegnata ad analizzare, insieme alla classe, un’animazione multimediale, un mediatore estremamente diverso da quelli solitamente utilizzati. Questa scelta, operata insieme al ricercatore, ha comportato per l’insegnante un approfondimento disciplinare e, per la sua struttura intrinseca, ha posto le condizioni per una modifica sostanziale dell’organizzazione delle ricorrenze. Di conseguenza, l’insegnante ha cambiato quella routine costringente consolidata nel contratto didattico, dando maggiore possibilità interpretativa e di problematizzazione agli studenti. L’analisi delle informazioni contenute nell’animazione multimediale ha originato processi di deduzione e formulazione delle ipotesi, ha posto la classe nella possibilità di
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confrontare elementi e di porre questioni che successivamente sono diventate oggetto di studio collettivo. Anche nelle precedenti lezioni l’insegnante raccoglieva “quello che gli alunni avrebbero voluto sapere” ma tali curiosità non sempre avevano una possibilità di risposta o venivano adeguatamente soddisfatte. In questo caso i quesiti erano fondati su elementi osservati e attivavano una ricerca mirata utile a dare una risposta alle diverse curiosità quasi in tempo reale e a costruire, con l’aiuto della traccia geo-storica fornita dal mediatore, una visione di insieme al contempo globale e particolare. L’insegnante, analizzando il video di quest’ultima lezione, ha potuto notare, insieme ai ricercatori, l’importanza del sapere di cui era “impregnato” il mediatore, coerenza che da un lato consentiva la non dispersione delle informazioni, dall’altro permetteva di operare approfondimenti alimentando un rapporto efficace fra lo spazio d’azione dello studente e l’oggetto culturale in tempi sostenibili. Il centro dell’attenzione delle interazioni insegnante-alunno è divenuto il mediatore: questo è stato permesso da un’organizzazione spaziale adeguata degli alunni, che hanno avuto un accesso agevole al materiale e alle consegne, ma anche dalla diminuzione dello spazio di parola dell’insegnante a favore dell’animazione presentata. Se in precedenza erano poste domande di tipo esplorativo-emotivo, in quest’occasione i quesiti nascevano da processi deduttivi, miranti soprattutto alla costruzione di un sapere e non alla libera espressione personale. Il tempo di parola dell’insegnante si è ridotto anche perché gli alunni hanno iniziato a manifestare osservazioni, a discutere tra loro, ponendo questioni dirette al docente solo per comprendere ciò che non riuscivano a ricavare autonomamente. Il cambiamento di gestione della lezione appena descritto è stato colto anche dagli alunni di A. e valutato da questi positivamente, ad esclusione di G., l’alunno che meglio interpretava il contratto didattico.
Conclusioni Per supportare l’insegnante nell’analisi della propria azione didattica, in relazione al proprio ruolo nel favorire l’incontro autonomo ed intenzionale dello studente con l’oggetto culturale, sembra – in definitiva – possibile percorrere tre traiettorie di analisi secondo le quali lo spazio d’azione dello studente si amplia o si riduce: 1. i vincoli e le regole d’azione posti in essere dal dispositivo; 2. le strategie di risposta dello studente e la sua devoluzione; 3. la gestione del registro epistemico, relazionale e organizzativo da parte dell’insegnante. La modellizzazione descritta presenta delle potenzialità e problematiche. Pur nel tentativo di tracciare “tutto ciò che era osservabile e comprensibile” il modello rappresenta una particolare visione dell’insegnamento agito che nasce dai dati contestualizzati, e quindi limitati, ma che possono essere incrementati operando un’analisi su altre lezioni con diversi insegnanti. La tipologia di indicatori e di elementi era finalizzata alla descrizione della situazione, mentre la messa in relazione fra i vari dati (es. consegna, domande dello studente, struttura del compito, azioni dello studente, supporto fornito dal docente) ha permesso di fornire una interpretazione plausibile di funzionamento, avvalendosi di una visione sistemica. Un aspetto che si è voluto evidenziare è che non vi è alcuna “buona pratica” da imitare o riprodurre, la modellizzazione non è funzionale a individuare percorsi
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didattici efficaci, bensì a sostenere efficaci processi di analisi e riflessione dell’insegnante per comprendere la propria pratica. È quindi un sapere-strumento che nasce da una ricerca che può essere stata anche formativa, ma che soprattutto ha prodotto “occasioni” per andare più in profondità alle dimensioni che caratterizzano l’insegnamento agito.
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Il questionario per la rilevazione dei profili pedagogici degli allenatori: per un contributo alla ricerca in pedagogia dello sport Emanuele Isidori • Università degli Studi di Roma “Foro Italico” • emanuele.isidori@uniroma4.it Mascia Migliorati • Università degli Studi di Roma “Foro Italico” • mmigliorati@sorrisinelmondo.it Rafael Ramos Echazarreta • Comunita Autonoma de La Rioja (Spagna) • ramos.echazarreta@gmail.com Claudia Maulini • Università degli Studi di Roma “Foro Italico” • claudia.maulini@uniroma4.it
The questionnaire for detecting the pedagogical profiles of sports coaches: a contribution to the research in sport pedagogy The purpose of this research is to show the process to build and validate an effective research tool that can be used by sports coaches as a means to develop awareness of their pedagogical function in the perspective of self-training. This study will show, in light of a sports pedagogy perspective, the quali-quantitative methodology that was used for the construction and final validation of a questionnaire based on a Likert scale capable not only to detect the pedagogical profiles of team sports coaches, but also to be replicated and reused in all similar contexts.
Parole chiave: pedagogia, allenatore, formazione, sport, questionario, profilo pedagogico
Keywords:pedagogy, coach, training, sport, questionnaire, pedagogical profile
Il presente contributo è frutto della riflessione comune e condivisa dei quattro Autori. In particolare, sono da attribuirsi a Emanuele Isidori i §§ 1, 2, 2.1; a Mascia Migliorati i §§ 2.2, 2.2.1 e il Questionario definitivo; a Rafael Ramos Echazarreta i §§ 2.2.2, 3.2, 3.3, a Claudia Maulini i §§ 3.1, 3.4, Conclusioni.
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Lo scopo di questa ricerca è quello di mostrare il processo sviluppato per costruire e validare un efficace strumento di ricerca che può essere utilizzato dagli allenatori come mezzo per promuovere una consapevolezza della loro funzione pedagogica in una prospettiva di auto-formazione. Questo studio mostrerà, nella prospettiva della pedagogia dello sport, la metodologia quali-quantitativa che è stata utilizzata per la costruzione e validazione definitiva di un questionario basato su una scala Likert in grado non solo di rilevare i profili pedagogici degli allenatori di sport di squadra, ma di essere replicato e riusato in tutti i contesti che si prospettano come simili.
Il questionario per la rilevazione dei profili pedagogici degli allenatori: per un contributo alla ricerca in pedagogia dello sport
1. Introduzione
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Gli allenatori tendono spesso a dimenticare o a non essere consapevoli del fatto che la principale funzione che sono chiamati a svolgere è di tipo educativo e pedagogico, perché questa è la radice storica e culturale dello sport come pratica umana (Hardman & Jones, 2011). Nel panorama delle scienze pedagogiche e dello sport contemporaneo si registra una assenza di strumenti applicativi pensati per la formazione degli allenatori ed in grado di elevare il loro livello di riflessività e di consapevolezza critica riguardo alla funzione educativa che debbono svolgere. Questo è stato il punto di partenza principale di questa ricerca, che ha inteso costruire uno strumento in grado di rilevare i profili pedagogici degli allenatori di uno sport di squadra come il calcio, che si presenta in Italia come il più diffuso e praticato (CONI, 2014). L’assenza di un riconoscimento da parte dell’allenatore della funzione educativa che ricopre, causata dalla formazione prevalentemente tecnica che ha ricevuto, può avere ripercussioni sul piano dello sviluppo di una sensibilità e di una coscienza etica (Benetton, 2012; Isidori, Benetton, 2014). È necessario, pertanto, che ogni allenatore acquisti consapevolezza della sua azione educativa e prenda coscienza che tale azione educativa si colloca sempre in un profilo pedagogico personale.
2. Obiettivi, fasi e metodi di ricerca La costruzione e la rilevazione dei profili pedagogici degli allenatori di calcio, obiettivo del presente studio, è stata resa difficile soprattutto dall’assenza di una letteratura specifica di riferimento e di esempi. L’ipotesi di partenza della ricerca è stata pensata seguendo le linee delle attuali teorie pedagogiche, le quali affermano che gli allenatori possono essere considerati a tutti gli effetti degli insegnanti; pertanto, nella ricerca sui problemi della loro formazione debbono essere utilizzate le stesse metodologie usate per la ricerca sulla formazione degli insegnanti (Jones, 2006). Partendo da queste premesse, il nostro studio si è articolato in due parti ben distinte, ognuna con i suoi obiettivi e le sue specifiche fasi di ricerca; vale a dire: a) Una prima fase, dove si sono concentrate le attività di ricerca teoretica, in cui si è utilizzato il metodo storico ed ermeneutico-decostruttivo della ricerca educativa per giungere ad una definizione operativa del concetto di “profilo pedagogico”, individuare le diverse possibili tipologie di profili specifici per gli allenatori e mettere così a punto gli items per il questionario finale; b) Una seconda fase, dove invece si sono concentrate le attività di ricerca applicata, di tipo descrittivo e statistico, finalizzate alla costruzione e validazione statistica del questionario costruito sulla base della definizione operativa, delle tipologie di profilo e degli items del questionario redatte nella prima parte della ricerca.
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Si è scelto di adottare una metodologia di ricerca di tipo quali-quantitativo, consapevoli della complessità del tema e dei limiti che, per questo studio, l’uso del solo metodo qualitativo o di quello quantitativo poteva comportare. 2.1 L’analisi della letteratura ed il focus group di esperti Il primo blocco di attività di ricerca ha avuto lo scopo di arrivare ad una definizione operativa di profilo pedagogico dell’allenatore, individuandone caratteristiche e tipologie. Dopo una analisi della principale letteratura sull’argomento (Lyle, 2002; Cassidy, Jones, Potrac, 2004; Jones, Armour, Potrac, 2004; Robinson, 2010) e della letteratura sulle teorie pedagogiche e i modelli di formazione degli insegnanti (Chiosso, 1997; de Aquino, García, Hetterschijt, 1997; Isidori 2003; Bertrand, Valois, 1994; Zeichner, 1983) si è giunti alla conclusione che il profilo pedagogico dell’allenatore è un insieme di elementi formato da: 1) una specifica e personale visione del mondo in cui vive da parte dell’allenatore (un “paradigma” o Weltanschauung). 2) un insieme di valori pedagogici di riferimento derivanti dalle visioni del mondo, dalle conoscenze ed esperienze di vita personali riguardanti i contenuti, i significati ed i fini educativi attribuiti all’allenamento nel quadro antropologico dello sport e della sua funzione educativa; 3) una tendenza/orientamento ad agire in vista del perseguimento specifico dei valori che, secondo la propria visione personale, l’allenatore ritiene desiderabili nel processo di allenamento-insegnamento. Il profilo pedagogico si identifica, insomma, con una sorta di filosofia educativa dell’allenamento costruita sulla base di un “modello” pedagogico di riferimento ed orientata sul piano didattico e dell’insegnamento-allenamento secondo i contenuti, i valori e le finalità presenti nel “modello” pedagogico, più o meno strutturato e preso come riferimento (per lo più inconsapevolmente), da parte dell’allenatore. L’allenamento è, in primo luogo, una pratica pedagogica che veicola valori (o disvalori, e nel qual caso non è più tale) che sono sempre connessi alla visione generale che ogni allenatore ha di se stesso, della società e della persona umana. L’allenatore, come si è detto, tende spesso a dimenticare questa prospettiva, a non essere consapevole che la sua azione, più o meno tacitamente, veicola e deve veicolare sempre valori educativi nei suoi atleti (Lee, 1993; Farné, 2008; Hardman, Jones, 2011; Isidori, 2003; Isidori, Fraile, 2008; Isidori, Fraile, 2011). Pertanto, attraverso l’analisi di alcuni testi specifici della letteratura (Semel, 2001; Davis, 1963), e la creazione di uno specifico focus-group di 7 esperti (2 esperti in filosofia dell’educazione e dello sport; 1 esperto di psicologia dello sport; 4 esperti di pedagogia dello sport e dell’allenamento) centrato sulla libera discussione e sul confronto tra i partecipanti (Cohen, Manion & Morrison, 2007; Gratton & Jones, 2004), sono stati individuati cinque profili pedagogici di allenatore, vale a dire: 1) 2) 3) 4) 5)
un profilo esistenzialista; un profilo idealista; un profilo pragmatista; un profilo realista; un profilo socio-critico.
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Nonostante si sia giunti all’individuazione – tramite l’analisi della letteratura – a questi cinque profili, è importante sottolineare che sin dall’avviamento della ricerca si è pensato che questi profili si sarebbero presentati fluidi e frammentati, interconnessi l’uno con l’altro in parti, semiparti o frammenti. I profili sono caratterizzati da diverse dimensioni, non esauribili in un unico orientamento da parte di un allenatore che lo preferisce in modo definitivo rispetto agli altri (i profili possono infatti variare, ad esempio, a seguito di una ulteriore formazione ricevuta e di nuove esperienze). Gli esperti del focus group sono stati invitati a definire questi profili rispondendo a 3 domande chiave di seguito riportate e ripetute per i 5 profili individuati (3x5) (esistenzialista; idealista, pragmatista; realista; socio-critico): 1) Secondo te, quale visione dell’uomo e della sua relazione con lo sport, viene proposta dal profilo… 2) Secondo te, quali implicazioni valoriali legate allo sport in termini di significati, scopi e obiettivi esprime il profilo… 3) Secondo te, quali tecniche di insegnamento-allenamento usa in prospettiva l’allenatore che presenta un profilo...
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Ai partecipanti al focus group è stato chiesto di essere quanto più brevi e sintetici possibile nelle risposte. Si è proceduto quindi alla raccolta delle risposte che sono state poi lette in concomitanza di ogni profilo, dando avvio ad un libero confronto attivo ed un’ampia discussione. È stato, infine, prodotto un documento approvato da tutti i membri del gruppo che di seguito sintetizziamo. I dati qualitativi emersi dal focus group e generati dalle tre domande sono stati vagliati attraverso la tecnica della content analysis (Losito, 2002). Ciò ha permesso di delineare, per ciascun profilo pedagogico le seguenti caratteristiche generali. 1) Profilo pragmatista. I partecipanti al focus group sono stati concordi nell’affermare che questa visione filosofica si rifà principalmente alle teorie del filosofo americano John Dewey (1859-1952). Alla base del pensiero di Dewey vi è il concetto di esperienza, intesa come rapporto tra uomo ed ambiente, in cui gli esseri umani non sono meri spettatori ma interagiscono con il mondo circostante e con gli altri. L’uomo apprende liberamente dall’esperienza concreta, nell’azione, nella pratica e nel contatto con le altre persone. L’apprendimento è sempre il frutto di un interesse pratico del soggetto, che proprio in questo interesse trova la sua motivazione ad imparare. Ogni esperienza può diventare educativa ed arricchire la persona se tale esperienza viene vissuta in un ambiente che accetta il pluralismo delle opinioni dei gruppi e riconosce il diritto del singolo ad esprimere la propria creatività in nome della libertà e della democrazia. Il profilo pragmatista dell’allenamento presuppone una vasta selezione di possibili sport e di tipologie di attività fisiche. La varietà rappresenta una espansione dell’esperienza e una possibilità di aperture verso nuovi apprendimenti. Secondo i partecipanti del focus-group, la visione pragmatista dell’allenamento presuppone la scelta di attività come i giochi di squadra che migliorano la cooperazione e la risoluzione dei conflitti. Applicata ad un contesto formale come ad esempio la scuola, questa visione tende ad evitare l’uso di esercizi formali giornalieri e qualsiasi tipo di routine. Nel profilo pragmatista, la tradizione di per se stessa suscita poco rispetto, presuppone una comunicazione non direttiva e permette alle persone di passare molto tempo a realizzare esercizi esplorativi. Lo scambio di idee, la collaborazione, la partecipazione attiva sono ritenuti fondamentali.
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2) Profilo idealista. Questa profilo privilegia la dimensione ideale rispetto a quella materiale, affermando che l’unico vero carattere della realtà è di ordine spirituale ed etico. L’uomo deve sempre conformare la sua vita ai principi del dovere e della morale. L’allenatore che abbraccia questa visione filosofica crede di sapere che cosa è meglio ed è bene per i suoi atleti. Le scelte di ciò che insegna nell’allenamento non si focalizzano in modo specifico sui contenuti tecnici proposti dalla scienza dell’allenamento ma su concetti ideali. Il profilo idealista pone l’accento sui valori morali e spirituali delle esperienze legate allo sport. Le attività sportive non sono importanti per se stesse (così anche la competizione sportiva) ma come strumenti per il perseguimento di fini morali o spirituali predeterminati. Tale profilo presuppone una visione dell’insegnamento-allenamento centrata sulla discussione, sull’analisi e sulla presa di decisioni riguardo, ad esempio, al fair play, alle scelte etiche ed al comportamento morale che lo sport, soprattutto nella sua forma competitiva, prospetta. Nel profilo idealista i valori sono considerati più importanti della prestazione sportiva. L’autoformazione è considerata centrale. L’allenatore che predilige questo profilo tende ad incoraggiare gli sforzi creativi, l’autoiniziativa, l’autocontrollo, la presa di decisioni e l’analisi della performance nello sport, in quanto si ritiene che portino alla formulazione di giudizi di valore. 3) Profilo positivista. Il positivismo ripone grande fiducia nell’oggettività della scienza, esalta la razionalità e fa affidamento sulle capacità organizzative e metodologiche dell’uomo. L’allenatore che segue un profilo positivista cerca di selezionare attività fisiche e sportive che possono essere scientificamente o almeno oggettivamente determinate, e tende a sviluppare attività che accrescono il vigore fisico, il controllo neuromuscolare, ed unificano la dimensione intellettuale con quella fisica. Chi segue questo profilo tende, inoltre, ad utilizzare test e misurazioni per verificare la preparazione (soprattutto fisica) degli atleti e l’efficacia dell’allenamento, rifiutando l’approccio soggettivo e personale. L’insegnamento-allenamento viene per lo più attuato attraverso metodologie che vanno dalle parti al tutto (induttivo)e prevede una organizzazione sistematica e sequenziale dei contenuti. 4) Profilo esistenzialista. In questo profilo è centrale il concetto di esistenza dell’uomo così come concepito dall’Esistenzialismo, che vede il mondo e la vita dell’uomo come qualcosa di precario e di temporale ma al tempo stesso anche di contingente e dinamico. Questo profilo valorizza la dimensione soggettiva della conoscenza, del comportamento e della relazione con gli altri, ed evidenzia il carattere di incertezza della vita umana. Nella visione che questo profilo prospetta, non è possibile predeterminare o stabilire a priori l’esperienza dell’allenamento sia come insegnamento (visto quindi dalla parte dell’allenatore) che come apprendimento (visto dalla parte dell’atleta): infatti è lo stesso atleta che dovrebbe selezionare ciò che deve essere appreso nell’allenamento. Nel prendere le decisioni, l’atleta, in quanto soggetto da educare e formare, costruisce il suo sistema di valori e diventa responsabile per ciò che è, pensa e sente. L’allenatore è indifferente nei confronti di obiettivi misurabili, anche se, come facilitatore dell’apprendimento di contenuti, può organizzare sessioni di allenamento-formazione, in modo che gli atleti possano arrivare da soli agli obiettivi che intendano perseguire. L’allenatore che segue un profilo esistenzialista non ama la supervisione stretta degli atleti e neppure la disciplina rigorosa; egli tende a valutare, più che il perseguimento degli obiettivi, la capacità autonoma dell’atleta di comprendere gli scopi, gli effetti ed i valori dello sport in genere e dello sport specifico per cui si sta allenando. Per questo, l’atleta viene sempre lasciato libero di
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adattare, in piena libertà, l’allenamento in base ai suoi interessi e bisogni specifici senza una diretta ingerenza dell’allenatore.
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5) Profilo socio-critico. Questo profilo, che i partecipanti al focus group hanno immediatamente identificato con quello ispirato dalle teorie sociali della Scuola di Francoforte, parte dal presupposto che lo sport non finisce mai sul campo di gioco, dentro i muri delle palestre e degli impianti sportivi o sulle piste, ma continua anche fuori, nella società. Lo sport presuppone sempre una dimensione politica ed è la cartina di tornasole del livello di democrazia raggiunto dalla società. Il profilo socio-critico presuppone una fiducia nella capacità trasformativa – in senso migliorativo – dello sport per le persone. I valori e lo sviluppo del pensiero critico-riflessivo in opposizione al puro rendimento ed alla performance, sono i principali obiettivi dell’allenamento sportivo di chi adotta questo profilo. Valori come “inclusione”, “equità” e “giustizia” danno senso allo sport in generale ed alla pratica dell’allenamento in particolare, e sono più importanti di quelli legati al “rendimento” ed alla “vittoria” intesa come conseguimento del risultato finale ad ogni costo e mero scopo della competizione. L’adozione di questo profilo da parte dell’allenatore presuppone un utilizzo permanente del dialogo e della comunicazione democratica con i suoi atleti ed una concezione della relazione di insegnamento-allenamento come una relazione complementare tra pari e mai asimmetrica (one up-one down, per intenderci). Da chi adotta questo profilo, la funzione di allenatore viene concepita come un princeps inter pares. L’allenatore stimola i suoi atleti, li motiva attraverso il dialogo continuo di gruppo e li invita alla condivisione delle esperienze, svolgendo la funzione di facilitatore dell’allenamento-apprendimento che ha come scopo principale quello di promuovere la libera creatività motoria e tattica quando si trovano a giocare e a confrontarsi con gli altri nelle competizioni. 2.2 La costruzione dello strumento di rilevazione Una volta identificate e descritte le linee generali dei 5 profili pedagogici, ci si è trovati dinanzi alla difficoltà di dover tradurre in un modo più concreto, in reali definizioni operative, quegli assunti ancora troppo generali affinché potessero essere trasformati in affermazioni in grado di rivelare atteggiamenti e comportamenti concreti degli allenatori che operano nel contesto di uno sport di squadra (come il calcio giovanile, ad esempio). Per far questo, si è chiesto nuovamente a ciascuno dei 7 esperti del focus group di formulare, partendo dai 5 paradigmi, un minimo di 2 e un massimo di 6 affermazioni per ciascuna delle tre seguenti categorie considerate fondamentali nell’azione didattica che l’allenamento, in quanto sistema, presuppone, vale a dire: a) l’organizzazione e l’interazione comunicativa; b) la valutazione della performance; c) le modalità di allenamento. Queste categorie sono state considerate fondamentali in quanto l’allenamento si configura come un insieme di azioni di insegnamento e di apprendimento che si trovano in continua interazione tra di loro. Tali azioni implicano specifici comportamenti da parte dell’allenatore che, in quanto formatore specializzato, è chiamato ad organizzare la sessione di allenamento basandola sempre su una specifica
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interazione comunicativa (direttiva o non direttiva, ad esempio; oppure formale o informale); a valutare in termini di efficacia rispetto agli obiettivi da raggiungere la prestazione degli atleti; a preferire una specifica modalità di allenamento piuttosto che un’altra (basata più sulla preparazione fisica, ad esempio, oppure sulla collaborazione con il gruppo, ecc.). Le affermazioni raccolte sono state confrontate con le descrizioni dei profili e si è proceduto, dopo un’ampia discussione con gli esperti del focus group, a renderle semanticamente e sintatticamente chiare eliminando quelle poco chiare, ripetute o non rispondenti al profilo a cui intendevano riferirsi. Si è stabilito di selezionare 125 affermazioni – le più chiare – tra quelle messe a punto dal gruppo di partecipanti al focus group: ciò in modo tale da associare ad ogni paradigma 25 affermazioni. Questa operazione è stata fatta compiendo una ulteriore analisi delle affermazioni, utilizzando la tecnica dell’analisi linguistica (Pearson, 1990). In questa fase si è giunti alla conclusione, peraltro già maturata durante le prime discussioni di gruppo, che la scala Likert ed il metodo di classificazione addizionata (summated ratings) fossero in assoluto i più adatti alla rilevazione di questi profili e quelli meglio in grado di far emergere gli aspetti nascosti, i pregiudizi e le convinzioni tacitamente radicate nei comportamenti attuati dagli allenatori nelle situazioni di allenamento. 2.2.1 La costruzione della scala Si è poi proceduto con l’obiettivo di preparare un questionario che rispondesse pienamente ai principi di comprensibilità richiesti basato su una scala di rilevazione di tipo Likert (Heinemann, 2003). Le 125 affermazioni sono state quindi formulate rispettando i principi metodologici richiesti dalla ricerca qualitativa, dalla tecnica del questionario e della scala Likert (Thomas, Nelson, Silverman, 2005). Le 125 affermazioni sono state poi raggruppate sulla base dei 5 profili che intendevano rilevare. Le frasi sono state dunque preparate per essere trasformate in items pronti per essere misurati secondo la scala scelta. Si è attribuito quindi un valore da 1 a 5 per rilevare il grado di accordo con le 125 affermazioni, secondo la seguente scala di 5 categorie: !"#$%&'
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&5"*+),,-%*-"&5"3&"*30),,-%*-"
6"
)//)01)&2)"*+),,-%*-"
7"
,-8#($1)8$&1$"*+),,-%*-"
È stata preparata una bozza di questionario composto da 125 affermazioni (da ora in poi indicate come items del questionario). Gli items erano strutturati in modo da rilevare, in sequenza, i 5 paradigmi secondo il seguente ordine: pragmatista, idealista, positivista, esistenzialista, sociocritico. Il questionario di prova (QP) è stato sottoposto ai 7 membri del focus goup, a 4 allenatori di calcio e ad altri 4 insegnanti di educazione fisica con esperienza di allenamento in diversi sport (15 soggetti in tutto). È stato chiesto a ciascuno di
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compilare il questionario e di annotare le proprie opinioni riguardo a due requisiti fondamentali, vale a dire: alla chiarezza sintattica e semantica degli items e alla facilità di compilazione (ossia chiarezza delle istruzioni e del format di risposta; adeguato tempo di somministrazione). I QP sono stati poi analizzati. I punteggi di ciascuno dei soggetti sono stati ottenuti facendo la somma dei punteggi conseguiti da ogni soggetto in ciascuno dei 5 profili. Per ciascun soggetto è stata quindi evidenziata la sequenza dei profili di preferenza a partire dal profilo con il punteggio più alto fino a quello più basso. Si è stabilito un incontro per discutere sui risultati emersi dal QP nel suo primo uso interno. Nella discussione il gruppo di ricercatori e di formatori sportivi ha affermato, in linea generale, di riconoscersi nei dati emersi dal questionario. Si è preso coscienza che la costruzione di uno strumento di rilevazione come il nostro questionario avrebbe comportato il complesso problema della validazione della scala su cui era basato e che la validazione non poteva essere meramente quantitativa ma anche qualitativa; o meglio che essa doveva trovare un giusto equilibrio tra queste due dimensioni. Nel caso del nostro questionario, come già si è detto, il lavoro di validazione non poteva contare sull’utilizzazione di scale testate da gruppi di lavoro riconosciuti all’interno della comunità scientifica. Si è quindi partiti dalla consapevolezza che la validazione della scala e del questionario nel suo complesso, trattandosi di uno strumento originale costruito ex-novo, avrebbe dovuto soddisfare necessariamente i tre principi fondamentali della ricerca empirica in pedagogia, vale a dire il principio della validità, dell’attendibilità/riproducibilità e della comparabilità dei risultati. Si è stabilito, pertanto, di compiere un pre-test o test pilota del questionario con un campione più allargato di allenatori di calcio giovanile in modo da avere così un maggior numero di dati statistici da elaborare. Il pre-test del questionario aveva come obiettivi fondamentali: la verifica della comprensibilità degli items; la verifica della struttura logica degli items considerati sia singolarmente sia nel loro ordine-sequenza complessivo; il controllo dei tempi di somministrazione. 2.2.2 La scelta del campione dello studio pilota Al fine di testare e validare il questionario, si è quindi proceduto ad effettuare uno studio pilota con un gruppo di 45 persone rappresentate da allenatori della Scuola Calcio Lodigiani e da studenti di scienze dello sport (con esperienza nell’insegnamento nel calcio giovanile) dell’Università di Roma “Foro Italico”. I due gruppi sono stati scelti perché presentavano caratteristiche “ideali” rispetto allo studio pilota: gli allenatori della scuola Calcio Lodigiani sono stati scelti per l’omogeneità in termini di numero, formazione pedagogica ed esperienza di attività di insegnamento; gli studenti dell’Università “Foro Italico” di Roma, per la presenza nel loro curricolo formativo di un’ampia gamma di discipline pedagogiche, per la diversa e variegata provenienza geografica e per il loro background culturale e sportivo. Nel caso di questi studenti, è stata richiesta una specifica esperienza, anche breve, come allenatori di calcio giovanile. Lo studio pilota ha potuto contare su partecipanti fortemente motivati e interessati al tema della ricerca, che hanno rivelato una elevata disponibilità durante tutte le diverse varie fasi della ricerca. I dati ricavati dal questionario sono stati introdotti nel programma statistico SPSS 21.0 ed analizzati.
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3. La costruzione del questionario finale 3.1 L’analisi della capacità discriminante degli items Per l’ulteriore validazione del questionario si è quindi proceduto ad effettuare la discriminazione degli items del questionario tra i soggetti che hanno dato risposte “coerenti” (nel senso di pienamente rispondenti ad un profilo) ad una intera lista di items, e quelli che, rispetto a questa stessa lista, hanno dato risposte scarsamente coerenti (Thomas, Nelson, Silverman, 2005). Si è diviso l’insieme di coloro che avevano compilato il questionario per la rilevazione dei profili pedagogici in due gruppi (uno superiore ed uno inferiore) composti ciascuno dalla metà del campione (50%), vale a dire: 1) un gruppo “a”, superiore, nel quale sono stati raggruppati coloro che avevano risposto coerentemente al maggior numero di items; 2) un gruppo “b”, inferiore, nel quale sono stati invece raggruppati i soggetti che avevano risposto coerentemente ad un minore numero di items. Si è quindi proceduto al calcolo dell’indice di discriminazione (ID) secondo la formula: ID = (na – nb) / n dove na è il numero delle persone che hanno risposto correttamente al più alto numero di items, mentre nb è il numero delle persone che hanno risposto correttamente ad un basso numero di items, ed n il totale sia del gruppo superiore che di quello inferiore. L’indice di attendibilità/affidabilità degli items è stato individuato nella relazione tra le risposte ad ogni items e la performance totale sul questionario. Si è quindi proceduto a rivedere gli items con un basso indice di discriminazione e ad eliminarli del tutto tenendo conto della seguente tabella: !"#$%&'#$' #$(%)$*$"+,$-"&'.!/0!
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Indice di discriminazione (ID)
3.2 Analisi della struttura logica e linguistica degli item Successivamente, è stata effettuata una seconda analisi linguistica e logica, questa volta più approfondita rispetto a quella condotta sulla prima versione del questionario. In seguito all’esclusione di quelli con scarsa capacità discriminante, sono stati selezionati 60 items.
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In precedenza si era pensato che dando agli items del questionario una sequenza che potesse rispettare almeno un ordine dei paradigmi (Pragmatista-IdealistaPositivista-Esistenzialista-Sociocritico) si avrebbe potuto avere una struttura logica più coerente dello strumento di ricerca e del flusso di items che si susseguivano. Lo studio pilota ha tuttavia evidenziato che l’ordine di items del questionario presentato secondo una sequenza stabilita di paradigmi poteva influire sulla scelta delle preferenze dei soggetti ed generare una certa noia, anche a causa dell’altro numero di items (questo era stato più volte sottolineato nei gruppi di discussione da parte dei partecipanti). Si è quindi proceduto a mescolare, secondo una sequenza del tutto casuale, gli items, facendo attenzione che non presentassero parole e costruzioni verbali simili. 3.3 Affidabilità e consistenza interna del questionario
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Dopo queste operazioni, si è quindi pervenuti alla versione finale del questionario, che è risultato composto di 50 items riguardanti i 5 profili presentati in sequenza casuale. Il questionario è stato successivamente utilizzato in un contesto di ricerca internazionale e somministrato anche ad un gruppo di 100 allenatori di calcio italiani e 100 tedeschi facendo una traduzione ed un adattamento del questionario alla lingua tedesca (questa parte, che rappresenta uno sviluppo ulteriore dello studio pilota, viene qui volutamente tralasciata in quanto il nostro scopo è quello di mostrare come si è proceduto per la costruzione del solo strumento di ricerca). I dati ricavati dal questionario definitivo sono stati introdotti nel programma statistico SPSS 21.0 verificando l’affidabilità dello strumento attraverso il coefficiente Alfa di Cronbach, il cui risultato ha mostrato che gli items del questionario presentavano un elevato grado di affidabilità (a = 0,711). 3.4 Considerazioni sul questionario definitivo Lo studio pilota ed il pre-test svolto sul questionario si sono rivelati passaggi indispensabili per la nostra ricerca. Questa fase fondamentale dello studio ha sostanzialmente messo in evidenza i seguenti punti: 1) Lo strumento di ricerca è risultato pienamente valido e rispondente ai criteri di oggettività che ci si era promessi impegnati a rispettare. 2) Lo strumento di ricerca può essere considerato pronto per essere utilizzato anche in contesti internazionali, potrà essere ulteriormente validato dal punto di vista statistico ed inserito in un quadro di ricerca in fieri di tipo circolare in cui, al tempo stesso, viene usato come strumento di ricerca per raccogliere dati e validato (lo strumento di ricerca è stato già stato tradotto ed adattato, oltre alla lingua tedesca, come accennato in precedenza, anche alle lingue inglese, spagnolo, rumeno e turco). 3) Per validare lo strumento di ricerca è stata utilizzata una metodologia unificata quali-quantitativa basata sulla sequenza circolare (Q-FG-AS):
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Focus-group
Questionario
Analisi statistica
Figura 1. Il processo di validazione dello strumento di ricerca
Tale sequenza, anche se non può essere, in teoria, considerata del tutto “riproducibile” (secondo i termini dell’espistemologia della ricerca cosiddetta “qualitativa”), può essere almeno “analogabile” ad altri contesti. In questo senso, il nostro studio può rappresentare un esempio di buona prassi per la validazione di strumenti di ricerca analoghi o simili, in futuro.
Conclusioni Il questionario che è stato costruito non ha mostrato finora limiti di carattere tecnico. Una delle caratteristiche del questionario è quella talvolta di rilevare la presenza di differenze minime che identificano le differenze di preferenza tra un paradigma filosofico-educativo e l’altro negli allenatori. Riguardo a quest’ultimo punto va detto che si tratta di una tendenza già individuata in studi simili centrati sulla rilevazione dei profili di competenze degli allenatori rispetto a specifici paradigmi pedagogici (Andrade, Graça, Mesquita, 2009). Nel caso del nostro studio, questo è dovuto al fatto che i profili sono fluidi, frammentati e non si presentano mai in una forma “integrale” e “unidirezionale”. In conclusione possiamo dire che con il nostro studio abbiamo voluto costruire uno strumento formativo che vuole essere pedagogico e non semplicemente statistico, in quanto intende rilevare e far prendere coscienza di ciò che è implicito, rendendolo esplicito, mostrando come l’azione educativa dell’allenamento, al pari di qualsiasi altra forma di insegnamento, è sempre influenzata da modi di pensare, pregiudizi, visioni del mondo e filosofie educative che ne determinano strategie e finalità. Il nostro obiettivo era pertanto quello di costruire uno strumento applicativo per la ricerca in pedagogia dello sport. Rispetto a questa specifica area di ricerca, siamo convinti che il questionario possa assolvere a specifiche funzioni pedagogiche che di seguito sintetizziamo: 1) Consente di comprendere l’importanza di più punti di vista nell’approccio all’allenamento sportivo in modo da eliminare (o almeno ridurre) la tendenza a considerare questa pratica formativa un solo problema di natura tecnica, consentendone l’apertura a visioni più umanistiche. 2) Permette agli allenatori di sviluppare un atteggiamento critico-riflessivo, aiutandoli non solo a trasformarsi in professionisti in grado di sviluppare meta-
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riflessioni per pensare l’allenamento in una prospettiva che va oltre la mera situazione di relazione interpersonale centrata sull’insegnamento-apprendimento di tecniche di gioco, ma anche a capire che gli obiettivi dell’allenamento sono sempre educativi ed etici, non solo tecnici. 3) Aiuta gli allenatori a sviluppare un “io pedagogico” consapevole del ruolo e della funzione educativa che spetta loro e che è loro dovere assolvere nel miglior modo possibile. 4) Agevola gli allenatori a pensare l’allenamento in termini di pratica “trasformativa” della società: una pratica che passa attraverso i valori dello sport e la loro costruzione storica e culturale. 5) Valorizza le discipline filosofiche, pedagogiche e della comunicazione educativa nella formazione continua degli allenatori, il cui apporto è sempre stato carente o inesistente.
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Il questionario che abbiamo messo a punto individua i profili pedagogici degli allenatori di calcio, ma potrebbe essere adattato per la rilevazione degli stessi profili negli allenatori di qualsiasi altro sport di squadra. Pertanto, se utilizzato in uno specifico contesto formativo, questo strumento di ricerca potrà fornire agli allenatori una consapevolezza pedagogica in grado di accrescere e sviluppare anche quella etica. La sfida della formazione degli allenatori nel nuovo millennio consiste proprio in questo sviluppo ed accrescimento delle loro competenze etiche. L’obiettivo principale rimane, tuttavia, quello di sviluppare negli allenatori una maggiore riflessività ed un atteggiamento più critico e consapevole nei confronti dello sport competitivo, sviluppando strategie per comprendere meglio la loro azione nel contesto culturale e sociale in cui agiscono. Tutto questo deve essere perseguito in un quadro specifico di obiettivi legati allo sviluppo di una nuova concezione dello sport: uno sport più umano preso come punto di partenza e modello per una società migliore. Desideriamo che questo nostro studio venga interpretato come un invito non solo ad una riflessione sull’allenamento in prospettiva pedagogica ma anche al disegno ed alla progettazione di interventi formativi più completi e validi nel contesto della ricerca educativa nel campo dello sport. Così facendo pensiamo di contribuire alla concezione dello sport in termini pedagogici, soddisfacendo al tempo stesso i bisogni di alcuni dei suoi principali agenti educativi quali sono appunto gli allenatori.
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Appendice Il questionario Si può far precedere il questionario da una richiesta di informazione ad ogni singolo allenatore quali generalità, recapiti, età, genere, titoli di studio e di formazione, anni di esperienza, livello di sport in cui insegnano, tipo di sport, tipologie di soggetti che allenano, ecc. in modo da individuare ulteriori variabili di interesse per la ricerca. Affermazioni Ti chiediamo di riempire il questionario mettendo delle crocette a secondo del tuo grado di accordo o di disaccordo rispetto alle affermazioni che seguono (1=per nulla d’accordo; 2=abbastanza in disaccordo; 3=né d’accordo né in disaccordo; 4=abbastanza d’accordo; 5=completamente d’accordo).
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ePortfolio: l’uso di ambienti online per favorire l’orientamento in itinere nel percorso universitario Concetta La Rocca • Università degli Studi “Roma Tre” • concetta.larocca@uniroma3.it
e-Portfolio: online environments to facilitate on-going guidance at university
This pilot-study concerns the construction of an ePortfolio, carried out by students during the 2013/14 Course of “Didactic of the Educational Guidance”*. The aim is to facilitate the orientation of university students through the documenting of their lived learning experiences and the consequent reflection about them. In particular, a showcase portfolio has been realized using Mahara, an open source platform. The opinions of students, measured by input and output questionnaires related to the research hypothesis (Mahara usability, conception and design of the eP to promote the awareness of the educational process), show they positively experienced metacognition and individual and collegial reflection, as well as some critical issues related to the projection of the instrument in a future working field.
Parole chiave: ePortfolio; piattaforma Mahara; showcase portfolio; orientamento diacronico formativo; riflessione individuale e collettiva
Keywords:ePortfolio; Mahara platform; showcase portfolio; diachronic educational guidance; individual and collective reflection
Questo lavoro nasce nell’ambito del Progetto Innovazioni multimediali nei processi di formazione con adulti professionisti su piattaforme e-learning (2010-2013, prorogato al 2015; Responsabile Scientifico Gaetano Domenici), cofinanziato dalla Regione Lazio e dal Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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In questo studio pilota si dà conto della costruzione di un ePortfolio effettuata dagli studenti del Corso di “Didattica dell’Orientamento”* nell’aa 2013/14. Lo scopo è di favorire l’orientamento in itinere degli studenti universitari attraverso la documentazione delle esperienze formative vissute e della riflessione ad esse relativa. In particolare è stato realizzato uno showcase portfolio su piattaforma open source Mahara. Le opinioni degli studenti, rilevate da questionari in ingresso e uscita, in rapporto alle ipotesi attese (usabilità di Mahara, ideazione e progettazione dell’eP per favorire la consapevolezza del proprio processo formativo), mostrano una ricaduta molto positiva dell’esperienza sulla meta-cognizione, sulla riflessione individuale e collegiale, oltre ad alcune criticità relative alla proiezione dello strumento in un futuro ambito lavorativo.
ePortfolio: l’uso di ambienti online per favorire l’orientamento in itinere nel percorso universitario
To reflect is to look back over what has been done so as to extract the next meanings which are the capital stock for intelligent dealing with further experiences. It is the heart of the intellectual organization and of the disciplined mind. We do not learning from experience. We learn from reflecting on experience. John Dewey, Experience and Education, 1938
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1. Introduzione Nell’ultimo decennio si è assistito ad una notevole diffusione dell’uso dell’e Portfolio nel contesto educativo. Il termine “portfolio” designa una raccolta disomogenea di carte e materiali compiuta da un soggetto per documentare i migliori lavori eseguiti ed, in passato, era utilizzato soprattutto nel campo delle belle arti (Avraamidou, Zembal-Saul, 2002; Meeus, Questier, Derks, 2006). Il portfolio è un insieme di documenti scelti secondo specifici criteri ed accompagnati da riflessioni e descrizioni che illustrano il percorso seguito e gli sforzi praticati per la loro produzione ed ha lo scopo di rendere visibile non solo il risultato ottenuto ma anche il percorso che ne ha consentito il raggiungimento. L’avvento e la diffusione delle tecnologie di rete hanno determinato una progressiva evoluzione del portfolio in uno strumento elettronico che si avvale dell’uso di una interfaccia web-based; ciò ne rende possibile un allestimento più flessibile e dinamico e consente ai soggetti di predisporre una raccolta di dati informativi che siano immediatamente accessibili da chiunque ne abbia interesse. In questa prospettiva un portfolio elettronico, o e Portfolio (d’ora in poi eP), è definito come “una raccolta digitalizzata di artefatti1, ivi comprese le dimostrazioni, le risorse, e i risultati raggiunti che rappresentano un individuo, un gruppo, un’organizzazione, o un’istituzione” (Lorenzo, Ittelson, 2005, p. 2). In campo educativo l’eP può essere utilizzato per promuovere e per dimostrare i livelli di competenza progressivamente raggiunti dagli allievi nel percorso di apprendimento (Brandes, Boskic, 2008; Zubizarreta, 2009), rispondendo agli interessi valutativi dei docenti e a quelli auto-valutativi degli studenti. Moltissimi studi internazionali relativi agli ultimi dieci anni (Galliani et al. 2011; Giovannini , Riccioni, 2011; Bryant, Chittum, 2013) trattano dell’utilizzo di un ePortfolio in ambito universitario e presentano le relative esperienze come
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La parola artefatto si riferisce a differenti tipologie di documenti in formato elettronico (testi, immagini, video, elementi multimediali come blog e wiki) accompagnati da riflessioni e commenti prodotti dal soggetto e da coloro che sono abilitati a farlo.
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estremamente interessanti e soddisfacenti. Essendo l’eP uno strumento flessibile (Turns et al., 2012), i relativi studi empirici mostrano un utilizzo variegato dello stesso, presentandolo come idoneo per la valutazione autentica (Buyarsk, Landis, 2014) e l’autovalutazione (Pitts, Ruggirello, 2012), l’orientamento scolastico (Huang et al., 2012; Swenson Danowitz, 2012) e professionale (Cross, 2012), per la presentazione delle competenze acquisite (Johnsen, 2012), per la rappresentazione di se stessi (Snider, McCarthy, 2012), per la sollecitazione di competenze relazionali e cooperative (Ehiyazaryan-White, 2012; Carpenter et al., 2012), per facilitare l’inserimento nell’ambiente accademico (Singer-Freeman et al., 2014), per favorire un contesto di apprendimento sempre più centrato sullo studente (Eynon et al., 2014). In sintesi, in ambito educativo, i docenti possono utilizzare l’eP per osservare e valutare la progressiva acquisizione documentata delle competenze raggiunte dai propri allievi e possono riferirsi ad esso come ad un’idea regolativa per la progettazione degli interventi didattici e dei curricoli formativi. Gli studenti possono impiegare l’eP per riflettere sul proprio apprendimento e sui propri atteggiamenti, auto-valutandosi rispetto ai risultati raggiunti, o mancati, nelle varie fasi del percorso formativo. Possono così migliorare la comprensione di se stessi e l’autostima per costruire, nel corso del tempo, quel bagaglio di competenze e meta-competenze che consentiranno loro di operare scelte lucide e responsabili per orientare il proprio progetto di vita.
2. Che cos’è un ePortfolio Che cos’è un ePortfolio? Helen Barret (2004)2 riporta la definizione stabilita dal National Learning Infrastructure Initiative (NLII, 2003): Un portafoglio elettronico è la selezione di una raccolta di prove autentiche e diversificate, tratte da un archivio più grande, che rappresenta ciò che una persona o un’organizzazione ha imparato nel corso del tempo, in cui la persona o l’organizzazione si riconosce, ed è progettato per la presentazione a uno o più spettatori in vista di un particolare scopo retorico. Si propone ora un’analisi testuale della definizione fornita in modo da articolare una descrizione puntuale dello strumento: a. Un portafoglio elettronico è la selezione di una raccolta di prove autentiche L’eP è un contenitore elettronico in cui un qualunque soggetto (una persona o un’organizzazione) può inserire le prove del proprio percorso di formazione e/o di lavoro. La locuzione prove autentiche si riferisce al fatto che nell’eP vengono inserite le testimonianze effettive di ciò che un soggetto ha prodotto, trasformato in documenti digitali grazie all’ausilio delle nuove tecnologie. Quindi la documentazione di un fatto può assumere la forma di un file video, audio, di un’immagine, etc. Inoltre è davvero importante evidenziare che le prove autentiche sono costituite sia dal documento che le mostra sia dal commento che il soggetto elabora per presentarle e che accompagna il documento stesso. Ad
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H.C. Barrett, J. Wilkerson (2004). Conflicting Paradigms in Electronic Portfolio. Approaches Choosing an Electronic Portfolio Strategy that Matches your Conceptual Framework. http://electronicportfolios.org/systems/paradigms.html
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esempio è una prova autentica (Wiggins,1990) l’immagine che mostra un lavoro eseguito integrata dalla descrizione di quel lavoro: gli obiettivi a cui abbia risposto, i tempi necessari al suo completamento, il contesto in cui è stato realizzato, le difficoltà affrontate, le soluzioni individuate, etc.; e diversificate – Le prove inserite possono essere diversificate, ovvero per testimoniare le abilità, conoscenze, competenze acquisite nell’ambito di un certo evento formativo, possono essere addotte più prove, con lo scopo di documentare ciò che si è appreso da più prospettive arricchendone così il significato e il valore; tratte da un archivio più grande – Naturalmente l’archivio personale dei documenti che testimoniano il vissuto esperienziale del soggetto è di molto più esteso rispetto alla quantità di prove che di esso sia possibile inserire nell’e Portfolio, per cui il soggetto dovrà operare una selezione di tali prove; che rappresenta – La selezione delle prove sarà evidentemente effettuata in rapporto a ciò che il soggetto ritiene essere la rappresentazione di se stesso. Questo passaggio è molto importante ed offre una visione efficace di una caratteristica dell’eP: è il soggetto che sceglie quali elementi inserire e dunque come costruire il proprio eP; ciò che una persona o un’organizzazione ha imparato nel corso del tempo – La rappresentazione che il soggetto offre di sé selezionando specifiche prove tra le molte possibili, si configura anche come un percorso temporale. L’eP permette una doppia visualizzazione del vissuto del soggetto: una sincronica in quanto presenta un quadro variegato degli eventi, una diacronica perché ne mantiene la tracciabilità storica; in cui la persona o l’organizzazione si riconosce – Il termine riconoscersi arricchisce lo spazio semantico dei termini relativi alla selezione delle prove e della loro rappresentatività: nella costruzione dell’eP il soggetto opererà una scelta delle prove rispetto a quanto in queste egli si riconosce, ovvero non gli sarà sufficiente individuare quelle prove che rappresentino una sua particolarità, ma sarà importante che egli si riconosca nella prova stessa, ovvero che questa dia la rappresentazione di sé che egli sente più vicina a ciò che ritiene di essere. Ad esempio per provare di saper parlare la lingua inglese, il soggetto potrà scegliere di inserire non un certificato che ne attesti il suo livello di conoscenza in rapporto ad uno standard, ma la sua partecipazione ad un progetto umanitario in cui ha dovuto relazionarsi con gli altri conversando in lingua inglese, magari inserendo filmati o scambi epistolari, oltre che, naturalmente, descrizioni e commenti; ed è progettata per la presentazione a uno o più spettatori in vista di un particolare scopo retorico – Un eP è costruito da un soggetto che abbia desiderio o necessità di presentare se stesso in vari contesti e/o a vari altri soggetti in rapporto allo scopo che intende perseguire attraverso la pubblicazione della rappresentazione che ha dato di sé nell’eP. Per esempio in ambito educativo, lo studente costruirà il suo eP per offrire una certa immagine di sé alla comunità accademica, ma volendo, potrà diversificare l’accesso ai contenuti inseriti a seconda che il visitatore sia un docente, un compagno di corso, un amico etc. Questo consente di rimarcare un concetto molto importante: l’eP non è una mera raccolta di documenti; affinchè esso esprima le sue autentiche potenzialità, deve essere costruito ponendo attenzione agli obiettivi che ne caratterizzeranno la funzione e la usabilità (Campbell et al 2000). Varisco (2004) così sintetizza le diverse tipologie di eP individuate in letteratura: learning portfolio, una sorta di diario riflessivo destinato allo stesso scrivente; assessment portfolio,
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molto strutturato che dimostra il raggiungimento di obiettivi, anche in rapporto a standard prefissati; working portfolio, costruito per mostrare prove delle proprie competenze in vista di una assunzione; showcase portfolio, una raccolta di documenti, commentati da riflessioni personali che mettano in luce la propria crescita nel tempo, anche arricchito da elementi di creatività che ne rendano originale la presentazione. Danielson e Abrutyn (1997) indicano i passaggi che gli studenti dovranno seguire per la costruzione di un portfolio; tali passaggi sono ripresi anche nella letteratura sul portfolio elettronico nonostante gli autori si riferissero al portfolio cartaceo. Essi sono: raccolta, selezione, riflessione, proiezione3. La raccolta è considerata la prima attività che lo studente dovrà compiere, badando bene però a non collezionare ogni cosa, ma a tenere presente i propri scopi e le tipologie degli utenti finali del prodotto; la selezione dei documenti davvero importanti dovrà essere effettuata tenendo presenti gli obiettivi che lo studente si è posto nella costruzione del portfolio; la riflessione riguarda l’attività che ciascuno studente dovrà svolgere in merito ad ogni documento inserito e che dovrà accompagnare il documento stesso; la proiezione riguarda la necessità di fare in modo che il portfolio guardi avanti, ovvero che non si limiti a descrivere lo status quo, ma che si sforzi di illustrare una prospettiva futura. Helen Barrett da più di quindici anni ha focalizzato i suoi studi sulla progettazione del portfolio elettronico ed ha proposto uno schema in cui ne ha illustrato gli stadi di sviluppo ponendoli in ordine crescente rispetto alla facilità di utilizzo dello stesso (Barrett 2000): !"
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Tabella 1 – Barrett H. Stadi di sviluppo del portfolio elettronico
Retrived from Danielson, Charlotte; Abrutyn, Leslye, An Introduction to Using Portfolios in the Classroom. http://eric.ed.gov/?id=ED415236 This guide is a useful resource for educators who would like to begin using portfolios in the classroom. The three major types of portfolios are working portfolios (collections of work in progress), display portfolios (also called showcase or best works), and assessment portfolios. These types are distinct in theory, but tend to overlap in practice. Once the purpose of the portfolio has been determined, the steps in the portfolio development process are: (1) collection; (2) selection; (3) reflection; and (4) projection.
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Come è facile osservare, la facilità di utilizzo dello strumento va di pari passo con la dematerializzazione e la delocalizzazione dei documenti da raccogliere; dall’organizzazione di documenti cartacei supportati da qualche video-registrazione si perviene progressivamente, con lo sviluppo delle tecnologie di rete, ad un formato completamente elettronico del portfolio. C’è da osservare che allo schema presentato va aggiunto un ulteriore stadio che rappresenta la frontiera ad oggi raggiunta nel processo evolutivo dello strumento, ovvero quello della creazione di piattaforme web strutturalmente predisposte per la creazione di eP.
3. ePortfolio ed Orientamento diacronico formativo
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Le attività di orientamento praticate nelle scuole si risolvono generalmente in eventi organizzati al termine di un ciclo scolastico per presentare agli studenti le strutture che li accoglieranno nella fase successiva. Domenici (2009) definisce sincronico finale un orientamento con le caratteristiche descritte e ritiene decisamente scarsa l’incidenza che un tale tipo di intervento possa avere nel sostenere i ragazzi nel compiere scelte consapevoli per il proprio futuro formativo e professionale. Infatti Domenici (2009) rileva che un’attività di orientamento che sia effettivamente formativa, e che dunque incida profondamente nel percorso di vita dello studente, dovrebbe affiancare le attività curricolari fin dal primo grado scolare, tenendo conto delle peculiarità di ciascun allievo. O meglio, dovrebbe essere parte integrante del curricolo educativo perché attraverso l’uso di una didattica individualizzata è possibile permettere allo studente di comprendere realmente quali siano le proprie vocazioni e dunque di assumere le decisioni più giuste e responsabili per il proprio progetto di vita. L’eP risponde elettivamente all’esigenza di mantenere una traccia del percorso di formazione dell’allievo in senso diacronico, in particolare, appunto, nella sua forma elettronica che permette di evitare l’eccessivo accumulo di materiale cartaceo, nella pratica inutilizzabile dal punto di vista delle informazioni (Domenici, 2006). Naturalmente un’attività orientativa efficace si lega strettamente ad una progettazione didattica che tende allo sviluppo della meta-cognizione, della riflessione, dell’auto-regolazione (Pellerey, 2004; Pellerey, 2007). Huang (2012) rileva che secondo Wade (2005), l’eP ha la caratteristica di collegare la capacità di uno studente di auto-regolare il proprio apprendimento con quella di migliorare l’apprendimento significativo e l’acquisizione di competenze. Infatti gli studenti che sono in grado di auto-regolamentazione sono individui che partecipano al proprio apprendimento in senso meta-cognitivo, motivazionale e comportamentale (Zimmerman, 2000). Ulteriori ricerche mettono in risalto il rapporto positivo tra la costruzione di un eP e lo sviluppo di strategie metacognitive (Azevedo, 2005; Zellers, Mudrey, 2007). Zellers e Mudrey (2007) indicano che i portafogli elettronici possono essere una piattaforma efficace per gli studenti per aumentare la meta-cognizione in un ambiente di condivisione online; a questo proposito Huang (2012) riporta lo studio di Wickersham e Chambers (2006) i quali hanno rilevato che l’efficacia nell’uso dell’eP è strettamente correlata al livello delle tecnologie utilizzate. In sintesi, in rapporto alla letteratura scientifica analizzata, si può affermare che l’istituzione scolastica ai suoi diversi livelli, da quello dell’infanzia fino all’università, consentendo agli studenti di costruire un eP, può farsi carico dell’impegno di fornire ai giovani uno strumento che permetta loro di raccogliere e documen-
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tare le proprie competenze in maniera sistematica affinché possano avere le idee più chiare nella valutazione del rapporto tra i requisiti richiesti dal mondo del lavoro e le competenze che sono in grado di offrire. Non è un caso, infatti, che il portfolio, come strumento diacronico per la registrazione delle competenze, nasca nel contesto europeo dell’apprendimento permanente e della trasferibilità delle competenze per la mobilità delle persone, in riferimento al modello del Portfolio Europeo delle lingue4.
4. Descrizione dell’esperienza: problematicità, ipotesi, svolgimento e metodologia, strumenti, esiti e criticità Il Corso di Didattica dell’Orientamento è un Corso previsto per il primo anno del CdL in Scienze dell’Educazione e, naturalmente, è frequentato da matricole, tranne che per qualche eccezione legata al conseguimento di una seconda laurea o ad un passaggio da altri CdL. Nella prima lezione del Corso tenuto nell’anno 2012/13 si chiese agli studenti di esplicitare i motivi che li avessero condotti alla scelta di frequentare un CdL in Scienze dell’Educazione: molti di loro non furono in grado di offrire una risposta chiara e consapevole poiché non avevano riflettuto in modo sistematico sulla propria decisione e non erano in grado di rintracciare nel proprio percorso formativo gli eventi che avevano determinato la scelta effettuata. Per questi motivi, e visti gli argomenti trattati nel Corso di Didattica dell’Orientamento, ovviamente inerenti a tematiche affini ai problemi descritti, si è deciso di proporre agli studenti dello scorso a.a. (2013/14) la costruzione di un eP che li aiutasse nella stesura di una sorta di percorso a ritroso individuando nel proprio vissuto formativo gli eventi che li avessero condotti alle loro scelte attuali. 4.1 Ipotesi In rapporto alle problematiche descritte e all’analisi della letteratura scientifica sull’eP, si è ritenuto di proporre agli studenti di Didattica dell’Orientamento la costruzione di uno showcase portfolio su piattaforma web Mahara poiché si ipotizza che a) la compilazione di un showcase portfolio è in grado di stimolare i ragazzi a rintracciare gli eventi formativi che hanno generato la loro scelta di studio universitaria e a riflettere su di essi attraverso la raccolta di documenti e di commenti personali espressi in modo creativo; a) la piattaforma web Mahara ha le caratteristiche adeguate per la costruzione di un showcase portfolio.
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Tra gli altri documenti si possono consultare i seguenti: Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 20 dicembre 2012; Decisione n. 2241/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 dicembre 2004; Portfolio Europass delle lingue; Portfolio for youth leaders and youth workers.
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4. Svolgimento
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Il corso di Didattica dell’Orientamento svolto nell’a.a. 2013/14, è stato seguito da circa 40 studenti, tra i quali una studentessa Erasmus, una al terzo anno che lo ha scelto come insegnamento opzionale, due iscritti al secondo corso di laurea, ed i restanti matricole. Esso è strutturato in modalità blended, in particolare i due terzi si svolgono in presenza ed un terzo a distanza, attraverso la partecipazioni ad attività online che in questo caso si sono configurate nella costruzione dell’eP. La didattica online è resa possibile grazie alla piattaforma del Dipartimento, formonline5, nella quale vengono inseriti tutti i materiali utilizzati nelle lezioni in presenza e vengono aperti forum di varia tipologia per consentire agli studenti di dialogare sui temi di interesse, di interagire con il docente e i compagni di corso, di effettuare esercitazioni e di eseguire e consegnare i compiti assegnati. Nelle prime due lezioni, dopo aver illustrato la struttura del corso, gli argomenti che si sarebbero affrontati in presenza, gli obiettivi che la frequenza del corso avrebbe consentito di raggiungere, e dopo aver mostrato l’ambiente formonline, si è chiesto agli studenti, a turno, di presentarsi e di motivare la scelta di iscriversi al CdL in Scienze dell’Educazione. Nel clima di condivisione generato dalla apertura relazionale alla conoscenza reciproca, sono stati distribuiti i questionari in ingresso predisposti per accertare l’eventuale conoscenza dell’eP e il livello percepito dagli stessi studenti in merito alla propria padronanza delle tecnologie informatiche e di rete. Lo stesso questionario è stato inserito anche in formonline e vi è stato mantenuto per circa dieci giorni, in modo che anche gli studenti non frequentanti potessero compilarlo; l’accesso è stato poi bloccato subito prima della lezione in cui si è presentato l’eP. La descrizione di questo strumento è stata fornita agli studenti dopo due settimane dall’avvio del corso, con alcune lezioni in cui si sono presentate le caratteristiche dell’eP, la sua storia, le sue funzioni, le modalità in cui può essere costruito e la piattaforma open source Mahara individuata, tra altre simili, come l’ambiente/strumento più idoneo agli scopi prefissati. Sembra utile, a questo punto, proporre una breve digressione dall’esperienza che si sta esponendo per presentare sinteticamente Mahara e i motivi che ne hanno determinato la scelta. Il progetto Mahara6 nasce nel 2006, in Nuova Zelanda e coinvolge diverse Università del luogo: il principio che guida lo sviluppo del sistema Mahara ePortfolio è l’essere centrato sullo studente sviluppando così una forma di Personal Learning Environment, molto diverso dai sistemi di Learning Management System (LMS) che prevedono la gestione dell’ambiente di apprendimento da parte di agenti esterni al soggetto che apprende. Naturalmente tra i due sistemi vi è una differenza nel merito e nel metodo ma entrambi posseggono un valore proprio in rapporto alle specifiche funzioni svolte e agli obiettivi formativi prefissati. L’architettura di Mahara è ispirata a quella modulare ed estensibile di Moodle, sistema con il quale può dialogare efficacemente. Ciò che rende Mahara diverso da altri sistemi eP, e che ne ha determinato la scelta, è il fatto che in questo sistema l’autore può controllare quali elementi e quali informazioni (artefatti), tra quelli contenuti nel proprio eP, possano essere mostrati ad altri utenti. Al fine di facilitare
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http://formonline.uniroma3.it/ Mahara User Manual - Release 1.8 - Catalyst IT and others - December 16, 2013
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il controllo dell’accesso alla visione, ciascun artefatto deve essere «impacchettato7» ed inserito in una specifica «zona8»: da questa “zona” l’autore può selezionare tutti gli artefatti che desidera formando le Pagine che costituiranno la parte visibile dell’eP: si possono assemblare tutte le Pagine desiderate, ognuna contenente una diversa collezione di artefatti (anche gli stessi utilizzati in più Pagine), e rispondente allo scopo e al pubblico previsto. Le persone a cui si desidera dare accesso alla Pagina possono essere aggiunte ad essa come individui o come membri di un gruppo o comunità.
Fig. 1 - Home page della piattaforma open source Mahara versione tradotta e adattata al contesto
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Mahara si esprime originariamente in lingua inglese e, poiché la traduzione in italiano disponibile in rete non è sembrata del tutto adeguata, si è effettuata una nuova traduzione per rendere più accogliente e familiare l’interfaccia; allo scopo è stata consultata la Guida Mahara9, anch’essa in inglese, ma scritta con linguaggio analitico e discorsivo, ovviamente molto diverso da quello stringato e diretto usato nella piattaforma. Prima di abilitare gli studenti all’accesso in Mahara, è stata effettuata una simulazione con un profilo “avatar” per testarne le funzioni, le modalità di navigazione, le eventuali difficoltà nella gestione dei file, la coerenza e l’efficacia della traduzione. Si riprende ora il filo della descrizione dell’intervento formativo: subito dopo la presentazione dell’eP e di Mahara, è stato fornito agli studenti l’account per accedere e navigare in piattaforma affinché avessero modo di familiarizzare con l’ambiente online; contemporaneamente sulla piattaforma didattica formonline è stato aperto uno spazio in cui sono stati inserite le slide, relative a Mahara, utilizzate a lezione ed è stato aperto un forum in cui condividere considerazioni, problemi, commenti con i compagni di corso e con il docente. Il passaggio successivo è consistito nel chiedere agli studenti di riempire una scheda, che è stata presentata e discussa a lezione e poi inserita e compilata in formonline; essa è stata titolata “Obiettivo: costruzione dell’ePortfolio/showcase por-
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Il termine “impacchettato”, mutuato dal Mahara User Manual, cit nota 5, si riferisce alla trasformazione di documenti di diversa natura in artefatti, ovvero alla loro trasposizione elettronica corredata del commento dell’autore. Il termine “zona”, anch’esso mutuato dal Mahara User Manual, cit nota 5, rappresenta una sorta di deposito in cui inserire i file; esso può essere rifornito di nuovi file da ogni “Pagina“ della piattaforma dalla quale sia possibile caricare i file stessi, per es. dalla pagina del CV, o del Blog, o del Profilo,etc. http://formonline.uniroma3.it/
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tfolio. Tavola dei criteri per la selezione degli eventi”, e ha avuto lo scopo di orientare e guidare i ragazzi nella individuazione ed elaborazione dei criteri necessari per la selezione degli artefatti da inserire in Mahara. La scheda è stata strutturata in quattro macro-categorie10 nell’ambito delle quali sono state enunciate alcune domande che hanno fornito criteri per l’attività di raccolta degli artefatti rendendola più semplice ed immediata: per ciascuna domanda è stata predisposta una tabella in cui inserire sinteticamente l’evento che lo studente ha ritenuto rilevante per la sua formazione, sia in senso positivo che negativo. Per rendere esplicita la descrizione, si riporta, come esempio, una parte della scheda suddetta:
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Figura SEQ Figura/* ARABIC 2 -Sezione di “Obiettivo: costruzione dell’ePortfolio/schowcase portfolio. Tavola dei criteri per la selezione degli eveni
Naturalmente a ciascuno studente è stata consentita piena libertà nella compilazione dei campi, ovvero essi hanno ricevuto la consegna di poter aggiungere domande/criterio non inserite nella tavola e di eliminare quelle che avessero ritenuto non utili per la ricostruzione del proprio percorso. La compilazione della tavola ha richiesto un grande impegno ed ha generato un interessante dibattito in formonline: gli studenti si sono confrontati e sostenuti a lungo nel lavoro, chiarendo mano a mano a se stessi e agli altri le procedure da seguire sia per l’individuazione degli eventi sia per la raccolta dei documenti materiali e la loro trasformazione in artefatti. Dopo circa due settimane dalla presentazione della tavola, avendo constatato che i ragazzi procedevano adeguatamente al lavoro richiesto, si è dato il via libera all’accesso in piattaforma e alla costruzione dell’eP; si è anche data la consegna di chiedere e accettare l’amicizia di tutti i compagni di corso e del docente, in modo da costruire una comunità di apprendimento online. Gli studenti sono stati sostenuti e diretti dalla docente del corso e da Francesca, una studentessa iscritta al terzo anno (che ha mostrato un particolare interesse all’esperienza, tanto da decidere di occuparsi dell’argomento nella sua tesi di laurea) alla quale è stato attribuito il ruolo di tutor, naturalmente sotto la supervisione della docente stessa. Questa fase è stata vissuta con grande entusiasmo: ciascuno studente ha caricato artefatti costruiti con estro e creatività ed ha commentato con
10 Ambito cognitivo, motivazionale, affettivo, relazionale, meta-cognitivo.
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interesse e partecipazione le Pagine degli eP dei compagni. Al termine del corso, ovvero a fine maggio, sono stati somministrati i questionari in uscita. 4.3 Metodologia, strumenti ed esiti La metodologia utilizzata nello studio dell’esperienza è stata di tipo quali-quantitativo; in particolare, rispetto alla sua organizzazione sono state adottate le procedure dello studio di caso (R.Yin 2005), e per il monitoraggio sono state utilizzate le tecniche tradizionali dell’analisi dei dati di tipo quantitativo (analisi statistica delle frequenze; analisi bivariata nel confronto diacronico tra dati rilevati con questionari di ingresso e di uscita; analisi multivariata per porre in relazione le risposte ad item ritenuti di particolare interesse; raggruppamento dei temi a posteriori per macro categorie nel caso di risposte aperte). Come già detto, sono stati somministrati questionari in ingresso e in uscita: le procedure di codifica, decodifica e analisi dei dati sono state realizzate in SPSS. I questionari d’ingresso restituiti sono stati in n° 39; quelli in uscita, pervenuti su formonline entro la data di scadenza prevista (30/07/14) in n° 19. Il questionario in ingresso consta di tre sezioni: dati ascrittivi; conoscenza11 dell’eP, rapporto con le TIC; il questionario in uscita di sette sezioni, le prime tre identiche all’ingresso e quattro riferite alla esperienza effettuata: progettazione dell’eP in Mahara, navigazione nell’eP in Mahara, impatto dell’eP sul processo di formazione, ruolo e funzioni delle figure tutoriali12. Dall’analisi dei dati ascrittivi in ingresso risulta che la maggior parte degli studenti proviene dai licei pedagogici (41,1%), il 18% dagli istituti tecnici e professionali, il 41% è distribuito in maniera sostanzialmente omogenea tra gli altri licei (classico, scientifico, linguistico); in uscita si osserva una certa variazione nelle percentuali, infatti hanno consegnato il lavoro il 47,4% degli studenti dei licei pedagogici, il 21,1% degli istituti tecnici e professionali e il 31,2% degli altri licei. Poiché i questionari sono nominativi13 e considerando che la costruzione dell’eP è obbligatoria14 e che invece, naturalmente, la compilazione del questionario non lo è, si è osservato che tutti coloro che hanno costruito l’eP entro la data di scadenza prevista per la consegna del questionario in uscita, hanno anche compilato quest’ultimo: dunque i dati analizzati attraverso il questionario in uscita corrispondono esattamente all’opinione degli studenti che hanno compilato l’eP. Il confronto tra i dati ascrittivi riportati e le considerazioni effettuate, può condurre a ritenere che vi sia una maggiore sensibilità verso lo strumento da
11 La sezione è ulteriormente suddivisa in quattro aree (scopi, struttura, elementi materiali da utilizzare, soggetti umani coinvolti) per ciascuna delle quali è prevista una risposta aperta; questa struttura è stata mantenuta nel questionario in uscita nella sezione “utilizzo dell’eP”. 12 In questo lavoro non si darà conto dell’analisi dei dati relativi a questa sezione perché la questione non è prevista nell’Ipotesi di ricerca. 13 La scelta di non mantenere anonimi i questionari è stata condivisa con gli studenti, ed accettata di buon grado, poiché ha rispecchiato l’intento collaborativo di analizzare le caratteristiche e la validità dell’esperienza. 14 Si è già detto che la costruzione dell’eP corrisponde ad un terzo dei CFU acquisiti con la frequenza del corso; si precisa che in sede d’esame ciascuno studente è tenuto a mostrare al docente il proprio eP navigando al suo interno e commentandolo.
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parte degli studenti che hanno già acquisito una formazione di tipo pedagogico o che abbiano frequentato scuole più caratterizzate dal punto di vista professionale. Dopo questa prima analisi, vista la grande differenza numerica tra i questionari in ingresso e quelli in uscita, si è ritenuto opportuno filtrare da quelli in ingresso i questionari in uscita, al fine di operare un confronto reale tra i dati rilevati nei due momenti del percorso. Per quanto riguarda la seconda sezione, in ingresso, una sola persona ha affermato di sapere, seppur vagamente, cosa sia un eP; in uscita, categorizzando le risposte aperte fornite in rapporto agli scopi dell’eP, gli studenti hanno indicato che esso è utile a: mostrare le competenze (10.5%), aiutare nell’orientamento (10.5%), riflettere sul proprio percorso formativo (31.6%), riflettere sul proprio processo di apprendimento (5.3%), aiutare nell’auto-valutazione (15.8%), favorire la ricerca del lavoro (5.3), costruire una immagine di sè da offrire agli altri secondo specifiche finalità (10.5%), vedere gli eP degli altri in modo da comunicare e conoscere nuove persone (5.3). In rapporto alla definizione di cosa rappresenti la struttura complessiva dell’eP, sempre attraverso la categorizzazione delle risposte aperte, si evidenzia che gli studenti ritengono che la struttura dell’eP: dipende dalla decisione personale del soggetto su cosa inserire (26.3%) e dagli obiettivi previsti (31.6%), mostra il profilo della persona e il suo percorso (10.5%), deve permettere a chi accede una navigazione semplice, intuitiva e diretta (15.8%). Le risposte relative a quali siano gli elementi materiali da inserire il 68% elenca le diverse tipologie di file, ed il 26.3% oltre ad elencare i file sottolinea che essi devono essere selezionati secondo specifici obiettivi; infine praticamente tutti gli studenti ritengono che all’eP debbano accedere compagni, docenti, amici, familiari e solo il 15.8% aggiunge alla lista anche i potenziali datori di lavoro. Una lettura critica di questi risultati sembra evidenziare che i ragazzi abbiano trasferito nelle risposte la propria esperienza concreta, piuttosto che effettuare una riflessione generale sulle caratteristiche dello strumento che pure erano state ampiamente trattate a lezione e dibattute in piattaforma, come si evince dalle percentuali più alte che riguardano la convinzione che l’eP serva a riflettere sul proprio percorso formativo (31.6%) e ad aiutare nell’auto-valutazione (15.8%) e minima risulta la percentuale di coloro che lo considerano una potenziale presentazione ad un eventuale datore di lavoro (5.3%). Naturalmente con ciò non si esprime un giudizio di valore, anzi si sottolinea il fatto che i ragazzi hanno partecipato con grande coinvolgimento a questa iniziativa e dunque hanno trasferito nelle considerazioni teoriche richieste il proprio vissuto. I dati relativi alla sezione in cui si chiede di fornire una autovalutazione rispetto alle proprie competenze nell’uso delle nuove tecnologie, nel confronto tra il prima e il dopo la costruzione dell’eP, mostrano che gli studenti hanno migliorato, anche se di poco, le proprie abilità nell’uso dei programmi di scrittura, di calcolo, di disegno; si sono invece registrati alcuni risultati interessanti per altri descrittori, come si può vedere dalla tabella sottostante:
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Tabella 2 – Raffronto Questionari ingresso/uscita – Sezione “Rapporto con le TIC”
Si osserva un netto miglioramento nella auto-percezione delle proprie abilità tecnologiche relative ai primi due item inseriti in tabella: nel confronto tra ingresso e uscita, scompare la scelta “nullo” ed si incrementano notevolmente i livelli “buono” ed “elevato”. In rapporto al terzo item si nota una tendenza apparentemente inversa poiché in ingresso non compare la scelta “minimo” che invece appare in uscita; si osserva che la scelta “buono” perde circa 20pp che si distribuiscono equamente nelle scelte “minimo” ed “elevato”: sembra che l’avere effettivamente lavorato su una piattaforma online abbia consentito ai ragazzi di comprendere meglio quale sia il proprio livello di abilità in merito e di capire dove esso fosse sopravvalutato in ingresso e dove sia migliorato in uscita. Le quattro sezioni inserite esclusivamente nel questionario in uscita sono quelle che riguardano l’esperienza vissuta e dunque sono più propriamente riferite alla ipotesi della ricerca in cui si presuppone che la compilazione di un showcase portfolio sia in grado di stimolare i ragazzi a rintracciare gli eventi formativi che hanno generato la loro scelta di studio universitario e che la piattaforma web Mahara abbia le caratteristiche adeguate per la costruzione di un showcase portfolio offrendo ai ragazzi un ambiente intuitivo e familiare in cui navigare. Dunque le sezioni riguardano espressamente: progettazione dell’eP in Mahara (63 item suddivisi in tre sotto-sezioni: osservazioni sulla efficienza di Mahara, funzioni utilizzate, funzioni ritenute utili); navigazione nell’eP in Mahara (14 item); impatto della costruzione dell’eP sul processo di formazione (22); ruolo e funzioni delle figure tutoriali nella costruzione dell’eP (10)15. In rapporto alla funzionalità della piattaforma Mahara, la lettura dei dati rileva che la grande maggioranza degli studenti (tra l’80% e il 95%) rispondono in maniera positiva (molto e abbastanza) alle richieste; Mahara risulta dunque chiara, intuitiva, semplice da utilizzare nelle sue diverse prestazioni (creare pagine, diario, Cv, profilo; gestire file, privacy, gruppi, etc). Anche in merito alla richiesta di indicare l’utilità delle differenti funzioni, la maggioranza delle risposte si attesta sulle percentuali già indicate, tranne che per alcuni casi: alla domanda “è utile consultare la Guida Mahara in inglese”16, l’84% delle risposte si attesta sul “per niente- poco”
15 Si Veda nota 11. 16 La Guida in Inglese è stata inserita in formonline proprio per offrire agli studenti la possibilità di confrontare con essa la traduzione effettuata, nel caso non risultasse comprensibile o soddisfacente.
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mentre a quelle “è utile la funzione gestire gli amici (chiedere, rispondere al contato, commentare, etc), “è utile condividere le pagine tematiche”, “è utile individuare gli obiettivi in base ai quali costruire l’eP”, la percentuale raggiunge il 100% di risposte (molto e abbastanza) in tutti i casi. Possiamo dunque evincere che la traduzione in lingua italiana sia stata adeguata, che gli studenti hanno molto apprezzato la possibilità di lavorare in gruppo con i compagni di corso e che è risultato molto chiara la funzione determinante rivestita dalla formulazione degli obiettivi nella costruzione dell’eP. Anche in merito alla richiesta di indicare la ricaduta della costruzione dell’eP sul proprio processo formativo, i ragazzi rispondono in modo estremamente positivo (tra il 90 e il 100% sommando molto e abbastanza) e dunque essi ritengono che questa esperienza aiuti a dirigere l’apprendimento, a riflettere sui propri punti di forza e criticità, a comprendere la propria la crescita e pongono in relazione tali elementi con la possibilità di navigare negli eP dei compagni. La lettura dei dati ha sollecitato la curiosità di mettere in relazione alcuni item per indagare due questioni che emergono come particolarmente interessanti nell’ambito di questa esperienza di costruzione di un eP: il rapporto che sussiste, secondo gli studenti, tra la dimensione individuale della riflessione e quella collettiva della condivisione e quanto l’implementazione di un eP possa incidere sulla meta-cognizione. Allo scopo, nei grafici che seguono, si illustra l’analisi delle corrispondenze multiple effettuate tra alcuni17 degli item che richiedevano considerazioni inerenti le due tematiche indicate. !
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Figura 3 – Rapporto tra auto-riflessione e condivisione Analisi multivariata relativa - Grafico a dispersione
Le lettere e i numeri rappresentati sul piano cartesiano corrispondono rispettivamente agli item e alle alternative di risposta; per favorire la comprensione della interpretazione che verrà proposta, nella casella di fianco al grafico sono riportate per esteso le domande (es: For 21 - 4 = Item For 21 - alternativa di risposta 4; si ricorda che è stata utilizzata una scala Likert così strutturata: 1 = per niente, 2 = poco, 3 = abbastanza, 4= molto). La maggiore evidenza riguarda il fatto che tutti coloro che hanno risposto molto si aggregano nella stessa area del grafico: chi ha navigato molto negli eP dei
17 Statisticamente non è stato possibile rappresentare nel grafico tutti gli item relativi alle tematiche in oggetto visto l’esiguo numero dei rispondenti.
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compagni ha anche ritenuto che la scrittura delle riflessioni che accompagnano i documenti inseriti in Mahara sia molto importante per riflettere sui propri processi di apprendimento rilevandone punti di forza e criticità. Evidentemente la possibilità di scambiare opinioni, commenti, di leggere quanto inserito dagli altri è stata ritenuto un esercizio utile anche per migliorare se stessi, oltre che per costruire una comunità di pratiche da mantenere attiva anche al termine di questa esperienza. !
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! Rapporto
Figura 4 tra l’eP e la riflessione meta-cognitiva nell’analisi della esperienza vissuta e ! nella sua proiezione in una prospettiva futura. – Analisi multivariata relativa Grafico a dispersione
In questo caso si osserva che solo tre dei quattro item indagati (che presentano la risposta 4=molto) si posizionano insieme in un’area ristretta del piano cartesiano; in rapporto a quanto emerso nelle analisi precedenti non è un caso che siano vicine le due risposte che riguardano la riflessione meta-cognitiva relativa al corso di studi seguito, un po’ distante la proiezione, più vicina nel futuro, di implementare l’eP a seguito di altre esperienze accademiche e decisamente più lontana quella che prevede l’utilizzo dell’eP come documentazione utile nella prospettiva di presentarsi nel mondo del lavoro. Questa collocazione delle risposte sembra confermare quanto già osservato: gli studenti hanno vissuto l’eP come strumento legato all’esperienza fatta e non alla prospettiva di poterlo utilizzare nel percorso post-universitario per la propria presentazione nel mondo del lavoro, nonostante che questa funzione dell’eP fosse stata trattata diffusamente nel seminario teorico introduttivo.
5. Sguardo conclusivo Nella consapevolezza che una ricerca svolta nel quadro metodologico dello studio di caso non consente generalizzazioni di alcun tipo, ma permette solo di rilevare indicazioni di tendenza, si può senz’altro affermare che l’esperienza è risultata molto positiva, così come si è rilevato dagli esiti dei questionari in ingresso e uscita somministrati agli studenti. Nel merito si rileva che i ragazzi hanno recepito con grande chiarezza sia la modalità di costruzione dell’eP, dalla formulazione degli obiettivi all’utilizzo della piattaforma Mahara, sia la funzione dell’eP come strumento che li possa affiancare nel processo educativo costituendo un valido appoggio alla riflessione sul proprio apprendimento sviluppata individualmente ma anche all’interno di un contesto relazionale.
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Un risultato molto interessante, non formulato esplicitamente nelle ipotesi di ricerca, ha riguardato il miglioramento che gli studenti hanno rilevato nel proprio utilizzo delle nuove tecnologie; questo dato sembra particolarmente interessante se si considera che la tipologia dell’utenza è senz’altro quella di ragazzi che hanno grande familiarità con i dispositivi tecnologici di ultima generazione. Un elemento di criticità si può senza dubbio rilevare nel fatto che non si è riusciti a trasmettere agli studenti la consapevolezza che l’eP è anche uno strumento proiettivo che può andare oltre l’esperienza realizzata, per quanto essa si sia rivelata forte ed entusiasmante. In merito a questo sembra si possano fare due considerazioni. La prima è di carattere didattico: sebbene nel corso delle lezioni si sia descritto analiticamente l’eP nelle sue diverse tipologie e funzioni, probabilmente non si è provveduto a fornire agli studenti un’indicazione efficace diretta alla costruzione di una sezione dell’eP rivolta al futuro percorso lavorativo. La seconda è di tipo metodologico: l’eP è alla sua prima sperimentazione nel nostro Dipartimento e dunque non è stato possibile sviluppare le sue effettive potenzialità che si potranno comprendere ed attuare solo nel tempo. A questo proposito Swenson (Swenson 2012) rileva che nelle università spesso l’eP è utilizzato dai docenti di specifici corsi come uno strumento per effettuare una valutazione in itinere legata alla disciplina e dagli studenti per effettuare attività di riflessione e meta-cognizione e propone la costruzione di un portfolio elettronico che costruisca una rete di fili conduttori (tenure files) tra i vari insegnamenti e, si potrebbe aggiungere, tra le esperienze extrascolastiche vissute. Si auspica che questo primo utilizzo dell’eP apra la strada ad una sua progressiva e più sistematica acquisizione nel Dipartimento, o almeno nel Corso di Laurea, estendendone, per il prossimo anno, la costruzione ad ulteriori corsi di studio per giungere nel tempo alla realizzazione di uno strumento che possa accompagnare i ragazzi nel loro percorso universitario, non limitandone l’esperienza a pochi, singoli insegnamenti. In questo modo l’ePortfolio assolverebbe al compito di sostenere lo studente nella meta-riflessione e nella meta-cognizione e gli fornirebbe elementi sui quali riflettere nell’ottica di un orientamento in itinere e diacronico-formativo nell’iter accademico e di una proiezione verso il futuro mondo lavorativo.
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La “banalità” della ricerca educativa. Le attese di educatrici e insegnanti della scuola dell’infanzia Valentina Mazzoni • Università di Verona • valentina.mazzoni@univr.it Luigina Mortari • Università di Verona • luigina.mortari@univr.it
Dumbing down educational research. The voice of teachers in ECEC The present article aims to address a perceived lack of connection between research and practice. Teachers seem to be skeptical about the potential for research to improve practice and thus they don’t use research results in their daily work with children. What sense can be made of educational research and theorizing unless it attempts to make sense of the practice of educating and unless it addresses the problems as they are perceived by those who are engaged in it. Starting from this account it is pivotal to listen to the voice of teachers in order to understand which are their expectations from academic research. In the current article, the authors present the voice of teachers in ECEC about their expectations.
Parole chiave: ricerca educativa, servizi prima infanzia, ricerca qualitativa, professionalità insegnante
Keywords: research-practice gap; educative research; qualitative research; ECEC
Ai fini della valutazione accademica, si attribuisce a Valentina Mazzoni la scrittura dei paragrafi III, IV, V e a Luigina Mortari i paragrafi I, II, VI.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Considerato il gap esistente tra mondo della ricerca in educazione e mondo dell’agire si può ipotizzare che la ricerca accademica non sia percepita dai pratici come rilevante. Di conseguenza la ricerca non viene utilizzata dai pratici e la pratica continua a svilupparsi solo a partire da se stessa. Quale senso può essere dato alla ricerca educativa e alla sua teorizzazione se non essere un tentativo per dare senso alla pratica dell’educare, e affrontare i problemi così come essi sono percepiti da chi è coinvolto in questa pratica? Se accettiamo questa assunzione allora diventa fondamentale sentire la voce dei pratici per capire cosa pensano della ricerca educativa e cosa si attendono da essa. Abbiamo quindi voluto intraprendere una ricerca con l’obiettivo di comprendere la loro prospettiva. In particolare, in questo articolo vengono presentate le aspettative espresse delle educatrici di nido e dalle insegnanti di scuola dell’infanzia.
La “banalità” della ricerca educativa. Le attese di educatrici e insegnanti della scuola dell’infanzia
1. Identificare l’oggetto della ricerca educativa
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Ogni scienza ha un oggetto. La ricerca educativa ha per oggetto quel fenomeno che è definito educazione. L’educazione è una pratica, cioè un’azione che si realizza allo scopo di favorire il pieno fiorire delle capacità della persona. Se allora l’oggetto della ricerca educativa è una pratica, si può parlare di ricerca educativa quando oggetto di indagine sono le pratiche educative, e quindi quando le domande di ricerca hanno a che fare con l’obiettivo di comprendere la qualità delle azioni educative per promuovere un continuo miglioramento di queste. Per esempio, la domanda “quale idea di mente hanno i bambini?” può interessare gli insegnanti ma non è una domanda strettamente educativa, bensì di sfondo; rientra nel campo delle scienze identificate come scienze dell’educazione. Invece, la domanda “come sviluppare la capacità della mente di attuare atti metacognitivi?” è una domanda educativa, poiché è relativa a un problema di apprendimento e come afferma Richard Pring (2000, p. 13) a caratterizzare l’educazione è innanzitutto l’apprendimento. A partire da questa assunzione si può dire che il «focus distintivo della ricerca educativa deve essere innanzitutto la qualità dell’apprendimento e di conseguenza dell’insegnamento» (Pring, 2000, p. 27). Se si considerano i contesti scolastici l’oggetto d’indagine è la vita della classe e specificatamente le condizioni che facilitano/ostacolano un buon apprendimento, inteso come quello che promuove lo sviluppo delle potenzialità individuali; se si considerano i contesti extrascolastici l’oggetto d’indagine è costituito dalle esperienze e attività offerte dalle varie agenzie educative. Ipotizzando di trovare un largo accordo sul fatto che l’educazione si occupa di apprendimento, non esiste invece un accordo su quali sono gli apprendimenti che qualificano una valida educazione e quali sono le pratiche educative che facilitano questi apprendimenti. Se in biologia c’è chiarezza su cosa si intende per essere vivente, se in fisica c’è accordo sul concetto di forza, in pedagogia è difficile trovare un accordo su cosa si deve intendere per “buona esperienza educativa”, perché si ha a che fare con questioni di valore, questioni che in quanto tali sono fortemente dipendenti dalla cultura. Per qualcuno l’educazione è innanzitutto alfabetizzazione, per altri l’alfabetizzazione è solo uno sfondo per sviluppare il pensiero creativo e quello critico; per alcuni l’educazione si misura sulla padronanza delle scienze, per altri nessuno può dirsi educato se non alfabetizzato sui linguaggi artistici. Per alcuni l’educazione implica una dimensione politica, per altri dove c’è intenzione politica c’è inevitabile indottrinamento e quindi non educazione. Sia perché non c’è accordo sul senso da attribuire all’oggetto della ricerca educativa, sia perché i problemi connessi all’agire educativo non sempre sono traducibili nell’operatività del linguaggio scientifico, per la pedagogia non si può parlare di scienza in senso stretto, ma di sapere pratico o sapere esperienziale (Mortari, 2003; 2009; Rossi, 2005; Fabbri, 2007; Fabbri et al., 2008, Magnoler, 2012). Il problema principale della pedagogia è quello di «disporre di una forma di sapere capace di orientare l’azione e non quello di costruire un sapere sull’azione di educare» (Fabbri, 1994,
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p. 66). Considerare la pedagogia come sapere pratico significa affermare che l’educazione si attualizza nella forma di una deliberazione, ossia di un processo di decisione attraverso cui definire le azioni da attuare rispetto ad una situazione di apprendimento. Dal momento che l’educazione non dispone di un sapere certo ma di un orizzonte di possibilità, la ricerca si qualifica elemento essenziale allo sviluppo del sapere educativo. La ricerca scientifica risponde al bisogno di capire e di fornire strumenti per cambiare la realtà. La scienza dell’educazione non è solo un sapere teoretico, cioè non risponde solo a un bisogno di comprendere i fenomeni di cui si occupa, ma è un sapere prassico, cioè trova la sua ragione fondativa nel bisogno di orientare al meglio la pratica. Di conseguenza i risultati della ricerca dovrebbero consentire di cambiare la pratica.
2. Rigore e rilevanza della ricerca educativa Si può definire valida o ‘di valore’ una ricerca che sia rigorosa e rilevante. La tesi che fa da sfondo allo studio qui presentato è che il rigore è dato dal metodo mentre la rilevanza è misurata in base all’uso che del sapere viene fatto nella realtà. Nella letteratura che si occupa di epistemologia della ricerca molte ormai sono le discussioni impegnate a definire le questioni sul metodo, al fine di garantire il rigore di una ricerca; di minore consistenza ed estensione è invece la riflessione circa i modi per garantire la rilevanza di una ricerca. In questo studio abbiamo messo al centro il tema della rilevanza. Per affrontare tale questione si può prendere le mosse dalla analogia fra ricerca in medicina e ricerca educativa, poiché entrambe supportano saperi prassici, finalizzati cioè a risolvere problemi concreti per migliorare il reale. Se il criterio per validare una ricerca in ambito medico è che essa trovi un’ampia risonanza tra i clinici, analogamente una buona ricerca in educazione deve trovare un’ampia risonanza fra i pratici dell’educazione. Se si accetta che la misura di rilevanza è l’uso che viene fatto della ricerca da parte dei pratici per migliorare la qualità dell’agire educativo, allora è necessario prendere in considerazione il rapporto tra mondo della ricerca in educazione e mondo dell’agire, in particolare il gap esistente tra i due. Sia la fenomenicità di tutti i giorni rilevabile empiricamente, sia l’analisi della letteratura scientifica rilevano infatti una scissura fra mondo della ricerca e mondo della pratica e l’ipotesi che si può avanzare è che la ricerca accademica non sia percepita dai pratici come rilevante. Già Dewey aveva rilevato quello che riteneva un dannoso gap tra la teoria e la pratica e per superare questa scissura nel 1894 a Chicago aveva fondato il Department of Pedagogy e insieme il Laboratory School, con l’obiettivo di costruire un ambiente di ricerca dove le idee venivano non solo formulate, ma anche messe alla prova, sia per trovare buone idee per la prassi sia per ispirare nuove buone ricerche. La visione pragmatista che adottiamo in questo studio assume come ‘keyidea’ la tesi secondo la quale nessuna buona conoscenza può emergere da una ricerca dove la direzione teoretica è scissa da quella pratica, dove il pensare non si associa al fare, sviluppando una ricerca che rigorosamente indaghi il valore delle strategie individuate. A tal proposito risulta importante riportare qui quanto sostiene Pring (2000, p. 8) circa la decisione di chiudere il Dipartimento e il laboratorio fondati da Dewey: «Non seguendo il programma di Dewey, la scuola-laboratorio ha slegato la
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ricerca teoretica dalla pratica dell’insegnamento. In questo modo ha fallito nel suo obiettivo. Questo fatto rappresenta una lezione per tutti quelli che, volendo raggiungere l’eccellenza accademica, non si curarono di dare rilevanza alla pratica». Anche in Italia le questioni epistemologiche e concettuali che hanno caratterizzato la ricerca pedagogica possono essere guardate come «modi possibili per risolvere il problema del rapporto tra teoria e prassi. […] L’intento è quello di riconnettere ricerca pedagogica e condizioni operative dell’educazione, ricerca pedagogica e metodi di scelta e operatività culturale, secondo sviluppi che incidano sui modi di vita»1 (Fabbri, 1994, pp. 73-74). Senza una connessione tra ricerca e pratica la ricerca non viene utilizzata dai pratici e così la pratica continua a svilupparsi solo a partire da se stessa. Chi affronta quotidianamente problemi educativi chiede alla ricerca educativa di «proporsi come consulente per la soluzione pratica di problemi educativi ben determinati» e «dimostrare tangibilmente che le proprie elaborazioni non sono astratte o artefatte, ma sono in grado di dare risposte ai suoi quesiti professionali» (Lumbelli, 1980, p. 58). Cosa si perde invece quando si sviluppa un gap tra teoria e pratica? La ricerca accademica non trova un riscontro pratico dei suoi risultati (non li verifica) e i pratici non hanno la possibilità di introdurre nella pratica nuovi apporti, nuovi stimoli e conoscenze che provengono dal lavoro di ricerca. Già Dewey richiamava i rischi connessi alla distanza tra scienza e pratica: una pratica che non accoglie il contributo della scienza «rafforza la regola del convenzionalismo, dell’abitudinarietà e delle opinioni contingenti», mentre una scienza che si sviluppa senza una vitale connessione con l’esperienza rischia la costruzione di un «sapere sterile e di scarsa profondità» (Dewey, 1971, p. 30). Le critiche alla ricerca educativa e le affermazioni sul suo scarso legame con la pratica sono ancora al centro di una riflessione sia nel mondo accademico, che nei contesti educativi. In un articolo apparso sulla rivista scientifica “International Journal of Qualitatives Studies in Education” nel dicembre 2011, Ke Yu (p. 785) pone la seguente domanda: «Qual è la relazione fra ricerca in educazione (education research) e pratica educativa (education practice)? E in modo più specifico, in quali modi e con quali obiettivi la ricerca educativa ha la possibilità di incidere nella pratica?» Secondo Yu la ricerca in educazione [RiE] non riesce a soddisfare la sua funzione strumentale, ma solo a fornire qualche chiarimento sui problemi che nascono nel mezzo della pratica. Per quanto riguarda il livello di ricezione nel campo della pratica Yu sostiene che non solo si registra un basso livello dell’uso diretto della ricerca (instrumental use), ma in genere i pratici trovano la ricerca non interessante neppure per quanto riguarda la sua funzione di analisi concettuale dei problemi (conceptual use).
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Per un’analisi approfondita di come la pedagogia italiana ha affrontato il rapporto tra ricerca pedagogica e pratiche educative a partire dal dopoguerra, si rimanda al testo di Loretta Fabbri, qui citato. Nel saggio l’autrice evidenzia sia i nuclei epistemologici più rilevanti della ricerca educativa, sia come le differenti prospettive pedagogiche italiane si sono poste di fronte a tali questioni, mettendo in risalto i diversi autori che più di altri si sono occupati di riflettere sul ruolo della ricerca in ambito educativo (tra cui, Bertolini, De Bartolomeis, Visalberghi).
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Quali ipotesi si possono fare rispetto al gap tra ricerca educativa e agire pratico? 1. I pratici non sono preparati per fare uso della ricerca; 2. La ricerca prodotta non è percepita come significativa; 3. La ricerca accademica non è realmente significativa. Come si vedrà dall’analisi della letteratura e poi dai dati di ricerca qui riportati, anche se le tre ipotesi risultano essere tutte legittime, la seconda e la terza risultano essere le spiegazioni più plausibili. I pratici mancano di competenze di ricerca – la loro formazione non è adeguata per la ricerca, ma molta ricerca è autoreferenziale; in altre parole non c’è connessione tra ‘academic research’ and ‘practitioners’. I ricercatori accademici non verificano il reale valore delle loro ricerche, e i pratici non lasciano entrare nella loro pratica educativa i suggerimenti che la ricerca può offrire loro.
3. La letteratura sul tema Le ricerche svolte a livello internazionale mettono in luce una mancanza di fiducia e apprezzamento da parte degli insegnanti nei confronti della ricerca, che viene percepita come irrilevante per la loro pratica quotidiana in classe (Woods, 1986; Huberman, 1989; Hiebert, et al., 2002; Vanderline and Van Braak, 2010). Troppo spesso, gli insegnanti semplicemente ignorano i risultati generati dalla ricerca accademica (Rose, 2002). Diversi sono i fattori per cui la ricerca non viene ritenuta da loro uno strumento utile nella pratica quotidiana. Kennedy (1997) evidenzia tra le ragioni centrali del fallimento della ricerca educativa a rispondere ai bisogni della pratica il fatto che la ricerca non tiene conto delle vere domande, ossia quelle che nascono dalla vita concreta della scuola. Nella stessa direzione Pring (2000, p. 29) afferma che le domande che generano le ricerche non sono appropriate, «non avendo nulla a che fare con la pratica educativa». Anche secondo Lagemann (1999, p. 3), la mancanza di rilevanza della ricerca in educazione è data dalla sua distanza nei confronti di quelle problematiche che gli insegnanti percepiscono come considerevoli: «Si deve riconoscere che gli studi in ambito educativo non ottengono considerazione (to ‘get no respect’). […] questo perché la ricerca educativa è stata accusata di ignorare importanti questioni mentre rinforza le pratiche volute dalle riforme dall’alto». Gli insegnanti percepiscono i ricercatori come soggetti che decidono di posizionarsi lontano dalla pratica concreta di tutti i giorni (Gitling et al., 1999). L’accusa di una tale distanza trova ragioni anche nella percezione di inacessibilità dei risultati della ricerca: il tecnicismo e il linguaggio troppo complesso e astratto utilizzato dai ricercatori sono elementi che non permettono di accedere alle conoscenze derivanti dal loro lavoro e di condividerli in modo largo tra gli insegnanti (Joram, 2007, p. 124) Da diversi anni ormai che all’estero la ricerca educativa sottolinea l’importanza di utilizzare paradigmi di ricerca di tipo collaborativo-partecipativo (Mantovani, 1998; Mortari, 2007), che, attraverso il loro approccio, mirano a ridurre tale distanza, proponendo una partnership forte tra ricercatori e pratici: «È per rispondere a questo bisogno di aderenza alla realtà educativa e di maggior contatto-confronto con chi opera nel campo che alcuni ricercatori hanno pensato all’opportunità di fondare un modello di ricerca partecipante, che non si limitasse
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a consultare gli operatori per la definizione dei problemi da studiare (aspetto comunque trascurato da molta ricerca sperimentale classica), ma che coinvolgesse questi ultimi direttamente nelle diverse fasi di conduzione della ricerca stessa» (Nigris, 1998, p.165). All’interno di questo panorama esistono veri e propri approcci mirati a sviluppare la figura dei practitioner researcher, ossia pratici che svolgono ricerche in modo autonomo (Dadds, 1998; Campbell et al., 2004). Ma questi richiami hanno inciso in modo significativo nella pratica? Si è sviluppata nella cultura delle educatrici una propensione alla ricerca? Ne riconoscono un ruolo significativo e utile per la loro attività? E ancora, i prodotti della ricerca educativa risultano utili a chi è impegnato nella pratica educativa? Da parte dei ricercatori che hanno cercato un rapporto con i pratici si registrerebbe la difficoltà a stabilire utili e valide collaborazioni per la disattenzione che gli insegnanti mostrerebbero alla necessità di pervenire a dati rigorosi; questo per la mancanza di fiducia nella ricerca. Gli insegnnati percepiscono i ricercatori come aventi obiettivi semplicistici, un’impostazione troppo intellettualistica e lontana dalla pratica (Central New York Practice Research Network 2002; Levin 2004; Nuthall 2004). Sembra esistere una mancanza di consenso nei confronti di metodologie capaci di offrire evidenze su ciò che funziona e sul fatto che la conoscenza derivante da uno studio possa essere applicata a nuove e diverse situazioni (Foray and Hargreaves, 2003; Olson, 2004, Slavin, 2004). Secondo alcuni autori gli insegnanti sarebbero stanchi di ricevere indicazioni contrastanti su “metodi più efficaci per…”, tutti supportati da validi risultati provenienti da ricerche accademiche (ad esempio sull’uso o meno di calcolatrici e nuove tecnologie, sui metodi per l’apprendimento della lettura ecc.) (Cuban, 1990). Inoltre, ci sarebbero logiche differenti a informare il mondo della ricerca e quello della pratica. Le differenze culturali fra chi opera nei due campi, i differenti obiettivi e valori (Caldwell 1991; Randall 2002). Anche nel momento in cui si interrogano sulle risorse più utili allo sviluppo della loro professionalità, le educatrici fanno riferimento preferibilmente a convegni e all’acquisizione di materiali e strumenti utili alla costruzione dell’attività in classe, invece che ai risultati provenienti dalla ricerca educativa (Fleer, 2001). L’analisi della letteratura fin qui presentata, mostra come il tema del valore della ricerca per i pratici e il ruolo che essa può assumere nei confronti della pratica educativa sia esplorato in maniera profonda da molti ricercatori. La relazione tra ricerca educativa e pratica continua ad essere un crescente tema di interesse che produce numerosi e vivaci dibattiti, ma nonostante i numerosi articoli e saggi pubblicati, a livello internazionale pochi sono i dati empirici disponibili. In questo modo la riflessione sembra crescere solo sulla base di assunzioni (Vanderline, Van Braak, 2010; Levin, 2011): «L’ironia, è stato notato più di una volta, è che il dibattito sull’uso della ricerca non sia supportato dalla ricerca stessa» (Levin, 2008, p. 4). Non è infatti solo necessario riconoscere il valore della ricerca per il lavoro educativo da un punto di vista teorico, ma è importante andare a considerare cosa succede nella pratica, in particolare quale visione della ricerca gli insegnanti sono andati sviluppando. Gli insegnanti ritengono la ricerca una pratica importante nella loro esperienza? E, cosa si aspettano da essa? Dalla letteratura sul tema sembra che la ricerca non sia importante per la pratica e poche siano le aspettative nei suoi confronti da parte degli insegnanti. Ma poiché proprio gli insegnanti sono i protagonisti della pratica educativa e quindi i soggetti a cui la ricerca si rivolge, ascoltare la loro voce è un atto imprescindibile.
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Senza una ricerca capace di svilupparsi a partire dall’ascolto dei pratici, è facile che loro percepiscano una profonda insoddisfazione per la inutilità degli studi condotti in ambito educativo: la maggior parte dei lavori teorici risultano per loro banali e lontani dalla realtà, mentre gli studi empirici si occupano di questioni che risultano del tutto irrilevanti per affrontare le reali domande della pratica. Se questa è oggi la condizione della ricerca educativa, diventa importante entrare nel campo dei pratici al fine di comprendere in modo sistematico e rigoroso qual è la loro percezione della ricerca. Joram (2007) suggerisce di intraprendere ricerche con l’obiettivo di comprendere la visione di insegnanti e ricercatori universitari sulla ricerca educativa.
4. Disegno di ricerca: ascoltare educatori e insegnanti Se si accetta di ragionare in una prospettiva pragmatista di stampo deweyano, si può ipotizzare che la ricerca educativa guadagna dignità e senso nella misura in cui si impegna a rispondere ai bisogni di conoscenza che emergono dalla pratica e, quindi, assume come centrali i problemi percepiti dai pratici. «Quale senso può essere dato alla ricerca educativa e alla sua teorizzazione se non essere un tentativo per dare senso alla pratica dell’educare, e affrontare i problemi così come essi sono percepiti da chi è coinvolto in questa pratica?» (Pring, 2000, p. 30) Se accettiamo questa assunzione allora diventa fondamentale sentire la voce dei pratici per capire cosa pensano della ricerca educativa e cosa si attendono da essa. Abbiamo quindi voluto intraprendere una ricerca con l’obiettivo di comprendere la loro prospettiva, ponendo la seguente domanda alla base del disegno di ricerca: Cosa educatori e insegnanti si aspettano dalla ricerca accademica? 4.1 I soggetti Poiché gli studi che si occupano del gap fra ricerca educativa e pratica fanno riferimento prevalentemente a studi e riflessioni teoriche, risulta necessario cominciare ad indagare anche i pratici e, nel nostro caso, la realtà italiana. Si tratta di prendere in esame (o investigare) il punto di vista degli insegnanti per capire come si rapportano alla ricerca accademica. Ancora il mondo della scuola è molto ampio: servizi per l’infanzia, scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado. Il presente studio ha focalizzato l’attenzione nel campo dell’educazione 0-6 anni (nido e scuola dell’infanzia) con l’obiettivo di comprendere quali aspettative ci sono in questo ambito educativo rispetto alla ricerca educativa. Attraverso questo studio abbiamo quindi dato voce alle educatrici del nido e alle insegnati della scuola dell’infanzia. La riflessione del valore della ricerca nei servizi per l’infanzia è un tema significativo. Bondioli (2004, p. 135) mette in luce come «la pratica della ricerca possa diventare una “buona abitudine” del “fare scuola” e un aspetto essenziale della professionalità degli insegnanti»; l’acquisizione di un metodo di ricerca permette infatti all’insegnante di riflettere sulle proprie pratiche, le proprie scelte, le proprie convinzioni e diventare più consapevole, traendo significato dalla sua esperienza. Alla ricerca hanno partecipato n. 246 educatrici del nido e n. 268 docenti della scuola d’infanzia. Per la raccolta dei dati, le educatrici e le insegnanti sono state contattate tra Settembre 2011 e Marzo 2012 in 3 diverse province di 3 differenti regioni (Verona, Trento e Brescia).
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La richiesta di partecipazione alla raccolta dei dati ha seguito modalità differenti a seconda dei contesti. Si è infatti entrati nel campo cercando di seguire l’approccio che meglio permetteva di raggiungere il maggior numero di soggetti. Non sono state fatte selezioni preventive rispetto ai servizi da contattare (statali, comunali o privati), ma si è proceduto a contattare le strutture e le scuole accettando tutte le risposte positive. Per alcuni il contatto con la responsabile del servizio è stato diretto, in altri casi si è passati da referenti comunali che hanno poi permesso di contattare le singole educatrici e insegnanti all’interno dei servizi. In altri casi le educatrici o le insegnanti sono state contattate direttamente, mentre in altri casi si è passati dalle referenti2. 4.2 Strumento di ricerca Per indagare la visione delle educatrici abbiamo creato una scheda esplorativa, composta da quattro domande aperte: Che tipo di ricerca educativa vorresti nella tua scuola?
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a) b) c) d)
indica almeno 3 temi nei quali senti che c’è bisogno di riflettere; cosa ti aspetti da una ricerca educativa in termini di risultati; se potessi avere un supporto dalla ricerca universitaria che cosa vorresti; quali sono le fonti (colleghi, alcuni libri in particolare, una rivista in particolare, un’associazione, siti, forum on-line….) che utilizzi per apprendere nuove conoscenze e/o migliorare la tua pratica professionale?
La scheda esplorativa è stata pensata sulla base delle qualitative survey (Fink 2003, p. 61). Fink raccomanda questo tipo di survey per esplorare il significato e l’esperienza dei soggetti coinvolti; l’aggettivo qualitative mira infatti ad evidenziare che l’obiettivo non è quello di stabilire frequenze, varianze o altri parametri, ma comprendere come un tema è visto e si differenzia all’interno di una popolazione di soggetti (Jansen, 2010). Per scheda esplorativa abbiamo quindi inteso uno strumento costituito da poche domande aperte, finalizzate a raccogliere una prima serie di risposte a domande fino a quel momento non indagate. Dal momento che i pratici lamentano poco tempo libero a causa di un sovraccarico burocratico, la formulazione di ogni domanda era seguita da un breve spazio per la compilazione, in modo da facilitare la partecipazione più larga possibile. 4.3 Metodo di analisi Una volta raccolte le schede, sono state analizzate le singole risposte come segue3: a) È stato più volte letto il testo della risposta; la lettura non dev’essere pre-orientata da teorie ma aperta, cioè guidata dal solo principio di familiarizzare con
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Alla raccolta dei dati hanno collaborato Lavinia Bau, Elena Bovo, Chiara Eccher, Elsa Gabrielli, Mariagrazia Peroni, Chiara Pozzan, Valentina Soffiatti, Letizia Tarocco. Il metodo di analisi adottato per l’analisi dei dati trova riferimento nell’approccio fenomenologico-induttivo sviluppato da Mortari (2006).
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il materiale e pervenire ad una visione d’insieme del materiale. b) Di ogni risposta è stata individuata la sua specifica qualità in relazione alla domanda posta e per ognuna di queste è stata elaborata un’etichetta che identificasse tale qualità. Le etichette sono state scritte a fianco delle parti testuali significative. c) Completato questo primo livello del sistema di codifica ci siamo immerse in un lavoro di messa a confronto dei dati ottenuti (etichette) con il materiale al quale si applicano (unità testuali) per verificare il grado di adeguatezza descrittiva delle etichette. Questa fase di messa a confronto dei prodotti (etichette descrittive) del processo di analisi con le rispettive evidenze testuali è stata attuata allo scopo di pervenire a una etichettatura che fosse la più fedele possibile ai significati individuati nei testi. d) Alla fine di questa analisi, si dispone di un sistema di codificazione basilare, costituito da etichette descrittive. Per mettere alla prova il sistema di codifica ottenuto siamo tornate ad esaminare le schede esplorative per verificare l’adeguatezza fra unità significative individuate ed etichette descrittive. e) Al fine di costruire una teoria descrittiva si è proceduto a raggruppare induttivamente etichette analoghe per individuare le categorie concettuali. Una volta individuate le categorie concettuali. si è proceduto ad un’analisi quantitativa di tipo descrittivo, per identificare quanto ciascuna categoria fosse presente nelle risposte date dalle educatrici ed insegnanti della scuola dell’infanzia4.
5. Risultati I risultati qui presentati riguardano l’analisi qualitativa delle risposte date alla domanda che più direttamente interrogava le educatrici e le insegnanti sulla loro visione della ricerca educativa: cosa ti aspetti da una ricerca educativa in termini di risultati? Le risposte analizzate sono state 513. Per quanto riguarda le aspettative delle educatrici e delle insegnanti in termini di risultati, le categorie identificate sono: – – – –
incidenza nella pratica (60%); crescita della professionalità educativa (33%); offrire una diversa visione delle cose (29%); non autoreferenzialità: costruzione di un sapere condiviso (22%).
4
Dal momento che ciascuna risposta poteva essere associata a più categorie, ossia contenere più significati concettuali, l’analisi quantitativa è stata svolta analizzando le domande come se fossero quesiti a risposta multipla (le categorie concettuali identificate induttivamente, hanno rappresentato le possibili risposte) e per ciascuna risposta (categoria) è stata calcolata la percentuale di scelta.
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5.1 Incidenza nella pratica
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L’aspettativa quantitativamente più rilevante per le educatrici e le insegnanti che hanno risposto alla scheda esplorativa è che la ricerca sia incidente nella loro pratica. Secondo loro, i risultati della ricerca dovrebbero saper incidere nella pratica delle educatrici, che chiedono alla ricerca di immergersi nell’esperienza educativa per offrire loro strumenti e indicazioni capaci di supportarle nel loro agire pratico, ossia capaci di fornire loro soluzioni concrete: Che la ricerca teorica possa abbracciare e accompagnare nella realtà concreta la pratica educativa (CE, 23). Che abbia una ricaduta sul mio agire educativo (BE, 40).
In modo particolare, le educatrici e insegnanti fanno riferimento alla possibilità di avere strumenti e indicazioni per l’agire pratico: Consigli pratici da poter attuare all’interno dei contesti educativi in cui lavoriamo (LB, 45) Mi aspetto che dia degli strumenti pratici da utilizzare quotidianamente (VS, 10) Nuove strategie d’insegnamento, di gestione del gruppo sezione. Supporti pratici per l’insegnamento (CU, 11).
Perché possano avere una reale connessione con l’esperienza delle educatrici i risultati, e quindi la ricerca, deve rispondere a problemi che le insegnanti sentono come reali, e non marginali rispetto alla loro quotidianità. I risultati della ricerca dovrebbero quindi rispondere a domande concrete, ossia quelle a cui danno voce le educatrici e le insegnanti: Risposte al modo di vita dei bambini di oggi: separazioni, povertà di rapporti, bambini e internet, mancanza di esperienze con la natura, solitudine. (VS, 39) Che risponda ad alcuni quesiti sul comportamento dei bambini nei momenti di gioco e tra pari (CP, 47)
La rilevanza dei risultati per la pratica non si connette solo alla capacità di partire da domande concrete e reali, ma anche alla possibilità di introdurre cambia-
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menti nel proprio modo di agire. Si attende dalla ricerca la possibilità di apportare cambiamenti e innovazioni al proprio modo di agire: Che dia avvio a nuove sperimentazioni; che porti i docenti a una continua revisione delle proprie conoscenze, ad aggiornamenti metodologici… (BE, 50) Che porti idee e innovazioni che favoriscano il “mio” lavoro “sul campo”. (CP, 34)
5.2 Crescita della professionalità educativa Per le educatrici e le insegnanti è importante che i risultati della ricerca permettano la crescita della loro professionalità educativa, sia come consapevolezza del proprio ruolo e del lavoro educativo, sia come acquisizione di competenze da spendere nei contesti educativi in cui lavorano. Che contribuisca ad aumentare le conoscenze sul mondo dell’educazione. Che aiuti noi educatori a riflettere sul nostro agire e a sviluppare uno spirito critico (CU, 22). Ci aspettiamo che la ricerca educativa ci offra consigli sia teorici che pratici per migliorarci nel nostro ruolo di educatrici e per arricchire la nostra professionalità (MP, 5). Spunti/possibilità per riflessioni e approfondimento di nuove conoscenze a sostegno delle competenze e professionalità educative (MP, 6).
Le attese da parte di educatrici ed insegnanti rispetto ai risultati della ricerca sono molto chiare, e sottolineano l’esigenza che dalla ricerca arrivi un reale supporto rispetto al possibile cambiamento del loro agire educativo: Che ci aiuti a rinnovare i contenuti professionale stimolando curiosità e interesse che portano ad una rimotivazione professionale necessaria per non cadere nel “ so già come fare”. (MP, 40)
5.3 Offrire una diversa visione delle cose Un altro importante contributo che la ricerca può offrire in termini di risultati è una maggior comprensione dei problemi che educatrici ed insegnanti si trovano ad affrontare: La possibilità di avere una migliore conoscenza delle nuove problematiche relative all’infanzia (LT, 23) Strumenti per analizzare e capire alcune dinamiche in modo da poter adeguare programmi di apprendimento e comportamento (LB, 15)
Inoltre, la capacità di comprensione più profonda di problemi e situazioni è resa possibile sia quando la ricerca introduce nuove idee, capaci di stimolare il cambiamento, sia quando offre letture differenti in grado di “allargare” il proprio sguardo sulle cose: Che mi aiuti: a comprendere meglio quello che è il mondo complesso del bambino, a trovare delle risposte ad eventuali problemi, a trovare nuove soluzioni e rimanere sempre aperta ad altre possibilità di soluzione e di “lettura” dei problemi (EG, 5)
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Che aiuti a riflettere, a prendere consapevolezza, allarghi lo sguardo, aiuti ad arrivare a nuovi pensieri inglobando le pratiche educative rivisitate (CP, 20) Che ci fornisca “occhi nuovi” per vedere; strumenti - chiavi di lettura e riferimenti teorici. (CP, 28)
5.3 Che non sia autoreferenziale: costruzione di un sapere condiviso Da alcune risposte si è resa evidente la percezione di autoreferenzialità che la ricerca assume per le educatrici e le insegnanti. Alla ricerca è infatti richiesto di assumere una dimensione più condivisa con il mondo dei pratici; proprio perché la teoria entri in rapporto con la pratica c’è bisogno che si crei un dialogo tra il mondo dell’accademia e quello dei servizi. Per far questo innanzitutto è chiesto che i risultati della ricerca siano più comprensibili, ossia scritti secondo un linguaggio più vicino al mondo dell’esperienza, restituiti e spiegati:
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Di solito le ricerche portano dei risultati, che spesso per noi non sono facilmente leggibili. Le statistiche dimostrano il livello di una ricerca spesso fatta a largo raggio poi sul concreto delle nostre realtà non è facile (BE, 29). Mi aspetterei che i risultati ottenuti potessero essere “diffusi” e “spiegati” nelle scuole, ai comitati e soprattutto ai genitori; che non rimanessero delle ricerche che rimangono solo sulla carta (VS, 30). La possibilità di averne la restituzione e la discussione (CP, 53).
Nelle risposte si tocca anche un livello più profondo del possibile dialogo tra il mondo della ricerca e quello dei servizi: la costruzione di un sapere comune, attraverso la realizzazione di un confronto continuo anche durante la realizzazione di una ricerca. Penso che sia molto più importante il processo che il risultato; per cui che una ricerca sia in relazione dialettica col mondo educativo e che il risultato non sia che una sintesi di questo processo. (CP, 24) Penso che sarebbe significativo fare un percorso comune di ricerca sul campo e riflessione teorica, in un continuo confronto… e i risultati vengono “cammin facendo”. La ricerca educativa ci offre il supporto teorico alla nostra pratica , motivandola, rendendola comprensibile, significativa. (CP, 25) Un confronto che parte da una collaborazione continuativa con l’università. (BE, 26)
6. Considerazioni conclusive I risultati emersi da questo studio rispecchiano molte delle preoccupazioni e delle critiche sviluppate nei confronti della ricerca educativa e presentate nell’analisi della letteratura, in modo particolare la distanza della ricerca dalle domande reali di educatrici ed insegnanti e la percezione di un’autoreferenzialità, che scaturisce da linguaggi e metodologie poco comprensibili, così come da una mancata restituzione dei risultati delle ricerche condotte. Dai dati analizzati emerge l’esigenza da parte delle educatrici e delle insegnanti di una ricerca educativa calata nel reale ed efficace nel fornire indicazioni operative. È implicito il rilievo alla ricerca di una mancanza di attenzione al reale e quindi del venir meno della sua stessa ragione epistemologica. Questo dato indica una
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problematicità che i ricercatori non possono trascurare se intendono ridare senso al loro agire. Alla ricerca in educazione si chiede di partire dai problemi reali; tale ricerca sottende da parte dei ricercatori l’impegno a trovare forme di incontro con i pratici. Partire dai problemi reali non significa appiattire la ricerca, ma potenziare la sua capacità ermeneutica rispetto all’esperienza. Come la ricerca clinica è chiamata a migliorare e potenziare le pratiche terapeutiche, la ricerca in educazione deve fornire indicazioni operative. Una pratica educativa che si può nutrire dei contributi che vengono dalla ricerca si sviluppa e si potenzia nei dispositivi pedagogici, consentendo l’apertura di ulteriori piste epistemiche. Accanto alle critiche, l’analisi qualitativa delle risposte ha messo in luce una percezione positiva nei confronti della ricerca educativa; allo scetticismo delle insegnanti, richiamato nella letteratura, si sostituisce un’attesa forte e positiva nei confronti della ricerca. La ricerca educativa è considerata uno strumento capace di supportare le educatrici e le insegnanti nel comprendere con maggior profondità i nuovi problemi che oggi si trovano ad affrontare, allargando il loro sguardo e introducendo nuovi stimoli e idee per il loro agire. Ma più ancora rivolgono alla ricerca una richiesta di intervento per accrescere la loro professionalità, non solo per quanto riguarda le competenze educative (osservare, documentare, relazionarsi con i genitori e intervenire nei confronti di bambini che presentano particolari problemi ecc.) ma anche rispetto alla consapevolezza del loro ruolo educativo. Le critiche emerse da educatrici e insegnanti e le loro aspettative aprono quindi una serie di domande nei confronti della ricerca stessa. Ma per sviluppare una critica utile alla ricerca educativa così come è attuata, abbiamo bisogno innanzitutto di fare chiarezza sulla mission di questo tipo di ricerca: è solo teoretica, solo interpretativa? O è pratica? La tesi che fa da sfondo a questo lavoro è che la ricerca educativa, come quella medica e quella politica, ha un obiettivo pratico, cioè dovrebbe fornire indicazioni per migliorare la prassi educativa. Se noi accettiamo questa tesi allora per valutare il valore di una ricerca educativa dovremmo avere gli strumenti per valutare il suo impatto sulla pratica. Valutare l’impatto non significa solo mirare a cercare delle immediate traduzioni operative, poiché una ricerca è utile anche quando viene utilizzata dai pratici per analizzare l’esperienza, per vedere criticità fino a quel momento non viste, per identifica altre inedite vie educative, così come è emerso dalla prospettiva delle educatrici e delle insegnanti che hanno risposto alla nostra scheda esplorativa.
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La formazione degli insegnanti in fisica come sfida di ricerca: problematiche, modelli, pratiche Marisa Michelini • Università degli Studi di Udine • marisa.michelini@uniud.it Lorenzo Santi • Università degli Studi di Udine • lorenzo.santi@uniud.it Alberto Stefanel • Università degli Studi di Udine • alberto.stefanel@uniud.it
Teacher education in physics as a research challenge: problems, models, practices A number of researches on teacher professional development are available in literature. The main focus is on the teachers’ needs as concern subject knowledge and pedagogical aspects in a trasmissive teaching. The models used in pre-service teacher education offer as separate formative areas those Shulman called PK (Pedagogical Knowledge) and CK (Content Knowledge), without providing areas for the construction of the PCK (Pedagogical Content Knowledge). In our research has been studied and tested a formative model focused on the construction of the PCK, of design and analysis of learning processes skills. We discuss here the theoretical model and the foundation of the implemented design in the case of perspective primary teacher education on energy.
Parole chiave: professionalità docente, insegnanti primari, modelli, didattica disciplinare, fisica, energia
Keywords: models and implementations, teacher education, physics
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Le modalità di formazione di specifiche professionalità docente sono state oggetto di numerosi studi, che si sono focalizzati su bisogni specifici sui piani didattico e disciplinare di una didattica trasmissiva. I modelli comunemente utilizzati nella formazione iniziale propongono in forma separata quelle che Shulman chiama PK (Pedagogical Knowledge) e CK (Content Knowledge), senza prevedere ambiti e modalità per la costruzione delle PCK (Pedagogical Content Knowledge). Nella nostra ricerca è stato studiato e sperimentato un modello formativo focalizzato sulla costruzione delle PCK, di competenze progettuali e di analisi dei processi di apprendimento. In questa sede se ne discutono le basi teoriche e progettuali, esemplificando nel contesto della formazione degli insegnanti primari sull’energia.
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1. Introduzione
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La professionalità docente è uno degli aspetti più importanti nell’istruzione (Elbaz, 1983): ad essa è connessa la possibilità di migliorare l’apprendimento degli studenti, di rinnovare il curricolum agito, di introdurre innovazione didattica e metodologica basata sugli esiti della ricerca (Calderhead, 1996; Borko, Putnam, 1996; Park, Oliver, 2008). Negli ultimi 20 anni pertanto vi è stato un crescente interesse della ricerca didattica per la formazione degli insegnanti (Michelini, 2004; Taşar, Çakmakcı, 2010; Cassan, Michelini, 2010). I risultati di indagini internazionali, che hanno evidenziato preoccupanti carenze formative degli studenti in particolare in ambito scientifico (IJSE, 2011; OECD, 2007; Holbrook, Rannikmäe, 2001), hanno focalizzato l’attenzione sulla didattica scientifica. L’educazione scientifica è stata dichiarata essere un’emergenza a livello internazionale nella sfida per lo sviluppo, perché produca una cultura di base dei cittadini, superando l’idea di un suo ruolo tecnico, funzionale a specifici ambiti lavorativi. La fisica in particolare (Olsen, Prenzel, Martin, 2011) viene spesso confusa con la tecnologia, considerata e proposta nelle scuole come una disciplina deterministica e totalizzante, che ammette solo un mondo misurabile che utilizza difficili strumenti formali astratti di cui non se ne comprende l’utilità. Questa visione è legata ad una specifica didattica e viene completamente stravolta tutte le volte che i giovani si trovano davanti ad un problema vero, a una sfida intellettuale da cui risultano motivati ed in cui dimostrano grande impegno (Viennot 2008). Il problema di una cultura scientifica dei cittadini si pone pertanto in termini culturali ampi. Si deve offrire l’occasione di capire cosa la scienza è e cosa non è, di cosa e come si occupa nel processo conoscitivo, di come individua e controlla potenzialità e limiti del proprio operato. L’educazione scientifica non può risolversi con l’informazione o il semplice racconto dei risultati di ricerca, ma deve essere sede di una meta-riflession, in cui strumenti e metodi della scienza vengono conosciuti e ri-conosciuti (Fensham, 2001; Hesteness, 2007; Viennot, 2008; Michelini, 2010). Si deve migliorare l’educazione scientifica con esperienze organiche su cui ragionare (non campi di esperienze isolate) e con laboratori per esplorare i fenomeni coi sensi, con la mente, con sensori e strumenti come estensione dei sensi. Si deve avviare l’educazione scientifica molto presto con insegnanti preparati sin dai primi livelli scolari (Buckberger, et al. 2000; Michelini, 2004). La preparazione degli insegnanti e del loro sviluppo professionale è un problema generalizzato, come documentano i risultati dell’indagine TIMSS (Mullis, Martin 2008): la quasi totalità degli insegnanti di ambito scientifico è vincolata ai libri di testo nella propria didattica ed oltre la metà impegna la metà del tempo nell’esposizione della “teoria” o nel fare esercizi, non molti (30%) offrono esperimenti dimostrativi e solo pochi coinvolgono attivamente i ragazzi nella conduzione di esperimenti o in esplorazioni. Il principale problema per la ricerca in didattica della fisica (PER) è quello di individuare strategie efficaci per for-
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mare insegnanti professionalmente preparati a progettare la propria didattica come ambienti di apprendimento attivo. Da un’indagine effettuata nell’ambito del progetto europeo STEPS TWO (2012), che ha coinvolto 75 università europee, è emerso che nella maggior parte dei Paesi, i programmi di formazione iniziale degli insegnanti (FII) utilizzano due principali modelli: a) sequenziale, in cui la formazione disciplinare precede una separata e generale formazione pedagogica; b) parallelo, in cui contenuti disciplinari e pedagogici generali vengono offerti in parallelo, ancora in forma disgiunta. Emerge, inoltre, che la comprensione dei contenuti disciplinari prodotta nei corsi della formazione iniziale, non è quella comprensione concettuale che i futuri insegnanti dovranno far sviluppare ai loro futuri studenti (Titulaer, 2011). Il problema della FII coinvolge piani diversi: strutture della formazione degli insegnanti e sua organizzazione; discipline, contenuti, attività e contributo della ricerca didattica; essi vengono visti con prospettive diverse da diversi soggetti (ministri /politici, facoltà/dipartimenti, reti nazionali, comunità di ricerca) (Vollmer 2003). Le risposte però a tali problematiche possono venire solo dall’integrazione tra il mondo della ricerca didattica e quello della formazione insegnanti. Sembra offrire un’importante progresso in questo contesti il modello italiano, basato su quattro aree in cui l’area dei laboratori didattici e quella del tirocinio si aggiungono e saldano quelle disciplinari e pedagogiche per realizzare nel tirocinio una formazione situata. La teorizzazione della Pedagogical Content Knowledge (PCK) di Shulman (1986) propone conoscenze specifiche di tipo professionale in ambito disciplinare per la costruzione di competenze per l’insegnamento della fisica (Shulman, 1986; Guess-Newsome, 1999; Magnusson, et al. 1999). Nel presente lavoro si propone una riflessione che va oltre tale teorizzazione per delineare un modello di integrazione di competenze e modalità di formazione degli insegnanti, che viene qui esemplificato nel caso di un modulo formativo sull’energia progettato e sperimentato nell’ambito della formazione primaria.
2. Pedagogical Content Knowledge (PCK) e formazione degli insegnanti La teorizzazione della PCK mira a far comprendere in che cosa consiste e come avviene la crescita della conoscenza dell’insegnante nella prospettiva della sua professionalità, caratterizzata dalla conoscenza didattica dei contenuti disciplinari, che differisce sia dalla conoscenza disciplinare, sia da quella pedagogica (Shulman, 1986). La sua discussione sulla “insegnabilità” (Pedagogical Content Knowledge PCK) di un contenuto evidenzia la necessità di specifiche conoscenze didattiche legate alla disciplina di insegnamento. La PCK comprende le forme più utili per la didattica di analogie significative, di rappresentazioni, illustrazioni, esempi, spiegazioni e richiede la comprensione di ciò che rende facile o difficile l’apprendimento di specifici argomenti, la conoscenza delle concezioni/ preconcezioni/ misconcenzioni degli studenti, della loro influenza sull’apprendimento e delle strategie fertili nella riorganizzazione della comprensione. La riflessione di Shulman ha posto nuove domande di ricerca sulla conoscenza dell’insegnante: Quali sono il dominio, le categorie, le fonti della conoscenza dei contenuti nella mente dell’insegnante? Come sono correlate conoscenza del contenuto e conoscenza pedagogica generale? Come avviene l’apprendimento di nuova conoscenza da parte dell’insegnante e come tale conoscenza viene trasformata in contenuto che gli studenti comprendono? Quali sono le fonti di analogie, me-
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tafore, esempi che un insegnante usa nella sua didattica e come impiega la sua expertise per generarle? (Shulman, 1986). Shulman individua tre categorie principali di conoscenze dell’insegnante, la cui integrazione determina le PCK: la conoscenza dei contenuti pedagogici generali (pedagocical knowledge - PK); la conoscenza dei contenuti disciplinari (subject matter content knowlegìdge - CK), che si riferisce all’estensione e organizzazione della conoscenza disciplinare nella mente dell’insegnante, come conoscenza per sé; la conoscenza curricolare (curricular knowledge), che comprende: programmi per l’insegnamento; di una disciplina; materiali didattici (testi scolastici, libri, articoli, esiti di ricerche, percorsi didattici); strumenti per esperimenti didattici, software; contenuti degli esami. Tre principali sono le fonti di conoscenza per l’insegnante: A) ricerche su percorsi di insegnamento/apprendimento (I/A) e sul ruolo per la didattica di strategie di insegnamento attivo e relativi risultati nella pratica scolastica, studi sperimentali sull’efficacia dell’insegnamento; B) conoscenza generale e aneddoti su esperienze didattiche effettive; C) Conoscenza strategica, legata a padronanza di procedure, contenuti, loro organizzazione logica nel razionale di un percorso didattico; riflessione sulla propria conoscenza; competenze metacognitive per progettare attività curriculari. A tali fonti, gli insegnanti stessi contribuiscono con documentazione di casi emblematici e buone pratiche, con studi sperimentali sull’efficacia dell’insegnamento e su come avviene la trasformazione delle proprie conoscenze in contenuti, azioni, progetti per l’insegnamento. La teorizzazione di Shulman ha dato luogo a un’ampia letteratura (Guess-Newsome, Lederman, 1999; Cassan, Michelini, 2010; Fischer et al. 2012). Gli studi sull’impatto della sua traduzione operativa in azioni formative, hanno fatto emergere l’importanza di espliciti momenti di integrazione tra contenuti disciplinari e contenuti pedagogici per la formazione alle PCK, pur senza raggiungere una condivisione sul ruolo che tale integrazione ha e come debba realizzarsi (Guess-Newsome 1999). Differenziati filoni di ricerca sulla PCK si sono orientati a studiare: diversi approcci, test e strumenti per misurare la PCK; quale PCK favorisce l’apprendimento e la motivazione; PCK-in-azione e PCK-sull’azione (componente riflessiva dell’insegnante); modelli di sviluppo delle competenze operative e strumenti per misurarle (Abell, 2007; Guess-Newsome, 1999; Rohaan, et al. 2010).
3. Nuovi modi di pensare alla formazione professionale degli insegnanti di ambito scientifico Il Green Paper on Teacher Education in Europe (Buckberger, et al. 2000) sottolinea il ruolo cruciale della progettazione di appropriate situazioni di I/A in cui i futuri insegnanti possono trovare occasioni di sviluppo delle principali abilità professionali. Le principali attività formative in questa prospettiva sono: la ricostruzione didattica dei contenuti disciplinari, l’esplorazione e progettazione di situazioni di Problem Solving, l’analisi di concetti chiave su cui si incentrano tipicamente le difficoltà di apprendimento degli studenti; l’analisi dei ragionamenti degli studenti in attività di I/A. A partire da tali indicazioni il secondo seminario internazionale del GIREP sul “Quality development of physics teachers” (Michelini, 2004), ha sottolineato tre bisogni principali: A) raccordo/collaborazione tra scuola e università; B) specifici programmi professionali per la formazione degli insegnanti; C) PER (Ricerca
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didattica in fisica) integrata con la formazione degli insegnanti e la didattica scolastica. Nel contesto dei lavori per lo “Human Talent Management”, la preparazione di un insegnante di ambito scientifico è stata analizzata in termini di competenze nel suo profilo professionale, prospettiva poi adottata nel simposio del progetto Europeo STEPS TWO sulla formazione insegnanti tenutosi nella conferenza GIREP 2010 (Michelini, Sperandeo, 2014). Esso ha delineato un quadro condiviso delle competenze che l’insegnante deve avere: abilità ad indirizzare, padroneggiare e gestire specifiche conoscenze e metodi relativi all’area di interesse; capacità di integrare diversi tipi di conoscenza e metodi in una rete flessibile; abilità a trasformare tale rete di conoscenze e metodi in una sinergica attitudine a fare/operare in concreto. Le raccomandazioni prodotte dal progetto STEPS TWO (Titulaer, 2011) per la UE in termini di eurobenchmarks per la formazione degli insegnanti in fisica riguardano l’aiuto ai Dipartimenti per progettare e adattare i programmi per la formazione insegnanti, l’individuazione di standard per il Controllo di Qualità (valutazione e accreditamento), programmi supplementari per insegnanti che necessitano di ulteriori qualifiche (soprattutto in Paesi con percorsi rapidi per la FII) e linee guida per il riconoscimento della qualifica degli insegnanti nei diversi Paesi UE. STEPS TWO ha indicato che i requisiti centrali richiesti per la FII sono la natura universitaria e preferibilmente a livello di Master, basata sulla ricerca nelle tre componenti: 1) Fisica, 2) Didattica della Fisica, 3) Pedagogia applicata e aspetti sociali; ha sottolineato che essa deve comprendere attività pratiche a scuola, prevedere una tesi su attività di insegnamento effettivamente svolte. Competenze ed obiettivi centrali per l’insegnamento della fisica sono: 1. Chiarire cosa è la scienza e la fisica in particolare, promuovendo una formazione scientifica di base - scientific literacy – e l’interesse/la disposizione per ulteriori apprendimenti; 2. Offrire la fisica ai bambini, usando multi-rappresentazioni e creando un ponte con l’esperienza quotidiana; 3. Progettare un percorso di I/A con i relativi vincoli; 4. Sperimentare questo percorso, scegliendo ed elaborando materiali didattici, valutando la loro efficacia ed imparando dall’esperienza fatta; 5. Conoscere e avere esperienza di un ampio spettro di metodi nella didattica della fisica, compresi esperimenti didattici ed impiego differenziato di tecnologie multimediali; 6. Individuare difficoltà concettuali ed organizzare ambienti di apprendimento per il loro superamento.
4. Andando oltre Shulman: la conoscenza di base per l’insegnamento La teorizzazione di Shulman che vede la PCK come esito dell’integrazione della conoscenza dei contenuti (CK), della conoscenza pedagogica (PK) e della conoscenza concettuale (CoK) non è di per sé sufficiente ad indicare efficaci strategie di formazione e preparazione degli insegnanti (Guess-Newsome, 1999; Michelini, 2004). In questo contesto, serve guardare ai modelli di FII, ai modi in cui attuarli, studiando il processo. Diverse ricerche (Guess-Newsome, 1999; Michelini, 2004; Viennot et al. 2005) hanno evidenziato che una conoscenza dei contenuti (CK) e una conoscenza pedagogica di base (PK) separate determinano che la conoscenza scientifica e i ragionamenti ingenui o di senso comune co-esistono nello stesso terreno in forma spesso contraddittoria; non si produce nell’insegnante l’integrazione tra CK – PK; lo stile di insegnamento riproduce quello trasmissivo tipico della formazione universitaria, che propone una serie di risposte a questioni non poste o che lo studente non riconosce come sue; il ragionamento di senso comune è evocato come stra-
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tegia per coinvolgere lo studente, ma non è usato come punto di partenza per produrre l’evoluzione del modo di pensare dello studente; non è promosso il passaggio da una prospettiva locale a una globale nei ragionamenti. La soluzione proposta è quella di costruire le CK attraverso percorsi formativi centrati su proposte didattiche innovative basate sulla ricerca (Corni, Michelini, Stefanel 2004; Eylon, Bagno, 2006; Heron, Michelini, Stefanel, 2011). Ciò realizza la necessaria integrazione tra CK e corrispondenti PCK. Ciò però non basta per formare docenti in grado di attivare le PCK in contesti reali di insegnamento, di tradurre le competenze sui nodi disciplinari in competenze nella progettazione di azioni atte a farli.
5. Modelli per la formazione degli insegnanti
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La modalità con cui si offrono i tre ambiti di conoscenza dell’insegnante (CK-Subject Matter Content Knowledge; PK-Pedagogical Knowledge; PCK-Pedagogical Content Knowledge) implicano esperienze e quindi competenze diverse. Tre sono i principali modelli di riferimento sperimentati per proposte didattiche innovative: Metaculturale, Esperienziale, Situato (Benciolini, et al., 2000; Michelini et al. 2013). Tali modelli si integrano con l’apprendimento informale acquisito nell’esperienza, nel processo di ricerca-azione dell’insegnante che sperimenta le proposte didattiche oggetto della formazione e riflette su di esse con criteri e strumenti di ricerca. Il modello Metaculturale implica la discussione critica di elementi culturali e pedagogici di una proposta innovativa, esplicitando i contenuti, i processi che caratterizzano l’apprendimento disciplinare specifico (CK) e gli aspetti didattici (PK); in particolare si basa su case study di proposte didattiche, oltre che sull’analisi delle difficoltà di apprendimento correlate, che la proposta didattica oggetto della formazione mira a superare. Lascia all’insegnante la traduzione operativa della proposta nel contesto specifico, la programmazione e la preparazione di materiali didattici per lo studente e talvolta anche le scelte di strategie e metodi. Tale modello si avvale di materiali di supporto per la progettazione e l’attuazione in classe delle proposte, che possono essere organizzati in ambienti WEB di risorse di materiali professionali per gli insegnanti. Gli ambienti GEIWEB per la scuola di base (Bosio, et al. 1999; Pugliese, Michelini, 2001) e SECIF per la scuola superiore (Michelini, Meneghin, et al. 2002; Cobal, et al. 2002) da noi prodotti a tale scopo (fig. 1) mette a disposizione degli insegnanti esempi di esperimenti, percorsi didattici, esiti di ricerche sull’apprendimento basate su tali percorsi e rassegne di ricerche documentate in letteratura, materiali per la valutazione, applet per la modellizzazione e simulazione; documentazione di sperimentazioni didattiche su innovazioni nell’I/A. Il sito dell’Unità di Ricerca in Didattica della Fisica (URDF 2000, www.fisica.uniud.it/URDF) costituisce un portale di ambienti, materiali e risorse di questo tipo per la formazione degli insegnanti.
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Fig. 1 - Home page di GEIWEB e dell’ambiente SECIF per la formazione insegnanti (URDF, 2000)
I risultati di ricerca hanno mostrato che una formazione basata solo sul modello Metaculturale, seppure offrendo materiali di ricerca e studiati per supportare gli insegnanti nella formazione e nella progettazione didattica, non è sufficiente. I percorsi didattici progettati degli insegnanti sono spesso poco organici, traducono le proposte innovative con lacune in punti cruciali, la coerenza dei ragionamenti e lo sviluppo della comprensione concettuale non sono focalizzati, lo stile di insegnamento è centrato sull’insegnante anche nell’attuazione dell’innovazione (Guess-Newsome, 1999; Michelini, 2004; Viennot, et al. 2005). Il modello Esperienziale traduce operativamente in vissuto dell’insegnante strategia e metodi didattici proposti: l’insegnante ha personale, diretta esperienza dei percorsi concettuali che saranno proposti ai loro studenti. Mediante i materiali didattici preparati per gli studenti, l’insegnante in formazione fa la stessa attività che sarà poi proposta agli studenti, riflettendo sui singoli passi in cui essa si sviluppa, valutandone le valenze didattiche e i limiti, individuando i nodi risolti e quelli aperti (McDermott et al. 2000; Marucci, et al. 2001; Michelini, Santi, Sperandeo 2002; Sokoloff, et al. 2004). La costruzione delle competenze didattiche sui contenuti diventa in tale modello parte della formazione alle PCK in quanto la riflessione sul processo formativo attivata dai tutorial si incentra sui nodi concettuali dello specifico contenuto disciplinare. La metodologia Inquiry Based Learning (IBL) e la strategia PEC indirizzano alla progettazione dei tutorial su cui si basa la formazione in tale modello. Esse prevedono domande stimolo per: P – Fare previsioni su uno specifico fenomeno; E – Effettuare l’esperimento/esplorazione; C - Confronto (Thornton, Sokoloff, 1999; Theodorakakos, et al. 2010; Michelini, Santi, Sperandeo, 2002). Attraverso esplorazioni individuali o a piccolo gruppo e con dialoghi di tipo rogersiano (Lumbelli 1996) si trovano: regole descrittive contingenti; regole generali con condizioni (“quando faccio…allora osservo”…); interpretazioni locali, globali, causali. Nelle nostre ricerche, come strumento di monitoraggio di tale processo sono state progettate e messe a punto schede esplorative interrogative (Exploring, Inquiring, Cards – EIC) (Bosio et al. 1997) di tre tipologie: A) implementa in forma aperta le domande che attivano il ciclo PEC in merito a una specifica situazione/problema; B) Propone l’analisi di una prima situazione che funge da ancora cognitiva, un nuovo scenario ponte attiva la costruzione di una conclusione più ricca di quella raggiunta nel primo caso; C) Rappresentazione di un grafico acquisito con sensori collegati in linea con l’elaboratore e osservati in tempo reale; descrizione del grafico osservato; spiegazione del grafico osservato (Bosio et al., 1997; Stefanel et al., 2002; Michelini 2006, 2010). Il laboratorio in tempo reale si è
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dimostrato un’efficace modalità formativa per insegnanti sulla fisica di base sia nella scuola primaria sia in quella secondaria nell’analisi del moto con sensori online o nell’analisi delle interazioni termiche con sensori di temperatura (Aiello et al 1997; Corni et al. 2004; 2005). Per completare in modalità blended la formazione, sono stati progettati Learning Object in rete per una rianalisi degli esperimenti effettuati in aula (Bochicchio et al., 2005). Nel modello Esperienziale, il docente viene coinvolto nell’andare a fondo sui nodi concettuali su cui si incentra la proposta oggetto della formazione, sulla riflessione in merito alla valenza didattica del singolo passaggio, della singola attività, del singolo esperimento. Il rischio è che perda di vista la coerenza complessiva del percorso didattico e gli obiettivi primari a cui esso mira, focalizzandosi invece su obiettivi secondari o puntuali. L’integrazione di modalità Esperienziali con attività Metaculturali recupera la visione globale e porta a un valore aggiunto nella formazione. Il modello Situato dà risposta al bisogno di competenza nel saper attivare le PCK in situazioni didattiche reali sia nella pratica didattica con gli studenti, sia nelle fasi di progettazione di un percorso didattico e messa a punto per la sua implementazione e in quelle di monitoraggio e valutazione, oltre che di documentazione. Prevede attività di progettazione per contesti specifici e la relativa implementazione. L’apprendimento dell’insegnante avviene attraverso la riflessione sull’esperienza di lavoro in classe e produce crescita della professionalità per un’innovazione che emerge dalle necessità didattiche. Come attività di ricerca-azione una formazione Situata recupera gli apprendimenti informali dell’insegnante maturati nell’esperienza. Nelle nostre ricerche di formazione insegnanti, la formazione situata si realizza con modalità differenziate in laboratori concettuali (CLOE), in attività laboratoriali strutturate, in attività di tirocinio nelle classi con modalità sempre integrate con attività Metaculturali ed Esperienziali (Michelini 2004).I laboratori concettuali CLOE sono contesti di ricerca sui processi di apprendimento che diventano momento formativo per i docenti in formazione, che effettuano un’osservazione strutturata dell’attività con gli studenti condotta da un ricercatore, acquisendo competenza a loro volta nel saper condurre un’attività analoga con una altro gruppo di studenti, avendo avuto esperienza diretta delle domande, e risposte tipiche degli studenti e dei loro percorsi concettuali (Stefanel, et al 2002; Bradamente, Fedele, Michelini, 2005; Michelini, 2006). I problemi di ricerca sui processi di apprendimento che sono stati esplorati nei CLOE sono: ruolo dell’operatività (pratica e concettuale) e del coinvolgimento personale nell’esplorazione di fenomeni, ragionamenti tipici nell’interpretazione di fenomeni attivati dall’operatività, piani di formalizzazione nell’analisi dei fenomeni (descrittivo, interpretativo, modelli usati nelle diverse situazioni). I risultati di tali ricerche mettono in luce ragionamenti di senso comune da cui emerge che ogni osservazione di un fenomeno attiva un’idea interpretativa (esplicita o implicita) (Michelini, 2006; 2010). Ciascuno di noi nel leggere la fenomenologia fa ragionamenti di senso comune, che originano da: elementi percettivi ed evidenze sperimentali contingenti (sensazione termica, meccanismo della visione), ambiguità del linguaggio (avere forza), modelli interpretativi storici superati ed entrati nella nostra cultura (calore). Il relativo livello di coerenza ne determina la resistenza; la conoscenza scolastica e i ragionamenti naturali spesso co-esistono nello stesso territorio. Dalle ricerche in didattica scientifica emerge che vi sono angoli strategici dai quali la conoscenza di senso comune interpreta la fenomenologia (Viennot, 2008); essi spesso non coincidono con la struttura ortodossa della disciplina: è
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perciò necessario trovare ponti per raggiungere la visione scientifica e chiavi interpretative, che emergano in termini operativi per un grande numero di contesti fenomenologici (Michelini, 2010). La capacità di leggere ed interpretare un processo dipende dalla costruzione di un modello interpretativo globale (Duit, 2009; Viennot, 2008; Michelini, 2006; 2010). Raggiungere il livello scientifico richiede il superamento di ostacoli di varia natura per raccordare i modelli di senso comune con quelli scientifici (Vosniadou, 2004). Il pensiero formale deve crescere con le idee e le ipotesi interpretative, attivandosi in modo funzionale ai bisogni con capacità operative in diversi contesti (Michelini, 2010). Nella nostra ricerca sui processi di apprendimento si esplorano gli ostacoli da superare per raggiungere il livello scientifico di comprensione e la costruzione del pensiero formale (Michelini, Sperandeo 2011). Si pone attenzione alla logica interna dei ragionamenti, ai modelli mentali spontanei, alla loro evoluzione dinamica a seguito di stimoli problematici (inquiry learning) in proposte di percorsi. Sperimentazioni di ricerca permettono di esplorare in modo operativo il contributo per l’apprendimento di proposte didattiche (Bradamante, Fedele, Michelini, 2005; Heron, Michelini, Stefanel, 2008; Colonnese, et al. 2012).
6. RIMPEC – Un modello di formazione in fisica degli insegnanti basata sulla ricerca Il nostro riferimento teorico per la ricerca didattica è il Model of Educational Reconstruction (MER) (Duit, et. al. 2005; Duit, 2008). La struttura del MER prevede un bilanciato contributo dei seguenti elementi: A) Analisi della struttura dei contenuti attraverso la A1. Chiarificazione disciplinare che richiede l’analisi di libri di testo e pubblicazioni, dello sviluppo storico delle idee, delle concezioni e idee spontanee dei ragazzi; A2. Analisi della significatività educativa; B. Ricerca empirica sui percorsi di I/A; C. Sviluppo di materiali e attività di ricerca, proposte di I/A con nuovi metodi. L’integrazione da noi proposta dei modelli Metaculturale, Esperienziale e Situato per attuare una formazione degli insegnanti efficace sulle PCK si colloca in questo contesto ed implica la fondazione sulla Ricerca della Integrazione dei Modelli qui presentati per la didattica della fisica (Physics Education) in termini di Competenze (Research based Integrated Model for professional Competences in Physics Education - RIMPEC) Nel RIMPEC la costruzione della CK viene attivata attraverso la riflessione sulla disciplina nella prospettiva della MER, sul vissuto dei propri nodi concettuali irrisolti nelle attività esperienziali, sui nodi concettuali degli studenti nell’apprendimento nelle attività situate. Attraverso ciò si sviluppano le PCK-in-azione e le PCK-sull’azione, con sperimentazioni di proposte di I/A basate su microstep concettuali in cui l’insegnante, oltre ad avere esperienza dell’interazione con gli studenti, forma le sue competenze nella pianificazione didattica e apprende le metodologie di monitoraggio e analisi dei dati di ricerca sull’apprendimento, integrando ricerca curricolare (Constantinou, 2010) e ricerca empirica (Niedderer, 2010). Requisiti irrinunciabili del curriculum RIMPEC appaiono essere: l’offerta di una conoscenza concettuale disciplinare (CoK - integrando MER e PCK), la gestione di strumenti didattici, l’attenzione ai processi d’apprendimento, l’integrazione della ricerca didattica nella formazione. Il contributo multidimensionale della ricerca in didattica della fisica alla formazione degli insegnanti comprende:
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l’analisi dei ruoli di ciascun modello per la formazione di competenze professionali; la progettazione e produzione di risorse su: 1) nodi concettuali e difficoltà (Empirical Research), 2) proposte di I/A (Design Based Research), 3)analisi dati di apprendimento (Empirical research), 4) progettazione (integrando Design Based Reserach ed Empirical research), 5) individuazione, messa a punto e validazione di strumenti e metodi, rubriche, test, schede tutoriali (Fischer et al.2005. Constantinou 2010). La struttura del RIMPEC per la formazione degli insegnanti, schematizzato in fig. 2, deve prevedere l’integrazione dei seguenti elementi: a) concettualizzazione di contenuti disciplinari basata sulla discussione di singoli concetti, di proposte didattiche, di difficoltà di apprendimento e di processi di apprendimento relativi allo specifico argomento considerato; b) analisi di proposte didattiche per creare sensibilità e risonanza alla progettazione coerente centrata sugli apprendimenti dei ragazzi; c) integrazione di modelli formativi Metaculturale, Esperienziale e Situato come modalità di sviluppo di competenze pedagogiche dei contenuti (PCK).
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Fig. 2 - Struttura del modello RIMPEC da noi sviluppato per lo sviluppo di competenze pedagociche dei contenuti di fisica (PCK).
Nell’ambito del RIMPED sono stati sviluppati questionari PCK, differenziati per tematica e per livello scolastico, che sostengono e consolidano lo sviluppo delle competenze professionali dell’insegnante su specifici nodi concettuali (Heron, et al., 2011; Michelini, Santi, Stefanel, 2014; Michelini, Stefanel, 2014; Michelini, Mossenta, 2014; Michelini, Viola, 2009). Essi sono costruiti selezionando situazioni e problemi di apprendimento nella letteratura di ricerca didattica e sono strutturati in due parti: CK, in cui l’insegnante in formazione esplora le proprie idee sul problema e PCK, in cui è richiesta la riflessione sui possibili ragionamenti coinvolti nelle risposte di studenti e l’individuazione di modalità di intervento. Vengono utilizzati anche per una valutazione formativa degli insegnanti in formazione per esplorare come gli insegnanti discutono le tipiche risposte degli studenti sullo stesso quesito che era stato posto loro nella parte CK.
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7. Un caso di applicazione del modello RIMPEC per la formazione degli insegnanti primari sull’energia Il modello formativo RIMPEC di cui si sono delineate le caratteristiche principali, è stato tradotto operativamente in Moduli di Intervento Formativo (MIF) su diversi ambiti tematici. Qui si sintetizza lo schema del MIF sull’energia sperimentato con 332 studenti del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria presso l’Università di Udine, negli ultimi anni accademici. Esso è l’esito di ricerche condotte dal 2008 sulla didattica dell’energia nella scuola primaria (Heron et al., 2011), approfondite nell’ambito del gruppo tematico sull’energia del GIREP (Heron, Michelini, 2014). In Tabella 1 è schematizzato il MIF che si articola in due parti principali, più una terza parte progettuale e di valutazione. Nella prima parte (parte CK) è stata proposta una discussione disciplinare sul concetto di energia a partire da un’impostazione classica basata sulla conservazione dell’energia meccanica a partire dal concetto di lavoro. Nella seconda parte (laboratoriale PCK) si sono integrate: a) l’analisi della proposta HMS sull’energia con impostazione profondamente diversa e basata sulla ricerca (Heron, et al. 2008; 2009), b) la discussione di proposte didattiche di impostazione differenziata al concetto di energia e c) l’analisi dei principali nodi concettuali dalla letteratura (Millar, 2005). !"#$%&'%%'&"#()*#+,-#$'**.)/)&01"#2)&#*"#34&5"614/)#1/161"&*)#()0*1#1/$)0/"/%1#(1#$7'4*"#2&15"&1"# !"#$%&'&
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Tab. - 1 Struttura del MIF sull’energia per la formazione primaria basato sul Modello RIMPEC. Per ciascuna delle tre parti in cui si articola sono specificate le fasi di lavoro, il compito previsto per gli studenti, la tipologia di attività svolta (M: Metaculturale; E: Esperienziale; S: Situata).
La discussione del percorso didattico basato sulla ricerca HMS sul concetto di energia (Heron et al.2008, 2009) è stata ponte di raccordo tra la prima parte del MIF, dedicata alla formazione sulla conoscenza dei contenuti dell’insegnante (Parte CK), e la seconda parte, focalizzata sulla costruzione delle PCK. Il percorso HMS prevede un ruolo attivo dei bambini, in cui idee e riflessioni si sviluppano in un contesto di gioco nella esplorazione di fenomeni e processi che i bambini realizzano con giocatoli, materiali a basso costo, di facile reperibilità, familiari,
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coinvolgenti. Schede tutorial che attivano una strategia PEC (Thornton, Sokoloff, 1999; Theodorakakos et al., 2010) e un approccio inquiry based learning (McDermott et al., 2000) sono utilizzate come strumento di lavoro coi bambini e strumento di monitoraggio dei loro percorsi di apprendimento. Principali obiettivi concettuali per i bambini e quindi anche per gli insegnanti in formazione sono: 1) l’energia si presenta in differenti tipi (cinetica, potenziale, interna, associata alla radiazione (luce)) [...non forme, come l’eolica, l’idroelettrica legate ai metodi di produzione dell’energia elettrica]; 2) l’energia è una proprietà di stato di un sistema [non una sostanza … una benzina universale]; 3) quando i sistemi interagiscono si hanno trasformazioni di energia; 4) trasformazioni di energia mi denominano le forme che si esplorano nei processi quotidiani e qualche esempio di produzione dell’energia su larga scala; 5) è semplice misurare la variazione di qualche tipo di energia (mediante variazioni di altezza, di temperatura); 6) nelle trasformazioni l’energia cambia di forma o di tipo, ma ne ho sempre in totale la stessa quantità “conservazione dell’energia” come presupposto qualitativo; ; 7) ci sono differenti forme dell’energia interna. Il questionario PCK sull’energia è stato strutturato in due parti (Tabella 2): A – in cui si raccolgono i modi con cui gli insegnanti in formazione discutono espressioni come conservare, trasformare, perdere energia passando dal significato quotidiano a quello scientifico; B – in cui si propongono tipiche situazioni (simulazioni di situazioni didattiche), che riguardano nodi concettuali sull’energia individuati in letteratura di ricerca (Millar, 2005). !
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Tabella 2 - Questionario PCK
Si possono qui sintetizzare alcuni principali risultati del MIF sull’energia relativi a 113 studenti dell’AA 2010-11, rimandando ad altri lavori per approfondimenti (Heron et al., 2011; Michelini, Santi, Stefanel, 2014). Il questionario è stato somministrato in tre fasi; i criteri per identificare l’energia del quesito Q1 sono soltanto 1-2 per il 90 % delle risposte e 3 per il 10% delle risposte nella prima somministrazione; tali criteri diventano nella seconda somministrazione 1-2 criteri per il 40 %, 3-4 per il 60%; nell’esame finale 2 criteri per il 20%, 3-4 per l’80%. In fig. 3 Sono riportate le distribuzioni delle categorie (non esclusive) di risposta in cui si evidenzia la progressiva modifica nel modo di identificare l’energia: da grandezza che si produce ed è presente nelle diverse forme che fanno riferimento ai diversi modi di produrre energia elettrica, all’energia come grandezza posseduta dai corpi (anche fermi), che si trasforma e si conserva ed è presente in
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4 tipi (cinetica, potenziale, interna e della radiazione). Analoga evoluzione sul concetto di energia si può riscontrare per quello che riguarda gli altri quesiti della parte A (Michelini, Santi, Stefanel, 2014). Dall’analisi dei quesiti PCK della parte B emerge che, il 78% degli studenti ha costruito personali coerenti significati dei concetti di trasformazione, conservazione, trasferimento, perdita di energia. L’82% ha sviluppato competenze didattiche in merito alla conoscenza delle idee dei bambini sui nodi concettuali dell’energia, ai correlati problemi di apprendimento ed agli approcci didattici operativo/esplorativi per affrontarli. Tali approcci si trovano anche nell’75% dei progetti didattici consegnati per la prova d‘esame. Q1 - Cosa sai sull’energia
Necessaria per far funzionare apparati
Prodotta nelle interazioni
Necessaria per vivere
I somministrazione
Differenti forme
II somministrazione
Proprietà posseduta dai corpi (anche fermi)
Si trasforma si conserva
Differenti Tipi (cin. pot; int, radiazione)
Esame finale
Fig. 3 Distribuzione delle categorie di identificazione dell’energia nelle tre somministrazioni: all’inizio e alla fine della II parte del MIF, nell’esame finale.
Le elaborazioni realizzate in gruppo al termine della parte II del MIF, sono decisamente più ricche e coerenti di quelle proposte dai singoli componenti (75%). Il lavoro di gruppo ha favorito il raggiungimento di una visione globale coerente sul concetto di energia e sui modi di affrontarlo con i bambini.
Considerazioni conclusive Lo sviluppo professionale degli insegnanti specialmente in ambito scientifico è ancora oggi il nodo cruciale da risolvere per migliorare l’apprendimento/insegnamento scientifico, favorire lo sviluppo di una cultura scientifica integrata con le altre dimensioni della cultura dei cittadini, che dia strumenti di interpretazione delle fenomenologie quotidiana, che produca le basi per la costruzione di competenze specifiche, come pure capacità di lettura delle problematiche sociali sulle quali saremo sempre di più richiesti di intervenire con scelte responsabili e competenti. La professionalità docente, centrale nel processo formativo, è stata oggetto di studi, che hanno evidenziato, per l’ambito scientifico in sistemi d’istruzione diversi, l’adozione prevalente di insegnamenti disgiunti e di carattere generale su contenuti di tipo pedagogico e di tipo disciplinare. Nella prospettiva della teorizzazione di Shulman sulla Pedagogical Content Knowledge (PCK) le conoscenze che l’insegnante deve acquisire riguardano anche lo specifico professionale dei modi in cui l’azione didattica si espleta in relazione ai contenuti disciplinari, ivi compresi casi di studio. I risultati dei nostri studi evidenziano che lo sviluppo delle specifiche compe-
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tenze professionali degli insegnanti richiede le conoscenze indicate da Shulman, ma non può essere lasciato al lavoro individuale dell’insegnante l’integrazione di contenuti appresi nei diversi ambiti: sono necessarie specifiche attività e modalità. Quella comprensione concettuale dell’insegnante, che attiva nei ragazzi il pensiero critico, l’esplicitazione e l’evoluzione di idee interpretative e lo sviluppo del pensiero formale, richiede l’analisi di percorsi didattici, di nuclei fondanti e nodi di apprendimento specifici. In tale prospettiva abbiamo studiato e sperimentato un modello (RIMPEC) basato sulla ricerca per la formazione degli insegnanti in fisica finalizzato alla costruzione di competenze progettuali e di analisi dei processi di apprendimento. Esso integra modalità di formazione Metaculturali, Esperienziali e Situate. Si focalizza sull’analisi di percorsi didattici per la ricostruzione a scopo didattico delle conoscenze sui contenuti e per lo sviluppo di quadri coerenti in cui essi costituiscono proposte di apprendimento in contesti didattici. Offre una prospettiva a sviluppo verticale dei contenuti affrontati a partire dagli angoli di attacco spontanei di ci apprende in modalità esplorativa e problematizzante (strategia PEC) e cura la costruzione di un linguaggio non ambiguo basato sul riconoscimento del significato scientifico di termini e locuzioni del linguaggio quotidiano per una descrizione coerente di ambiti fenomenici sempre più vasti e la loro interpretazione sin dalla scuola primaria. Tale modello RIMPEC è stato qui esemplificato nel caso dell’energia per gli insegnanti di scuola primaria. I risultati di analisi qualitativa e quantitativa in ricerche empiriche in cui è stato applicato hanno messo in evidenza che si è dimostrato efficace nel produrre competenze integrate sugli specifici contenuti disciplinari e sulla loro trasformazione in contenuti scientificamente coerenti e proponibili ai bambini. Tra gli strumenti messi a punto nel modello RIMPEC vi sono i questionari PCK sui nodi di apprendimento: essi promuovono competenza sui contenuti disciplinari (CK), integrazione tra CK e PK e costruzione di competenze pedagogiche dei contenuti, riflessione sui ragionamenti dei ragazzi nei percorsi di I/A, attenzione ai ragionamenti degli studenti. Dalle nostre ricerche otto tipi di attività RIMPEC si sono dimostrate particolarmente utili per lo sviluppo professionale degli insegnanti: 1. Riflessione su concetti e nodi da diverse prospettive (CK – PCK); 2. Discussione in gruppo di concetti e nodi; 3. Analisi di percorsi didattici e discussione; 4. Questionari sui nodi di apprendimento (QNA); 5. Progettazione di moduli di intervento didattico; 6. Sperimentazione di microteaching monitorando i processi di apprendimento; 7. Tirocinio avendo responsabilità degli esiti formativi della classe; 8. Co-progettazione scuola-università di attività didattiche. La formazione iniziale degli insegnanti, in questa prospettiva, si pone come ponte tra ricerca in didattica della fisica e pratica scolastica.
Bibliografia Abell S. (2007). Research on science teachers’ knowledge. In S.K. Abell, N.G. Lederman (Eds.), Handbook of research on science education (pp. 1105-1149). Mahwa: Erlbaum. Aiello M.L., Balzano E., Corni F., De Ambrosis A., Mazzega E., Michelini M., Robutti O., Santi L., Sassi E., Sperandeo R.M. (1997). Teaching mechanical oscillations using an integrate curriculum. IJSE, 19 (8), pp. 981-995. Benciolini L., Michelini M., Mossenta A. (2000). Teachers answer to new integrated pro-
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Esperienze e rappresentazioni della valutazione negli insegnanti in formazione iniziale. Spunti per la didattica universitaria Katia Montalbetti • Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano • katia.montalbetti@unicatt.it
Teachers’ experiences and representations on evaluation and assessment in initial training. Reflections and considerations for University Teaching Nowadays the theme of evaluation and assessment has crucially been at the heart of considerable debate and attention referring to the quality of educational and formative systems. Know how to evaluate and how to do it in a well manner is a complex task for teachers due to also the increasing requests.This essay focuses upon an exploratory research conducted with students involved in university initial training to become teachers. It aims to reconstruct the previous evaluation experience lived at school and to investigate representations about the idea of evaluation and assessment. It is assumed that these elements could influence the approach to evaluation by the future teachers. Considering what has highlighted up to this point, acquire information is essential to set efficacious university courses related to evaluation issues and to foster learning, useful for professional development.
Parole chiave: valutazione, insegnanti, formazione iniziale, didattica universitaria, studenti
Keywords: evaluation, assessment, teachers, initial training, university teaching, students
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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La valutazione è oggi al centro di un considerevole dibattito e di una notevole attenzione nel quadro della riflessione più generale circa la qualità dei sistemi formativi ed educativi. In particolare, per gli insegnanti, saper valutare, e saperlo fare bene, rappresenta un compito complesso in ragione anche di richieste crescenti e di sollecitazioni non sempre coerenti. Nel contributo è descritta una ricerca esplorativa condotta con le matricole del Corso di laurea in Scienze della formazione primaria finalizzata a ricostruire l’esperienza valutativa pregressa vissuta da allievi nel contesto scolastico e ad indagare le rappresentazioni intorno alla valutazione. Sottesa vi è l’ipotesi che tali elementi possano influire sull’accostamento al compito valutativo da parte del futuro insegnante e che sia percò utile considerarli per progettare i percorsi formativi universitari afferenti ai temi valutativi in maniera efficace.
Esperienze e rappresentazioni della valutazione negli insegnanti in formazione iniziale. Spunti per la didattica universitaria
1. Quadro di riferimento
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La valutazione è oggi al centro di un considerevole dibattito e di una notevole attenzione nel quadro della riflessione più generale circa la qualità dei sistemi formativi ed educativi (Grek, Ozga, 2008; Castoldi, 2008; Wyatt-Smith, Cumming, 2009; Pastore, Salamida, 2013). Accanto alla volontà di promuovere e assicurare un’istruzione di qualità per tutti, anche la ristrettezza di risorse economiche e la necessità di una loro più oculata gestione hanno concorso a rafforzare la richiesta di valutazione. Nel nostro Paese, la volontà di costruire un Sistema valutativo nazionale ha trovato un chiaro riferimento normativo nel DPR 80/20131 cui è seguita la Direttiva del settembre (DIR n.11 del 18 settembre 2014)2; per le scuole si profila ora la necessità di individuare modalità implementative efficaci e sostenibili la qual cosa richiede coinvolgimento e impegno da parte di tutti coloro che operano nel contesto scolastico. Da più parti si lamenta la mancanza di una cultura valutativa diffusa anche se non possono essere misconosciuti segnali positivi come attestano le numerose esperienze e pratiche valutative attivate in maniera autonoma, individualmente o in rete, dagli istituti scolastici (Capperucci, 2011; Viganò, Cattaneo, 2010; Giunti, 2014; Montalbetti, Rapetti, 2015). Sebbene vi sia l’esigenza di valutare “di più e meglio” oppure, come sostiene Losito, “meglio meno ma meglio” (Losito, 2013, p. 79) l’interpretazione data a tale concetto non sempre è condivisa (Elia, 2003); a ciò conseguono pratiche alquanto eterogenee e non sempre coerenti, le quali contribuiscono ad ingenerare confusione, dubbi e sentimenti di disorientamento fra gli addetti ai lavori (Vannini, 2011). I ragionamenti e le scelte compiute in campo valutativo a livello di sistema hanno un impatto considerevole sulla pratica professionale dei docenti, chiamati sempre più spesso ad implementare azioni valutative innovative di cui non sempre colgono la logica, e sulla loro identità professionale ovvero sul modo di percepirsi come insegnanti. Il compito valutativo, per sua natura, è complesso e attiva meccanismi non sempre facilmente governabili, a motivo anche del forte carico emotivo implicito sia quando si agisce la valutazione sia quando se ne è destinatari. Molteplici sono le richieste rivolte ai docenti: implementare la valutazione nella pratica didattica quotidiana, governare i processi valutativi, impiegare i dati provenienti da fonti esterne finalizzandoli al miglioramento complessivo del sistema. Come osserva in modo pertinente Castoldi “la valutazione degli apprendimenti rappresenta il cuore della valutazione in ambito scolastico in quanto compito che la comunità sociale affida alla scuola allo scopo di certificare socialmente i ri-
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D.P.R. 28 marzo 2013, n. 80 - Regolamento sul sistema nazionale di valutazione in materia di istruzione e formazione. Direttiva Ministeriale 18 settembre 2014, n.11 - Priorità strategiche del Sistema Nazionale di Valutazione per gli anni sclastici 2014/2015, 2015/2016, 2016/2017.
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sultati di apprendimento acquisiti e valutare la produttività complessiva del sistema scolastico” (Castoldi, 2012, p. 139). Con riferimento specifico a questa area, due questioni emergono come rilevanti: la revisione critica di alcuni miti connessi in particolare con l’attività di testing, ad opera di alcuni autori soprattutto di area anglofona (Broadfoot, 2007; Gardner, Harlen, Hayward, 2010; Stobart, 2008; Boyle, Charles, 2011) e la diffusione dell’approccio sociocostruttivista che colloca la valutazione nel cuore del processo di insegnamento-apprendimento e la intende come risorsa per l’aprendimento (Pastore, Salamida, 2013; Grion, Grosso, 2011; Sorzio, 2011; Varisco, 2002; Weeden, Winter, Broadfoot, 2009). La distinzione fra valutazione formativa e sommativa introdotta da Scriven nel 1967 (Scriven, 1967) poggia sulla differenziazione fra i contesti decisionali: la prima è funzionale alla presa di decisioni circa interventi di miglioramento e di revisione di aspetti/contenuti/metodi in fase di attuazione, la seconda alla determinazione del valore e dell’efficacia del percorso e dei risultati raggiunti al termine (Giovannini & Boni, 2010). In realtà, concepire la valutazione come risorsa per l’apprendimento implica il superamento di questa distinzione poiché l’azione valutativa, di là dal momento in cui avviene e della sua specifica finalizzazione, dovrebbe essere progettata e implementata in modo da migliorare la qualità dell’apprendimento (Weeden et al., 2009; Grion, 2011). Diventa perciò significativo interrogarsi circa i modi per promuovere nei futuri insegnanti la capacità di attivare questo tipo di valutazione (Bellomo, 2013) a fronte anche di segnali normativi talvolta percepiti come contradditori (si pensi per esempio alla reintroduzione dei voti numerici nella scuola primaria3). Inoltre i docenti non sono più gli unici soggetti chiamati a valutare gli apprendimenti dei propri alunni poiché costoro sono periodicamente coinvolti in rilevazioni a livello nazionale e internazionale; i dati resi disponibili, sebbene provenienti da misurazioni piuttosto che da valutazioni, costituiscono un elemento con cui confrontarsi per evitare il rischio di un rifiuto acritico o di una loro assolutizzazione (Montalbetti, 2011). Conciliare pratiche valutative a sostegno dell’apprendimento con pratiche sommative, in particolare certificative, non è un compito semplice eppure rappresenta una sfida a cui i futuri docenti vanno gradualmente preparati. In particolare, nella formazione iniziale universitaria, va accompagnato lo sviluppo della competenza valutativa sia a livello identitario professionale, come dimensione costitutiva della professionalità, sia a livello operativo come metodo e strumento di intervento. Fra i due livelli sussiste una stretta interconnessione, ma il primo risulta sovraordinato rispetto al secondo poiché ne costituisce, in qualche modo, la cornice di senso. Numerosi studi hanno indagato l’esperienza scolastica pregressa nei futuri insegnanti e hanno dimostrato come quest’ultima influisca, in modi diretti e non, sull’accostamento alla professione, sullo sviluppo dell’identità professionale e sulle pratiche didattiche (Fajet et al., 2005; Grion, 2008; Lisimberti, 2006). Con riferimento specifico alla tematica valutativa, sono state prese ad oggetto di analisi le convinzioni degli studenti e le concezioni degli insegnanti intorno alla valutazione talvolta mettendo a confronto i loro punti di vista (Zeidner, 1992; Brookhart, 2003;
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D.P.R. 22 giugno 2009, n. 122 - Regolamento recante coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni e ulteriori modalità applicative in materia, ai sensi dgeli articoli 2 e 3 del decreto-legge 1 settembre 2008, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169.
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Cowie, 2005; Gijbels, 2006; Brown, Hirschfeld, 2008; Brown, Irving, Peterson, 2008; Peterson, Irving, 2008; Brown, 2004; Meyer, Muller, 1990; Bellomo, 2013; Rubino, Mason, 2010). Le evidenze empiriche suggeriscono di prestare attenzione all’esperienza vissuta da allievi e alle rappresentazioni della valutazione in quanto fattori che possono incidere sulle scelte compiute in ambito valutativo da parte dei futuri docenti.
2. Obiettivi e impianto della ricerca
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Il quadro teorico brevemente descritto costituisce lo sfondo in cui è originata la ricerca esplorativa presentata nel contributo. Alla sua origine sono rintracciabili diverse motivazioni: l’interesse scientifico per il tema della valutazione, la sua rilevanza culturale e sociale nonché la preoccupazione formativa da parte di chi scrive poiché direttamente coinvolta negli insegnamenti inerenti i temi valutativi per la preparazione dei futuri insegnanti. La ricerca intende indagare l’esperienza valutativa scolastica vissuta da allievi (Grion, Grosso, 2012) e le idee intorno alla buona valutazione in un gruppo di insegnanti in formazione iniziale al fine di trarre indicazioni utili per l’impostazione degli insegnamenti universitari inerenti i contenuti valutativi. In linea con le principali acquisizioni disponibili nella letteratura di riferimento, si ipotizza che l’esperienza valutativa vissuta da allievi influisca sulle rappresentazioni della buona valutazione e che entrambi i fattori possano incidere sull’accostamento al compito valutativo da parte dei futuri docenti (Grion, 2008; Fajet et al., 2005). Nella ricerca sono coinvolti gli studenti del Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria poiché per costoro l’insegnamento costituisce lo sbocco professionale prioritario; per evitare condizionamenti e influssi dovuti alla formazione ricevuta in ambito universitario si è scelto di coinvolgere le matricole4. L’esperienza diretta più recente degli studenti interpellati si riferisce alla scuola secondaria che ha forme e prassi valutative diverse da quelle della primaria; tuttavia data la vicinanza temporale si è scelto di indagare questo segmento poiché realisiticamente accessibile ai ricordi e reputato strategico per la costruzione delle rappresentazioni della valutazione. La natura esplorativa dello studio e ragioni di fattibilità hanno indotto ad interpellare le matricole iscritte, nell’anno accademico 2013/2014, al Corso di laurea sopraccitato presso le sedi milanese e bresciana dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Grazie al supporto delle strutture amministrative dell’Ateneo è stato possibile raggiungere l’intera popolazione pari a 191 studenti suddivisi fra Milano (92) e Brescia (99). Alla luce della numerosità della popolazione, dei tempi a disposizione e dei contenuti oggetto di indagine si è scelto di ricorrere ad un questionario semi-strutturato implementato on-line5. L’analisi della letteratura non ha portato all’individuazione di strumenti messi a punto in altre indagini da adottare nel presente studio e pertanto si è proceduto con l’elaborazione di uno strumento ad hoc. Data
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Al momento della somministrazione le matricole non avevano frequentato alcun corso specificatamente incentrato sulle tematiche valutative. Per la costruzione e l’implementazione del questionario ci si è avvalsi del software open source Limesurvey (https://www.limesurvey.org/)
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la natura esplorativa dello studio si è colta l’occasione per mettere alla prova il questionario al fine anche di apportare correttivi e miglioramenti in vista del suo impiego in indagini di più ampia portata. Il questionario è stato somministrato a tutte le matricole delle due sedi attraverso l’invio di un link sulla pagina personale di ciascun studente ed è rimasto attivo per poco più di un mese, dal 6 marzo al 10 aprile 2014. Le matricole hanno aderito in modo volontario; l’accettazione del questionario da parte del sistema era vincolata alla compilazione di alcuni campi chiusi. L’utilizzo di un codice di accesso ha permesso di garantire l’anonimato; al termine della compilazione i rispondenti potevano tuttavia indicare il loro nominativo per essere ricontattati e partecipare ad eventuali sviluppi dell’indagine. Nella costruzione degli item si è privilegiato l’impiego di un linguaggio semplice in modo da facilitare la comprensione da parte dei rispondenti; prima della somministrazione, il questionario è stato testato con un gruppo di matricole iscritte a un Corso di laurea diverso della stessa Facoltà. Il questionario ha una struttura mista e include domande a risposta chiusa (scelta multipla o scale tipo Likert) e domande di produzione aperte. Sul piano dei contenuti, è articolato in tre sezioni: la prima volta a delineare il profilo dei rispondenti, la seconda volta a ricostruire la loro esperienza valutativa, la terza volta ad indagare le loro rappresentazioni attorno alla buona valutazione6. La prima sezione è costituita esclusivamente da domande a risposta chiusa (scelta multipla) e rileva informazioni circa il genere, l’età, la scuola secondaria di provenienza, l’esperienza universitaria pregressa e la condizione lavorativa. La seconda sezione include domande chiuse (scale tipo Likert) e domande di produzione aperte. In apertura è richiesto di descrivere un ricordo circa l’esperienza valutativa (Pensando alle situazioni valutative vissute a scuola quale ricordo ti viene in mente?); la scelta di collocare all’inizio una domanda aperta origina dalla volontà di non guidare le risposte degli studenti e di rilevare un dato il più possibile autentico. Sono poi indagati i vissuti emotivi che precedono e seguono una situazione valutativa movendo dalla lista di emozioni proposte dal TRantor Emotions Questionnaire – TREQ, strumento sviluppato nell’ambito clinico per facilitare l’esplorazione e l’approfondimento della dimensione emotiva (Rezzonico & Bisanti, 2000). La scelta di partire da questo strumento è giustificata dalla ricchezza e dall’esaustività dei termini proposti (102 parole7) che consentono di indagare l’esperienza affettiva in senso lato e quindi di accostare la complessità degli aspetti emotivi connessi con l’esperienza valutativa (Rezzonico, De Marco, 2012). A 20 soggetti con caratteristiche simili al target, ma estranei alla ricerca, è stato chiesto di scegliere 10 emozioni ritenute più pregnanti per descrivere le emozioni
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Va precisato che alle matricole è stato chiesto di rispondere alle domande a titolo personale; al momento della somministrazione costoro non avevano frequentato alcun insegnamento universitario specifico in campo valutativo. La lista considerata infatti racchiude le emozioni definite fondamentali - gioia, paura, rabbia, tristezza, disgusto - le emozioni complesse, stati emozionali, stati d’animo, sentimenti, tratti o disposizioni emozionali, sensazioni, umore ecc.
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associate all’esperienza valutativa. Tale analisi preliminare ha portato a individuare un gruppo costituito da 6 emozioni, differenziate ai fini dell’indagine, in 3 di segno positivo e 3 di segno negativo (speranza, eccitazione, tranquillità, ansia, paura, vergogna per la fase precedente; gratificazione, senso di colpa, sollievo, frustrazione, rabbia, contentezza per la fase successiva), incluse poi nella domanda del questionario. I rispondenti sono stati poi sollecitati a ripensare a come i loro docenti gestivano la valutazione e ad individuare un comportamento giudicato positivo da replicare nella futura professione (Ripensando a come i tuoi insegnanti gestivano la valutazione indica un comportamento che non vorresti imitare nella tua futura professione motivando la tua scelta) e un comportamento negativo da cui prendere le distanze (Ripensando a come i tuoi insegnanti gestivano la valutazione indica un comportamento che vorresti replicare nella tua futura professione motivando la tua scelta). Per integrare i dati rilevati circa le condotte valutative, è stata proposta una lista di comportamenti valutativi chiedendo agli studenti di indicare se fossero messe in atto da “tutti”, “molti”, “alcuni” o “nessuno” dei loro insegnanti. L’individuazione dei comportamenti è avvenuta a partire dall’analisi della letteratura focalizzando l’attenzione su alcuni elementi reputati strategici per promuovere una valutazione a sostegno dell’apprendimento: l’esplicitazione dei criteri (Ci dicevano prima i criteri di valutazione), la riflessione sugli errori (Ci aiutavano a capire i nostri errori), il ricorso a metodi di valutazione differenziati (Utilizzavano metodi di valutazione diversi), il rinforzo a fronte di risultati positivi (Ci gratificavano a fronte di valutazioni positive), l’avvaloramento dell’impegno (Oltre al risultato davano importanza all’impegno), la promozione dell’autovalutazione (Stimolavano l’autovalutazione), l’impiego degli esiti valutativi in chiave di riprogettazione (Partivano dai risultati della valutazione per apportare modifiche alle strategie didattiche). Anche la terza sezione è costituita da domande chiuse (scale tipo Likert) e domande di produzione di aperte. Dapprima i rispondenti dovevano indicare in modo libero “Cosa rende un insegnante un bravo valutatore” e “Associare tre parole-chiave alla idea di buona valutazione”, poi riflettere sulle funzioni della buona valutazione. A fronte di un elenco costituito da 6 funzioni, 3 di segno positivo (supportare, gratificare, sviluppare) e 3 di segno negativo (punire, sanzionare, controllare) ciascun studente doveva esprimere la propria opinione indicando, su una scala a 4 livelli (per nulla, poco, abbastanza, molto), quanto la singola funzione potesse essere riferita alla buona valutazione. Da ultimo, è stato chiesto di indicare sulla medesima scala (per nulla, poco, abbastanza, molto) l’importanza dei comportamenti valutativi indagati sul piano dell’esperienza nella sezione precedente (Comunicare i criteri di valutazione, Far riflettere gli studenti sui propri errori, Utilizzare metodi di valutazione diversi, Valorizzare l’impegno e i progressi dello studente, Incentivare l’autovalutazione, Esplicitare gli obiettivi della valutazione, Utilizzare i risultati valutativi per modificare le strategie didattiche) ai fini di promuovere una buona valutazione.
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3. Analisi dei dati e presentazione di alcuni risultati I dati quantitativi sono stati tabulati ed analizzati con un software specifico8. Per i testi di produzione aperta si è proceduto con una categorizzazione qualitativa manuale; per ridurre i rischi di soggettività tale analisi è stata condotta in parallelo ed in modo indipendente da due ricercatori e poi sono state confrontati i risultati. Di seguito sono riportate e discusse le principali evidenze; per chiarezza espositiva nella presentazione si è scelto di seguire l’ordine delle domande riportate nel questionario articolate nelle tre sezioni. Al termine della presentazione descrittiva dei dati sono posti in luce alcuni incroci significativi. 3.1 Profilo Hanno risposto al questionario 66 studenti, poco meno del 35% della popolazione di riferimento; la tabella seguente sintetizza le principali informazioni descrittive. !"#"$
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Tab. 1 - Profilo descrittivo dei rispondenti
3.2 Esperienza Come osservato, nella seconda sezione si è inteso ricostruire l’esperienza degli studenti in molteplici situazioni valutative vissute da allievi9. Alla domanda Pensando alle situazioni valutative vissute a scuola quale ricordo
8 9
Per l’analisi è stato utilizzato il software SPSS (19) - Statistical Package for Social Science. Si è scelto di riportare nel testo i dati assoluti e di inserire le frequenze percentuali soltanto laddove reputato utile ai fini di una maggiore chiarezza espositiva.
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ti viene in mente hanno risposto 41 persone su 66 (pari al 66,7%); dopo la trascrizione, i testi narrativi sono stati organizzati in tre categorie a seconda dell’accezione (negativa, postiva o neutra) del ricordo citato. Nella categoria dei ricordi negativi rientrano 26 risposte (pari al 63,4% dei rispondenti alla domanda); gli studenti rievocano i vissuti di ansia provati nelle situazioni valutative (7 risposte) e citano spesso il metodo valutativo adottato dai docenti (19 risposte) reputato “non equo”, poggiato su “favoritismi e su preferenze”, contraddistinto da “scarsa oggettività e imparzialità” e spesso “non coerente con gli obiettivi dichiarati”. I ricordi positivi risultano numericamente ridotti (12 risposte pari al 29,3% dei rispondenti alla domanda) e riguardano in particolare il “ricorso all’autovalutazione” (3 risposte), “la valutazione proposta come momento di confronto” (7 risposte) e “la comunicazione chiara dei criteri valutativi” (2 risposte). Nei ricordi definiti neutri (3 risposte pari al 7,3% dei rispondenti alla domanda) sono descritti alcuni strumenti di valutazione (compiti in classe, prove scritte, prove orali) senza tuttavia esplicitare una connotazione negativa e/o positiva. I dati riferiti alle emozioni provate prima di una situazione valutativa pongono in evidenza l’ansia (sempre 26%, spesso 41%), seguita dalla speranza (sempre 15%, spesso 44%) e dalla paura (sempre 14%, spesso 33%). Nel momento successivo prevalgono sollievo (sempre 27%, spesso 45%), contentezza (sempre 5%, spesso 71%) e gratificazione (sempre 5%, spesso 74%). ! !
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Tab. 3 - Dopo una situazione valutativa hai provato
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Per cogliere se prevalessero emozioni positive (speranza, eccitazione, tranquillità – gratificazione, sollievo, contentezza) oppure negative (ansia, paura, vergogna – rabbia, senso di colpa, frustrazione) è stato calcolato un indice sintetico di positività e di negatività sommando i punteggi10.
10 L’indice è stato ottenuto sommando i punteggi delle singole emozioni (0=per nulla, 1=poco, 2=abbastanza, 3= molto) ed ha un valore compreso fra 0 e 9. Dall’indice di positività pari a 3,98 (su una scala da 0 a 9) è stato sottratto quello di negatività pari a 4,17 (su una scala da 0 a 9). Sebbene le scale ordinali non abbiano la proprietà addittiva, “secondo una convenzione informale piuttosto diffusa, le operazioni di somma, sottrazione, moltiplicazione e divisione possono essere applicate” (Viganò, 1999, pp. 41-42).
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Nel momento precedente la valutazione, i dati medi indicano una prevalenza, sebbene contenuta, di emozioni negative (4,17) rispetto a quelle positive (3,98). Ciò sul piano didattico apre interessanti interrogativi legati all’impatto che tale accostamento “negativo” può avere sulle performace messe in atto dagli studenti; consegue l’esigenza di riflettere sullo spazio di azione che gli insegnanti hanno a disposizione e sugli strumenti in loro possesso per promuovere un atteggiamento iniziale meno connotato da emozioni negative. Nella fase successiva, il confronto fra i dati delle emozioni positive (5,62) e di quelle negative (2,24) indica la prevalenza delle emozioni ricondubicili al polo postivo. Confrontando le emozioni sperimentate prima e dopo è possibile osservare che l’approccio negativo iniziale è in qualche modo smentito o almeno mitigato dal confronto reale con le situazioni valutative la qual cosa indirettamente informa circa l’esistenza di idee e pregiudizi da parte degli studenti sui quali sarebbe utile lavorare per promuovere un approccio più sereno alla valutazione. I comportamenti agiti dai docenti sono per i rispondenti fonte di indicazioni per la loro futura condotta professionale (63 rispondenti). I comportamenti positivi che vorrebbero imitare sono stati aggregati attorno a due assi fra loro interconnessi: uno definito “asse educativo (globale)” (34 risposte pari al 54% dei rispodenti alla domanda) e l’altro “asse metodologico-didattico (specifico)” (29 risposte pari al 46% dei rispondenti alla domanda). Nel primo asse sono inclusi comportamenti volti a promuovere una valutazione che tenga conto dell’impegno e del percorso e non soltanto del risultato (20 risposte) e a costruire un contesto che metta a proprio agio lo studente e che lo stimoli al miglioramento (14 risposte). In queste risposte si fa riferimento al modo di impostare e di intendere la valutazione piuttosto che all’utilizzo di specifiche strategie e/o metodi; esemplificative sono le parole di alcuni studenti “Mettere a proprio agio lo studente e fornirgli gli strumenti per affrontare la prova con tranquillità”, “Dire che tu possa fare di meglio”, “Motivare a migliorare”. Nell’asse metodologico-didattico sono inclusi comportamenti finalizzati ad esplicitare e spiegare i criteri e gli obiettivi delle singole valutazioni (11 risposte) e a dar conto dei giudizi (10 risposte) come risalta in queste affermazioni “Spiegare giudizio e possibilità di migliorarlo”, “Far capire gli errori agli studenti”, “Spiegare motivo del voto, degli errori e modalità per migliorare”; frequente altresì il richiamo all’impiego di strategie per formulare valutazioni affidabili (8 risposte) per esempio “adottando una griglia di valutazione”, “stabilendo criteri validi per tutti”. I rispondenti prendono le distanze dalle condotte tese a “fare preferenze” (25 risposte), a “mettere a disagio e a mortificare l’alunno” (14 risposte) e “ad umiliare a fronte di esiti negativi” (17 risposte); criticata altresì la scelta di comunicare i voti conseguiti ad alta voce davanti all’intera classe (7 risposte) giudicata dagli studenti come “poco rispettosa” ed “umiliante”. I dati circa le condotte valutative adottate dai docenti indicano una consistente variabilità nell’impostazione e implementazione delle pratiche valutative. Secondo gli studenti “molti” dei loro insegnanti “aiutavano a capire gli errori” (molti 32%) e “utilizzavano metodi di valutazione diversi” (molti 38%). Un’informazione meritevole di attenzione riguarda l’alta percentuale di docenti, stando alla ricostruzione degli studenti, che non ha mai messo in atto tre comportamenti: “Stimolavano l’autovalutazione” (nessuno 35%), “Partivano dai risultati della valutazione per apportare modifiche alle strategie didattiche” (nessuno 39%), “Ci spiegavano gli obiettivi della valutazione” (nessuno 29%).
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Tab. 4 - Ripensando ai tuoi insegnanti indica la frequenza dei comportamenti sottoriportati
3.3 Rappresentazioni
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La terza sezione ha indagato le rappresentazioni circa la buona valutazione ed è stata compilata da 62 studenti su 66. Secondo le loro risposte, due caratteristiche in particolare qualificano il bravo valutatore: l’imparzialità declinata anche in termini di obiettività ed oggettività (28 risposte pari al 44,4% dei rispondenti alla domanda) e l’attenzione e il riconoscimento dell’impegno e dei progressi compiuti (35 risposte pari al 55,6 dei rispondenti alla domanda). Un buon insegnante valutatore è in grado di utilizzare metodi e strumenti in modo rigoroso così da garantire una valutazione imparziale, ma anche di favorire la ricaduta formativa della valutazione riforzando gli apprendimenti durante il processo e non soltanto certificandone gli esiti. Particolarmente significative risultano alcune affermazioni come per esempio “Osservare bene, vedere le potenzialità, valutare con il sorriso ed empatia di fondo”, “Ascoltare attentamente, riflettere sulla prestazione, attribuire il giusto valore agli errori”, “Creare opportunità per apprendere, dare rinforzi positivi e monitorare costantemente”. Fra le parole-chiave associate alla buona valutazione11, accanto ai termini “imparzialità” (citato 20 volte), “oggettività” (citato 20 volte), “miglioramento” (citato 15 volte) risalta in termini di frequenza il termine “conoscenza” (citato 25 volte) riferita sia al soggetto valutato – “bisogna conoscerlo per poterlo valutare bene” sia al contesto “bisogna valutare alla luce di una conoscenza approfondita del contesto nel quale si opera”. Per i rispondenti, la buona valutazione è finalizzata a sviluppare (molto 50%), supportare (molto 40%) e, in modo meno marcato, a gratificare (molto 21%) e controllare (molto 21%). Meno scelte risultano invece le funzioni di punire (per nulla 53%) e di sanzionare (per nulla 48%).
11 Ciascun soggetto poteva indicare fino un massimo di 3 parole.
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Sul piano delle condotte, 3 comportamenti sono più frequentemente associati alla buona valutazione: Valorizzare l’impegno e i progressi dello studente (molto 84%), Far riflettere gli studenti sui propri errori (molto 82%) e Utilizzare i risultati valutativi per modificare le strategie didattiche (molto 65%). Quest’ultimo dato suggerisce l’apprezzamento per una valutazione i cui esiti siano oggetto di riflessione e di stimolo non solo per gli studenti ma anche per gli insegnanti. La percentuale, seppur più contenuta, associata al comportamento di Incentivare l’autovalutazione (molto 31%) rafforza la convinzione che per gli studenti sia importante essere coinvolti in modo da sentirsi “parte attiva” del processo valutativo e non solo destinatari. Emerge perciò un’idea di buona valutazione nella quale entrambi i soggetti agiscono da protagonisti assumendosi responsabilità nel rispetto di ruoli e funzioni diversificati.
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Tab. 6 - Indica quanto sono importanti i comportamenti sotto riportati per fare buona valutazione
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3.4 Comportamenti valutativi, emozioni e rappresentazioni della buona valutazione Per corroborare le interpretazioni formulate a partire dalla lettura dei dati descrittivi e per trarre ulteriori spunti interpretativi sono stati incrociati12 i dati relativi ad alcune variabili reputate significative in ordine agli obiettivi della ricerca.
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Comportamenti agiti dagli insegnanti e vissuti emotivi che accompagnano le situazioni valutative. Incrociando le emozioni degli studenti con i comportamenti agiti dagli insegnanti emerge un’associazione positiva fra la promozione dell’autovalutazione e la speranza (.258≤0,05); l’impiego dei dati valutativi per rivedere le strategie didattiche da parte degli insegnanti è invece correlato positivamente con la tranquillità (.289≤ 0,05) e negativamente con l’ansia (-.319≤0,01). Tali dati suggeriscono che sperimentare la valutazione come processo i cui esiti sono fonte di stimoli per l’attività del docente e nel quale gli studenti si sentono coinvolti in modo attivo ha un impatto positivo sul loro approccio riducendo in ingresso alcune emozioni negative. L’utilizzo dei dati valutativi per rivedere le strategie didattiche risulta altresì correlato positivamente con l’indice sintetico delle emozioni che precedono la valutazione; presumibilmente quando la valutazione è percepita come spazio di lavoro che impegna sia i docenti sia gli studenti si riduce la percezione di essere giudicato, la qual cosa impatta in maniera positiva e generalizzata sullo stato emotivo con cui si affrontano i compiti valutativi (.399≤0,01). Comportamenti agiti dagli insegnanti e rappresentazioni della buona valutazione. Emergono correlazioni significative di segno negativo fra l’impiego dei dati valutativi per rivedere le strategie didattiche da parte del docente e le funzioni negative associate alla valutazione ovvero punire (-.323≤0,01) e sanzionare (.304≤0,01); tali dati confermano la tendenza ad interpretare la valutazione come buona quando impiegata come strumento per promuovere miglioramenti sul piano didattico anche attraverso la revisione delle strategie; corrobora questa interpretazione la correlazione positiva fra il comportamento teso alla promozione dell’autovalutazione e la funzione di supporto attribuita alla valutazione (.313≤0,01). Esperienza professionale e rappresentazioni della buona valutazione. Per meglio comprendere i fattori che influiscono sul processo di costruzione delle rappresentazioni intorno alla buona valutazione è stata presa in considerazione l’esperienza professionale maturata nel contesto scolastico da parte dei rispondenti (cfr Tab.1). Le risposte sono state analizzate secondo la condizione dei rispondenti al momento della compilazione: studenti (43 pari al 65,2%) e studenti-lavoratori (22 pari al 33,3%). Nelle risposte fornite dai due gruppi non si evidenziano differenze significative; il ridotto numero di studenti-lavoratori e l’esperienza professionale comunque limitata non consentono di trarre conclusioni certe; i dati suggeriscono tuttavia che l’esperienza professionale dei rispondenti in questa situazione non giochi un ruolo determinante sulla costruzione delle rappresenta-
12 Per le variabili misurate su scala ordinale è stata impiegata la correlazione bivariata con Coefficiente rs di Spearman (indice di correlazione fra ranghi) e test di significatività a due code. Per le variabili nominali il Chi quadro.
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zioni intorno alla buona valutazione. Ciò induce ad ipotizzare che ci siano altri fattori potenzialmente influenti. Fra questi due ci paiono di particolare importanza: l’esperienza della valutazione fatta da allievi nella scuola e l’esperienza maturata nei percorsi di preparazione alla professione docente. L’esperienza valutativa vissuta da allievi rappresenta un aspetto che precede l’ingresso nel contesto universitario e sul quale pertanto non è possibile agire in maniera diretta: nella progettazione dei percorsi formativi iniziali è però possibile tenerne conto? In che modo?
4. Spunti conclusivi Le informazioni rilevate non permettono di trarre conclusioni certe in ragione della limitatezza numerica dei soggetti interpellati e della natura esplorativa dello studio; tuttavia è possibile avanzare qualche ipotesi interpretativa e trarre alcuni spunti per la didattica universitaria. I dati circa l’esperienza valutativa vissuta da allievi sono il risultato di una rielaborazione degli studenti e sono riferiti alla scuola secondaria di secondo grado e pertanto non possono essere generalizzati a tutti gli ordini scolastici. Nondimeno essi pongono in luce uno scenario contraddistinto da luci ed ombre; alcuni comportamenti valutativi finalizzati ad avvalorare il potenziale formativo della valutazione appaiono radicati nelle pratiche descritte (Ci aiutavano a capire i nostri errori, Utilizzavano metodi di valutazione diversi, Ci comunicavano i criteri di valutazione prima); altri risultano invece scarsamente presenti (Stimolavano l’autovalutazione, Ci spiegavano gli obiettivi della valutazione, Partivano dai risultati della valutazione per apportare modifiche alle strategie didattiche). Dai ricordi degli studenti emergono altresì alcuni aspetti di criticità legati in particolare alla qualità metodologica del modo di fare valutazione spesso percepito come arbitrario e alla debole cura relazionale dell’intero processo, con riferimento specifico anche alle modalità comunicative adottate. Circa le emozioni che accompagnano le situazioni valutative, l’accostamento iniziale connotato da emozioni negative tende invece ad attenuarsi dopo l’evento valutativo. Se, da un lato livelli di ansia contenuti risultano accettabili e in qualche modo funzionali all’attivazione dello studente, un loro incremento eccessivo può avere un impatto negativo sulle sue prestazioni. La promozione di un “approccio sereno” alla valutazione costituisce un compito per l’insegnante a cui va intenzionalmente preparato. I dati suggeriscono alcune leve cui prestare attenzione in sede formativa: proporre la valutazione come uno spazio di lavoro comune fra docenti e studenti, coinvolgere in modo attivo gli studenti incentivando strategie autovalutative, finalizzare in maniera esplicita la valutazione al miglioramento prestando attenzione al processo e non soltanto agli esiti. Complessivamente, le pratiche valutative implementate dai docenti appaiono piuttosto eterogenee come documentato peraltro anche in studi nazionali (Barone, 2010). In questa prospettiva, potrebbe essere utile riflettere su come promuovere lo sviluppo di un modus operandi in campo valutativo più condiviso al fine di garantire maggiore omogeneità, nel rispetto delle peculiarità legate alle discipline. La natura collegiale dell’attività docente ben presente a livello teorico e spesso citata nei documenti normativi per trovare adeguate forme di esercizio va assunta come riferimento comune negli insegnamenti previsti nei percorsi formativi iniziali, ivi compresi quelli inerenti i temi valutativi. I processi decisionali adottati dagli insegnanti appaiono ancora troppo viziati da una eccessiva variabilità la quale
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ha un’inevitabile ricaduta sul percorso scolastico degli studenti ingenerando disorientamento e disinvestimento (Benvenuto, 2003). I dati, per quanto parziali e limitati, indicano che l’esperienza valutativa vissuta da allievi influisce, in modi diretti e non, sulla costruzione delle rappresentazioni della valutazione e, ragionevolmente, sul modo di accostare il compito valutativo da parte dei futuri insegnanti. Ciò suggerisce di considerare l’esperienza valutativa pregressa un oggetto di riflessione all’interno dei percorsi formativi in ambito universitario. Supportare lo sviluppo della competenza valutativa nei futuri insegnanti implica “la presa in carico” del bagaglio esperenziale con cui affrontano il cammino di preparazione alla professione; riflettere in maniera sistematica sulla propria esperienza aiuta a prenderne le distanze (Montalbetti, 2005) rendendola un oggetto di lavoro da destrutturare e ristrutturare in funzione dei nuovi stimoli. In questa prospettiva, la competenza riflessiva, riconosciuta come dimensione essenziale della professionalità docente, trova nell’esperienza valutativa pregressa un materiale significativo per essere esercitata. Le rappresentazioni della buona valutazione sottendono il riferimento ad alcuni concetti-chiave riconducibili al new assessment (Wiggins, 1990; Wiggins, 1993; Varisco, 2002, 2004; Comoglio, 2002; Castoldi, 2012) e all’assessment for learning (Weeden et al., 2009; Black, Harrison, Marshall, Wiliam, 2003) senza trascurare un forte richiamo all’istanza di rigore metodologico. In particolare, emergono alcune caratteristiche principali: – la processualità in contrasto con la tendenza a concentrare l’attenzione sul prodotto dell’apprendimento; – la corresponsabilità in virtù di un attivo coinvolgimento dello studente e del ricorso a forme autovalutative; – la dinamicità intesa come riconoscimento e avvaloramento dei progressi e non solo del risultato finale; – la globalità riferita alla necessità di considerare in maniera integrata le diverse dimensioni del processo di apprendimento (cognitive, sociali ed emotive). Promuovere una valutazione che tenga conto dell’impegno e del percorso e costruire un contesto che metta a proprio agio e stimoli al miglioramento sono i due comportamenti che gli studenti vorrebbero più spesso replicare, uniti all’assunzione di condotte improntate al rigore e alla trasparenza del processo valutativo (chiarezza degli obiettivi). Ciò suggerisce di porre particolare attenzione, in sede formativa, allo sviluppo di competenze metodologiche essenziali per poter progettare ed implementare azioni valutative in modo valido; il riferimento è non solo all’acquisizione di abilità tecniche, essenziali per l’impiego corretto dei diversi strumenti valutativi, ma all’adozione di un approccio globale al compito valutativo (Montalbetti, 2011) improntato ai criteri della trasparenza e del rigore, tipici del modo di procedere scientifico (Palumbo, 2001). Questa direzione sembra corrispondere alla forte richiesta di accountability in campo valutativo la quale però deve guardarsi dal rischio di perdere il contatto con la dimensione del learning. La preoccupazione di rendere il più possibile oggettiva la valutazione, spesso anche ai fini della certificazione, può infatti rischiare di mettere in secondo piano la funzione fondamentale della valutazione come risorsa a supporto dell’apprendimento. In realtà, gli studenti non percepiscono accountability e learning come due dimensioni opposte, anzi ne mettono in evidenza la complementarità. Costoro sottolineano la natura “distribuita” e corresponsabile del processo di
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valutazione; in questa prospettiva, gli esiti valutativi costituiscono un oggetto di riflessione e di lavoro per l’insegnante dal quale trarre indicazioni preziose per la messa a punto di strategie didattiche personalizzate e mirate (Accorsi, 2013). Gli studenti riconoscono il potenziale formativo della valutazione e la collocano al centro del processo di apprendimento-insegnamento; ciò sul piano formativo induce a porre particolare attenzione allo sviluppo di capacità funzionali alla gestione relazionale del processo, in ragione anche dei vissuti emotivi che la valutazione evoca, e all’avvaloramento del rapporto fra valutazione e (ri)progettazione. Vi è un forte intreccio fra la promozione di pratiche valutative a sostegno del processo di apprendimento e un modo attivo e partecipativo di impostare l’attività didattica; sotteso vi è il comune riferimento al criterio della corrensponsabilità che vede docenti e studenti reciprocamente coinvolti e attivamente partecipi nel rispetto di ruoli differenziati (Giovannini, Boni, 2010). Come posto in evidenza in un recente studio condotto nella provincia autonoma di Trento, il mancato coinvolgimento degli studenti nella pratica valutativa rischia di ingenerare disinvestimento e ritiro favorendo una cultura dell’adempimento e riducendo la ricaduta formativa della valutazione (Rubino & Mason, 2010). In ambito formativo, i futuri docenti vanno pertanto messi nelle condizioni di apprendere strategie valutative che aiutino gli allievi ad appropriarsi del momento valutativo come momento fondante la propria responsabilità nella dinamica dei processi di insegnamento-apprendimento. La possibilità di chiedere un confronto maturo sul metodo e sull’esito dell’apprendimento permette infatti all’allievo di percepirsi come parte attiva nel processo didattico; questa leva motivazionale lo aiuta ad uscire dalla “nicchia di utente-fruitore ed lo accompagna a vestire i panni di co-produttore del processo di insegnamento-apprendimento, quale realmente è, anche se non ne è del tutto consapevole” (Rubino, Mason 2010, p. 46). Numerose ricerche hanno messo a tema la relazione tra valutazione scolastica e dinamica motivazionale (Struyven, Dochy, Janssens, 2005) giungendo ad affermare che un certo modo di impostare e fare valutazione ha effetti che incidono sull’atteggiamento generale nei confronti della scuola. Gli studenti considerano la valutazione come una risorsa che può aiutarli a migliorare (Peterson & Inrving, 2008) ma affinchè ciò avvenga è necessario che i docenti progettino e implementino le loro pratiche valutative in modo coerente. Una gestione accorta dei processi valutativi rappresenta una risorsa per il sostegno della motivazione e per la promozione del successo formativo degli studenti; come osserva opportunamente Maccario “la valutazione scolastica costituisce uno degli aspetti vissuti come più importanti dagli studenti; essa viene spesso vista, sia in senso positivo sia negativo, come una chiave di lettura della storia formativa personale ed ha un grande influsso sulle scelte e sui comportamenti di ciascuno” (Maccario, 2011, p. 56); ciò induce a prestare particolare attenzione allo sviluppo della competenza valutativa nel quadro delle competenze chiave della professionalità docente. Nel complesso, i dati suggeriscono tre nuclei di contenuti cui dare attenzione nella progettazione dei corsi universitari afferenti ai temi valutativi. Il primo legato alla necessità di promuovere in forma sistematica una rielaborazione e acquisizione di consapevolezza da parte degli studenti circa la propria esperienza valutativa pregressa in virtù del ruolo che essa può esercitare nel sostanziare il loro accostamento al compito valutativo; tale aspetto non può essere lasciato alla discrezionalità dei singoli ma andrebbe considerato come un oggetto di lavoro per tutti. Il secondo connesso con l’esigenza di garantire una solida preparazione metodologica e non soltanto tecnica per garantire processi valutativi rigorosi e traspa-
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renti; a ciò consegue l’esigenza di accompagnare lo sviluppo di una competenza di ricerca con la quale imparare ad agire con metodo nella propria pratica professionale (Lisimberti, 2011; Montalbetti, Lisimberti, 2015). Il terzo legato all’avvaloramento del rapporto fra valutazione e (ri)progettazione con particolare riferimento all’utilizzo dei dati valutativi da parte del docente per programmare e rivedere le strategie di intervento. Ciò concretamente induce a rinforzare le sinergie fra insegnamenti inerenti le tematiche didattiche e quelli esplicitamente incentrati sulla valutazione. Sotteso a queste sintetiche considerazioni vi è il convincimento che la competenza valutativa non sia riconducibile alla somma di saperi, di skills, di attitudini o abilità ma rappresenti un insieme integrato di tali elementi e che debba tradursi in capacità realizzativa all’interno del contesto scolastico in stretta relazione all’unitarietà della persona che la esprime (Pellerey, 2006).
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L’apprendimento della “scienza dell’insegnamento”: il test di accesso del Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria predice il successo nella progettazione didattica? Antonella Nuzzaci • Università degli Studi dell’Aquila • antonella.nuzzaci@univaq.it
Learning the “science of teaching”: Does the access test of Degree Course in Primary Education Sciences predicts the success in instructional design? The process of instructional design is multifaceted and dynamic and necessary to activate intentional teaching-learning PATHS based on disciplinary or interdisciplinary approaches. The aim of this research was to understand whether the success in planning for students enrolled in the Course Degree in Primary Education Sciences is predicted by variables such as: admission test, diploma grade, school of origin, sex and age using the multiple regression analysis. The process of instructional design is multifaceted and dynamic and necessary to activate the teaching-learning-based on intentional approaches disciplinary or interdisciplinary. The objective of this research was to understand whether the success in planning for students enrolled in the Course Degree in Primary Education Sciences is predicted by variables such as the admission test, the grade diploma, the school of origin, sex and age using the multiple regression analysis.
Parole chiave: formazione degli insegnanti, progettazione didattica, competenze di progettazione, prerequisiti, test di accesso, regressione multipla, risultati accademici, successo universitario
Keywords: teachers training, instructional design, skills of educational design, prerequisites, access test, multiple regression, academic achievement, successful university
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Il processo di progettazione didattica è multiforme e dinamico e necessario per attivare percorsi di insegnamento-apprendimento intenzionali basati su approcci disciplinari o interdisciplinari. L’obiettivo di questa ricerca è stato quello di comprendere se il successo nella progettualità in studenti iscritti al Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria sia predetto da variabili quali il test di accesso, il voto di diploma, la scuola di provenienza, il sesso e l’età impiegando l’analisi della regressione multipla.
L’apprendimento della “scienza dell’insegnamento”: il test di accesso del Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria predice il successo nella progettazione didattica?
1. Introduzione
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Il ruolo principale della progettazione e delle tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento è quello di sviluppare e potenziare i sistemi d’azione didattici rafforzando l’impianto complessivo delle attività di istruzione. A che serve infatti un percorso universitario che non riesca ad aiutare gli insegnanti in formazione iniziale ad acquisire le conoscenze e le competenze indispensabili per affrontare il processo di insegnamento-apprendimento? Come si può meglio “attrezzare culturalmente e professionalmente” i futuri insegnanti al fine di renderli capaci di realizzare una proposta didattica efficace ed efficiente e meglio corrispondente alle esigenze dei destinatari a cui è rivolta? Molti insegnanti in ingresso al loro percorso di formazione, soffrono frustrazioni significative quando si rendono conto che la loro preparazione è di gran lunga inferiore a ciò che gli servirebbe per imparare ad insegnare e a progettare a scuola. È questa una questione che apre la ricerca educativa a molti versanti di lavoro, uno dei quali riguarda proprio quello che racchiude forme di ricerca diversificate che vanno dalla formative research (Reigeluth, Frick, 1999), che si propone quale approccio metodologico per il miglioramento delle teorie e dei modelli inerenti la progettazione, fino a coinvolgere campi di intersezione come quello dell’educational design research, ovvero di quella serie di orientamenti diretti a produrre nuove teorie, artefatti e pratiche che potenzialmente potrebbero avere un impatto sull’apprendimento e sull’insegnamento nei diversi contesti educativi (Barab, Squire, 2004, p. 2). Tali generi di ricerca non hanno solo l’obiettivo di individuare modelli di progettazione adeguati che aiutino i giovani insegnanti a trasferire le proprie conoscenze e abilità nella pratica o più semplicemente ad approntare materiali, disegni e piani progettuali “pronti per l’uso”, il cui vantaggio potrebbe sicuramente andare al di là di un loro mero ri-utilizzo nella direzione dell’efficienza e della flessibilità dell’insegnamento, ma implicare vere e proprie trasposizioni didattiche. È ormai noto infatti come ci sia bisogno di indirizzare le attività di formazione degli insegnanti verso la creazione di strumenti di progettazione e programmazione didattica che permettano loro di “disegnare percorsi efficaci di insegnamento” (Pellerey, 1990) mettendoli in grado di applicare e trasporre principi teorici e rendendoli capaci di effettuare le scelte più adeguate e di adottare procedure maggiormente idonee a raggiungere il successo formativo, con evidenti ricadute sulla intera gestione dei sistemi di azione didattica. La progettazione didattica può essere definita come una modalità per analizzare, elaborare, strutturare, sviluppare, valutare e gestire il processo didattico in modo adeguato fondata su teorie, conoscenze ed esperienze di acquisizione che inducono a migliorare la qualità dell’istruzione e a garantire un duraturo apprendimento nei soggetti. Ciò è stato evidenziato da contributi importanti (Burkhardt, Schoenfeld, 2003; Richey, Klein, Nelson, 2004; van den Akker, Ramo, Gustafson, Nieveen & Plomp, 1999), che dimostrano come la ricerca educativa inizi a muovere i primi passi verso la produzione di esempi promettenti (Kelly, 2004; Dede, 2004), come quelli di Gorard, Roberts e Taylor (2004) o della migliore produzione
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italiana (Domenici, 1998; Domenici, Lucisano, 2011; Galliani, 2006, pp. 245-268; Pellerey, 1990; Calvani, 2011; Cerri, 2007; Rivoltella, Rivoltella, Rossi, 2013 ecc.), spingendo i ricercatori a riflettere su come accrescere la qualità della progettazione puntando alla definizione di robuste linee interpretative e metodologiche che guidino gli insegnanti, specie quelli in formazione iniziale, nella gestione dell’apprendimento dei processi di pianificazione, programmazione e progettazione didattica. L’importanza di avviare una più intensa ricerca empirica sulla progettazione nasce dunque per diversi motivi; in primo luogo, dal desiderio di migliorare le pratiche didattiche, in quanto la ricerca in educazione è stata a lungo criticata per il suo debole legame con la realtà scolastica e con le pratiche educative quotidiane (Reeves, Goldman, Gilbert, Tepper, Silver, Suter, Zwarenstein, 2011). In questo senso, la ricerca sull’instructional design ha contribuito e può contribuire ancora, meglio di altri generi, ad incrementare la qualità di tali pratiche attraverso studi osservativi o sperimentali che mettano in luce interventi e procedure realizzabili, efficaci, utilizzabili, pertinenti e replicabili, con una migliore articolazione dei principi che ne sostengono l’impatto (Collins, Brown, Newman, 1989; Collins, Joseph, Bielaczyc, 2004; van den Akker, 1999). Un secondo motivo risiede nelle diverse implicazioni pratiche che tale ricerca comporta, mirando a sviluppare teorie empiricamente fondate attraverso lo studio combinato sia dei processi di apprendimento sia degli strumenti che supportano tali processi (diSessa, Cobb, 2004; Gravemeijer, 1994; 1998). Gran parte del dibattito attuale si incentra innanzitutto su come validare o falsificare le teorie riconducibili all’educational design ed all’instructional design e su come valutare la qualità dei processi di apprendimentoinsegnamento nei contesti in cui si realizzano, passando da impostazioni simulate altamente favorevoli a condizioni (Barab, Squire, 2004; Brown, 1992) maggiormente controllate. Un terzo motivo riguarda l’intento di rafforzare la pratica dell’instrutional design, quale modalità volta a strutturare e controllare i processi di insegnamento-apprendimento e ad orientarli verso obiettivi e condizioni desiderate. Generalmente gli insegnanti, soprattutto quelli meno esperti, si avvicinano alla costruzione di innovative soluzioni in risposta a problemi educativi emergenti, ma la loro comprensione di questi ultimi rimane spesso implicita e non introiettata nelle loro condotte soprattutto al momento dell’assunzione e dell’attuazione di precisi processi decisionali e della stesura del disegno progettuale (Nuzzaci, 2009; 2011). Vi è dunque l’esigenza di puntare ad una formazione iniziale diretta a rendere espliciti gli apprendimenti relativi alla pratica della progettazione (Richey, Klein, Nelson, 2004; Richey, Nelson, 1996; Visscher-Voerman, Gustafson, 2004) ed a costruire un “pensiero progettuale” che appare necessario per sostenere la variabilità e varietà dei contesti educativi (Nuzzaci, 2011; 2012) a cui sono esposti i futuri docenti, anche in riferimento alle competenze di progettazione della valutazione e dei suoi strumenti (Galliani, Bonazza, Rizzo, 2011). La capacità di un “pensiero progettuale” implica non solo il possesso di precisi stili cognitivi e di apprendimento, oltre che di strategie e di stili di lavoro e di approccio all’insegnamento, di etica del lavoro, di abilità nello scomporre un problema, di conoscenza o meno delle strategie euristiche, di capacità di concentrazione e di abbandonare strategie improduttive ecc.; sono queste abilità che sostanziano i processi utilizzati nel pensiero progettuale, il quale, fino ad ora scarsamente esplorato, diviene oggetto di interesse nel tentativo di riuscire a distinguere i differenti livelli di esperienza che intervengono sulla capacità di progettare (Lawson, Dorst, 2009) e dei prerequisiti necessari per acquisirla. Nel corso del tempo, però, alcune domande sono emerse con forza: Come insegnare agli insegnanti in formazione iniziale a progettare a livello didattico in maniera efficace? Come rendere l’azione di forma-
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zione universitaria maggiormente incisiva sul piano dell’apprendimento della progettazione in termini di ricaduta cognitiva, affettiva ecc.? Quali variabili considerare per rendere tale formazione più adeguata ai futuri insegnanti, in riferimento ai processi e prodotti, e più corrispondente ai bisogni di una scuola in evoluzione?
2. La letteratura sull’Instructional Design (ID)
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Nella progettazione, più che in altri ambiti, il sapere didattico vive e si alimenta di sinergie con quello metodologico, tecnico/tecnologico e valutativo, coinvolgendo appunto sapere/i di aree diverse (disciplinari, pedagogici ecc.), didattica/che, contenuti, metodologie, strategie e tecniche di natura differente. La progettazione didattica si nutre quindi di interrelazioni continue con saperi di ordine e grado differente e di trasformazioni delle componenti “tecnico/tecnologiche”. Se la didattica infatti è quel sapere professionale incentrato sui modi e sulle tecniche per meglio insegnare e produrre conoscenza, la tecnologia può dirsi fondamentalmente creazione di artefatti. Lo scopo della didattica è dunque quello di definire la conoscenza del mondo dell’insegnamento e come tale essa richiede comprensione e previsione. All’interno di quanto detto l’obiettivo prioritario della progettazione didattica (instructional design), che si interconnette tra coppie di elementi diversi, quali appunto didattica/metodologia, tecnica/tecnologia e pedagogia/epistemologia, è quello di favorire, creare, costruire e trasformare apprendimenti che implichino il coinvolgimento di differenti dimensioni: della teoria della didattica, della ricerca didattica, delle tecnologie didattiche e della ricerca sulle tecnologie dell’apprendimento e dell’istruzione, come rappresentato nella figura che segue.
Teorie Teo rie e modelli modelli di progettazione p pr ogettazione didattica didattica
Ricerca Ri cerca educativa educativa
Teorie Teo r ie sulle tecnologie sulle tecnologie dell’istruzione del l’istruzione e dell’apprendimento d del l’apprendimento
IInstructional nstructional Design Desi gn ((ID) ID)
Ricerca Ri cesulle rca s sulle u lle Ricerca tecnologie te cnologie tecnologie dell’istruzione del l’istruzione e dell’istruzione e dell’apprendimento del l’apprendimento dell’apprendimento
Fig. 1 – L’Instructional Design (ID) nella ricerca educativa
Un aspetto caratterizzante il campo delle tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento è proprio lo studio delle teorie e dei modelli di progettazione didat-
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tica, che prevede una attenta specificazione delle condizioni atte a consentire ad un insegnante in formazione iniziale di acquisire ciò di cui necessita e di raggiungere i risultati di apprendimento desiderati; mentre la ricerca sulla progettazione didattica contempla l’applicazione di metodi di ricerca quantitativi e qualitativi per validare o a falsificare ipotesi, per effettuare previsioni che riguardano l’“agire progettuale”. Come bene sostengono alcuni autori (Merrill, 1994; 1997a; 1997b; Merrill, Tennyson, Posey, 1992; Tennyson, Schott, Seel, Dijkstra, 1997; Jonassen, 1999), l’impiego delle tecnologie nella progettazione didattica coinvolge l’assunzione di una teoria della progettazione (Reigeluth, 1999a; Reigeluth, 1999b) empiricamente verificata e lo sviluppo di processi, materiali e prodotti ben ideati che consentano agli studenti di acquisire in maniera ottimale gli obiettivi predefiniti. Si determina però troppo spesso che i percorsi e i prodotti didattici siano predisposti senza una sufficiente verifica dell’esistenza di una teoria della progettazione a cui si riferiscono e che tale comportamento sia dovuto al fatto che la progettazione venga concepita soltanto come “forma creativa” che si traduce in accattivanti proposte o prodotti, di cui troppo spesso diviene impossibile comprenderne l’efficacia o replicarne il successo. È lecito allora domandarsi quali condizioni preliminari facilitino l’apprendimento della progettazione da parte dei futuri insegnanti e come questi possano imparare a progettare percorsi di istruzione o elaborare proposte didattiche che sostengano il processo di acquisizione dei loro futuri allievi. Capire quali siano le condizioni di partenza adeguate, ossia quali prerequisiti gli insegnanti-studenti debbano possedere prima di intraprendere “l’apprendimento della scienza dell’insegnamento” per divenire buoni “progettisti della didattica” e come lo debbano fare, diviene un argomento degno di attenzione. Gli ultimi anni hanno visto il proliferare di teorie e modelli di progettazione nel campo dell’istruzione che hanno adottato pratiche educative diverse. Basti pensare alla rassegna bibliografica elaborata da Tennyson, Schott e Dijkstra (1997), che riassume con precisione un certo numero di posizioni e di interpretazione in merito, che spaziano da quelle che pongono al centro elementi di base descrittivi della logica della progettazione, quali nuclei fondanti della disciplina che attraversano gli obiettivi curricolari dei programmi di formazione degli insegnanti, a quelle che si focalizzano su contenuti e aspetti vitali di quanto sarebbe indispensabile insegnare piuttosto che su come insegnare.
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Fig. 2 - La storia dell’instructional design (www.instructionaldesigncentral.com)
La conoscenza di tali teorie e modelli però non sempre è stata condizione di per sé sufficiente per mettere in grado i futuri insegnanti di affrontare la progettazione sul piano realizzativo e di servirsene in maniera appropriata. Se allora è lecito chiedersi se essi abbiano tutti lo stesso valore, se sia di per sé importante conoscerli per imparare a progettare e se esistano principi in letteratura considerati
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di base e comuni a tutta l’area della progettazione, è ancora più significativo domandarsi come essi entrino nei repertori d’azione degli insegnanti e ne segnino un “fare didattico consapevole”. Tali questioni sono poste oggi al centro del dibattito di coloro che si occupano di formazione iniziale degli insegnanti in ambito universitario spingendoli a capire come fare per insegnare ai futuri docenti a divenire risolutori di problemi educativi flessibili in un mondo dinamico plasmato da quella società della conoscenza che rende il sapere fluido e i contesti scolastici sempre più diversificati. Il ritmo con cui la società si trasforma, imponendo un uso sempre più ampio di tecniche e tecnologie che cambia progressivamente anche il modo di fare scuola, richiede infatti l’impiego nella didattica di strumenti in grado di rispondere alle sempre più inedite caratteristiche dei destinatari che accedono all’istruzione, di provocare apprendimenti significativi e di rendere possibile una reale comprensione della realtà e dei saperi. Ciò muove la formazione universitaria dunque verso la continua ri-calibratura dei profili e dei corredi di competenze degli insegnanti che implica una riflessione sugli skill, specie quelli emergenti e da acquisire rapidamente, determinando così uno spostamento della capacità di decodifica e di comprensione anche in quelle aree della conoscenza che solitamente non sono di loro principale pertinenza e che inducono a trasferire e riutilizzare abilità, pratiche e saperi di ordine e natura diversa su cui occorre fare leva per “progettare soluzioni” idonee ad insegnare (Bloom, 1976; Mager, 1984; 1997; Gagné, Briggs, 1979; Gronlund, 1999). Quanto detto richiede una didattica universitaria capace di assumere su di sé le istanze della ricerca educativa più avanzata, incentrate sulla individuazione di metodologie appropriate all’interno di specifici domini che rendano possibile far apprendere agli studenti/insegnanti modalità e forme di progettazione facilmente ed efficacemente utilizzabili. Fattore “chiave”, ma anche “critico”, della professionalità insegnante, l’instructional design alimenta una conoscenza sostanziale delle procedure, dei risultati e dei contesti (Herrington, McKenney, Reeves, Oliver, 2007, p. 4095), in modo che si creino le condizioni appropriate per realizzare processi di insegnamento-apprendimento idonei a garantire una reale uguaglianza delle opportunità sul piano culturale attraverso l’impiego di opportune strategie imitative, euristiche, creative ecc. (Laeng, 1970) che diano corpo a processi di individualizzazione e personalizzazione e ad mirate impostazioni progettuali. Per tale ragione, una maggiore comprensione da parte dei docenti universitari delle difficoltà di acquisizione circa i principi e i processi di progettazione e dei pre-requisiti maggiormente incisivi sull’assunzione delle logiche di pianificazione (van Deusen, Donham, 1989; Rosenshine, 1995) e sulla messa in gioco dei processi decisionali che distinguono le diverse procedure di soluzione di problemi progettuali (piuttosto che limitarsi a considerare semplicemente la necessità di risolverli) adottate più frequentemente dagli insegnanti in formazione iniziale diviene un modo per individuare strade didattiche meglio corrispondenti alle caratteristiche dei destinatari. Rimane dunque sostanzialmente da chiarire cosa avvenga nel processo di apprendimento della progettazione e quali condizioni ne facilitino la riuscita, poiché ancora scarsi, e non sempre del tutto convincenti, sono gli studi empirici condotti in tal senso. Troppo spesso infatti questi ultimi si fondano su spiegazioni verbali e racconti degli insegnanti circa i processi impiegati per progettare e pianificare l’insegnamento (Lawson, 1997; Dorst, 1995; Krueger, Cross, 2006) e poco evidenti risultano essere le ricerche concernenti i processi decisionali e negoziali attivati dagli insegnanti nell’organizzazione dei piani progettuali e di lavoro e dei fattori che ne influenzano la struttura interna, le misure, l’ordine delle azioni e la validità degli strumenti impiegati, come anche i termini, i mezzi ed i criteri adottati per definire le procedure (Dorst & Dij-
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khuis, 1995; Dorst, 1995; Lawson, 1997; Krueger, Cross, 2006) e i sistemi di supporto alle decisioni. Se poi è vero che la letteratura si è maggiormente focalizzata sui quadri descrittivi dei sistemi complessivi che sostengono le attività di pianificazione e programmazione (Ghelfi, Guerra, 1993) volgendosi verso la comprensione dei tipi di prestazioni richieste, di genere supporto alle decisioni e all’efficienza nei processi di pianificazione e di ricerca degli effetti sull’apprendimento, scarso approfondimento da parte degli studiosi c’è stato circa l’azione di quei prerequisiti che possono influenzare positivamente la capacità di progettare nelle diverse fasi e momenti (di selezione, di attuazione e post-implementazione) dell’istruzione. La domanda centrale del presente contributo di ricerca riguarda invece proprio il tentativo di identificare quali condizioni di ingresso incidano, più di altre, sulla capacità di progettare l’insegnamento. I prerequisiti costituiscono i nuclei fondanti di qualificazione richiesti per assolvere ad un certo compito di apprendimento e le condizioni necessarie per realizzare la progettazione ed anche in grado di influenzarne le fasi di attuazione (dalla selezione alla fase post-attuazione) e di successo. Ciò richiede l’esplorazione delle componenti relative alle condizioni cognitive e affettive che concernono lo svolgimento di un compito di progettazione e che coinvolgono molti ambiti (abilità cognitive e metacognitive, competenze di base, trasversali, le motivazioni, le aspettative, le convinzioni), nonché l’adozione di strategie diverse impiegate dallo studente per apprendere all’università (Multon, Brown, Lent, 1991; Muis, 2007). In riferimento alle caratteristiche individuali dello studente e all’analisi dei prerequisiti di ingresso rispetto ai compiti di pianificazione e progettazione, la ricerca mostra come i principi di design contengano la conoscenza sostanziale e procedurale per una completa e accurata rappresentazione delle procedure, dei risultati e del contesto, in modo che si possano definire condizioni appropriate per gestire i processi di insegnamento-apprendimento. Confronti tra caratteristiche delle azioni, delle procedure e delle sequenze, dei modelli e dei processi decisionali impiegati potrebbero infatti rivelare aspetti importanti del modo in cui gli insegnanti imparano ad apprendere la “scienza della progettazione” ed a risolvere i problemi a questa connessi, aiutando coloro che si occupano di formazione degli insegnanti a comprendere come meglio alfabetizzare e far acquisire agli studenti-insegnanti gli opportuni strumenti metodologici indispensabili per governare l’insegnamento. Pensiamo alla riflessività, per esempio, e a come potrebbe essere impiegata per rendere efficace la progettazione spingendo ad ottenere un successo maggiore rispetto alla risoluzione di problemi inerenti l’accrescimento della consapevolezza nell’azione didattica (Boud, Keogh, Walker, 1985; Nuzzaci, 2011). Aspetti di questo genere sono stati introdotti da autori che si sono occupati di studiare nel campo della progettazione componenti come “l’esperienza del dominio”, le competenze creative e la motivazione (Amabile, 1996). La ricerca mostra come l’insegnante-progettista-competente si avvalga sia di abilità pertinenti e rilevanti per selezionare e sintetizzare nuove informazioni sia dell’esperienza, considerata in termini di capacità di applicazione e mobilitazione di risorse di diversa natura (atteggiamenti, competenze, conoscenze ecc.) durante tutto il processo di progettazione. Si tratta di elementi frequentemente richiamati dalla letteratura che contribuiscono a circoscrivere l’esperienza di dominio nel progetto e che attengono al processo di istruzione, oltre che alla sua conoscenza e al suo accesso. La conoscenza e la riflessione su cosa si impara, come lo si fa e come si applica quanto imparato sono elementi importanti per qualificare il livello di progettazione e produzione didattica. Le competenze di progettazione e la loro frequenza d’uso progettazione appaiono rilevanti per determinare la mi-
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sura in cui un insegnante produce pratiche didattiche nuove, che dipendono naturalmente dalla formazione, dalle caratteristiche e dalla profondità dell’esperienza pregressa nella generazione di idee progettuali.
3. La ricerca
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Nel caso dello studio in questo contributo l’attenzione è rivolta ai prerequisiti che sono strettamente connessi con l’intero sistema d’azione didattico ed ai presupposti e vincoli che influenzano l’uso delle informazioni e della comunicazione didattica nell’uso della progettazione in un Corso di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento erogato all’interno del Corso di laurea magistrale in Scienze della Formazione Primaria (SFP) al fine di espandere e migliorare l’istruzione e identificare le barriere che ostacolano la comprensione e i fattori che agevolano l’istruzione universitaria e portano al successo formativo i futuri insegnanti. Il processo di progettazione è un percorso multiforme e dinamico necessario per consentire agli insegnanti di strutturare percorsi di insegnamento-apprendimento intenzionali disciplinari o interdisciplinari. Ma che cosa spinge o mette in condizione un insegnante di progettare bene? Esiste un certo consenso negli studi che pone al centro del successo della progettazione proprio l’incontro tra caratteristiche personali dei discenti, conoscenze, competenze ed esperienze pregresse personali, formative e professionali e i fattori cognitivi, motivazionali e organizzativi (di leadership, di collaborazione, di relazione, di comunicazione ecc.), componenti tutte considerate, a diverso livello, prerequisiti per lo sviluppo della qualità dell’insegnamento (Geijsel, Sleegers, Stoel, Krüger, 2009; Kwakman, 2003). All’interno di tale incontro se è vero che la motivazione sembrerebbe giocare un ruolo centrale, determinando l’approccio di un individuo al compito, compreso il suo atteggiamento verso il problema e la sua spinta ad intraprendere una certa attività, la relazione diretta dei prerequisiti sull’orientamento motivazionale verso il compito e sulla probabilità di successo nella progettualità creativa rimane confermata anche dalla ricerca empirica più avanzata (Amabile, 1983; Dollinger, Burke, Gump, 2007; Hennessy, Murphy, 1999). Quando si impara a progettare vengono commessi errori che possono essere considerati indicatori delle difficoltà di comprensione di tale processo. Molte ricerche condotte in contesto universitario suggeriscono come nell’ambito della formazione insegnante i modelli didattici più efficaci per imparare a progettare siano quelli incentrati su approcci attivi che impegnino gli studenti nel risolvere problemi specifici e che li coinvolgano nell’attivazione di esperienze precedenti e nel re-investimento di abilità precedentemente acquisite, ovvero quando li inducano – – – –
ad attivare conoscenze già esistenti come base per nuova conoscenza; a spendere immediatamente le nuove abilità acquisite; ad applicare le nuove conoscenze acquisite contestualmente al sapere teorico; ad integrare le nuove competenze nel loro patrimonio conoscitivo individuale e nel loro repertorio interpretativo e di azione.
Lo studio qui presentato tenta di mettere in luce come in un Corso di Tecnologie e dell’istruzione e dell’apprendimento la progettazione didattica, quale campo di interrelazione tra competenze e conoscenze diverse, richieda precise condizioni di partenza e un profilo culturale forte in grado di sostenere i processi di apprendimento della progettazione dell’insegnamento. Utilizzare modelli adeguati nella
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formazione degli insegnanti in grado di individuare condizioni appropriate che determinino la riuscita nella progettazione induce a studiare condizioni e situazioni di ingresso, fattori indispensabili affinché si giunga ad una corretta “alfabetizzazione metodologica e progettuale” e alla costruzione di un vero e proprio “pensiero progettuale”. Alcune ricerche indicano che il 70% dell’apprendimento degli studenti dipende proprio dal possesso di requisiti appropriati (Briggs, Gustafson, Tillman, 1991; Gagné, 19854; Gagné, Briggs, 1979), cosa ormai nota ma scarsamente tenuta in debito conto nei contesti universitari. A partire dall’analisi della letteratura di settore, la ricerca qui esposta si sofferma in particolare a riflettere sulle condizioni, sulle implicazioni, sui risultati e sui limiti di uno studio osservativo incentrato sulla rilevazione delle caratteristiche di ingresso dei destinatari della formazione, ovvero sui prerequisiti degli studenti iscritti al Corso in Scienze della Formazione Primaria aquilano volti ad affrontare lo studio dei modelli di progettazione dell’insegnamento e ad una loro adeguata applicazione con l’intento di migliorare l’accessibilità alla logica e alla pratica progettuale e di contribuire ad identificare potenziali strumenti culturali e compensativi di supporto. Nello specifico esso tenta di comprendere come il test di accesso in SFP sia predittivo del successo o dell’insuccesso nella progettazione e nella capacità progettuale da parte degli studenti che accedono al Corso superando lo sbarramento (prova di accesso “a soglia”) e come esso sia legato a precise competenze e conoscenze che condizionino l’intero processo di acquisizione dei diversi domini e saperi didattici (Briggs, Gustafson, Tillman, 1991). Lo studio, dunque, partendo dall’analisi della “grammatica dell’azione” della progettazione e dalle caratteristiche e principi che la regolano, si è volto a studiare le condizioni di partenza rispetto ad un programma di formazione inserito all’interno del Corso di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento svoltosi nell’anno accademico 2012-2013. In primo luogo, il percorso di formazione è stato realizzato in rapporto diretto all’attuazione dei principi e fondamenti che governano la progettazione. In secondo luogo, i principi fondamentali insegnati nel Corso potevano essere implementati in qualsiasi sistema e utilizzati in qualsiasi architettura didattica. In terzo luogo, essi erano orientati a definire il disegno complessivo dell’insegnamento e a descrivere l’apprendimento, riferendosi alla creazione di ambienti e prodotti di apprendimento piuttosto che alla spiegazione di come i destinatari acquisiscono conoscenze e abilità relative a tali ambienti e prodotti. Sono stati pertanto individuati i principi fondamentali inclusi in una varietà di teorie e modelli di progettazione (anche se i termini usati per indicare questi principi possono differire tra i diversi autori), rintracciando quelli maggiormente necessari a programmare e a progettare adeguatamente l’“istruzione nel senso dell’efficacia e dell’efficienza e che si applicano indipendentemente dal singolo programma o modulo didattico o da certe pratiche prescritte, da un data teoria o da un certo modello. Considerato che i riferimenti citati in questo contributo sono meramente illustrativi piuttosto che esaustivi, poiché il vocabolario della progettazione viene qui unicamente impiegato per cercare di capire se, in un contesto di istruzione superiore, le variabili di ingresso condizionino aree specifiche dell’apprendimento della “scienza dell’insegnamento”, si fa presente come la discussione dei risultati del presente studio si limiti esclusivamente a verificare il ruolo che alcune variabili giochino all’interno di un percorso di acquisizione della professionalità insegnante e in quale misura esse possano considerarsi predittori significativi della capacità di progettare.
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3.1 Metodologia
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L’obiettivo della ricerca è stato quello di esaminare se le abilità (e solo in secondo tempo le fonti di errore) nel processo di scrittura di un progetto didattico (scheda-stimolo di progettazione) fossero riconducibili alle condizioni di ingresso degli studenti al Corso di laurea in SFP, in termini di: risultato ottenuto al test di accesso “a soglia” al Corso in Scienze della Formazione Primaria da quegli studenti che hanno superamento lo sbarramento; voto ottenuto al diploma, scuola di provenienza, età e genere. Lo scopo è stato quello di comprendere se le condizioni e le caratteristiche di ingresso degli studenti, anche in ordine alle competenze nelle tre aree di base previste dal test di accesso, potessero essere considerate predittori significativi del successo o insuccesso nell’apprendimento della progettazione in merito ai risultati ottenuti ad una specifica prova di progettazione (affiancata da un test finale, non oggetto specifico di trattazione in questo contributo), valutata sia dal docente dell’insegnamento sia da due valutatori esterni indipendenti e ad una prova orale strutturata (non oggetto specifico di trattazione in questo contributo) somministrate alla fine del Corso di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento. Chiarire quali difficoltà impediscano la corretta elaborazione di un progetto educativo significa capire i problemi incontrati dagli studenti/insegnanti quando si accingono ad acquisire abilità che riguardano tale ambito. Anche se in questa sede, ci si soffermerà a considerare solo alcune delle variabili selezionate, il disegno complessivo dello studio, a carattere multifocale, ha previsto comunque complessivamente diverse forme di raccolte dati: a. informazioni demografiche degli studenti in termini di genere, provenienza, titolo di studio, età ecc. b. risultati ottenuti al test di accesso in termini di competenze nelle aree previste (competenza linguistica e ragionamento logico cultura letteraria, storico-sociale e geografica, cultura matematico-scientifica); c. risultati nella elaborazione della scheda di progettazione; d. risultati del test finale di esame; e. risultati della prova orale strutturata; f. interviste ad hoc; g. risultati ottenuti al questionario sulla percezione di efficacia della qualità della didattica. Si è trattato di mettere a fuoco una grammatica delle forme, dei significati e dell’uso della progettazione e di individuare, sulla base delle competenze registrate in ingresso al percorso di formazione, quali fossero quegli studenti che l’avrebbero utilizzata con maggiore precisione (in termini errori) e significatività (in termini di correttezza e coerenza), raggiungendo la padronanza nelle abilità previste (prova di progettazione). Ci si è chiesti inoltre, rispetto ai risultati, se gli errori nella progettazione venissero favoriti dalle scarse abilità legate alle aree del test di ingresso: – competenza linguistica e ragionamento logico; – cultura letteraria, storico-sociale e geografica; – cultura matematico-scientifica.
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3.2 Le ipotesi della ricerca – Hp1 = Il test di ingresso al Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria predice il successo nella progettazione didattica, in termini di risposta corretta fornita dagli studenti ad una prova di progettazione? – Hp2 = Quali generi di competenze di ingresso al Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria predicono, meglio di altre, il successo nella progettazione didattica? – Hp3 = Il successo nella progettazione didattica, in termini di buon riuscita ad una specifica prova di padronanza, dipende dal livello di preparazione iniziale dello studente in ingresso al Corso di Scienze della Formazione primaria nelle tre aree considerate? – Hp4 =Il test di accesso predice meglio del voto di diploma, della scuola di provenienza, del sesso e dell’età il risultato nella progettazione?. Questi interrogativi rappresentano l’attività tipica del processo di apprendimento e la relazione tra fenomeni, vale a dire la predizione di alcuni precisi eventi. Lo studio, fondato su una analisi di regressione multivariata, tenta di rintracciare se e quali abilità di ingresso sono da considerarsi predittive nei confronti del successo nella progettazione in termini di prova di progettazione. Esso ha avuto il duplice intento di: esaminare la relazione lineare tra la variabile esplicativa “test di accesso” (o indipendente o predittore) e la variabile criterio “prova di progettazione” (o dipendente) al fine di studiare gli effetti del primo sulla seconda. Ciò allo scopo di individuare una combinazione lineare VI (X) per predire in modo ottimale il valore assunto dalla VD (Y). VI 1. Voto di diploma 2. Test di ingresso: a.
competenza linguistica e ragionamento logico b. cultura letteraria, storico-sociale e geografica c. cultura matematicoscientifica
3. Scuola di provenienza
VD Risultato prova di progettazione:
Punteggio Area 1 Punteggio Area 2 Punteggio Area 3 Punteggio Area 4 Punteggio Area 5 Punteggio Area 6
Fig. 3 – Variabili indipendenti e variabile dipendente
Campione Lo studio ha riguardato 248 studenti (237 femmine e 11 maschi) iscritti al Corso di laurea in Scienze della Formazione primaria e frequentanti il Corso di Tecnologie dell’istruzione e dell’insegnamento nell’anno accademico 2012-2013, selezionati in base all’anno di iscrizione, e invitati, attraverso una prova di progettazione, ad elaborare un esempio di proposta progettuale sulla base di una scheda stimolo e delle indicazioni fornite dalla docente. Gli elaborati di progettazione sono stati esaminati dalla docente dell’insegnamento e da due valutatori
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esterni, esperti in progettazione, che attribuivano un punteggio che prevedeva un range tra 0 a 10 punti per ogni area di padronanza contemplata nella scheda-stimolo. La scala utilizzata per livello e appropriatezza rispetto alla soluzione indicata si è basata dunque su una scala a 10 punti e sei aree di padronanza per un massimo teorico complessivo di 60 punti. I criteri, per tutte le voci indicate nella scheda e per gruppi indipendenti di valutazione, prevedevano 10 punti per ogni Area. AREE DI PADRONANZA
Area 1 – Punti da 1 a 10 Analisi dei bisogni e priorità Area 2 – Punti da 1 a 10 Definizione delle caratteristiche dei destinatari e del contesto di apprendimento Area 3 – Punti da 1 a 10 Definizione degli obiettivi Area 4 – Punti da 1 a 10 Modalità di accertamento iniziale e definizione delle caratteristiche dei destinatari della proposta Area 5 – Punti da 1 a 10 Presentazione de compito di apprendimento: procedure, strategie, tecniche e mezzi Area 6 – Punti da 1 a 10 Forme di valutazione adottate
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Tab. 1 – Aree di padronanza della prova di progettazione
In una analisi successiva, sono state identificate specifiche classi in funzione del tipo errore prodotto, definite secondo criteri individuati in precedenza, che hanno portato in seguito ad individuare, sulla base della scala di valutazione utilizzata e sulla base dei punteggi delle aree, e per classi di errori, sono stati sommati ed utilizzati anche per identificare e clasterizzare tre gruppi di studenti distinti da bassa, media e alta padronanza in fatto di progettazione. Il contenuto di questa trattazione riguarda solo la relazione tra alcune delle variabili esaminate, ovvero: “risultato al test di accesso”, “risultato alla prova di progettazione”, “voto di diploma”, “scuola frequentata”, “età”, “sesso”. Si darà conto in altra sede di quelle variabili direttamente connesse all’efficacia didattica della docente e della qualità della didattica percepita dagli studenti. Strumenti utilizzati nel disegno complessivo della ricerca Lo studio ha complessivamente previsto per il suo approccio multifocale i seguenti strumenti: a. Test di accesso SFP (80 item, 2 ore e 30 minuti – max teorico 80) b. Scheda di progettazione (6 aree, 3 giornate – max teorico 60 – a cui viene anche aggiunto il conteggio del numero per tipologia) c. Test finale - prova d’esame (60 item, 1 ora – max teorico 60) d. Prova orale strutturata (15 minuti – max teorico 60) e. Intervista ad hoc a gruppo privilegiato (10 studenti, 1 ora circa ciascuno) f. Questionario sulla percezione della qualità della didattica. Per l’elaborazione dei dati è stato utilizzato il pacchetto di statistica SPSS 15.1.
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4. Risultati e discussione Nel disegno complessivo della ricerca è stato possibile stimare la capacità predittiva delle ipotesi qui considerate tenendo conto del voto ottenuto dagli studenti nella prova di progettazione e solo successivamente della natura e del genere di errori commessi (dove sono stati confrontati i valori medi della variabile risultato nella progettazione fra due gruppi di individui ad alta, media e bassa padronanza) al fine di comprendere il grado e il tipo padroneggiamento o meno delle abilità legate alla progettazione didattica. Attraverso l’identificazione di alcuni elementi nodali relativi all’attività progettuale, con la previa trasformazione dei costrutti (livello di padronanza in termini di risultati al test di accesso nelle tre aree di competenza, prova di progettazione, test finale, prova orale strutturata, analisi proposizionale ADP delle interviste1 e percezione della qualità della didattica) in variabili osservabili (risultato al test di accesso e disaggregazione dei risultati per area, numero di errori, voto al test finale d’esame e voto alla test finale d’esame, voto alla prova orale, età, sesso, voto di diploma, scuola di provenienza), è stata individuata, in una prima fase, una combinazione lineare di variabili indipendenti (VI) per predire in modo ottimale il valore assunto dalla variabile dipendente (VD) impiegando l’analisi della regressione multipla. Quest’ultima è stata scelta perché permette di analizzare la relazione tra una variabile dipendente (risultato alla prova progettuale) e una o più variabili indipendenti (predittori = test di accesso, voto di diploma, scuola di provenienza, età, sesso) predisposte entro un modello esplicativo (Fit del modello). Sono stati stimati più parametri, uno per ogni variabile indipendente inclusa nel modello. Essendo una tecnica asimmetrica che si fonda sull’ipotesi della esistenza di una relazione di tipo causa-effetto tra una o più variabili indipendenti (o esplicative) e la variabile dipendente (o di criterio), la regressione multipla permette di comprendere se la progettualità sia predetta dal test di accesso, dal voto di diploma, dalla scuola di provenienza, dal sesso e dall’età. Lo studio ha avuto dunque principalmente lo scopo di esplorare una combinazione di variabili indipendenti per predire in modo ottimale il valore assunto dalla variabile dipendente (voto ottenuto alla prova di progettazione). Per la verifica delle ipotesi, il primo passo del trattamento dati è stato quello di esplorare, partendo da quelli selezionati, i predittori più potenti all’interno dell’insieme complessivo delle variabili individuate in partenza. Sono state calcolate le statistiche descrittive per le variabili in gioco, media e deviazione standard, ed introdotta la matrice di correlazione fra le variabili. Tale primo step ha fornito la descrizione del ruolo svolto dalle variabili indipendenti e dalla variabile dipendente considerate allo scopo di valutare globalmente il modello da utilizzare per l’entrata in regressione delle variabili indipendenti e per comprendere l’inserimento dei predittori nel modello in termini di varianza spiegata. Gli esiti relativi al controllo delle prime informazioni circa i possibili errori nella specificazione del modello hanno indotto all’eliminazione, dall’insieme individuato, la variabile “sesso” e la variabile “età”, in quanto poco significative per le ipotesi considerate, mentre l’interpretazione dei risultati delle prime statistiche descrittive ha mostrato come il coefficiente di correlazione R di Pearson ha espresso la forza dell’associazione lineare statisticamente
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Il riferimento è al testo di Blanchet, A. Gotman A. (2000). L’indagine e i suoi metodi: l’intervista. Roma: Kappa. Traduzione e cura di F. G. Merlina, A. Nuzzaci (or. ed. L’enquête et ses méthodes: l’entretien, Paris, Nathan, 1992).
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significativa fra test di accesso e prova di progettazione (.446 e p. <.001), tra voto di diploma e prova di progettazione (.318) e tra scuola di provenienza e prova di progettazione (.214). Controllate attentamente queste prime informazioni dirette alla specificazione del modello, si è passati a disegnare il Fit del modello includendo in esso le tre variabili indipendenti maggiormente predittive (voto di diploma, test di accesso e scuola di provenienza) con l’intento di calcolare il valore del coefficiente che le connette: MODELLO –
VI - le variabili indipendenti (dette predittori) quali: “voto di maturità” (X1); “voto al test di accesso” (X2) VD - la variabile dipendente (detta “criterio”) quale: “prova di progettazione” (Y)
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Tab. 2 – Fit del modello
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Occorreva poi osservare se il modello spiegasse una quota significativa della varianza “risultato alla prova di progettazione”. Nella tabella che segue sono presenti i valori di R, R2 e di R2 corretto (Adjusted R Square); quest’ultimo valore rappresenta una correzione dell’R2 in base al numero delle variabili considerate ed utilizzate come predittori ed alla numerosità del campione (Tabachnik, Fidell, 1989), a cui segue una tabella concernente l’analisi della varianza, ovvero un test della significatività di R2. !"#$%&'(
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Tab. 3 – Regressione della prova di progettazione sul test di accesso, sul voto di diploma e sulla scuola di provenienza
La tabella che segue riporta il numero dei soggetti, il valore di R2, la F della tabella dell’analisi della varianza, i coefficienti di regressione standardizzati corredati da asterischi (se significativi) e le correlazioni semplici fra predittori e criterio. L’analisi della varianza mostra come il modello di regressione riesca a spiegare una quota significativamente diversa da zero della varianza della variabile dipendente o criterio sul totale della varianza del fenomeno studiato, che si esprime nella percentuale della varianza spiegata da R2 (.761***). In altre parole, le variabili indipendenti voto di diploma, test di accesso e scuola di provenienza spiegano circa il 76% della varianza e della significatività statistica (p.<001) della varianza del criterio (della variabilità della variabile dipendente risultato alla prova di progettazione). Inoltre, la differenza tra R2 (.761) e Adsjusted R Square (.744) è molto bassa (.017), inducendo a considerare che la scarsa sovrastima di R2 sia dovuta all’utilizzo dei tre predittori inseriti in un modello non sottoposto ad overfitting. I risultati confermano dunque l’importanza del test di accesso, del voto di diploma e della
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scuola di provenienza e nel complesso l’indice R2 testimonia che la percentuale di varianza spiegata nel risultato alla prova di progettazione non può sicuramente considerarsi trascurabile. Dopo aver accertato, per la verifica delle ipotesi, la bontà del modello, il passo successivo nel trattamento dati è stato quello di indagare, sempre partendo dai predittori scelti di individuare quelli più potenti all’interno dell’insieme, ossia verificare l’importanza relativa a ciascuna variabile indipendente nella predizione di quella dipendente e quindi comprendere se ogni singolo predittore fosse legato significativamente al criterio e quale rilevanza predittiva assumesse. Nella tabella che segue vengono riportati i coefficienti di regressione e le relative statistiche: i coefficienti di regressione non standardizzati (B), il relativo errore standard (SE B), i coeffienti standardizzati (β), la statistica T e la probabilità associata alla T (Sig T). !"#$%&'(
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Tab. 4 – Rilevanza predittiva di ogni singolo predittori rispetto alla variabile criterio
I coefficienti non standardizzati relativi ad ogni variabile indipendente rappresentano la variazione attesa nella variabile criterio all’aumentare di una unità scalare nel valore di quella predittrice, mentre i coefficienti standardizzati riflettono il variare del criterio in seguito allo spostamento di una deviazione standard del valore del predittore. Data la differenza di scala tra le variabili indipendenti esaminate, ci si è concentrati sui coefficienti standardizzati, osservando i quali si nota un maggiore potere predittivo del test di accesso (.45***) e del voto di diploma (.32***) rispetto alla scuola di provenienza (.23**), anche se quest’ultima appare comunque un predittore significativo del risultato di progettazione (p. <.01). Ad un controllo dell’effetto di dispersione concernente l’assunzione di omoschedasticità dei residui, necessaria per una corretta applicazione del modello di regressione, non notiamo anomalie ma solo una lievissima asimmetria della distribuzione e nulla di più (Ercolani, Areni, Mannetti, 1991). Il coefficiente β indica di quanto varia ciascuna Y per ogni variazione di una unità di X, rivelando che quello relativo alla variabile test di accesso mette in luce la positiva correlazione alla variabile dipendente “risultato alla prova di progettazione” (ovvero tenda a crescere al crescere della variabile indipendente e la retta tenda a “salire” da sinistra a destra). β ci dice che in media il valore relativo alla variabile “test di accesso” è di 0.45, il quale risulta più elevato rispetto sia a quello della variabile “voto di diploma” (.32) sia a quello della “scuola di provenienza” (.23) e che tenda ad aumentare in media per ogni valore in più della prova di progettazione. Ad ulteriori verifiche, dunque, si può dedurre che le tre variabili sembrano avere influenza significativa sul risultato ot-
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tenuto alla “prova di progettazione” sia all’interno del complessivo Fit del modello sia in merito alla verifica effettuata su ogni variabile indipendente nella predizione di quella dipendente. La significatività di ogni singolo predittore nei confronti del criterio e di ciascuno di essi in funzione ad una maggiore o minore rilevanza predittiva ha consentito di fornire un esauriente risposta alla prima domanda della ricerca, ovvero: “Il test di accesso predice meglio del voto di diploma e della scuola di provenienza il risultato nella progettazione?”. Qui di seguito sono presentati i coefficienti di regressione e le relative statistiche finali.
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Tab. 5 – Coefficienti di regressione predittori-criterio
In riferimento alle variabili “voto di diploma” e “scuola di provenienza”, la variabile “test di accesso” ottiene valori significativamente più alti rispetto al test finale (il valore di β ci dice in media quanto il valore sia più elevato). In sostanza, l’analisi effettuata evidenzia come ad un incremento unitario della variabile “punteggio al test di accesso” segua un incremento della variabile “punteggio alla prova di progettazione”. L’analisi di regressione multipla infatti ha mostrato come il “test di accesso”, e in misura minore il “voto di diploma” e la “scuola di provenienza”, possa essere considerato un valido predittore statisticamente significativo della riuscita alla “prova di progettazione”. Ciò mette in luce che più elevate competenze in ingresso nelle tre aree del test predice significativamente il successo nella progettazione e spiega il 76% della variabilità complessiva della prova di progettazione, valore elevatissimo. La verifica delle ipotesi, attraverso l’uso della regressione multipla per testare la significatività statistica, ha mostrato in sintesi che: – l’analisi spiega una quota significativa della varianza “punteggio alla prova di progettazione” (43%) ed R2 corretto, che tiene conto dei gradi di libertà del modello, cioè sostanzialmente del numero di unità statistiche e del numero di variabili, risulta essere molto elevato (.734); – la scelta dell’inserimento dei tre predittori migliora la varianza spiegata dal modello di regressione sul totale della varianza del fenomeno esplorato rispetto agli step iniziali (76%); – le variabili “test di accesso” e “voto di diploma” risultano essere migliori predittori rispetto alla “scuola di provenienza”. La bontà del modello utilizzato risultata visibile anche nel complessivo disegno della ricerca quando, in approfondimenti successivi, di cui in questa sede non si può dare conto esaustivamente per motivi di spazio, sono stati disaggregati i punteggi per area di competenza del test di accesso. Gli studenti ad elevata padronanza nelle competenze riconducibili all’area linguistica, del ragionamento logico e di cultura matematico-scientifica (media = .67, ds = 3.16) hanno riportato un pun-
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teggio significativamente maggiore nella “prova di progettazione” e un numero di errori minore (t = 2.26, p = .03) rispetto a coloro che presentavano competenze più elevate nell’area della cultura letteraria, storico-sociale e geografica (t = 8.24, p = .01). Non potendo spiegare esaurientemente questo passaggio, ci limitiamo a rilevare come, procedendo ad una disaggregazione dei dati rispetto al genere di competenze interessate, l’aspetto della predizione appare più chiara e rivela le diverse connessioni che legano direttamente le variabili considerate alla “prova di progettazione” con una elevata predittività di quelle variabili specifiche che evidenziano specifiche difficoltà pertinenti proprio alle aree logico-matematiche e linguistiche; problema che andrebbe attentamente esplorato. L’analisi qualitativa degli errori di progettazione e la loro clasterizzazione (morfologici, lessicali, sintattici ecc. relativi alla scrittura, alla comunicazione didattica della progettazione e così via) mostra poi come la loro diversa natura vari con il variare della padronanza nelle aree considerate e che laddove gli studenti non padroneggino sufficientemente le abilità progettuali considerate tendano a fraintendere più frequentemente i messaggi specialistici della comunicazione didattica e siano più deboli sul piano della logica progettuale con evidenti ricadute sul genere di elaborato prodotto. Se dunque questa parte dello studio indichi chiaramente che ad un più basso risultato ottenuto dagli studenti “al test di accesso” e al “voto di diploma” corrisponda un minore risultato alla “prova di progettazione”, anche rispetto al “genere di scuola di provenienza”, e che dunque la riuscita o meno nella prova di progettazione venga significativamente predetta dal “test di accesso” previsto in entrata al Corso in Scienze della Formazione Primaria rispetto alle altre due variabili considerate (“voto di diploma” e, in misura minore, “scuola di provenienza”), lo studio testimonia, nel suo disegno complessivo, il valore dei prerequisiti rispetto al segmento formativo analizzato, in linea con quanto espresso dalla letteratura di settore più avanzata.
5. Limiti dello studio Uno dei limiti dello studio riguarda il numero di soggetti, il quale è riconducibile ad un solo Corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria e ad un unico Corso in Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento. Inoltre, il metodo di analisi utilizzato avrebbe infatti bisogno di essere affiancato dalla verifica della replicabilità dei risultati su campione indipendente cross validation (Tabachnick & Fidell, 1989). In futuro lo studio potrebbe essere esteso fino a includere un campione più ampio di soggetti di altre università al fine di potere operare un confronto in contesti analoghi, al quale andrebbe associato anche uno studio longitudinale relativo agli esiti di tre o quattro coorti o gruppi consecutivi di studenti dello stesso Corso. Per di più, la mancata considerazione della variabile “qualità dell’insegnamento”, in termini di risultati della percezione degli studenti circa la valutazione della qualità della didattica, sulla quale in questa sede non è stato possibile soffermarsi, rappresenta una potenziale minaccia per la validità esterna dei risultati, anche se nel disegno complessivo della ricerca essa, dopo attento controllo, ha rivelato risultati estremamente interessanti che non fanno che confermare la corretta interpretazione di quanto fin qui esposto.
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Conclusioni
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Molti approcci possono essere applicati per ampliare l’accesso alla cultura della progettazione, anche se il vero problema da affrontare è quello della preparazione e del coinvolgimento degli studenti quali futuri insegnanti-progettisti. Pur avendo quindi bisogno di ulteriori approfondimenti che rilevino o meno la presenza di alcune componenti di fondo circa le relazioni tra variabili non bene messe in luce nel presente studio e di queste con altre variabili (la qualità dell’insegnamento universitario, le caratteristiche del docente, i mezzi e il materiale didattico utilizzato, il tempo dedicato alla formazione, il tempo dedicato dallo studente allo studio ecc.), si conferma ancora, a distanza di tempo, come gli studenti che possiedono migliori prerequisiti in ingresso al percorso di formazione universitaria ottengano risultati sostanzialmente superiori alla prova di progettazione, che, in quanto competenza di ordine metodologico, costituisce un valido indicatore dell’apprendimento della professionalità insegnante. Trattandosi di uno studio esplorativo, si è partiti da una ricerca che ha esaminato il rapporto tra prerequisiti e successo nella progettazione. Si è misurata l’incidenza che le competenze iniziali, in termini di condizioni di ingresso di accesso al Corso in Scienze della Formazione Primaria, hanno nel predire la riuscita nella progettazione didattica. Visto poi che l’intero studio ha previsto l’analisi di molte variabili, a partire da quelle relative alla comunicazione e alla efficacia dell’intervento didattico effettuato dalla docente, molti sono stati i trattamenti dati diretti a verificare collateralmente tali relazioni. Da qui se ne deduce anche come vi sia bisogno di una ricerca educativa diretta a svelare i rapporti tra caratteristiche dei destinatari, azione formativa e qualità della didattica universitaria, aspetti essenziali per predisporre strumenti e modalità adeguati atti a garantire una formazione per far conseguire agli studenti risultati positivi in un curricolo di studi o a rendere soddisfacente per loro la proposta formativa rispetto agli obiettivi previsti. Ulteriori indagini correlazionali saranno necessarie per studiare il rapporto tra competenze iniziali, competenze di area pedagogica, competenze di progettazione e di uscita. Ciò appare determinante nella messa a fuoco della relazione tra obiettivi e risultati di apprendimento in relazione alla logica di progettazione e al sapere didattico. Nell’analisi qualitativa si confermano alcuni risultati qui anticipati, che mostrano discrete somiglianze nelle procedure utilizzate da tutti gli studenti, anche se notevoli differenze emergono nel processo di progettazione quando si confrontano le variabili relative alle componenti individuali e procedurali nelle diverse fasi di progettazione così come nella padronanza di abilità didattiche specifiche. Gli studenti del gruppo ad alta padronanza mostrano più sofisticati livelli di analisi e maggiori abilità generali rispetto al gruppo a bassa padronanza progettuale, oltre che un livello più profondo di coinvolgimento nel compito grazie all’utilizzo di approcci interpretativi e tecniche progettuali multiple. Per verificare tali risultati si sta procedendo a costituire un ulteriore gruppo di studenti. Il lavoro è corredato da una ricca documentazione che tiene conto delle caratteristiche degli studenti e di una vasta letteratura sulla pratica di progettazione consolidata nei modelli di processo, che prende in considerazione la sequenza, il tipo di azioni intraprese e le decisioni che si assumono nell’azione e che si traducono in livelli più o meno elevati di produzione. Le implicazioni di questo studio confermano la necessità di giungere a forme sempre più precise di “formazione alla progettazione” volte a sostenere la qualità degli interventi e il successo formativo degli insegnanti in formazione iniziale e costituiscono utili riflessioni per intraprendere nuovi percorsi di ricerca educativa nel campo del processo di scrittura della progettazione didattica.
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“Another brick in the wall”? Concezioni degli insegnanti sulla valutazione: il punto di vista di chi è in formazione Serafina Pastore • Università degli Studi di Bari • serafina.pastore@uniba.it Monica Pentassuglia • Università degli Studi di Verona • monica.pentassuglia@univr.it
“Another brick in the wall”? Teachers’ conceptions about assessment: the views of teacher trainees
Nowadays, educational research points out how teaching-learning quality is interwoven with teachers’ conceptions of teaching, learning, curriculum, and assessment. Starting from a preliminary review of main international inquiries on teachers’ assessment conceptions, this paper tries to reflect on teachers’ trainees conceptions about assessment.
Parole chiave: valutazione; formazione all’insegnamento; concezioni degli insegnanti; ricerca educativa
Keywords: assessment; teacher training; teachers’ conceptions; educational research
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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La ricerca educativa più recente ribadisce come la qualità dei processi di insegnamento-apprendimento sia connessa alle modalità con cui gli insegnanti considerano e concettualizzano l’insegnamento, l’apprendimento, il curricolo e la valutazione. Sulla scorta di una preliminare rassegna delle principali indagini internazionali sulle concezioni dei docenti, il presente contributo prova a riflettere, in particolare, sulle concezioni che della valutazione hanno i docenti in formazione.
“Another brick in the wall”? Concezioni degli insegnanti sulla valutazione: il punto di vista di chi è in formazione
1. Introduzione
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L’insegnamento, di per sé, rappresenta una professione così particolare e così ricca di significati e sfumature che le questioni ad esso correlate hanno sempre un’eco e un impatto notevoli sull’opinione pubblica. Negli ultimi decenni diversi sono stati i tentativi di ri-definire l’insegnamento (Galliani, 2006; Teddie, Reynolds, 2000; Margiotta, 1999; Scheerens, 1992) a fronte di tensioni e pressioni, provenienti, non sempre e non solo, dallo specifico mondo educativo e scolastico e indirizzate, principalmente verso la definizione della qualità dell’insegnante e dell’insegnamento (Townsend, Bates, 2007) spesso indicata come uno dei più significativi fattori1, se non addirittura il più significativo di tutti, nell’influenzare il rendimento degli studenti e il miglioramento dell’istruzione. È evidente come la posta in gioco sia davvero alta. Diversi gli aspetti da dover considerare o da dover ri-considerare accuratamente, specie in relazione al mondo della formazione degli insegnanti. Globalizzazione e diversità (nelle sue plurime accezioni), impatto della tecnologia, riflessività e pratica professionale, valutazione e accountability, sono solo alcuni dei possibili topic che, in un’ipotetica road map, è necessario toccare quando si parla di formazione degli insegnanti oggi. L’enfasi sul ruolo e sulle modalità della formazione docente dimostrano come questo tema abbia inevitabili sfaccettature politiche: posto infatti che la ricerca educativa abbia ormai esplicitato come gli insegnanti apprendono e sviluppino la propria professionalità, è necessario ora capire come fare per definire e implementare programmi formativi che siano realmente efficaci e rispondenti alle esigenze della società attuale (Darling-Hammond, Bransford, 2005). Tra i temi che recentemente si sono imposti all’attenzione degli studiosi rientra, sicuramente, quello relativo a come la qualità dei processi di insegnamento-apprendimento di un determinato sistema formativo sia intimamente connessa alle modalità con cui gli insegnanti considerano e concettualizzano l’insegnamento stesso, ma anche l’apprendimento, il curricolo e la valutazione. Aspetto questo che si rivela cruciale tanto a livello di formazione degli insegnanti, quanto a livello di
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Che l’insegnamento e il ruolo dell’insegnante abbiano un impatto sull’apprendimento (e sul tipo di apprendimento) maturato dagli studenti è un aspetto ampiamente riconosciuto: lo stesso J. Hattie (2009) dimostra come la qualità dell’insegnamento sia intrinsecamente connessa tanto alla conoscenza disciplinare dell’insegnante quanto alla conoscenza di come lo studente apprenda in quella specifica disciplina e all’efficacia delle pratiche didattiche realizzate in classe. L’azione dell’insegnante, secondo lo studioso, determinerebbe una varianza nei livelli di apprendimento degli studenti pari al 30%. È bene sottolineare però come l’enfasi sulla centralità dell’insegnante e sulla sua azione abbia finito, spesse volte, con il ridurre questo tema a una sorta di panacea dei mali del sistema scolastico giustificando a priori la disattesa assunzione di responsabilità da parte del sistema politico e sociale.
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policy e di cambiamenti istituzionali nel mondo della scuola. A margine delle innovazioni e delle trasformazioni nei sistemi e nelle politiche educative è inevitabile ci siano ripercussioni sulla formazione degli insegnanti; tuttavia, nel parlare di formazione docente e trasformazioni istituzionali non si può prescindere dall’influenza che su tali aspetti esercitano le concezioni e i significati attribuiti al riguardo dagli stessi insegnanti (Van DenBerg, 2002; Hill, 2000; Hawey, Valli, 1999). Le concezioni degli insegnanti possono influenzare sia le loro azioni didattiche (e quindi tra queste anche la valutazione), sia le loro risposte alle riforme politiche e istituzionali che investono un sistema scolastico (si pensi, a titolo esemplificativo, alle modifiche veicolate nel nostro Paese in concomitanza con le rilevazioni censuarie realizzate dall’INVALSI sui livelli di apprendimento degli studenti o al costituendo Sistema Nazionale di Valutazione). Ben si comprende allora come indagare tale aspetto sia non solo necessario e opportuno, ma costituisca, specie in riferimento alle possibili implicazioni per la formazione docente, un passaggio, in un certo senso, obbligato. Sulla base di tale framework, il presente contributo riporta i risultati di un primo studio empirico sulle concezioni che gli insegnanti in formazione hanno rispetto al tema della valutazione. Una precisazione, a questo punto, è doverosa. Lo studio non si occupa delle problematicità dei corsi PAS e TFA né di esprimere giudizi circa l’efficacia, reale o percepita, di tali corsi di formazione: seppur rilevanti, questi aspetti esulano dal focus specifico della ricerca.
2. Concezioni degli insegnanti: background e foreground Le riforme che negli ultimi anni hanno cercato di rispondere in modo più o meno coordinato alle trasformazioni economiche, politiche e sociali, pur sortendo diversi risultati, hanno alimentato, senza alcun dubbio, un rinnovato interesse per la valutazione. Tra i diversi orientamenti di indagine tesi a comprendere e orientare le pratiche valutative dei docenti, particolare menzione meritano le analisi dell’influenza che nella valutazione esercitano le credenze e le concezioni degli insegnanti. Vediamo nello specifico. In genere, il termine concezione comprende tutto quello che l’insegnante pensa riguardo alla natura e alle finalità di un processo educativo e di una pratica didattica. Le concezioni, come strutture mentali comprendono credenze, significati, concetti, preferenze; ma ci sono anche altri elementi da considerare, ad esempio, il background personale, sociale, formativo e contestuale, oltre all’influenza che tali aspetti possono esercitare sull’intenzione ad agire da parte del docente. Per F. Pajares (1992) le concezioni degli insegnanti sono organizzate e distinte in concezioni più importanti e centrali e in concezioni secondarie, di tipo periferico. Fungono sostanzialmente da framework attraverso cui un insegnante vede, interpreta e predispone la sua azione rispetto a uno specifico contesto di apprendimento (Marton, 1981). Quando gli insegnanti agiscono all’interno della più vasta architettura didattica che hanno disegnato intraprendono un ragionamento in cui analizzano una combinazione di fattori per prendere decisioni riguardo le strategie didattiche più funzionali. Nel momento in cui scelgono di adottare determinate strategie, le loro percezioni e concezioni personali, le loro credenze diventano, pertanto, una lente per interpretare sia la situazione, sia la loro pratica (Hermans, Braak, Van Keer 2008; Harlen, 2004; Rea-Dickins, 2004). In tale prospettiva, numerosi sono stati gli studi che hanno provato a leggere e analizzare il processo di insegnamento-apprendimento attraverso il costrutto delle concezioni. Tra questi
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richiamiamo le indagini sulle concezioni dell’apprendimento (Entwistle, 1997; Marton, Saljö, 1976), dell’insegnamento (Trigwell, Prosser, 1997; Kember, 1997; Gow, Kember, 1993; Pratt, 1992; Samuelowicz, Bain, 1992), del curriculum (Cheung, 2000; Eisner, Vallance, 1974), della self-efficacy (Tschannen-Moran, Woolfolk Hoy, Hoy, 1998; Guskey, Passaro, 1994; Bandura, 1989), dell’epistemologia personale (Schraw, Bendixen, Dunkle, 2002; Wood, Kardash, 2002; Schommer, 1990) e della valutazione (Brown, 2004; Stamp, 1987). Le credenze (intese come l’insieme dei significati connessi agli oggetti psicologici o ai fenomeni sociali contestualmente e culturalmente definiti) e le concezioni degli insegnanti sulla valutazione influiscono significativamente sull’insegnamento e sull’apprendimento, ma anche sul curricolo e sull’efficacia delle pratiche didattiche (Brown, Harris, 2009). J. Calderhead (1996), in particolare, individua cinque aree di credenze degli insegnanti relative a: studenti; apprendimento; insegnamento disciplinare o curriculum; formazione all’insegnamento; sé docente. Diversi studi e ricerche, soprattutto a livello internazionale, hanno già dimostrato come nella valutazione il giudizio degli insegnanti sia influenzato dalle loro credenze e dalle loro concezioni e come tali elementi si ripercuotano su cosa è insegnato e sul perché (Hermans, Van Braak, Van Keer, 2008; McMillan, 2001)2. Tra le diverse indagini ricordiamo quella di S.F. Cheung e M.H. Wong (2002) in cui si ribadisce come le concezioni che gli insegnanti hanno del curriculo si riverberino sulla valutazione: la considerazione dell’insegnamento come mero processo di trasmissione di conoscenze e informazioni è frequentemente associato all’idea di valutazione come verifica e certificazione dell’apprendimento degli studenti; lo studio di B. Dahlin, D. Watkins e M. Ekholm (2001) mostra come le concezioni dei docenti rispetto alla valutazione si distribuiscano in maniera polarizzata tra le dimensioni summative e formative. C.A. Dwyer e A.M. Villegas (1993), invece, riportano un quadro più complesso per quanto attiene le concezioni degli insegnanti e la valutazione. Quattro i domini connessi alle azioni valutative: l’insegnamento per la promozione dell’apprendimento degli studenti; la cura del contesto per la promozione dell’apprendimento; la professionalità dei docenti e l’organizzazione dei contenuti disciplinari. F.D. Betoret e A.G. Artiga (2004), infine, sviluppano un modello bipolare delle concezioni degli insegnanti articolato, a sua volta, su due dimensioni (centralità dell’insegnante versus centralità dello studente; centralità del processo versus centralità del prodotto). L’immagine finale che si ottiene mostra come le concezioni degli insegnanti si distribuiscano prevalentemente
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Esemplificativo è, a questo proposito, il filone di indagini che, originatosi a seguito della nota meta-analisi di P. Black e D. Wiliam (1998) sulle pratiche di formative assessment, (Filsecker, Kerres, 2012; Kingston, Nash, 2011), cerca di identificare ciò che comunemente l’insegnante associa a tale forma di valutazione in modo da poter comprendere come supportare i docenti nell’implementazione di questa pratica (Heritage, 2014; Pastore, Salamida, 2013; Bennett, 2011). Alla letteratura scientifica che con tono prescrittivo ha individuato le fattezze di una buona valutazione “in chiave” formative o le modalità e le tecniche per poterla implementare in modo efficace si è così affiancata una ricerca, di orientamento evidence-based, sulle pratiche di valutazione (Baird, 2011) e su come analizzare le concezioni che guidano e danno forma alla valutazione agita dagli insegnanti. Il riconoscimento dell’importanza del formative assessment si accompagna così oggi ad una puntuale attenzione su come poter sviluppare questa pratica di valutazione e su come limitare, al contempo, i rischi di un insegnamento eccessivamente test-like (Popham, 2000).
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su quattro aree: il paradigma tradizionale (centrato sull’insegnante); il paradigma comportamentista (centrato sul prodotto); il paradigma cognitivista (centrato sullo studente); il paradigma umanista (centrato sul processo). Al riconoscimento dell’importanza dei diversi fattori influenti sulle concezioni degli insegnanti si è inoltre affiancata la considerazione che sia rilevante il processo attraverso cui i docenti (in formazione e in servizio) modificano tali concezioni. Così, se, per un verso, le concezioni possono incidere sulla pratica didattica, dall’altro, si rileva come gli effetti di determinate pratiche finiscano con l’influenzare le concezioni stesse. Non si può però asserire che un processo sia predominante rispetto all’altro. In un processo di cambiamento spontaneo e naturale a livello di concezioni e di pratica, i comportamenti modificati sono considerati il risultato di una variazione nelle percezioni; quando, invece, i docenti sono in una condizione che dovrebbe favorire il cambiamento della loro pratica (quale un corso di formazione) allora sono le concezioni a modificarsi come conseguenza dell’evoluzione della pratica (Richardson, Placier, 2001). Gli orientamenti attuali puntano a capire se le concezioni che gli insegnanti hanno della valutazione possano essere analizzate nel vivo della loro pratica. Si profila così un oggetto di indagine assai complesso proprio perché le concezioni della valutazione sono gerarchiche, multidimensionali e interrelate. Le concezioni dell’insegnamento, dell’apprendimento, del curricolo non solo influenzano pesantemente come gli insegnanti insegnano e cosa gli studenti apprendono, ma risultano essere connesse alla pratica valutativa e alla scelta delle tecniche e delle strategie più idonee all’interno di un determinato setting di apprendimento.
3. Domande e obiettivi della ricerca Sulla base di questa preliminare rassegna è evidente come studiare le concezioni degli insegnanti costituisca un tema di densa e strategica rilevanza anche per l’impatto sulla pratica didattica. Cosa succede quando parliamo di concezioni e di formazione professionale? Quali sono le concezioni che gli insegnanti in formazione hanno rispetto alla valutazione? Per rispondere a tali interrogativi è stata predisposta una prima indagine tesa a esplorare le concezioni che della valutazione hanno gli insegnanti in formazione (corsisti PAS e TFA). Nello specifico, tra i diversi modelli riportati in letteratura e sopra analizzati, si è optato per quello elaborato da G. Brown (2004). Nel ribadire l’estrema pericolosità del perpetuare una visione bipolare della valutazione in riferimento all’ambito scolastico G. Brown suggerisce l’esistenza di quattro diverse concezioni della valutazione: le prime tre sono categorizzate come finalità; l’ultima rappresenta, invece, un’antifinalità. 1. Improvement, spesso indicato come formative assessment o assessment for learning. Una determinata impostazione della valutazione durante il processo d’insegnamento-apprendimento è in grado di favorire, questo l’assunto di base, un significativo e misurabile aumento nell’apprendimento degli studenti. 2. School accountability. La valutazione serve a dimostrare che gli insegnanti e la scuola stanno facendo un buon lavoro. Da sottolineare, in questo ambito, le conseguenze che possono originarsi per chi non si attiene a determinati standard. Due le finalità che sono allora perseguite: la qualità dell’istruzione e il suo miglioramento continuo. Mentre per la prima finalità si ribadisce come scuole e insegnanti debbano essere in grado di dimostrare di agire per la qualità attesa dalla società (Hershberg, 2002; Smith, Fey, 2000), la seconda enfatizza
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il ruolo che il testing può avere per migliorare il lavoro degli insegnanti e degli studenti. L.B. Resnick e D.P. Resnick (1992) sintetizzano questo aspetto affermando che chi persegue l’obiettivo di costruire una valutazione che “diriga” gli insegnanti lo fa per indicare il tipo di insegnamento richiesto tale da migliorare l’apprendimento. 3. Student accountability. Serve a rendere gli studenti accountable rispetto al loro apprendimento attraverso i voti e la verifica dei criteri di performance riportati poi alle famiglie, al mondo del lavoro, alla società in genere. Questa forma di valutazione ha conseguenze rilevanti per gli studenti ai fini selettivi: l’atto di rendere pubblica la perfomance di uno studente attraverso la certificazione è di solito considerata assai importante. Alcuni insegnanti credono che questo tipo di valutazione si riveli una pressione necessaria per motivare gli studenti, mentre altri credono che i test abbiano un impatto emotivo negativo sui giovani causando ansia e preoccupazione (Guthrie, 2002). 4. Irrilevant. Questa concezione è basata su una visione della valutazione esterna come inadeguata, inaccurata e/o irrilevante ai fini del miglioramento dell’apprendimento degli studenti. Tendenza che si evidenzia, ad esempio, nella considerazione che le valutazioni esterne abbiano effetti negativi sul curriculum, sugli insegnanti, sull’insegnamento e sull’apprendimento (Black, Wiliam, 2004; Monfils et al., 2004). L’inflazione dei test in sistemi educativi come quello americano suggerirebbe, in tale ottica, come la valutazione non sempre funzioni per migliorare o attestare il livello di qualità dell’istruzione. La conoscenza intuitiva, intima e continua che l’insegnante ha dell’apprendimento dello studente, rappresenterebbe, allora la base più consona per il miglioramento. Il modello elaborato da G. Brown (2009; 2006; 2004) è il frutto di un’indagine condotta su vasta scala attraverso un inventario (COA - Conceptions On Assessment) composto da un serie di affermazioni cui attribuire il proprio grado di accordo da 1 a 6. Lo studio, finalizzato a descrivere le quattro concezioni che della valutazione hanno gli insegnanti «reports the empirical results of a survey aimed at identifiying the socially and culturally shared conceptions of New Zeland primary school teachers about assessment» (Brown, 2004: 303). Tre le versioni elaborate e numerose le riproposizioni che, con opportune modifiche e adattamenti sono state utilizzate in altre indagini: nel Queensland (Brown et al. 2011); negli Stati Uniti (Calveric, 2010); in Turchia (Vardar, 2010), a Hong-Kong (Brown et al. 2009) e in Cina (Li, Hui, 2007). Per il presente studio si è fatto riferimento all’ultima versione realizzata (COA-III). Trattandosi di uno strumento già ampiamente utilizzato in letteratura per la validazione della versione italiana si è proceduto tramite peer-review: sulla base del feedback fornito da quattro esperti (due in ambito statistico, uno in ambito linguistico, uno in ambito didattico) gli item più ambigui e poco comprensibili rispetto al contesto italiano sono stati modificati. I risultati ottenuti da questa prima indagine hanno permesso inoltre di affinare ulteriormente l’inventario verificando la rilevanza e la rispondenza degli item.
4. Protocollo di indagine Lo studio sulle concezioni che della valutazione hanno gli insegnanti in formazione è stato svolto nell’ambito dei corsi PAS (Percorsi Abilitanti Speciali) e TFA (Tirocinio Formativo Attivo) dell’a.a. 2013-2014. Trattandosi di un’indagine pre-
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liminare si è preferito ricorrere ad un campionamento di convenienza (convenience sampling). Nello specifico, il campione è stato composto da: – – – –
75 insegnanti coinvolti in corsi TFA sostegno (infanzia e primaria); 75 insegnanti coinvolti in corsi TFA sostegno (secondaria I e II grado); 55 insegnanti coinvolti in corsi PAS (Verona); 98 insegnanti coinvolti in corsi PAS (Bari).
In totale, 307 i questionari raccolti. 303 quelli risultati validi per l’analisi. La somministrazione è stata effettuata al termine dei corsi. Il questionario, composto da 50 items, si presenta come scala Likert a 6 punti (1 del tutto contrario, 6 del tutto d’accordo). Ai fini dell’indagine sono state considerate le seguenti variabili socio-demografiche: età, sesso, anzianità di insegnamento, grado di istruzione, classe di concorso, ordine di scuola e formazione specialistica alla valutazione. Oltre all’analisi descrittiva delle variabili individuate (frequenze assolute e relative) si è optato per un’analisi multivariata della varianza (MANOVA).
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5. Analisi dati e risultati Cominciamo con il presentare alcune caratteristiche degli insegnanti coinvolti nell’indagine: se per il gruppo dei corsi PAS il 54.9% ha un’età compresa tra 39 e 49 anni, nei corsi di TFA sostegno il 53.9% non supera i 37. Complessivamente solo il 6.2% degli insegnanti ha un’età superiore ai 49 anni. Considerevole, invece, come spesso accade, lo squilibrio di genere: a fronte di un 85% di donne, solo il 15% degli insegnanti sono uomini. In aggiunta è stato chiesto se avessero mai preso parte a corsi di formazione prettamente centrati sulla valutazione (Tab. 1): l’85.3% afferma di non aver mai frequentato corsi ad hoc. Il 14.7% di insegnanti che ha dichiarato di aver frequentato percorsi di formazione specificatamente rivolti alla valutazione indica corsi quali esami universitari, moduli interni al corso di TFA o PAS. ! ./0#1*!
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Tab. 1 - Hai ricevuto una formazione specialistica alla valutazione?
Come riportato sopra e come ampiamente discusso dallo stesso G. Brown (2009; 2006; 2004), 4 sono i principali fattori di cui si compone il questionario (Fig. 1): – improvement (la valutazione è funzionale al miglioramento dell’insegnamento e dell’apprendimento degli studenti, fornendo informazioni di qualità valide per il processo decisionale); – school accountability (la valutazione permette di certificare l’operato degli insegnanti e della scuola);
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– student accountability (la valutazione è funzionale a certificare i livelli di apprendimento degli studenti); – irrelevance (la valutazione è considerata irrilevante o addirittura dannosa per il lavoro degli insegnanti e la vita degli studenti).
Describe
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Student learning
Teaching
Valid
Bad
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Fig. 1 – Concezioni assessment e sottodimensioni
Due dei quattro fattori, Improvement e Irrelevance sono costituiti, a loro volta, da alcune sottodimensioni. Nella percezione dell’Improvement sono rilevanti describe, student learning, teaching e valid; in quello dell’Irrilevance, invece, si evidenziano le seguenti dimensioni: bad, ignore e inaccurate. Il modello presentato per l’analisi delle percezioni degli insegnanti sulla valutazione risulta, pertanto, assai complesso. L’analisi dei fattori è servita a individuare eventuali relazioni con le altre variabili raccolte e a osservare il punteggio medio di ciascun fattore. A causa del ridotto numero di questionari raccolti non è stato possibile procedere, per il momento, con una CFA3 (Confirmatory Factorial Analysis). Sulla scorta però delle indicazioni fornite da G. Brown circa la suddivisione dei diversi items nei fattori, è stato possibile calcolare le componenti e confrontare i valori acquisiti dalle concezioni di valutazione individuate. Nella Tab. 2 sono evidenziati i punteggi medi delle diverse componenti e delle sotto-dimensioni e i valori relativi all’indice di affidabilità considerato (α di Cronbach).
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Solo 201 casi su 303 sono risultati “completi” per questo tipo di analisi.
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Tab. 2 – Valori medi e affidabilità dei fattori
Per quanto riguarda l’Improvement, si nota come tutte le relative sottodimensioni non abbiano una media particolarmente alta, ad eccezione di teaching (M= 4.3; DS= .80). Dal punto di vista dell’affidabilità, nonostante lo scarso punteggio della sotto-dimensione valid (α= .35), nel complesso la scala Improvement risulta affidabile (α= .87). Per la componente Irrelevance (M= 3.0; DS= .62; α= .80) è possibile osservare una buona o, in ogni caso, accettabile affidabilità anche per ciascuna delle sotto-dimensioni di cui il fattore si compone. Interessante, tuttavia, la presenza di punteggi medi piuttosto eterogenei. Se si osservano tali punteggi per ciascuna dimensione notiamo come, ad eccezione di inaccurate (M= 3.8; DS= .87), le atre dimensioni, bad (M= 2.5; DS= .77) e ignore (M= 2.6; DS= .85), si mantengano a un livello considerevolmente basso. Infine, molto simili per media risultano le componenti School Accountability (M= 3.4; DS= .97) e Student Accountability (M= 3.6; DS= .64) che, in particolare, non mostra un indice di affidabilità particolarmente buono (α= .51). Nel complesso, la versione tradotta del COA-III esprime un buon indice di affidabilità (α= .86) che, dunque, ha permesso ulteriori analisi. Per comprendere in maniera più approfondita il comportamento dei fattori in esame e le medie analizzate si è proceduto pertanto con il calcolo delle percentuali di accordo e disaccordo espresse per ciascuna delle 9 dimensioni. Come mostrato in Tab. 3, gli insegnanti sono prevalentemente d’accordo con la concezione di Improvement della valutazione e, dunque, considerano la valutazione funzionale al miglioramento del processo di insegnamento e apprendimento (describe= 53.4%; student learning= 61.7%; teaching= 79.3; valid= 50.2%). Non concordano con il ritenere la valutazione irrilevante. Nello specifico, se, per un verso, la valutazione non è considerata dannosa o è ignorata (bad= 75.9%; ignore= 74.9%), per l’altro, è ritenuta dagli insegnanti decisamente inaccurata (inaccurate= 79.3%). Per le due componenti School Accountability e Student Accountability si evidenzia, invece, una posizione di accordo (sebbene per la prima non sussista una percentuale del tutto significativa).
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258 Al fine di osservare l’eventuale presenza di relazioni tra le componenti individuate e le variabili socio-demografiche sono stati eseguiti diversi test attraverso l’analisi multivariata della varianza (MANOVA). Rispetto all’anzianità di servizio, i quattro fattori messi in relazione non risultano significativamente ! ! correlati a tale variabile (p= >.104). ! !
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Tab. 4 – MANOVA dei quattro fattori con l’anzianità di servizio
Medesima situazione (seppure più prossima al limite della significatività) per quanto riguarda il confronto tra i quattro fattori e la formazione specialistica alla valutazione (Tab. 5). Anche in questo caso, i test condotti non hanno evidenziato correlazioni particolarmente significative rispetto all’aver frequentato o meno corsi
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di formazione specifici sulla valutazione (p= .054). Tuttavia il p value in questo caso è al limite del livello di significatività richiesto per tutti i test condotti (dato questo da prendere in debita considerazione rispetto alla numerosità del campione analizzato). Test effettuati su un campione più numeroso potrebbero evidenziare delle! relazioni più significative al riguardo. ! !
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Tab. 5 - MANOVA dei quattro fattori con la formazione specifica alla valutazione
Del tutto differente la situazione presentata dal test MANOVA effettuato tra i ! quattro fattori e la classe di concorso di appartenenza degli insegnanti partecipanti ! ! all’indagine (Tab. 6). ! In questo caso, tutti i test effettuati risultano significativi (p= <.042). ! ! !
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La correlazione diviene decisamente più significativa nel momento in cui i ! ! quattro fattori vengono confrontati con l’ordine di scuola. Tutti i test effettuati ! indicano una perfetta correlazione (p= .000). ! ! !
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A seguito dell’alto livello di correlazione riscontrato nell’analisi MANOVA dei quattro fattori rispetto al livello di scuola degli insegnanti, è stata eseguita un’analisi ANOVA per osservare nel dettaglio la relazione di ciascuna componente con la variabile indipendente selezionata. Nella Tab. 8 è possibile notare come non tutti i fattori correlino con tale variabile. !!Solo School Accountability (p= .044) e Student Accountability (p= .001), infatti, sono! sufficientemente correlati. Improvement e Irrelevance superano sostanzial! il livello di significatività necessario perché la correlazione sussista. mente ! !
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Tab. 8 – ANOVA di ciascuno dei quattro fattori con il livello di scuola
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6. Considerazioni finali e implicazioni a margine Diverse considerazioni possono essere tracciate. In prima istanza, evidenziamo come la forte presenza di insegnanti con nessuna formazione specialistica alla valutazione non abbia inciso sui punteggi medi dei fattori individuati. L’analisi MANOVA, infatti, eseguita con tale variabile indipendente non ha riscontrato livelli alti di significatività. È probabile che la tipologia dei percorsi formativi di cui gli insegnanti hanno fruito non abbia modificato le concezioni che hanno della valutazione. È come se la formazione non “intaccasse” le concezioni dei docenti, limitandosi, paradossalmente, a essere solo “un altro mattone nel muro” e niente di più. Aspetto, questo, confermato anche da diversi studi (Kahn, 2000; Pajares, 1992) che rimarcano come ben altri siano i fattori incidenti sulle concezioni e sulle pratiche degli insegnanti. La relazione e il confronto con i colleghi, la condivisione di pratiche e l’esempio degli esperti esercitano, in genere, un impatto ben più profondo della formazione che, evidentemente, non riesce a essere davvero significativa, utile e trasferibile ai fini della professione. La considerazione generale espressa dagli insegnanti è quella di una valutazione funzionale al miglioramento dei processi di insegnamento e apprendimento, descrittiva e qualitativamente valida. In linea con tale concezione, la valutazione non è percepita come irrilevante. Quel che risulta non essere perfettamente in linea con quanto ottenuto da G. Brown riguarda i risultati delle ultime due componenti: School Accountability e Student Accountability. La media dei punteggi, infatti, è simile a quella rilevata per la componente Improvement (Tab. 2). Gli insegnanti sono d’accordo nel considerare la valutazione come un modo per certificare il loro operato e quello della scuola. Non solo. In modo più deciso la valutazione è intesa come certificazione del livello di apprendimento degli studenti. Traspare così un contrasto tra la componente Improvement e quelle di Accountability: se, da un lato, la valutazione è percepita come un’occasione per supportare e migliorare i processi di insegnamento e apprendimento, dall’altro, sussiste ancora forte la considerazione della valutazione come un modo per “misurare” e rendicontare non solo il lavoro di insegnanti e studenti, ma soprattutto i livelli di apprendimento degli studenti. Tale contrasto si ripresenta anche rispetto alla variabile dell’anzianità di insegnamento (Tab. 4). Cambia, invece, rispetto alle classi di concorso e, in modo più significativo, rispetto ai livelli di scuola. Quattro i livelli di scuola presi in esame: infanzia; primaria; secondaria di I grado; secondaria di II grado. Nello specifico (Tab. 8) si può osservare un’importante differenza: mentre le componenti Improvement e Irrelevance non risultano significativamente correlate, quelle relative all’Accountability hanno valori accettabili (anche se le medie dei punteggi di ciascun fattore non mutano in modo significativo tra i diversi ordini di scuola). Questo risultato conferma e, allo stesso tempo, approfondisce il modello di riferimento utilizzato: Brown (2009) non ha evidenziato alcuna differenza significativa nelle medie delle scale individuate rispetto a età, genere, formazione e anzianità di servizio. Sebbene non abbia riscontrato sostanziali differenze rispetto allo status socio-economico delle scuole, le analisi qui presentate suggeriscono una correlazione sulla base dei diversi ordini di scuola. In tal senso, ulteriori studi potrebbero aprire il varco per nuove strade da percorrere ai fini di una maggiore comprensione delle concezioni che gli insegnanti hanno della valutazione. La considerazione di finalità, conoscenze pratiche, comportamenti valutativi potrebbe servire a stabilire quanto questi elementi incidano sull’allineamento tra i sistemi nazionali di valutazione e quel che accade, nel micro della classe, a livello di apprendimento degli studenti e a ca-
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pire quanto la pratica valutativa dei docenti risulti essere realmente rispondente, anche a seguito di interventi formativi, alle innovazioni e alle trasformazioni sociali e istituzionali.
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I bisogni formativi dei docenti nella complessa realtà scolastica di oggi Concetta Tino • Università degli Studi di Padova • concetta.tino@studenti.unipd.it Monica Fedeli • Università degli Studi di Padova • monica.fedeli@unipd.it
Teachers’ training needs in the complicated today’s school The article presents an empirical research aimed to analyze the training teachers’needs with the awareness that the need to constantly redefine their skills in a versatile way, requires teachers of today’s school, to be engaged in a process of lifelong learning that will support the structure of their cultural competence, through the development of appropriate forms to “work strategically in their own time.” For this purpose a quantitative tool has been used: a self-filled questionnaire submitted to 913 teachers of comprehensive schools of Lombardy. In this article are described the characteristics of the tool and presented the results concerning the professional development teachers’needs, the value placed on the teachers’ training, the correspondence between the real teachers’ professional needs and the training pathways realised within their institutions.
Parole chiave: bisogni formativi dei docenti, formazione continua, i valori della formazione, condivisione della conoscenza
Keywords: teachers’ training needs, lifelong learning, the values of training, knowledge sharing
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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ricerche
Il presente contributo presenta una ricerca empirica volta ad analizzare i bisogni formativi degli insegnanti nella consapevolezza che la necessità di ridefinire in modo costante e versatile le proprie competenze, richieda ai docenti della scuola di oggi, di essere impegnati in un processo di lifelong learning che possa sostenere la struttura culturale della loro competenza, attraverso lo sviluppo di forme adatte a “funzionare strategicamente dentro il proprio tempo”. A tale scopo è stato utilizzato un questionario auto-compilato rivolto a 913 docenti degli Istituti Comprensivi della Lombardia. Abbiamo proceduto alla descrizione delle caratteristiche dello strumento utilizzato e presentato i risultati relativi ai bisogni di crescita professionale espressi dai docenti, al valore attribuito dagli stessi alla formazione, alla rispondenza tra bisogni formativi reali e percorsi realizzati all’interno delle istituzioni di appartenenza.
I bisogni formativi dei docenti nella complessa realtà scolastica di oggi
1. Introduzione e fondamenti teorici della ricerca
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Dagli anni Novanta ad oggi, nonostante l’intero sistema educativo abbia percorso un processo evolutivo importante, le istituzioni scolastiche faticano a dare riposte concrete ai reali bisogni della società conoscitiva. Tali necessità fanno riferimento alla costruzione di un’Europa fondata sull’“economia più competitiva e dinamica al mondo basata sulla conoscenza, capace di una crescita economica sostenibile con più posti di lavoro e più qualificati e con una maggiore coesione sociale” (CEC, 2000). Lo stesso obiettivo è ripreso e declinato all’interno della Strategia Europa 2020 (CEC, 2010), orientata alla costruzione di una società intelligente, sostenibile e inclusiva. Pertanto, proprio all’interno di questo nuovo scenario, alle istituzioni scolastiche e formative e a tutti gli attori educativi in esse coinvolti, viene attribuito un compito di elevata responsabilità; ad essi è richiesto di costruire sistemi organizzativi competenti, aperti al cambiamento e all’innovazione, ambienti di apprendimento capaci di formare soggetti con competenze flessibili e spendibili nei vari contesti di vita (reale, virtuale, locale, globale), per meglio riuscire a gestire la complessità generata dalla globalizzazione e innovazione tecnologica (Alberici, 2002). Si tratta di quegli strumenti necessari per ogni cittadino del XXI secolo e che Bruner (1998) definisce come mezzi per un’efficace e produttiva integrazione dell’uomo con l’ambiente. Una simile definizione ci viene offerta da Boscolo (1998) che qualifica la competenza come insieme delle conoscenze, abilità e atteggiamenti che permettono a un individuo di ottenere risultati utili al proprio adattamento negli ambienti per lui significativi. Altrettanto rilevante ci sembra la definizione offertaci da Le Boterf (1990), secondo il quale la competenza è un insieme riconosciuto e provato, delle rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in maniera pertinente in un dato contesto. Queste definizioni di competenza possono aiutare gli attori educativi a non perdere di vista che dinanzi alle trasformazioni che investono la realtà economica, sociale e culturale, ogni soggetto manifesta la necessità di entrare in possesso di nuovi saperi e strumenti idonei a renderlo attore partecipe di una realtà in costante cambiamento. Tuttavia, se da un lato si assiste al riconoscimento da parte della Comunità Europea, del ruolo attivo della scuola all’interno del processo di innovazione e costruzione di un nuovo tessuto sociale, economico e culturale, abitato da cittadini attivi e co-costruttori di conoscenza socialmente condivisa, dall’altro si rileva l’incapacità delle istituzioni educative di riuscire a promuovere sostanziali azioni di cambiamento e quindi di assicurare i risultati attesi (Gentile, 2011). La responsabilità di tale inadempienza è generalmente attribuita alla scarsa professionalità dei docenti e alla loro formazione che risulta ormai inadeguata rispetto alla società del tempo che stiamo vivendo. Oggi, infatti, siamo dinanzi all’obsolescenza dei sistemi formativi, proprio perché i protagonisti dell’educazione sono rimasti ancorati a metodologie e contenuti culturali del passato, impedendo alla scuola di tenere il passo con i repentini mutamenti sociali, culturali, economici della società. Oggi
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viviamo all’interno della learning society, dove la scuola, divenendo solo una delle numerose agenzie è chiamata a rivedere il proprio modello pedagogico promuovendo una maggiore apertura alla società, attraverso azioni di coordinamento tra le diverse agenzie formative e azioni di orientamento alla persona, sviluppando nei soggetti competenze utili a muoversi all’interno di un sistema formativo integrato coerente ed organico. In un tale scenario i docenti di oggi non possono certo proporre metodologie ed esperienze didattiche che fanno riferimento alla stagnazione e alla replicazione, ma devono sviluppare la capacità di rispondere adeguatamente e rapidamente ai cambiamenti imposti dalla realtà globale. In tal modo potranno “accompagnare i giovani all’interno della propria cultura”, attraverso la promozione di interventi capaci di garantire la loro formazione come partecipanti attivi della propria comunità culturale e co-costruttori di conoscenza. In tale prospettiva quindi il compito affidato alla scuola e ai suoi attori organizzativi s’identifica non solo nello sviluppo della capacità di apprendere, ma soprattutto in quella di favorire nei soggetti lo sviluppo della competenza di “costruire nuova conoscenza, utile alla comunità, come atto di progressivo incontro con il mondo” (Cacciamani, Giannandrea, 2004, p. 7). È proprio questo difficile compito assegnato alla scuola che richiama inevitabilmente l’emergenza della formazione dei docenti che deve mirare a rinnovare la loro professionalità finora vista più simile a quella del manovale (esecutore) e a costruire invece quella del docente più vicina all’arte dell’architetto (progettista e costruttore). L’efficacia scolastica (School Effectiveness) basata sulla misurazione dei risultati ottenuti e su processi definiti dal sistema centrale (modello topdown), deve allora lasciare il posto al miglioramento della scuola (School Improvement), che può essere determinato solo attraverso processi di coinvolgimento, cooperazione, ricerca e riflessione tra persone direttamente coinvolte nello svolgimento di azioni condivise (modello bottom-up). La scuola dunque dev’essere vista come un’organizzazione che apprende (learning organization) capace di far leva, al suo interno, su soggetti consapevoli del proprio ruolo e direttamente coinvolti e responsabili dei processi dell’organizzazione stessa (Grion, 2008, pp.15-16). Le risorse umane costituiscono quindi il patrimonio più importante di ogni organizzazione, poiché da esse ne può dipendere il successo o l’insuccesso. Nell’organizzazione, infatti, intesa come learning organization, diventa sempre più urgente il bisogno di creare comunità di apprendimento, “[…] grazie alle quali si produce innovazione, valore e vantaggio. Al riguardo c’è bisogno di una strategia organizzativa intesa a favorire idonee politiche di sviluppo delle risorse umane, al cui interno le politiche formative svolgono una funzione preminente.[…] occorre fare pratica di responsabilità condivisa nei riguardi dell’apprendimento e della formazione” (Rossi, 2011, pp. 10-11). Il Libro Bianco Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, del 1995, di Cresson, evidenzia l’importanza attribuita alla formazione lungo tutto l’arco della vita, che posiziona il docente all’interno del nuovo contesto sociale con un duplice ruolo: come erogatore (competenza che deve acquisire), come fruitore (all’interno di un processo di formazione continua). Assicurare una formazione continua dei docenti realizzata secondo un approccio lifelong learning diviene il mezzo che permette loro di reinterpretare le conoscenze professionali, di sviluppare nuove competenze maggiormente rispondenti ai bisogni dei diversi contesti. Anche il documento Common European Principles for Teachers Competences and Qualifications del 2005 e il processo di Bologna del 1999, pongono l’accento sulla necessità di una formazione dei docenti di alto livello, garantita da un’istruzione universitaria in tre cicli (laurea di primo e secondo ciclo, dottorato). Secondo i descrittori
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di Dublino, infatti, il Ministero italiano dell’Istruzione ha definito a partire dal 2005 il Quadro dei titoli italiani (QTI)1 per l’istruzione superiore. Secondo tali descrittori un titolo finale di primo ciclo si consegue dimostrando di possedere conoscenze e capacità di comprensione avanzate, di saper applicare tali conoscenze e abilità in ambito professionale, di sapere interpretare dati e comunicare informazioni e idee, di aver capacità di apprendimento necessarie ad affrontare il successivo ciclo di studi. Il titolo di secondo ciclo (laurea magistrale) è attribuito quando lo studente è capace di elaborare idee originali, applicare e integrare le conoscenze per la risoluzione di problemi, formulare giudizi secondo riflessioni responsabili, comunicare con diversi interlocutori e dimostrare abilità di apprendimento autonomo. Il titolo di terzo ciclo (dottorato) richiede di possedere padronanza del metodo della ricerca, capacità di progettare e condurre un’analisi critica di idee complesse, di possedere un’elevata abilità comunicativa. Il QTI prevede anche altri titoli specializzazione e master professionalizzanti. I diversi livelli per un docente si riferiscono a un tipo di formazione che si sviluppa lungo un continuum coerente sulla base dello sviluppo di attività legate all’area pedagogico-didattica, all’area disciplinare-specialistica e all’area della ricerca. Una tale formazione, consentirebbe loro di orientare e sostenere chi apprende, oltre che di comprendere le dimensioni sociali e culturali dell’educazione. Proprio la prospettiva lifelong learning, impone “il predominio delle strategie dell’apprendere rispetto a quelle dell’insegnare” (Galliani, 2005, p. 22), la necessità di accompagnare sin dal percorso formativo iniziale il divenire concreto della persona attraverso l’esercizio pratico e integrato dei saperi. Per questa ragione il percorso universitario destinato a definire il profilo degli insegnanti di scuola dell’infanzia e di scuola primaria comprende la laurea triennale, la laurea specialistica e il tirocinio. Anche il percorso destinato ai docenti di scuola secondaria prevede attualmente, oltre ai primi due cicli di istruzione superiore, anche un percorso abilitante di Tirocinio Formativo Attivo (TFA). All’interno di questa logica nella formazione delle figure educative, la dimensione pratica ed esperienziale, risulta irrinunciabile, ma anche “una sicura padronanza dei criteri e degli strumenti interpretativi della teoria pedagogica” (Viganò, 2003, p. 42) è necessaria per dare unitarietà alla pratica didattica. La dimensione formativa lungo l’arco della vita viene ripresa dal sociologo e pedagogista francese Perrenoud (2002) quando parla di “competenze emergenti” dell’insegnante. Con tale espressione l’autore, infatti, fa riferimento alle competenze che rappresentano un orizzonte e non un’acquisizione consolidata; in tal senso, l’evoluzione della professione docente presuppone la finalità di orientare la formazione continua, rendendola coerente e rispondente all’evoluzione dei sistemi formativi e dei contesti sociali.
2. La ricerca Molte sono le ricerche in ambito nazionale e internazionale che si sono riferite alla qualità della formazione degli insegnanti (Euridyce 2007; 2013), all’importanza di dare loro voce, relativamente alle dimensioni professionali specifiche del loro lavoro (Cardarello, Martini, Antonietti, 2009), a conoscere quale idea di “buon in-
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segnante” hanno maturato gli studenti che si sono formati per svolgere tale professione (Cisotto, Clerici, Greggio, 2005). La ricerca qui presentata fa parte di un’indagine quali-quantitativa, molto più ampia che ha coinvolto anche i 16 Dirigenti Scolastici (DS) degli Istituti Comprensivi a cui appartengono i docenti che hanno scelto di aderire all’invito. Ai DS è stata rivolta un’intervista semi-strutturata con l’obiettivo di conoscere quali azioni sono soliti implementare nel sostenere e promuovere lo sviluppo professionale dei loro docenti, mentre i risultati qui riportati riguardano solo l’indagine di tipo quantitativo che è stata rivolta ai docenti. Attraverso la somministrazione di un questionario, infatti, la ricerca è stata orientata ad analizzare i bisogni formativi dei docenti, il grado di coerenza tra bisogni reali e proposta formativa erogata dalle istituzioni di appartenenza, il valore attribuito dai docenti alla formazione, inteso come strumento di arricchimento personale, professionale e mezzo per rispondere ai bisogni sociali, oltre che la disponibilità dei docenti allo scambio di buone pratiche. 2.1 Gli obiettivi della ricerca Gli obiettivi generali della ricerca riguardano l’identificazione del valore attribuito alla formazione in servizio degli insegnanti, intesa come strumento per dare un significativo contributo allo sviluppo e alla motivazione delle persone, al miglioramento delle performance professionali, ai risultati di un’organizzazione . Gli obiettivi specifici della ricerca sono stati: – indagare il livello di consapevolezza dei docenti sull’importanza della formazione e sullo scambio di buone pratiche; – stimolare nei docenti una riflessione sui propri bisogni formativi; – analizzare il rapporto tra i reali bisogni formativi dei docenti e l’azione svolta dall’organizzazione di appartenenza nel sostenere lo sviluppo professionale del personale. 2.2 Contesto della ricerca e gruppo di riferimento La ricerca è stata avviata in Lombardia (Varese e provincia) nell’anno scolastico 2011/2012, coinvolgendo tutti quegli Istituti Comprensivi che, dopo la presentazione del progetto di ricerca, hanno deciso di aderire. Pertanto la definizione del gruppo di riferimento non è stata dettata da specifiche variabili, ma soltanto dalla libera adesione di quei dirigenti e docenti che hanno riconosciuto e attribuito validità e importanza all’oggetto stesso della ricerca. Complessivamente hanno partecipato all’indagine 913 docenti di Istituti Comprensivi che svolgono la loro azione educativo-didattica all’interno dei primi tre ordini di scuola: la scuola dell’Infanzia, la scuola Primaria, la scuola Secondaria di I Grado. La nostra attenzione si è rivolta agli Istituti Comprensivi allo scopo di raggiungere il maggior numero di insegnanti possibili, anche se non tutti gli istituti coinvolti sono risultati completi. Alcuni di essi, infatti, hanno presentato una strutturazione parziale, poiché non comprendevano la scuola dell’Infanzia, ma erano costituiti solo dalla Scuola Primaria e dalla Scuola Secondaria di I Grado.
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Tab. 1 - Scuole e insegnanti coinvolti nella ricerca
2.3 Metodologia La metodologia utilizzata, accanto al modello interpretativo, ha rispettato un piano di ricerca basato principalmente sulla matrice dei dati, allo scopo di individuare quei fattori che legati al nostro quadro teorico di riferimento, potessero trovare una relazione con quelli rilevati tramite la ricerca stessa. !"#$%&'()**+',&"-.$,+/$&.)'0,1$%%+' !"#$%&''2)3$.$/$&.)'()*'41-55&'%+14)%'5)1'*+'0&""$.$0%1+/$&.)'()$'6-)0%$&.+1$7' 8'(&,).%$'()**+'0,-&*+'()**9:.3+./$+';*+((&<)'51)0).%)=>' 8'(&,).%$'()**+'0,-&*+'?1$"+1$+' 8'(&,).%$'()**+'0,-&*+'@),&.(+1$+'($'?1$"&'A1+(&'
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Tab. 2 - Piano di ricerca
Il disegno di ricerca indica che la dimensione interessata è stata la comunicazione scritta, che ha coinvolto i docenti di ogni ordine di scuola, facenti parte degli Istituti Comprensivi considerati. 2.4 Strumento della ricerca: il questionario Il questionario è stato rivolto ai docenti delle scuole di ogni ordine, degli Istituti Comprensivi (Infanzia-Primaria-Secondaria di I Grado). La preparazione di questo strumento ha previsto dopo la prima stesura, un “test-pilota”, somministrandolo a un gruppo di docenti ai quali è stato richiesto di fare un’analisi critica e dettagliata dello stesso. Dalla “diagnosi” esaustiva e scritta del documento si sono potute desumere preziose indicazioni che hanno condotto a una rivisitazione di alcune parti di esso. Questa operazione ha consentito una maggiore riflessione su alcuni elementi costitutivi, oltre che la ristrutturazione di alcuni quesiti, permettendoci di renderlo più organico e chiaro. Il questionario auto-compilato dai docenti ha presentato variabili categoriali non ordinate o nominali (es. grado di scuola di appartenenza), variabili categoriali ordinali (molto, abbastanza, poco, per niente) e variabili quasi cardinali a intervalli
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(poco 1-2-3-4-5 molto). Questo significa che abbiamo cercato di stabilire una scala di intervalli. Trinchero (2004, p. 34) però sostiene che nella ricerca educativa è “difficile stabilire quando due intervalli sulla scala sono effettivamente uguali”. Ogni soggetto, infatti, quando si trova dinanzi a una scala, coglie che l’equidistanza tra un punto e l’altro indica la regolarità del valore della distanza tra gli elementi, ma in realtà l’equidistanza non è ancorata a un preciso fenomeno fisico (come può essere lo zero nella misurazione delle temperature), ma è piuttosto legata a una percezione soggettiva ecco perché parliamo di variabile quasi cardinale. La funzione di questo strumento di misura è stata dunque quella di raccogliere informazioni sulle variabili quantitative oggetto dell’indagine. Affinché si potesse rivelare adeguato, le domande sono state rivolte a tutti nella stessa forma e con lo stesso significato per tutti i rispondenti. Nello stesso tempo gli elementi osservati sono stati per tutti i soggetti gli stessi e questo ha consentito di strutturare i dati raccolti all’interno di sistemi di categorie. È stato un questionario redatto in due parti (A-B) e auto-compilato. Nella parte “A” si sono predisposti una serie di quesiti per raccogliere dati riguardanti: – – – –
il grado di scuola di appartenenza; periodo/ tipologia/Ente erogatore dell’ultimo corso di formazione; grado di soddisfazione e tipo di ricaduta sulla prassi didattica; attenzione e rispondenza delle scelte ai bisogni formativi . Nella parte “B”, sono state indagate le aspettative dei docenti riguardo a:
– il valore della formazione nel miglioramento del processo di insegnamento/ apprendimento; – l’arricchimento professionale attraverso i percorsi formativi; – le competenze del docente necessarie per l’esercizio della propria professione; – rilevazione dei bisogni formativi; – modalità formative; – disponibilità di condivisione di materiale didattico. In sintesi le finalità principali del questionario sono state: a) indagare il valore attribuito alla formazione nella scuola di appartenenza; b) rilevare i bisogni formativi dei docenti; c) conoscere livelli di rispondenza tra azioni formative implementate dalle istituzioni di appartenenza e bisogni formativi reali del personale docente. L’attività conclusiva relativa ai 913 questionari è stata l’analisi e la rappresentazione grafica dei dati raccolti rispetto a ogni dimensione indagata.
3. L’analisi dei dati emersi La formazione dei docenti è costituita da due dimensioni fondamentali: una “Macro” e una “Micro” (Moskowitz, Stephens, 1997). Il livello macro riguarda la dimensione formale, costituita dal percorso di studi svolto (formazione di base, corsi di laurea, corsi di aggiornamento) stabilito a livello istituzionale; il livello micro, invece, comprende il percorso di crescita condotto dal docente lungo il suo cammino individuale: l’esperienza maturata negli anni, le relazioni educative coltivate con gli studenti e gli incarichi ricoperti nella scuola. Queste due dimensioni non possono essere considerate separate, infatti, l’azio-
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ne didattica ed educativa svolta dal docente trova le sue fondamenta nella sua struttura formativa originaria. Per tale ragione la competenza e l’abilità dell’insegnante sono solo valutabili secondo una prospettiva globale che va oltre la somma delle due dimensioni (Margiotta, 2001). Considerando dunque che, il bagaglio formativo del docente ha una forte influenza sullo svolgimento della sua azione didattica, sulla sua capacità di costruire relazioni educative, di dare il suo contributo al buon funzionamento dell’istituzione, attraverso l’assunzione di responsabilità e il conseguente sviluppo di un forte senso di appartenenza, non si può evitare di assicurare ai docenti di oggi una formazione continua. Essa deve essere capace non solo di dare risposte alle nuove esigenze, ma anche di generare nuovi bisogni formativi sostenendo una professionalità in continua evoluzione. Analisi della sezione “A” del questionario La suddivisione del questionario in due parti ha facilitato l’analisi dei dati, permettendoci di focalizzare l’attenzione, all’interno di ogni sezione, su aspetti specifici di una stessa dimensione, rispetto ad ognuna delle quali abbiamo rilevato dei dati complessivi riferiti a tutti i docenti coinvolti e per ciascun grado di scuola. Le variabili della parte “A” del questionario hanno indagato l’esperienza formativa dei docenti, il livello di attenzione rivolto alla formazione e ai bisogni all’interno delle scuole di appartenenza, facendo riferimento ai seguenti aspetti:
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Tab. 3 - Ambiti indagati nella sezione “A” del questionario
Questa prima rappresentazione grafica fa riferimento all’esperienza professionale dei 913 docenti coinvolti nell’indagine. Dai dati è emerso come nelle realtà scolastiche considerate, la maggior parte dei docenti svolge l’attività di insegnamento da oltre 21 anni e che il personale giovane e con poca esperienza è rappresentato da una percentuale minima. Un discreto ricambio di personale nella scuola Primaria con una percentuale del 32% nella fascia media dagli 11 ai 20 anni. Mentre, proprio nella scuola dell’Infanzia, dove i bambini sono molto piccoli, gli insegnanti svolgono la loro attività da oltre 21 anni con una percentuale pari al 67% dei rispondenti.
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Graf. 1a - Numero di anni di servizio dei docenti,distinti per ordine di scuola
In relazione all’ultimo percorso formativo dei docenti, abbiamo rilevato (Graf. 2a) che c’è solo una bassissima percentuale di docenti la cui esperienza risale ai primi quattro periodi considerati, da prima del 2007 fino all’anno scolastico 2008/2009, mentre appare evidente come nell’anno scolastico 2010/2011, il 74% dei docenti siano stati impegnati in percorsi di formazione. Il fenomeno si è quasi equamente verificato nei diversi ordini di scuola: è evidente, infatti, che un’alta percentuale, compresa tra il 71 e il 77% dei docenti di ogni ordine, nell’ultimo anno, nonostante la non obbligatorietà della formazione, si sia impegnato in percorsi di aggiornamento. Questo dato ci ha portato a riflettere sul fatto che i docenti sono, per la maggior parte, alla ricerca di nuove competenze e conoscenze che possano sostenerli nello svolgimento della loro quotidiana azione educativa e didattica. È un dato che ha evidenziato la loro attribuzione di valore alla formazione continua, poiché consapevoli del fatto che: […] solo se il veliero disciplinare è condotto da un nocchiero/insegnante che dispone di aggiornati ferri del mestiere (di buone pratiche e strategie didattiche) potrà attraversare i mari intitolati sia alle grammatiche-sintassi delle materie scolastiche (alla « monodisciplinarità »: cioè a dire, alle padronanze alfabetiche e logiche del sapere- capire-applicare), sia ai congegni ermeneutici ed euristici (alla «metadisciplinarità »: cioè a dire, alle competenze interpretative, costruttive ed inventive) che sono ineludibili per potere ! cogliere le caratteristiche delle conoscenze, per associarle con altre pre-esi! stenti e per elaborarne delle nuove (Frabboni, 2010, p. 96) ! !
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Graf. 2a - Anno dell’ultima esperienza formativa dei docenti
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Il buon grado di attenzione dimostrato dai docenti verso la propria formazione, sembra sufficientemente sostenuta anche da tutte le scuole di appartenenza; infatti, la partecipazione ai percorsi promossi dalla scuola di servizio, è risultata superiore a quella dimostrata verso le iniziative realizzate da altri Enti. Tuttavia, il gruppo docente, che ha frequentato di più le iniziative promosse dalle proprie istituzioni, è quello appartenente alla scuola dell’Infanzia, mentre gli insegnanti appartenenti agli altri ordini di scuola, hanno dimostrato di aderire anche a percorsi esterni (Graf. 3a). Questo dato ci ha indicato che non tutti gli insegnanti probabilmente trovano i percorsi interni adeguatamente rispondenti ai loro bisogni formativi e quindi vanno alla ricerca di altre esperienze, che possano meglio fornire loro strumenti, per svolgere responsabilmente il compito ad essi assegnato. Sono dati che abbiamo interpretato come presenza di una consapevolezza diffusa che la qualità professionale dei docenti possa costituire la condizione obbligata per attribuire alla Scuola credibilità da parte della collettività. È proprio questo livello di consapevolezza che abbiamo considerato come un altro elemento a testimonianza del “valore” attribuito dai docenti alla loro formazione permanente.
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Graf. 3a - Ente erogatore dei corsi di formazione (più possibilità di scelta)
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Un’ ulteriore attenzione è stata rivolta al tipo di ricaduta dell’esperienza formativa vissuta dai docenti, sull’attività didattica svolta in classe, che è sembrato interessare aspetti differenti, anche se con valori diversi. Infatti, dai dati abbiamo rilevato che, per tutti gli ordini di scuola, c’è stata una ricaduta significativa sull’adozione di nuove metodologie organizzative (56%), e sull’uso di nuove strategie relazionali (39/43%), ritenute indispensabili per assicurare un processo di insegnamento/ apprendimento di successo. Una percentuale che oscilla tra il 30 e il 34%, invece, ha evidenziato l’implementazione di percorsi progettuali innovativi. Solo una minima percentuale ha dichiarato che l’esperienza formativa vissuta ha richiesto ulteriori approfondimenti o utilizzo di nuovi sussidi didattici. Questi dati evidenziano il potere trasformativo della formazione (Mezirow, 2003) sull’azione del docente, attraverso non solo l’acquisizione di una “professionalità culturale”, ma anche di una “professionalità didattica” utile a ottimizzare i molteplici percorsi dell’istruzione (Frabboni, 2009).
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Graf. 4a - Ricaduta dell’attività formativa sulla prassi didattica
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Un altro aspetto su cui abbiamo voluto focalizzare l’attenzione è stato quello riguardante il livello di qualità della formazione, percepito dai docenti. Dai dati (Graf. 5a) si può evidenziare che i docenti dei diversi ordini di scuola, hanno manifestato un buon livello di soddisfazione riferito a contenuti (valori medi complessivi: 3,29/5) e alla professionalità dei relatori (valori medi complessivi: 3,22/5), mentre è emerso un livello di soddisfazione non particolarmente significativo, rispetto al grado di coinvolgimento (valori complessivi: 2,91/5) dei partecipanti (più marcato nei docenti della scuola dell’Infanzia e Primaria) e a livello organizzativo (più marcato nei docenti dell’Infanzia e della scuola secondaria di primo grado) con valori medi complessivi pari a 2,97/5. Non è stato invece rilevato in modo accentuato il carattere teorico dei percorsi intrapresi (2,50/5). Il dato però che emerge in maniera interessante è che un livello di non piena soddisfazione interessa, per quasi tutte le cinque dimensioni considerate, in maniera più elevata, la scuola dell’Infanzia. Inoltre, siccome gli insegnanti della scuola dell’infanzia sono stati coloro che hanno maggiormente seguito i percorsi interni (uno stesso tipo di formazione rivolta ai docenti dell’intero istituto), è testimonianza che il rischio dell’attività formativa uguale per tutti possa portare con sé poca rispondenza, rispetto alle necessità dei singoli o, come in questo caso, dei diversi ordini di scuola. Da tutto ciò emerge l’importanza di attribuire un grande “valore” alla qualità della formazione, la quale oltre a rispettare le dimensioni evidenziate attraverso la nostra indagine, non può prescindere dai reali bisogni dei docenti e dei contesti. Solo una formazione di qualità potrà promuovere una professionalità docente “colta e competente” capace di offrire… […] alle giovani generazioni l’opportunità di disporre precocemente di occhiali cognitivi e di occhiali valoriali, con i quali partecipare da protagonisti, al romanzo esistenziale e socioculturale di una società in cambiamento, della complessità e della transizione (Frabboni, 2009, p. 15).
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Graf. 5a - Cause di insoddisfazione dell’ultima attività formativa (scala 1-5)
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Dall’analisi del grado di attenzione rivolta alla formazione (Graf. 6a) nelle sue diverse dimensioni (formativa, bisogni espressi e politiche), emerge che nei diversi contesti scolastici c’è soltanto una discreta considerazione. I docenti della scuola dell’Infanzia hanno dichiarato un livello di attenzione minore, rispetto a quello espresso dagli altri gruppi, in riferimento a tutti e tre gli aspetti considerati. Il gruppo docente della scuola Secondaria di I Grado ha rilevato un’attenzione più alta, da parte della scuola di appartenenza, verso la dimensione formativa (media 3,45/5) e le politiche scolastiche2 (media 3,16/5). I percorsi formativi realizzati dalle scuole non sono pienamente rispondenti ai bisogni dei docenti, ma la realtà della scuola Primaria, è quella che rileva maggiore (media 3,16/5) attinenza ai bisogni formativi espressi. Anche da questi dati emerge che non c’è stata piena consonanza tra i contesti specifici e le azioni realizzate dalle scuole. Ciò vuol dire che vengono spesso privilegiati aspetti che soddisfano principalmente gli ordini di scuola più alti, rischiando di costruire una scuola che non ha carattere unitario, ma segmenti separati e distinti. Ricordiamo che una delle responsabilità fondamentali di un DS è di assicurare l’unitarietà dell’azione svolta all’interno dell’istituto che rappresenta (D.Lgvo 165/2001); un’azione di successo in tal senso non può prescindere dall’attenzione ai bisogni reali dei contesti specifici.
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Per i rispondenti l’attenzione alle politiche scolastiche consiste nella capacità della scuola di appartenenza di rispondere ai bisogni identificati a livello centrale (es.: curricolo verticale, organizzazione efficace ed efficiente, reti scolastiche, apertura all’innovazione e al miglioramento).
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Graf. 6a - Attenzione alla formazione, ai bisogni, alle politiche scolastiche (scala 1-5)
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Analisi della sezione “B” del questionario Le variabili della parte “B” del questionario hanno voluto indagare sia il valore attribuito alla formazione dei docenti sia, per alcuni aspetti, i loro bisogni formativi, oltre che la loro disponibilità al confronto e alla condivisione di strategie e materiale didattico prodotto. Esse fanno riferimento a: !"#$%&'()$*+,-$&+,+..+*()'/+, 0",'.1+22'2)3+,
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Tab. 4 - Ambiti indagati nella sezione “B” del questionario , , ,
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Un ambito, rilevante dell’indagine è stato il valore attribuito dai docenti alla loro , formazione (Graf. 1b). Dai dati raccolti abbiamo potuto rilevare che la maggior parte dei docenti di ogni ordine di scuola riconosce la formazione come lo strumento essenziale per il miglioramento del processo di insegnamento/apprendimento. Infatti, su una scala di valori che va da 1 (poco) a 5 (molto), i valori maggiormente considerati fanno riferimento a 4 e 5. Inoltre il massimo valore è attribuito maggiormente dagli insegnanti della scuola dell’Infanzia (50%) e della scuola Primaria (52%). Questo testimonia che i docenti che operano in questa fascia
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sono particolarmente più attenti alla dimensione formativa, poiché maggiormente consapevoli di aver bisogno di dover disporre di una maggiore padronanza metodologica e disciplinare, oltre che di una più solida didattica generale, a partire dalle procedure di inclusione, di progettazione, di sperimentazione e quindi di una serie di strategie e competenze che possano supportarli in quelle dieci dimensioni definite l’ “Hit-para-de” del fare scuola: “il curricolo, la disciplinarità, l’unità didattica, l’individualizzazione, il laboratorio, l’interdisciplinarità, il progetto didattico, la ricerca, la creatività e la valutazione” (Frabboni , Giovannini, 2009, p. 15). Tuttavia dai dati è emerso anche che esistono una fascia pari al 15% e un’altra equivalente al 3%, che non riconoscono pienamente il valore della formazione. Questo dato è interpretabile come la mancanza di una cultura pienamente diffusa della formazione, come condizione realizzabile in qualsiasi stadio della vita. Probabilmente, infatti, c’è chi pensa che la formazione iniziale e l’esperienza siano sufficienti a rispondere adeguatamente ai problemi emergenti, attribuendo, a volte, l’insuccesso dell’azione educativa a responsabilità esterne: società, famiglie, stili educativi. Sicuramente sono dimensioni che esercitano un’influenza forte sul successo scolastico, generando l’emergenza educazione, ma è proprio per tale ragione, che l’insegnante deve avere repertorio sempre aggiornato di tecniche, metodi e strategie, senza il quale non potrà disporre di durature competenze professionali, con le quali praticare un insegnamento/apprendimento efficace, oltre che dispositivi che gli consentano di identificare e af! frontare le problematiche con soluzioni creative. ! !
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Graf. 1b - Valore attribuito dai docenti alla formazione
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L’indagine rivolta alla riutilizzazione dell’esperienza formativa da parte dei docenti (Graf. 2b), ha fatto emergere che mediamente non tutti i docenti, pur riconoscendo una certa importanza alla loro formazione, attribuiscono ad essa lo stesso valore nel contribuire al loro arricchimento personale, professionale o alla possibilità di ricaduta nella quotidiana prassi didattica. Si è potuto rilevare, infatti, che un valore alto a tutte tre le dimensioni viene riconosciuto dai docenti della scuola Primaria (un 4,41/5 per l’arricchimento personale; un 4,55/5 per l’arricchimento professionale; un 4,54/5 per la riutilizzazione), mentre il gruppo della scuola Secondaria riconosce alla formazione più la capacità di influenzare la dimensione professionale (4,38/5) e la possibile ricaduta sulla prassi didattica (4,49/5) e un po’ meno la dimensione personale (4,25/5). Questo dato fa riflettere ancora sulla mancanza di una piena consapevolezza del valore trasformativo della formazione, inteso come spazio che contempla le esperienze personali, la riflessione critica, il dialogo tra i soggetti coinvolti, l’orientamento olistico della persona
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nelle sue dimensioni cognitiva ed emozionale, la consapevolezza dei contesti in cui i soggetti sono e operano, la relazione autentica. (Taylor, 2009). Lo stesso Lewin (1942), parlando di apprendimento, lo definisce come generatore di cambiamento della struttura cognitiva, inteso come processo di organizzazione e differenziazione all’interno di uno spazio psicologico, come promotore di motivazioni e di bisogni; come sostenitore dell’ideologia e del sentimento di appartenenza ad un gruppo. Gli insegnanti della scuola dell’Infanzia, invece, riconoscono il valore della formazione maggiormente in riferimento all’arricchimento personale (4,32/5) che a quello professionale (4,24/5), anche se ha attese maggiori sulla possibile riutilizzazione di quanto appreso dal percorso formativo, in ambito didattico-pratico (4,35/5). Dai dati qui raccolti è emerso un diverso valore attribuito dai gruppi alla formazione; ciò può essere dovuto a due fattori: a) alla mancanza di una cultura diffusa della formazione come strumento generatore di conoscenze e competenze, ! oltre che di crescita personale; b) a ripetute esperienze formative di scarsa qualità, ! sono riuscite a soddisfare le aspettative e i bisogni dei partecipanti, geneche non rando! demotivazione e sfiducia. ! !
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Graf. 2b - Riutilizzazione dell’esperienza formativa (scala 1-5)
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I dati emersi con l’indagine riferita alle caratteristiche del profilo professionale del docente, hanno presentato un profilo ideale abbastanza completo (Graf. 3b). Per i docenti della Scuola Primaria tutte le quattro dimensioni considerate (impegno, competenze disciplinari, organizzazione didattica e valutativa, ricerca e riflessione sulla pratica, senso di appartenenza alla comunità educativa), costituiscono aspetti molto importanti, infatti la media dei rispondenti per le diverse dimensioni va da 4,18/5 a 4,49/5, con il valore più alto attribuito alle competenze disciplinari prima e all’organizzazione didattica e la valutazione dell’apprendimento poi. I docenti della scuola Secondaria hanno considerato principalmente importanti, per la definizione del profilo delle competenze del docente, le prime quattro dimensioni: Impegno (4,35/5), competenze disciplinari (4,39/5), organizzazione didattica e valutazione (4,24/5), ricerca e riflessione sulla pratica (4/5); sono però coloro che considerano il senso di appartenenza alla comunità educativa (3,99/5) un po’ meno rilevante. La stessa situazione, ma in senso inverso, vale per i docenti della scuola dell’Infanzia: le prime tre dimensioni sono ritenute fondamentali (rispettivamente 4,28; 4,29; 4,22/5), anche se con valore inferiore rispetto a quello riconosciuto dagli altri ordini di scuola, mentre il valore attribuito
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alla pratica riflessiva (4,09/5) e all’appartenenza alla comunità educativa (4,05/5), è superiore a quella manifestata dai docenti della scuola Secondaria. L’elemento comunque che ci sembra utile evidenziare è che l’aspetto della pratica riflessiva e il senso di appartenenza sono le due dimensioni meno importanti per la totalità dei docenti. Bisognerebbe quindi, pensare a percorsi formativi capaci di guidare gli insegnanti nell’analisi critica delle loro conoscenze, nel riflettere con una modalità completamente nuova sulle difficili situazioni legate all’esperienza, perché questo li aiuterebbe a identificare le cause che rendono efficaci o inefficaci alcuni interventi e progettualità educative, quelli che sono i punti di forza e di debolezza ! propria professionalità, identificando così un nuovo cammino da percorrere della per !la crescita personale, professionale e organizzativa (Schön, 1983). ! !
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!Graf.3b - Dimensioni caratterizzanti il profilo professionale di competenze del docente ! (scala 1-5) !
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Per rilevare nello specifico i bisogni formativi dei docenti abbiamo distinto le variabili in quattro aree: l’area delle conoscenze generali, l’area della metodologia e della didattica, l’area comunicativo-relazionale, l’area della progettazione. Per quanto riguarda la prima area (conoscenze generali) è emerso che l’interesse più elevato dei docenti di tutti gli ordini di scuola è mediamente verso le problematiche della psicologia dell’età evolutiva, l’intelligenza emotiva e gli stili cognitivi, la conoscenza sui DSA e la teoria della valutazione, con valori che vanno da 4,56/5 a 4,60/5 (Graf. 4b). Sono dati importanti poiché evidenziano, da un lato, l’attenzione dei docenti verso la persona-alunno; dall’altro, l’emergenza dell’arricchimento professionale richiesto dalla categoria docente. Nell’area della metodologia e della didattica (Graf. 5b), le dimensioni di maggiore interesse e quindi il bisogno di acquisire maggiori conoscenze per tutti i docenti dei diversi ordini di scuola sono l’analisi dei bisogni formativi degli alunni (valori:5,00; 4,80; 4,86/5); le strategie per attivare la motivazione degli alunni, dove il totale complessivo dei rispondenti corrisponde a 4,71/5; i criteri e metodi per la valutazione, (valori: infanzia 5,00; primaria: 4,46/5; secondaria: 4,78/5). Anche la necessità di favorire una più adeguata integrazione degli alunni disabili e stranieri, stimola il bisogno dei docenti di acquisire nuove competenze. Nella scuola dell’infanzia è stato più forte l’interesse per l’area della disabilità (4,67/5), mentre nella scuola primaria è l’area dell’integrazione degli alunni stranieri (4,71/5), probabilmente perché rappresentano il primo ambiente educativo con cui l’allievo disabile e l’alunno straniero con le loro famiglie si relazionano e nel quale vanno costruiti i primi strumenti per la loro accoglienza e il loro stare bene.
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Graf. 4b - Bisogni formativi: area delle conoscenze generali (scala 1-5)
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Graf. 5b - Bisogni formativi dei docenti: area metodologico-didattica (scala 1-5)
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I dati riferiti alla terza area (comunicativo-relazionale), (Graf. 6b), rivelano che i docenti manifestano bisogni in tutti gli ambiti comunicativi, ma questi sono maggiori verso le strategie per guidare gli alunni nella gestione delle dinamiche emotivo-relazionali, per le quali il valore medio complessivo dei rispondenti è di 4,59/5, con interesse più alto per i docenti dei primi due ordini di scuola (infanzia: 4,65/5; primaria: 4,64/5). Le dinamiche nei gruppi di lavoro è il secondo ambito in cui possiamo riscontrare un forte bisogno dei docenti di acquisire conoscenze e strumenti per gestire processi di negoziazione, comunicazione, conflitti sia tra allievi sia tra docenti. Infatti tutti i docenti di ogni ordine di scuola l’hanno identificata come dimensione importante per cui il valore medio è di 4,53/5, ma con un particolare interesse da parte dei docenti della scuola Primaria (4,57/5). Anche l’ambito della comunicazione con la famiglia registra valori medi importanti (Primaria: 4,31/5; Sc. Secondaria: 4,40/5), ma con un bisogno ancora più forte per gli insegnanti della scuola dell’Infanzia (4,50/5). Il bisogno primario nella quarta area (progettazione), (Graf. 7b), è quello della progettazione per competenze, dove il valore medio dei rispondenti è pari a 4,60/5, con una manifestazione di interesse maggiore da parte dei docenti di scuola dell’Infanzia (4,91/5). Un altro bisogno importante, per la totalità dei rispondenti, fa riferimento alle strategie e tecniche per il miglioramento dell’offerta formativa, dove il valore medio complessivo è pari a 4,41/5, senza una rilevante differenza tra i docenti dei diversi ordini. Il bisogno di acquisire nuove tecniche di progetta-
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zione didattico-disciplinare è avvertito in modo considerevole nei primi due ordini di scuola (Infanzia: 4,50/5; Primaria: 4,40/5), mentre la necessità di acquisire competenze riferite alla progettazione curricolare è molto sentita dagli insegnanti della scuola dell’Infanzia (4,30/5).
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Graf. 6b - bisogni formativi dei docenti: area comunicativo-relazionale (scala 1-5)
Graf. 7b - bisogni formativi dei doecenti: area della progettazione (scala 1-5)
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Un altro ambito importante della nostra indagine, che meriterebbe di essere ulteriormente indagato, è la disponibilità dei docenti allo scambio di buone pratiche e materiale didattico (Graf. 8b). Infatti, abbiamo potuto rilevare che la maggior parte dei partecipanti (3,87/5) manifesta interesse nella possibilità dello scambio e condivisione di pratiche e materiale didattico tra docenti delle diverse scuole. L’interpretazione di tale dato ci ha portato a considerare che fra i docenti stia maturando una crescente consapevolezza della possibilità di sviluppare forme di apprendimento realizzabili non solo in aula o sui libri, ma anche attraverso processi di condivisione e di scambio, che inevitabilmente conducono a percorsi di riflessione sulla pratica e quindi di ricerca-azione. Si tratta di quelle azioni che riportano il docente e la conoscenza che matura nel corso della sua esperienza professionale al centro del processo di formazione. Creare comunità di apprendimento (Clair, 1998; Stanley, 2011), dove persone che svolgono la stessa attività possano condividere i propri percorsi di crescita, mettere in comune il sapere sviluppato durante l’esperienza professionale
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! ! è una! sfida, ma l’unica capace di intercettare quella conoscenza tacita e mai forma! che è alimentata da tutte quelle pratiche e strategie che gli insegnanti utilizlizzata, zano !per affrontare e risolvere problemi nel loro quotidiano agire professionale. ! !
! ! ! ! ! Riflessioni !
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Graf. 8b - Disponibilità dei docenti a condividere pratiche e materiale didattico (scala 1-5)
4.
conclusive
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Il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo (CCNI) per la Formazione, firmato il 18 marzo 2008, dopo aver evidenziato l’importanza della formazione, conclude che essa costituisce diritto per il docente e dovere solo per l’Amministrazione. Questo significa che la scuola deve organizzare e finanziare i corsi di formazione-aggiornamento, ma poi la frequenza è a discrezione del docente. Questa disposizione ha generato negli anni molte discussioni sul tema dello sviluppo professionale dei docenti, ma i dati emersi dalla nostra indagine ci hanno permesso di rilevare che nonostante i docenti abbiano libertà di scegliere se aderire o meno alle proposte formative, proprio perché essi sono consapevoli dell’importanza di una formazione adeguata e continua, hanno sempre ricercato spontaneamente percorsi formativi, con una percentuale compresa tra il 71% e il 77%; il 33% di loro ha inoltre vissuto esperienze formative anche presso altri Enti, senza limitarsi a quella offerta dalla propria istituzione. Questo dato testimonia che la maggior parte dei partecipanti, pur avendo un’esperienza di insegnamento superiore ai 21 anni, continua a riconoscere il valore della formazione permanente. Ma allora possiamo dire che tutto ciò può contrastare il pensiero comune, secondo il quale nella scuola ci sono insegnanti ormai non più tanto giovani e per questo senza alcuna disponibilità a riaggiornare le loro competenze? I docenti dunque sono in realtà convinti della necessità di porre rimedio alla discontinuità della formazione, così com’è garantita a livello istituzionale, riconoscendola come un “dovere deontologico” e come condizione indispensabile per aumentare le competenze professionali e rispondere ai bisogni emergenti, per cercare di rispondere ai cambiamenti esterni ed evitare che loro stessi, insieme alle istituzioni educative delle quali fanno parte, vengano travolti dai mutamenti, prima ancora di essere pronti ad accoglierli (Witaker, 1997). Dai dati rilevati è quindi emerso che il personale della scuola è alla ricerca “spontanea” di sviluppo professionale, poiché consapevole che nella società della conoscenza in cui viviamo, la necessità di un aggiornamento continuo è avvertita in tutti i campi del sapere e per tutti i profili professionali, ma ancora di più nel mondo della scuola, dove i professionisti dell’educazione hanno la responsabilità di guidare i soggetti in cre-
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scita nel processo di interconnessione positiva con la società globale; questo compito richiede loro di sollecitare flessibilità cognitiva, tensione creativa e uno sforzo continuo di riallineamento delle proprie competenze (lifelong learning) per rispondere alle esigenze reali dei singoli e delle organizzazioni di appartenenza. Questo è testimoniato da quell’80% dei docenti coinvolti che ha attribuito, all’interno di una scala 1-5, i valori 4 e 5 all’importanza della formazione. Dalla ricerca è emerso, oltre all’attenzione al proprio sviluppo professionale da parte dei docenti, il fatto che il personale della scuola richiede una formazione di qualità e attenta ai bisogni specifici dei singoli e dei contesti. Infatti, nonostante i disagi, dovuti alla distanza tra luogo di lavoro e sede del corso, al tempo richiesto per raggiungerlo, ai costi da sostenere, il 33% dei partecipanti ha dichiarato di scegliere percorsi organizzati da enti istituzionali diversi dalla scuola di appartenenza, proprio perché sono alla ricerca di percorsi che possano rispondere sicuramente meglio ai loro bisogni e che non sempre l’istituzione di appartenenza è in grado di garantire. Forse è proprio questa non completa rispondenza tra bisogni e proposte formative elaborate dalle istituzioni, che spinge i docenti a ricercare esperienze anche altrove o addirittura a rinunciarvi, non evidenziando in esse proposte concrete e di immediata ricaduta. Ci sembra utile qui ricordare, che l’insegnante è un adulto che apprende e come tale ha una disponibilità ad imparare mirata, rivolta a ciò che utile per svolgere efficacemente il proprio ruolo professionale e che si rivela come efficacemente spendibile nei contesti educativi reali. Proprio la rispondenza tra bisogni ed esperienza formativa rende possibile il trasferimento di quanto appreso nella pratica, sostenendo conseguentemente una maggiore soddisfazione nel lavoro quotidiano e la motivazione ad imparare (Knowles et al., 2008). Dall’indagine sono emersi in maniera forte i bisogni formativi e quindi l’emergenza formativa dei docenti rispetto, sia all’ambito disciplinare sia a tutti quegli aspetti che sostengono e facilitano l’apprendimento quali la motivazione, l’inclusione, l’innovazione didattica, metodologica e la valutazione. Questo testimonia il desiderio di sviluppare un profilo professionale di elevata qualità, riconosciuto indispensabile dai docenti per svolgere il loro compito in modo responsabile e competente. Tutti gli elementi fin qui esposti evidenziano che i desideri e i bisogni dei docenti partecipanti sono in linea con le necessità espresse dai documenti europei sopra citati, quando fanno riferimento all’importanza di promuovere un profilo professionale dei docenti elevato attraverso un percorso di lifelong learning che possa permettere loro di partecipare a quello che Bateson (1984) definisce “apprendimento ecologico” capace di liberarli dalla tirannia delle abitudini, di aiutarli ad acquisire la capacità di disporsi al cambiamento, all’invenzione, all’esplorazione, senza rimanere intrappolati nel contingente, ma di sapersi sempre riposizionare all’interno dei nuovi contesti. Dall’indagine è emerso che, nonostante tutti i docenti attribuiscano generalmente importanza alla formazione, sul piano professionale esiste una piccola parte di docenti che mediamente (0,68/5-Infanzia; 0,58/5-Primaria; 0,75/5-Secondaria I Grado) non riconosce la ricaduta positiva della formazione sulla dimensione personale. Questo fenomeno testimonia che non è pienamente diffusa la convinzione dell’azione trasformativa della formazione (Mezirow, 2003; Taylor & Cranton, 2012); ancora oggi, nell’era della società conoscitiva, non proprio tutti i professionisti dell’educazione sono convinti del carattere empowering della formazione, capace di restituire ai soggetti, fiducia nelle proprie possibilità oltre che l’occasione di scoprire le proprie risorse e la propria creatività. Questo dato ci può aiutare a riflettere sull’importanza del ruolo e della competenza anche dei formatori, i quali dovrebbero guidare i docenti non solo nell’utilizzo di opportune mo-
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dalità di analisi, di riflessione sui loro bisogni, creando una gerarchia degli stessi e distinguendoli fra bisogni formativi delle persone e bisogni formativi dell’istituzione, ma dovrebbero supportali anche nella scoperta del “potere generativo” della formazione (Di Nubila, Fedeli, 2010, p.123). Questo significherebbe “prendersi cura” dei partecipanti e portali a vivere esperienze capaci di “generare qualcosa di nuovo”. (Di Nubila, 2005, p. 80). Un ultimo elemento che meriterebbe un ulteriore approfondimento e che è emerso dalla nostra indagine si riferisce alla necessità per docenti di operare confronti reali con i colleghi di altre scuole. Infatti, una media pari al 3,87/5 dei partecipanti ha manifestato il bisogno di realizzare scambi di materiale didattico e pratiche educativo-didattiche; si tratta di un dichiarato bisogno di condivisione e confronto con colleghi di altre realtà. “L’isolamento dell’insegnante nell’aula agisce contro la riflessione nel corso dell’azione. Costei ha bisogno di comunicare i propri dilemmi personali e le proprie intuizioni, per verificarli rispetto alle vedute dei suoi pari” (Schön, 1993, p. 335). Si tratta di favorire una teacher leadership development, attraverso la promozione di contesti in cui i docenti possano condividere le esperienze e trasformarle in fonti generative di apprendimento continuo (Frost, 2012). Stiamo parlando dello sviluppo di comunità di pratiche all’interno delle quali il professionista riflessivo apprende dall’esperienza propria e quella altrui. È l’apertura di un nuovo scenario: la costruzione di un processo di knowledge sharing, che potrebbe, non solo sostenere la singola istituzione, ma il sistema in generale.
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Pas-sando attraverso la didattica Federico Batini • Università di Perugia • federico.batini@unipg.it Alessio Surian • Università di Padova • alessio.surian@unipd.it
Teacher training and the evaluation dimension
The paper suggests key issues on the role of the evaluation dimension in relation to educational planning. It addresses such issues by reporting and reflecting on in-service teacher training as implemented in Padova and in Perugia during the academic year 20132014 through the PAS courses. Within such courses evaluation was introduced to teachers as a dimension that supports teachers themselves to monitor their work in progress towards agreed aims and objectives. In this way evaluation becomes mainly a practice to facilitate learning and to improve the learning context. The paper follows up on a previous paper (Batini, Surian, 2011) centred on what was termed as the “Russell paradox”. Such paradox is especially noticeable during teacher training on educational methods. It can be summed up according to the – implicit – recommendation: “Don’t behave as I am behaving with you”.
Parole chiave: competenze, esperienza, formazione insegnanti, progettazione, valutazione
Keywords: competences, experience, teacher training, planning, evaluation
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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esperienze
L’articolo presenta alcune riflessioni sul ruolo della dimensione valutativa all’interno della didattica, in particolare nella formazione di insegnanti, ed un percorso di ricerca relativo a corsi PAS realizzati a Padova e Perugia nell’a.a. 2013-2014. La valutazione viene qui proposta soprattutto come un orientamento che possa servire a chi partecipa a percorsi di apprendimento per situarsi rispetto un punto del percorso negoziato: una pratica, quindi, di monitoraggio e miglioramento delle stesse situazioni e dei contesti organizzati per facilitare l’apprendimento stesso. In tal modo, l’articolo riprende la riflessione e l’analisi della didattica universitaria sviluppate in un contributo precedente (Batini, Surian, 2011) rilevando contraddizioni che rimandano al paradosso di Russell come cifra metaforico-interpretativa. Si tratta di un paradosso che trova, nei percorsi di formazione degli insegnanti, il proprio apice: “non fate come sto facendo io” è, in genere, il sottotesto delle lezioni sulle didattiche e sull’apprendimento che proponiamo agli insegnanti.
Pas-sando attraverso la didattica
1. Introduzione: e la valutazione?
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Quando in contesto di formazione di insegnanti, con qualsiasi modalità venga veicolata, si mette in discussione l’impostazione didattica prevalente presto o tardi, pure se l’innovazione didattica è condivisa, si evidenziano problemi in ordine alla valutazione, secondo un modello per il quale l’esito della stessa rimette tutto in discussione: “sarebbe tutto molto bello, ma poi dobbiamo dare i voti”; “e l’Invalsi?”; “e se poi all’esame gli fanno domande per contenuti?”1. Le legittime preoccupazioni di un professionista inserito all’interno di un sistema paiono però ridurre agli esiti e dunque alla codificazione in un voto numerico, lo scopo primario dell’azione di insegnamento. La valutazione dovrebbe, invece, fornire indicazioni circa il grado di conseguimento e i motivi dell’eventuale mancato conseguimento (oltre al tratto di strada comunque percorso) rispetto all’apprendimento atteso (Trinchero, 2013). La valutazione (Stenström e Laine, 2006) è una parte del processo di apprendimento, non deve e non può essere ridotta ad un momento separato o ad un giudizio definitivo, ma va considerata soprattutto come un orientamento che si fornisce ad ogni allievo ed allieva per aiutarli a situarsi rispetto un punto del percorso negoziato: una pratica, quindi, di monitoraggio e miglioramento delle stesse situazioni e dei contesti organizzati per facilitare l’apprendimento medesimo (Trinchero, 2013; Batini, 2013; 2014). Ciascun allievo e ciascuna allieva, infatti, dovrebbe essere messo in grado di situarsi all’interno di un percorso di apprendimento, essere consapevole dei propri obiettivi e sviluppare capacità di auto-valutazione e di comprensione dell’eterovalutazione per assumersi la responsabilità del percorso: so dove devo arrivare, so a che punto sono e so, auspicabilmente, ciò che devo fare per proseguire il mio percorso. L’obiettivo ultimo, in questa area cruciale, potrebbe essere definito come il conseguimento della riflessività, della capacità di osservarsi mentre si è in opera e correggere eventuali comportamenti e processi disfunzionali. Si tratta di un obiettivo irrinunciabile: l’integrazione tra sapere, saper fare e saper essere si ottiene solo tramite la consapevolezza della propria esperienza e l’osservazione critica della stessa. Siamo nel campo degli obiettivi meta-cognitivi, di controllo e di dominio del proprio apprendimento: in un certo senso, mentre si acquisiscono le competenze obiettivo per le quali si sta lavorando, riflettere sul percorso, intersecando la valutazione, diventa una facilitazione all’acquisizione della competenza di cittadinanza “imparare a imparare” che è la competenza obiettivo che ogni sistema di istruzione dovrebbe porsi come primo obiettivo. I pilastri di una valutazione riflessiva sono: essere coinvolti in una nuova esperienza, riflettervi e osservarla secondo differenti prospettive, concettualizzarla con il riferimento a teorie e con la creazione di nuovi concetti, sperimentare attiva-
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La frequenza con cui enunciazioni identiche a queste, o molto simili, si sono presentate in 50 seminari rivolti a insegnanti in servizio è superiore al 90%.
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mente nuove modalità testate tramite azioni e conseguentemente affrontare nuovi problemi per ripartire con nuove esperienze, in un ciclo continuo (la rielaborazione può essere condotta attraverso l’uso di forme narrative, come quelle diaristiche, o tramite conversazioni negoziali con i pari e con gli esperti). La valutazione riflessiva, però, richiede, come già anticipato, alcune pre-competenze e le competenze di auto-valutazione sono, in tal senso, fondamentali: l’autovaluazione è uno strumento che interviene sul possesso effettivo di una competenza (non si può parlare di reale autonomia competente senza la consapevolezza del soggetto che privo della stessa non sarebbe in grado di mobilizzare la competenza al bisogno), migliora la motivazione dei discenti (se so di aver appreso, se sono messo in condizione di valutare quanto ho appreso, sarò maggiormente determinato a conseguire ulteriori apprendimenti) (Hattie, 2009). Le pratiche di valutazione riflessiva possono attingere a quelle in uso nella ricerca-azione. Nella ricerca-azione i beneficiari delle utilità finali determinate dalla ricerca stessa (che è sempre, come dice la denominazione, ricerca e azione tesa a un miglioramento per i beneficiari medesimi) partecipano a ogni fase della ricerca sin dalla definizione degli obiettivi (rinegoziabili in corso d’opera) e delle ipotesi e sono, al tempo stesso, valutatori e valutati: come non rinvenire le similitudini che possono riguardare, appunto, i processi di apprendimento in contesto scolastico?
2. Tra valutazione e didattica Nel quadro di una formazione degli insegnanti a didattiche innovative, con particolare riferimento alle didattiche per competenze, si è ritenuto di lavorare, con loro, anche sulle modalità di valutazione al fine di ovviare alle difficoltà spesso enunciate (e per evitare l’inefficacia di didattiche per competenze se seguite da approcci valutativi sommativi e riferiti ai contenuti). Insieme agli insegnanti coinvolti in due processi realizzati a Padova e Perugia abbiamo, dunque, condiviso alcuni significati da dare alla valutazione e alcune “condizioni” che la rendono realmente formativa: – è opportuno non ridurre la valutazione al solo scopo di esplicitazione e comunicazione degli esiti di apprendimento di un singolo allievo, e centrarla soprattutto sulla promozione dell’apprendimento stesso: questo significa fornire feedback continui con modalità di promozione (non di sanzione), in un clima favorevole e sereno che non metta in discussione le relazioni anche quando il feedback dovesse segnalare una stasi o una retrocessione. Un buon feedback è chiaro, contiene un’ipotesi di ridefinizione dell’obiettivo, consente al soggetto di attivarsi per un avanzamento e un miglioramento, si riferisce agli obiettivi di apprendimento negoziati in precedenza; – le prestazioni richieste al soggetto debbono essere “reali”, riguardare cioè contesti e situazioni della propria vita quotidiana, attuale o futura (più raramente passata), cooperando così a determinare una percezione di significatività degli apprendimenti scolastici negli studenti; – i valutatori (insegnanti e allievi) debbono essere preparati, devono condividere un metodo, degli strumenti, degli indicatori (cosa segnala l’avvenuta acquisizione di una competenza), dei linguaggi, e comprendere l’importanza di negoziare e cooperare per giungere a una valutazione condivisa; – quando la valutazione è condivisa, se ne comprendono fasi, modalità e se ne condividono gli esiti, il processo di apprendimento risulta facilitato.
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Ogni studente, allora, dovrebbe conoscere i propri obiettivi di apprendimento e condividere i criteri e gli strumenti che consentiranno la raccolta di adeguati indicatori (noti anch’essi) per determinare i livelli di prestazione (negoziati). Questa caratteristica permette un ulteriore guadagno in termini di apprendimento, rendendo i soggetti capaci di confrontare i differenti sistemi e le diverse situazioni in cui si apprende, di “smontare” un apprendimento e riconoscerne i segnali, di giovarsi maggiormente di sistemi, contesti, esperienze in termini apprenditivi. Ogni percorso dovrebbe iniziare con la condivisione delle competenze obiettivo, con la discussione sulle stesse e con la negoziazione dei livelli di prestazione e degli indicatori e criteri proposti dall’insegnante. Come già ricordato sopra, la valutazione ha la necessità di coinvolgere sia gli insegnanti che gli studenti. Riflettere sul contributo che ogni attività, esperienza, informazione ha fornito al proprio processo di apprendimento autoorchestrazione di futuri processi di apprendimento per ciascun soggetto. L’insegnante, inoltre, ne ricava così feedback circa l’adeguatezza delle attività proposte (una sorta di monitoraggio) e la possibilità di migliorarle. La negoziazione attraverso il coinvolgimento permette, inoltre, di attribuire significati uguali o simili a ciò che si sta facendo (generando partecipazione e motivazione, spingendo ciascuno all’utilizzo delle proprie risorse per favorire lo sviluppo di ulteriori apprendimenti). Utilizzare una pluralità di metodi e strumenti di valutazione permette di attenuare alcune debolezze di sistemi valutativi di tipo qualitativo. Raccogliere dati attraverso più strumenti e da fonti differenti incrementa l’affidabilità del sistema di valutazione. Ovviamente, la valutazione così strutturata richiede che la didattica che la affianca (non la precede, in quanto abbiamo ricordato che la valutazione non è un momento conclusivo di un processo ma parte integrante dello stesso) sia improntata alle stesse logiche. Nelle due esperienze di ricerca-azione trasformativa, successivamente precisate, abbiamo condiviso una serie di caratteristiche generali relative alle didattiche (condizioni minime), sulla scorta di una serie delle ricerche e delle ricche esperienze sul campo presenti: – non si possono separare le azioni di apprendimento da quelle di monitoraggio e valutazione; – occorre definire e condividere (negoziando) gli obiettivi in termini di competenze di ogni unità temporale di apprendimento (un percorso, un progetto, una porzione dell’anno scolastico), non dimenticare che vi sono obiettivi prioritari costituiti dalle sedici competenze di base e dalle otto competenze di cittadinanza e dalle altre competenze obiettivo definite nelle Linee nelle Indicazioni Nazionali (utili riferimenti in tal senso possono essere costituiti anche dalle competenze chiave dell’Unione Europea e dalle life skill dell’Organizzazione Mondiale della sanità, OMS); – occorre ricordare che non vi sono contenuti, nozioni, saperi irrinunciabili se non quelli utili ai soggetti per sviluppare le proprie competenze; – è da respingere ogni azione didattica tesa a diminuire controllo, potere, autostima, percezione di efficacia di un soggetto; – l’attività e la produzione stanno al centro dell’azione didattica: “fare” non è opposto a “sapere”, ma è a esso strettamente collegato; l’attività e la produzione non possono essere delegate al lavoro individuale: l’esperienza produce co-
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munque apprendimento, ma l’effetto di tale apprendimento è molto maggiore e consente riflessività e formalizzazione dell’apprendimento in regole, principi, teorie, se l’esperienza viene svolta in contesto didattico, alla presenza dei compagni, dai quali apprendo a mia volta, e dell’esperto (l’insegnante). Riuscire a far sì che ogni allievo ed ogni allieva sia e si senta parte attiva del proprio processo di apprendimento, in ogni fase, diventa, allora, una sorta di “ideale regolativo”.
3. Abilitare all’insegnamento: i PAS I due percorsi formativi illustrati nella seconda parte di questo articolo sono stati realizzati nell’ambito di Percorsi Abilitanti Speciali, PAS. Secondo la definizione del MIUR: I PAS sono dei percorsi di formazione per conseguire l’abilitazione all’insegnamento, rivolti ai docenti della scuola con contratto a tempo determinato che hanno prestato servizio per almeno tre anni nelle istituzioni scolastiche statali e paritarie. I principali riferimenti normativi che li riguardano sono: il DM 249/2010 integrato con le modificazioni evidenziate per i TFA Speciali (Artt. 5,11,15 e tabella 11-bis); il Regolamento del 25 marzo 2013 pubblicato in Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.155 del 4-7-2013e e il DM del 23 marzo 2013 (istituzione dei percorsi speciali abilitanti, prova di valutazione delle competenze in ingresso, svolgimento dei percorsi). Tralasciando le polemiche che ne hanno accompagnato l’istituzione, in effetti poco comprensibile, concentriamoci un momento sull’ultimo decreto ministeriale. In questo decreto, infatti, vengono rubricati, nell’allegato A, i risultati di apprendimento attesi, i learning outcomes degli insegnanti che partecipavano a questo percorso speciale. Vediamoli nel dettaglio: 1. I percorsi sono distinti per ciascuna classe di concorso e prevedono il conseguimento di 41 crediti formativi universitari ovvero accademici (di seguito crediti formativi). I crediti formativi sono indirizzati: a) alla verifica e al consolidamento della conoscenza delle discipline oggetto di insegnamento della classe di concorso e al perfezionamento delle relative competenze didattiche, anche alla luce della revisione dei percorsi ordinamentali di cui ai decreti del Presidente della Repubblica 20 marzo 2009, n. 89, 15 marzo 2010 n. 87, n. 88 e n. 89 e alle relative Indicazioni nazionali e Linee guida; b) all’acquisizione delle competenze digitali previste dalla raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio 18 dicembre 2006 (2006/962/CE). In particolare dette competenze attengono alla capacità di utilizzo dei linguaggi multimediali per la rappresentazione e la comunicazione delle conoscenze, per l’utilizzo dei contenuti digitali e, più in generale, degli ambienti di simulazione e dei laboratori virtuali. Al fine di consentirne la piena fruizione anche agli alunni con bisogni educativi speciali i contenuti digitali devono essere definiti nel rispetto dei criteri che ne assicurano l’accessibilità; c) all’acquisizione delle competenze didattiche atte a favorire l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità secondo quanto disposto dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 e successive modificazioni. 2. Gli abilitati del percorso speciale abilitante devono dimostrare:
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a) di possedere le competenze di cui alle precedenti lettere a), b) e c); b) di aver acquisito solide conoscenze delle discipline oggetto di insegnamento e di possedere la capacità di proporle nel modo più adeguato al livello scolastico degli studenti con cui entreranno in contatto; c) di essere in grado di gestire la progressione degli apprendimenti, adeguando i tempi e le modalità alla classe e scegliendo di volta in volta gli strumenti più adeguati al percorso previsto (lezione frontale, discussione, simulazione, cooperazione, laboratorio, lavoro di gruppo), con particolare riferimento alle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione; d) di aver acquisito capacità pedagogiche, didattiche, relazionali e gestionali; e) di aver acquisito capacità di lavorare con ampia autonomia, anche assumendo responsabilità organizzative.2
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Risultano evidenti le accentuazioni delle competenze didattiche (seppur con qualche espressione e formulazione poco felice) e della padronanza di strumenti nonché, e la questione è rilevante, la responsabilità nella gestione degli apprendimenti. Questa dimensione chiama in causa un concetto differente di valutazione perché per poter “gestire la progressione” e per “adeguare” occorre avere un sistema di valutazione che sia anche di monitoraggio e che non concentri la propria attenzione nell’assegnazione di un voto, bensì nel conseguimento degli apprendimenti. Tradizionalmente, nel sistema di istruzione italiana, infatti, l’insegnante non si sente responsabile dell’apprendimento dei propri studenti. L’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga, l’allievo ripete (Batini, 2013). In questo processo estremamente meccanico non vi è continuità e nemmeno contiguità tra insegnamento e apprendimento. In un contributo precedente, abbiamo proposto una riflessione e un’analisi della didattica universitaria (Batini, Surian, 2011) rilevandone le contraddizioni (specie rispetto alle indicazioni della ricerca sulla didattica) e proponendo il paradosso di Russell come cifra metaforico-interpretativa. In effetti si tratta di un paradosso che trova, nei percorsi di formazione degli insegnanti, il proprio apice: “non fate come sto facendo io” è, in genere, il sottotesto delle lezioni sulle didattiche e sull’apprendimento ai futuri insegnanti.
4. Due percorsi PAS Nei Percorsi Abilitanti Speciali svolti presso l’Ateneo di Padova e di Perugia si è tentato, come già fatto nella componente dedicata dei Tirocini Formativi Attivi, di proporre una modalità di apprendimento che fosse coerente con gli obiettivi di apprendimento che ci si poneva (Biggs, 1996). 4.1 Perugia A Perugia il percorso formativo si è svolto per tutte le classi di concorso coinvolte (area trasversale) con l’obiettivo esplicito di conseguire le competenze necessarie
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I grassetti sono degli autori dell’articolo.
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a “Progettare e valutare per competenze”. Il peso orario assegnato all’attività era di 12 ore (organizzate in 3 incontri da 4 ore integrate da materiali, forum e attività da svolgere nella piattaforma e-studium) e si rivolgeva a 134 iscritti di tutte le aree disciplinari. Avendo come obiettivo la riconfigurazione delle modalità di progettazione e gestione della didattica e gli approcci valutativi si è inteso farne fare esperienza diretta ai corsisti, e al tempo stesso, si è pensato di utilizzare la rilevante esperienza pregressa (condizione per accedere al PAS) per tradurre, immediatamente, in operatività quanto si dibatteva / apprendeva / sperimentava. Anziché mettere in opera il “paradosso di Russell”, cioè si è tentato di fare il contrario e cioè di far fare esperienza di apprendimento per competenze e di una valutazione coerente per imparare a insegnare e valutare per competenze. Per tradurre questi enunciati in azioni svolte si propone la seguente tabella3: !"#$"%&'%()*+)+&'%,
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Il processo seguito a Perugia è stato, allora, quello di un’iniziale discussione di contesto, in special modo sul ruolo dell’insegnante e sull’apprendimento rispetto al mondo che cambia e, di conseguenza sui cambiamenti necessari nelle pratiche didattiche sia in termini di modalità possibili che di obiettivi (Batini, Giusti, 2014;
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A conclusione di ogni incontro il docente annotava quanto accaduto e quanto fatto.
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Mariani, a cura di, 2014; Batini, 2014). Dopo questa prima negoziazione, non priva di momenti di confronto anche animati, si è proceduto (cfr tabella) con la graduale esperienza diretta di un modello di lezione per competenze in cui, i livelli meta qui si intrecciano (il processo seguito era quello di una lezione per competenze, gli obiettivi assegnati erano quelli di imparare a costruire una lezione e poi un’unità didattica per competenze… facendolo). Ogni fase veniva formalizzata a seguito dell’esperienza diretta della stessa. Lo schema proposto in fase finale in modo esplicito era il seguente:
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– Attività ingenua: fare esperienza, attivarsi – Socializzazione: condividere, apprendere dagli altri – Evidenziazione del positivo: comprendere quali sono le “cose fatte bene”, ricevere gratificazione, sperimentare il successo formativo – Integrazione: approccio consulenziale, sistematizzazione, formalizzazione – Nuova attività: possibilità di attivarsi in modo esperto, di correggersi – Nuova socializzazione: condivisione, comprensione piena, – Nuova evidenziazione del positivo: allargamento del successo, ripetizione concetti chiave – Confronto tra prima e seconda attività: consapevolezza dell’apprendimento Gli esiti del lavoro possono essere dunque rubricati nelle seguenti fasi: – la conclusione della fase in presenza, con la consegna della versione finale di una lezione per competenze realizzata in gruppo (seconda attività) con l’evidenziazione della differenza tra il primo e il secondo prodotto e dunque con l’esplicitazione del proprio apprendimento (100% dei gruppi ha portato a termine la seconda attività e l’ha socializzata e oltre il 70% delle progettazioni proposte erano buone o molto buone)4; – la sperimentazione dell’unità o, perlomeno, di una lezione inclusa nell’unità con uno dei propri gruppi classe (10% circa dei partecipanti) con feedback sugli esiti (100% positivi, seppure con qualche difficoltà di conduzione rilevata e con la scarsa abitudine a condurre attività e gruppi di lavoro); – la progettazione di un’unità didattica completa in modalità individuale per l’esame finale (in cui veniva esposta e discussa). La valutazione dell’ultimo prodotto citato (unità didattica completa per l’esame) è stata positiva per tutti i candidati da parte di tutte le commissioni coinvolte nel-
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La dinamica ha consentito agli insegnanti di riflettere sul ruolo della valutazione. Se ci fossimo concentrati sull’esito della prima attività sottolineando gli errori, anziché le cose maggiormente positive, avremmo prodotto scoraggiamento, mancanza di motivazione e avremmo potuto, certamente, assegnare a ogni gruppo una valutazione, ma non avremmo prodotto, tramite l’azione medesima di valutazione, un incremento dell’apprendimento. Concentrandoci invece sugli aspetti positivi del lavoro di ogni gruppo si sono evidenziati anche a tutti gli altri partecipanti, le logiche e i processi migliori, si sono poi integrati e formalizzati e si è giunti alla produzione di uno schema di lezione per competenze sostanzialmente corretto da parte di ogni gruppo. IN questo modo è possibile assegnare una valutazione (positiva) a tutti, proprio perché sono stati conseguiti gli obiettivi di apprendimento e vi è un’evidenza (la progettazione) a dimostrarlo.
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l’esame finale. Pur essendo, ovviamente, differenti i livelli in tutte le unità didattiche è stato possibile rintracciare logiche di insegnamento e valutazione afferenti alla didattica per competenze e alla centratura sugli obiettivi di apprendimento. L’ultima fase, alla quale hanno, ovviamente, partecipato tutti ha evidenziato un buon livello di elaborazione della didattica per competenze e rispetto alla costruzione di sistemi di valutazione coerenti con le stesse. Il feedback ricevuto dagli allievi ha dato risultati molto positivi, ne utilizziamo uno (rappresentativo della maggioranza dei feedback ricevuti) come indicatore e come augurio: “ho messo tanto impegno in questo lavoro per comprendere bene come si progetta per competenze e ho cercato di sfruttare il PAS (dai tempi veramente ristretti) come momento di crescita professionale. Considero questa esperienza come il punto di partenza per un nuovo modo di impostare la mia attività didattica in classe, ho ancora molto da imparare, ma spero di riuscirci”. 4.2 Padova A Padova il percorso formativo si è svolto presso il conservatorio di Musica “Pollini” ed ha coinvolto fra Aprile e Luglio 2014 34 partecipanti. Ha avuto carattere tematico più ampio (rispetto a quello realizzato a Perugia): “Didattica Generale” con l’obiettivo esplicito di sviluppare competenze didattiche utili all’insegnamento nella scuola dell’obbligo, in particolare la progettazione e valutazione di percorsi didattici. Le attività formative hanno seguito un approccio simile a quello adottato a Perugia e sono state articolate secondo un approccio blended: tre lezioni e esercitazioni laboratoriali in presenza sono state integrate da modalità di lavoro tramite una piattaforma e-learning Moodle, utilizzata soprattutto per condividere testi e attivare forum di condivisione e discussione. In particolare, sono stati proposti ai partecipanti tre testi ed altrettante tematiche chiave: “Insegnare per competenze” di Federico Batini (Loescher, Torino, 2013); “Educazione interculturale e apprendimento cooperativo: teoria e pratica della educazione tra pari” di Giorgio Chiari, Quaderno del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento, 2011); e “Fare scuola nella classe digitale. Tecnologie e didattica attiva fra teoria e pratiche d’uso innovative” di Valeria Zagami (Loescher, Torino, 2013). L’approccio didattico ha cercato di innestarsi e valorizzare le prassi degli insegnanti che partecipavano al corso, tutti in servizio. Sui ognuno dei tre temi principali trattati dai testi proposti e a disposizione attraverso la piattaforma e-learning (didattica per competenze, apprendimento cooperativo, tecnologie digitali nell’educazione formale) sono stati aperti due tipi di forum online: un primo forum è servito per scambiare opinioni, riflessioni, riferimenti, esempi sul tema; un secondo forum ha permesso ai partecipanti e al docente di proporre e negoziare, a partire dai tre testi, domande rilevanti in merito ad ognuno dei temi in vista dell’esame finale. Questo secondo forum ha offerto ai corsisti una duplice opportunità: da un lato, per “negoziare” all’interno del gruppo dei partecipanti e fra partecipanti e docente quali fossero gli aspetti salienti del corso ed in che modo andassero riassunti e concettualizzati; dall’altro per poter determinare lungo l’arco del processo formativo i riferimenti cui prestare attenzione in chiave di auto-valutazione e per poter, quindi, relazionarsi alle proposte didattiche e alla propria e altrui partecipazione agli spazi formativi tenendo conto delle proprie esigenze di apprendimento. Pur in tempi brevi, l’ausilio dei forum on-line ha permesso ai partecipanti di approfondire (divisi in tre gruppi) i tre temi principali e di mettersi alla prova in
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quanto facilitatori di processi di apprendimento sui rispettivi temi coinvolgendo insegnanti degli altri due gruppi. Di fatto, si sono creati tre gruppi di affinità (ogni partecipante ha optato nella fase iniziale del percorso per approfondire uno dei tre temi proposti, ritrovandosi a collaborare sullo stesso tema con circa un terzo dei partecipanti al corso). Decisivo in questo percorso è stato l’utilizzo dell’approccio jigsaw. Così lo sintetizza un partecipante: Il jigsaw si divide in 5 fasi. 1) gli alunni scelgono un tema attraverso il brainstorming. 2) Argomento suddiviso in sotto-argomenti, uno per ogni gruppo. 3) ogni gruppo lavora su un sotto-argomento utilizzando materiale vario. 4) i gruppi si scompongono, se ne formano altri in cui c’è uno studente esperto di ogni sotto-argomento 5) lo studente esperto spiega agli altri la parte che conosce e verifica l’apprendimento dei compagni.
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Nel caso del percorso realizzato a Padova, particolare attenzione è stata data a considerare parte integrante di questo approccio una sesta fase nella quale gli “studenti esperti” ritornano nel gruppo con cui avevano approfondito inizialmente il sotto-argomento per un momento di feed-back attraverso cui condividere l’efficacia del proprio apporto ai gruppi “misti” della quarta fase, verificare il proprio apporto e la propria impostazione didattica ed elaborare collettivamente potenziali miglioramenti al lavoro appena svolto. Tale confronto permette sia una verifica delle “traduzioni” individuali di quanto precedentemente elaborato dal gruppo relativamente al sotto-argomento, sia, in chiave metodologica, di approfondire aspetti di verifica e valutazione degli apprendimenti individuali e collettivi e in merito all’utilizzo di ausili, per esempio di mappe concettuali. Rispetto alla dimensione della valutazione, quest’opportunità di condivisione e verifica permette di far mente locale sulle modalità di valutazione delle competenze, sulla loro natura contestuale e situata e, quindi, su come impostare processi valutativi “in situazione”. Per il percorso jigsaw – che, di fatto, coinvolgeva tutti i partecipanti a confrontarsi con i principi del cooperative learning nell’elaborare i contenuti di tutte e tre le aree di studio – sono stati utilizzati per i momenti di condivisione delle conoscenze sia esercitazioni laboratoriali in presenza, sia riflessioni in piattaforma. I forum online hanno permesso, per cominciare, di far memoria attraverso diari di bordo e post mirati sui temi di studio di quanto condiviso in presenza. Scrive un partecipante: l’incontro di mercoledì è stato veramente utile, il lavoro svolto mi ha aiutato a chiarire le idee e con esso abbiamo messo in pratica una modalità di gestione della classe basata appunto sul cooperative learning. Ho trovato molto proficuo sia il lavoro di gruppo svolto con i miei colleghi specializzati nel cooperative learning, che quello successivo, nel quale i rappresentanti dei tre gruppi principali hanno illustrato sinteticamente, ma in modo molto efficace, il lavoro svolto nei loro gruppi di partenza.
In chiave di riflessione e sintesi sui temi di studio vengono riportati qui di seguito alcuni post dei partecipanti. Scrive, per esempio, un partecipante in merito alla didattica per competenze: nell’ambito del sistema didattico nella società complessa, si è passati dall’obiettivo del sapere a quello del saper fare, ponendo l’attenzione sul processo e non più al prodotto. Le competenze ossia un insieme equilibrato del sapere, del
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saper fare e del saper essere si suddividono in competenze di base, competenze trasversali e competenze tecnico-professionali, esse vengono valutate nel concreto (in situazione).
Questa attenzione per il “contesto” in cui si colloca l’attenzione ai processi di apprendimento pone le basi per un riconoscimento della dimensione formativa delle modalità di valutazione: Nell’insegnamento per competenze la valutazione assume uno scopo formativo in quanto è una parte del processo di apprendimento, non deve essere considerata come un momento separato o come giudizio definitivo, ma un indice per una consapevolezza del punto in cui si è giunti all’interno del percorso. La consapevolezza del come e dove siamo arrivati ci permette di ipotizzare strategie di miglioramento per facilitare l’apprendimento. I valutatori sono gli insegnanti e gli allievi.
Sconosciuto alla maggior parte dei partecipanti, il cooperative learning, presentato nel contesto della didattica per competenze, è stato bene accolto e vari post online e interventi in classe hanno segnalato disponibilità ha coglierne e ad attuarne il senso didattico. Scrive una partecipante: È una metodologia per gestire la classe in modo democratico su gruppi di lavoro. Essi devono essere eterogenei. Gli alunni sono corresponsabili e interagiscono in modo costruttivo e non competitivo. Questo è poi riportato nel mondo del lavoro. in questa modalità del fare insieme (democratico) si permette la condivisione. L’efficacia di questo modello sta nel porre importanza in un lavoro strutturato nel quale ci sia la responsabilità individuale e collettiva si favoriscono processi di integrazione. Il cooperative learning supera l’individualismo e il particolarismo. I moduli operativi del Cooperative Learning, posso dire che essi sono 5 e sono divisi in due gruppi (S. e Y. Sharan): Metodo Peer Tutoring e Metodo Group Investigation. Il primo gruppo comprende il Jigsaw, modulo che prevede una cooperazione integrativa, il TGT e lo STAD che invece si basano su un tipo di cooperazione competitiva. Il secondo gruppo comprende il modello Learning together e il modello Small Group teaching method basati entrambi sulla discussione di gruppo.
Rispetto alle tecnologie digitali nell’educazione formale il confronto fra i partecipanti ha permesso di concentrare l’attenzione su aspetti applicativi e casi studio significativi, mantenendo spesso il filo conduttore dell’inclusione e dell’integrazione: La classe digitale può essere concepita come strumento di integrazione, vedi “Marinando” nel tal progetto si è data la possibilità di annulla re le distanze attraverso la comunicazione sincrona e asincrona per risolvere l’isolamento geografico. L’uso delle tecnologie si può rivolgere al paradigma pedagogico del Costruttivismo come lo intendeva Vygotskij (è la società che immette nell’individuo i contenuti e trasmette le conoscenze costruendone anche i meccanismi mentali. i più importanti sono i mezzi di comunicazione e il linguaggio non solo linguistico ma anche simbolico).
Altrettanto significativo è stato investire i partecipanti della responsabilità di individuare e condividere le domande chiave, utili anche alla formulazione dei quesiti per l’esame finale. Così ne riassume lo spirito un partecipante:
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questo brevissimo PAS, vada come vada, ci ha portato delle soluzioni che forse prima erano annebbiate poco chiare e istintive forse, altre completamente nuove. In poche lezione si ha un’idea più chiara di quello che è l’ambito delle competenze del cooperative learning e del digitale. Il prossimo anno scolastico, ministro dell’istruzione permettendo con tagli, avremo modo di metterle in atto suddividendo in gruppi per lavori con obbiettivi più mirati e programmati, una visione di quello che è il risultato nel traguardo finale di una competenza acquisita nei ragazzi, della funzione che potrà fare il supporto digitale, magari una flipped classroom, di sicuro da sperimentare quello che con grande fretta tra lavoro e famiglia siamo riusciti ad acquisire... qualche competenza in più forse... Queste domande finali che passano circolando dentro e fuori la nostra mente per domani sembrano un tam tam quasi per dire ‘ricordati ricordati ricordati come dovrebbe essere l’insegnante efficace’. buono studio!!
Considerazioni conclusive a partire dai “prodotti”
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In che misura tali esperienze e riflessioni si traducono in progetti educativi? Per il momento, in misura limitata. Vediamo a partire da alcuni dei “prodotti” in che senso. A Perugia, nell’ambito delle lezioni di “Progettazione e valutazione per competenze” il gruppo di docenti PAS ha svolto un’esercitazione (ripetuta due volte) tesa a proporre l’indice di una lezione per competenze sulla base di uno schema proposto dal docente Federico Batini. Lo schema didattico costituisce una rielaborazione di uno schema analogo proposto da Roberto Trinchero (sulla base di Pfeiffer & Jones, 1985) per la progettazione di una lezione (con obiettivo espresso in termini di competenze). I gruppi di docenti sono costituiti per area disciplinare e quelle che vengono presentate sono soltanto alcune tra le loro progettazioni della lezione per competenze proposte in forma sintetica per evidenti motivi di spazio. Gruppo A033 Educazione Tecnica scuola secondaria di primo grado Abbiamo deciso di svolgere un’attività legata alla personalizzazione dell’aula. La competenza obiettivo è quella di saper disegnare in scala. 1) Ogni alunno disegna la pianta dell’aula con righello e foglio a quadretti. 2) “La galleria dei progetti”: vengono esposte tutte le ipotesi, gli elaborati grafici vengono appesi e ognuno presenta il proprio elaborato. 3) L’insegnante valorizza le proporzioni, le idee originali, ad ognuno viene messo in evidenza qualcosa di positivo. 4) L’insegnante introduce il concetto di scala e di proporzione utilizzando la LIM e facendo provare gli alunni ad inserire le sagome in modo proporzionato, usando lo sfondo quadrettato. 5) Rilievo a gruppi in modo che ci sia però il contributo di ciascuno per rilevare arredi, banchi, dimensioni…. 6) Adesso gli alunni riprendono il lavoro ed effettuano una progettazione in scala. 7) Si evidenziano gli aspetti positivi dei nuovi elaborati e si evidenziano eventuali problemi relativi alle norme di sicurezza, all’illuminazione, le distanze etc… 8) In conclusione controllo e confronto tra le due attività … evidenziando le differenze, gli apprendimenti… Gruppo lingue: inglese, francese, spagnolo L’obiettivo concreto è quello di creare un depliant perché un gruppo di ragazzi stranieri ci viene a trovare.
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L’intera unità viene svolta in lingua ed è un compito di realtà: il prodotto finale viene realmente utilizzato per lo scopo proposto. La competenza perseguita è quella di “saper comunicare in maniera efficace in lingua.” 1) In un’attività iniziale viene richiesto a ciascuno di elaborare un depliant con programma e informazioni partendo da una serie di esercizi stimolo (esempio: quale è la cosa più importante della città?); 2) Vengono accolte e valorizzate tutte le attività progettuali 3) Il docente formerà poi dei gruppi secondo il tema (es: gruppo ristoranti, gruppo monumenti e beni artistici…). Ogni ragazzo dovrà portare al gruppo il proprio contributo informativo, motivare le scelte. Ogni ragazzo/a diventa così portatore di conoscenza… 4) Ogni gruppo discuterà di quello che sa della propria città… in generale e rispetto all’obiettivo specifico del gruppo, il docente chiederà di formulare due/tre ipotesi per gruppo. 5) Tutte le informazioni raccolte saranno trascritte 6) Il docente inviterà a riflettere su cosa manca attraverso una serie di domande da utente potenziale del loro depliant/guida (Esempio come si acquistano i biglietti per il museo? Come si verificano gli orari?) 7) A questo punto cercare di integrare le informazioni minori in modo che qualunque ragazzo si senta integrato nel gruppo. 8) Con un sistema di votazione si fanno le scelte e si compone il depliant definitivo con assegnazione di ruoli (impaginazione, realizzazione foto, scelta iconografica, realizzazione grafica, correzione etc..). Gruppo A050 Lettere scuola secondaria di II grado Ci rivolgiamo agli studenti del biennio. L’unità si intitola: “In cerca di un eroe” Saper identificare i propri riferimenti e gli esempi ai quali ci ispiriamo. 1) Chi è un eroe? Ragazzi e ragazze svolgono individualmente un’attività di definizione delle caratteristiche degli eroi (secondo loro) e di esempi di eroi. 2) Socializzazione e valorizzazione delle attività individuali 3) Gli esempi di eroi proposti vengono rappresentati in una mappa 4) Discussione sulle caratteristiche degli eroi che emergono dalla mappa. 5) Attività di gruppo: analisi delle caratteristiche dell’eroe…: quali sono le caratteristiche che definiscono un eroe? Obiettivo del gruppo è quello di arrivare ad una definizione. 6) Si presenta un’integrazione attraverso la lettura di brani di eroi classici e non: Achille – Ulisse - Orlando…; o di eroi e antieroi moderni: Zeno Cosini, Il Barone Rampante, i detective di autori contemporanei…etc.. ma anche esempi e letture che riguardino almeno alcuni degli eroi proposti dai ragazzi medesimi. 7) Dopo lo stimolo delle letture effettuate ogni gruppo ricompone un testo che definisca un eroe… 8) Messa in comune delle composizioni prodotte … condivisione e scambio 9) Sottolineature degli aspetti positivi di ogni lavoro 10) Confronto tra attività iniziale e attività finale mettendo in evidenza le diverse definizioni e i diversi concetti di eroe… e come lo stesso è maturato in ciascuno. 11) Successivamente si possono sollecitare gli allievi a svolgere, in aula, attività di autoanalisi individuando, a partire dalle definizioni condivise, episodi “eroici” nella propria vita.
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Gruppo…. A033 (2) Educazione tecnica L’unità è tesa a fornire le competenze utili all’individuazione di possibili sprechi di energia all’interno della scuola. Saper individuare le cause degli sprechi di energia e saper porvi rimedio. Tema: la produzione energetica, le fonti di energia 1) Si formano gruppi di 3 o 4 alunni che analizzeranno gli ambienti scolastici per individuare eventuali sprechi di energia… (ogni gruppo visita gli stessi ambienti). 2) Esposizione (un relatore/relatrice per gruppo, mentre un altro/a trascrive sulla lavagna o sulla LIM ciò che è stato rilevato attraverso uno schema predisposto in cui sono presenti soltanto i locali visitati – elenco). 3) Evidenziazione aspetti positivi… sia quelli più importanti che meno 4) Integrazione da parte dell’insegnante di ciò che non è emerso… 5) Definizione dei concetti chiave…a partire dai lavori svolti dai gruppi e acquisizione della terminologia specifica 6) Viene prodotta una scheda cartacea, una griglia che deve emergere da loro dopo definizione concetti chiave 7) Nuova visita locali questa volta con la griglia che consente di verificare meglio 8) Nuova socializzazione sintetica 9) Nuova evidenziazione positiva 10) Nuova integrazione (se necessaria). 11) Confronto tra prima e seconda attività… riflessione metacognitiva così da acquisire consapevolezza del proprio apprendimento…(in totale autonomia, dunque con retroazioni sull’autostima…) 12) In un secondo momento verrà costruita, sulla base dell’esperienza svolta una nuova scheda di rilevazione da compilare singolarmente per ripetere lo stesso tipo di rilevazione nella propria abitazione. A059 Matematica e scienze nelle scuole secondarie di primo grado Unità: conoscenza dei terremoti. Competenza obiettivo: sapersi comportare correttamente in caso di terremoto 1) Viene chiesto ai ragazzi di scrivere tutto quello che sanno riguardo ai terremoti 2) Esposizione di quello che ciascuno ha scritto 3) Si evidenzia il positivo…sia per quanto concerne il linguaggio, sia per quanto riguarda i contenuti, … 4) Vengono fissate le definizioni corrette dal punto di vista scientifico e per quanto concerne la terminologia 5) Si propone la visione di un documentario sul tema 6) Si formano gruppi che in classe, dopo aver raccolto materiale anche a casa, preparino presentazioni rielaborando il materiale raccolto e quanto già detto in aula 7) Presentazione degli elaborati dei gruppi 8) Evidenziazione positivo 9) Confronto tra prima e seconda attività… 10) Costruzione collettiva di un testo introduttivo e di elenco dei comportamenti adeguati. Queste progettazioni incipitarie, hanno mostrato, da una parte, il senso del tradurre immediatamente in pratiche didattiche quanto appreso, dall’altra hanno concretamente mostrato agli insegnanti del PAS, per mezzo del loro stesso ap-
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prendimento, l’efficacia di una lezione per competenze (la sensazione è stata poi rinforzata dalle progettazioni complete di unità didattiche che qui non sono riproducibili per ovvi motivi di spazio5). Alcuni insegnanti hanno poi sperimentato effettivamente in aula la lezione ricavandone sensazioni, impressioni e risultati positivi. Tuttavia vi è una certa resistenza a tradurre poi in prassi didattica quotidiana quanto sperimentato. Quali le motivazioni possibili? Sicuramente la rilevante mole di preparazione/progettazione che approcci di questo tipo richiedono, sicuramente l’inserimento in ambienti nei quali il confronto con i colleghi rimanda, facilmente, a modalità classiche, ma vi è anche un problema di identità. Già nella fase in aula si riscontrava (come hanno notato a più riprese i partecipanti) un approccio differente tra i docenti dell’area trasversale e i docenti dell’area disciplinare. Un insegnante, ancora oggi, appoggia la propria identità professionale sulla propria competenza disciplinare e occorre una pianificazione negoziata della loro formazione iniziale perché questa identità si configuri in modo differente. Spiegare, interrogare e assegnare un voto rimane, ancora, la pratica più in uso perché più accessibile, riconoscibile e identificabile come azione dell’insegnante. Ne sono ulteriore testimonianza i prodotti realizzati a Padova. Se, da un lato, gli interventi degli insegnanti sopra riportati testimoniano il confronto con un intenso periodo di esperienza e riflessione sul ruolo di una didattica collaborativa e situata nel facilitare lo sviluppo di competenze, dall’altro, la “responsabilità” disciplinare e la mancanza di un percorso di verifica di un’impostazione per competenze lungo tutto l’anno scolastico, verificando i prodotti/progetti didattici elaborati dagli insegnanti, spinge, spesso, a sottovalutare la componente metodologica e a un certo schematismo nell’attribuire lo sviluppo delle competenze a proposte didattiche sbilanciate sul versante del sapere e poco articolate in chiave di saper fare e saper essere. Un rischio sempre presente, soprattutto nelle proposte didattiche rivolte alle scuole medie inferiori, è quello di “trasferire” interessi e approfondimenti disciplinari (musicologici in questo caso) dell’insegnante a gruppi classe in cui la “cultura” degli allievi rimane “distante” dalla proposta didattica quanto ad ambito tematico e capacità di ascolto. Accade così che un tema quale la relazione fra emozioni, suoni e colori venga proposto con un forte taglio storico che affronta il rapporto fra il pittore Kandinsky e il compositore Schoenberg, all’interno di un percorso di ascolto tutto centrato su musiche “classiche” occidentali o, in minima parte, jazz, lontane dalle pratiche quotidiane di ascolto degli allievi cui vengono proposte. O che l’introduzione a Stravinsky avvenga attraverso un’ “analisi stilistica” dell’opera “La carriera di un libertino / The Rake’s Progress”. Anche in ambito di esplicita programmazione degli strumenti valutativi, la costruzione di prove oggettive viene ricondotta a un modulo sui “Quadri di un’esposizione” di Musorgskij schiacciando la tensione “oggettiva” sugli aspetti maggiormente nozionistici. Non mancano, tuttavia, esempi di elaborazione didattica maggiormente attenti agli aspetti interdisciplinari, situati e di intersezione con i vissuti e gli interessi degli allievi. Per esempio, la proposta didattica “Mon très cher père. Un rapporto conflittuale”, nell’approfondire le difficoltà relazionali fra Wolfgang Amadeus Mozart ed il padre come spunto per un percorso di apprendimento da proporre ad allievi di terza media fa proprie le prospettive della flipped classroom. In particolare vengono esplicitate le seguenti due competenze quali esito del percorso di apprendimento:
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Alcuni esempi si possono trovare nel blog federicobatini.wordpress.com
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– imparare ad imparare: attraverso un processo induttivo e in movimento, che parte dal ‘prendere possesso’ del materiale didattico nella fase di attivazione e si sviluppa nelle successive fasi, attraverso l’utilizzo e la sperimentazione di ulteriori competenze specifiche; – senso di iniziativa, competenza insita nella stessa modalità flipped, in quanto pone l’allievo al centro e lo mette nella situazione di scegliere e discriminare nozioni e condizioni delle modalità operative.
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A partire da tali competenze si ipotizza lo sviluppo di competenze trasversali quali: collaborare, individuare collegamenti e relazioni, progettare, risolvere problemi e confrontarsi con i propri pari (soprattutto attraverso modalità di lavoro di tipo cooperativo), oltre ad alcune competenze specifiche. Una maggiore capacità di esplicitare aspetti di continuità fra le dimensioni formativa e sommativa dei processi valutativi rimane un aspetto critico di tali progettazioni più attente al profilo specifico degli allievi. In chiave formativa, si evidenzia, quindi, l’importanza di arrivare ad esplicitare, rispetto agli orizzonti che si delineano in ambito scolastico, la “cultura” dell’educazione (Bruner, 1997), rintracciando e promuovendo un linguaggio comune all’interno della scuola, che aiuti il personale docente a esplicitare le proprie scelte (implicite od esplicite) nel “leggere” e rispondere alle opportunità ed esigenze di apprendimento presenti in classe. L’ambito musicale, se da un lato abbiamo verificato “induce in tentazione” rimandando troppo spesso a contenuti desueti rispetto ai vissuti degli allievi, dall’altro offre proposte pedagogiche di interesse generale. Ne è un esempio la seguente considerazione fatta da un insegnante di sostegno, con preparazione musicale, nella scuola secondaria di primo grado: “È fondamentale che anche i ritmi regolari, misurati, siano concepiti, salvo eccezioni, come elementi vitali e siano legati a movimenti. Essi perdono la loro natura se vengono identificati solamente con elementi grafici puramente convenzionali. Bisogna che questi elementi grafici rappresentino, o almeno richiamino, il movimento di cui sono l’espressione. È molto importante, per questo, dedicare sempre del tempo all’improvvisazione”. In questo caso, l’insegnante rimanda esplicitamente all’approccio sviluppato da Edgar Willems che guarda all’apprendimento come valorizzazione dell’esperienza e come passaggio dall’esperienza alla teoria attraverso l’interazione fra allievi e fra allievi e insegnante prestando attenzione ad obiettivi “emergenti” dalle attività, in linea con l’analisi di Vygotskij che nel 1934 in “Pensiero e linguaggio” richiama l’attenzione sulle specifiche forme sociali che facilitano i processi con cui i bambini intersecano e si inseriscono nella dimensione intellettuale del proprio contesto: un richiamo alla natura prima sociale e poi individuale delle competenze. Appare cruciale introdurre nella formazione degli insegnanti un’attenzione maggiore per le esperienze degli allievi e per la facilitazione di pratiche riflessive che a queste esperienze sappiano dare spazio ed elaborazione concettuale. Come già rilevato nell’uso educativo degli incidenti critici (Damini, Surian, 2012), si verifica una stretta relazione tra esperienza condivisa, pratica riflessiva e sviluppo di apprendimenti significativi che si ancorano all’esperienza. È la condivisione di esperienze situate e di aspetti critici e la loro comunicazione ad indurre il processo di (co)costruzione di significati. In chiave di sviluppo di competenze ha avuto, quindi, un ruolo chiave la riflessione sull’esperienza. Tale condivisione, pur all’interno di un percorso relativamente breve, ha permesso di innescare pratiche di ricerca azione esplicitate soprattutto nella natura ciclica dell’azione di riflessione, a sollecitare e permettere aspetti di metacognizione che, in riferimento ai contesti
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scolastici, hanno permesso di apprezzare tali pratiche riflessive quali strumenti per la riqualificazione professionale dell’insegnante. La negoziazione di punti di vista diversi e il confronto fra contesti di insegnamento specifici, all’interno di un quadro di ricerca azione hanno offerto agli insegnanti coinvolti nei due percorsi nuove possibilità di esplorare le realtà in cui si trovano ad agire, abbinando all’analisi del proprio operato l’introduzione dei cambiamenti e prospettive di sperimentazione a partire da uno sguardo critico.
Riferimenti bibliografici Anderson J. (2009). Cognitive Psychology and Its Implication. New York: Whort. Batini F., Surian A. (2011). Vi siete mai chiesti come ci vedrebbe oggi Bertrand Russell? Didattiche narrative ed orientative nella didattica universitaria. In L. Galliani (a cura di), Il docente universitario (vol. Tomo II, p. 337-348). Lecce-Brescia: Pensa MultiMedia. Batini F. (2014). Insegnanti e competenze. In L. Balduzzi, D. Mantovani, M. T. Tagliaventi, D. Tuorto, I. Vannini (eds.), La professionalità degli insegnanti. Valorizzare il passato, progettare il futuro. Roma: Aracne. Batini F., Giusti S. (2014). Didattica orientativa con approccio narrativo. In A. Mariani (ed.), L’orientamento e la formazione degli insegnanti del futuro. Firenze: FUP Firenze University Press. Batini F. (2013). Insegnare per competenze. Torino: Loescher. Biggs J. (1996). Enhancing teaching through constructive alignment. Higher Education, 32(3), 347-364. Bruner J. (1997). La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola. Milano: Feltrinelli. Chiari G. (2011). Educazione interculturale e apprendimento cooperativo: teoria e pratica della educazione tra pari. Trento. Quaderno del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università di Trento. Damini M., Surian A. (2012). L’uso degli incidenti critici nella valutazione dello sviluppo delle competenze interculturali. Giornale Italiano della Ricerca Educativa, V, numero speciale, ottobre. Fullan M., Stiegelbauer S. (1991). The new meaning of educational change. New York: Teachers College Press. Hattie J. (2009). Visible Learning: A synthesis of over 800 meta-analyses relating to achievement. London: Routledge. Pfeiffer J. W., Jones J. E. (eds.) (1985). Reference guide to handbooks and annuals (revised). San Diego: University Associates Publishers. Stenström M.L., Laine K. (eds.) (2006). Towards good practices for practice-oriented asessment in European vocational education. Institute for Educational Research, University of Jyväskylä, Jyväskylä, Occasional Paper 30. Trinchero R. (2013). Progettare prove di valutazione. Buone prassi per la certificazione delle competenze. In V. Careglio (ed.), Buone prassi per la certificazione delle competenze al termine dell’obbligo di istruzione (pp. 38-70). Torino: Loescher. Zagami V. (2013). Fare scuola nella classe digitale. Tecnologie e didattica attiva fra teoria e pratiche d’uso innovative. Torino: Loescher.
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La formazione degli insegnanti alla didattica per competenze. Il caso delle scuole dell’infanzia di Vicenza Marina De Rossi • Università degli Studi di Padova • marina.derossi@unipd.it Emilia Restiglian • Università degli Studi di Padova • emilia.restiglian@unipd.it
Educating teachers for a competence-based approach to teaching. The case of the preschools in Vicenza Teaching and learning skills is not a new topic but, as Maccario asserts (2012, p. XVII), “they have to recognize that many things still remain to be made to support schools and teachers in their comparison to the requests that the concept of competence introduces in the educational practices, both in the building of validate knowledge […] and in the opportunities of educational offer”. The perspective becomes the expression of a paradigmatic renewal which can deeply change the idea of knowledge if the reconsideration is a global and transformative process and not only a formal and a superficial act (Castoldi, 2010, p. 97). In 2012 the National Indications marked the guidelines for the 3-14 years syllabus, involving thousands of teachers coming from different grades in this challenge. These teachers are asked to understand and to put into practice the big change in their daily work, even if there are uncertainties, resistances, lack of systematic education and common foundations to work on. The contribution presents the main steps of a training path which interested a copious group of teachers from state and city preschools in Vicenza. The path was built step by step starting from the emerging needs analysis between teachers from a reflective perspective (Mortari, 2003; 2009). Two main steps have been developed: the first (S.Y. 2011-12) aimed to identify and to analyze needs through a workshop, the second (S.Y. 2012-13) aimed to deepen the topic with the active involvement of participants (laboratory). These incentives integrated teachers’ practices and encouraged people to foster reflections and productions based upon their expertise and experiences (Hattie, 2009; Calvani, 2012). The educational path was based on a bottom-up perspective in order to get back and to renew the “metaphorical threads of the teachers’ educational acting” giving advices and tools to rebuild “plots of meaning” about skills education.
Parole chiave: formazione degli insegnanti, scuola dell’infanzia, didattica per competenze, metodi e tecniche, valutazione per competenze.
Keywords: teachers’ education, kindergarten, competence-based teaching, methods and techniques, competence-based assessment
Il contributo è il risultato di un percorso di formazione e ricerca condotta dalle due autrici. In tutte le sue parti, quindi, si deve intendere come il risultato di una riflessione comune. Marina De Rossi ha redatto i paragrafi 1, 3, 3.2, 4, 5; Emilia Restiglian i paragrafi 2, 3.1, 4.1, 5. Il paragrafo 5, conclusioni, è stato steso da entrambe.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Insegnare e apprendere per competenze non è un tema nuovo; tuttavia, come afferma Maccario (2012, p. XVII) “si deve riconoscere che molto ancora rimane da fare per sostenere scuole e insegnanti nel confronto con le istanze che il concetto di competenza introduce nelle pratiche didatticoeducative, sia sul piano della costruzione di conoscenze validate […] sia sul piano dell’offerta di occasioni di formazione”. La prospettiva diviene espressione di un rinnovamento paradigmatico in grado di modificare profondamente l’idea di sapere purché il ripensamento non sia solo atto formale e di superficie ma processo trasformativo e complessivo (Castoldi, 2010, p. 97). Nel 2012 le Indicazioni Nazionali hanno tracciato le linee guida per il curricolo dai 3 ai 14 anni, coinvolgendo nella sfida migliaia di insegnanti di vari ordini di scuola che nella quotidianità del loro lavoro hanno avuto mandato di comprendere, interpretare e tradurre operativamente il corposo cambiamento spesso tra incertezze e resistenze, carenze di formazione sistematica e basi comuni su cui costruire. Il contributo presenta le tappe fondamentali di un percorso di formazione che ha interessato un numeroso gruppo d’insegnanti delle Scuole dell’infanzia statali e comunali di Vicenza. È stato costruito progressivamente dall’analisi dei bisogni emergenti tra le insegnanti in ottica riflessiva (Mortari, 2003; 2009) e sviluppato in due fasi: prima fase (A.S. 2011-12) dedicata all’individuazione e analisi dei bisogni con formazione seminariale; seconda fase (A.S. 2012-13) volta all’approfondimento e all’azione laboratoriale. Gli stimoli offerti hanno inteso integrare le pratiche già in uso in modo da favorire riflessioni e produzioni che tenessero conto dell’expertise dei soggetti coinvolti e delle loro esperienze pregresse (Hattie, 2009; Calvani, 2012). Il percorso di formazione realizzato ha operato in prospettiva bottom-up nell’intento di riprendere e riannodare metaforici fili di significato dell’agire didattico del gruppo docente coinvolto, offrendo spunti e strumenti per ricostruire trame di senso sulla didattica per competenze.
La formazione degli insegnanti alla didattica per competenze. Il caso delle scuole dell’infanzia di Vicenza
1. Alcune premesse al percorso di formazione: le sfide della didattica per competenze
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Con l’introduzione nel 2012 delle “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione” si è sancita ufficialmente una tappa decisiva del lungo percorso normativo1 verso la prospettiva della cosiddetta “scuola delle competenze”, già da tempo oggetto d’interesse di studi e ricerche. Sul tema molto si è detto e molto si è scritto, a partire dalle raccomandazioni internazionali2, interpretate nel nostro sistema con intenzioni trasformative in quanto la centralità del costrutto di competenza3 come finalità educativo/formativa apre ad alcuni interrogativi fondamentali sia in relazione all’organizzazione complessa della scuola, sia all’agire dell’insegnante (Maccario, 2006, 2012; Pellerey, 2010). In primis capire effettivamente che cosa s’intenda oggi per insegnamento competente, ossia in grado di costruire e sviluppare competenze negli allievi e, andando oltre, quali sono i repertori prassici (pratiche sostenute dalla teoria) che costituiscono un agire didattico coerente e adeguato alle finalità traguardate (Benadusi, 2002; Scurati, 2008). Infatti, come sostiene Le Boterf (1998; 2008), la competenza non consiste in una somma o una semplice giustapposizione di risorse, ossia non si risolve nel trovare legami tra saperi e apprendimenti, ma comporta l’attivazione di processi d’integrazione volti a un apprendimento di ordine più complesso che richiede di “ripensare in profondità i modi di fare scuola in tutte le loro manifestazioni” (Castoldi, 2010, p. 97). Solo la consapevolezza della “potenzialità eversiva” contenuta il tale costrutto può consentire di affrontare le implicazioni operative: progettuali, metodologiche, valutative e tecnologiche. Nei discenti la trasformazione di conoscenze e metacognizioni da naturali a esperte, richiede un insegnamento/apprendimento significativo (Ausubel, 1978; Novak, 2001) che si esplicita sotto forma di atti mentali che attivano processi non solo razionali, ma anche relazionali, emozionali, corporei (Goleman, 1996; Stemberg, 2000; Rossi, 2011), non disgiungibili dalla sfera motivazionale (Boscolo, 1997). Riprendendo i risultati d’interessanti studi sui processi d’insegnamento-apprendimento per competenze nel contesto scolastico (Rey, Carette, Defrance, Kahan, 2003; Crahay, Detheux, 2005), si evidenzia la necessità di una didattica in grado di mobilizzare tutte le risorse per fare del “saper agire” habitus mentale degli allievi, ossia proponendo i saperi in forma tale da “consentire allo studente di riconoscerli ed impiegarli come strumenti utili per attribuire senso alla realtà, per
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Si veda www.archivio.pubblica.istruzione.it/riforma/primo_ciclo.shtml Per una ricognizione si veda Da Re (2013). L’approccio per competenze non rifiuta i contenuti o discipline, ma mette l’accento sulla loro messa in opera in quanto appropriarsi di molte conoscenze non si traduce automaticamente in un loro utilizzo in situazioni reali (Perrenoud, 2003; Castoldi, 2011).
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affrontare sfide, per rispondere ad interrogativi di carattere conoscitivo ed esperienziale” (Maccario, 2012 p. 13). Come ciò possa realizzarsi è oggetto di studio nella convinzione che l’apprendimento significativo, superando il mero meccanicismo istruzionale, possa svilupparsi attraverso scelte metodologiche in ragione di direzioni formative che nella scuola devono essere ben chiare a partire dalla progettazione (Calvani, 2011). Infatti “insegnare per promuovere competenza a scuola, sebbene implichi una particolare attenzione per i risultati […] non significa seguire un orientamento funzionalistico […], ma muoversi in un orizzonte formativo tendenzialmente più ampio, a “tutto campo”, in cui la preoccupazione primaria sia rappresentata dalla formazione della persona alunno” (Maccario, 2012 p. 5). Ciò comporta che l’insegnante sappia creare i presupposti per una formazione completa, finalizzata a realizzare non solo “porzioni” e prodotti, ma identità (Santelli Beccegato, 1999; Bertagna, 2010, Pagano & Schiedi, 2011). Secondo questa riflessione, il discorso metodologico comincia a prendere forme nuove mettendo a fuoco le possibili risposte alla domanda su “come” si possa favorire effettivamente la costruzione di competenze4 nella quotidianità del lavoro scolastico considerando quattro aree d’azione: ricezione (prestare attenzione, integrare), riproduzione (precisare, trasporre, applicare), produzione (analizzare, adattare, sintetizzare) e autogestione (valutare, autocontrollare) (Paquette, 2002). L’approccio da considerare è quello dei modelli context-oriented (Perla, 2012) i cui quadri teorici di sfondo sono soprattutto riferibili ai paradigmi costruttivista ed ecologico5. Nella prospettiva innovativa di tali modelli, l’azione fondamentale del pensare e dell’apprendere dell’alunno consiste sostanzialmente nel sapersi situare, cioè assumere una posizione consapevole rispetto al proprio apprendimento, armonizzando e facendo convergere tutte le risorse interne ed esterne disponibili. L’innovatività si realizza nella distribuzione di conoscenze, nel percorso curricolare non frammentato (nelle Indicazioni previsto con continuità da 3 a 14 anni), nella considerazione dell’intelligenza in forme multiple (Gardner, 1987). Nelle sfide aperte dall’approccio per competenze pare superato il problema della definizione rigidamente schematica della struttura del metodo6, inteso come elemento determinato a priori. Anzi diviene materia fluida7, in grado di ridefinire
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Gran parte della ricerca in psicologia cognitiva ha dimostrato che gli studenti imparano meglio quando vengono impegnati nella soluzione dei problemi (Mayer, 1992). L’apprendimento centrato su problemi è ben rappresentato da una serie di modelli didattici: Collins, Brown e Newman (1989), Cognitive Apprenticeship; Schank, Berman, e Macperson (1999), Goal Based Scenarios; Jonassen (1999), Constructivist Learning Environments; Savery e Duffey (1995), Problem-Based Learning: Clark e Blake (1997), Novel Problem Solving; van Merrienboer (1997) Whole Task Practice in 4C/ID Model. Nell’ampiezza degli studiosi che andrebbero citati a proposito, si ricordano i contributi principali di alcuni tra i più significativi: Vygotskij, 1962, 1978; von Foerster, 1987; Morin, 1993; Maturana & Varela, 1992; Bateson, 1972; Bronfenbrenner, 1979. Già Pellerey (1983) aveva considerato come lo sviluppo di un apprendimento efficace non possa prescindere da scelte metodologiche basate su alcuni principi fondamentali quali la significatività, la motivazione, la direzionalità, la continuità/ricorsività, l’integrazione e la trasferibilità linguistica. Si veda anche il contributo di Jonassen (1999). I riferimenti che declinano meglio principi e funzioni dei modelli context-oriented includono il costruttivismo socio-culturale, derivato dal pensiero di Vygotskij
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il lavoro dell’insegnante: considerando i saperi come risorse da mobilitare (non materia inerte, bensì da mettere in relazione con le esperienze reali); lavorando per situazioni-problema; condividendo progetti educativi e formativi con i propri allievi e gli altri soggetti coinvolti nei processi (contrattualità formativa); adottando una pianificazione flessibile (approccio strategico alla progettazione); praticando una valutazione per l’apprendimento (consapevolezza che amplifica il potenziale formativo); riducendo i “recinti” disciplinari (superamento delle divisioni concettuali e metodologiche); incoraggiando gli allievi ad essere protagonisti (non più recettori passivi e riproduttori di saperi preconfezionati, ma coproduttori di conoscenza da costruire e condividere) (Perrenoud, 2003). Tuttavia, se per la scuola primaria e secondaria di primo grado l’esercizio progettuale suggerito dalle Indicazioni fornisce una guida all’insegnante, mediante la declinazione dei traguardi in obiettivi d’apprendimento per aree disciplinari, per la scuola dell’infanzia rimangono aperte alcune questioni. Infatti, nonostante le Indicazioni Nazionali del 2012, come già quelle del 2007, configurino “traguardi per le competenze”, la traduzione in obiettivi per la scuola dell’infanzia rimane a cura dell’interpretazione dei docenti che, da un lato, devono fare riferimento ai campi d’esperienza e, dall’altro, all’integrazione degli stessi nel curricolo verticale che dai 3 ai 14 anni dovrebbe raccordare il percorso definito a livello complessivo nella propria istituzione. Già gli Orientamenti del 1991 parlavano della scuola dell’infanzia come della scuola che aiutava i bambini a costruirsi Identità, Autonomia, Competenza, aree di sviluppo ora riprese e arricchite dalla dimensione della Cittadinanza pensando agli attori e ai contesti implicati nei processi di lavoro per competenze: i bambini, le famiglie, i docenti e gli ambienti. Ogni traguardo si connette ai campi d’esperienza configurandone l’attuazione secondo un piano articolato su due vettori: quello verticale, già citato, che indica la progressione del cammino formativo secondo passi disegnati lungo linee di crescita e maturazione in vista del perseguimento del profilo dello studente, quello orizzontale che indica i contributi al processo di apprendimento, rappresentati dagli assi culturali, dalle aree d’indirizzo e dalle attività di adattamento al target e al contesto.
2. La complessità della valutazione nel lavoro per competenze La didattica per competenze propone il superamento di una visione sommativotrasmissiva della conoscenza, centrata sulla valutazione dei risultati direttamente deducibili da obiettivi prefissati, per ricondurla agli aspetti processuali. Se l’iter procedurale legato agli obiettivi prevede una scansione temporale che dall’individuazione degli stessi porti alla valutazione finale, passando per la pianificazione delle attività e alla loro realizzazione, nella progettazione per competenze la sequenza viene completamente ribaltata a partire dalla valutazione che “consente di analizzare la competenza mettendone in luce dimensioni, criteri, indicatori, livelli e descrittori che non sono altro che gli elementi costitutivi della rubrica (strumento centrale per le competenze) (Ferrari, 2012, p. 229). In questo senso pare implicito che siano messe in atto azioni didattiche specifiche che propongano agli allievi di
(1930/1980), il costruttivismo sociale di Brown, Duguid e Campione (1991; 1993; 1994) e il costrutto di comunità di pratica di Wenger (1996; 1998).
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cimentarsi non solo con problemi comunemente definiti come “scolastici”, ma con problemi complessi, reali e situati; da qui un apprendimento in situazioni di realtà fondato su un ordine pratico, un sapere reale (Lichtner, 2004 in Castoldi, 2011). Infatti, la struttura valutativa di un curricolo per competenze si sviluppa considerando anche le cosiddette attività complesse, finalizzate a favorire la costruzione di competenza intesa come rete integrata di componenti cognitive, affettive, sociali, senso-motorie che si mobilizzano in azioni intenzionali di fronte ad una famiglia di situazioni (Allal, 2003). Comoglio (2003), riprendendo autori di area anglosassone (Worthen, 1999; Wiggins, 1998; Arter & Bond, 1996; Goodrich, 1996; Winograd & Perkins, 1996), è stato tra i primi studiosi italiani a introdurre il concetto di valutazione autentica o alternativa, in contrapposizione a quella tradizionale. Si tratta di operare, in una prospettiva trifocale, su differenti dimensioni: soggettiva, oggettiva e intersoggettiva secondo istanze autovalutative, empiriche e sociali che raccolgono in pieno le sfide del legame tra la scuola e il mondo esterno richiesto dal costrutto di competenza (Castoldi, 2009, 2011). Per consentire che tutte le tre prospettive siano garantite, è necessario porre in atto una serie molto ampia di strumenti che vanno da quelli tradizionali fino al diario di bordo, alle autobiografie, ai resoconti verbali, ai compiti autentici, alla realizzazione di artefatti, a protocolli di osservazione e alle analisi dei comportamenti sul campo. Ottenute informazioni tramite questi strumenti, che vanno a costituire vere e proprie prove, è necessario usare un ulteriore strumento che consenta di valutare e di attribuire significato a tutte le informazioni raccolte e questo non può essere che la già citata rubrica (Ellerani, Gentile, Sacristani Mottinelli, 2007). Tali considerazioni valgono per tutti i gradi e ordini di scuola ma, nel caso della scuola dell’infanzia, così come si è richiamata la complessità connessa alla scelta metodologica, la costruzione degli strumenti di valutazione, nell’ottica delle competenze, richiede un’azione profonda e ragionata da parte degli insegnanti. Come vedremo nel caso descritto, uno dei problemi emergenti è risultato essere la declinazione degli strumenti nella prospettiva curricolare rispettandone continuità e adeguatezza: dai traguardi agli obiettivi, dalle scelte metodologiche alla costruzione di strumenti valutativi. La maggior focalizzazione è stata sul compito autentico o reale e sulla rubrica come strumento di valutazione.
3. La costruzione del percorso di formazione in prospettiva riflessiva: l’analisi dei bisogni e i focus group (fase I) Nell’ambito della partnership Scuola-Università, attiva per il CdS in Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Padova tra numerose scuole del territorio regionale, un gruppo di ricerca8 è stato incaricato per la progettazione e gestione di un Corso di Formazione. L’input iniziale è partito dalle esigenze individuate dalla committenza (Direzione Didattica Scuole dell’infanzia comunali di Vicenza), successivamente è proseguito con l’emersione dei bisogni reali delle insegnanti at-
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Gruppo del settore di Didattica e pedagogia sperimentale della sezione di Pedagogia del Dipartimento FISPPA (Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia Applicata) dell’Università di Padova. Referente scientifica Marina De Rossi, coordinatrice Emilia Restiglian, collaboratrici/ori Silvia Azzolin, Cristina Mazzucco, Pietro Tonegato.
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traverso pratiche riflessive. Il corso è stato rivolto a docenti della scuola dell’infanzia di tutte le scuole del comune, con il coinvolgimento di colleghi di alcune scuole statali e del circuito FISM del territorio e si è articolato in due fasi: prima fase (A.S. 2011-12) dedicata all’analisi dei bisogni e alla formazione seminariale (focus group, incontri seminariali); seconda fase (A.S. 2012-13) volta all’approfondimento e alle attività laboratoriali (Fig. 1). ! 4%"%! 7899:97! 4%"%! 7897:9C!
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Fig. 1 - Cronogramma del percorso di formazione
I temi individuati inizialmente dalla committenza sono stati: la progettazione per competenze; la coerenza tra la progettazione, l’azione didattica e la valutazione. Già in preparazione dell’A.S. 2011-12, dalla Direzione Didattica delle Scuole dell’Infanzia Comunali, era stata elaborata una rubrica ragionata tenendo conto dei traguardi dettati dalle otto competenze chiave europee9. L’azione era stata promossa grazie all’intervento di un esperto che aveva lavorato con un gruppo ristretto d’insegnanti, il materiale era stato poi condiviso con le scuole statali e della FISM; l’intento era di organizzare il lavoro dei docenti offrendo una guida utile alla progettazione per competenze affinché vi fosse una ricaduta utile a innovare la didattica e la valutazione. Tuttavia, nel corso dell’anno, si erano evidenziate difficoltà e disorientamenti di fronte al nuovo strumento proposto, tanto che era stata richiesta la consulenza dell’Università di Padova per organizzare incontri seminariali sul tema del lavoro per competenze. Sono stati effettuati 3 focus group10 (FG A,B,C) per consentire un’approfondita analisi dei bisogni coinvolgendo in prospettiva riflessiva i soggetti interessati; si è proceduto all’individuazione delle componenti dei gruppi (totalmente di genere femminile) in modo da mettere in evidenza il patrimonio esperienziale, la storia organizzativa in cui erano maturate competenze e capacità professionali, le disposizioni personali intrinseche ed estrinseche verso i temi proposti (Baldassarre, 2001). A questo proposito sono state coinvolte tutte le coordinatrici (16 plessi delle Scuole dell’Infanzia Comunali; 4 Scuole dell’Infanzia Statali; 6 Scuole dell’Infanzia FISM) per un totale di 26 partecipanti così suddivise: FG A, 9 partecipanti (6 Sc.
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Raccomandazione 2006/962/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006, relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente [Gazzetta ufficiale L 394 del 30.12.2006, pag. 10]. 10 Sono stati organizzati 3 gruppi in modo da poter basare l’analisi iniziale su una percentuale indicativa di circa 1/3 (il corso di formazione era costituito da 100 docenti). Si è tenuto conto di tutte le raccomandazioni presenti in letteratura per un’equilibrata composizione; ossia, da un lato, del bisogno di omogeneità (docenti rappresentativi di tutti i plessi e tipologie di scuole coinvolte nella formazione) per facilitare lo scambio di opinioni e la reciproca comprensione concettuale e linguistica; dall’altro, dell’eterogeneità per consentire un ventaglio di opinioni più ampio possibile (Zammuner, 2003).
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Com.; 1 Sc. Stat.; 2 Sc. FISM); FG B, 9 partecipanti (6 Sc. Com.; 1 Sc. Stat.; 2 Sc. FISM); FG C, 8 partecipanti (4 Sc. Com.; 2 Sc. Stat.; 2 Sc. FISM).). I FG avevano lo scopo di aiutare le partecipanti a chiarire le proprie motivazioni e a formare proprie opinioni strutturate sul tema della didattica per competenze nella scuola dell’infanzia (Krueger, 1994). La discussione collettiva voleva indurre i soggetti a un miglior inquadramento del proprio punto di vista all’interno del panorama generale di posizioni, consentendo loro di esprimersi anche su aspetti del problema mai affrontati prima. L’idea era creare un guadagno conoscitivo per le partecipanti al gruppo affinché l’intervento potesse dare una restituzione efficace (Gattico, Mantovani, 1998; Zammuner, 2003). I nuclei di discussione sono stati quattro, posti attraverso domande stimolate da apposito materiale (figura dell’iceberg della competenza tratta da Castoldi (2010, p. 117); tassonomia delle capacità implicate nell’esercizio di una competenza (Paquette, 2002); esempio di unità di apprendimento per la scuola dell’infanzia (appositamente costruita); tavola delle prospettive di valutazione della competenza (tav. 3.10, Castoldi, 2010, p. 151). L’analisi del contenuto del materiale trascritto, cioè l’insieme delle risposte alle domande e degli interventi audioregistrati nella discussione, è stata suddivisa secondo i temi considerati per il raggruppamento dei quesiti proposti. La costruzione delle categorie è stata realizzata manualmente attraverso fasi progressive di lettura a livelli sempre più specifici, seguendo le indicazioni dell’approccio ex-post (Tuzzi, 2003) consistente in un’analisi che affida ai testi che compongono il corpus il compito di definire a posteriori i concetti utili a descrivere il fenomeno indagato. Si riporta nella Fig. 2 lo schema delle principali categorie emergenti che hanno successivamente determinato la scelta degli argomenti e delle attività da proporre nel corso della Fase II nell’A.S. 2012-13. ""!!/ /$0 $0%11,!*%$&,#,3 %11,!*%$&,# #,3 "! $'#%**$!0,! "!# #$ '#%**$!0,! *&)26)&0$!0,! *&)26)&0$!0,! #$/.%*%'()3 #$/.%*%'()3 "! "!9$&/)*!.&$2%**6)1,3 $&/)*!.&$2%**6)1,3 "! "!&)##$&0$!4#6$1)! )##$&0$!4#6$1)! .&,/)&,)3 .&,/)&,)3
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Fig. 2 - Sintesi delle categorie emerse raggruppate per temi
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In particolare, per tutte le categorie si è evidenziato il bisogno di collocare la riflessione entro un approccio didattico per competenze realizzato in forma globale: ossia, trovando coerenza tra i diversi momenti dell’azione di progettazione, conduzione-realizzazione delle attività e valutazione. Un punto particolarmente controverso è stato la discussione sui termini Unità didattica (UD), maggiormente utilizzato, e Unità di Apprendimento (UdA) e sul
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significato in merito al quale le insegnanti hanno a lungo riflettuto. La metafora di riferimento proposta è stata quella dell’“insegnamento-ponte”, ossia quella che assimila maggiormente l’unità di analisi del lavoro per competenze all’idea di progetto fondato su una strategia induttiva (di tipo bottom-up), per la quale il percorso didattico muove dall’esperienza e tende a utilizzare i saperi come strumenti di comprensione del mondo reale (Allal, 2003). In tale prospettiva si è condiviso il significato del termine di Unità di Apprendimento (UdA), intesa come elemento di sviluppo della tradizionale idea di Unità didattica, alla quale le insegnanti avevano da sempre fatto riferimento. Indipendentemente dall’accordo sul termine, necessario per creare condivisione, è stata accolta la proposta avanzata da Baldacci, ripresa anche da Castoldi (Baldacci, 2005; Castoldi, 2010) secondo cui l’unità progettuale minima conservi tutte le caratteristiche di un progetto complesso (obiettivi, procedure didattiche, modi di valutazione) relativamente all’insegnamento-apprendimento di un certo argomento e si ponga come punto di intersezione tra una strategia progettuale deduttiva (top-down) che muove da un’individuazione degli scopi per ricavarne le modalità d’azione didattica, e una strategia induttiva (bottom-up) che muove dalle caratteristiche dell’esperienza didattica per risalire alle finalità che persegue. Ai FG sono seguiti due incontri di 2 ore ciascuno condotti in forma seminariale (maggio 2012), come momento di approfondimento e analisi della letteratura recente a livello nazionale e internazionale sul tema della didattica per competenze, con particolare riferimento agli approcci metodologici e valutativi. 3.1 La formazione laboratoriale (fase II) Complessivamente l’esigenza fondamentale è stata quella di approfondire sul piano teorico-pratico il concetto di competenza, considerando il bisogno di creare un discorso comune tra le insegnanti appartenenti alla rete territoriale. La Fase II del corso di formazione, per l’A.S. 2012-13, ha coinvolto in modo unitario le 26 Scuole dell’Infanzia distribuite in tutto il territorio comunale e si è sviluppata in 3 seminari di 2 ore ciascuno di supporto alla progettazione annuale, alla luce dell’introduzione delle Indicazioni Nazionali, nei mesi di settembre-ottobre 2012; successivamente, tra gennaio e maggio 2013, la formazione è proseguita con laboratori di 10 ore (4 gruppi max. 25 insegnanti per un totale di 100 partecipanti) e, a conclusione, un incontro di condivisione in plenaria. Durante i seminari di settembre-ottobre, sulla base degli input provenienti dall’analisi dei FG e dei seminari precedenti, sono stati proposti in forma critica gli sviluppi più recenti degli studi sulla progettazione e valutazione per competenze, ponendo particolare attenzione alle metodologie di lavoro. Il modello di riferimento è stato quello proposto da Castoldi11 e l’analisi del riferimento teorico è stata presentata in relazione ai contenuti delle Indicazioni Nazionali12. La riflessione si è concentrata: sul concetto di traguardo di competenza; sul nesso di continuità in prospettiva 3-14 anni; sulla costruzione degli obiettivi di apprendimento in riferimento ai traguardi; sulla valutazione delle competenze
11 Si vedano i riferimenti in Castoldi (2010; 2011). 12 Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, settembre 2012, MIUR.
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in generale e sulla costruzione di strumenti (rubrica, compiti autentici); sull’integrazione tra metodi, tecniche e strumenti per lo sviluppo di competenze (unità di apprendimento). I successivi incontri laboratoriali, centrati sui nuclei tematici, hanno consentito l’approfondimento sul piano della pratica. L’obiettivo è stato quello di innestare nuovi concetti e metodologie di lavoro su pratiche già consolidate, peraltro differenti tra i diversi gruppi d’insegnanti presenti, nonostante il precedente tentativo unificante della Direzione Didattica delle Scuole comunali con la proposta della rubrica comune. Le attività che hanno costituito il canovaccio dell’esperienza, poi adattata nei singoli gruppi dai tutor, sono state: – analisi dei format progettuali in uso nei diversi contesti scolastici del gruppo per l’emersione di uguaglianze e differenze rispetto alle indicazioni progettuali per competenze; – individuazione delle relazioni esistenti tra gli obiettivi di apprendimento e le dimensioni delle rubriche di valutazione; – riflessioni su possibili adattamenti e modificazioni dei format esistenti in rapporto alla struttura delle unità di lavoro per competenze; – riflessione sulla scelta, conoscenza e operazionalizzazione delle metodologie e delle tecniche in uso nelle attività didattiche; – condivisione, riflessione e formulazione di proposte di lavoro. I gruppi di laboratorio hanno lavorato con propri ritmi e specificità giungendo tutti a progettare per competenze una o più UdA. Complessivamente le insegnanti hanno seguito con impegno e partecipazione le proposte, apportando contributi personali, talora originali, condividendo dubbi e difficoltà, chiedendo anche approfondimenti ulteriori. Durante l’incontro conclusivo di restituzione e scambio tra i gruppi è stato negoziato un format progettuale per competenze che tenesse conto di quanto prodotto durante la formazione. Tale format si discosta in alcune parti da quello presentato inizialmente durante gli incontri seminariali, ma accoglie nella flessibilità della sua concezione le specificità delle diverse scuole le quali, pur provenendo da formazioni comuni che annualmente sono sempre proposte dalla Direzione Didattica comunale in accordo con le scuole statali e quelle della FISM, di fatto hanno prodotto tenendo conto anche di prassi consolidate nel tempo in merito a collaborazioni esterne, target di riferimento e variabili socio-culturali, socio-economiche e linguistiche tipiche delle varie zone dei quartieri cittadini in cui operano (Fig. 3).
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Fig. 3 - Format progettuale per competenze co-costruito e condiviso alla fine del corso di formazione
Per quanto riguarda la valutazione, è stato scelto di porre l’attenzione sul processo di apprendimento piuttosto che sul prodotto, consentendo di mettere assieme conoscenze e abilità acquisite dai bambini durante le attività quotidiane in un contesto che richiamasse la realtà, che richiede una certa capacità di scegliere la soluzione più adatta e di rivolgersi alle fonti ricevendo feedback importanti (insegnanti, documentazione a parete, altro personale, genitori e nonni,…). Prendendo spunto da alcuni esempi presentati in plenaria, tratti da Castoldi (2011) che li pensa per il secondo e terzo anno di scuola dell’infanzia, alcuni gruppi hanno lavorato sulla preparazione di una festa in giardino o di un piccolo spettacolo. Parallelamente è stata introdotta la rubrica come strumento che identifica le aspettative relative ad una prestazione, indica come sono stati raggiunti gli obiettivi prestabiliti e valuta la qualità della prestazione osservata e rilevata. Secondo McTighe e Wiggins (2004, p. 306), la rubrica guida all’assegnazione di un punteggio ed è fondata su criteri; generalmente si basa su un continuum qualitativo della prestazione costruito su una scala di vari punteggi e identifica alcune dimensioni o tratti fondamentali che vengono presi in considerazione e valutati. Per ogni livello di punteggio vengono utilizzati descrittori. La rubrica può essere utilizzata come strumento di autovalutazione per gli studenti. La proposta di Comoglio (2003) è molto articolata e identifica accanto alle dimensioni i criteri, i descrittori, gli indicatori (non inseriti da Castoldi, 2009) e l’àncora (esempi di lavori o prestazioni che stabiliscono lo standard di riferimento per ciascun livello). Il passaggio dall’identificazione delle dimensioni alla declinazione di criteri e descrittori, inizialmente, è risultato essere il più impegnativo per le insegnanti dei 4 gruppi di laboratorio. Si è trattato, comunque, di un problema superato quando le persone hanno cominciato a capire che per identificare tali elementi dovevano partire da ciò che si aspettavano dai bambini nel compito. Superato questo scoglio, la restante attività di costruzione è stata successivamente molto fluida e più semplice da realizzare.
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3.2 La valutazione del percorso di formazione Al termine dell’ultimo incontro alle insegnanti è stato somministrato un breve questionario conclusivo di autovalutazione sulle attività del percorso laboratoriale svolto. Il questionario, sviluppato su tre dimensioni, era composto da 7 domande chiuse (scala autoancorante da 1 = minimo a 6 = massimo), 3 spazi aperti per la scrittura libera (come spazio di riflessione e proposte per ognuna delle dimensioni considerate ), 1 domanda aperta sul gradimento del corso di formazione (seminari +laboratorio). Queste le dimensioni: 1) Declinazione del traguardo per lo sviluppo delle competenze (Ha riscontrato difficoltà nella costruzione degli obiettivi di apprendimento? Ha riscontrato coerenza tra gli obiettivi di apprendimento e il relativo traguardo per lo sviluppo delle competenze?); 2) Scelta di metodi e strumenti (Per ogni obiettivo di apprendimento è stata prevista un’attività corrispondente? Le scelte metodologiche e le tecniche utilizzate sono state coerenti agli obiettivi di apprendimento individuati?); 3) Valutazione (Ha compreso la funzionalità della rubrica di valutazione nel contesto della progettazione? Ha compreso la struttura globale della rubrica di valutazione? Ha riscontrato coerenza e adeguatezza degli strumenti di verifica rispetto alle attività svolte?). Era possibile, inoltre, aggiungere riflessioni e proposte sul percorso di formazione effettuato mediante spazi aperti lasciati a disposizione alla fine di ogni gruppo di domande riferite alle 3 dimensioni considerate. Per ogni dimensione sono state riportate le medie dei rispondenti (vedi grafici) e le risposte date. Al questionario hanno risposto 90 persone su 100 con la seguente distribuzione di anzianità di servizio: 24,4% (0-10 anni); 30,1% (11-20 anni); 41,1% (21-30 anni); 4,4% (oltre 30 anni). Delle 90 rispondenti, 60 non hanno elaborato alcuna riflessione e/o proposta negli spazi aperti messi a disposizione (66,6%); le non rispondenti a questa parte del questionario si sono maggiormente concentrate nella fascia di anzianità 21-30 anni e oltre i 30 (72%). Una probabile interpretazione di questo elemento è stata attribuita alla variabile tempo che, condizionato dall’orario di lavoro del gruppo, ha necessariamente richiesto lo svolgimento delle attività nel tardo pomeriggio (dalle 17.00 alle 19.00). In particolare, l’ultimo incontro di condivisione, che prevedeva anche la somministrazione del questionario, ha privilegiato la discussione e lo scambio, lasciando alla compilazione poco spazio. Infatti, generalmente, la scrittura libera richiede maggiore riflessione e concentrazione che avrebbero, evidentemente, dovuto prevedere un momento specifico dedicato. Tuttavia è da segnalare che chi ha dato il suo contributo negli spazi aperti, lo ha fatto in tutte e tre le dimensioni. Per quanto riguarda, invece, le domande chiuse le insegnanti hanno utilizzato sempre tutti i punteggi della scala (minimo 1, massimo 6) denotando libertà di opinione nella percezione di ricaduta dell’esperienza formativa proposta; la distribuzione dei dati è sempre risultata normale (Test di Shapiro-Wilk Sig. ,000).
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4. Dimensioni 1 e 2: declinazione del traguardo per lo sviluppo delle competenze e scelta di metodi e strumenti La dimensione 1 della declinazione del traguardo per lo sviluppo delle competenze è stata articolata, come detto, in due item: ha riscontrato difficoltà nella costruzione degli obiettivi di apprendimento? Ha riscontrato coerenza tra gli obiettivi di apprendimento e il relativo traguardo per lo sviluppo delle competenze?. Per quanto riguarda la prima domanda (Fig. 4), le insegnanti dichiarano di aver riscontrato una certa difficoltà nella costruzione degli obiettivi di apprendimento (M= 2,99), mentre la coerenza tra gli obiettivi di apprendimento individuati e il relativo traguardo per lo sviluppo della competenza (Fig. 5) è risultata mediamente buona (= 3,87). La mediana in entrambi i casi è stata 3, mentre la deviazione standard è risultata più alta per la coerenza tra obiettivi e traguardo (1,523) piuttosto che per la difficoltà di costruire obiettivi di apprendimento (1,107). Possiamo, quindi, rilevare che le risposte riferite alla prima sono risultate più omogenee rispetto a quelle relative alla seconda.
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Fig. 4: Ha riscontrato difficoltà nella costruzione degli obiettivi di apprendimento?
Fig. 5: Ha riscontrato coerenza tra gli obiettivi di apprendimento e il relativo traguardo per lo sviluppo delle competenze?
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Dalle risposte aperte, nello spazio per la scrittura libera per quanto riguarda questa dimensione, emergono alcuni elementi critici i quali, seppur poco significativi a causa del basso numero di rispondenti, risultano interessanti: per quanto riguarda la didattica, la necessità avvertita dalle insegnanti è di individuare differenti attività, anche nell’ambito di una stessa tipologia di obiettivi collegati a un traguardo, adeguando la proposta in relazione all’età dei bambini, da cui consegue la necessità di introdurre livelli graduali già in fase di costruzione dell’obiettivo stesso. È stato fatto notare diffusamente, infatti, che, pur trattandosi di un percorso scolastico di soli tre anni, i bisogni apprenditivi ed educativi variano notevolmente non solo da alunno ad alunno, ma tra un’età e l’altra; per quanto riguarda, invece, l’organizzazione della funzione docente, è stata sottolineata la necessità di condivisione, scambio e negoziazione tra le insegnanti sia in fase di progettazione annuale (macroprogettazione) per la definizione di obiettivi comuni, sia durante l’a.s. nei momenti di microprogettazione delle UdA. Per quanto concerne la dimensione 2 della scelta di metodi e strumenti (articolata nelle seguenti domande: per ogni obiettivo di apprendimento è stata prevista un’attività corrispondente? Le scelte metodologiche e le tecniche utilizzate sono state coerenti agli obiettivi di apprendimento individuati?), dai dati emerge come molte insegnanti abbiano fatto corrispondere una o più attività per ogni obiettivo di apprendimento individuato (M= 4,21) (Fig. 6) e come si sia denotata, durante le attività, coerenza tra le scelte metodologiche, le tecniche utilizzate e gli obiettivi di apprendimento individuati (= 4,19) (Fig. 7). Le mediane si attestano al 4,5 e al 4, mentre la deviazione standard è simile nei due casi (rispettivamente 1,434 e 1,429).
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Tuttavia, nonostante la proposta laboratoriale abbia complessivamente dato buona risposta, dallo spazio aperto sono emerse criticità e bisogni in relazione ad alcune esigenze: – la necessità, ma anche la difficoltà, di legare le scelte metodologiche con gli obiettivi di apprendimento, aspetto invece ritenuto fondamentale per superare una didattica poco riflessiva e poco supportata dalla teoria, ancora praticata diffusamente nella scuola dell’infanzia secondo l’esperienza delle insegnanti; – l’allontanamento dalle finalità del corso di formazione se il lavoro svolto si ferma alla simulazione, come puro esercizio speculativo, non proponibile in situazione; – la necessità di poter avere un supporto formativo non saltuario e frammentario per giungere a momenti di restituzione del monitoraggio e dell’analisi del loro lavoro effettivamente svolto sul campo. 4.1 La dimensione della valutazione e il gradimento del corso di formazione La dimensione 3 della valutazione, che comprendeva le domande: ha compreso la funzionalità della rubrica di valutazione nel contesto della progettazione? Ha compreso la struttura globale della rubrica di valutazione? Ha riscontrato coerenza e adeguatezza degli strumenti di verifica rispetto alle attività svolte?, evidenzia una sostanziale comprensione della funzionalità della rubrica di valutazione (M= 3,93) (Fig. 8), della sua struttura globale (M=3,52) (Fig. 9) e un buon livello di coerenza e adeguatezza degli strumenti di verifica rispetto alle attività svolte (M=3,66) (Fig. 10). Le mediane sono rispettivamente 4, 3 e 4 mentre le deviazioni standard sono più alte nel primo caso (1,578), meno negli altri due (1,392 e 1,219).
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Dalle risposte aperte emerge diffusamente la difficoltà dell’utilizzo della rubrica, con specificazioni rispetto al suo significato nella scuola dell’infanzia, alla perdita di autonomia e flessibilità progettuale, alla necessità di un lungo lavoro di confronto in team, alla difficoltà nella definizione dei livelli e della distinzione tra dimensioni, criteri e indicatori. Le riflessioni conclusive sul percorso di formazione, 76% di rispondenti, sono state utilizzate come valutazione complessiva: è stato predisposto uno spazio aperto alla fine del questionario chiedendo di indicare fino a 3 punti di forza e altrettanti di debolezza. Riportiamo di seguito la sintesi categoriale: Punti di forza: – presentazione di argomenti nuovi con tematiche rilevanti in rapporto alla normativa introdotta; – modalità di formazione mista, frontale e laboratoriale (con il lavoro in piccolo gruppo), che ha messo in condizione di sperimentare e di mettere in gioco; – presentazione di format di lavoro per competenze che hanno aperto la discussione, il dibattito e la riflessione.
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Punti di debolezza: – difficoltà a ricondurre la modalità progettuale per competenze nelle pratiche già consolidate; – difficoltà nel rendere patrimonio comune la modalità progettuale, metodologica e valutativa; – criticità nell’utilizzo della terminologia e sua interpretazione; – complessità nella costruzione della rubrica; – difficoltà nella costruzione delle prove di verifica collegate alla rubrica.
5. Conclusioni e proposte Quando s’intraprendono percorsi di formazione a carattere riflessivo con modalità progettuali bottom-up, ispirati alla matrice della ricerca-intervento (Trinchero, 2002), sarebbe auspicabile avere riscontro dei risultati raggiunti a distanza di tempo, considerando le ricadute dell’attività formativa circa eventuali criticità riscontrate nelle pratiche didattiche, al consolidamento e alle rielaborazioni messe in atto nelle differenti realtà contestuali. Ciò può essere possibile tramite la somministrazione di un questionario di follow up a 6 mesi e/o ad 1 anno per vedere l’impatto reale della formazione, aspetto rilevabile solamente valutando se e in che modo la progettazione per competenza e gli aspetti implicati nella sua realizzazione sul campo abbiano cominciato ad entrare nelle routine degli insegnanti. La fattibilità di tale opportunità, proposta ai partecipanti e ai dirigenti responsabili, è ancora in fase di studio per ragioni di tempo e stanziamento di fondi e quindi al momento possiamo considerare ancora in progress la raccolta di dati. Da riscontri personali, certamente non annoverabili come dati da riportare, siamo a conoscenza che le proposte introdotte sono entrate con una certa consistenza nelle pratiche progettuali, metodologiche e valutative degli insegnanti ma ci riserviamo di precisare meglio in futuro. In generale, come abbiamo visto dall’analisi dei dati, abbiamo individuato alcuni elementi di forza e di criticità che hanno spinto a riflettere su aspetti a volte poco considerati.
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È parsa emergere con una certa rilevanza è la necessità di trovare momenti comuni di scambio e riflessione sulle attività di progettazione, conduzione e valutazione dell’azione didattica. Il problema si è concentrato sulla mancanza di tempo previsto per coordinamenti periodici, oltre a quelli istituzionali d’inizio e fine anno. In sostanza, le insegnanti hanno rilevato una spiccata esigenza di poter lavorare in ottica di una comunità di pratica professionale per affrontare meglio l’innovazione, gestire il cambiamento e interagire con il territorio e le famiglie. Considerando le difficoltà gestionali dell’orario degli insegnanti della scuola dell’infanzia, solo frontali, la soluzione più consona potrebbe essere quella dell’utilizzo degli strumenti 2.0. nell’ambito della digitalizzazione della scuola, secondo le indicazioni dell’Agenda Digitale MIUR. È in fase di elaborazione la proposta di corso di formazione sugli strumenti tecnologici 2.0 per la condivisione sociale degli apprendimenti e la costruzione di uno spazio in rete su piattaforma (ad accesso riservato) per la formazione continua e l’autoformazione degli insegnanti. Ciò potrebbe consentire il flusso continuo dello scambio informativo tra docenti e scuole, la condivisione di materiali, un forum di discussione aperto alla comunità professionale. Oltre a ciò l’adozione di pratiche di documentazione narrativa digitale (De Rossi & Restiglian, 2013) sarebbe utile azione per favorire la prassi valutativa e il miglioramento della qualità della comunicazione con l’utenza. Per quanto riguarda il passaggio alla “scuola per competenze” rimane, per una parte degli insegnanti, il dubbio (legittimo) che un’interpretazione trasformativa poco sorretta sul piano della ricerca e mal condivisa sul piano della prassi rischi di “snaturare” i percorsi già intrapresi e già più volte modificati forzatamente per adeguarsi alle tante riforme di cui la scuola è stata oggetto in un arco temporale veramente breve. Il timore è che tutto si trasformi nell’ennesimo “adempimento” burocratico, lasciando di fatto inalterata la didattica quotidiana, e che anzi forse finisca con l’appiattire le specificità della scuola dell’infanzia alle esigenze della scuola primaria, piuttosto che aprire a una prospettiva di lavoro integrato pensando anche, ad esempio, a una maggiore considerazione della continuità nella fascia 0-6 che tanti riscontri trova nella realtà educativa internazionale.
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Apprendere per imparare: formazione e sviluppo professionale dei docenti universitari. Un progetto innovativo dell’Università di Padova Ettore Felisatti • Università degli Studi di Padova • ettore.felisatti@unipd.it Anna Serbati • Università degli Studi di Padova • anna.serbati@unipd.it
Learning for teaching: educational and professional development for university teachers. An innovative project proposed by the University of Padova
Parole chiave: sviluppo professionale dei docenti, competenze pedagogiche, pratiche didattiche innovative, riflessione individuale e collettiva
This paper presents PRODID (PReparazione alla prOfessionalità Docente e Innovazione Didattica), a two-year research project started by University of Padova, which aims at developing strategies to support academic teachers to enhance their teaching and learning competences. According to the literature and previous researches on teacher conceptions of teaching (Gow, Kember, 1993; Kember, 1998; Samuelowicz, Bain, 200; Trigwell et al., 1994), PRODID will reach its goal through a mix-methods preliminary local analysis of teachers’ practices, beliefs and needs as well as of students’ opinion of teaching activities. In the second phase, the project will deliver training sessions for the professional development of new teachers to enhance their pedagogical competences as well as training for a pool of senior university experts (Learning Teaching Designers) with a role of mentoring, coaching and scaffolding in designing and implementing courses. Training effects will be measured during the whole implementation (Postareff et al., 2007). The final aim of the project, pioneer in the Italian context, is to build an academic Teaching and Learning Centre. The Research Group will develop project activities through 4 specific research units, with a multisciplinary approach, and continuous supervision by an external Scientific Committee of experts. Keywords: teacher professional development, pedagogical competences, innovative teaching practices, individual and collaborative reflection
Il contributo è il risultato di un lavoro comune degli autori, pensato in forma sinergica e condivisa, tuttavia, sono da attribuire ad Ettore Felisatti i paragrafi 1, 4 e 6, ad Anna Serbati i paragrafi 2, 3 e 5.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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L’articolo presenta PRODID (PReparazione alla prOfessionalità Docente e Innovazione Didattica), progetto biennale sviluppato dall’Università di Padova con l’obiettivo di sviluppare strategie di sostegno alla professionalità docente nello sviluppo di competenze di insegnamento e apprendimento. Nel quadro della letteratura e delle precedenti ricerche sulle concezioni di insegnamento (Gow, Kember, 1993; Kember, 1998; Samuelowicz, Bain, 200; Trigwell et al., 1994), PRODID si propone di raggiungere il proprio scopo attraverso un’analisi di contesto con un approccio mixed methods per identificare pratiche, credenze e bisogni dei docenti e mappare le opinioni degli studenti sulla didattica. Nella seconda fase, il progetto proporrà percorsi formativi rivolti ai docenti neoassunti per migliorare le competenze di insegnamento, ma anche a docenti esperti che assumano il ruolo di mentor (Learning Teaching Designers) di colleghi più giovani. Gli effetti dei percorsi proposti verranno monitorati nel corso della realizzazione (Postareff et al., 2007). Obiettivo ultimo del progetto sarà di costituire un Teaching and Learning Centre di Ateneo, il primo in contesto italiano. Il Gruppo di Progetto sviluppa le proprie azioni articolandosi in 4 unità di ricerca, secondo un approccio multidisciplinare, supervisionato da un Comitato di Saggi esterno, composto da studiosi di chiara fama.
Apprendere per imparare: formazione e sviluppo professionale dei docenti universitari. Un progetto innovativo dell’Università di Padova
1. Il ruolo dei docenti universitari nelle nuove sfide per la qualità della didattica
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Nel contesto del processo di Bologna e della Strategie Europa 2020, le università si trovano dinnanzi alla sfida del continuo cambiamento e della necessità di migliorare e sviluppare l’offerta formativa rivolta alla nuove generazioni. Un panorama accademico con studenti nuovi e diversificati, giovani e adulti, in presenza e a distanza, con un respiro sempre più internazionale e con un sempre maggiore dialogo con le organizzazioni del mondo del lavoro, porta ad interrogarsi su cosa voglia dire in questi tempi e in questi contesti qualità della didattica e quale sia quindi il profilo di un buon docente. Molte possono essere le definizioni di qualità (Harvey, Green, 1993); nelle istituzioni storiche il concetto richiama la dimensione di eccellenza nella ricerca e in parte nella proposta didattica; secondo altri approcci, la qualità è legata alla capacità dell’istituzione di soddisfare le esigenze di responsabilità pubblica del contesto. In altri contesti può essere interpretata come la capacità di ciascuna istituzione di rispondere agli obiettivi prefissati secondo la propria mission. Biggs (2001) parla di quality feasibility nelle istituzioni, ossia la questione di costruire opportunità che incoraggino lo sviluppo di buone pratiche. L’Autore (2003) distingue infatti tre livelli di pensiero sull’insegnamento: il primo concentra la responsabilità dei successi, ma soprattutto degli insuccessi, sullo studente; il secondo la concentra sul docente; il terzo integra insegnamento e apprendimento, quindi docente e studente, interpretando il buon docente come colui che incoraggia gli studenti a sviluppare le azioni più opportune per il raggiungimento dei risultati di apprendimento prefissati. Un buon insegnamento quindi stimola attività che permettano allo studente un apprendimento in profondità, non solo superficiale e, pertanto, temporaneo. La letteratura sull’insegnamento nell’istruzione superiore ha sviluppato numerosi filoni di ricerca che approfondiscono le concezioni dei docenti circa l’insegnamento (Gow, Kember, 1993; Kember, 1998; Samuelowicz, Bain, 2001; Trigwell, Prosser, Taylor, 1994) e la loro influenza sugli approcci e sulle pratiche didattiche. In molte ricerche viene sottolineato come il cambiamento nella pratica richieda un processo di modificazione del modo di insegnare che passa attraverso una modificazione delle concezioni dell’insegnamento. Le ricerca di Lacelle-Peterson e Finkelstein’s (1993) ha indagato l’influenza di alcune variabili relative al contesto, come il grado di innovatività delle attività didattiche assegnate ai docenti e di autonomia nel gestirle e l’opportunità di scambio e supporto tra colleghi, fattori che influiscono positivamente sulla motivazione e quindi sulle prestazioni didattiche. Se consideriamo un approccio didattico centrato sul docente (teacher-centered) e uno centrato sullo studente (student-centered) come gli estremi di un continuum di concezioni della didattica, si possono riscontrare numerosi profili differenti e dinamici di docente universitario, a seconda dei contesti, della disciplina e della cul-
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tura accademica di riferimento. L’approccio teacher-centered considera l’insegnamento come principalmente trasmissione di contenuti e conoscenze da persone più esperte a meno esperte; in questo caso, il buon docente è colui che possiede una buona conoscenza, aggiornata e basata su dati di ricerca, e che la propone nel modo più opportuno possibile per la sua memorizzazione. Al contrario, nell’approccio student-centered la dimensione trasmissiva è solo una delle componenti in gioco nell’intero processo, che si focalizza invece sull’apprendimento degli studenti: a partire dalla conoscenza di partenza che già posseggono, il docente facilita la loro riflessione e connessione tra concetti vecchi e nuovi, e della loro possibile applicazione nelle diverse situazioni. In quest’altro caso, il buon docente è colui che crea un ambiente di apprendimento ricco e stimolante, stabilisce chiari risultati di apprendimento da raggiungere e utilizza, a seconda della situazione, differenti metodologie didattiche e tecniche che favoriscano l’apprendimento. Le competenze dei docenti universitari, pertanto, oggigiorno sono senz’altro quelle disciplinari e teoriche, ma sono anche quelle pedagogico-didattiche di promozione di metrologie di insegnamento, apprendimento e valutazione adeguate, quelle organizzative e di comunicazione, quelle di scambio e di costruzione di una comunità di pratiche a livello nazionale e internazionale, quelle di miglioramento e apprendimento continui (Wilkerson, Irby, 1998). Sebbene poco considerata ai fini della progressione di carriera dei docenti, la didattica ha un forte impatto sull’andamento e sui traguardi di ogni Università, e rappresenta una leva strategica per il contributo universitario al progresso sociale. Per questo, le Università più prestigiose al mondo investono e si attivano per la promozione di un supporto permanente alla professionalità dei docenti universitari. Come riporta l’European Network for Quality Assurance in Higher Education (ENQA, 2007) le istituzioni dovrebbero avere modalità di garantire che il proprio staff di insegnamento sia competente anche rispetto alle capacità di insegnamento dei contenuti di cui è esperto. La qualificazione dell’istituzione passa, infatti, anche attraverso la qualificazione dei docenti, cui dovrebbe essere offerta l’opportunità di migliorare le proprie strategie didattiche. Hénard e Roseveare per conto dell’OECD nella la guida elaborata nell’ambito del Programma Istitutional management of Higher Education (2012) invitano le istituzioni di istruzione superiore a promuovere un insegnamento di qualità e rimarca l’importanza di mettere a punto politiche e pratiche che riconoscano la complessità dei contesti accademici e che puntino, con scelte funzionali e interventi strutturali, alla preparazione di ottimi insegnanti. L’High Level Group on the Modernisation of Higher Education nel report per la Commissione Europea on Improving the quality of teaching and learning in Europe’s higher education institutions (2013) propone, su questa linea, alcune raccomandazioni alle università focalizzate sulla qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento, affinché garantisca ai giovani conoscenze e abilità aggiornate, globali, connesse con il mercato del lavoro e ricettive per l’apprendimento futuro. Visto il ruolo di alta responsabilità dei professori universitari nel rendere gli studenti autonomi e artefici del proprio progetto personale e professionale, si afferma che tutto lo staff accademico dovrebbe aver ricevuto entro il 2020 una formazione pedagogica certificata. Inoltre, l’ingresso, la promozione e la progressione di carriera dei docenti dovrebbero tener conto di una valutazione delle performances di insegnamento assieme ad altri fattori legati alla ricerca e i leader delle istituzioni dovrebbero riconoscere e valorizzare i docenti meritevoli di contribuire all’innalzamento della qualità di insegnamento e apprendimento.
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2. Pratiche di sostegno alla professionalità docente: lo scenario internazionale
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Negli scorsi due decenni si è assistito ad un incremento delle attività di formazione alla docenza universitaria, in risposta soprattutto ai bisogni degli Atenei di accrescere le competenze dei professori rispetto a numeri sempre più crescenti di studenti provenienti da background molto diversi tra loro. Alcuni studi hanno già approfondito gli effetti dei teachers’ pedagogical training (Gibbs, Coffey, 2004; Postareff, Lindblom-Ylanne, Nevgi, 2007), alcuni analizzando anche i ruoli delle diverse discipline (hard o soft) rispetto agli approcci e ai metodi di insegnamento (Lueddeke, 2003). All’interno del quadro internazionale, molteplici Università hanno strutturato le proposte formative rivolte al personale docente attraverso la nascita di Centri universitari per l’eccellenza nell’insegnamento e nell’apprendimento e lo sviluppo dei docenti (Centers for teaching and learning excellence and Faculty development) o più in breve detti Centri per l’insegnamento e l’apprendimento (Teaching and Learning Centres). Tali strutture, ampiamente diffuse in contesto nordeuropeo e americano, hanno proprio l’obiettivo di promuovere iniziative di training per docenti, consistenti per esempio in brevi corsi o workshops, sia a inizio carriera che durante la professione, risorse e materiali online, incontri tra pari, osservazione delle lezioni e feedback per il miglioramento, ecc. In alcuni Paesi, la frequenza ad una formazione pedagogica (e la relativa certificazione) è condizione necessaria per l’abilitazione all’insegnamento, in altri invece è ad adesione volontaria, ma costituisce punteggio per la progressione di carriera. Nella maggior parte dei Paesi, l’organizzazione è centralizzata e gestita dall’istituzione deputata all’organizzazione di corsi, progetti ed eventi, mentre in alcuni altri è affidata a strutture inserite nelle facoltà o nei dipartimenti, in raccordo con l’unità centrale. I Teaching and Learning Centres offrono spesso una vasta gamma di attività, solitamente prevedendo moduli di base sulla programmazione didattica e sulle metodologie di insegnamento, apprendimento e valutazione, ma anche moduli più avanzati, che invece approfondiscono alcuni aspetti specifici. Una dimensione rilevante di questi centri è spesso la connessione con l’attività di ricerca: un approccio evidence-based si configura come un valido metodo per verificare l’efficacia delle azioni proposte e, attraverso riscontri positivi, ampliare il raggio d’azione e il riconoscimento sociale del Centro. Nella tabella 1 si presentano, senza pretesa di esaustività, alcune delle azioni formative più diffuse che è possibile riscontrare visitando i siti e leggendo i report annuali di alcuni Centri a livello internazionale.
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Le proposte formative rivolte al personale docente hanno l’obiettivo di promuovere riflessione trasformativa (Mezirow, 1991) di ciascuno sulle proprie pratiche didattiche, pertanto privilegiano metodologie interattive quali lavori di gruppo, esercitazioni, problem based learning, peer mentoring, con strumenti di approfondimento guidati e momenti di interazione tra pari e con gli studenti. Un elemento importante, accanto alla proposta di metodologie didattiche che possano costituire il repertorio del docente, è quello di supportare i professori nella presa di consapevolezza delle proprie concezioni e credenze sull’insegnamento congiuntamente alla capacità di leggere il contesto e l’influenza che esso esercita nelle scelte didattiche e valutative. L’esperienza del SoTL, Scholarship of Teaching and Learning, fondata nel 1990 da Ernest Boyer, vanta ormai una storia di oltre 25 anni e costituisce un’opportunità di approfondita ricerca sulla pratica didattica, finalizzata alla pubblicazione dei risultati e quindi a divenire oggetto di revisione critica da parte della comunità scientifica e spunto per ulteriori riflessioni. Come ci ricordano Ghislandi e Raffaghelli (2014), ben lungi dal considerare la didattica come attività sussidiaria della ricerca, il SoTL offre, se ben condotto e all’interno di un contesto favorevole, l’opportunità di creare forme di condivisione e co-valutazione orientate allo sviluppo e al miglioramento continuo. Esso rappresenta un modo per superare la dicotomia tra ricerca e didattica, creando prospettive che valorizzano la ricerca pedagogico-didattica e metodologica e la loro applicazione alla specifica disciplina insegnata. Le azioni dei diversi contesti europei e internazionali, seppure differenti nelle pratiche e nei contesti culturali di riferimento, trovano connessioni e scambi nelle reti nazionali più o meno formalizzate che si occupano di sviluppo professionale dei docenti universitari e in genere di educational development. Questi network nazionali di promozione di buone pratiche in campo di insegnamento e apprendimento accademico sono riunite nell’ ICED, International Consortium for Edu-
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cational Development1, un consorzio mondiale per la promozione dello sviluppo accademico che ha lo scopo di promuovere e sostenere la conoscenza e comprensione di tutti gli aspetti che riguardano lo sviluppo dell’istruzione superiore. Queste esperienze internazionali ci ricordano che la professionalità didattica di un docente universitario dovrebbe basarsi sull’equilibrio di tre fattori e processi (Margiotta, 2014): lo sviluppo della ricerca in specifiche branche del sapere (disciplinare), i processi di apprendimento degli studenti nel loro concreto dispiegarsi e i saperi metodologico-didattici a supporto dei contenuti disciplinari. Scegliere un metodo piuttosto che un altro significa attivare forme di pensiero e di ragionamento differenti negli studenti, significa anche perseguire obiettivi di apprendimento diversi, privilegiando un apprendimento più mnemonico o descrittivo o esplicativo o di comprensione o di argomentazione o di ipotesi fino ad uno più riflessivo. John Biggs (2003) ci ricorda infatti con la teoria dell’allineamento costruttivo come la progettazione di un percorso didattico ottimizzi le condizioni per la qualità dell’apprendimento, costruendo un ambiente di insegnamento coerente in cui modalità di insegnamento e pratiche di valutazione sono allineate agli scopi dell’insegnamento. Lo sforzo primario del docente è quindi quello di definire i risultati di apprendimento degli studenti e considerarli lo scopo essenziale dei processi di apprendimento e insegnamento2.
3. Innovazione e professionalità docente nel contesto nazionale Il Italia, come ricorda Giovannini (2010), non sono mancati fermenti e iniziative negli anni Settanta che hanno introdotto metodologie didattiche alternative e adatte alla popolazione studentesca, ma senza riuscire a proporsi come modello di formazione alternativo per l’università a quello tradizionalmente trasmissivo (Gattullo, 1986). D’altro canto, l’avvento delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha sostanzialmente modificato i bisogni degli studenti e le loro
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ICED fornisce supporto ai network nazionali e sostiene le organizzazioni partner a sviluppare la propria capacità di sviluppo educativo dell’istruzione superiore attraverso la condivisione di pratiche, problemi e soluzioni, organizzando periodiche conferenze ed eventi comuni. www.icedonline.net. Nell’ultima conferenza ICED, svoltasi a Stoccolma nel giugno 2014, è stato presentato il progetto PRODID. Cfr: E. Felisatti, A. Serbati (2014). The professional development of teachers: from teachers’ practices and beliefs to new strategies at the university of Padua, Proceedings of the ICED conference Educational development in a changing world, Stockholm, 16-18 June 2014, available online at: http://www.iced2014.se/proceedings.shtml La dimensione costruttiva richiama appunto la costruzione di significati che realizzano gli studenti, messi in condizione di esperire rilevanti attività di apprendimento e di conoscere gli obiettivi attesi dell’apprendimento. Il coinvolgimento degli studenti, inoltre, consiste nel farli riflettere sul loro processo di apprendimento e sulle loro percezioni e opinioni in merito al processo, ancorando nuove conoscenze a conoscenze precedentemente maturate e applicandole in situazioni differenti. La dimensione di allineamento, invece, si riferisce al fatto che il docente, per l’appunto, allinei l’ambiente di apprendimento, quindi le metodologie di insegnamento e di valutazione ai risultati che gli studenti dovranno raggiungere, affinchè vi sia coerenza tra quanto insegnato, quanto valutato e quanto appreso.
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modalità di apprendimento, richiedendo ai docenti competenze progettuali per organizzare ambienti integrati di apprendimento, metodologico-didattiche per gestire esperienze educative simulate e linguistico-espressive per produrre materiali multimediali interattivi nelle diverse discipline (Galliani, 2002). Il contesto italiano, come descrive Galliani (2011), accusa un ritardo culturale della didattica nel sostenere il ridisegno dei percorsi formativi sulla base non solo delle conoscenze di base, ma anche delle competenze culturali e professionali mirate all’occupabilità e nella valorizzazione della centralità dell’apprendimento al posto dell’insegnamento. L’Autore identifica tre questioni e piste di miglioramento verso una didattica più efficace per l’apprendimento degli studenti: la prima è la costituzione di efficienti servizi di supporto (orientamento, tutorato, Erasmus, tirocinio, job placements) con più chiare ed integrate connessioni con le azioni formative e didattiche. Il secondo aspetto sottolineato è la progettazione curricolare, intesa come costruzione di competenze e learning outcomes pertinenti e negoziati con le parti sociali (Lokhoff et al., 2010), ma anche come riflessione epistemologica sui contenuti delle discipline e sulle loro finalità formative e professionalizzanti, in ottica integrata e multidisciplinare. Terzo e ultimo nodo proposto è quello dei paradigmi di apprendimento funzionali ad un innalzamento della qualità della didattica. Ciò richiama la necessità di una gamma di metodologie didattiche che richiedano agli studenti una strutturazione autonoma del loro sapere e una partecipazione attiva al ragionamento sui temi cruciali della disciplina, e attribuisce quindi ai docenti il compito di creare contesti di apprendimento che facilitino un apprendimento profondo e significativo. Citando Luzzatto e Stella (2010, p. 27), si può affermare che “il porre al centro del progetto formativo non l’insegnamento del professore bensì l’apprendimento dello studente – opzione centrale nel processo di Bologna – rappresenta infatti una rivoluzione copernicana, e in questi casi si sono sempre incontrate resistenze di chi permane in una mentalità tolemaica”. L’impegno degli Atenei italiani nella predisposizione di sistemi per la rilevazione della qualità della didattica e della formazione, sia pure finalizzati soprattutto alle procedure per l’accreditamento previste dall’ANVUR, offre dati e informazioni che accentuano l’attenzione del mondo accademico alle problematiche dell’insegnamento e dell’apprendimento. In parallelo, con l’affermarsi di modelli e processi efficaci di valutazione, si rafforza la consapevolezza che per innovare non basta valutare e riflettere sugli esiti conseguiti, bisogna qualificare le risorse umane e professionali attive sul campo (Felisatti, 2011). Occorrono investimenti mirati e sostanziali, nelle culture e nelle strutture, per innescare dinamiche di revisione degli approcci consolidati e stabilire circuiti di rielaborazione di assetti, metodologie e pratiche formative. Simili processi implicano l’affermarsi di un “governo sociale” dell’azione formativa, dove, in primis, la comunità dei docenti affronta il nuovo ponendosi in relazione con la comunità degli apprendenti (Felisatti, 2011a) e procede attraverso ricerca, riflessione e apprendimento nell’elaborare efficaci competenze professionali per l’innalzamento dei livelli di qualità nella didattica e nella formazione. Sembra oramai imprescindibile la strada del rinnovamento dell’insegnamento, dell’interazione e valorizzazione degli studenti, del dialogo con gli stakeholder del territorio e con la comunità internazionale. Tuttavia, l’azione di insegnamento, pur contribuendo notevolmente alla visibilità pubblica del docente e dell’organizzazione universitaria, si colloca ad un livello secondario e non trova in termini di riconoscimento effettivo un peso equivalente all’investimento che viene richiesto al docente (Quinlan, 2002). Nel quadro complessivo dei valori riconosciuti nel
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contesto universitario, occorre infatti riequilibrare i rapporti fra ricerca e didattica (Messina, Zambelli, 2008), recuperando a quest’ultima un adeguato spazio di riconoscimento necessario per rafforzare la motivazione ad investire nell’insegnamento da parte dei docenti. Le azioni pilota sul territorio italiano in questa direzione, come quella descritta nel paragrafo seguente del progetto PRODID, Preparazione alla PROfessionalità Docente e Innovazione Didattica attivato dall’Università di Padova, dovrebbero pertanto poter trovare raccordo e riconoscimento a livello nazionale. Se, infatti, da un lato, le azioni di sostegno e miglioramento della didattica non possono prescindere da una logica di sistema e di raccordo tra livelli organizzativi universitari (strutture centrali, dipartimenti, scuole, corsi di studi, gruppi di docenti), non limitandosi ad azioni mirate sui singoli, dall’altro, il sistema di carriere dei docenti dovrebbe andare in direzione di valorizzare e riconoscere l’azione e l’impegno didattico dei docenti.
4. Il progetto PRODID 330
In questo scenario l’Università di Padova ha attivato alla fine del 2013 il progetto PRODID, Preparazione alla PROfessionalità Docente e Innovazione Didattica, con l’obiettivo di promuovere sostegno alla docenza universitaria patavina, attraverso il coinvolgimento attivo dei docenti verso un innalzamento continuo della qualità nella loro pratica professionale (Felisatti, Serbati, 2014). Il progetto si sviluppa nell’arco di due anni e mira a costruire un ambito permanente di studio e ricerca sulle problematiche dell’insegnamento universitario e della valutazione della didattica (Semeraro, 2006). In quest’ottica, esso intende proporsi come esperienza preparatoria alla formalizzazione di un futuro Teaching and Learning Center (d’ora in poi TLC), puntando alla promozione di interconnessioni dinamiche e proficue fra la nuova e più complessa professionalità del docente universitario, la formazione e il sostegno alla professionalità docente, la ricerca nel campo della didattica e della valutazione e l’innovazione nell’ambito della didattica. Il Centro vorrà infatti costituirsi quale ambito permanente di studio e ricerca sulle problematiche e sugli esiti della valutazione della didattica e sulle traiettorie di miglioramento delle strategie di insegnamento e apprendimento. Esso si configurerà come polo per una riflessione approfondita sulla professionalità docente, basata su analisi e ricerche sugli aspetti dell’insegnamento, approfondendone le configurazioni specifiche relative al rapporto docente-allievi (principi e strategie metodologiche, ambienti di apprendimento, modelli di interazione, strumenti didattici), alle strutture curricolari e al contesto organizzativo. Affinché l’azione di PRODID possa considerarsi integrata con la struttura universitaria e quindi impattante sulle logiche di qualità della didattica, e di valutazione e accreditamento richieste a livello nazionale, esso dialoga con gli Organismi e gli Uffici già operanti rispetto al campo della didattica, con i Dipartimenti, il Presidio di Ateneo per la qualità della didattica, il Nucleo di Valutazione e con i Corsi di studio. Il Gruppo di Progetto, inoltre, collabora attivamente con strutture quali il Centro Linguistico di Ateneo, il Servizio Accreditamento, Sistemi Informativi e Qualità della Didattica e il Centro Multimediale E-learning di Ateneo. Per garantire scientificità e rigore alle azioni progettuali, è stato istituito un
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Comitato dei Saggi3, con il compito di supervisionare i lavori e le attività e stimolare, orientare, sostenere e valutare l’azione del Gruppo di Progetto nella definizione e raggiungimento degli obiettivi di ricerca e sviluppo, rispetto all’ innovazione e al miglioramento. Da ultimo, va richiamato come il progetto si collochi all’interno di un network di Università straniere, soprattutto europee e statunitensi, in cui operano da tempo qualificati Teaching Learning Centres e dalla cui esperienza scientifica ed empirica PRODID può beneficiare. Il progetto, per raggiungere gli obiettivi sopraccitati, viene sviluppato da un Gruppo di Progetto, costituito da docenti, ricercatori, assegnisti e dottorandi dell’Ateneo patavino provenienti da ambiti disciplinari diversi, ai fini di generare prospettive integrate e sostenibili di formazione e supporto alla docenza, grazie alla fruttuosa contaminazione delle diverse provenienze (pedagogica, sociologica, psicologica, economica, statistica, chimica)4. I componenti del Gruppo di Progetto si articolano in quattro unità di ricerca (UR) che sviluppano studio, approfondimento e azioni rispetto a focus specifici, riportati in tabella 2. Le UR agiscono in modo complementare e integrato rispetto alle altre unità, con momenti di autonomia e necessarie convergenze rispetto agli strumenti e ai processi gradualmente elaborati.
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Il Comitato è composto da studiosi di chiara fama nazionale e internazionale: proff. Joellen Coryell, Texas State University; Alessandro Cavalli, Centro Studi e Ricerche sui Sistemi di Istruzione Superiore dell’Università di Pavia; Alessandro Schiesaro, Università Roma La sapienza e High Level Group on the Modernisation of Higher Education; Francesca Soramel, Università di Padova; Robert Wagenaar, International Tuning Academy; Vincenzo Zara, Università del Salento e CRUI. Ettore Felisatti è Responsabile Scientifico di progetto e Anna Serbati è coordinatrice dello stesso. Il Gruppo di Progetto si articola in 4 unità di ricerca ed è così composto: - UR 1: Ettore Felisatti, Monica Fedeli, Michelangelo Vianello, Fiona Dalziel, Anna Serbati. - UR 2: Luigi Castelli, Marina De Rossi, Claudio Riva, Mario Giampaolo, Cecilia Dal Bon, Angelo Calò, Dario Da Re, Cinzia Ferranti. - UR 3: Gianpiero Dalla Zuanna, Renata Clerici, Massimo Castagnaro, Debora Aquario, Cristina Mazzucco, Adriano Paggiaro, Omar Paccagnella, Sabrina Martinoia, Cristina Stocco, Silvia Pierobon, Valentina Grion. - UR 4: Paolo Gubitta, Enzo Menna, Martina Gianecchini.
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Tab. 2: finalità e attività delle 4 Unità di Ricerca di PRODID
5. Dalla ricerca alle prospettive di azione sul campo Nel corso della prima annualità, presentata in figura 1, è stata realizzata l’analisi del contesto patavino. A questo proposito, si è scelto di far emergere pratiche, bisogni e rappresentazioni dei docenti in merito all’adeguatezza della propria azione professionale, procedendo anche all’individuazione di buone pratiche di insegnamento-apprendimento che potessero costituire un contesto privilegiato per lo sviluppo di azioni formative innovative.
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Fig. 1 - Articolazione della prima annualità di progetto PRODID
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Secondo un approccio mixed methods (Tashakkori, Teddlie, 1998), sono stati predisposti percorsi e strumenti quantitativi e qualitativi (come riportato in tabella 3) per conoscere in forma specifica la realtà docente e le dimensioni della didattica nell’ateneo, sviluppando altresì percorsi di studio e approfondimento dei risultati della valutazione della didattica realizzata nell’Ateneo. QUESTIONARIO RIVOLTO AI DOCENTI DELL’ATENEO PATAVINO
Il Gruppo di progetto ha provveduto alla costruzione di un questionario che è stato rivolto ai docenti dell’Ateneo di Padova che hanno svolto nell’anno accademico 2012/13 almeno una attività didattica con un impegno di almeno 28 ore di lezione. La costruzione del questionario ha utilizzato come riferimento di letteratura il Framework of teaching elaborato da Tigelaar e colleghi (2004). Le dimensioni indagate, derivate dal Framework of Teaching, sono state le seguenti: - The Person as Teacher - Expert on Content Knowledge - Facilitator of Learning Processes (developer, counsellor, evaluator) - Organiser - Scholar/Lifelong Learner. Nella costruzione degli item, il Gruppo di progetto ha integrato le dimensioni sopraccitate con gli interessi specifici delle 4 unità di ricerca, articolando un questionario con 30 item suddiviso in sezioni di interesse: pratiche, credenze/rappresentazioni e bisogni dei docenti. Il questionario è composto di due parti: la prima, composta da 10 domande, indaga quali pratiche didattiche il docente svolge abitualmente durante le ore di didattica di un particolare insegnamento. La seconda, composta di 20 domande, è volta a comprendere quali sono le credenze e i bisogni che il docente sente in modo più urgente nel fare didattica e ricerca. Sono state inoltre inserite tre domande finali e risposta aperta e un quesito sulla disponibilità ad essere ricontattati. Il questionario, pertanto, ha assunto come unità di analisi sia il singolo docente, sia le attività didattiche da lui svolte.
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INTERVISTE E FOCUS GROUP AD UN CAMPIONE DEI RISPONDENTI
Il questionario ha permesso di avere un primo quadro di analisi del contesto patavino. Le prime analisi effettuate sui dati sono state finalizzate ad individuare tra i rispondenti potenziali docenti di interesse che presentassero sia disponibilità ad essere contattati sia interesse per possibili interventi innovativi per la didattica. Sono stati individuati alcuni criteri (desunti dalle risposte date ai quesiti riferiti alle aree di interesse) per la determinazione dei sottogruppi di potenziali partecipanti alle attività previste nella fase qualitativa dell’indagine tra i docenti: interesse, disponibilità al contatto, esperienza tecnologica e didattica, livello di soddisfazione degli studenti, risposte fornite alle domande finali a risposta libera. Identificate in questo modo le graduatorie di priorità circa l’eleggibilità dei docenti alla fase di indagine qualitativa, si è scelto di procedere secondo due piani, predisponendo gli strumenti di intervista da rivolgere ai docenti da cui siano emerse rilevanti elementi di eccellenza didattica e di focus group destinata all’emersione dei bisogni di supporto al miglioramento. Tab. 3 - Gli strumenti della ricerca: il questionario PRODID, le interviste e i focus group5
334 Da questi elementi di contesto locale, in una cornice europea e globale, sarà infatti possibile predisporre un piano formativo rivolto ai docenti, in particolar neoassunti, dell’Ateneo che risponda alle reali necessità di crescita e miglioramento. In parallelo all’analisi del contesto, è stata condotta una ricognizione dello stato dell’arte della formazione della docenza in ambito accademico a livello internazionale, identificando e analizzando le esperienze maggiormente accreditate, soprattutto in ambito europeo e americano, rispetto alla tematica del progetto. La costituzione di una rete internazionale di riferimento e di confronto con alcune università straniere e l’analisi di modelli di pratiche formative rivolte alla docenza ormai consolidati consentono di avere una visione di sistema e articolazioni innovative in merito alla didattica, alle tecnologie e all’azione organizzativa. Al termine della fase di ricerca, prenderà avvio la fase sperimentale di progetto. Nel corso della seconda annualità, illustrata in figura 2, è infatti prevista l’implementazione di un percorso formativo multilivello, declinato in relazione ai diversi obiettivi formativi e alle specificità dell’utenza in entrata. Si predisporranno momenti d’aula tenuti da esperti, esperienze laboratoriali, attività di simulazione e di scambio tra pari, allo scopo di costruire “teaching commons”, in cui i docenti implicati, come una learning community, costruiscano e condividano insieme una cultura della ricerca e dell’innovazione per l’insegnamento e l’apprendimento. L’azione formativa innovativa si svolgerà attraverso tre linee principali: – Formazione di base e mirata: attraverso alcune esperienze pilota di sperimentazione assistita, si accompagnerà il docente nel percorso di progettazione, conduzione e valutazione dei propri insegnamenti, aiutandolo a costruire un
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Per maggiori informazioni rispetto agli strumenti utilizzati nell’indagine e ai risultati si rimanda al numero monografico della rivista Excellence and Innovation in Teaching and Learning. Research and Practices dedicato agli Atti del Convegno Preparazione alla professionalità docente e innovazione didattica – PRODID, svoltosi a Padova il 30 giugno 2014.
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quadro di raccordo con l’articolazione formativa e gli obiettivi stabiliti dai Corsi di studio. L’intervento formativo si articolerà in un’azione di formazione di base, a prevalente carattere informativo-applicativo e di sviluppo, rivolta ai docenti neoassunti. La formazione di base si coniugherà con quella rivolta ai docenti in servizio polarizzata su un modello di formazione mirata a carattere pratico-esperienziale, centrata su alcuni aspetti specifici dell’insegnamentoapprendimento (ad es. la supervisione accademica, l’uso delle tecnologie, le metodologie learning based, ecc.). – Costituzione in via sperimentale di un pool di esperti (Learning Teaching Designers-LTD) nel campo della progettazione e gestione della didattica, individuati nell’ateneo tra i docenti in servizio, che, attraverso uno specifico percorso formativo di ordine riflessivo-trasformativo ed esperienziale, verranno preparati ad esercitare verso i docenti più giovani funzioni di mentoring, coaching, scaffolding e fading. Seguendo i modelli e le buone pratiche internazionali, la valorizzazione di docenti di diverse discipline che si distinguano per le loro azioni didattiche di qualità risulta essere una strategia vincente di miglioramento e l’apprendimento tra pari e tra senior/junior. – Coinvolgimento di alcuni corsi di laurea, con le rispettive Scuole e Dipartimenti di afferenza, maggiormente impegnati su processi innovativi con i quali, in base alle esigenze in essi presenti, avviare attività di “cantiere” di sperimentazione per migliorare e innovare l’offerta didattica, le strategie di insegnamento e apprendimento, l’uso delle tecnologie, l’attivazione di processi di valutazione.
Fig. 2 - Articolazione della seconda annualità di progetto PRODID
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Le attività sperimentali prevedranno alcuni momenti di socializzazione in Ateneo e diffusione delle proposte effettuate e dei risultati (anche provvisori) ottenuti mediante worskhops informativi e attività di condivisione. Le azioni di progetto vengono e verranno costantemente monitorate e valutate attraverso strumenti di rilevazione dell’efficacia e dell’efficienza di processo, prodotto e impatto. I fenomeni saranno vagliati in fase iniziale, in itinere e finale, ciò permetterà di operare sia in previsione di eventuali rivisitazioni/rimodulazioni/ miglioramenti durante l’iter operativo, sia con l’obiettivo di una valutazione effettiva degli esiti conseguiti al termine dei percorsi realizzati.
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Conclusioni
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Il progetto PRODID, pioniere nello scenario italiano, persegue l’ambizioso obiettivo di creare un sistema di formazione e supporto alla docenza universitaria in prospettiva dell’innovazione e del miglioramento della didattica universitaria patavina. Numerosi sono gli approcci in letteratura e nelle buone pratiche internazionali, ciascuno con punti di forza e punti deboli, che necessitano di essere considerati e analizzati, congiuntamente ai dati emergenti dalla ricerca empirica svolta in questa annualità di avvio, prima di compiere le scelte relative alle azioni progettuali. Come ricorda Diamond (2002), per migliorare la qualità della didattica si possono seguire almeno tre strade. Il primo approccio si focalizza sui docenti (faculty development) e sulle loro competenze, fornendo percorsi formativi e di crescita della loro pratica didattica e di motivazione al miglioramento e all’attenzione rivolta all’apprendimento dei propri studenti. Il secondo approccio si focalizza sugli studenti, i corsi e i curricola (instructional development) e quindi sulla sistematica valutazione e ridisegno dei corsi e dei programmi, innovandoli nei contenuti e nei metodi e raggiungendo performances degli studenti sempre migliori. L’ultimo modello si focalizza su strutture e processi (organizational development) ed è il più ambizioso, tanto che spesso richiede l’intervento di consulenti esterni: esso infatti si concentra sull’analisi organizzativa dei compiti delle diverse strutture e unità accademiche ai vari livelli di management e delle loro relazioni, diagnosticando problemi istituzionali e cercando di risolverli, migliorando il clima e la produttività. Ogni istituzione, considerando i propri bisogni, la propria mission e il contesto di appartenenza, è chiamata a scegliere l’approccio più opportuno o, per meglio dire, la migliore combinazione di approcci. Infatti, una dimensione didattica di qualità è quella integrata di coinvolgimento dei singoli docenti, del meso livello di management (corsi di studio) e della struttura politico-amministrativa.
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! Fig. 3 - La logica integrata degli approcci allo sviluppo di una didattica di qualità (adattamento da Diamond, 2002)
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Al pari, il supporto all’insegnamento avviene attuando nella comunità docente una sensibilizzazione progressiva verso rappresentazioni condivise della qualità dell’insegnamento, e si dispone come operazione culturale che punta allo sviluppo dell’eccellenza e all’innovazione didattica come motore del cambiamento. Ciò porta a rafforzare l’interdipendenza di tre livelli fondamentali che devono interagire fra di loro: – quello istituzionale, che richiede la predisposizione un progetto politico-strategico centrato sul sostegno alla docenza e inserito nell’organizzazione e nei sistemi di qualità interni ed esterni all’ateneo; – quello dei programmi, in cui prendono corpo azioni funzionalmente e strutturalmente coordinate per misurare, promuovere e innalzare gli standard di qualità sia negli assetti progettuali e gestionali della didattica, sia nelle pratiche di insegnamento apprendimento; – quello individuale, in cui la flessibilità dell’offerta permetta al docente di individuare piste di sviluppo personale, sulla base di proposte e iniziative che lo incoraggino a innovare la didattica e a sostenere il miglioramento dell’apprendimento degli studenti, nell’interazione con la comunità docente. La sfida di PRODID è notevole, si tratta infatti di promuovere una riflessione ampia e documentata a più livelli, per comprendere bisogni, elaborare proposte, valutare esiti. Per questo occorre disporre di buoni strumenti di studio e ricerca che, attraverso approcci evidence-based, permettano di indagare orientare, monitorare e apprezzare successi e insuccessi, sostenendo il miglioramento in progress. L’obiettivo è infatti quello di creare una comunità in cui l’apprendere dai propri errori costituisca la base del miglioramento e del ripensamento verso una organizzazione e una didattica sempre più efficace e centrata sullo studente. Un approccio profondo di dialogo tra pari e tra soggetti con responsabilità ai diversi livelli dell’organizzazione mira, infatti, a generare una riflessione individuale e collettiva, non finalizzata esclusivamente all’apprendimento di nuove metodologie o tecniche per l’insegnamento, ma volta alla elaborazione concettuale di modi più appropriati per creare formazione qualificata, innovando pratiche didattiche, culture e sistemi.
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Dalla prospettiva di studente a quella di docente Pier Giuseppe Rossi • Università degli studi di Macerata, piergiuseppe.rossi • @unimc.it Ljuba Pezzimenti • Università degli studi di Macerata • ljuba.pezzimenti@unimc.it
From student to teacher perspective The contribution describes the laboratory of Didactics of the first year of the degree course for primary school teacher training. The lab was activated with the aim of approaching prospective teachers to a professional vision. Such change has fostered the participation in laboratory activities in which the student reflects on his/her own vision about teaching and learning by building a metaphor-collage that reifies his/her vision of teaching and in which the student analyzes videos. Such activity, in alternation with lectures of the course in General didactics, create situations of structural coupling, that is, it lets students articulate, thanks to the interaction with the “dispositf” in which act, a personal perspective that dialogues with the “savy knowledge”.
Parole chiave: formazione docente, laboratorio, enattivismo, analisi video, accoppiamento strutturale, autonomia
Keywords: teacher training, workshop, enactivism, video analysis, structural coupling, autonomy
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Il contributo descrive il laboratorio di Didattica generale del primo anno del corso di laurea in Scienze della formazione primaria attivato con la finalità di avviare nei futuri insegnanti una visione professionale. Tale cambiamento è favorito dalla partecipazione ad attività laboratoriali in cui lo studente riflette sulla propria visione di insegnamento e apprendimento costruendo un collagemetafora che reifica la propria immagine di insegnamento e analizzando video. Tali attività, intervallandosi con le lezioni frontali del corso di didattica generale, creano situazioni di accoppiamento strutturale, ovvero consentono allo studente, grazie all’interazione con il dispositivo in cui opera, di articolare un proprio punto di vista che dialoga con il “sapere sapiente”.
Dalla prospettiva di studente a quella di docente
1. Stato dell’arte
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Un principio che ricercatori di ambito educativo, anche appartenenti a paradigmi differenti, ritengono fondante per la qualità dell’apprendimento è partire dal patrimonio personale con cui lo studente approccia il percorso di studio. Per Ausubel l’apprendimento può essere significativo, sia che avvenga per ricezione che per scoperta, purché si crei un ponte tra le conoscenze già possedute e le conoscenze nuove (Ausbel, 1978). Merrill pone come secondo tra i suoi principi dell’istruzione l’ “activation”, ovvero l’attivazione di conoscenze o esperienze precedenti (1994). Per Gagné la stimolazione e il recupero delle conoscenze pregresse è il terzo principio dell’istruzione (Gagné et al., 1992). Per l’enattivismo (Varela et al., 1993) il nuovo stato è frutto della ristrutturazione degli schemi concettuali precedenti e si concretizza in base alla struttura interna del sistema e agli input ricevuti dall’esterno. Per tale prospettiva non solo le esperienze precedenti costituiscono un patrimonio da cui non si può prescindere, ma è la struttura del sistema che determina gli effetti degli input e delle perturbazioni che provengono dall’esterno, siano essi eventi casuali o interventi mirati. Tra ciò che lo studente universitario “si porta dietro” dall’esperienza di studio precedente e che incide sulle sue motivazioni e partecipazione, Laurillard (2015) individua la concezione di conoscenza che ha elaborato. Propone tre modelli possibili: – una posizione dualistica della conoscenza come vera o falsa, di cui è responsabile un’autorità; – una visione aperta della conoscenza come una molteplicità di posizioni di valore uguale; – una visione della conoscenza relativizzata e contestualizzata, che richiede un impegno personale dello studente perché sia allineata ai propri valori (ivi, p. 55). Se focalizziamo ora l’attenzione sulla formazione degli insegnanti, gli studenti entrano nel percorso di studio universitario con concezioni su apprendimento, insegnamento e ruolo del docente (Borko, 2004; Korthagen, 2010; Seidel e Stürmer, 2014). Se nella formazione di ogni professionista è possibile individuare la presenza di concettualizzazioni iniziali sulla futura professione, solo per gli insegnanti questo è viziato da ruoli effettivamente e a lungo vissuti. Il futuro insegnante ha elaborato i concetti di insegnamento e apprendimento in base alle esperienze vissute nei 13/16 anni passati come studente tra i banchi, concezioni di cui spesso non è consapevole. Tali concezioni sono state elaborate dalla prospettiva di studente. Come si cercherà di dimostrare nel contributo la prospettiva incide sulle concettualizzazioni. Per avviare il futuro insegnante a una visione professionale il primo passo è acquisire consapevolezza delle concezioni che ha elaborato, spesso inconsciamente, su insegnamento, apprendimento e insegnante. Tali concezioni influenzeranno
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comunque la filosofia educativa del futuro docente e la filosofia educativa è un elemento fondante dell’identità professionale (Seldin, 2004). La filosofia educativa racchiude in sé i valori che si pongono a fondamento della professione, le convinzioni su cosa sia insegnamento e apprendimento, sul modo di apprendere e di insegnare, sulle motivazioni che spingono a intraprendere la professione di insegnante (Polany, 1979). L’elaborazione di una propria filosofia educativa dipende dal sapere sapiente e dalla struttura interna del soggetto. I riferimenti al sapere sapiente e alla struttura interna sembrano in antitesi. Il contributo cerca di comprendere, ed è questa la sua finalità principale, come possa essere presente e tenuta viva nella formazione dei docenti la relazione “ambigua” tra sapere sapiente e autonomia del futuro insegnante. Per affrontare tale ambiguità si introduce il concetto di accoppiamento strutturale, proprio dell’enattivismo (Rossi, 2011). Proulx, richiamandosi alle teorizzazioni di Varela e Maturana, scrive che la conoscenza non è né fuori da noi (approccio rappresentazionista) né solo in noi (approccio solipsista); è nello spazio di emergenza dove conoscente e conosciuto si incontrano e si co-influenzano (2008).
La conoscenza emerge nello spazio in cui i due poli si incontrano ed è il risultato di un’interazione e di una reciproca modificazione Varela e Maturana introducono il concetto di accoppiamento strutturale per descrivere come due soggetti sviluppino processi empatici senza negare la propria chiusura organizzazionale. Per chiusura organizzazionale i due autori intendono la struttura interna del soggetto. Ogni trasformazione/apprendimento è frutto di una riorganizzazione che dipende dalla struttura interna. Gli input esterni producono un disequilibrio a cui il sistema risponde secondo proprie regole interne. Riportiamo le definizioni che Maturana e Varela e L. Damiano danno di accoppiamento strutturale: – è una storia di mutui cambiamenti strutturali concordanti, frutto di percorsi e di processi condivisi (Varela e Maturana, 1980); – è una mutua influenza che non proviene da un’azione diretta di un sistema sull’altro, ma da una coordinazione […] dei loro movimenti di auto-produzione. Non conduce all’ottimizzazione del processo di adeguazione della struttura vivente a quella ambientale, ma aumenta l’autonomia reciproca dei sistemi (L. Damiano, 2009). Il concetto di accoppiamento strutturale (AS) poggia su tre principi: – principio di autodeterminazione dei sistemi ovvero l’AS è un’influenza che non proviene da un’azione diretta di un sistema sull’altro, ma da una coordinazione dei loro movimenti di auto-produzione; – principio di reciprocità. Le interazioni fra i due sistemi devono essere ricorrenti e ricorsive, l’accoppiamento è una storia di co-evoluzioni e co-influenze. Il cambiamento dell’uno porta al cambiamento dell’altro. Proulx (2008) sottolinea che non solo l’individuo si adatta all’ambiente, ma anche l’ambiente all’individuo e questo in maniera ricorsiva. In campo didattico studenti, docente, classe e ambiente sono sistemi che co-evolvono a causa delle reciproche interazione; – principio dell’autonomia dei sistemi. L’AS non conduce a un miglior adattamento, bensì aumenta l’autonomia dei sistemi coinvolti. (L. Damiano, 2009).
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Si ritiene che un corso universitario possa essere descritto come una storia di co-evoluzioni e di co-influenze tra docente e studenti. Il percorso descritto successivamente cerca di individuare degli indicatori che permettano di cogliere la presenza di accoppiamento strutturale e di identificare le condizioni che possono favorire l’attivazione di tale processo.
2. L’alternanza teoria-pratica nel corso di studi di Formazione primaria
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La struttura del corso di Scienze della formazione primaria prevede tre differenti formati: le lezioni, il laboratorio e il tirocinio. I laboratori, dopo la legge 249 del 2010, sono gestiti in sinergia con le lezioni negli insegnamenti. La presenza dei tre formati caratterizza profondamente il corso e richiede uno specifico approfondimento si basa sul concetto di alternanza. L’alternanza, in realtà, è sia un concetto, la ricorsività tra teoria e pratica, sia un dispositivo, ovvero il succedersi di immersioni in contesti di pratica e il distanziamento in ambienti di studio in cui riflettere sulle pratiche e venire a conoscenza di modalità differenti (Vanhulle, 2007). Il laboratorio ha una lunga tradizione pedagogica. Si collega agli insegnamenti di Dewey e Kilpatrick, alle proposte della scuola attiva (Decroly, Ferrière, Claparede, Cousinet e Freinet), alla tradizione pedagogica italiana (Agazzi, Pizzigoni, Montessori, prima, e successivamente Ciari, Lodi, De Bartolomeis). In più recenti elaborazioni Frabboni e Baldacci, anche sulla scorta delle esperienze realizzate nelle scuole negli ultimi decenni, hanno ripreso e puntualizzato le precedenti teorizzazioni. Per Baldacci il laboratorio è uno “spazio attrezzato in cui si svolge un’attività centrata su un certo oggetto culturale” (oggettualità), è caratterizzato da una spazialità, che richiede un ambiente dedicato, e da un’attività. A livello universitario il dispositivo laboratorio, sia nelle discipline dure, sia in quelle sociali, si realizza con due modalità che riflettono due modi di vedere il rapporto teoria-pratica: – È lo spazio in cui si applica la teoria appresa nelle lezioni e si mettono in atto procedure precedentemente comunicate e approfondite. La relazione tra teoria e pratica è lineare con una precisa direzione dalla teoria alla pratica. – È una delle modalità con cui si esplora la conoscenza. Tra lezioni e laboratorio vi è una ricorsività e in entrambi è possibile elaborare conoscenza o modificare le proprie concettualizzazioni.
3. La formazione e la ricerca. Le ipotesi L’intervento descritto ha una finalità formativa ovvero avviare gli studenti a una visione professionale (Seidel e Stürmer, 2014). È comunque intenzione dei conduttori affiancare al percorso formativo un progetto di ricerca che miri a valutare se gli assunti su cui il percorso formativo si basa sono soddisfatti e a confrontare i risultati ottenuti con quelli della letteratura internazionale. Gli assunti base dell’intervento formativo sono: 1. per avviare alla visione professionale si ritiene che il primo passo debba essere costituito dalla presenza di un dispositivo che favorisca l’esplicitazione delle concezioni di insegnamento e apprendimento che gli studenti posseggono quando iniziano il percorso di studi universitario;
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2. nel processo di cambiamento un ruolo fondamentale è svolto da percorsi di alternanza teoria-prassi e, in particolare, dall’analisi delle pratiche didattiche anche attraverso l’uso dei video. Per tale processo sono un riferimento obbligato la ricerca francofona sull’analisi di pratica (Altet, 2000; 2003; 2004; Altet et al., 2006) e le ricerche in ambito anglofono sulla visione professionale, su approcci olistici nella formazione degli insegnati che prevedano l’uso dei video (Van Es e Sherin, 2002; Lampert, 2003; Lampert, 2009; Seidel e Stürmer, 2014); 3. il percorso didattico per i processi precedenti è basato sulla circolarità tra lezioni teoriche, attività laboratoriali e tirocinio in aula e trova nei processi laboratoriali un dispositivo privilegiato che permette una ricorsività tra fare e conoscere e un distanziamento dall’intervento diretto del docente che crea maggiori spazi di libertà per lo studente. Per la ricerca e la valutazione del percorso formativo i precedenti obiettivi sono stati operazionalizzati. Comprendere cosa sia la professionalità è già arduo e “vago”. Maggiormente problematico è valutare la presenza di un avvio alla professionalità e una trasformazione favorita da un laboratorio di un solo semestre, tempo questo minimo sulla scala delle trasformazioni identitarie. Abbiamo pertanto ripreso alcuni processi validati dalla letteratura internazionale e individuato i seguenti indicatori: Per verificare se le attività proposte hanno avviato a una visione professionale degli studenti e, in particolare, hanno modificato le loro concezioni di apprendimento e insegnamento, abbiamo formulato le seguenti ipotesi: – ipotesi 1: gli studenti hanno usato i termini “trasmettere” e “acquisire” per descrivere i processi di insegnamento e apprendimento; – ipotesi 2: gli studenti hanno utilizzato le conoscenze teoriche come occhiali interpretativi delle azioni didattiche dell’insegnante (Van Es e Sherin, 2002; Seidel e Stürmer, 2014); Per verificare se il dispositivo adottato per il lavoro proposto ha favorito un accoppiamento strutturale e ha avviato un processo che permetta un allineamento/attunement tra studenti e formatori, abbiamo verificato: – ipotesi 3: se nelle scritture degli studenti è presente sia la ricerca e valorizzazione di una propria prospettiva, sia il riferimento al sapere sapiente e se i due elementi dialogano tra loro.
4. La descrizione del laboratorio Per raggiungere le finalità formative precedentemente descritte nel Corso di studi di Scienze della formazione primaria del Dipartimento di Scienze della formazione, dei beni culturali e del turismo dell’Università degli studi di Macerata è stato predisposto un curricolo che, in particolare per la tematica “didattica generale”, si articola in tre momenti: l’insegnamento di Didattica generale in cui è presente il laboratorio qui descritto sulla visione professionale, l’insegnamento di Teoria e metodi all’interno del quale sono previste attività laboratoriali focalizzate sulla progettazione didattica e la scelta dei dispositivi e infine un Laboratorio al quarto anno centrato sulla formazione professionale. I tre momenti hanno in comune l’utilizzo dei video per l’analisi delle pratiche insegnanti. Il presente contributo si focalizza sul laboratorio del primo anno e ha una durata di 20 ore.
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Per la messa a punto del Laboratorio e per la profilatura in entrata degli studenti è utilizzato un questionario. Gli studenti, prima dell’inizio delle lezioni, rispondono a una serie di domande che prevedono risposte aperte sulle idee di apprendimento e insegnamento. I primi item richiedono di esplicitare i concetti di apprendimento e insegnamento, mentre le successive domande permettono di guardare gli stessi concetti in modo indiretto (viene chiesto: quali sono stati e che caratteristiche hanno i docenti che hai maggiormente apprezzato e che vedi come modelli?). Dall’analisi delle risposte emerge che la maggioranza degli studenti vede l’insegnamento come trasmissione di conoscenze e l’apprendimento come acquisizione, ma alla domanda successiva (chi tra i tuoi insegnanti ritieni un bravo insegnante) la maggioranza parla di docenti che valorizzano e attivano gli studenti, che potenziano la loro autonomia, che avviano attività collaborative e di scoperta, che rispettano gli studenti. Il laboratorio si articola in sei incontri, ciascuno della durata media di 4 ore. Gli studenti sono circa 80. Il laboratorio è coordinato dal docente di Didattica e gestito insieme ad alcuni supervisori del tirocinio e tre dottorandi di ricerca. Nel primo incontro gli studenti esplicitano con una metafora la loro idea di insegnamento ed elaborano in gruppo dei cartelloni-collage. Nei successivi quattro incontri analizzano dei video di azioni didattiche della scuola primaria. Nell’ultimo incontro riprendono e modificano il materiale elaborato nell’incontro iniziale sulle metafore, discutono le modifiche apportate e analizzano quali cambiamenti di prospettiva il corso abbia determinato sulla loro concezione di apprendimento/insegnamento.
5. L’attività sulle metafore Il primo incontro prevede quattro momenti. Per introdurre il concetto di metafora, si richiede di pensare e di scrivere in un foglietto un oggetto che rappresenti se stessi. Vi è stata successivamente una condivisione, in gruppo, delle “metafore di sé”. Acquisito il concetto di metafora, si passa all’attività centrale del primo incontro che prevede di focalizzare l’attenzione su due concetti, insegnante e insegnamento, e di pensare a un oggetto che espliciti in modo metaforico tale concetto: “Essere insegnanti ed insegnare in una metafora”. Ogni studente esplicita la propria metafora e motiva la scelta. Poi, si formano gruppi di 4 studenti che hanno proposto metafore con significati simili. Ad esempio sono stati inseriti nello stesso gruppo gli studenti che hanno proposto le metafore “insegnante cometa”, “insegnante bussola”, “insegnante stella polare”. La successiva consegna è quella di rappresentare in un foglio A1 la metafora con disegni e collage. Agli studenti è chiesto di portare giornali e riviste e materiale di cancelleria vario: pennarelli, forbici, colla, ecc. In circa un’ora i gruppi producono i loro poster con immagini ritagliate da giornali, disegni, parole, simboli. L’ultima parte dell’incontro è dedicata alla spiegazione, da parte di ogni gruppo, del proprio poster. Nel percorso realizzato nell’A.A. 2013-14, a cui si riferisce il presente contributo, per reificare le sintesi agli studenti è stato richiesto di produrre dei testi, mentre nell’A.A. 2014-15 gli studenti hanno realizzato dei video con tablet o smartphone. I poster non sono commentati dal docente, ma saranno ripresi nell’ultimo incontro del laboratorio. I successivi quattro incontri laboratoriali sono dedicati all’analisi dell’azione didattica attraverso l’analisi di video relativi all’azione didattica (Rossi e Fedeli, in
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press). Gli incontri laboratoriali si alternano alle lezioni di didattica generale e gli strumenti per l’osservazione e l’analisi forniti nel laboratorio (Rossi e Pezzimenti, 2012) si annodano con le acquisizioni teoriche del corso. La postura richiesta è quella di osservare e cercare di comprendere le motivazioni che hanno portato l’insegnante a effettuare le specifiche scelte, evitando atteggiamenti valutativi. L’ipotesi è che se l’insegnante ha deciso in un determinato modo ha avuto delle motivazioni che vanno colte. Nell’analisi si evidenziano le azioni del docente focalizzate sugli aspetti epistemologici, valoriali e identitari e il loro intreccio. Nell’ultimo incontro di laboratorio sono ripresi i poster realizzati nel primo incontro. La consegna è: “Alla luce del percorso attuato, ovvero in considerazione delle conoscenze acquisite e delle esperienze e attività svolte durante le lezioni frontali e nel laboratorio, quali elementi del poster lascereste, quali modifichereste, quali togliereste?” Gli studenti modificano il loro poster e, alla fine, inseriscono la loro riflessione in una tabella a tre colonne: “cosa lasciare immutato e perché”; “cosa togliere e perché”; “cosa modificare e perché”. Dopo la riflessione, ogni gruppo in prima battuta esplicita a un formatore le decisioni prese in merito alle modifiche. Terminata questa fase, i gruppi, a turno, espongono al grande gruppo il risultato della loro riflessione, indicando cosa avrebbero modificato e cosa avrebbero lasciato immutato, rispondendo alle domande e ai dubbi di colleghi o conduttori. La scelta di partire dalla metafora per esplicitare le concezioni di apprendimento e insegnamento è stata ripresa da un percorso di formazione proposto da Ortensia Mele del Movimento di cooperazione educativa (2008). Si ritiene che esprimersi con immagini permetta di far emergere più facilmente pensieri profondi e spesso inconsapevoli, mentre definire i concetti avrebbe potuto favorire il ripetere meccanico di concezioni apprese e lette, ma non l’esplicitazione delle proprie convinzioni profonde. Anche il video utilizzato negli incontri successivi è un mediatore iconico, scelto non solo per le caratteristiche sopra descritte, quanto per il fatto che nel nostro caso esso racconta la situazione didattica in modo olistico. Il filmato di una pratica didattica pone di fronte al processo di insegnamento-apprendimento nella sua olisticità e favorisce la focalizzazione sulle relazioni tra differenti tensioni, più che sui singoli interventi/principi. Era chiarito comunque che operando con i video si aveva a che fare con un mediatore, una rappresentazione della realtà e non la realtà.
6. I risultati La ricerca mira a verificare se i dispositivi predisposti avviano a una visione professionale e se sono presenti elementi che possano confermare la presenza di un accoppiamento strutturale tra docenti e studenti. Come detto i cambiamenti possibili in tre mesi, per essere stabili, non possono essere molto profondi e quindi gli elementi da ricercare a supporto delle ipotesi debbono cogliere anche segnali non eclatanti, ma generalizzati. Per tale motivo la ricerca si è avvalsa di una molteplicità di materiali e dati: 1) il questionario iniziale effettuato prima dell’inizio del corso; 2) i video di tutti gli incontri da cui è possibile ricostruire i dibattiti nei gruppi di lavoro;
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3) gli elaborati degli studenti sulle metafore prodotti al primo incontro e rimodulati nell’ultimo incontro (cartelloni e descrizione dei collage); 4) la prova finale in cui è chiesto agli studenti di analizzare un video che non avevano mai visto; 5) il questionario finale relativo alle concezioni di insegnamento e apprendimento; 6) le interviste effettuate dopo l’esame finale a dieci studenti per conoscere le loro impressioni sul percorso di laboratorio.
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In questo contributo per la valutazione delle ipotesi sono stati utilizzati, in particolare, i questionari e i materiali prodotti nelle attività sulle metafore, le immagini e le descrizioni che gli studenti hanno fatto dei loro collage e i testi in cui hanno brevemente descritto come hanno lavorato e il perché delle scelte. I testi sono stati analizzati e successivamente discussi da tre ricercatori in modo autonomo (oltre ai due scriventi un dottorando che non aveva partecipato al laboratorio). In particolare ogni ricercatore ha prima osservato per ogni gruppo il collage iniziale e letto il testo che lo accompagnava e poi osservato il collage finale e letto il relativo testo, mettendo in evidenza sia le differenze, sia le motivazioni addotte dagli studenti per argomentare il proprio lavoro. Sui materiali raccolti sono state effettuate le seguenti operazioni: 1. Per verificare “se gli studenti hanno usato i termini trasmettere e acquisire per descrivere i processi di insegnamento e apprendimento” (ipotesi 1) sono stati analizzati i questionari iniziali e finali ed è stata effettuata un’analisi computazionale sui testi. Inoltre sono stati messi a confronto le descrizioni iniziali e finali delle metafore. 2. Per verificare “se gli studenti hanno utilizzato le conoscenze teoriche come occhiali interpretativi delle azioni didattiche dell’insegnante” (ipotesi 2) sono stati messi a confronto le descrizioni iniziali e finali delle metafore e colto se sono stati utilizzati dei connettori linguistici che esplicitano il legame circolare tra teoria e pratica. 3. Per verificare se il dispositivo adottato per il lavoro proposto ha favorito “un accoppiamento strutturale e ha avviato un processo che permetta un allineamento/attunement tra studenti e formatori” (ipotesi 3), abbiamo verificato nelle descrizioni iniziali e finali delle metafore se nelle scritture degli studenti è presente sia la ricerca e valorizzazione di una propria filosofia educativa, sia il riferimento al sapere sapiente e se i due elementi dialogano tra loro e, soprattutto, come il processo formativo abbia modificato le visione nella descrizione finale delle metafore finali. Come primo indicatore abbiamo considerato la presenza o meno di una visione causalistica o di una visione interattiva e mediata tra insegnamento e apprendimento (E. Damiano, 2013). Dall’esame dei questionari iniziali emerge che alla domanda sul significato di insegnare il 67% degli studenti, all’inizio del corso, concepisca l’insegnamento come “trasmissione” di conoscenze, mentre il 12% come “educazione”, il 14% usa verbi come “donare”, “offrire”, “fornire” “aiutare”, “infondere”, il restante 9% utilizza termini come “far comprendere” “far acquisire”, “mostrare”, “far crescere” “accompagnare”, “sviluppare” e “condividere”.
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Dalle risposte allo stesso quesito, al termine del corso, l’11% degli studenti ha risposto che l’insegnamento è “trasmissione”, per il 3% “non è solo trasmissione” mentre per il 17% “non significa trasmettere”. Il 17% ha sostenuto che insegnare significa “predisporre un ambiente/dispositivi”, e ancora un altro 17% ha constatato che “l’attività del docente”, per il 12% significa “stimolare/favorire”, per il 9% “educare/formare”, per il 5% “mediare” mentre per un altro 5% “attivare un processo”. Tali dati, pur soddisfacenti, potevano essere un frutto meccanico dell’insegnamento e non supportare un cambiamento significativo. Ed è per questo che l’attenzione si è concentrata sui testi che accompagnano le metafore. Per l’analisi dei nodi concettuali e degli oggetti-metafora scelti dagli studenti per descrivere i concetti di insegnamento e insegnante. Abbiamo raggruppato i poster in quattro categorie e riportato il titolo che ogni gruppo ha assegnato al proprio poster per sintetizzare le varie metafore: 1. Crescita. Tre lavori hanno focalizzato la loro attenzione sulla connessione tra apprendimento e crescita. I titoli: Crescita come infinita necessità; Nasce, cresce, impara; Specchio come scoppio reciproco (da bruco a farfalle e specularità tra processo dello studente e quello del docente). 2. Cura. Cinque lavori possono essere sussunti nelle categorie cura, guida, sostegno: Sostegno e guida; Educatore (empatia, vocazione, sintonia); Orientare (bussola e accompagnamento). Inoltre due gruppi hanno connesso la scuola al concetto di famiglia. 3. Viaggio. Un tema comune a cinque poster è il percorso e il viaggio. I titoli: Viaggio costruzione di un sogno; Un viaggio che dura tutta la vita; La classe come percorso comune; Imparare giocando; Mi illumino d’immenso. In tutti il disegno di un percorso o di una strada costituisce graficamente la struttura del poster. 4. Sapere. Il tema del sapere è alla base di quattro poster. Trasmettere il sapere; Maestra fondamento del sapere; Unire le forze verso il sapere; Il cubo del sapere ovvero la molteplicità del sapere. Si può notare come l’attenzione degli studenti si rivolga su aspetti diversi della professionalità docente e non si focalizzi solo sull’apprendimento di nuove conoscenze. Per analizzare se gli studenti hanno utilizzato le conoscenze teoriche come occhiali interpretativi delle azioni didattiche dell’insegnante (ipotesi 2) e la presenza di accoppiamento strutturale (ipotesi 3) abbiamo confrontato le produzioni finali con quelle iniziali e abbiamo analizzato contemporaneamente poster (iconico) e descrizione (simbolico). Prendiamo il caso di un gruppo di ragazze la cui metafora dell’insegnamento è “uno specchio con scoppio reciproco”. Quella che segue è la trascrizione della spiegazione del poster alla fine del primo incontro. Il nostro poster rappresenta un’immagine molto semplice perché l’abbiamo pensata per bambini delle elementari o della scuola dell’infanzia. Abbiamo preso due figure molto semplici ma molto significative: il bruco e la farfalla, perché il bruco che si trasforma in farfalla è la metafora più calzante della crescita. Per noi l’insegnamento è uno specchio con scoppio reciproco perché vediamo la maestra con l’allievo bruchetto che si specchia nello stagno, ma non è un’immagine riflessa da uno specchio normale perché proprio come attraverso l’insegnamento il bambino riesce a vedere se stesso pro-
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iettato nell’adulto e quindi con le sue capacità pienamente sviluppate, così la maestra riesce a tornare bambina però con le competenze che sono proprie di chi ha studiato, con le sue da maestra. È uno scoppio reciproco perché è come un regalo che si fanno l’un l’altra … questo scambio ed è uno scoppio perché permette di emergere. L’immagine dà l’idea che entrambi cambiano ma ricordano qualcosa che c’era: il libro alla maestra (farfalla) e la pergamena al bruco, cioè alla maestra che si vede bambina. E il bambino (bruco) che è giocoso, mentre quando è grande gli abbiamo messo i baffi, nel senso che ha un’aria da grande ma gli rimangono le sembianza del fanciullo (quelle del bruco)”.
La trascrizione che segue si riferisce invece all’ultimo incontro, quello in cui i gruppi hanno ripreso in mano i poster per interrogarsi su che cosa, a seguito del corso e delle nuove acquisizioni, avrebbero tolto, lasciato o modificato nella reificazione della loro metafora.
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Noi abbiamo deciso di lasciare quasi tutto (nds: lasciare l’impostazione data al primo incontro). Avevamo fatto questo cartellone senza sapere teoricamente quello che era l’accoppiamento strutturale, poi ascoltando la lezione sull’accoppiamento strutturale ci è venuto subito in mente il nostro cartellone: ci sembra che queste immagini rispecchino totalmente quel concetto. Questi due sistemi che autonomamente cambiano e si modificano, ma che in realtà entrano in accoppiamento: l’ambiente esterno modifica sia l’uno che l’altro, ma poi in realtà è anche l’intersecarsi di questi due sistemi che crea quello che è l’accoppiamento e quindi l’apprendimento. Un’altra cosa che avevamo evidenziato è l’importanza del corpo. È come se fosse già insita qualcosa che nell’evoluzione poi avverrà. L’evoluzione naturale per un bruco è diventare farfalla. Gli input che vengono dall’esterno vengono letti dai prerequisiti di ogni individuo e essere. Quindi questa maestra che porta il libro, poi lo ritroviamo anche nella maestra che è diventata bruco e quindi questo suo essere persiste anche nella trasformazione”.
Dal confronto tra i due testi emergono alcuni elementi, presenti nella maggioranza dei contributi. Ai poster sono state apportate solo minime modifiche mentre è stata modificata le interpretazioni che quasi sempre ha permesso di cogliere, grazie agli strumenti teorici acquisiti, sfaccettature o prospettive inizialmente assenti. Come è emerso dalle interviste gli studenti hanno rivisto grazie agli input teorici del corso le proprie assunzioni e hanno trovato nella teoria una spiegazione delle e un supporto alle loro idee. Nella descrizione finale sono stati inseriti molti riferimenti al sapere sapiente, riferimenti che forniscono un contributo utile a valorizzare la metafora iniziale. In ciascuno dei testi finali vi è la presenza di alcuni riferimenti teorici appropriati (in media tre), riferimenti assenti nelle descrizioni iniziali. L’analisi finale del poster ha mostrato una messa a punto del proprio approccio, un recupero degli elementi caratterizzanti, eliminando gli elementi che confliggevano con il sapere sapiente. Spesso si tratta di curvare e rivedere più che di stravolgere. Rimangono confermati gli elementi che più sono connessi al sentire proprio dei singoli studenti e che in futuro caratterizzeranno la loro filosofia educativa. Riportiamo un esempio di un gruppo che, a differenza del precedente, ha modificato più di altri il poster iniziale. Il poster iniziale (Mi illumino di immenso)
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descrive la strada percorsa dallo studente nell’apprendimento. La strada si biforca a y. Uno dei due rami porta “alla verità” rappresentata da una bellissima docente tutta luce e oro (un’immagine, ritagliata da una rivista di moda, che rappresenta una diva del cinema). Il bambino, che invece “malauguratamente” si avvia sull’altro ramo (nds: la strada sbagliata), viene ghermito a volo da un’aquila che lo riporta sulla giusta via. Nel poster finale rimane l’idea di strada, di percorso comune iniziale, così come la presenza successiva di più percorsi. Scompare l’aquila ghermitrice e la dicotomia tra strada valida e strada errata, ma rimane la pluralità che da problema diviene ricchezza. Il punto di arrivo non è più il docente che come un faro illumina la strada e indica la rotta. Ora il docente accompagna e cammina con lo studente nei vari rami. Le descrizioni precedenti permettono anche di cogliere se e come si è concretizzato l’accoppiamento strutturale. Il dialogo ambiguo tra prospettiva personale e sapere sapiente evolve progressivamente durante il corso. Se, come sottolineano alcuni studenti, la metafora si modifica poco, le argomentazioni, invece, risentono dell’approccio adottato nell’insegnamento. Come se la teoria fosse servita per perfezionare e mettere a punto la propria idea di insegnante. Inizialmente si è detto che l’accoppiamento strutturale produce una trasformazione reciproca che riguarda sia gli studenti, sia i docenti. Fin qui abbiamo descritto se e come si sono modificati gli studenti. Alla fine del laboratorio è stato realizzato un incontro per valutare il percorso a cui hanno partecipato il docente, i quattro supervisori, la dottoranda e il dottore di ricerca. Sicuramente imprevisto è stata il connubio di continuità e cambiamento che i lavori degli studenti hanno prodotto: continuità con una loro idea di fondo, cambiamento come utilizzo del sapere sapiente per dare un senso organico alle loro idee. I contributi e le osservazioni degli studenti hanno permesso anche di formulare un’ipotesi sulla differenza tra la prospettiva con cui docenti e studenti guardano l’apprendimento e l’insegnamento. Le verbalizzazioni e le argomentazioni degli studenti hanno suggerito che considerare l’apprendimento come acquisizione (e quindi l’insegnamento come trasmissione) derivi da una visione ingenua che caratterizza la postura di studente. Lo studente vede il processo di apprendimento dall’interno, dalla prospettiva di chi apprende, per cui ciò che succede in lui è trasparente. Egli non coglie la rielaborazione che opera sugli input che riceve dall’esterno e centra la sua attenzione su tali input come se essi producessero immediatamente conoscenza. Per passare a una visione non trasmissiva occorre attivare un distanziamento, osservare se stesso che apprende e cogliere il processo interattivo tra insegnamento e apprendimento. Tale distanziamento è connesso alla visione professionale e il lavoro sulle metafore e l’analisi dei video favoriscono sinergicamente quel processo che potremmo descrivere come il passaggio dalla prospettiva di studente a quella di docente.
Conclusioni e possibili sviluppi La sperimentazione messa in atto a Macerata si focalizza sulla necessità di rendere consapevoli gli studenti della idea di apprendimento con cui iniziano il corso di studio e di avvicinarli a una visione mediata della relazione tra insegnamento e apprendimento e alla rete di traiettorie che influenzano la decisione del docente in classe. L’adozione di un dispositivo quale il laboratorio, le attività sulle metafore e le analisi dei video hanno creato quegli spazi di libertà e quelle dinamiche che a un tempo hanno garantito un primo avvio verso la costruzione di una propria
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identità professionale e una consapevole e personale assunzione del sapere sapiente. Ne è derivato un processo che ha le caratteristiche dell’accoppiamento strutturale e può essere descritto in sintesi come il passaggio dalla visione dello studente a quella del docente. Gli sviluppi della ricerca prevedono di ampliare la sperimentazione sia sull’asse sincronico, sia su quello diacronico. L’asse diacronico è quello che riguarda la messa a punto nella sede dove il gruppo di ricerca opera del percorso formativo nei cinque anni del corso di studi. Si è deciso di attenzionare la coerenza del curricolo, la presenza dell’alternanza tra lezioni, laboratorio e tirocinio e di tracciare la traiettoria degli studenti in funzione della professionalità docente. È stato deciso anche di richiedere agli studenti di compilare fin dal primo anno un e-portfolio che possa favorire una maggiore consapevolezza del proprio percorso e di che tipo di insegnante vorranno essere. L’asse sincronico riguarda invece la sperimentazione di dispositivi adottati in altre sedi nazionali e internazionali. Si ipotizza un confronto con gli strumenti proposti da Seidel e Stürmer (2014) sulla valutazione quanti-qualitativa della visione professionale, di Van Es e Sherin (2002) sull’utilizzo di VAST per supportare gli insegnanti nello sviluppo dell’abilità di annotare e interpretare gli aspetti dell’azione didattica, di Lampert (2009) che analizza in profondità l’alternanza teoria-pratica nella formazione degli insegnanti. Ugualmente il confronto di percorsi tra loro paralleli già in atto fra varie sedi italiane favorirebbe una riflessione e una messa a punto dei dispositivi e arricchirebbe sia la formazione, sia la ricerca.
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esperienze
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“La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: la nona edizione del seminario SIRD Giovanni Moretti • Università Roma Tre • giovanni.moretti@uniroma3.it
“The research at Doctoral Schools in Italy. Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”: the ninth edition of SIRD conference
The purpose of this article is to present the ninth edition of SIRD (Italian Society for Educational Research) conference, entitled “The research at Doctoral Schools in Italy: Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”, held in Rome in June 2015. The contribution highlight some of the most important aspects raised during the event: the presentation of thirteen research programs by second year Ph.D. students which was followed by an open debate; the presentation of posters by eleven Ph.D.s; the critical reflections arisen from the roundtable on the topic “Expectations for the Educational research”
Parole chiave: dottorato, discussione pubbli-
Keywords: Ph.D., poster, public discussion, educational research, research training
ca, formazione alla ricerca, poster, ricerca educativa
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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informazioni
L’articolo presenta la nona edizione del Seminario SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), dal titolo “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia: Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”, svolta a Roma nel giugno 2015. Dell’iniziativa sono messi in evidenza alcuni degli aspetti più rilevanti emersi, in particolare: la presentazione di tredici progetti di ricerca da parte di dottorandi del secondo anno seguita da uno spazio di discussione; la presentazione di undici poster da parte di dottori di ricerca e le riflessioni critiche emerse dalla tavola rotonda su “Le aspettative nei confronti della Ricerca educativa”.
“La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: la nona edizione del seminario SIRD
1. Il seminario 2015: un appuntamento atteso
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La nona edizione del seminario SIRD “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia: Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto” (Roma, 25-26 giugno 2015) ha confermato l’attenzione della SIRD alla formazione dottorale nei settori scientifici PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pedagogia sperimentale). Come è noto la SIRD, con l’obiettivo di mettere a confronto i dottorandi delle diverse Scuole dottorali italiane, ha avviato un primo seminario nel 2005, a Veroli, e lo ha riproposto con cadenza biennale, con qualche modifica nel 2007 e nel 2009 a Roma e nel 2010 a Linguaglossa (Catania). A partire dal 2011 il seminario è stato organizzato con cadenza annuale (Roma, dal 2011 al 2015), per rispondere più efficacemente alle esigenze di confronto tra le varie esperienze di ricerca progressivamente emerse nel corso delle varie edizioni. Gradualmente il seminario è diventato per la comunità scientifica e per un pubblico sempre più ampio di giovani dottorandi un appuntamento atteso e fortemente partecipato. La formula già consolidata del seminario, che prevedeva la presentazione dei lavori di ricerca da parte dei dottorandi iscritti al secondo anno, è stata ulteriormente arricchita a partire dalla settima edizione (2013) con l’invito a predisporre un poster rivolto ai dottori di ricerca del terzo anno. Il seminario 2015 è stato introdotto dagli interventi di Giuditta Alessandrini, in rappresentanza del Direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre Gaetano Domenici e di Achille Notti (Università di Salerno) Presidente della SIRD. Con il coordinamento di Giovanni Moretti (Università Roma Tre), Maria Lucia Giovannini (Università di Bologna), Alessandra La Marca (Università di Palermo), Giovanni Bonaiuti (Università di Cagliari), Patrizia Magnoler (Università di Macerata) e Loredana Perla (Università “A. Moro” di Bari), tredici dottorandi del secondo anno, che hanno visto accolta la loro richiesta di partecipazione, si sono alternati presentando la loro attività di ricerca nel tempo prestabilito di venti minuti . Al termine di ciascuna presentazione è stato lasciato uno spazio aperto al confronto che ha registrato la partecipazione attiva di docenti esperti e di oltre sessanta giovani ricercatori e dottorandi molti dei quali iscritti al primo anno di corso. I presentatori nel rispondere alle domande, riferite a vari aspetti del loro lavoro, sia di tipo teorico, che procedurale o metodologico, hanno avuto modo di riflettere criticamente sulle attività di ricerca ancora in corso. Essi, inoltre, da una parte hanno potuto raccogliere consigli,, stimoli e anche informazioni specifiche indubbiamente utili allo sviluppo della propria ricerca; dall’altra hanno potuto avviare un dialogo diretto con studiosi e dottorandi impegnati su tematiche di ricerca affini. La tabella n. 1 evidenzia l’ampio numero delle sedi di provenienza dei dottorandi e dottori di ricerca che hanno partecipato come protagonisti al Seminario 2015: tredici sono le sedi universitarie rappresentate ed alcune di esse confermano con continuità la partecipazione di dottorandi e dottori di ricerca nei due appuntamenti indicati in tabella (paper e poster): Padova, Roma Tre, Roma “La Sapienza” e Salerno.
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Tab. 1- Università di provenienza dei dottorandi e dei dottori di ricerca (v.a.)
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2. La sessione poster Anche la nona edizione del Seminario il Direttivo SIRD ha previsto la presentazione di poster che potessero descrivere e illustrare in sintesi alcuni lavori di tesi già conclusi e i relativi risultati. A tal fine sono stati invitati i dottori di ricerca del terzo anno con riferimento particolare a chi ha presentato il proprio progress di ricerca nel corso dei lavori dell’ottavo Seminario SIRD. Delle persone che hanno risposto positivamente all’invito, inviando un abstract di massimo 2000 battute entro la data dell’8 maggio 2015, tredici sono state le candidature accolte. Il Direttivo SIRD in merito alla modalità di predisposizione del poster, nel promuovere le candidature aveva precisato: “L’organizzazione dei contenuti del poster (testi, grafici, tabelle, immagini, ecc.) potrà far riferimento alle seguenti sezioni: introduzione, materiali e metodi, risultati, discussione, conclusioni”. L’organizzazione del poster, orientativa e volutamente non vincolante per favorire l’originalità delle presentazioni, è stata presa a riferimento dalla maggior parte dei giovani presentatori, che tuttavia hanno introdotto spesso interessanti soluzioni grafiche e argomentative che ne hanno caratterizzato le singole presentazioni. I poster sono stati resi disponibili al pubblico per l’intera durata del Seminario e il 25 giugno, dalle ore 15.30 alle ore 17.00, si è svolta la sessione di presentazione-confronto dei poster da parte dei giovani dottorandi alla presenza di un pubblico esperto e interessato. Il livello di partecipazione alla sessione poster è stato alto: si sono fermate gran parte delle persone presenti alla presentazione dei paper. Il dialogo intrattenuto dai dottorandi con il pubblico, è stato molto interessante ed ha potuto svolgersi in modo informale e colloquiale, permettendo nel frattempo di approfondire le diverse questioni trattate dai molteplici percorsi di ricerca. In particolare per i dottorandi del primo anno la partecipazione a tale esperienza di confronto e scambio interattivo è stata utile per individuare e condividere linee progettuali di ricerca fondate su presupposti chiari e rigorosi.
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3. Le aspettative nei confronti della ricerca educativa
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Venerdì 26 giugno 2015, dalle ore 9.00 alle ore 11.00, si è svolta la tavola rotonda “Le aspettative nei confronti della ricerca educativa”. Ha introdotto e coordinato i lavori Piero Lucisano (Università Roma “La Sapienza”), sono intervenuti Luigi Berlinguer (già Ministro Istruzione Università e Ricerca - Presidente del Comitato per lo sviluppo della Cultura scientifica e tecnologica), Anna Maria Ajello (Presidente INVALSI), Andrea Caroni (Presidente dell’Associazione Scuola Autonome del Lazio) e Giuseppe Bagni (Presidente Nazionale CIDI). Piero Lucisano dopo avere esplicitato le scelte concernenti il titolo della tavola rotonda e dei relatori, individuati tra gli interlocutori ritenuti più autorevoli per riflettere sulle aspettative nei confronti della ricerca educativa, ha ricordato ai presenti che il nono Seminario SIRD si svolge in un momento in cui la Scuola tutta, al pari dell’Università, vive un passaggio difficile, dovuto soprattutto al clima in cui si affronta in Parlamento e nel Paese la discussione sulla Riforma della scuola. Lucisano ha ricordato che c’è stato un tempo in cui la Pedagogia contribuiva a determinare alcuni eventi importanti, ad esempio la Riforma della scuola media e la ridefinizione dei programmi didattici e invece c’è un tempo, quello presente, in cui la Pedagogia e la Ricerca educativa sono collocate in una posizione marginale rispetto ai processi decisionali in corso in ambito educativo e formativo. Gli ospiti sono invitati a riflettere insieme sulle loro aspettative riguardo sia alla costruzione delle decisioni e delle conoscenze relative alla scuola sia al ruolo della Pedagogia e della Ricerca educativa, e la discussione è stimolata da alcune domande: “Quale contributo può dare la Pedagogia allo sviluppo della discussione sullo sviluppo della scuola e del Paese?”, “Di quale tipo di Ricerca educativa abbiamo bisogno oggi?”, “In che modo possiamo affrontare il tema della valutazione rileggendo con attenzione il nostro passato?” Luigi Berlinguer rileva la particolarità del momento in campo educativo considerato che ci sarà a breve una nuova legge dello Stato che modificherà tutto il comparto scuola. Nel dibattito culturale e politico sulla tematica educativa e scolastica ci si trova di fronte a una “denigrazione martellante della Pedagogia”, che nulla ha a che fare con le normali dialettiche di confronto interdisciplinare. Questo atteggiamento non aiuta perché sul piano delle decisioni politiche non si può prescindere da alcune discipline specifiche che vanno riconosciute e dalle quali si deve pretendere un contributo che può essere centrale. In materia scolastica in Italia regna la confusione, occorre farsi carico del problema e superare il rischio delle astrazioni e delle genericità che impediscono alla ricerca di avere effettive conseguenze sulla realtà. Molte delle parole che hanno accompagnato il Disegno di legge sulla scuola salvano l’idea della scuola come spazio per la libertà del docente, idea spesso utilizzata per giustificare una arretratezza della cultura educativa nel suo complesso, che prescinde dalle innovazioni introdotte a partire dalla seconda metà del Novecento. La scuola italiana è ancora una scuola trasmissiva, che non costruisce una partecipazione attiva degli studenti al processo e ai risultati: l’innovazione c’è ma non fa testo, non cambia la struttura complessiva del sistema; presentare il dirigente scolastico come “sceriffo” testimonia che affrontiamo i temi della scuola con una mentalità tradizionale e conservatrice. Oggi si parla e si scrive moltissimo di scuola, ma nella discussione è assente una questione fondamentale: la centralità dell’apprendimento, l’idea che la scuola deve essere per tutti, che essa deve definire il ruolo del cittadino nella società contemporanea; si tratta di un’idea ignorata, che non emerge né tra le polemiche né
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tra gli emendamenti. Oggi, invece, il diritto all’accesso si deve coniugare con il diritto al successo, mediante la centralità riconosciuta all’apprendimento, grazie ad una didattica basata sulle evidenze, per consentire agli studenti di raggiungere risultati importanti. L’opinione pubblica ignora molti problemi: “Quanti sono consapevoli che la scuola media attuale non basta più per la società contemporanea?”; “Quanti ritengono che il compimento dell’obbligo scolastico ai diciotto anni sia un fattore di democrazia?”; “Quanti sono convinti che l’assenza dell’arte praticata nell’asse educativo della scuola lasci spazi eccessivi al logocentrismo e al pensiero lineare?”. La scuola italiana non ha ancora digerito l’autonomia e la valutazione; sostenere che l’autonomia sia un processo di privatizzazione della scuola è uno slogan che non risponde alla realtà, in molti si schierano contro l’autonomia delle scuole per principio agitando lo spauracchio della scuola azienda. L’adattamento del progetto educativo si deve necessariamente “incarnare” nelle scuole autonome, che sono impegnate a costruire un insieme articolato di docenze, che va oltre l’esercizio esclusivo dell’insegnamento disciplinare e che modula l’offerta formativa sulla base delle esigenze del territorio valorizzando gli apprendimenti formali e informali. Occorre portare sino in fondo i processi di autonomia e la valutazione va fatta a tutto campo, valutazione dei docenti, degli studenti, del dirigente scolastico, del sistema, perché la scuola è della società e la valutazione riguarda tutto e tutti. La Pedagogia può dare moltissimo contribuendo ad affinare la cultura valutativa e a fronteggiare l’assenza in Italia di una opinione pubblica aperta e informata, in grado di discutere di scuola facendo riferimento a dati ed evidenze di ricerca. Anna Maria Ajello (Presidente INVALSI), nel suo intervento pone l’accento sulle molte difficoltà che l’INVALSI ha dovuto affrontare per le diffidenze degli insegnanti, dei genitori, dei dirigenti scolastici e persino degli studenti nei confronti delle prove nazionali. Un problema serio è che in Italia i temi della valutazione sono spesso affrontati con logiche di schieramento: manca la ragionevolezza e una matura cultura della valutazione. Tuttavia Ajello ritiene che il pericolo maggiore sia quello dei cosiddetti “talebani delle prove”, di chi non contesta l’uso delle prove, ma che vorrebbe utilizzarne gli esiti per finalità discutibili, così come è accaduto con la costruzione di motori di ricerca che vorrebbero consentire ai genitori di scegliersi la scuola “migliore” sulla base di alcuni indicatori tratti dalle rilevazioni INVALSI. La Presidente dell’INVALSI afferma che la convinzione che le scuole si possano scegliere con “Google Maps” o sulla base della lettura del rapporto di autovalutazione delle scuole è un’idea profondamente sbagliata. Questo modo di ragionare inoltre rappresenta una strumentalizzazione ed è un modo arretrato di parlare di scuola, perché distingue sempre chi è più bravo e più forte da chi non lo è. La ricerca educativa è importante e occorre approfondire in particolare il filone empirico, perché è il più solido, specie laddove prende spunto da saldi quadri teorici di riferimento. L’osservazione in classe è importante, quando parliamo di lezione dialogata, ad esempio, a che cosa facciamo riferimento? Possiamo rispondere attraverso la ricerca. La verità è che ci vuole molto tempo per fare ricerca educativa empirica, non si può fare in fretta, perché la scuola ha i suoi tempi e vanno rispettati. Ridurre l’osservazione all’impressionismo, al “mordi e fuggi” del ricercatore è sbagliato, occorre conoscere il contesto e adattarsi ad esso, cercando di coinvolgere i docenti e i vari attori della scuola per focalizzare e comprendere i problemi della scuola. Inoltre la collaborazione tra discipline diverse è fondamentale per la ricerca: occorre lavorare per gruppi misti, per capire i fenomeni educativi senza riduzionismi e mantenere la complessità, che altrimenti si rischia di perdere.
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La ricerca educativa non può fare finta che l’Italia sia uguale da Nord a Sud, ma dovrebbe prestare attenzione alle caratteristiche dei contesti e dei territori: in Italia studiare nel Mezzogiorno e nel Sud non è la stessa cosa che studiare al Nord, abbiamo bisogno di capire cosa significa tutto questo per le persone. Le teorie sono necessarie, però il confronto con la complessità è decisivo e perciò bisogna evitare la pigrizia intellettuale di chi compie operazioni di puro trasferimento di teorie dai laboratori ai contesti reali. Alla ricerca educativa va riconosciuta la sua specificità, anche sul piano della sua valutazione della ricerca stessa, perché non si può ignorare che la sua conduzione deve tenere conto delle necessarie e continue negoziazioni tra ricercatori e dei tempi delle scuole; la ricerca educativa non si può fare semplicemente inviando questionari limitandosi a elaborare i risultati. Oggi in Italia si può parlare di valutazione anche grazie alla raccolta di un patrimonio di prove e di dati che nel tempo è stato arricchito grazie all’impegno chi è stato alla guida dell’INVALSI (Cipollone e Sestito). Il patrimonio INVALSI è una risorsa per tutti gli studiosi, le prove sono un elemento unico che permette di misurare e confrontare esiti da Nord a Sud. Questo ci permette di rilevare se il nostro sistema educativo e le singole scuole sono effettivamente in grado di garantire alcuni fondamentali diritti di cittadinanza (ad esempio: la capacità di comprendere un testo). Ajello ribadisce che il ruolo di INVALSI è quello di “misurare”, fermandosi sulla soglia della scuola, mentre la valutazione è di competenza della scuola e degli insegnanti. Ajello, anche per rispondere alle sollecitazioni di Lucisano, esprime il suo pensiero critico in merito agli attuali esami di terza media e dichiara che gli esiti delle rilevazioni effettuate con la prova INVALSI non siano sovrapposti con le valutazioni dei docenti e delle scuole. Andrea Caroni (Dirigente Scolastico - Presidente dell’Associazione Scuola Autonome del Lazio) afferma di concordare con molte delle considerazioni esposte da Berlinguer e da Ajello con particolare riferimento alla necessità di costruire un contesto di fiducia e di attenzione nei confronti del sistema scolastico, ponendo fine al discredito sistematico cui la scuola è sottoposta e che è irresponsabilmente alimentato dalla stampa e dai mezzi di comunicazione sociale. L’autonomia scolastica è una risorsa che deve essere maggiormente valorizzata e aiutata soprattutto nelle parti ancora pienamente realizzate: l’autonomia di ricerca (art. 6, DPR 275/1999) e la costruzione di reti. Il rapporto tra scuola e università ha spesso registrato momenti di chiusura e di reciproca diffidenza, ma negli ultimi tempi ha preso piede anche un certo pregiudizio da parte delle scuole nei confronti di una ricerca educativa che può apparire distante rispetto alle necessità contingenti. Eppure una delle sfide da accogliere è quella di uscire dall’autoreferenzialità e fare in modo che le università rendano “desiderabile” la ricerca da parte delle scuole: stabilendo collaborazioni durature, stabili, pluriennali, con restituzione degli esiti e anche se possibile con riconoscimenti incentivi formali ed economici il cui indubbio valore simbolico testimonia considerazione e riconoscimento. Il rapporto tra università e scuole o reti di scuole dovrebbe inoltre essere tra pari, tra soggetti che pur nella distinzione dei ruoli, hanno identità forti e che si riconoscono come interlocutori. Spesso gli insegnanti rinunciano al cambiamento, preferiscono chiudersi nella classe e nelle loro abitudini lavorative e non sempre apprezzano il confronto con gli esperti, soprattutto quando la ricerca prende in esame questioni che riguardano aspetti rilevanti del lavoro degli insegnanti. Molti progetti che si svolgono oggi nelle scuole potrebbero trasformarsi in
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esperienze di ricerca, ma non è facile perché occorre mobilitare persone, risorse e responsabilità che spesso sono difficili da realizzare. Le scuole si lamentano della mancanza di risorse e di collaborazioni, ma spesso non si attivano come dovrebbero per cercarle. La direzione verso cui andare è quella di stabilire, anche mediante intese, convenzioni o accordi, rapporti di collaborazione, non solo tra l’Università e la singola scuola, ma con le reti di scuole, che potrebbero rappresentare ambienti stabili per ricerche pluriennali. Si auspicano una logica di rete e uno scambio interistituzionale tra pari delle istituzioni che si interfacciano con la scuola proponendo progetti o ricerche che spesso non rispondono alle sue esigenze o a quelle del territorio di appartenenza. Giuseppe Bagni (Presidente Nazionale CIDI) sottolinea la difficoltà del momento e si dichiara molto amareggiato per il modo in cui è portato avanti il Disegno di legge di riforma della scuola; fa riferimento al rischio che gli insegnanti delusi tendano ancora di più a chiudersi nella propria classe ritenendola il luogo da cui trarre le principali soddisfazioni professionali a fronte di un contesto scolastico generale sempre più confuso che rende contraddittorio il lavoro a scuola. Bagni argomenta molti degli elementi della cosiddetta Riforma (Buona Scuola) che avranno come esito un peggioramento del clima scolastico e un abbassamento della qualità dei processi di insegnamento-apprendimento: il fatto che gli insegnanti siano valutati da genitori, studenti e insegnanti di altre discipline; il rilancio dubbio dell’autonomia scolastica che attribuisce un potere eccessivo al dirigente scolastico; la raccolta di finanziamenti per la scuola che rischia di dare più risorse a chi ne ha già di più; la mortificazione del Collegio dei docenti, ecc. Una delle domande vere che ci si dovrebbe porre è “Come mai la Riforma Gelmini, che ha stravolto la scuola e ridotto l’orario di molte discipline importanti, non è stata mai valutata, perché?” La valutazione va fatta, ma non solo degli insegnanti, anche delle politiche. Bagni concorda con Ajello sulla inutilità della radicalizzazione del conflitto sui temi della valutazione, tuttavia il modo in cui sono utilizzati gli esiti delle rilevazioni INVALSI inducono scetticismo e timori. La ricerca educativa dovrebbe dedicare attenzione agli apprendimenti, a come partire da idee semplici, da concetti generativi, che possono essere sviluppati nel tempo, evitando le definizioni e la precoce formalizzazione dei saperi. La scuola dovrebbe essere “un centro pensante di didattica” che collabora con chi ha il compito di fare ricerca. L’attenzione per i temi emersi dalla tavola rotonda è risultata intensa e appassionata e molto opportunamente il coordinatore Piero Lucisano, dopo aver esplicitato che per ciascuno degli interventi avrebbe voluto esprimere sia condivisioni sia dissensi o distinguo, ha ritenuto opportuno rinviare la discussione auspicando un ulteriore appuntamento nel quale approfondire molte delle questioni evidenziate dal dibattito. Dalla tavola rotonda emerge un quadro complessivo assai articolato che vede l’autonomia scolastica un processo spesso ostacolato o considerato come una risorsa ancora poco valorizzata. Un rinnovato rapporto tra Scuola e Università potrebbe rinvigorire e motivare la “scuola di tutti” centrata sull’apprendimento. Un ulteriore elemento emerso dalla tavola rotonda è l’utilità e fecondità dell’ascolto e del confronto avviato o ripreso da parte della SIRD con alcuni degli interlocutori che oltre ad essere attori protagonisti nell’ambito del sistema di istruzione e formazione sono anche soggetti particolarmente interessati allo sviluppo della ricerca educativa e all’utilizzo dei suoi esiti.
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Tab. 2 - Presentazione delle tesi di Dottorato
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Tab. 3 - Presentazione dei poster di Dottorato
Giornale Italiano della Ricerca Educativa
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Italian Journal of Educational Research