Studium Educationis anno XIII numero 2-giugno 2012

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STUDIUM EDUCATIONIS Anno XIII – numero 2 – giugno 2012


– Anno XIII – n. 2 – GIUGNO 2012 Rivista quadrimestrale per le professioni educative

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È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata


INDICE

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Luciana Bellatalla Educazione e Storia: la lezione di John Dewey Daniele Loro Educazione e verità: una lettura ermeneutica Francesca Marone, Valeria Napolitano La formazione delle italiane al cinema

Carole Baeza Une écriture existentielle et autoformatrice pour s’affranchir de l’alcool Carmen Indirli “Plato’s worlds: alla ricerca dei diritti perduti”. Un progetto interculturale

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Paolo De Stefani Verso una proibizione delle punizioni corporali su bambini e adolescenti. Norme e raccomandazioni internazionali e la posizione dell’Italia 79 Anna Kaiser La deprivazione dell’essenza ludica nel bambino contemporaneo 95 Anna Kaiser “La città dei bambini e dei ragazzi”, in Genova 107 Robi Kroflicˇ Art as the core of humanistic education

125 Giuseppe Mari Relazione educativa

131 Renzo Scortegagna 2012 Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni


135 Emanuela Toffano Martini “Ho fiducia in loro”. Il diritto di essere ascoltati e di partecipare nell’intreccio delle generazioni. Appunti da un Convegno Internazionale all’Università di Padova

153 Emma Gasperi “La figura dell’educatore nella promozione dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni”, Rovigo 25-26 ottobre 2012

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(a cura di) Fabio Targhetta Ermenegildo Guidolin Margherita Cestaro

Luciana Bellatalla • Università degli Studi di Ferrara Daniele Loro • Università degli Studi di Verona Francesca Marone • Università degli Studi di Napoli “Federico II” Valeria Napolitano • Università degli Studi di Napoli “Federico II” Carole Baeza • Università di Rouen Carmen Indirli • Istituto Comprensivo di Monteroni di Lecce (Dirigente) Paolo De Stefani • Università degli Studi di Padova Anna Kaiser • Università degli Studi di Genova Robi Kroflicˇ • Università di Ljubljana Giuseppe Mari • Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano Renzo Scortegagna • Università degli Studi di Padova Emanuela Toffano Martini • Università degli Studi di Padova Emma Gasperi • Università degli Studi di Padova



Educazione e Storia: la lezione di John Dewey

di Luciana Bellatalla

Abstract Questo contributo ripercorre le idee deweyane intorno alla Storia e al suo ruolo nella scuola e nell’esistenza degli uomini e dei gruppi sociali, con due scopi precipui: da un lato, ricostruire un aspetto del pensiero di Dewey in ombra rispetto ad altri temi da lui trattati; dall’altro, mettere in luce come gli assunti deweyani al riguardo possano costituire un’interessante lezione per chi si occupa di epistemologia e Storia della Scienza dell’Educazione. Dall’analisi del pensiero di Dewey è emersa una coincidenza tra Educazione e esistenza e tra esistenza e Storia: di qui l’indissolubile nesso tra Storia e Educazione per la crescita di soggetti e gruppi sociali responsabili e consapevoli. Ma questo ci ha permesso anche di concludere come, sul versante epistemologico, la Storia può configurarsi come la categoria principale del congegno concettuale dell’Educazione. Parole chiave: Storia, Educazione, scuola, esperienza, relazione

This article deals with Dewey’s ideas about the role of History in the school and in the human and social life.Two are the main goals: firstly, to analyze a neglected aspect in Dewey’s thought; secondly, to put into evidence how Deweyan thesis on this topic is an interesting point to be discussed and deepened by the researchers in the Science of education and, particularly, in its epistemological aspects. Dewey says that education and life are coincident; at the same time he states that History is life. Therefore, History and Education are necessarily in a very close interaction if educational challenge means to build up conscious and responsible subjects and societies.This implies – this is the conclusion of the paper – that, on epistemological perspective, History may be considered the most important of the categories, which define the conceptual structure of Education. Key words: History, Education, school, experience, relation

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 1722-8395 (in press) / ISSN 2035-844X (on line) Studium Educationis • anno XIII - n. 2 - giugno 2012


1. Dewey e la Storia: uno sguardo al problema Può sembrare strano che un autore come Dewey, sistematico e sistemico insieme, vale a dire proteso a rendere conto di ogni elemento dell’esperienza umana per ricondurre tutto all’unità nel riconoscimento della struttura complessa dell’esistenza, non si sia mai dedicato ad elaborare, in maniera organica, per così dire, una riflessione sulla Storia. Tanto più strano ciò può apparire, se si pensa che Dewey, da giovane, è stato influenzato dall’hegelismo e, quindi, da una Weltanschauung nella quale la presenza della Storia è centrale. Tuttavia, se si può dire che manca nel corpus delle opere deweyane un lavoro specificamente dedicato alla funzione e al significato della Storia, non si può con altrettanta certezza affermare che il tema della Storia sia estraneo alla riflessione deweyana. Infatti, proprio la centralità dell’Educazione impone di interrogarsi sul significato del processo storico. Questa considerazione, dunque, suggerisce, in assenza di un lavoro specifico sul tema, di ricercare se, quando e come Dewey affronta la relazione tra Storia e Educazione. E da questa ricerca interna ai testi emergeranno due elementi di estremo interesse sia per la comprensione del pensiero deweyano sia per la più ampia riflessione sulla Scienza dell’Educazione. Per quanto attiene alle tesi del nostro autore, potremmo concludere che Dewey non scrive nulla di esplicito ed organico su questo tema perché tutto il suo pensiero è di fatto dedicato all’Esperienza e alla Storia. Questo è quanto cercherò di mettere in luce ripercorrendo, sia pure sinteticamente, la produzione di Dewey e soffermandomi su alcune sue affermazioni particolar mente interessanti al riguardo. Quanto alle influenze, dirette o indirette, che tali riflessioni possono avere sulla Scienza dell’Educazione, esse saranno oggetto dell’ultima parte di questo contributo, quando, abbandonando Dewey e il suo pensiero, mi interrogherò sulle strette relazioni tra Storia e Educazione, non tanto a livello dell’esperienza concreta dei soggetti e dei gruppi, quanto con riferimento al congegno concettuale dell’Educazione e alle sue categorie costitutive. 2. Storia e Educazione La parte più esplicita della visione deweyana della Storia è nelle pagine in cui parla, per così dire, della didattica della Storia. Sono indicazioni interessanti con una qualche loro attualità, ma sono anche le pagine meno significative se ci poniamo in un’ottica epistemologica. Dewey inserisce queste notazioni nel più vasto concetto di un’idea di scuola-laboratorio. Di qui alcuni consigli: il legame tra la Storia e la geografia per facilitare la comprensione delle ragioni degli insediamenti urbani, il coinvolgimento attivo dell’alunno, come ben emerge dalle pagine soprattutto di Scuola e società, in modo che questi si abitui ad esercitare l’abito della ricerca e l’autonomia del giudizio di contro alla memorizzazione e all’imitazione; il suggerimento di partire dalla Storia locale per arrivare alla Storia

Luciana Bellatalla


universale, secondo il criterio didattico del passaggio dal noto all’ignoto, ritenuto valido fin dall’antichità; il consiglio, con i bambini più piccoli, di servirsi di biografie e aneddoti. Ma non sono questi gli aspetti per cui le riflessioni sulla Storia di Dewey sono meritevoli ancora oggi di essere ricordate, specie alla luce delle indicazioni della storiografia affermatasi dopo gli anni ’20 e agli studi contemporanei di didattica della Storia. Quando ci si sofferma sulla Storia come disciplina scolastica, sebbene si sia portati ad enfatizzare questi aspetti “attivistici”, di fatto, si finisce per perdere di vista che egli richiama l’attenzione del lettore su un aspetto prioritario rispetto a tutte le indicazioni didattiche, le quali, semmai, diventano più significative proprio in base a tale criterio. Perché si deve studiare la Storia e che cosa si deve apprendere studiando tale disciplina? Questo è il punto da cui bisogna prendere le mosse: la ricerca della particolare utilità di una disciplina che, di per sé, come diremmo oggi, è un sapere gratuito, ossia volto solo ad ampliare conoscenza e capacità di giudizio. Due sono i punti di riferimento per comprendere ruolo e significato di questo sapere: da un lato, il fatto che esso si presenta come una “sociologia indiretta”, ovvero uno strumento non per passare in rassegna il passato, ma per comprendere lo svolgersi dei mutamenti sociali e, quindi, il presente e le linee del suo sviluppo verso il futuro (Dewey, 1970, capp. IV,V,VI); dall’altro, il fatto – e qui citazioni e rimandi potrebbero moltiplicarsi – che ogni attività ed ogni esperienza umana non possono essere comprese, descritte e messe a frutto fuori dalla consapevolezza del loro intrinseco dinamismo, che dipende non solo dalla categoria del divenire, ma anche e forse soprattutto dall’elemento della inter-azione, grazie alla quale tutto è in perenne trasformazione, basata sul principio della reciprocità degli elementi. Ciò spiega perché Dewey non avverte l’urgenza o il bisogno di dedicare un saggio esplicito alla Storia, perché la Storia, in quanto divenire delle complesse relazioni tra soggetti, tra gruppi e tra individui e mondo esterno, è l’esistenza stessa: fuori della Storia nulla esiste e nulla può acquistare significato. Tutta la filosofia di Dewey, dunque, è intessuta di Storia e alla Storia riconduce, se per Storia si intende il farsi stesso dell’esperienza, a cui il pensiero riflessivo dà senso e significato. Dunque, il processo di consapevolezza che trasforma l’empiria in esperienza, guidato dal metodo dell’intelligenza coincide con la Storia perché segna il passaggio dall’immediatezza della vita alla mediazione del pensiero, passaggio grazie al quale le esperienze acquistano significato e il mondo con tutte le sue infinite e continue interazioni acquista un senso per i soggetti che lo abitano e lo pensano1. Sarebbe più facile concludere, per la proprietà transitiva, che se la Storia

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“Che cosa importa avere una esperienza se essa non lascia al momento in cui cessa di esistere, un incremento di significato, una migliore intelligenza di qualcosa, un chiaro piano a proposito dell’azione futura, in breve un’idea?”(Dewey, 1961, p. 237).

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coincide con il corso stesso dell’esistenza e questa equivale, per esplicita ammissione di Dewey, al processo ininterrotto dell’Educazione, anche Storia e Educazione finiscono per equivalersi. Sarebbe un’affermazione consequenziale, certo, ma anche semplicistica. Il fatto è che Dewey allude a più riprese e in opere diverse per argomento – da La ricerca della certezza a Logica; da Come pensiamo a Esperienza e natura – non tanto, o non solo, ad una “meccanica” coincidenza tra Storia, esistenza e Educazione, quanto alla qualità intrinsecamente storica dell’Educazione. E ciò almeno per due motivi. Innanzitutto, come emerge bene in Democrazia e Educazione, l’Educazione è capacità di controllare il divenire, predisponendo il futuro, antivedendolo attraverso l’esercizio dell’immaginazione2 e formando l’abito mentale del problem solving, che è prima di tutto capacità di leggere il presente alla luce dell’eredità culturale e di risolverne gli squilibri grazie ad una costruttiva tensione verso l’inesperito. In secondo luogo, l’Educazione è strutturalmente relazione o, meglio, intreccio di relazioni che porta incessantemente e necessariamente alla continua ricostruzione (tanto per usare una parola cara a Dewey) del mondo e di se stessi. Non a caso, nella vecchiaia del filosofo, l’interazione lascia il posto ad una transazione che – come emerge da Knowing and the Known, scritto con Bentley nel 1946 – si configura non più come una ricostruzione del mondo, ma come una ridefinizione, e forse addirittura una trasfigurazione, in senso innovativo dei termini in relazione e della relazione stessa. Di più: se per gran parte di questo contesto teorico è evidente un’eredità hegeliana, l’esplicito legame tra Storia e Educazione favorisce un distacco dall’ideale maestro e impedisce a Dewey di cadere nel teleologismo, da cui è viziata la posizione di Hegel. Ma l’identità tra Storia e Educazione impedisce anche a Dewey di cadere in una sorta di provvidenzialismo giustificazionistico dal momento che il cammino di crescita e di trasformazione del mondo non è predefinito da un principio insito nel percorso stesso, ma dipende dall’attività autonoma di soggetti in relazione reciproca. La Storia come l’Educazione è un processo aperto e continuo, senza fine né fini: come l’Educazione anche la Storia è un movimento inarrestabile sempre proteso verso il futuro e verso il meglio. La fiducia nel meglio futuro non è cieco ottimismo né semplice richiamo ad analoghe posizioni illuministe, ma è intrinseca al concetto stesso di Educazione. Se essa non è mera ricapitolazione del passato né processo di asservimento a principi ad essa estranei, ma è progetto e sfida ai lacci e ai problemi di quanto ci circonda, essa non può non essere protesa verso il cambiamento e il miglioramento. Ma ciò implica che l’Educazione sia interpretazione del mondo con la conse-

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“Il nesso – scrive Dewey nel 1934 – tra l’immaginazione e l’armonizzazione di sé medesimi è più stretto di quanto di solito si pensi […] Il mondo limitato delle nostre osservazioni e riflessioni diventa l’Universo solo mercé un’extrapolazione immaginativa”. (Dewey, 1951b, p. 21).

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guente “scoperta” di problemi e di strategie atte a superarli. Ed è per questo che l’Educazione necessariamente guida a contesti sempre migliori, anche se mai definitivi. Quindi, grazie ad un soggetto in relazione con il mondo, abituato a cogliere le suggestioni di quanto lo circonda e dare loro, con l’apporto congiunto di immaginazione e intelligenza, un significato, anche il divenire appare altrettanto aperto ed orientato verso il meglio. Un meglio che non è da interpretarsi solo in senso morale o valoriale, ma prima di tutto in senso logico: il futuro è e deve essere sempre più significativo e più coerente con il contesto di quanto l’ha preceduto3. Questa complessa concezione è, al tempo stesso, l’ultimo atto di omaggio di Dewey al suo giovanile idealismo e la testimonianza di un consapevole e definitivo distacco dall’idealismo: come la sua formazione filosofica gli suggeriva, la Storia assurge al ruolo di un costante e continuo sfondo integratore dell’esistenza; ma, diversamente, dalla lezione idealistica, Dewey la svincola da un principio ordinatore immanente nel corso dell’esistenza, ma anche estraneo, in qualche modo, alla volontà e alle azioni degli uomini e lo porta a rifiutare l’impianto teleologico. La chiave di volta di questo passaggio, che insieme conserva e trasfigura le istanze dello storicismo idealista, è l’Educazione, intesa come processo di continue relazioni, legato allo sforzo di comprendere, interpretare ed immaginare in forme sempre più responsabili e consapevoli il contesto in cui ci si muove e si opera. Ma c’è di più, con questa posizione Dewey consegna agli epistemologi dell’Educazione un motivo in più di riflessione, che, mentre consente di approfondire il discorso sulla scienza dell’Educazione, ribadisce, una volta di più, se mai ce ne fosse bisogno, che il confronto con le tesi deweyane è ineludibile per chi voglia affrontare l’universo educativo da una prospettiva teoretica. La visione della Storia che Dewey ci offre appare, in questo senso, il complemento di quella teoria del pensiero in cui, anni fa, avevo individuato l’origine dell’epistemologia in ambito educativo (Bellatalla, 2011). 3. Dalla Storia all’epistemologia dell’Educazione Chiediamoci, tuttavia, come possano le considerazioni deweyane rimandare all’attuale epistemologia educativa e al suo sforzo di definire il congegno concettuale dell’Educazione e i fondamenti della ricerca nell’universo educativo. Per rispondere, basta rimandare all’assunto di fondo dell’intero discorso

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“In opposizione con la dottrina corrente – si legge – la posizione qui assunta attribuisce all’indagine funzioni di trasformazione e ricostruzione esistenziale del materiale trattato […]” (Dewey, 1974, p. 202). E ancora: “Ogni conoscenza, anche la più rudimentale […] è l’espressione di una capacità di scegliere ed ordinare materiali tanto da contribuire a conservare quei processi e quelle operazioni che continuano la vita” (Dewey, 1946, p. 179; il corsivo è mio).

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deweyano e ricondurlo allo sforzo presente di definizione del congegno concettuale dell’Educazione: la Storia, infatti, è presentata come il frutto necessario ed ineludibile dell’Educazione, attraverso o grazie alcuni elementi che a vario titolo (come forme o come categorie costitutive o come strumenti dell’Educazione) si collegano al processo di crescita del soggetto. Si va dalla Relazione, che è il cuore stesso del processo educativo, alla Parola, che dà voce all’interpretazione e al racconto dell’esperienza; dalla tensione utopica, che è necessariamente e strettamente congiunta con la tensione verso il futuro ed il meglio, al Limite, identificabile con le mete via via raggiunte nel corso del processo di crescita, che si pongono come punti continuamente da superare e come conquiste necessarie perché il percorso non si arresti; dall’Immaginazione, che consente di predisporre nuove strade e di progettare nuove mete, fino alla Processualità, che è alleata con la Relazione, dalla Continuità alla Complessità. In particolare Relazione, Complessità e centralità del Controllo della dimensione temporale emergono con vivezza da questo quadro. La coincidenza tra processo storico-esistenziale e Educazione, in particolare, rimanda al tema della complessità che sola può rendere conto della trama fittissima di relazioni in cui l’esperienza si esplica e si manifesta. In questa prospettiva l’Educazione è da considerarsi una sorta di via regia per indirizzare su percorsi di senso le molteplici relazioni che costituiscono il mondo. L’Educazione, infatti, non può darsi a prescindere dalle relazioni che la costituiscono, ma, al tempo stesso, quanto più l’Educazione si afferma tanto più queste relazioni vengono garantite e tutelate. Si può perciò inferire che il soggetto educato (attraverso quella trama di significative relazioni cui ho alluso) è colui che sa, consapevolmente e responsabilmente, dare senso alla Storia perché la costruisce e, al tempo stesso, interpretandola ne inventa giorno dopo giorno il cammino. Il soggetto educato non è in balia del tempo, ma, sul piano intellettuale e con la mediazione dell’immaginazione, è in grado di controllarlo, di organizzarlo e di prevenirne lo svolgimento, progettandolo e indirizzandolo verso strade più ricche di senso e più proficue per il bene di sé e di quanto lo circonda in una rete di connessioni reciproche. È un tema, anche questo, che merita approfondimento da parte della Scienza dell’Educazione e che ribadisce la stretta connessione tra società, cultura, politica e Educazione: là dove i soggetti e i gruppi non ricevono più, attraverso la scuola e le altre occasioni educative extra ed oltre-scolastiche, sollecitazioni alla crescita, all’esercizio del pensiero e dell’immaginazione, Educazione e Storia sono destinate a separarsi irreparabilmente. E non perché si blocchi il divenire dell’esistenza, ma perché vengono ostacolate la comprensione e l’interpretazione di tale corso. Da un lato, l’Educazione diventa, nel migliore dei casi, semplice istruzione, mentre la Storia non è più avvertita come una sorta di casa comune o di mondo-in-comune (per dirla con Avanzini, 2003) alla cui costruzione l’Educazione contribuisce. Se all’Educazione si toglie la dimensione della temporalità e della possibilità di comprendere e controllare le sue varie articolazioni, di conseguenza le si

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sottraggono anche l’elemento di sfida al noto, il bisogno di superare i limiti in cui i soggetti si trovano di volta in volta costretti, e, infine, l’istanza utopica che l’Educazione porta intrinsecamente con sé. La ricostruzione del mondo che l’Educazione è chiamata ad operare continuamente e che sfocia nella sua altrettanto continua inattualità e in un atteggiamento di rivoluzione permanente dell’esistente e del dato, va perduta in maniera irreparabile con esiti disastrosi. Conclusioni Sarebbe facile, leggendo Dewey, sostenere che il suo richiamo all’autonomia del pensiero, con quanto essa comporta sul piano della “ricostruzione” sociale e dell’Educazione, era un riflesso della sua democraticità. Di fatto, però, il legame di Educazione e Storia non è accidentale e contingente, ma necessario ed intrinseco, al punto che, se separiamo i due elementi, non possiamo mai approdare ad una vera Educazione. Soggetti e gruppi capaci di interpretare i contesti in cui vivono, di coglierne le debolezze e/o opportunità, di indirizzare in maniere logicamente fondate la loro esperienza: questo è il risultato cui deve portare il processo aperto e continuo dell’Educazione. Non a caso, lo stesso Dewey, sottolineando l’aspetto della intrinseca dinamicità e problematicità dell’esperienza per le quali nulla può darsi di certo per sempre, scrive: “[La democrazia] deve essere realizzata di nuovo in ogni generazione, in ogni anno e in ogni giorno, nelle relazioni viventi di persona a persona in tutte le forme e le istituzioni sociali” (Dewey, 1950, p. 454). L’equazione tra Storia e Educazione, dunque, non è il frutto di una società democratica, ma, piuttosto, garantisce, sul piano pratico e contingente, esiti di qualità democratica. Infatti, tutti, non uno escluso, sono chiamati a costruire l’esperienza individuale e sociale e a interrogarsi sulla loro esperienza senza pregiudizi o remore o ipoteche di ordine ideologico. L’Educazione è lo strumento grazie al quale l’umanità potenziale di ciascuno si realizza e può manifestarsi. E questo passaggio dalla potenza all’atto è, appunto, la Storia. Essa è sfida, continua inattualità, dato da trasformare, non un catalogo museale o un magazzino di eventi: è il farsi stesso della nostra vita. Proprio perché l’Educazione è aperta, continua, endless (per dirla ancora con Dewey), questo nesso con la Storia diventa centrale ed ineludibile. Nella misura in cui dobbiamo di continuo oltrepassare i traguardi raggiunti, dare un orientamento al futuro e “inventare” mondi inesistenti ma capaci di indirizzare la nostra ricerca del meglio, occorre avere ben salda la consape volezza del nostro passato e del nostro presente e, al tempo stesso, della inarrestabilità del movimento e della trasformazione dell’esperienza. In un mondo simile allo sfero perfetto di Parmenide, si può contemplare, ma non educare e educarsi giacché essere e dover essere coincidono e non c’è posto per la Storia. Nel mondo sommamente imperfetto di 1984, di Orwell, la Storia è continuamente manipolata e riscritta, mentre i soggetti sono immobilizzati in e da una eterna informazione di fatto statica ed insignificante.

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Per questo, rivolgendo nuovamente lo sguardo al congegno concettuale dell’Educazione, dobbiamo concludere che esso è intessuto di Storia, non tanto perché esso si definisce attraverso una serie di tentativi, tesi, assunti meritevoli di essere ricordati, studiati ed interpretati, quanto perché un’Educazione che prescinda dalle dimensioni del divenire e del cambiamento, dell’interpretazione del mondo, della costruzione dell’esperienza, della complessità delle trame relazionali, non può definirsi Educazione. Di qui non solo la centralità della categoria della Storia, ma il suo ruolo primario rispetto a tutte le altre categorie che costituiscono il congegno concettuale dell’Educazione. Nota bibliografica Avanzini A. (2003). L’ Educazione attraverso lo specchio: costruire la relazione educativa. Milano: Franco Angeli. Bellatalla L. (2003). John Dewey epistemologo della pedagogia e della didattica. In G. Genovesi (a cura di), Pedagogia e didattica alla ricerca dell’identità (pp. 113-130). Milano: Franco Angeli. Bellatalla L. (2009). Leggere l’Educazione oltre il fenomeno. Roma: Anicia. Dewey J. (1946). By Nature and Art. In J. Dewey, Problems of Men (pp. 286-300). New York: Philosophical Library (Ed. orig. 1944). Dewey J. (1950). Educazione e trasformazione sociale. In J. Dewey, L’Educazione oggi, trad. it. Firenze: La Nuova Italia (Ed. orig. 1937). Dewey J. (1951a). Scuola e società, trad. it. Firenze: La Nuova Italia (Ed. orig. 1899). Dewey J. (1951b). Una fede comune, trad. it. Firenze: La Nuova Italia (Ed. orig. 1934). Dewey J. (1961). Come pensiamo, trad. it. Firenze: La Nuova Italia (Ed. orig. 1925). Dewey J. (1970). Democrazia e Educazione, trad. it. Firenze: La Nuova Italia (Ed. orig. 1916). Dewey J. (1974). Logica: Teoria dell’indagine, trad. it. Torino: Einaudi (Ed. orig. 1939).

Luciana Bellatalla


Educazione e verità: una lettura ermeneutica

di Daniele Loro

Abstract L’articolo cerca di dimostrare come il rapporto tra verità ed educazione sia costitutivo dell’esperienza educativa, evidenziandone la presenza nella pratica educativa quotidiana e sostenendo la tesi per cui la comprensione di tale rapporto richiede il confronto con le maggiori teorie filosofiche sulla verità, che a prima vista sembrano molto distanti dalla concretezza educativa.Tali concezioni, a loro volta, possono ricevere importanti indicazioni teoretiche dall’esperienza della verità in educazione, per continuare ad approfondire la ricerca nella direzione di una visione quanto più possibile unitaria e insieme articolata della verità. Parole chiave: educazione, verità, ermeneutica, teorie filosofiche, dialogo

The article attempts to demonstrate how the relationship between truth and education, is both essential for the educational experience which highlights its presence in daily educational practice and backs up the theory which requires a comparison with major philosophical theories on truth to be fully understood, and at first glance seems to be quite distant from the concreteness of education. Such concepts can receive important theoretical clues from the experience of truth in education to continue to elaborate on a research towards a more uniform and articulate vision of truth. Key words: education, truth, hermeneutics, philosophical theories, dialogue

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1. Una tematica educativa fondamentale Un problema educativo cruciale, ma sul quale forse non ci si sofferma a sufficienza, è quello della verità; è un argomento in apparenza lontano ed estraneo rispetto all’agire educativo, ma in realtà esso rappresenta un riferimento essenziale, non solo per la teoria ma anche per la pratica educativa. Ogni educatore, che rifletta attentamente sul proprio operato, non ha difficoltà a riconoscere che egli non potrebbe iniziare ad educare (né potrebbe iniziare ad insegnare o a fare formazione) in assenza della consapevolezza di proporre all’educando qualcosa di importante per lui e che rappresenti nel contempo, anche per l’educatore, qualcosa per cui valga “veramente” la pena di impegnarsi. L’intenzione di educare proponendo o facendo qualcosa di vero è dunque presente fin dal momento della progettazione educativa; ma forse è al termine dell’attività educativa, al momento della verifica, che il problema della verità si impone in modo chiaro all’attenzione dell’educatore, che non può non chiedersi: “Ho fatto veramente tutto quello che andava detto o fatto? Ho realmente realizzato gli obiettivi previsti? Ho contribuito a realizzare un’esperienza davvero adeguata alla realtà dell’educando, ai suoi bisogni e desideri e al contesto in cui si trova a vivere”? Si impone di necessità anche la domanda forse più difficile per un educatore: “Dove posso avere sbagliato”? Si potrebbe continuare con altre riflessioni sull’agire educativo quotidiano, al fine di dimostrare come in qualsiasi momento il problema della verità possa emergere tra le pieghe del’azione educativa; ma ciò che in ogni caso appare con chiarezza è che decidere per una determinata azione educativa, giudicandola come la cosa “migliore” da farsi, obbliga a pensare che tale azione sia tale anche perché è la cosa più “vera” in relazione alla realtà dell’educando e del contesto in cui ci si trova ad operare. La presenza del problema della verità in ogni esperienza educativa suscita una questione cruciale dal punto di vista teoretico, implicita peraltro nella pratica quotidiana: quando si può dire che un’attività educativa è “vera educazione” e non è un’educazione apparente, se non del tutto sbagliata? Per rispondere a questa domanda sembra necessario un lungo percorso di riflessione, perché da una parte l’educazione è “vera” in relazione alla sua stessa realtà, ossia quando risponde all’essenza stessa dell’educare; dall’altra, l’educazione è vera quando tende alla realizzazione dello scopo per cui è stata progettata e poi attuata. Si potrebbe dire, rifacendosi alla dimensione esistenziale dell’ermeneutica secondo Ricoeur (1986, pp. 34-35), che l’educazione è vera se è in grado di rapportarsi, mediante il lavoro di interpretazione, alla propria storia e alla propria identità profonda (cfr. l’archeologia del soggetto), e nel contempo di adeguare la propria progettualità a ciò che le sta davanti, vale a dire all’adempimento del proprio compito (cfr. la teleologia del soggetto). In tal modo forse si arriva al centro del problema: il problema della verità in educazione non riguarda solamente i molteplici aspetti pratici e operativi dell’agire educativo, ma in ultima istanza ha a che fare con la realtà (essere) e con il fine (senso) dell’educazione.

Daniele Loro


2. Il bisogno educativo di verità è un caso particolare di un’esigenza comune Ciò che accade in educazione non è altro che un caso particolare di una situazione esistenziale diffusa. Si pensi, ad esempio, a ciò che accade comunemente quando si è in presenza di un evento particolarmente doloroso (ad esempio un fatto di cronaca nera, una strage di matrice terroristica, una catastrofe naturale ecc.). In questi casi ciò che si chiede, in particolare da parte dei parenti delle vittime, è di chiarire i fatti, ossia di conoscere la verità di quanto è accaduto attraverso la ricostruzione esatta della successione degli eventi, come se questa conoscenza potesse in qualche modo alleviare il dolore. Gardner in un suo recente libro, Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo, osserva a riguardo della verità che, anche se appare come una realtà a prima vista del tutto evidente, tanto da far credere che sia legata al buon senso o al senso comune (Gardner, 2011, p. 31), non è affatto semplice stabilire in modo affidabile quando un’affermazione sia vera senza eccezioni oppure falsa; tuttavia questa difficoltà non deve indurre a pensare che la verità non esista o che non si possa trovare. Sarebbe catastrofico infatti, continua l’autore, assumere il punto di vista opposto e quindi abbandonare ogni sforzo di ricerca e pensare di stabilire delle verità solo quando è possibile. Nel corso di un’accesa discussione tenutasi alla Sorbona nel novembre 2002, tra Pascal Engel e Richard Rorty, Engel apre il suo intervento ponendo una domanda che evidenzia la presenza di un paradosso in relazione al tema della verità: “Perché, se non si crede più nella verità, si ha tuttavia sete di verità?” (Engel, Rorty, 2007, p. 15).Volendo esplicitare con un esempio tale paradosso, Engel ricorda il suo stupore negli anni Settanta, quando seguiva le lezioni di Michel Foucault al Collège de France e ascoltava come questi spiegasse “che la nozione di verità era soltanto lo strumento del potere e che, essendo ogni potere malvagio, la verità poteva essere soltanto espressione di una volontà maligna”: poi, però, se lo ritrovava nelle manifestazioni in piazza, dietro gli striscioni a proclamare “Verità e giustizia” (Engel, Rorty, 2007, p. 16). Pensando a Husserl si potrebbe concludere dicendo che la tematica della verità fa parte del “mondo-della-vita” prima ancora che del mondo del sapere filosofico o scientifico; la verità fa parte cioè del “mondo in cui noi viviamo intuitivamente, con le sue realtà, così come si danno, dapprima nella semplice esperienza” (Husserl, 1987, p. 183). Che sia parte del mondo della vita non è difficile trovarne conferma: ad esempio, Jaspers mette in evidenza il fascino e l’attrazione, unitamente al dolore che la verità può provocare (1995, pp. 31-33); Zambrano scrive che la verità “è l’alimento della vita” e insieme il suo percorso (1996, p. 12); Mancuso sottolinea l’attualità e la dimensione relazionale della verità (2009).

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3. Cenni ad alcune teorie filosofiche sulla verità Dopo aver considerato l’esperienza esistenziale della verità, all’interno della quale si colloca l’analoga esperienza anche in ambito educativo, si tratta di considerare – almeno per cenni – come la verità sia stata considerata dal punto di vista filosofico. Dal confronto tra l’esperienza comune e i risultati della riflessione storico-teoretica sulla verità dovrebbe emergere con chiarezza la distanza esistente tra le due realtà, e come la seconda rischi di apparire del tutto astratta rispetto alla prima, mentre la prima possa sembrare priva di una valida giustificazione razionale. Considerando la storia della filosofia e il complesso panorama delle visioni della verità nel pensiero culturale contemporaneo, si possono individuare – a titolo esemplificativo, quindi non esaustivo – quattro grandi visioni della verità. 1) La verità come corrispondenza: è la più antica e la più diffusa delle teorie della verità, anche in età contemporanea. Questa visione della verità è formulata in modo esplicito da Platone nel Cratilo. Nel dialogo, Socrate distingue tra un discorso vero e uno falso: vero è il discorso “che dice gli enti come sono”, mentre falso è quello che dice come le cose non sono (Platone, 1991, 385b, p. 136). Nel libro V del dialogo Repubblica, parlando della figura del filosofo-reggitore dello Stato, Platone scrive che è compito della filosofia, intesa come vera scienza, conoscere l’essere “come esso è”, mentre l’ignoranza conosce ciò che non è, e l’opinione si riferisce a ciò “che insieme è e non è” (Platone, 1991, 478 a-d, p. 1210). Più articolata è la riflessione sulla verità da parte di Aristotele. Nel libro II della Metafisica Aristotele dichiara in modo esplicito che fare filosofia significa ricercare la verità. Non si tratta di una conoscenza facile, ma essa non è nemmeno al di fuori delle possibilità dell’uomo. Scrive Aristotele che non si conosce il vero senza conoscere la causa di ciò per cui una cosa è secondo la natura del suo essere, perché conoscere la causa significa conoscere la realtà più vera di una cosa, in quanto la causa, per essere tale, deve avere in sé al massimo grado ciò di cui essa è causa. Pertanto, conoscere la causa di una cosa significa conoscere il suo essere, e la conoscenza dell’essere è la conoscenza della verità; infatti, “ogni cosa possiede tanto di verità quanto possiede di essere”(Aristotele, 1978, I, 993b, p. 218). Nel libro IX della Metafisica Aristotele affronta direttamente il tema del rapporto tra essere e verità (e quindi anche tra non essere e falsità) dichiarando che un’affermazione è vera quando tiene unite o separate cose che nella realtà sono effettivamente unite o separate: “Infatti, non perché noi ti pensiamo bianco tu sei veramente bianco, ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero” (Aristotele, 1978, II, 1051b, p. 59). Una conferma della presenza della concezione della verità come corrispondenza anche nel pensiero contemporaneo viene da Franca D’Agostini. Nel suo libro, Introduzione alla verità, presentando le principali teorie della verità, l’autrice inquadra la concezione della verità come corrispondenza tra le teorie che definisce “robuste” (D’Agostini, 2011, p. 47), per distinguerle

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da altre, meno chiaramente impegnate a definire una chiara idea di cosa sia vero e per questo definite “non robuste”. La teoria della verità come corrispondenza è definita in questi termini: “Una proposizione (o credenza) p è vera se e solo se p corrisponde a un fatto o stato di cose s” (2011, p. 48). L’autrice non manca di evidenziare le obiezioni – ne elenca ben sei (D’Agostini, 2011, pp. 50-55) – nonché i problemi che mettono in difficoltà la teoria della verità come corrispondenza.Tuttavia, la vera questione che questa teoria pone al pensiero contemporaneo è data dall’alternativa tra l’ammissione della presenza di una realtà fattuale, esterna al soggetto, a cui il pensiero e il discorso debbano corrispondere, e il riconoscimento che questa realtà non esiste perché ogni sapere è solo una costruzione storica, linguistica e culturale. La teoria della verità come corrispondenza, dunque, si collega direttamente alla questione ontologica, oggi ritornata alla ribalta nel dibattito filosofico italiano con l’invito a “ritornare al realismo” dopo la stagione del pensiero postmoderno (Ferraris, 2012). 2) La verità come conformità al metodo e come coerenza: se la concezione medievale della verità come “adeguazione” del pensiero all’essere può ricondursi alla concezione antica, la verità come conformità al metodo e dunque alle regole si afferma a partire dall’età moderna, in particolare da Cartesio, che pone come criterio di verità la corretta osservanza del modo con cui si procede nella conoscenza. Dal suo punto di vista, infatti, considerare la verità come corrispondenza tra il pensiero e il suo oggetto di indagine non serve a stabilire “quando tale corrispondenza è effettivamente raggiunta” (Pieretti, 2006, p. 12054). In tal modo egli sposta l’attenzione, per così dire, dai due estremi: il pensiero e l’essere, a ciò che sta in mezzo e che permette la loro relazione, il metodo. In definitiva la soluzione del problema della verità dipende da quanto la conoscenza si conforma alle regole del metodo con cui si ricerca qualcosa. Commenta Pieretti che con Cartesio “non è più la verità che funge da principio ontologico e legge dell’attività di pensiero, ma è il pensiero che svolge il ruolo di criterio nei confronti della verità. In virtù del primato che è così attribuito alla conoscenza, la mente umana non si adegua più alle cose ma alle proprie idee, cioè alle rappresentazioni o immagini che ne può avere” (Pieretti, 2006, p. 12055). Kant accentua questa concezione della verità e nella Critica della ragion pura non si sofferma tanto sulla concezione della verità come accordo o corrispondenza tra la conoscenza e il suo oggetto, che dà per scontata; ciò che egli desidera chiarire “è quale sia il criterio generale e sicuro della verità di una conoscenza qualsiasi” (Kant, 1977, B82, p. 130). Nell’affrontare il problema, Kant si rende conto che non è possibile individuare un unico criterio generale di verità, che possa riguardare i contenuti materiali della conoscenza, che sono diversi per ogni conoscenza come sono diversi tra loro gli oggetti di conoscenza. Il possibile criterio di verità potrà solo riguardare la “forma della conoscenza (tralasciando ogni contenuto)” e questa forma è data dalle “regole universali e necessarie dell’intelletto […]. Ciò che contraddice ad esse risulta infatti falso, perché in tal caso l’intelletto entra in contrasto con le regole generali del pensiero e quindi con se stesso” (Kant, 1977, B84, p.

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131). In altre parole, se in linea di massima la verità risulta dall’accordo tra la conoscenza e il suo oggetto, e se il criterio comune di verità non può essere individuato negli oggetti, perché sono diversi, il solo modo di individuarlo rimane quello relativo alle leggi dell’intelletto, che sono regole a priori. Ciò non rappresenta il criterio assoluto di conoscenza, ma la condizione minimale, oltre la quale, però, il soggetto non può andare. Di questa insufficienza, rappresentata da un criterio di verità di natura solo formale e non contenutistica, Kant è ben consapevole (1977, B85, p. 131). In età contemporanea una teoria della verità che si potrebbe accostare, almeno per somiglianza, alla teoria della conformità alle regole dell’intelletto, è quelle “coerentista”, nel senso che il criterio di verità si fonda sul principio di coerenza. Secondo questa teoria “la proposizione (credenza) p è vera se e solo se p è coerente con altre proposizioni già riconosciute come vere, o con l’insieme delle nostre credenze” (D’Agostini, 2011, p. 56). L’esemplificazione che segue è particolarmente chiarificatrice: “Io riconosco/so che ‘la terra è rotonda’ è vero non perché confronto la proposizione con un eventuale ‘stato di cose’ che vedrei di fronte a me, ma perché metto in rapporto questa verità con altre verità a me note, riguardanti per esempio la scoperta dell’America, o il ricordo di una fotografia della Terra vista dallo spazio” (D’Agostini, 2011, p. 56). Un aspetto interessante di questa visione della verità è che, in fondo, nessuna credenza è ritenuta vera presa isolatamente, per se stessa; al contrario essa appare vera in quanto è parte di un sistema più ampio di conoscenze vere. Non mancano i problemi, anche per questa concezione come peraltro per le altre, a partire da ciò che si può intendere per “coerenza”. Posto che coerente sia un discorso che non si contraddice, ne deriva che anche una storia totalmente inventata, come può essere la trama di un romanzo, è vera tanto quanto può essere tale una teoria scientifica o una dimostrazione matematica. Oltre a ciò, come osserva ancora D’Agostini, se in un sistema di conoscenze condivise e considerate vere, “si presentano nuove proposizioni che smentiscono proposizioni precedenti, già acquisite, le nuove vanno escluse? Lo scienziato innovatore, che sostiene qualcosa che contraddice le conoscenze acquisite, non può sostenere niente di vero? (D’Agostini, 2011, p. 59). La conclusione dell’autrice è che il principio di coerenza non è in grado di fornire, da sé solo, una definizione di verità, al più può essere un criterio per distinguere ciò che si può reputare vero da ciò che è falso. 3) La verità come utilità: nata nella seconda metà dell’Ottocento, questa concezione caratterizza in particolare il pragmatismo americano a partire da James. Nella sua opera del 1907, Pragmatismo. Un nome nuovo per alcune vecchie maniere di pensare, James presenta la verità in stretta relazione con i benefici vitali e che “corrisponde a qualunque idea ‘ci porti fruttuosamente da una qualunque regione dell’esperienza a una qualunque altra, collegando le cose in modo soddisfacente, funzionando in modo sicuro, semplificando e facendo risparmiare fatica’. Come tale, perciò, essa ‘è un bene di un certo tipo e non, come si suppone, una categoria al di fuori del bene […]. La parola vero designa tutto ciò che si constata come buono sotto la forma di credenza e come

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buono inoltre per ragioni ben definite, che possono essere specificate’. E ancora: ‘Il vero è solo l’utile nel nostro modo di pensare, così come il giusto è l’utile nel nostro modo di comportarci”(Pieretti, 2006, p. 120581). Per D’Agostini, un’altra visione “robusta” della verità è precisamente quella proveniente dal pragmatismo, secondo cui i concetti di utilità, di successo e di efficacia, spiegano meglio la verità dei concetti di coerenza e di corrispondenza. La definizione proposta dalla filosofa italiana è la seguente: “Una proposizione p è vera se e solo se l’assunzione di p è coronata da successo, o si rivela efficace per scopi pratici o scientifici” (D’Agostini, 2011, p. 62). L’autrice prosegue osservando che la caratteristica della prospettiva pragmatica “consiste precisamente nel pensare alla verità in termini di azione, e di orientamento per l’azione”. Anche l’autrice si rifà a James, riportando una frase dell’opera Pragmatism (James, 1907, p. 56) in cui il filosofo americano sostiene che “‘qualcosa è vero perché è utile, e non qualcosa è utile perché è vero’. James suggerisce un esempio; se sono perso nel bosco e vedo un sentiero, dico ‘al termine del sentiero dovrà esserci una casa’, seguo il sentiero e trovo la casa. Questo significa che l’ipotesi risulta utile perché è vera? Non esattamente, dice James: è vera perché si è rivelata utile” (D’Agostini, 2011, p. 63). D’Agostini muove in sintesi un’osservazione critica nei confronti del pragmatismo, mettendo in evidenza come si tratti di un concetto vuoto e formale, nel senso che può adattarsi a tutti i contesti: ciò che è utile per uno, può non esserlo per un altro e viceversa; dunque, quale sarebbe la “vera” utilità del concetto di utile? Tanto più che in ogni caso il concetto di utile è comunque diverso da quello di vero, perché può essere vero qualcosa di profondamente inutile a volte anche controproducente, mentre può essere utile credere in qualcosa che è profondamente falso. Richard Rorty, tra i più brillanti pragmatisti contemporanei, nella discussione con Engel, tenutasi nel 2002 alla Sorbona, sostiene una posizione filosofica generale in cui la visione utilitaristica della verità è pienamente confermata. Rorty afferma, a proposito di qualsiasi discussione posta in atto per risolvere un determinato problema, che per i pragmatisti non è importante “sapere se un dibattito possieda o meno un senso, se rinvii a problemi reali o non reali, ma di determinare se la risoluzione di questo dibattito avrà un effetto sulla pratica, se sarà utile” (Rorty, 2007, p. 52). La tesi del pragmatismo, infatti, è la seguente: se una questione non ha un’incidenza pratica, essa non deve avere nemmeno un’incidenza filosofica. È in relazione a questo principio che per Rorty, e per i pragmatisti in generale, sono “trascurabili le questioni tradizionali della metafisica e dell’epistemologia perché non hanno alcuna utilità sociale” (Rorty, 2007, p. 56). Allo stesso modo, continua Rorty, se un comportamento morale non ha necessità di essere fondato sulla verità per essere realizzato, perché è sufficiente la “giustifica-

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Dei tre passi citati, i primi due sono tratti da James W. (1907), Pragmatism. A New Name for Some Old Ways of Thinking, p. 59, il terzo da The Meaning of Truth, 1909, Introduzione.

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zione” secondo cui, ad esempio, la sincerità, la generosità o la precisione sono cose buone (poco importa se in senso strumentale o per ragioni intrinseche alla loro natura di valori morali), allora interrogarsi sulla nozione di “verità”, come su quella di “realtà in sé” e sulla loro eventuale “corrispondenza”, non ha alcun valore pratico, quindi non è interessante da perseguire (Rorty, 2007, pp. 62-64). 4) La verità come rivelazione o manifestazione: presente anch’essa fin dall’antichità, ad esempio in Plotino, è ripresa in età contemporanea dalla fenomenologia e in particolare da Heidegger, impegnato a riportare il tema della verità alla sua originaria dimensione ontologica (vero è l’essere) prima che gnoseologica (vero è il procedimento conoscitivo) rinnovando all’uomo la possibilità di farne esperienza. Come è noto, nella visione heideggeriana della verità si possono individuare due fasi, da collocarsi rispettivamente prima e dopo la “svolta” del suo pensiero, agli inizi degli anni Trenta. In Essere e tempo, Heidegger considera la verità non come concordanza tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, secondo il modello classico, ma come parte costitutiva del “modo di essere” dell’Esserci nel suo essere nel mondo e nel suo chiedersi quale sia il senso dell’essere. Il modo di essere dell’uomo è quindi contrassegnato dall’apertura all’essere, nel senso che l’uomo può scegliere se aprirsi al mondo, oltrepassando se stesso, oppure non farlo e quindi non realizzando se stesso. Pertanto, scrive Heidegger, “con l’apertura dell’Esserci, è raggiunto il fenomeno più rigorosamente originario della verità (Heidegger, 1976, § 44, pp. 271-272). E poiché l’Esserci è “essenzialmente la sua apertura, in quanto in se stesso aperto apre e scopre; esso è quindi essenzialmente ‘vero’. L’Esserci è ‘nella verità’” (Heidegger, 1976, § 44, p. 272). L’apertura dell’Esserci alla verità è resa possibile dalla sua libertà di decidere il proprio atteggiamento nei confronti del mondo e quindi della vita. Pertanto, se l’apertura alla verità è frutto della libera possibilità di essere o di non essere autenticamente se stesso, “la libertà è l’essenza della verità” (Pieretti, 2006, p. 12060). Dunque, l’uomo può fare esperienza della verità realizzandosi per come egli è, in quanto essere libero in rapporto al mondo e all’essere. Tuttavia proprio nella tensione verso il mondo (cfr. il prendersi cura delle cose e l’aver cura degli altri uomini), alla continua ricerca del senso dell’essere, l’uomo arriva alla consapevolezza che egli non è in grado di cogliere il senso dell’essere, perché finisce sempre per conoscere solo l’ente particolare in quanto tende a definirlo, quindi a determinarlo e a circoscriverlo (come è successo, secondo Heidegger, da Platone in poi); l’essere invece è il non-ente, è ciò che non è oggettivabile e definibile, quindi l’essere è definibile, secondo il filosofo tedesco, come il “niente” (1987a, pp. 59-77). Se l’essere è il niente, l’uomo è definibile come sentinella del nulla, cioè di un essere che sempre è ricercato e annunciato, ma che sempre si trae fuori da ogni definizione che, come tale, si riferisce sempre e solo agli enti. Dunque l’esperienza della verità, in questa prospettiva, è esperienza del nulla! Dopo la “svolta”, a partire dagli anni Trenta, preso atto che non è possibile

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conoscere l’essere a partire dall’Esserci, cioè da se stesso, perché l’uomo si rapporta sempre e solo con gli enti, Heidegger comprende che la conoscenza della verità può avvenire solo mediante la stessa manifestazione dell’essere, ossia mediante il suo rivelarsi, nei confronti del quale l’uomo deve porsi in un atteggiamento di abbandono, lasciando che l’essere sia ciò che è, e ponendosi piuttosto al suo servizio:“L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere”, scrive Heidegger (1987b, p. 295). L’essere, e con esso la sua verità, si manifesta nel linguaggio, e in particolare nel linguaggio poetico: “Il linguaggio è così il linguaggio dell’essere come le nuvole sono le nuvole del cielo” (1987b, p. 315). 4. In dialogo con le teorie filosofiche, alla ricerca della verità in educazione Posto, dunque, che il tema della verità rientri a pieno titolo nella vita di ogni giorno – e perciò stesso anche nella pratica educativa – e presentate alcune tra le più significative teorie filosofiche sulla verità – si tratta di affrontare il punto decisivo, ossia il fatto che sembra esserci una grande distanza tra l’esperienza educativa della verità in educazione, spesso vissuta senza essere pienamente consapevoli della sua presenza e di ciò che significa, e le teorie filosofiche su di essa, che sembrano a loro volta del tutto avulse dall’esperienza comune. Questa distanza, come si è già ricordato, provoca un duplice effetto negativo: da una parte, il pericolo di considerare le teorie sulla verità del tutto astratte e quindi inutili; dall’altro, il pericolo altrettanto forte che alle implicazioni della verità nell’agire comune, compreso l’agire educativo, si diano risposte superficiali, ingenue o irriflessive. Un modo, per evitare il duplice pericolo sopra paventato, potrebbe essere quello dell’approccio ermeneutico al tema della verità, incentrata sul dialogo domanda/risposta, che rappresenta il cuore della concezione ermeneutica gadameriana (Gadamer, 1990, pp. 427-437). In concreto si può ipotizzare che le teorie filosofiche sulla verità si presentino come altrettante ipotesi interpretative (domande) circa la consistenza della verità nell’esperienza educativa; a sua volta l’esperienza educativa si può porre come oggetto di interpretazione che non solo “risponde” a partire dalla propria realtà, ma anche “interroga” le stesse teorie. 1) Dal punto di vista della prima delle teorie della verità, ciò che sembra emergere è che l’orizzonte di verità in cui si colloca ogni esperienza educativa è dato dal fatto che vi sia corrispondenza tra l’intenzionalità, il progetto, la successiva azione dell’educatore e la realtà dell’educando, dotata anch’essa di sua specifica intenzionalità, progettualità e capacità di azione. Ciò significa che, come l’essere è misura della verità del pensiero, così la realtà dell’educando (nel caso particolare) e dell’educazione (in senso generale) sono il termine di riferimento della validità del pensare, del progettare e dell’agire dell’educatore. Da ciò consegue che l’educatore non può agire in modo del tutto arbitrario, ma deve tenere costantemente presente la realtà dell’educando (e del

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significato dell’educazione in senso generale), una realtà che ha la sua identità, la sua autonomia e la sua storia. Il fatto che l’azione educativa debba “corrispondere” o “adeguarsi” all’educando rappresenta, per così dire, l’orizzonte della precomprensione entro cui dapprima si progetterà e poi si svolgerà l’intera esperienza di istruzione, educazione e formazione. L’accostamento alla precomprensione confermerebbe il fatto che la tematica della “corrispondenza” è al tempo stesso il punto di partenza e il punto d’arrivo dell’educazione, delineandone in tal modo la realtà complessiva. 2) A garanzia della corrispondenza tra intenzione educativa e realtà dell’educando si pone la questione della conformità del metodo, che rappresenta il modo concreto attraverso il quale si attua la relazione tra educatore, azione educativa ed educando. In questo senso trova conferma l’idea secondo cui la verità come “corrispondenza” necessita di un’ulteriore verità per realizzarsi, quella metodologica. Se la prima indica l’orizzonte complessivo, la seconda delinea il percorso da fare per andare dal punto di partenza al punto d’arrivo. Tuttavia, anche in educazione si pone il problema – di carattere più generale – circa il fondamento veritativo del metodo: dove si fonda la sua verità? La risposta può forse venire esattamente dalla sua capacità di corrispondere alla duplice esigenza, dell’educando e dell’educatore, all’interno delle quali si richiede il suo utilizzo, esattamente come un ponte permette di passare con sicurezza un fiume perché è saldamente ancorato ad entrambe le rive. 3) L’azione educativa si mette in atto perché serva a qualcosa, dunque la concezione della verità come utilità permette di considerare in particolare un aspetto determinante delle finalità educative: esse devono servire! Non vi è educazione in assenza di finalità, come si sa, e queste finalità non possono essere qualsivoglia, ma devono riguardare esattamente ciò che è “veramente utile” all’educando, nella situazione concreta in cui questi si trova, per colmare i propri bisogni e realizzare nei limiti del possibile il suo desiderio di compimento e di pienezza. In modo analogo il discorso si estende anche alle finalità sociali dell’educazione, dal momento che l’educazione non riguarda solamente l’educando, ma anche la realtà comunitaria (famiglia, scuola, società, stato) in cui questi si trova a vivere. Il fine educativo è vero quando è utile all’educando, ma quando è realmente utile alla realtà dell’educando, se non quando si relaziona con la sua realtà più profonda? Quindi l’utilità del fine rinvia ad un ulteriore elemento, che non ha a che fare solamente con l’educazione, ma riguarda la persona dell’educando. Da qui la riproposizione di una dinamica circolare con implicazioni antropologiche: il fine educativo da perseguire è vero perché è utile all’individuo e alla società o il fine educativo è utile perché è vero, in quanto rispecchia la realtà autentica della persona dell’educando e la sua istanza di compimento? 4) La verità come manifestazione o rivelazione dell’essere sembra interpretare appieno il senso etimologico dell’educazione, intesa come educere. In effetti, il fine ultimo dell’educazione è di creare le condizioni affinché l’educando possa rivelare sé a se stesso e agli altri, divenendo ciò che è chiamato ad essere secondo la sua vocazione. Si potrebbe osservare che nella manife-

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stazione di sé da parte dell’educando, l’educazione perviene al compimento della sua verità globale, nel senso che non si limita a mostrare la verità del fine, ma è conferma, nel contempo, dell’utilità dell’educazione, dell’efficacia del metodo e quindi dell’effettiva corrispondenza esistente tra azione dell’educatore e realtà dell’educando. Il rivelarsi dell’educando, se da una parte può essere inteso come il compimento che conferma il valore veritativo dell’azione educativa intrapresa, dall’altra pone il problema di ripensare nuovamente la corrispondenza, il metodo e il fine, perché il manifestarsi dell’educando è per ciò stesso portatore di qualcosa di sempre nuovo per l’educatore, forse di non previsto e di non prevedibile, che richiede una revisione dell’insieme dell’azione educativa al fine di “adeguarla” alle mutate condizioni in cui essa si viene a svolgere. In tal modo il “circolo ermeneutico” dell’educazione si riapre e ricomincia, e con esso si ripropone il problema della sua verità, però ad un livello di maggiore fedeltà dell’azione educativa alla realtà dell’educando. 5. Osservazioni conclusive: l’educazione interroga le teorie sulla verità Al termine di questa analisi si possono trarre alcune considerazioni che, per quanto provvisorie, possono essere di un certo interesse teoretico. In primo luogo: ogni concezione della verità coglie un aspetto essenziale della verità educativa, però nessuna di esse, da sé sola, è in grado di esaurirne completamente la comprensione; ne consegue che è necessario tenerle presenti tutte, se si desidera avere una visione complessiva dell’esperienza della verità in educazione; la verità dell’educazione, per essere compresa, necessita di più approcci teorici, che tuttavia possono ritrovare un’unità al loro interno, data da una stretta correlazione e complementarità: la verità come corrispondenza delinea l’orizzonte di riferimento e la distanza da colmare, la verità come metodo e coerenza delinea il modo di procedere, la verità come utilità richiama il carattere essenziale del fine educativo, mentre la verità come manifestazione indica il fine ultimo dell’educazione e dunque il compimento della sua verità; ogni ulteriore teoria della verità che si dovesse tenere in considerazione ed anche elaborare ex novo, permetterebbe certamente di comprendere ulteriori elementi di verità educativa, aumentando in tal modo la visione complessiva di tale verità; l’educazione pone il problema del fondamento unitario della verità, sperimentata in educazione; questa è forse la “domanda” fondamentale che proviene dall’educazione e che interroga la filosofia circa la possibilità di trovare il fondamento unitario della verità in quanto tale. Può esistere una visione della verità che contemperi sia il momento unitario della verità, sia la possibilità delle sue molteplici esperienze e interpretazioni? In secondo luogo, le teorie filosofiche sembrano realmente in grado di interpretare la presenza della verità nella pratica educativa quotidiana, aiu-

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tando in tal modo a comprendere meglio la presenza della verità in educazione e nel contempo dimostrando la propria utilità in quanto teorie. Rimarrebbe da verificare ulteriormente se ciascuna di tali teorie (o anche una sola di esse) possa considerarsi come interprete esaustiva della verità dell’educazione o se ciascuna di esse non presenti dei limiti tali da richiedere di essere completata mediante il rimando alle altre teorie. Infine sembra essere di particolare importanza, in particolare dal punto di vista della filosofia dell’educazione, il fatto che le “risposte” provenienti dalla realtà educativa potrebbero contribuire anch’esse ad approfondire la riflessione filosofica sulla verità. Se così fosse, le teorie filosofiche sulla verità, da “interroganti” (o interpretanti) la realtà educativa si trasformerebbero in “interrogate” (o interpretate) dalla realtà educativa, a conferma non solo del “circolo ermeneutico” che caratterizza ogni esperienza interpretativa, ma anche di come l’esperienza educativa quotidiana, se fatta oggetto di attenta riflessione teoretica, possa essere portatrice di nuova conoscenza. Nota bibliografica Aristotele (1978). La metafisica I-II. Napoli: Loffredo. D’Agostini F. (2011). Introduzione alla verità. Torino: Bollati Boringhieri. Engel P., Rorty R. (2007). A cosa serve la verità? Bologna: Il Mulino (Ed. orig. 2005). Ferraris M. (2012). Manifesto del nuovo realismo. Roma-Bari: Laterza. Gadamer H-G. (19907). Verità e metodo. Milano: Bompiani (Ed. orig. 1960; 1965; 1972). Gardner H. (2011). Verità, bellezza, bontà. Educare alle virtù nel ventunesimo secolo. Milano: Feltrinelli (Ed. orig. 2011). Heidegger M. (19765). Essere e tempo. Milano: Longanesi (Ed. orig. 1927). Heidegger M. (1987a). Che cos’è la metafisica (1929). In M. Heidegger, Segnavia (pp. 59-77). Milano: Adelphi (Ed. orig. 1976). Heidegger M. (1987b). Lettera sull’“umanesimo” (1946). In M. Heidegger, Segnavia (pp. 267-315). Milano: Adelphi (Ed. orig. 1976). Husserl E. (19877). La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Milano: Il Saggiatore (Ed. orig. 1959). Jaspers K. (1995). La filosofia dell’esistenza. Roma-Bari: Laterza (Ed. orig. 1938). Kant I. (1977). Critica della ragion pura. Torino: Utet (Ed. orig. 1781). Mancuso V. (2009). La vita autentica. Milano: Raffaello Cortina. Pieretti A. (2006).Verità. In Enciclopedia filosofica (pp. 12049-12071 - Vol. XII). Milano: Bompiani-RCS Libri. Platone (1991). Cratilo. In Platone. Tutti gli scritti (pp. 131-190). Milano: Rusconi. Platone (1991). Repubblica. In Platone. Tutti gli scritti (pp. 1067-1346). Milano: Rusconi. Ricoeur P. (1986). Il conflitto delle interpretazioni. Milano: Jaca Book (Ed. orig. 1969). Zambrano M. (1996). Verso un sapere dell’anima. Milano: Raffaello Cortina (Ed. orig. 1950, 1991).

Daniele Loro


La formazione delle italiane al cinema

di Francesca Marone, Valeria Napolitano* Abstract Essere donne (Cecilia Mangini, 1965) e Vogliamo anche le rose (Alina Marazzi, 2007) offrono due punti di vista originali sui movimenti femministi italiani tra il 1960 e il 1979. Il primo documentario dà voce alle donne costrette ai margini in un sistema contraddistinto da un meccanismo produttivo, che annulla i confini tra lavoro e tempo libero e mira a garantire gli interessi padronali, alimentando un modello femminile rassicurante. Il secondo ripercorre, attraverso tre storie, le conquiste della lotta collettiva, che restituiscono alle donne il ruolo di agenti storici, trasformando l’immagine di loro stesse e dei loro corpi. L’analisi comparata dei due film evidenzia come, usando la narrazione, si possa ripensare criticamente i modelli femminili nella società italiana, al fine di interpretare un presente segnato da nuove forme di disuguaglianza nei confronti delle donne.

Parole chiave: pedagogia critica, studi di genere, femminismo, cittadinanza attiva, cinema Essere donne (Cecilia Mangini, 1965) and Vogliamo anche le rose (Alina Marazzi, 2007) offer two personal views on Italian feminist movements between 1960 and 1979.The first documentary gives voice to the marginalized women within a system marked by a production machine that cancels the boundaries between work time and leisure and aims at granting the interests of the owners by nourishing a reassuring female model. The second retraces, through three stories, the achievements of collective struggle, that have given back to women the role of historical agents, transforming the image of themselves and of their bodies. A comparative analysis of the two films points out the way in which, using the narrative, female models in the Italian society can be critically rethought in order to interpret the current situation where new forms of inequality are affecting women. Key words: critical pedagogy, gender studies, feminism, active citizenship, cinema

* Il presente lavoro è stato elaborato, discusso ed articolato in comune dalle autrici. La stesura dei diversi paragrafi è tuttavia individuale, per cui sono da attribuirsi a Francesca Marone i paragrafi 1 e 4, a Valeria Napolitano i paragrafi 2 e 3.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 1722-8395 (in press) / ISSN 2035-844X (on line) Studium Educationis • anno XIII - n. 2 - giugno 2012


1. Una storia italiana La rivoluzione femminista in Italia Tra Otto e Novecento coincide con l’avanzata dei processi di modernizzazione: proprio in quegli anni, in tutto l’Occidente industrializzato, le donne vanno acquisendo una maggiore visibilità nello spazio privato come in quello pubblico (Duby, Perrot, 19901992). Fino alla metà dell’’800 la donna con un destino predeterminato da millenni, quello di divenire moglie e poi madre, non aveva accesso alle cariche pubbliche perché ritenuta inadeguata e dunque confinata in un ruolo inferiore, circoscritto alla famiglia, alla cura dei figli e alle faccende domestiche (Ulivieri, 1999). Nella seconda metà del secolo XIX, in Europa, grazie anche alla rivoluzione industriale e ai continui rivolgimenti, le donne acquisirono maggiore libertà di movimento nella vita sociale. Cominciò, sia pure faticosamente, a essere loro riconosciuto il diritto a rompere i legami economici e simbolici che le legavano al padre o al marito. È la stessa prospettiva di vita femminile a essere mutata laddove le donne potevano considerarsi soggetti pensanti, politicamente attive e aspirare a divenire cittadine, discutendo di lavoro salariato, diritti civili, diritto all’istruzione (Ulivieri, 1992, p.178). Nasceva così l’emancipazionismo e con esso il modello della donna moderna, matrice delle molteplici identità femminili che preludevano alla vita delle donne nel XX secolo con tutte le loro contraddizioni. Non più paghe di essere considerate il fulcro della famiglia borghese, a capo della prima cellula di un modello di stato che si era andato affermando con il Risorgimento, le italiane rivendicarono il diritto di voto e la partecipazione alla vita pubblica, fino ad allora esclusivo dominio degli uomini: escono sulle piazze, fanno comizi, manifestano, comunicano alle altre, unendosi ad altre rivoluzioni, altri movimenti sociali (ad esempio con alterne vicende a quello operaio), per partecipare attivamente alla vita politica e allo spazio pubblico. Anna Maria Mozzoni, Gualberta Alaide Beccari, Alessandrina Ravizza, Linda Malnati, Adelaide Coari, Anna Kulishoff, Ersilia Majno, Sibilla Aleramo, Maria Montessori, Ada Gobetti: sono solo alcune delle tante protagoniste (Farina,1995), che hanno contribuito alla costruzione dell’Italia e della sua identità nazionale, facendo tesoro delle esperienze e delle relazioni accumulate dalle patriote risorgimentali (Soldani, 2007). Queste madri “moderne”, escluse dal diritto di voto e deluse nelle loro speranze dall’assetto dello stato post-unitario, che non garantiva loro i diritti fondamentali, si adoperarono attivamente a favore dell’emancipazione sociale e politica delle donne per cercare di ottenere un qualche risultato sul piano delle norme giuridiche come della vita quotidiana. Tale movimento verso l’acquisizione di una matura consapevolezza e nuovi diritti si affievolì nel ventennio fascista dal momento che le donne organizzate non furono più considerate un interlocutore politico dalla dittatura che riconobbe solo due ordini di associazioni femminili: quelle fasciste, sostenute e potenziate, e quelle cattoliche, appena tollerate. Pertanto, le emancipazioniste italiane dovettero fare i conti con la “donna nuova” del primo

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dopoguerra, imparando a rapportarsi alle gerarchie maschiliste, agli atteggiamenti militaristi, a posizioni fondate sul determinismo biologico e contrabbandate come scientifiche, in primo luogo la gretta concezione delle maternità funzionali alla politica del regime. Pur non avendo a disposizione canali con i quali esprimere i propri interessi o il malcontento, ci furono delle voci femminili divergenti capaci di protagonismo e di scelte, seppur limitate. Dunque, le donne del ventennio non furono vittime passive e prive di speranza, ma l’inquietudine, la ribellione, la dissimulazione, lo scetticismo e una consapevolezza crescente dei loro diritti di donne e di cittadine erano abbastanza diffuse anche tra quelle che non presero parte attiva alla lotta partigiana. Alla fine della seconda guerra mondiale e per tutti gli anni Cinquanta, le donne italiane sperimentarono la possibilità di dare voce al loro desiderio di autonomia e di creatività, confrontandosi con il resto del mondo. In particolare, esse conobbero come vivevano le donne americane attraverso i giornali, ma soprattutto attraverso il cinema (più diffuso dei giornali in quanto molte a quell’epoca non sapevano leggere). La distanza che avvertivano tra il loro mondo e quello delle donne americane era rilevante. In America certo non c’erano le rovine e la miseria della guerra, ma belle case, moderne, dotate di frigoriferi e di innumerevoli elettrodomestici. Il cinema ha creato dei miti, ma anche delle mete, dei traguardi da raggiungere, non solo relativamente al possesso di una cucina moderna, una lavatrice, un frigorifero e altri elettrodomestici, che permettono alla donna di affaticarsi di meno e di avere più tempo per sé, ma anche proponendo modelli familiari e amorosi. Per non parlare poi dei diritti sociali e politici: mentre le donne americane ad esempio possedevano già il diritto di voto, le donne italiane lo hanno ottenuto solo dopo il dicembre del 1945; il 31 gennaio, con il Paese diviso e il nord sottoposto all’occupazione tedesca, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto alle donne1. Nel 1946, le italiane si recarono alle urne per la prima volta e, a dispetto di quanti avevano previsto una scarsa affluenza femminile, andarono a votare in tante, facendo registrare alte percentuali sia alle amministrative in primavera, che alle elezioni del 2 giugno. Fu un momento importante perché andava a incidere sulla dimensione soggettiva non solo politica: una conquista d’individualità oltre che di cittadinanza. Quel “voto segreto” significava poter disporre di se stesse e della propria esistenza fuori dal controllo di padri, mariti e fratelli. Dagli anni Cinquanta in poi, grazie alle nuove necessità create dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione e dallo sviluppo del capitalismo, si diffuse una mentalità diversa rispetto al lavoro femminile, promuovendo di conseguenza la scolarizzazione di massa delle ragazze. Sono gli anni del miracolo economico, un miracolo che tuttavia coinvolge solo una parte, privilegiata, della popolazione, il resto soprattutto al Sud

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Decreto legislativo luogotenenziale 2 febbraio 1945, n. 23 - Estensione alle donne del diritto di voto.

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lavora dalle 13 alle 15 ore al giorno e le donne sono la fascia maggiormente penalizzata. L’Italia è un paese ancora conservatore e patriarcale. Negli anni Sessanta le rivendicazioni del femminismo si accompagnarono a un certo benessere economico e a un timido rinnovamento dei costumi e s’intersecarono ad un più generale processo di contrapposizione tra le generazioni che portò i giovani a contestare la famiglia e le istituzioni percepite come troppo rigide. Negli anni Settanta le femministe, soprattutto negli USA, rilevarono che nonostante le conquiste civili, politiche e sociali e il superamento dello sfruttamento economico, l’opera di emancipazione non era ancora compiuta perché bisognava interrogarsi sull’essenza profonda, la radice, che continuava a tenere in vita il patriarcato. Esse la identificarono con la discriminazione nella sfera della riproduzione sessuale, con la differenza biologica, che da sempre viene trasformata in quella differenza di ruoli e in quella differenza sociale che relega la donna in condizioni di subordinazione. Anche in Italia il femminismo attribuì alla sessualità un ruolo politico quale luogo di radicate dinamiche di potere; essa diventa terreno di scontro e la liberazione sessuale viene intesa come liberazione dalle norme che il patriarcato e la borghesia impongono per mantenere il dominio maschile. È l’epoca in cui le femministe italiane scandalizzano i benpensanti bruciando in piazza il reggiseno e invitando le altre a scoprire se stesse e il proprio corpo, a partire dagli organi sessuali, al grido di “io sono mia”. Per la prima volta le femministe scendono in piazza separatamente dagli uomini: è l’8 marzo del 1972 e la manifestazione si svolge nel celebre Campo De’ Fiori di Roma, con quasi ventimila donne di tutti gli strati sociali e diverse generazioni; sono accomunate dal desiderio di cambiamento, di contare, di gestire il proprio corpo. Ai lati della piazza vi è una massiccia presenza della polizia, che ben presto carica duramente le manifestanti e riesce a sgombrare la piazza, ma quella manifestazione sancirà una tappa fondamentale della storia del femminismo. Le parole diventano slogan: “Donna è bello”, “Donne non si nasce ma si diventa”, nel sogno di allargare i confini della politica e di cambiare la società. Successivamente, il femminismo ha ancorato al sesso il concetto di identità e non al genere – sottolineando il corpo come specifico femminile – ma ciò non lo ha messo al riparo dall’instabilità e dal suo essere in continua transizione, esposto alla crisi dei modelli codificati, fino allo scoprirsi come identità molteplice e frammentata dagli anni Ottanta in poi. A partire dagli anni Settanta l’impegno nell’identificare esperienze culturali, individuali e collettive, e l’imporsi di una libera soggettività delle donne, anche attraverso le strutture culturali femminili in lotta per i diritti di cittadinanza, contribuiscono all’affermazione di un pensiero interprete dell’alterità e delle emergenze del mondo contemporaneo anche nel cinema: molte sono le registe, le sceneggiatrici, le produttrici e le interpreti che incarnano il pensiero della differenza, destando scandalo o consensi, comunque facendo discutere. Negli anni Ottanta, invece, con la demistificazione delle ideologie correnti, si è posta la necessità di una reale attenzione ai problemi delle donne, in

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senso storico, individuando le tradizioni che hanno determinato e organizzato l’esclusione e le pratiche femminili attuate per far fronte a questa esclusione; e in senso teorico, facendo della differenza un valore con cui orientarsi nella contemporaneità e nella crisi dei valori tradizionali presentatasi con la postmodernità. Ciò ha prodotto non solo dei risultati politici e sociali, ma anche degli effetti nel campo della conoscenza, i quali vengono indicati o almeno istituzionalizzati con il termine di “studi femministi”, “studi sulle donne”, “studi femminili”, “studi di genere”. Gli studi delle donne hanno conferito centralità al tema della priorità dei soggetti sessuati nella costruzione dei saperi, evidenziando le modalità attraverso cui questi vengono comunicati e trasmessi – e al loro conseguente ripensamento delle metodologie di indagine, della raccolta delle fonti e della loro interpretazione. 2. I mutamenti del presente tra fiction e realtà Ripensare le metodologie di indagine nei percorsi di costruzione e di trasmissione dei saperi significa anche riconoscere l’importanza delle rappresentazioni sociali, che in quanto effetto di presupposti ideologici di una cultura e di un periodo circoscritti mutano e sono riorganizzate costantemente. In tal senso, bisogna riflettere sul fatto che l’attuale crisi dell’economia, delle istituzioni e della politica sta generando nuove forme di ineguaglianze nei confronti delle donne, nelle rappresentazioni sociali così come nei progetti politici e nelle norme giuridiche. Nonostante quarant’anni di femminismo abbiano destabilizzato i rapporti di potere tra uomini e donne, si sperimentano nuove forme di involuzione culturale, in virtù delle quali le conquiste dei movimenti femministi vengono progressivamente erose. La “neocolonizzazione” del corpo femminile è veicolata dalla trasmissione di stereotipi attraverso i mezzi di comunicazione, e comporta un processo di costruzione di immagini mentali del maschile e del femminile, mediante subliminali meccanismi di condizionamento socioculturale. Il linguaggio neopatriarcale, in quanto sistema totalizzante e fortemente dicotomico, continua ad agire per opposizione e per esclusione. L’antitesi prodotta da immagini femminili dedite principalmente alla cura della casa e della famiglia, preoccupate del loro aspetto fisico e impegnate in ruoli di scarso prestigio2, e da immagini maschili dedite, al contrario, all’affermazione professionale, al dominio e alla seduzione, ha influito e influisce tuttora sullo spettatore, che, nel confrontarsi con modelli socialmente e culturalmente indotti, finisce per identificarsi nelle rappresentazioni tradizionali, inerenti a un maschile “positivo” e a un femminile “negativo” (Taurino, 2005, pp. 56-57). Il principio della subordinazione femminile è una costruzione sociale fondata sullo squilibrio dell’“agente e dello strumento che si instaura tra l’uomo e

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Sull’influenza dei fattori psicosociali sull’esperienza dell’essere uomo e su quella dell’essere donna cfr. Burr 2000.

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la donna sul terreno degli scambi simbolici” (Bourdieu, 2009, pp.15,53). È opportuno dunque far riferimento a strategie culturali non escludenti, in grado di ridefinire le identità individuali e collettive, al fine di progettare un futuro fondato sull’autodeterminazione femminile, e sulla centralità delle relazioni e dello scambio. In tal senso, non si può prescindere dalla capacità del cinema di costruire nuove pratiche critiche nei confronti della realtà. In quanto raffigurazione simbolica del mondo, il film contribuisce alla “costruzione sociale del soggetto, dando forma alla sua identità e al modo in cui si rappresenta il reale”3. Al pari della realtà, anche al cinema il corpo acquista significato solo all’interno di processi di costruzione volti a specifiche pratiche di natura storica, culturale, ideologica, istituzionale (Foucault, 1978). Coerentemente con l’idea secondo la quale un punto di vista critico non si manifesta nel ricondurre la donna allo stereotipo di un’entità incapace di intervenire in modo attivo sugli eventi (Casetti, 1993, pp. 244-247), bensì nel restituirle il ruolo, perennemente negatole, di agente storico, bisogna considerare quelle autrici le cui opere appaiono contraddistinte da due caratteristiche fondamentali. Da un lato, il fatto di essere dei “testi aperti”, in grado di negoziare significati, e di creare e diffondere nuove rappresentazioni socio-culturali, offrendo a chi li guarda l’opportunità di vivere nello “spazio del possibile”4; dall’altro lato, il fatto di essere dei dispositivi performativi, che nel conferire statuto di realtà al conseguimento della consapevolezza della propria e delle altrui soggettività favoriscono la costruzione di spazi concreti di cittadinanza attiva. In tale ottica vanno lette le opere di Cecilia Mangini e Alina Marazzi, che in epoche diverse hanno messo in discussione il consolidato luogo comune della donna oggetto passivo dello sguardo maschile, evidenziando nei loro film lo scarto esistente tra le donne reali, le loro vite e i loro desideri e come esse erano rappresentate nell’industria cinematografica dominante. Quando si parla di figure femminili alternative nel cinema si fa riferimento soprattutto, negli anni Settanta, alla Feminist Film Theory, e a un cinema indipendente soprattutto anglo-americano (nel quale spiccano Doroty Arzner e Ida Lupino) in grado di infrangere definitivamente il punto di vista unico maschile, favorendo il ruolo attivo delle donne sul grande schermo. Questioni fondamentali, quali l’affermarsi di una nuova consapevolezza legata alla rappresentazione dell’esperienza delle donne nel cinema da un lato, e l’emancipazione del piacere femminile dal punto di vista maschile dall’altro, appaiono strettamente collegate alla Feminist Film Theory5. Preme sottolineare tuttavia

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Sull’incidenza del cinema e del linguaggio audiovisivo sul processo formativo degli individui cfr. Angrisani, Marone, Tuozzi 2001. Bruner (2001) sostiene a tale proposito che la funzione delle forme culturali consiste nell’aprirci ai dilemmi e alle ipotesi. Si tratta di un orientamento di studio, sorto tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, che vede le donne impegnate nell’analisi delle forme di significazione testuale del film: le aperture e gli sconfinamenti che il processo narrativo promuove nel segnare i percorsi di lettura della spettatrice.

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come lo studio della storia del cinema al femminile non può prescindere da queste due registe italiane, che hanno contribuito al riconoscimento della piena cittadinanza alle donne, in un’industria prevalentemente maschile, e, nel caso della Mangini, in un contesto socio-culturale diffusamente conservatore, quale quello della prima metà degli anni Sessanta. Il loro cinema offre un’occasione preziosa per indagare le forme di espressione e di rappresentazione del femminile, non riconducibili alla logica tradizionale dello spettacolo e del divismo. 3. Essere donne (Cecilia Mangini, 1965) La regista, fotografa e sceneggiatrice Cecilia Mangini realizza nel 1965 un pioneristico documentario sulla condizione delle lavoratrici italiane, nel quale la storia al femminile diviene parte integrante della contemporaneità. Per la prima volta nel cinema italiano, i vissuti a lungo ignorati (in quanto subordinati a forme relazionali pubbliche e private di stampo patriarcale) delle operaie e delle braccianti vengono indagati nell’ottica di un apporto inconfutabile e irrinunciabile alla crescita socio-economica del paese. Essere donne offre l’opportunità di riflettere sul passato inteso quale prezioso patrimonio per interpretare il presente. Nel documentario degli anni Cinquanta e Sessanta, contrariamente al tema della condizione degli operai nelle fabbriche, che, seppur faticosamente e al prezzo di numerosi compromessi, riesce ad emergere, la donna intesa quale soggetto attivo nel lavoro operaio e contadino in quegli anni non compare mai. Filmare le donne al lavoro era considerata un’impresa difficile; infrangere il tabù significava principalmente scardinare lo stereotipo a lungo veicolato dalla filmografia ufficiale, fondata su figure femminili appagate dal proprio ruolo di mogli e madri. Occuparsi delle lavoratrici delle fabbriche e delle campagne ha permesso invece a Cecilia Mangini di delineare un quadro sorprendentemente ricco, nel quale l’immagine tradizionale di donne relegate a una condizione marginale, funzionale alle figure di padri, mariti e figli, lasciava il posto a quella di un mondo femminile in grado di conciliare responsabilità familiari e ambizioni di emancipazione. Il bisogno di una riflessione sulla condizione delle lavoratrici delle industrie di Milano e delle campagne della Puglia fu alimentato in modo determinante dal sostegno del PCI di quegli anni. Ma è giusto affermare che, per la regista, la spinta ad analizzare le modalità attraverso le quali la donna italiana cerca di affermare la propria autonomia nell’Italia della metà degli anni Sessanta, contribuendo in modo determinante, malgrado persistenti discriminazioni normative e culturali, al cosiddetto boom economico, venne anche dal desiderio di riflettere su se stessa e sul proprio ruolo di regista e sceneggiatrice negli anni Cinquanta e Sessanta. Chiedersi cosa significava essere donne nelle fabbriche e nelle campagne, durante il miracolo economico, manifestava dunque la necessità di interrogarsi sull’essere donna e fare cinema in quella medesima fase storica. Tramite i gesti di vita quotidiana delle operaie e delle braccianti di quegli

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anni, il documentario mostra lo stravolgimento, messo in pratica dal sistema economico, dei confini tra pubblico e privato delle donne italiane. Essere donne parla dell’esperienza lavorativa nelle fabbriche del Nord, con la catena di montaggio e la parcellizzazione, e nelle campagne del Sud, ancora diffusamente sottoposte al fenomeno del caporalato. Raccontando le inquietudini e le insoddisfazioni derivate dal processo di automazione del regime industriale, Cecilia Mangini scongiura le facili soddisfazioni cui fanno ricorso le messe in scena fittizie. Analizzare Essere donne vuol dire considerare la natura anti-spettacolare del documentario, che in quanto “povero, artigianale, poco adatto al passaggio al mercato o all’industria” implica una “riduzione del cinema all’essenziale: corpo e macchina” (Comolli, 2006, p. 7). La donna del documentario di Cecilia Mangini è colei che, non facendo l’attrice di mestiere, recita efficacemente il proprio ruolo di operaia e di contadina. Ruolo che inizialmente sembra impersonarsi quasi esclusivamente nel rapporto corpo-macchina, e che tuttavia implica un mutamento di prospettiva radicale, legato al desiderio delle lavoratrici non soltanto di adeguarsi al nuovo sistema produttivo, ma anche di comprenderne le dinamiche. Le protagoniste di Essere donne hanno in comune una fierezza e una dignità decisive. Anche la testimonianza delle manovali adibite alla lavorazione del tabacco dimostra come non si tratti di vittime passive, bensì di donne e cittadine desiderose di esprimere la propria autonomia. Cosicché, il rispetto verso quelle autorità il più delle volte indifferenti alle nuove forme di rivendicazione da parte del genere femminile va di pari passo con la richiesta di una maggiore tutela dei diritti sul lavoro, e della messa in atto di politiche sociali in difesa delle madri lavoratrici. E lo sciopero diviene uno dei canali attraverso i quali esprimere, seppur a caro prezzo talvolta, l’insofferenza ormai diffusa nei confronti di un sistema che, nello sforzo costante di garantire l’interesse dei padroni piuttosto che le forme essenziali di assistenza sociale (gli asili nido), continua ad alimentare un modello femminile, introiettato dalla maggior parte delle stesse donne, accondiscendente e rassicurante. Le immagini di uno dei primi esempi di manifestazione femminile repressa dalle forze dell’ordine rappresentano la volontà di Cecilia Mangini di riflettere sulla “denegata” condizione femminile, e sulla conseguente necessità di cambiamento. La determinazione e la consapevolezza dei propri diritti da un lato e dall’altro i dubbi e le inquietudini delle intervistate si riflettono nello sguardo analitico e meta-riflessivo della regista, che nel confronto con le “altre da sé” si interroga sulle motivazioni dell’insoddisfazione femminile, originata da un sistema tanto penalizzante quanto difficile da modificare. Filmare le operaie costrette a duri sacrifici per essere riconosciute nell’industria del boom economico significava riflettere sulle proprie difficoltà a conquistare spazi di agibilità professionale all’interno dell’industria cinematografica. Il desiderio dell’autrice di identificarsi con le lavoratrici riprese durante la raccolta delle olive in Puglia o al controllo dei telai al Nord dà vita a un’autentica contro-inchiesta finalizzata a uno sguardo politico, in grado di indagare nelle pieghe della società italiana. Perché filmare “l’altro” non vuol dire inevitabilmente rinchiuderlo negli schemi del modello stereotipato, che inibiscono

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l’emancipazione di chi guarda. Al contrario, cercare la diversità come oggetto di analisi significa rimettere in gioco non soltanto l’altro ma anche se stesso, riconsiderando così il senso del reale (Comolli, 2006, p. 6). In merito al tema delle origini dell’identità delle lavoratrici italiane nei primi anni Sessanta, è indispensabile porre l’accento sull’humus storico e culturale nel quale affondano le radici delle donne di quegli anni. Divise tra le spinte centripete della tradizione e quelle centrifughe del desiderio di indipendenza, le protagoniste di Essere donne riescono a conciliare il doppio lavoro (familiare e pubblico) grazie alla loro fiera dignità, frutto di un passato mai statico o omogeneo. Nel loro cammino verso l’emancipazione, le donne del 1965 devono senza dubbio molto al background costituito dalle associazioni femministe sorte alla fine della seconda guerra mondiale – tra le quali spicca l’UDI – Unione Donne Italiane, nata nel 1944 dall’esperienza della resistenza civile e militare dei Gruppi di difesa della donna, distintasi nel 1946 per l’impegno per il diritto di voto attivo e passivo, e successivamente, dal 1956 al 1968, nelle lotte per il riconoscimento della parità di salario, del lavoro delle contadine e dei servizi sociali quali gli asili nido. E, certamente, un profondo spirito antifascista accomunava le centinaia di migliaia di italiane che confluirono nell’associazione nel corso dei due decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale. Uno spirito alimentato anche dal ricordo delle norme legislative che nel Ventennio tesero a discriminare le donne che lavoravano. Le discriminazioni messe in pratica dal fascismo nel campo del lavoro femminile rientrarono in una pratica di controllo ben più capillare. Soprattutto la legge del 3 aprile 1926, che vietava lo sciopero e la serrata, e l’istituzione della Magistratura del lavoro, che centralizzava le trattative sindacali, finirono per danneggiare gli interessi dei lavoratori in generale, a vantaggio di quelli dei datori di lavoro. Le più colpite furono tuttavia le donne, dal momento che la politica fascista era esplicitamente finalizzata a sostenerne la funzione riproduttiva. Il controllo costante del regime sulla condotta delle italiane si concretizzò, oltre che in sistematiche intrusioni nella sfera privata, funzionali ad una politica sessuale finalizzata al controllo delle nascite, in un’articolata serie di limitazioni e costrizioni, il cui intento manifesto era non tanto quello di scongiurare la presenza femminile nella vita pubblica italiana, quanto quello di scoraggiare le donne che ambivano al lavoro retribuito. Soprattutto a partire dagli anni Trenta, in seguito alla grande depressione, il lavoro femminile divenne particolarmente inviso al fascismo. Si inserisce in questo contesto un articolo intitolato Macchina e donna, apparso il 31 agosto 1934 sul “Popolo d’Italia”, nel quale Mussolini affermava che il lavoro femminile “mascolinizzava la donna, provocava la disoccupazione dell’uomo, fomentava una indipendenza e una moda contraria al parto che avrebbero condotto al calo demografico, privava l’uomo non solo del lavoro ma anche della dignità” (Mussolini, 1934, p. 311). D’altra parte, proprio in virtù del suo realismo, il regime sapeva di non poter fare a meno delle donne, ragion per cui assunse posizioni molte volte contraddittorie nei loro confronti. Alcuni studi sul tema evidenziano a tale proposito il carattere ambiguo delle politiche fasciste nei confronti di un mondo femminile in costante evoluzione (De Grazia, 1993), e sostengono

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che gli esiti dell’attivismo cittadino delle donne fasciste andarono al di là dei propositi dello stesso regime (Fraddosio, 2002, p. 240). Altri invece avvalorano la tesi di un regime repressivo sul piano dell’emancipazione lavorativa, e incapace di tutelare quello stesso diritto alla maternità che, dapprima esaltato, venne in seguito negato dal conflitto mondiale (Bravo, 1991). Si trattò di un’attitudine strumentale, già evidente nella fase originaria della cosiddetta controrivoluzione, quando il Duce, dopo essersi fatto forte del sostegno dei gruppi nazionalisti e delle società femminili, insofferenti all’immobilismo liberale, ne decise lo scioglimento per annullarne le potenzialità eversive. Tuttavia, la sua logica totalitaria finalizzata al raggiungimento del dominio interno ed estero implicava l’estensione di alcuni elementari diritti alle donne. Fenomeni quali la già citata mobilitazione di massa, ma anche gli asili d’infanzia per le lavoratrici e l’istruzione scolastica diedero il via ad un processo di modernizzazione della società italiana, al quale presero parte anche le donne. Al di là della presenza dei Fasci Femminili, sorti nel 1920 e confinati dallo Statuto del 1921 in poi nel campo della funzione propagandistica e assistenziale (Gentile, 2002, p. 191), bisogna considerare l’essenza dinamica di una dittatura che sopperì alla condanna del femminismo con l’esaltazione di una nuova femminilità, incentrata su una figura di donna risoluta, servitrice della famiglia e della patria. L’icona fascista non rende certo giustizia allo sfaccettato mondo femminile di quegli anni, estremamente eterogeneo in quanto a classe, cultura e differenze d’età. In linea di massima, comunque, le madri e le mogli alle quali era affidato anche il ruolo di educatrici militanti del partito, se da un lato intravedevano inedite forme di partecipazione alla vita sociale, dall’altro erano costrette ad accettare continue limitazioni in ambito lavorativo. Gli effetti delle contraddizioni fasciste si manifestarono, dal 1940 in poi, con l’entrata in guerra, quando lo sforzo teorico e giuridico di escludere le italiane dal lavoro extra-domestico venne di fatto invalidato dalla necessità di occupare i posti lavorativi degli uomini impegnati al fronte. Come già accaduto in passato, quindi, la guerra accelerò il processo ormai in corso di trasformazione del ruolo delle donne nella società italiana. La più produttiva e versatile fu, inutile dirlo, la manodopera delle fabbriche e quella del settore mezzadrile, le cui esigenze e problematiche furono tenacemente considerate revisionabili e flessibili dapprima dall’emergenza bellica e in seguito dall’urgenza della ricostruzione. Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra le donne e la piazza, Cecilia Mangini ha ricordato, nel corso di un recente dibattito6, l’influenza che hanno avuto su di lei le forme di vita collettiva fasciste, sottolineando l’importanza delle cerimonie di regime

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Incontro svoltosi nella giornata conclusiva dell’edizione 2009 del corso “Donne, politica ed istituzioni. Percorsi formativi per la promozione della cultura di genere e delle pari opportunità”, organizzato dal Dipartimento di Scienze Relazionali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per i diritti e le pari opportunità, d’intesa con il Ministero dell’Università e della Ricerca e in collaborazione con la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.

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– “in quelle occasioni potevamo uscire di casa e conoscere forme di partecipazione differenti da quelle tradizionalmente proposte dalla chiesa” – attraverso cui Mussolini mobilitava le masse in generale, e quelle femminili in particolare. Tali pratiche veicolavano un desiderio concreto di emancipazione da parte delle donne, che, pur irreggimentate – al pari degli stessi uomini – in un quadro rigidamente funzionale alla dittatura, partecipavano alla vita collettiva del paese, determinandone il senso di autonomia e lo slancio verso l’emancipazione. Tale riflessione non serve a riconsiderare la posizione ideologica (dichiaratamente antifascista) della regista, quanto piuttosto a scongiurare il pericolo che si crei una spaccatura tra il presente di quegli anni e il passato che lo ha determinato. D’altra parte Cecilia Mangini era ben consapevole della natura specifica delle manifestazioni nel Ventennio. Scrive Emilio Gentile che nel fascismo l’uomo è presente non in quanto soggetto dotato di un’identità (personale o collettiva, come nel caso dell’identità operaia), ma in quanto elemento cellulare della folla; la sua condizione, infatti, risulta essere intimamente legata alla riduzione della “partecipazione politica allo spettacolo di massa” (Gentile, 2002, p. 190). Dal canto suo, Simonetta Falasca Zamponi (2003, p. 87) rileva che il rifiuto del regime di attribuire una soggettività politica autonoma alla massa era la risultante della sua associazione con il proletariato. Per governare, scrive Gustave Le Bon nel suo Psicologia delle folle (1927), bisogna “conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle”. Era, questo, un punto saldo della politica mussoliniana, che nella ritualità consona alla costruzione del suo mito stabiliva il necessario distacco nei confronti della popolazione. Differentemente dal XVII e XVIII secolo, nei quali le tecniche di potere sono incentrate prevalentemente sul corpo individuale, nel corso della seconda metà del XVIII secolo la nuova tecnica di potere si dirige sulla molteplicità degli uomini, sulla massa (Foucault, 1993). Il passaggio dall’individualizzazione alla massificazione concerne soprattutto il XIX secolo; nella seconda metà dell’Ottocento, in particolare, la novità di rilievo fu rappresentata dai crescenti sconvolgimenti sociali, come la fine della Comune nel 1871 in Francia, o ancora la diffusione delle rivendicazioni femministe nella seconda metà dell’Ottocento. Il crescente senso di insicurezza, associato al desiderio di ordine e di controllo sulle masse, esprimeva il timore delle classi elevate di perdere i propri privilegi. Di qui il diffondersi dell’interesse scientifico per la folla e per la sua presunta irrazionalità. In particolare, una delle cause che giustificarono il rifiuto nei confronti delle masse fu la loro essenza femminile, alla quale il regime fascista contrappose l’immagine di un leader virile. Proprio in quanto femminili, le masse andavano “governate con entusiasmo piuttosto che con interesse”, ed “era necessario tener conto del loro lato mistico” (Falasca Zamponi, 2003, pp. 48-49). Indicativi, in tal senso, i reportage dell’Istituto LUCE incentrati sui raduni oceanici di Piazza Venezia, contraddistinti dallo schema abituale alto/verticale (il duce) e basso/orizzontale (la folla). Essere donne ha favorito l’affermarsi di una nuova consapevolezza storica, e ha infranto tabù e stereotipi consolidati, dando visibilità a configurazioni

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femminili in grado, nonostante le difficoltà socio-culturali dell’epoca, di ritagliarsi degli spazi concreti di cittadinanza attiva. 4.Vogliamo anche le rose (Alina Marazzi, 2007) In Italia, la rivoluzione femminile è stata molto più una rivoluzione simbolica che una rivoluzione fattuale, ma non per questo può dirsi meno considerevole. Questo itinerario di emancipazione delle italiane a partire dalla fine degli anni Sessanta fino alla fine dei Settanta ce lo racconta egregiamente Alina Marazzi nel suo film documentario Vogliamo anche le rose (Italia, 2007): un montaggio di filmati d’archivio e frammenti diaristici privati, ma anche un documentario di ricerca ricco di emozioni, di sensazioni e colori. Una personalissima elaborazione che consente allo spettatore di ripercorrere la storia di quel decennio denso di cambiamenti e trasformazioni della società e della famiglia, come il cambiamento di ruoli e dei cicli di vita, ma anche della trasformazione delle identità femminili e dei corpi delle donne, dei miti, delle mode, delle patologie. Il XX secolo è stato il secolo delle conquiste femminili, sia nell’ambito del diritto che in quello della trasformazione culturale; conquiste conseguite faticosamente mediante battaglie pubbliche e private, talora con costi altissimi sul piano personale e che non potranno essere cancellate e facilmente dimenticate. Infatti, grazie ad esse l’esperienza di vita delle donne è notevolmente mutata, tanto da non poter essere più detta solo in termini di discriminazione, sottomissione e marginalità. Eppure queste conquiste non sono irreversibili, bisogna stare attente e vigilare. Da qui la necessità di raccontare e produrre memoria: riflettere sui testi – visivi, sonori e scritti – che la storia ci tramanda per guardare alla nostra storia, privata o collettiva, e decodificarne le rappresentazioni; consapevoli che il consolidamento della posizione femminile, all’interno della società e della cultura, dipende dal valore acquisito dal pensiero delle donne (Persico, 2008, p. 22). Quello di Alina Marazzi è anche il tentativo ben riuscito di porre rimedio a quei “vuoti di memoria”, come li ha sagacemente appellati Annarita Buttafuoco, che hanno determinato tra l’altro la rimozione di un movimento come quello emancipazionista che per oltre sessant’anni aveva occupato un posto non secondario nel dibattito culturale dell’Italia liberale; a dire il vero, nel caso dell’emancipazionismo, si è trattato di una rimozione agevolata dalle sue stesse protagoniste che raramente hanno scritto per tramandarne la memoria, finché negli anni ’80 del Novecento la tendenza alla cancellazione viene ribaltata e la memoria, personale e politica, diventa intenzionalmente parte del progetto politico femminista (Buttafuoco, 1991, p. 63). Soprattutto, il film racconta l’esigenza del mutamento femminile in relazione all’esperienza politica e sociale collettiva, ma anche a quelle più intime e private di singole donne. La presa di coscienza del soggetto femminile passa attraverso un’autoanalisi serrata e un confronto non dogmatico con altre donne che abbiano avviato lo stesso processo di auto-trasformazione: è a partire dalla propria biografia

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che ciascuna donna può accedere al “proprio”, alla sua specificità, per toccare sul terreno esperienziale la propria mobilità e sfondare lo spartiacque tra il discorso e l’esperienza, i saperi specialistici e l’attitudine relazionale, il lavoro intellettuale e l’urgenza politica. Nel valorizzare l’esperienza e la soggettività femminile, il lavoro di Alina Marazzi affronta la questione del linguaggio delle donne e la narrazione quale dispositivo che facilita l’affermazione e l’espressione identitaria, la legittimazione della soggettività femminile attraverso il racconto di sé, volto a superare lo scarto ancora esistente tra esperienza soggettiva femminile e struttura simbolica adeguata a rappresentarla e a significarla. La capacità d’introspezione della pellicola gioca con le voci altrui, con i diari che denunciano i progetti esistenziali, i desideri e le motivazioni delle nostre “antenate”. Con il suo montaggio sapiente la regista raccoglie alcune voci: testimonianze esistenziali tratte in particolare da tre diari provenienti dall’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano (nei quali le autrici, Anita,Teresa e Valentina, scrivono le loro memorie nel 1967, nel ’75 e nel ’79), che vengono rielaborati con la collaborazione della scrittrice Silvia Balestra. Accomunate tutte e tre dall’esperienza di vivere a Roma, le protagoniste sono paradigmatiche di condizioni diverse e uguali al tempo stesso. Anita viene da una famiglia borghese, con un’educazione cattolica opprimente che le deriva dai genitori, e s’iscrive all’università proprio quando stanno esplodendo i fermenti del ’68;Teresa viene a Roma da un paesino della provincia di Bari per sottoporsi a un aborto clandestino;Valentina è una ragazza politicamente attiva che frequenta il collettivo in via del Governo Vecchio: per tutte e tre la scrittura è un luogo depositario dell’autentico che le guida nella loro personale rivoluzione. I testi delle tre protagoniste, affidati alle voci off delle attrici Anita Caprioli, Teresa Saponangelo e Valentina Carnelutti, sono stati montati con materiali visivi da film sperimentali o in super8, conversazioni, foto dell’epoca, riviste e fotoromanzi, immagini di repertorio (Teche Rai, Cineteche varie etc.) e fondi privati. La resistenza femminile di quel cruciale decennio è illustrata sia in relazione al mercato culturale, sia in relazione ai tradizionali compiti domestici delle donne – che vengono raccontati “dal di dentro”, recuperando la memoria di un passato tutt’altro che edulcorato: mediante il documentario apprendiamo le forme di aggregazione femminile, i movimenti politici e di opinione che, nella diversità dei contesti dei paradigmi mentali, culturali e religiosi, hanno accompagnato le configurazioni dell’identità femminile nel nostro Paese. Il documento fornisce gli strumenti per riflettere sulla propria storia identitaria attraverso una messa a fuoco del privato e della sessualità. I volti sullo schermo sono quelli di ragazze dell’epoca, ma le voci, i frammenti di immagini e di vite, danno forme alle ombre che dal quotidiano privatissimo si fanno coro, esperienza collettiva ed esigenza di rivoluzione e di coscienza, che arriva fino ai giorni nostri: ombre con cui ciascuna donna si confronta nel suo singolare divenire per riappropriarsi degli accadimenti intimi, per integrare passato e presente, per ribadire la propria unicità. Interessante è il racconto complesso dell’intreccio tra la Storia e le storie:

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l’impressione che se ne trae è di una “ordinaria” forza e dignità coltivata ad alto rischio di solitudine, ma sempre tesa verso una comunicazione autentica e profonda della propria differenza. Il sentimento di esclusione e il desiderio di appartenenza, il motivo della alterità, sia sul piano biografico, sia su quello ideologico, lungi dall’essere un elemento di effettiva esclusione o di marginalità culturale, acquistano, al contrario, nel discorso femminista come in quello di Alina Marazzi grande forza evocativa. Le differenze sociali e culturali, le attuali difficoltà per l’affermazione dei diritti civili delle donne e per il riconoscimento della loro autodeterminazione, i modi in cui negli anni si è organizzato il lavoro e si è distribuito il reddito all’interno delle famiglie, mostrano come ancora considerevoli siano le differenze presenti nella vita quotidiana.Va da sé la necessità di rinnovare l’impegno per l’acquisizione di uno status, nella famiglia e nella società, rispettoso della parità e, allo stesso tempo, garante dello sviluppo delle peculiarità femminili. Pertanto, nella condivisione del tempo presente, un tempo che cambia, in cui si rompono le barriere tra Est e Ovest, tra Sud e Nord del mondo, nel rimescolamento che prelude a nuovi incontri e che si pone carico di significati per le donne e i loro rapporti, riveste un ruolo importante lo studio della soggettività anche nei rapporti sociali, nello studio dei bisogni, degli istinti e degli affetti nel tempo quotidiano. Il titolo del film, ci spiega Alina Marazzi nelle sue note di regia, riprende il celebre slogan Vogliamo il pane, ma anche le rose, con cui nel 1912 le operaie tessili definirono la loro partecipazione a uno sciopero di settimane nel Massachusetts: il pane è ciò che è necessario, i diritti fondamentali, ciò che oggi è dato per acquisito. Ma le donne si sono battute per un mondo che desse spazio anche alla poesia delle rose, e spesso il tempo delle speranze non coincide con il tempo della storia. E, come sottolinea Alina Marazzi, è una battaglia più che mai attuale che richiede il confronto con aspetti contraddittori. Da un lato, la pulsione all’autodeterminazione e, dall’altro, anche un desiderio di dipendenza, il desiderio della relazione: il bisogno affettivo che alcune donne dichiarano di aver superato, ma che si ripresenta. L’oppressione della donna non è esclusivamente legata a fattori socioeconomici (Braidotti, 1994, p. 192); la sua condizione subalterna non può essere ridotta solamente a quell’insieme di regole e pregiudizi sociali che la definiscono in ruoli stereotipati, smantellando i quali sarebbe a portata di mano la definitiva liberazione. La questione si gioca a livelli più profondi: essa investe la strutturazione stessa del soggetto donna, la dimensione dell’inconscio, il problema dell’immaginario, delle identificazioni simboliche, del linguaggio.Va aggiunto però che, anche a livello collettivo, il cambiamento non va dato per acquisito: alla fine del film la regista indica le date principali della liberazione (dal referendum sull’aborto alla liberalizzazione della pillola). La ricchezza dell’esperienza femminile sta, dunque, nella sua molteplicità e complessità, sempre in bilico tra interiorizzazioni pulsionali, rappresentazioni, saperi e pratiche sociali, creando emozioni e narrazioni che producono una cultura altra, aperta a differenze ulteriori con cui continuamente fare i conti. Il film dà voce e anima a donne diverse, molte volte sole, che resistono contro

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un potere senza volto per affermare il diritto alla vita e alla salute; italiane che non demordono per la propria crescita, contrastando famiglie opprimenti e insane, relazioni coercitive, ambienti retrivi in cui il pettegolezzo e la maldicenza sono l’unico scopo dell’esistenza. Si ribellano, spesso lo fanno con ironia (un sapere e una tecnica prediletti dalla nostra registra) e addirittura con allegria, altre volte portando fino alle estreme conseguenze il proprio progetto eversivo. In tale prospettiva la pratica femminile della cittadinanza significa mostrare la propria presenza alle altre donne, al mondo, ed anche a se stesse per diventare cittadine del mondo e non esuli planetarie e ricomporre la frattura tra stato e società civile, facendo tesoro dei legami, intessuti con sé, con gli altri, con il lavoro, con il proprio ambiente, ma anche dei vissuti e dei desideri. Nota bibliografica Angrisani S., Marone F., Tuozzi C. (2001). Cinema e culture delle differenze. Itinerari di formazione. Pisa: Edizioni ETS. Bourdieu P. (2009). Il dominio maschile. Milano: Feltrinelli (Ed. orig. 1998). Braidotti R. (1994). Dissonanze, Le donne e la filosofia contemporanea. Milano: La Tartaruga. Bravo A. (a cura di) (1991). Donne e uomini nelle guerre mondiali. Roma-Bari: Laterza. Bruner J. (2001). La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola. Milano: Feltrinelli (Ed. orig. 1996). Burr V. (2000). Psicologia delle differenze di genere. Bologna: Il Mulino (Ed. orig. 1998). Buttafuoco A. (1991).Vuoti di memoria. Memoria, 31. Casetti F. (1993). Teorie del cinema 1945-1990. Milano: Bompiani. Comolli J.-L. (2006). Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta. Roma: Donzelli (Ed. orig. 2004). De Grazia V. (1993). Le donne nel regime fascista. Il fascismo ha emancipato le donne? Venezia: Marsilio. Derrida J. (1969). Della grammatologia. Milano: Jaca Book (Ed. orig. 1967). Duby G., Perrot M. (1990-1992). Storia delle donne in Occidente (Vol. 4). Roma-Bari: Laterza. Falasca Zamponi S. (2003). Lo spettacolo del fascismo. Catanzaro: Rubbettino. Farina R. (1995). Dizionario biografico delle donne lombarde. Milano: Baldini&Castoldi. Foucault M. (1978). La volontà di sapere. Storia della sessualità (Vol. I). Milano: Feltrinelli (Ed. orig. 1976). Foucault M. (1993). Sorvegliare e punire: la nascita della prigione. Torino: Einaudi (Ed. orig. 1975). Fraddosio M. (2002), La militanza femminile nella Repubblica Sociale Italiana. Miti e organizzazione. In E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione. Roma-Bari: Laterza. Gentile E. (2002). Fascismo. Storia e interpretazione. Roma-Bari: Laterza. Haraway D. (1995). Manifesto Cyborg. Feltrinelli: Milano (Ed. orig. 1985). Irigaray L. (1990). Questo sesso che non è un sesso. Milano: Feltrinelli (Ed. orig. 1977). Le Bon G. (1927). Psicologia delle folle. Milano: Monanni (Ed. orig. 1900). Marazzi A. (2008, 1 marzo) “Donne più che in rivolta”. Intervista rilasciata a Cristina Piccino e pubblicata su Alias, Inserto de Il Manifesto. Marone F. et alii (2001). Cinema e culture delle differenze. Itinerari di formazione. Pisa: ETS.

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Une écriture existentielle et autoformatrice pour s’affranchir de l’alcool

di Carole Baeza

Abstract La prova dell’alcolismo provoca nell’alcolista uno stato di grande disordine. Riuscire a proteggersi dall’alcol è il risultato di un lungo e faticoso cammino. Se l’alcolista accetta di servirsi della dipendenza dalla sostanza tossica come un’arma, forse può iniziare a vivere un’esperienza positiva di salute. Al fine di chiarire questi propositi, abbiamo elaborato un protocollo di formazione incentrato su una scrittura creativa. Nel corso di un anno, tre persone astinenti dall’alcol hanno riportato in un diario di bordo dei frammenti di frasi, immagini e disegni, che descrivono il loro percorso. Consideriamo i diari di bordo secondo un approccio estetico di cura in modo da favorire la rilettura esistenziale ed evidenziare i saperi messi in campo dalle persone astinenti dall’alcol per prendere le distanze dalla dipendenza e quindi emanciparsene. Parole chiave: progetto di formazione estetica, alcolismo, epistemologia pratica, saperi, scrittura The ordeal of alcohol related illness causes a great disorder to the alcoholic. Succeeding in protecting oneself from alcohol is the result of a long progression. If an alcoholic takes hold of the toxic domination in order to use it as a weapon, he may undertake a positive experience of health. In order to shed light on those statements, we have worked out a formation protocol based on creative writing. For one year, three long-term ex-drinkers have been recording on their diary snippets of sentences, of images, of drawings, telling their story. We consider those diaries in an aesthetic approach of the care in order to support the existential rereading and to highlight the knowledge used by non-drinkers to distance themselves from the toxic and thus become emancipated. Key words: project of aesthetic education, alcoholism, practical epistemology, knowledge, write

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Nous avons modélisé une pratique d’écriture, le carnet de route, qui propose à des personnes abstinentes de l’alcool de consigner, dans un journal, au jour le jour, leurs pensées sous la forme de mots, mais aussi d’esquisses, de schémas, de photos, d’images, de dessins pour comprendre et s’affranchir de leur itinéraire d’anciens alcoolomanes. Notre questionnement porte sur les nouvelles formes de vie qu’ils ont du inventer pour se libérer de ce toxique et découvrir les bases identitaires du renoncement consenti de l’alcool afin de vivre une expérience positive en santé. L’objet de cette communication est de s’interroger plus particulièrement sur le sens et la pertinence de se raconter, dans un carnet de route, pour ces alcoolomanes, leur parcours de vie. Pour étayer plus finement nos propos, nous nous appuierons sur l’expérience d’écriture des carnets de route de Marie-Chantal, Serge et Christian. Pour aller plus avant dans nos propos, nous présenterons, dans un premier temps, les particularités de notre terrain d’étude (l’alcoolisme), pour aborder, dans un deuxième temps l’écriture créative. Puis nous détaillerons les principes éthiques sous-tendus par cette intervention, l’engagement et la réactivité des narrateurs, le dispositif de formation, les résultats de cette recherche conclure sur les apports et perspectives des carnets de route. 1. S’affranchir de l’alcool L’alcool-éthanol ou alcool éthylique tient une place tout à fait particulière dans notre histoire et dans notre société. Cette molécule a la particularité de se dissoudre très rapidement dans l’eau, et comme notre corps est essentiellement constitué d’eau, Bataille (1986) avance la notion d’immanence de l’alcool dans notre corps: l’éthanol est comme de l’eau dans de l’eau. Certaines recherches en alcoologie ont donc privilégié la personne-alcool dans ce qui la constitue en son for intérieur plutôt que dans les effets médicaux de la dépendance. L’étymologie du mot “alcool – alcohol – khôl” (Catineau, 1999) vient conforter cette hypothèse puisque “alcohol” signifie “ esprit-essence”. Dans la préface de l’ouvrage Le Vot-Ifrah et Mathelin, et Nahoum-Grappe (1989), intitulé “de l’ivresse à l’alcoolisme”, Nathan conçoit que “l’alcool-le vin” est perçue comme une substance magique qui va s’activer en se mélangeant avec le corps et l’esprit de son consommateur. Ainsi, lorsque l’alcool pénètre dans l’organisme, il transforme et remplace momentanément la personnalité du consommateur. La fonction de l’alcool est de modifier l’activité mentale, les sensations, le comportement et surtout, d’apporter du plaisir. Toutefois, certaines personnes vont consommer plus que de raison, jusqu’au jour où se produit un basculement: ce qui apporte du plaisir et fait vivre devient un problème de vie. L’être et l’alcool ne font alors plus qu’un. Lors de prises excessives et répétées, l’alcool met en place lentement mais sûrement, une emprise totalitaire qui finit par dominer les consommateurs. Ceux-ci éprouvent le besoin d’absorber une quantité de plus en plus importante pour calmer leur état de manque. Cet usage excessif conduit certaines personnes à la dépendance. Le corps médical s’accorde pour définir la dépendance

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comme un état où l’alcoolomane ne peut plus se passer de consommer, sous peine de souffrances physiques et psychiques. Lorsque l’alcoolisme s’installe, un basculement s’effectue: d’un monde attrayant et performant, l’alcoolomane découvrira une vision terrifiante et morbide du monde. La problématique que soulèvent ces consommations excessives d’alcool et le devenir des alcoolomanes désireux de surmonter cette épreuve, est au cœur de notre recherche. Pour tenter d’accompagner au mieux les alcoolomanes dans cette épreuve, les hypothèses étiologiques en alcoologie sont nombreuses et conduisent les soignants à une approche pluridisciplinaire. Pour ce qui nous concerne, nous retiendrons plus spécifiquement l’hypothèse de Legrand (1997). Selon lui, une personne en difficulté avec l’alcool s’auto médicaliserait pour vivre. L’alcoolomane aurait choisi l’alcool comme remède, comme tentative pour se soulager d’un malaise existentiel profond. Ce malaise existentiel dont nous parle Legrand n’est pas forcément conscient et compris au moment du sevrage. Renoncer au désir obsédant de boire reviendrait à trouver les raisons existentielles de l’arrêt qui viendraient supplanter les bénéfices des consommations. Il semble que guérir, tout comme l’accrochage au toxique, résulterait d’une problématique phénoménologique où le processus s’inverserait: en quittant la dépendance physique, comment recouvrer la santé et découvrir une nouvelle façon de vivre? Quelle forme de vie l’alcoolomane doit-il inventer pour refuser de se soumettre à la dépendance et devenir le “capitaine de son âme”, pour reprendre l’expression des Alcooliques Anonymes (1992)? L’enjeu est de taille puisqu’il s’agit de percevoir le sens d’une vie nouvelle à construire. Aussi, une fois sevré physiquement du toxique, l’alcoolomane devra chercher à se protéger de l’alcool. Parmi les nombreuses formes de résistances possibles, nous avons retenu celles des habiletés développées par l’abstinent pour affronter et résister au désir obsédant de boire et, par là même, entreprendre une expérience positive de santé. Nous supposons que l’abstinent peut être en mesure d’apprivoiser l’alcool, son ennemi intime, pour connaître ses manœuvres et les contrecarrer. Il serait alors en mesure de retrouver, en son for intérieur, son espace de liberté qu’il étendrait progressivement au territoire de l’alcool, jusqu’à le confiner dans un espace connu et bien délimité. Nous envisageons cette reconquête (cette victoire) comme un changement épistémologique qui offre à l’abstinent la liberté de vivre de nouvelles expériences, loin de la domination de l’alcool. Elles viendraient alors consolider le narcissisme secondaire de l’abstinent et favoriseraient le développement de capacités sensitives et cognitives. Vivre est la source de ce renouveau. La santé caractérise ce dynamisme vital, par lequel l’abstinent va être obligé d’apprendre à faire face aux agressions intérieures et extérieures. La nouvelle norme de santé ne serait-elle pas l’abstinence? Ne serait-ce pas dans ce contexte qu’écrire son histoire viendrait soutenir le narrateur dans son processus autoformatif ? Pour notre part et dans le cadre de cette recherche, nous nous inscrivons dans cette logique de pensée.

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2. L’écriture créative Notre démarche s’inspire très largement du courant des histoires de vie en formation et d’autoformation (Pineau, 2000); Niewiadomski (2000); de l’ontologie du soin (Honoré, 1999) et enfin de la pensée Valéryenne (1957). En premier lieu, tenir un carnet de route est une action de formation où le narrateur est tout à la fois auteur, rédacteur et acteur de sa propre vie. C’est en cela que l’enjeu de cette écriture est existentiel. Le narrateur va devoir puiser dans ses expériences pour chercher à se comprendre, à accepter sa maladie, à adopter des comportements favorables pour sa santé et à se maintenir (au mieux) en santé. Dans ce contexte, la santé devient une expérience individuelle où l’action d’être en santé va nécessiter un apprentissage quotidien, attentif et permanent pour se donner une forme et se maintenir en vie. Ces réflexions nous conduisent à relier la notion d’être en santé avec la notion de Bildung. Ce courant avance l’idée que l’expérience de la conscience de soi qui ouvre le chemin du développement de la personne. L’experientia-experience est une tentative, une épreuve dont il faut sortir victorieux. La Bildung traduit l’idée que l’homme se transforme en même temps qu’il forme les choses. Il s’agit pour le narrateur de se dépasser pour cultiver ses propres talents, comme l’évoquait Kant. L’homme devient le héros de son roman de formation et vit une quête herméneutique au sens d’un art de la compréhension de ce qui lui arrive. En se racontant, c’est l’expérience du narrateur qui se critique et s’analyse elle-même. Raconter son parcours de maladie puis de soin place la santé au cœur des préoccupations du narrateur. C’est dans ce contexte que la santé deviendrait un moteur pour agir sur le monde. Prendre soin de soi reviendrait alors à vivre une expérience positive de santé. Le soin porte en lui une dimension formative qui permet de se projeter vers des possibles. En deuxième lieu, l’œuvre de Valéry a grandement enrichi notre pratique d’écriture. A la lecture de ces Cahiers, nous avons découvert un véritable plaidoyer pour les images, le visuel, la pensée visuelle. Ce philosophe a su combiner, dans ses Cahiers, les modalités d’expression visuelles et cognitives pour tenter de percer les mystères de la nature, du fonctionnement de ses pensées.Valéry a eu l’ambition de rendre visible, de représenter le sens caché des choses. Ses manuscrits ont eu pour vocation de tendre vers une organisation grandissante de ses compétences. Ces compétences “supposent de l’action et une modification ou du moins une adaptation à son environnement” (Bruner, 1998, p. 254). Elles sont l’expérience de l’intelligence opérationnelle des savoirs décrits dans les Cahiers où il explore, en lui-même, le bien-fondé de cette pratique. En qualité de peintre averti, ce philosophe pense également que la main d’un peintre-écrivain est le catalyseur d’une possible pensée C’est par le geste de la main que la vision s’allie à la pensée pour communiquer. Ainsi Ecrire-dessiner-scribere, revient à “tracer des caractères, des mots, des signes, des codes, des traits” (Rey, 1992, p.1175). Nous supposons qu’il existe une alliance possible entre les pensées cognitives et les

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pensées visuelles pour tendre vers une communication plus satisfaisante. Notons que la visée générale d’un carnet n’est pas de s’exprimer avec une excellence graphique. Le dessin est une possibilité d’expression supplémentaire offerte aux narrateurs et ce même si la main est malhabile. A l’instar de Valéry, nous supposons que cette écriture permettrait l’expression d’un nonencore-dit (Lani-Bayle, 1999) qui s’inscrirait dans une continuité de vie. Ainsi nous avons donc invité les narrateurs à consigner dans leur carnet leurs pensées quotidiennes enrichies de dessins, de photos, de schémas et de peintures sur les tactiques et les stratégies qu’ils ont mises en place pour accepter leur maladie et renoncer au toxique. 3. Les principes éthiques L’écriture créative des carnets est, nous semble-t-il, une piste pertinente pour accompagner les narrateurs dans la découverte de leurs savoirs d’abstinents de l’alcool. Notre méthodologie a nécessité une rigueur éthique et organisationnelle tout en inscrivant ce projet dans une dynamique de recherche exploratoire et ouverte. Nos intentions éthiques sont l’altérité et la responsabilité. Avant d’intervenir notre interrogation majeure était: comment être Soi et reconnaître en l’Autre une partie de notre humanité, tout en étant différent de lui? Pour tenter de répondre au mieux à cette question, nous nous sommes interrogés sur la responsabilité et l’engagement réciproque des acteurs, sur la bonne distance à trouver afin d’établir un dialogue complice où chacun conserve son espace d’action. Nous nous sommes appuyés sur les travaux de Lévinas qui a su conjuguer ces deux notions. L’altérité ou être l’un-pour-l’autre impose une relation responsable de chacun face à l’autre en fonction des évènements vécus. Dans son ouvrage intitulé, Ethique et Infini (1984), l’auteur nous invite à dépasser la philosophie de l’être pour tendre vers une philosophie de l’autre. Il est selon lui fondamental de prendre conscience que la rencontre avec l’Autre repose à la fois sur l’altérité mais aussi sur la responsabilité éthique. Ce philosophe définit cette dernière comme quelque chose qui s’impose naturellement lorsque l’on observe le visage de l’Autre. Le dialogue est pour Lévinas l’occasion de se-vouer-à-l’autre. Cette attitude consiste à quitter les préoccupations générales de l’Etre pour accueillir l’autre et s’engager au mieux dans un sentiment positif, durable et profond. Ces intentions éthiques ont été complétées par les recommandations préconisées dans la Charte de l’Association Internationale des Histoires de Vie en Formation (ASIHVIF). Ces recommandations ont eu l’avantage, d’une part, de poser un cadre éthique en application des concepts compréhensifs et épistémologiques auxquels ce courant adhère et d’autre part, de définir clairement l’engagement du praticien-chercheur. Deux articles ont notamment attirés notre attention. L’article 2-2 précise que “la visée qui oriente, traverse et soutient les pratiques de récit de vie est l’émancipation personnelle et sociale du sujet. Par ‘émancipation’ on entend

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l’action qui tend à substituer un rapport d’égalité à un rapport d’assujettissement”. Pour sa part, l’article 2-3 rappelle que “cette démarche autobiographique a une triple fonction : celle de la recherche (production de connaissances), celle de la formation et celle de l’intervention (mise en forme de soi dans une perspective d’action sociale)”. Cette Charte aborde également la nature des relations entre le praticienchercheur et le narrateur. Celles-ci doivent se formuler dans un engagement réciproque et respectueux de chacun des participants. Lejeune (1996) évoque ces relations en les nommant pacte autobiographique. Pour lui, ce pacte met en place la nature de la relation qui lie l’auteur à son lecteur. D’un côté, l’auteur-narrateur revendique son identité en conservant son nom propre et affirme qu’il est à la fois l’auteur et le personnage principal de son histoire. D’un autre côté, le praticien-chercheur, doit rédiger une évaluation dynamique en interaction avec le narrateur et obtenir son accord pour citer dans son écrit tout ce qui touche à l’histoire et à l’intimité de cette personne. Enfin nous avons tenu compte du principe initiatique des histoires de vie appliqué aux praticien-chercheur. Cette initiation se situe, en toute logique, en amont de la mise en œuvre de la recherche. L’important a été de vivre ce qui va être proposé aux futurs participants. Ce principe instaure les prémices d’une parité entre praticien-chercheur et narrateurs. Cette phase initiatique nous a permis de faciliter l’instauration, entre les narrateurs et nous-mêmes, d’un contrat de réciprocité fondé sur une expérimentation partagée. Dionne évoque ce principe initiatique comme “un besoin de reliance” (Dionne, 2000, p. 19) où chacun s’engage à coopérer avec l’autre dans le cadre d’un pacte explicité. Toutefois, notre carnet de route n’a pas eu le même objectif d’écriture que celui des narrateurs. La finalité a été d’écrire sur les liens que nous entretenons avec le projet de recherche en lui-même. 4. L’engagement et la réactivité des narrateurs Dans un tel dispositif de formation, l’important est que les narrateurs soient en quête de formation, cherchant, par ce biais, à approfondir la connaissance qu’ils ont de leur vécu. La nouveauté pour eux s’est trouvée dans l’outil d’expression qui leur a été proposé. C’est en cela que les propos de Rigaux semblent adaptés aux circonstances de notre collaboration. Pour cet auteur, “les personnes en souci de soi demeurent en quête, elles s’interrogent sur elles-mêmes, elles veulent voir plus clair sur ce qu’elles sont, leur vie demeure ouverte” (Niewiadomski, 2002, p. 113). L’adhésion des narrateurs nous a demandé du temps et plusieurs rencontres afin de répondre à toutes leurs questions avant de s’engager dans ce processus d’écriture. Au cours de ces rencontres nous avons également présenté notre projet de recherche et avons avec les narrateurs délimité nos centres d’intérêt et discuté autour des savoirs déployés pour se maintenir en santé. MarieChantal, la première narratrice, est âgée de 54 ans, elle est mère de deux enfants. Marie-Chantal mène une vie sociale très active. Elle est abstinente

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depuis 11 ans. Nous avons fait sa connaissance dans le cadre de nos activités professionnelles et lorsque nous lui avons présenté notre projet de recherche, elle a tout de suite adhéré. Par la suite, elle nous présenta Serge à qui elle avait au préalable expliqué le projet de recherche. Serge est réceptif à la démarche d’écriture qu’il pratiquait déjà depuis de nombreuses années. Il est donc venu, lors de notre premier rendez-vous, en apportant son témoignage écrit et des poésies. Agé de 51 ans, il est abstinent depuis cinq ans et a consommé de l’alcool pendant trente deux ans de façon excessive. Il est père de six enfants. Quant à Christian, le troisième narrateur, est âgé de 49 ans et père de trois enfants. Il est abstinent depuis dix sept années. Des soucis de santé l’ont contraint à cesser toute activité pour se consacrer à sa famille. Lors d’une conversation ordinaire entre collègues de travail, il a entendu parler des carnets de route et a souhaité nous connaître pour se joindre à notre recherche. Puisqu’il n’avait jamais rien écrit sur sa vie, Christian avait envie de se lancer dans la rétrospective de ses souvenirs. Nos premières rencontres avec ces trois narrateurs ont été une étape d’apprivoisement réciproque, une façon de se reconnaître en quête à plusieurs. Ainsi les narrateurs ont pu adhérer en toute connaissance de cause au protocole de recherche. Les réactivités des narrateurs ont été différentes. Marie-Chantal nous disait avoir des difficultés à écrire et n’avait jamais dessiné. Sa difficulté fut d’entrer dans le vif du sujet en rédigeant son parcours de manière détaillée. La parole lui étant plus aisée, nous lui avons proposé d’enregistrer son histoire de malade. Notre l’objectif était de l’aider à poser quelques jalons et dresser quelques repères pour susciter l’envie de commencer à écrire dans son carnet. Après avoir retranscrit l’intégralité de ses propos, Marie-Chantal les a rectifié, complété et surligné ses mots clefs. C’est ainsi qu’elle commença à tenir son carnet. Pour Serge, le contexte était fort différent. Notre communication s’est établie principalement par écrit, du fait de sa laryngectomie. Serge est atteint d’un cancer de la sphère ORL. Compte tenu de son handicap vocal, l’écriture muette est son mode de communication majeur. Enfin Christian a débuté sans aucune difficulté son carnet car pour lui le temps était venu. Il a donc commencé à écrire à la suite de notre première rencontre et s’est très vite concentré sur les dessins que lui offraient ses enfants, à chacun de ses anniversaires d’abstinence, pour les compléter et se remémorer son histoire. Ainsi, chaque narrateur a pu démarrer, chacun à sa manière, son propre carnet de route. 5. Le dispositif de formation L’écriture créative des carnets repose sur la mise en œuvre du protocole de formation. Nous avons structuré et planifié ce protocole afin d’éviter (au mieux) les effets contre productifs et anxiogènes d’une telle recherche. En effet, nous savions que l’aventure des carnets est certes une expérience enrichissante et passionnante, mais tout aussi dérangeante et éprouvante. Le temps et la durée ont été nos alliés, ils ont permis à chaque participant de s’adapter et apprivoiser à l’autre. Notre collaboration a duré un an, au cours

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duquel nous nous sommes rencontrés une vingtaine de fois en duo, chercheur-narrateurs, et trois fois sous la forme de rencontres collectives. La plupart des séances (une heure en moyenne) étaient programmées à l’avance. D’autres rendez-vous ont été pris à la demande des personnes et sont venus renforcer le travail d’écriture (environ sept séances). Nos différentes rencontres ont eu lieu à domicile ou dans des locaux professionnels en fonction de leurs souhaits. La formation s’est organisée en trois étapes: La première étape consiste à écrire un récit globalisant son parcours (l’agir). Nous avons invité les écrivains-patients à décrire leurs tactiques et leurs stratégies mises en place pour accepter leur abstinence, dépasser leur dépendance et être à l’écoute de leur corps malade. Et c’est donc ce que nous avons tenté de retrouver dans le premier témoignage des narrateurs-patients. Quelles sont vos tactiques et vos stratégies pour rester abstinent de l’alcool? Pour définir les notions de tactiques et de stratégies, nous nous sommes appuyés sur les travaux de de Certeau (2002) que nous avons reliés à la problématique de l’abstinence alcoolique. Ainsi les tactiques sont des habiletés qui aident à ne pas succomber au désir obsédant de consommer de l’alcool. La personne en difficulté avec l’alcool dispose d’un panel de possibilités réactives pour occuper son esprit : planifier et organiser ses journées, s’intégrer dans le tissu associatif, s’occuper de l’intendance de la maison, suivre son protocole de soin. Toutefois ces tactiques restent, selon nous, des alternatives momentanées à la dépendance alcool. Si l’abstinent dépasse une première situation dangereuse puis une deuxième puis ainsi de suite, toutes ces tactiques (ou solutions immédiates) peuvent finir, avec l’habitude, par exercer leurs propres pouvoirs et venir ainsi soutenir promptement l’abstinent. Nous supposons que l’exercice de toutes ces tactiques s’active lors de situations environnementales et sont de l’ordre de l’occupationnel pour détourner l’esprit du désir de consommer de l’alcool de façon excessive. Les stratégies quant à elles, viendraient interroger l’abstinent sur le lien intrinsèque qu’il entretient avec l’alcool pour comprendre l’origine de sa souffrance: par exemple de se libérer du regard des autres et des représentations sociales, d’admettre que ces anciennes attitudes ont conduit les alcoolomanes à l’exclusion. En conséquence, les stratégies se caractériseraient comme des habiletés au commandement où les troupes de cette armée seraient les tactiques. Les tactiques et les stratégies sont intimement liées puisqu’à la fois les stratégies vont s’appuyer sur une accumulation de tactiques pour tenter d’en dégager une logique de défense, mais aussi les stratégies peuvent orienter des tactiques de résistance de l’abstinent. Ainsi chaque narrateur a réalisé son premier témoignage et retracé les grandes lignes de son parcours de soin. Ce témoignage a facilité l’observation et la compréhension par les narrateurs de ce qu’ils ont vécu. A ce stade, l’écriture est solitaire et soutenue par le praticien-chercheur à la demande de chacun des narrateurs. Il s’agissait, lors de cette première étape d’écriture, de suivre le parcours d’alcoolisation afin de resituer les événements marquants de leurs vies: avant l’alcool, pendant l’alcool et après. Ces récits ont en conséquence suivi la chronologie des soins médicaux qu’ils ont reçus. Une fois

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leur témoignage écrit, nous les avons écoutés pour nous en imprégner et repérer leurs aptitudes d’abstinent forgées au fil du temps. Ces premiers récits ont été le point d’ancrage de nos travaux. La deuxième étape est celle où le praticien-chercheur invite le patientnarrateur à expliciter certains évènements fondateurs dans son parcours de soin selon la méthode d’explicitation de Vermersch (1997). L’enjeu est de privilégier le questionnement à partir de ses réflexions sur son vécu ainsi relaté pour comprendre et s’émanciper. La troisième étape s’est organisée autour de plusieurs rencontres collectives pour favoriser les interactions entre les narrateurs et le praticien-chercheur afin que celui-ci puisse également présenter l’état d’avancement de ses travaux, avec notamment sa typologie de classement dans un souci de validation des données. L’expérimentation des carnets clôturée, il a fallu poser des choix méthodologiques de classement et de traitement des données afin de donner une forme stabilisée aux trois carnets. Comme l’écriture des carnets est une écriture fragmentaire où ont alterné des phases d’écriture et des phases d’explicitation. Il fut important de structurer chacun des trois carnets de route parce que cette écriture fragmentaire est certes constructive, mais présente parfois des éléments dispersés. Il est donc nécessaire de restructurer les éléments constitutifs de ces récits et de leur donner un sens unifié en réunissant les contenus de ces différents récits de vie afin de constituer une base de données commune. La mise en forme des carnets a été réalisée par le praticien-chercheur. Pour ce faire les carnets ont été analysés en deux temps: le premier temps présente un récapitulatif du chemin parcouru: nous avons replacé chaque carnet en suivant la chronologie de la vie des abstinents et des soins médicaux qu’ils ont reçus. Quatre items ont été retenus: les faits marquants pendant l’enfance, vivre avec l’alcool, l’abstinence obligatoire et vivre une expérience de santé positive. Le second temps décrit les savoirs rendus visibles: nous avons retenu une typologie de savoirs basée sur l’expérientiel.Trois items ont été retenus: les savoirs formels issus de l’allo-formation, les tactiques ou savoirs pratiques issus de l’éco-formation et de l’hétéro-formation, et les stratégies ou savoirs existentiels issus de l’auto-formation. 6. Les résultats de cette recherche Trois effets ont été repérés. Le premier concerne la forme finale du carnet de route. Dans le respect de ce que promeut la phénoménologie de l’esprit, les carnets de route ont été matérialisés. De cette façon, la conscience de soi et les savoirs produits par les narrateurs sont rendus visibles et concrets. Dans un carnet on peut alors y lire les possibles avancées de chacun des trois narrateurs et trouver le courage de continuer et gérer au mieux son état de santé. L’écriture nous apparait comme un outil autoformateur qui viendrait soutenir (selon les cir-

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constances) l’intelligence personnelle de chacun des trois écrivains-narrateurs. Le deuxième effet est celui de la formalisation des savoirs formels, pratiques et existentiels. – Les savoirs formels sont des savoirs transmis par les soignants aux narrateurs à l’occasion des entretiens individuels ou lors d’activités d’information, d’accompagnement et d’éducation : autrement dit des connaissances que l’alcoolomane reçoit et qui lui permettent de comprendre sa maladie, de s’auto-observer et de s’éloigner du toxique. – Les savoirs pratiques sont des savoirs d’interaction qui se réfèrent à des critères d’efficacité. Ils s’ajustent progressivement à la réalité des situations de la vie et s’adaptent au fur et à mesure que les situations se présentent en trouvant des solutions pour surmonter les difficultés de la vie (choisir, prendre des précautions, planifier un traitement, s’appuyer sur un raisonnement, utiliser des appareils, régler, investir, recevoir, refuser, suivre un traitement). – Et enfin, les savoirs existentiels: ceux-ci se fondent sur des critères d’orientation et de choix de vie et constituent la dimension symbolique de l’expérience vécue. Ces savoirs représentent un ensemble d’images symboliques qui orientent les valeurs de la vie des personnes. Ce sont eux qui lient la personne à sa dimension cognitive. Ces savoirs expriment plus particulièrement le monde sensible (affirmer sa singularité, évaluer ses propres expériences, porter un jugement appréciatif sur sa situation de santé, faire la paix). A la lecture de ces carnets, nous nous sommes demandés si nous n’étions pas en présence de “savoirs d’affranchis” (Bergier, 1996), autrement dit ces savoirs ont libéré les personnes d’elles-mêmes. Ces savoirs d’affranchis seraient, alors, l’expression d’une intelligence de la réussite d’une intelligence de soi. Les narrateurs ont essayé de comprendre leurs échecs pour finir par faire germer, en eux, des convictions intimes. C’est pour cela que (peut être) les effets d’une telle écriture peuvent être fort utiles et précieux pour des personnes à la recherche de sens et soucieuses de dépasser leurs propres difficultés à vivre. Le troisième effet induit par cette pratique d’écriture est la notion de projet de formation esthétique en santé. L’écriture s’est voulue manuelle, dans le sens artisanal du faire. Au fil de l’écriture, les narrateurs sont devenus les artisans de leur histoire. Ils se sont construits et forgés une forme intérieure, une connaissance intime d’eux-mêmes. Ce serait par la gestuelle que le narrateur transformerait ce qu’il a vécu (la matière) en langage compréhensible (un carnet de route). Selon M. Merleau-Ponty, le dessin, aussi minimaliste soit-il dans sa conception, se trouve à la frontière du visible et de l’invisible. Cela dépasse les cadres du figuratif et de l’abstrait. Certains dessins invitent plus facilement à entrer dans le monde du sensible parce qu’une image peut convoquer, à elle seule, tout un paysage visuel et mental. Des savoirs existentiels ont été exprimés par les narrateurs par l’image d’un paysage (Marie-Chantal), d’une lumière (Christian) ou bien d’une éclipse (Serge). Nous les avons, pour notre part, interprétés comme des pensées visuelles pures. Et c’est peut-

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être, dans ce cas précis que la vision serait le sens spirituel les plus adaptés aux circonstances de la narration. Christian nous explique que certaines images se sont gravées dans sa mémoire au point qu’elles ont guidé sa vie. Dès son enfance, il associait à des moments de souffrance deux images : l’une négative et l’autre bienfaisante. Christian complète en ajoutant qu’il sait faire appel aux images pour se sentir bien et se mettre au calme. Il semble que certaines images finissent par s’imposer à nous comme des motifs dessinés sur le papier peint des murs de notre mémoire. Par ailleurs, les images, tout comme les mots, ont pu trouver une place aux côtés des paroles pour expliciter ce que l’œil et l’esprit avaient à nous dire. C’est en cela que l’écriture est esthétique. Merleau-Ponty perçoit l’esthétique comme une manifestation sensible de la vérité d’une personne. Aussi, lorsque le narrateur et le chercheur arrivent à sentir, lors de l’analyse réflexive du récit de vie, des combinaisons qui paraissent plausibles entre les différentes expériences décrites, ne serait-ce pas cette esthétique qui donnerait un sens, une valeur aux choses et permettrait d’organiser une pensée cohérente? Cette écriture esthétique se complète par la notion de soin lorsque le carnet instaure des moments de pensée, au sens de panser, prendre soin de, se préoccuper de, se soigner. Notons que penser-pensare signifie dans l’ancienne locution médicale “penser des plaies d’un homme” (Rey, 1992, p. 2646) autrement dit panser ses plaies, et dans le domaine intellectuel “méditer, évaluer” les expériences de sa vie. L’écriture a pu avoir, dans certaines circonstances, une vertu cathartique. Elle permet, dans certaines circonstances, de mettre de la distance entre ce qui est écrit et la personne. Cette conception d’épuration (épurer un désordre organique causé par la maladie) nous renvoie également aux apports de Honoré. Cet auteur élargit la notion de catharsis à la dimension du prendre soin où il va être question d’expérimenter une santé positive épurée d’un passé tumultueux. Par ailleurs, nous avons remarqué que l’écriture change la gestuelle. Ce n’est plus un geste qui lève le coude pour boire mais un geste d’écriture qui cherche à unifier l’esprit pour se sentir vivre et rayonner d’avoir réussi à se libérer de la domination d’un Autre alcool. Dans ce contexte que l’acte d’écriture deviendrait une action de santé. D’autant plus que, l’écriture des carnets présente trois caractéristiques qui relient les troubles des alcoolomanes à celle-ci. Ce sont la vision, l’unité du corps et de l’esprit et le temps retrouvé : se voir et s’observer permet aux abstinents de retrouver une certaine capacité à (se) percevoir dans le monde qui les entoure; recouvrer cette faculté pourrait s’accélérer avec le processus narratif ; unifier le corps et l’esprit s’opère dans le retour réflexif lorsque l’esprit explore le tracé de la vie par les gestes, les mouvements de la main et de fait, incarne un corps qui avait été oublié ; et retrouver les temps passé, présent et à venir, offre aux narrateurs la possibilité de reconquérir leur structuration temporelle. Comme nous venons de le montrer, une certaine rigueur éthique et méthodologique sont nécessaires à la mise en œuvre des carnets de route afin que praticien et narrateur soient à l’aise dans cet exercice d’écriture. Les carnets offrent l’occasion aux narrateurs la possibilité de rendre visible et de

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formaliser les savoirs d’affranchis sur soi et pour soi. Enfin et pour conclure l’ensemble des savoirs énoncés par les narrateurs sont des savoir-vivre d’autoéducation qui ont soutenu ou soutiennent peut être encore les narrateurs dans leur vie quotidienne ; et ce qui, pour ce qui nous concerne, fait la richesse de cette démarche d’écriture. Les carnets de route semblent être des pensées en actes, une intelligence de la main au service d’écritures conciliant les mots et les images pour se sentir en santé.

Bibliographie Alcoolique Anonyme (1992). Douze et Douze. Bruxelles: Editions des AA. Baeza C. (2010). Carnet de route d’alcooliques abstinents – Découvrir les tactiques et les stratégies pour se maintenir en santé. Paris: Editions Mare et Martin. Baeza C. (2011). Ecriture créative des carnets et expérience d’une maladie chronique: une forme d’auto-éducation thérapeutique accompagnée. Recherche en éducation, 11, pp. 145-153. Bataille G. (1986). La théorie des religions. Paris: Gallimard. Bergier B. (1996). Les affranchis, parcours de réinsertion. Paris: Desclée de Brouwer. Bruner J. (1998). Le développement de l’enfant: savoir faire et savoir dire. Paris: PUF. Catineau P. (1999). Nouveau dictionnaire de poche de la langue Française. Paris: Letellier librairie. Certeau de M., Giard L., Mayol P. (2002). L’invention au quotidien, Art de faire, n.1. Paris: Gallimard. Dionne H. (2000). Le développement par la recherche-action. Paris: L’Harmattan. Galvani P. (1999). L’alternance pour une approche complexe dont le programme de recherche-action-formation. Quart Monde/ Université. Revue française de pédagogie, 128. Honoré B. (1999). Etre et Santé, approche ontologique du soin. Paris: L’Harmattan. Merleau-Ponty M. (1996). Sens et non sens. Paris: Gallimard. Legrand M. (1997). Le sujet alcoolique, essai de psychologie dramatique. Paris: Desclée de Brouwer. Lani-Bayle M. (1999). L’enfant et son histoire, vers une clinique narrative. Ramonville Saint-Agne: Erès. Lejeune P. (1996). Pacte autobiographique, Paris: Seuil. Lévinas E., Nemo P. (1984). Ethique et infini, Paris: Fayard. Le Vot-Ifrah C., Mathelin M., Nahoum-Grappe V. (1989). De l’ivresse à l’alcoolisme. Etudes ethnopsychanalytiques, Paris: Dunod. Niewiadomski C. (2000). Histoires de vie et alcoolisme. Paris: Seli Arslan. Niewiadomski C., De Villers G. (2002) (sous la direction de). Souci et soin de soi. Liens et frontière entre histoire de vie, psychothérapie et psychanalyse. Paris: L’Harmattan. Pineau G. (2000). Histoire de vie et formation anthropologique de l’histoire humaine. Les histoires de vie: théories et pratiques. Education Permanente, 142, pp. 63-70. Rey A. (1992). Dictionnaire historique de la Langue Française. Paris: Le Robert. Ricoeur P. (1996). Soi-même comme un autre. Paris: Seuil. Valéry P. (1957). Introduction à la méthode de Léonard de Vinci. Paris: Gallimard. Vermersch P., Maurel M. (1997). Pratiques de l’entretien d’explicitation. Paris: ESF.

Carole Baeza


“Plato’s worlds: alla ricerca dei diritti perduti”. Un progetto interculturale

di Carmen Indirli

Abstract Il presente lavoro espone i presupposti teorici, l’iter metodologico e i risultati di un progetto promosso e finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nell’ambito del programma “Scuole Multiculturali e Multilingue”. Il progetto, innovando le tradizionali pratiche educative, è annoverato tra le migliori pratiche della scuola italiana in quanto emblematico di nuove prospettive e percorsi di apprendimento orientati all’azione concreta in contesti che vivono la discriminazione, il pregiudizio e la negazione dei più elementari diritti umani. Tali percorsi, accogliendo strumenti e spazi comunicativi che le reti telematiche offrono alla didattica e consentendo una collaboratività e una flessibilità al di là di limiti spaziotemporali, rappresentano un tentativo di rilievo per un apprendimento significativo, in quanto condivisione di esperienze, problemi, interessi. Parole chiave: educazione interculturale, diritti umani, lingue straniere, Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), apprendimento significativo

The present paper displays the theoretical assumptions, the methodological procedures and the outcomes of a project promoted and funded by the Ministry of Education, within the “Multicultural and Multilingual Schools” program.This project, innovating the traditional practices of education, is included among the Italian school best practices, as emblematic of new perspectives and learning paths oriented to the real action within contexts experiencing discrimation, prejudice and the denial of the most basic human rights. Such paths, by using the communicative tools and spaces didactic is offered through IT networks and fostering collaboration and flexibility beyond space-time limits, represent an outstanding attempt for a meaningful learning, as a share of experiences, problems and interests. Key words: intercultural education, human rights, foreign languages, Information Communication Technology (ICT), meaningful learning

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1. Una buona pratica In una società complessa come l’attuale, multietnica e multiculturale, in cui bisogna “convivere” non solo con chi gode del diritto alla cittadinanza, ma anche con chi non gode di questo diritto (in particolare dei diritti politici e talora nemmeno dei più elementari diritti umani), e in cui spesso emergono episodi di intolleranza, sfruttamento, emarginazione, violenza fisica e psichica, nasce l’esigenza, da parte della scuola, di tracciare percorsi che portino gli alunni a riflettere sulle problematiche relative alla diversità, al rispetto e alla tutela dei diritti umani e dei diritti dei minori. Muovendo da queste considerazioni, in una scuola del Sud Italia, si è organizzata un’esperienza educativa e didattica che, unendo la metodologia narrativa, come prassi formativa, e le lingue straniere e le tecnologie didattiche, come luogo di comunicazione, integrazione e apprendimento, consentisse di approfondire contenuti e valori interculturali. Attraverso la rappresentazione delle vicende di Plato, una tartaruga viaggiante che racconta in chiave fumettistica le avventure e i luoghi del suo andare per il mondo, si rivelano le sfide insite in una società multietnica e multiculturale. Plato’s Worlds: alla ricerca dei diritti perduti nasce così. Si tratta di un progetto biennale1, in lingua inglese, realizzato dai ragazzi italiani e stranieri, alunni di una scuola primaria di Lecce, e i ragazzi di Kandahar, ospiti del campo profughi “Zahare Dasht”, con il coinvolgimento di diverse risorse territoriali: famiglie degli alunni, Associazioni, Enti locali, Università. Un ruolo fondamentale ha avuto l’Organizzazione Non Governativa INTERSOS di carattere umanitario che, al momento, operava in loco. La costruzione del prodotto finale, una fiaba interculturale sotto forma di comic strips, è stata l’occasione educativa per avvicinare gli alunni alla problematica dei diritti umani, promuovere la consapevolezza dell’altro, acquisire competenze linguistiche e tecnologiche, legate all’uso della comunicazione telematica per il lavoro a distanza, oltre che progettuali, organizzative e sociali. Nel progetto, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) e le lingue straniere sono state adottate come contenitore di esperienza, mezzo d’interruzione del prevalente circuito bilaterale docente-allievo, spazio allargato di comunicazione. 2. L’idea progettuale Il progetto è nato dal bisogno di coinvolgere da subito nei processi di apprendimento, cognitivo-relazionale, alunni stranieri di diverse etnie, prove-

1

Il progetto è stato sperimentato nel biennio 2003-2005; la ricerca, la sistematizzazione delle prassi didattiche e la disseminazione dei risultati, in Italia e all’estero, sono state effettuate nel biennio successivo.

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nienti da famiglie immigrate nel nostro Paese per diverse ragioni e iscritti nelle classi di scuola primaria, con pochissima o nessuna conoscenza della lingua italiana. L’idea propulsiva è stata quella di promuovere lo studio delle lingue straniere (nello specifico, la lingua inglese) non come contenuto disciplinare a sé stante, ma come mezzo di comunicazione condiviso, come strumento e contesto di apprendimento all’interno di classi multiculturali e multilingue, offrendo contenuti, mezzi e strategie per educare alla cittadinanza attiva. Il prodotto didattico realizzato, un cartoon digitale interattivo, affronta i temi dell’intercultura come patrimonio di competenze e conoscenze, come occasione di sviluppo di atteggiamenti sociali, come realizzazione di esperienze di condivisone e collaborazione. Mediante la narrazione delle avventure di Plato, si affronta la problematica relativa ai diritti dell’uomo e si promuove l’apprendimento linguistico della lingua d’origine, dell’Italiano come L2 e dell’Inglese come lingua veicolare. I viaggi in mondi lontani che la tartaruga esplora e conosce e che, intenzionalmente, evocano i mondi virtuali dei videogame, tanto cari ai ragazzi, sono i “pre-testi” per formare in chiave interculturale, utilizzando percorsi transdisciplinari. Il racconto, da “giocare” al computer, costituisce un’occasione per avvicinare a messaggi e valori propri dell’educazione interculturale attraverso il medium più frequentato dai ragazzi di oggi. Nella progettazione di Plato’s worlds, si è partiti da una considerazione, ormai diffusa tra gli addetti ai lavori: la scuola del presente si basa su attività didattiche spesso influenzate in maniera quasi esclusiva dallo spazio geografico a cui essa appartiene e da cui è naturalmente condizionata, da tempi di azione poco flessibili, da attività didattiche per lo più confinate all’interno dell’aula, che costituisce il limite fisico entro il quale avvengono pratiche di insegnamento non sempre capaci di promuovere reale apprendimento. Da qui l’esigenza di progettare percorsi che recuperino il senso dell’insegnare e dell’apprendere come pratica di vita. Dal punto di vista educativo si intendeva organizzare un percorso formativo che, prima di essere scolastico e tecnologico, fosse orientato all’azione concreta in contesti che vivono la discriminazione razziale, che soffrono il pregiudizio, che sperimentano ogni giorno la violazione dei diritti umani basilari e che anche nel caso di bambini si confrontano in ogni momento con limitazioni al loro essere e voler essere. In funzione di tale orientamento, è stata condotta una mediazione tra gli alunni della scuola italiana e il folto gruppo di ragazzi del campo profugo afghano. Attraverso la posta elettronica e la mediazione linguistica della lingua inglese, si è costruito un ponte di solidarietà e di incontro a distanza, aprendo un dialogo virtuale tra due culture evidentemente molto lontane.

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3. Il percorso didattico-metodologico: itinerari operativi Principale obiettivo del progetto è stato quello di accostarsi alla tematica dei diritti umani attraverso la conoscenza delle situazioni di vita e dei vissuti di persone reali. La proposta didattica è stata finalizzata a superare la dimensione “artificiale” dell’insegnamento di tematiche interculturali per consentire agli alunni in Italia di conoscere e “incontrare” le popolazioni, le problematiche e le specificità culturali dei loro coetanei afghani, anche allo scopo di scoprire vicinanze e similitudini di differenti mondi dell’infanzia e dell’adolescenza. A tal fine si è elaborato un percorso formativo che privilegiasse gli apprendimenti informali in funzione di quelli formali e integrasse, nella proposta didattica curricolare, attività normalmente molto utilizzate in contesti informali: giochi, racconti, fumetti, e-mail. L’approccio didattico-metodologico ha, in sostanza, optato per una didattica partecipativa indirizzata a promuovere abilità sociali, quali la comprensione, la collaborazione, il dialogo interculturale. Lo stimolo guida che ha orientato tutta l’attività di recupero, valutazione e organizzazione del materiale documentario, condotta dall’intero gruppo di bambini (italiani, immigrati: rumeni, albanesi, spagnoli… e afghani, naturalmente!), è stata, come si è detto, la stesura partecipata di una fiaba interculturale, la cui protagonista, una mascotte magica di un paese fantastico, nei suoi viaggi scoprisse mondi nuovi e molteplici situazioni di vita, mettendo in luce le risorse e le difficoltà di una società multietnica. La turtle, tanto amata dai bambini, racconta la semplicità e la drammaticità di chi vive in un campo profughi: un luogo costretto che limita tutto, ma non la fantasia, facendo nascere il bisogno e il desiderio di conoscere, esprimere e comunicare emozioni, gioie e paure, per scoprire l’universalità dei valori, dei pensieri e dei sentimenti che, al di là di ogni confine spazio-temporale, uniscono tutti i bambini e i ragazzi del mondo, malgrado ogni guerra e calamità. Partire dall’esperienza, anche se triste e limitativa, dei ragazzi di Kandahar è stato un modo diverso di affrontare un percorso esperienziale che coinvolge fortemente la dimensione emotiva di ognuno, restituendo significatività a quei valori che nessuna scuola potrà mai partecipare se non li vive in diretta e in tempo reale. Ma è stato anche un modo innovativo di coinvolgere i nostri alunni stranieri che, pur nella drammaticità della loro situazione di immigrati, sentivano comunque di poter dare qualcosa a chi, con ogni probabilità, viveva in condizioni anche peggiori delle loro. Ciò li ha portati a sviluppare comportamenti resilienti, amplificando i repertori di azione-pensiero e costruendo durevoli risorse fisiche e psicologiche, intellettuali e sociali. La presenza di questi alunni ha orientato la nostra attenzione verso itinerari tesi alla valorizzazione delle culture d’origine e alla mediazione scuola-famiglia. Nel laboratorio linguistico, luogo di apprendimento e integrazione, è stata data l’opportunità agli alunni stranieri di apprendere, insieme ai compagni, l’italiano come L2, integrando le nuove conoscenze con quelle già possedute, collegandole al proprio passato e valorizzando al tempo stesso la cultura e la lingua d’origine. L’intervento dei mediatori – anello di congiunzione tra le

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differenti visioni del mondo legate alla storia di ognuno e alle immagini mentali che questa porta con sé – ha contribuito a creare un clima accogliente, motivante e rassicurante, oltre che un sicuro riferimento linguistico e culturale. Nel laboratorio dei diritti, attraverso attività di brainstorming e problem solving, si sono affrontate le tematiche relative ai diritti umani e alle varie sfaccettature che la loro negazione assume in particolare in due delle realtà indagate, Afghanistan e Albania, con attenzione al diritto all’istruzione e all’educazione, che interpella particolarmente il mondo della scuola. Il laboratorio di attività espressive ha colorato le fantasie e i pensieri degli alunni traducendole in quei linguaggi non verbali che, privi di confini linguistici, hanno espresso la loro sintesi più bella sia nel teatro di partecipazione, che pone attenzione e dona visibilità alle marginalità, sia nel linguaggio fumettistico, catalizzatore di interesse e motivazione. Il laboratorio di lingue straniere è stato il campo neutro su cui si è giocata la partita dell’integrazione e della comunicazione, amplificata dall’uso di Internet e della posta elettronica, per annullare tempi e distanze, reali e culturali. Le conoscenze e le abilità linguistiche si sono intrecciate in un medley di sentimenti, pensieri e fantasie per dar vita ad un’emozione condivisa: una fiaba per capire, riflettere e sperare in un futuro migliore per tutti. 4. Il prodotto È stato realizzato, dunque, un prodotto interattivo che, nella forma di un cartoon digitale, propone un percorso didattico nel quale la tecnologia e i temi dell’intercultura dialogano tra loro in lingua inglese e diventano un unico contesto educativo. E-mail, lettere, iniziative di solidarietà e un vasto repertorio fotografico, ovvero le risorse scelte per avvicinare i due mondi, hanno rappresentato la principale fonte documentaria di studio e conoscenza all’interno di un percorso didattico virtuale, in cui le tecnologie utilizzate hanno costituito il mezzo principale di comunicazione per superare distanze altrimenti invalicabili. Successivamente, la ricerca, la riflessione e l’operatività, agite nei laboratori, hanno costituito il materiale grezzo con cui confezionare un CDRom ipermediale, contenitore di esperienza e di condivisione, strumento di progettazione e implementazione di percorsi formativi a cura degli stessi alunni. Dal punto di vista tecnico, si è voluto costruire un’architettura ipertestuale riusabile per l’esplorazione di tematiche interculturali e di strategie didattiche finalizzate all’integrazione e al dialogo con le culture altre attraverso la narrazione di sempre nuove avventure; l’interfaccia e gli strumenti di navigazione, oltre che gli aspetti contenutistici, rispondono alle caratteristiche dell’“approccio a spirale”, che permette diversi livelli di lettura e di utilizzo e, quindi, una fruibilità sia nella scuola primaria che secondaria di primo grado, grazie anche alle finestre di approfondimento disponibili on-line. Il CD-Rom ipermediale è organizzato in due macro-sezioni: l’Area Do-

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centi e l’Area Studenti. La prima sezione è destinata agli insegnanti che vogliono approfondire la conoscenza circa il percorso logico, didattico e applicativo che ha sostanziato e guidato la realizzazione del CD- Rom e, al contempo, confrontarsi anche con una particolare pista di lavoro; la seconda sezione è destinata agli alunni perché possano giocare, studiare e “percorrere” i contenuti della fiaba. Il percorso formativo è esperibile attraverso un doppio accesso: • l’esplorazione della fiaba, scritta in lingua inglese, con inserti delle lingue d’origine delle varie etnie coinvolte e in versione integrale, cliccabile in lingua italiana e in lingua albanese (questo perché è stato deciso di riconoscere lo stesso valore alla lingua maggioritaria che “ospita” e alla lingua minoritaria “ospitata”, eleggendone ogni anno una in particolare, da approfondire per tutti gli allievi, oltre alla lingua inglese con funzione veicolare); • la scoperta di un ampio patrimonio documentario sui Paesi trattati nei due percorsi e alcuni giochi di verifica, puzzle e cruciverba inerenti agli argomenti oggetto di studio. L’allievo può scegliere se prima “navigare” l’avventura di Plato e poi approfondire aspetti specifici suggeriti dalla fiaba, oppure se cominciare dall’esplorazione dei materiali documentari per meglio comprendere trama, personaggi e problematiche presenti nella fiaba. La scelta può anche essere oggetto di negoziazione con l’insegnante, il quale avrà il ruolo, tra l’altro, di spiegare il senso e il valore di questo doppio percorso: dalla fiaba alla realtà oppure dalla conoscenza della realtà alla decodifica della fiaba. Un ulteriore strumento di lavoro è rappresentato dalla selezione di risorse web riguardanti temi di educazione interculturale che possono rappresentare, per insegnanti e alunni, un prezioso ambiente di conoscenza. Percorsi didattici e operativi per docenti, giochi e altri materiali per ragazzi costituiscono opportunità didattiche per la fruizione personalizzata della proposta formativa. 5. Riflessioni pedagogiche e implicazioni didattiche Il lavoro, progettato su tali basi, propone l’utilizzazione della fiaba come “mediatore interculturale” per promuovere la conoscenza e la valorizzazione delle differenze, grazie a una didattica comunicativa, a canali di apprendimento alternativi e all’uso delle TIC, che dilatano e amplificano spazi e occasioni di comunicazione e confronto. È d’obbligo, a questo punto, una breve riflessione sul significato di “comunicazione”. Comunicare significa “mettere in comune”, far partecipe di qualcosa qualcuno con cui si intende inter-agire, attraverso la trasmissione di messaggi avvalendosi di diversi linguaggi. Quando questo passaggio di informazioni, aspettative, desideri, sentimenti punta a realizzare una reciproca maturazione, la comunicazione diventa “educativa”, guidata, cioè, da intenzionalità pedagogica, che promuove l’attenzione agli aspetti valoriali di tutte le culture, mediante il confronto critico, e genera reciprocità. La costruzione

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di identità mature non può che passare attraverso l’abitudine all’uso di più linguaggi e alla pratica di diversi sistemi simbolico-culturali che non facciano perdere l’orientamento anche all’interno di una situazione che può cambiare per i più disparati motivi: scelte personali, studio, lavoro, trasferimento, migrazioni. In tale prospettiva, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione rivelano tutto il loro potenziale pedagogico. La necessità di progettare e garantire percorsi didattici che consentano un coinvolgimento multisensoriale e multidimensionale, infatti, riconosce alle TIC un ruolo fondamentale e irrinunciabile in contesti multiculturali e multilingue. L’ipermedialità e la comunicazione telematica in rete possono diventare significative opportunità d’insegnamento-apprendimento, se intelligentemente inserite nella progettazione educativa e didattica dei docenti che le usano. La comunicazione telematica in particolare, rimovendo vincoli e confini spaziali e temporali, consente di mettere in atto possibilità di interazione tra soggetti nel mondo globale, che verosimilmente non avranno altra possibilità di conoscenza, né potranno incontrarsi di persona, proprio come i ragazzi di Lecce e di Kandahar. Inoltre, la partecipazione ad una comunità, sia pure virtuale, stimola docenti e alunni ad un maggiore coinvolgimento sia nello studio disciplinare vero e proprio, sia nella conoscenza ed esplorazione di nuove culture. Essa può porsi oggettivamente come medium culturale e linguaggio condiviso transculturale, in quanto forma linguistica ed esperienza sociale, al tempo stesso. Un’altra riflessione merita il concetto bruneriano di “narrazione come strumento della mente capace di creare significato” (Bruner, 1997, p 52). Il raccontare, tanto nei contesti formali di apprendimento che in quelli informali, costituisce da sempre una delle modalità preferenziali per la comunicazione di conoscenze e per la condivisione delle culture. La narrazione, inoltre, si propone come efficace strategia per la promozione della formazione linguistica, perché non solo educa al piacere dell’ascolto dell’altro, ma accresce le conoscenze e le capacità linguistico-comunicative nella prospettiva di sviluppo dell’identità di ciascuno (Bruner, 1988). La scelta metodologica della narrazione, nella specifica forma della fiaba-racconto illustrata, consente di sviluppare i temi trattati in una forma comprensibile e accessibile a tutti gli alunni e, al contempo, permette la contestualizzazione e ricostruzione degli eventi secondo un ordine logico. Innegabile, dunque, la valenza educativa della fiaba, genere narrativo diffuso in tutto il mondo e in ogni cultura, potente mediatore interculturale all’interno di una didattica narrativa che, a diversi livelli e con diverse metodologie, induca a riflettere pedagogicamente sul significato delle narrazioni e sulla ricchezza della “mano sinistra” (Bruner, 1968). Nel percorso di crescita del bambino, la fiaba costituisce una modalità privilegiata di utilizzo delle capacità della mente: se l’emisfero sinistro ha come compito di farci capire le strutture grammaticali e sintattiche, quello destro è deputato a portare alla luce le emozioni. La mente umana impatta, infatti, sempre con due universi: quello logico e quello immaginario. Nel

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mondo della fiaba, realtà e fantasia si intrecciano e l’immaginario diventa potente nella misura in cui apre nuove strade, delinea inattesi orizzonti, traccia ipotesi avventurose e inesplorate, offre contenuti impensati ai percorsi della razionalità. Contemporaneamente, la fiaba libera la mente, racconta le emozioni, i desideri, le speranze, e talvolta le angosce, del percorso evolutivo che dall’età dell’infanzia traghetta verso l’età adulta. Costruire una fiaba a scuola può essere un fecondo esercizio collettivo. La dimensione del “costruire con” i propri compagni costituisce un utile fattore di relazione interpersonale, di comunicazione fra pari, di attività cooperativa, e favorisce la collaborazione e il confronto all’interno del gruppo, perché stimola la capacità di progettare in maniera condivisa e armoniosa, di negoziare le parti e il finale, di concordare strategie comunicative. L’utilizzo, poi, della lingua straniera, per veicolare diversi contenuti disciplinari, fa comprendere agli alunni come la lingua sia uno strumento e un luogo di acquisizione e trasmissione del sapere e non un’astratta entità solo regolata da grammatica e sintassi. In questo modo vengono favoriti non solo il miglioramento linguistico, ma anche lo sviluppo della motivazione: aumentano, infatti, la consapevolezza dell’utilità di saper padroneggiare una lingua straniera e la fiducia nelle proprie possibilità. Il piacere di utilizzo della lingua come strumento operativo crea un forte impulso all’apprendimento e rappresenta un contesto di uso autentico della lingua stessa. Infatti, l’elemento importante dell’apprendimento di una LS, o di una L2, non sta tanto (ma anche!) nella maggiore esposizione alla lingua in questione, quanto nel grado di autenticità delle attività che caratterizzano un tale tipo di apprendimento e portano peraltro ai risultati migliori. In tale ottica, le lingue straniere interpretano e rappresentano la dimensione trasversale e interculturale per eccellenza del curricolo, cui non si possono non collegare le opportunità che si dischiudono con la pratica dell’ipermedialità e dell’uso della tecnologia informatica e telematica. Muovendo da queste considerazioni, è possibile organizzare, all’interno di laboratori didattici, attività che sollecitino a riflettere sulla propria esperienza cognitiva e a maturare atteggiamenti di vera apertura verso l’altro. Il lavoro, dunque, è stato progettato al fine di promuovere abilità di tipo cognitivo e relazionale. Sul piano cognitivo, gli alunni sono stati sollecitati ad organizzare le informazioni in forma complessa attraverso compiti di selezione, rielaborazione, valutazione ed esplicitazione dei nessi relazionali tra i materiali documentari recuperati; sul piano relazionale, tale attività ha comportato l’organizzazione di una didattica laboratoriale di gruppo e l’intensificazione delle strategie di tipo collaborativo, specie nella costruzione dell’ipermedia. Gli alunni hanno, quindi, appreso come utilizzare in modo costruttivo Internet e la tecnologia informatica, confrontandosi con problemi tecnici e comunicativi, oltre che di contenuto, e collaborando fra loro.

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6. Risultati ed effetti di ricaduta del progetto Parallelamente al percorso didattico, l’équipe di docenti delle diverse aree disciplinari coinvolte, supportata dall’expertise del settore universitario, ha sviluppato un percorso di ricerca-azione di respiro biennale, il cui scopo fondamentale è stato quello di indagare le opportunità offerte dall’uso di didattiche e contesti di apprendimento interculturali e verificarne gli effetti di ricaduta sugli esiti di apprendimento in rapporto a tre categorie di competenze: • le competenze nelle Lingue Straniere; • le competenze nell’uso delle TIC; • le competenze relazionali. Attraverso incontri di lavoro per formalizzare alla luce di approfondimenti teorici alcune ipotesi di intervento, collocandole in quelle coordinate pedagogiche che giustificano le intuizioni didattiche scaturite spesso dall’agire professionale quotidiano, si è cercato di mettere a punto un percorso di apprendimento dotato, sul piano educativo, metodologico e didattico, di educational appeal. L’individuazione dei soggetti sperimentali è stata circoscritta a due gruppi, un Gruppo Sperimentale e un Gruppo di controllo, i quali nel loro insieme, sia pure con le inevitabili differenze che ogni situazione reale comporta, potevano essere identificati come contesti scolastici multiculturali e multilingue. Sulla base di una procedura di screening effettuata prima dell’esperimento, si registrava la seguente situazione: Gruppo sperimentale – All’inizio della sperimentazione gli alunni stranieri risultavano inseriti nelle classi da soli tre mesi, con un patrimonio linguistico nella L2 costituito dal possesso di un lessico attivo di 20/30 parole chiave relative a domini afferenti ai bisogni fondamentali e agli oggetti scolastici di uso giornaliero, senza capacità di costruzione di una frase o un breve testo correttamente articolati. Le competenze nella LS (Inglese) si limitavano alla conoscenza lessicale di base relativa a tre domini: numeri, colori, oggetti scolastici. Solo un parlante spagnolo presentava una conoscenza pregressa relativa ad alcune formule di saluto e al lessico minimo relativo alla famiglia. Le competenze informatiche erano in tutti molto elementari e riguardanti l’utilizzo di alcuni giochi multimediali, mentre risultavano assenti quelle telematiche di navigazione finalizzata. Le competenze relazionali erano ancora caratterizzate da una partecipazione di tipo gregario. Gli alunni italiani evidenziavano, nelle competenze osservate, quattro fasce di livello relative all’anno di corso: 10% liv. Ottimo; 50% liv. Buono; 33% liv. Sufficiente; 7% liv. Non sufficiente. Gruppo di controllo – Al momento di rilevazione dei livelli, gli alunni stranieri, dopo un anno di permanenza nella scuola, manifestavano un livello di competenza nelle tre aree indagate appena sufficiente. Gli alunni italiani presentavano un livello percentualmente simile a quello del gruppo sperimentale. Durante il percorso biennale sono state programmate diverse occasioni

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di verifica in itinere, per socializzare esiti e condividere eventuali aggiustamenti ritenuti necessari, e di verifica finale, per riflettere sui risultati e ipotizzare eventuali fasi di generalizzazione degli interventi in vista di possibili modelli applicativi. Appare evidente, da un confronto tra i dati, la crescita soprattutto qualitativa del livello di competenza verificato in tutti gli alunni del gruppo sperimentale; significativa, poi, risulta la differenziazione dei livelli nel gruppo sperimentale degli alunni stranieri, laddove, se pur permangono livelli di insufficienza, compaiono, di contro, delle punte di eccellenza: fatto sicuramente dovuto ad una maggiore aderenza dei percorsi formativi ai bisogni e agli interessi del singolo alunno, sintomo di una effettiva personalizzazione degli interventi e di un coinvolgimento partecipativo dei soggetti. Nel gruppo di controllo, invece, raggiunto il livello-soglia che consente una “passiva sopravvivenza”, l’alunno straniero, non adeguatamente stimolato da una didattica accogliente e coinvolgente, si limita a subire un percorso formativo nel quale non si riconosce come protagonista. Possiamo, dunque, affermare, sulla base dell’esperienza suesposta, che l’uso di didattiche e contesti di apprendimento alternativi ha fatto registrare esiti di apprendimento linguistico superiori al livello target, avendo consentito di approfondire i contenuti disciplinari in una prospettiva diversa; di potenziare le strategie individuali attraverso l’incremento della motivazione e il rispetto dei diversi stili cognitivi; di favorire l’uso comunicativo della lingua in situazioni di coinvolgimento cognitivo, emotivo e relazionale di tutti i partecipanti: alunni, docenti, genitori, esperti esterni, membri di enti e associazioni territoriali. L’interazione tra tutti i docenti delle classi coinvolte, e quindi il dialogo tra le diverse aree disciplinari per la condivisione di obiettivi, metodi e strumenti, ha favorito una sinergia di competenze sul fronte dell’offerta formativa, orientata ad una maggiore sintonia col mondo esterno, oltre che ad una maggiore capacità e consapevolezza di lavorare in team in vista di obiettivi comuni. Il considerare la Lingua inglese e le TIC, non solo come contenuti disciplinari, ma come strumenti e ambienti di apprendimento, ha favorito sia negli alunni che nei docenti una forte motivazione alla conoscenza e all’uso della Lingua inglese e dei mezzi di comunicazione telematica, oltre che l’interesse per le lingue e le culture altre. 7. Riflessioni a margine Vari ed evidenti sono, dunque, i vantaggi cognitivi e relazionali derivanti dall’uso di metodologie interattive, per mezzo delle quali l’esperienza didattica coinvolge attivamente le sfere emotiva e cognitiva, fornendo un esempio di quell’apprendimento esperienziale, di quel learning by doing che, secondo Krashen (1987), elabora gli input a livelli più profondi, dando luogo ad un’effettiva “acquisizione automatizzata”. Impostazioni metodologiche, come quelle sopraesposte, hanno una ricaduta generale sul rendimento scolastico dei discenti, in quanto potenziano le capacità cognitive sottese ai codici comunicativi della lingua madre e della

Carmen Indirli


lingua veicolare. Oltre che una maggiore competenza linguistica (acquisizione del lessico specifico, fluidità di espressione, efficacia comunicativa), l’insegnamento/apprendimento di una lingua straniera, in un contesto didattico interculturale, stimola abilità trasversali quali la capacità di saper leggere efficacemente, di partecipare attivamente ad una discussione, di fare domande, di chiedere chiarimenti, di esprimere accordo o disaccordo, di trovare soluzioni condivise. A livello più avanzato questo tipo di attività potenzia le abilità cognitive quali il saper riassumere, sintetizzare, parafrasare, fare ipotesi. Occorre riconoscere, però, che ad oggi non sembra vi sia un ripensamento professionale diffuso, in grado di delineare le coordinate di una didattica interculturale che operi all’interno del curricolo, attraverso le discipline e trasversalmente ad esse, per rivolgersi con successo ai ragazzi stranieri e agli autoctoni, anche in assenza di immigrati inseriti nei contesti-classe. Le pratiche educative e didattiche proposte rappresentano un esempio di costruzione di un ambiente di apprendimento integrato in cui, in un contesto formale quale la scuola, si “accendono” modalità di apprendimento largamente usate nei contesti informali. Tali modalità, significative in quanto stimolano interesse e motivazione nei partecipanti perseguendo l’obiettivo prefigurato di favorire la conoscenza, la riflessione, il rispetto, la pratica dei diritti umani, contribuiscono a costruire apprendimenti socialmente condivisi e a sradicare alla base le centrature etnografiche e i pregiudizi talora emergenti anche nel gruppo dei pari. L’introduzione trasversale e interdisciplinare dell’educazione interculturale nelle pratiche didattiche risponde alla necessità di lavorare sugli aspetti cognitivi e relazionali, ancora più che sui contenuti, evitando l’oggettivazione delle culture, la loro decontestualizzazione, l’essenzialismo, il rischio di folklore ed esotismo. La scelta di coinvolgere diverse risorse territoriali costituisce il “valore aggiunto” di un progetto la cui ricaduta va oltre i confini della scuola, assumendo valenza e spessore sociale nel momento in cui si diffonde in quel tessuto relazionale dove si intrecciano non solo pregiudizi e stereotipi, ma anche valori comuni e particolari differenze: tutta la ricchezza e la problematicità di una società multietnica, multiculturale e multilingue. Nota bibliografica Bruner J.S. (1968). Il conoscere. Saggi per la mano sinistra. Roma: Armando. Bruner J.S. (1988). La mente a più dimensioni. Bari-Roma: Laterza. Bruner J.S. (1997). La cultura dell’educazione. Milano: Feltrinelli. Byram M.(1999). European Language Teaching and European Citizenship. A special case. Rende (Cosenza): LEND. Council of Europe. Language Policy Division, Directorate of Education and Languages, DGIV (2010). Guide for the development and implementation of curricula for plurilingual and intercultural education. Strasbourg. Krashen S.D. (1987). Principles and Practice in Second Language Acquisition. Englewood Cliffs: Prentice-Hall. Tassinari G. (2002). Lineamenti di didattica interculturale. Roma: Carocci.

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Verso una proibizione delle punizioni corporali su bambini e adolescenti. Norme e raccomandazioni internazionali e la posizione dell’Italia di Paolo De Stefani

Abstract L’articolo aggiorna sulle norme e raccomandazioni internazionali relative alla proibizione delle punizioni corporali sui minori d’età, con particolare riguardo al contesto famigliare. Si sta allargando, anche a seguito di campagne internazionali promosse dalle Nazioni Unite e da altri organismi internazionali, il numero degli stati che esplicitamente proibiscono le punizioni corporali in ogni ambiente, compreso in famiglia. L’articolo illustra le ragioni a sostegno di tale proibizione, imperniate sul riconoscimento della piena dignità del minore d’età e dei suoi diritti. L’Italia non prevede esplicitamente una proibizione delle punizioni violente in famiglia, anche se la giurisprudenza dal 1996 le ritiene illecite. Sull’esistenza di una giustificazione”educativa” rimane pertanto un margine di ambiguità che ragioni giuridiche e pedagogiche consiglierebbero di rimuovere con una legge. Parole chiave: diritti del bambino, punizioni corporali, diritto internazionale, violenza sui minori, Nazioni Unite

The article updates on international norms and recommendations about the prohibition of corporal punishments on children, namely within the family. Following international campaigns promoted by the United Nations and other international bodies, the number is increasing of states that explicitly prohibit corporal punishments in any context, including the family. The article discusses the reasons for such a ban, based on the recognition of the child’s dignity rights. Italy does not provide an explicit prohibition of violent punishment in the family,although since 1996 courts have consistently stated they are illegal.The point remains however ambiguous as to the existence of an “educational purpose” defence. Both legal and pedagogical considerations suggest Italy should remove any defence and sanction the recourse to the violent punishement of children in the family by enacting a law. Key words: rights of the child, corporal punishment, international law, violence on children, United Nations

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 1722-8395 (in press) / ISSN 2035-844X (on line) Studium Educationis • anno XIII - n. 2 - giugno 2012


Le punizioni corporali sono misure implicanti un certo ammontare di forza fisica applicate su un bambino o adolescente dai genitori o da altre persone incaricate di funzioni lato sensu educative a scopo appunto educativo o per imporre disciplina. La proibizione delle punizioni corporali come sanzione penale è esplicitamente prevista dalla legislazione di 155 Paesi; l’illegalità delle punizioni corporali a scuola è sancita dalle leggi di 117 Stati; ma gli Stati che espressamente sanzionano le punizioni corporali sui minori d’età in ambito domestico sono solo 32, contro i 166 che in materia non hanno un’esplicita previsione di legge1. Sembra quindi che questo tema si collochi lungo una faglia particolarmente sensibile della dialettica tra diritti del bambino e diritti (e responsabilità) degli adulti. Ben pochi – anche tra quanti sostengono la legittimità del ricorso allo schiaffo su minore d’età che disobbedisce o si comporta male – arriveranno fino al punto di affermare che essere trattato in quel modo costituisce un diritto del minore stesso, speculare rispetto a un dovere di irrogare punizioni corporali spettante al genitore; ma l’idea che quello schiaffo sia inferto “per il bene del fanciullo” resta una considerazione ancora molto diffusa. Allo stesso modo, pochi sono quelli che affermano senza tentennamenti che quello di dare schiaffi o sculacciate ai propri figli sia un preciso diritto del genitore; eppure il livello di accettazione sociale, di tolleranza e di benevola comprensione di cui godono gli adulti che adottano tali comportamenti è ancora alto in un Paese come il nostro. Situazioni quali lo stress o un disagio psicologico occasionale, la mancanza di tempo o di risorse per utilizzare metodi educativi o disciplinari alternativi, l’atteggiamento non prontamente collaborativo del minore, sono ritenute giustificazioni accettabili per un “moderato” ricorso alle botte (Dwyer, 2010). 1. La Convenzione sui diritti del bambino e le punizioni corporali Il tema della violenza su bambini e adolescenti è ampiamente affrontato nella Convenzione sui diritti del bambino2. La disposizione rilevante, in primo luogo quella dell’art. 19, che impegna gli Stati parte ad adottare “ogni misura legislativa, amministrativa, sociale e educativa per tutelare il fanciullo contro ogni forma di violenza, di oltraggio o di brutalità fisiche o mentali, di abbandono o di negligenza, di maltrattamento o di sfruttamento, compresa la violenza sessuale, per tutto il tempo in cui è affidato all’uno o all’altro, o ad entrambi, i suoi genitori, al suo rappresentante legale […] oppure ad altra persona che ha il suo affidamento”. L’articolo continua ponendo a carico dello Stato il compito di promuovere programmi sociali di sostegno al bambino e alle persone a cui è affidato, nonché di prevenzione e repressione

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Si vedano i rapporti prodotti dalla Global Initiative to End All Cortporal Punishment of Children (2011). Gli Stati parte della Convenzione sono, al 2012, 193: solamente Somalia e Stati Uniti non hanno ratificato.

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delle condotte violente. L’art. 19 è stato oggetto di una specifica riserva da parte di Singapore; ma anche le riserve (di dubbia legittimità) espresse da numerosi paesi che asseriscono la prevalenza sulla Convenzione della legge islamica o dei “valori tradizionali della nazione” possono applicarsi al tema delle punizioni corporali applicate ai minori d’età. Oltre all’art. 19, si devono citare come rilevanti in materia l’art. 28.2 in relazione alla disciplina scolastica e l’art. 37, che protegge i minori d’età da ogni pena o trattamento crudele inumano e degradante ed esclude la legittimità della pena capitale e dell’ergastolo. Particolari forme di violenza contro i minori d’età sono affrontate in disposizioni quali gli artt. 32, 34, 35 e 36 (protezione del minore d’età dallo sfruttamento economico, sessuale ecc.), l’art. 38 (sui bambini-soldato), l’art. 39 (riabilitazione e reinserimento sociale dei bambini vittime di negligenza, maltrattamento, abuso o sfruttamento) e l’art. 40 (sul procedimento penale minorile). Trattano di violenza sui minori d’età anche il Protocollo facoltativo sul coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati e quello riguardante il traffico di bambini, la prostituzione infantile e la pornografia infantile, entrambi del 20003. Ogni forma di violenza è inoltre contraria ai principi-cardine della Convenzione codificati negli artt. 2, 3, 6, 12: non discriminazione, perseguimento del miglior interesse del bambino, tutela della vita e dello sviluppo del bambino e diritto di essere ascoltato. In tutti questi articoli non risulta direttamente affrontata la questione della violenza (moderata) esercitata sul bambino da figure genitoriali a fini (presuntivamente) educativi che invece connota la problematica delle “punizioni corporali”. La Convenzione del 1989, pur centrata sui diritti del minore d’età, non manca certo di riconoscere il diritto e la responsabilità dei genitori di “dare al bambino, in maniera corrispondente allo sviluppo delle sue capacità, l’orientamento e i consigli adeguati all’esercizio dei diritti che gli sono riconosciuti”; tale responsabilità è estesa anche ai “membri della famiglia allargata o della collettività, come previsto dagli usi locali, [ai] tutori o altre persone legalmente responsabili del fanciullo” (art. 5). La domanda che ci si può porre a questo punto è: l’orientamento che è compito dei genitori fornire può essere dato anche ricorrendo a forme “moderate” di violenza sui bambini, tollerate dal contesto socio-culturale e giustificate dalla finalità “educativa” o “disciplinare” ad esse associata? Il quesito fino a qualche anno fa appariva chiaramente retorico, nel senso che la risposta sarebbe stata certamente positiva. La storia dell’infanzia e la l’infanzia nella storia sono intrise di castighi, vessazioni, sculacciate e bacchettate a fin di bene. Negli ultimi decenni, tuttavia, è cresciuta in molte parti del mondo e anche in Occidente la sensibilità alla violenza subita dalle vittime ed è diminuita la capacità di tollerare la violenza (sempre) ingiusta inflitta a individui, animali e cose in nome degli imperativi dell’ideologia o della tecnica. Oggi, non solo la violenza associata ai mezzi di correzione e di

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I due Protocolli al 2012 hanno rispettivamente 147 e 156 Stati parte.

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disciplina applicabili a bambini e adolescenti è fonte di dubbio e di frustrazione per chi la subisce e per chi la infligge (Save the Children Italia – IPSOS, 2012); ma la proibizione esplicita della violenza nei contesti educativi e di crescita si configura ormai come un’opzione concreta per il legislatore statale (Committee on the Rights of the Child, 2006, par. 20). Un’impostazione rigorosa nell’escludere ogni alibi pedagogico o ispirato a una certa idea di “relativismo culturale” è stata adottata dal Comitato sui diritti del bambino. Il Comitato ha infatti precisato, nell’Osservazione generale (General Comment) n. 8 (2006), che l’obbligazione dell’art. 19 “è inequivocabile e non lascia spazio di legittimità ad alcuna forma di violenza per quanto lieve contro i bambini. Le punizioni corporali e le altre forme crudeli e degradanti di castigo sono delle forme di violenza, e gli Stati devono pertanto adottare ogni misura legislativa, amministrativa, sociale e educativa appropriata per eliminarle” (Committee on the Rights of the Child, 2006, par. 18, corsivo aggiunto). Nell’Osservazione generale 13 (2011), adottata il 18 aprile del 2011, dedicata all’art. 19 della Convenzione sui diritti del bambino, il Comitato, riprendendo il Rapporto mondiale sulla violenza contro i bambini (Pinheiro, 2006), identifica le seguenti forme di violenza contro i minori d’età: trascuratezza e abbandono; violenza psicologica; violenza fisica; abuso e sfruttamento sessuale; tortura e trattamenti o punizioni assimilabili; pratiche pregiudizievoli; violenza dei mass-media; violenza mediata dalle tecnologie informatiche; violazioni sistematiche dei diritti dell’infanzia compiute dalle istituzioni. Le “punizioni corporali” si collocano tra le manifestazioni di “violenza fisica” e costituiscono anche delle “pratiche pregiudizievoli”, alla stregua, per esempio, dei matrimoni forzati di bambini o delle mutilazioni genitali femminili. Secondo l’Unicef si tratta di una modalità di “violent child discipline” (Unicef, 2010). Tale approccio giustifica l’ascrizione delle punizioni corporali alla categoria penalistica dei “trattamenti o punizioni degradanti”, oppure, nei casi oggettivamente e soggettivamente più gravi, dei “trattamenti o punizioni crudeli o inumane”, alla stregua dell’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici4, nonché, se sussiste il coinvolgimento di pubblici ufficiali, della Convenzione contro la tortura5. Gli Stati devono pertanto non solo fare in modo che nessuno dei loro agenti commetta simili azioni, ma anche usare la dovuta diligenza affinché tali norme siano rispettate nell’ambito dei rapporti tra privati: nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani tale principio è ben chiarito in A. c. Regno Unito, sentenza del 23 settembre 1998. Le pratiche tipiche delle punizioni corporali sono riassunte in un paragrafo

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Adottato il 16 dicembre 1966, in vigore dal 23 marzo 1976; gli Stati parte al 2012 sono 167. L’Italia lo ha ratificato in base alla l. 25 ottobre 1977, n. 881. Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata il 10 dicembre 1984, in vigore dal 26 giugno 1987; gli Stati parti al 2012 sono 150. L’Italia ha autorizzato la ratifica con l. 3 novembre 1988, n. 489. Si veda Nowak (2009); van Boven (2002, parr. 46-53).

Paolo De Stefani


del citato General Comment n. 8 del 2006. Si citano condotte quali: dare scappellotti (smaking), schiaffi (slapping) o sculaccioni (spanking); oppure infliggere frustate, bastonate o cinghiate, colpire con una scarpa o con il cucchiaio di legno; è una tipica forma di punizione corporale prendere un minore d’età a calci, dargli scrolloni o spintoni o graffiarlo, oppure dargli pizzicotti o morsi, tirargli i capelli, dargli scapaccioni sulle orecchie, prenderlo a bacchettate, costringerlo a stare in posizioni scomode, procurargli bruciature o ustioni con liquidi o costringerlo a ingerire qualcosa. Il Comitato aggiunge che, a suo parere, nel novero delle punizioni fisiche rientrano altre forme di punizione che, anche se non producono una particolare sofferenza fisica andando a colpire piuttosto la dimensione psicologica, comunque umiliano, denigrano o mortificano il minore d’età, oppure lo usano come capro espiatorio, la minacciano, lo impauriscono o lo mettono in ridicolo (Committee on the Rights of the Child, 2006, par. 11). 2. Le valutazioni del Comitato sui diritti del bambino e di altri organismi internazionali Il rifiuto delle punizioni corporali è mantenuto coerentemente nelle Osservazioni conclusive adottate dal Comitato sui diritti del bambino sui rapporti periodici degli Stati. Questi infatti hanno un obbligo “immediato e incondizionato” di proibire e far cessare tali pratiche (Committee on the Rights of the Child, 2006, par. 22). La mancanza di una legge esplicita contro le punizioni corporali che escluda l’esimente, caratteristica del common law, del reasonable (o moderate) chastisement6, è contestata a numerosi paesi. Per limitarsi ai rapporti esaminati nel 2011 e nella prima parte del 2012, osservazioni critiche e raccomandazioni specifiche sono state indirizzate a Singapore, Ucraina (nonostante il bando completo stabilito per legge), Afghanistan, Bielorussia, Laos, Danimarca (manca un’esplicita legislazione per le isole Faroe e la norma che proibisce le punizioni corporali a scuola non ha forza di legge), Messico, Guatemala, Sudan, Azerbaijan, Finlandia (si raccomanda che alle leggi esistenti in materia si garantisca maggiore effettività), Barhain, Egitto, Cuba, Panama, Seychelles, Repubblica Ceca e Italia. Anche altri Comitati di monitoraggio delle Convenzioni sui diritti umani hanno affrontato la materia. Sempre per limitarci agli anni recentissimi, il Comitato contro la tortura ha sollevato rilievi critici nei riguardi di Etiopia, Mongolia, Turchia, Svizzera. Il Comitato sui diritti economici sociali e culturali ha sollevato critiche rispetto ai Paesi Bassi (limitatamente all’isola di Aruba) e il Comitato contro la discriminazione nei confronti delle donne in relazione a Botswana e Panama. Il General Comment n. 20 (1992) del Comitato sui diritti umani sull’art. 7

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Per una trattazione della problematica con riferimento prevalente ai paesi di tradizione giuridica britannica si veda, tra gli altri, Freeman 2011.

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del Patto sui diritti civili e politici, che fa rientrare tra le condotte proibite solo “i castighi eccessivi inflitti come […] misura educativa o disciplinare” (corsivo aggiunto), è invece da ritenersi superato dagli orientamenti più recenti. Per quanto riguarda la Corte europea dei diritti umani, si è già menzionato il caso A. c. Regno Unito del 1998: la Corte ritenne che le percosse inflitte dal patrigno ad un ragazzo difficile non potessero essere giustificate dall’intento correttivo, ma costituissero un trattamento crudele e inumano che lo Stato deve prevenire e punire. Gli organi di Strasburgo avevano affermato già nel 1982 che una legge nazionale che proibisca le punizioni corporali non costituisce interferenza illegittima nella vita privata e familiare (Seven Individuals v. Sweden, 1982), né viola il diritto alla libertà di religione e di opinione dei genitori. Per la Corte, le punizioni corporali a scuola (Campbell & Cosans v. the United Kingdom – 25 febbraio 1982; Costello-Roberts v. the United Kingdom – 247-C, 25 marzo 1993) e in sede penale minorile (Tyrer v. the United Kingdom, 25 aprile 1978) sono incompatibili con la Convenzione europea dei diritti umani. Queste pronunce hanno avuto una vasta eco nel Regno Unito, anche se a tutt’oggi non hanno portato che ad una parziale proibizione delle punizioni corporali, dal momento che permane valida la defence del “reasonable punishment” in caso di uso lieve della violenza nel contesto familiare7. Il Comitato dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, infine, considera le punizioni corporali contrarie all’art. 17 della Carta sociale europea riveduta. Il fatto che uno Stato non preveda un’esplicita proibizione delle punizioni corporali in famiglia è motivo sufficiente per riscontrare una violazione della Carta sociale europea8. 3. Le ragioni per la proibizione delle punizioni corporali sui bambini L’atteggiamento rigoroso del Comitato dei diritti del bambino e degli altri organismi rapidamente passati in rassegna è condiviso anche dal Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla violenza contro i bambini. (Santos Pais, 2011, par. 16). Al maggio 2012 il numero degli Stati “abolizionisti” è salito, come detto, a 32. Molti sono paesi europei: Svezia – il primo Stato a legiferare in merito nel 1979 (al 1957 risale invece l’abrogazione dell’esimente al reato di maltrattamenti riconducibile allo ius corrigendi) – Austria, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Islanda, Lettonia, Liechtenstein, Lussemburgo, Moldova, Norvegia,

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La campagna per la completa messa fuori legge delle punizioni corporali è ancora attiva in Inghilterra: notizie al sito <http://www.childrenareunbeatable.org.uk>. Ciò è stato affermato, tra gli altri, nel 2005 con riguardo a Estonia, Francia, Lituania, Moldova, Romania, Slovenia. Si veda European Committee on Social Rights, 2005; si veda anche la posizione dissenziente di un membro del Comitato (p. 739).

Paolo De Stefani


Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna, Ucraina, Ungheria. In ambito extraeuropeo si registrano: Costa Rica, Israele, Kenya, Nuova Zelanda, Tunisia, Uruguay,Venezuela, Sud Sudan e, dal 2012, Togo e Repubblica democratica del Congo. Un disegno di legge pare sia in via di approvazione in Brasile. Si tratta di numeri ancora drammaticamente bassi. Le ragioni a sostegno di una legislazione contro i castighi corporali su bambini e adolescenti si possono riportare, in estrema sintesi, a due argomenti. In primo luogo, larga parte della ricerca in campo psicologico, sociale e pedagogico concorda nel ritenere che le punizioni corporali non siano efficaci al conseguimento dello scopo di ottenere maggior disciplina e radicare comportamenti socialmente adeguati; sono anzi una pratica controproducente, alla luce di una certa correlazione riscontrata tra esposizione a punizioni corporali e insorgere in età giovanile o adulta di problemi comportamentali o psicologici, compresa l’attitudine alla violenza9. È inoltre praticamente impossibile discriminare tra punizioni corporali “giuste” e “moderate” e forme di maltrattamento – nonostante un’opinione ancora molto diffusa presso genitori e educatori sostenga il contrario (si veda, per esempio, Save the Children Italia – IPSOS, 2009). C’è una sostanziale continuità tra punizioni corporali e forme di abuso e maltrattamento, tanto che per l’Unicef le punizioni corporali sono la forma più diffusa di violenza sui minori nei paesi industrializzati (Unicef, 2003, p. 23; CHI, 2011). In secondo luogo, le punizioni corporali non sono giustificabili nella prospettiva dei diritti inerenti alla persona umana. Non vi sono argomenti validi per affermare che una condotta che viola il diritto all’integrità fisica e alla dignità dell’individuo, inaccettabile se posta in essere nei riguardi di un adulto senza il suo consenso, possa essere tollerata nei confronti di un minore d’età. I principi-cardine della Convenzione sui diritti del bambino e più in generale del “paradigma” dei diritti umani, riconducibile all’endiadi dignitàvita (Papisca, 2011), richiedono un approccio intransigente al tema delle punizioni corporali. Le punizioni fisiche inoltre non possono essere confuse, né dal punto di vista soggettivo né sul piano dell’oggettività del fatto, con forme di “contenimento” fisico volte non a produrre lesioni ma a proteggere il bambino. Entrambi gli ordini di argomentazione sono presenti nelle iniziative e campagne promosse da organizzazioni internazionali governative e non-governative impegnate a ottenere il bando della pratica nel maggior numero di Stati.Tra gli organismi più attivi su questo fronte rientra il Consiglio d’Europa, il cui Comitato dei ministri fin dal 1985 ha adottato risoluzioni che invitano gli Stati a proibire i castighi corporali. Nel 2004, con Rec. 1666 (2004), l’Assemblea parlamentare ha lanciato un’azione per fare dell’Europa un’area libera dalle punizioni corporali, mentre del 2006 è la Raccomandazione (2006) 19 del Comitato dei ministri per la promozione della “genitorialità positiva” (positive parenting), ovvero basata sul riconoscimento dei diritti fon-

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Cfr., tra gli altri, Bitensky (2006); Gershoff, Bitensky (2007).

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damentali di tutti i membri della famiglia, figli minori compresi, e caratterizzata, tra l’altro, dall’abbandono delle punizioni corporali (Council of Europe, 2007). Una specifica campagna, “Raise your hand against smacking!”, lanciata nel 2008, si collega alla strategia 2009-11 sui diritti del bambino adottata a Stoccolma nel 2008. A livello globale, dal 2001 opera, con il sostegno dell’Unicef , la “Global Initiative to End All Corporal Punishment of Children”, una piattaforma di organizzazioni non-governative. È singolare e deprecabile che il tema non compaia nella recente Agenda dell’UE sui diritti del bambino, contenuta nella Comunicazione della Commissione COM (2011) del 15 febbraio 2011. 4. Il caso italiano L’Italia non ha una legge che proibisca esplicitamente le punizioni corporali in famiglia. L’art. 571 del codice penale10, infatti, punisce con la reclusione fino a sei mesi chiunque “abusa dei mezzi di correzione o di disciplina” di cui può disporre nei confronti di una persona posta sotto la sua autorità o a lui affidata “se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”; se la lesione si realizza la pena aumenta. L’art 571 postula evidentemente che alle misure correttive o disciplinari inerisca un certo uso della forza; quest’ultimo è infatti punito solo se “abusivo”, ovvero eccessivo. Nella maggior parte dei contesti a cui l’art. 571 faceva originariamente rinvio (famiglia, scuola, ambiente di lavoro, istituti penali, luoghi di cura ecc.) oggi è da ritenere che l’assimilazione tra potere di imporre la disciplina e facoltà di applicare lecitamente misure che incidono sull’incolumità del subordinato sia del tutto venuta meno. Da tempo le punizioni corporali sono bandite nella scuola, in forza del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297 e sulla base di una giurisprudenza oramai costante, senza che rilevi il fatto che da esse derivi o meno un “pericolo di malattia”. Nei rapporti di lavoro, le punizioni corporali sul dipendente sono incompatibili con lo Statuto dei lavoratori. Anche per l’ambito sanitario o di cura valgono considerazioni analoghe, così come, in ambito familiare, per tutte le situazioni in cui siano coinvolti degli adulti. Paradossalmente, l’ambito in cui è ancora possibile l’applicazione dell’art 571, e che quindi ammette un uso della forza (sia pure modico o modicissimo) giustificato dal diritto/dovere di “educare”, è quello dei rapporti tra titolari della potestà genitoriale e figli minori d’età. Nel nostro ordinamento quindi non solo manca una legge che proibisca esplicitamente a genitori, tutori o altri adulti che abbiano la cura del minore d’età di ricorrere alle botte, ma rimane vigente una norma che potenzialmente legittima le forme lievi di violenza sostenute da un animus corrigendi.

10 Sull’art. 571 del codice penale si veda in generale Meneghello, 2011.

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A limitare la residua portata dell’art. 571 è intervenuta tuttavia la giurisprudenza. La sentenza Cambria del 18 marzo 1996 (Cassazione, sez. IV penale, n. 4904) ha chiaramente affermato che al giorno d’oggi, anche alla luce dei principi costituzionali e della Convenzione del 1989, “non può ritenersi lecito l’uso della violenza a scopi educativi”. Allo stato attuale, dunque, l’Italia è uno dei due paesi (l’altro è il Nepal11) che, privi di una legge che dichiari illecite le punizioni corporali in famiglia, fondano il divieto sulla sola giurisprudenza. Ciò non ci mette al riparo dalle reprimende degli organismi internazionali sui diritti umani. Nel 2007, il Comitato sui diritti sociali del Consiglio d’Europa aveva considerato il nostro Paese in conformità con l’art. 17 della Carta sociale europea riveduta (European Committee on Social Rights, 2007), in linea con una propria decisione su un ricorso collettivo portato contro l’Italia dalla Organisation mondiale contre la torture. Nel rapporto del 2010 sull’attuazione della Carta sociale europea, l’Italia cita anche la sentenza 41142/2010 della Cassazione, riguardante la protezione dei bambini dalla “violenza assistita”, come prova del consolidarsi dell’orientamento giurisprudenziale di condanna di ogni pratica violenta (European Committee on Social Rights, 2010, p. 40). Nelle sue valutazioni sul rapporto italiano, il Comitato chiede tuttavia che “il ‘diritto di correzione’ sia espressamente abrogato e sia legislativamente introdotta una proibizione di tutte le punizioni corporali e delle altre forme crudeli o degradanti di punizione in casa e in ogni altro ambiente in cui gli adulti esercitano l’autorità genitoriale” (European Committee on Social Rights, 2012, p. 21). Nel 2010, in occasione della settima tornata dell’esame periodico universale (Universal periodic review), il governo italiano non ha accettato la raccomandazione, avanzata dalla Spagna, di introdurre il reato di punizioni corporali in ogni ambito, compreso quello familiare (Report of the Working Group, 2010, p. 17). Il governo italiano ha ribattuto che “l’Italia ritiene che non vi sia la necessità di adottare alcuna ulteriore legge specifica in materia” (Report of the Working Group - Views 2010, p. 4). Una risposta che appare piuttosto deludente. Infine, le Osservazioni generali formulate nell’ottobre 2011 all’Italia dal Comitato sui diritti del bambino (CRC/C/ITA/CO/3-4) contengono, al paragrafo 34, un severo richiamo al nostro Paese, che fin dal 1995 era stato invitato dallo stesso Comitato a recepire nella legge il bando alle punizioni corporali in famiglia (CRC/C/15/Add.41, paragrafo 20).Tale raccomandazione è rimasta inevasa. L’Italia inoltre dovrebbe promuovere presso le famiglie e nell’opinione pubblica nazionale una maggiore consapevolezza circa le conseguenze negative della pratica delle punizioni corporali sul benessere dei bambini e degli adolescenti e diffondere attivamente forme alternative per educare alla disciplina. Nella discussione con il Comitato, la delegazione italiana ha apparentemente ignorato i problemi posti dall’interpretazione dell’art. 571 del codice penale.

11 Si rinvia ancora al sito <http://www.endcorporalpunishment.org>.

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Conclusioni Le ripetute raccomandazioni rivolte all’Italia affinché proibisca per legge le punizioni corporali sui minori in ogni circostanza dovrebbero essere recepite. Se infatti dalla sentenza Cambria in avanti la giurisprudenza è concorde nel ritenere superata l’idea che l’intento educativo/correttivo giustifichi l’uso della violenza sulle persone, rimane tuttavia il fatto che l’art. 571 resta vigente e offre il destro a possibili revirement della giurisprudenza. La questione centrale infatti non è tanto l’esito patologico delle misure punitive (come si è visto, anche il semplice pericolo di una patologia è tale da far scattare la sanzione penale), ma il disvalore che ad esse dovrebbe essere collegato, valutabile in chiave pedagogico-evolutiva e quale mancato rispetto della dignità intrinseca della persona. È quindi auspicabile che prosegua l’iter delle proposte di legge, presentate fin dai primi anni ’80, volte a proibire le punizioni corporali e promuovere una genitorialità non-violenta.Tra queste, il disegno di legge S1928, assegnato alla Commissione giustizia del Senato il 20 gennaio 2010, prevede l’abrogazione dell’articolo 571 e l’inserimento di un riferimento alle punizioni corporali nell’art. 572 del codice penale, che sanziona i casi di maltrattamento. Esso propone inoltre di aggiungere all’art. 147 del codice civile il seguente comma: “Il minore ha il diritto alla tutela e alla sicurezza, e non può essere soggetto a punizioni corporali o ad altri trattamenti degradanti la dignità della persona”. Una simile riforma riporterebbe il nostro Paese nell’alveo della piena conformità al diritto internazionale dei diritti umani e rappresenterebbe una forte spinta, soprattutto sul piano simbolico, al radicamento di modelli educativi e di convivenza nonviolenti e rispettosi della dignità del bambino.

Nota bibliografica Bitensky S. (2006). Corporal punishment of children. A human rights violation. Ardsley: Transnational publishers. Boven T. van (2002). Report of the Special Rapporteur on Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, A/57/183, 2 luglio 2002. CHI (2011). Child Helpline International Fifth Annual Report – Violence against children. Amsterdam: Child Helpline International. Commission on Human Rights (2010), Report of the Working Group on the Universal Periodic Review, Italy, 18 marzo 2010, UN doc. A/HRC/14/4. Commission on Human Rights (2010). Report of the Working Group on the Universal Periodic Review, Italy – Addendum. Views on conclusions and/or recommendations, voluntary commitments and replies presented by the State under review, 31 maggio 2010, UN doc. A/HRC/14/4/Add.1. Committee on the Rights of the Child (2006). General Comment n. 8 (2006), The right of the child to protection from corporal punishment and other cruel or degrading forms of punishment (arts. 19; 28, para. 2; and 37, inter alia), 2 marzo 2007, CRC/C/GC/8. Committee on the Rights of the Child (2011). Consideration of reports submitted by

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States parties under article 44 of the Convention. Concluding observations: Italy, CRC/C/15/Add.41, 29 novembre 1995. Committee on the Rights of the Child (2011). Consideration of reports submitted by States parties under article 44 of the Convention. Concluding observations: Italy, CRC/C/ITA/CO/3-4, 6 ottobre 2011 (Advance unedited version). Committee on the Rights of the Child (2011). General Comment n. 13 (2011), The right of the child to freedom from all forms of violence, 18 aprile 2011, CRC/C/GC/13. Council of Europe (2007). Eliminating corporal punishment. A human rights imperative for Europe’s children, Strasbourg, Council of Europe, 2nd ed. Dwyer J.G. (2010). Parental entitlement and corporal punishment. Law and Contemporary Problems, 73, 2, pp. 189-210. European Committee on Social Rights (2005), Conclusions 2005,Volumes I and II. In<http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/socialcharter/Conclusions/Year/200 5Vol1_en.pdf> e <http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/socialcharter/Conclusions/Year/2005Vol2_en.pdf>. European Committee on Social Rights (2007), Conclusions 2007 (Italy), XVIII-1, vol. 2, dicembre. In <http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/socialcharter/Conclusions/State/Italy2007_en.pdf>. European Committee on Social Rights (2012), Conclusions 2011 (Italy), gennaio. In <http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/socialcharter/Conclusions/State/Italy2 011_en.pdf>. European Committee on Social Rights (2007), OMCT v. Italy, Complaint n. 19/2003, Decision on the Merits. In <http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/socialcharter/Complaints/Complaints_en.asp>. European Committee on Social Rights (2010), 10e Rapport national sur l’application de la Charte sociale européenne révisée soumis par le Gouvernement de l’Italie (Articles 7, 8, 16, 17, 19, 27 et 31) pour la période 01/01/2005 – 31/12/2009, 29 ottobre 2010. In <http://www.coe.int/t/dghl/monitoring/socialcharter/Reporting/StateReports/Italy10_en.pdf>. Freeman M.D.A. (2010), Upholding the dignity and best interest of children: International law and the corporal punishment of children. In Law and Contemporary Problems, 73, 2, pp. 211-252. Gershoff E.T., Bitensky S.H. (2007). The Case against Corporal Punishment of Children. Converging Evidence from Social Science Research and International Human Rights Law and Implications for U.S. Public Policy. Psychology, Public Policy and Law, 13, 4, pp. 231-272. Global initiative to end all corporal punishment of children, Save the Children – Sweden, Churches’ Network for non-violence (2011), Ending corporal punishment of children. A handbook for working with and within religious communities. In <http://www.endcorporalpunishment.org/pages/pdfs/reports/FaithHandbook.pdf>. Meneghello M. (2011). Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina. In P. Zatti (diretto da). Trattato di diritto di famiglia, vol. IV – Diritto penale della famiglia (pp. 616-633), a cura di S. Riondato. Milano: Giuffrè. Nowak M. (2009). Torture and enforced disappearances. In J. Krause, M. Scheinin (Eds.) (2009), International Protection of Human Rights: A Textbook (pp. 151-182). Turku/Åbo, Åbo Akademi University. Papisca A. (2011). Il Diritto della dignità umana. Riflessioni sulla globalizzazione dei diritti umani.Venezia: Marsilio. Pinheiro P.S. (2006). World Report on Violence against Children. Secretary General’s Study on Violence against Children. Geneva: United Nations.

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La deprivazione dell’essenza ludica nel bambino contemporaneo di Anna Kaiser

Abstract Nonostante le prime età della vita costituiscano un patrimonio di umanità in formazione, il bambino non è ancora sufficientemente tutelato neanche circa i diritti fondamentali che riguardano la sua esistenza. Uno di questi diritti concerne il gioco. Pure nei Paesi economicamente benestanti, si registra una precoce deludificazione dell’infanzia che produce danni all’essenza dell’uomo che sta prendendo la sua forma originale. Nelle età successive apatia ludica e ludopatie spesso si rincorrono in un vortice ove il soggetto non riesce più ad attingere all’energia gioiosa e liberante del suo genius ludi. Parole chiave: bambino, formazione, gioco, genius ludi, diritto

Despite early stages of life constitute a patrimony of humanity in formation, the child is not yet sufficiently protected even about the fundamental rights that relate to their existence. One of these rights regards play. Even in economically well-off countries, there is an early “unplayfulness” of the childhood that produces damage to the very essence of the man who is forming. In later life, and playful apathy and “ludo-pathy” often meet in a vortex where the subject is no longer able to tap into joyous and liberating energy of his genius ludi. Key words: child, formation, play, genius ludi, right

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 1722-8395 (in press) / ISSN 2035-844X (on line) Studium Educationis • anno XIII - n. 2 - giugno 2012


1. Le prime età della vita: patrimonio d’umanità in formazione Uno dei fondamenti del sistema di saperi più antico dell’uomo enfatizza il fatto che ogni soggetto sia libero di delineare la propria forma umana. La Pedagogia generale (Gennari, 2006) attribuisce a ciascun soggetto lo statuto antropologico di essere autonomo, unico e irripetibile, diverso da chiunque altro, latore di un mondo personale in continua formazione e trasformazione. Alla costituzione del mondo personale contribuiscono, in maniera decisiva, i mondi culturale, sociale, relazionale, fin dalle prime età della vita. Differenti itinerari di scoperta e ricerca sono possibili qualora si ponga in essere il tentativo di cogliere il patrimonio che l’umanità sviluppa, permettendo a ogni soggetto di assumere liberamente la propria forma umana. Tra i più rilevanti si stagliano quelli che fanno riferimento alle prime età della vita. Ad esempio, uno di essi si cela nel viaggio da compiersi nelle idee di bambino che la cultura di ogni tempo storico abbia elaborato; un altro emerge dalla rammemorazione autobiografica che ciascun adulto potrà compiere rispetto alla propria infanzia; un altro ancora si manifesta nelle realtà ambientali idonee alla formazione e all’educazione dei bambini; e un altro si delinea nel ruolo sociale riconosciuto a chi non produce, ma produrrà dal punto di vista economico (Becchi, Julia, 1996; Cunningham, 1997; Corsaro, 2003). Molteplici sono le possibili direzioni euristiche per studiare o analizzare pedagogicamente la formazione e l’educazione dell’uomo fin dai loro albori (Richter, 1992). È proficuo porsi alcuni interrogativi preliminari, che si delineano, forse inevitabilmente, alla radice delle ricerche sull’infanzia: quale idea di bambino la modernità ha espresso finora? quale immagine d’infanzia possiede l’uomo contemporaneo? sussiste una condivisione culturale, sociale, politica che riconosca uno specifico valore alle prime età della vita? quale realtà esistenziale vive il bambino del terzo millennio? Partendo dall’ultimo interrogativo, che richiama e include parzialmente anche gli altri, si possono rintracciare differenti risposte. Ad esempio, Save the Children denuncia come ogni anno, nel mondo, muoiano quasi 8 milioni di bambini sotto i 5 anni d’età1. Durante i 90 minuti di una partita di calcio muoiono 1.500 bimbi2. Non verranno mai visitati nella loro vita 350 milioni di bambini al mondo. Ribadisce l’United Nations International Children’s Emergency Fund (Unicef): 60 bimbi nel mondo (nel 1970 erano 138), su 1000 nati vivi, hanno una altissima probabilità di morire prima di raggiungere il compimento del quinto anno di vita. E i bambini che raggiungono età più avanzate?

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Nel 1970 erano il doppio. Le cause sono addebitabili soprattutto a complicazioni post parto (circa 1 su 5), polmonite, malaria, dissenteria, non curate in tempo, anche per mancanza di operatori sanitari In India – dove si registra il più alto tasso di mortalità infantile al mondo – ogni 20 secondi muore un bimbo, mentre ne muoiono, ogni anno, 1,73 milioni prima di giungere a compiere 5 anni.

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Altrettanto delicato sembra il passaggio tra infanzia e mondo adulto: si registrano 1,2 miliardi di adolescenti3. Il Rapporto 2011 dell’Unicef sulla condizione dell’infanzia e dell’adolescenza calcola che circa il 20% degli adolescenti del mondo abbia problemi di salute o di comportamento4. L’Istituto di statistica dell’Unesco rileva il tasso d’alfabetismo dei giovani tra i 15 e i 24 anni, nel quadriennio 2004-08: tra i maschi 91%, tra le femmine 85%; almeno 9 milioni sarebbe la cifra che separa, ogni anno, maschi e femmine nell’accesso all’istruzione. La carenza di educazione scolastica risulta sempre più strettamente correlata con la vulnerabilità a fame, malattie, abusi, violenze, sfruttamento. Che cosa gridano al mondo questi pochissimi dati? Il diritto ad avere tutti gli stessi diritti fin dalle prime età? O l’impossibilità per la maggioranza dei bambini al mondo di vivere dignitosamente la propria infanzia? Le condizioni di vita sono difficili, spesso drammatiche, per la maggioranza della popolazione infantile del mondo, ma il dato che sconcerta si attesta intorno a quei 22.000 bambini che ogni giorno muoiono per cause che si possono combattere e prevenire, facilmente5. Sembra ora retorico e vacuo domandarsi quale idea di bambino la modernità abbia espresso finora. Il viaggio che attraversa le condizioni dei bambini nei diversi Paesi del mondo, mentre rende inconsistente l’uso del termine globalizzazione, risponde efficacemente a chi si domanda quale sia la realtà esistenziale vissuta ancora dal bambino nel terzo millennio, anche se non riesce a delineare i contorni dell’immagine d’infanzia posseduta dall’uomo contemporaneo. Colui che abbia coscienza della differenza tra Paesi economicamente poveri e Paesi economicamente ricchi, avrà coscienza pure della differenza di condizione infantile in termini di educazione e formazione nell’umano?6

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Di questi, 9 su 10 vivono nei Paesi in via di sviluppo. La depressione sembra il disturbo più diffuso. Inoltre, nel Niger il 59% delle adolescenti è sposata o convivente; il 28% in Asia meridionale; 1 su 5 nei Paesi in via di sviluppo (Cina esclusa). La somministrazione di vaccinazioni antipolio, morbillo e tetano preserva la vita a 2,5 milioni di bimbi ogni anno; la fornitura di zanzariere contro la malaria può salvare quel bimbo ogni 30 secondi che muore in Africa a causa di una malattia contro la quale non esiste vaccino; la distribuzione di trattamenti antiparassitosi sarebbe sufficiente a contrastare, in maniera decisiva, l’alta mortalità nella prima infanzia causata dalla dissenteria. Talvolta, appare sullo schermo televisivo, sul monitor del computer o sulle pagine dei giornali l’immagine di un bimbo bisognoso, dallo sguardo penetrante ma non implorante, dignitoso nella sua ricchezza umana pur vivendo, anzi sopravvivendo in totale povertà. Tale immagine è proposta da enti che chiedono aiuto per fornire assistenza a popolazioni affamate, assetate, malate, analfabetizzate: utilizzano la fotografia di un bimbo per promuovere un sentimento di solidarietà, a sfondo quasi esclusivamente economico. Il denaro sembra essere l’unico mezzo con il quale rispondere a quello sguardo infantile. Vi è anche, invero, chi riesce a porre come centrale, nel suo “manifesto pubblicitario”, l’educazione, proponendola come “prima emergenza”, legata alla “coscienza di sé” e “senza la quale nulla ha durata, nemmeno l’aiuto più generoso”. Nell’immagine d’infanzia che possiede l’uomo contemporaneo c’è posto anche per quei bimbi impegnati a imparare a

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Non sono soltanto la fame o le malattie a tormentare le prime età della vita. Gli adulti sfruttano i bambini in tutto il mondo; violano e violentano la loro integrità fisica, psichica, spirituale; nientificano ogni processo formativo già ai suoi albori; diseducano e deformano le risorse e le potenzialità di ciascun soggetto che sta prendendo la sua peculiare forma umana. Povertà, disparità sociali di ceto, di genere, di casta, deprivazione culturale provocano lo sfruttamento di 211 milioni di bambini7, costretti nel mondo a forme di lavoro forzato, nelle piantagioni e nelle industrie, nei lavori familiari, domestici o di strada. Ogni giorno, annota l’Unicef, circa 3.000 bambini diventano nuove vittime del traffico dei minori, sfruttati in attività illecite e talmente lucrative da alimentare un volume d’affari secondo soltanto a quelli di droga e armi. Lo sfruttamento sessuale conta un milione di minori coinvolti ogni anno. Deformati da malnutrizione, abusi e violenze, consumati da orari di lavoro massacranti, discriminati e emarginati, i bambini non hanno alcun mezzo per difendere il diritto alla loro incolumità di esseri umani: subiscono fino a morirne, anche e soprattutto nell’anima. Annientati nella loro precipua umanità, non possono avere coscienza di se stessi poiché nessuna forma di educazione mai li raggiungerà. Milioni di bambini costituiscono un “patrimonio umano” che non assumerà mai la sua migliore forma di umanità, bensì personificherà differenti forme di disumanizzazione, deformazione, disagio, malessere, alienazione, nientificazione. Cinque principi costituiscono la Dichiarazione di Ginevra, del 1924; dieci principi compongono la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, del 1959; cinquantaquattro articoli sviluppano la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, del 19898.Tuttavia, soltanto dall’8 al 10 maggio 2002, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per la prima volta, dedica una riunione ufficiale esclusivamente al tema dell’infanzia, alla presenza di oltre sessanta capi di Stato e di governo. Inizia forse da qui, dai passaggi legislativi o da quell’incontro su scala mondiale, una condivisione culturale, sociale, politica che riconosca uno specifico valore alle prime età della vita in tutto il pianeta?

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leggere in una capanna? E c’è forse posto per quell’altra immagine, accompagnata dalla scritta “Restituiamo ai bambini i loro sogni”, che ritrae un bimbetto di 3/4 anni, seduto su uno sgabello e addormentato con la testa poggiata su palle di pelle che sta cucendo a mano? Oltre 127 milioni di bimbi in Asia e Oceania, 48 milioni nell’Africa subsahariana, ma anche 2 milioni e mezzo nei Paesi industrializzati. La Dichiarazione di Ginevra o Dichiarazione dei diritti del fanciullo venne adottata dalla Quinta Assemblea Generale della Società delle Nazioni, il 24 marzo 1924; la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo fu adottata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 20 novembre 1959; la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia venne approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 20 novembre 1989.

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2. Il diritto al gioco e alla ludicità: caposaldo dell’umanità in formazione La tutela internazionale dei diritti dell’infanzia sembra cominciare soltanto dalla “Convenzione sull’età minima”, adottata dalla Conferenza Internazionale del Lavoro, nel 1919: l’accesso al settore lavorativo industriale è fissato all’età minima di 14 anni. La protezione delle prime età della vita e il riconoscimento di diritti precipui ai bambini prendono avvio, non a caso, dalla massiccia partecipazione minorile al mondo del lavoro nel settore industriale. Emerge come urgenza prioritaria quella di salvaguardare i minori di 14 anni dallo sfruttamento lavorativo effettuato nelle fabbriche; ma è questa davvero la prima forma di disumanizzazione, violenza, deformazione rilevabile nel 1919 a danno dei bambini? Potrà essere efficacemente contrastata, se non eliminata? Ottant’anni più tardi, nel 1999, si stimerà la cifra di 250 milioni di bambini, tra i 5 e i 14 anni, costretti ancora a lavorare, ovunque nel mondo. Non solo le fabbriche, ma anche la Prima Guerra Mondiale hanno evidenziato una situazione insostenibile di coinvolgimento dell’infanzia. Alla nascita dell’Unione Internazionale di Soccorso ai Bambini9 nel 1920 fa seguito la firma della Società delle Nazioni alla prima dichiarazione di diritti infantili. Sono cinque principi atti a riconoscere il dovere degli adulti di fornire al “fanciullo” i mezzi necessari per un “normale sviluppo” in termini di nutrizione, ospitalità, cura, soccorso, recupero e protezione di fronte a qualsiasi forma di sfruttamento. Tuttavia, sarà ancora una guerra mondiale a incentivare ulteriormente l’urgenza di salvaguardare il patrimonio d’umanità in formazione rappresentato dai bambini. La nascita dell’Unicef, nel 1946, sancisce l’Emergency – come riporta il titolo del Fondo Internazionale dell’ONU appena creato – di soccorrere l’infanzia travolta dalla tragedia della guerra. Due anni dopo, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo ricorda anche i bambini, ma si dovrà aspettare la fine degli anni Cinquanta affinché siano sanciti diritti specifici e speciali: uguaglianza assoluta senza alcuna discriminazione razziale, sessuale, religiosa, politica, sociale, economica; protezione; soccorso in caso di negligenza, crudeltà, sfruttamento; sicurezza sociale, anche per chi è in situazione di minorazione; libertà; dignità; crescita sana e normale a livello fisico, morale, spirituale e sociale; educazione, gratuita e obbligatoria almeno a livello elementare. Nel 1959, la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo sottolinea ancora qualcosa: il “bisogno di amore e comprensione” del bambino per lo “sviluppo armonioso della sua personalità”, nonché “il diritto a una educazione” che stimoli lo sviluppo delle facoltà personali, la capacità di giudizio, il senso di responsabilità morale e sociale, “in uno spirito” di amicizia, pace e fratellanza universale. Al principio quarto emerge il diritto a

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È voluta e incentivata dalla Croce Rossa di Ginevra affinché si adottassero misure protettive dei bambini in periodo di guerra. Nella medesima città e quattro anni dopo, nel 1924, viene stilata la prima dichiarazione di diritti dei bambini.

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“svaghi” accanto a quelli basilari relativi ad alimentazione, alloggio e cure mediche; al principio settimo si delinea il dovere di riconoscere al bimbo “tutte le possibilità di dedicarsi a giuochi e attività ricreative […] orientate a fini educativi”. Il diritto del bambino al gioco è sancito insieme a quelli alla libertà, alla dignità, all’uguaglianza: considerato una strategia educativa, il gioco viene universalmente legittimato come diritto, anche se non ancora giuridicamente cogente. Finalmente vincolante per tutti i Paesi firmatari sarà invece la successiva Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, redatta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite soltanto nel 1989.Tutto ciò che altri documenti relativi a diritti civili e politici, sociali, culturali o economici hanno nel frattempo sottoscritto, riconoscendoli anche alle prime età della vita, ora vengono ribaditi, sottolineati, ampliati. Anzitutto, bambino o/e fanciullo è definito “ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni” (art.1). La libertà di espressione si accosta a quella di pensiero, di coscienza e di religione. Sono riconosciuti diritti universali alle minoranze etniche, religiose o linguistiche, come ai “fanciulli mentalmente o fisicamente handicappati”. Il diritto all’educazione in grado di combattere ignoranza e analfabetismo è vincolato all’istituzione scolastica, mentre vengono enumerate le finalità dell’educazione idonea all’infanzia (artt. 28-29). Al fanciullo è riconosciuto “il diritto al riposo e al tempo libero, a dedicarsi al gioco e ad attività ricreative proprie della sua età e a partecipare liberamente alla vita culturale ed artistica”, mentre gli Stati hanno l’obbligo di rispettare, favorire, incoraggiare l’organizzazione di “mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali” (art. 31). Dunque, negli anni Cinquanta viene sancito l’inizio del riconoscimento all’infanzia del diritto a giocare. Ai diritti legati alla libertà, all’uguaglianza, all’espressione o all’educazione si unisce quello connesso con il gioco. Assai significativo e decisivo si rivela questo passaggio poiché mai più potranno essere disconosciuti diritti che appartengono all’uomo per natura. Quasi paradossalmente, la tragedia della Seconda Guerra Mondiale ha aperto, in maniera definitiva, la strada all’adozione di strumenti legislativi che regolano i rapporti sociali, ma soprattutto tutelano lo statuto antropologico di ogni soggetto. L’umanità ha legittimato una conquista, tante conquiste seminate invero nel corso dei secoli, ma mai identificate in maniera così autorevole e ampiamente condivisa. Fra tali conquiste universali si annovera l’attività ludica. Ciononostante, alla stregua degli altri diritti, non si può dire che in tutto il mondo il diritto al gioco da parte del bambino venga rispettato o tutelato. Spazio e tempo per il gioco non esistono per milioni di bambini: milioni di bambini paiono non avere il diritto di formarsi nella loro umanità. Infatti, milioni di bambini non vengono coinvolti da dinamiche educative, capaci di tesorizzare il gioco come patrimonio formativo appartenente all’umanità. Ove sussiste l’impossibilità di giocare, là si registra l’impossibilità di vivere dignitosamente la propria infanzia. Questo accade per gran parte dei bambini al mondo, economicamente sviluppato o meno.

Anna Kaiser


Ove si rispetta la libertà di pensiero, di espressione, di movimento dei bambini, le prime età della vita si contraddistinguono per l’attività di gioco. Ove si gioca, si impara ad attingere alle fonti inesauribili del proprio genius ludi (cfr. Kaiser, 1995) poiché, come afferma Huizinga (1946, p. 35), il gioco è “uno dei più fondamentali elementi spirituali della vita”, nonché, secondo quanto aggiunge Erikson (1966, p. 197),“un tentativo di sincronizzare i processi sociali e fisici alla propria individualità”. Al gioco coappartiene una “funzione creatrice di cultura” (Huizinga, 1946), che ammanta di ludicità autotelica (Kaiser, 1995) i comportamenti dell’uomo fintanto siano accompagnati da genuinità, autenticità, spontaneità, serietà. Propri di ogni essere umano, il modo di vivere ludicamente nella quotidianità e la modalità ludica di rapportarsi con se stessi, l’altro, il mondo circostante si imparano a conoscere, organizzare e sviluppare attraverso il gioco, nelle prime età della vita. In grado di permeare l’esperienza di vita di ogni essere umano, l’atteggiamento ludico si fa semantica personale e sociale nel momento in cui si riconosce, insieme a Moltmann (1971), che all’uomo è possibile “giocare solo nell’amore”. Già onnipresente nel gioco, la potenza formativa del genius ludi giunge a pervadere ogni linguaggio umano, a sostenere e incentivare la relazione con l’altro, mentre convoca autenticità, creatività, originalità. È un diritto per ogni uomo che nasce, e non una possibilità, attingere al proprio genius ludi. Se questo non riesce a trovare le vie attraverso cui esprimersi, farsi conoscere e apprezzare, facilmente la natura del soggetto non riuscirà ad emergere per formarsi nella sua unicità, e altrettanto facilmente verrà omologata, alienata, deformata. Il genius ludi rappresenta una risorsa soggettiva di libertà per il soggetto spesso soffocato dalle dinamiche esistenziali proprie della società contemporanea, e non legate a un’economia di sussistenza. Ove persista quest’ultima, in molti Paesi del mondo, i bambini sono costretti, appena possibile, a procacciare il sostentamento per sé e i propri familiari: non ci sono né spazio né tempo per giocare e il desiderio ludico, inesorabilmente, si assopisce e lentamente va a morire. 3. Infanzia e gioco: una precoce deludificazione? Nei Paesi in cui i bambini vengono sfruttati, emarginati, violentati, militarizzati, il processo di deludificazione del loro essere umano è assai precoce. A questi bimbi mancano il cibo, l’acqua, le medicine e pure l’affetto: si rivela insita in tali situazioni l’impossibilità, da parte di qualsiasi soggetto, di mettersi in ascolto del proprio genius ludi, ovvero di assumere un atteggiamento gioioso nei confronti di sé, dell’altro, del mondo. Al contrario, quando si parla di bambini nei Paesi economicamente avanzati, uno dei primi riferimenti che corre nella mente degli adulti è quello concernente l’attività di gioco. I negozi di giocattoli sono tra i più frequentati; le stanze dei bambini sono colme di oggetti variegati che dovrebbero invitare a giocare chi ci vive; le trasmissioni televisive per bambini vengono inframmezzate da messaggi pubblicitari dedicati a nuovi giochi in arrivo sul mercato.

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Aprono le ludoteche e s’inventano i mercati del gioco usato, ma contemporaneamente si costruiscono parchi e città che snodano le proprie strade tra giostre, labirinti, montagne russe, spettacoli, giochi virtuali e d’azzardo.Tutto sembra perciò svilupparsi intorno a temi di gioco, e in maniera sempre più rutilante: le offerte, nei diversi ambiti, si moltiplicano. Il mercato gioca con il gioco e chiama ad investire aziende e consumatori. Questi ultimi non sono però bambini: gli adulti acquistano giocattoli, gli adulti decidono la vacanza nelle città dei divertimenti, gli adulti offrono al bambino un nuovo gioco in qualsiasi occasione. Se si analizzano alcuni aspetti, tra i quali il ruolo prioritario degli adulti, emerge qualcosa di paradossale, anche nei Paesi dove il gioco infantile sembra essere rispettato e tutelato, nonché incentivato. Molto di frequente gli adulti sentono l’esigenza di fornire materiale strutturato per il gioco; chiedono al negoziante cosa poter regalare al bambino fornendo età e sesso come unici dati di riferimento; inducono i figli a redigere una lista dei giochi desiderati; non considerano tempo educativo quello trascorso con i bambini giocando; ritengono tempo perso i momenti di gioco che il bambino scolarizzato continua a cercare; eliminano, appena possibile, tutti i giochi delle età precedenti; non tentano di riutilizzare i giochi disusati; acquistano spesso giochi nuovi, appena arrivati sul mercato e molto pubblicizzati; non ritengono che una scatola vuota di cartone possa costituire un oggetto di gioco; difficilmente lasciano giocare con l’acqua, la terra, il fango; raramente chiedono ambienti idonei a giochi all’aperto nelle aree urbane; suggeriscono come giocare; spesso impongono le regole dei giochi e il loro pedissequo rispetto; sono pronti a consigliare o correggere la scelta dei colori per il disegno appena tracciato dal bimbo. Ebbene, tutto ciò si pone agli antipodi delle qualità insite nel gioco e atte a formare il soggetto nella sua umanità10. L’adulto è “più forte” del bimbo: “lo padroneggia”, e pure “senza comprenderlo” (Montessori, 1938, p. 9). Dunque,“il bambino non può espandersi come deve avvenire in un essere in via di sviluppo” (Montessori, p. 11). Spesso, troppo spesso – sottolinea Maria Montessori (pp. 20-21) – il bambino è ritenuto “soltanto un corpo pronto a funzionare”, invece che “un embrione spirituale”, “distinto da tutte le creature per la grandiosità della sua vita psichica” che elabora “una creazione […] imprevedibile […] delicata, difficile e occulta”. La Montessori indica un “segreto” presente e impenetrabile “nell’anima del bambino” che solo lui medesimo rivelerà gradualmente, mentre “costruisce se stesso” (ibid., p. 21). La costruzione di se stesso, da parte di qualsiasi uomo in formazione nelle prime età della vita, avviene anche e soprattutto attraverso il gioco. All’adulto “è ignoto l’errore” che porta in se stesso perché, pur affaticandosi non poco nella cura e nell’educazione dei bimbi, “si trova impigliato in un labirinto di problemi, in una specie di bosco aperto e pure senza uscita” (ibid.,

10 Come insegna ancora oggi esemplarmente la lezione di Fröbel, che tra i primi ha valorizzato il gioco come forma di umanità dell’infanzia.

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p. 12). Montessori chiede allora legittimamente all’adulto di modificare atteggiamenti e comportamenti improntati al “noto”, al “volontario” e al “conscio”, che impediscono di “vedere il bambino” (ibid., p. 14), portatore di un “ignoto” spesso “insuperabile”. Il bimbo – ribadisce ancora la pedagogista italiana – non è un “essere vuoto, […] inerte e incapace, […] senza guida interiore” (ibid., p. 15) che ha bisogno dell’adulto quale modello e guida infallibile: ogni bambino è un “costruttore volontario […], il creatore di un nuovo essere” (ibid., p. 45) poiché “porta in sé la chiave del suo proprio enigma individuale” (ibid., p. 46). Sovente è però costretto “a lungo a elaborare nel segreto le sue difficili realizzazioni” (ibid., p. 47), che l’adulto ha il potere di nientificare, giungendo a deformare chi non possiede la forza di difendersi da numerose, continue e prepotenti ingerenze. Una delle vie utilizzate dagli adulti, spesso inconsapevolmente, per imporre la propria visione del mondo al bimbo con il quale interagiscono è l’attività di gioco. Spazio naturale per qualsiasi bambino, il gioco permette alla vitalità interiore di ciascuno di trovare espressione e manifestazione, mentre contribuisce a dare una più completa forma umana al soggetto. Dal giocare il bimbo trae una soddisfazione formativa che gli fa comunicare entusiasmo e gioia, nonché desiderio di tornare a ripetere il medesimo gioco, anche più volte. L’essere “sequestrato” – seguendo l’efficace aggettivo usato dalla Montessori – da scelte adultistiche viene liberato dal gioco spontaneo e creativo. L’intervento dell’adulto non rispettoso del bambino annulla tale portata spontanea e creativa, deludificando gradualmente l’essere che tenta invece di giocare secondo le proprie esigenze, la scelta occasionale delle norme, una fantasia imprevedibile. L’unico attributo proprio dell’attività ludica, identificato dagli studiosi nel corso dei secoli e che accomuna le differenti teorie sul gioco, sembra essere quello della libertà (Kaiser, 1996). Ove l’adulto intervenga in modo direttivo e senza adeguata attenzione alle diverse età, immancabilmente viene a mancare il gioco o, meglio, il libero atteggiamento ludico insito nell’attività giocosa. Con ciò si vuole sostenere non che l’adulto non possa partecipare al gioco infantile, ma che il gioco debba essere sostanzialmente scelto, gestito, coordinato, regolato, terminato liberamente dai bambini. In caso contrario, i bimbi giocano, ma non sono liberi nella loro formazione. La deludificazione del loro essere ha inizio già da qui: una mancanza di libertà che si riflette nel vissuto esistenziale, proprio della partecipazione a qualsiasi attività di gioco. La libertà conduce infatti con sé altri attributi potenzialmente richiamati dai differenti giochi: autotelicità e gratuità, improduttività, variabilità e imprevedibilità, imponderabilità e provvisorietà, irripetibilità, fantasia, spontaneità e genuinità, creatività ed invenzione, simulazione e improvvisazione, impegno, eccitazione e tensione, nonché anomia e/o nomoteticità, turbolenza e/o pazienza, certezza e/o incertezza. Ebbene, l’intervento manipolativo sulle dinamiche del gioco, da parte di chiunque, interferisce nell’espressione pura di queste qualità ludiche, deprivandola di energia vitale. Nel gioco si è se stessi: con desideri e paure, capacità di gioire e soffrire, l’essere seri e faceti, veloci e lenti, meditabondi o spensierati. Quando l’uomo gioca – sottolinea, ad

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esempio, Erikson (1966, p. 198) – si pone “in un rapporto […] disinvolto e leggero con le leggi fisiche e sociali”.Vive una realtà, la realtà giocosa, che si estranea dalle prassi della quotidianità: è una realtà che fornisce ossigeno denso d’autenticità umana all’essenza antropologica di ciascun soggetto, spesso alienata, privata di espressività e dignità, se non annichilita dagli dèi della modernità, denaro e potere (Gennari, 2001). Vi sono numerosi ambiti di gioco che inducono i bambini a una deludificazione precoce. Sembra che quest’ultima sia inevitabile anche per chi vive nei Paesi industrializzati poiché emerge prepotente l’esigenza di scegliere comportamenti volti al successo, alla gratificazione, a ciò che vuole l’adulto, senza che essi appartengano originariamente all’identità personale. Il continuo mascheramento in ruoli e funzioni induce a dimenticare l’essenza del proprio essere, a trascurarla o a non considerarla più fonte delle scelte esistenziali. In quella fonte veglia anche il genius ludi, sospinto nell’oblio dalla conformazione a quanto richiede la società, già nelle prime età della vita. Le stesse dinamiche di estraneazione dal proprio fondamento (Gennari, p. 713 ss.), dalla propria essenza umana, sono riscontrabili nel momento in cui la superstizione s’impadronisce dello sguardo nei confronti del mondo: l’abdicazione alla propria volontà in favore della sorte e delle sue sentenze aliena il soggetto da se stesso. Non si riesce più a giocare con la casualità o nella casualità, poiché subentra un atteggiamento “tragico” che lega inesorabilmente la propria vita ai voleri del destino. Il gioco d’azzardo rappresenta una forma rischiosa di deludificazione dell’uomo, che compulsivamente elegge a proprio sovrano la sorte, ora combattendola ora assecondandola, ma pur sempre vivendo in essa e per essa. Inoltre, il gioco d’azzardo non potrà mai essere vissuto con ludicità poiché il risultato non è improduttivo né lo svolgimento è spontaneo, variabile o anomico. Talvolta, pure il videogioco provoca compulsività: il giocatore non riesce a smettere di investire energie in un ripetersi di fasi e azioni preordinate, incapace di gestire l’ansia stimolata dalle dinamiche del gioco elettronico che sembra non aver mai fine. Il gioco vissuto ludicamente può essere terminato in qualsiasi momento: il bambino ne ha piena consapevolezza e padroneggia le situazioni che lui medesimo crea di momento in momento. Non sempre, invero, il bimbo riesce nel tentativo di controllare lo sviluppo dell’attività di gioco sotto il rispetto del vissuto. Uno dei fattori maggiormente deludificanti è provocato dall’antagonismo. In competizione con le richieste familiari, amicali, scolastiche o sociali, in lotta con la sorte o con la macchina elettronica, il bimbo non ha coscienza di essere in competizione anzitutto con se stesso. Quando non riesce a vincere, ciò che viene a mancare è proprio lo spirito del gioco, l’atteggiamento ludico che sdrammatizza e spinge a riprovare o a demordere sorridendo. L’eccesso di serietà depaupera il genius ludi di vitalità espressiva, così come la spinta al conseguimento della vittoria. Lo sport raffigura un esempio di deludificazione precoce per i bimbi che partecipano alle competizioni, dopo estenuanti allenamenti, l’osservazione di rigidi regolamenti e con l’unico obbiettivo di vincere la gara. Il passaggio, ancora da bimbi, all’attività agonistica svuota di ludicità il confronto con l’avversario, considerato soltanto come nemico da sconfiggere.

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I bambini sono vittime inconsapevoli di processi di deludificazione precoce, spesso gestiti e imposti dagli adulti. Tali processi investono la loro giovane esistenza provocando danni anche irreversibili allo sforzo di formarsi nell’umano. L’apatia ludica genera poi una deformante indifferenza nei confronti del mondo vitale, esistenziale, spirituale. 4. Il genius ludi del bambino tra apatia ludica e ludopatie Quante volte si sentono bambini chiedere ai genitori ancora un poco di tempo per poter continuare o finire un gioco che li sta appassionando? In quante occasioni i bimbi vorrebbero coinvolgere nei loro giochi i genitori indifferenti? Quanto tempo quotidiano è previsto per il gioco? Gli interrogativi potrebbero susseguirsi e le risposte risulterebbero spesso inquietanti, soprattutto per quanto riguarda i bimbi che, frequentando la scuola, non sono più ritenuti interessati a giocare. Invero, mentre parte della psicologia tenta invano di codificare e schematizzare i comportamenti suddividendoli rigidamente per fasce d’età, il gioco mostra come non esistano codici interpretativi validi per identificare l’attività idonea per i bambini di un’età piuttosto che di un’altra. Non ci sono regole che valgano per tutti i bambini né preferenze legate al genere, se non quelle limitanti proprie della cultura d’appartenenza. Sovente, l’adulto dimentica il piacere ludico, il prezioso tempo dedicato al gioco nelle prime età, il dispiacere connesso con l’interruzione di una strategia ludica o la malinconia dei tempi successivi ormai deprivati del gioco. Eppure, il viaggio nella propria infanzia va riconosciuto non come prerogativa della scienza psicanalitica o di quella psicologica, ma quale momento costitutivo dell’identità di ciascuno, nel rispetto di quella altrui. La richiesta pedagogica di rammemorazione spinge l’adulto a disvelare la formazione originaria del suo essere. L’anamnesi di ciò che è stato rafforza il ben-essere individuale o permette di recuperarlo qualora una situazione di dis-agio, di mal-essere, di de-formazione sia intervenuta lungo il percorso esistenziale (Sola, 2008). Ripensare ai momenti ludici della propria esistenza riporta in emersione la vivezza del genius ludi che attende, da tempo, di essere risvegliato e che spinge a riconoscere, nella sua dignità formativa, e rispettare, nella sua espressività naturale, il genius ludi dei bambini11. La cifra ontologica del genius ludi si manifesta nel momento in cui il soggetto – di qualsiasi età – partecipa al gioco in maniera spontanea, libera, autentica. L’essere umano può vivere la ludicità in qualsiasi contesto spaziale o temporale in cui non sia lesa la dignità dell’essenza umana. Tuttavia, spesso, la persona smarrisce, e pure in età precoce, la capacità, nonché la consapevolezza del ri-

11 Non sarebbero allora necessari, ad esempio, i corsi atti a tratteggiare il gelotologo, ossia ad aiutare il personale medico e paramedico ad assumere atteggiamenti ludici nel rapporto con i piccoli pazienti pediatrici.

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spetto della propria essenza ontologica, di cui il genius ludi è parte non epifenomenica. Il rilievo assegnato dall’adulto all’attività ludica viene percepito immediatamente dal bimbo. Se quest’ultimo è spinto ad estraniarsi precocemente dalle dinamiche del gioco, subirà un’alterazione permanente, seppur lenta, del suo essere in formazione. Il medesimo effetto si otterrà nel momento in cui il giovane soggetto non viene educato a temperare lo spirito ludico con il fittizio, a moderare la rigidità delle regole con il cambiamento di qualsiasi statico regolamento, a non porre finalità esterne al gioco stesso. Invero, nel mondo contemporaneo si registra ormai sovente un brusco passaggio tra far giocare sempre e non far giocare mai i bambini. Fino al compimento dei sei anni d’età, è socialmente legittimo che il bimbo giochi; successivamente, con l’ingresso nella scuola dell’obbligo, sembra perdersi questa legittimità, per sostituirsi spesso a un divieto. Pare che l’alfabetizzazione introduca i bambini nel mondo degli adulti, con la crescita esponenziale dell’ansia da prestazione. La giornata dei bimbi viene sempre più programmata nei dettagli con la scansione settimanale di obblighi scolastici, attività sportive, pratiche religiose, feste amicali. Lo spirito ludico, in un arco di tempo molto breve, va a morire; nel contempo, si rafforzano l’anelito agonistico, la ripetizione ossessiva di videogiochi, la noia nel tempo libero, la carenza di risposta a occasioni di crescita culturale. Mentre fino ai cinque-sei anni d’età la varietà dei giochi rimane notevole, le scelte dei bambini delle età successive pare si polarizzino, sempre più frequentemente, intorno ai giochi che usano il video. Spesso compulsivamente, i ragazzini amano “confrontarsi” con la potenza delle macchine elettroniche: ogni sconfitta va subito rimediata e “vendicata”; ogni vittoria conseguita va migliorata; in un crescendo di partite che si susseguono all’infinito. Si apre così la strada, economicamente accessibile a tutti, del gioco d’azzardo che sta registrando uno sviluppo esponenziale e indica, contemporaneamente, l’incapacità di vivere il proprio tempo12. Uno dei grimaldelli più efficaci che può far saltare la serratura a doppia mandata delle ludopatie corrisponde a una chiave che l’uomo possiede per natura, ma trascura per cultura. Essa è composta da una varietà infinita di metalli, non risulta acquistabile in un negozio né da un’altra persona, si ammanta del colore che ciascuno sceglie a seconda dei gusti o del momento ludico. La fantasia – insieme alla creatività, all’invenzione e all’immaginazione – necessita però di essere fonte di stimoli continui per diventare chiave interpretativa del proprio essere esistenziale. Se l’educazione non fornisce spazio e tempo, nutrimento e dignità all’uso quotidiano della fantasia, il soggetto cadrà più facilmente vittima delle “malattie da gioco”, che chiedono dipendenza da un meccanismo vorticoso ma ripetitivo. Il ricorso alla fantasia, come prassi quotidiana per il bimbo, passa anche attraverso l’assenza dell’offerta continua di materiale strutturato o giocattoli industriali. L’incentivazione

12 In Italia, l’anno 2011 ha già registrato un +23,8% del denaro speso da adulti nel gioco d’azzardo rispetto all’anno precedente.

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della lettura, dei giochi con la lingua, nonché dell’espressione ludica di forme artistiche (Ghezzi, 2010) o dell’approccio giocoso a scienza e tecnologia contrasta il predominio del preordinato, predefinito, prestrutturato e regolamentato, che minano alla radice le potenzialità creative e inventive poiché il bimbo è ricco per natura di immaginazione e fantasia, ma ne viene depauperato gradualmente da quanto gli è imposto fin dalle prime età. Con l’avanzare della crescita, come si ricorre sempre meno al genius ludi, così si ricorre sempre meno alla fantasia: la formazione nell’umano ne soffre poiché tanto il genius ludi quanto la fantasia sono fonti di arricchimento proprie della natura umana. Invenzione, creatività o immaginazione vengono a mancare anche quando si abitua il bambino a seguire regole rigide, inflessibili, statiche. L’attività sportiva, sovente frequentata dai bambini in età scolare, viene vissuta secondo la natura dello sport stesso, ovvero come un gioco, con passione e ludicità. Nello sport il soggetto impara a mettere alla prova se stesso, gioca a migliorare le sue capacità e ad acquisire nuove abilità. Riconosce le sue potenzialità nel confronto con i compagni, come il valore della resistenza, della velocità, della forza fisica e anche di quella emotiva.Tuttavia, tali percorsi formativi scemano quando nello sport diventa esclusiva l’osservazione di regole e regolamenti, si persegue un potenziamento muscolare attraverso allenamenti noiosi e ripetitivi, e quindi s’insedia l’anelito a primeggiare come prioritario obiettivo. Aspetti tecnici e meccanici emergono come i più importanti pure nello sport. Questo accade già nei giochi al video. Il bambino cresce imparando a considerare la tecnica quale primaria fonte di esperienza: la meccanicità sostituisce la naturalità. E ne soffrono tutte le qualità connesse con il genius ludi, dall’elaborazione delle emozioni all’attenzione, dal controllo cognitivo al processo decisionale, dalla capacità di osservazione alla comprensione delle differenze. Fondamentale risulta allora non far smarrire ai bimbi il piacere del conoscere, ma soprattutto dello sperimentare i mondi della natura, giocando in essi e con essi. Vivere l’ambiente, che sia marino o montano, boschivo o agreste, stimola la formazione del soggetto in crescita, certo legato alla tecnica, ma pure curioso e capace di appassionarsi ludicamente alla vita degli animali, alle attrazioni dei terremoti o dei vulcani come dei cicli alimentari o dei siti storico-archeologici. Stimolare la curiosità innata dell’essere umano racchiude un percorso ludico che aiuta il giovane soggetto a imparare ad organizzare la realtà in senso temporale, spaziale o causale senza appropriarsi di quella fenomenicità oggettiva che la scienza sembra sempre riuscire a cogliere negli eventi naturali, presentandola poi nei manuali scolastici. Inizia così un percorso di responsabilizzazione nei confronti del mondo circostante, che aiuta anche il confronto interpersonale e l’autostima. Il gioco pare il migliore stimolo formativo poiché non porta con sé né passaggi traumatici né stati ansiogeni13.

13 Le ludoterapie utilizzano proprio momenti e strumenti di gioco, nonché strategie ludiche non solo per diagnosticare uno stato patogeno, ma soprattutto per superare traumi, crisi e deformazioni che riguardano il soggetto in crescita.

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Ai giochi all’aperto o in ambienti chiusi i bimbi si appassionano facilmente, poiché rappresentano un tempo e uno spazio di vita che li rispetta nella loro identità in formazione. L’apatia ludica o la ludopatia subentrano nel momento in cui il soggetto non riesce a vivere con libertà e in libertà poiché è costretto a rinunciare a se stesso. La rinuncia ad attingere al proprio fondamento spirituale, interiore, esistenziale comporta anche il diniego della fonte creativa, gioiosa e autentica rappresentata dal genius ludi. La compulsività nel gioco o il rifiuto di giocare sono risultati della medesima esigenza elaborata socialmente, e fors’anche culturalmente: abdicare da sé quando si entra nel mondo degli adulti, poiché le mete importanti non appartengono al singolo. La sete di denaro e di dominio subentra alla fame di conoscenza, di essere se stessi, di confrontarsi in autenticità con l’altro da sé. Questo appetito rimane tipico delle prime età della vita, così come l’infanzia indica attraverso i suoi infiniti e misteriosi giochi in cui conoscenza e coscienza s’intrecciano formando il soggetto nella sua umanità.

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“La città dei bambini e dei ragazzi”, in Genova di Anna Kaiser

Abstract

Nell’area genovese del Porto Antico, è situata, dal 1997, una struttura denominata “La città dei bambini e dei ragazzi”. Aperta tutto l’anno e tutto il giorno, accoglie i bambini dai 2 ai 14 anni, offrendo loro diversificate possibilità di giocare con la scienza e la tecnologia. Oltre 90 exhibit accompagnano la visita alla città, organizzata per isole tematiche e per fasce d’età. Inoltre, animazioni, laboratori, approfondimenti tematici sono previsti tanto per gruppi di singoli bimbi, comunque accompagnati da un adulto, quanto per le scolaresche. Lo sviluppo di esperienze ludiche si intreccia alla conoscenza scientifica e tecnologica della realtà circostante. Parole-chiave: gioco, scienza, tecnologia, formazione, conoscenza “La città dei bambini e dei ragazzi”(The town of children and young) is a structure located in the Genoa’s Old Harbour area since 1997. It’s open every day of the year and all day long; it welcomes children from 2 to 14 years old, offering them various opportunities to play with science and technology. Over 90 exhibits are shown all along the way of the “town”, organized in thematic islands and age groups. In addition, animations, labs, thematic studies are available both for individual children accompanied by an adult and for schoolchildren.The development of game-playing is interwoven with scientific and technological knowledge of the surrounding reality. Key words: game, science, technology, formation, knowledge

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 1722-8395 (in press) / ISSN 2035-844X (on line) Studium Educationis • anno XIII - n. 2 - giugno 2012


1. Una storia quindicinnale di gioco tra scienza e tecnologia Da quando ha recuperato l’area del Porto Antico, Genova ha permesso ai cittadini di riappropriarsi di una parte della loro storia. Così, quell’ampia superficie a contatto con il mare e dove, per secoli e secoli, le navi cariche di marinai approdavano con le loro merci per raggiungere ogni zona del nord, si è lasciato colonizzare da quanto la città stessa ha scelto. Centro turistico, culturale e di servizi, il Porto Antico ha terminato il restauro nel 19921. Da quell’anno, nelle differenti aree e strutture anche storiche, numerosi progetti sono stati realizzati2. Proteso verso Sud e circondato, per tre lati, dall’acqua salata del porto, anche l’edificio dei Magazzini del Cotone aspettava inerme che la vita ritornasse nei suoi spaziosi interni. Ebbene, nel primo modulo di tali Magazzini la vita è tornata attraverso la gioia dei suoi giovani frequentatori. Al secondo piano, ha trovato collocazione la “Biblioteca Internazionale dei ragazzi Edmondo De Amicis”, mentre al piano sottostante ha organizzato i suoi confortevoli ambienti una struttura inedita, la più grande d’Italia.Voluta dal “Porto Antico SpA”, in collaborazione con “La Cité des Enfants” di Parigi3, l’8 dicembre 1997 ha aperto quella che tutti chiamano “La città dei bambini”. Tuttavia, la denominazione precisa si allunga nel complemento di specificazione “e dei ragazzi”, mentre la sottodenominazione indica il triangolo intorno a cui si strutturano le attività proposte: “Gioco, Scienza, Tecnologia”. Tremila metri quadrati sono pronti ad accogliere famiglie e scolaresche, singoli bimbi e gruppi. Una suddivisione spaziale interna vede un’area dedicata ai piccoli dai 2 ai 3 anni d’età4; un’altra, decisamente più grande, per i bambini tra i 3 e i 5 anni; l’ultima e più ampia, per i ragazzini tra i 6 e i 12 anni. Gli adulti non rimangono fuori, ma accompagnano nella visita i giovani fruitori che sono lasciati liberi di muoversi lungo i percorsi che preferiscono. Dall’anno 2003, la gestione è in mano all’azienda “Costa Edutainment”, in collaborazione con il “Consorzio Agorà”5 che ha gestito “La città dei bambini” dal 1997 al 2002. “Costa Edutainment”, invece, è una azienda

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Il 1992 è l’anno in cui il capoluogo ligure ha ricordato e festeggiato i cinquecento anni della scoperta dell’America da parte del genovese Cristoforo Colombo. Le strutture, tuttora molto frequentate, nell’area genovese del Porto Antico sono il colossale “Acquario di Genova”, come il magnifico “Galata-Museo del Mare” con l’appendice museale del sommergibile “Nazario Sauro (S 518)”; la “Piazza delle Feste” (adibita a pista di pattinaggio su ghiaccio e area espositiva estiva) e il “Museo Internazionale Luzzati”; l’ascensore panoramico “Bigo” e la “Biosfera”. Quella parigina è la prima struttura aperta in Europa per i soli bambini, nel parco tecnologico de “La Villette. Cité des Science et de l’Industrie”. Invero, questo spazio è stato progettato soltanto in un secondo tempo. Il “Consorzio Agorà” è un’impresa sociale, presente nel centro di Genova dal 1995 e composta attualmente da una dozzina di cooperative che lavorano nei differenti ambiti di “servizi alla persona”, promuovendo attività di accoglienza, solidarietà ed integrazione all’interno delle comunità locali.

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leader in Italia proprio nel settore dell’edutainment, ovvero nell’organizzare attività, economicamente produttive, nelle quali vengono fatti convergere e l’entertainment e l’educational. La filosofia della struttura si inscrive in una frase concisa: imparare giocando. L’entertainment, il divertimento, si coniuga con l’educational, quanto educativamente contribuisce alla formazione del giovane soggetto. Ovvero, il gioco si offre quale strategia educativa, diventando contemporaneamente mediatore di conoscenza scientifica. Sono attualmente oltre 90 gli exhibit multimediali che chiamano all’esplorazione, alla scoperta, all’esperire, nel senso di mettere alla prova le proprie abilità e conoscenze con la tecnologia e dentro la scienza. Gli exhibit sono le postazioni interattive, con le quali il bambino entra immediatamente in contatto, esperendo senza bisogno di guide e senza l’ansia di essere valutato per eventuali errori, ma con il gusto di giocare provando. Sei animatori, strutturati in ruolo, osservano turni di presenza e partecipano a corsi di formazione6. Attualmente il personale è composto da laureati, di cui due in Scienze pedagogiche, due in Scienze ambientali, uno in Scienze forestali, uno in Scienze chimiche. Ad essi si affiancano, da marzo a giugno7, altri animatori, a seconda delle esigenze registrate nei mesi più frequentati dalle scolaresche. Studenti e laureati, di età solitamente compresa tra i 23 e i 35 anni, sono selezionati primariamente dal Consorzio Agorà e scelti da facoltà umanistiche per lavorare con i bimbi più piccoli e da facoltà scientifiche per interagire con i bambini più grandi8. 2. La struttura: un’organizzazione per età ed aree tematiche Con il passare degli anni, e quindi di decine di migliaia di visitatori e di attività didattico-scientifiche, “La città dei bambini” ha registrato l’esigenza di accogliere anche i bimbi di età tra i 2 e i 3 anni. Così, dall’ottobre 2006 uno spazio, vicino alle grandi vetrate che si affacciano sulle acque del porto, delinea la prima esperienza italiana di edutainment rivolta a bimbi così piccoli9.

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Tali corsi, della durata di una settimana, sono organizzati anche ogni 4 anni. È considerata bassa stagione quella che copre i mesi da settembre a febbraio, mentre la alta va da marzo ad agosto, con tariffe d’ingresso diversificate e la presenza o meno di turni orari. Affrontato poi un colloquio con la responsabile didattica de “La città dei bambini”, attenta anzitutto a cogliere negli interessati la predisposizione naturale ad incontrare i bimbi, i candidati ai posti di animatore pro tempore seguono un corso gratuito di 5/6 incontri, organizzato tra settembre e ottobre ogni due anni, per conoscere la struttura organizzativa, gli ambienti e i materiali, nonché provare a simulare un approccio pedagogico-scientifico a un exhibit a scelta.Vengono quindi coinvolti nelle attività laboratoriali destinate a tutte e tre le fasce d’età previste. La loro partecipazione da passiva diventa, in breve tempo, attiva, mentre evidenziano anche preferenze personali per le aree tematiche o le fasce d’età di destinazione delle attività stesse, nonché facoltà ludico-pedagogiche diversificate. Dopo aver studiato l’approccio ai giochi dei bambini di 3-5 anni da parte dei frequentanti di due asili nido, dislocati nelle vicinanze, gli studiosi – appartenenti all’Assessorato ai Ser-

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Diverse professionalità hanno dato vita al “Piccolo bosco in città”: un percorso da compiere a piedi scalzi, senza perdere di vista i genitori, ma anche senza una mano che li accompagni. Si susseguono, in ordine sparso, una tana in cui nascondersi, una grotta dal morbido pavimento e da cui si può spuntare fuori con la testa, un ruscello da attraversare in equilibrio sui sassi, il prato, gli alberi, le rocce, una casetta costruita con tronchi d’albero in cui scoprire oggetti nascosti. Le scelta di materiali idonei e di linee tondeggianti rendono sicura e piacevole l’esperienza di un mondo da scoprire, poiché estraneo al giovanissimo abitante di città. Inoltre, il percorso curvilineo è punteggiato da passaggi dentro/fuori e sopra/sotto che rafforzano il coinvolgimento emotivo e sensoriale, quindi psicomotorio, dei bimbi che giocano pure specchiandosi o cercando un nido nascosto sull’albero. Rilevante è la scelta di non permettere l’accesso all’area ai bimbi più grandi dei 3 anni, regola in vigore anche nelle altre zone; invero, i bimbi di 3-5 anni possono frequentare anche l’àmbito per i 6-12 anni, mentre il contrario non è appunto lecito. Le due tradizionali aree de “La città dei bambini”, per i 3-5 anni e per i 6-14 anni, sono organizzate per isole tematiche; ovvero, un tema specifico viene affrontato organicamente lungo percorsi di gioco delimitati, seppur non obbligati10. L’area dedicata ai bimbi d’età compresa tra i 3 e i 5 anni è organizzata intorno a “Il cantiere” e a “Mani in acqua”, gli spazi forse più frequentati a lungo, nonché a “Touch screen” e a “Le scoperte”. “Il cantiere” attira l’interesse e la partecipazione dei bimbi che facilmente interagiscono tra loro, attribuendosi ora un ruolo ora un altro, e cooperando tutti allo stesso obiettivo: costruire una casa. I carrelli su rotaia e le carriole facilitano il trasporto dei mattoni di gommapiuma dai silos al cantiere, mentre secchi e gru aiutano a dislocarli nei punti idonei. Equipaggiati di caschetto, i piccoli operai lavorano alacremente, contendendosi spesso ruoli e materiale. Le medesime dinamiche d’interazione si riscontrano al bacino delle “Mani in acqua”, dove i bimbi – impermeabilizzati da un adeguato abbigliamento – possono liberamente giocare con l’acqua, la sua velocità e i suoi dinamici cambiamenti quantitativi. Rubinetti e mulini, dighe, pompe manuali e contenitori a capienza diversificata, nonché barchette colorate aiutano i bambini a non smettere di giocare con l’acqua e il suo flusso continuo. I “Touch screen” chiedono ai fruitori di usare le mani persino per disegnare e colorare, mentre specchi convessi e concavi, una “macchina del vento”, telecamere fisse, oggetti ed essenze da riconoscere con l’uso del solo tatto o dell’odorato costituiscono l’isola tematica denominata “Le scoperte”.

vizi Educativi del comune genovese e alla Facoltà universitaria di Architettura (Disegno industriale) – hanno progettato insieme lo spazio dedicato ai bimbetti di 2 anni. 10 Alcuni giochi sono definibili permanenti poiché sono presenti nella struttura da anni; altri sono di recente acquisizione e realizzazione. Ciò è esemplificativo di quanto “La città dei bambini” non voglia rimanere sempre uguale a se stessa: si propone di seguire le esigenze espresse dai bambini facendole incontrare con la necessità di restyling, di miglioramento delle aree, nonché di promozione di innovative esperienze scientifiche e tecnologiche.

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L’area 3-5 anni è quindi caratterizzata da giochi coinvolgenti, resi sicuri dalla scelta di materiali idonei. I giochi con i computer interattivi, che mettono alla prova le capacità dei singoli, o quelli con la propria immagine si alternano alle attività sperimentali con l’aria e l’acqua, elementi che affascinano la curiosità e il bisogno di scoperta dei piccoli visitatori. Il tempo scandito per la visita a turni sovente non risulta sufficiente ad appagare il bisogno di giocare scoprendo o scoprire giocando che i bimbi manifestano già all’età di 3 anni. Lo spazio 6-12 anni è quello più ampio di tutta la struttura ed è l’unico a cui può accedere il visitatore di qualsiasi età. Ad esempio, l’isola tematica “Il vivente” attira l’interesse conoscitivo anche dei bimbi più piccoli, poiché son presenti tanto un gigantesco formicaio quanto uno stagno con testuggini. La vita delle formiche rosse Rufa, abitanti del bosco, può essere osservata nell’appropriata ricostruzione superficiale e sotterranea di un nido, del ristorante, del cimitero. Un tunnel si snoda lungo il formicaio e particolari luci rosse, che non disturbano gli insetti, permettono ai bimbi di osservare anche le 38 formiche regina e le loro metamorfosi, nonché l’organizzazione dell’intera colonia. Due distinte vasche ospitano poi cinque esemplari tra testuggini palustri di Albenga e americane dalle orecchie rosse di circa 15 cm di lunghezza11. Anche qui l’habitat naturale è ricostruito, fino all’incubatrice sotterranea. Si scoprono così forme e abitudini di vita in maniera diversificata a seconda dell’età dei visitatori, giungendo all’uso del microscopio binoculare e di quello elettronico. “Lo studio tv” è invece una grande isola tematica che appassiona i bimbi in un gioco di squadra coinvolgente. La costruzione di un telegiornale è lasciata interamente alle capacità organizzative e critiche dei bambini che hanno a disposizione un banco regia, dotato di quattro monitor e atto a passare da una telecamera all’altra, a inserire immagini, a comunicare con le diverse postazioni, a cambiare sfondi virtuali, a immettere le sigle adatte ai servizi meteo o sportivi, a far scorrere la striscia dei titoli. Giornalisti e cameraman sono in contatto audio con la regia, mentre possono controllare su piccoli monitor le loro performances. Imparare a elaborare e gestire le notizie diventa un gioco, anche tecnologico, assai apprezzato. Altrettanto frequentata è l’area tematica “Le bolle di sapone” che comprende quattro giochi atti a plasmare pareti saponose, forme geometriche e bolle di svariate forme e dimensioni, anche tanto grandi da contenere un bimbo. Si evidenziano proprietà fisiche dell’acqua, forze di adesione e coesione, caratteristiche dei tensioattivi, mentre si gioca meravigliandosi delle potenzialità di elementi che hanno accompagnato l’infanzia di tutti i bambini. Tecnologia e scienza si interpongono e sovrappongono nello spazio “Le meraviglie della fisica”, ove sono presenti specchi deformanti e parabolici,

11 Le testuggini di Albenga rispondono al nome di Emys orbicularis ingauna e quelle americane a Trachemys scripta elegans.

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caleidoscopi, raggi laser, giochi della luce bianca, ultravioletta, stroboscopica. Altrettanto accade in quello de “La cascata di sabbia”, dove il bimbo, attraverso l’ombra del proprio corpo, interagisce con la rappresentazione virtuale di una cascata di sabbia colorata, giocando con la sabbia stessa; e, ancora, nella lunga parete interattiva dell’“Energia in gioco”, ove gli exhibit si susseguono usufruendo delle varie forme di energia rinnovabili, dalla solare alla eolica, alla idroelettrica, fino alla sperimentazione dell’induzione elettromagnetica. Davanti a “Digiwall – La parete digitale” i bambini sostano affascinati. Lungo 4 metri e alto 2,4 metri, il muro computerizzato comprende 96 prese di arrampicata, da affrontare come scalatori. Impostato uno dei possibili giochi, la parete risponde alle mosse dello scalatore, con luci, suoni e musica. Vista e udito, equilibrio, forza e velocità, flessibilità e capacità tattiche sono chiamati in causa, nella competizione come nella collaborazione, da tali esperienze ludiche che inducono i bimbi a gare e sfide senza limite. In quest’unica zona si legge la parola “vietato” da sempre evitata a “La città dei bambini”, ma ora inevitabilmente presente per salvaguardare la salute stessa degli esuberanti visitatori. Infine,“Il transatlantico” invita a salire a bordo i ragazzini, per fare scoprire loro attrezzature e rotte di navigazione, provare a usare timoni e telegrafo, nonché nodi marinari e bandiere di segnalazione. Ogni isola tematica richiede al giovane visitatore una concentrazione durevole che però non affatica, poiché è stimolata da dinamiche ludiche chiamate in causa in maniera diversa da ciascun exhibit. Tecnologia e scienza sostanziano i giochi, senza essere invasive, ma facilitando e potenziando i differenti usi degli exhibit, soprattutto in relazione all’età dei fruitori. 3. I visitatori: una partecipazione formativa, da reiterare Con circa 150.000 visitatori all’anno, “La città dei bambini” risulta essere la struttura più frequentata, nel suo genere, in Italia. Oltre 30.000 di questi frequentatori sono studenti, accompagnati e guidati dai loro insegnanti, nonché “prenotati” per poter usufruire dei servizi animativo-laboratoriali studiati, in maniera mirata, dal centro e dai rispettivi docenti12. Ogni anno vengono organizzate tra le 500 e le 600 attività didattiche, di concerto con i docenti. Talvolta, seppur raramente, le attività sono trasferite a scuola13. “La città dei bambini” non è un ambiente scolastico, non è gestito da insegnanti, non vi sono aule né banchi, eppure si trasforma facilmente in un contesto didattico. Gli insegnanti possono stabilire con la struttura un accordo per uno o più incontri con le classi, progettando un approfondimento,

12 Gli insegnanti hanno a disposizione due giornate al mese per visitare gratuitamente la struttura e incontrare la responsabile didattica, con la quale progettare e decidere insieme la visita della scolaresca. 13 Tale opportunità è sporadicamente operativa; per non più di una o due esperienze per ogni ordine di scuola all’anno.

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un’animazione o un laboratorio. I princìpi fisici dell’aria, dell’acqua, della luce, così come le caratteristiche di varie specie viventi riescono ad affascinare i ragazzini che vedono concretizzarsi anche quanto hanno già appreso dai testi scolastici. Tali esperienze arricchiscono la formazione del soggetto, e non solo da un punto di vista scientifico o tecnologico. L’offerta didattica che riguarda, ad esempio, il “Dietro le quinte” dello studio televisivo potenzia le facoltà espressive e comunicative, nonché la riflessione critica sui contenuti scelti. La conoscenza e le sue svariate forme si concretizzano fuori dalle mura scolastiche, in un crescendo di entusiasmo partecipativo. Sovente, all’inizio delle attività serpeggia diffidenza da parte dei partecipanti, probabilmente perché altre “uscite” dalla scuola hanno ammorbato le loro menti e spento i loro sentimenti, nonché annoiata la loro sete di conoscenza. A “La città dei bambini”, intelligenze, emozioni e curiositas trovano invece nutrimento gnoseologico ed esperienziale che soddisfa e convoca, in maniera naturale, alla partecipazione attiva. Nei fine settimana, con orari prefissati, sono organizzate attività animative di tipo laboratoriale su differenti temi e suddivise per fasce d’età14. Variano ogni mese e ludicamente sollecitano i soggetti a intervenire formulando ipotesi atte a spiegare lo sviluppo di fenomeni scientifici: la capacità d’osservazione, il ragionamento e il senso critico vengono chiamati a manifestarsi liberamente. Si gioca anche con le possibilità delle ipotesi, inventando e scoprendo vie conoscitive mai tracciate a scuola. Le modalità giocose aiutano non poco ad acquisire, senza alcuna fatica mnemonica, nuovi concetti, idee, strategie esperienziali. La conoscenza è vissuta senza l’obbligo dello stare seduti a un banco: si rafforza la consapevolezza che si può imparare non solo giocando, ma soprattutto in contesti diversi da quelli scolastici. Inoltre, il dubbio e l’errore non sono stigmatizzati, anzi sono vissuti come momenti fruttuosi nel percorso sperimentale. Acquisiscono pertanto anch’essi un rilievo ludico-pedagogico di notevole spessore. Ad oltre 10.000 unità ammonta il numero degli operatori, tra educatori, insegnanti e architetti, che hanno finora visitato la struttura da un punto di vista esclusivamente professionale. Mentre sono circa 400 gli studenti universitari che hanno fatto uno stage a “La città dei bambini”. La fascia d’età più presente è l’intermedia, dai 6 ai 10/11 anni. Quella successiva stenta a coprire i numerosi spazi organizzati anche per essa. La scarsa e mancata frequenza dei preadolescenti può essere addebitata a elementi

14 Contemporaneamente, sono attivati, al massimo, due laboratori, due attività tematiche e uno per i 2/3 anni. Ciò anche per non occupare troppi spazi che sono invece organizzati affinché i bimbi li vivano muovendosi in piena libertà. Di questi bambini che vivono spontaneamente gli spazi de “La città dei bambini” insieme ai genitori o ai nonni è costituito il 38% dei visitatori complessivi. Poco meno, il 33%, è invece coperto dalle scuole che seguono, solitamente, percorsi determinati. Il restante 26% sono adulti e con promozioni diversificate entra il 3% del pubblico. Anche la provenienza geografica dei frequentanti è monitorata: solo il 40,3% è coperto da genovesi e liguri, mentre il resto interessa, quasi totalmente, le regioni limitrofe.

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differenti. Da una parte, i genitori non ritengono più “degni” di giocare, neanche con attività a matrice scientifica, i loro figli di 12/14 anni. La dizione del centro “La città dei bambini” potrebbe, in questo senso, essere fuorviante. Tuttavia, probabilmente alcuni caratteri che i dodicenni conservano, da un punto di vista della formazione della loro identità, sono considerabili infantili: il soggetto che vive l’epoca contemporanea tende a maturare i caratteri adulti in età più avanzata rispetto al pari età vissuto, ad esempio, un secolo fa. D’altronde, le scuole vengono a mancare nello stimolo al gioco dei preadolescenti. Anzi, a volte condannano ferocemente la timida emersione di segni ludici da parte dei preadolescenti. Quindi, nella programmazione scolastica difficilmente trova spazio la visita a un ambiente in cui il gioco sembra il protagonista15. Infine, i ragazzini stessi mostrano il desiderio di proiettarsi nei mondi degli adulti, tralasciando presto quelli dei giochi. Spinte sociali, culturali, massmediatiche adultizzano precocemente i soggetti in crescita, innestando un processo inarrestabile di deludificazione e di rifiuto a priori delle attività “per bambini”. Ciononostante, una volta coinvolti in attività di gioco, anche i quattordicenni vivificano prontamente il loro genius ludi che li fa appassionare, dimostrandosi pronto ad emergere in ogni occasione proficua. Ciò che si diffonde all’uscita de “La città dei bambini” è, da una parte, la malinconia che sia terminato il tempo di visita e, dall’altra, la gioia di essere giunti a scoprire non uno, ma più elementi affascinanti della vita quotidiana, nella loro veste scientifica o tecnologica, e aver potuto interagire costruendo, decostruendo e magari fantasticando ludicamente16. 4. Tra didattica e pedagogia, lo sviluppo di esperienze ludico-educative Ogni anno, durante l’estate, viene stampata, dal gestore della struttura, la “Guida per i docenti”, relativa all’anno scolastico che sta per iniziare. In essa trova illustrazione, in forma sia dettagliata sia sintetica, l’offerta didattica, con relativi tempi e costi, progettata da “La città dei bambini”. Sei sono le differenti possibilità che un insegnante ha facoltà di scegliere quando accompagna gli studenti a “La città dei bambini”. a) Visita libera. È l’insegnante a coordinare la scolaresca durante il percorso di sperimentazioni. Può avere già deciso di soffermarsi su un exhibit più

15 Sono gli insegnanti di scienze e matematica i più interessati, mentre quelli di materie letterarie pare ignorino il valore che potrebbe avere tale esperienza ludica anche a livello linguistico, per esempio. Se si considera il gioco quale modalità espressiva dell’uomo, l’insegnante di qualunque disciplina è chiamato a mostrare interesse verso esperienze ludiche capaci di unire la conoscenza alla scienza e alla tecnologia. 16 Se si osservano all’uscita i visitatori delle grandi città dei divertimenti, si noteranno volti in cui manca il sorriso, provati forse dalla fatica, dalla noia, dalle lunghe attese affrontate all’ingresso di ogni gioco o dalle dinamiche di vissuti privi di ludicità.

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a lungo, tralasciarne alcuni, richiamare l’attenzione sulle strategie scientifiche già presentate in aula e ora esperibili o su altre ancora da studiare.Vi è poi la possibilità che i bambini scelgano autonomamente il proprio percorso sperimentale, spesso in gruppo e, meno di frequente, da soli. Visita guidata. È un animatore ad accompagnare la scolaresca, comunque seguita dall’insegnante. In questo caso, l’esperto degli spazi illustra ogni postazione, invitando ora ad osservare ora a sperimentare. Ogni volta, potrà decidere dove soffermarsi più o meno a lungo, a seconda della manifestazione d’interesse da parte dei giovani visitatori. Ha la stessa durata della visita libera: un’ora e 20 minuti. Animazioni. Previste unicamente per i bimbi frequentanti le scuole dell’infanzia, in particolare per i bimbi di 3 anni, hanno una durata di ventiventicinque minuti. Sono esperienze di gioco vissute in gruppo, muovendosi entro le quali l’animatore persegue l’approfondimento di uno specifico tema. Ciò che richiama l’attenzione è la strategia ludica, poiché giocando i bambini sono attratti, senza ansie, dalle novità che l’animatore presenta loro facendogliele conoscere: lo stimolo allo sviluppo cognitivo e a quello emotivo si inseguono. Si realizza lo scoprire giocando. Approfondimenti tematici. Progettate per i bimbi di 4 e 5 anni, con la durata di un’ora, e per tutti quelli più grandi, con un’ora e venti minuti d’incontro, tali esperienze didattiche si soffermano su un tema del percorso espositivo e lo approfondiscono. L’animatore coinvolge attivamente i bimbi che interagiscono anche tra loro durante il viaggio ludico, costruendo brevi animazioni di gruppo. Esplorano, scoprono, sperimentano a turno o insieme tra loro, con l’animatore, con l’insegnante. Laboratori. In un’ora e venti minuti, i bimbi e i ragazzini, dai 6 ai 14 anni d’età, partecipano all’analisi di un argomento scientifico o tecnologico, indipendentemente dalla visita della struttura che li ospita. Mentre gli insegnanti sono chiamati a sondare l’efficacia pedagogica e didattica del laboratorio17, i giovani studenti si avvicinano a scoprire reazioni, materiali, funzioni, forme, relazioni e pure segreti dei mondi di vita quotidiana, colti da uno sguardo scientifico, del quale loro stessi si fanno interpreti. Tale analisi scientifica è mediata da efficaci e coinvolgenti dinamiche di gioco e coordinata da uno o più esperti animatori. Percorsi didattici. Infine, le scolaresche in visita possono seguire percorsi didattici costituiti da due o tre attività, dislocate a “La città dei bambini”, all’“Acquario di Genova” e al “Galata Museo del mare”18, relative all’analisi e all’approfondimento di tematiche comuni colte da prospettive diverse, a seconda dell’impostazione scientifica della struttura in cui si svolgono e sviluppano. Oltre alla visita in loco con le diverse possibilità di sviluppo, è previsto il

17 Agli insegnanti vengono fornite anche schede tecniche di presentazione e approfondimento. 18 Tutte queste strutture sono situate nell’area del Porto Antico, quindi sono facilmente raggiungibili a piedi.

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servizio “La cdbr a scuola”. Gli animatori scientifici si recano alla scuola dell’infanzia, primaria o secondaria che ha prenotato la visita e coinvolgono i bambini in classe, con approfondimenti tematici o laboratori19. Ciò rappresenta o la possibilità di sperimentare comunque a scuola un’attività che mai sarebbe stata fatta o l’incentivo a produrre altre sperimentazioni recandosi negli spazi adibiti al Porto Antico. I temi, che sono attraversati dalle differenti forme di coinvolgimento dei bambini anche da parte degli animatori, riguardano l’ambiente, l’acqua e l’aria, l’alimentazione, le facoltà senso-percettive tanto quanto quelle comunicative, nonché l’orientamento nel viaggio, la creatività legata alle fiabe, la fisica e la chimica. Differenti e variegate sono le dinamiche pedagogiche e didattiche richiamate dai numerosi exhibit: accanto a quelli scientifici, tecnici o tecnologici immediatamente evidenti, si delineano percorsi di educazione cognitiva e logica ed anche ecologica, geografica, alimentare, corporea, emotiva, socio-relazionale, estetica, storica. Ogni tematica è affrontata a livelli di analisi e profondità scelti in relazione all’età dei destinatari, mentre alcune sono pensate soltanto per età specifiche. 1) Per la scuola dell’infanzia sono state progettate diverse proposte che riguardano soprattutto la realtà ambientale immediatamente esperibile dai bimbi. Ad esempio, animazioni vertono sul tema dell’impollinazione, che il bimbo impara a conoscere attraverso un gioco di cui è parte attiva, o sulla combinazione di acqua e sapone, capace di produrre bolle giganti o colorate o da attraversare senza che scoppino. Gli approfondimenti tematici riguardano ancora l’acqua e la sua duttilità di movimento, e poi la vita degli alberi paragonata a quella infantile, il mondo dei colori colto attraverso la luce o l’assenza di luce, gli abitanti di un tronco d’albero e di una grande foglia da conoscere e riconoscere, nonché il percorso del cibo nel tortuoso viaggio dentro il corpo umano. 2) Per la scuola primaria, spesso le attività sono suddivise tra i bimbi del primo ciclo (6-7 anni) e quelli del secondo (8-10 anni) poiché l’apprendimento di nozioni scientifiche si potenzia non poco con il passare degli anni. Ruolo determinante ricopre ancora l’animatore con la sua sensibilità, soprattutto pedagogica, nel cogliere ed intuire il possibile livello di coinvolgimento giocoso e di interesse conoscitivo negli astanti.Tra gli approfondimenti tematici, ci si sposta dal biologico al tecnologico20. I laboratori inducono i bambini a scoprire le relazioni tra chimica e ambiente, le differenze degli elementi contenuti nei cibi e quindi le caratteristiche degli apparati digerente, circolatorio e respiratorio, così come li invitano a “tuffarsi” nell’acqua o dentro gli esperimenti sull’aria e il volo di Leonardo

19 Le attività sono della durata di un’ora per i bimbi fino a 5 anni e di un’ora e venti minuti per i bambini fino ai 14 anni. 20 Il biologico può prevedere l’esplorazione di un formicaio artificiale o dello stagno delle testuggini per studiarne habitat e organizzazione; il tecnologico comprende la scoperta degli strumenti di navigazione di un transatlantico o degli elementi utili a realizzare un programma televisivo o, ancora, del viaggio della luce tra raggi ultravioletti e laser.

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da Vinci. Come ottenere forme di energia che non danneggiano l’ambiente o sfidare un’altra squadra di esploratori al Polo Sud con strumenti scientifici coinvolgono non poco i bambini più grandi, mentre i più piccoli sono invitati a esplorare i cinque sensi per scoprirne un sesto. 3) Per la scuola secondaria di primo grado, si ritrovano alcuni degli approfondimenti tematici, già ripresi per la scuola primaria e legati alle leggi dei fenomeni fisici o ai codici presenti in uno studio televisivo o agli elementi necessari a un arrampicatore di una parete di roccia, anche digitale. Per questa fascia di età, sono maggiormente presenti e offerti laboratori, che attraggono curiosità gnoseologica su rocce, minerali e vegetali, sull’applicazione a frutta e verdura delle leggi di Mendel, sull’evoluzione della specie letta in chiave geologica, sulla produzione di energie rinnovabili, nonché sulla disposizione simulata del sistema solare. “La città dei bambini e dei ragazzi” vorrebbe chiamare a sé anche i ragazzi frequentanti la scuola secondaria di secondo grado. Oltre alla disponibilità ad organizzare percorsi personalizzati rispettando le esigenze didattiche espresse da insegnanti e studenti stessi, la struttura si apre a stage e tirocini21. Esperire le esigenze di una struttura lavorativa rivolta ai bambini, in presenza di professionalità diverse, con lavori di équipe, tempi scanditi a fasi, potrebbe rappresentare un’attività formativa di conoscenza graduale e ludica dei mondi del lavoro. Nella prospettiva di accogliere proficuamente tutti i possibili visitatori, dai bimbi di due anni ai giovani tirocinanti, sarebbe allora congruo che chi gestisce gli spazi e le attività non fosse soltanto un “animatore” o un “facilitatore”, così come nella struttura viene definito il personale, bensì fosse un “educatore” o un “pedagogista”. Tuttavia, per poter definirsi tale, il professionista dovrebbe avere competenze non solo scientifico-tecnologiche, ma anzitutto pedagogiche. L’obiettivo delle attività avrebbe il suo cuore pulsante nella formazione umana del bimbo; l’educational non sarebbe solo un fattore da connettere con l’entertainment, bensì una dinamica vissuta nel rapporto conoscitivo con l’exhibit, con i compagni, con il personale, al di là di ogni finalità legata al divertimento; il gioco, libero nel suo dinamicizzarsi, convocherebbe spontaneamente il genius ludi di qualsiasi visitatore. Comunque, nonostante la scelta, operata dal gestore della struttura, di esperti di scienza o tecnologia, piuttosto che di educazione – persino a dirigere la sezione didattica –, sono i bambini a scegliere il loro percorso non soltanto di gioco, ma anche di conoscenza e coscientizzazione profonda delle esperienze. Gli adulti che li accompagnano nel lungo percorso risultano però decisivi nel momento in cui i bimbi esprimono l’esigenza di essere disorientati ludicamente di fronte a ciò che invece si presenta come scientificamente oggettivo, uguale per tutti, inconfutabile.

21 Tali forme sono concordate con i professori e stipulate con una convenzione con la scuola.

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Nota bibliografica Gennari M., Sola G. (20023). Didattica e animazione educativa nell’extrascolastico. In M. Gennari (a cura di), Didattica generale (pp. 421-442). Milano: Bompiani. La città dei bambini e dei ragazzi NEWS, periodico quadrimestrale dal 2006. www.cittadeibambini.net/ www.universcience.fr/fr/education

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Art as the core of humanistic education

di Robi Kroflicˇ

Abstract Lo scopo principale di questo articolo è far vedere perché il dibattito sul valore dell’arte come centro dell’educazione umanistica sia oggi più importante che mai. Nella parte teorica esso presenta argomentazioni sul valore intrinseco dell’esperienza artistica e i suoi elementi strutturali più importanti per la realizzazione personale (come l’immaginazione, la narrazione e la metafora), per l’autorealizzazione personale e per l’interiorizzazione di criteri etici di base post-moderni. Nella seconda parte esso presenta alcuni esempi di lavoro educativo con bambini della prescuola e studenti di pedagogia che sono stati sviluppati nel corso di un progetto Comenio “L’identità europea a scelta multipla” e di un progetto sloveno “L’arricchimento culturale dei bambini. Lo sviluppo dell’identità dei bambini nello spazio e nel tempo attraverso le diverse attività artistiche”. Parole chiave: esperienza artistica, etica post-moderna, realizzazione personale, approccio educativo-induttivo, educazione attraverso le arti

The main purpose of this article is to show why the debate about the worth of art as a core of humanistic education is today more important than ever. In the theoretical part it presents arguments about the intrinsic value of artistic experience and its most important structural elements for personal fulfilment (like imagination, narration, and metaphor), for personal self fulfilment and for basic post-modern ethical criteria. In the second part it presents some practical examples of educational work with preschool children and students of pedagogy that were developed during a Commenius project “European Multiple Choice Identity” and Slovene project “Cultural enrichment of children-The development of children’s identity in space and time through different artistic activities”. Key words: artistic experience, post-modern ethics, personal fulfilment, comprehensive inductive educational approach, education through arts

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 1722-8395 (in press) / ISSN 2035-844X (on line) Studium Educationis • anno XIII - n. 2 - giugno 2012


Aesthetic experience is not just one kind of experience among others, but represents the essence of experience per se. […] the power of the work of art suddenly tears the person experiencing it out of the context of his life, and yet relates him back to the whole of his existence. In the experience of art is present a fullness of meaning that belongs not only to this particular content or object but rather stands for the meaningful whole of life. Hans-Georg Gadamer1

The main purpose of this article is to show why the debate about the worth of art as a core of humanistic education is today more important than ever. As we will see from a brief historical analysis, core values of the postmodern era open more opportunities to defend a thesis about the intrinsic value of educational experience and its role in developing personal identity or in Constantijn Koopman’s words, about art as personal fulfillment (Koopman, 2005). This of course does not mean that lectures about the arts are a sufficient tool for achieving this pedagogical goal, although they are important to educate the pupil/student to be more open to concrete artistic experiences as an artist or as an admirer of fine arts. What really counts today is using artistic experiences as a method of prosocial and moral development of children and students at all levels of educational system. 1. Art as a core of humanistic education Art (especially literature and music) was from antiquity and for centuries recognized as a core of humanistic education (septem artes liberales), but its “pedagogical role” was usually reduced to the media of transmitting existing cultural patterns and ideological standpoints, or – in other words – utilitarian criteria. Already Plato had required a selection of myths/stories for different bodies of society, when the message of an art object was not appropriate for the wider public. We can trace the same intention in Christian schools, and the same criteria were central in the period of growth of interest for the folk tales and author’s fairy-tales which became an important pedagogical tool (Charles Perrault and the brothers Grimm from the seventeenth to the eighteenth century) (Kroflicˇ, 2009). In the nineteenth century, utilitarian criteria of the worth of an art as the core of humanistic education begun to prevail, according to H. Spencer’s statement that, as arts occupy the leisure part of life, so should they occupy the leisure part of education (Reimer, 1998, p. 145). And at the end of the twentieth century we can find, as the materialization of this process, a desperate search for proofs that artistic experiences have a positive impact on the development of different intelligences and school achievements, but un-

1

Gadamer, 2004, pp. 60-61.

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fortunately a serious meta-analysis of many research studies does not confirm most of the expectations (Winner, Cooper, 2000). Changes to the basic educational aims in postmodern education from the cultural-transmission model (education as transmission of core values and truths from great narratives of modern philosophy and science) to process oriented education (that fosters personal development in the direction of auto-regulative competencies and a respectful relation toward other as being different) demand new efforts to find reasons for the inner value of aesthetics experience. According to Burbules and Rice (1991) there are two basic ideas in post-modern philosophy that are fruitful for pedagogy: affirmation of specific values (such as recognition of otherness and democratic dialog), and deconstruction of meanings of modern scientific orientations (such as an exclusive attitude toward people who are not a part of common culture or average personal competencies). These goals of post-modern general education can be best supported by relational ethics (Moss, 2008) and educational approaches that define (moral) education as a dialogical concept (Malaguzzi, 1998; Bingham, Sidorkin, 2004; Kroflicˇ, 2012). It is not a coincidence that especially in before mentioned educational concepts education through the artistic experience has a central role, what is most obvious in the Reggio Emilia Approach. In the continuation of this paper I will present two practical cases of using art: – as the means of fostering the child’s relational response-ability and normative agency for pro-social activities (for pre-school children); – as a tool for reconstruction of historical metaphors of exclusion of mentally handicapped people (for university students). 2. Intrinsic value of educational experience Let us consider some contemporary ideas about art as one of the most authentic expressions of humanity that has an important educational value, not only because of its ideological message, but also because of its inner structure: 2.1. Art as a Communicative Process If art experience is a kind of embodiment of knowledge (or embodied knowledge) about myself and the Other, then we have to find something in its inner structure that confirms its value beyond a utilitarian criterion. In the RAND study Gifts of the Muse (Reframing the Debate About the Benefits of the Arts) (McCarthy et alii, 2004, p. 40) we find a further explanation:

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Figure 1: Art as a Communicative Process

who bring meaningful forms into ex As B. Reimer “[...] people claims,

istence are generally called artists and anyone so engaged is, at the time of engagement, being an artist” (Reimer, 1998, p. 161). In the field of philosophy of education this simply means that anyone who is engaged in the experience of art – to be a creator, or co-creator (musician playing a piece of music that was written by another artist) of artistic expression, or just a person enjoying the piece of art – exists in the field of aesthetic experience. This statement of course does not mean that art classes which offer to pupils or students lectures about (history of) art automatically offer artistic experiences. If we want to ensure that pupils or students will star with an appreciation process, they have to be faced with the presentation of a real art object and motivated to enjoy in it, express their feelings, and interpret the message of the artistic event as their personal experience. There are several reasons and concepts that confirm the communicative understanding of art: – Insight into the thesis that a piece of art is a kind of bridge between the mind of the artist and the public is crucial for understanding the inner value of art experience. – The artistic process is one of the most complex, mysterious, and only partly conscious human activities, and expression (see that includes intuition top oval in figure 1). – Intuition can be described as a highly developed capacity for vivid experiencing of the world, including one’s inner, private world. It is a cultivated sensitivity for observing life, a capacity for receiving its impressions (Mc Carthy et alii, 2004, p. 40), that enables the artist to present this impression and vision of pieces of subjective reality to the public (which is not capable of such deep observing and contemplating of life). – And artistic expression is, in the opinion of the Irish novelist J. Cary, “a kind of translation, not from one language into another, but one state of 4

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existence into another, from the receptive into creative, from the purely sensuous impression into the purely reflective and critical act”, or as the same thought was expressed by Ch. Taylor in his monumental work Sources of the Self, artistic expression is “a bit of ‘frozen’ potential communication” (quoted from ibid., p. 41). – The process of appreciation (see bottom oval in figure 1) is parallel to the artistic process, because individual experience is an inner one, intensely personal and private, and the interpretative experience is the attempt to express to others what that direct experience was like. Unlike most human communication, art communicates through direct experience, and the core of our response to the piece of art is a kind of intense feeling that is enriched by critical reflection. This means that aesthetic experience is not limited to passive spectatorship, but it stimulates curiosity, questioning, and the search for explanation (ibid., pp. 41-42). – The key question of aesthetics, whether art is a representation of reality or an expression of a subjective view, emotions, and visions, remains, in the opinion of the authors of the RAND study, still open: they declare art as “objectivation of subjective life” or “an outward showing of inward nature” (ibid., p. 43). This means that art can fill the gap left by the scientific and technological discourse of Western European culture: “Rather than describing the world in impersonal, abstract, or mathematical terms, it presents a created reality based on personal perspective (often surprising and original) that includes the whole uncensored human being with all its feelings, imaginings, and yearnings” (ibid., pp. 42-43). Or, as V. Vecchi emphasizes the same feature of artistic experience: “[...] (aesthetic dimension should be seen as) a process of empathy relating the Self to things and things to each other... It is an attitude of care and attention for the things we do, a desire for meaning; it is curiosity and wonder; it is the opposite of indifference and carelessness, of conformity, of absence of participation and feeling” (Vecchi, 2010, p. 5). So aestheticizing can be understood “[...] as a filter for interpreting the world, an ethical attitude, a way of thinking which requires care, grace, attention, subtlety and humour, a mental approach going beyond the simple appearance of things to bring out unexpected aspects and qualities” (ibid., p. 10). 2.2. Educational value of artistic imagination One of the most important characteristics of artistic expression for the development of humanity is artistic imagination. It is the concept that is clearly separated from pure fantasy, and contains selective and evaluative functions (Rethorst, 1997, p. 4; Nussbaum, 1990, pp. 77-78; Murdoch, 2006, p. 70).We can say even more so, that it is a cognitive capacity, which enables us to reach a coherent image of the world with the use of empathy (Greene, 1995, p. 3). According to M. Greene, artistic imagination is the means to reach the world of the Other in a way that we become accustomed to “as if ” worlds, that were created by writers, painters, sculptors, movie directors, choreogra-

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phers, and composers, and enabled us to gain new perspectives on life (ibid., p. 4) – so important for the post-modern conception of humanity and ethical consciousness. It motivates us to become accustomed to the artistic created person or event, empathetic with its destiny, to restrict our ego fantasies about ourselves as centers of the universe, to reflect life events we would never experience, and to create visions about possible worlds that abolish selfishness and injustice. So it is not a coincidence that in the last few decades we can find more and more proof that “human moral understanding is fundamentally imaginative [and that] metaphor is one of the principal mechanisms of imaginative cognition” (Johnson, M. Moral Imagination: Implications of Cognitive Science for Ethics; quoted from Rethorst 1997, p. 3). M. Nussbaum in her influential work Cultivating Humanity (1997) brings to our attention three important dimensions of the artistic imagination: narrative imagination, deliberative imagination, and compassionate imagination. In its central chapter Narrative imagination she claims that cultivating humanity by art was the form which Socrates, the stoics and Seneca held as the central part of basic education. In one picturesque passage she writes: “Habits of empathy and community conduce to a certain type of citizenship and a certain form of community: one that cultivates a sympathetic responsiveness to another’s needs, and understands the way circumstances shape those needs, while respecting separateness and privacy. This is so because of the way in which literary imagining both inspires intense concern with the fate of characters and defines those characters as containing a rich inner life, not all of which is open to view; in the process, the reader learns to have respect for the hidden contents of that inner world, seeing its importance in defining a creature as fully human” (Nussbaum, 1997, p. 90). This description of penetrating into the soul of a literary hero liberates the reader’s stereotypical perception (what the literary critic L. Trilling describes with the term deliberative imagination; ibid.) and enables empathy and compassion: “Compassion involves the recognition that another person, in some ways similar to oneself, has suffered some significant pain or misfortune in a way for which that person is not, or not fully, to blame” (ibid., pp. 9091). Compassion includes one even more important dimension. That is the sense of my own vulnerability, which tells me that I could experience a similar destiny to the literary hero in my future, which causes my readiness to generously help: “That might have been me, and that is how I should want to be treated” (ibid., p. 91). This last dimension of imagination M. Nussbaum describes as compassionate imagination, and its value is connected with our readiness to have an empathetic recognition of the social position of different, marginalized, invisible persons in a global world of differences (ibid., pp. 87, 109-112). 2.3. Educational value of narration Another key concept of artistic expression that indicates its importance for the development of humanity is narration. After the fall of rationalistic con-

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viction that ethical dilemmas can be reduced to abstract events – which are separate from the individual destiny of subjects and from the contingent nature of social circumstances and cultural background – philosophy and psychology began to stress the importance of the “[...] reconstruction of ethical dilemma in its contextual particularity, that enables understanding of causes and consequences” (Gilligan, 1982, p. 100). M. Greene annotates the importance of telling the story in a narrative way, as a new way of understanding and truth (Bruner, J. (1986). Actual Minds, Possible Worlds; quoted from Greene, 1995, p. 186) to the impact of hermeneutics and the recognition of the importance of “heteroglossia” Bakhtin’s concept of the existence of different views and voices that can only describe human reality in polyphony. She also stresses the importance “[...] of the connection between narrative and growth of identity, of the importance of shaping our own stories and, at the same time, opening ourselves to other stories in all their variety and their different degrees of articulateness.” (Ibid.) Especially stories with “open narrative fable” will act to enable “aesthetic transgression on institutionalized moral chains” and can motivate critical reflection (Winston, 2005) and inductive learning2. 2.4. Educational value of metaphor A short, but very convincing argument about the importance of metaphor can be found in the famous study Sovereignty of the Good, written by I. Murdoch, where she claims that we can catch sight of good only in an indirect way through metaphor, so admiring the beauty in art or nature is the most accessible way to gain a spiritual experience and a proper way to a good life, because it masters our selfishness with an aim to see the truth (Murdoch, 2006, p. 76). Her argument about the importance of metaphor arises from the analysis of the role of metaphorical thinking in Platonic philosophy, and especially his famous metaphor of the cave, where he presents the idea about the incapacity to picture and describe the Good in a direct way (ibid., p. 82). So where analytical language fails to describe truth, art can – with the help of imagination, narration, and metaphor – create “embodied meaning”, which replaces invisible secrets of life into visible spheres, and so enables transformative experiences and personal fulfillment (see Koopman, 2005).

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The inductive approach to prosocial and moral education can be described as a methodical orientation that starts moral and identity development from the analysis of concrete conflict situations (which asks for an emphatic relation toward a narrative of a concrete situation) and not from the notion on the importance of (deductive labeling) social rule/norm, that was the starting point of social learning in the classical culture-transmission model of education (Kroflicˇ, 2011, 2012). Similar structure of solving interpersonal conflicts can be found in the method of peer mediation (Cremin, 2007).

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3. Art as a sense-opener, as a source of knowledge, and as a crossover In a Commenius project European Multiple Choice Identity, we used art as a special tool for the development of personal and collective (European) identity of children and young people according to H. Gardner’s theory of multiple intelligences. In a seven step didactical model, constructed by W. Kratsborn (2004), different kinds of arts (especially, music, visual arts and design, literature, drama and dance) have an important role as a: – sense-opener and motivational tool for becoming familiar with different topics (such as identity, family and friends, good work, migrations and mobility, and the otherness); – source of knowledge about selected topics; – cross-over, or simply to say a tool for breaking down cultural barriers (by preventing children from fear about the radical otherness and finding common ground for inter-cultural dialogue in a respectful manner) (Kroflicˇ, 2006); – seven step didactical model (Kratsborn, 2004): ‘The route to a multiple intelligent citizen’ Skills and information

Subjective concept

Practice and reality

STEP 1 ‘The sense opened citizen’ - choose a subject - starting-point and orientation - use a multiple intelligence STEP 2 ‘The knowledge-based citizen’ - gather knowledge with language, sound (music) or image

STEP 3 ‘The active citizen - a test, an activity or a report - an outdoor-activity - an overview

STEP 4 ‘The communicative citizen’ - communication and feedback with others - preflect on practice STEP 5 ‘The productive citizen’ - prepare practice - construct the route

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STEP 6 ‘The cooperative citizen’ - realize practice STEP 7 ‘The reflectivecitizen’ - reflect and integrate - competences


Theoretical knowledge and practical experiences were later used and developed further into the idea of education through artistic experiences as a part of a comprehensive inductive approach to prosocial and moral development during the project Cultural enrichment of children – The development of children’s identity in space and time through the different artistic activities (Kroflicˇ, 2011, 2012). 3.1. Two examples of using art as a source of personal development One of the basic ideas of a comprehensive inductive approach to prosocial and moral development is a thesis that children’s pro-social orientation and morality is like Aristotelian virtue developed through human relations of love and friendship; therefore pedagogy supporting these relationships enables the child to develop relational response-ability and normative agency for prosocial activities in a most authentic way (Kroflicˇ, 2012). 3.1.1. Bibarije (development of response-ability for kindergarten children from one to three years old) “Bibarija” is a folk game with rhythmic singing/declamation of a simple child song and using fingers, “walking” through different parts of a child’s body. According to M. Hoffman’s (2000) model of the development of empathy as an emotional background of prosocial and moral development, we used Bibarije as a source of the development of the child’s response-ability to the presence of other person (a teacher or peer) and strengthening his/her sense of otherness of another person in the age group of one to two years old children in kindergarten3.

3

In the inductive approach to moral development we speak about three stages of educational impacts: Development of relational response-ability and normative agency for prosocial activities; development of the sense of respect toward concrete persons or activities; development of the awareness of ethical principles and humanistic demands, concerning specially human rights and ecological values, and learning how to use them as a basis for democratic negotiation in cases of interpersonal conflicts (Kroflicˇ, 2012).

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Let us see some photos that present this approach:

Figure 2 and 3: Communication from a teacher to a child

Figure 4 and 5: Communication from a child to a teacher

Figure 6 and 7: Communication from a child to another child

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Figure 8 and 9: Feeling of difference…

Simple folk games which combine rhythmic declamation with physical touch are one of very successful artistic tools that support children’s needs for physical contacts and strengthening of the feeling of safety and acceptance. Our experiments in the kindergarten Vodmat, Ljubljana have confirmed a thesis that in a safe and inclusive environment children show a lot of interest for different relationships with known adult persons as well as with peers. A short time after kindergarten teachers have started with a game (fingers, “walking” through different parts of a child’s body; see Figures 2 and 3), children spontaneously returned the communication in the opposite direction (see Figures 4 and 5) and expanded similar communication among themselves (see Figures 6 and 7). In classes with integrated children with special needs we have got an opportunity to help children to get rid of fear from differences and to accept these children as equal in this interesting game (see Figures 8 and 9). While there can be no responsibility without the ability to respond to near person, “bibarije” became a successful method in the first stage of the comprehensive inductive educational approach. 3.1.2. Metaphors of otherness (deconstruction of models of exclusion of mentally handicapped people for students of Pedagogy at university level) According to Foucault (1973), art is an excellent source of recognizing historical practices of exclusion of people with mental problems from the active role in the society. To recognize and de-construct the meaning of different types of exclusion, I further developed Foucault thesis, finding three metaphors of exclusion in European culture: the court fool, the leper, and the noble savage. All these metaphors can be recognized through European fine arts production, as follows (Kroflicˇ, 2007):

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Figure 10: The Court Fool

The graphics and paintings present a critical view of artists about common practices of exclusion of mentally handicapped people from the 15th to the 20th century (ibid.). I use them as a tool to make students of pedagogy more sensible to recognize problematic attitudes toward the otherness and to face up with their own stereotypical reactions (a fear of the otherness, believing that tourist attraction to “less-developed cultures�, such as love for gypsy music, is their inclusive mode of relation) with the core values of postmodern ethics. After few years of using this method in a course on the pedagogical approaches for the pupils with special needs I can say that this metaphorical approach can produce more sensibility to tender pedagogical topics than only theoretical explanations during classical lectures.

Figure 11: The Noble Savage

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Figure 13: Perception of the noble savage today…

F

Figure 12: The Leper

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4. Art as fulfillment in the post-modern world I would like to conclude this investigation with the idea that art can be seen as a practice of transformative experiences and personal fulfilment, because it has the power to describe the basic secrets of life and allows us to begin a dialog with the otherness of fellow-persons, and also with the otherness in the core of our personality. Let’s show some of the most famous arguments for this hypothesis. I would like to start with Wittgenstein’s theory about closeness and the transcendental nature of the languages of ethics, of religious experiences, and of art, that rests on the recognition of the different language of art, that can reach some extensions of truth better than the analytical language of science (Ule,Varga-Kibed, 1998). When we follow the thesis about art experience as one of the most authentic forms of human activities of personal fulfillment, we should not forget H.G. Gadamer’s thesis about ‘fulfilled time’, exemplified by the feast or celebration, where the feast is a paradigm for the arts: “Just like the feast the work of art presents an episode of fulfilled time. Fulfillment is effected by the organic unity of work. Every detail is united with the whole [...] As an internally structured unity, the art work has its own fulfilled time” (Koopman, 2005, p. 91). Fulfillment is also central to the J. Dewey concept of art as experience, which means ‘to have an experience in the strong sense’, to experience wholeness and self-sufficiency because art acts to clarify and intensify events of every day experiences (ibid., pp. 91-92). So Gadamer and Dewey have offered us two different perspectives on the idea of fulfillment in the arts, the first one with the concept of fulfilled time, and the second one with the concept of completed experience. These two perspectives are supplementary, because “[...] the value of the arts resides in our complete involvement from moment to moment when receiving, creating or performing an art work” (ibid., p. 91). The idea of art fulfillment finally coincides with Maslow’s concept of peak experience and Csikszentmihalyi’s concept of flow. Flow comes from the feeling of total fulfillment in an artistic process that causes a peak experience of pleasure and happiness, which is brilliantly described by the testimony of the poet M. Strand: “Well, you’re right in the work, you lose your sense of time, you’re completely enraptured, you’re completely caught up in what you’re doing, and you’re sort of swayed by the possibilities you see in this work. If that becomes too powerful, then you get up, because the excitement is too great. You can’t continue to work or continue to see the end of the work because you’re jumping ahead of yourself all the time.The idea is to be so [...] so saturated with it that there’s no future or past, it’s just an extended present in which you’re [...] making meaning” (McCarthy et alii, 2004, p. 46). It is appropriate to notice that especially Csikszentmihalyi’s concept of flow is scientifically confirmed by a huge number of interviews with creative

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people from different fields of work, and in the last decade it is used as one of the key concepts of intrinsic motivation for learning (see Riggs, 2006), a criterion of good work (The GoodWork Project, 2006), and especially one of the most important features of personal identity and mission of a good teacher (Korthagen, Vasalos, 2005). If we turn our analysis again to the characteristics of life in the postmodern era and the role of art for a fulfilled life in this liquid (Z. Bauman) and risky time (U. Beck), I would like to conclude this approach with the two most frequently emphasized positive roles of art. The first one is the fact that the world we live in is composed of an uncountable number of simultaneously existing perspectives and viewpoints (Greene, 1995, p. 183), so our personal growth to become different has to include searching for our personal voice and playing participatory and well articulated roles in the communities (ibid., p. 132). Or as the same thought was expressed by M. Nussbaum in her book Love’s Knowledge: Essays on Philosophy and Literature: “[...] art provides an extension of life not only horizontally, bringing the reader into contact with events of locations or persons or problems he or she has not otherwise met, but also, so to speak, vertically, giving the reader experience that is deeper, sharper, and more precise than much of what takes place in life” (Quoted from McCarthy et alii, 2004, p. 47). This ‘deep, sharp, and precise’ self-understanding and self-fulfillment is connected with the otherness around me that warns me about otherness in the core of my personality (Ricoeur, 1992). To defeat fear of otherness so common to human beings, we need activities that have strong motivational character and emotional engagement in our too objectified world. Or, as the same thought was expressed by two giants of art in the nineteenth and twentieth century: the spirit of abstraction stifles the fire at which the heart should have warmed itself (Schiller), so a book must be an ice-axe to break the sea frozen inside us (Kafka) (quoted from Hepburn 1998, p. 176). References Bingham C., Sidorkin A. M. (Ed.) (2004). No Education Without Relation. New York: Peter Lang (Counterpoints: Studies in the Postmodern Theory of Education, vol. 259). Burbules N.C., Rice S. (1991). Dialogue Across Differences: Continuing the Conversation. Harvard Educational Review, 61, 4, pp. 393-416. Cremin H. (2007). Peer mediation: citizenship and social inclusion revisited. London: Open University Press. Foucault M. (1973). Madness & Civilization. A History of Insanity in the Age of Reason. New York:Vintage Books. Gadamer H.G. (2004). Truth and Method. London-New York: Continuum. Gilligan C. (2001). In a Different Voice (Psychological Theory and Women’s Development). Cambridge, Massachusetts, and London: Harvard University Press. The GoodWorkProject®: An Overview. (2006). GoodWork Project® Team:© January 2006 <http://www. goodworkproject.org/docs/papers/GW%20Overview%201 06.pdf>.

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Robi Kroflicˇ


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RELAZIONE EDUCATIVA

di Giuseppe Mari

1. Socialità umana e persona. Il tema della relazione educativa si colloca all’interno della più ampia problematica relativa alla relazionalità umana. Viene immediata l’associazione all’antico concetto di socialità, come è stato esposto – in una sintesi comprendente anche i contributi precedenti – da Aristotele (384/3-322 a.C.). Questi, nella Politica, sostiene che l’uomo è l’“animale socievole”. Con questa identificazione non intende alludere genericamente alla esigenza aggregativa che spinge l’essere umano a radunarsi con i suoi simili per assicurare (o comunque favorire) la sopravvivenza. Se le cose stessero così, non ci sarebbe alcuna differenza rispetto alla socialità animale che, attraverso il branco, offre l’opportunità di provvedere ai bisogni elementari. La riflessione aristotelica si rifà al riconoscimento nel lógos della caratteristica propria dell’umanità, come afferma poco dopo: “l’essere umano è l’animale dotato di lógos”. Che cosa identifica Aristotele con questa espressione, aderendo a una tradizione che gli è anteriore e che risale almeno a Eraclito? Il termine lógos deriva dal verbo léghein che significa “raccogliere”. Infatti, lógos vuol dire “pensiero” (ossia ciò che raccoglie in unità la persona) e “parola” (ossia ciò che raccoglie in unità le persone). Il significato proprio del vocabolo è comunicativo: attraverso il lógos l’essere umano giunge alla condivisione cioè all’integrazione con i suoi simili (attraverso la parola che è cifra di ciò che permette la comunicazione) mentre perviene – grazie al pensiero – all’integrazione tra le sue molteplici espressioni: emozioni, sentimenti, idee... La socialità umana, quindi, si presenta come radicalmente diversa da quella animale: non è solo strumentale, ma anche espressiva cioè volta a manifestare l’originalità personale. Non utilizzo casualmente l’attributo. Con l’avvento del cristianesimo, la socialità umana viene ricompresa alla luce di una teologia che ora presenta Dio come Mistero di comunione tra le Divine Persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. I termini persona/pròsopon, già utilizzati in precedenza, acquistano un nuovo significato ossia identificano (in ragione della condizione teomorfa dell’uomo: cfr. Gn 1,27) l’identità umana come strutturalmente relazionale. Ne discende – dopo un percorso culturale di circa un millennio – il ricono-

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scimento della “incomunicabilità” personale, come afferma Riccardo di San Vittore (1110c.-1173), ossia della singolarità di ciascuno, che non può essere trasmessa ad altri. La ripercussione sull’idea di socialità è enorme perché, se la vita di ciascuno è unica e se – come afferma Tommaso d’Aquino (12251274) – la persona è “valore in sé” (questa è la radice dell’affermazione rosminiana che l’essere umano è “diritto sussistente”), allora la socialtà umana configura una dignità che non può essere calpestata mai e questo spiega perché venga gradualmente meno la convizione della liceità della schiavitù, perfettamente morale secondo Aristotele che, sempre nella Politica, arriva ad affermare – dello schiavo – che “è un oggetto di proprietà animato”. Questa precisazione, relativamente alla maturazione della identità sociale dell’essere umano, è indispensabile per far cogliere come si profila la relazione educativa. Abbiamo osservato che la socialità è intrinseca alla persona: ne discende che la relazione educativa non è una sovrastruttura, marxianamente estranea e strumentale: l’essere umano deve (in senso morale) entrare in relazione se vuole vivere all’altezza di quello che è; deve entrare in una relazione educativa se vuole esprimere le sue virtualità. In particolare, quella che gli è più congeniale: la libertà. L’essere umano nasce libero, ma la sua libertà inizialmente non esprime tutte le virtualità che la connotano. Il bambino piccolissimo conduce una vita sottomessa al condizionamento esercitato dai suoi bisogni, cioè subisce l’egemonia del narcisismo (da cui dipende l’immaturità sui piani psicologico ed etico). Egli, tuttavia, dal momento che appartiene all’umanità, è in grado di liberarsi: a differenza dell’animale, che viene determinato dall’ambiente, l’essere umano può elevarsi al di sopra del bisogno. Questo accade se ha una ragione per farlo; Tommaso – nel De Veritate – è chiaro: “la radice di tutta la libertà è costituita nella ragione”. Se c’è un motivo (colto per via razionale), l’uomo sa rinviare (al limite, respingere) la soddisfazione del bisogno. La maturazione di questa capacità viene acquisita attraverso la relazione educativa. 2. La relazione educativa. Come si configura la particolare espressione della socialità umana espressa dalla relazione educativa? Anzitutto richiede la presenza di almeno due soggetti: l’educatore e l’educando. Il primo, essendo adulto, esercita il ruolo della guida, ma non perché assoggetta l’educando (se così facesse, non potrebbe manifestarsi la libertà come sostanza dell’atto educativo) bensì perché si pone a servizio della graduale conquista della maturità da parte di chi gli è affidato. Questo comporta che la relazione educativa è asimmetrica, perché c’è una disparità non nella dignità, ma nella responsabilità. L’educatore è più responsabile dell’educando (è “maestro”, da “magis” ossia “più”). Contemporaneamente è “ministro” (da “minus” ossia “meno”) perché si pone al livello di chi sta crescendo per accompagnarlo nella crescita. La gradualità del servizio reso all’educando viene espressa dal termine “pedagogo” che rimanda alla “conduzione” (“agoghé”) del “fanciullo” (“pais”). La relazione educativa è morale perché è finalizzata alla conquista – da

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parte di colui che sta crescendo – della libertà matura ossia all’oltrepassamento della licenza come pura disposizione all’assecondamento narcisistico del bisogno. Come descrivere questo fine? Ci può aiutare l’espressione “egkrateía”. Viene comunemente tradotta con “moderazione”, ma questo vocabolo non rende fino in fondo il significato della parola greca che è composta da “eg” (in realtà “en”, che identifica lo stato in luogo) e “kratos” (“potenza”). La condizione di “egkrateía” rimanda alla capacità di “[essere] nella potenza” cioè di sapersi trattenere. Non allude, in realtà, alla rinuncia ad agire (come potrebbe far credere – in certi contesti – il termine “moderazione”), ma all’aspirazione ad agire, accompagnata dallo studio di come renderla efficace rispetto allo scopo. La conquista di questa meta richiede che si raggiunga il “governo di sé” ossia il controllo del desiderio.Viene così a manifestazione un’altra caratteristica della relazione educativa: l’autorità. Questo termine va chiarito. Troppo frequentemente se ne è fatta la caricatura deformandolo nell’autoritarismo. Esercitare l’autorità – per l’educatore – non significa mai assoggettare l’educando in quanto – come dicevamo – il fine dell’educazione è rendere capaci di praticare la libertà come maturità. Dove sta la differenza tra l’educatore che esercita la legittima autorità e colui (che non possiamo chiamare “educatore” se non in modo improprio) che pratica l’autoritarismo? Fatto salvo che qualunque “limite” deve essere posto all’educando in maniera ragionevole e fondata, l’educatore autorevole per primo testimonia di assoggettarvisi, mentre colui che lo è solo impropriamente si comporta come un despota che fa le leggi per gli altri. L’educando va introdotto nella pratica della disciplina perché, solo attraverso il tirocinio dei limiti posti dall’autorità dell’educatore, diventa capace di imporseli da sé conquistando la maturità. Come avviene l’interazione educativa? Essenzialmente attraverso la comunicazione affettiva la quale però va illustrata con precisione allo scopo di evitare gravi (talvolta tragici, in certi casi criminali) fraintendimenti. L’educazione è il contrario della seduzione: e-ducare significa “staccare” per consegnare l’educando a una vita che è chiamato a condurre responsabilmente; se-durre significa “vincolare” cioè mantenere in uno stato di subalternità che esprime assoggettamento, non libertà. Il vettore, lungo il quale la relazione educativa acquista la propria fisionomia compiuta è l’amore espresso nella forma della cura dell’altro che non lo soggioga, ma lo rende gradualmente indipendente, mentre ne rispetta l’integrità psicofisica. 3. Breve retrospettiva storica e spunti sul presente. Nel mondo antico la relazione educativa ha un profilo di esplicita severità (basti pensare al proverbio egizio “L’orecchio dello scolaro è la sua schiena”) che però non è esente dal riconoscimento anche di una dimensione affettiva, come viene attestato – da Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi – per la scuola pitagorica dove il discepolo, dopo aver trascorso cinque anni in silenzio, diventava “di casa” con Pitagora (570-490c. a.C.). In forma analoga, nel Giuramento del medico di Ippocrate (V secolo a.C.), il giovane medico afferma:“Riterrò chi mi ha insegnato

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quest’arte pari ai miei stessi genitori, condividerò la vita con lui, e quando abbia bisogno di denaro gliene darò del mio e i suoi discendenti considererò alla stregua di miei fratelli”. Il clima d’intimità tra maestro e discepolo è manifesto nella cerchia degli allievi di Socrate (469-399 a.C.) e – sul piano istituzionale – è esplicitamente affermato da parte di Platone (428/7-348/7 a.C.). In proposito, occorre rilevare che è controversa la lettura in senso pederastico del rapporto maestrodiscepolo perché, anche se non mancano passi suscettibili di questa interpretazione, ce ne sono altri di segno diverso: in realtà, non sappiamo con certezza – in riferimento soprattutto all’educazione classica – se o in che misura l’“amore greco” vada assunto in chiave simbolica oppure no. Platone, parlando (nella Lettera VII) della conoscenza più importante, con verosimile riferimento alla pratica condotta nell’Accademia, scrive che “non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima”. Dietro alle sue parole c’è la fiducia nella relazione educativa come espressione connaturale all’essere umano, coerente con il desiderio di conoscere che Aristotele ritiene sia all’origine di ogni sapere. L’autorità, di cui è portatore il maestro, gradualmente si stempera rispetto ai suoi tratti più severi. Il costituirsi dell’“humanitas” (ossia del senso di condivisione conseguente al riconoscimento del comune destino che abbraccia gli esseri umani) porta – in Quintiliano (35c.-95c. d.C.) – alla critica dei metodi violenti e brutali, ritenuti inadeguati rispetto allo scopo di educare alla libertà. Il mondo romano conferma questa disposizione sia con Seneca (4c. a.C.-65 d.C.) sia con la tradizione della “coltura animi” che assimila l’educazione alla coltivazione. Una delle prime espressioni di questa concezione la troviamo nel testo – erroneamente attribuito a Plutarco (45c.-125 d.C.) – Come educare i propri figli, in cui il paragone tra educazione e coltivazione è ripetuto. L’importanza di questa immagine – per quanto riguarda la relazione educativa – consiste in questo: riconoscendo nell’educazione una condizione “naturale” della persona (come per il campo dare frutti), incoraggia l’assecondamento della originalità infantile e la pratica di un’azione educativa improntata a dolcezza più che a severità. Marrou – uno dei maggiori storici dell’educazione antica – attribuisce all’educazione monastica – “sintesi del maestro (o del professore) e del padre spirituale nella persona [del] precettore” (1978, p. 442) – la transizione rispetto alle pratiche brutali, anche se esse non abbandonarono definitivamente il campo. Ne abbiamo traccia in un dialogo tra Anselmo (1033/4-1109) – educatore di giovani novizi – e un collega abate, così come lo riporta Eadmero (1064c.-1124) nella sua biografia: “Li picchiate continuamente? e quando diventano adulti come sono?”. L’abate rispose: “Ottusi e bestiali”. “Un bel risultato – osservò Anselmo –, sicché di uomini li riducete bestie”. “E cosa possiamo farci?”, replicò l’abate. Gli rispose Anselmo: “Ma dimmi un po’, reverendo abate, se tu piantassi nell’orto un albero e lo soffocassi da

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ogni parte, sì che non potesse stendere i rami in nessun modo, che cosa otterresti? Un albero tutto contorto e incurvato, e ciò per colpa tua. Altrettanto succede ai vostri giovani che sono come pianticelle messe nell’orto della Chiesa perché crescano e fruttifichino a Dio. Voi li coartate con minacce, sgridate, busse, in modo tale che non abbiano alcuna libertà e allora, così oppressi, si chiudono in sé, si contorcono, formano pensieri cattivi, quasi spine per difendersi dalle punizioni esteriori”. La stagione umanistica – di cui è esemplare la pratica dell’educazione presso la Ca’ Zocosa di Vittorino da Feltre (1373/78-1446) – rilancia, in particolare attingendo all’insegnamento cristiano, l’atteggiamento di amorevolezza come connotante la relazione educativa. Successivamente la stagione delle lotte confessionali – tra Cinque e Seicento – segna una ripresa della severità (talvolta in forme tendenzialmente autoritarie) anche se – grazie a figure come Filippo Neri (1515-1595) – non viene a mancare il richiamo contrario. È importante il costituirsi del “metodo naturale”, collegato alla tradizione della “coltura animi”, introdotto da Wolfgang Ratke (1571-1635). Con questa espressione si indica il metodo didattico che, seguendo l’ordine naturale, tratta le cose in modo concreto progressivo e naturale. Questo metodo ha avuto grande espansione nell’Ottocento, soprattutto grazie a Johann Heinrich Pestalozzi (1746-1827), ma ha espresso tutte le sue virtualità tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo quando ha intercettato l’attivismo. Questa saldatura ha comportato anche la ripresa del pensiero di JeanJacques Rousseau (1712-1778), importante per l’avvaloramento dell’educando, ma discutibile per il naturalismo che l’ha ispirato. L’attivismo è fondamentale perché ha inteso riformare la pratica educativa proprio intervenendo sulla relazione educativa. Da una concezione “magistrocentrica”, cioè che mette al centro il docente, l’attivismo passa a una concezione “puerocentrica”, nella quale al centro della relazione educativa c’è il bambino ovvero l’educando. Sul mutamento di paradigma hanno influito molti fattori, tra cui l’avanzare delle conoscenze scientifiche che ha reso evidenti le risorse infantili in vista dell’apprendimento e – eredità della pedagogia ottocentesca – l’avvaloramento della libertà come tratto distintivo della condizione umana. In proposito, merita ricordare Giovanni Gentile (1875-1944) la cui interpretazione della relazione educativa come atto interno allo Spirito ha sacrificato le singolarità di educatore ed educando in favore della loro comunione, in contrasto con l’interpretazione personalistica – ad esempio, di Jacques Maritain (1882-1973) – che li coglie in comunione, ma contemporaneamente distinti e comunicanti. John Dewey (1859-1952), invece, ha avvalorato la relazione educativa come tirocinio della pratica democratica. La crisi dell’attivismo, subentrata in seguito all’eccessivo ridimensionamento dei contenuti culturali, ha portato ad una stagione – nella quale in parte ancora ci troviamo – che ha registrato l’imporsi – nella relazione educativa – dei contenuti culturali. Anche se talvolta questa tendenza comporta eccessi di tipo tecnicista, occorre apprezzare il fatto che ha favorito la diffusione del sapere come mai è avvenuto prima.

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Due ultime considerazioni, infine, conducono a ridosso del presente. La prima riguarda la tendenza, fiorita anche grazie a una componente dell’attivismo, a concepire la relazione educativa secondo un orientamento permissivo che vorrebbe rispettare la libertà dell’educando – ad esempio, in Alexander S. Neill (1883-1973) –. In realtà, si tratta di una modalità impropria perché, come notavamo, la libertà matura è frutto di una conquista (non è data compiutamente in partenza), quindi l’esercizio dell’autorità – secondo la modalità pedagogicamente apprezzabile esposta in precedenza – non è in contradddizione con essa. La seconda tendenza – più recente e che sicuramente si farà sentire nei prossimi anni – è quella legata alle tecnologie della comunicazione che rende la relazione educativa tendenzialmente virtuale. Fermo restando che gli strumenti telematici recano indubbi vantaggi, occorre tenere presente che la relazione educativa “in presenza”, essendo l’essere umano un soggetto complesso (dove dimensione materiale e dimensione spirituale si integrano a vicenda), non può mai essere completamente sostituita senza gravi rischi sui piani morale ed esistenziale. Nota bibliografica Costabile A. (a cura di) (2008). La relazione educativa. Soveria Mannelli: Rubbettino. Flores d’Arcais G. (1987). Rapporto educativo. In Id. (a cura di), Nuovo dizionario di pedagogia (pp. 1061-1064). Milano: Paoline. Mari G. (2009). La relazione educativa. La Scuola: Brescia. Marrou H.-I. (1978). Storia dell’educazione nell’antichità. Roma: Studium. Masoni M.V.,Vezzani B. (a cura di) (2004). La relazione educativa. Milano: Franco Angeli. Musaio M. (2012). Dentro la relazione educativa. Leumann: LDC. Nanni C. (2008). Rapporto educativo. In J.M. Prellezo, G. Malizia, C. Nanni (a cura di), Dizionario di scienze dell’educazione (pp. 976-980). Roma: LAS. Postic M. (2006). La relazione educativa. Roma: Armando.

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2012 Anno Europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni

Sono passati più di sessant’anni dalla costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità, un organismo dell’Onu nato per promuovere politiche finalizzate a migliorare le condizioni di salute e quindi lo stato di benessere fisico, mentale e sociale delle popolazioni. E in questi anni si sono affermati alcuni principiguida, così sintetizzabili: – la salute è un bene e un diritto universale; – la salute non è la semplice assenza di malattia, ma una condizione di benessere; – la tutela e il miglioramento della salute sono affidati alla responsabilità dei singoli individui, ma sono anche obiettivi assolutamente primari delle politiche; – la salute è una costruzione continua, che si sviluppa in relazione ai cambiamenti degli individui e dei contesti nei quali gli stessi individui vivono. Uno dei principali cambiamenti emersi all’inizio del terzo millennio, specialmente nella società occidentale, è l’invecchiamento della popolazione. Ed è per questo che la Commissione europea ha proclamato il 2012 “Anno europeo per l’invecchiamento attivo e la solidarietà tra le generazioni” (www.ec.europa.eu/social), rispondendo alle raccomandazione dell’Organizzazione mondiale della sanità, che vede nell’active ageing la modalità più efficace per invecchiare in buona salute. L’invecchiare infatti non è soltanto un’esperienza individuale, ma è un processo

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che si declina in ogni ambito della vita, da quello lavorativo a quello biologico, da quello mentale a quello sociale, influenzando lo stile di vita (si veda al riguardo La vita buona nella società attiva, Libro bianco sul futuro del modello sociale, del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, 2009). È significativo peraltro che il tema dell’active ageing venga associato a quello della solidarietà tra le generazioni (raccomandata dal trattato di Lisbona, 2007), perché così si richiama la necessaria unitarietà dell’arco della vita e i conseguenti rischi che si corrono frammentando e segmentando le diverse fasce di età. Una solidarietà che ha come obiettivo primario la costruzione di comunità coese e armoniche, dove la buona salute è davvero un “bene comune” da promuovere e tutelare. La prima attenzione va rivolta alla persona che invecchia, chiamata ad adottare nuove strategie e ad attivare interessi e risorse per conservare e sviluppare un adeguato stile di vita. Ciò implica: – una ri-progettazione continua della vita, adattandola alle condizioni soggettive e a quelle proprie del contesto di appartenenza; – una cura particolare per mantenere efficienti le funzioni fisiche e mentali per vivere in autonomia e poter esercitare coscientemente i propri diritti; – una riflessione sulla figura e sul ruolo dell’anziano/a nonno/a per conciliare il lavoro di cura e di sostegno alla famiglia dei figli con il proprio percorso di “crescita” e di autorealizzazione, prevenendo forme di “dipendenza mascherata”. Ancora più rilevante è il ruolo delle politiche e delle istituzioni, alle quali spetta il compito di fornire indirizzi, mezzi e opportunità, per sostenere progetti e sviluppare azioni di qualità, senza discriminazioni di età, di genere, di religione, di famiglia ecc. Sono sostanzialmente tre le linee sulle quali le politiche sono chiamate ad intervenire: – le politiche del lavoro: l’allungamento della vita si riflette anche nei tempi e nei modi di uscire dal mercato del lavoro con la pensione. Ma sarebbe limitativo ridurre tutta la discussione agli aspetti economici e finanziari di tale istituto. L’ipotesi quindi di prolungare il tempo del lavoro dell’anziano fornisce l’opportunità per utilizzare al meglio il bagaglio maturato dall’esperienza, gratificando lo stesso lavoratore ed arricchendo contemporaneamente il patrimonio aziendale per trasferirlo alle generazioni più giovani. Si tratta inoltre di considerare l’uscita dal lavoro come un processo negoziato, che coinvolga


e responsabilizzi la persona che invecchia, anche attraverso esplicite azioni di preparazione; – le politiche della formazione “lungo l’intero arco della vita”, superando il modello sequenziale, secondo il quale la formazione riguarda una fase specifica della vita. Quindi una formazione anche per le persone anziane, sia nell’ambiente di lavoro, che sul territorio e nelle comunità locali, per favorire e sviluppare l’inclusione sociale e rafforzare i legami di appartenenza alle stesse comunità. La formazione continua poi dovrà riservare un’attenzione particolare all’approccio intergenerazionale e diventare una leva efficace nell’avvicinare le generazioni; – le politiche di welfare, infine, chiamate a sostenere la qualità della vita anche per quelle fasce di popolazione esposte al rischio della fragilità e della perdita dell’autonomia, operando da un lato nell’integrazione dei servizi sociali e sanitari e dall’altro negli indirizzi e nel coordinamento tra i diversi attori che operano sul campo. In quest’ottica, l’invecchiamento attivo può trovare un largo spazio di azione nel volontariato, vissuto come espressione di solidarietà e di impegno responsabile. L’Anno Europeo 2012 è un’opportuna occasione quindi per dibattere il tema a tutti i livelli e per implementare, di conseguenza, scelte innovative.

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“Ho fiducia in loro”. Il diritto di essere ascoltati e di partecipare nell’intreccio delle generazioni Appunti da un Convegno Internazionale all’Università di Padova

di Emanuela Toffano Martini

Il Convegno Internazionale “Ho fiducia in loro”. Il diritto di essere ascoltati e di partecipare nell’intreccio delle generazioni, svoltosi presso l’Università di Padova il 31 Maggio 2011, ha inteso ricordare una tappa significativa dell’ordinamento giuridico del nostro Paese: i vent’anni dalla ratifica da parte dell’Italia – legge 27 Maggio 1991, n. 176 – della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza del 1989. Proprio a questa “pietra miliare” dei diritti dei bambini aveva reso omaggio, nella stessa prestigiosa sede, l’Aula Magna “Galileo Galilei” del Palazzo del Bo, un precedente Convegno Internazionale da noi realizzato il 23 Ottobre 2009: “Che vivano liberi e felici…”. Il diritto all’educazione a vent’anni dalla Convenzione di New York (Toffano Martini, 2010a; Toffano Martini e De Stefani, 2012). Si è trattato di momenti celebrativi di carattere critico-propositivo che incorniciano – con funzione l’uno di apertura, di argomento più generale, e l’altro di chiusura, di argomento più specifico, benché di portata trasversale1 – le attività di approfondimento teorico e indagine empirica attuate nell’ambito di un Progetto di Ricerca di Ateneo di durata biennale (2009-2011) sui medesimi temi2 – così di rilievo che, ad essi, il Comitato

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Il Comitato Onu sui diritti dell’infanzia ha individuato, infatti, quattro principi generali, trasversali all’intera Convenzione: il diritto alla vita e allo sviluppo; il diritto alla non discriminazione; la primaria considerazione del superiore e migliore interesse del bambino; il diritto di essere ascoltato e preso seriamente in considerazione. 2 Il riferimento è al Progetto di Ricerca di Ateneo (Università di Padova), presentato nel 2008, dal titolo Il progetto pedagogico della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia a vent’anni dalla sua adozione. Diritto all’educazione e educazione ai diritti umani: bilancio e prospettive all’incrocio dei saperi (durata: 2009-2011). (Chi scrive è stato il responsabile scientifico di tale Progetto e, anche in veste di vice-direttore del Centro Interdipartimentale di Pedagogia dell’Infanzia, dei due Convegni sopracitati).

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sui diritti dell’infanzia di Ginevra ha già riservato i General Comments “Le finalità dell’educazione” (n. 1, 2001) e “Il diritto del bambino e dell’adolescente di essere ascoltato” (n. 12, 2009). Il legame ideale fra le due iniziative si evidenzia fin dai titoli, densi di speranza e pedagogicamente pregnanti, ovviamente scelti per comunicarne in modo incisivo i messaggi di fondo, peraltro esplicitati dai sottotitoli. Tratte dagli scritti di grandi Autori, il polacco Janusz Korczak (18781942) e il russo Pavel A. Florenskij (1882-1937), “Che vivano liberi e felici…” e “Ho fiducia in loro” sono parole di figure e vite d’eccezione, che nel tragico urto con le brutalità totalitarie del Novecento, fino al lager e al gulag, portano il suggello dell’eroico altruismo3. Semplici, e perciò profonde (Nietzsche, 1992, Aforisma 173, p. 182), queste espressioni, che tingono la vita di libertà, felicità, fiducia, scaturiscono da esperienze pedagogiche concrete alquanto dissimili: la prima, pervasa dall’instancabile dedizione riservata ai bambini e ragazzi ebrei dell’orfanatrofio di Varsavia, amorevolmente trasformato in una piccola società giusta e fraterna, resiliente pure nel confinamento nel Ghetto; la seconda, radicata nella raccolta e profonda intimità della famiglia, a Zagorsk (l’antica Sergiev Posad), allietata dalla nascita di cinque figli e affettuosamente coltivata anche a distanza attraverso il contatto epistolare nei lunghi anni della prigionia. Si tratta di esperienze d’impronta educativo-sociale, l’una, e d’impronta educativo-familiare, l’altra, “narrate” con diversi intenti e modi a diversi interlocutori (ora a un pubblico ampio e indefinito di genitori e soprattutto di educatori, ora ai propri familiari, in particolare, nella trama delle generazioni dall’infanzia all’anzianità), e tuttavia ugualmente significative e toccanti, capaci di scuotere le coscienze e muovere all’azione, incrinando strati di superficialità e di indifferenza. Nell’introduzione al Convegno “conclusivo” del maggio 2011, si è accennato a queste pedagogie “agite” nella concretezza, differenziate sì, ma pure accomunate da parecchi elementi, a partire dalla saggezza insita nel saper intrattenere rapporti altamente personalizzati con chi cresce, intessuti di amore e rispetto, rassicurazione e incoraggiamento, comprensione e trascendimento della realtà, in una coerenza quanto mai rara tra ideali e

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Medico, educatore e direttore d’istituti, scrittore e poeta, Korczak sceglie di non abbandonare i suoi ragazzi, viene deportato e muore con loro nel lager di Treblinka (Toaff, 1997, pp. 11 e 123); matematico, fisico e ingegnere, filosofo e teologo, teorico dell’arte, Florenskij, trasferito dal gulag delle isole Solovki, viene fucilato nei pressi di San Pietroburgo (allora Leningrado). Quest’ultimo, dopo una iniziale, strenua, resistenza, sceglie di sacrificare se stesso per rendere possibile la liberazione di alcuni suoi compagni di prigionia (Valentini, 2006, p. 12). L’espressione “Che vivano liberi e felici…” si trova in Korczak (1994, p. 41); “Ho fiducia in loro” in Florenskij (2006, p. 261). Altre sono le opere dei due Autori, cui si è fatto particolare riferimento: Korczak 1996 e Florenskij 2009.

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comportamenti.Tramandate a noi in pagine indimenticabili, tali relazioni di minuta quotidianità – assonanti col nucleo innovativo della Convenzione, il diritto di ascolto-partecipazione, messo a tema nella giornata – riflettono un intero mondo di valore: tutta la ricchezza, tra sguardo scientifico e senso del mistero, di una percezione simbolica del reale, cui anche oggi dovremmo particolarmente educare (Bonaccorso, 2012) e prima di tutto educarci. Attingere a queste esemplarità di vita ci è parsa una via sicura, da un lato, per ricordare degnamente mete – l’adozione internazionale della Convenzione e la sua ratifica italiana – della stagione dei diritti umani che tutto deve a intuizioni geniali e sacrifici personali di individui e gruppi nel plurisecolare processo dall’antichità ai nostri giorni (Papisca, 2002, pp. 2130), dall’altro, per cogliere suggerimenti su cui far leva per fronteggiare, all’interno di una generale crisi entropica (Zamagni, 2009), l’attuale emergenza educativa (Benedetto XVI, 2008; Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, 2009; Dalle Fratte, Macchietti, 2008), alle prese, fondamentalmente, con la questione del senso. In primo piano si pone la necessità di recupero della fiducia fondamentale (Erikson, 1966), che struttura e sostiene il rapporto tra le generazioni, nella consapevolezza che adulti e bambini possono trovare gli uni negli altri dei “maestri”: di “fiducia irriflessa”, originario dono dell’infanzia (von Balthasar, 1992, p. 76), che sgorga naturale e si sviluppa nella cura amorevole; di fiducia nutrita di consapevolezza e riflessività, faticosa conquista adulta nello scorrere degli anni e delle esperienze Con efficacia Marìa Zambrano (2000, pp. 148-149) dà voce a questo principio-cardine della relazione umana: “il modo migliore di trattare con la persona è la fiducia fondamento della fede. E quando questa va perduta, il rapporto personale diventa impossibile. La fede è l’atteggiamento che corrisponde al futuro, è il modo di gestirlo, di aprirgli il cammino. Le radici dovrebbero aver fede nel fiore, se la pianta realizzasse il suo sforzo in maniera cosciente”. E proprio un albero frondoso, allegramente circondato da bambine giapponesi, e da una teneramente abbracciato – il delicato dipinto di Toyomi Nara –, è l’immagine che compare nel manifesto del nostro Convegno4. Nella linfa che scorre su su nel tronco per dar luogo al miracolo della primavera pare potersi materializzare il trapasso creativo di intenzionalità tra generazioni: il processo attuativo di potenzialità umane, favorito dal4

L’opera “Va’ e abbraccia un albero” (2009) è stata presentata nella V Edizione della Rassegna Internazionale di Illustrazione “I colori del sacro” (2009-2010), a Padova (www.icoloridelsacro.org), curata da Andrea Nante, il quale, anche in questa occasione, ha bene orientato la nostra scelta. Toyomi Nara è cortesemente intervenuta al Convegno.

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l’educazione autentica, il quale, dal mondo antico a quello contemporaneo, da Aristotele a Martha C. Nussbaum5, ha i tratti di una non meno stupefacente fioritura. Che si configuri come intervento di primo piano, diretto e concreto, o in alternanza come presenza di sfondo, attenta e non intrusiva, dall’atteggiamento adulto dovrebbe comunque poter trasparire sempre quella disposizione interiore di fiducia e attesa, che, invece, nell’odierna caduta di speranza, alcuni segnali nel nostro ambiente sconfessano di continuo. Cosa dicono, infatti, l’ansiogena e monotona pianificazione quotidiana, la restrizione della libera esplorazione di spazi, tempi e relazioni umane, la ricorrente rivincita del ludiforme sul ludico (Agazzi, 1980), il primato del “produttivo” e del quantitativo, mortificanti i tempi dell’ascolto e del racconto, delle complicità e convivialità tra le generazioni? Cosa esprimono, se non una sottile sfiducia su ciò che proviene liberamente dall’opinione e dall’iniziativa di bambini e bambine, ragazze e ragazzi? Se non un soffocamento della loro libera intraprendenza? Se non una disistima del loro contributo nella costruzione della nostra società? Ora, in particolare i diritti civili, di libertà, sanciti dalla Convenzione (artt. 12-17), ormai comunemente detti, nel linguaggio specialistico, diritti di partecipazione, esprimono fiducia nelle nuove generazioni6. Per questo, nel ricordare i vent’anni dalla legge 176/1991, è sembrato opportuno scegliere, come focus d’approfondimento, proprio il criterio della partecipazione, attiva e collaborativa, di bambini e adolescenti, il cui primo gradino è il loro rispettoso ascolto (Occhiogrosso, 2009, p. XXI). Ascolto, partecipazione, fiducia, dunque: dimensioni indispensabili per la vita di persone e comunità (dalle famiglie alle scuole, dai gruppi associativi alle realtà territoriali), e quindi di società, che, restando radicate nella buona tradizione, aspirino realmente a rinnovarsi.

2. Il programma delle due sessioni di lavoro Ma veniamo in dettaglio al programma (www.educazione.unipd.it/chevivanoliberiefelici) dell’incontro oggetto di queste note, promosso da più soggetti istituzionali uniti da tempo in una rete collaborativa: i Centri interdipartimentali di Pedagogia dell’Infanzia e di Ricerca e Servizi 5

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Illustrando l’idea aristotelica di felicità – svolgere bene, secondo virtù, la propria funzione lungo tutta la vita – Berti (2010, p. 43) scrive che “la metafora del fiorire è [...] molto frequente nei moderni interpreti di Aristotele, perché consente di paragonare il suo concetto di felicità a quello di vita fiorente (flourishing life)”. Cfr. Nussbaum (1990). Capofila dei diritti di partecipazione è l’articolo12 della Convenzione; nel loro ambito, alcuni autori (cfr. Hart, 2004) fanno rientrare anche gli articoli 29 e 31.

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per i Diritti della Persona e dei Popoli, il Dipartimento di Scienze dell’Educazione, dell’Università di Padova, e il Comitato Regionale Veneto per l’Unicef7. I lavori hanno preso avvio da saluti tanto autorevoli quanto sentiti8 e previsto l’articolazione in due sessioni (dedicate a Relazioni e a Ricerche, Esperienze, Laboratori), peraltro illustrate nel momento introduttivo, che nel loro insieme manifestano l’attenzione sia al confronto multidisciplinare, grazie a contributi pedagogici, filosofici, giuridici, sociologici e psicologici, sia alla dimensione internazionale, con voci provenienti da Svizzera e Francia e indirettamente da altri Paesi, sia al dialogo tra sapere accademico e sapere delle buone pratiche connotate in senso educativo e sociale. Ad una relazione di carattere filosofico è stata affidata l’apertura della prima sessione di lavoro9. La prospettiva indagata da Giorgio Bonaccorso considera globalmente l’ascolto – come “evento che riguarda le forme espressive, verbali ed extraverbali, della vita” – nel suo senso più originario e nei suoi particolari linguaggi. L’intreccio profondo tra vita e ascolto emerge nitido dall’approfondimento in primo luogo delle caratteristiche dell’ascolto, evidenziate secondo le due variabili di “chi ascolta” – ascolta chi sa cogliere la diffe-

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Si segnala il patrocinio al Convegno da parte di: Comune di Padova, Provincia di Padova, Provincia di Rovigo, MIUR, Ufficio Scolastico Regionale per il Veneto – Direzione Generale, Facoltà Teologica del Triveneto, Centro Ecumenico italo-russo “Vladimir Solov’ëv” di Padova, Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Padova. Si segnala inoltre l’accreditamento del Convegno da parte dell’Ordine degli Avvocati di Padova. 8 Da parte dell’Università di Padova, sono stati programmati i saluti di: Giuseppe Zaccaria, Magnifico Rettore; Giuseppe Milan, Direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione e del Centro Interdipartimentale di Pedagogia dell’Infanzia; Giuseppe Micheli, Preside della Facoltà di Scienze della Formazione; Marco Mascia, Direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca e Servizi sui Diritti della Persona e dei Popoli (o Centro Diritti Umani); Carla Xodo, Presidente del Centro Italiano di Ricerca Pedagogica. In rappresentanza di altre istituzioni, gli interventi di: Alfredo Zannini, Presidente del Comitato Regionale Veneto per l’Unicef; Aurea Dissegna, Pubblico Tutore dei Minori del Veneto. Chi scrive ha introdotto e concluso il Convegno. 9 Prima sessione – Relazioni: G. Bonaccorso (Istituto di Liturgia Pastorale “S. Giustina”, Padova), La vita come ascolto; N.Valentini (Istituto di Scienze Religiose “A. Marvelli”, Rimini), L’arte di educare in Pavel A. Florenskij; Intermezzo di Passi scelti di Florenskij, Lettura di S. Fiorio (regista e attrice teatrale, che collabora con l’Università di Padova); K. Hanson (Kurt Bösch University Institute, Sion), Children’s living rights / translations; L. Spina (Consigliere della Corte di Appello di Brescia, Sezione “Minori e Famiglia”), Ascolto del minore d’età e giustizia. Coordinamento dei lavori della sessione: P. De Stefani (Università di Padova). Occorre precisare che quanto si viene dicendo, da ora in avanti, sui singoli interventi, si basa sui testi raccolti nel Book of abstracts, distribuito ai partecipanti al Convegno (www.educazione.unipd.it/chevivanoliberiefelici).

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renza e aprirsi all’immaginazione – e di “chi si ascolta” – si ascolta il linguaggio, l’altro, se stessi, il silenzio –, e in secondo luogo dei linguaggi dell’ascolto – quello metaforico e poetico (intensità del linguaggio) e quelli musicale, spaziale, iconico (espansione del linguaggio). La pedagogia di Florenskij – nel quadro della dovuta ricostruzione di un’opera scientifica e filosofica, che gli ha meritato l’appellativo di “piccolo Leonardo” o “Pascal russo”, e di una vicenda umana senza eguali – è stato il tema trattato da Natalino Valentini. Un’acuta comprensione dell’infanzia, capace, a differenza del mondo adulto, di “una percezione estetico-simbolica, una “conoscenza mistica” e ontologica del mondo […] concentrata nella ricerca dell’unità sostanziale delle cose”, sta alla base della vera e propria arte di educare di questo gigante del pensiero e padre affettuoso, che vive in maniera esemplare il valore del rapporto interpersonale d’amicizia, della “ricerca inesauribile della perfezione, della cura interiore, della pienezza di senso e di gusto spirituale della vita”. Cornice intensa e suggestiva a questi fondamenti filosofico-pedagogici, in particolare alla parte dedicata a Florenskij, è stata la lettura, da parte di Serena Fiorio, di passi tratti da Non dimenticatemi (Florenskij, 2006). Accompagnati da un sottofondo musicale quanto mai appropriato10 e dal continuo scorrere, in un grande schermo, di fotografie dell’Autore – ritratto alla scrivania, al pianoforte, soprattutto con i suoi familiari, in particolare i bimbi più piccoli –, i testi di struggente profondità hanno consentito di rivisitarne il pensiero, affascinando il folto pubblico. La semplice miscellanea ha raccolto brani del Testamento spirituale e soprattutto delle Lettere (maggio 1933 – giugno 1937), sottoposte a censura, inviate a tutti i familiari – la moglie Anna, i figli Vasilij (e la giovane moglie Nataša, con il piccolo Pavel che il nonno non avrebbe conosciuto), Kirill, Ol’ga, Michail, Marija-Tinatin, la mamma Ol’ga –, e toccato i più svariati temi, a riprova di una genialità poliedrica e di una sconfinata umanità. L’impronta socio-giuridica ha connotato, invece, la ripresa dei lavori dopo la pausa. Con la relazione di Karl Hanson si è entrati nel vivo della tematica specifica dei diritti dei bambini. Critica rispetto alla consueta impostazione, che concepisce l’attuazione della Convenzione in modo unidirezionale, come trasposizione dall’alto verso il basso – dai documenti internazionali alle implementazioni a livello nazionale e locale –, la lettura proposta considera anche una visione diversa relativa ai diritti umani, “che parta dalla concettualizzazione di tali diritti operata dagli stessi bambini (i diritti viventi – living rights)”11 e tenda a realizzare un più proficuo processo

10 La scelta dei brani musicali è stata curata da Serena Fiorio, mentre da parte di chi scrive è stata effettuata la scelta dei passi dalla citata opera di Florenskij. 11 Cfr. il recente lavoro Hanson, Poretti (2012).

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circolare e interattivo, dall’alto e dal basso. Di una ricerca interdisciplinare allora in corso, su questi temi, sono stati presentati gli interessanti risultati nel frattempo raggiunti. Infine, la questione attualmente molto dibattuta dell’ascolto del minore di età in ambito giudiziario è stata trattata, anche con riferimento a casi paradigmatici, da Luciano Spina.Vero e proprio diritto soggettivo in capo a bambini e adolescenti, a partire dalla Convenzione di New York (art. 12), tale diritto, ribadito a livello europeo in particolare dalla Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti dei fanciulli del 1996 (art. 6), è stato recepito dalla normativa italiana (l. 176/1991; l. 77/2003). Il cammino percorso in questi ultimi anni ha consentito di passare da una considerazione di generica facoltatività a una previsione di vera e propria obbligatorietà, da parte del giudice, dell’ascolto del minore, ovviamente in conformità con il suo superiore e migliore interesse12. Come coordinatore dei lavori del mattino, Paolo De Stefani ha offerto, dal punto di vista normativo-istituzionale, sollecitazioni per un ascolto dei minori al di là dei modelli giudiziario e clinico, oggi prevalenti, i quali, inducendo necessariamente la correlazione tra ascolto di bambini/adolescenti e situazioni molto problematiche, fanno correre il rischio, non infrequente, di “criminalizzare-vittimizzare” o “patologizzare” l’infanzia. A tali approcci occorre affiancare abituali forme di ascolto educativo, sociale e politico dei soggetti di minore età, come singoli e come gruppo sociale, in linea con le indicazioni del General Comment n. 12 e le esperienze maturate nella pratica pre-giurisdizionale dei Garanti dei diritti dell’infanzia (De Stefani, 2009). La conduzione dei lavori del pomeriggio è stata affidata a Valerio Belotti, cui si devono numerosi studi e ricerche sulla partecipazione dei “cittadini in crescita” nelle sue articolazioni (partecipazione sociale e negli ambiti della vita quotidiana) (Presidenza del consiglio dei ministri et alii, pp. 3-30; www.minori.it). Basti pensare all’indagine campionaria sulla partecipazione negli spazi della quotidianità di oltre ventimila ragazze e ragazzi italiani direttamente interpellati: ampio lavoro sociologico, confluito – insieme a una rilevazione delle iniziative di partecipazione sociale promosse da scuole e amministrazioni, nelle medesime zone dell’indagine campionaria – in un Quaderno del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Istituto degli Innocenti di Firenze (Belotti, 2010). All’inizio di questa seconda sessione13, la proiezione del video “Edu-

12 Cfr. Unicef 2012. Il testo raccoglie gli esiti di un percorso di formazione organizzato, nel 2011, dal Consiglio Superiore della Magistratura. 13 Seconda sessione – Ricerche, Esperienze, Laboratori: Proiezione del video Educarsi all’ascolto e alla partecipazione tra micro-generazioni, Adria, 2011 (Presentazione di E. Mag-

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carsi all’ascolto e alla partecipazione tra micro-generazioni” (www.educazione.unipd.it/chevivanoliberiefelici)14 ha permesso di illustrare al pubblico, in modo più completo rispetto alla semplice comunicazione orale, gli esiti di un percorso di educazione ai diritti umani effettuato in contesto scolastico (Adria, febbraio-aprile 2011). Elettra Maggiolo, che ha svolto in prima persona, in collaborazione con altri15, questo intervento formativo coinvolgente adolescenti e bambini, ne ha proposto un’interpretazione pedagogica complessiva, mentre alcune studentesse liceali, a nome dell’intera classe, presente al Convegno, hanno messo in luce la risonanza emotiva e cognitiva che l’esperienza ha avuto in loro. Quanto alle voci dei bambini, che non hanno potuto raggiungerci a Padova, ci si è dovuti limitare a quelle raccolte nel video. A seguire, si è aperto lo spazio a contributi che assumono anche la funzione di rappresentare le linee di indirizzo e lavoro di organizzazioni e istituzioni particolarmente impegnate in favore dell’infanzia e dell’adolescenza, a livello globale, sovranazionale, nazionale. Nell’ordine: l’Unicef – Comitato italiano per l’Unicef di Roma; la Fondazione L’Albero della Vita, realtà con sede a Milano, operante in varie parti d’Italia e del mondo (Congo, Haiti, India, Indonesia, Kenya, Perù, Romania); le Maisons Départementales des Adolescents (MDA), istituite nei diversi Dipartimenti in Francia, dal 2005 (nell’ordine: www.unicef.org; www.alberodellavita.org; mda44.free.fr/2009/). giolo, Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione, Università di Padova); Ch. Baker (Comitato italiano per l’Unicef, Roma), Come garantire una vera partecipazione dei bambini e degli adolescenti; L. Bartoletti e I. Abbruzzi (Fondazione L’Albero della Vita, Milano), L’Ora dei Diritti: intercultura, partecipazione e sviluppo; P. Cottin e M. Chibrac (Maison Départementale des Adolescents, Nantes), Accompagner les positions subjectives des adolescents. Le Maisons des Adolescents, un nouveau concept français; Presentazione a più voci di attività e studi svolti dai gruppi di lavoro, nell’ambito della Ricerca di Ateneo, di cui alla nota 2. Coordinamento dei lavori della sessione:V. Belotti (Università di Padova). 14 Il video è stato curato da Elettra Maggiolo e Emanuela Toffano, alle quali si deve la condivisa progettazione dell’intera proposta formativa, che, nello spirito della L. 285/1997 (in particolare art. 7 “Azioni positive per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”), contribuisce all’attuazione della L. 169/2006 (in particolare art. 1 “Cittadinanza e Costituzione”). Da segnalare che il video e gli altri materiali relativi al Convegno, e ad altre nostre iniziative, sono stati depositati, su richiesta, presso il Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, Istituto degli Innocenti di Firenze. 15 Con Elettra Maggiolo hanno collaborato, oltre a chi scrive, le insegnanti Chiara Mauro (anche dottoranda di ricerca dell’Università di Padova) e Giulia Scarlatti. L’intervento è stato possibile grazie alla disponibilità collaborativa delle scuole coinvolte, in particolare dei dirigenti:Antonio Lodo (Liceo Classico Statale “C. Bocchi”) e Paolo Ruzza (Istituto Comprensivo Adria 2) e delle insegnanti: Elisabetta Bocchini (Liceo “Bocchi” Indirizzo Socio-psicopedagogico), Manuela Melato, Daniela Cordella, Patrizia Van de Castel, Ilaria Meneghini, Teresa T. Atti (Scuola primaria Istituto Comprensivo Adria 2).

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Sull’effettiva garanzia del diritto di partecipazione si è concentrato l’intervento di Christoph Baker. Nel tentativo di mettere a punto programmi metodologicamente corretti, capaci di evitare il pericolo, sempre incombente, di strumentalizzazione, se non di manipolazione, dei processi partecipativi dei ragazzi, l’Unicef da tempo promuove mirate progettualità (ad esempio la nota iniziativa globale Child Friendly City, dal 1996) e si occupa della “definizione di standard minimi, basati sull’esperienza maturata in ogni parte del mondo”. Efficaci strumenti di ascolto dei ragazzi, e tangibile considerazione, nonché restituzione, circa i pareri e i suggerimenti da loro espressi, “chiedono” agli adulti un cambiamento di prospettiva e l’adozione di coerenti misure concrete. Il contributo di Laura Bartoletti e Ivano Abbruzzi si è soffermato sulla scelta de “L’Albero della Vita” di realizzare una gamma di progetti diversamente connotati: da quelli “socio-assistenziali, di solidarietà sociale e di advocacy” a quelli di sensibilizzazione su temi relativi all’infanzia e ai suoi diritti, o più specificamente di educazione/formazione rivolti ai ragazzi e alle loro figure educative di riferimento. Una sottolineatura merita “Pianeta nuovo”, un articolato programma per l’educazione allo sviluppo e alla cittadinanza attiva in contesto scolastico, al cui interno risalta il laboratorio “L’Ora dei diritti” di connotazione interculturale, che nel privilegiare una “metodologia narrativo-fantastica, ludica e interattiva” tende a innescare reali processi partecipativi. Una spiccata attenzione sociale all’età adolescenziale – interprete il Difensore dei diritti dell’infanzia – ha sollecitato la creazione in Francia, presso ogni Dipartimento, di una Maison Départementale des Adolescents. L’intervento di Patrick Cottin e Mélanie Chibrac ne ha ricostruito la fase istitutiva e in particolare illustrato il servizio offerto dalla MDA di Nantes – Département Loire-Atlantique, in cui essi operano: uno spazio di accoglienza gratuita degli adolescenti, anche in forma anonima, e delle loro famiglie; un punto di riferimento per operatori professionali e ricercatori. Elemento qualificante il lavoro dell’équipe medico-psico-sociale è proprio “l’ascolto ‘incondizionato’, in cui si innesta la proposta di un accompagnamento” che permetta di superare la condizione di sofferenza e non compromettere “la promessa di futuro che è l’adolescenza”. Nell’economia di queste note, alla presentazione a più voci degli studi, indagini e interventi, condotti nel corso della Ricerca di Ateneo già menzionata, possiamo dedicare soltanto un sintetico cenno. Degli argomenti sviluppati dai diversi gruppi di lavoro fra il 2009 e il 2011, quelli proposti al Convegno sono stati i seguenti: a) un approccio valutativo sull’attuazione, tra leggi e politiche, della Convenzione in Italia; b) l’adempimento da parte del nostro Paese degli obblighi internazionali in materia di diritti di minori di età nel “dialogo costruttivo” con il Comitato internazionale sui diritti del bambino (nell’affrontare questi due temi, particolare attenzione è stata riservata alla legge istitutiva del Garante

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nazionale, di cui l’Italia, sollecitata in tal senso a più riprese a livello internazionale, si è finalmente dotata con la legge 12 luglio 2011, n. 112, quindi solo successivamente al Convegno); c) gli esiti in progress di un’indagine qualitativa – intorno a quattro nuclei tematici: l’educazione, l’educazione ai diritti umani, l’ascolto e la partecipazione (artt. 29, 12-17, 31 della Convenzione) –, realizzata in diverse zone del Veneto, mediante interviste ad adulti con ruolo educativo e forum, alcuni di bambini e altri di adolescenti; d) le fasi iniziali di un’indagine quantitativa, sui medesimi temi, attraverso lo strumento del questionario, già del tutto predisposto. Coordinate in ambito universitario patavino da Paolo De Stefani, Anna Maria Manganelli, Emanuela Toffano, Orietta Zanato, studiosi di diversi ambiti disciplinari (rispettivamente: giuridico, psicologico, pedagogico, didattico), le attività di questi filoni di ricerca hanno visto in particolare la partecipazione di Andrea Bobbio (ricercatore) e Andrea Frosi, Monica Gazzola, Elettra Maggiolo, Chiara Mauro (collaboratori a vario titolo con l’Università di Padova), nonché di Roberta Ruggiero, coordinatore dell’European Network of National Observatories on Childhood (www.childoneurope.org). L’ultima parola del Convegno-2011 è stata affidata all’arte. Non a un vero proprio spettacolo teatrale, come era accaduto nel Convegno-2009 (con Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertolt Brecht), ma almeno a un semplice rinvio al film Andrej Rublëv (1966) di Andrej Tarkovskij, ambientato nella Russia del Quattrocento e ispirato alla vita del monaco (1360-1430), celeberrimo pittore di icone. Degli otto momenti, racchiusi fra prologo ed epilogo, in cui si articola la trama, è l’ultimo a richiamare la nostra attenzione: “La costruzione della campana”. Durante questo episodio, proprio l’incontro con Boriska – il giovane audace e tenace, che osa gettarsi nella difficile impresa, senza in realtà conoscere il segreto paterno della fusione della campana, ne attende tesissimo e inquieto il primo rintocco e, nel successo, si abbandona a un pianto liberatorio – convince il monaco Rublëv a tornare a dipingere per il bene del popolo. L’invito rivolto al ragazzo “Ce ne andremo via insieme, io e te. Tu potrai fondere campane, io dipingerò icone”, dice qualcosa di significativo della reciprocità generazionale, uno dei temi centrali della nostra giornata. Il riferimento al film costituisce un ulteriore omaggio a Florenskij, grande studioso di icone, vissuto, come con ogni probabilità Rublëv, a Sergiev Posad presso il Monastero della Trinità di San Sergio, massimo centro spirituale della Chiesa ortodossa russa. 3. Qualche riflessione conclusiva Se si deve agli adulti il primo passo per iniziare il tratto di strada da percorrere con i bambini, via via negli anni, e per riprenderlo a ogni contrasto

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e smarrimento, ai bambini non rimane mai un ruolo di secondo piano, passivo o residuale. Un rimbalzo continuo lega, infatti, peculiari capacità di risposta: la risposta adulta al richiamo della cura delle giovani generazioni e del futuro da queste incarnato; la risposta infantile agli inviti educativi, per una vita piena, da non lasciar cadere nel vuoto. Nella responsabilità primaria di chi educa si innesta quasi naturalmente la progressiva responsabilità di bambini e adolescenti, in rapporto a se stessi, agli altri, al mondo, solo che le esperienze e richieste che li coinvolgono e interpellano – contraddistinte da validità intrinseca, stile positivo e propositivo, gradualità e proporzionalità sensate, rispetto dei ritmi e modi di ciascuno – non manchino della fiducia adulta: l’impulso originario e il filo conduttore, cui le generazioni vecchia e giovane, sostenendosi l’una con l’altra, debbono la possibilità di creare in modo condiviso, oggi, un domani degno. Inequivocabile Florenskij: “li amo tutti egualmente, a tutti penso con eguale affetto – scrive alla moglie dei loro figli – e ripongo la mia fiducia in tutti. Questi miei sentimenti non cambierebbero neanche se qualcuno, per qualche tempo, dovesse deludere le mie speranze, proprio perché ciò non può che essere un fatto provvisorio”. E ancora: “tutte le idee scientifiche che mi stanno a cuore sono sempre state suscitate in me dalla percezione del mistero. […] Per questo ti ho scritto a più riprese che non ti devi preoccupare per i bambini e che io ho fiducia in loro: anche in loro, infatti, deve abitare l’istinto del pensiero scientifico, che si basa su questo sentimento di ciò che è misterioso e viene da esso alimentato; è un sentimento inspiegabile, ma che non delude” (Florenskij, 2006, pp. 244 e 261). La sua fiducia si estende dai figli a tutte le età della crescita, in particolare all’infanzia, dato che conservarla è “il segreto della genialità”, la chiave di una “percezione obiettiva del mondo, […] una sorta di prospettiva rovesciata” (ibid., p. 400), che “supera la frammentazione del mondo dal di dentro” (Florenskij, 2009, p. 127). Colpisce molto, di questo scienziato-teologo, anche l’acuto senso delle priorità, che induce a subordinare ogni opera, per quanto grande, all’autentica amicizia. Quali possono essere, allora – ci chiediamo avviandoci alla conclusione – alcuni degli aspetti pedagogicamente significativi sottesi ai lavori e agli incontri realizzati dal gruppo di ricerca, specie a quelli proposti a un ampio pubblico, con riguardo all’ultimo qui illustrato16? A cosa ha portato riflettere insieme sul progetto pedagogico della Convenzione, a vent’anni

16 Diversi sono stati i momenti di carattere seminariale, tra i membri del gruppo di ricerca dell’Università di Padova e di altre Università e Istituzioni, talora aperti alla Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze Pedagogiche, dell’Educazione e della Formazione dell’Università di Padova. Fra questi incontri, particolarmente degno di

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dallo storico traguardo del 1989, sulla scorta iniziale dei numerosi studi al riguardo (fra gli altri, Belotti, Ruggiero, 2008; Unicef, 2009)? Risalta il valore insito nel tentativo di avvicinare, sempre di nuovo, l’infanzia e l’adolescenza, dando ad esse credito attraverso il loro ascolto e coinvolgimento; di interpellare, al contempo, quel mondo adulto, che, con rispetto, entusiasmo, riflessività, accompagna queste età; di costruire l’intreccio fiducioso delle generazioni, che l’apertura alla partecipazione, sancita dalla Convenzione, implica; di toccare con mano, almeno un poco, quanto emerge dalle buone pratiche partecipative attuate in tanti angoli del pianeta: “in presenza di una partecipazione concreta nella famiglia, a scuola, nella comunità e nella società, i bambini e i giovani riferiscono di avere più fiducia in se stessi, di essere più consapevoli, più disponibili a servire e lavorare con gli altri e più ottimisti sul futuro proprio e del mondo” (Unicef, 2002, p. 14). Durante la realizzazione del biennale Progetto di Ricerca (nelle diverse attività e in questo Convegno, come nel precedente), si sono potute intravedere e sviluppare tracce dell’immaginazione trasformativa, alla quale è indispensabile attingere sempre anche in educazione. Dal punto di vista metodologico, è risultato efficace, nonché apprezzato, il tentativo attentamente perseguito di intersecare piani fra loro differenti: le ricerche teoriche e le indagini/esperienze sul campo; gli studi in vari ambiti scientifici e le aperture ai linguaggi dell’arte; le peculiari ottiche adulta e infantile/adolescenziale; le diverse realtà geografiche e culturali; l’attualità educativa in dialogo con l’eredità dei classici. In particolare, lungo il nostro percorso, spiccano le eredità di Pavel A. Florenskij e Janusz Korczak: di chi non ha mancato l’appuntamento con il “sì” e il “no” dei giusti negli snodi abissali del Novecento17.

menzione, accanto ai due Convegni citati in questo scritto, è stato il Seminario Internazionale “Sul perdono. Un dialogo tra psicologia, filosofia, diritto, pedagogia. Incontro con Robert Enright (Professor of Educational Psychology at the Universty of Wisconsin-Madison)”, svoltosi a Padova, il 22 gennaio 2010 (Toffano Martini, 2010b; www.educazione.unipd.it/chevivanoliberiefelici). 17 Il riferimento è alle parole di Hannah Arendt “Si può sempre dire un sì o un no”, divenute il motto del Giardino dei Giusti del Mondo, inaugurato a Padova, il 5 Ottobre 2008. Ispirato al celebre Giardino dei Giusti presso il Museo “Yad Vashem.World Center for Holocaust Research, Documentation, Education and Commemoration” di Gerusalemme, il parco è stato realizzato dal Comune di Padova, nell’ambito del progetto “Padova Casa dei Giusti” (Padua Home of Righteous), avviato nel novembre 1999. Nel giardino si celebra la memoria di “ciascun Giusto con una pianta, proprio perché l’idea di piantare un albero, e quindi il concetto di generare una vita, riprende quella di aver dato la possibilità a un uomo di salvarsi, di poter vivere, di poter testimoniare il bene ricevuto davanti alle successive generazioni” (www.padovanet.it). Ritorna qui, dunque, la figura dell’albero, sul cui significato simbolico ci siamo soffermati nel Convegno del 2009 (Toffano Martini, 2012, pp. 85-86) e, con altra sfumatura, in queste pagine.

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Nel momento dell’opzione etica decisiva, allorché lo scenario politico-sociale-culturale dei loro Paesi mostrava segni involutivi, perché disumani, essi scelsero di affrontare il destino rimanendo a fianco delle comunità loro affidate. Ebbero così inizio, in una sofferenza crescente, che la possibile via dell’esilio avrebbe facilmente potuto risparmiare a entrambi, cammini esistenziali intrisi della forza straordinaria che li avrebbe condotti, passo dopo passo, a dare volontariamente la vita. Con ciò testimoniando la verità dell’intelligenza d’amore (Limiti, 1996, p. 9;Valentini, 2009, p. 27) che rende pienamente umana la storia delle persone e dei popoli e ogni avventura educativa. Le loro pedagogie, luminose nelle cecità totalitarie della nostra storia recente, contengono elementi irrinunciabili: riscoprirli nel disorientamento attuale può aiutarci a trovare – ne siamo certi – una giusta direzione.

Prima sessione dei lavori. Da sinistra a destra: Natalino Valentini, Karl Hanson, Paolo De Stefani, Giorgio Bonaccorso, Luciano Spina

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Pubblico presente al Convegno

Presentazione del video Educarsi all’ascolto e alla partecipazione tra micro-generazioni. Da sinistra a destra: Elettra Maggiolo, Studentesse del Liceo “C. Bocchi” di Adria, Elisabetta Bocchini, Emanuela Toffano

Emanuela Toffano Martini


Seconda sessione dei lavori. Da sinistra a destra: Laura Bartoletti, Ivano Abbruzzi, Valerio Belotti, Christoph Baker, Patrick Cottin, Mélanie Chibrac

Nota bibliografica Agazzi A. (1980). Gioco e socializzazione. Scuola Materna, 5, pp. 277-280. Balthasar H.U. von (1992, postumo). Se non diventerete come questo bambino. Quattro meditazioni cristologiche. Casale Monferrato: Piemme. Belotti V., Ruggiero R. (a cura di) (2008). Vent’anni d’infanzia. Retorica e diritti dei bambini dopo la Convenzione dell’Ottantanove. Milano: Guerini e Associati. Belotti V. (a cura di) (2010). Costruire senso, negoziare spazi. Ragazze e ragazzi nella vita quotidiana. Questioni e Documenti: Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, n. 50. Firenze: Istituto degli Innocenti. Benedetto XVI (2008). Lettera del Santo Padre alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione.Vaticano, 21 gennaio (www.vatican.va/holy_father/benedictus_xvi/letters/2008/documents/hf_benxvi_let_20080121_edu cazione_it.html). Berti E. (2010). Alle radici del concetto di “capacità”: la Dunamis di Aristotele. In C. Xodo, M. Benetton (a cura di), Che cos’è la competenza? Costrutti pedagogici, pedagogici e deontologici (pp. 31-44). Lecce: Pensa MultiMedia. Bonaccorso G. (2012). L’educazione simbolica. In E.Toffano Martini, P. De Stefani (a cura di),“Che vivano liberi e felici…”. Il diritto all’educazione a vent’anni dalla Convenzione di New York (pp. 271-277). Roma: Carocci. Comitato italiano per l’Unicef (2012). L’ascolto dei minorenni in ambito giudiziario. Roma: Stampa Arti Grafiche Agostini.

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Riferimenti normativi Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rights of the Child) adottata dall’Assemblea delle Nazioni Unite a New York, con Risoluzione 44/25 del 20 novembre 1989 ed entrata in vigore il 2 settembre 1990. Legge 27 maggio 1991, n. 176 Ratifica ed esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, pubblicata nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale, n. 135 dell’11 giugno 1991. Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996. Legge 28 agosto1997, n. 285 Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 207 del 5 settembre 1997. Legge 20 marzo 2003, n. 77 Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 91 del 18 aprile 2003. Legge 30 ottobre 2008, n. 169 Conversione in legge con modificazioni, del decretolegge del 1º settembre 2008, n. 137, recante disposizioni urgenti in materia di istruzione e università, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 256 del 31 ottobre 2008. Legge 12 luglio 2011, n. 112 Istituzione dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, n. 166 del 19 luglio 2011.

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La figura dell’educatore nella promozione dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni Rovigo 25-26 ottobre 2012 di Emma Gasperi

A fronte del costante aumento della popolazione anziana in Europa (secondo le stime Eurostat del 2010, un terzo dei cittadini europei entro il 2050 sarà anziano), organismi internazionali quali ONU, UNESCO, OMS e Unione Europea denunciano la scarsa integrazione sociale e partecipazione politica dell’anziano e quindi sollecitano i governi nazionali ad attuare con urgenza politiche sociali lungimiranti, all’insegna dell’invecchiamento attivo (active ageing), atte a valorizzare la risorsa anziana e a garantirle una migliore qualità della vita attraverso il potenziamento delle “opportunità di salute, di partecipazione e di sicurezza” (OMS, 2002). L’anziano ha diritto di godere di condizioni sociali che garantiscono la sua dignità, indipendenza, cura, autorealizzazione e piena partecipazione alla vita della collettività, anche svolgendo attività di lavoro o di volontariato (ONU, 1995). A tal proposito, si profila la necessità di avviare un cambiamento culturale all’insegna dell’invecchiamento attivo, che investa tutte le generazioni e tutti i settori sociali, allo scopo di: – scardinare un’immagine sociale dell’anziano ancora legata allo stereotipo del vecchio inattivo, improduttivo, isolato, tuttora confermata da ricerche italiane (Censis, 2007, 2011) e internazionali (Levy et alii, 2002; Barret, Cantwell, 2007; Horton et alii, 2007; Umphrey, Robinson, 2007), a favore di una sua immagine più realistica, di persona che non solo ha diritto a condurre una vita sana, dignitosa, indipendente, socialmente e culturalmente appagante, ma anche che, malgrado il naturale e graduale decadi- mento psico-fisico, possiede intelligenza, creatività, capacità ed esperienza da mettere a disposizione della comunità;

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– mantenere e potenziare l’integrazione dell’anziano nel tessuto familiare, sociale ed economico, prevenendo così l’esclusione sociale, e quindi la solitudine e l’isolamento, fattori gerotossici d’accelerazione dell’invecchiamento (Pinto Minerva, 1974) e, secondo le ricerche italiane (Allario, 2003; Vaccaro, 2006; Censis, 2010), prima causa di decadimento psico-fisico nella terza età; – promuovere la coesione sociale, travalicando le frontiere intergenerazionali, in particolare quelle tra anziani e giovani, incrementate anche dall’attuale crisi economica; incoraggiare quindi il dialogo e la solidarietà intergenerazionali (Tramma, 1989; Guidolin, 1995; Caporale, 2004; Luppi, 2008; Cesa-Bianchi, Cristini, 2009; Baschiera, 2011) attraverso azioni educative mirate a favorire l’incontro e la collaborazione tra le generazioni (ONU, 2002). È stato a partire da siffatte considerazioni che l’UE ha scelto di promuovere – proclamando il 2012 “Anno europeo dell’invecchiamento attivo e della solidarietà tra le generazioni” (GU L 246/5 del 23.9.2011) – la diffusione di una cultura dell’invecchiamento attivo e sostenibile attraverso l’adozione di specifiche misure, tra le quali (GU L 246/5 del 23.9.2011, comma 3): • la realizzazione di campagne di sensibilizzazione (informative, promozionali e educative) e occasioni di dibattito (conferenze, manifestazioni e iniziative) per un maggior riconoscimento dei diritti e del potenziale di risorse costituito dagli anziani; • lo “scambio di informazioni, di esperienze e di buone prassi, ricorrendo, tra l’altro, al metodo di coordinamento aperto e alle reti dei soggetti interessati impegnate nel conseguimento degli obiettivi dell’Anno europeo”; • la ricerca e le indagini su scala regionale, nazionale o a livello dell’Unione e la diffusione dei risultati. Alla luce degli orientamenti internazionali e delle indicazioni europee, e nella convinzione che sia necessario ripensare anche secondo una prospettiva pedagogica l’identità e la funzione sociale dell’anziano, si è deciso di realizzare un Convegno che, coinvolgendo le risorse territoriali, faccia il punto sul ruolo che l’educatore può giocare nella promozione dell’invecchiamento attivo e di momenti di scambio e confronto intergenerazionale. L’esigenza che si delinea è, infatti, quella di strutturare iniziative di educazione alla e nella terza età (Guidolin, 1988, Forquin, 2004, Luppi, 2008, Gasperi, 2011), che coinvolgano la cittadinanza, soprattutto gli anziani e i giovani, nonché i servizi educativi territoriali dedicati all’età avanzata; tali iniziative, oltrepassando le frontiere anagrafiche alla ricerca di nuovi terreni di confronto e condivisione tra le diverse età e le rispettive culture (Amplatz, 2010), dovrebbero configurarsi come intergenerazionali e includere l’educazione al realismo, al senso della propria dignità, alla solitudine, alla salute, all’amicizia, alla disponibilità, alla ricerca del senso, al tempo libero, al tempo futuro (Caporale, 2004). In tale prospettiva il Convegno rappresenta un’occasione per riflettere su

Emma Gasperi


una figura specifica, quella dell’“educatore sociale e animatore culturale”, preparata nel Corso di laurea in Scienze dell’educazione e della formazione dell’Università degli Studi di Padova presso la sua sede di Rovigo, attraverso un apposito percorso volto a maturare conoscenze, abilità e competenze – di natura pedagogico-progettuale, metodologico-didattica e comunicativo-relazionale – abilitanti a programmare e realizzare interventi in grado di rispondere alla crescente domanda educativa espressa dalla comunità e dai servizi alla persona, ivi compresa quella che a vario titolo chiama in causa gli anziani. Proprio perché sede di questo specifico percorso formativo, si è scelta la città di Rovigo quale luogo per aprire uno spazio di riflessione e di dibattito, esteso anche alle Associazioni e agli Enti operanti nel territorio del Veneto, sul contributo che l’educatore sociale e l’animatore culturale potrebbero fornire in termini di potenziamento e arricchimento, offrendo ulteriori possibilità di sviluppo, alle iniziative in atto. Il Convegno costituirà inoltre un’occasione per valorizzare i partenariati esistenti nella Regione tra Provincie, Comuni e Associazioni, promotori di progetti d’integrazione e di partecipazione attiva delle persone anziane alla vita della comunità e al dialogo intergenerazionale.

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Emma Gasperi


Alberto Barausse (a cura di) Il libro per la scuola dall’Unità al fascismo. La normativa sui libri di testo dalla legge Casati alla riforma Gentile (1861-1922) 2 volumi, Macerata, Alfabetica, 2008, pp. 1389

Seconda uscita nella collana Fonti e Documenti della Biblioteca del “Centro di documentazione e ricerca sulla storia del libro scolastico e della letteratura per l’infanzia” dell’Università degli Studi di Macerata, i due volumi dell’opera curata da Alberto Barausse rappresentano uno strumento molto prezioso per gli studi di settore. Con minuziosa acribia, infatti, è stata raccolta tutta la legislazione – non solo leggi, decreti e ordinanze ministeriali, ma anche circolari, regolamenti ed elenchi dei libri approvati e di quelli respinti dalle varie commissioni – concernente la delicata questione della manualistica scolastica e dei libri di testo dal 1861 al 1922. Si tratta di una documentazione ricchissima, finora utilizzata solo in minima parte in sede storiografica a causa soprattutto della difficoltà di reperimento e della mole davvero ingente di disposizioni normative. Il lavoro certosino di recupero delle fonti, infatti, è stato condotto in larga parte presso l’Archivio Centrale dello Stato e presso la Biblioteca del Ministero della Pubblica Istruzione. L’opera è introdotta da un approfondito e documentato saggio in cui Barausse, sulla scorta della documentazione raccolta, ricostruisce la storia della normativa che ha regolato l’adozione dei libri di testo nelle scuole italiane dall’Unità all’avvento del fascismo. È una storia intricata, caratterizzata da iniziali incertezze e dai contorni a volte poco definiti, tali da lasciare margini ad iniziative non sempre limpide da parte di editori ed autori. È ben noto, infatti, come il mercato editoriale scolastico nel nostro Paese sia stato contraddistinto da una significativa frammentazione, in particolar modo per quanto riguarda il settore dell’istruzione primaria, cui si contrappose l’egemonia di marchi strategicamente impegnati a coprire tutti gli ambiti scolastici. Come testimoniato da quel fondamentale strumento rappresentato dal TESEO, il repertorio dei tipografi e degli editori ottocenteschi con interessi scolastico-educativi (opera in due volumi curata da Giorgio Chiosso, nel 2003 e 2008, per i tipi dell’Editrice Bibliografica di Milano), non solo ogni capoluogo di provincia, ma anche molti centri minori videro la nascita di modesti tipografi, eclettici quanto a catalogo e privi di una coerente linea editoriale, che si occuparono della stampa e della diffusione dei libri di testo

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scritti dal maestro o dal direttore della locale scuola. Sono manuali dalla diffusione assai limitata, circoscritta all’ambito provinciale quando non comunale, tuttavia dalla fortuna a volte duratura. A fronte di questa proliferazione di marchi medio-piccoli, nata sulla scorta di una normativa che aveva consentito quella “tropicale ricchezza delle flora libraria” da più parti denunciata, si contrappose la lobby degli editori, specialmente torinesi – il principale polo editoriale fino alla seconda guerra mondiale – milanesi e fiorentini. La “speculazione al minuto fatta in ciascuna provincia” da queste ditte, abili nell’approfittare dell’oggettiva fragilità delle imprese centro-meridionali e delle condizioni asfittiche del mercato editoriale, era stata permessa, secondo la denuncia di Pasquale Villari, dalle carenze e dalle ambiguità di una normativa che concedeva troppo spazio all’interpretazione. L’ampia libertà nella scelta e nell’uso dei libri di testo, infatti, aveva finito per indurre molti consigli scolastici provinciali ad esercitare “una sorveglianza di pura forma”, per adottare la formula dello storico napoletano. Un significativo tentativo di regolamentare maggiormente la materia venne nel 1881 dal ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli, il quale con decreto 17 agosto 1881 istituì una Commissione centrale col compito di definire il criterio per la scelta dei manuali e di formare gli elenchi dei libri approvati. Nonostante l’alacre lavoro, il progetto del Baccelli di rendere permanente la Commissione si scontrò con le corporative posizioni assunte da autori ed editori, ma anche con le reazioni del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, orientato a rivendicare le tradizionali prerogative in materia di libri di testo. Tornato alla Minerva dopo un decennio, Baccelli dovette quindi riscontrare il moltiplicarsi di una vegetazione folta e incomposta, per rimanere nella metafora giù utilizzata, “protetta da una rete di interessi vastissimi, i quali con le ragioni della scuola hanno poco a vedere e molto meno poi con l’educazione intellettuale e morale”, una rete che si manteneva tenacemente abbarbicata e si moltiplicava, “alimentando un gran numero di speculatori e di mestieranti che dei testi per le scuole sembrano essersi fatto monopolio”. Come è facilmente intuibile solo da questi brevi accenni, l’evoluzione della normativa sulle adozioni investe una molteplicità di interessi e di ambiti; i suoi risvolti, infatti, non si limitano al mondo della scuola e della didattica, ma si allargano fino a concernere la storia di un settore assai significativo dell’industria del nostro Paese qual è l’editoria scolastica, legata a doppio filo all’ambiente politico e a quello culturale degli autori e degli illustratori. A complemento di questo lavoro di raccolta così pregevole, l’autore annuncia la prossima pubblicazione di due volumi dedicati alle relazioni, ai pareri e agli atti delle commissioni per i libri di testo dall’Unità al fascismo. [di Fabio Targhetta]

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Emanuela Toffano Martini e Paolo De Stefani (a cura di) “Che vivano liberi e felici…” Il diritto all’educazione a vent’anni dalla Convenzione di New York Roma, Carocci, 2012, pp. 480

Il volume comprende due parti: la prima raccoglie gli Atti di un Convegno internazionale, svoltosi presso l’Università di Padova nel 2009, in occasione dei vent’anni della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (New York, 1989); la seconda sviluppa tematiche che spaziano in diversi piani (istituzionale-normativo, etico-filosofico, sociologico, psicologico, pedagogico, storico-culturale e ambientale). Sono state evitate – come indicato nella prefazione – le “facili derive retoriche e autoreferenziali” e ciò è avvenuto proprio per merito delle tre fasi che hanno scandito l’intero svolgimento del lavoro e testimoniato un dialogo costruttivo tra Università e territorio: la fase di preparazione (il pre-convegno), la fase di realizzazione (il convegno celebrativo), la fase di prosecuzione e di riflessione ulteriore (il post-convegno). In tal modo, il volume costituisce il testo scientifico più aggiornato intorno al problema dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e conferma la fecondità progressiva della Convenzione internazionale, “lo strumento a tutt’oggi più rilevante a tutela e promozione delle prime età nel mondo” (p. 69). Nella parte relativa agli Atti risulta originale la scelta di iniziare la prima sessione – dopo la relazione di apertura di Emanuela Toffano, vera e propria sintesi del significato e delle finalità del Convegno – con l’intervento di Sigrid Tschöpe-Scheffler dedicata alla pedagogia del rispetto di Janusz Korczak,“interprete difficilmente eguagliabile di una pedagogia dell’ascolto e della partecipazione dei bambini” (p. 68) e di chiudere l’intera e ampia documentazione con le pagine di Brunilde Neroni riguardanti il “bambino armonioso” di Rabindranath Tagore. La passione educativa, tutt’una con l’amore per l’essere umano, del medico-educatore polacco e l’arte poetica dello scrittore indiano si incontrano per mostrare ciò che l’indifferenza non vede: l’unicità inesauribile dell’umano e il diritto ad essere riconosciuta e valorizzata. La parola poetica fa pensare con più intensità. Sia gli scritti di carattere generale che la presentazione della varietà di riflessioni ed esperienze nei settori in cui si opera per l’infanzia e con l’infanzia (le comunità di accoglienza, il carcere, i media, il gioco, il gruppo associativo, la realtà urbana, la condizione giuridica del minore straniero ecc.) rinviano ad una cultura dell’infanzia e dell’adolescenza che si traduce in cultura dell’umano e, quindi, in educazione-formazione. La convinzione profonda è che l’essenza dell’uomo è la sua educazione-formazione; in altre parole questa è coessenziale all’esistenza, affinché l’esistenza stessa diventi la vita di ciascuno, in termini di originalità, di creatività, di libertà.

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Una raccolta di saggi, di esperienze, di prospettive, così vasta e focalizzata su un tema immenso, potrebbe essere analizzata e presentata da vari punti di vista. Ma sarebbe materialmente impossibile darne qui conto. Quindi ne ho scelto uno solo: quello del diritto come occasione di un dovere, di cui è traccia in vari contributi del volume e che costituisce un tema sotteso all’intero impianto della ricerca, che non manca di affrontare i profili giuridici della condizione minorile. Folgorante l’osservazione di Simone Weil: “Un uomo, considerato di per se stesso, ha solo dei doveri. Gli altri, considerati dal punto di vista di quest’uomo, hanno solo dei diritti”. In prospettiva pedagogica, l’adulto è colui che riconosce i propri doveri (assunzione di responsabilità) verso il minore, il fragile, il bisognoso; è colui che prende coscienza che la persona, in senso evolutivo, è originariamente un soggetto di responsabilità. Il bambino, infatti, viene a riconoscersi nella propria dignità, nella misura in cui gli viene riconosciuta da altri; è come dire che, perché egli possa veder riconosciuti i propri diritti, bisogna che prima qualcuno riconosca i propri obblighi nei suoi confronti. L’educazione è il campo dove l’esercizio di un dovere promuove la coscienza della dignità dell’uomo e dei suoi diritti. Essere adulti ed essere educatori coincidono; l’adultità è la capacità di proiettarsi fuori di sé, di avere tempo per l’altro, di aprire orizzonti di crescita, di promuovere – ai vari livelli evolutivi – risposta alla domanda: “Chi sei?”, rivolta ad ogni nuovo venuto al mondo. Si tratta di aiutare la vita a sbocciare in ognuno, nella libertà e nella responsabilità. Rimane da segnalare, al termine del volume, una nutrita bibliografia che conferma la sapiente attenzione che ne ha accompagnato la preparazione, suggerita sempre dalla visione della capacità umanizzante del bambino. [di Ermenegildo Guidolin]

Granata Anna (a cura di) Intercultura. Report sul futuro Roma, Città Nuova, 2012, pp. 212

“Tenere insieme unità umana e diversità delle culture” (p. 5). Questo è il presupposto teorico dal quale prende avvio e intorno al quale si snoda il testo, il cui scopo è quello di “contribuire a diffondere l’idea che la pluralità è oggi la norma entro la nostra società, mentre l’omogeneità è una forma di coercizione che rischia di annullare le differenze e silenziare le voci fuori coro” (p. 6). La ricorsività tra mondo dell’esperienza e riflessione teorica, unitamente alla interdisciplinarità degli “sguardi”, sono gli elementi qualificanti l’intreccio delle due sezioni che compongono il testo. “Quale ruolo ha la dimensione culturale nei processi educativi? E […] come possono le relazioni interculturali divenire occasione di crescita e formazione di chi le vive?” (p. 16). Sono questi gli interrogativi di fondo ai quali i conStudium Educationis • anno XIII - n. 2 - giugno 2012 • recensioni


tributi della prima parte cercano di rispondere, proponendo un “viaggio” interdisciplinare “entro i luoghi quotidiani dell’incontro interculturale” (p. 24), quali: la scuola (Caterina Martinazzoli); il “fare scuola” all’interno di un campo rom (Alice Sophie Sarcinelli); la famiglia con particolare attenzione al bi/plurilinguismo dei minori di origine non italiana (Afef Hagi); la città (Anna Granata e Elena Granata); la rete internet (Anna Granata e Magda Pischetola); le reti amicali (Davide Girardi). Si tratta di campi di esperienza diversi che tuttavia ritrovano nell’“approccio interculturale di ‘seconda generazione’ il proprio filo conduttore” (p. 24). Passando dal campo dell’esperienza a quello della riflessione teorica, scopo della seconda parte è quello di “andare ai fondamenti di una società che possa dirsi propriamente interculturale”, cercando di rintracciare alcune fondamentali “virtù civiche” mediante le quali riuscire a trasformare “le differenze culturali in un elemento vitale da mettere in gioco per il bene di tutti” (p. 122). Colte e interpretate in una prospettiva interculturale, tali “virtù civiche” si snodano lungo un percorso di riflessione puntellato da alcune parole relazionali e “prospettiche”, quali: • aprire la mente (Michele De Beni) per educare a un “pensiero meditante”, “sensato”, capace di “pensare per essere”; • ospitalità (Giuseppe Milan), intesa come “gioco dinamico” in cui la semantica stessa della parola “ospite” (nel suo duplice significato di “colui che dà ospitalità” e di “colui che viene ospitato”) “è il riconoscimento dell’appartenenza dell’ospitalità alla dialogicità” (p. 140); • dialogo (Marina Santi), inteso come costrutto antinomico che ritrova proprio nell’esperienza del dialogare la sua “mediazione pragmatica”, il suo significato più autentico di saper “stare sulla soglia”, quale esperienza che nel limitare al tempo stesso apre all’incontro con l’altro; • custodire (Francesco Grandi) come azione per “riconoscere il carattere strutturalmente interculturale della storia umana” (p. 172); • partecipazione (Ivo Lizzola) come “postura ampia e profonda nella vita” (p. 190) che si esprime nella “capacità generativa” di “[dare] senso alle esperienze trasformando le nostre vite personali e comunitarie in narrazioni, in storie” (p. 194); • sconfinare (Elena Granata) come capacità di “ripensare il senso dei confini”, come costante “esperienza di viaggio” e come “possibilità di superare le frontiere”. La pregnanza umana ed etica che tali “virtù civiche” rivelano e prospettano, unitamente all’attenzione costantemente rivolta al mondo dell’esperienza, offrono un utile ed importante contributo per educare ed educarsi a trasformare i “confini” che quotidianamente caratterizzano le relazioni ad ogni livello del vivere personale, sociale, culturale, in reali occasioni di riconoscimento reciproco, di incontro e di co-progettazione condivisa. [di Margherita Cestaro]

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Finito di stampare nel mese di GIUGNO 2012 da Pensa MultiMedia Editore s.r.l. Lecce - Brescia www.pensamultimedia.it


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