Rivista lasalliana
Trimestrale di cultura e formazione pedagogica anno 76, n. 1, gennaio-marzo 2009
RL
Rivista lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, in particolare in area italiana ed europea, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi sulle Fonti lasalliane e aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. E’ redatta da un comitato di Lasalliani e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche e universitarie della Regione Euro-Mediterranea. Rivista lasalliana trimestrale fondato in Torino nel 1934 anno 76, n. 1, gennaio-marzo 2009 Direzione e redazione Rivista lasalliana, Via Aurelia 476, 00165 Roma fpajer@lasalle.org – telefoni: 06 66523305 – 06 665231 Riviste in cambio e libri in recensione: Rivista lasalliana, Casella Postale 9099, 00167 Roma Gruppo redazionale Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Flavio Pajer Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, Mario Presciuttini, Roberto Zappalà Comitato scientifico Emilio Butturini (Verona), Robert Comte (Lyon), Sergio De Carli (Varese), Lluís Diumenge (Barcellona), Mario Ferrari (Pavia), Teódulo García Regidor (Madrid), Pedro Gil L.(Bilbao), Edgard Hengemüle (Porto Alegre), Herman Lombaerts (Leuven), Vito Moccia (Torino), José M. Pérez Navarro (Madrid), Lino Prenna (Perugia), Gerard Rummery (Australia), Jean-Louis Schneider (Lyon), Lorenzo Tébar Belmonte (Paris). Amministrazione Editore: Associazione culturale lasalliana: Elio Pomatto, Viale del Vignola 56, 00196 Roma gabriele.pomatto@gmail.com – telefoni 06 32294503 – 3471033855 – fax 06 3236047 Abbonamenti Ordinario in Italia (4 numeri trimestrali da Gennaio a Dicembre 2009) € 24.00 - Riservato ai Docenti lasalliani € 12.00 - Sostenitore € 50.00 - Estero € 30.00 ($ 36) - Un numero separato € 7.00, arretrato € 8.00 Conto corrente postale n. 12378113 intestato a ACL Associazione culturale lasalliana Composizione, stampa, spedizione Graphisoft, Via Labicana 29, 00184 Roma – tel.067001450 – fax 0677255402 www.graphisoft.it - info@graphisoft.it – M. Proetto art director Registrazione Tribunale di Torino 26.01.1949 n.353 -Tribunale di Roma 12.06.2007 n.233 Direttore responsabile Flavio Pajer Periodico associato all’USPI, Unione Stampa Periodica Italiana ISSN 1826-2155 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (convertito in L 27.02.2004 n.46) art.1 comma 2.
2009, n. 1 (301) RICERCHE E STUDI 7 25 43
Francesco Trisoglio, La catechesi popolare: san Pietro Crisologo Robert Comte, La générativité. À la racine de l’attitude éducative Herman Lombaerts, L’enseignement de la religion démystifié?
Transitions sans retour en Europe occidentale et en Europe de l’Est
PROFESSIONE DOCENTE 59
Lluís Diumenge, Etica per educatori/1: Arte – Biologia – Corpo
71 87 95
Marco Paolantonio, Autoformazione/4 : Un metodo per insegnare Lorenzo Tébar Belmonte, Es la hora de ‘aprender a aprender’ Roberto Alessandrini, Copiare, correggere, inventare. Errori e utopia
Scienza-Tecnica
della precisione
107 Ugo Basso, Orientamento in uscita 113 Anna Lucchiari, Ripristinare o riformare? Fumus verbis
LASALLIANA 123 Marco Paolantonio, Leone di Maria, FSC (1892 - 1969) 139 José M. Pérez Navarro, José J. Rodríguez Medina, FSC (1926 - 1984) 145 Antonio Botana, Caminos para compartir carisma y misión en la educación
BIBLIOTECA 157
T. Allert – M. R. Castellani – M. Celli – E. Damiano – A. De Vidi – R. Guidi – C. Pavese –B. Rossi – B. Salvarani – S. Valitutti – B. Vertecchi – Università Salesiana (ed.) 169 Francesco Pistoia, Democrazia, istituzioni, scuola nelle Cronache sociali
di Dossetti
Libri pervenuti
Sommario FRANCESCO TRISOGLIO
7-24
La catechesi popolare: san Pietro Crisologo - Come vescovo e come omileta, si fa
esegeta: parla attraverso la Scrittura, fa arrivare ai suoi contemporanei la perennità della rivelazione inserendola nella contingenza dell'epoca, ripronuncia il messaggio evangelico con accenti moderni. In un singolare parallelismo col catechista dei tempi moderni, Pietro si trova davanti un pubblico assai variegato sotto ogni aspetto; egli affronta la difficoltà di stabilire un dialogo idoneo ad agganciare le più disparate capacità e disponibilità recettive impostando il suo discorso su alcuni criteri di fondo. Si mostra chiaro nella spiegazione dei testi e perspicuo nella loro esposizione; è distinto nel linguaggio per un riguardo sia alla dottrina che al suo pubblico, dal quale esige tuttavia una riflessione partecipe; procura di essere attraente per alimentare l'attenzione; alterna varietà di toni per evitare l’assopimento; coinvolge gli uditori chiamandoli a condividere i problemi; vivacizza il rapporto con apostrofi che personalizzano l’idea generale; coglie lucidamente le situazioni sociali e psicologiche della sua gente; si sforza di evitare la frammentarietà aiutando a scorgere il quadro unitario e coerente di asserti; si mostra equilibrato nelle esigenze morali e nello spingersi fino all'orlo del mistero senza ignorarlo e senza forzarlo; più che parlare lui, fa parlare il testo biblico; trasforma la sua lezione in una comunicazione di spiriti; soprattutto trasfonde quel fervore che gli urge nell'animo.
ROBERT COMTE
25-42
La générativité. À la racine de l’attitude éducative - La generatività è la sfida che
devono affrontare gli adulti giunti all’età della piena maturità e che quindi si trovano a dover esercitare responsabilità più o meno gravose. Ad una analisi della dimensione psicologica della generatività (nella linea della Scuola di E. Erikson), segue un chiarimento sull’ampiezza semantica del concetto, a sua volta declinato in alcuni affondi esemplificativi di natura antropologica. Nella parte centrale del saggio l’a. si serve del concetto di generatività per “leggere” il ruolo dell’insegnante-educatore come colui che è in qualche modo il generatore di cultura, di etica, di identità, concludendo opportunamente sulla fondamentale distinzione tra efficacia e fecondità in educazione: la prima è attenta alla correttezza procedurale e valuta i risultati in termini di traguardi quantitativi ed è perciò subalterna a una visione strumentale dell’educazione; la seconda mira decisamente al primato della qualità e della significatività, cioè a quel processo sorgivo e creatore dell’azione dell’educare, che coincide appunto con il generare a vita piena e libera altre persone.
HERMAN LOMBAERTS
43-58
L’enseignement de la religion démystifié ? Transitions sans retour en Europe occidentale et en Europe de l’Est - Scopo dell’articolo è di individuare alcuni sintomi
del cambiamento dello statuto dell’insegnamento della religione in ambito scolastico. In generale, finora, l’importanza e l’autorevolezza del corso di religione era legittimato dalle autorità ecclesiali e civili. Istituzioni e insegnanti, genitori ed alunni non avevano che da rispettare questo stato di fatto. Invece oggi diverse indagini in vari paesi europei mostrano chiaramente come questa situazione sia diventata paradossale e, al limite, impraticabile. I corsi non corrispondono alle intenzioni, non fruttano i risultati attesi, farebbero anzi più danni che altro…I dati qui presentati mostrano in che modi e in che misura tanto gli insegnanti come gli allievi ‘interpretano’ lo statuto del corso e come ricorrano a strategie mentali e pragmatiche per sdebitarsi di fronte agli obblighi istituzionali. Interessante è costatare che ormai le stesse tendenze si possono riscontrare sia in Europa occidentale che in quella orientale.
LLUIS DIUMENGE
59-70
Un minilessico di Etica per educatori. 1/ Arte, Biologia, Corpo, ScienzaTecnica - Inizia con questi cinque concetti chiave una serie di una ventina di lemmi destinati a ricostruire un profilo sobrio e aggiornato di un’Etica per educatori di giovani e docenti di scuola. L’attenzione è posta sugli aspetti maggiormente evolutivi e innovativi della cultura contemporanea, in modo da fornire agli educatori un quadro concettuale sintetico, poco più che allusivo, ma anche sufficientemente esplicativo, per reimparare un linguaggio etico che non tradisca i principi di sempre ma che soprattutto non ignori il diverso approccio culturale che l’uomo d’oggi, specie l’adolescente, è in grado di adottare per appropriarsi di un senso per vivere. MARCO PAOLANTONIO
71-86
Autoformazione. 4/Un metodo per insegnare - L’articolo conclude la trattazione a
puntate successive sull’autoformazione del docente (cf. RL 2008/1,2,3). Il problema del metodo, qui inteso come mediazione educativa oltre che didattica, è affrontato attraverso un riesame della lezione tradizionale, la proposta di forme alternative e di elementi che possono agevolare una cooperazione dei docenti nella progettazione e nella programmazione dei saperi e degli interventi educativi. In particolare, la mediazione educativa viene articolata analiticamente in un insieme organico di passaggi da operare: dal Pof al curricolo, dal gruppo classe all’interclasse, dalla collegialità formale alla cooperazione effettiva, dalla disciplinarità all’interdisciplinarità, dalla didattica d’aula alla didattica d’ambiente, dalla verifica diagnostica alla valutazione sommativa.
LORENZO TEBAR BELMONTE
87-93
Es la hora de “aprender a aprender” - Il problema numero uno della didattica è quello
di trovare un metodo corretto ed efficace non solo per trasmettere un capitale di saperi codificati (le discipline), ma per creare nell’alunno l’habitus del pensare, senza il quale non si ha persona matura. L’alunno ha in sé un potenziale di apprendimento: si tratta di attivarlo e portarlo al pieno sviluppo. L’educazione è sempre azione e trasformazione. In questo il ruolo dell’insegnante è di fungere da mediatore dell’apprendimento, che, per diventare significativo e continuativo nel tempo, deve correlarsi e avvalersi del sostrato emotivo, biografico, simbolico di tutta la persona.
ROBERTO ALESSANDRINI
95-106
Copiare, correggere, inventare. Errori di scrittura e utopia della precisione -
L’errore di grafia, azzardano i linguisti, è più grave dell’errore di ortografia perché mentre il secondo sporca la comunicazione, il primo la rallenta e a volte la impedisce. Numerosi sono gli errori che si possono compiere scrivendo, come documenta una lunga serie di indicazioni e consigli rivolti ai copisti, e alle distrazioni dei grandi narratori si aggiungono talvolta gli eccessi di scrupolo dei tipografi e la fretta che accompagna il lavoro editoriale. Per questo un correttore di bozze può essere l’allegoria di qualcuno che intende correggere il mondo confidando nell’esattezza, nella verificabilità e nell’utopia della precisione.
UGO BASSO
107-112
Orientamento in uscita - La scelta degli studi post-secondari si rivela problematica per
molti giovani. Il mondo del lavoro esige flessibilità di competenze non meno che continuità di formazione (longlife learning). Fin dagli anni conclusivi delle secondarie gli studenti vanno ‘orientati’ non solo in base alla domanda sociale prevalente o all’utilitarismo del mercato delle professioni, e nemmeno solo in base alla spontaneità inesperta e irriflessa dell’indole personale, ma in forza anche di fondate esperienze di adulti-consiglieri e di precise analisi prospettiche relative all’ambito professionale nel quale si intende investire il proprio futuro.
ANNA LUCCHIARI
113- 120
Ripristinare o riformare? - Fumus verbis – Stili di insegnamento fai da te - Il mondo della scuola offre svariati spunti d’attualità per richiamare diritti conculcati e doveri disattesi, per notare incongruenze e lamentare lacune nella amministrazione come nella catego-
ria dei docenti. Dall’abuso del pedagoghese invalso nella burocrazia all’arbitrio di certe cosiddette riforme provenienti da viale Trastevere, c’è spazio non solo per qualche battuta ironica ma per una sana indignazione della coscienza civica, non senza concrete indicazioni per ottimizzare la pratica professionale.
MARCO PAOLANTONIO
123-138
F. Leone di Maria, FSC (1892-1969) - A quarant’anni dalla morte, viene rievocata la
figura di un eminente catechista e formatore di catechisti, e insieme di un fine studioso della metodologia catechetica ispirata alla secolare tradizione didattica della Scuola lasalliana e rigenerata, nel Novecento, al contatto con il movimento nazionale e internazionale delle Scuole attive. In questa nota, alla ricostruzione dei tratti biografici fanno seguito una selezione di titoli che documentano una cospicua e poliedrica produzione bibliografica e una serie di autorevoli testimonianze di studiosi contemporanei che assegnano a fratel Leone [al secolo Teresio Napione] un riconosciuto posto d’onore nella storia della catechesi italiana del secolo XX.
JOSE’ MARIA PEREZ NAVARRO
139-143
Hno. José J. Rodríguez Medina, FSC (1926-1984) - L’articolo fa memoria, a 25
anni dalla prematura morte, di una personalità lasalliana di spicco nella storia del rinnovamento catechistico postconciliare della Spagna e dell’area ibero-americana. Formatosi teologicamente presso i migliori centri europei del secondo dopoguerra, Hno Medina diventa il docente di riferimento nei primi decenni di vita dell’Istituto Superiore San Pio X prima a Salamanca e poi a Madrid. Ha lasciato opere che hanno segnato il cammino della teologia pastorale e riorientato la prassi ecclesiale della nuova generazione di catechisti e di insegnanti di religione del secondo Novecento.
ANTONIO BOTANA
145-156
Caminos para compartir carisma y misión en la educación - Dal lemma missione
condivisa – in auge da una ventina d’anni nel vocabolario di molte congregazioni insegnanti e non – si passa oggi a preferire la dizione condividere carisma e missione. Qual è il senso e la
portata di tale declinazione? La presente riflessione – nata nel travaglio di un prolungato confronto con i diversi livelli amministrativi della congregazione lasalliana negli ultimi tre lustri – tenta di contestualizzare i termini dell’assunto, problematizza le soluzioni sperimentali adottate o tuttora in corso, valuta le ricadute che l’istituzione deve attendersi sia in sede di profilo canonico delle nuove comunità educative, che in ambito di spiritualità e professionalità, ancora largamente da inventare.
BIBLIOTECA Recensioni e segnalazioni
157-173
RICERCHE E STUDI
RivLas 76 (2009) 1, 7-24
LA CATECHESI DEI PADRI DELLA CHIESA / 4*
La catechesi popolare : san Pietro Crisologo Francesco Trisoglio, fsc
S
an Pietro Crisologo nacque ad Imola verso il 380; vi fu nominato vescovo probabilmente tra 424 ed il 429 e probabilmente morì il 31 luglio 451. Abbiamo di lui 179 Sermoni, pubblicati in edizione critica da A. Olivar, Corpus Christianorum, ser. lat. XXIV-XXIVB, Brepols Turnhout, 1975-1982, ed una Lettera ad Eutiche1, nella quale rifiuta di aderire alla sua impostazione monofisita sulla persona di Cristo, invitandolo ad attenersi alla dottrina del Papa, Leone Magno, perché il beato Pietro, che esercita la sua presidenza nella propria sede, offre la verità della fede a quelli che la cercano. Il suo episcopato si presentò subito particolarmente difficile per il disparato divario che esisteva tra i suoi fedeli dei quali avvertiva la responsabilità: vi erano infatti com-
1
Della Lettera c'è l'edizione in PL 54,739-754, riportata con introduzione, testo, traduzione, note di C. Truzzi nell'edizione bilingue dei Sermoni, in Scrittori dell'area Santambrosiana, Milano-Roma, 1997, vol. III, pp. 337-343. Dei Sermoni abbiamo la traduzione piuttosto libera di A. Pasini, Cantagalli, Siena 1953 e quella eccellente di G. Banterle in Scrittori dell'area Santambrosiana, 3 volumi, 1996-1997.
Francesco Trisoglio
8
presenti l'imperatore Onorio, i dignitari della corte imperiale, i membri dell'alta amministrazione statale, i diplomatici bizantini che mantenevano i contatti con il governo di Costantinopoli, i commercianti che affluivano alla capitale dell'Impero occidentale, trasferita da Milano a Ravenna nel 402, numerosi ariani, una ragguardevole colonia giudaica, i lavoratori del porto, gli artigiani urbani e la popolazione agraria della campagna. Pietro risolse sagacemente il problema della predicazione usando un linguaggio forbito, in una sintassi fondamentalmente semplice, che suonava riguardo tanto per la nobiltà delle verità proposte quanto per la dignità degli ascoltatori e la loro idoneità di comprensione2. La situazione si aggravava però ulteriormente a causa dell'atmosfera inquietante che incombeva su questo pubblico così composito. L'Occidente dava segni manifesti di una decadenza senile, dalla quale non si vedevano indizi di ripresa. Qualche decennio prima era crollata la frontiera danubiana, aprendo ai barbari l'invasione del fiorente Illirico; poi caddero le difese sul Reno, riducendo l'Impero al residuo dell'Italia, dell'Africa, presto invasa dai Vandali, e della Gallia meridionale. Alla vigorosa personalità di Teodosio, che sapeva ancora rintuzzare i barbari, seppure ricorrendo ad altri barbari, erano succedute pallide figure quali Onorio (394-423) e Valentiniano III (425455), che non riuscivano ad infondere vita in questo organismo debilitato, ormai ridotto ad una macchina burocratica, fortemente centralizzata, dura ed esosa verso una popolazione sempre più povera e scarsa3. A questa gente, che viveva sotto l'incubo di nuove invasioni barbariche4, dinanzi alla fatiscenza dell'autorità politica e civile non restava più che la forza morale ed il prestigio di quella religiosa. Pietro rispose a quest'ansia diffusa stando vicino alla sua comunità e partecipando alla sua vita. In questa situazione egli si coinvolse; infatti in Serm. 167,3 p.1096,32-35, in contrapposizione con la nuova età che Giovanni Battista annunziava, contempla la decadenza mortale nella quale vedeva languire la società contemporanea: "Il mondo, sfinito nell'estrema vecchiaia, è svuotato di forze, lascia cadere le membra, perde l'alacrità mentale, è tormentato dai dolori, respinge la cura, muore alla vita e vive ai malanni, lamenta, gridando, il proprio esaurimento, documenta la propria fine"5. 2
È noto quanto i fedeli gustassero l'eloquenza fine e signorile dei loro vescovi, da Torino (Massimo), a Milano (Ambrogio), a Brescia (Gaudenzio), a Verona (Zenone), ad Aquileia (Cromazio). Era un sentirsi rispettati e valorizzati; il godimento estetico si apriva naturalmente in simpatia verso il messaggio. 3
Cfr. R. Benericetti, introd. all'edizione-traduzione di G. Banterle, pp.13-14.
4
Difatti Attila, re degli Unni, dopo aver trattato con arroganza Valentiniano III, nel 451 invase la Gallia, nel 452 distrusse Aquileia e s'inoltrò fino al Mincio, dove gli venne incontro Papa Leone Magno, ritornandosene poi in Pannonia, dove morì poco dopo. 5
La senescenza del mondo morente era un topos letterario che trovava in Lucrezio II,11501170 (Iamque adeo fracta est aetas effetaque tellus... omnia paulatim tabescere et ire / ad capulum spatio aetatis defessa vetusto) la sua insuperabile autorevolezza, ma qui nel motivo letterario s'inserisce l'esperienza. Pietro esprimeva con chiarezza quello che tutti sentivano con una sorda inquietudine.
La catechesi popolare: san Pietro Crisologo
9
A questa consunzione delle strutture e delle energie terrestri non si poteva rispondere collocandosi sul suo stesso terreno; le parole umane erano impotenti, non restava allora che ricorrere a quelle onnipotenti di Dio che risuonano nella Bibbia. Perciò Pietro, come vescovo e come omileta, si fece esclusivamente esegeta; parlò attraverso la Scrittura; fece arrivare ai suoi contemporanei la perennità della rivelazione inserendola nella contingenza dell'epoca. Trovò che non c'era nulla di più vitale e di più tonico della parola di Dio, che egli ripronunciò con accento moderno6.
Inserimento nell'ambiente Pietro suscita l'impressione che la sua voce sia quella della sua gente; non comunica un qualcosa dall'esterno, lo fa sorgere dal loro stesso interno; vuole sopprimere i diaframmi. È uno di loro; vive la loro stessa vita. Ravenna era una città che si reggeva sul commercio marittimo e Pietro rievoca il mercante che lascia a casa la famiglia, affronta le tempeste del mare per riapprodare al porto con il guadagno (Serm. 8,1 p. 59,3-7). In parallelo accenna al servizio militare, realtà che incideva molto in tante famiglie: illustrando la saggezza di trasferire i proprii beni dalla terra al cielo mediante la misericordia, si chiede con una vivezza pervasa di meraviglia: "Quale soldato non manda in patria tutto ciò che guadagna con i faticosi disagi della guerra per compensare le privazioni della giovinezza con una vecchiaia piena di soddisfazioni?"7. Molti erano impiegati nella calafatura delle navi nell'arsenale e Pietro si aggancia per inculcare il digiuno quaresimale: vede le navi dei loro corpi riattate da quell'austerità (60,2 p. 336,21-22). Accanto agli artigiani della città, ad ascoltare venivano i contadini dei dintorni: quasi chiamandoli direttamente in causa, Pietro osserva la risurrezione dei corpi in controluce con la vicenda della coltivazione agricola: la croce è aratro per il nostro corpo, la fede è seme, il solco sepolcro, la dissoluzione germe... quando arriverà la primavera della venuta del Signore, la florida maturità dei nostri corpi risorgerà in una messe piena di vita... (103,4 p. 642,57-63). Per spiegare che spesso i nomi dei santi ne specificano subito i meriti, richiama i cartelli piantati all'estremità dei poderi a dichiararne il possessore (154,1 p. 958,3-5). L'albero sterile che proietta un'ombra dannosa sulle viti sottoposte denuncia l'uomo di governo ignavo che apporta rovina, in quanto con il suo esempio corrompe coloro che lo seguono (106,2 p. 658,27-31). Con grande libertà di spirito e puntualità di analisi, pone sotto gli occhi delle massime autorità governative, delle quali esamina i doveri e le colpe, che il loro potere è sog6
A. Solignac, Dict. de Spiritualité 12,1985, col.1546, dichiara: "Basta alla sua gloria di essere stato un buon commentatore della parola di Dio per mantenere nei fedeli l'autenticità della vita cristiana". 7
Serm. 54,7 p. 304,121-123. Dinanzi al gravame della coscrizione militare prospetta poi che nell'era escatologica ci sarà un regno dove l'esercito non si perpetua con nuove leve e dove le dignità saranno perpetue (144,9 p. 885,103-104).
10
Francesco Trisoglio
getto al giudizio di Dio (26,5 p.151,77-93). In città operava però anche un tribunale degli uomini, dal quale, per sua natura, emanava un sentore di minaccia e Pietro ritrae l'ansia che coglie chiunque, per quanto si sappia in regola, all'arrivo di un messo del giudice (88,2 p. 541,13-17) e, nel richiamarsi ad un'esperienza diffusa, ricostruisce la procedura di un interrogatorio in sede giudiziaria (17,4 p.104,65-68)8. La questione dei soldi era naturalmente uno degli stimoli che maggiormente urgevano nelle relazioni sociali; perciò, quando invita a non lamentarsi perché non si ricevono subito da Dio i beni sperati, ricorda che la cambiale è necessaria, ma solo fino alla restituzione del debito (62,4 p. 347,73-74); menziona le contese che insorgevano nelle divisioni di eredità (162,3 p.1000,27-31 e, se non tralascia di rammentare i doveri che concernono i ricchi (26,7 p.152,109-111), proclama anche, in maniera concretamente visiva, quelli che si riferiscono ai poveri: "Tu, povero, che chiedi volentieri, dà anche tu volentieri... metti a disposizione di chi arriva la tua sedia, la tua tavola, il tuo candeliere, la tua lucerna" (lin.117-120). Il linguaggio economico può venire trasferito in campo morale: "Chi conserva il capitale dell'innocenza, non paga l'interesse della penitenza" (167,6 p.1028,73-74)9. Pietro s'aggira per le vie della città con occhi aperti e spirito alacre; dai fatti gli scaturiscono messaggi; siccome percepisce nella sua anima la connessione tra la vita terrestre e quella celeste, scorge questo collegamento anche nei casi che incontra e da questi, in naturalezza di trasposizione, infonde questa congiunzione nelle sue parole. Perciò, se s'imbatte nella reggia, esclama, mirando a raccomandare un ossequio ragionevole e rispettoso a Dio, "Chi, senza essere stato chiamato, irrompe a prestare servizio a palazzo reale?" (109,3 p. 674,55-56) e, dalla norma protocollare che esclude dalla residenza imperiale gli estranei, soprattutto se contaminati, deduce la purezza del seno della Vergine, in cui dimorò Cristo (141,1 p. 858,3-12). Oltre alla reggia, incontra una molteplicità di figure di estrazione assai diversa: c'è il medico che sopporta con pazienza le violenze del malato il quale, reso schizofrenico dalla febbre, aggredisce gli astanti (38,4 p. 218,71-83) ed alle medicine che il sanitario prescrive invita ad attenersi con cura, per evitare che i rimedi si trasformino in pericoli (156,1 p. 970,3-6); ci sono le prefiche, che, con il loro lutto artificiale, profanano la pietà genuina (19,5 p.114,94-98); ci sono le ciurmerie della divinazione e delle evocazioni dei morti (18,9 p.110,98-102) e ci sono anche gli stravolgimenti dell'ubriachezza (26,4 p.150,67-69)10.
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Per un caso d'omicidio, stabilisce un contrasto tra il giudizio divino, nel quale l'anima stessa dell'ucciso si presenta accusatrice, e quello umano, con le complicate indagini che comporta (177,2 p.1075,18-28). 9
Anche in latino c'è la rima: fa motto sapienziale, norma collaudata da un'esperienza universale, e quindi ricca di una insita autorevolezza. 10
"Chi ce l'ha non ha se stesso; chi ce l'ha non è uomo; chi ce l'ha non fa il peccato, ma è egli stesso peccato".
La catechesi popolare: san Pietro Crisologo
11
Dalle figure esterne in cui s'imbatte non ha difficoltà a passare alle sensazioni più direttamente personali, per cui ritrae la dolcezza del sonno nelle prime ore notturne, quando penetra lieve nelle membra stanche per le fatiche del giorno (39,3 p. 221,47-50) e della stanchezza dei suoi ascoltatori tiene conto quando grava la calura estiva, per cui, in loro riguardo, sospende la sua predicazione (51,1 p. 284,3-7). Pietro teme che la sua parola possa venire respinta per un suo sapore di estraneità, ed allora, per introdurre la sua comunità nell'ambiente soprannaturale, si inserisce in quello che è loro naturale, per accompagnarli verso la più alta meta, alla quale da soli avrebbero ritrosia ad accedere; con la sua vicinanza rende il transito spontaneo, la condivisione gli conferisce persuasività. Quell' astratto che si colora facilmente di nebuloso e di utopistico egli lo immette nel concreto a tutti familiare.
Adeguamento del linguaggio: vivezza accattivante Pietro sa che la via più efficace per arrivare all'intelligenza e per incentivare la memoria è quella della fantasia, per cui usa volentieri un linguaggio immaginoso. Presenta infatti l'alacrità dell'impegno nella vita spirituale stimolando: "Ciascuno prenda le armi del digiuno (quaresimale), respinga gli attacchi delle colpe, distrugga l'accampamento dei vizi e riporti la vittoria sullo stesso autore del male, perché è Cristo che combatte" (11,2 p. 73,33-35): l'espressione tende a trasfondere, se non proprio entusiasmo, almeno coraggio e fiducia. Nel raccomandare che il digiuno sia animato dall'elemosina, la inculca con una serie di similitudini: la misericordia è come la primavera per la terra, che nei campi fa spuntare le gemme, sbocciare i fiori, fruttificare le messi; è olio per la lucerna, sole per il giorno (8,2 p. 59,24-39): l'oratore parla colorito, vivo, mosso: dell'elemosina non proclama il dovere, mostra il fascino; se l'idea permane la medesima, la presenta però sotto aspetti sempre nuovi ed attraenti11. E le similitudini non le va a cercare lontano; se le trova nella vita quotidiana che lo attornia. Il digiuno gli si rivela, così, come uno speciale aratro della santità: esso coltiva i cuori, sradica le colpe, strappa le scelleratezze, scalza i vizi, semina la carità, nutre l'abbondanza, prepara la messe dell'innocenza; i discepoli di Cristo raccolgono i covoni delle virtù, preparando il pane della nuova stagione (31,2 p.179,41-46). Pietro rifugge col più solerte impegno dalla formulazione piatta e smorta, dalla parola che "suona ma non crea" (Foscolo); sa che essa sterilizza la comunicazione. Ricorre quindi volentieri all'aforisma, che colpisce incisivo: dichiara pertanto che il digiuno agisce sull'anima come il salnitro sul corpo in efficacia detersiva (7 bis,1 p. 56,4-8); chi digiuna senza provare compassione (per i bisognosi) è un campo coltivato senza seme (42,2 p. 236,18-22) o una reggia senza re (ibid. lin. 26-31); come le nubi oscure offuscano il cielo, così i banchetti sregolati oscurano le anime; come i 11
J. Del Ton, De sancti Petri Chrysologi eloquentia, in Latinitas 6 (1958), p.189, afferma che nella sua eloquenza "brilla l'alta virtù di un animo onesto, brilla l'acutezza di un ingegno facondo, brilla la purezza di linguaggio; egli appare autorevole di romana dignità ed amabile di grazia evangelica".
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Francesco Trisoglio
turbini di vento sconvolgono gli elementi, così l'accumularsi delle vivande suscita disordine; come i marosi affondano la nave, così l'ebbrezza fa col corpo (41,1 p. 232, 24-28): martella il concetto: sull'unità di scopo fa convergere una molteplicità di pressione: l'unicità dell'idea non subisce monotonia (quindi non si sfoca) grazie al rinnovarsi delle figure; risulta plausibile se sembra rincalzata da ogni parte. Gli effetti delle passioni assumono un'evidenza fisica in uno scenario che s'addensa cupo: "Le nubi non oscurano il cielo, la notte il giorno, la foschia il sole come l'invidia acceca la mente" (48,1 p. 264,9-14). Per far capire quali siano i risultati spirituali che la colpa produce, Pietro li inquadra in ampi spettacoli che non mancano di impressionare: "Quello che è il fuoco per le messi disseccate, lo sono per il corpo umano i vizi "; essi eccitano nelle membra "un incendio inestinguibile che, se non sopraggiunge l'acqua celeste ad irrigare i cuori, riduce in cenere ogni umano vigore" (116,3 p. 705,29-36). Le profezie veridiche pronunciate da individui colpevoli, come Caifa e Balaam, sono fiorellini dal profumo mirabile che sbocciano su un cespuglio spinoso (49,4 p. 271,66-71): visualizza come la misteriosa sapienza divina si compiaccia di trarre dal male il bene; richiama il problema dell'inestricabile intreccio di bene e di male che esiste nel mondo e come sia spesso avventato pronunciare giudizi globali. C'è l'intreccio, ma c'è anche il suo superamento, e Pietro lo mostra plasticamente in un altro individuo: infatti Zaccheo, salendo su un albero (Lc 19,3-4), "si mise la terra sotto i piedi, salì al disopra dell'oro, trascese l'avarizia... per slanciarsi sull'albero del perdono e diventare frutto della misericordia" (54,3 p. 299,34-40): l'elevazione fisica del personaggio evangelico diventa stimolante invito a qualsiasi persona. Pietro parla volentieri attraverso alle cose: in una riflessione originale trova che "è disposizione divina che l'occhio, così espanso nella sua forma sferica, si restringa in un'ampiezza minima nella pupilla, affinché abbia un campo di visione moderato: videat non invideat, praevideat non praecipiat, prospiciat non despiciat (139,2, p. 839, 20-22): l'osservazione, che nella sua singolarità, già attira, si slarga in un succedersi progressivo di ampi orizzonti: quei binomi imperativi, resi più misteriosamente cogenti dalla loro incalzante paronomasia, rivelano cosa fare e sospingono a farlo. Siamo al rifiuto di tanta blanda omiletica, fluente in superficie e vuota nel fondo. Pietro sa essere signore tanto nel pensiero quanto nella forma. Talora la pensosità si fa più sommessamente raccolta: il predicatore si rappresenta infatti la Passione di Cristo come un'arena con le fiere (le ingiurie) e con gli spettatori (i persecutori) (72 bis,2 p. 436,36-39); nei bambini trucidati a Betlemme da Erode vede soldati coetanei di Cristo, le sentinelle delegate alla sua culla (152,7 p. 953,6063). In 178,2 p.1081,34-36 si abbandona ad una gaudiosa contemplazione: "L'amore è un'onda di pace, una rugiada di grazia, una pioggia di carità, un seme di concordia, un cespo di affetto, un frutto ricchissimo di benevolenza". In 158,9 p. 983,9293 contrappone la nuvolosità dell'incredulità giudaica alla serenità della fede cristiana. E serene sono certe sue larghe meditazioni, come quando si apre ad una distesa visione cosmica sulla creazione del mondo, del sole, della luna e delle stelle (48,3 p. 266,53-58). Dal cosmo passa talora spontaneamente alla domestica intrinsichezza della sua comunità: "Sciogliendo la zattera della nostra mente dal lido della carne, noi
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entriamo nei mari della parola evangelica, persuasi che, sotto il soffio dello Spirito Santo, possiamo arrivare al porto della comprensione divina" (168,1 p.1031,7-9). Pietro mira a comunicare una parola di vita tramite una parola detratta dalla vita; alla freschezza della dottrina vuole che corrisponda quella della sua espressione. Sa che la 'lezione', in qualsiasi sua forma, reca insita una componente di uggia e che quindi è esposta ad ingenerare una noia che si fa repulsione. Il 'vero' è forte di per sé, ma per agire deve entrare e la porta d'ingresso gliela apre soltanto la parola avvincente. Attinse quindi dalla sua naturale sensibilità il bello ed il pittoresco, ma non disdegnò di perfezionare le sue doti native ricorrendo ai raffinamenti che la scuola aveva elaborati lungo una plurisecolare esperienza12. Sentiva che la distinzione nell'esprimersi, se appagava il gusto di chi parla e di chi ascolta, era soprattutto un servigio reso al messaggio ed uno strumento indispensabile alla sua fecondità pastorale.
Accorgimenti stilistici Pietro intensifica quindi gli effetti della sua facondia congenita incrementandola con la destrezza elaborata dalla scuola. Nelle sue parole si avverte una spontaneità passata attraverso un filtro; bada a quello che dice, ma anche si osserva mentre dice; si ascolta per farsi ascoltare; non vive di retorica, come molti, soprattutto pagani, ma nella sua vita ha accolto la retorica, la quale tuttavia smorza sovente il suo sentore di artificialità facendo trasparire una genuina aspirazione all'efficacia. Per riguardo a sé, agli altri, al tema, si circonda di un'aura di distinzione. Si esprime secondo un ritmo che, attraverso all'onda delle parole, rende con evidenza il passo delle idee; ci sono rime ed assonanze, perché lusingano, ma soprattutto perché evidenziano il collegamento delle idee e le strutture della trattazione. I giochi verbali, in conformità con l'alto modello di Agostino, sono spesso approfondimento del pensiero e richiamo all'attenzione. Ama procedere per commi bimembri, che costituiscono concise ed incisive unità concettuali, essenziali, sfoltite dal frascame decorativo che offusca l'idea; pone dinanzi agli occhi il concetto nella sua massima nettezza. Si inserisce nella tradizione stilistica classica, ma si guarda bene dall'asservirsele; accoglie la signorile finezza del mondo antico senza mettersi fuori dal suo. S'innesta nello sviluppo naturale della lingua, accogliendone le germinazioni che sono venute via via emergendo; egli le fonde in unità di fisionomia espressiva, evitando eterogeneità che sanno di rozzo o di artificiale. In concomitanza con l'evoluzione generale del linguaggio, che stava trapassando dall'enunciato sintetico, basato sul caso semplice, a quello analitico, che si serve delle preposizioni, Pietro sostituisce volentieri al caso autosufficiente un costrutto preposi12
E. Löfstedt, Il latino tardo, aspetti e problemi, trad. di C. Cima Giorgetti, Paideia, Brescia 1980, alle pp.103-104 scrive che, come lo stile delle antiche prediche cristiane costituisce, in notevole misura, una diretta continuazione della retorica greco-romana, sebbene con un vivo contenuto morale, così il latino cristiano ci offre un numero rilevante di espressioni la cui novità di significato si connette con tanta naturalezza ai loro antecedenti profani da indurci a parlare di una ricreazione, di una trasformazione, piuttosto che di una forma nuova.
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zionale che fluidifica il discorso, lo rende più vivo e più immediatamente percepibile. All'eleganza non subordina l'accessibilità della comprensione, ma neppure la sacrifica per trascuratezza. Allo scopo di favorire una piena intelligibilità, indugia in frequenti rallentamenti ripetitivi; era un ribadire, particolarmente opportuno per quel pubblico, che si trovava sovente in condizioni disagiate, poco adatte al raccoglimento nell'ascoltarlo; era conveniente che a quelle formule, così dense e polite, fosse dato l'agio di penetrare: la ripresa del concetto in varietà sinonimica toglieva ogni fastidio ad un allentamento nel procedere. Ad evitare la monotonia, Pietro alterna anche, accortamente, la varietà del tono; in mezzo alla puntualità dell'esegesi morale e dogmatica introduce, ad esempio, il panegirico di Abramo (121,4-5 pp. 728-729), avvolgendolo in un'attraente aura di leggenda; la virtù del patriarca ha una delicata anima di umanità; non c'è tanto austerità quanto apertura di cuore; l'ascesi non vi appare ardua rinunzia ma generosa accoglienza; non si chiude in sé, si apre agli altri; spira un'ammirazione che suscita un palpito di nostalgia; quest'Abramo, terrestre e celeste, trasforma la difficoltà del distribuire agli altri, patrocinato da Pietro, in un amabile invito. L'omileta sa rendere seducente l'austerità13. La sua fine abilità di presentazione si esprimeva in una distinzione del lessico che era però lungi dall'infiacchirlo14; il garbo non inibiva il vigore che, all'occorrenza, non riluttava dall'ammettere il verismo15, la beffa sprezzante16, il sarcasmo17. 13
Ed è una delicatezza di sentire che entra anche nella confidenza autobiografica. Dinanzi alle scomposte carnevalate in uso alle calende di gennaio con la loro sfrenatezza, le loro volgarità e le loro reviviscenze pagane, Pietro si lascia sfuggire un lamento. "Si rinnova il dolore di un vescovo cristiano, quando l'errore dei pagani non invecchia col tempo e non si dissipa sotto l'intenso splendore della fede... Vengono le calende, avanza al completo la sfilata dei demoni [erano processioni nelle quali si portavano le maschere delle divinità] e la novità dell'anno viene consacrata con un sacrilegio antiquato" (155 bis, 1 p. 967,6-10). Pietro sa trapassare dalle inconsistenti figure del mito agli eventi del giorno; la sua catechesi non si rinchiude in steccati. 14
Era infatti una distinzione che non aveva nulla di ristretto; sapeva muoversi in disinvolta scioltezza lungo tutte le epoche componendo i loro apporti; Pietro li accordò evitando ogni stridore di incompatibilità; il suo linguaggio è signorile, mostra una dignità resa nobile dalla tradizione, ma insieme una schiettezza che s'intona pienamente con la conversazione abituale della società. Usa parole vecchie e parole nuove, senza far sorgere il problema di arcaismi e di neologismi. Con esperta esattezza Chr. Mohrmann, Études sur le latin des chrétiens, IV: Le latin chrétien et le latin médiéval, Roma 1977: La structure du latin paléochrétien, pp.11-28, a p. 13 notò che anche qui si riconosce il genio romano, che sa adattarsi a situazioni nuove restando fedele a se stesso; è capace di trarre neologismi dal suo proprio fondo. La nuova dottrina fece nascere nuove forme linguistiche, ma non ci fu purismo affettato; accanto ai neologismi proprii, i cristiani presero a prestito elementi linguistici stranieri adattandoli al loro sistema, la cui unità ed originalità erano conservate. In consonanza C. Truzzi, nell'introduzione alla traduzione di G. Banterle [cfr. nota 1], cap III, p. 25, ha dichiarato che "la lingua di Pietro Crisologo è quella di una persona colta del suo tempo; benché sia influenzato da un certo revival classicista, come Leone Magno, non troviamo in lui il corrispettivo dell'atticismo dei maggiori padri greci del IV e V secolo; è più vicino al modulo di Agostino, benché meno sorvegliato e felice nell'uso del lessico".
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Solerzia didattica Forse quello che più vistosamente predomina in Pietro è la cura di suscitare un'impressione di organicità; l'ascoltatore deve percepire immediatamente che non si trova davanti ad una serie di interventi sconnessi, i quali, con la loro frammentarietà, potrebbero far pensare ad un'improvvisazione che sa un po' di casuale; l'oratore vuole presentare la sua dottrina come seriamente pensata e quindi pienamente meritevole di fiducia e di attenzione. A questo fine apre subito un ampio orizzonte: mostra che quello che dice è strettamente connesso con quello che ha detto e con quanto dirà. In 2,1 p. 21,3-5 esordisce riepilogando il tema del discorso precedente; fa coerenza di sviluppo e riattiva la memoria; alla fine (1,7; 2,6; 3,5; 4,5 ... 51,5...) annunzia l'argomento del prossimo, anche specificandone i singoli paragrafi; è un espediente per stuzzicare la curiosità. Procura di essere breve per non stancare18, ma amplia il suo presente succinto infondendogli il passato ed il futuro; interrompe il peso dell'ascolto senza interrompere il filo della trattazione; sottolineando l'interesse del tema provoca uno stimolo implicito ad assumerselo in una riflessione personale alla quale fornisce un accenno di traccia. Così evita l'angustia, aprendo il respiro di una prospettiva. ! Naturalmente è una tecnica che si logora presto, se non viene alleviata da un' esperta varietà di impostazioni. In 1,1 entra immediatamente in argomento: "Oggi il Signore ha chiamato per noi un padre con due figli e ce li ha posti dinanzi" (Lc 15,11-12): non è la rubrica liturgica che fissa il testo nella sua burocratica atonia, è il Signore che agisce direttamente per loro; non è la consueta 'parola di Dio' che ritorna meccanica, è il Signore che è venuto a parlare: in una duplice personificazione entrano in scena Lui e loro; non presenta una realtà nuova, fa sentire nuova quella nota. In 15,1 prima ancora di proporre la pericope del centurione che si professò indegno che il Signore entrasse nella sua casa (Mt 8,5-9), comincia sollecitando l'attenzione con una punta di paradosso: "Il centurione di una coorte romana è diventato comandante dell'esercito cristiano, e giustamente, perché ha cominciato ad insegnare prima ancora di credere" (p. 93,3-5). Sono molti gli esordi nei quali entra subito nella lettura biblica, evitando la fiacchezza dei convenevoli di rito. Anche per gli epiloghi 15
Il 'pus' dell'usura (28,5 p.165,105), dei vizi (167,6 p.1027,65), di malattie (112,5 p. 688,74-81), dei sepolcri (118,5 p. 715,46-48). 16
I Giudei 'abbaiano' contro Cristo (29,4 p.171,85) ed 'abbaiano' pure gli eretici (150,5 p. 934,43). 17
Erode, al vedersi burlato dai Magi, 'stride' (152,2 p. 949,11); il demonio 's'ingrassa' con la sventura dell'indemoniato (17,1 p.102,20) e si compiace di risiedere nella 'putredine dei sepolcri e dei porci' (17,5 p.105,81-86). 18
In 33,6 p.190,113-116 interrompe la spiegazione sulla donna che pativa perdite di sangue (Mc 5,24-29) "perché il discorso sarebbe troppo lungo"; rinvia quindi al sermone successivo, preannunziando comunque gli aspetti inattesi di quel singolare miracolo. Sta attento a prevenire l'assuefazione. In 36,1 dichiara esplicitamente di dividere in due la sua trattazione "per evitare che il loro ascolto fosse non tanto rinvigorito quanto appesantito" (p. 206,5-8): spiega la struttura delle sue allocuzioni.
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veglia che non emanino un senso di banalità e perciò provvede ad una giudiziosa varietà: in 13,8 conclude con un'esortazione alla pratica delle virtù segnalate in un tono di tranquilla bonarietà; in 8,6 p. 63,107-108 richiama invece la sostanza esposta, rilevandola con un forte aforisma ammonitore: "Chi fa misericordia corre al premio; chi non fa misericordia decorre alla pena": è il ricordo che lascia e lo impronta della categoricità di un'epigrafe. ! Si premura di liberare il proprio ruolo da un'impressione di preponderanza gerarchica che lo renderebbe antipatico; si mescola agli spettatori chiamandoli a condividere il piano generale dei suoi sermoni e coinvolgendoli nella loro composizione. Sfuma al massimo il dualismo di chi dà e di chi riceve, per costituire una certa unione operativa. Dinanzi ai problemi inclina a porsi in ricerca insieme agli ascoltatori: "Ma cerchiamo di vedere... " (1,1 p.16,13): sopprime le distanze; in analoga posizione osserva il ritorno del figliol prodigo: "Mentre ci rallegriamo che il figlio più giovane sia finalmente venuto a ricuperare la salvezza, proviamo dolore per l'ostilità del figlio più anziano" (4,1 p. 31,3-4). Più che raccontare la scena, vi partecipa; non invita alla riflessione, sospinge alla commozione. ! Per alimentare questa partecipazione, la sorregge volentieri con un' intonazione briosa. Dinanzi al versetto: "Rivolgete (la vostra glorificazione) al Signore, figli di Dio" (Ps. 29[28],1) interroga con vivacità: "Credi tu forse che chiami con questo nome le potenze celesti? Non trasforma invece gli uomini in figli di Dio e non solleva (piuttosto) la carne terrena alla natura celeste?" (10,2 p. 68,19-21) ed introduce, con sicura scioltezza, la sua interpretazione alla quale dà come scontata l'adesione del pubblico: "Abbiamo ascoltato, fratelli... ed allora crediamo... siamo coerenti... viviamo... rassomigliamo al padre, affinché non perdiamo per i vizi ciò che abbiamo ottenuto con la grazia" (68,24-27): incalza mentre fa comunione, la sua parola suona tanto più genuina in quanto sembra detta nel proprio interesse; "O forse che..." (§ 3 p. 69,39): il dissenso gli si colora d'assurdo. " Se dunque... giudicate voi!" (13,2 p. 83,29): non è lui a sostenere una dottrina, è essa stessa che s'impone; non ha bisogno di apporre una dimostrazione (che apparirebbe facilmente uggiosa e sembrerebbe sottolineare la difficoltà di accettazione), c'è l'evidenza, con la sua penetrante efficacia persuasiva. ! La verità, nella sua severa eccellenza, potrebbe anche emanare un senso di lontano e di freddo, ed allora Pietro la riscalda con un' esortazione che pare sorgere più dalla coscienza del pubblico che dalla sua bocca: "Il buon pastore è disposto a morire dimostrando il suo amore per 'te'" (40,3 p. 227,42-43): ne viene inevitabile la deduzione: "Cerchiamo dunque quale sia la sua potenza, quale il motivo del suo amore, quale la causa della sua morte, quale l'utilità della sua Passione" (p. 228,50-52): l'invito confluisce in una traccia di approfondimento concettuale: sentimento e pensiero si compenetrano in una coerenza che li rivela sinceri e rassicura l'ascoltatore. Per stimolare sia l'emozione che il concetto immette una formulazione di inattesa audacia; infatti, dopo la presentazione della rovina che l'invidia produce, rivolge un incitamento a respingerla: (4,1 p. 32,29-35): l'ovvietà apparirebbe fin troppo scontata, ed allora viene scossa da un'ardita novità espressiva: richiamandosi ai Giudei che per invidia uccisero il Salvatore, ammonisce "ad evitare il parricidio del proprio destino celeste".
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! Dal tono truce egli non ha difficoltà a passare ad un amabile umorismo: su Lc 12,33 "Fatevi borse che non invecchiano" chiosa: "Insegna l'avarizia colui che aveva cominciato col consigliare il disprezzo delle ricchezze: ci ordina di puntare sul portafoglio, senza mai cessare" (25,2 p.146,50-54). Ammicca un sorriso che suggerisce un clima domestico19. Avvalendosi della circostanza che il figliol prodigo abbandonò la dimora paterna, introduce dal quadro evangelico nella vita familiare (1,6 p.19,8696) contemplandone l'ambiente in una delicata tenerezza affettuosa: Conosce il profondo valore formativo che la famiglia bene impostata possiede, la sua efficacia moralizzatrice e gli affetti che suscita, per cui ne approfitta destramente per avviare alla casa del Padre celeste. ! Della sua esortazione mostra l'attrattiva che la rende simpatica, ma porge anche i motivi fondanti che le conferiscono persuasività. In 8,4 p. 61,72-73, dopo aver espresso nel lirismo di un inno l'eccellenza del digiuno unito all'elemosina, sentenzia netto: "La mano del povero è il salvadanaio di Cristo, perché ciò che il povero riceve è Cristo che lo percepisce". Su questa saldissima base si accende l'esortazione: "Dà dunque, o uomo, la terra al povero, per ricevere il cielo; dà dei soldi per ricevere il regno; dà un briciola per ricevere il tutto; dà al povero per dare a te stesso, perché tutto ciò che avrai dato al povero rimarrà tuo; ciò che al povero non avrai dato sarà di un altro" (73-77). L'idea si è infervorata senza attenuare la sua ferma razionalità; la sua parola evita le fiacche sonorità; ha l'incisività calda di chi vede, con sicurezza, una verità spesso misconosciuta e trascurata; non si sovrappone alla dottrina, la ravviva dall'interno. Questo tono si mantiene, lievemente attenuato in una sfumatura di confidenzialità, in 12,1-2 pp. 76-77, dove, nello stimolo alla lotta contro il peccato, si associano ammaestramento ed esortazione. È sua caratteristica il passare agevolmente dalla nozione all'incitamento applicativo: "L'ipocrisia la si vince fuggendo; fuggiamo l'ipocrisia, fuggiamola, fratelli" (7,3 p. 51,39-41). ! Pietro commenta i testi vivendoli; se li assimila. Dopo la riflessione sulla morte di Lazzaro e sui pianti che provocò, venuto alla sua risurrezione, invita: "Adesso scarichiamo gli animi da quel peso; gettiamo via le preoccupazioni, sgombriamo i nostri pensieri, affinché possiamo recepire ed ascoltare con tutta la nostra mente la gioia di una così miracolosa risurrezione" (65,1 p. 384,3.7). ! La sua intima penetrazione è così schietta che talora si riversa in un' esclamazione. In 7 bis,2 p. 57,29-30, dopo aver citato Rom. 13,12-14 "La notte è avanzata, il giorno è vicino, gettiamo via le opere delle tenebre..." come improvvisamente esclama: "O se chi dorme sapesse di dormire!"; è originale nell'impostazione (ci saremmo aspettati uno scontatissimo invito a svegliarci), sostanzioso nel concetto, caldo nel sentimento; è un'analisi sulla quale è germogliata la comunicazione; predica agli altri mentre riflette in se stesso. C'è una drammaticità che non si sfoga nell'invettiva né nel rimprovero, si compenetra di compassione. La sua abituale pacatezza non 19
Fr. J. Peters, Petrus Chrysologus als Homilet. Ein Beitrag zur Geschichte der Predigt im Abendland, Köln 1918, a p.122 gli asserisce "chiarezza nella presentazione dei pensieri, pene-
trante enunciato dei motivi e piacevole modo espositivo che suonava gradevole alle persone colte; furono elementi curati dai retori del tempo e tornavano utili anche alla predicazione".
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ha nulla di burocratico; in lui è presente una razionalità che reagisce. Di esclamazioni in 39,2 p. 221,23-32 si sussegue una lunga serie ma non sono pura emotività, sono ammaestramenti concettosi in fervore di spirito. Evita l'esclamazione che si esaurisce in se stessa. ! Questa vivezza d'interesse si esprime, all'occorrenza, nella vivacità dell'interrogazione. Più che presentare i temi nella smorta sistematicità dell'esposizione abituale, li fa sorgere dal loro stesso interno; così, in 3,2 p. 26,18, invece di redigere lui stesso i punti della trattazione, se li fa autoproporre in forma interrogativa; sembra che la domanda parta dal testo; pare stabilirsi con esso un dialogo ispirato ad una singolare unità: il racconto evangelico parla e l'omileta gli fa eco. In 5,3 p. 37,31-32 troviamo: "Dammi la parte dell'eredità che mi spetta (Lc 15,12): ma qual è questa parte? qual è?" Poco oltre: "Non si saziava di carrube (15,16): perché? perché nessuno gliele dava" (ibid § 5 p. 39,77-79) e poi "Figlio, tu sei sempre con me (Lc 15,31): in che modo?" (§ 7 p. 41,132) e ancora: "Tutti i miei beni sono tuoi (15,31): in quale maniera? perché?" (§ 7 p. 42,136-137). Talora si aggancia in presa diretta ad un 'perché' del testo: "Perché noi digiuniamo e i tuoi discepoli non digiunano? (Mt 9,14): perché? poiché... " (31,2 p.179,37-38) ed a breve distanza: "Possono forse digiunare gli amici dello sposo, finché lo sposo è con loro? (Mt 9,14-15): ma che significa questo?" (§ 3 p.179,50-51). In 38,2 p. 217,32-33) si chiede e si risponde: "Ma io vi dico (Mt 5,39): a chi? certamente ai cristiani". Cristo promise: "Dove sarò io, ci sarà anche il mio servo (Gv 12,26): dove? ovviamente sopra i cieli, dove Cristo siede alla destra di Dio" (40,5 p. 229,84-85). Se gli viene ad alludere al male che sta nella carne, gli sorge il quesito: "Quale male? senza dubbio la fragilità insita nella carne" (41,2 p. 232,30-32). Gli è abituale: "Ma che cosa vuol dire?" A variazione formale, per evitare che la ripetizione del modulo faccia appassire la freschezza della mossa stilistica, l'interrogazione se la fa talora porre da un ipotetico ascoltatore: "I vostri fianchi siano cinti (Lc 22,35): perché menziona esplicitamente i fianchi? E mi chiedi il perché? perché nei fianchi si sintetizza la totalità del corpo" (24,2 p.140,38-43). Lo scatto dell'interrogazione immediata può venire sfumato nella tonalità più sommessa della forma indiretta. Gesù dichiarò al centurione che lo aveva supplicato per il suo servo malato: "Verrò e lo guarirò" (Mt 8,7) e Pietro prelude con un delicato garbo che invita a rilevare la sublimità della risposta: "Ma adesso ascoltiamo che cosa abbia risposto il centurione" (15,3 p. 95, 58-59). Sa creare risalto con naturalezza di mezzi; ama questi esordi in sotto tono: dinanzi alla malizia dei demoni invita: "Ma sentiamo che imbrogli stiano architettando, che mali stiano tramando" (16,3 p. 99,26-27). ! Ad arricchire una vivacità suscitatrice d'interesse, ai quesiti sul testo intercala il colloquio con i personaggi che vi compaiono; gli è gradito interpellarli con un'immediatezza che li rende presenti. Così, al ricco che voleva abbattere i suoi granai (Lc 12,18) si rivolge con una commiserazione che, mentre gl'imputa stoltezza, gliela dimostra: "Povero ricco, mentre non ti rendi conto del presente, fai inconsistenti piani sul futuro!" (104,5 p. 647,39-40); gli applica un salmo (76[75],6) che lo descrive addormentato e lo incita: "Ricco, sta sveglio nelle opere buone, dormi in quelle cattive" (§ 7 p. 649,76-78). Traspone la lettura in scena teatrale; invece di parlare di quegli individui parla a loro, da nebulosamente assenti li rende drammaticamente presenti.
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Si rivolge pertanto al Giudeo, che rimproverò Gesù perché aveva guarito una donna di sabato (Lc 13,12-14): "O Giudeo, Dio volle che ci si riposasse dalle opere umane e che tu sospendessi il lavoro per badare alla tua salvezza e tu, cristiano, riserva al Signore il giorno del Signore, se vuoi vedere il fatidico giorno del Signore, se vuoi possedere attraverso al Signore ciò che è tipico del Signore" (105,9 p. 655,103-107): chiama in scena chi era lontano per farvi entrare chi gli era vicino, investendolo con un serie di poliptoti, che lo vogliono insieme convincere e sospingere. ! Sarcastica è invece l'apostrofe ad Erode, Erodiade e figlia: "Voi nomi collegati non dall'affetto ma dal delitto, avete creduto con somma stoltezza di poter sopprimere la 'voce' (cioè Giovanni Battista)" (174,5 p.1062,61-63) e, nel commentare la decollazione del Precursore, affronta direttamente Erode in una contestazione che gli analizza l'assurdità del suo procedere e l'indegnità con cui esercitò il suo potere (127,4-5 pp.783-784). Ma un'interrogazione incalzante la dirige anche allo stesso Giovanni Battista, domandandogli come mai abbia mandato a chiedere a Gesù se era effettivamente lui quello che doveva venire (Mt 11,3); evidenzia la strana aporia di quel dubbio in colui che aveva dato una così chiara testimonianza: " Siamo turbati, Giovanni, siamo turbati, noi, tuoi celebratori"; "Dunque, Giovanni, rispondi; assisti te stesso ed assisti noi; dicci perché hai inviato un'ambasceria ad informarsi, mentre tu sapevi" e, dopo l'invito a Giovanni a spiegarsi, pone quello agli ascoltatori a capire: "Rivolgiamo più a fondo, fratelli, la nostra attenzione, sì, più a fondo, ed ascoltiamo, non solo con le orecchie, ma anche col cuore, quello che dice Giovanni" (179,1-2 p.1085,3-32). Ma ancora più sorprendente è che, con garbata arguzia, chiami in causa addirittura l'evangelista Marco: gli ricorda infatti che, in connessione con l'episodio della Sirofenicia, disse che Gesù "entrò in casa; volle che nessuno lo sapesse, ma non poté restare nascosto" (7,24) e commenta: "Ma che cosa fa il beato Marco? È forse opportuno che, per esaltare la fede della donna, si abbassi l'efficacia della volontà del Signore?" (100,1 p. 617,15-16). È regolare in Pietro il dialogo diretto con i protagonisti dei passi biblici; li evoca dalla lontananza sbiadita di un libro antico alla presenza nell'ambiente; trasferisce la storia al presente; contestando ad una persona la negatività di un comportamento muta il precetto in azione; la dissertazione sulla verità e sulla virtù si drammatizza in un processo che si svolge in vivezza di mosse. ! Talora la sua apostrofe è più larga ed assume il tono di un solenne ammonimento; citando "Voglio misericordia" di Osea 6,6 esclama: "O uomo, Dio chiede, ma per te, non per sé; chiede la misericordia umana per elargire quella divina" (8,5 p. 61,7981) : in una densa concisione epigrammatica assume il tono del paradosso per stimolare a procedere ad una nuova visione delle cose; l'elemosina si ribalta dal dare al ricevere; l'omileta presenta questa verità come una scoperta; evita così il rischio di un'atonia che neutralizzerebbe il suo messaggio. ! Talvolta rivolge direttamente la parola all'ascoltatore per invitarlo ad una compartecipazione; ricordando che Zaccheo salì sull'albero (Lc 19,3-4) gli chiede: "Su quali gradini tu pensi che sia arrivato fino ai rami di un albero altissimo?" (54,3 p. 299,3637) e non disdegna di raccogliere le obiezioni che gli risulta circolare tra il pubblico: dinanzi all'elezione di Matteo ad apostolo rileva una difficoltà: "Qualcuno dice: come
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mai un pubblicano, che ha un colpa più grave, riceve un'incombenza più alta?" (30,2 p.174,33-34); segna un passo avanti nella trattazione. Analogamente, dopo aver dichiarato che, quelli che affrontano la morte per testimoniare la fede, risplenderanno nella gloria, oppone: "Ma qualcuno dice: quando ciò avverrà?" (40,5 p. 229,74) e questo 'qualcuno' emerge abbastanza frequente. Il più delle volte però il problema lo anticipa subito egli stesso; prima di risolverlo lo formula; non porge direttamente il risultato, gli conferisce spicco evidenziandone la portata ed insieme movimenta l'esposizione. Ancora sulla chiamata di Matteo nota: "Abbiamo detto che negli apostoli virtù cara a Dio fu la povertà, ma che cosa diremo del fatto che Gesù scelse Matteo, ricco, dal banco dei gabellieri? Matteo ci suscita un problema non piccolo; e qual è questo?" (28,2 p.162,39-47) Quando il Simbolo proclama che Cristo "verrà a giudicare i vivi ed i morti", si sofferma pensoso: "Ammettiamolo pure per i vivi, ma come potrà giudicare i morti?" (57,11 p. 322,122-123) ! Affronta in scioltezza anche i dubbi che possono contenere una venatura inquietante: che necessità aveva Dio di ricreare l'uomo mediante l'Incarnazione, quando aveva il potere di creare? Il quesito gli apre l'adito ad una profonda precisazione dottrinale: nascendo rifece la natura, ferita a morte dal peccato; la guarì restituendola alla vita (143,11 p. 878,100-107). Pietro segue regolarmente la tecnica espositiva di enucleare egli stesso le difficoltà del testo, quasi aggravandole con una sorta di meraviglia talvolta non disgiunta da una sfumatura di sconcerto; insieme risveglia l'attenzione e porge la traccia della sua trattazione agevolando l'orientamento. Nella fuga in Egitto (150,3-5 pp. 933-934) pone in forte risalto la carica di scandalo insita in un Dio che fugge; si rende ben conto quanto questo urto attivi il pubblico. Ci tiene a colpire; si chiede: che fece Cristo dinanzi alla strage degli innocenti di Betlemme? Perché abbandonò quelli che sapeva che, per causa sua, sarebbero stati uccisi? Replica: non li trascurò, ma conferì loro il trionfo prima di vivere (152,7 p. 953,57-65). ! Pietro non ha paura delle ardue asprezze della fede; in 72 bis, 5 p. 438,86-93 aveva evidenziato lo 'scandalo della croce'; lo riprende subito, a completamento, nel sermone seguente (72 ter,1 p. 440,3-15), sottolineando con vigore l'antinomia razionale che, colui che con un comando aveva creato un cosmo mirabile di bellezza, per annullare la sentenza di morte che gravava sull'uomo, abbia dovuto abbassarsi alla schiavitù: "Che motivo c'è di morire, dove c'è la potenza di dare la vita?" (lin.1415). Non si spiana la via scartando le obiezioni; le sfida evidenziandole; il § 2 è tutto un'interminabile sequenza di contraddizioni tra la potenza dominatrice ed i maltrattamenti subiti; l'oratore vi indulge quasi con accanimento; ma da questo percorso lungo la Passione fa salire una meditazione sull'incommensurabile amorevolezza divina per l'uomo e sulla nefandezza del peccato umano. Quel 'perché?' che non trova soluzione sulle modalità della redenzione, la trova nella sua motivazione. È un quadro statico, anche perché l'autore vuole che ci si soffermi l'attenzione dell'ascoltatore; l'illogicità del pensiero è disinnescata dalla logica del sentimento.
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Riguardi nella presentazione Pietro sta molto attento ad usare gli accorgimenti idonei per farsi seguire. Evita quindi di addensare i concetti rendendoli indigesti; li dispone invece sovente in successioni a tranquilla andatura, favorendo l'agevolezza dell'assimilazione; cura che in lui il dotto si faccia dottore; esplica una pedagogia guidata dalla psicologia20. Sa che non tutto ciò che viene udito viene anche sentito e che le idee recepite hanno una loro gradualità di gestazione. Ripete pertanto, non di rado, i concetti, badando però di non ingenerare molestia, per cui sfuma le sue reiterazioni con progressive variazioni che danno su nuovi sfondi. È il suo metodo e lo fa derivare da un criterio proveniente dalla stessa prassi biblica; insegna infatti che la Provvidenza divina si regola, non su ciò che essa possa dire, ma su ciò che l'ascoltatore possa capire (39,1 p. 220,5-7). La vede predisporre la credibilità di taluni eventi: considera infatti il prodigioso parto di Elisabetta, ormai tanto avanzata negli anni da rendere impossibile un concepimento, come un avvio operato dalla pedagogia divina per rendere più accettabile il parto della Vergine (87,1 p. 536,9-18). Sulla progressività nell'acquisire la fede torna ad insistere con l'esempio dei Magi: "È questo il motivo per cui i Magi, che dimoravano ancora nel buio, furono assuefatti alla luce da una stella che risplendeva smorzata, la quale li sospinse, passo passo, alla fonte stessa della luce" (§ 2 p. 537,28-30). Gli sono quindi frequenti le brevi serie di commi che, non tanto sviluppano il pensiero apportando ciascuno nuovi elementi, quanto lo riaffermano con riformulazioni che meglio lo inculcano, lasciando all'ascoltatore un congruo tempo di acquisizione. All'impegno di accettazione altrui corrisponde il proprio di sostegno; adegua quindi la tonalità della sua parola alternando il ritmo colloquiale21, la solenne allocuzione che trasmette le grandi norme della vita, i dilemmi vivaci22, la riflessione austera23. Anco20 G. Böhmer, Petrus Chrysologus, Erzbischof von Ravenna, als Prediger. Ein Beitrag zur Geschichte der altchristlichen Predigt, Paderborn 1919, alle pp. 78-79 afferma: "La raffigurazione morale in lui è spesso riuscita nel modo migliore. Se Cicerone dell'eloquenza disse che flectere victoriae est, ciò vale anche per la descrizione della vita spirituale nel Crisologo; gli è pro-
pria una profonda conoscenza dei misteri dell'anima umana; anche singole osservazioni, rapidamente inserite, mostrano una tale profonda comprensione psicologica".
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"Sappiamo, sappiamo" (66,9 p. 398,121); "Non bisogna, non bisogna valutare la divinità secondo un modo umano" (67,11 p. 405,80-81). 22
Sulla base del precetto di non ostentare un sembiante abbattuto quando si digiuna (Mt 6,17), commenta in lucida arguzia: "Un volto depresso dall'afflizione proclama un digiuno sopportato contro voglia; ma se lo vuole, perché è triste? Se non lo vuole, perché digiuna?" (7,5 p. 52,6264). 23
Quando incontra l'ostentazione dell'elemosina sfoga un commento di pensosa deplorazione: "Bisogna fuggire l'ipocrisia, bisogna fuggirla, fratelli; essa, in quanto schiava della rinomanza, non allevia il senso di vergogna dei poveri, lo importuna; essa va alla caccia di una propria ostentata vanteria sul gemito dei poveri" (9,3 p. 66,59-61): in una pacata disamina porta in luce morale, psicologia, sociologia in unità di compenetrazione.
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ra in pensosa e partecipata meditazione passa in rassegna i benefici che Dio concesse all'uomo come un capitale, di cui esige, quale interesse, soltanto l'amore: "Che tu sia stato creato è un credito di Dio; che possegga la ragione è un capitale che Dio ha investito" (94,5 p. 582,57-70): parla con una tensione controllata, evitando sia l'atonia della piattezza che la sonorità convenzionale della declamazione; inserisce la teoricità dell'obbligo di corrispondere a Dio nella praticità dei prestiti finanziari. Su quest'immagine, così concreta e così ricca di suggestioni, ritorna volentieri: "Il capitale divino può essere dato ma non può essere diviso, perché i beni celesti chi li dà non li perde e chi li riceve non se li riserba per conto proprio soltanto per sé" (162,4 p.1001,44-46); ammonisce che Dio dà i suoi doni in totalità ed in totalità debbono essere diffusi: né limitazioni per inettitudine o inerzia personale, né riserva per classi economiche o sociali di destinatari; "Dio ti chiese e ti conferì la totalità" (§ 5 p.1001,48-49). ! Gli è tipico di porgere con un intimo fervore di convinzione la dottrina che proclama: "Chi avrà dato un pane a chi ha fame, darà [non dice 'riceverà'] a se stesso il Regno; rifiuterà a se stesso la fonte della vita, chi avrà rifiutato un bicchiere d'acqua a chi ha sete. Per amore del povero Dio 'vende' il suo Regno e, affinché ciascuno lo possa comperare, stabilisce come prezzo un pezzo di pane, perché vuole che l'abbiano tutti; chiede quindi un prezzo tale, quale sa che tutti ne dispongono. Fratelli, il nostro pranzo sia la cena del povero" (41,4 p. 235,94-101): la concretezza della spesa quotidiana ci porta Dio davanti e ci rende l'elemosina quasi più un'esigenza che un dovere. Dopo aver invitato tutti a sospingere i loro congiunti a ricevere il battesimo, dà voce alla sua persuasione appassionata: "Vi supplico e vi scongiuro, fratelli carissimi, in nome del nostro Signore, che siate tutti vigilanti, affinché nessuno sia lasciato estraneo alla grazia divina, alla nascita in lui" (10,6 p. 71,98-100). I 'fratelli carissimi' talora (cfr. 56,4 p. 316,53) si addolciscono in filioli, 'miei cari ragazzi'. E questi 'ragazzi', cerca di attirarli con un linguaggio immaginoso nel quale le verità si rivestono di una lusinghiera piacevolezza, incarnandosi in aspetti gradevoli dell'ambiente. In lui le similitudini emergono pittoresche in spontaneità, più volte permeate di un sfumatura poetica; l'idea, pur rimanendo austera, si chiarisce in un clima di simpatia. ! Al linguaggio figurato egli si sente indotto dal suo gusto artistico, raffinato dalla scuola, ma soprattutto autorizzato dall'esempio di Gesù, che Pietro traspone a norma didattica; infatti sul ricordo dei gigli del campo più splendidi di Salomone (Lc 12,27) commenta: "Colui che poteva conferire vigore ai suoi precetti con la sua sola autorità, li sostiene impegnandovi tutta la cura di un maestro... conduce con solerzia i suoi ascoltatori a credere nella sua promessa con un esempio, conferma i dubbiosi col paragone del giglio ed esalta il giglio con l'esempio di Salomone" (163,9 p.1008,90-95) ed aggiunge (§ 10 p.1008,102-103) che il duplice esempio usato da Gesù è tecnica che va ripetuta ad irrobustimento della nostra fede. ! Come vescovo, Pietro si sentì soprattutto maestro; meditò sulla dottrina ma anche sulla sua responsabilità nel porgerla; del docente riassunse la figura ideale: "Il vero maestro fa vedere con il proprio esempio ciò che dichiara con la parola. L'insegnamento è fondato sulla cultura, ma l'autorevolezza dell'insegnamento dipende dalla vita. Facendo ciò che deve insegnare, rende ubbidiente l'ascoltatore. Insegnare coi fatti è la sola regola dell'insegnamento; le nozioni che si esprimono con le parole sono
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cultura, quelle con i fatti sono virtù; la cultura vera pertanto è quella mescolata alla virtù" (167,1 p.1025,4-9). Il docente che parlò tanto sovente ai fedeli ora si rivolge ai colleghi. Della catechesi dà la norma, come dà l'anima; in una parafrasi di Deut 32,12 formula quella che si presenta come un'eccellente preghiera in apertura della catechesi: "Ascolta, Dio, affinché io parli e l'uomo ascolti le parole della mia bocca. Venga come rugiada il tuo Spirito, la tua grazia straripi come un fiume e la parola divina diventi adesso un'onda che zampilla per la vita eterna" (60,1 p. 335,14-18). E, dopo la preghiera a Dio, l'allocuzione appassionata all'uomo: il ricordo che Cristo si consegnò spontaneamente alla morte e si lasciò tosare come una pecora (Is 53,7) gli disfrena uno sfogo commosso: "Per te dunque si è fatto re, per te sacerdote, per te pastore, per te sacrificio, per te pecora, per te agnello; per te si è fatto tutto, lui che per te aveva fatto il tutto; colui che non ha mai subito mutamenti per sé, tante volte li ha subiti per te; per amor tuo si fa vedere cambiato in forme diverse colui che rimane nella forma della sua immutabile maestà. Dio si dà a te fatto uomo come tu lo puoi sopportare, poiché come egli è tu sopportare non lo puoi" (23,1 p.135,33-39). Qui Cristo non appare soltanto il Salvatore (teologia generale, capitolo di un manuale), è il 'tuo' Salvatore, dalla lontananza nella quale si frappone l'universo si passa all'intima unione personale: al mondo ci siete solo tu e Lui. Qui non parla uno esperto di retorica, si abbandona all'onda del sentimento uno che vive i testi che propone e vive per coloro ai quali li presenta24. In un singolare parallelismo col catechista dei tempi moderni, Pietro si trova davanti un pubblico assai variegato sotto ogni aspetto; egli affronta la difficoltà di stabilire un dialogo idoneo ad agganciare le più disparate capacità e disponibilità recettive impostando il suo discorso su alcuni criteri di fondo. Si mostra chiaro nella spiegazione dei testi e perspicuo nella loro esposizione agli ascoltatori; è distinto nel linguaggio per un riguardo sia alla dottrina che al suo pubblico, dal quale esige tuttavia concentrazione di riflessione perché, se cerca una trasparenza di eloquio, si astiene però da volgarizzazioni sciatte; procura di essere attraente per alimentare l'attenzione; alterna varietà di tono per evitare la monotonia che assopisce la partecipazione; coinvolge i suoi uditori chiamandoli alla condivisione dei problemi; vivacizza il rapporto con apostrofi che personalizzano il principio generale; coglie lucidamente le situazioni sociali e psicologiche della sua gente; si sforza di evitare il frammentarismo aiutando a scorgere quell'unitarietà del sistema che è garanzia di affidabilità; si mostra equilibrato nelle sue esigenze morali e nello spingersi fino all'orlo del mistero senza ignorarlo e senza forzarlo; più che parlare lui, fa parlare il testo biblico; trasforma la sua lezione in una comunicazione di spiriti; soprattutto trasfonde quel fervore che gli urge nell'animo. Del catechista si prospetta, con un sospiro verso l'ideale, l'abbondanza di dottrina e di eloquenza: "Felice la vena che è ricca di una propria capacità di irrigare e può attingere in piena libertà alla sua corrente!" (136,2 p. 826,30-31) ed esprime l'ane-lito essenziale: "Il nostro Dio si degni di donare a me la grazia della parola ed a voi il desiderio di ascoltare" (96,7 p.576,96-97). Si rende ben conto quanto la sua missione 24
A. Olivar, in Diz. di Omiletica, a cura di M. Sordi e A. M. Triacca, Leumann TO - Gorla BG 1998, p.1157, nota che Pietro nella sua predicazione "sa raggiungere le fibre più profonde del sentimento umano".
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sia ardua e quanto sia insinuante la tentazione dello scoraggiamento rinun-ciatario dinanzi all'esiguità dei frutti direttamente constatabili ed allora rincuora assicu-rando un sostegno indefettibile. "Dio soggiorna ed abita con te per tutto il tempo della vita, ti accondiscende e combatte per la tua salvezza" (46,8 p. 259,101-102). * Articoli di questa serie già pubblicati:
1. Il De catechizandis rudibus di sant’Agostino, RL 2008,1, 7-22; 2. La catechesi nella teologia: san Gregorio di Nazianzo, RL 2008,2, 163-179; 3. La catechesi nell’ascetica: La Scala Paradisi di s. Giovanni Climaco, RL 2008,3, 307-322.
RICERCHE E STUDI
RivLas 76 (2009) 1, 25-42
La générativité
À la racine de l’attitude éducative1 Robert Comte, fsc
Formation des adultes, Lyon Inutile de chercher le mot « générativité » dans un dictionnaire français. On n'y trouve que l'adjectif « génératif » (le Petit Robert évoque la grammaire générative). La récolte est plus fructueuse sur Internet. Vous découvrirez que la générativité peut s'appliquer à divers domaines (comme les mathématiques et même Internet), mais vous rencontrerez aussi des allusions à la générativité selon Erikson. Vous serez alors arrivés à bon port. En effet, c'est à la signification que ce psychanalyste (1902-1994) a donné à ce terme, ainsi qu'à ses diverses harmoniques, que je vais m'intéresser. Comme nous le verrons, la générativité touche à des questions très actuelles.
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ancé par Erik Erikson il y a près de soixante ans, ce terme a connu depuis lors un grand succès chez les spécialistes américains du développement psychologique de l'adulte. Pour le dire d'un mot, la générativité concerne la manière de nous sentir responsables d'autrui, en particulier de la génération qui vient après nous. Erikson la définit comme « la préoccupation d'établir et de guider la gé-
1 Ce texte reprend sous une forme légèrement modifiée une partie des conférences données ces dernières années dans le cadre du C.I.L. (Centre International Lasallien, Rome)
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nération montante »2. Plus précisément, la générativité est le défi que doivent affronter les adultes arrivés au temps de la maturité et qui se trouvent par conséquent à l'âge des responsabilités : il s'agit de la septième étape du cycle de vie qui en comporte huit selon Erikson. Que ce sens des responsabilités à l'égard de la nouvelle génération soit en difficulté, de nombreuses enquêtes le montrent. Les études sur l'immaturité des adultes se sont multipliées. Évoquons simplement un dessin humoristique paru il y a quelques années dans un hebdomadaire et qui traduit bien l'esprit du temps. Ce dessin montre un dialogue entre un père et son fils (qui a une vingtaine d'années). Le fils à son père : « à vous regarder, ça ne donne pas très envie de devenir adulte ». Réponse du père : « avec tout le mal qu'on se donne pour rester jeunes ! » Bonne illustration d'une tendance que l'on observe souvent autour de soi : l'indifférenciation des rapports de génération, comme si les adultes n'osaient pas exister comme adultes face à leurs enfants, comme s'ils voulaient rester indéfiniment dans la génération des jeunes et refusaient la part nécessaire d'asymétrie dans la relation éducative. Ce qui rejoint la remarque d'un québécois qui avouait qu'on n'ose plus transmettre ses propres valeurs ou croyances. Autre expression de cette immaturité, l'aveu d'une jeune femme au sujet des enfants qu'elle pourrait avoir : « moi, je ne ferais jamais d'enfants pour continuer (la chaîne des générations). Je veux le faire par goût, pour ce qu'ils vont m'apporter d'affection, me faire grandir ». Cette femme inverse tout simplement l'attitude générative normale: au lieu de désirer faire grandir la nouvelle génération, elle souhaite que ses enfants la fassent grandir elle-même. Même si cette remarque comporte une part de vrai (les enfants font aussi grandir les parents), le rôle des parents est quand même d'abord d'aider leurs enfants à grandir eux-mêmes. Au-delà de ces expressions individuelles, on peut se demander si cela ne renvoie pas à une question de société. C'est en tout cas ce que suggérait le sociologue Robert Bellah il y a une quinzaine d'années. Selon cet auteur, le problème majeur des grandes institutions américaines (écoles, Églises, administrations) est celui de la générativité : « De quel genre de société allons-nous doter nos enfants et les enfants de nos enfants, de quel genre de monde, de quel genre d'environnement ? En mettant l'accent sur notre bien-être immédiat et en nous préoccupant de manière excessive de l'augmentation de nos revenus et de notre consommation, nous avons oublié que le sens de la vie ne provient pas tant de ce que nous possédons que du genre de personne que nous sommes et de la manière dont nous avons construit notre vie en fonction d'objectifs qui sont bons en eux-mêmes »3. De fait, on observe ailleurs qu'aux ÉtatsUnis une nouvelle attitude chez de jeunes parents : « le fait de devenir parent n'est plus tant accepté comme une obligation de responsabilité et de décentrement à l'endroit de ses propres préoccupations. On s'y engage dans l'attente d'une révélation et
2 Erik Erikson, Adolescence et crise, Flammarion, coll. Champs, 2003 (original anglais 1968), p. 143.[trad. it., Gioventù e crisi d’identità, Armando ed., Roma 1974]. 3 Cité dans Ed. de St Aubin, Dan McAdams, Tae-Chang Kim, The generative society, American psychological association, 2004, p. 7 (traduction personnelle).
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d'un accomplissement de soi-même »4. Autrement dit, et cela rejoint une observation d'Erikson, trop d'adultes sont trop préoccupés d'eux-mêmes pour être génératifs (on a parlé de la génération du « moi »). Il ne faut donc pas s'étonner que des couples préfèrent avoir des chiens domestiques ou des chats plutôt que des enfants : ils causent moins de souci ! On le voit: la question de la générativité concerne la croissance de chaque personne ; elle a donc un aspect psychologique. Mais elle concerne aussi certaines tendances de nos sociétés développées qui révèlent un déficit collectif de ce côté-là. Au croisement de ces deux aspects, il y a la question des relations entre générations, question à laquelle Erikson a été très attentif : pour lui, c'est grâce à la générativité que se fait la jonction entre les générations ; c'est grâce à l'interférence des divers cycles de vie que nous pouvons devenir nous-mêmes. C'est une question qui intéresse des éducateurs. Je propose d'explorer le concept de générativité en trois temps : d'abord, en déployer toute la dimension psychologique avec E. Erikson et ses disciples ; ensuite, en dégager la signification anthropologique ; enfin, en indiquer la portée spirituelle.
La dimension psychologique de la générativité Voyons d'abord la manière dont la générativité est évoquée par Erikson avant d'évoquer les approfondissements suggérés par certains de ses disciples.
La générativité selon Erikson - Pour cet auteur, la générativité concerne d’abord la procréation et le soin donné à sa progéniture. Il ajoute aussitôt qu’elle a un sens plus large. D’abord, il ne s’agit pas seulement du soin donné à ses propres enfants, mais aussi de se préoccuper des générations à venir et du monde que l’on va leur laisser. Ensuite, selon l’expression d’Erikson, « elle comprend la procréativité, la productivité et la créativité »5. Autrement dit, elle concerne tout ce qu’un adulte peut ‘mettre au monde’ au sens large6. Mais la générativité ne consiste pas seulement à ‘mettre au monde’, elle suppose que l’on se préoccupe de ce qu’on a mis au monde, elle pose la question de la responsabilité que l’on accepte de prendre à l’égard de ce que l’on a engendré, elle suppose que l'on réoriente ses priorités pour se préoccuper de ce dont on est devenu responsable après s'être légitimement centré sur sa propre croissance. La générativité apporte donc avec elle un ensemble de satisfactions et d’exigences : satisfactions devant ce que l’on a ‘mis au monde’, avec le plaisir et la fierté que cela procure ; exigences 4 Nathalie Sarthou-Lajus, « Le goût de transmettre », dans les Etudes, février 2008. 5 E. Erikson, The life cycle completed (extended version), Norton, 1997, p. 67 [trad.it., I cicli della vita, Armando ed., Roma 1995]. 6 Le concept de générativité a été critiqué comme ayant une connotation trop masculine, et cela de deux manières. D’abord par son origine étymologique qui renvoie à l’engendrement paternel. Ensuite par sa conception du travail, vu comme essentiellement ‘producteur’. C’est pourquoi certains préfèrent parler de sollicitude (cf. Gabriel Moran dans Religious education development). Mais on confond alors la générativité avec la vertu qui en résulte.
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par le fait qu’il s’agit de porter le souci de ce que l’on a ‘mis au monde’, de s’en considérer responsable. C’est pourquoi l’attitude générative va de pair avec le sens de la sollicitude (selon Erikson, c’est la vertu que l’on est appelé à acquérir en vivant la générativité). En fait, le mot anglais utilisé par Erikson est care, et il signifie aussi : soin, attention, souci de l'autre, responsabilité. La générativité n’est donc pas seulement un fait, elle est une attitude. Elle est ce à quoi chacun est invité quand il entre dans le monde adulte7. On en comprend l’enjeu si l’on précise que l’adulte non génératif connaîtra ce qu’Erikson appelle la stagnation : « les personnes qui ne développent pas le sens de la générativité peuvent se retrouver absorbées par elles-mêmes, concernées avant tout par leur propre confort, ce qui leur laisse un sentiment de vide »8. Erikson dit que, dans ce cas, on devient « son propre bébé, son propre trésor ». La stagnation évoquée par Erikson consiste donc à se replier sur soi, à ne pas effectuer le passage auquel est invité tout adulte : donner à son tour après avoir reçu. Mais il faut aussi reconnaître que la générativité a des sources mélangées, qu'elle combine des attitudes ambiguës. D'ailleurs, une remarque d'Erikson exprime bien cette ambiguïté : pour dire le point d'ancrage psychologique de la générativité, il écrit que « l'adulte est constitué de telle sorte qu'il a besoin qu'on ait besoin de lui »9. Ce besoin peut être interprété en deux sens : (1) il nous ouvre à ceux qui ont besoin de nous et nous invite à les prendre en charge ; mais on peut dire aussi (2) que c'est nous qui avons besoin que l'autre ait besoin de nous pour exister nous-mêmes. Dans notre manière de vivre la générativité, nous pouvons donc basculer du côté d'une authentique attention à l'autre, mais nous pouvons aussi utiliser le besoin que les autres ont de nous pour mieux exister nous-mêmes (cf. cette jeune femme qui disait vouloir des enfants pour grandir elle-même). En effet, la générativité est faite d'un mélange de narcissisme et d'altruisme : d'un côté, elle s'enracine dans le profond désir qui est au coeur de chacun de se prolonger, de se survivre, d'exister au-delà de la mort, autrement dit, d'élargir son propre moi au-delà de ses limites naturelles ; mais d'un autre côté, elle implique une certaine abnégation nécessaire à toute charge éducative, une abnégation qui demande que l'on s'oublie soi-même en se préoccupant activement de ce dont on est responsable. C'est cette abnégation qui est source de maturation chez les adultes, même s'il faut ajouter immédiatement que celle-ci ne doit pas être vécue de telle manière qu'elle entraîne le désir plus ou moins conscient de faire payer à ceux dont on a la charge le prix des sacrifices consentis. On pourrait dire aussi que la générativité combine le désir de maîtrise avec le désir de communion : le désir de maîtrise concerne la tendance naturelle qu'il y a en chacun de veiller à son propre épanouissement et à tout ce qui peut exalter son moi ; le désir de communion concerne la tendance qu'il y a en chacun de partager ce que l'on est avec les autres, de s'oublier pour quelque chose qui le dépasse. La générativité est fai7 C'est pourquoi je ne suis pas bien d'accord quand on traduit générativité par fécondité ; il faut dire plutôt que la fécondité est un des fruits de la générativité. Cf. Un Chartreux, Vers la maturité spirituelle, Presses de la Renaissance, 2002, p. 72. 8 Renée Houde, Les temps de la vie, Gaëtan Morin, 1989, p. 35. 9 E. Erikson, Éthique et psychanalyse, Flammarion, 1971, p. 136. Souligné par l'auteur.
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te de ces deux tendances qui entrent parfois en conflit. Autrement dit, on peut vivre ses responsabilités (parentales, professionnelles, etc) pour des motifs bien différents : pour exister aux yeux des autres, pour gagner de l'argent, pour exercer sa volonté de puissance, ou au contraire par esprit de service, pour le bien des autres. Entrer dans une attitude authentiquement générative suppose donc que l'on se mette au clair sur ses motivations et qu'on les purifie éventuellement.
Élargissement du concept de générativité Plusieurs auteurs ont rebondi sur le concept de générativité tel que présenté par Erikson et lui ont apporté des nuances supplémentaires.
Les types de générativité - Un auteur propose de distinguer quatre types de générativité10. Sa proposition a le mérite d'en déployer de manière suggestive les dimensions possibles.
Type
Action
Objet génératif
Biologique
Concevoir des enfants, les mettre au monde et les nourrir
le bébé
Parentale
Éduquer des enfants et les introduire aux traditions familiales
l’enfant
Professionnelle
Enseigner des compéten- l’apprenti, la compétence ces techniques et transmettre aux successeurs les systèmes symboliques dans lesquels elles sont inscrites
Culturelle
Créer, renouveler et con- le disciple, la culture server un système symbolique, l’esprit d’une culture. Les communiquer à ses successeurs
[Traduction : R. Comte] Ce tableau montre que le socle de la générativité réside dans la parentalité (c'est aussi la perspective d'Erikson). De fait, beaucoup de jeunes adultes sortent de leur immatu-
10 John Kotre, cité dans Dan McAdams, The person, Harcourt Brace, 1994, p. 679.
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rité en devenant parents : un psychanalyste parle à cet égard d'une « urgence bénéfique qui détache de soi-même » et d'un « arrachement bienfaisant causé par la responsabilité » de l'enfant. Mais l'explicitation des quatre types de générativité implique aussi que celle-ci ne passe pas nécessairement par l'engendrement physique. Même pour Erikson, la paternité ou la maternité physiques ne suffisent pas à la générativité (il est plus facile d'engendrer des enfants que de se charger de leur éducation) ; inversement, nous connaissons tous des personnes sans charge de famille dont la vie est toute donnée aux autres (et cela ne vaut pas seulement pour les religieux…). Quant aux « objets génératifs », ils concernent l'éducation de diverses manières, la transmission de la foi pouvant être considérée comme une variante de la générativité culturelle. Une autre façon de déployer la manière de vivre la générativité consiste à évoquer certaines fonctions nécessaires à toute société pour qu'elle soit vivante au plan humain11. On peut en retenir quatre : * les gardiens du sens sont les personnes qui se préoccupent de préserver les traditions de leur culture. Il semble qu'elles se situent habituellement entre la 7e étape d'Erikson (générativité) et la 8e étape (vieillesse) ; autrement dit, il s'agit de personnes ayant le sens de la générativité (elles savent qu'elles ont à transmettre quelque chose) et qui ont acquis une certaine sagesse par leur expérience de la vie. * les mentors sont des guides dans le domaine pratique, à la différence des gardiens du sens qui sont des balises culturelles. Le mentor est un hôte qui accueille quelqu'un entrant dans un monde nouveau pour lui (en particulier dans le domaine professionnel). Il stimule par son exemple, transmet ses compétences, prodigue des conseils ; c'est par-dessus tout quelqu'un qui croit au rêve du jeune qu'il accompagne. * les 'amortisseurs' ou 'pare-chocs' (buffers) connaissent les tendances destructrices d'une société (ou d'un groupe social) et savent en protéger les nouvelles générations ; dans les familles, ils savent arrêter des transmissions malsaines. C'est un rôle délicat, car il s'agit d'aller à l'encontre de pratiques bien établies. * les compagnons de route ou les groupes de soutien savent être présents aux moments difficiles ou savent soutenir quelqu'un quand son entourage ne sait pas reconnaître ses qualités particulières.
Les moments de la générativité - Selon Erikson la générativité est un défi que l’adulte
rencontre au moment où il parvient à l’étape de la maturité (Erikson ne précise pas à quel âge se succèdent les diverses étapes de la vie adulte ; certains auteurs suggèrent que la période concernée ici va de 25 à 65 ans). De plus, Erikson évoque la générativité en termes assez globaux, tout en notant que celle-ci recouvre une longue période de responsabilités. Une équipe de chercheurs a procédé à des enquêtes pour vérifier
11 J. Kotre, « Generativity and culture ; what meaning can do », dans The generative society, pp. 42-44.
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si le sens de la générativité ne connaissait pas une évolution interne12. Elle a en explicité l'évolution de la manière suivante : « le désir de générativité émerge quand on est jeune adulte, la capacité pour la générativité reçoit toute sa force au milieu de la vie, l’accomplissement de la générativité a lieu au temps de la vieillesse ». Selon ces auteurs, si le milieu de la vie semble par excellence le temps de la générativité, c’est parce qu’à ce moment-là la capacité est à son plus haut niveau, tandis que le désir est encore présent et que l’accomplissement devient visible (par exemple quand on voit ce que sont devenus les enfants lorsqu'ils se sont installés dans la vie)13. Ils ajoutent aussi que le domaine de la générativité s’élargit sans doute avec le temps : on s’intéresse d’abord à ses enfants, puis on élargit progressivement ses préoccupations à l'ensemble de la vie sociale. Cela peut aller, au temps de la vieillesse, jusqu’à la préoccupation de ‘la maintenance du monde’, selon une expression hindoue reprise par Erikson : c'est une telle préoccupation que manifeste H. Jonas quand il attire notre attention sur notre responsabilité à l'égard de l'avenir de l'humanité14. Par ailleurs, la générativité est liée aux divers rôles que nous sommes appelés à jouer (en famille, au travail, dans la société, dans divers engagements). D'où la question : sommes-nous également génératifs dans tous nos rôles ou est-ce que nous ne nous investissons pas de manière préférentielle dans l’un d’entre eux (l'éducation des enfants, le métier, tel type d’engagement…) ? De ce point de vue, l'implication des hommes et des femmes se module différemment. D’où une autre question peu étudiée : quels sont les limites, les coûts et les excès possibles de la générativité ? Que l'on pense aux réactions parfois agacées d’enfants de militants, aux problèmes de couple engendrés par l’écart entre les engagements de chacun, aux Frères tellement absorbés par leurs tâches d'enseignants qu'on peut s'interroger sur le genre de témoignage qu'ils donnent.
Remarques anthropologiques L'approche psychologique décrit concrètement comment émerge et se développe l'attitude générative. Par les remarques anthropologiques (ou philosophiques) qui suivent, je voudrais suggérer quelle en est la signification dans l'existence humaine.
Donner après avoir reçu - Entrer dans l'attitude de générativité, nous le savons, c'est passer de la préoccupation de soi à la préoccupation d'autrui, en particulier au souci de ceux dont on est chargé. Il s'agit pour ainsi dire d'inverser notre ordre de préoccupation. Partons d'une remarque faite par un écrivain juif contemporain (J. Attali) qui citait une phrase du Talmud selon laquelle « on n'est juif ni par son père, ni par sa mère, mais par ses enfants » ; autrement dit, on n'est pas juif parce que les parents ont transmis cette identité, mais parce qu'on l'a soi-même transmise à ses enfants (il 12 A. Stewart and E. Vandewater, « The course of generativity », dans D. McAdams and Ed de St Aubin, Generativity and adult development, American psychological association, 1998, pp. 75-100. 13 Les enseignants ont parfois eu le temps de voir évoluer leurs anciens élèves et sont fiers de ce qu'ils sont devenus. 14 Cf. H. Jonas, Le principe responsabilité, Flammarion, Coll. Champs, 2008.
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est plus habituel de dire que l'on est juif par sa mère). J. Attali élargit la portée de l'affirmation paradoxale du Talmud en la traduisant ainsi : « l'être humain n'est pas ce qu'il reçoit, mais ce qu'il transmet ». Je trouve cette remarque très intéressante pour notre réflexion. Elle signifie que ce n'est pas uniquement ce que nous avons reçu de nos parents qui nous fait humains, c'est aussi et surtout ce que nous transmettons à notre tour. Nous commençons tous par recevoir : recevoir la vie, recevoir de l'amour, recevoir une éducation. C'est à partir de là que nous nous construisons. Tout cela, nous l'avons reçu gratuitement, cela nous a été donné. C'est ce don gratuit qui nous fait vivre au plein sens du terme, qui fait que nous nous sentons pleinement autorisés à vivre. Il arrive que la gratuité ne soit pas présente : quand des parents rappellent sans cesse ce qu'on leur doit, quand ils manifestent un amour intéressé ou captateur, ils transforment les relations en un continuel marché qui va contaminer la vie affective. Il y a là une perversion de l'amour, mais cette perversion indique à sa manière que nous avons contracté une dette à l'égard de ceux qui nous ont donné de vivre. En tout état de cause, la question est de savoir comment vivre positivement notre rapport à cette dette. Il semble que cela soit possible à deux conditions. La première est du côté de ceux qui nous ont donné la vie : ils nous permettront d'assumer positivement cette dette
s'ils ne la transforment pas en fardeau à porter, mais la présentent comme un cadeau à accueillir avec gratitude. Comme le remarque un auteur, qui s'appuie sur de nombreux contes traditionnels, « le vouloir-vivre qui anime chacun de nous peut être pour nos enfants15 un don premier aussi bien qu'un poison : don inestimable dans la mesure où nous acceptons de le leur transmettre (c'est-à-dire, à terme, de mourir) ; poison qui les empêche d'exister dans la mesure où nous tendons à garder pour nous ce qui nous fait être et désirons secrètement ne pas passer le relais »16. Quant à nous, au sens propre, il nous est tout à fait impossible de « rembourser » la dette contractée à l'égard de ceux qui nous ont donné la vie. A leur égard, nous ne pouvons que manifester par notre manière de vivre combien nous apprécions ce que nous avons reçu. Comme l'écrit un auteur, « la dette filiale s'enracine dans la dépendance, la passivité première de celui qui reçoit et n'est jamais à la hauteur de l'incommensurable don qui lui est fait »17. Le don de la vie qui nous a été fait n'est pas réversible : nous ne pouvons pas rendre la vie à ceux qui nous l'ont donnée ; par contre, nous pouvons montrer comment nous l'avons accueillie. Mais si nous ne pouvons pas donner la vie à ceux qui nous l'ont transmise, nous pouvons la donner à d'autres : c'est donc en étant à notre tour donneurs de vie (quelle qu'en soit la manière) que nous pouvons acquitter notre dette. De ce point de vue, on peut dire que c'est ainsi que nous devenons pleinement adultes : nous passons alors d'une position de réceptivité à une position où nous manifestons à notre tour notre puissance d'agir. C'est ce qu'exprimait explicitement une jeune religieuse, quand elle disait : « ce que j'ai reçu est incalculable ; je voudrais donner de façon tout aussi incal15 On peut élargir la remarque aux jeunes dont nous assurons l'éducation. 16 François Flahault, Be yourself, Mille et une nuits, 2006, p. 171. 17 N. Sarthou-Lajus, L'éthique de la dette, PUF, 1997, p. 39.
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culable mon temps, ma disponibilité, mon amour ». Cela suppose de reconnaître que nous n'avons pas toujours été adultes et donc que ce que nous sommes devenus nous a d'abord été donné. Mais il arrive que l'on oublie cette donnée élémentaire. Fr. Flahaut fait remarquer par exemple qu'à sa connaissance « il n'existe aucun texte dans la tradition philosophique occidentale qui relie la question de la réalisation de soi [...] à ce qui est reçu des parents et vécu dans l'enfance »18. Ce qui a fait écrire à N. Elias : « on dirait que tous les adultes lorsqu'ils se penchent sur leur origine oublient sans le vouloir que tous les adultes ont été des petits enfants quand ils sont venus au monde »19. A l'encontre de cette illusion, l'adulte qui n'oublie pas ses origines reconnaît ce qu'il a reçu et considère sa dette « comme une avance de ressources permettant le don de soi-même »20. Autrement dit, l'adulte reconnaît que son endettement originaire « est fondateur d'une responsabilité à l'endroit du don qui lui est fait et du donateur. Cette responsabilité l'engage à ne pas dilapider son bien et à rendre au moins l'équivalent de ce qui a été donné [...] ou à faire fructifier le don en lui conférant une valeur qui excède » ce qu'il a reçu (id.). Le premier enjeu anthropologique concerne donc l' accès de chacun à sa pleine humanité. Devenir génératif, c'est, après avoir accueilli le don de la vie, la transmettre à notre tour parce qu'elle est un don que nous n'avons pas à nous approprier.
La chaîne des générations Quittant le point de vue individuel, j'en viens maintenant à considérer la générativité comme ce qui maintient vivant le cycle des générations. Je me place donc du point de vue de la société. Vue sous cet angle, la générativité conduit à prendre en compte une solidarité qui n'est pas spontanée dans nos sociétés. Je prends deux exemples dans mon propre pays. Le premier concerne la solidarité financière entre les générations, solidarité qui passe par le financement des systèmes de retraite : tout se passe comme si la génération actuelle ne voyait que son propre profit et oubliait dans quelle situation elle va laisser la génération suivante qui ne sera pas en mesure d'avoir les mêmes avantages qu'elle. Le deuxième exemple concerne l'environnement : la génération actuelle ne semble pas trop se soucier de l'état de la planète qu'elle va laisser après elle, l'important étant de continuer à exploiter à fond les ressources naturelles, même si cela s'accompagne de nombreux effets pervers à moyen et long terme (c'est une des sources de la réflexion de Jonas). Il semble que l'on soit incapable de voir audelà de sa propre génération. C'est peut-être d'ailleurs une tentation surtout occidentale, si j'en juge par la remarque que faisait un vietnamien à un visiteur français : « nous, les Asiatiques, nous pensons que la société repose sur les liens entre générations, alors que vous, les Occidentaux, vous croyez que la société est une association entre contemporains »21..
18 Fr. Flahault, op. cit., p. 58. 19 Norbert Elias, La société des individus, Pocket, p. 57 20 N. Sarthou-Lajus, op. cit., p. 192. 21 Cité dans Fr.Flahault, op. cit., p. 58.
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Ce qui est en jeu dans la générativité concerne donc le lien entre les générations : nous ne sommes pas seulement liés à nos contemporains, nous le sommes aussi à ceux qui nous ont précédés et à ceux qui nous succèderont. La générativité inscrit chacun de nous dans une durée qui le dépasse en amont (ceux qui lui ont donné la vie) et en aval (ceux à qui il transmet la vie) ; de ce point de vue également, elle demande que l'on sorte de soi pour s'ouvrir à l'autre dans un équilibre que chacun doit trouver entre le donner et le recevoir. La générativité implique donc une double orientation : vers nos prédécesseurs et vers nos successeurs. Vers nos prédécesseurs en accueillant ce qu'ils nous ont transmis ; vers nos successeurs en leur transmettant à notre tour ce dont nous sommes porteurs et, ajouterait H. Jonas, en leur laissant un monde vivable. C'est ainsi que nous assurerons ce qu'Erikson appelait, en utilisant une expression venue de l'Inde, « la maintenance du monde »22. Ce qu'il faut souligner, c'est que cette maintenance du monde ne se réalise pas par la seule succession chronologique des générations. Elle suppose que chaque génération soit à son tour source d'initiative à partir de ce qu'elle a reçu de la génération antérieure. Il s'agit en effet de transmettre de la vie et pas simplement un « prolongement fragile d'habitudes »23 (on ne transmettrait alors qu'une tradition morte). Nous le savons : nous ne transmettons bien que ce qui nous fait vivre ; cela ne passe pas d'abord par des mots, mais par des attitudes qui communiquent une certaine énergie à nos interlocuteurs ; c'est cela que nous retenons quand nous repensons à ceux qui ont réellement été des passeurs pour nous : ils nous ont communiqué quelque chose de l'ordre du désir, ils ont allumé une flamme en nous. C'est de ce côté-là que se passe la transmission de l'essentiel. Ainsi, la transmission est une communication de vivant à vivant. On pourrait donc dire que la générativité, c'est cette capacité à communiquer de la vie à ceux qui nous succèdent, de même que nous reconnaissons avoir reçu de la vie de ceux qui nous précèdent. Ce que nous avons donc à transmettre, c'est la vie, c'est « une relation qui court parmi les humains, qui passe de génération en génération, cette relation toute première qui fait qu’un être humain peut s’aimer lui-même parce qu’il a reçu l’amour et qu’ainsi il pourra le donner » ; c'est « ce qui est indispensable aux humains pour qu'ils aient une vie possible dans un monde habitable et la force de supporter leur condition » (M. Bellet). Transmettre la vie, transmettre un monde habitable, c'est transmettre un monde où l'on puisse trouver sa place, c'est transmettre un monde où l'on puisse trouver ses repères, un monde qui ait un sens. Il s'agit d'initier chaque fois une nouvelle genèse de l'humain. Prendre sa place dans le processus de transmission, c'est aussi accepter de changer de génération (nous ne sommes plus un jeune qui se contente de recevoir) et se préparer à plus ou moins long terme à faire place à ceux qui vont nous remplacer. C'est là une des sources du refus de transmettre : « le malaise dans la transmission est lié à la difficulté de s'inscrire dans la différence des générations, à la peur de vieillir et d'assumer son rôle d'aîné, à la difficile acceptation de mourir, de céder sa place à quelqu'un d'autre que soi. Toute succession est vécue comme une expulsion douloureu22 Voir Myriam Revault d'Allonnes, « De l'autorité à l'institution », dans Esprit, août-septembre 2004. 23 Maurice Bellet, La transmission (intervention aux Semaines sociales), repris dans La Croix, 25 novembre 2005.
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se »24. Mais il faut souligner également que c'est par un acte d'espérance que l'on peut surmonter cette peur diffuse que cache la difficulté à transmettre. En effet, « il n'y a pas de transmission sans une confiance dans l'avenir, sans la croyance que les générations auront elles aussi, un avenir, un monde neuf à construire ». Car, « dans la transmission, la jubilation de la passation de la vie prend le pas sur l'angoisse de sa finitude » (id.).
Responsabilité éducative et générativité Ces réflexions générales sur la transmission entre les générations s'appliquent évidemment à l'action éducative des enseignants. En effet, « une école est fondamentalement un espace de tradition entre générations »25. Plus précisément, l'école occupe une place stratégique centrale dans le processus de transmission.
L'école comme institution de transmission - On peut dire que « les enseignants sont
une sorte de conscience de soi de la société globale. Ils sont le corps institué dans lequel une société consent assez à elle-même pour vouloir transmettre ce qui lui tient à coeur aux jeunes qui arrivent ; le lieu aussi où elle prend un certain recul critique visà-vis d'elle-même et décide de ce qu'elle veut vraiment être dans la conscience de ceux qui vont venir ; le lieu enfin où tout à la fois se garde la mémoire du passé et s'ouvre infatigablement l'avenir »26. Ainsi, par ses enseignants et les orientations qu'elle leur donne, une société transmet ce qui lui importe aux nouvelles générations : c'est toute la question du contenu des programmes scolaires et de leur esprit. Par ses enseignants, une société décide de la manière dont elle va faire grandir la liberté des jeunes confiée à son système scolaire. Par ses enseignants, une société décide de la manière dont elle va articuler le rapport entre son espace d'expérience et son horizon d'attente: autrement dit, elle choisit autour de quoi elle entend rassembler ses membres dans une mémoire commune en les initiant à sa culture (espace d'expérience) et vers quoi elle les incite à se dépasser (horizon d'attente).
Alors, il n'est pas étonnant que les sociétés incertaines d'elles-mêmes soient aussi incertaines de la mission de leur école. Il arrive même que certaines sociétés rejettent leur héritage et n'aient plus envie de le transmettre. C'est à leur propos que l'écrivain Charles Péguy († 1914) écrivait : « quand une société ne peut pas enseigner, c'est qu'elle a honte, c'est qu'elle a peur de s'enseigner elle-même [...] Une société qui ne s'enseigne pas est une société qui ne s'aime pas, qui ne s'estime pas ». La manière dont l'école est perçue par la société est donc révélatrice de la société elle-même et l'on pourrait donc l'analyser sous cet angle. Mais ce n'est pas notre propos. Il s'agit plutôt de proposer quelques remarques sur le métier d'enseignant comme expression de la générativité.
Être enseignant : une manière de vivre la générativité - Une première approche de notre question consiste à remarquer que l'éducateur/enseignant est en position de médiateur entre les générations : c'est à lui que la société confie une grande part de 24 N. Sartou-Lajus, « Le goût de transmettre », dans les Etudes, février 2008. 25 Marguerite Léna, Le passage du témoin, Parole et silence, 1999, p. 96. 26 Id., p. 101.
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la responsabilité d'accompagner la croissance de ses enfants et de ses jeunes. Pour exprimer tout le poids humain de la fonction éducative, H. Arendt a écrit jadis que le professeur est responsable du monde devant ceux qu'il éduque. Il lui revient de leur dire, au nom des autres adultes qu'il représente : « voici notre monde »27. Chargé plus que d'autres d'assurer le lien entre les générations, il a la responsabilité d'assurer le lien entre l'ancien (la culture qu'il transmet) et le nouveau (la génération montante). L'enseignant se tient à un carrefour où il croise les jeunes, mais aussi leurs parents et l'institution sociale dont il est le représentant. Son rôle est d'autant plus délicat que la société dont il est membre n'est pas unanime sur ses valeurs et ses objectifs ; il risque alors d'être pris entre des attentes contradictoires de la part de ses divers interlocuteurs (d'où les tensions psychologiques parfois vives que connaissent certains enseignants). Son rôle devient particulièrement sensible quand les relations entre générations sont en difficulté, ce qui est souvent le cas aujourd'hui. Alors, il s'agit pour lui de « se tenir sur cette ligne de fracture, en passeur, en artisan d'unité, en sachant que cette unité est sans cesse à créer, à recréer »28. Confident des uns et des autres, il lui arrive d'être informé de certains drames familiaux par les jeunes ou par leurs parents : sa relation éducative en sera souvent marquée ; il lui arrivera de rétablir des relations entre des personnes ou d'assurer un soutien psychologique déterminant pour l'avenir d'un jeune. Médiateur entre les générations, l'enseignant a charge de transmission. Celle-ci passe par des savoirs (connaissance de la langue, sciences, histoire et géographie, mathématiques, etc.), mais – on vient de l'évoquer – elle les déborde largement : ce qui est transmis, c'est tout aussi bien des valeurs que des savoir-vivre en collectivité (l'école doit à nouveau assurer cette éducation élémentaire à la vie sociale dont s'est soucié le Fondateur, de nombreuses familles n'ayant plus la capacité de le faire elles-mêmes).
Comment vivre cette responsabilité ? - Cela demande forcément une forte implication de la part de l'éducateur et cette implication est nécessaire. Vue ainsi, la transmission passe par la personne de l'éducateur dont les qualités relationnelles sont essentielles. Évidemment, l'action éducative suppose la compétence professionnelle, sinon on n'est pas crédible, mais elle déborde le champ de la compétence parce qu'elle concerne toute la personne. Cela revient à dire que l'éducateur est aussi un témoin. Mais il faut souligner qu'on est témoin par ce qui émane de soi sans qu'on l'ait calculé: c'est le rayonnement de la personne qui est en jeu ici. Comme l'a écrit R. Panikkar, « le vrai témoignant témoigne comme malgré lui, sans avoir, à proprement parler, l'intention de témoigner. Il porte témoignage, et il s'en rend compte, mais il ne donne pas le témoignage pour témoigner. Il témoigne parce que contraint à le faire, pour ainsi dire, poussé par sa conviction et par la force de la vérité qu'il croit témoigner. C'est le témoin qui découvre le témoignage du témoignant ». Le même auteur ajoute : le témoignage, c'est « l'épiphanie spontanée d'une expérience »29. Cette manière de comprendre le témoignage me paraît essentielle : elle invite à dépasser la 27 Hannah Arendt, La crise de la culture, Idées/Gallimard, Paris 1972, p. 243. 28 M. Léna, « Défis éducatifs contemporains et vie consacrée », dans Mgr Dagens (dir.), Pour l'éducation et pour l'école. Des catholiques s'engagent, O. Jacob, Paris 2007, p. 109. 29 Raymond Panikkar, « Témoignage et dialogue », dans Le témoignage, Aubier, Paris 1972, p. 383 et 384.
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simple conformité à nos rôles sociaux : si nous nous contentions de cette conformité, notre principal souci serait de composer un personnage pour influencer les autres ; mais alors notre influence éducative serait sans doute assez artificielle. Par contre, nous n'avons pas de maîtrise sur le témoignage que nous donnons parce qu'il est l'expression spontanée de notre être profond, hors de tout calcul. Vue ainsi, la générativité est un don que les autres reçoivent de nous hors de toute pression de notre part ; c'est pourquoi ils peuvent l'accueillir en toute liberté. C'est pourquoi aussi nous n'avons pas de maîtrise sur ce que nous transmettons de plus profond (quand nous en avons un écho, nous sommes les premiers surpris). Bien entendu, nous pouvons transmettre un savoir (et les résultats aux examens viennent le confirmer), mais nous n'avons pas accès à la manière dont les jeunes (comme les adultes) accueillent les convictions que nous voulons leur inculquer, cela nous échappe. Il y a là une dépossession radicale de l'éducateur : « transmettre, c'est accepter que ce que je transmets devienne autre en celui à qui je le transmets et commence en lui une vie nouvelle. Nul ne sait ce que nos élèves feront de ce que nous leur proposons. Les parents savent bien qu'ils donnent à leurs enfants les moyens de contester l'éducation qu'ils ont reçue, mais ce n'est pas une raison pour ne pas faire l'éducation. Réciproquement, recevoir une tradition, c'est accepter spirituellement une origine: consentir à faire sien ce qui était d'abord autre, s'en laisser altérer et se constituer débiteur »30. Nous le voyons : transmettre engage la liberté, celle des éducateurs comme celle des jeunes. C'est à cette condition que l'éducation ne sera pas un dressage ou un conditionnement. Mais il n'est pas évident de se situer sur ce registre-là : l'enseignement permet aussi de se faire plaisir, il est parfois un lieu de séduction (on essaie de capter l'affectivité de ses interlocuteurs). La frontière est souvent subtile entre le légitime souci d'établir de bonnes relations et la recherche plus ou moins consciente de l'admiration ou de l'attachement affectif. Comme le remarque une religieuse qui a beaucoup réfléchi aux implications de l'éducation, « il ne faut pas s'étonner que le geste de transmettre rencontre des résistances en soi-même et dans ses destinataires : il n'est jamais aisé de donner vraiment, c'est-à-dire sans encombrer ou dominer celui à qui on donne ; il n'est jamais aisé de recevoir vraiment, c'est-à-dire de se laisser transformer par d'autres sans aliéner son identité propre »31. Je terminerai cette réflexion anthropologique en soulignant une vérité bien connue, à savoir que l'éducation est oeuvre de patience. Nous ne voyons pas toujours les fruits de notre action, ce sont parfois les autres qui bénéficient des maturations que nous avons initiées. Enfin, nous savons tous que les connivences entre enseignants et enseignés ne sont pas également réparties : nous avons des difficultés avec des jeunes qui font le bonheur de collègues et inversement. Une autre raison pour ne pas nous approprier l'action éducative qui ne peut être qu'une oeuvre collective. En fin de compte, les enseignants sont « les jardiniers des lentes croissances » et « les gardiens
30 M. Léna, Le passage du témoin, p. 102-103. 31 Id., p. 103
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de la longue durée »32. Telle est leur mission. Une mission qui est au coeur de la construction de l'humain, de l'humain en nous-même, de l'humain en autrui.
Dimension spirituelle de la générativité Les dernières remarques n 'étaient pas loin d'une approche spirituelle. Que peut-on en dire plus spécifiquement ? Le milieu de la vie, période par excellence de la générativité, est l'âge des responsabilités, des réalisations et de l'accomplissement. Mais l'expérience suggère aussi que le risque de se laisser dominer par ses responsabilités n'est pas négligeable. C'est pourquoi il peut être important de dire un mot sur la manière de les vivre d'un point de vue spirituel. Sur ce point, nous pouvons nous laisser inspirer par quelques textes du Nouveau Testament. J'en retiens trois séries.
Les textes sur l'intendant - On les trouve dans l'évangile selon saint Luc : paraboles de
l'intendant fidèle (Lc 12, 42-46) et de l'intendant habile (16, 1-8), ainsi que dans une réflexion de Paul sur la transmission de l'Évangile (1 Co 4, 1-5). Selon ces textes, l'intendant a trois caractéristiques : il est serviteur et non propriétaire ; il agit avec sagesse et fidélité (on peut lui faire confiance, il est fiable); il exerce ses responsabilités en l'absence du maître auquel il rendra compte lors de son retour (il assure la gérance de ses biens dans le même esprit que lui et selon ses intérêts). Gérant ce qui ne lui appartient pas, il doit apprendre à « s'occuper de » sans exercer la maîtrise dernière sur les biens du maître. De ce point de vue, la maturation spirituelle consiste à purifier la manière d'exercer le pouvoir. En effet, la tentation du responsable est de se considérer comme le propriétaire de ce qu'il n'a qu'en gérance, soit en se conduisant en autocrate, soit en ne sachant pas passer le relais. Vivre une responsabilité de manière évangélique, c'est donc accepter le dépouillement au cœur même de ce qui est source des plus grandes satisfactions.
La parabole des talents - Il est intéressant d’évoquer également la parabole évangéli-
que des talents qu'on trouve dans l'évangile selon saint Matthieu (Mt, 25, 14-30)33. En effet, en parlant de compétence et de nos réalisations, c’est bien quelque chose de l’ordre des talents qui est en question. Que nous dit la parabole à ce sujet ?
* les talents sont donnés et non pas mis en gérance. Remarquons d'abord que le maître « donne » les talents à ses serviteurs. Autre remarque : ce don est total : « il leur remet ses biens », ou « sa fortune » (aucune restriction dans le don). Lors de son retour, il ne reprend rien. Les serviteurs montrent les talents reçus comme les talents gagnés (‘vois’), mais le texte ne dit pas qu’ils les rendent. Nous sommes habitués à une autre lecture : les talents seraient confiés temporairement pour que les serviteurs aient le temps d’augmenter le magot du maître, qui reprendrait tout à la fin, les talents confiés et ceux qui ont été ajoutés. En fait, le don est définitif. Le départ du maître serait d’ailleurs sa manière de laisser pleinement toute la place aux serviteurs, de prendre de la distance pour qu'ils aient les coudées franches ; autrement dit, qu'ils reçoivent ce cadeau en toute liberté.
32 Id. p. 101. 33 Ce commentaire doit beaucoup aux remarques de Marie Balmary, Abel ou la traversée de l'Eden, Grasset, 1999, chap. 3. Je m'appuie sur sa traduction.
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* les talents sont donnés différemment selon les serviteurs. Pourquoi l’un a-t-il reçu cinq talents, l’autre deux et le troisième un seul ? Le texte dit que chacun a reçu « selon sa propre force », selon « ses capacités ». Autrement dit, chacun a reçu selon ce qu’il est : « à chacun sa puissance ». Plus précisément : « chacun doit suivre sa voie : elle lui signifie sa puissance et sa limite »34. Chacun de nous, en avançant en âge, prend peu à peu conscience de sa puissance propre (pas seulement ce qu’il sait faire, mais aussi ce que sa personne manifeste comme type d’humanité) et de ses limites (pas seulement ses incompétences, mais aussi les questions de la vie qu’il n’a pas eu à affronter ou n’a pas su affronter). Quand le texte dit que chacun a reçu un nombre différent de talents, il suggère que ceux-ci n’ont pas été distribués de manière indifférenciée ou anonyme. * recevoir ses talents comme un don. La réaction du troisième serviteur souligne encore autre chose : il n’a pas compris qu’il avait reçu un don, mais il a reçu son talent comme quelque chose qu'il doit restituer intact. Au contraire, ceux qui ont reçu leurs talents comme un don l’ont fait fructifier. M. Balmary suggère que ces talents donnés sont le symbole de l’invitation faite par Dieu à chacun de nous de participer à son œuvre créatrice. De même que Dieu, dans son œuvre de création, est créateur de biens, de même les serviteurs sont invités à devenir créateurs à leur tour, à l’image de leur maître. C’est donc en entrant dans la générosité créatrice de Dieu que nous devenons créateurs à notre tour ; mais si nous ne voyons que mesquinerie en Dieu, c’est ainsi que nous serons nous-mêmes.Vivre la générativité d’un point de vue spirituel, c’est donc reconnaître que ce que nous communiquons de plus fort est un don reçu.
Paul, Apollos et Dieu - J'aime aussi me référer à un texte de Paul (cf 1Co 3, 4-11) que le Fondateur évoque à plusieurs reprises dans ses Méditations pour le temps de la retraite (193, 196, 199, 205, 208). Il vaut la peine de relire ce texte qui est pour
moi la charte de ceux qui annoncent l’Évangile. Qu'y trouvons-nous ? * comme Paul et Apollos, nous sommes « des serviteurs par qui d'autres peuvent être amenés à la foi » (v. 5). Nous exerçons une réelle responsabilité dans l'annonce de l'Évangile Mais remarquons l'expression de Paul : nous pouvons « conduire les autres à la foi », ce qui ne signifie pas exactement que nous la donnons ; nous permettons que d'autres s'en approchent. Ce n'est pas rien puisque Paul précise que « chacun recevra son salaire à la mesure de son propre travail » (v. 8). * chacun agit « selon les dons que le Seigneur lui a accordés » (v. 5). Tous n'ont pas à jouer le même rôle, la théologie des charismes (1Co 12) le redit à sa façon : chacun reçoit le don de manifester l'Esprit en vue du bien de tous. Ne nous jalousons pas et ne nous querellons pas, comme les Corinthiens, pensons plutôt à nos complémentarités : « nous travaillons ensemble à l’œuvre de Dieu » (v. 9). * enfin, voilà sans doute ce qui demande le plus grand dépouillement : si l'un plante et si l'autre arrose, « c'est Dieu qui fait croître » (v. 6). Nous sommes « le champ que Dieu cultive, la maison qu'il construit »(v. 9). Autrement dit, nous ne sommes pas les auteurs de la foi chez les autres ; celle-ci vient de Dieu. Nous n'avons pas prise làdessus. Paul dit même : « celui qui plante n'est rien, celui qui arrose n'est rien ; Dieu seul compte, lui qui fait croître » (v. 7). 34 Maurice Bellet, La Voie, Seuil, 1982, p. 85.
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Paul nous met donc devant une vérité paradoxale : il faut dire en même temps que c'est Dieu qui fait germer et croître la foi en autrui (et non pas nous) et qu'il nous revient d'assurer les conditions de l'éclosion et de la croissance (il faut planter et arroser). Il y a là en même temps l'appel à exercer nos responsabilités et le rappel de la plus grande dépossession. Notre responsabilité s'arrête au seuil de la liberté d'autrui: « c'est Dieu qui donne la foi et non pas le témoin qui ne sait même pas toujours qu'il a été l'occasion et n'a même pas besoin de le savoir »35. Ici, nous vivons notre " mystère pascal " de témoin de l’Évangile : il nous faut consentir à une certaine impuissance au moment même où nous communiquons ce qui nous est le plus cher.
Efficacité et fécondité La générativité renvoie aux traces de notre action, avec ce qu’elles ont de palpable (une école qu’on a construite ou agrandie, une réforme pédagogique que l’on a introduite, une nouvelle organisation dont on a pris l’initiative). Mais nous savons aussi que certains résultats ne sont pas mesurables : c’est le cas de l’action éducative (que l’on soit parent, éducateur ou catéchiste). S’il y a des actions dont on peut mesurer l’efficacité, il en est d’autres dont on peut discerner la fécondité. Dans un cas, on parlera des produits ; dans l’autre cas, on utilisera l’image des fruits. Comment peut-on distinguer entre ces deux réalités ?
L’efficacité - L’efficacité est mesurable : une usine doit produire tant de voitures par jour ; un agriculteur connaît le rendement moyen de ses arbres fruitiers ou de ses céréales (même s’il y a les aléas climatiques) ; l’augmentation du nombre d’élèves dans une école est mesurable, de même que le nombre de réussites à l'examen (et les écoles sont fières de publier leur palmarès annuel). De plus, on sait les moyens qu’il faut prendre pour être efficace (telle organisation du travail, tel équipement technique à l’usine ; l’usage de tel engrais ou de telle semence, un traitement adéquat des plantes dans une ferme ; la création de nouvelles sections dans une école). Le lien entre les moyens et les résultats est calculable. L’efficacité repose sur la compétence ; elle fait appel à un savoir et à un savoir-faire technique. Elle renvoie à une tournure d’esprit spécifique : la capacité d’établir le rapport entre un résultat recherché et les moyens à mettre en œuvre. La fécondité - La fécondité est plus difficile à évaluer : quand l’éducation d’un garçon ou d’une fille est-elle réussie ? comment mesurer les fruits d’une action pastorale dans une école ? Si l’utilisation de certains moyens n’est pas indifférente (par exemple, on change régulièrement les documents catéchétiques pour qu’ils soient adaptés à l’évolution des jeunes et de la société), beaucoup d’impondérables interviennent également (comme l’ambiance d’une classe, l’esprit d’une équipe pédagogique ou l’histoire des personnes). Bien plus, il est souvent difficile de connaître les fruits de notre action, au moins à court terme ; c’est pourquoi il nous faut croire à la fécondité de la Parole de Dieu alors qu’apparemment, il n’y a pas de résultats chiffrables.
35 Henri Vergote, « Le chrétien peut-il témoigner sa foi par mode de témoignage ? », dans Vérité et vie n° 87, fiche 625.
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Si la compétence n’est pas à négliger (que penser d’un catéchiste qui n’aurait aucune formation ?), elle ne suffit pas. Selon le P. Rondet, si l’efficacité, « c’est ce qu’on peut attendre de nos efforts et de notre compétence, la fécondité, c’est plus intime et plus secret. C’est le fruit gratuit de l’action de l’Esprit en nous ». L’efficacité ne peut donc pas être la première préoccupation de notre action. Il s’agit plutôt de « rencontrer des hommes et des femmes (j'ajoute : des jeunes) et d’offrir à leur liberté un chemin d’évangile ». C’est pourquoi il faut nous demander avant tout à « quelle qualité de rencontre ouvrent nos initiatives les plus diverses »36. Cela signifie aussi que nous ne sommes pas chargés de tout (alors que l’homme d’action a tendance à s’épuiser dans la multitude de ses initiatives ou de ses entreprises). Autrement dit, la fécondité suppose une attitude de gratuité à l’égard des résultats de notre action et cela de deux manières : (1) alors que l'on peut programmer une action dans l'ordre de l'efficacité (ex : la construction d'un bâtiment), la fécondité est du côté des lentes germinations qui exercent parfois notre patience ; (2) le résultat d'une action féconde n'est pas un produit que nous pouvons définir à l'avance, il a sa part d'imprévisible.
Conclusion On le voit : la générativité est une réalité humaine très riche qui permet d'évoquer des aspects essentiels de la responsabilité éducative des adultes, cette responsabilité ne s'arrêtant d'ailleurs pas au registre personnel. Proposée par Erikson comme un lieu stratégique de la maturation des adultes, enrichie par ses disciples qui en ont déployé de nouvelles dimensions, elle peut aussi être reprise sur un registre philosophique (elle manifeste alors sa fécondité anthropologique). Enfin, on peut en déployer le sens au plan spirituel sans trahir ses origines, son promoteur étant lui-même ouvert à cette dimension de l'humain. En outre, en la prenant comme fil conducteur, on peut développer une réflexion intéressante au sujet de l'attitude éducative considérée à partir de son inscription dans la dynamique de l'humanisation des personnes et des générations. Parler de générativité nous conduit bien à la source de l'attitude éducative. Annexe
Des équivalents lasalliens de la générativité ? Évidemment, le mot ‘générativité’ n’existe pas dans le vocabulaire lasallien. Il est également inutile de chercher dans les écrits de Jean-Baptiste de la Salle des considérations sur le développement psychologique des adultes ou sur l'anthropologie équivalant aux développements précédents. Cependant, plusieurs thèmes-clés de la spiritualité lasallienne peuvent entrer en résonance avec l'idée de générativité. J’en relève quelques-uns à titre de suggestion, sans avoir la prétention de traiter un thème qui mériterait de plus amples développements :
36 Ces remarques sont tirées d'un document inédit.
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! J'ai déjà signalé que le Fondateur revient à plusieurs reprises sur 1Co 3. C'est l'occasion pour lui de rappeler à ses lecteurs qu'ils accomplissement « l’ouvrage de Dieu ». Dans ce contexte, il souligne expressément que l'action éducatrice des Frères repose sur celle de Dieu et que ils ne peuvent pas se l’approprier (cf. MR 193, 3 ; 196, 1 ; 201, 1 ; MD 62, 1). Très proche de ce thème est celui du « ministère » des Frères, l'emploi qu'ils exercent leur ayant été confié par Dieu. De même, quand le Fondateur qualifie les Frères de « coopérateurs » ou d'« ambassadeurs de Jésus Christ » (MR 193, 195, 196, 201), il leur rappelle qu'ils travaillent à une œuvre qui ne leur appartient pas. ! Dans les Méditations 197 et 198, c'est la symbolique des anges gardiens qui est développée. Cette symbolique souligne la responsabilité éducative des Frères, qui doivent être à la fois des guides et des exemples pour les enfants dont ils sont chargés. Les Frères doivent se faire proches des enfants et se mettre à leur portée pour que ceux-ci puissent réellement tirer profit de leur enseignement. ! Il est inutile de souligner l'importance de l’esprit de « zèle », qu’on pourrait traduire comme la préoccupation intense pour le salut des enfants et comme la force intérieure qui dynamise toute l’action des Frères (MF 87, MR 201). On pourrait rapprocher le zèle de la vertu de sollicitude qui découle de la générativité telle que la décrit Erikson. ! Enfin, on peut rappeler la grande place que tient la « gratuité » dans la pratique éducative lasallienne, celle-ci étant à entendre aussi bien au sens financier que comme une invitation au désintéressement qui doit marquer la relation éducative (MF 103, 3 ; 153, 3 ; MR 194, 1 ; 201, 2 ; 207, 2). Vivre la relation éducative dans un esprit de gratuité, c'est donner après avoir soi-même reçu.
RICERCHE E STUDI
RivLas 76 (2009) 1, 43-58
L’enseignement de la religion démystifié ?
Transitions sans retour en Europe occidentale et en Europe de l’Est1 Herman Lombaerts, fsc
P
eut-on savoir au juste ce qui se passe en Europe actuellement en ce qui concerne l’évolution des rapports des Européens avec les religions traditionnelles? Et les jeunes générations marquent-elles le pas, effectivement, quant à ce qui se présentera demain? Sans doute est-il possible de se tirer d’affaires en répondant par ‘oui et non’. Mais le bon sens nous fait présumer que les choses sont trop complexes pour se contenter d’un diagnostic simpliste. Les statistiques pour leur part parlent plutôt de probabilités, de tendances, leurs observations étant toujours cadrées par des représentations théoriques et hypothétiques. Et pourtant, même si les discours scientifiques s’attribuent un statut provisoire, les progrès discrets mais bien fondés de la recherche permettent d’octroyer une autorité respectable aux probabilités. Le but de cet article est d’identifier quelques symptômes d’un changement du statut de l’enseignement de la religion en milieu scolaire. De façon globale, jusqu’à présent, l’importance et l’autorité du cours de religion était sanctionné par les autorités ecclé-
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Cet article fait suite à celui publié dans Rivista Lasalliana, 74 (2007) 3, 269-284 : Qu’en estil de la religion. Du « retour » du religieux à la pertinence de la religion.
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siales et civiles. Tant les institutions que les professeurs, les parents et les élèves n’avaient qu’à respecter cet état de fait. Par contre, bon nombre d’enquêtes dans différents pays en Europe montrent clairement à quel point cet état des choses officiel couvre des paradoxes. Le cours ne correspondrait pas aux intentions, il ne mènerait pas aux résultats espérés, il ferait plus de tort que de bien, etc. Les données que nous présentons, bien entendu de façon trop sommaire, voire exemplaire, montrent dans quel sens tant les professeurs que les élèves ‘interprètent’ le statut du cours et se donnent une stratégie mentale et pragmatique pour s’acquitter des obligations institutionnelles. L’intérêt particulier est bien de constater qu’une tendance comparable peut être repéré en Europe occidentale et en Europe de l’Est.
Quelques évocations préliminaires En Belgique2, selon les estimations récentes, en 10 ans (de 1998 à 2008) le nombre de personnes participant à la messe dominicale a baissé de 11% à 7% de la population. Le nombre de parents demandant le baptême pour un nouveau-né a diminué de 65% à 57% à peine des naissances enregistrées. Les mariages religieux ont diminué de 49 à 26,5% et les enterrements à l’Eglise de 76 à 61%. Les chercheurs soulignent que l’évolution de la pratique religieuse observée depuis quelques décennies se poursuit : plus rapidement dans les contextes urbains que dans les régions rurales. En se basant sur des observations récentes en Hollande, les enquêteurs anticipent la situation pour 20203. En 1958 24% de la population se situait hors de toute appartenance ecclésiale. En 2004 ce pourcentage s’élevait déjà à 64, et on estime qu’en 2020 72% des Hollandais n’appartiendra plus à une Eglise, catholique ou protestante. Les personnes se professant comme membre de l’Eglise catholique romaine a diminué de 42 (1958) à 17% (2004) et s’estime à baisser jusqu’à 10% en 2020. Par contre le nombre de Musulmans augmente de 0% (1958) à 5,8% (2004) et est estimé à 8% en 2020. Grâce aux études répétées pour tout le continent européen et pour le monde entier, il est possible de se faire une idée plus globale de l’évolution depuis la deuxième guerre mondiale4. Il est hors discussion que l’Europe se transforme à tous les égards. L’éventail des difficultés rencontrées lors de l’établissement de l’Union européenne en illustre tant l’envergure que la complexité5. Les changements dans le domaine religieux évidemment frappent de par leur caractère spectaculaire et historique, bien que anticipés à travers la succession de transitions des Temps modernes et des Lumières, sans oublier l’impact décisif de la Révolution Française. La mutation actuelle du vieux conti2
Selon les données rassemblées par le Centrum voor Politicologie de la K.U.Leuven, à la demande de la Conférence Episcopale de Belgique (8 juillet 2008). 3 J.Becker, J. De Hart & L. Arnts, Godsdienstige veranderingen in Nederland. Verschuivingen in de binding met de kerken en de christelijke traditie, Den Haag 2006, p. 38, 52. 4 L. Halman & O. Riis, European Values Studies : Religion in Secularizing Society, Vol. 5, Tilburg, 2003; L. Halman, R. Luijkx & M. Van Zundert (eds), Atlas of European Values, Leiden/Tilburg 2005. 5 Anne-Cécile Robert, L’Europe d’une crise à une autre, Le Monde diplomatique (18 juin 2008) http://www.monde-diplomatique.fr/carnet/2008-06-18-Apres-le-non
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nent doit être située dans un contexte mondial6. En 1900 près des deux tiers des 267 millions de catholiques du monde vivaient en Europe, mais en 2000, les catholiques européens ne représentent plus qu’un quart des catholiques du monde7. En 2000, il y avait 519 millions de Catholiques en Amérique du Nord et du Sud, 280 millions en Europe, 130 millions en Afrique, 107 millions en Asie et 8 millions en Océanie (Eglise d’Australie et des îles du Pacifique), soit un total de 1,045 milliard. Alors que la population catholique d’Europe a augmenté de 55 % au cours du siècle, la croissance partout ailleurs a augmenté de manière beaucoup plus significative : de 7 fois en Amériques à 70 fois en Afrique. Pour l’Europe vieillissant, le développement démographique suscite des inquiétudes. En 2007 on comptait, en Europe 1 million de naissances en moins par rapport à 1982. L’augmentation de la population de 37 millions est essentiellement due à l’immigration. L’avortement et le cancer étant les causes les plus importantes de la mortalité, il s’avère qu’effectivement la famille en Europe rencontre des circonstances éprouvantes. Une nouvelle politique de la famille s’impose pour tout le continent8.
Une transition historique Il s’en dégage une interpellation incontournable : l’Europe passe par une transition historique. Le vieux continent n’est plus le centre du monde. Au contraire il lui manque des atouts pour s’assurer une influence pertinente auprès des autres acteurs du G8. Une transformation fondamentale s’impose quant à sa façon de gérer le sens de la vie et les valeurs. La tradition chrétienne, catholique et protestante, ne figure plus, comme institution politico-religieuse, à la une de la société contemporaine. La sécularisation ne s’est imposée nulle part dans le monde comme en Europe9. Bien que. Les observations approfondies et une interprétation affinée soulignent que la structure mentale profonde de la population Européenne reflète toujours une visée chrétienne et une continuité de ses valeurs. A y regarder de plus près, la ‘sécularisation’ ne serait donc pas aussi radicale que la baisse de la pratique religieuse ait pu suggérer10. Les sociologues des religions suggèrent que les populations christianisées gèrent leur appartenance religieuse en adoptant différentes stratégies. Dans les pays Scandinaves, les Iles Britanniques…l’appartenance institutionnelle semble être évaluée comme plus importante qu’un engagement existentiel vécu dans la foi (belonging without believing). Dans les pays plus marqués par le catholicisme, il semble que le ‘croire’ se dissocie d’une appartenance institutionnelle (believing without belonging), empruntant la typification établie par Grace Davie. D’autre part, les experts font remarquer que l’homme contemporain, certainement les jeunes générations, se consti-
6 R. Inglehart, e.a., Human Beliefs and Values. A cross-cultural sourcebook based on the 1999-2002 values surveys, Mexico City 2004. 7 Brian T. Froehle et Mary L. Gautier, Global Catholicism, New York 2003 (trad fr.: Portrait d'une Eglise mondiale). 8
Rapport devant le Parlement Européen de l’Institut International de la Famille (2 mai 2008). G. Davie, Europe: The Exceptional Case. Parameters of the Faith in the modern World, London 2002. 10 P.L. Berger, Post-script, in L. Woodhead (ed.), Peter Berger and the Study of Religion, Michigan 1999. 9
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tuent une religion en empruntant à différentes traditions des éléments qui leur semblent avoir du sens (bricolage). Roland Campiche observe l’évolution vers une appartenance conditionnelle. Il remarque un processus de recomposition du christianisme ou de la religion, et perçoit les jeunes comme des ‘expérimentateurs du sens’11. Une double question se pose. Tout d’abord, est-ce possible qu’une culture chrétienne se maintienne sans la référence explicite et repérable à une tradition vécue et intégrée dans un contexte sociétal concret ? Si la réponse semble être plutôt tolérante, il ne faudrait donc pas dramatiser la situation et y repérer plutôt les signes d’une évolution positive12. Et d’autre part, la baisse de la pratique religieuse et la volatilisation progressive des institutions ecclésiales annoncent-elles, à long terme, une transition fondamentale du rapport entre une population européenne émancipée, faisant partie d’une société globalisée, quant à ses racines religieuses historiques? On peut donc y sous-entendre une autre question: est-ce nécessaire ou souhaitable que l’Europe reste attachée, d’une façon institutionnalisée, à son passé chrétien, le discernement individuel étant actuellement le référent de tout projet de vie ? La discussion sur la mention de l’influence du christianisme dans la constitution historique de l’Europe souligne à quel point la séparation entre Eglise et Etat représente un état de fait sans retour. Les pasteurs, les catéchistes et les professeurs de religion sont les premiers à être interpellés par les conséquences des changements. Seraient-ils responsable de la déchristianisation de l’Europe? Spécialistes de la transmission de la tradition, font-ils donc preuve de leur incompétence en adoptant une méthodologie inefficace, trop conciliante par rapport à la société moderne? Les institutions cherchent les coupables et les causes afin d’arrêter la décomposition et d’assurer un « retour » à la religion. Ces questions sont à la une de la théologie pratique depuis des décennies. L’appel fait aux sciences humaines et sociales a pu éclairer les praticiens sur l’enjeu de leur responsabilités et sur des stratégies éducatives à adopter. L’apport des compétences académiques proprement théologiques a ouvert des perspectives pour un renouveau approprié, parfois prophétique. Mais, malgré tous les efforts, l’apport de l’éducation à la foi et de l’enseignement de la religion n’a pas réussi à constituer un contrecourant global. Expérience faite, il s’avère que les efforts des Eglises se situent à l’intérieur de l’évolution sociologique et ne peuvent réorienter cette transition. L’alternative ne peut se développer qu’avec les composantes propres de la société et la culture contemporaines. Et puis, il est important de se rappeler que, durant toute l’historie judéo-chrétienne, Dieu a toujours été perçu comme Celui qui surprend son peuple. Il a été identifié comme l’Autre, inattendu, inimaginable, totalement différent des constructions que l’homme ait pu s’imaginer.
La mutation religieuse en Europe de l’Est Toutefois, admettons-le, les discours évoqués ici à ce sujet trouvent leur essor dans l’Europe occidentale, de plus en plus démocratique, capitaliste, néolibérale. La sécularisation est souvent interprétée comme la cause d’une indifférence religieuse (la re11 12
R.J. Campiche, Cultures jeunes et religions en Europe, Paris 1997, p.246ss, 358ss. H. Lombaerts, Qu’en est-il de la religion ? cit., p. 275-282.
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ligion du soi, le ‘Self’), d’une perte de loyauté ecclésiale, d’un manque de vocations sacerdotales et religieuses13. Les Eglises chrétiennes perçoivent l’évolution comme une ‘perte’, une dissolution, un effondrement. Et, dans un sens, c’est ce qui est en train de se passer. La catéchèse et l’enseignement de la religion s’efforcent d’éveiller chez les enfants et les jeunes, grandissant pour la plupart dans une famille peu ou pas familiarisée avec la tradition chrétienne, le sens de la foi ou pour le moins une intelligence et un respect de la religion. Parents, catéchistes et professeurs impliqués dans ce travail ne peuvent plus compter sur l’appui d’une société franchement chrétienne. Au contraire, l’ambiance socioculturelle centripète empêche souvent l’éveil d’une culture de l’intériorité, instrument indispensable pour l’attention à la présence divine. A moins que, justement, cet environnement contient ses propres clés pour la découverte du transcendant. Le concile Vatican II a encouragé les chrétiens à découvrir au sein de la société contemporaine « les signes du temps », révélateurs de la présence de l’Esprit du Christ. Le renouveau théologique et pastorale a induit une créativité certaine au sein des communautés de croyants. Les peuples ayant vécu sous la domination du communisme bolcheviste ont vécu une autre histoire. Leurs déceptions et souffrances ont fait émerger un autre type d’espérance. Ils ont dû faire face à d’autres interpellations et se munir d’autres grilles de lecture pour donner du sens à leur existence. Parfois les Eglises se sont accommodées des autorités communistes et elles ont collaboré afin de sauvegarder les avantages de leur statut institutionnel. Dans certains pays les croyants se sont organisés dans une « église souterraine » afin de rester fidèles à une foi authentique. Le contrôle idéologique, la surveillance stricte et la répression sauvage ont causé un isolement dramatique. Avec un courage étonnant, souvent au risque de leur vie, ces chrétiens ont constitué un réseau fort, support de leur engagement au nom de la foi, de leur prière, de la diffusion de la Bible (livre dangereux), d’une catéchèse rudimentaire, souvenir fragmentaire du passé. Ils ne disposaient d’aucune information ni sur Vatican II, ni sur les changements de la société occidentale et les accommodements que leurs frères et sœurs de l’autre côté du rideau de fer ont adoptés progressivement. Il est difficile, voire impossible, pour les occidentaux de s’imaginer ce que les populations de l’Europe de l’Est ont vécu. Comme il est difficile pour ces peuples de comprendre la mutation, progressive mais irréversible, propre au monde occidental d’après la deuxième guerre mondiale. Les chrétiens de l’Est se sentaient offensés par de la découverte que des chrétiens de l’Occident rapprochaient les théories marxistes de la foi chrétienne afin de combattre certaines injustices de la société occidentale. Et les chrétiens de l’Occident camouflaient difficilement leur déception à découvrir chez les chrétiens de l’Est une Eglise traditionaliste, autoritaire, formaliste, non avertie des présupposés d’une société démocratique. Il est donc capital que ces deux histoires se 13
Recherche à propos de la non croyance et de l’indifférence religieuse, réalisée par le Conseil Pontifical pour la Culture en préparation à l’Assemblée Plénière annuelle de 2004, www.fides.org; http://www.cwnews.com/news/viewstory.cfm?recnum=28199 (19.03.04) Voir aussi : H.Lombaerts, Roznorodnosc czy obojetnosc? Indyferentyzm religijny jako symptom przemian (The difference/indifference dilemma. “Religious Indifference” re-examined as symptom of a mutation), Katecheta, 48 (2004) 7-8, 4-16.
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rencontrent pour s’informer mutuellement, pour apprendre à s’écouter et se comprendre à partir de leurs contextes respectifs. Cette ouverture est indispensable pour se constituer une mémoire collective commune et ainsi se retrouver dans une Union Européenne de l’avenir et générer une solidarité nouvelle.
Deux recherches en parallèle Le but de cet article est d’évoquer brièvement deux recherches à propos de l’enseignement de la religion à l’école. L’une envisage à concevoir un paradigme pédagogique propre à (un pays de) l’Europe occidentale (la Belgique Néerlandophone), profondément sécularisée. L’autre explore la situation actuelle des jeunes générations (d’un pays) de l’Europe de l’Est (la Lituanie), anxieux de s’échapper aux conséquences du cauchemar communiste, et de concevoir une approche appropriée à leur situation concrète. A première vue les deux projets se retrouvent autour de la même perspective et se proposent d’adopter une solution analogue. A y regarder de plus près il y a lieu de remarquer des différences importantes. Trois questions semblent pourtant préoccuper les deux communautés :1/ Si l’on peut observer un flagrant embarras de la catéchèse et de l’enseignement de la religion visà-vis du contexte actuel, quelles sont les options et les directives de la part des Eglises à ce sujet ? Et quelle positionnement adoptent, en principe ou de façon pragmatique, les catéchistes et les professeurs de religions par rapport à leur responsabilité ? 2/ Quelle lecture théologique sous-tend l’analyse des difficultés et des impasses éprouvées ? Et parvient-elle à développer une nouvelle visée stratégique ? 3/ Quant à la constitution d’une identité, religieuse ou chrétienne, quel profil voit-on émerger chez les jeunes générations ? Et quelle identité chrétienne est proposée au sein de la catéchèse et de l’enseignement de la religion ? Il va sans dire que les autorités ecclésiastiques, responsables de la formation religieuse des enfants et des jeunes ont toujours eu le souci de s’adapter aux changements des temps. Toujours est-il qu’un modèle particulier constituait en quelque sorte la norme pour toute forme d’enseignement : la transmission – par des catéchistes ou des professeurs – de la tradition chrétienne aux jeunes générations – les récepteurs. Une théologie d’inspiration essentialiste offrait des arguments convaincants pour justifier une approche déductive, linéaire, centrée sur l’autorité de la révélation, l’Eglise catholique étant la seule garante du salut universel dans le Christ. Ce processus de transmission était surveillé de près de sorte que la continuité du contenu de la foi et de son vécu orthodoxe ne soient pas compromise par des conciliations trop faciles.
A. L’Europe occidentale Depuis les années 1960 les difficultés rencontrées dans la pratique ont amené tant les professeurs que les théoriciens à renverser le paradigme de l’apprentissage. Ils optent en faveur d’une approche inductive, dialogale, heuristique, reconnaissant l’expérience comme source de questionnement et d’intelligence, et ouverte aux autres traditions religieuses et philosophiques. Selon cette optique, autant l’enfant et le jeune que l’adulte sont impliqués dans l’élaboration tant du contenu que du processus d’apprentissage. Ils sont à la fois et de façon interchangeable enseignant et apprenti.
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Ils sont co-responsables de l’émergence authentique et crédible de la personne humaine en tant que génie religieux, capable de se situer dans ou par rapport à la lignée historique d’une tradition de croyants. L’hypothèse de fond prétend qu’une initiation inductive et ouverte à la foi s’enracine dans les changements qui se sont opérés chez l’homme contemporain, tout en se mettant à l’école de l’expérience fondatrice des religions historiques, de la tradition judéo-chrétienne en particulier. Que ce nouveau paradigme éprouve des difficultés à se propager, voire rencontre des oppositions acharnées, est dû, d’une part à la distance de plus en plus prononcée entre les religions institutionnalisées et la société postmoderne, et le positionnement individuel des sujets par rapport à ces traditions. Et d’autre part à la portée conflictuelle de la diversité des présupposés (le problème du double-sens) sous-tendant les réponses possibles et (im)probables aux interpellations multiples14. Devant le progrès du savoir scientifique et de son impact sur la vie concrète, le savoir religieux est renvoyé à son statut propre : explicitation d’une intuition du croyant, le converti, reconnaissant la nature autre de son intelligence, basée sur un non-savoir. Cette hypothèse est fort proche de la société occidentale, de l’Europe occidentale sécularisée en particulier, marquée par la Modernité, les Lumières, les philosophies du doute, la postmodernité. Elle emprunte ses paramètres à une société appartenant à la démocratie néolibérale, capitaliste, gérée depuis peu par les méchanismes d’un monde globalisé. Devant les énoncés généreux du nouveau paradigme, le réalisme sceptique du chercheur scientifique suscite quelques questions. Est-il possible de vérifier l’hypothèse ? Retrouve-t-on chez les professeurs et chez les jeunes, impliqués dans l’enseignement de la religion, des traces de ce nouveau paradigme ? Disposentils de la curiosité et des compétences requises pour mettre en place, ensemble, un tel itinéraire ambitieux ? Une recherche dans ce sens s’est réalisée au sein de l’unité de la théologie pastorale de la Faculté de théologie de l’Université Catholique de Leuven. Le lecteur peut s’informer du projet et des résultats de la recherche empirique dans plusieurs publications15. Le premier projet concernant le « modèle herméneutique-communicatif » de
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Le livre réputé, Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, de Paul Ricœur, Paris, 1969, illustre à quel point les problèmes rencontré dans l’enseignement de la religion sont profondément marqués par l’évolution d’une conscientisation perturbante chez l’homme contemporain. 15 D. Pollefeyt, D. Hutsebaut, H. Lombaerts, M. De Vlieger, A. Dillen, J. Maex, W. Smit, Go-
dsdienstonderricht uitgedaagd. Jongeren en (inter)levensbeschouwelijke vorming in gezin en onderwijs. Opzet, methode en resultaten van empirisch onderzoek bij leerkrachten RoomsKatholieke godsdienst en leerlingen van de derde graad secundair onderwijs in Vlaanderen, Coll. Instrumenta Theologica, Leuven, Peeters, 2004. (L’enseignement de la religion interpel-
lé. Les jeunes et leur formation (inter-)religieuse et philosophique dans la famille et l’enseignement. But, méthode et résultats d’une recherche empirique auprès de professeurs de religion catholique et de leurs élèves dans le troisième degré de l’enseignement secondaire (1618 ans) en Flandres); Joke Maex, Een hermeneutisch-communicatief concept vakdidactiek godsdienst. Een fundamenteel-theoretisch en empirisch onderzoek, Faculteit Godgeleerdheid,
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l’enseignement de la religion s’est clôturé par la thèse de doctorat de Joke Maex (2003). Le deuxième projet explore les rapports entre la composition de la famille et l’expérience de l’éducation (religieuse) en famille, d’une part, et les opinions et expériences de foi ou de non-foi d’autre part, et ceci autant chez les professeurs de religion que chez leurs élèves (Annemie Dillen, thèse soutenue en 2005)16. Ces deux dimensions – le modèle herméneutico-communicatif et l’influence de la famille sur la formation religieuse – ont été explorées au moyen de trois questionnaires groupant un ensemble de propositions auxquelles les sujets étaient invités à répondre au moyen d’une échelle à 6 points. Un premier questionnaire s’adressant aux professeurs ; le deuxième était destiné aux élèves de l’enseignement général et technique, et un troisième aux élèves de l’enseignement professionnel. Les réponses de 98 professeurs de religion (âge moyen 40,7 ans) et de 1.416 élèves (âge moyen 17 ans) ont été soumises à un traitement statistique avec le programme SAS. L’ouvrage collectif Hermeneutics and Religious Education regroupe 21 apports d’experts présentés lors d’un Congrès international tenu à Leuven en 200317. Il s’agit d’un approfondissement du caractère herméneutique de l’enseignement religieux dans l’optique du nouveau paradigme. L’évocation de cette recherche se limité aux résultats pouvant éclairer l’hypothèse concernant le nouveau paradigme. L’analyse factorielle de la façon dont les professeurs se qualifient personnellement en réponse au questionnaire a permis d’identifier quelques dimensions significatives (groupant 11 facteurs) par rapport aux questions évoquées. -
Quant à la dimension herméneutique et communicative, cette orientation a été repérée clairement, autant la distinction entre une compétence herméneutique qu’une inhibition ou un refus à travailler dans cette optique ;
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L’enrichissement de l’enseignement de la religion par le vécu personnel, en intégrant des éléments (auto)biographiques ;
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L’attention portée au discours de classe tel qu’il peut émerger de par les échanges entre professeur et élèves et entre élèves ;
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Le positionnement par rapport à la tradition : elle est importante ou elle est sans importance pour l’enseignement proposé ;
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Le style de l’enseignement : le professeur-modérateur ou le professeur sceptique
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Le positionnement par rapport au nouveau curriculum, initiant le nouveau paradigme : attitude ouverte, réservée ou franchement négative.
Katholieke Universiteit Leuven, 2003. (Un concept herméneutique-communicatif de l’enseignement de la religion. Une recherche fondamentale et empirique). 16 A. Dillen, Het gezin : à-Dieu ? Naar een contextuele ethiek, theologie en (godsdienst) pedagogiek van gezinnen vandaag, Faculteit Godgeleedheid, Katholieke Univesiteit Leuven, 2005. (La famille: à-Dieu? Vers une éthique, une théologie et une pédagogie (religieuse) contextuelles des familles aujourd’hui). 17 H.. Lombaerts & D. Pollefeyt, Hermeneutics and Religious Education, Leuven 2004.
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Positionnement des professeurs : quatre modèles - Moyennant un calcul des corrélations entre les différents facteurs, quatre modèles ou types de personnalité enseignante ont pu être repérés chez les professeurs (la façon dont ils / elles se perçoivent en tant que professeur). La logique propre à chaque modèle se dégage des relations spécifiques entre un ensemble de facteurs. -
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(1) dans le modèle du ‘chrétien engagé’, l’enseignant se présente consciemment avec une identité chrétienne engagée (cherchant une cohérence entre le vivre et le croire) et avec l’intention de favoriser chez les élèves le développement d’une identité chrétienne. Ces professeurs témoignent de peu d’ouverture par rapport à d’autres religions ou visions de vie. Leur souci est de montrer au monde environnant en quoi consiste la foi chrétienne. Ils manifestent peu de confiance dans les possibilités des élèves (2) dans le modèle dit de ‘tolérance’, le professeur témoigne d’une ouverture de principe par rapport à d’autres religions ou philosophies de vie, par rapport aux différentes situations familiales, les styles de vie, etc. On y perçoit une plus grande sensibilité symbolique et une reconnaissance de la pluralité de convictions comme réalité. (3) dans le modèle de ‘discontinuité’, l’enseignant est fort proche de l’attitude de noncroyance. Son enseignement s’efforce à mettre en question le bien fondé de la tradition chrétienne et à la mettre à distance. (4) dans le modèle dit de ‘collaboration’, l’enseignant cherche le dialogue avec les élèves et envisage une collaboration constructive, tout en intégrant les apports des élèves. Le professeur se profile comme modérateur d’échanges plutôt que comme ‘transmetteur’ d’informations.
L’enquête a donc permis d’observer que les professeurs effectivement se positionnent par rapport au paradigme dit herméneutique-communicatif. Le nom donné à chaque modèle est en quelque sorte une interprétation de la façon dont les professeurs se situent par rapport à un ensemble de facteurs. Les quatre types se démarquent clairement. Les professeurs offrent donc un enseignement d’un certain type, pas n’importe lequel, et pas standardisé à partir d’une norme imposée par les autorités. Au sein d’une même école, les élèves peuvent donc être confrontés à une certaine diversité d’approches, ou une école peut favoriser un type d’enseignement précis, de par une gestion orientée ou de par une sélection des professeurs. On peut donc soupçonner que les professeurs, et l’école, de par un positionnement à l’intérieur même de leur enseignement, sont amenés non seulement à adopter des stratégies théologiques, pédagogiques, didactiques, mais aussi à résoudre des problèmes existentiels, voire personnels. Ce qu’ils font concrètement dans la classe, avec les élèves, est le résultat d’un discernement complexe, inévitablement lié à leur positionnement par rapport à une société démocratique, pluraliste, sécularisée, marquée par une tradition judéo-chrétienne, et par rapport à une politique scolaire du gouvernement ou des autorités ecclésiastiques. C’est ici que se posent des questions fondamentales et éthiques tant concernant la conception de la gestion scolaire, que sur le statut de l’enseignement de la religion. Nous y reviendront à la fin de cet article.. La perception des élèves - Les élèves se rendent-ils compte de la façon dont les professeurs se débrouillent avec la gestion de leur responsabilité pédagogique tout en la situant au sein de leurs positionnement existentiel, social et idéologique ? Les élèves suivent-t-ils passivement ce qui leur est proposé, s’adaptent-ils à la structure et au modèle tant de l’enseignement que de la communication ? Ou bien, l’élève a-t-il
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changé aussi ? Dispose-t-il d’un discernement lucide par rapport au positionnement du professeur, tout en ajustant son comportement, en relativisant l’importance de l’enseignement de la religion (averti par ce que font les différents professeurs) ? C’est pourquoi, moyennant le même questionnaire, les jeunes ont été invité à exprimer leur perception de leur professeur de religion : quel type de professeur reconnaissent-ils dans la personne qui les initie dans la tradition religieuse ? En sont-ils capables ? L’analyse statistique des réponses a permis d’identifier chez les jeunes (enseignement général, technique et professionnel) pratiquement les mêmes dimensions (groupant 9 facteurs) quant à la façon dont le professeur de religion organise son enseignement – selon la perception de ses élèves. -
Quant à la dimension herméneutique-communicative, ils discernent soit une compétence herméneutique, soit une inhibition / paralysie herméneutique ; ils remarquent chez leur professeur une implication et une ouverture communicatives
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Ils remarquent chez leur professeur un intérêt à s’impliquer dans sont enseignement, une attention biographique donc, mis en contraste avec une orientation dogmatique
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Ils remarquent l’attention du professeur pour l’émergence d’un discours de classe
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Quant à la place de la tradition, ils remarquent que leur professeur soit s’appuie sur une lecture historique de la tradition, soit il/elle présente la tradition en tant que révélation.
Cinq modèles - Suite à une analyse des différentes corrélations, on peut distinguer, dans la perception des élèves, cinq modèles d’enseignement ou types de personnalité orientant l’enseignement. ! (1) le modèle dit ‘ouvert et pluraliste’. Les élèves perçoivent chez le professeur une ouverture à la société pluraliste et aux différentes confessions et philosophies de vie. Le dialogue avec le professeur favorise une lecture symbolique des systèmes religieux. La tradition chrétienne n’est pas présentée comme norme exclusive pour l’enseignement de la religion. ! (2) dans le modèle dit ‘christianisme fermé’ les élèves perçoivent ou espèrent rencontrer un professeur avec un profile chrétien explicite, favorisant une pensée religieuse littérale et orthodoxe, avec peu d’ouverture pour des confessions ou des styles de vie autres que ce qui est propagé par la tradition chrétienne. ! (3) le modèle dit ‘support du réseau familial’ semble s’inspirer d’une expérience de vie familiale protégée et cohésive, avec peu de conflits, avec un style d’éducation démocratique aussi dans le domaine religieux. ! (4) dans le modèle dit de ’collaboration’ les élèves perçoivent la possibilité de pouvoir collaborer activement, mais en même temps ils attendent que le professeur y mette du sien en partageant ses convictions et ses expériences de vie chrétienne. ! (5) le modèle dit de ‘discontinuité’ indique que les élèves perçoivent le professeur à partir de leur positionnement personnel. Ils imposent en quelque sorte une absence
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de culture chrétienne. La religion présentée par le professeur est entendue de façon littérale, sans affinité symbolique, et par conséquent la tendance implicite ou explicite à rejeter la foi religieuse comme un anachronisme risque de s’imposer..
B. L’Europe de l’Est18 Rappelons de prime abord, que les pays de l’Europe Centrale et de l’Est – tout comme les pays de l’Europe occidentale – représentent une réalité fort diversifiée suite à leur situation géo-politique et leur historie particulière. En ce qui concerne la composante religieuse, l’appartenance varie d’un pays à l’autre selon la présence dominante de l’Eglise Catholique, des confessions protestantes, ou de l’Eglise Orthodoxe19. En ce qui concerne la Lituanie, par exemple, suite aux alliances historiques et politiques avec la Pologne, le religion catholique était devenue presque religion d’état20 avant l’occupation par la Russie, à part la présence des Eglises protestantes, Calviniste et Luthérienne, d’une communauté Juive et de l’Eglise Orthodoxe Russe. Dans la mémoire collective, être lituanien coïncide avec l’adhésion au catholicisme. Il y a donc un héritage historique (pré-communiste) lié au rôle dominant de la religion catholique, actuellement restaurée et présente visiblement, constituant une dimension de la culture officielle. Pourtant, la présence répressive du communisme bolcheviste a gravement perturbé ce pays jusqu’à la nouvelle indépendance obtenue en 1989. Suite à cette libération, la population s’est empressée à renouer publiquement et ouvertement avec les coutumes d’avant le régime communiste, de par un retour massif à la pratique religieuse, reflété aussi dans la décision des jeunes élèves de suivre le cours de religion à l’école. Non sans surprise, l’on observe que ce « retour » enthousiaste a été de courte durée. La pratique religieuse est en baisse et le nombre de jeunes se désistant du cours de
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Ce paragraphe est basé sur la recherche de Birute Briliute, Elle vient de présenter une thèse de doctorat en théologie avec comme titre : Open-Ended. Towards a New Paradigm for Reli-
gious Education in Lithuania in View of a Young Generation of Newcomers to the E.U. Empirical and Theoretical Perspectives between Relativism and Religious Commitment, Faculty of
Theology, Katholieke Universiteit Leuven, 2008. Son étude permet de se rendre compte à quel point le positionnement des jeunes générations par rapport à la religion se compose autrement en Europe de l’Est (en Lituanie). 19 P. M. Zulehner (ed.), Religion und Kirchen in Ost(Mittel) Europa, Wien 2001 ; P. M. Zulehner, & M. Tomka, Religion in den Reformländern Ost(Mittel)Europas, Wien 1999 ; A. MátéTóth, & P. Mikluš"ák, (eds.), Kirche Im Aufbruch : Zur Pastoralen Entwicklung in Ost(Mittel) Europa. Eine Qualitative Studie, Wien, 2001. 20 En 1939 85% de la population se déclarait catholique. En 1990 ce pourcentage avait baissé jusque 57, et puis a remonté jusque 75 en 1999 et 79 en 2001 ; 25% déclarait ne professer aucune religion ; 4% professait l’adhésion à l’Eglise Orthodoxe ; 1% se référait aux Eglises protestantes. En 1990 62% de la population croyait en Dieu ; ce pourcentage s’élevait à 81 en 1999 et à 99 en 2001. B. Briliute o.c., p. 129, citant Religion in Lithuania, Department of Statistics of Lithuanian Government, Vilnius, 2003 ; Cf. also L. Halman, R. Luijkx & M. Van Zundert, Atlas of European Values, Leiden/Tilburg, 2005, p. 60ss.
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religion est en augmentation. La population, depuis 1989, passe par une transformation/transition assez fondamentale (période post-communiste). C’est l’établissement de la nouvelle Constitution de la République en Lituanie qui, juridiquement, marque la rupture avec le système communiste en garantissant le fonctionnement légal d’un Etat indépendant, l’élection démocratique des autorités civiles et politiques, l’adoption d’une économie du marché, la libre expression d’opinions, le respect des droits des citadins, le tout selon le modèle de la civilisation occidentale. Ces nouvelles conditions ont permis à l’Eglise souterraine de se réintégrer dans l’Eglise officielle. Si une telle libération incite la population à rêver d’un avenir inespéré, l’expérience communiste a introduit des clivages qui non seulement risquent de se maintenir, mais même de se durcir durant la période de transformation. Bien que le peuple s’identifie avec la société établie en Europe occidentale, il n’existe pas de modèle pour accompagner le passage d’un régime totalitaire, distributive et paternaliste à une société démocratique et capitaliste, d’une société fermée à une société ouverte. Il leur manquait les instruments de base pour instituer à court terme une nouvelle réalité sociale, économique et politique. C’est ce qui explique pourquoi le peuple, pour se situer dans la nouvelle réalité, se réfère à la fois à trois ‘legs’ historiques. 1/ L’héritage du passé pré-communiste – considéré par certains comme la réalité à réinstaurer, 2/ les restes du système établi par les communistes – commémorés parfois avec nostalgie devant les incertitudes du marché néolibéral, et qui marquent toujours les mentalités et le fonctionnement des institutions, et 3/ les nouvelles orientations propres à la période post-communiste. Cette transformation constitue une réalité complexe et unique, distincte de ce qui s’est produit dans d’autres pays, et qui favorisera l’émergence d’une identité propre. Si l’Eglise catholique a contribué largement à la constitution d’une identité Lituanienne avant la période communiste, durant l’occupation une Eglise souterraine a courageusement contribué à la création d’une identité ecclésiale en réponse à l’oppression. Ces Catholiques ont défendu les droits de l’homme, ils ont rassemblés les témoignages héroïques de fidélité devant les injustices, ils ont défendu les droits des croyants à professer leur foi, ils ont maintenu vivant les symboles de la tradition ou créé des événements assurant la présence active de l’Eglise au sein du régime. Quand les relations avec le monde occidental ont été rétablies, la population a été confrontée brusquement avec deux aspects inhérents à une société démocratique et capitaliste : d’une part la société de consommation et le phénomène de la sécularisation. Et d’autre part, le problème de la gestion de la liberté des citoyens dans une société démocratique, avec les conflits propres à un tel système. C’est ici qu’émerge une interpellation propre à la société occidentale : quel est le positionnement des religions, des Eglises chrétiennes en particulier, au sein d’une société démocratique ? Quelle est donc la position de l’ Eglise, déjà marquée par un héritage conflictuel, devant la transformation que subit la population lituanienne ? L’Eglise dispose-t-elle d’un charisme prophétique suffisamment impliqué dans la réalité du monde contem-
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porain pour inspirer et mobiliser les jeunes générations fortement impressionnées par les promesses de la société occidentale ? D’abord, B. Briliute a fait une recherche pilote empirique auprès d’un échantillon représentatif de toutes les tranches d’âge de la population lituanienne concernant l’identité religieuse et ses corrélations avec l’héritage des périodes pré-communiste, communiste et post-communiste. Ensuite elle a opéré une recherche empirique sur l’identité religieuses des jeunes générations (15 à 30 ans). Dans ce but, plusieurs outils ont été utilisés ou construits afin d’ausculter les variables identifiés dans l’étude théorique. La recherche empirique s’est effectuée auprès d’un échantillon représentatif de 1050 sujets. Le Post Critical Belief Scale constituait l’instrument clé des deux recherches21. Le modèle théorique dont s’inspire cette échelle combine deux variables: la sensibilité au transcendant (reconnue, ou rejetée) et la perception du domaine religieux (au sens littéral ou au sens symbolique). En articulant ces deux dimensions, les sujets se positionnent donc dans ou à la frontière de quatre champs possibles et ils révèlent ainsi la teneur de leur identité religieuse: orthodoxe ou symbolique (caractérisé comme deuxième naïveté), s’appuyant sur la critique externe ou relativiste. Nous nous limiterons ici à présenter le résultat le plus éclairant de ce projet de recherche en ce qui concerne l’enseignement de la religion. L’étude pilote a révélé que les jeunes reflètent une identité religieuse légèrement différente de celle des générations plus âgées. Les deux études ont confirmé que progressivement les jeunes générations perdent le souvenir réaliste de la période communiste. L’héritage social et historique ne semble pas affecter la formation d’une identité religieuse chez les générations les plus jeunes. Bien que la religion est perçue comme importante, l’institution ecclésiale ne semble pas jouer un rôle important dans la formation de leur identité religieuse. Ils prétendent que l’Eglise ne joue pas un rôle d’importance dans le domaine social, culturel ou politique. Il s’avère que les jeunes évoluent vers la mentalité et les valeurs de la société occidentale : ils manifestent une affinité avec les valeurs matérialistes et post-matérialistes. Pouvoir atteindre une sécurité économique et politique semble constituer un facteur décisif à ce sujet. Si cette évolution se maintient, on peut s’attendre à ce que les jeunes adopteront une religiosité personnelle, élective, en se passant du cadre de référence de l‘Eglise catholique. Quant à l’identité de leur foi proprement dite, les jeunes lituaniens optent pour une approche plutôt symbolisant du domaine religieux, soit, et c’est le cas pour 40,51% des sujets interrogés, en incluant le domaine transcendant et en se cantonnant donc dans la sensibilité appelée ‘seconde naïveté’, soit en excluant la transcendance et en adoptant une attitude relativiste, et c’est le cas pour 37,37% des jeunes. 14% semble rejeter la transcendance en la percevant dans un sens littéral (la critique externe), et 7,44% inclut la transcendance mais également dans son sens littéral (l’orthodoxie). A comparer ces résultats avec de recherches analogues dans d’autres pays, cette répartition peut étonner et semble être particulière au contexte lituanien. Surtout l’option pour le relativisme peut étonner à première vue, car plus de 80% des jeunes 21
Un instrument établi par D. Hutsebaut (Leuven) à partir d’une approche théorique de Wulff (USA), traduit et adapté pour la Lituanie par B.Briliute.
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affirment que Dieu a une place très importante dans leur vie. Il semble que cette apparente contradiction serait due aux conditions spécifiques à la période de transformation/transition que vit le pays actuellement. Les données rassemblées suggèrent qu’il s’agit de l’émergence d’une identité religieuse mixte (d’une part matérialiste et post-matérialiste, d’autre part une foi conçue comme ‘deuxième naïveté’ et une foi relativiste), ou si l’on veut, d’une identité religieuse en pleine transformation. L’expérience de la transformation sociale, économique et politique contribuerait à induire une confusion, une sorte de perplexité avec des éléments déclenchant une quête spécifique du sens et de la pertinence du transcendant par rapport à leur contexte actuel. Il va de soi que cette évolution observée interpelle l’Eglise, les responsables de la pastorale tant que les professeurs de religion. Bon nombre de jeunes non seulement s’écartent de l’Eglise comme institution, mais tout en vivant une sensibilité religieuse, ils n’envisagent pas de la développer en interaction avec la sagesse d’une tradition, cadre de référence historique de leur quête.
Conclusions Les deux recherches attirent notre attention à propos d’une transition fondamentale du statut institutionnel de l’enseignement de la religion: ! L’une (J. Maex) se situe à l’intérieur de la pratique de l’enseignement de la religion. Elle révèle que tant les professeurs que les jeunes ont développé des antennes, une sensibilité spécifique, afin de repérer selon quel clé l’enseignement de la religion se conçoit, en fonction du positionnement et du discernement existentiel de la personne qui en prend la responsabilité. Dès lors, quel rôle joue l’événement du cours de religion dans les efforts des jeunes à se situer personnellement par rapport au sens de la vie, à une appartenance socio-culturelle, religieuse, philosophique, éthique… ? Qui favorisera la constitution de leur identité dans le cas où l’enseignement de la religion n’est plus reconnu comme significatif ? Dans le passé, le cadre scolaire (l’enseignement de la religion) renforçait la socialisation amorcée au sein de la famille et d’un environnement proche. Il semble qu’aujourd’hui, alors que l’influence du cadre familial garde son importance, ce sont des circonstances et des rencontres fortuites, occasionnelles, imprévisibles qui contribueraient de façon décisive à la constitution d’une personnalité dont l’identité reste floue. ! L’autre (B. Briliute) se situe plutôt au cœur de l’expérience vécue par les jeunes générations en participant à la transformation d’une société traumatisée par une histoire complexe. L’expérience mène à une confusion, une certaine perplexité. Et pourtant, il faut choisir. C’est alors l’espérance, le modèle de vie, une promesse proposée par la société occidentale qui suscite la confiance des jeunes. Bon nombre intègre la foi en Dieu et se propose donc de vivre une certaine forme de religiosité, mais sans tenir compte de ce que propose l’Eglise comme orientation de vie. Ils la perçoivent comme insignifiante, n’ayant pas de poids devant ce qu’ils vivent au sein de leur famille, de la société, du monde contemporain. Comme si l’Eglise n’offrait pas de discours suffisamment pertinent, éveillant l’espérance et le changement qui pourraient faire la différence qualitative dans leur vie, face aux nombreux discours
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qu’ils rencontrent de jour en jour. Si bon nombre d’entre eux abandonne le cours de religion serait-ce parce qu’ils n’y trouvent pas l’interlocuteur capable de rejoindre leur éveil, leur curiosité, leur confusion, leur discernement, leur préoccupation à se faire une vie réussie ? Indirectement les résultats des deux recherches interpellent l’enseignement de la religion à l’école. En réalité l’enseignement de la religion se situe au carrefour des multiples formes de discernement que les jeunes rencontrent dans leur vie concrète : de multiples types d’information, des clés d’interprétation de leur expérience et des informations rassemblées, des contacts très variés, de multiples courants d’influence, leur participation à la production active d’informations et de créer des réseaux en vue d’influer leur contexte social. Dans ce contexte le système classique de l’enseignement de la religion en quelque sorte se condamne lui-même, malgré les bonnes intentions et l’engagement professionnel des professeurs, s’il continue à se cantonner dans le modèle scolaire traditionnel : un milieu clos où le seul savoir significatif se transmet aux « élèves ». L’enjeu concerne bien le statut de la religion dans la société contemporaine. Grâce au passé d’une société liée à une tradition chrétienne, il jouit toujours d’une autorité certaine, mais est-il encore crédible ? Peut-il opérer la différence espérée ? Réussit-il à montrer que la religion concerne bien les changements et les grands problèmes ou difficultés éprouvés par les différentes populations ? Peut-il aider les jeunes à entrevoir dans quel sens, pour les croyants, croire en Dieu, cela change la vie ? S’il est toujours légitime que l’enseignement de la religion vise la transmission d’une tradition, renforce ce qui s’est établi au sein des familles, et se nourrit d’une vie ecclésiale et liturgique, l’interpellation actuelle incite à dépasser ce cadre traditionnel. Les questions concernent la pertinence de la religion dans le contexte actuel, et donc aussi la pertinence de l’enseignement de la religion. Elles émergent de l’insertion des enfants et des jeunes dans la société contemporaine. Leurs perceptions, leur intelligence, leurs conclusions basées sur des expériences, des prises de conscience des paradoxes, incohérences et contradictions constituent un cadre d’évaluation. Ils scrutent la crédibilité de ce qui est mis en place par les institutions et le comparent avec les initiatives privées et les événements de masse.. Il est temps de se rendre compte du statut socioculturel et politique de l’enseignement de la religion. Il ne se situe plus au sein d’une institution à l’abri du monde. Il est indispensable de repenser les institutions, comme l’école, de les reconnaître comme ‘site’ ouvert, se nourrissant franchement d’un environnement complexe, axé sur un apprentissage à propos de tout ce qui concerne la vie et la société moderne. L’école est perçue par les jeunes à partir de leur affinité avec le contexte sécularisé, néolibéral, incitant les citoyens à s’approprier, par un discernement individuel, une personnalité propre. Les enfants et les jeunes ont droit à une initiation à la foi chrétienne, aux sens des grandes traditions religieuses et philosophiques, mais bien en harmonie avec les exigences d’authenticité et de véracité propres à leurs intuitions instauratrices. Quelle apport peut-on attendre à ce sujet, en réalité et symboliquement, des grands rassemblements orchestrés par l’Eglise Catholique, ou autres sociétés chrétiennes, par rap-
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port à ces sensibilités qui s’éveillent à l’interface de la société et du domaine religieux ? Quelles alternatives peut-on stimuler pour créer un espace favorable à l’éveil de la curiosité à propos des questions que chaque personne humaine porte en soi ?
PROFESSIONE DOCENTE
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Etica per Educatori - un minilessico [1]1 Lluís Diumenge, fsc
Arte L’arte è la manifestazione dell’attività umana in cui viene espressa una visione personale e disinteressata che interpreta il reale o l’immaginato con strumenti plastici, linguistici o sonori. Ogni opera artistica esprime realtà del mondo fisico o della propria interiorità dell’artista (sentimenti, aneliti, sogni…) attraverso molteplici strumenti. La parola arte varia a seconda della cultura, dell’epoca, del movimento o gruppo di persone per cui il termine produce senso. La virtù, la disposizione o l’abilità nel fare qualcosa si acquisiscono con sforzo, mediante lo studio e l’esperienza. L’essere umano e l’arte sono realtà inseparabili. La creazione artistica è una funzione basica, realizzata in ogni epoca dell’umanità, dalle pitture rupestri fino alle ultime e più recenti correnti. Si considera che con 1
Inizia da questo numero – e continuerà per tutta l’annata 2009 – la pubblicazione di una ventina di parole chiave dell’Etica ad uso di educatori ed insegnanti. E’ una proposta di un minilessico di base che l’Autore – dottore in Teologia alla Università Gregoriana di Roma e già docente di Teologia morale all’Istituto Superiore di Scienze Catechetiche San Pio X di Madrid – sta appositamente redigendo per i lettori di Rivista lasalliana.Traduzione e adattamento bibliografico sono a cura di Matteo Mennini.
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l’apparizione dell’homo sapiens, l’arte ricoprì, al principio, una funzione rituale, magico-religiosa. Funzione che ha modificato col passare del tempo. Attualmente suscita molte polemiche. L’arte contemporanea si sviluppa a partire dalla teoria post-strutturalista che ha coniato il termine “postmoderno” dato che in quella teoria si intravede l’impossibilità di continuare a creare con i canoni di originalità e novità, propri della modernità. Il postmoderno, attraverso la sua rivoluzione linguistica, amplia il concetto di arte e lo qualifica come un atto comunicativo. La nuova arte deve esprimere in forma etica i valori umani e dare gambe a nuove idee che possano aiutare le riflessione generale sulla persona umana. Qual è la genesi dell’arte? Nasce da una forza, una passione o inquietudine interna focalizzata in una determinata direzione. Assomiglia alla stessa forza che muove molte attività, proprie di correnti spirituali, come il meditare, il danzare, il pellegrinare… E questo spiegherebbe l’affinità esistente tra il fenomeno artistico e il fenomeno mistico. Tutto si muove. E tutto si muove con un ritmo. E tutto quello che si muove con un ritmo provoca un suono. Questo succede in questo momento qui e in qualsiasi altro luogo del pianeta in questo momento. I nostri antenati si resero conto di ciò quando cercavano di proteggersi dal freddo nelle loro caverne: le cose si muovono e fanno rumore. Forse i primi esseri umani videro tutto questo con timore e subito dopo con devozione. Compresero che questa era la maniera con cui un Essere superiore comunicava con loro. Iniziarono a imitare i suoni e i movimenti che osservavano intorno a loro con la speranza di comunicare con questo Essere. Così nacquero la danza e la musica. Nella danza, il mondo spirituale e il mondo reale possono convivere senza conflitti. I ballerini classici si mettono sulle punte perché, allo stesso tempo, toccano la terra e raggiungono il cielo. Grazie alla danza tutti si sentono connessi con quello che fanno. L’artista ha bisogno di una condizione indispensabile per poter lavorare: la libertà. L’esplorazione di quello che lo circonda suppone l’essere disposto a interrogarsi su tutto. Spesso, significa decostruire strutture che si credevano solide e, con quel materiale, ricostruirne di nuove. Il metodo di lavoro consiste nel formulare continuamente domande a se stessi e stare sempre all’erta, cercando informazione. L’innovazione è uno strumento molto utile per avanzare, per superare le proprie abitudini e i pregiudizi. L’artista ha ricevuto come deposito una sensibilità da elaborare con un’urgenza esistenziale e da restituire poi alla società, per poter dare forma a ciò che non ha forma e per poter esprimere l’ineffabile nei limiti del linguaggio (poesia) o dell’immagine (cinema); deve avvicinarsi al mistero fin che può, con gli strumenti di cui dispone: lo spazio, il colore, la luce, le forme, il suono, il rito, la fotografia… L’ispirazione non basta. Nessun artista può creare un’opera interessante, costante, coerente, visionaria, se dietro non vi è un lavoro duro di ricerca e di esplorazione, ogni giorno. In qualche modo scorgiamo le finalità dell’arte nella mutua interazione
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artista-spettatore e nella comprensione globale della realtà. Frutto di quest’ultima è la produzione di bellezza che va intimamente unita con la bontà e la verità. Interessa, soprattutto, la bellezza reale, vera, autentica: è l’unica che perdura perché non è frutto del capriccio, ma di un’analisi della realtà in tutta la sua complessità. Nella prima pagina della Genesi si contempla l’opera della creazione. Alla fine di ogni giornata, si dice che “Dio vide che era cosa buona”. La bellezza, in un certo senso, è l’espressione visibile del bene, così come il bene è la condizione metafisica della bellezza. Di fronte ad essa, lo spirito diventa cosciente della sua nobiltà e si eleva al di sopra della mera ricettività di un piacere sensibile. Ma la bellezza è paradossale. Non si può confrontare con i canoni della bellezza commerciale. Bisogna sfidare il senso della bellezza per mezzo della bruttezza, come se la bellezza trovasse la sua verità solamente nella bontà. E, in questo senso, questa bellezza gode del potere di trasmettere la felicità. Dobbiamo convincerci che le bellezza è precisamente quella luce capace di illuminare il cuore dell’uomo. Quale bellezza salverà il mondo? Non basta deplorare le bruttezze del nostro mondo e nemmeno parlare di giustizia, pace ed esigenze del bene comune. Urge irradiare la bellezza di ciò che è giusto e vero nella vita. Solo questa bellezza afferra veramente i cuori e li dirige a Dio. La vera bellezza è negata laddove il male sembra trionfare, la violenza e l’odio primeggiano sull’amore. Le tendenze dell’arte contemporanea insegnano a non disprezzare le lettere firmate da Dio, scritte nella natura. La musica, per esempio, può diventare un’esperienza che permette ascoltare nelle vibrazioni dell’aria, il soffio di Dio che parla all’anima dell’uomo. È una forma di preghiera in cui l’uomo ascolta Dio e gli risponde con la lode. Questo equivale, in qualche modo, a vivere con arte. L’arte di vivere è conservare l’equilibrio senza escludere le polarizzazioni: fissare l’attenzione sui valori autentici e con essi dare peso specifico alla vita; gettare via ogni zavorra inutile; riunire la fedeltà al presente con l’apertura al futuro; vivere radicati, ma liberi; dare senso al lavoro, ma senza lasciarsi assorbire.
La qualità e l’armonia della vita dipenderanno in gran misura dal modo in cui si inculchi ai giovani la creatività e la capacità del godimento estetico. Questo orientamento dell’Unesco manifesta fino a che punto l’arte si costituisca come questione umana, in un reciproco dare e ricevere. Insegna a vedere per comunicare un’esperienza delle cose. Presuppone comprendere adeguatamente le opere di arte: stili, caratteristiche degli autori, temi… Tutto in funzione di ottenere un pensiero integratore che abbracci tutta la realtà. L’elaborazione teorica di questa realtà non deve mai privare dell’emozione e del piacere estetico. L’arte produce e concilia conoscenza e piacere.
Chi assapora un’opera d’arte deve portare a termine un esercizio di empatia. Sebbene, a volte, non conosca il suo significato, può ricevere un fondo di gioia che lo identifica con lo spirito della sua epoca. Il gran beneficiario è sempre l’uomo, tanto il creatore come lo spettatore. Contemplando La Gioconda, per esempio, si può pensare
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che quell’opera è stata fatta da una persona che è stata vinta dalla morte, ma che, di fatto, ha vinto la morte, perché ha lasciato un’opera che ancora è viva. Il fatto decisivo che rivela la ragione profonda del perché dell’arte è la coscienza che gli uomini hanno della morte. Questa conoscenza sottrattiva dell’uomo è inizialmente una negatività, ma noi la trasformiamo nel motore che muove la creazione. Cercando di eludere la fugacità della vita, l’uomo lascia orme che sopravvivono a lui stesso, fragili particelle di eternità. Il vero artista ha un ruolo creatore. Forgia esseri che ci accompagnano, incoraggiano, inorgogliscono e ci danno la mano attraverso il tempo per poter passare, con una certa serenità, il ponte fragile verso l’aldilà. ! Un film: Les choristes - I ragazzi del coro (Christophe Barratier) Nel 1949 Clément Mathieu, un insegnante di musica disoccupato, trova lavoro in un istituto di rieducazione per minorenni. Qui l'uomo si scontra con la dura condizione in cui vivono i ragazzi e con il metodo educativo, particolarmente repressivo, di Rachin, il direttore. Uno dei ragazzi, tra i più difficili e ribelli, ha una voce angelica e cominciando da lui, Mathieu cerca di cambiare la loro vita attraverso la magia della musica... ! Per saperne di più John DEWEY, Arte come esperienza, Aesthetica, 2007; Umberto ECO, Storia della bellezza, Bompiani 2004; Hans KÜNG, Mozart. Tracce della trascendenza, Queriniana, Brescia 1992.
Biologia La biologia è la scienza che studia gli esseri viventi. Nel Novecento, col nascere delle scienze biologiche moderne (genetica, ecologia…) è entrata in una fase di integrazione di concetti, superando la visione positivistica ereditata dall’Ottocento. Come scienza applicata, ha avuto e ha un forte impatto sulla vita dell’umanità. Questioni importanti come la salute, l’alimentazione, l’ambiente sono oggetto, ormai, di tecnologie biologiche molto avanzate. Come affrontare questa scienza? Con un atteggiamento di ascolto e dialogo, per poter interpretare il cambiamento di paradigma nella relazione tra le persone e la natura. L’essere umano trasforma e crea; e questo genera entusiasmo ma, allo stesso tempo, comporta dei rischi. Fino a che punto è permesso modificare la natura biologica umana? Il progresso ha sempre due facce: quella tecnica, oggetto della attenzione di scienziati, giuristi, politici ed economisti; quella umana, oggetto del dibattito responsabile dell’opinione pubblica. La traiettoria da cui proviene ogni essere umano è ciò che la vita ha fatto di ognuno: pertanto la questione centrale concerne il “cosa” bisogna fare con la vita. Cosa facciamo con ciò che la vita ha fatto di noi? Il fatto è che gli umani non sono completa-
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mente determinati dalla biografia; possiamo e dobbiamo fare qualcosa che serva per costruirci come persone. Fino a dove si può arrivare con la tecnologia che può migliorare l’origine e la fine della vita? Conviene fare tutto quello che è tecnicamente possibile? Che orientamento diamo a questa serie di possibilità? Le useremo per umanizzarci e convivere umanamente con i nostri simili o per autodistruggerci? E’ qui che nasce la domanda etica. Il problema della vita e della sua difesa non è semplicemente il maggior problema tra quelli che si pongono alla morale, ma il più complesso e sconcertante. Per i credenti, la vita è un regalo di Dio. È stata messa nelle mani dell’uomo come suo signore e proprietario, a condizione che lo fosse in modo razionale e responsabile. Conviene partire dal riconoscimento del valore della vita in sé stessa e per sé stessa. La vita umana è il fondamento di ogni bene, la fonte e condizione necessaria di ogni attività umana e di ogni convivenza sociale. La realtà della vita costituisce una gran opportunità affinché l’uomo sia veramente autonomo e determini la sua storia, con la percezione della profondità di ogni cosa. Il diritto di vivere è un diritto umano fondamentale. Bisogna guardare il nuovo mondo che nasce e il nuovo comportamento umano che deve svilupparsi. La vita dell’uomo è un valore immenso che si orienta verso l’altro e gli altri. Avrà tanto più valore quanto più si avvicini al suo sviluppo più elevato. L’uomo non può agire come se fosse padrone e signore di tutto. La vita non costituisce un valore assoluto. Molte persone sono disposte a sacrificarla, se fosse necessario, per salvare altri interessi o ideali che reputano prioritari. In altre occasioni, il valore della vita potrà entrare in conflitto e risultare incompatibile con altri valori altrettanto desiderabili. Bisogna considerare l’esempio di Cristo che diede la sua vita per gli uomini e assumere con forza la dimensione della vita come offerta. La fede e la sequela meritano ogni tipo di sacrificio, incluso quello della propria vita: “chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,35). La vita ha valore in sé, senza necessità di aggettivi. Vivere è preferire. Bisogna avere e darsi delle ragioni per fare una cosa e non un’altra. Così nasce la nozione di “migliore”. La vita è sempre un bene, dato esperienziale la cui ragione profonda l’uomo è chiamato a comprendere. Perché la vita è un bene? Questa domanda attraversa tutta la Bibbia e, già dalle prime pagine, trova una risposta efficace. Cosa fa il cristianesimo? Rispondere alle grandi domande della vita e manifestare che la cosa più importante è l’amore. Con enorme chiarezza lo affermò il Vaticano II: “Si può pensare legittimamente che il futuro dell'umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza” (GS, 31). Una vita facile non insegna nulla. In fin dei conti, ciò che importa è apprendere per maturare. Bisogna essere grati per la vita che c’è stata data, in cui e con cui ci siamo incontrati, precisamente come un compito, qualcosa che ognuno deve immaginare, progettare e realizzare, mettendo in gioco i talenti fino al limite delle possibilità.
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Disegniamo le nostre vite mediante il potere delle nostre scelte. Ci sentiamo indifesi quando prendiamo decisioni per inibizione. Ognuno, all’alba della vita, riceve un blocco di marmo e gli strumenti necessari per fare di esso una scultura. Qualsiasi idea potente è assolutamente affascinante e assolutamente inutile fino a che non scegliamo di utilizzarla: l’aspetto più emozionante delle nuove idee sta nel metterle in pratica. Ognuno è un originale, come quegli incunaboli irripetibili che si conservano nei musei e nelle biblioteche e ognuno ha, tra le mani, la possibilità di sviluppare questa creazione o lasciarla dormiente. Credere nelle piccole cose che formano il “qui e adesso”: esse sono l’angusto forellino da cui contempliamo l’universo. Più che le prese di posizione su questo o quel punto in particolare, al centro del dibattito c’è uno stato dello spirito, una mentalità. È necessario che tutti lavorino a quel livello dove affiora la domanda sull’uomo, sulla sua dignità e vocazione. Fino dove arriveremo nell’uso e nello sfruttamento dell’essere umano per soddisfare i nostri desideri, perfino quelli illegittimi? La bioetica confronta i problemi morali posti dallo sviluppo della biologia e della biotecnologia: vengono posti problemi circa la protezione dell’inizio e della fine della vita umana (manipolazioni genetiche, nuove tecniche di riproduzione umana assistita, diagnosi prenatale, trapianto di organi, eutanasia, prolungamento artificiale dell’agonia…), intorno alla salute e alla malattia (diritti del paziente, relazione medicoinfermo, sperimentazione sugli esseri umani…) e di tipo ecologico. Siamo carenti di una dottrina specifica che parta dal dato di fede. Bisogna discernere in mezzo all’incertezza. Come mettere a fuoco nozioni così complesse quali cambio culturale, autonomia, pluralismo? Davanti ai progressi delle scienze biologiche moderne, gli atteggiamenti di base dell’etica in un contesto credente non devono essere né il rifiuto a oltranza né di accettazione incondizionata, piuttosto di apprezzamento razionale e responsabile. Potremmo riassumerli con una serie di verbi: ammirare, ringraziare, proteggere, curare, migliorare… La difesa della vita, incluso dalla sua origine embrionale, è compatibile con la ragione, occasione propizia per un dibattito tra scienza e religione. Non abbiamo mai disposto di tante possibilità tecnologiche per favorire e proteggere la vita; ma è altrettanto certo che la vita non è mai stata tanto minacciata come oggi. I protagonisti dei prossimi secoli avranno la possibilità di pensare e vivere innamorati della vita, patrimonio universale. ! Un film: Character - Bastardo eccellente (Mike Van Diem) Rotterdam, fine anni Venti. Un giovane e rispettabile avvocato viene trovato sanguinante accanto al cadavere del più importante ufficiale giudiziario della città. L'uomo si proclama innocente, ma quando la polizia scopre che il morto è suo padre, il mistero si fa più fitto. ! Per saperne di più G. F. FRIGO (ed.), Bios e anthropos. Filosofia, biologia e antropologia, Guerini, Milano 2007. Fernando SAVATER, Le domande della vita, Laterza, Roma-Bari 2006. E. SGRECCIA, Manuale di bioetica, Vita e pensiero, Milano 1992.
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Corpo Come vede l’uomo il suo simile? Cos’ è che influisce nella percezione che l’uomo ha di se stesso? Come costruisce le rappresentazioni del suo corpo? A seconda di come una cultura elabora la definizione di corpo, si definisce un modo essenziale di comprendere la realtà. La riflessione sul corpo umano costituisce un aspetto fondamentale della filosofia contemporanea. Ciò è dovuto, in particolare, all’orientamento fenomenologicoesistenziale che ha scoperto la feconda nozione di corpo proprio e imposto il problema del corpo al centro delle preoccupazioni dominanti del pensiero odierno. Concetto chiave che sintetizza definitivamente la rinnovata visione dell’essenza dell’uomo rispetto al tradizionale problema metafisico del corpo e dell’anima, per cui rimane sottovalutata la realtà (corporeità), nascosto il fenomeno (corporalità) e indifferente al mistero (incarnazione) del corpo umano. Il corpo era, secondo Cartesio, la parte meno importante della dualità. Nell’anima si incontra il pensiero e, pertanto, il corpo non è assolutamente necessario per l’esistenza umana. “In principio era il corpo” potrebbe essere il prologo di una Bibbia odierna. Il corpo occupa lo spazio dell’anima. Tutto quanto realizza è veritiero e benefico. Equivale a una nuova religione con la sua liturgia, i suoi pellegrinaggi e riti per ricercare salute, bellezza e forza giovanile. Basta avvicinarsi a qualsiasi rivista rosa o a una sfilata di moda per scoprire l’entità del fenomeno. Si predica la sacralizzazione laica del corpo come vittoria del benessere, del progresso, della tecnica. Proliferano i centri di fitness con la loro gamma di esercizi fisici e aerobici per migliorare o mantenere la vitalità del corpo. La chirurgia estetica espone immagini della persona prima e dopo il trattamento. La medicina suggerisce quaresime laiche con ogni genere di privazione. Non teme, al momento opportuno, far ricorso alla chirurgia. L’avvicinarsi dell’estate, in occidente, disinnesca il bombardamento della pubblicità con creme per un’abbronzatura lucente, diete miracolo e pillole riduttrici di tutto. Anno dopo anno, le persone continuano a cadere nella trappola. Con maggior rischio per i giovani che si vedono intrappolati nella voragine di bellezze spettacolari, di corpi rilucenti, di fisici impossibili. L’uomo europeo, convertitosi in architetto della propria pelle, si avvicina alla cosmesi con entusiasmo e ogni volta dedica sempre più tempo alla cura della sua immagine. Col beneficio di sentirsi sicuro e seducente per vivere la vita senza limiti. E’ scomparsa ogni reminiscenza del corpo come carcere dell’anima. L’addio alla dualità esalta l’apparenza esterna rispetto alla qualità pensante. E’ arrivata l’ora della corporeità. Il corpo è il vettore privilegiato di comunione che ci vincola al cosmo. Tramite esso, il nostro spirito può agire nel mondo materiale e modificarlo. Così come ci lega ad altre persone per la sua capacità di esprimere la verità profonda dell’uomo. Traduce il desiderio di contatti significativi, nostalgia di una comunicazione veritiera, totale e profonda. Il corpo è un linguaggio, capace di esprimere il dono e l’accoglienza. Il
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corpo mi compromette. “Sono il mio corpo, tu sei il tuo corpo”. Non è abbastanza dire che possediamo un corpo. L’etica consiste nello studio della condotta umana nella misura in cui questa condotta presuppone un frammento di comunicazione. La sessualità si rivela come un’esperienza di incarnazione, di immersione dell’io nel corpo. La chiamata dell’etica è una chiamata all’unificazione: “sii uno, sii coerente con quello che significano i tuoi gesti”. I gesti suscitano nell’altro aspettativa, fiducia, abbandono. Di qui nasce la chiamata alla responsabilità. A volte, la società tende a banalizzare il corpo. Accade quando considera il sesso come passatempo o come qualcosa da ignorare. Ugualmente occorre dire che la felicità che deriva dal partecipare alla vita di Dio non consiste unicamente in uno stato mentale interiore. Ha bisogno di incontrare un’espressione corporale per essere veramente umana. Il corpo è un elemento centrale nel cristianesimo. Crediamo fermamente che Dio ha creato i nostri corpi e che venne a noi nella persona di Gesù Cristo. Le nostre radici, il nostro senso dell’orientamento e dello spazio sono profondamente corporali. E’ il corpo il luogo dell’incontro con Dio. L’adorazione del vero Dio ci fa essere corporalmente vivi, toccare, gustare, odorare, vedere, sentire. Un modo per ringraziare Dio e i nostri genitori per il dono della vita è avere cura del nostro corpo. Il cristianesimo privilegia la corporeità visto che Gesù Cristo, nel mistero dell’Incarnazione, costituisce la suprema esaltazione del corpo. Mantenere una relazione positiva con il nostro corpo, con il sesso, la nostra vita, le nostre cose, i nostri progetti e desideri, significa saper vedere, apprezzare, amare anche tutto questo negli altri. Godere di noi stessi e dell’essere umano significa partecipare del godimento che Dio è nella sua relazione trinitaria. Il motivo principale per onorare il corpo è la gloria di Dio. Chi rispetta il proprio corpo, ha cura di qualcosa che Dio ha creato. Il Signore ama ogni persona e i danni arrecati a ciascuno sono altrettante offese a Dio. Con altezza di vedute lo proclamò il Vaticano II:
Unità di anima e di corpo, l'uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Non è lecito dunque disprezzare la vita corporale dell'uomo. Al contrario, questi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell'ultimo giorno. E tuttavia, ferito dal peccato, l'uomo sperimenta le ribellioni del corpo. Perciò è la dignità stessa dell'uomo che postula che egli glorifichi Dio nel proprio corpo e che non permetta che esso si renda schiavo delle perverse inclinazioni del cuore (GS 14). La grandezza della corporeità porta con sé dei limiti. L’ossessione per il culto del corpo può sfociare nel materialismo, nell’edonismo, nell’irresponsabilità.
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La verità del corpo risulta parte importante nella grande avventura dell’amore. L’essere umano è un’opera maestra. E’ il punto culminante dell’organizzazione materiale della natura. Chi non si meraviglia di fronte alla precisione e alle rifiniture dei diversi organi che compongono il corpo? Il corpo non è un semplice strumento, un arnese da lavoro o un accessorio dello spirito. Il mio corpo sono io. Quando consegno il mio corpo, do me stesso. Corpo e spirito si forgiano insieme, l’uno per l’altro. Conseguentemente, non si può usare il proprio corpo senza che questo implichi tutta la persona. E il corpo si deve sforzare nel parlare lo stesso linguaggio del cuore, ossia della persona. Agisce alla maniera di uno schermo dove si leggono sentimenti e emozioni personali. Il corpo permette a un uomo, a una donna, di rendere concreta, realmente, l’intensità del suo amore, la comunione profonda dei loro cuori e delle loro anime. Può, a volte, essere ostacolo nella relazione interpersonale visto che l’incontro non sempre è trasparente. Uno stesso gesto può essere segno di consacrazione o di profanazione, di comunione o di divisione. E’ essenziale che il corpo impari ad usare lo stesso linguaggio del cuore. Così quando guarderemo qualcuno, non ci fermeremo al suo corpo ma arriveremo alla totalità della sua persona. ! Un film - Billy Elliot (Stephen Daldry) Racconta il sogno di un ragazzo di bassa classe sociale che vuole diventare ballerino. La piena realizzazione del nostro essere, data da Dio, implica l’aspirazione alla vitalità attraverso tutti i nostri sensi. A Billy chiedono cosa sente quando balla. La sua risposta è: Elettricità! ! Per saperne di più I. EIBL-EIBENSFELDT, Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Boringhieri, Torino 1993. A. LOWEN, Il linguaggio del corpo, Feltrinelli, Milano 1990. C. PERI – G. SALONIA, “Corpo/corporeità”, in UPS (ed.), Dizionario di scienze dell’educazione, LAS, Roma 2007.
Scienza - Tecnica E’ convenzione definire la scienza come l’insieme di saperi ottenuti mediante l’osservazione e il ragionamento, sistematicamente strutturati e dai quali si deducono principi e leggi generali. Ottenere saperi presuppone agire all’interno del mondo. Ora, questo agire non può essere eticamente neutro. Perché chi lo porta a termine nemmeno lo è. Tanto gli scienziati come chi li finanzia hanno credi, valori, interessi. Accettare questa non neutralità non è sminuire il valore della conoscenza scientifica. Significa che occorre giudicare moralmente tale attività per promuoverla o, in caso, denunciarla.
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A volte, la scienza offre una visione parziale del problema che vuole risolvere. La limitazione non deriva tanto dalla sua incapacità nel trovare risposte, quanto nel formulare adeguatamente le domande. Nell’attualità scientifica intravediamo due forme. Una con progressi incontestabili e, un’altra, con una quantità di punti controversi. I saperi scientifici non cessano di aumentare in estensione e profondità. Qui sorge l’opportunità storica del progresso. Come contropartita si generano alcuni problemi: armi di distruzione di massa, riscaldamento globale del pianeta, deforestazione e desertificazione del suolo, scarsità d’acqua dolce, aumento della domanda e del consumo di energia nel mondo e nei paesi in via di sviluppo… La tecnica è l’insieme dei procedimenti scientifici applicati alla produzione industriale e allo sfruttamento delle risorse naturali. La divisione tradizionale tra scienza (sapere teorico sperimentale) e tecnica (sapere pragmatico) è andata sovrapponendosi e, per questa ragione, molti pensatori oggi preferiscono parlare di tecnoscienza. Altri pensano che la potente ed efficiente tecnica si è trasformata in un elemento determinante della nostra società. Molto lucidamente la definì, decine di anni fa, il Vaticano II:
Questa mentalità scientifica modella in modo diverso da prima la cultura e il modo di pensare. La tecnica poi è tanto progredita, da trasformare la faccia della terra e da perseguire ormai la conquista dello spazio ultraterrestre (GS, 5). Con i progressi della tecnica, effettivamente, cambia lo stile di vita e della comunicazione, i modi di comprendere, fabbricare, usare, scambiare, condividere o contemplare. Con le nuove tecnologie, ogni volta gioca un ruolo maggiore l’interazione umana nel mondo, intorno a noi e nel corpo umano. Aumentano, conseguentemente, le opzioni morali.
Chi formula le domande nel mondo della tecnoscienza? I canali di ricerca sono in funzione dei redditi. L’alto livello tecnologico adottato per obiettivi industriali è in contraddizione con il minimo coinvolgimento per proteggere poveri e diseredati. Scienza e tecnica sono arrivate ad essere un assoluto. Lo rifletteva lo slogan dell’Esposizione universale di Chicago (1933): La scienza scopre, la tecnica applica, l’uomo si adatta. Non si trattò solo di un problema etico su come si utilizza la tecnoscienza, importante senza dubbio, ma di una questione di senso. Il suo straordinario potere reclama nuove responsabilità. Tutto il potere dell’uomo è un potere sopra l’uomo. Occorre segnalare il pericolo di elevare a fine ciò che cominciò come mezzo. L’essere umano è un “animale vulnerabile”, capace di distruggere se stesso, i suoi simili, il suo habitat. Conosce e controlla il mondo senza sapere come umanizzarlo. Può gestire l’energia nucleare, controllare il comportamento neurologico, sviluppare tecnologie mediche per la fecondazione assistita e influire sul patrimonio genetico attraverso l’ingegneria genetica. Oggi è necessario manipolare la vita, nel bene o nel male. Il futuro è nelle mani dell’uomo che deve discernere di cosa è responsabile, qui e ora.
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In un’epoca dove lo sviluppo tecnologico è divenuto l’asse dell’evoluzione della società, esiste uno spazio per l’etica? Immediatamente nasce la parodia. Da un lato ha fatto la sua comparsa l’etica settoriale. Dall’altro, la stessa tecnologia infrange i suoi limiti. L’uomo trova nel mezzo tecnico, uno strumento naturale, come la natura lo era per l’uomo primitivo. Risaltano in lui i valori che gli convengono: efficienza, successo, lavoro. E, di contro, si vanno perdendo virtù come la fedeltà, la bontà o la solidarietà. Il mondo moderno è un mondo costituito sotto l’egida della ragione strumentale. Ambito dove l’etica non rientra, in quanto il suo spazio connaturale è il regno dei fini. Il magistero della Chiesa non accetta di vedere di buon occhio quei fatti che hanno relazione più con l’opera degli scienziati che con quella di Dio. Spesso è accusata di essere contro la scienza. Pretesto che servì per cancellare il discorso di Benedetto XVI all’università La Sapienza di Roma (gennaio 2008). Il dialogo tra scienziati e intellettuali cattolici deve essere sempre aperto. Occorre trovare un filo compatibile tra l’esperienza religiosa e le leggi scientifiche. Nel mondo odierno, l’idea della fede e della scienza appaiono, nei mezzi di comunicazione sociale, con connotazioni diverse. La fede è presentata con lineamenti di irrazionalità, autoritarismo e fanatismo, con il possibile seguito di violenza, oppressione e opposizione alla modernità. La scienza, in cambio, appare come verificabile, feconda e liberatoria, incline al dialogo e totalmente moderna. Quando l’intelligenza umana si pone al servizio delle persone e cerca il progresso dell’umanità, non è in contraddizione con la fede cristiana, che comunque persegue lo sviluppo integrale della persona e il suo benessere. Quindi, fede e scienza condividono alcuni stessi obiettivi che facilitano il mutuo dialogo, il quale, rispettando l’indipendenza di ciascuno, aiuta a rispondere agli interrogativi e alle sfide che l’umanità deve affrontare. In certi momenti della storia è esistita una relazione neutrale. Sempre, fede e scienza, sono state compatibili riguardo all’essenziale. A volte la scienza è entrata in lizza con alcune manifestazioni culturali della fede, ma mai con il suo nucleo centrale: il Dio Creatore e il Dio dell’Amore. Sotto questo punto di vista non c’è nessun antagonismo. Il Vaticano II ricorda ai cristiani che la scienza e la tecnica non sono ostacoli alla fede, non la contraddicono (cf. GS, 36). Qualcuno potrà continuare a inquisire se le scoperte delle scienze fisiche, chimiche e biologiche possono condurci all’affermazione di Dio. O potrà affermare che la scienza espelle Dio dal mondo? La domanda nasce per colpa nostra. Nel pensare che, continuando a scoprire l’ordine scientifico, sembra che Dio non sia più necessario per spiegare quello che prima, senza la scienza, risultava inspiegabile. La razionalità che scopriamo nell’universo attraverso le grandi leggi della fisica è ammirabile. Molti scienziati hanno parlato di Dio come della razionalità dell’universo. Ma d’altra parte, il fatto che con la nostra limitata ragione siamo capaci di capire e scoprire tante cose è ancor più un fattore sorprendente.
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La bellezza del mondo può essere un itinerario verso Dio? Una delle fonti della religiosità è la contemplazione della bellezza. La scienza spiega alcuni degli aspetti che ci meravigliano e ce li presenta come risultati di alcuni meccanismi concreti, meccanici o elettromagnetici. Ma questo non sminuisce la bellezza del mondo; al contrario aggiunge alla bellezza sensibile la bellezza intellettuale. E’ compatibile, con lo stadio attuale della scienza, pensare a Dio come origine del mondo? Risposta positiva, a condizione però di non prendere Dio come la spiegazione di come è il mondo, ma di vederlo come la ragione ultima del mondo, ciò che fa sì che il mondo sia. Sembrerebbe che con lo sviluppo della scienza, rimanga meno spazio per Dio. Al contrario. Sono in maggioranza gli scienziati che intravedono Dio attraverso la grandezza dell’universo nel suo insieme e nella complessità di una cellula viva o di un atomo. ! Un film - L’incubo di Darwin (Hubert Sauper) Favola sull’evoluzione e la sopravvivenza del più forte rispetto al più debole. Negli anni ’60 si introdusse una nuova specie animale, con fini scientifici, nel lago Vittoria. La parca del Nilo è un predatore che sterminerà tutte le specie delle quali si alimentava la popolazione locale. L’ecosistema, così stravolto, cancella tutte le speranze per il futuro. ! Per saperne di più Francis FUKUYAMA, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano 2002. Gualberto GISMONDI, Scienza, coscienza, conoscenza, Cittadella editrice, Assisi 1999. Hans JONAS, Il principio responsabilità: un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990.
Prossimo numero: 2. Educazione, Famiglia, Relazione, Religione.
PROFESSIONE DOCENTE
RivLas 76 (2009) 1, 71-86
AUTOFORMAZIONE DEL DOCENTE / 4
Un metodo per insegnare Marco Paolantonio Lo specifico impegno professionale dell’insegnante permane quello di procurare apprendimento. Smesso il ruolo di demiurgo dei saperi, deve saper assolvere il compito di chi sa creare ambienti e situazioni ricche di stimoli finalizzati all’ apprendimento, in grado cioè di stimolare e guidare gli allievi all’autonomia culturale. Partendo da questa premesse, nelle tre precedenti puntate sono state considerate: ! la tipica professionalità del docente, cioè del mediatore di cultura, o dell’educatore di capacità appurate e/o potenziali; ! la necessità di trovare e perfezionare gli strumenti della comunicazione, verbale e non-verbale, che permettano all’insegnante di essere protagonista nella azione interpersonale richiesta dai rapporti con allievi, colleghi, genitori; ! alcune caratteristiche dei recenti cambiamenti socioculturali che chiedono alla scuola un diverso modo di impostare sia i contenuti che i metodi. Nell’ultima puntata (2008, 3, 353-368) si è trattato di contenuti, ma si è necessariamente accennato ai modi con cui proporli a chi apprende. In queste pagine conclusive si tratterà in particolare della metodologia generale, ma non saranno infrequenti - perché necessari - i richiami ai contenuti.
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Mediazione didattica, mediazione educativa Il termine mediazione, che precisa la tipologia dei metodi cui dovrebbe attenersi chi insegna, presenta due accezioni: la prima, didattica, riguarda il rapporto cognitivo tra chi insegna e chi apprende; l’altra, educativa, attiene al rapporto etico che, come osserva il Ricoeur, si verifica ogni volta che un essere umano si confronta con altri esseri umani. Sono aspetti interagenti e inscindibilmente connessi, qui separati solo per facilitarne l’analisi. Il sapere dell’insegnante, annota e argomenta il Damiano1, è il sapere dei pratici. Non s’identifica quindi con quello degli specialisti teorici (psicologi, sociologi, pedagogisti) né con quello dei tecnici del sapere degli esperti (disciplinaristi). Ne è - dovrebbe esserne - la sintesi operativa, unendovi i valori etici che caratterizzano la funzione sociale del docente. Per tradurlo in pratica coerente, vanno tenuti presenti2: la materia d’insegnamento: specificità epistemologica; importanza formativa; difficoltà che comporta l’apprendimento sia sotto l’aspetto didattico sia in rapporto alle caratteristiche dei soggetti con cui opera; l’apprendimento: strumenti (strategie e tecniche) che lo rendono possibile; come operare per stimolare al meglio gli alunni capaci e per non trasformare in sconfitte o in disfatte le inevitabili difficoltà incontrate dai meno dotati (sono gli aspetti già presi in
esame su questa rivista: cf 2007, nn.1,2,3); l’insegnamento: quali fondamenti di metodo porre all’azione didattica ed educativa;
che rapporti stabilire con il singolo e con il gruppo; quale strumentazione didattica adeguata mettere in atto; i programmi e la programmazione: quali sono i nuclei fondanti della materia da insegnare (in questa lezione, questa settimana, questo mese e quest’anno); in quali forme calarli (scelta e funzione del testo, impostazione e articolazione della lezione, utilizzazione di altri sussidi didattici) per conferire la maggior efficacia del rapporto insegnamento-apprendimento; quali risultati formativi ci si propone, anche in collaborazione con i colleghi; quali criteri/strumenti di verifica sono da utilizzare (sono gli aspetti illu-
strati nella presente puntata); l’insegnamento come professione: quali sono le maggiori difficoltà attuali rispetto ai
protocolli della programmazione; quali gli aspetti positivi da confermare, quali i negativi da rimuovere; comportamenti di ruolo: a) autovalutazione: quale percezione e stima ho del mio operato professionale; b) valutazioni esterne quale percezione e stima del mio operato professionale hanno dirigenti e colleghi, alunni e famiglie (sono aspetti che tratteremo in quest’anno 2009 sotto il titolo Valutarsi per valutare).
Insegnamento, saperi, apprendimento Solamente il terzo e il quarto punto dell’elenco costituiscono l’argomento specifico delle presenti note. Per meglio introdurli è tuttavia utile richiamare alcune idee che riguardano i due primi aspetti, già trattati in precedenti puntate. 1 2
Il sapere dell’insegnare, Franco Angeli, Milano 2007, p. 33. Libero adattamento di p. 34 dell’op.cit.
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Sapere scientifico e sapere scolastico - La trasposizione didattica dei saperi è mirata all’acquisizione di conoscenze e di competenze. Al riguardo Elio Damiano osserva3
“Quando il sapere scientifico si rapporta a quello scolastico, entriamo in un campo in cui si può parlare di ‘tradimento’: perché da un lato si afferma (almeno da cinquant’anni in qua) che la scuola ha il compito di trasmettere, appunto, il sapere prodotto dalla ricerca scientifica, curando di tenersi puntualmente aggiornata al riguardo, dall’altro si denuncia che il sapere scolastico è, quando va bene, una riduzione semplificatoria del sapere scientifico, se non addirittura una sua alienazione e banalizzazione.”
E precisa:
“Per un verso, dicono, il sapere scolastico si ammanta del prestigio del sapere scientifico che afferma di offrire in esclusiva a tutti, dall’altro lo depriva dei suoi caratteri essenziali - il dubbio, la provvisorietà, la correggibilità... - trasformandolo in sapere dogmatico”
Osservazioni di evidenza apodittica, che vanno estese a tutte le materie scolastiche, cronicamente in ritardo - quando non in disaccordo o in contrasto - con il ‘sapere scientifico’ dei ricercatori e con l’evolversi stesso della realtà sociale (basti pensare agli sconvolgimenti creati negli ultimi decenni nei programmi di storia, geografia, economia, tecnologia..; per di più filtrati, e spesso distorti, dalle ideologie in voga). Non si tratta di cedere a un radicale scetticismo, confinando il sapere scolastico nel limbo di un irrealismo congenito e programmatico, quanto piuttosto di esaminarne e poi promuoverne il senso e la funzione, che si riassumono nell’acquisizione di una cultura adeguata al tempo presente. E per cultura sono qui da intendere le conoscenze, le abilità e le competenze che permettono a una persona l’inserimento attivo nella società di cui fa parte. L’espressione mediazione didattica qualifica il compito che la scuola ha nei confronti dei ‘saperi’: essi sono un mezzo, non un fine; o meglio, mezzi per raggiungere il fine dell’integrale promozione umana dell’allievo.
L’apprendimento - Si può dare apprendimento senza insegnamento (ognuno di noi
può, infatti, testimoniare quante cose anche importanti ha appreso per conto proprio); così come si può dare insegnamento senza apprendimento (a condizione, però, di vanificarne il senso e la funzione). A noi interessa porre in luce i vantaggi di un loro incontro intenzionale e fruttuoso. Il primo termine del binomio sono gli studenti. Per cercare di capire perché alcuni di essi imparano con facilità e piacere raggiungendo alti livelli di prestazione mentre altri hanno carriere scolastiche stentate o inconcludenti, si possono individuare almeno quattro distinti nuclei di ricerca: il primo si riferisce alle abilità innate; il secondo alle strategie utilizzate per apprendere; il terzo alle capacità metacognitive; il quarto alla motivazione4.
Se non è difficile precisare gli elementi che concorrono alla costruzione di un apprendimento significativo sempre più autonomo, è invece arduo stabilire in che modo pratico ed efficace possa contribuirvi ogni insegnante (in necessaria collaborazione etico-professionale con i colleghi). Per uno specialista dell’apprendimento come R.
3
L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione morale, Cittadella editrice, Assisi, 2007, pp. 145 ss. 4 v. R. De Beni - A. Moè, Motivazione e apprendimento, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 35-46
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Feuerstein5 le strategie che caratterizzano l’insegnante mediatore sono tre (e ad esse corrispondono le attese e le risposte, più o meno espresse, di chi impara): ! intenzionalità: " il mediatore vuole in modo intenzionale ed esplicito entrare in relazione e lo dice apertamente; osserva perciò le reazioni alle sue proposte e sa cambiare strategia/proposte di lavoro per stabilire e conservare un positivo rapporto interpersonale; (" da parte sua l’allievo deve possedere le prenozioni e la necessaria competenza lessicale) ! trascendenza: " in ogni situazione d’apprendimento è necessario che l’insegnante-mediatore sappia creare curiosità6, allargare orizzonti; stimolare a generalizzare, ragionando sulle regole e la loro trasferibilità; abituare alla flessibilità mentale, individuando gli strumenti più idonei a superare le difficoltà; (" l’indisponibilità o il rifiuto dell’allievo si manifestano con il disinteresse completo o con la disattenzione selettiva strategica7) ! significatività: ! gli studenti devono sempre sapere che la loro fatica è finalizzata: devono perciò capire cosa studiano e perché è importante farlo; (" è il fondamentale, spinoso capitolo della motivazione, cui abbiamo già accennato8 in RL 2008,2).
1. LA MEDIAZIONE DIDATTICA 1.1. Due centralità possibili Sistematicità ed esaustività sono il binomio che caratterizza la metodologia ‘disciplinarista’ che privilegia la specializzazione e la separatezza dei saperi. E’ incentrata sull’insegnante. Riflessività e orientamento contraddistinguono invece le metodologie curricolari che si ispirano al costruttivismo. Hanno come istanza fondamentale quella di identificare l’insieme delle conoscenze capaci di attivare progressivamente le capacità dell’allievo per favorire il personale processo verso l’autonomia culturale. Co-protagonisti insegnanti e allievi. 5
In Non accettarmi come sono, Sansoni, Milano 1995, cap. 4: L’influenza dell’apprendimento mediatizzato. 6 Esperti di didattica generale concordano con il sapere esperto di chi insegna: “Quando non si è bravi insegnanti? Quando si propone un apprendimento noioso, ripetitivo; quando l’aula non è il luogo da cui partono i viaggi tra i saperi e le conoscenze; quando non vi è l’atmosfera che nei contenuti, nelle nozioni di altissimo livello, fa vivere l’emozione di conoscere” (A. Cuomo). C’è chi ritiene che gli allievi apprendano il 5% dalla lezione, il 10% dalla lettura, il 20% dagli audiovisivi, il 30% dalle dimostrazioni, il 50% nei gruppi di discussione, il 75% in attività pratiche, il 90% dall’insegnare ad altri. (La pratica dell’insegnamento, www.sociologia.unical.it /convdottorati/stokes.pdf). 8 Tra le motivazioni dirette, che ottengono cioè l’immediata adesione del soggetto che apprende, si possono indicare le ludiformi (disegno, lettura, filmati, informatica, visite d’istruzione), le empatiche (qualità positiva dei rapporti con le persone), le intrinseche (legate all’ interesse suscitato dall’argomento: il piacere di capire e di sapere). Tra le indirette hanno particolare valore quelle strategiche, indotte dall’insegnante con opportuni accorgimenti: ad. es. quella del problema’ (problem solving) e/o quella del progetto’, che può trovare efficaci supporti nel lavoro associato (cooperative learning). 7
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Le due posizioni possono risultare inconciliabili quando sono pregiudizialmente radicali. Logico pensare invece che alle diverse stagioni della carriera scolastica - scuola primaria e secondaria - corrispondano criteri diversi di progettazione e di programmazione educativo-didattica. Sistematicità ed esaustività prevalgono allorché i programmi scolastici, già a livello di scuola primaria, adottano il principio della trattazione lineare e sistematica. Mutuato dall’insegnamento universitario, tale criterio risponde alle giuste esigenze di un’intelligenza adulta e costituisce il vademecum professionale degli insegnanti, mediatori di cultura ed esperti nei metodi di trasmetterla. Punto d’arrivo, non di partenza. Trapiantato con andamento ciclico nel vari ordini della scuola espone però al metodo del ‘mordi e fuggi’, cioè all’incessante incalzare di capitoli e di argomenti di cui spesso sfuggono i contenuti essenziali insieme con il significato culturale. Da qui nascono, in particolare per temi aridi e remoti, molte delle ragioni di noia, di disimpegno, di ansia anche per allievi potenzialmente ben motivati. Chi non si limita alla critica di tale posizione ma sa proporre metodologie alternative ritiene che la scuola dovrebbe far riscoprire il cammino storico della didattica delle conoscenze (scientifica, letteraria, storica, geografica, artistica, …), che, " partendo da interessi spontanei o indotti (scuola primaria), " esige poi approfondimenti e collegamenti sistematici (scuola secondaria di primo grado), " giungendo infine all’inquadramento sistemico (disciplinare). 1.2. Ragioni sottese alle spinte innovative Una serie di motivazioni a favore di un’innovazione (non necessariamente radicale) nasce da situazioni socioculturali nuove che investono la scuola nel suo insieme. Ne riassumiamo alcune segnalate dal Damiano9: " Passaggio obbligato dalla quantità alla qualità dei contenuti - i saperi - da trasmettere, oggi tanto numerosi da risultare incontenibili. Ciò impone la rivisitazione anche della forma con cui organizzarli. Si è così passati - dalla pedagogia degli obiettivi all’emergente pedagogia delle competenze (di cui ci siamo già occupati10). " Le tecnologie multimediali, informatiche e virtuali, si sono gradualmente trasformate da ausili occasionali ad attività didattiche a se stanti, affiancandosi alla ‘scuola del libro’, di cui sono concorrenti per lo più vincenti in ragione della loro maggior capacità di interessare e coinvolgere, trovando talvolta impreparati gli insegnanti che dovrebbero non solo saperli utilizzare ma educare a utilizzarli. " Il rapporto tra teoria e pratica, è sostanzialmente cambiato in diretta dipendenza dall’aspetto precedente. Il ’sapere’ significa sempre più ‘saper fare’; è il pensiero tecnico del’come si fa’ che ha creato una nuova modalità di conoscere, anch’essa con le sue ‘virtù’:“l’immediatezza, l’essenzialità, la concretezza, la coordinazione, la positivi-
tà, la responsabilità e in genere, nel bene e bel male, il superamento delle distinzioni
9
Insegnare i concetti. Un approccio epistemologico alla ricerca didattica, Armando Editore,
Roma 2004, pp. 9-13. 10 Rivista lasalliana, 2008, 3, pp. 357-358.
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(dal dire al fare, dal pensiero all’azione, dalla scienza alla morale…) cui eravamo abituati (e rassegnati)”. ! La globalizzazione sta facendo della nostra una società multiculturale. Spesso im-
pone non solo l’equilibrato confronto tra identità nazionali da conservare e apporti della mondializzazione da acquisire, ma è tenuta anche a inventare regole di convivenza. Ad esempio, non è possibile ignorare, cedendo a malintese e superficiali idee sull’integrazione, che le migrazioni sono oggi fortemente etnocentriche e talora attivamente antagoniste. " La personalizzazione, altro problema di psicologia sociale e perciò educativo, impone un diverso modo di guardare all’apprendimento. Nelle sue forme più radicali è rappresentato dal costruttivismo, che, ponendo l’alunno al centro dei processi di apprendimento, rovescia sia il rapporto con i saperi (l’impostazione di programma e programmazione) sia quello tra docente e discente (mediazione didattica).
Altre ragioni11
" Si è modificata la nozione di tempo. Al ’tempo lungo’, sequenziale-lineareunidimensionale, che caratterizza la scuola (e la vita) - giorni, mesi, anni - scandito in modo rituale da orari, compiti, lezioni, risultati periodici e finali, si è progressivamente affiancato (fino a prevalere) il ‘tempo breve’: virtuale-in rete-multidimensionale. L’apprendimento multimediale avviene per immersione, con un accostamento di sa-
pore amichevole, immediato, interattivo, sociale, in cui è impossibile distinguere tra messaggio e contesto, basato su un rapporto semiotico di tipi diverso, aperto alla convivialità, al colloquio, al gioco… (Maragliano). E’ il seducente, costante invito a far più cose possibili nel minor tempo, saltando dall’una all’altra con lo zapping e reiterando quelle preferite con il replay. L’inevitabile conflitto psicologico che si è creato fra i due ‘tempi’, si chiude a svantaggio di quello meno piacevole e più impegnativo, che permane nella scuola. " E’ mutata la nozione di spazio per l’apprendimento. Un tempo le conoscenze avevano la classe e la scuola come luogo istituzionale dell’apprendere. I curricola informali (la ‘scuola parallela’), principalmente rappresentati dalla comunicazione multimediale e da forme di aggregazione giovanile di massa propongono fascinosi modelli di formazione alternativa. “La dispersione e la mortalità scolastica derivano in buona
parte da questa incapacità della scuola a collegarsi con i processi dell’educazione informale, cioè con i processi reali dell’apprendimento: il ragazzo lascia la scuola perché non riesce a stabilire un ponte tra il suo processo di apprendimento individuale, sociale, culturale e le cose che la scuola gli vuole comunicare.” " E’ in crisi il senso dell’autorità, legata all’idea di regole, di dovere, di controllo, e,
nei suoi aspetti meno graditi, a quella di sanzione e di punizione. La posizione di chi la rappresenta nella scuola è inoltre indebolita a casa dalle famiglie ‘dimissionarie’, che hanno cioè rinunciato a prendere in considerazione i valori, non solo quelli d’un tempo, e a farli rispettare. Molti ragazzi si trovano di fronte - a casa e a scuola - ad adulti che hanno rinunciato alla loro funzione di guida e di modello.
11
Vedi P. Orefice, Dall’educazione formale all’educazione informale, www.ea.fvg.it/Portale AREA/
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E va aggiunta la quaestio particolarmente controversa sulla democratizzazione del sistema scuola, che impone di garantire a tutti l’accesso all’istruzione di base e ai successivi gradi per mezzo di un insegnamento inteso alla promozione di tutti secondo le capacità di ciascuno. Lo scopo corretto è quello di assicurare alla società cittadini capaci di fornire prestazioni di pubblica utilità secondo una reale competenza. Non selezione classista quindi, ma neppure miope egualitarismo.
2. FAR LEZIONE La mediazione didattica ha nella lezione l’indiscutibile riprova sul campo della validità della progettazione, della programmazione, delle valenze personali (didattico-etiche) del docente. Nelle presenti note è possibile occuparci solo delle procedure e dei processi comuni a tutte le materie, posti in atto secondo analoghi criteri di metodo. Possono essere raccolti e illustrati con riferimento a due grandi classi: - la lezione tradizionale, centrata sul docente e sull’esposizione frontale, rivolta in modo pressoché indifferenziato a tutti gli allievi; - la lezione induttivo-attiva, centrata sugli allievi, diversi per stili cognitivi, emotività, capacità di socializzare, che richiede una pluralità d’interventi, di mezzi e di modalità di valutazione. L’unico criterio per l’accreditamento di un metodo è dato dalla sua funzionalità e dai risultati ottenuti. A scuola, il più efficace è quello che assicura la qualità e la quantità migliore dell’apprendimento individuale. Le considerazioni fin qui esposte e quelle che seguono non vogliono in nessun caso portare a concludere che la lezione sia una modalità superata. Osserva Renzo Titone12: La realtà è che la lezione non è morta, bensì un certo modo di ‘far lezione’, un modo impositivo, autoritario, monologante, nozionistico. Sarebbe far torto sia alla pedagogia autenticamente attivistica sia alle più serie ricerche della psicopedagogia moderna decretare l’ostracismo dell’insegnamento sistematico, offerto in modi e forme adatti a stimolare l’apprendimento profondo dell’alunno; e dire ‘insegnamento sistematico’ equivale a fare spazio alla ‘lezione’, la vera e buona lezione atta a promuovere l’auto-attività e la creatività, l’iniziativa individuale e il lavoro di gruppo.
2.1. Caratteri, valenze, limiti della lezione tradizionale “Si tratta del modello di mediazione con la quale è stata formata la stragrande maggioranza degli attuali docenti che l’hanno profondamente introiettato. Un modello che ha funzionato (egregiamente) per secoli fino a tanto che gli allievi della scuola rappresentavano una percentuale quasi irrisoria della popolazione, sostanzialmente omogenea e per diverse ragioni molto convinta. E che funziona ancora, ma solo ed esclusivamente nei confronti di persone già molto motivate (il che si può dire molto raramente per i giovani che frequentano una scuola di massa) e in possesso di un buon metodo di studio e di abilità di base, cognitive e relazionali, significative. Questo modello si regge su quattro pi-
12
In Come organizzare la lezione, di M. Mazzotta, Giunti & Lisciani, Firenze 1991.
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lastri: il libro di testo, la lezione, l’interrogazione, i compiti in classe”(Flavia Marostica, La mediazione didattica, www.FMDC/mediazione/revisione)
La precedente analisi permette di prendere in considerazione la validità degli strumenti che caratterizzano questo tipo di mediazione. Il libro di testo: è un’intermediazione didattica difficile da utilizzare, perché richiede per un verso una notevole competenza linguistica disciplinare e per un altro una capacità di discernimento e di sintesi che è difficile trovare nella maggior parte degli allievi. I limiti si evidenziano se è, oltre alla lezione espositiva, l’unico mezzo offerto a chi impara. La lezione: da un punto di vista dell’apprendimento significativo presenta problemi quando è utilizzata come unico, sempre identico sistema di relazione/comunicazione, perché fa esercitare essenzialmente la sola capacità di memorizzazione delle conoscenze dichiarative13 da riferire in sede di interrogazione. L’interrogazione: è rituale e riduttiva quando è la semplice richiesta di restituzione delle conoscenze memorizzate (una ’valutazione del prodotto’); diventa poi illegittima se chiede all’allievo di fare operazioni (inferenze, collegamenti, valutazioni, ecc...). che nessuno gli ha mai insegnato a fare o che non è mai stato esercitato a fare. Il compito in classe: anche quando introduce prove strutturate o semistrutturate è analogo all’interrogazione orale, quando e se si conclude unicamente con la ‘valutazione del prodotto’, vale a dire con la verifica delle sole conoscenze dichiarative (le nozioni che erano da imparare). “In tutti i casi, qualunque dei quattro pilastri si prenda in considerazione, la mediazione tradizionale mette al centro la trasmissione dei contenuti e l’accertamento che essa sia avvenuta (almeno a livello temporaneo); richiede una progettazione limitata alla preparazione delle lezioni/spiegazioni e all’individuazione eventuale dei compiti da dare, si realizza con procedure uniche, uniformi e identiche per tutti, come se non esistessero stili cognitivi e affettivi anche profondamente diversi tra loro e lascia i giovani da soli nel processo di apprendimento e da soli con i loro problemi di apprendimento (chi impara e chi non impara deve risolvere da sé i propri problemi). Si tratta, in altre parole, di una mediazione trasmissiva e debole.” (F. Marostica, cit., p. 4)
Come già si è detto, la denuncia dei limiti di un certo tipo di lezione - quella tradizionale - non comporta la condanna tout court di questa insostituibile forma di guida all’apprendimento. I vantaggi innegabili che essa presenta sono: " la possibilità di offrire in poco tempo agli allievi un consistente numero di dati e di informazioni accertate e organizzate; di enunciare sintesi e di istituire relazioni anche problematiche; " l’opportunità di creare situazioni capaci di sollecitare l’operatività e la partecipazione attiva dei discenti; " il vantaggio di far stabilire rapporti interpersonali: con adulti sperimentati, in grado di offrire aiuto e guida e con i compagni, in stimolanti e fruttuose forme di cooperazione. Senza uscire dai binari di una didattica tradizionale già il mastery learning di Bloom e Carroll offriva suggerimenti pratici ed efficaci:
13
Com’è noto, il sapere dichiarativo è relativo a contenuti, informazioni, dati; quello procedurale riguarda i metodi e gli strumenti per l’organizzazione del pensiero; il sapere immaginativo afferisce ai linguaggi, alle rappresentazioni, ai modi di pensare e di trasferire pensieri “ Mira – sintetizza efficacemente il Reboul – all’unità sempre più alta di una diversità sempre più ricca.”
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“L’aver dato agli allievi l’opportunità di aiutarsi vicendevolmente in piccoli gruppi si è rivelato un metodo valido per stimolarli a usare i correttivi e all’occorrenza per offrire loro il tempo e l’aiuto supplementare di cui avevano bisogno. Anche l’assistenza dell’ insegnante, l’istruzione programmata, l’uso avveduto del materiale didattico.”14
2.2 Senso e modalità di scelte alternative La famiglia metodologica relativamente recente è costruita su principi induttivoattivistici. Si esprime in termini quali progetto, modulo, caso concreto, contestualità, laboratori15. L’oggetto - il sapere - è dichiaratamente in funzione del soggetto che apprende; l’insegnante è il tramite, consapevole che la conoscenza non può essere semplicemente ‘trasmessa’, ma dev’essere‘rigenerata’ dalla mente che lo accoglie.16 Su questa ‘centralità’ dell’allievo non bisogna però equivocare, cedendo a una visione spontaneista dello sviluppo cognitivo: “ ...l’allievo apprende se e quando è attivo nella situazione didattica. Tutta la ricerca psicologica e psicopedagogica contemporanea non ha realmente smentito, sotto quest’aspetto, il modello attivistico, semmai l’ha precisato e approfondito, liberandolo dall’enfasi spontaneistica e dalla retorica degli interessi ‘naturali’. Infatti è chiaro che la ‘curiosità spontanea’ e gli ‘interessi’ cognitivi e sociali di un soggetto (già al suo ingresso nella scuola) sono solo in minima parte determinati da spinte biologiche vitali, ma che essi sono stati orientati e canalizzati in maniera determinante dell’esperienza socio-culturale già compiuta nei primi anni di vita. A maggior motivo, l’esperienza intellettuale e scolastica già compiuta determina la ‘spontanea curiosità’di un soggetto di dodici o di quindi anni al suo ingresso nei livelli scolastici successivi.” (M.T. Moscato, op. cit., p. 220).
Esaminiamo quattro dei principali indirizzi dei metodi induttivo-attivi.
1. La concretezza - Per chiarire il senso da attribuire a questo termine, è utile partire dalla definizione del suo contrario (e richiamare alcuni dei maggiori limiti della lezione tradizionale): l’astrattezza. “La vera astrattezza è data dalla ripetizione meccanica dei contenuti informativi non
connessi alla struttura cognitiva dell’allievo, e per conseguenza non utilizzabili per una sua globale e continua ricostruzione della realtà” * M.T. Moscato, p. 223
Concretezza in senso didattico significa dunque favorire con gli strumenti più idonei l’esercizio delle tre principali modalità di conoscenza - attiva, iconica e simbolica - che interagiscono in modo e con intensità tipiche di ogni individuo17. Se a ogni età risultano efficaci le esperienze concreto-iconiche (vedere, manipolare, ma anche fotografare, drammatizzare, registrare, usare gli strumenti multimediali;...), il cammino verso le conoscenze trasferibili deve comunque approdare all’astrazione, -
14
In R. Fornaca, Didattica e tecnologie educative, Principato, Milano 1985. v. Maria Teresa Moscato, Diventare insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento, La Scuola, Brescia 2008, capitolo 8: I metodi induttivi attivi , pp. 214-239 16 Concetto non certo nuovo: già la gnoseologia scolastica ricordava che quidquid recipitur per 15
modum recipientis recipitur. 17 J.S. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1997
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simboli, categorie, concetti - sulla quale si fonda il linguaggio che permette di trasmetterla.
2. I laboratori - Il laboratorio nelle sue molteplici forme è legato alla modalità
dell’apprendimento sociale, ma in modo funzionale all’apprendimento personalizzato, perché si rivolge a piccoli gruppi. La valutazione è perciò intenzionalmente formativa, nel senso che essa viene esercitata nel corso dell’attività stessa ed è orientata all’autovalutazione da parte dell’allievo. L’insegnante è personalmente coinvolto come animatore/istruttore; deve cioè dimostrare una competenza superiore alla materia trattata, tale da permettergli di verificare in itinere, dirigendo, integrando e correggendo all’occorrenza, gli individuali percorsi di conoscenza degli allievi. A livello degli strumenti della comunicazione si sono attuate e si configurano proposte sempre più soddisfacenti: nelle attività di scrittura collaborativa; con la creazione di ipertesti e collegamenti ipertestuali che vedono due o più persone al lavoro sullo stesso tema nell’ambito di un progetto comune; sono disponibili in numero e qualità sempre maggiori le simulazioni che, sia pure in modo virtuale, consentono esperienze di laboratorio, la realizzazione di ‘mappe’progettuali e di modelli predittivi.
3. Moduli e modularità18 - “ La logica del modulo prevede che si acquisti in profondità e
specificità didattica ciò che si perde in ampiezza e sistematicità: per questo il modulo, di norma, non comporta lo svolgimento lineare e organico dei temi trattati, né si prefigge una verifica sistematica di tutta la conoscenza pregressa dei propri utenti; tutt’al più vengono verificate alcune precondizioni, le attese e le motivazioni dei partecipanti al modulo e, alla fine del percorso formativo, si controllano gli esiti ottenuti rispetto a quelli attesi” (M.T. Moscato, p. 228).
Sono cenni sufficienti a far capire che scelte di questa portata richiedono non solo una sicura preparazione professionale del singolo insegnante, ma un accordo metodologico, progettuale e programmatico del team di docenti – non sempre coincidente con il Consiglio di classe – che predispone e attua il modulo.
4. I progetti - Rispondono ai due presupposti fondamentali della metodologia innovativa: l’attività del discente e la dimensione sociale dell’apprendimento. Caratteristiche e momenti sono: " il tema, che può essere affrontato e svolto in modo multidisciplinare o interdisciplinare, • la funzione formativa, che inscrive l’unità all’interno della progettazione di Istituto, • la posizione (nella logica della programmazione annuale della disciplina), • il gruppo-classe, con una specifica attenzione alle caratteristiche collettive e dei singoli allievi), • i tempi (con la previsione in ore, settimane, mesi), "la motivazione (che chiarisce a quali bisogni formativi si intende dare una risposta), " i prerequisiti d’ingresso, • gli obiettivi formativi specifici (il risultato atteso in termini di conoscenze, competenze, capacità), • gli obiettivi formativi trasversali (comuni alle discipline che confluiscono nell’unità), • i nuclei cognitivi concettuali (validi e motivanti, in grado di modificare in modo significativo gli atteggiamenti mentali degli allievi), • il percorso effettivo che si intende compiere (dalle modalità di verifica dei prerequisiti alle attività previste per gli eventuali ricuperi, dalle metodologie didattiche e dagli
18
Insieme con la Didattica breve, che è un originale modello didattico, se n’è trattato con più ampiezza in Rivista lasalliana 2008/3, pp. 363-365
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strumenti posti in essere, alle verifiche - formative, sommative, finali -, • la validazione dei risultati (del singolo docente e del team). * da Patrizia Becherini, Insegnare oggi, La Nuova Italia, Firenze 2005 pp. 144-145. Altre forme metodologiche innovative, che si iscrivono nella logica di un passaggio dal curricolo lineare all’organizzazione modulare e le danno sostanziosi contributi sono l’apprendimento cooperativo, l’apprendimento per problemi e la teledidattica19
3. LA MEDIAZIONE EDUCATIVA Ogni società - e in quelle democratiche ogni gruppo caratterizzato ideologicamente che ne fa parte - ha una propria concezione dei valori individuali e civici da difendere e rivendicare anche e soprattutto allorché si tratta di trasmetterli alle nuove generazioni. La scuola è una sede istituzionale di educazione, non primaria come la famiglia né spesso efficace come la società in cui è immersa, ma certamente importante; il monopolio al riguardo operato dai regimi totalitari ne è la dimostrazione. Dal canto suo, più o meno dichiaratamente, ogni insegnante è portatore di personali convinzioni filosofiche, politico-sociologiche ed etiche. L’insegnamento è dunque caratterizzato dall’aporia, di assai difficile soluzione, tra l’iniziazione degli alunni ai modelli non solo culturali, ma anche etico-sociali del mondo adulto che li circonda e l’educazione all’autonomia. Chiaramente illusoria (o scientemente mistificatrice) è perciò da ritenere l’affermazione che sia possibile (e doveroso) tener distinta l’istruzione dall’educazione. Come osserva il Pellerey20: ” ...lo vogliano o no, le scuole insegnano comunque principi e norme morali (…) con il curricolo implicito dato dall’atmosfera generale vissuta, dai comportamenti dei docenti e dei dirigenti, dal sistema di relazioni personali e istituzionali sviluppato”.
D’altra parte, la collaborazione richiesta per la formulazione, l’aggiornamento e la traduzione operativa del POF rende necessario il coinvolgimento esplicito di ogni insegnante in un’azione anche etica, gli chiede cioè un contributo non solo tecnicodisciplinare, ma capace di educare a ‘valori’, senza indottrinamenti (che è doveroso evitare e possibile smascherare). Il Ricoeur21 chiarisce al riguardo: “Quando insegno una dottrina senza incorrere nell’autoinganno, e tengo nella dovuta considerazione tutti i fatti che potrebbero smentirla e tutti gli argomenti che potrebbero contestarla, e lascio liberi gli allievi, quali che siano i sistemi pedagogici, di giudicarla ed anche di rifiutarla, allora io non indottrino: insegno.”
E a proposito del pluralismo (invocato spesso da chi lo nega di fatto) osserva:
“Se per ‘pluralismo’ intendiamo quella filosofia che ammette la contemporanea possibilità di più verità contraddittorie e ciò malgrado accettabili, il pluralismo equivale a uno
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Brevemente descritte in Rivista lasalliana 2007/4, pp. 466-467. M. Pellerey, L’agire educativo,LAS, Roma 1998. 21 Citato da E. Damiano, L’insegnante etico. Saggio sull’insegnamento come professione morale, Cittadella, Assisi 2007, pp. 179-180. 20
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spregevole nichilismo. Ma può essere un pluralismo applicato a livello di metodo: che non sia cioè l’ammissione di più verità, ma di una verità che appartenga a più persone e che si renda palese attraverso il superamento delle contraddizioni. La verità non nasce infatti né dalla convinzione di un individuo né dalla credenza collettiva, ma solo dal dialogo.”
3.1 - Le due dimensioni Il rapporto etico che un insegnante dovrebbe instaurare in modo proattivo a scuola riguarda due aspetti : con il sapere insegnato (didattica disciplinare e coerenza metodologica interdisciplinare); e con le persone coinvolte: colleghi, alunni, famiglie. Entrambi sono stati brevemente illustrati in precedenti puntate22. Ne riprendiamo gli aspetti che si riferiscono alla ‘concordia educativa’, premessa necessaria per rendere efficace il lavoro di chi opera nella scuola: la collegialità nelle scelte metodologiche (progettazione) la collegialità nell’azione didattica (multi/inter-disciplinarità). Pare opportuno premettere qualche osservazione sulle ‘turbolenze etiche’ che rendono problematici o difficili i rapporti tra colleghi. Non di rado si tratta di dover scegliere fra quello che si ritiene giusto per gli alunni e quanto si deve accettare per solidarietà con i colleghi. Elio Damiano, riassumendo le ricerche di alcuni studiosi23, delinea le prime tre: - la moralità sospesa corrisponde al comportamento di chi proclama e pratica a livello individuale certi principi che, per un malinteso senso di lealtà ‘corporativa’, sembrano non valere più - anche in modo palesemente incoerente - quando sono in gioco comportamenti di colleghi e/o dell’intera categoria; - la tirannia collegiale riguarda le forme di sudditanza psicologica, la più frequente delle quali è quella di chi si guarda bene dall’intervenire pur con le dovute cautele e nella sede adatta - consiglio di classe, collegio docenti - per affrontare e arginare i danni provocati all’intera collettività da colleghi che offendono alunni e famiglie con comportamenti irriguardosi, linguaggio sarcastico, giudizi inappellabili o li danneggiano con una’attività didattica colpevolmente carente; - il paradosso collegiale, alla base del quale ci sono competizione e invidia, porta a emarginare o sottoporre a processi informali i colleghi più attivi e propositivi (accusati di guadagnarsi in modo surrettizio stima e affetto degli allievi). Ciò è doppiamente negativo se inteso a conservare nella scuola un clima di miope autoritarismo, di vieto tradizionalismo didattico, con chiusura ad ogni innovazione; - il disimpegno programmatico, forma mutante del precedente, si manifesta nella presenza solo fisica o nella frequenti assenze ‘giustificate’, nella critica abitualmente negativa delle iniziative per le quali si è cronicamente indisponibili, nel richiamo alla ‘serietà’ della scuola che dovrebbe innanzitutto (o solo) badare a trasmettere sapere e non pretendere anche di educare; - la sindrome disciplinarista è rappresentata dai più intransigenti paladini delle singole didattiche disciplinari, che ritengono contrario al rigore e agli interessi di una didattica davvero scientifica l’ibrido giustapporsi di metodologie - scientifica / letteraria / artistica/tecnica - differenti tra loro per scopi e contenuti; inevitabile quindi da parte loro il disinteresse, o l’attiva opposizione, a progetti che implichino una sostanziale concordia metodologica.
22 I contenuti dell’insegnamento, Rivista lasalliana, 2008/3, e L’insegnante in relazione con allievi, colleghi, genitori, ivi, 2008/2, pp. 209-224.
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3.2 Per una cooperazione didattico-educativa La concordia educativa si fonda innanzitutto su intese inequivoche. Ogni team di docenti è chiamato a formularle e a tradurle in pratica in sintonia con la situazione in cui opera. Non mancano suggerimenti, frutto di un lavoro di dissodamento condotto da esperti del settore. L’opzione di fondo sta nella strategia scelta: a) può essere quella di far lezione nel modo tradizionale, e allora si tratta, concordemente: " di operare una scelta di testi che rispondano ai criteri di chiarezza, esposizione graduale, sintesi funzionali, ricchezza di esercitazioni e di affiancarvi altre fonti di informazione multimediale; " di svolgere abitualmente la lezione in forma dialogata, dando valenza anche educativa ai lavori di gruppo; " di interrogare e proporre esercitazioni scritte anche per incoraggiare l’attitudine e l’abitudine alla problematizzazione, non riducendo tutto alla sola restituzione delle nozioni trasmesse; " di attuare progetti di ricerca multidisciplinare, anche allo scopo di favorire la conoscenza e l’affiatamento tra docenti e docenti, allievi e docenti; b) può essere invece la strategia che abbiamo indicato sotto il nome di forme innovative, la quale presuppone in chi la pone in essere l’istintiva inclinazione alla ricerca di forme non solo nuove, ma collaudate e condivise. Franco Frabboni24 ne raccoglie un succoso grappolo.
1. Dal Piano dell’offerta formativa al curricolo – a) Il POF esige di coniugare, con
l’effettiva, sostanziale cooperazione tra gli organi collegiali, due aspetti caratterizzanti - l’educativo e il didattico - partendo dai Programmi ministeriali che vanno adeguati alle capacità e agli interessi dell’utenza. b)La programmazione educativa implica la formulazione e l’attuazione di un originale modello pedagogico che richiede agli insegnanti un alto grado di ‘ingegneria professionale’, vale a dire la capacità di progettare e guidare sia i percorsi disciplinari e interdisciplinari sia le dinamiche relazionali socioaffettive ed emotive che emergono nell’ambiente scolastico. c) La programmazione didattica prevede tappe che, a partire da quella disciplinare - articolata in unità - si apre poi all’acquisizione di competenze attraverso il superamento degli automatismi delle singole materie; pratica procedure individualizzate; dà valore alle attività interclasse; sviluppa fuori dalla scuola le potenzialità cognitive offerte dall’ambiente sociale (le aule didattiche decentrate) e dall’ambiente naturale (i parchi, le fattorie, gli ecosistemi, le fattorie didattiche,...). d) Il curricolo, ha il compito didattico di attribuire autonomia formativa e dignità scientifica al comparto del sistema scolastico (primario, secondario di primo o secondo grado) in cui opera. Fondato su basi scientifiche, è quindi alieno da derive naturalistiche e spontaneistiche. Per essere efficace deve saper stabilire con gradualità i rapporti intra/multi/interdisciplinari fra le materie sia nel realizzare una personalizzazione dell’insegnamento che rispetti ritmi e capacità personali e del gruppo classe, sia infine nel creare situazioni di effettiva interazione sociale e culturale fra gli allievi.
2. Dalla classe all’interclasse - La classe è giusto che permanga la pista di decollo delle competenze di base per ragioni d’ordine pedagogico (è la sede naturale per assicurare a tutte capacità strumentali di base) e d’ordine didattico (perché spazio di attività
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La scuola che verrà, Erickson, Trento 2007; 6° capitolo, I sette ponti della didattica.
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ben conosciute dalla maggior parte dei docenti, anche se ancor poco propensi all’adozione di metodologie innovative come i moduli didattici o la non graded school). Può - e dovrebbe - comunque aprirsi a dinamiche interpersonali, chiedendo agli insegnanti interventi a misure d’allievo alternate a tecniche socializzanti (gruppi di lavoro). L’interclasse è intesa come il regno dei laboratori: ateliers, biblioteche, auditorium, palestre, aule multimediali,...in cui vengono proposti saperi disciplinari, generativo-creativi, euristici. Fondamentale l’apprendimento in cooperazione.
3. Dalla collegialità alla cooperazione - La collegialità ben applicata dovrebbe già as-
sicurare la conoscenza delle procedure conoscitive degli allievi, attuare le scelte educativo-didattiche stabilite nel POF d’istituto; operare con criteri chiari le verifiche degli apprendimenti e le forme di autoverifica; aprirsi progressivamente al passaggio dall’aula-classe ai laboratori, dal docente tuttologo al docente specialista, dal curricolo nazionale a quello locale, dai codici monoculturali a quelli multiculturali, dal manuale e dalla lezione alla biblioteca re alla ricerca. La cooperazione è volta " a creare tra colleghi un clima di relazioni in grado di prefigurare e attuare scale valoriali25; " a stabilire di comune accordo le modalità per coniugare efficacemente l’insegnamento con l’apprendimento, le esercitazioni con le verifiche " a favorire un clima educativo ‘caldo’, in cui lo stile educativo ‘democratico’ abbia cittadinanza rispetto a quello autoritario o permissivo.26
4. Dalla disciplinarità all’interdisciplinarità - La disciplinarità intesa correttamente impone di operare la distillazione cognitiva, selezionando i saperi essenziali27 e abilitando gli allievi a conoscere lo statuto epistemologico delle singole discipline. Ciò implica l’incoraggiamento alla metacognizione, vale a dire alla conoscenza delle caratteristiche del proprio apprendere e a quelle della materia studiata. per pervenire al triplice traguardo del comunicare, del comprendere, del produrre conoscenze con competenza. L’interdisciplinarità è l’abitudine a considerare in senso ipertestuale l’argomento affrontato, per arricchire il singolo nucleo cognitivo (unità didattica) con apporti di conoscenze e di linguaggi mutuati da materie affini. Ha come ambienti di apprendimento i laboratori , espressivo-creativi (teatrale, musicale, pittorico, motorio,...), tecnologico-scientifici (informatici, mass-mediatici, delle scienze naturali, fisiche e chimiche,...), linguistico-narrativi (di lettura, di scrittura autobiografica e creativa, di lingue straniere,...), antropologico-ambientali (beni culturali, ateliers interculturali,...). 5. Dalla ricerca alla creatività - La ricerca è ‘fredda’ se limitata a dissodare il testo alla
ricerca delle nozioni da restituire al momento dell’interrogazione. Ha come luogo di svolgimento la classe, come strumenti il libro di testo e la lezione. E’ di scarsa utilità culturale, specialmente per chi non è mosso da interessi specifici. È ’calda’ quando è indirizzata verso conoscenze nuove, originali, saldamente ancorate a interessi. Ha
25 Valori irrinunciabili (pace, libertà, uguaglianza, giustizia) e funzionali alla convivenza democratica (tolleranza e reciproca accettazione, partecipazione, coraggio civico, solidarietà, dialo-
go, …). 26 Il senso e la portata dei termini sono chiariti in Rivista lasalliana 2008/2, pp. 215-216 27 È la metodologia tipica della Didattica breve, di cui ci si è occupati in Rivista lasalliana 2007/4 pp. 475-476 e 2008/3, pp. 363-365.
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come naturale ambiente di svolgimento i laboratori in cui i gruppi di ricerca sono guidati da insegnanti tutor/istruttori. Obiettivo primario non la nozione (il ‘cosa’ e il ‘quanto’), ma il senso epistemologico (il’come’ e il ‘perché’). La creatività a scuola parte dalla legittimazione e dal potenziamento degli ambienti capaci di stimolarla sia all’interno (atelier, laboratori) sia all’esterno (città, musei, ambienti di lavoro e naturali,...), perfezionando nel contempo i loro specifici codici di comunicazione (gesti, suoni, immagini).
6. Dall’ambiente all’aula didattica decentrata - Si tratta di passare dalle consuete pra-
tiche dell’ecologia scolastica tradizionale (aula, lezione frontale, libro di testo, interrogazione/verifica scritta) allo sfruttamento delle opportunità offerte dagli aspetti della realtà esterna all’aula (sommariamente richiamate ai punti precedenti). Lo scopo è quello di ridare vigore anche all’attività svolta in classe, stabilendo una reciprocità vitale (perché ricca di un’ attualità, che sollecita curiosità e sorregge interessi) tra la cultura trattata a scuola e quella che circola nella società ‘esterna’. Diviene più facile l’interdisciplinarità sostanziale, vale a dire la richiesta e la scoperta di significati unificanti, che risponde all’esigenza educativa prioritaria di superare la tradizionale separazione fra le discipline, che spesso non comunicano tra loro, anzi si ignorano. Si contribuisce così alla formazione mentale dell’allievo che, da una fase iniziale di percezione globale, passa mediante i processi logici fondamentali dell’analisi e della sintesi a nuove situazioni di conoscenza.
7. Dalla valutazione formativa alla valutazione sommativa - Premessa di metodo è quella di passare da una valutazione monografica (del solo profitto) a quella diacronica, che tiene realmente presente la triplice valenza di ogni persona: cognitiva, affettivo-emotiva, relazionale. All’osservazione del profitto deve quindi associarsi quella della condotta, con la costante preoccupazione educativa di conoscerne motivazioni e scelte per incoraggiare, stimolare o sorreggere al momento giusto. Sono da rispettare i tre tempi/fase: valutazione iniziale (diagnostica), in itinere (formativa), finale (sommativa), utilizzando gli strumenti adatti: portfolio, diario di classe, tempestivi interventi di ricupero. Si tratta di un lavoro che esige un’effettiva cooperazione collegiale sia nell’impostazione dei criteri e delle forme di verifica sia nella valutazione delle tre fasi, per la scoperta e al potenziamento delle abilità e delle competenze individuali. Le due procedure docimologiche oggi in uso per accertare le conoscenze e le competenze - prove ‘aperte’ e prove ‘chiuse’- paiono correttamente utilizzate se disposte secondo una strategia valutativa: - prove chiuse per accertare le conoscenze elementari (riproduzione dell’istruzione ricevuta) e intermedie (comprensione e applicazione dei saperi di base); - prove aperte per accertare le conoscenze superiori convergenti (la ricostruzione e la produzione di saperi) e divergenti (le capacità di intuire, inventare, creare).
In sintesi Sostanzialmente tre gli indirizzi di metodo su cui si fonda l’innovazione: " una convinta, coerente cooperazione educativa e didattica, " la personalizzazione dell’insegnamento e della valutazione,
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" una scuola ‘ecologica’, cioè aperta oltre che al sapere formale (la tradizione culturale) a quello non formale e informale (l’ambiente sociale e quello naturale). L’etica professionale del docente, a prescindere dalle peculiarità delle singole discipline, ha caratteri comuni. Dovrebbero rientrare nel codice deontologico posto a base dell’azione educativa degli insegnanti impegnati in un’effettiva, sostanziale collaborazione nella singola istituzione scolastica. Non è ancora stato definito (e chi sa se mai lo sarà), ma non mancano suggestioni che vale la pena di prendere in considerazione; ad es.: " insegnare secondo verità con metodo critico e mai dogmatico per fare in modo che la verità emerga nella dialettica dei punti di vista e come approssimazione alla verità; " formare nella e alla libertà, intendendo ciò come il dare strumenti che permettano all’allievo di imparare a pensare con la propria intelligenza e sensibilità, analizzando i dati ricevuti (notizie, interpretazioni delle stesse, pareri, ecc.) attraverso le conoscenze possedute, senza lasciarsi andare ad una superficiale acquiescenza al percepito; " comprendere l’individualità del discente, nella massima misura possibile; " valorizzare il dialogo, intendendolo come valore da perseguire costantemente; " farsi mediatore razionale rispetto a ideologie, tradizioni, culture, ecc., in modo da superare i pregiudizi e le chiusure emotive; " mettere in evidenza, sempre, la cultura come valore che arricchisce l’umanità. (cf. Giorgio Vescovi, Etica e deontologia per la scuola d’oggi. www.hrcak.srce.he/index.php?show=clanak_dowbload )
PROFESSIONE DOCENTE
RivLas 76 (2009) 1, 87-93
Es la hora de “aprender a aprender” Lorenzo Tébar Belmonte, fsc
“Los profesores no saben ya a qué atenerse con tanta normativa urgente sobre los respectivos planes de estudio y con tantos meandros terminológicos, que incluso llegan a establecer distingos entre competencias y habilidades, o entre asignaturas y materias…”. José Luis García Garrido
Proceso de Bolonia, a trancas y barrancas, Dossier ABC: 27.05.08
L
as leyes educativas, los pactos europeos, las denuncias de PISA, la armonización y homologación de estudios en el proceso de Bolonia, el alarmante fracaso escolar, las exigencias de la sociedad del conocimiento, la competitividad de las empresas formativas, el abandono de su profesión de muchos docentes, la formación en competencias para una nueva sociedad…, es la letanía de argumentos que quema a los docentes y está empujando con urgencia al cambio pedagógico en las aulas.
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La hora del cambio en la educación “Los profesores no saben a qué atenerse…” ante una realidad tan compleja y tan
poco clarificadora en el ámbito más específico de la educación, cual es saber cómo cada profesor debe ayudar con su asignatura a construir la mente de los alumnos. Las respuestas no son claras y la administración dispone órdenes y decretos, pero no aporta soluciones pedagógicas concretas. Los docentes se ven saturados de teorías sobre las competencias clave, pero no llegan a ver la revolución que reclama este cambio educativo. No estamos ni fascinados ni convencidos de la necesidad y validez de este nuevo enfoque hacia las competencias. Lo esencial no está en el qué, pues ya venimos apuntando hacia contenidos, desglosados en conocimientos, procedimientos y actitudes, sino en el cómo lograr esos resultados apetecidos. El cambio didáctico es la síntesis de todas las teorías, procesos y estrategias que el docente debe dominar para conseguir sus fines. No es, pues, un simple artificio de técnicas, sino un dominio de conceptos de psicología del aprendizaje, de procesos de desarrollo y construcción de habilidades de pensamiento. Se trata, nada más y nada menos, que de construir la mente del alumno, enseñarles cómo aprender a aprender, para que alcancen la autonomía y el control de sus propios aprendizajes, prepararlos para que puedan seguir aprendiendo toda su vida. Así pues, de entre todas las competencias clave resaltamos la importancia de “aprender a pensar”, como la metacompetencia entre todas, pues, por su importancia cognitiva y por su trascendencia y decisiva influencia en la forja de las demás, nos importa darle una absoluta prioridad. En las primeras encuestas de sondeo, su elección descuella entre todas las demás, tanto en el interés de los universitarios y académicos como de los empleadores (Tuning). Compartimos la absoluta importancia que le conceden los autores de programas para enseñar a pensar, albergando el anhelo de que constituyera una disciplina básica en la propedéutica formativa de todos los estudiantes, como mantienen Luis A. Machado, M. Lipman, De Bono, R. Feuerstein, entre otros grandes maestros. Ha llegado la hora del cambio en todos los sentidos y desde todos los ámbitos. La educación debe ser el motor transformador de la sociedad, pero no puede emprender su dinamismo si no cambian algunas estructuras administrativas que garanticen formación, que aporten recursos y creen un clima favorable e incentivador de este esfuerzo especial que se pide a los docentes, a los centros educativos y a las familias. No podemos remar en un mar revuelto y contra corriente, en una sociedad que mira hacia otro lado. La educación debe entenderse como una cuestión social que nos compromete a todos los ciudadanos. Si cambia la sociedad, debe también cambiar la escuela. Pero sin caer en la falacia de dejarse llevar por el impulso del cambio que destruye, que avanza desbocado a la alienación o a la anomia y al sinsentido. El cambio lo estamos entendiendo a mejor, a mayor calidad, a superación, a logros empíricos y humanos, a una preparación más gratificante para cada uno de los protagonistas del cambio. El impulso de las nuevas tecnologías y los hallazgos científicos, las urgencias impuestas por los cambios socioculturales, imprevisibles e irreversibles, no pueden dejarnos indiferentes. Es imprescindible asumir el liderazgo ante el cambio. Debemos hacernos cargo de nuestra responsabilidad, elevar nuestra atención, formular las cuestio-
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nes pertinentes, mostrarnos exigentes, creativos y colaboradores. Necesitamos ser protagonistas comprometidos con el cambio que no podemos esquivar, porque lo respiramos y lo alimentamos con nuestra propia inercia. Es necesario orientarlo para el mejor fin, para evitar que aparezcan brechas y exclusiones sociales. Necesitamos brújulas, criterios, sentido y visión de futuro. Necesitamos formar a los educandos para que inicien con buen pie la tarea de seguir aprendiendo durante toda la vida.
El cambio pedagógico esencial La pregunta clave que cabe formularse en este contexto de cambio pedagógico es:
“¿Cómo ayuda cada profesor a construir la mente de los alumnos con su disciplina escolar?”. Porque el protagonista del aprendizaje y de la formación debe ser cada educando. Esta cuestión alude al método, a los pasos que llegan a llegar a la meta, a conseguir los resultados esperados en el aprendizaje integral. Pero no se puede simplificar una metodología a una enumeración de etapas o de secuencias, sino a la asimilación de las teorías psicopedagógicas que las inspiran. Llegamos así a entender que la carencia principal está en los fundamentos que dan consistencia al salto de un paradigma conductista, memorístico y repetitivo, impuesto al educando, a otro, sociocognitivista, más conscientemente asimilado por la intervención mediada y el acompañamiento de los procesos y más adaptado para poderse aplicar al aprendizaje de todas las disciplinas escolares. Necesitamos formar esquemas y estructuras mentales, ayudar a jerarquizar la mente, no tanto a llenar la cabeza de conceptos inconexos. Es fundamental entender que todo aprendizaje es una transformación del estímulo o la imagen que percibimos. Somos seres eminentemente simbólicos, que almacenamos la información en nuestra memoria con una nueva naturaleza mnésica, para volver después de decodificar nuestra riqueza de imágenes mentales. Los pasos que propongamos tienen que tener coherencia, de modo que cada profesor sepa por qué los asume, por qué razones son las más convenientes para lograr este cambio estructural. Por eso no debemos perder le vista que la educación es un camino de interioridad, como acertadamente los define J. Delors en La educación encierra un tesoro.
Los retos que estamos dejando entrever empiezan por entender la tarea de esta construcción, como una tarea de toda la comunidad educativa, de todo el equipo. Los aprendizajes y las competencias, de modo especial, deben ser el resultado esperado. Pero el secreto está en los procesos que nos conducen a esta meta. Todas las disciplinas escolares deben ponerse a disposición para formar en competencias. Los contenidos son imprescindibles, pero no lo esencial, son el “medio” imprescindible donde nos movemos. No aprendemos en el vacío, pues los contenidos dan forma al conocimiento. Cada materia aporta unos conocimientos, unas modalidades y unas exigencias cognitivas diferentes. Lo fundamental está en las habilidades cognitivas que en unas y otras se desarrollan. Éste es un elemento esencial en esta revolución del aprendizaje. Los docentes debemos conocer cómo aprenden nuestros alumnos, pero además necesitamos conocer sus dificultades de aprendizaje, analizando las causas que las provocan. La primera actitud relacional se condensa en nuestra capacidad de compren-
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sión, porque descubrimos la causa del problema de aprendizaje, porque analizamos los síntomas y llegamos a un diagnóstico acertado. Después viene el proceso de adaptación, que selecciona y organiza el docente, adecuado al estilo cognitivo, a la capacidad y madurez, a los conocimientos asimilados previamente por cada alumno, para implicarle, para hacerle protagonista de su propio trabajos, para que experimente su capacidad para el logro de las metas que le proponemos y que él asume. Aquí es donde se despierta la magia de la motivación intrínseca, que energiza e implica al educando en su empeño por avanzar. Para, acto seguido, ir tanteando con estrategias adecuadas, con técnicas, las modalidades diversas y desarrollo de capacidades adecuadas a su nivel. En esta etapa del proceso de aprendizaje entra el arte de dosificación y de interacción del profesor, como mediador experto entre los contenidos u objetivos y el educando. Aquí podemos echar mano de los criterios de la mediación que orientan nuestras respuestas a las necesidades formativas que detectamos en los educandos. Ciencia y arte deben darse la mano para la conquista de los mejores resultados. El alumno debe llegar a dominar sus técnicas, crear automatismos, ser eficiente, gastar la menor cantidad de energía y evitar al máximo los errores, la pérdida de tiempo y la fatiga. Estamos formando al estudiante experto. El docente sigue con cuidado, cercano y distante a la vez, provocando autonomía, al mismo tiempo que dejando que el alumno resuelva las cuestiones, los conflictos inesperados, sepa formular sus preguntas, crezca en autonomía. En la dosis pertinente debe saber introducir conflictos cognitivos, tan sabiamente inducidos por Piaget, en formas muy diversas, para inducir al desequilibrio que lleve a la búsqueda del saber y del conocimiento. Pero estos procesos tienen una base de toma de conciencia, de metacognición, para hacer al educando consciente de cada uno de sus pasos, de sus aciertos y de sus errores, del almacenamiento la recuperación del conocimiento.
Elevar el potencial de aprendizaje, el pleno desarrollo cognitivo del educando La tarea esencial del cambio pedagógico se centra en dominio cognitivo. Nuestra mente es el centro de operaciones, que no puede desprenderse del imprescindible clima de los sentimientos, afectos, motivaciones que nos invaden. La educación se juega en la interacción mediada entre profesor-alumno, poniendo la mente y el corazón en armonía. El docente debe dominar y controlar los procesos que van cabalgando desde lo sabido a lo ignorado, desde lo repetitivo a lo creado, desde lo simple a lo complejo, de lo concreto a lo abstracto. Formamos personas para que crezcan en su nivel de abstracción e interioridad cada día más elevada. Si aprender es un proceso de transformación de códigos, el primer elemento de complejidad se basa en distinguir los niveles de complejidad que para cada uno de nosotros representa una modalidad verbal, numérica, pictórica o gráfica. Este cambio de ropajes exige una creatividad y flexibilidad natural en el docente. El alumno necesita partir de contextos sabidos - conocimientos previos - síntesis de toda la psicología del aprendizaje, como hiperbólicamente acuñó Ausubel, para avanzar a lo nuevo, a lo extraño y falto de familiaridad; de lo simple y dominado, por sencillo, a lo más complejo en cantidad y
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calidad. Aprender es transformar, es dominar códigos diversos, es saber expresar los conceptos de diversas formas y combinarlos de mil formas. El buen profesor mediador es creativo, innovador, buscador, flexible, abierto al cambio y a las hipótesis.
El dominio de la complejidad nos lleva o nos separa del éxito. Saber dosificar y calcular esta medida adecuada es muestra de pericia didáctica, pues el ritmo y el dominio de una cantidad concreta de dificultad, determina la motivación y la implicación de cada alumno. La frustración y el desencanto están agazapados en estos procesos, especialmente cuando el docente no los controla con soltura. Es fundamental tenerlos dominados para dar alas al aprendizaje y a la gratificación del éxito a cada educando. Pero no debemos olvidar que en este aprendizaje juega un papel esencial la observación y la experiencia del docente. Educar es acompañar, ante todo. Pero donde medimos el potencial del motor de nuestros aprendizajes es en el desarrollo de las habilidades cognitivas, en la ejecución de las operaciones mentales interiorizadas que dinamizan todo aprendizaje. La primera trampa de las actividades docentes está en la operación mental que exige la ejecución de un problema. ¿Qué operación mental necesita realizar un alumno, realmente, cuando le formulamos una pregunta o un problema? La pregunta encierra siempre un nivel de abstracción relativo, que debemos tener en cuenta, para saber si el alumno será capaz de resolverla. Partimos del necesario dominio de una amplia y elevada taxonomía de operaciones mentales, por parte del docente. En este proceso de acompañamiento mediado es con el que aseguramos la construcción de la mente del educando. Cuando las evaluaciones de PISA proponen una serie de problemas, condiciona la dificultad de la respuesta, la eficacia, el éxito o fracaso, combinando en la elevación (cinco o seis) de los niveles de complejidad y abstracción a la vez. Complejidad en la modalidad diversa, en los códigos, en los lenguajes poco familiares, descontextualizados. Abstracción en las preguntas que exigen una operación mental más elevada: Compara, clasifica, sintetiza, deduce, razona, critica, aplica… Éstas son las trampas contenidas en las nuevas formulaciones de las evaluaciones internacionales. Éstos son los cambios que exige la revolución pedagógica de la enseñanza por competencias. Debemos preparar para este salto, sintetizado en el insight, en la plena comprensión de por qué aprendemos, para saber aplicar los aprendizaje a otros contextos y situaciones, a la vida. Nos hallamos en los mementos más críticos de la didáctica: Aquellas situaciones que exige la propia elaboración y la generalización de principios y conclusiones de cuanto hemos aprendido. Trascendencia y descontextualización: En este momento el tacto y la pericia del profesor mediador se ponen, especialmente a prueba, pues el modelado y los ejemplos del docente permiten al educando ampliar su campo de comprensión y de aplicación de lo que ha aprendido, aunque no haya vivido esas futuras experiencias, o en otros contextos nunca vistos ni soñados. Los aprendizajes tienen su prueba del diamante. La cristalización o asimilación de los aprendizajes se manifiesta en el transfer o aplicación en otros contextos y situaciones. Ésta es la prueba del auténtico aprendizaje. Por eso decimos que aprendemos para la vida. Aparecen aquí muchos elementos multidisciplinares y culturales, que permiten constatar la utilidad y versatilidad de los saberes en otras disciplinas y cir-
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cunstancias. Los contenidos de las diversas disciplinas, dada su naturaleza empírica o abstracta - geografía y filosofía, por ejemplo -, obligan a una mayor o menor actividad o nivel de abstracción. En una deberemos ejercitar más la memoria visual, en otra hay más procesos de elaboración mental, elaboración de hipótesis, pensamiento inductivo o deductivo, razonamiento transitivo o analógico. Esta elevación de niveles de interiorización cada vez superiores, exigen un proceso de seguimiento formador por parte del profesor mediador. Subrayamos el protagonismo del docente mediador en este aspecto porque es quien debe conocer la altura de los peldaños que quiere hacer saltar, el esfuerzo y la atención que exige al educando, condensado en cada una de las actividades programadas para esta finalidad constructora de la mente. Así comprendemos el concepto de ZDP -zona de desarrollo potencial vigotskiano-, cuando alude al salto que el alumno es capaz de dar- desde su propia acción subjetiva a aquella que puede realizar con la ayuda de un mediador. Este es el fruto de toda interacción mediada, que tanto se asemeja al aprendizaje significativo de Ausubel, en esta coherencia de psicológica y de contenidos, en el logro de la motivación e implicación y en el salto del transfer o aplicación de los aprendizajes a otros contextos. Deberíamos subrayar esta definitiva y última etapa de la actividad didáctica, por ser una de las más escasas en la práctica docente en el aula, según constatamos en nuestra investigación.
Evaluar aprendizajes y competencias Necesitamos asumir la cultura de la evaluación, pues nosotros mismos necesitamos saber cómo y por qué avanzamos en el logro de los objetivos propuestos. Pero no podemos simplificar los procesos que nos llevan a estar dispuestos a responder de nuestros propios aprendizajes. Éstos deben producirse según los elementos anteriormente señalados. En realidad, nos importan más los procesos que sabemos controlar, que los resultados que, posiblemente, no sabemos a qué condiciones atribuirlos. Los aprendizajes vienen ahora expresados en competencias, un saber hacer integral, resultado de todos los conocimientos, las habilidades, las capacidades, las destrezas y las actitudes adquiridos. Las modalidades y formas de presentar una prueba, ejercicio, problemas descontextualizado, nos permite imprimir mayor o menor dificultad, según que el tema, el contexto y la descripción con mayor o mejor complejidad. Aquí se proyecta la capacidad de cuestionar y la pericia del docente, dosificando los problemas a base de preguntas.. Para comprender la complejidad de la evaluación saber si es válida para orientarnos en la toma de decisiones, necesitamos tener en cuenta una serie de elementos: a)
Criterios de evaluación: Deben estar referidos éstos a los procesos seguidos
por cada alumno, a su ritmo de maduración y capacidad de asimilación de los aprendizajes, con relación el grupo y nivel educativo. Los criterios pueden ser cualitativos y cuantitativos, relativos al progreso o los microcambios tanto cognitivos como actitudinales o comportamentales.
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b) c) d)
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Logro de objetivos del curso o de la materia disciplinar. Desde los objetivos generales a los más específicos. Cada uno de ellos debiera poderse operativizar en actividades e indicadores evaluables. Formular indicadores: En estas manifestaciones concretas de competencia deben aparecer los contenidos, las habilidades ejercitadas y el contexto en el que se expresa el aprendizaje. La concreción de habilidades cognitivas: Expresadas en operaciones mentales interiorizadas y en habilidades procedimentales, dentro de una secuencia que nos permita verificar la constatación del potencial cognitivo del alumno. Los distintos niveles implícitos de las operaciones exigidas nos darán una jerarquía de valoración de los resultados. Estrategias o formas que expresen el dominio y la eficiencia en la resolución de los problemas. Para ello debemos saber conjugar las diversas formas o ropajes con los que podemos transformar y representar una idéntica información, la expresión de una elaboración y resultado logrado: Niveles de complejidad que el alumno es capaz de dominar. Elementos que nos puedan mostrar los descriptores de la conducta: Método, reflexión, actitudes, estimación y compromiso en su vida, con relación a los temas propuestos.
Somos conscientes de que hemos sembrado intencionadamente, a lo largo de estas reflexiones, un léxico con una carga semántica de orientación pedagógica y didáctica muy concreta, acorde con la propuesta mediadora que venimos haciendo, convencidos de que esta síntesis encierra los elementos esenciales para orientar el cambio pedagógico necesario que la educación actual precisa, si quiere afrontar el futuro educativo con seguridad. Hemos resaltado en negrita-cursiva un vocabulario esencial, que debe constituir el primer objetivo de formación o actualización entre los miembros de la comunidad docente. Todo proyecto pedagógico de futuro debe partir de la clarificación y el consenso de unos principios y conceptos psicopedagógicos que orienten nuestra praxis e innovación docente. Referencias bibliográficas De Bono, E. (1987), Aprender a pensar, Barcelona, Plaza y Janés. Delors, J. (1996), La educación encierra un tesoro, Madrid, Editorial Santillana-MEC. Dryde, G. y J. Voss: (2002), La revolución del aprendizaje, México, Tomo. Feuerstein, R. (1980), Instrumental Enrichment, Gienview, Seott. Gardner, H. (2001), La inteligencia reformulada, Barcelona, Paidós. Lipman, M. (1987), Filosofía para niños, Madrid, De la Torre. Machado, L.A. (1990), La revolución de la inteligencia, Barcelona, Seix Barral. Morin, E. (1999), Siete saberes para la sociedad del siglo XXI, Barcelona, Paidós. Nickerson, R.S., Perkins, D.N. y Smith, E. (1990), Enseñar a pensar, Barcelona, Paidós-MEC. Rodríguez Neira, T. (1999), La cultura contra la escuela, Barcelona, Ariel. Tébar, L.(2003), El perfil del profesor mediador. Pedagogía de la mediación, Santillana.
NICOLAS CAPELLE (a cura)
Voglio venire nella tua scuola ! La pedagogia lasalliana per il XXI secolo Questo libro presenta dei racconti sorprendenti di esperienze educative riuscite a servizio dei giovani, sui cinque continenti, in contesti culturali molto differenti. Esperienze che sottolineano sfide dimenticate, indicano frontiere innovative, tracciano cammini di speranza. Gli educatori che raccontano sono tutti impegnati nel vivo dell’educazione. Vivono talora situazioni limite: immersi nel cuore delle popolazioni aborigene dell’Oceania, nel mondo dei Gitani in Francia, delle bidonvilles di Nairobi, della violenza urbana in Colombia, dell’incontro interreligioso in Asia, della promozione della culture minoritarie maya o papua, dei giovani migranti ispanici di Chicago o di Filadelfia, dell’impegno universitario per formare ai valori della giustizia sociale… Educatori che vivono oggi situazioni di frontiera, in una dinamica educativa apparentemente fragile e informale, ma sostenuta da un umanesimo e da un senso civico che si fondano sulla fede cristiana, nello spirito del carisma lasalliano. La prefazione al volume è di Rigoberta Menchú, Nobel per la Pace. La traduzione in italiano è di Mario Presciuttini, fsc. Sono disponibili le versioni in francese e in spagnolo. *** Edizioni Salvator ! Paris-Roma 2007 ! pagine 288, € 13,00 Diffusione in Italia: Segreteria Provinciale, viale del Vignola 56, 00196 Roma – fedoardo@pcn.net
PROFESSIONE DOCENTE
RivLas 76 (2009) 1, 95-106
Copiare, correggere, inventare Errori di scrittura e utopia della precisione Roberto Alessandrini
Istituto superiore universitario di scienze psicopedagogiche e sociali affiliato all’Università Pontificia Salesiana di Roma
L’errore di grafia, azzardano i linguisti, è più grave dell’errore di Ortografia perché mentre il secondo sporca la comunicazione, il primo la rallenta e a volte la impedisce. Numerosi sono gli errori che si possono compiere scrivendo, come documenta una lunga serie di indicazioni e consigli rivolti ai copisti, e alle distrazioni dei grandi narratori si aggiungono talvolta gli eccessi di scrupolo dei tipografi e la fretta che accompagna il lavoro editoriale. Per questo un correttore di bozze può essere l’allegoria di qualcuno che intende correggere il mondo confidando nell’esattezza, nella verificabilità e nell’utopia della precisione.
L
ettere senza grazie, con la a e la o che si confondono, mareggiate di segni ondosi che rendono indistinte le u, le m e le n. Grafie selvagge, con puntini sulle i che diventano fumettistici pallini. Grafie incomprensibili di medici che prescrivono ricette e che esigono lo sforzo esegetico di farmacisti esperti. Ancora: segni minuti, imperscrutabili, che richiedono l’impiego concentrato della vista e parole aperte ad ogni suono. L’errore di grafia, azzardano i linguisti, è più grave
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dell’errore di ortografia1, perché mentre il secondo si limita a sporcare la comunicazione, il primo la rallenta e a volte la impedisce. Intima ad un copista Basilio il Grande: Scrivi giusto e stai dritto sul rigo. La mano non vada verso l’alto e non cada verso il basso. Non costringere la penna a muoversi obliqua come il gambero di Esopo, ma procedi dritto, come davanti al filo a piombo del muratore che dappertutto traccia la linea retta e rimuove ciò che è irregolare. Infatti ciò che è traverso è sconveniente, ciò che è diritto piacevole per chi vede, dal momento che non consente che gli occhi di chi legge guardino in su o in giù come su un’altalena, cosa che capita anche a me quando mi imbatto nei tuoi caratteri2.
In Cuore di Edmondo De Amicis, il padre di Enrico Bottini illustra con commozione al figlio un vecchio dettato con le correzioni della propria madre, che “rinforzava sempre gli elle e i ti” e che avendo imparato ad imitare i suoi caratteri, quando era stanco e aveva sonno, terminava il lavoro per lui”3. Certamente privilegiato, rispetto al laborioso Coretti, che a forza di segar legna scrive le t e le l “che paion serpenti”. La scrittura ha una propria estetica, canonizzata nel X secolo in Persia, dove due secoli dopo si afferma una cosiddetta “scrittura parlante” nella quale il tracciato fondamentale si popola di corpi e teste di uomini e animali4, ciò che in chiave moderna potrebbe essere lo strumento utilizzato nel film Lettere d’amore di Martin Ritt (Usa, 1990), storia di un analfabeta adulto e di una donna che gli insegna a leggere e scrivere con un abbecedario in cui le lettere prendono la forma da oggetti o animali di cui sono l’iniziale5. Anche il piccolo Philip Pirip, detto Pip, protagonista di Grandi speranze di Dickens, fa un’intensa esperienza della forma delle lettere. Al cimitero, davanti alla pietra sepolcrale dei genitori che non ha mai conosciuto e di cui non ha mai visto un ritratto, scruta le lettere e tenta di immaginare le sembianze della madre e del padre a partire dalle poche frasi scolpite e dal modo in cui sono scolpite, cioè dal loro carattere grafico. Le scritte sulla tomba del padre gli suggeriscono l’idea di “un tipo tarchiato, corpulento, con i capelli neri e ricciuti”, mentre i caratteri e lo stile dell’iscrizione “Ed inoltre Georgiana, moglie del suddetto” la conclusione che la madre fosse lentigginosa e malaticcia. A cinque piccole losanghe di pietra disposte in fila accanto alla tomba, e consacrate alla memoria di cinque fratellini, Pip deve la convinzione che fossero nati supini, “con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, e che non le avessero mai tirate fuori nella loro esistenza quaggiù”6.
1
Leila Corsi, Aldo Pecoraro, Elena Virgili, La scrittura tra creatività e grammatica, Sansoni, Milano 2001, p. 11. 2 Cit. in Lucio Coco, a cura di, L’atto del leggere. Il mondo dei libri e l’esperienza della lettura nelle parole dei Padri della chiesa, Qiqajon, Comunità di Bose, 2004, p. 55. 3 Edmondo De Amicis, Cuore, Feltrinelli, Milano, 1993 p. 151. 4 Giorgio Raimondo Cardona, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1981, p. 220. 5 Roberto Farnè, Iconologia didattica, Zanichelli, Bologna 2002, p. 111. 6 Charles Dickens, Grandi speranze, Einaudi, Torino 1998.
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Il copista negligente Il locale non è ben illuminato, la posizione è scomoda, la tavoletta è spesso poggiata sulle ginocchia e il lavoro si protrae per lungo tempo. Per il povero copista le condizioni sono ideali per commettere errori. Che possono essere i più vari, imputabili a particolari caratteristiche delle scritture antiche o medievali, a variazioni di ortografia e pronuncia, ad aggiunte o trasposizioni. Non sappiamo se nelle copisterie vi fosse uno che dettasse e più scrivani, ma di certo la dettatura poteva provocare errori acustici, come confondere b e v, o errori di distrazione per stanchezza e per la noia, specie di fronte a lunghi elenchi di nomi e di numeri. I numeri “si trascrivono con disattenzione, e ancor più distrattamente si correggono”, osserva sant’Agostino nel De civitate Dei. Il catalogo degli errori frequenti è il più vario: termini foneticamente simili con significato diverso, errori di memoria che si insidiano nell’interstizio tra la lettura e la trascrizione di una frase, difficoltà di lettura dovute a strane abbreviazioni, assenza di punteggiatura e di divisione delle parole. Quando nell’originale due righe si chiudono o iniziano nello stesso modo, gli occhi del copista rischiano errori di omissione, tecnicamente detti aplografie. Al lato opposto c’è la dittografia, ripetizione di lettere o gruppi di lettere o parole che ricorrono una sola volta nell’originale. Ci sono poi errori per trasposizione di lettere o di parole, errori per influsso di parole vicine ed errori per confusione di lettere simili. E, ancora, errori dovuti all’ignoranza o alla presunzione del copista, i più difficili da scoprire. Lamenta Girolamo: “Cose che sono state mal edite da pessimi traduttori, o corrette ancor più inopportunamente da presuntuosi inesperti, o aggiunte o mutate da sonnacchiosi copisti”. Ma esistono anche le interpolazioni, cioè modifiche intenzionali di copisti che, in buona fede, tentano di migliorare o chiarire il testo oppure cercano di correggere errori precedenti, talvolta reintroducendo versioni erronee già emendate in precedenza. E ci sono le correzioni dogmatiche. Molti padri della Chiesa rivolsero agli eretici l’accusa di corrompere le Scritture per adattarle alle loro convinzioni. “Si badi a non intercalare alle parole le proprie insulse né per leggerezza possa la mano stessa errare”, ammonisce Alcuino. “Si distingua il significato di periodi e frasi e si mettano i punti al posto giusto, perché il lettore non legga cose false o forse inopinatamente debba tacere in chiesa davanti ai pii fratelli”7. “Sia integra la tua funzione di copista”, scrive Cassiodoro. “Porgi a chi ne fa richiesta ciò che è stato fatto nel passato. Sii uno che trascrive, non uno che riscrive le storie antiche”8. Tendenzialmente – ricorda Luciano Canfora - “il copista non si rassegna a scrivere
7
Cit.in Lucio Coco, a cura di, L’atto del leggere. Il mondo dei libri e l’esperienza della lettura nelle parole dei padri della chiesa, op.cit., 2004, p.41. Cfr. B. Blumenkranz, “Fidélité du scribe. Les citations bibliques”, in Le Moyen Age. Revue d’histoire et de philologie, Tome
LXIX (4^ serie – Tome XVIII). Volume jubilaire 1888-1963, pp. 323-326. 8 Cit. in Lucio Coco, a cura di, L’atto del leggere, op. cit., p. 64.
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qualcosa che gli sembra non dare senso, o non dare quello che a lui, trascinato dalla compenetrazione col testo, appare come il senso più desiderabile in quel punto”9. La distinzione operata dai filologi sulla tipologia degli errori – assiologicamente classificati in meccanici e concettuali – a giudizio di Canfora non regge perché “quasi tutti gli errori sono errori concettuali: anche quelli che vengono sommariamente classificati come sviste o lapsus”. Il vero nodo riguarda la distanza tra autografo e copia: più è breve, minore è il tasso di deformazione perché i manoscritti nascono nella stessa civiltà o realtà dell’autore. Come scrive Tom Stoppard:10 chiunque abbia una segretaria sa che i versi autentici scritti da Catullo erano già travisati dopo esser stati copiati due volte, cioè più o meno all’epoca della prima invasione romana della Britannia: e la più antica copia che ci è pervenuta è stata scritta circa millecinquecento anni dopo quell’invasione. Pensi a tutte quelle segretarie! – ogni svarione provoca un altro svarione, da un papiro all’altro, e dagli ultimi rotoli in disfacimento ai primi libri di fiammante pergamena, con altri mille anni a venire di copiatura manuale, dovendo far fronte alle mutevoli forme di scrittura e di ortografia, e all’assenza di punteggiatura – per non parlare di muffa e di topi, di incendi e inondazioni, e della disapprovazione cristiana al limite della soppressione totale, mentre ciò che Catullo aveva scritto veramente passava da un amanuense all’altro, chi ubriaco, chi assonnato, chi senza scrupoli, e di quelli sobri, svegli e scrupolosi, alcuni ignoranti del latino, altri, ancor peggio, convinti di essere migliori latinisti di Catullo.
Correggere gli errori per correggere il mondo Apisaone, nell’Iliade, muore tre volte. Nel libro XIII dell’Odissea Omero descrive Ulisse biondo e nel XVI bruno. Virgilio parla della stessa notte, ora con la luna, ora senza. Nella stessa novella del Decamerone un personaggio viene prima presentato solo, poi, improvvisamente, con amici. In un’altra, Boccaccio prima spiega che una madre aveva tardato a riconoscere il figlio, rapito dai corsari molti anni prima, perché si erano visti raramente, ma poi nota che il figlio aveva visto la madre molte volte. Neppure in Manzoni mancano casi simili: al sarto dei Promessi sposi vengono assegnati, come figli, una volta “due bambinette e un fanciullo” un’altra volta due bimbi e una bambina11. Alle distrazioni dei grandi narratori si aggiungono talvolta gli errori e gli eccessi di scrupolo dei tipografi e la fretta che accompagna il lavoro editoriale. Non è certo questo il caso di Herman Gombiner, protagonista del racconto “Lo scrittore di lettere” di Isaac Bashevis Singer12, redattore, correttore di bozze e traduttore per la casa editrice ebraica Zion di New York. 9
Luciano Canfora, Il copista come autore, Sellerio, Palermo 2002, p. 20. Tom Stoppard, L’invenzione dell’amore, Sellerio, Palermo 1999, pp. 72-73, cit. in Luciano Canfora, Il copista come autore, op. cit., pp.22-23. 11 Cf. Vittore Branca “Sono proprio distratti i grandi narratori”, Corriere della sera, 17 aprile 1978, p. 3. 12 Isaac Bashevis Singer, La luna e la follia, Tea, Milano 1989. 10
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La fretta non faceva per lui. La sua competenza era il risultato della sua prudenza. I correttori di bozze della Zion lavoravano talmente in fretta che si lasciavano scappare degli errori. I traduttori non si peritavano di controllare sul dizionario il significato delle parole di cui fossero incerti. La maggioranza degli studiosi di ebraico, sia americani sia israeliani, non sapevano un granché di punteggiatura e sottigliezze grammaticali. Invece lui aveva trovato il tempo per studiare tutto ciò. Certo, lavorata molto lentamente, ma il vecchio, Morris Korver, proprietario della Zion, e persino i suoi figli, che erano mezzo gentili, avevano sempre apprezzato il fatto che fosse Herman Gombiner a far guadagnare alla casa la sua reputazione.
Anche le avventure editoriali dell’Ulisse di Joyce (1922) sono piene di refusi e incomprensioni. A partire dal 1918, metà del testo era apparso su The Little Review a New York. La prima edizione, uscita sotto l’ala di Sylvia Beach, americana trasferitasi a Parigi, dove conduceva la celebre libreria Shakespeare and Company, al numero 12 di rue de l’Odéon, uscì piena di refusi, colpa – si dice – delle dattilografe che avevano ricopiato il manoscritto e dei compositori. Un fenomeno che si amplificò nelle edizioni pirata americane con il risultato che ad ogni ristampa Ulisse cambiava nuovamente per mano di anonimi redattori13. La figura dell’umile, necessario correttore di bozze assume talvolta il rilievo mitico di colui che sistema gli errori del mondo. E’ il caso de Il correttore di George Steiner14, ispirato, per ammissione dello stesso autore, alla figura del filologo Sebastiano Timpanaro (1923-2000), che fu a lungo impiegato come revisore di bozze. Ho cercato di dimostrare in questo racconto che un correttore di bozze può essere l’allegoria di qualcuno che voglia correggere il mondo. Correggere un errore tipografico, infatti, non è una piccola cosa: significa credere in un mondo dove possano esistere l’esattezza e la verificabilità. Tutto ciò può rinviare simbolicamente a un’utopia della precisione15.
Scrupolosamente ossessivo verso le minuzie tipografiche, il protagonista del romanzo steineriano ha partecipato alla Resistenza, è stato espulso da Partito comunista italiano con l’accusa di trotzkismo, ma è rimasto fedele al marxismo e all’idea di poter correggere gli errori e mettere ordine nel mondo. In un altro volume, dal titolo Nessuna passione spenta, Steiner precisa ulteriormente il suo pensiero: Colui che lascia passare i refusi senza correggerli non è soltanto un ignorante: bestemmia contro lo spirito e contro il senso. Forse, in una cultura secolare, può essere definito nel modo più ordinato come lo stato di grazia quello in cui l’individuo non trascura la correzione degli errata letterali o di fondo nei testi che 13
Cf. Giuseppe Mercenaro, “Il primo ‘Ulysses’ stupendo calembour”, Tuttolibri, 6 maggio 2006, p. 10. 14 George Steiner, Il correttore, Garzanti, Milano 1991. 15 Nuccio Ordine, “Steiner: il maestro italiano che correggeva il mondo”, Corriere della sera, 27 gennaio 2006.
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legge e trasmette ai posteri. Se Dio, come diceva Aby Warburg, sta nel dettaglio, la fede sta nella correzione dei refusi16.
Come un novello Don Chisciotte, anche il rodariano professor Grammaticus ha l’abitudine di correggere gli errori e, correggendoli, di modificare la realtà. A Venezia si imbarca su un vaporeto che sbanda pericolosamente, ma con la sua inseparabile matita rossa aggiunge la “t” che manca e l’imbarcazione ritrova il suo equilibrio. A Pisa si propone di correggere la pendenza della famosa torre iniettando nelle fondamenta una piccola dose di “q” convinto che gli architetti, deboli in ortografia, avessero costruito una torre che non stava in “equilibrio”. Inventore di una macchina ammazzaerrori, una specie di aspirapolvere con la quale intende girare l’Italia e fare piazza pulita di tutti gli errori di pronuncia e ortografia, il professor Grammaticus riesce a fare anche del bene, come quando salva dal rogo una presunta strega, in realtà una magliaia che aveva esposto il cartello Maliaia fine. Faccio malie di tutte le misure. Con la sua proverbiale matita rossa, Grammaticus aggiunge le “g” al posto giusto e ottiene “Magliaia fine. Faccio maglie di tutte le misure”. Non ha ancora diciotto anni Gianni Rodari quando, nel 1938, si trova su una cattedra di scuola elementare davanti a una trentina di bambini di tre diverse classi, mescolate insieme. Diversi anni dopo il mio passaggio sulle cattedre, quasi sempre traballanti, delle scuole di campagna, quando cominciai, per caso e senza intenzioni serie, a scrivere per bambini, il materiale confusamente e distrattamente accumulato durante l'insegnamento, e ormai convenientemente digerito dalla coscienza e dalla fantasia, funzionò come una piccola, per me preziosissima rendita. Vecchie storie mi tornavano in mente come canovacci su cui il presente poteva tessere la sua tela. Vecchi divertimenti improvvisati, correggendo i quaderni, su qualche pittoresco errore di ortografia o di grammatica, o di proporzioni (ma posso dire che non erano divertimenti cattivi, rideva anche il bambino autore degli errori) rivivevano, riempiendosi di un nuovo contenuto. E così errori, giochi di parole, accenti, virgole e apostrofi furono presto i miei temi preferiti.
Nel libro Filastrocche in cielo e in terra gli errori occupano già un intero capitoletto. Un altro libro, Il pianeta degli alberi di Natale, comprende una serie di "Poesie per sbaglio". Nelle Favole al telefono non manca un "Processo al nipote", portato in tribunale per aver scritto che "lo zio è il padre dei vizi". Poi, infine, Il libro degli errori, con filastrocche e raccontini sugli errori di ortografia, “utile e divertente”, nelle intenzioni dell’autore, soprattutto per i ragazzi dai 9 ai 13 anni. “Doveva essere una specie di panorama nazionale degli errori tipici: quello milanese di usare la ‘esse’ per la ‘zeta’, quello veneto di dimezzare le doppie consonanti, quello sardo di raddoppiare la ‘t’ e così via”17. Il divertimento – ricordava Rodari – “consisteva non tanto nel dar la caccia agli errori, quanto nello scoprire il loro risveglio ideologico”.
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George Steiner, Nessuna passione spenta, Garzanti, Milano 1997, p. 13. Gianni Rodari, “Come è nato il libro degli errori”, Noi Donne, 45, 14 nov.1964.
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Mi spiego subito. Un bambino può scrivere "Itaglia" con la "g" solo perché confonde certi suoni. Ma si può negare che esiste un "Itaglia" con la "g"? Eccome, se esiste! Per me, per esempio, il supernazionalista, il superpatriota di professione, nutrito di retorica, di ignoranza e di provincialismo, non è uno che vuol bene alla nostra Italia, pulita senza "g", ma uno che ha in mente una sua "Itaglia" sbagliata e balorda. Così feci la storia del professor Grammaticus che redarguisce un gruppo di fascistelli, poco amanti dell’ortografia, che vanno gridando a sproposito: "I-ta-glia, I-ta-glia!".
Secondo Rodari, si può insegnare ai bambini non solo ad evitare l’errore, ma anche a capire che l’errore spesso non sta nelle parole, ma nelle cose; che “bisogna correggere i dettati, certo, ma bisogna soprattutto correggere il mondo”. Nel libro di Rodari, dall’ortografia il discorso si allarga fino a comprendere altre famiglie di errori: pregiudizi, opinioni correnti da combattere, sviste ideali, comportamenti sbagliati.
Le lettere dell’alfabeto Convinti che la conoscenza dovesse giungere direttamente dallo Spirito Santo e non dalla lettura e dallo studio, gli abbecedariani, setta anabattista tedesca del XVI secolo, ritenevano di non dover apprendere l’alfabeto per ottenere la salvezza18. Un’eccezione, nel mare degli sforzi che intere generazioni hanno compiuto per apprendere l’alfabeto, la grafia delle sue lettere e le nozioni elementari di sintassi e ortografia. Al giovane Daniel Pennac, poi scrittore di straordinario successo, servì un anno intero, secondo una leggenda della sua famiglia, per imparare la lettera a19. “Voi dite che Pierino del dottore scrive bene”, si legge nella Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani. “Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccolo chiamava la radio lalla. E il babbo serio: ‘Non si dice lalla, si dice aradio’”20. Il dickensiano Philip Pirip, prima dell’ascesa e del riscatto, scrive in questo modo: Io ChAro Joi osperOc chhE tu sTaibe nE iO sper chhe prEssto saRòò chapacE dIn segggniaRe a teJo e all oRa sarrEmo Felicci e cuandO saaRò tUo gharzOn JOe cuale Ffesta e Chredi miinFezzionAto tUo Pip.
Anche la sorella del giovane, ferita da un malintenzionato e gravemente ammalata, ha una pessima scrittura e nessuna simpatia per l’ortografia, così come il marito Joe non ne ha per la lettura. Per questo nascono tra loro grandi complicazioni che il povero Philip è chiamato a risolvere21. Tuttavia, il bravo fabbro Joe apprenderà, alla fine, i segreti della scrittura. E la dimostrazione del risultato raggiunto con grandi fati18
Cfr. Michel Théron, Piccola enciclopedia delle eresie cristiane, Genova, Il melangolo 2006, p. 17. 19 Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 15. 20 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, LEF, Firenze 1967. 21 Dickens, Grandi speranze, Einaudi, Torino 1998, p. 50
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che viene così descritta da Dickens: anzitutto scelse una penna nel portapenne, come se fosse una cassa di grossi utensili, rimboccandosi le maniche, quasi stesse per maneggiare una leva o un pesante martello da fabbro. Prima di incominciare, si appoggiò saldamente alla tavola con il gomito sinistro, stendendo la gamba destra ben in fuori, e indietro; finalmente incominciò, e ci metteva tanto tempo a fare ogni asta discendente da far pensare che fosse lunga sei piedi, mentre alle ascendenti sentivo la penna scricchiolare forte. Aveva la strana idea che il calamaio fosse dal lato dove non era, e continuamente intingeva la penna nel vuoto, sembrando tuttavia soddisfatissimo del risultato. Di tanto in tanto inciampava in qualche scoglio di ortografia; ma in complesso se la cavò molto bene.22
E’ più disinvolto il vecchio contadino Ambanelli, che apprende i misteri dell’alfabeto da un ragazzo di undici anni. Ma la lezione sulla “logica” disposizione delle lettere si trasforma presto in una contro-lezione che getta luce sulla natura delle convenzioni e dischiude alle parole la possibilità di nuovi significati. L’esordio-capolavoro di Luigi Malerba23 riformula le potenzialità inespresse delle lettere svelate dalla comprensione di un originale analfabeta. Prima di tutto c’è A. A, disse paziente Ambanelli. Poi c’è B. Perché prima e dopo? domandò Ambanelli. Questo il figlio del padrone non lo sapeva. Le hanno messe in ordine cosi, ma voi le potete adoperare come volete. Non capisco perché le hanno messe in ordine così, disse Ambanelli. Per comodità, rispose il ragazzo. Mi piacerebbe sapere chi è stato a fare questo lavoro. Sono così nell’alfabeto. Questo non vuol dire, disse Ambanelli, se io dico che c’è prima B e poi c’è A forse che cambia qualcosa?
L’analfabeta Ambanelli vuole semplicemente imparare a “mettere la firma” evitando di segnare il proprio nome con una croce. Il ragazzo scrive allora una lettera alla volta e poi la ricalca a matita tenendo con la sua mano quella del contadino, che dopo un mese impara a scrivere la propria firma e la sera la riscrive sulla cenere del focolare per non dimenticarla. E dopo la firma, Ambanelli impara molte altre parole, con tale entusiasmo “che se le sognava la notte”, e le contava “come si contano i sacchi di grano che escono dalla trebbiatrice e quando ne ebbe imparate cento gli sembrò di aver fatto un bel lavoro”. Accade il contrario al quattordicenne Daniel Pennac, che di fronte agli insuccessi scolastici scrive dal collegio alla madre una lettera piena di errori: 22
Dickens, Grandi speranze , op. cit., p. 495. Luigi Malerba, “La scoperta dell’alfabeto”, in La scoperta dell’alfabeto, Mondadori, Milano 1990, pp. 3-4.
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Cara Mamma, ho visto anch’io i miei voti, sono demoralizato [sic], non ce la faccio più, quando ti tocca studiare 2h di fila dopo le lezioni per prendere 0 in un compito di algebra che credevi andato bene cè [sic] da scoraggiarsi, allora ho lasciato perdere tutto per ricomminciare [sic] a prepararmi per le interrogazzioni [sic] e il mio voto basso in condotta spiega sicuramente il ripasso delle lezioni di geologia durante la lezzione [sic] di matematica, [ecc.] Non sono abastanza [sic] intelligente e studioso per continuare la scuola. Non mi interessa, mi viene malditesta [sic] a stare rinchiuso tra i libri, non capisco niente di inglese, di algebra, facio [sic] schifo in ortografia, che cosa rimane?
Appendix Probi La lingua, per sua natura, non sta ferma. Siamo intorno al 300 dopo Cristo. Un ignoto maestro entra nella scuola di Roma in vico Capo d’Africa, vicino al Colosseo, e inizia a dettare ai suoi allievi. "Bisogna scrivere spèculum non speclum" (specchio), "màsculus non masclus (maschio), columna non colomna (colonna) càlida non calda (calda), frìgida non fricda (fredda), àuris non oricla (orecchia), aqua non acqua (acqua), vìridis non virdis (verde)". L'elenco prosegue. I ragazzi scrivono. L’ignoto maestro si è accorto che i testi dei suoi allievi sono pieni di errori e che i ragazzi scrivono le parole come le pronunciano, rendendole talvolta irriconoscibili. E, forse, gli allievi si chiedono perché devono utilizzare nello scritto forme antiquate quando parlano in modo completamente diverso. La lingua latina sta cambiando, si sta evolvendo e si scioglierà nelle lingue romanze. Correggere gli errori di ortografia non basterà a fare argine. Nelle ultime pagine di una grammatica del tempo è contenuta la lista di quei vocaboli e l’Appendix Probi – cioè l’aggiunta alle ultime pagine della grammatica di Probo – illumina sui cambiamenti in atto nella lingua latina così come si parlava a Roma in quel tempo24. Una cosa non molto diversa accade oggi, dove il predominio linguistico dell’inglese sta generando ibridazioni e sottolingue.Il manager francese Jan-Paul Nerrière ha proposto, nel libro Dont’ speak English, parlez Globish (2004), una lingua di soli 1500 vocaboli inglesi, una sintassi ridotta al minimo e una grafia coerente con la pronuncia da utilizzare per la sopravvivenza in aeroporti, alberghi, supermercati, scambi formali e di convenevoli. Diversa, quindi, dall’esperanto, lingua artificialmente costruita per servire ad ogni espressione. Come l’europanto di Diego Marani (1996) e il socceranto – inventato da Ted Freedman e Ignacio van Gelderen per creare un esperanto del calcio – il globish rientra la le lingue ausiliarie inventate per scalzare l’inglese da lingua di servizio negli scambi internazionali. Un esempio di ibridazione linguistica riguarda il vocabolo Taikonauta, che designa i futuri uomini dello spazio. L’invenzione è di un
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Cf. “L’Appendix Probi et la philologie latine”, in Revue du Moyen Age Latin, Tome VIII, n. 4, Oct-Déc. 1952, pp. 37-54. Devo questa segnalazione ad Antonella Kubler.
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cinese del Nord, che vive in Malaysia e che ha coniato in inglese, su un modello francese, un vocabolo mezzo cinese mandarino e mezzo greco-latino25. Anche in Germania non si parla più tedesco, ma Denglish, contaminazione di Deutsche e English. Secondo l’indagine annuale sulle cento parole più pronunciate in Germania, condotta da Satelliten Media Design assieme all’università di Hannover, nel 2004, su 100 parole, 23 erano inglesi, mentre negli anni Ottanta ce n’era una sola. Numerose sono le espressioni centaure, cioè metà tedesche e metà inglesi, come smaltalken (dall’inglese small talk, fare piccole chiacchiere) brunchen, mailen (da mail, spedire la posta), managen (da manager, gestire), Herz-check (controllo cardiaco, da Herz, cuore in tedesco, e l’inglese check)26. Tutto questo avviene nel clima del dibattito che ha portato alla Rechtschreibreform, la criticata riforma dell’ortografia tedesca entrata in vigore il 1 agosto 1998, ultima tappa di un percorso iniziato a Berlino nel 1875 e proseguito negli anni Ottanta e Novanta del Novecento.
Pecora armena e volpe turca In un articolo del 1976, intitolato “La sintassi del disprezzo”, Umberto Eco aveva analizzato un infortunio occorso all’onorevole Carlo Donat Cattin, che al congresso della Democrazia cristiana si dichiarò contro il compromesso storico, ma fece capire esattamente il contrario. “Non esiste, se non in una certa propaganda, un incasellamento che ci condannerebbe a un ruolo conservatore se non ci alleassimo col Pci”, aveva detto. Il congresso capì che la Dc, se non si fosse alleata con il Pci, sarebbe stata condannata a un ruolo conservatore. Il fatto provocò un incidente di dimensioni rabelaisiane27. In molti contesti della politica e della diplomazia le parole sono estremamente importanti. Il ministero dell’Ambiente e delle Foreste della Turchia – informa la stampa28 – ha annunciato di voler cambiare nome ad alcune specie animali. La volpe rossa, il cui nome latino è Vulpes Vulpes Kurdistanica, si chiamerà semplicemente Vulpes Vulpes. La pecora selvaggia nota come Ovis Armeniana porterà il nome di Ovis Orientalis Anatolicus. E anche una renna che figura come Capreolus Capreolus Armenus diverrà Capreolus Capreolus Capreolus. Curdi e Armeni, politicamente sgraditi ad Ankara, vengono cancellati come riferimenti linguistici e biologici. Il motivo? Il ministero turco parla della correzione di un torto antico, del pregiudizio che ha animato di cattive intenzioni gli scienziati stranieri, un complotto di naturalisti per minare l’unità del paese.
25
Tullio De Mauro, Dizionarietto di parole del futuro, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 40, 7576, 81-82. 26 Paolo Passarini “In Germania ormai si parla il Denglish”, Specchio della Stampa, 29 gennaio 2005. 27 Umberto Eco, Dalla periferia dell’impero, Bompiani, Milano 1991, p. 163. 28 Anna Zafesova, “E’ un ordine: cambiate nome a quegli animali”, Specchio della Stampa, 23 aprile 2005, p. 12.
Copiare, correggere, inventare. Errori e utopia della precisione
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Anche l’euro – annuncia in prima pagina il Sole 24 ore del 14 gennaio 2006 – è diventato oggetto di una controversia linguistica. La grafia della valuta viene messa in dubbio da cinque paesi della nuova Europa, nonostante un regolamento europeo del 1995 stabilisca che “il nome della moneta unica deve essere uguale in tutte le lingue ufficiali dell’Unione”. I maltesi dicono ewro, gli sloveni evro, i lituani euras, gli ungheresi euró e i lettoni eiro. Il ministro lettone dell’Istruzione, Ina Druviete, ha dichiarato: “Il dittongo ‘eu’ è a noi sconosciuto. Non abbiamo un suono simile: useremo quindi eiro”. E così, salvo che sulle banconote, l’euro si chiamerà eiro in tutti i documenti di Riga29. Dal dittongo alla forma delle lettere. In Italia, il 3 gennaio 2006, il quotidiano della Lega Nord La Padania annuncia solennemente in prima pagina, in un articolo non firmato, la decisione del giornale di rinunciare alle maiuscole, le “terribili sentinelle” di Pennac, che “sanno di referenziale, di burocratico, di ossequioso, di vecchio”. Mancheremo di rispetto?, si interroga il giornale: No. Il rispetto non lo si guadagna sulla carta: lo si guadagna con la fiducia del popolo. I baciamano ortografici li lasciamo a chi non ne può fare a mano [sic]. Forse deluderemo anche il galateo: vorrà dire che avranno un motivo in più per chiamarci cafoni e maleducati, o semplicemente provocatori o pierini. La scrittura è lo specchio dei tempi, è l'immagine dell'oggi. Il che, detto con franchezza, non è un granché dal punto di vista estetico. Ho visto i nostri ragazzi uscire per il veglione, vestiti di tutto punto, con un sorriso prestampato: erano anche loro "maiuscoli". Tornati a casa, il loro è stato un divertimento minuscolo. Al pari di quello dei loro genitori, cioè noi tutti. Vecchi anche il primo minuto dell'anno nuovo. Non bastano le maiuscole. Ecco perché da oggi, la Padania (maiuscolo perché è nome proprio), cambia le proprie regole di scrittura e forse di mentalità. Le idee che esprimiamo ve le presentiamo nude e crude, senza cellophane, senza costosi allegati, senza cipria. Senza trucco e senza inganno.
Accanto alla politica, un vasto deposito di errori di scrittura è offerto dalla burocrazia. In “Regi impiegati”, Emilio De Marchi, tra i primi scrittori a portare i colletti bianchi sulla scena letteraria, si limita a trascrivere dei documenti, con tanto di numeri di protocollo e variazioni dell’oggetto. Il tema è assurdo: il Regio ufficio postale di Castagnazzo scrive alla Direzione Provinciale delle Regie Poste con la richiesta di assumere due gatti che avrebbero il compito di fare fronte al grave inconveniente di topi che guastano carte, lettere e indumenti. La richiesta entra in un divertente gorgo burocratico e rimbalza alla Direzione Centrale delle Regie Poste, da qui al Ministro, poi alla Tesoreria di Milano e, infine, nuovamente all’Ufficio Postale di Castagnazzo perdendo progressivamente di significato perché i soldi per i gatti si confondono con quelli per il signor Gatti e con l’aumento maturato dal vice cassiere cavaliere Ratti30.
29
Beda Romano, “La crisi del dittongo, ultimo ostacolo per l’euro”, il Sole 24 ore, 14 gennaio 2006, p. 1. 30 Emilio De Marchi, “Regi impiegati”, in Mara Santi, a cura di, Racconti italiani dell’Ottocento, Mondadori, Milano 2005, pp. 606-613.
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L’impiegato comunale Torrisi – racconta Alberto Moravia nel breve racconto Gli errori di ortografia - annoiato dalla routiniera vita di provincia, scrive lettere anonime all’uomo che, come lui, vive in affitto presso una vedova. Le lettere sono autodenigratorie e anticipano la richiesta di un prestito in denaro e persino il progetto del rapimento della figlia diciottenne dell’affittacamere. Tutto è rigorosamente inventato, tranne gli errori di ortografia, che mettono in allarme il destinatario delle missive. Una volta svelato il motivo di quell’agire – “Vede, noi in provincia ci annoiamo...” – il destinatario delle lettere anonime chiede a Torrisi ragione degli errori di ortografia. Egli stupì davvero, questa volta, e ribatté: Ma quali errori?’ ‘Mah,’ dissi, ’scroccone’ con una ‘c’ sola...’Un avvenimento’ scritto con l’apostrofo, e poi ‘ragazza’ con due ‘s’ invece di due ‘z’...Li ha fatti apposta?’ Lo vidi oscurarsi in volto, offeso. ‘Non ho fatto apposta nulla’, disse con voce risentita, ‘quando scrivo non faccio errori31.
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Alberto Moravia, “Gli errori di ortografia”, in Gazzetta del Lunedì, 26 gennaio 1953 e poi in Romildo, Bompiani, Milano 1993.
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“T
ante volte ho provato a immaginare il mio futuro, ma non ne ho mai avuto neanche l’immagine sfuocata: non so che lavoro vorrei fare, non so che cosa voglio dalla mia vita. Potrà anche essere sciocco, ma questa incertezza mi spaventa, facendomi vivere in una sorta di limbo. Tutto questo mi porta a temere il futuro” Così Giulia, studentessa del terzo anno di liceo linguistico a cui è stato proposto un tema sull’atteggiamento dei ragazzi di fronte al proprio futuro.
Di fronte alla scelta Per fortuna sua, Giulia ha davanti ancora due anni prima di affrontare gli esami di Stato conclusivi del ciclo di studi secondari superiori, secondo il burocratese con cui la vigente normativa definisce quelli che tutti si ostinano a chiamare esami di maturità. Ha davanti ancora due anni nei quali ci auguriamo che sappia trovare sufficienti indicazioni dentro e fuori di sé, dalla famiglia e dalla scuola, per orientare la sua vita e, in primo luogo, scegliere l’indirizzo per la prosecuzione degli studi universitari. Naturalmente Giulia non è un’eccezione. Cercherò di porre qualche considerazione tratta dalla lunga esperienza di insegnamento nei licei, come ho sempre fatto nella serie di articoli con riflessioni sulla pro-
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fessione docente, che con questo si conclude. Non mi occupo delle prospettive che la nostra inquieta società propone ai giovani, né delle possibilità offerte da un mercato del lavoro che appare dominato dal precariato: mi pongo al di fuori di analisi sociologiche in cui non ho competenza per ragionare invece su che cosa la scuola può fare per fornire ai suoi studenti qualche bussola per orientarsi nella navigazione esistenziale del mare aperto dopo che hanno lasciato l’ambiente protetto delle scuole secondarie. Per i ragazzi che hanno frequentato gli istituti secondari superiori, la scelta dell’università è la prima decisione importante, e per la gran parte di loro anche autonoma, della vita: la scelta di proseguire negli studi dopo la secondaria inferiore, la scuola media nel linguaggio di tutti, è per la quasi totalità dei giovanissimi una scelta di famiglia sentita quasi scontata, ovvia. E la scelta dell’indirizzo, per quanto partecipata e formalmente condivisa dai ragazzi, è ancora molto condizionata dalle possibilità economiche e dalle ambizioni dei genitori, purtroppo anche inconsciamente non sempre sufficientemente attenti alle reali qualità, interessi e possibilità - vorrei dire vocazioni nel senso più laico possibile - dei ragazzi che finiscono la terza media. Per questo snodo della vita scolastica dei ragazzi c’è semmai da interrogarsi su quale autonomia possa avere la scelta di un adolescente appena tredicenne: scelta addirittura drammatica se invece che fra indirizzi di studio si impone fra studio e lavoro. Ma anche per queste analisi occorre rivolgersi a competenze sociologiche. In condizioni almeno in parte simili si trovano gli studenti che concludono il triennio degli istituti professionali, frequentati da ragazzi o provenienti da famiglie che non possono garantire altri anni di studio o che, più o meno consapevolmente, hanno rifiutato scuole considerate impegnative o se ne sono allontanati dopo approcci infelici. Mondo del lavoro o successivo biennio che si conclude con la maturità? Ben diversa è la situazione per chi conclude le superiori negli indirizzi tecnici, scientifici o classici, quasi sempre orientato alla prosecuzione universitaria, anche per la convinzione diffusa, e in parte motivata, che le secondarie non siano più in grado di dare competenze professionali adeguate e che un diploma non sia in grado di assicurare un futuro accettabile a chi lo consegue. Non è più tempo per ragionieri, periti e maestri, titoli ben accreditati fino a un passato recente: ai maestri peraltro ormai è chiesto dalla legge il titolo universitario, in adeguamento a norme europee.
Una parentesi su formazione e cultura Prima di proseguire sul tema, occorre una considerazione fra parentesi, ma da cui non può prescindere chiunque intende occuparsi di educazione dei giovani con qualche ruolo nell’accompagnarne le scelte. Non credo sfugga che nel mondo del lavoro al quale i ragazzi si preparano c’è oggi una richiesta sempre maggiore di flessibilità cognitiva. Vale a dire che per l’integrazione uomo macchina, sempre più presente a qualunque livello professionale, occorre che l’uomo sia in grado di impararne il linguaggio e la gestione, in continuo mutamento. Questo è vero sia nelle professioni ancora definibili artigianali, sia in quelle di fabbrica, sia in quelle più specializzate ed elevate.
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Questo determina che il mondo del lavoro chiede alla scuola, nei diversi ordini e indirizzi, una preparazione appunto alla flessibilità che dilata la preparazione di base per cui non si tratta di imparare a fare -le tecniche del fare, infatti, sono in costante evoluzione anche nell’attività artigianale-, ma che fornisca gli strumenti cognitivi per adeguarsi nel corso degli anni alle necessità oggi neppure prevedibili per la rapidità dell’evoluzione tecnologica. Per dirla chiara, non servono più gli operai che per tutta la vita avrebbero fatto lo stesso lavoro, meglio se illetterati: chi sapeva anche leggere insospettiva i padroni. Oggi occorrono dipendenti preparati e flessibili a cui offrire buone remunerazioni all’interno di un programmato schema di produzione-consumo. Abbiamo sempre sostenuto doveroso fornire ai giovani nel corso del processo formativo strumenti per imparare e non solo informazioni e restiamo convinti di questa necessità, ma con una precauzione: che questa formazione non sia finalizzata esclusivamente alla professione. Una maggiore capacità professionale produce maggiore reddito e offre migliori garanzie in un mercato del lavoro dominato dalla precarietà e non sono elementi da sottovalutare, perché comunque il lavoratore deve poter guardare con serenità al proprio futuro, senza essere sottoposto a ricatti economici. A tutti i livelli dell’attività lavorativa, quindi, non dovrebbe essere esclusa una cultura anche fine a se stessa o, meglio, finalizzata al mantenimento del senso critico del cittadino la quale sola ne fonda la libertà. Il saper fare bene il proprio lavoro è tanto necessario quanto insufficiente, perché il lavoratore, come garantisce la costituzione, è in primo luogo cittadino. La formazione del cittadino come finalità educativa dovrebbe essere tenuta ben presente anche negli indirizzi professionali, facilmente frequentati da ragazzi provenienti da famiglie meno provvedute culturalmente, quindi meno in grado di offrire aiuto in questa direzione. Nella situazione politica presente, al contrario, domina l’impressione che conti prepararsi per produrre, produrre per arricchire, arricchire per consumare e votare in modo che tutto questo continui. Non continuo fuori dal mio campo, ma non si può lavorare con i ragazzi ignorando gli indirizzi del mondo in cui si trovano a vivere. Lo stesso vigente ordinamento universitario –la riforma nota come del tre+due- sembra costruito per fondare la subalternità culturale anche dei laureati accompagnati alla professione, ma assai meno al pensiero autonomo. Né pare che tutto questo trovi eco nella sensibilità delle forze politiche, neppure di opposizione.
Verso l’università Ma torniamo alle scelte di fronte a cui si trovano i nostri studenti alla vigilia della maturità per interrogarci su come la scuola è in grado di aiutarli, e fiduciosi che sia almeno riuscita a dare il gusto della cultura, anche quella che non ha un fine esclusivamente professionale. Sono molte le scuole superiori che, anche sollecitate dall’autorità scolastica, dispongono di servizi di orientamento per gli studenti degli ultimi due anni, servizi ampiamente utilizzati, spesso anche con positivi risultati, occasione per i giovani di individuare nella ormai differenziatissima gamma di proposte quella più congeniale e praticabile. Questi servizi, affidati per lo più a un docente disponibile, offrono materiali raccolti dalle università operanti nella zona, forniscono calendari di giornate in cui le
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diverse facoltà si presentano nelle proprie sedi o ancora organizzano presso la scuola interventi vuoi di docenti, vuoi di esperti del mercato del lavoro, vuoi ancora di testimonianze di ex alunni che stanno frequentando facoltà universitarie o corsi parauniversitari o le hanno appena concluse per averne indicazioni più confidenziali. Accanto alle iniziative specifiche messe in atto dalle scuole, che possiamo definire istituzionali, gli studenti si rivolgono ovviamente a compagni e amici più grandi, a parenti inseriti nelle professioni, e ai molteplici siti internet a loro destinati o da gruppi di altri studenti o dalle stesse università che ne fanno strumenti promozionali. Ormai anche fra le università, pubbliche e private, esiste una concorrenza che non disdegna iniziative di propaganda. Indubbiamente i giovani possono così essere informati di indirizzi di cui ignoravano del tutto l’esistenza o, al contrario, possono essere indotti a mutare scelte superficiali o giovanilmente romantiche o suggerite dall’amico/a del cuore considerando più attentamente le diverse tappe del curricolo, l’elenco degli esami previsti, o considerando sbocchi professionali meno ampi del previsto. Ma a monte di questi contatti e perché essi possano offrire indicazioni significative occorre che i ragazzi abbiano avuto nel corso dei loro studi, ma anche al di fuori della scuola, occasioni per una approfondita conoscenza di sé, delle aspirazioni profonde, di che cosa intendono fare della propria vita.
“Conosci te stesso” L’importanza della scelta mi richiama il celebre motto inciso sul tempio di Apollo a Delfi che ha ispirato la ricerca del pensiero greco: la conoscenza di sé, nei limiti entro cui è possibile, costituisce lo strumento primo di ogni scelta impegnativa. Sappiamo bene come nella vita molte evenienze siano occasionali, se non casuali; sappiamo bene quanti sogni si infrangono e quante vie si aprono inattese e non solo nel passaggio dall’adolescenza all’età matura, ma ciò non esime dal dovere di fornire aiuti in questi momenti difficili per chi li affronta. In queste tappe della crescita, anche al passaggio dalla scuola media alle superiori, è pratica diffusa anche il ricorso a test attitudinali, talvolta offerti dalle scuole stesse, a costi convenzionati o del tutto gratuiti, o richiesti a professionisti privati dalle famiglie. Non limitarsi a intuizioni e a pratiche empiriche, ma accedere a strumenti più raffinati per indagare la psicologia adolescenziale può rivelarsi prezioso strumento per individuare aspetti poco manifestati o difficoltà imprevedibili, per scoperte illuminanti nell’io individuale. Non sono tuttavia da sottovalutare alcuni rischi: dando per scontato, ma è da accertare con cura ogni volta, che chi conduce l’indagine ne abbia l’effettiva competenza, può accadere che alla scientificità dell’approccio sia attribuita un’autorevolezza che esclude da parte di chi riceve il responso ogni possibilità di errore. In tutto quello che riguarda l’uomo, in particolare nell’ambito della psiche, la certezza non è mai possibile: non intendo creare diffidenza su indagini collaudate e rivelatrici, ma suggerire di tenerne conto sempre all’interno di una visione complessiva, più empirica, ma anche più fondata sulla conoscenza della persona in tutti i suoi aspetti e in
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tutte le sue manifestazioni. Le risultanze delle prove attitudinali aprono prospettive, confermano intuizioni, mettono in rilievo difficoltà, palesano condizionamenti fuorvianti per scelte ritenute motivate: ma non è opportuno affidare neppure a questi strumenti la parola definitiva per scelte tanto importanti.
Qualche suggerimento Nessuno, neppure i genitori, anzi proprio i genitori preoccupati e apprensivi deve sentirsi il complesso della manzoniana donna Prassede, convinta di conoscere meglio di loro stessi il bene dei figli fino a imporre scelte che non ne rispettano l’autonomia e che assai facilmente conducono a insuccessi esistenziali da cui può essere difficile riprendersi. Ogni educatore responsabile dovrebbe, con consapevole umiltà e non per soddisfare le proprie ambizioni, impegnare i ragazzi a costruire responsabilmente la vita a seconda delle capacità, della disponibilità alla fatica, all’attesa di un’occupazione stabile, delle possibilità economiche, che purtroppo restano un condizionamento forte, che però almeno in qualche misura si può cercare di attenuare, e anche rispetto alle scelte relative alle prospettive familiari. Tutto questo evidentemente deve rappresentare un’attenzione costante nel complesso della programmazione educativa per la scuola come nell’intera vita di famiglia per i genitori: i risultati saranno molto vari, mai del tutto prevedibili, legati al carattere e alla personalità di ciascuno, più o meno determinato, con attitudini più o meno palesi e in dirizzate, ma alcune azioni possono essere suggerite e devono essere messe in atto. Si tratta di osservazioni anche di semplice buon senso, ma da mettere a tema consapevolmente, suggerendo esempi di persone vicine o note, esempi da imitare o da cui prendere le distanze; di ragionare su esperienze conosciute di persone nelle quali i giovani hanno fiducia, di cui hanno stima. Si tratta di commentare opere letterarie o cinematografiche –anche da inserire nella programmazione curricolare-, fatti di cronaca e nel medesimo tempo far prendere atto di difficoltà, di scarsità di sbocchi professionali, di orari nel lavoro non compatibili con la vita familiare. E ancora far osservare che non sempre l’ambizione di guadagni o di successi può dare le soddisfazioni attese; che certe mete, anche sportive o artistiche, sono raggiungibili solo con sacrifici e rinunce che prevedono una determinazione di carattere particolarmente forte. Mettere ben in rilievo il rapporto fra l’andamento scolastico e le aspirazioni, cogliere fra le diverse discipline del curricolo scolastico quelle più congeniali, in cui lo studio costa meno e produce risultati migliori. La meta auspicata è che il giovane arrivi al momento della scelta avendo già costruito in sé delle prospettive, delle ipotesi con cui accostarsi alle proposte concrete di cui si diceva prima; vi si presenti alla ricerca di verifiche, di conferme o di esclusioni: la partecipazione agli incontri con le facoltà universitarie sarà selezionata e mirata e può davvero diventare interessante come verifica, come confronto fra quello che ci si figura e quello che la realtà offre. Limitarsi a passare in rassegna tutte le proposte facilmente si riduce a una perdita di tempo –quando non pretesto per evitare le lezioni scolastiche!- o addirittura accresce la confusione e favorisce scelte casuali o suggerite dall’interesse di altri, con possibilità di errore molto accresciute.
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Una lezione dedicata Il giovane dovrebbe essere giunto al fatidico momento della decisione accompagnato da quanto abbiamo visto sia nel corso del tempo, sia negli ultimi mesi della scuola secondaria; meglio se ha avuto anche la possibilità di confrontarsi personalmente con qualche adulto, professionista della psicologia o anche solo umanamente maturo, che può aiutarlo nella conoscenza di sé e nell’individuare la strada su cui indirizzare la prosecuzione degli studi e la successiva attività professionale. Sarebbe opportuno che la scuola, attraverso un docente delegato dal consiglio di classe, autorevole e apprezzato dagli studenti, dedicasse una lezione specifica, un’ora o due al massimo, per esplicitare e sintetizzare le considerazioni qui presentate sul delicato argomento. Tento, per concludere, qualche esempio. • Prendere in considerazione in primo luogo la valutazione che ciascuno ha di sé relativamente agli interessi, alle aspirazioni, alla disponibilità all’impegno. • Chiedersi che cosa si vuole fare della propria vita, relativamente alla famiglia, ai cambiamenti di residenza (eventualità di lavorare all’estero), alle ambizioni. • Verificare le condizioni economiche e le possibilità di superarle con strumenti come borse di studio o necessità di lavoro, anche a tempo parziale, negli anni di università. • Studiare senza impegni di lavoro e senza eccessive distrazioni è sempre auspicabile: occorre però concretamente poterlo fare. • Non rinunciare agli ideali, alle speranze di attività utili per gli altri e neppure ai sogni, ma cercare una mediazione con sbocchi professionali praticabili: il ricatto economico da parte di chiunque, anche del coniuge, è una forte riduzione della libertà, anche se diventasse effettivo dopo molti anni. • Verificare che eventuali orientamenti non siano condizionati da situazioni esterne o da persone con forte influenza (il partner affettivo, i genitori, qualche mito di successo, ambizioni di carriera, l’impressione che costi poca fatica…). A Giulia e a tutti i suoi coetanei l’augurio di trovare aiuti efficaci, di riuscire a conoscersi e a valutare le possibili scelte con serenità e perseguirle con le soddisfazioni che hanno diritto di attendersi: neppure la scuola e la famiglia migliori possono però garantire certezze ed escludere rischi. È una consapevolezza da tenere presente, non per sentirsi impotenti, ma per aumentare prudenza e attenzione. Con ancora un’ultima nota: non rinunciare al coraggio di tornare su una scelta che si è rivelata sbagliata. In caso di insuccessi o di delusioni, verificare se si tratta di situazioni rimediabili e passeggere o di scelte davvero sbagliate: in questo caso, meglio perdere un anno e ricominciare che proseguire su una via che si è rivelata impercorribile o non appagante.
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I chiaroscuri di Anna Lucchiari
Ripristinare o riformare?
A
l Ministero della pubblica istruzione si sono succeduti rosari di ministri, praticamente uno all’anno per i primi cinquant’anni della nostra giovane o exgiovane Repubblica. Un disastro perché nessuno di loro, per motivi anche comprensibili, è mai riuscito a dare alla scuola il prestigio che andava via via perdendo. Il prestigio non si ripristina con una riforma, e negli anni, le riforme, sono state invocate soprattutto per la loro indubbia valenza liberatoria. Vale a dire che tutti i mali che si sono cumulati negli anni, sono stati ciclicamente addossati alle mancate riforme, alle imperfette riforme, ai metodi che non sono quelli giusti o quelli che la moda del momento ritiene validi. Prendiamo ad esempio le lingue straniere. Periodicamente risorge la critica che in Italia si studiano poco e male. E puntualmente ogni volta si finisce con l’addossarne le colpe ai vetusti metodi di insegnamento. Ricordo però benissimo di aver letto in un documento internazionale che gli allievi che dimostravano di averle meglio apprese erano quelli delle scuole sovietiche, dove i metodi erano i più tradizionali. Malgrado ciò, negli anni è stata elaborata una quasi “mistica del metodo”, tesa ad avvalorare l’ipotesi, tutta da verificare, che vi sia da qualche parte un metodo magico, capace di fornire allo studente le competenze necessarie …senza fatica. Questo comodo convincimento ha prodotto varie conseguenze: 1. l’alunno che non si applica si difende sostenendo che il metodo del suo insegnante è inefficace; 2. l’insegnante che non ottiene buoni risultati, che non riesce a coinvolgere sufficientemente gli allievi, ritiene di essere in difetto “di metodo”; 3. i genitori difendono ad oltranza i figli somari o svogliati dicendo che i professori non conoscono i metodi moderni. Il risultato è che: 1.il professore si sente incapace, non aggiornato, diviene insicuro e spesso rinuncia al suo ruolo di guida, dato che si può guidare solo quando si è sicuri dei percorsi da seguire e degli obiettivi da raggiungere; 2. i genitori si sentono autorizzati a svalutare gli insegnanti a metterli in crisi, a porli sotto accusa; 3. gli studenti sono contentissimi, perché possono dare dell’incapace (nella migliore delle ipotesi) ai propri insegnanti senza che alcuno possa obiettare alcunché. E’ mia opinione, suffragata da anni di esperienza nella scuola, che i suoi mali derivino anche dalla perdita progressiva di senso che hanno subìto i ruoli dell’insegnante, dell’allievo e quello del genitore. Spesso le assemblee scolastiche hanno visto riunite le tre componenti, per esempio quando si devono scegliere i testi scolastici, quando si deve impiantare l’anno scolastico, quando si devono discutere i risultati degli allievi. Non entro nella questione che ho sempre ferocemente contestato dello “studente che non sa” che viene richiesto di esprimere un parere sui libri di testo adottati che non
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conosce affatto, perché meriterebbe di entrare in testi da cabaret. Voglio riferirmi in particolare al ruolo di insegnanti e genitori che sono quelli che, secondo me, hanno subìto i maggiori disastri. Gli insegnanti - Vi sono follie che passano per verità scientifiche. Ad esempio, ho sentito dire da vari insegnanti che durante il periodo della scuola media, non è importante quello che un ragazzo studia, perché la maturazione che si sta operando avviene quasi senza che serva alcun intervento sul ragazzo. Se così fosse, perché allora non mandarli in campi scuola negli agriturismo, dove almeno imparerebbero a conoscere e a rispettare la natura? La conseguenza di questo atteggiamento è che i contenuti delle discipline si sono affievoliti (nella scuola media come negli altri segmenti scolastici), che molti docenti ritengono di scarsa importanza ciò che si fa in classe e che non sia rilevante se i ragazzi si applichino o se guardino fuori della finestra…. L’insegnante sta tra loro per evitare che si facciano male, che facciano a botte o altro. Concluse le scuole elementari, lo studente dovrebbe risultare in possesso degli strumenti di base: saper leggere, saper scrivere, comprendere un testo, saper far di conto (sono le tre competenze chiave elencate nei programmi per la scuola elementare francese, scritti da Pierre Chevènement, quando divenne Ministro della educazione nazionale). Nei nostri programmi per la scuola elementare, a dire il vero, sono adombrati in un testo fumoso, come si addice a compilatori di altissimo livello, ma il Ministro francese, dichiarò in apertura degli allora nuovi programmi, che dovevano essere letti, compresi e condivisi dalle famiglie oltre che dagli insegnanti. Precisazione doverosa in un mondo che sembra aver paura delle parole chiare. Con queste competenze dunque, il ragazzo deve proseguire gli studi: il che non vuol dire che debba limitarsi a frequentare le aule scolastiche, ma significa invece che deve condividere con gli insegnanti l’obiettivo primario della scuola media: quello di introdurre i ragazzi all’apprendimento sistematico delle varie discipline. Il suo dev’essere un percorso avventuroso, guidato da persone che abbiano il senso del proprio ruolo. Non giro intorno, ma è chiaro che gli insegnanti devono considerarsi ed essere considerati in grado di fare il proprio lavoro. Perché questo possa fruttuosamente avvenire, occorre innanzi tutto che nelle scuole ci siano delle regole da rispettare che dovrebbero essere portate a conoscenza di ragazzi e genitori all’inizio di ogni segmento scolastico. L’insegnante dovrebbe scrivere con gli allievi le regole della classe, regole che prevedono il rispetto dell’insegnante stesso, delle suppellettili e delle attrezzature, l’osservanza di certi comportamenti, l’uso degli spazi dell’aula e di quelli comuni. Quando si sentono i bollettini di guerra delle distruzioni scolastiche, si fa fatica a pensare che i nostri ragazzi, quelli per i quali lavoriamo, ci diamo da fare, ci preoccupiamo, possano comportarsi da teppisti. Ma forse, nessuno ha perso tempo a spiegare loro che la scuola e le attrezzature sono loro concesse in uso e non sono di loro proprietà e che nemmeno la piena proprietà potrebbe consentire il diritto d’uso e d’abuso. Il problema è che non sono stati guidati a rispettare le regole di civile convivenza, a ritenere che il rispetto di cose e persone sia un fondamento irrinunciabile del vivere comune. Il fatto poi che i danni vengano riparati dalla collettività, aggrava
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l’impressione che la loro giovane età rappresenti una specie di limbo solutorio. I danneggiamenti ad attrezzature scolastiche e ad edifici pubblici, andrebbero addebitati a coloro che se ne servono. Se trovare i colpevoli può essere complicato, si può sempre chiamare in causa la tasca dei genitori di tutti i ragazzi e allora il discorso cambierebbe immediatamente. Ogni deroga alle regole scritte e condivise da insegnanti e genitori, deve essere opportunamente perseguita. Il che non significa che i ragazzi debbano essere picchiati con le verghe, ma solo che devono essere regolarmente ripresi ad ogni infrazione commessa e soprattutto ritenuti responsabili dei danni che provocano. I ragazzi, si dice, non hanno rispetto del bene comune. Ma che rispetto possono avere di una comunità ectoplasmatica e vigliacca che li considera irresponsabili e impunibili? Quindi, solo la consapevolezza che le regole ci sono e che vengono fatte valere può consentire il sereno svolgimento delle quotidiane attività scolastiche. A questo punto si può affrontare la questione dei contenuti delle varie discipline, fondamentali nel percorso scolastico, molto di più di quanto si sia ultimamente ritenuto. I programmi sono veramente le chiavi di volta nella costruzione del percorso didattico e devono esser elaborati dai docenti e portati a conoscenza dei genitori e degli allievi. Questo ci si aspetta dai docenti: che sappiano scegliere per i ragazzi, che sappiano mettersi nella condizione migliore perché i tutti possano trarre dalla frequenza scolastica il massimo beneficio. I genitori - Il loro ruolo si è svuotato perché affidano i propri figli alle scuole di ogni ordine e grado, come se a queste sole spettasse il compito di educarli. E inoltre, mentre non riescono a riappropriarsi dei compiti che derivano dalla genitorialità, chiedono agli insegnanti di supplirli in toto, cosa che questi proprio non possono fare. Il genitore amico è un inganno che si produce e riproduce in film, storielle e racconti vari, è una sensazione universale che pare dire: essere genitori invecchia e quindi siamo amici. Il che significa tanto che ci si può parlare come si fa con i coetanei, quanto che tra genitori e figli ci si può mandare a quel paese alla pari, che si possono fare le stesse idiozie…mostruosità alla Dino Risi de I mostri. I genitori raccontano come raggirare le persone, gli ostacoli, ottenere senza sforzo, senza fatica, senza onestà. In alternativa dicono poco o niente. Non vale la questione del tempo che non c’è, perché anche il poco che c’è dovrebbe essere vissuto in un certo modo. I figli - Dovrebbero esser orgogliosi di genitori che lavorano con onestà per procurare loro il necessario per vivere, rispettarne le stanchezze e le fatiche e collaborare alla gestione familiare. Ma devono sapere che davanti hanno dei genitori, adulti che li hanno messi al mondo e si adoperano in molti modi per loro, quindi persone di cui si possono fidare e che possono essere di conforto e di supporto alla loro crescita. Genitori e insegnanti hanno il difficile compito di essere autorevoli e di insegnare che famiglia e scuola hanno ruoli complementari ma ben distinti e che ciascuno nel suo ambito ha il sacrosanto diritto di vedere rispettate le proprie regole. Qualcuno mi ha detto che probabilmente è da molto tempo che non frequento le scuole. Non è così, per amore ho ricominciato a frequentarle. Non sempre approvo quello che viene fatto ma questo fa parte delle mie opinioni personali, della mia liber-
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tà di giudizio. Trovo che quello che spesso manca ai docenti sia l’orgoglio di servire all’educazione ed alla formazione dei ragazzi, la consapevolezza di contribuire sia alla loro preparazione culturale che alla formazione del loro carattere. E nella mia memoria e nella mia esperienza con migliaia di docenti, quelli che rispondono a entrambi i compiti sono quelli che lo fanno con passione, che nel loro lavoro mettono amore… Il metodo, secondo me, c’entra poco. Però sono ottimista, perché ho sentito il Ministro Gelmini parlare poco, ma prendere delle decisioni che vanno decisamente nel senso da molti auspicato: il ripristino del voto di condotta, il ritorno ad un sano rigore non sono frutto di passatismo, di nostalgia, ma di fede nelle istituzioni scolastiche. Era ora! A casa e a scuola lavorare e far lavorare nel rispetto delle norme di comportamento che ai vari contesti si addicono. Se insegnanti e genitori si riprendono con determinazione le prerogative dei rispettivi ruoli, i risultati non potranno mancare. !
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a parola: tre sillabe che dovrebbero significare una sola cosa ma che invece ne significano tantissime tra di loro perfino contrastanti. Il vocabolario però ci mette subito in guardia: uno o più fonemi mediante i quali l’uomo esprime una nozione generica che si precisa e si definisce nel contesto di una frase e che si contrappone soprattutto ai fatti. Rispetto alla parola che suscita rispetto, quella che è sinonimo di insegnamento, la maggior parte delle accezioni, riporta una specie di fumus negativo. Polonio chiede ad Amleto:- Cosa leggi? E il Principe triste risponde: - Parole, parole, parole. Le parole sono tante, sono sempre troppe, sono incerte nel significato, sono mutevoli, sono ingannevoli e si usano come scudo e ombrello per eludere le altrui o le proprie responsabilità. Questo è l’aspetto che mi pare sia oggi portato alle estreme conseguenze: da quando si definiscono non vedenti i ciechi, come se la parola specifica fosse in qualche modo lesiva della dignità di una persona, a quando si cerca, cadendo inevitabilmente nel ridicolo, di esprimere giudizi negativi mascherati dentro incredibili metafore per evitare che il destinatario del giudizio possa aversene a male, possa tentare il suicidio o chiedere aiuto ad una banda di killer per vendicarsi dell’onta subita. Prendiamo la scuola, giusto perché è un argomento che coinvolge, in attivo o in passivo, moltissime persone. C’era una volta il voto (che pare ora stia per tornare trionfalmente. Se così fosse potremmo inventarci una nuova festa nazionale!), un numero, semplice, chiaro in scala da uno a dieci. Minimo per passare era il fatidico sei. L’alunno ne afferrava immediatamente il significato, a parte il fatto che un alunno di medio comprendonio sa sempre quanto merita, e non c’era bisogno di compulsare le legende poste a piè di pagella per comprendere il valore di un aggettivo che, in alcuni casi mi pare almeno opinabile. Prendo ad esempio il documento di valutazione emesso dal Ministero della Pubblica Istruzione: un A4 cartonato molto elegante, in una scuola elementare romana. In-
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nanzi tutto, non si chiama più pagella ma documento di valutazione. Vado a consultare il Devoto-Oli e riporto: Pagella: s. f., documento che la scuola rilascia annualmente a ciascun alunno, per attestarne la frequenza, il profitto e il risultato degli scrutini finali o degli esami (nella scuola dell’obbligo oggi sostituito dalla scheda di valutazione). Il Devoto-Oli è rimasto un po’ indietro, perché non ce la fa a rincorrere tutte le contorsioni mentali dei ministeriali. Adesso c’è il documento di valutazione. E va bene, ma non posso non rilevare che invece di una singola unica già esistente parola che comprende tutti i significati sopra e postelencati, se ne usano tre. Siccome scheda era un po’ cortina come numero di sillabe, si è optato per la parola documento che in sé è molto più enfatica e molto più roboante. Ma non è che con la scheda si stesse meglio. Ho fra le mani una scheda del 1978: un lenzuolo vero e proprio che ad ogni trimestre (in realtà c’erano i quadrimestri e quindi si poteva saltare la colonna centrale), ogni insegnante doveva completare scrivendo in grandi spazi bianchi segnati da righe accuratamente predisposte tutte le variabili annesse e connesse al: “non c’è male - così e così - potrebbe fare meglio se si impegnasse di più”, frasi che i nostri professori ripetevano ossessivamente alle nostre mamme. Mi colpisce, nella scheda, uno dei pensierini riferiti a: Scienze matematiche, chimiche fisiche e naturali. Classe seconda media, primo quadrimestre: “Pur riuscendo abbastanza bene, quest’anno il suo comportamento in classe è peggiorato e il suo interesse è diminuito. Tutto ciò a discapito del rendimento”. Secondo quadrimestre: “Preparazione molto buona. Ha seguito con molto interesse e ottimi risultati”. Ho l’impressione che nel primo caso l’insegnante fosse furibonda per un fatto legato a certe ranocchiette di carta che l’alunno aveva imparato a costruire e a far saltellare fra i banchi mentre lei faceva lezione e da qui il comportamento peggiorato e interesse diminuito. Anche se non doveva essere proprio così, dato che alla fine arriva in poco tempo a “preparazione molto buona”. All’epoca le materie prese in considerazione erano: Religione, Italiano, Storia, Educazione civica e Geografia, Scienze matematiche, chimiche, fisiche e naturali, Lingua straniera, Educazione artistica, Educazione tecnica, Educazione musicale, Educazione fisica: hanno un senso, siamo in seconda media. Nell’attuale documento di valutazione della prima elementare le materie sono: Italiano, Inglese, Storia, Geografia, Matematica, Scienze, Musica, Arte e immagine, Scienze motorie e sportive (Ginnastica), Convivenza civile, Comportamento (ex Condotta). Per la prima elementare, decisamente incomprensibile (dato che a malapena a fine anno la classe riesce a leggere correntemente) e poi, che fine ha fatto l’Aritmetica (sempre secondo il Devoto-Oli: parte della matematica riguardante lo studio dei numeri e le regole pratiche di calcolo) fagocitata dall’impegno ad esprimere un’ipotesi di improbabili studi superiori? Mi viene un po’ da ridere quando mia nipote che frequenta la prima elementare porta scritto su un quadernone a quadretti: matematica. Poi apri e trovi le prime faticose numerazioni da 1 a 20 coi numeri tutti sbilenchi. Confesso che mi piacerebbe molto che nella scuola elementare si ritornasse alla vecchia pagella, tanto oggi con i computer si fanno miracoli, con su scritto quello che effettivamente si fa e che è possibile ed auspicabile si faccia. Alla mia domanda: - Ma quale geografia se leggono ancora con fatica?, mi è stato risposto che è considerata geografia il riconoscimento di
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“sopra, sotto, davanti e dietro…”. La storia è forse sostituita da quella di Cappuccetto rosso con tutte le sue variabili? Non giochiamo con le parole, facciamo loro dire la verità, facciamo loro esprimere la realtà delle cose. Nel primo ciclo della scuola elementare, i bambini devono imparare a leggere, scrivere e far di conto. Tutto il resto verrà dopo ma solo una volta che questi strumenti propedeutici siano stati effettivamente acquisiti. Tra l’altro questi obiettivi possono essere compresi da tutti, anche dai bambini e dai loro genitori e questo non può che essere considerato un passo avanti nel senso della effettiva collaborazione scuola-famiglia.!
Stili di insegnamento fai da te
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ennaio 2008. Alcuni bambini tornano a casa da scuola con vari lividi e si dimostrano poco propensi a raccontare ai genitori ciò che è accaduto. Piano piano tuttavia, la verità si fa strada e viene fuori che la maestra adotta in classe uno stile di insegnamento degno di comparire in Sotto la ruota di H. Hesse. Fin dalle prime settimane di scuola mi ero resa conto che i bambini avevano troppi compiti a casa: in prima elementare, la maggior parte del lavoro si fa a scuola, anche perché i bambini devono imparare gradatamente ad applicarsi a casa. Se il carico di lavoro che viene loro assegnato non è ben calibrato, diventa penoso e frustrante e perderanno presto la gioiosa curiosità di apprendere che dovrebbe essere il motore più efficace ad ogni età. L’impressione che avevo era che l’insegnante avesse lei in prima persona un’ansia irrefrenabile di dimostrarsi abilissima, capace di miracoli: all’uscita di scuola una volta mi disse che dopo tre mesi di scuola i suoi bambini già leggevano correntemente. Per molti di loro non era affatto vero e la conseguenza era che la maggior parte dei bambini si sentiva assolutamente inadeguata e che per loro le ore scolastiche non erano affatto piacevoli. L’uso di punizioni anche corporali, ma non solo e quelle morali non erano meno gravi, mi faceva tornare in mente capitoli tristissimi legati all’educazione dei bambini che credevo completamente e definitivamente scomparsi. Per secoli il bambino è stato considerato un essere imperfetto da plasmare, proprietà della famiglia e dello stato o della scuola e non “persona” da rispettare nella sua originalità ed autenticità. Ci sono voluti scrittori e pedagogisti illuminati, migliaia di anni, per arrivare a capire che un bambino non impara solo con il cosiddetto “rinforzo negativo”. Il processo è stato lentissimo e non doveva esser facile questo periodo della vita se perfino sant’ Agostino all’età di 72 anni, ormai nel quarto secolo dopo Cristo, poteva dichiarare che non avrebbe mai potuto dimenticare le sofferenze dei suoi anni di scuola e che avrebbe preferito la morte “piuttosto che ridiventare fanciullo”. Pensavo che gli stili educativi si fossero evoluti e benché nessuno possieda ricette valide per ogni situazione, abbiamo conquistato un progetto pedagogico che non sarà
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l’unico ombrello a coprire la bisogna, ma che è uno strumento plasmabile e adattabile alle diverse situazioni che si possano presentare. Sappiamo tutti che non esiste un progetto pedagogico che non rischi di produrre effetti negativi non voluti e qualsiasi buon educatore sa molto bene che è una pura illusione pensare che vi sia una via assolutamente ottima e unicamente giusta. Ogni stile educativo contiene in sé del buono e del cattivo e può produrre effetti che sono il contrario di quello che l’educatore intendeva conseguire. Su un punto tuttavia, tutti gli stili educativi dall’antichità ai nostri giorni, convergono: sull’importanza dell’esempio, sul valore attribuito a quello che viene comunemente chiamato “modello di riferimento”. Tale è il maestro che dovrebbe essere, per poter assolvere al meglio il suo compito, un “adulto completo”, che conosce il proprio sé e il proprio ruolo, che è in grado di guidare con discrezione il bambino sulla via dell’apprendimento, del bello, del bene e della verità. Questo concetto del guidare con discrezione è tanto importante che san Giovanni Battista de La Salle volle che i suoi maestri fossero Fratelli. Non sta a me ricordare la rivoluzione lasalliana, perché di vera rivoluzione dei sistemi educativi si trattò (e il suo metodo dava ottimi risultati), ma non posso far a meno di ricordare che un fratello sa ascoltare, che un allievo è un partner educativo assieme al maestro nel progetto che svilupperanno assieme e che proprio per questo ingiunzioni di segno esclusivamente o prevalentemente negativo, sono deleterie. I tempi dei bambini sono soggettivi. Le loro menti non sono vasi da riempire e gli insegnanti devono rispettare i loro tempi. Quando studiavo diritto del lavoro, mi spiegavano che il famoso discorso delle otto ore di lavoro che fu una delle grandi conquiste dei lavoratori del secolo scorso, fu accettato quando gli economisti elaborarono la teoria denominata “della penosità crescente del lavoro”. In sostanza i tecnici che studiavano l’utilizzazione ottimale delle risorse, comprese quelle umane, dopo una lunga serie di rilevazioni, avevano notato che al di là di una certa soglia di stanchezza, il lavoratore commette molti errori, perde il ritmo, cosicché le ore che oltrepassano tale soglia, diventano sconvenienti per il datore di lavoro. Un bambino che va a scuola affronta il suo primo vero lavoro: le ore di studio devono essere alternate a ore di gioco, le sue pause devono essere rispettate, altrimenti si corre il rischio di un rifiuto totale. Non vorrei mai sentire un bambino di sei anni chiedere ansiosamente alla madre “se domani c’è scuola” e aggiungere alla risposta d’assenso “uffa, non ne posso più”. Come non vorrei mai vedere bambini che per giocare alla scuola con coetanei, si muniscono prima di un righello per insegnare come si deve. Ma l’aspetto che più mi ha indignato è quello legato all’atteggiamento di disprezzo e di sfiducia che la maestra adottava quotidianamente nei confronti dei bambini. Le così dette ingiunzioni negative che ho potuto cogliere sono: - Mi impedite con la vostra indisciplina e incapacità di seguirmi, di esprimere al meglio le mie doti di docente. Il messaggio che un tale atteggiamento veicola è caro bambino, non esistere che mi ostacoli. - Non ho tempo di ascoltare le vostre difficoltà e disprezzo, al punto da ridicolizzarvi davanti a tutti, i vostri sbagli. Il messaggio veicolato è: caro bambino, non pensare con la tua testa, fai solo quello che dico io e andrà tutto bene.
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- Non mi fido di te, perché l’attività cui ti dedichi con maggiore successo è quella di raggirare la maestra. La maestra veicola la sfiducia in se stesso e negli altri. E’ deleteria. - Dimostra che hai capito anche se non è vero, sii sempre d’accordo con la maestra anche se maltratta i compagni. E’ tragico, perché è come se la maestra dicesse al bambino: non essere te stesso, non ti conviene…..
Le vie di fatto non sono mai accettabili, ma lo sono molto meno questi atteggiamenti che ignorano l’obiettivo che condividono da sempre scuola e famiglia: quello di insegnare al bambino ad essere se stesso, ad accettare sé e gli altri, a sviluppare la sua capacità di relazionarsi con gli altri in modo differenziato e di conoscere e di sviluppare il proprio ruolo nella società di cui fa parte. Quanto all’apprendimento, gli insegnamenti devono essere somministrati con intelligenza, dovrebbero poter garantire ai bambini gli spazi necessari per poter assimilare e riflettere. Dal punto di vista teorico, un bambino ben guidato è in grado di apprendere qualsiasi cosa. Ma un insegnamento è valido quando può essere collegato con apprendimenti precedenti e utilizzato per quelli futuri che in qualche modo prepara. Gli anticipazionismi servono l’orgoglio e la presunzione degli adulti, non la crescita del bambino. Il processo di apprendimento può essere bloccato o guastato dalla sensazione di non esser capiti, dalla sensazione di non essere amati, o da un eccesso di timore (quello di essere puniti anche fisicamente produce insincerità e ribellione). Il tutto può produrre un disagio di crescere, capace di segnare l’animo e il carattere per tutta la vita. Ai primi dell’Ottocento, quando un genitore presentava un bambino in collegio, il piccolo veniva di regola fatto assistere ad una punizione a suon di vergate sul sedere. Tanto per regolarsi! Come distruttore l’essere umano è ineguagliabile. Chi è stato vittima diventerà a sua volta carnefice non appena gli si presenterà la buona occasione: la violenza è una spirale maledetta. Se tutti ne fossero consapevoli, non servirebbe il telefono azzurro. Ma a tutt’oggi ci sono adulti che ritengono le punizioni corporali un ottimo strumento di correzione e di formazione del carattere. Ma il timore non educa, fa diventare vigliacchi… Come quasi tutto, e qui i pedagogisti di tutti i tempi concordano, anche il rispetto si insegna se lo si dà, con il buon esempio. 9 Marzo 2008. L’insegnante viene allontanata. Le mie riflessioni le faccio con dolore, con il dolore di chi ha speso una vita dalla parte dei bambini e si è illusa che certe conquiste fossero nel tempo diventate patrimonio universale. Non è così perché ci sono ancora persone che scambiano la violenza con la fermezza, l’autoritarismo con l’autorevolezza, che misurano la riuscita di un metodo educativo con l’obbedienza assoluta e dimenticano che anche l’obbedienza in sé non può mai essere un obiettivo. Anzi, se la disciplina è necessaria, l’unico metodo per conseguirla è saper convincere i bambini propri o degli altri, non fa differenza, che le regole che si sono elaborate per un fruttuoso svolgimento delle attività scolastiche, sono state studiate per loro e non contro di loro. Che qualunque cosa ha una spiegazione logica e che loro, i bambini per cui si lavora, hanno tutto il diritto di conoscerne le ragioni. Così soltanto potranno capirle e condividerle. Che è sempre meglio che temerle.
Anna Lucchiari
LASALLIANA
Ricerche • Studi • Note
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Leone di Maria, FSC (1892 - 1969) José J. Rodríguez Medina, FSC (1926 - 1984) Caminos para compartir carisma y misión en la educación
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RivLas 76 (2009) 1, 123-138
Nel 40° della morte
Leone di Maria,
FSC (1892-1969)
Marco Paolantonio
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ato a Torino il 26 settembre 1892, Teresio Napione, in religione fr. Leone di Maria, morì a Genova il 26 febbraio di quarant’anni fa, stroncato da un infarto, il terzo. Dai precedenti si era rimesso seguendo con scrupolo le prescrizioni dei medici, determinato però a riprendere gradualmente la consueta intensa attività. L’ultimo lo colse sul lavoro che aveva ripreso a ritmo sostenuto, non certo presago di ciò che l’attendeva. A Genova si era recato infatti per una serie di visite a istituti iscritti all'Associazione Educatrice Italiana di cui era consigliere associato; solo quattro giorni prima aveva scritto al direttore della casa editrice A&C per aver notizie sulla riedizione di un testo per i corsi superiori scritto in collaborazione con don Pippo Gallesio; in quella lettera comunicava anche la notizia dei decisivi progressi fatti dalla causa di beatificazione di fr. Mutien-Marie Wiaux da lui patrocinata presso la Santa Sede1. E’possibile veder riassunte in queste ultime vicende alcune delle caratteristiche salienti dell’esistenza di fr. Leone: apostolato sul campo, preparazione culturale specifica, disponibilità e attitudine per compiti di particolare impegno. Ad esse vanno aggiunte una schietta adesione alla vita religiosa e una particolare vocazione per la catechesi. 1
Le notizie provengono in gran parte dalla biografia scritta da fr. Agilberto Gatti: Il Fratello
Leone di Maria delle scuole cristiane, Ed. A&C, Milano 1970, pp. 239.
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Sono gli aspetti posti in luce dal superiore generale della Congregazione dei Fratelli Charles Henry Buttimer nel marzo 19692. Precisato che i suoi contributi nascono sulla scorta di elementi appurati in un decennale lavoro condotto in stretta collaborazione, prima come pari-grado (Assistente eletto nel Capitolo del 1956), e dal 1961 come suo superiore, fr. Charles Henry tratteggia per sommi capi la biografia ‘professionale’ di fr.Leone. Inevitabili, ma comprensibili, i toni della celebrazione, sotto i quali non è però difficile individuare gli autentici valori che tutti coloro che hanno frequentato fr. Leone gli riconobbero e gli riconoscono. Fratel Leone è stato un religioso profondamente devoto al Fondatore della sua famiglia religiosa, un appassionato studioso del pensiero e del carisma di s. Giovanni Battista de La Salle (...). E’ stato un educatore eminente. Conosceva molto bene le fasi dell’apostolato educativo. Professore ben preparato dagli studi universitari a educare i giovani e dotato di talenti non comuni per affascinare i suoi uditori e rendere chiaro ciò che spiegava, ha esteso il suo apostolato educativo, scrivendo testi ed articoli, e servendosi della radio e della televisione. Ha preparato gli studenti universitari e i sacerdoti di molte diocesi ad esercitare l’apostolato catechistico con metodo e profondità di dottrina. E’ stato apprezzatissimo dirigente dell’attività dell’Associazione Educatrice Italiana e Ispettore stimato degli insegnanti di Religione nelle scuole d’Italia. (...) Nel suo ambiente religioso è stato il principale esponente dei migliori metodi e il dinamicissimo leader del movimento catechistico fra tutti i Fratelli italiani, certamente i Fratelli più capaci dell’Istituto in questo apostolato. Pochi educatori hanno vissuto una vita professionale e apostolica così intensa. Esimio educatore, è stato molto fiero della sua professione e del suo apostolato che ha esercitato con straordinaria dignità.
‘Fratello’ per autentica vocazione Per Jean-Baptiste de La Salle il Fratello delle Scuole cristiane è un religioso laico che guarda alla realtà con l’ottica del Vangelo (spirito di fede) ed è mosso da vera passione educativa (spirito di zelo). Fr. Leone sotto quest’aspetto fu un lasalliano esemplare, seguendo un cammino che lo portò prima a essere allievo dei Fratelli del Collegio S. Giuseppe di Torino (1898-1904), poi ‘piccolo novizio’ (alunno del seminario minore), in seguito novizio (1907-1908) e studente dell’istituto magistrale. Diplomato maestro elementare ebbe come prima destinazione professionale l’Istituto Gonzaga di Milano. In questi anni di formazione, fondamentale fu l’incontro con persone di spiccata personalità. Per fr. Leone si trattò innanzitutto di due zii - fr. Leone e fr. Luigi Gonzaga, - che avevano abbracciato la vita del Fratello - e. fra gli altri, fr Candido Chiorra, educatore e catecheta eminente, fr. Amedeo Frascaroli, di una spiritualità profonda e serena, fr. Benedetto Colongo dirigente scolastico di rara competenza professionale
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Intervista concessa a fr. Manlio Bernardini per l’annuario Piazza di Spagna del Collegio S.Giuseppe-Istituto De Merode di Roma, 1969.
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Anche per questi contributi fr. Leone fu un estimatore convinto e apostolo entusiasta della ‘bella vocazione del Fratello’, alla quale dedicò la vita con generosa coerenza. E al Fratello dedicò pagine commosse fino al lirismo3: So troppo bene perché il Fondatore volle che il mio tempio sia solo la scuola, mio altare la cattedra, mio rito la saggia alternanza dei vari compiti educativi...E’ che non si fa bene se non una cosa sola: quella che ci riempie l’anima; è che tutta la mente e tutto il cuore e tutta la vita sono scarsi per rendersi atti al compito sublime dell’educare! E guai se altri sogni, altre mete, altri impegni, altre seduzioni di opere apparentemente migliori o più lusinghevoli vengono a disputare tempo e pensieri! Vorrei saper cantare il sapiente divieto a noi fatto dal Padre Fondatore di adire agli ordini sacri... Fratello! (...) Ancora io penso che questa nostra formazione, tra sacra e profana, più umanistica che seminaristica, questo nostro stato medio tra l’uomo di chiesa e l’uomo di mondo, ci fa più particolarmente atti a trattare con i figli del secolo. Essi sentono che, in generale, più facilmente noi parliamo il loro linguaggio, comprendiamo i loro problemi che sono in parte i nostri; ci accostiamo alle loro anime come veri compagni di viaggio, avviati a mete fra loro più somiglianti. Non è per questo che così facilmente ci si intende con i ragazzi, i bimbi delle prime elementari o studenti di liceo o di università...Non è per questo che gli uditori più varii, da un’accolta di giovani seminaristi a un gruppo d’insegnanti provetti, gustano come una leccornia sostanziosa qualche lezione o conferenza che possano carpire a un Fratello nelle materie di sua specifica competenza, il più spesso catechistica e pedagogica?
Coerentemente, volle firmare con il nome di religioso tutte le sue pubblicazioni e veder presentate le trasmissioni da lui curate alla Radio Vaticana. Esemplare come religioso fu anche sotto le armi. Richiamato dal 1917 al 1919, prestò il suo servizio a Vercelli, trascorrendo nella Comunità dei Fratelli di quella città tutto il tempo libero dalla sua mansione di addetto alla assistenza.
Insegnante e agiografo Come insegnante, prima di scuola elementare poi in quella secondaria di primo e di secondo grado, fr. Leone lavorò dal 1911 al 1916 all’Istituto Gonzaga di Milano, poi per una ventina d’anni nel ‘suo’ Collegio San Giuseppe di Torino, dove ricoprì anche la carica di direttore e preside. Una ‘gavetta’ di sicura valenza, coronata da lusinghieri risultati attestati dagli ex-allievi, premessa e garanzia di competenza per le lezioni e le conferenze che lo avrebbero reso popolare in numerose diocesi italiane come esperto di catechesi. La sua seconda vocazione, posta sempre al servizio dell’insegnante educatore, fu quella dello scrittore. Nell’Elenco delle pubblicazioni d’un cinquantennio (19181968)4, è lui stesso a disporre in ordine cronologico gli scritti a stampa di cui è autore. Sono 35 pagine, divise in cinque sezioni: 37 opere (pubblicazioni a stampa supe-
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La mia bella vocazione di Fratello, 2 edizioni italiane, A&C, Torino 1945, pp. 24 e Bassano del Grappa, 1957, pp.30. Traduzioni in castigliano (1946, 1949) e portoghese (1959). La citazione è alle pp. 15-18, passim. 4 Casa Generalizia FSC, Roma 1969, pp. 35. Sapida la postilla al titolo: ...ovverossia la ‘Fiera delle vanità’.
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riori alle 50 pagine, di norma con più edizioni), 28 opuscoli; 19 inserti fra scritti altrui (articoli per enciclopedie e antologie tematiche); 408 articoli, recensioni e prefazioni. Un complesso di oltre 15mila pagine, alle quali ne vanno aggiunte altre mi-
gliaia manoscritte, contenenti appunti, schemi per conferenze e lezioni, sunti, crestomazie, poesie e racconti conservati nei 15 faldoni che è possibile consultare nell’archivio dell’ex-provincia FSC di Torino. Le prime due pubblicazioni hanno caratteristiche a sé stanti. La santa battaglia5, particolarmente cara a fr. Leone, raccoglie le ‘riflessioni’ che tenne quotidianamente in una terza tecnica dell’Istituto Gonzaga nell’ultimo trimestre dell’anno scolastico 19161917. Più volte ristampata, nel 1942 aveva superato le 30mila copie. La Fortuna di Châteaubriand nella letteratura e nell’arte italiana6 presenta i più importanti capitoli della tesi di laurea ottenuta con lode e dignità di stampa. Se la prima pubblicazione anticipa una scelta di campo (educativo-catechistica), l’altra rivela il gusto per la cultura letteraria cui fr. Leone avrebbe potuto dedicarsi con esiti sicuri e di cui conservò sempre le caratteristiche: un’esegesi calata in una scrittura limpida, vivace, lessicalmente copiosa. Ne fanno fede le 45 briose composizioni per feste religiose, civili, varie: i Dialoghi del mio collegio. E altri7 La produzione che meglio ne qualifica gli apporti ha inizio nel 1930, quando esce la biografia Fratel Enrico di Gesù8. Pone in luce l’attitudine di fr. Leone a farsi tramite fra i lettori e i ‘santi’ vissuti alle prese nella quotidianità degli impegni e dei rapporti. Seguiranno nel 1939 la biografia di Aldo Marcozzi, alunno esemplare9, e nel 1956 Fratel Teodoreto, fondatore dell’Unione Catechisti del Ss.mo Crocifisso10. Sono scritti accomunati dalla curiosità reverente di chi intende scoprire e far conoscere le formule di una perfezione cristiana ‘feriale’, cioè esemplare proprio perché alla portata di tutti. Si inseriscono con naturalezza fra le motivazioni per cui fr. Leone accetterà nel 1937 l’incarico a Postulatore delle cause di beatificazione presso la Santa Sede. Nella vita di fr. Enrico si legge: Queste pagine sono destinate a tutti coloro che godono di ammirare le perfezioni di Dio riflesse nelle anime più belle da Lui create; ma anche più direttamente potranno interessare chi conobbe, amò, ebbe parente, discepolo o maestro il Fratello Enrico, e in particolare i giovani religiosi, ai quali non è esagerato dire che in lui si possono specchiare come in un esemplare di bella perfezione. Gli studenti pure vi troveranno un ambiente noto, perché il Fratello Enrico visse per tanti anni fra ansie di studi e di pubblici esami, e nell’insegnamento spese poi il tempo migliore della sua esistenza. (...) Il libro non è dunque destinato a coloro che amano i fatti vistosi, la cinematografia a colori, gli spettacoli a continui mutamenti scenici; bensì a chi abbia lo sguardo profondo abbastanza per discernere il mutare dell’anima che si colora di sempre nuova bellezza, pur nel monotono scorrere delle umili occupazioni quotidiane (pp.8-9). 5
Tip. Artigianelli, Monza 1918, pp. 118. Paravia, Torino 1928, pp. 118. 7 Editrice A&C, Torino 1938, pp. 320. 8 Due le edizioni: La Palatina, Torino 1930, pp. 334, e LICE, Torino 1930, pp. 312. Seguiranno una traduzione francese nel 1934 e una riduzione per la gioventù, Pompei 1960. 9 A&C Torino, 1938, pp. 320. L’opera avrà almeno quattro riduzioni e ristampe. 10 A&C, Torino 1956, pp. 366. 6
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Nella ‘giustificazione’ che introduce la biografia di Aldo Marcozzi fr. Leone regola il registro espositivo colloquiale sul gusto per la novità e l’impegno degli adolescenti cui è rivolta. Vi si coglie anche l’eco dell’intensa attività di conferenziere che lo caratterizzò e lo rese assai noto: ...questa non vuol essere una biografia, o, per lo meno, non una biografia come le altre: né ordine cronologico, né pretesa di completezza, né, meno che mai, intenzione di far concorrenza alla bella biografia scritta da P. Rigattieri, e al profilo dell’aspirante, così ben tracciato dal Negroni, che corrono ormai il mondo, tradotte in almeno sette lingue... che neppur tante ne avete voi nelle ore di maggior chiacchiera (...). Questo profilo mi è nato vivo sul labbro, nel fervore delle commemorazioni decennali da me tenute davanti a un pubblico sempre vario ma sempre vibrante di belle accolte giovanili, a cominciare dai Mille del ‘Gonzaga’ di Milano e via via agli alunni di Torino, Genova, Roma, Napoli, Catania: di tutta Italia, per farla breve (...). Nato vivo dalla viva voce, lo voglio vivo per sempre, scrivendo di lui tal quale come se ne parlassi, e voi mi foste tutti intorno ad ascoltare (pp. 9-10).
Scrive la biografia di fr. Teodoreto per una preoccupazione ‘professionale’: “ Quando vidi che, dopo alcuni mesi, nessuno si era accinto al lavoro, sentii, come Postulatore, il dovere d’impedire un ritardo, che avrebbe potuto compromettere in partenza una delle Cause più belle e promettenti. (...) Mi persuase al compito anche il pensiero di poter presentare, in un Confratello da me conosciuto, e per esempio a tutti i Fratelli del mondo, quella realizzazione dell’ideale lasalliano ch’io pure ho vagheggiato, senza saperlo ben tradurre in pratica di vita...Chissà che questo mi valga anche un poco a riparazione” (p. 3).
Direttore e preside, Postulatore, Ispettore nazionale, Assistente generale In spirito di servizio fr. Leone esercitò la mansione di superiore in vari gradi. Nominato Direttore e preside al Collegio S. Giuseppe di Torino (1933 al 1937), commentava così ai suoi familiari la “promozione”: Carissimi tutti, rallegratevi pure, ma intanto rassegnatevi a non vedermi più che di sfuggita, a non venirmi a trovare se non dopo domanda su carta bollata da £ 5. E forse ora non siete più contenti come prima! Già, perché tutti mi dicono che sono tanto contenti, ma nessuno mi chiede se sia contento del pari anch’io. Non mi lamento però. Non ho cercato la carica, mi fu addossata. Il Signore mi aiuterà a portarla. Dopo tutto si allarga il campo nel quale portò fare tanto bene, e non me ne manca il desiderio (Lettera ai familiari, 29 settembre 1933).
Da Postulatore per le cause dei santi presso la santa Sede (dal 1937 alla morte), ebbe la soddisfazione di vedere dichiarato prima beato (1948) poi santo (1967) fr. Benildo Romançon; di ottenere che il de La Salle venisse riconosciuto celeste Patrono di tutti gli educatori cristiani (1950); di veder avviate a conclusione le cause di beatificazione dei Fratelli Mutien-Marie Wiaux, belga, e Miguel Febres Cordero, equatoriano. Consigliere aggiunto della Associazione Educatrice Italiana (dal 1937 alla morte), successe al fondatore, fr. Alessandro Alessandrini, proseguendone l’attività universalmente stimata. E al fr. Alessandro subentrò anche come Ispettore dell’insegnamento della
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religione nelle scuole statali (dal 1943 al 1952)11. Maturò anche in quella mansione l’esperienza e il prestigio che gli valsero tra l’altro l’incarico delle Conversazioni religiose per adulti alla Radio Vaticana (1950). Nel carteggio cui è possibile attingere non mancano documenti che escono dai binari del freddo rapporto burocratico12.
Eletto Assistente del superiore generale, scriveva ai suoi di casa: C’è che ieri il Capitolo Generale ha avuto la discutibile idea di nominarmi Assistente generale per tutta l’Italia. Dicono che sia salire di un gradino, e pare che sia vero, gerarchicamente parlando. Nella realtà significa andare incontro a preoccupazioni, problemi di difficile soluzione e altri guai del genere.(...) Non avendo scelto da me, essendo vincolato da un voto d’obbedienza che intendo osservare in tutte le sue esigenze, non ho che da farmi coraggio e camminare. (...) Il primo giorno totale di nuova carica è quello sacro alla Madonna Ausiliatrice. Lo prendo come segno di buon augurio (Lettera ai familiari, Roma, 24 maggio 1956).
Non si può dunque dire che gli impegni mancassero. Non vi si sottrasse mai, perché realmente convinto di ciò che soleva dire: Quando avete bisogno di un servizio, anda-
te a chiederlo a chi è già molto occupato. Siate certi che troverà tempo anche per voi”. Fu il suo programma di vita, attuato con tratto signorile e sincera cordialità:
Aveva il culto dell’amicizia: incontrato una volta, non dimenticava più. Una cartolina, un cenno, un saluto recato da parte di persone ch’egli incontrava, un complimento per un articolo, una citazione pertinente nei suoi saggi: sapeva ‘legare’ gli uomini col vincolo del cuore e dell’intelligenza. Vedeva il ‘buono’ ovunque era presente e lo manifestava a tutti dove lo scopriva. Non era uomo che patisse il disturbo dell’ombra altrui. Ottimista al cento per cento, riuscì a incoraggiare e orientare sulla via della catechesi e dell’educazione numerosi giovani seminaristi, incontrati nei convegni ch’egli tenne nei seminari diocesani e regionali. Credeva negli uomini di buona volontà13.
Catechista, catecheta e animatore di catechisti Per rispondere alle esigenze del contesto socioculturale in cui è inserita, la catechesi deve assumere linguaggi e gerarchie di temi adatti ai tempi e alle persone cui si rivolge. Premessa necessaria per valutare nella corretta prospettiva storica i caratteri dell’attività catechistica di fr. Leone. L’aspetto oggi più evidente è costituito dalle pubblicazioni, ma per avere un’idea dell’azione svolta da fr. Leone, vanno considera11
Fr. Anselmo Balocco racconta e documenta l’attività di entrambi in I due Ispettori Nazionali per l’insegnamento religioso nelle scuole statali italiane, in Rivista lasalliana 41 (1974) 4, 227-
296. Annota anche che furono gli unici due a rivestire questo incarico nazionale nella storia della scuola italiana. L’articolo si avvale dei numerosi manoscritti conservati al Centro studi per l’Educazione religiosa “Fr.Leone di Maria”, presso l’Archivio del Centro La Salle, strada S.Margherita 132, 10131 Torino. 12 Nell’ottobre del 1951, ad es., l’allora ministro della P. I. Antonio Segni scriveva: Reverendo
Fratel Leone, ho apprezzato molto le Sue pubblicazioni catechistiche, che Ella ha voluto cortesemente inviarmi. Esse, particolarmente utili per gli insegnanti di religione, rappresentano un’ulteriore prova dell’amore che Ella pone nell’adempimento della propria missione. La prego di gradire i sensi della mia più alta considerazione. 13
Silvio Riva, Come ho conosciuto Fratel Leone, in Sussidi per la catechesi,1971,6-7, p. 383.
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te anche gli innumerevoli incontri - corsi, conferenze e conversazioni, lezioni pratiche - tenuti in tutta Italia nell’arco di quarant’anni. Come non va dimenticato che con fr. Leone, e per suo merito, la Provincia religiosa di Torino vive il periodo più intenso di un’azione catechistica che si irradia in tutta Italia con le pubblicazioni dell’editrice Sussidi, gli scritti, le conferenze e le lezioni dei Fratelli Anselmo Balocco, Remo (Giuseppe Re), Beniamino Bonetto, Eusebio Battezzati, Agilberto Gatti, Giovannino Verri, Mansueto Guarnacci, Alberto di Maria... Fu infatti l’ideatore, il fondatore, e per più di vent’anni la guida, della Commissione Catechistica Lasalliana (poi denominata Centro Catechistico Lasalliano e, dal maggio 1969, Centro Catechistico ‘Fratel Leone di Maria’14). Nata il 26 aprile 1942 a Erba, la CCL si suddivise in due gruppi operativi nelle Province religiose di Torino e Roma. “E fu così che circa una ventina di Fratelli - ricorda il biografo15- seguendo le orme del loro caposcuola, si diede con ampiezza di prestazioni all’apostolato del catechismo, accogliendo le istanze dei Vescovi e di centri catechistici vari. Stando ai dati forniti dagli ‘Atti’ della CCL (cf. Rivista lasalliana 1942, 3, pp. 200-202), quegli apostoli della catechesi operarono, in media, 1500 interventi all’anno16, interessando sacerdoti, insegnanti di religione, religiosi, religiose, catechisti laici, maestri elementari, genitori cristiani, membri di AC, e percorrendo ogni regione d’Italia, dalle Alpi alla Sicilia”. Tra i più importanti effetti che quest’azione massiccia e capillare ci fu il potenziamento della rivista Sussidi per la catechesi e la pubblicazione di tutta una serie di testi didattici per l’istruzione catechistica per ogni ordine di scuole, varie collane di scienze collaterali alla catechesi. Non potevano mancare autorevoli attestati di stima per il lavoro svolto. Il 10 maggio 1952, decimo anniversario della costituzione della CCL, ricevuti in udienza particolare da Pio XII, i Fratelli intervenuti si sentirono esortare: “Continuate il vostro apostolato, cari Fratelli, continuate: la Chiesa ne ha bisogno”. Concetto meglio esplicitato dalle parole che l’allora Segretario di Stato mons. Giovanni Battista Montini faceva giungere a fr. Leone: Il ben ordinato e ben distribuito lavoro di conferenze e di pubblicazioni che gli esperti propagandisti, da Lei prescelti e guidati, hanno condotto in questo periodo in quasi tutte le diocesi d’Italia, con frequenza e impegno pari all’importanza della causa, è seme che non può non maturare in frutti di dottrina e di vita. (...) Nel compiacersi di così meritevole operosità, Sua Santità nutre fiducia che la sacra crociata non rallenterà il suo ritmo negli anni prossimi, e spera che la brava milizia, dalla S.V. sapientemente sostenuta, non cesserà di proporsi a sempre nuovi successi.17 Parole di stima ribadite il 18 maggio 1965, quando, ricevendo i redattori della rivista Sussidi per la catechesi nel 30° di fondazione, mons. Montini, divenuto Paolo VI, ebbe a dire, rivolgendosi a fr. Leone e ai membri della CCL:
14 15
Rivista lasalliana, 38 (1971) 1, 3-13.
Agilberto Gatti, op. cit., pp. 146-147. Nella relazione citata alla nota 14, pp. 7-10, si precisava che le conferenze catechistiche tenute dai Fratelli delle due Province tra il 1959 e il 1970 furono 19.286. 17 Biografia cit., pp. 148-149. 16
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Salutiamo voi, diletti Fratelli delle Scuole cristiane che partecipate a questa udienza in occasione del 30° anniversario di vostre riviste pedagogiche e catechistiche18. La festività liturgica del S. Fondatore, celebrata alcuni giorni fa, dà a questo incontro una particolare importanza di letizia e di riconoscenza. Ne prendiamo l’avvio per attestarvi la nostra stima e la nostra benevolenza per l’opera che svolgete per la formazione intellettuale, religiosa e morale della gioventù.19
Due anni dopo, il 12 gennaio 1967, a nome della Conferenza episcopale italiana, mons. M. Castellano, allora presidente della Commissione per la catechesi, scriveva a fr. Leone Morelli, assistente dei FSC per l’Italia: La Commissione episcopale per la catechesi, che ho l’onore di presiedere, desidera esprimere alla S.V. la viva riconoscenza e la considerazione più attenta per quanto i Fratelli delle Scuole cristiane hanno fatto e vanno facendo in Italia nel settore della catechesi. Ci è particolarmente nota l’attività preziosa e costante che il Centro Catechistico Lasalliano e la rivista Sussidi svolgono da anni al servizio delle diocesi, del clero, dei catechisti parrocchiali. Dall’Ufficio catechistico nazionale, inoltre, abbiamo avuto ampia documentazione del generoso contributo di pensiero e di azione che alcuni Fratelli hanno prestato nel passato quinquennio, mentre l’Episcopato italiano avviava lo studio e il coordinamento dell’attività catechistica. Desideriamo per questo ringraziare vivamente i reverendissimi Fratel Leone di Maria, Fratel Anselmo e Fratel Agilberto.20 Giovanni Paolo I, lui stesso catechista convinto, fu un grande estimatore di fr. Leone e dei Fratelli specialisti di catechesi: Á partir du temps où il fut Vicaire général du diocèse de Belluno, il aimait inviter quelques Frères pour les Journées catéchétiques diocésaines. Dès qu’il fut nommé évêque de Vittorio Veneto, il les invita encore plus souvent. Il professait une vraie vénération pour le Fr. Leone di Maria; récemment, il demanda toutes les publications de ce grand apôtre de la catéchèse.21
Rivista lasalliana pubblica alcuni scritti di papa Luciani, in cui, prima da sacerdote in-
caricato di convegni catechistici, poi come vescovo di Vittorio Veneto, infine come patriarca di Venezia, esprime la sua stima cordiale per fr. Leone e la sua équipe di esperti che puntualmente invita ai raduni catechistici22. Autorevole e significativo l’apprezzamento espresso da mons. Aldo Del Monte (1915-2005), uno dei protagonisti di spicco del rinnovamento catechistico postconciliare nella Chiesa italiana, e direttore allora dell’Ufficio catechistico nazionale:
18
Il papa si riferiva anche a Rivista lasalliana, che aveva di poco superato il traguardo dei trent’anni di vita. 19 Biografia cit., p. 149. 20 Biografia cit., p. 150. 21 La Salle Intercom, settembre 1978. 22 Alla fine del 1968 scrive: Rev. Fratel Leone, sento con piacere che la Sua salute va beni-
no. La ricordo volentieri al Signore, perché possa continuare così. Tanto più che ciò dovrebbe servire per la buona causa di Fratel Benildo. Di essa causa ricordo sempre il ‘pugno’ battuto sul tavolo da Pio XI in occasione delle obiezioni avanzate circa le correzioni usate a scuola! Con sensi di viva stima, dev.mo A. Luciani, vescovo. In “Giovanni Paolo I e i Fratelli delle Scuole cristiane”, Rivista lasalliana 45 (1978) 3-4, pp. 147-149. Il ricordo di fr, Leone e l’utilità dei
suoi scritti sono presenti nella breve nota del 4 marzo 1978 indirizzata a un altro noto catecheta e membro della CCL, fr. Anselmo Balocco (1910-1995):…scusandosi di essere stato in-
discreto, ringrazia vivamente per i volumi del venerato Fr. Leone di Maria. A. card. Luciani.
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Il pensiero e l’opera di Fr. Leone di Maria costituiscono un patrimonio comune alla catechesi italiana e se ne dovrà tenere conto quando si vorrà scrivere compiutamente la storia della catechesi in Italia.23
Studioso e saggista di pedagogia religiosa Conoscitore di almeno altre tre lingue (francese, inglese spagnolo) che gli consentirono di intervenire e di contribuire personalmente e con successo a congressi, giornate e convegni catechistici in Spagna, Inghilterra, Irlanda, Belgio, Malta, fr. Leone era noto in Italia per la non comune capacità di comunicare a voce. Piaceva l’eleganza della sua parola controllata, la chiarezza dell’esposizione, l’impostazione generale della lezione o della relazione che, quando gli era possibile, schematizzava alla lavagna. Con sapida arguzia, sapeva alleggerire con aneddoti e citazioni anche le trattazioni più impegnative24. Già si è accennato a quanto questa attività sia stata varia, vasta e qualificata, tale da suscitare l’ammirazione stupita degli addetti ai lavori. Silvio Riva osservava: La sua attività rasenta dimensioni colossali: istituzioni, iniziative, corsi, insegnamento, incarichi, ispirazione all’insegnamento della religione, scritti, convegni, viaggi di studio, impegni e uffici superiori nella sua congregazione.25
Possiamo raccogliere le opere a stampa (l’elenco è quello di fr. Leone, non tiene quindi conto di edizioni successive al 1969) sotto tre ‘etichette’: agiografia (di cui già si è detto), testi per l’insegnamento della religione, saggi di catechetica. Doveroso infine l’ accenno alla collaborazione che l’autore stesso qualifica in inserti in scritti al-
trui, articoli, recensioni e prefazioni.
Testi per l’insegnamento e saggi didattici - Eucarestia e Penitenza, AVE, Roma 1940, pp. 128 e guida didattica, pp. 160. Estrema Unzione, Ordine, Matrimonio, 1941, pp. 128 e guida, pp. 160. - La Fede, ivi, 1942, pp. 128 e guida, pp. 160. - La Morale, ivi, 1943, pp. 128 e guida, pp. 160. - La Chiesa - Battesimo e Cresima, ivi, 1944, pp. 128 e guida, pp. 16026. - Gesù: Via, Verità e Vita. Guida pratica per le Venti lezioni integrative, CENAC, Roma 1951, pp. 144; ²1954, pp. 152.
23
Cf. Biografia cit., p. 124, dove si precisa che le parole furono pronunciate alla Domus Mariae in Roma, in occasione della commemorazione di fr. Leone, presenti i membri del Consiglio catechistico nazionale e i Superiori della Congregazione. 24 Fr. Leone stesso ricorda (in Metodi e forma dell’insegnamento religioso, p. 73) come nel corso di una conferenza all’Università Cattolica riuscì a strappare al cardinal Schuster una risata (davvero inconsueta) allorché, imitando l’incauto secentismo di certi catechisti, paragonò le anime del purgatorio alle castagne bruciate “nere e fumigose all’esterno, mentre dentro appaiono bianche e buone; avvolte dal fuoco, ma nell’intimo buone e care a Dio” 25 La pedagogia religiosa del Novecento in Italia, Antonianum-La Scuola,Brescia 1972, p.218. 26 Di questi 5 volumetti, scritti per la Gioventù maschile di A.C. venne fatta un’altra edizione da Vita e Pensiero, Milano, con le opportune varianti, per la Gioventù femminile di A.C. Di ogni volume delle due serie si fece per lo meno una ristampa (annotazione di fr. Leone).
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- Dialoghi per feste catechistiche e religiose, Sussidi, Erba 1952, pp. 170 (alcuni, debitamente adattati, provengono da Dialoghi del mio Collegio, A&C, Torino 1938). - Conversazioni religiose alla Radio Vaticana. 3 volumi: Il Dogma, Sussidi, Erba 1953, pp. 248; La Morale, ivi, 1954, pp. 171; La Grazia, ivi, 1955, pp. 268. - Per un mondo migliore. Corso di teologia per giovani liceali, in coll. con F. Gallesio,
in 5 volumi, ciascuno con Guida didattica e Letture per gli alunni, A&C, Torino 1953-54. (Tutti i testi sono giunti alla quarta edizione, ogni volta rinnovati). - Dialoghi per feste catechistiche e religiose, Sussidi, Erba 1952, pp. 170. - Bibbia e Catechismo, in coll. con Antonio Coiazzi, Sussidi, Erba 1954, pp.120. - La carità nella vita sociale, AVE, Roma 1945, pp 112. - I santi angeli, Sussidi, Erba 1946, pp. 76. - La scuola e l’Anno Santo, Movimento Maestri di A.C., Roma 1949, pp. 68 - Saggi di catechesi ai piccoli, Sussidi, Erba 1951, pp. 154; ²1967, pp. 168 (trad. in castigliano, Madrid 1961). - Saggi di catechesi ai giovani, Sussidi, Erba 1951, pp. 260; ²1959, pp. 268 (trad. in castigliano, Madrid 1961).
Saggi di Catechetica - La missione del catechista - sue doti - la sua parola, A&C, Torino 1939, pp. 96.
(successive edizioni 1944 e 1955). - Invito a conoscere il fanciullo, Ancora, Milano 1946, pp. 76; ²1950, pp. 100. - Metodi e forme dell’insegnamento religioso, Sussidi, Erba 1951, pp. 240; ²1954. - L’educazione religiosa del bambino, La Scuola, Brescia 1953, pp. 128 (5 edizioni). - Guida pratica per gl’Ispettori di Religione nella scuola elementare, Sussidi, Erba 1955, pp.96; ristampa 1956.
Scritti minori e di collaborazione
Come si è detto, le prime 6 pagine dell’Elenco riguardano le opere a stampa superiori alle 50 pagine; gli scritti minori sono elencati in altre 29 fittissime pagine. ! Opuscoli: 13 operette dedicate a personaggi (fr. Enrico di Gesù, Aldo Marcozzi, Fratel Candido Chiorra), a circostanze speciali (anniversario della Conciliazione, Giubileo), alla didattica catechistica. ! Inserti: 19 contributi per enciclopedie, atti congressuali, opere di autori diversi. ! Articoli, ulteriormente suddivisi: - per riviste di tipo lasalliano: 38 scritti, comparsi sul Bulletin des Écoles Chrétiennes, Rivista lasalliana (Torino), Messaggero lasalliano (Roma), Almanacco lasalliano (Torino), Ascendere (Erba); - per riviste catechistiche e pedagogiche: 124 scritti, 96 per Sussidi (metodologia e didattica, medaglioni di catechisti insigni, lezioni pratiche, argomenti vari, per la scuola materna); 24 per la rivista del Centro salesiano Catechesi; altri per Lumen vitae (Bruxelles), Rivista del Catechismo, Via verità e vita, Docete, Scuola italiana moderna, Revue pédagogique (Malonne), Report of the 7th educational conference,.. - per riviste religiose e di Azione cattolica: 67 articoli, fra i quali 7 per l’Osservatore romano e l’Osservatore romano della domenica (l’a. scrive al proposito di non aver condotto a fondo la ricerca, che avrebbe richiesto la consultazione di trenta annate, chiosando ‘le jeu ne vaut pas la chandelle’); - per riviste di istituzioni lasalliane: 107 articoli e saggi, composti per Vita sociale (Collegio S. Giuseppe, Torino), Parola amica (La Marmora, Biella) e i bollettini delle scuole lasalliane di Giaveno, Biella, Piacenza, Parma.
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! Recensioni e prefazioni: 72 scritti per Rivista lasalliana, Sussidi per la catechesi, Catechesi e volumi di autori diversi.
Idee portanti Opportuna una rassegna rapida ma non sommaria di alcune delle idee fondanti. 1. Il ‘diorama dei metodi’ - “E’ lecito parlare di un metodo ideale? E’ sempre lecito mirarvi
almeno come a un ...ideale! E quale sarà?...All’incirca quello intravisto da Tolstoi quando dichiarava che il vero metodo è di averli tutti. E cioè: più in alto del conflitto fra i vari metodi, nell’armonia raggiunta col togliere da ognuno di essi ciò che ha di meglio, e fonderlo in salda unità, secondo il proprio stile e la sensibilità propria, con aderenza perfetta ai bisogni degli alunni, senza esclusione preconcetta di nessun metodo, senza dedizione cieca ed esclusiva a nessun altro, con piena libertà di spirito. Direi ideale quel metodo che, serbata sempre l’adeguazione pratica alle esigenza dell’uditorio, dal momento liturgico al momento psicologico, proceda in modo prevalentemente induttivo, sollecitando la massima attività e collaborazione degli alunni, valendosi di tutti i mezzi d’intuizione adatti al caso: usando all’occorrenza un procedimento deduttivo; così come profittando delle ottima suggestioni dei metodi detti storico, evangelico, liturgico, eucaristico; e senza rifiutare dal morto e rimorto metodo mnemonico ciò che di solo buono contiene, cioè l’assicurare alla memoria le formule fondamentali, chiarite bene da spiegazioni precedenti. Una specie di eclettismo, insomma? Proprio. Il Maestro Divino ha fatto precisamente così: prevalenza di induzione, senza escludere in vari casi la deduzione27; attività sempre sollecitata da tutti o parte degli uditori; uso pressoché continuo dei mezzi di intuizione; richiami frequenti ai fatti della storia biblica; ripetizione voluta dei concetti fondamentali che gli premeva si incidessero nella memoria di tutti (preghiera...carità...culto interno).[da Metodi e forme dell’insegnamento religioso]
La didattica - Lo studio e il perfezionamento della metodologia didattica disciplinare -
nel nostro caso della catechesi - costituirono l’assillo e rappresentano il merito maggiore di fr. Leone. Ne scrisse e ne parlò in innumerevoli occasioni, fra l’altro tenendo ai catechisti - non di rado alla presenza di gruppi di allievi - lezioni pratiche di suadente efficacia. A titolo d’esempio esaminiamo, in Saggi di Catechesi ai giovani, il procedimento adottato per prima lezione: L’esistenza di Dio. Nota didattica. Una lezione sull’esistenza di Dio, quando non voglia limitarsi alla pura e semplice affermazione: Dio è, e alla spiegazione dei termini, assume di per sé un’intonazione apologetica. Ma trattandosi di Scuola Media, mi pare che l’impalcatura apologetica sia da mascherare quanto è possibile, rinunciando a tutta la terminologia scientifica, bagaglio precoce e in gran parte inutile, e limitandosi alle prove di più immediata comprensione, in forma intuitiva e popolare. Per due ragioni: 1. perché non sembri che dubitiamo dell’adesione dei nostri alunni alla primissima verità del Simbolo; 2. perché usando un linguaggio ed un procedimento filosofico con giovinetti che non hanno preparazione adatta, si risolve in un abuso da parte nostra; troppo facile, ma poco rispettoso, imporre in un certo modo conclusioni a chi non ha mezzi per accertare la giustezza del procedimento didattico con cui sono tratte dalle premesse. I sottotemi Dio intuìto dal cuore, Dio creatore, Dio artista sono illustrati con esempi e aneddoti. Come stimolo attivo a proposito dell’ultimo l’a. suggerisce al catechista di 27
Vedi ad es. in s. Giovanni al capo X: ‘Io sono il buon pastore’ e, sempre in s. Giovanni, al capo III, versetti 3-5; al capo XV, versetti 10, 13, 16. Sono casi quasi eccezionali, a dire il vero, e non categorici come i suoi procedimenti induttivi.
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far trovare alla lavagna un punto segnato con il gesso; e nella nota didattica che segue, consiglia:
Quest’ultimo argomento, con i piccoli, potrebbe venir drammatizzato: si dovrebbe fare seriamente la parte di voler dare a intendere che il puntino si è fatto da sé, suscitando le proteste degli alunni, per ottenerne la conclusione desiderata. Quanto più efficace procedere così, purché lo si sappia fare bene! La guida prosegue proponendo i sottotemi Dio spirito puro, Dio legislatore, Dio intimo testimonio, Sentire Dio. La nota didattica relativa all’ultimo chiarisce
Si osservi bene se non ci siano occhi che sembrino dire:’Io ho sentito Dio in tale o tal altra circostanza...’ . Si invitino, se hanno caro, a rifare la situazione, a tentare di esprimere se stessi subito a voce o, dopo, per iscritto... Un momento così dové provare Aldo Marcozzi quella sera che, ammirando in riva all’Adriatico e a fianco di un suo professore uno splendido tramonto, mentre questo esclamava: ‘Che magnifico spettacolo!’, egli, il pio adolescente, mormorava come per sé solo e quasi fuori di sé: ‘Quanto è grande il Signore!. Dio si fa sentire alle anime pure. Si potrebbe dire ai giovani: Manzoni esprime questo pensiero in splendida forma, in uno dei più bei frammenti dei suoi Inni sacri. Chi riuscirà a pescarla la citazione semi-erudita?...E’ una maniera di cavarsela con profitto, quando non si hanno i versi a memoria o la citazione fra le mani (vo’ dire nella propria biblioteca, come ora avviene a me). Ed è attivismo di buona lega...
Dopo aver presentato l’ultimo sottotema, ‘Vivere’ Iddio, che si conclude con l’invito a recitare in piedi la prima delle promesse battesimali, siglata con un ‘credo! -, e dopo aver stimolato la collaborazione attiva (con l’invito ricco di suggerimenti a portare per la lezione successiva una ‘testimonianza’ il più possibile personale sull’esistenza di Dio), la lezione si chiude con una nota finale ricca di annotazioni didattiche e psicologiche: Sarebbe stato troppo facile dare una forma sillogistica alle argomentazioni qui brevemente sviluppate, né sarebbe impossibile farle ritenere con le loro denominazioni tradizionali: la lezione ci avrebbe guadagnato in ordine chiarezza, facilità di riepilogo; ma non si è fatto a bella posta per le ragioni dette innanzi. Dirà qualcuno: dunque una lezione di compromesso! - Rispondo: sì, precisamente, proprio come è opportuno fare per quella età di...compromesso, quando non si è più fanciulli e non si è ancora giovanotti; si è risposto senza darsene l’aria quel dubbio vago sull’esistenza di Dio che può affacciarsi alle soglie dell’adolescenza e si è fornito qualche spunto a difendersi da possibili attacchi. Alcuni argomenti accennati, in verità, sono più poetici che altro; da soli non si sosterrebbero; parlano più alla fantasia e al sentimento che non alla ragione. Non sono però da respingere in modo assoluto: nel ragazzo predominano appunto cuore e fantasia. E l’argomento più debole in sé trova in alcune nature la massima rispondenza. Né si dica che è slealtà procedere così. Trattandosi di verità certa, non è da condannare chi sappia darle ad appoggio, oltre che gli argomenti più validi, anche altri meno perentori: ad abundantiam! Thomas Merton fu colpito dalla...aseità; un adolescente lo potrebb’essere dall’esempio della vallisneria28 citato dianzi! Arte didattica vera e per l’insegnante saper servire a ognuno quel che può giovargli, qual cibum di cui diceva Machiavelli parlando della Storia ‘che solum è mio e che io sono fatto per lui’ (citazione non fatta espressamente per sistemare la sintassi nell’orecchio dei nostri ragazzi!?...).
28
Una delle meraviglie naturali descritte nella lezione per illustrare l’esistenza di un’intelligenza creatrice.
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Anche su Rivista lasalliana29 fr. Leone affronta con frequenza temi e aspetti della didattica in atto, mettendo a fuoco di preferenza i caratteri tipici della ‘scuola di metodo’ che ha inizio con J.-B. de La Salle. Ne sono una sintesi sostanziosa le 24 pagine dei Lineamenti della catechesi lasalliana, che graficamente presenta un dittico in cui
sono da distinguere la cornice e una doppia tela, del Fondatore e dell’Istituto.
La cornice è fatta da operazioni iniziali (preghiera, canto, richiamo della lezione precedente) e operazioni finali (breve riepilogo della lezione data, un frutto pratico, applicazioni alla vita vissuta). La prima tela, opera del Santo, contiene il soggetto (l’argomento, che deve attenersi a un programma, ma deve tener conto delle circostanze liturgiche), i principi direttivi (far comprendere, far ritenere, far praticare), la tecnica (principalmente fondata sul dialogo) La seconda tela, opera dell’Istituto, che non innova nulla quanto al soggetto; per far comprendere dà la preferenza ai procedimenti induttivo-attivi e utilizza tutti gli strumenti didattici ritenuti idonei, ritiene fondamentale la tecnica del dialogo (che, nella scuola secondaria, può avvantaggiarsi dal lavoro a gruppi in fase di problematizzazione, di confronto e di conclusione).
Il catechista - Come si è visto, gran parte dei testi di istruzione religiosa di fr. Leone sono accompagnati da guide didattiche, impostate con chiarezza, ricche di suggeri-
menti, schemi operativi, documentazione. In tutte, espresse nella consueta forma colloquiale, si coglie la preoccupazione per un ancoramento alla dimensione ’metadidattica’ Ti ricorderò che oltre la preparazione intellettuale ti occorre - ed è più importante ancora un’altra duplice preparazione, psicologica e soprannaturale. La preparazione psicologica allinea al primissimo posto l’amore sincero per le anime dei tuoi giovani, poiché i giovani non si lasciano persuadere che dall’amore, il quale inoltre suggerirà a te espedienti ignorati dalla pedagogia pura. Dal punto di vista soprannaturale, ricorda l’unione con Dio, di cui sei luogotenente nel fare l’istruzione religiosa; quindi la piena dipendenza da Lui, con la fede, la pietà, la fiducia, lo zelo...Virtù e atteggiamenti questi che concreterai nel fervido e frequente ricorso ai Sacramenti e alla preghiera.” [dalla Guida a Eucarestia e Penitenza]
Fr. Leone e Rivista lasalliana E’ questa le sede idonea per qualche ultima annotazione. Fr. Leone fu molto legato alla Rivista. L’aveva vista nascere al Collegio S. Giuseppe di Torino proprio l’anno in cui vi era nominato direttore-preside; e vi collaborò anche quando gli impegni si fecero numerosi e assorbenti. 38 i suoi contributi, per un totale di circa 300 pagine, in cui prevalgono i temi legati alla catechesi e alle sue mansioni presso la Santa Sede30. Della Rivista si occupò ex professo nell’editoriale intitolato Trigesimo anno (gennaio 1954) ricco di notizie storiche e di annotazioni personali. Trigesimo anno: due parole che sono il richiamo a un lieto anniversario di famiglia, il 30° anno della nostra Rivista. (...) Un evento, lieto in sé, che coincide, purtroppo, con
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Il Catechismo ‘attivo’ (1937, VII, 1, pp. 144-161 - Le forme dell’insegnamento religioso (1940, XII, 1, pp. 60-76) Lineamenti della catechesi lasalliana (1954, 3. pp. 225-249. 30 Notevole la serie di articoli dedicati al Commento familiare al Decreto Perfectae caritatis per le istituzioni lasalliane, in Rivista lasalliana 1968, 3, 189-229; 1968, 4, 285-318; 1969, 2, 88-112
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l’improvvisa scomparsa del Fratello Emiliano, il quale per 24 anni portò - più lui che tutti gli altri insieme - il peso della Rivista (...) Il primo numero della Rivista Lasalliana uscì nel marzo del 1934. Ma ne fu decisa la fondazione negli ultimi mesi del precedente anno 1933: anno santo per eccellenza, perché apriva il bimillenario della Redenzione, favorito da un particolare Giubileo, che a Torino ebbe particolare fascino di pietà per la ostensione della Ss. Sindone. (...) Se mi è lecita una noticina personale, dirò di quanta gioia mi colmò il cuore quella decisione a cui contribuii entusiasticamente io pure, e come mi parve di buon auspicio per il nuovo compito di direzione del Collegio S. Giuseppe che proprio in quei mesi mi affidava l’ubbidienza. Sentii la Rivista creatura anche un po’ mia, perché nata, e poi cresciuta e alimentata, nella Casa della mia prima giovinezza, e poi dimora degli anni maturi del mio apostolato scolastico. (...) Alla Rivista lasalliana spetta il merito grandissimo e riconosciuto d’aver dato l’avvio ai moderni studi lasalliani. Presto, difatti, il suo richiamo venne sentito, non solo dai Fratelli dei Distretti d’Italia, ma di altri Distretti ancora. Le frequenti citazioni della nostra Rivista nella monumentale Storia dell’Istituto composta da Georges Rigault hanno contribuito a far sì che oggi siano relativamente numerosi i Fratelli avviati, da varie parti e in diversi idiomi, a severi studi di lasallianità. (...) Lo stesso apparire del primo numero, con l’editoriale intitolato ‘Tempo di edificare’, portò non poco turbamento: parve d’intravvedervi un programma temerario, se non proprio rivoluzionario...Al fr. Goffredo fu imposto di non continuare la rubrica appena iniziata ‘per una esegesi storica delle nostre Regole’ ...E io ricordo che toccò a me, già trasferito a Roma - a me che proprio, in quel caso, non c’entravo per nulla - arginare le minacce di soppressione della Rivista, che si era permessa qualche critica a un volume del Rigault. Forse i tempi non erano maturi, per ammettere che una Rivista di cultura, recensendo un’opera sia pure di famiglia, non facesse un ditirambo in lode dell’Autore, ma esaminasse spassionatamente il lavoro, notandone i meriti e lamentando qualche immancabile deficienza. Scaramucce, se si vuole, che però fecero rattenere il fiato ai responsabili, più di una volta. Poi venne ben di peggio: venne la guerra con tutti i suoi rischi. La RL.ebbe limitazioni di pagine e di fascicoli, fu vittima degli incendi provocati dalle incursioni aeree...
...e via, per altre dieci pagine che raccontano di scaramucce e battaglie, della questione economica, di epigoni e di eroi, dei consigli di redazione, dell’ultimo decennio (1953-1963). Tutto ancora a portata di mano del lettore odierno31.
Nel ricordo dei contemporanei Don Silvio Riva, teologo pastoralista e catecheta esimio (1913-1994), fu legato a fr. Leone da sincera amicizia, che tuttavia non appanna la capacità di esprimere giudizi con obiettività e competenza professionali. Le nove pagine che gli dedica nell’opera già citata32 sono quanto di più esauriente ci sia dato trovare33. Ne stralciamo alcuni parti. ! Il fascino della competenza e dell’esperienza –“ La personalità di fr. Leone è figura di primo piano nel campo catechetico italiano del Novecento. Per parecchi anni, la 31 32 33
Rivista lasalliana 30 (1963) 1, pp. 3-16. La pedagogia religiosa nel Novecento in Italia, Antonianum-La Scuola, Brescia 1972.
Si possono utilmente consultare le annotazioni biobibliografiche di fr. Anselmo Balocco (cf. nota 23) e il saggio di hno. José María Pérez Navarro, La catequesis lasaliana en los ultimos 50 años, Ediciones San Pìo X, Madrid 2003, pp. 140-146.
Leone di Maria
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catechesi che usciva da una fase d’infanzia metodologica, si confondeva con la sua persona e la sua opera. Lasalliano per consacrazione, riuscì a sveltire la metodologia d’adozione dalle complicazioni cartesiane di cui era serpeggiata, e ringiovanirla con interpretazioni moderne. In questo lavoro fu abilissimo, favorito dalla vasta preparazione metodologica contemporanea. Ebbe una parte indiscutibilmente primaria la competenza pedagogica, ma il ‘balzo’ magistrale era riposto in un carisma personale che fu inimitabile, anche se vagheggiato da molti. Fratel Leone era Fratel Leone, non altro: imitarlo sarebbe significato uno sgorbio” (p. 218-219). ! Autorevole tutela all’attivismo – “Quando il metodo attivo si introdusse in Italia anche nell’ambito religioso non mancarono attacchi, talora violenti, spesso motivati con pseudo-argomentazioni teologiche e filosofiche34. Gli iniziatori n’erano un facile bersaglio, anche perché semplici laici, a cui si attribuiva una carenza di formazione dottrinale e si accusavano di scarsa obbedienza alle direttive della gerarchia” (p. 219). ! Il didatta dell’attivismo – “La sua parola ebbe risonanza nelle sfere ufficiali della Chiesa e dello Stato. Recensì e stese prefazioni agli studi del Casotti, del Nosengo, e anche nostri35. Sotto le sue ali ci si sentiva al sicuro. Si noti: non per partito preso, ma per convinzione; perché egli stesso, da una base didattica tradizionale, anche se ravvivata dalla sua arte personale, si associò agli attivisti (pag. 220). Il saggio in cui si manifesta la sua vasta informazione della metodologia e Metodi e forme dell’ insegnamento religioso36: lì spazia nel diorama dei metodi con padronanza, e fin dalla prima pagina, con arguzia tutta sua, comincia ad annunciarne quattro: ‘Un primo in ordine di tempo, che consideriamo vinto e anzi morto: il metodo puramente mnemonico. Un secondo, sempre per diritto di anzianità: il metodo deduttivo che ‘ancora
tiene campo’, sebbene con perdita costante di terreno dinanzi al suo avversario diretto che sta per cacciarlo di nido almeno su un settore del fronte, dal quale già gli intimarono, forse con troppa baldanza, la ritirata. Il metodo induttivo: questo terzo avanza col favore della pedagogia, della critica, del progresso; ma non senza difficoltà a sgombrare il terreno dalle truppe fedeli e tenaci dell’avversario testé nominato: metodo in avanzata costante. Un quarto, finalmente, più fresco e ardito di tutti, che va alla bersagliera, senza soste né ritegni, pur tirandosi dietro artiglierie leggere e pesanti e, nei carri della sussistenza, tutti i possibili mezzi di intuizione, in carta, cartone, argilla, legno, e chi più ne ha più ne metta; ma quasi senza sentirne il peso, perché sono tanti a tirare. E’ chiaro trattarsi di un metodo attivo, che giunge ultimo, a dir vero, ma con passo di avanguardia, con il tono deciso di chi tiene in tasca la vittoria” (p. 221)
! Riflessione pedagogica – “Per concludere diremo che fr. Leone di Maria ci appare più un didatta che un pedagogista, ma la sua didattica è troppo densa di vitalismo, di 34
Anche tra i Lasalliani non mancarono critiche di questo tipo. Lo ricorda Pérez Navarro, op. cit., p. 146, a proposito del fr. Vincent Ayel, che scrisse (Lumière et vie, 35, 1957, 114-136) sulla Ambiguïté d’une pédagogie active du catéchisme. 35 Per i volumi Giacomo Maffei, amico di Gesù, LICE, Torino 1941, e Didattica della religione nella scuola media, Sussidi, Erba (Co) 1951. 36 Citazione da aggiungere a quella trascritta sopra nel paragrafo Idee fondanti – il diorama dei
metodi.
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contenuti comportamentali e relazionali per rimpicciolirla esclusivamente nel settore didattico. A nostro avviso, egli s’è insediato, da pari suo, nella pedagogia del Novecento come un assertore del dato religioso a completo servizio dell’uomo, della vita umana, della personalità religiosa” (p. 226). Nelle pagine di questo saggio-testimonianza è possibile cogliere gli aspetti che caratterizzano la personalità di fr. Leone e la sua azione: passione educativa coinvolgente, originalità di metodo sostanziata di sicura preparazione professionale. Tantissime delle sue pagine sono ancora vive per la maestria di scrittura e vitali per chi intende la catechesi come tramite efficace tra una dottrina che non può mutare e quanti attendono di poterla accogliere nel linguaggio che meglio capiscono. E’ sostanzialmente il problema del metodo didattico che anche nella catechesi oscilla ciclicamente tra disciplinaristi (che pongono al centro i contenuti) e pedagogisti (che privilegiano le modalità con cui i contenuti possono essere proposti). Negli ultimi cent’anni si è così passati dal Metodo di Monaco all’attivismo, dal metodo kerigmatico a quello antropologico. Premesso che “nella trasmissione della fede, la Chiesa non ha per sé un metodo proprio né un metodo unico, bensì, alla luce della pedagogia di Dio, discerne i metodi del tempo, assume in libertà di spirito” (Direttorio generale della catechesi, 148), nell’attivismo che fr. Leone ha applicato alla catechesi si riscontrano caratteristiche che il Documento di base della Chiesa italiana (RdC 160-18,1) stabilisce come principi fondamentali: 1. fare posto all’iniziativa di Dio. E’ proprio del catechista riconoscere che nella catechesi, in quanto azione teandrica, è Dio che si rivela, che esorta, che fa crescere; 2. essere fedeli alle persone. Tutto nella catechesi deve essere visto ‘in termini di persona’: ciò che si comunica è Cristo; 3. favorire la socializzazione, come processo di apertura della vita dei singoli agli orizzonti più vasti delle esperienze comunitarie e sociali; 4. organizzare l’individualizzazione dell’apprendimento delle esperienze di fede, favorendo la differenziazione dell’insegnamento catechistico secondo le capacità e il ritmo di apprendimento di ciascuno; 5. generare attivismo, favorendo l’espressione attiva della catechesi come eccellente mezzo per apprendere e come soggetto all’annuncio della parola di Dio. Vi si riconosce tutta l’attualità della catechesi di fr. Leone.
LASALLIANA
RivLas 76 (2009) 1, 139-143
En el 25 aniversario de su fallecimiento
José J. Rodríguez Medina, FSC (1926-1984) José María Pérez Navarro, fsc
Director del Instituto Superior de Ciencias Catequéticas San Pío X, Madrid Se está celebrando en estos días el centenario de la llegada de los Hermanos de las Escuelas Cristianas a las Islas Canarias. Los Hermanos comenzaron su labor educadora y catequística en la isla de Gran Canaria, y concretamente en la ciudad de Arucas. En esta ciudad nació el Hermano del que vamos a hablar, el Hermano José Juan Rodríguez Medina. Este artículo de Rivista lasalliana aporta un nombre más a la memoria que se está haciendo sobre grandes personalidades lasalianas en el campo catequético. Momento oportuno para hacer un recordatorio de este insigne maestro y catequeta ya que en este año 2009, se celebrarán los 25 años de su temprana muerte.
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Algunos datos biográficos1 Nació el Hermano José Juan en Arucas (Gran Canaria) en 1926. Alumno del colegio La Salle de su ciudad muy próximo a su casa, decidió con 13 años ingresar en el Noviciado Menor de Griñón. Después de sus años formativos en la “casa-madre” del Distrito de Madrid comenzó en 1944 su labor educativa en el colegio Santa Susana del barrio popular de Ventas de Madrid, a este colegio le seguiría Córdoba y el colegio “La Purísima” de Sevilla. En estos años, el Hermano Medina destacó por su trabajo y su gran capacidad intelectual y fue elegido por el Hermano Asistente Guillermo Félix a formar parte del “selecto” grupo de Hermanos que se prepararían convenientemente en Roma para la creación de un Centro Superior de formación que uniría la Filosofía, la Pedagogía, la Teología y la Espiritualidad y así formar a los futuros Hermanos y profesores de Religión que precisarían los tiempos del mañana. Después de conseguir su licenciatura en Teología en 1955, siguió cursos de catequética en París, en el Instituto católico que ya destacaba en los procesos de renovación litúrgica, catequética y pastoral de la época previos al concilio Vaticano II. En 1958 comenzó su labor profesional e investigadora sobre todo en el campo de la catequesis y en la labor de la animación litúrgica. Con otros profesores del Instituto San Pío X en Salamanca realizó una ingente labor de publicaciones y divulgación de las nuevas corrientes pedagógicas, catequéticas, pastorales y litúrgicas que habían surgido a raíz de los nuevos aires traídos por el Concilio Vaticano II. Durante esta época defiende y publica su tesis doctoral: “Pastoral y catequesis de la Eucaristía. Dimensiones modernas” (1965) En 1967 se responsabilizará de la dirección del Instituto San Pío X. Como él mismo manifiesta tuvo momentos de alegrías y éxitos y también momentos muy duros como fueron las múltiples gestiones realizadas para que el Instituto tuviera la consideración merecida con la aprobación de los estatutos. Dejada la dirección, se produjo el momento histórico del traslado del Instituto San Pío X desde Salamanca hasta su sede actual en Madrid. Liberado de su carga de director se dedicó a participar en los movimientos internacionales como el equipo europeo de catequesis o el segundo Encuentro internacional de catequesis de Roma, participando en las nuevas experiencias pastorales de Taizé o uniéndose a grupos como los carismáticos. Nunca abandonó la catequesis, dedicándose en los últimos días de su vida a la catequesis de adultos. Murió el 3 de abril de 1984, de un fallo car1
Para la recopilación de datos biográficos me he servido especialmente de: T. GARCÍA REGIDOR, Breve semblanza de un pionero (al ser una edición privada no comercial, no consta ni la editorial, ni la ciudad, ni la fecha de publicación); ID., Un colaborador destacado de “Sínite”: José Juan Rodríguez Medina, en Sínite 33 (1992) n. 100, 413-419; L. RESINES, La catequesis en España. Historia y textos, BAC, Madrid 1997, 760-762; F. MARTÍN HERNÁNDEZ, Centenario de “La Salle” en Canarias. Arucas 1908-2008, Tepemarquia, Las Palmas 2007, 198-200.
José J. Rodríguez Medina
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díaco. Fue enterrado en el cementerio de Griñón al día siguiente, en presencia de sus familiares, Hermanos y amigos.
Docencia, investigación y publicación Desde aquel lejano 1958 en que el Hermano José Juan comenzó su labor docente hasta casi el último momento de su vida se dedicó en cuerpo y el alma a la formación catequética y pastoral de los agentes evangelizadores que acudían al Instituto San Pío X o bien en Tejares- Salamanca hasta 1977 o en Madrid a partir de esa fecha. Se dedicó especialmente a la Teología Pastoral y a la Catequética Fundamental. Los dos manuales escritos, fruto de su labor docente, son sus dos obras más importantes. Para la Teología Pastoral: Teología Pastoral de la Palabra de Dios (1978)2, y para la catequética fundamental: Pedagogía de la fe. Situación y contenidos de la catequética, hoy (1971)3. Esta obra es uno de los clásicos de la catequética fundamental donde se profundizan los problemas de la catequesis en aquellos momentos4. Otras obras importantes son: Pastoral y catequesis de la Eucaristía (1966)5, texto de su tesis doctoral, donde hace una investigación histórica y crítica sobre la presentación del misterio eucarístico en los principales catecismos difundidos desde el Concilio Vaticano I al Concilio Vaticano II; El religioso educador. Inquietudes, urgencias, soluciones (1970)6, en la que en colaboración con Juan Viola, trata sobre la problemática que se vivía en aquellos años difíciles del postconcilio en la vida religiosa, en especial en la del religioso educador. Rodríguez Medina se ocupará de tres de las cuatro partes del libro, dedicadas a la dimensión apostólica del religioso educador, y, por último, Los textos de religión, ¿estímulo o tropiezo para la fe? (1974)7, escrito en colaboración con Rafael Artacho para responder a las críticas recibidas a los libros de Religión del Instituto San Pío X8 Hay que contar, asimismo, con sus artículos, en revistas especializadas, la mayoría de ellos en “Sínite”, revista especializada en el Instituto San Pío X. Escribió 22 artículos
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J. J. RODRÍGUEZ MEDINA, Teología Pastoral de la Palabra de Dios, PPC, Madrid 1978. ID., Pedagogía de la fe. Situación y contenidos de la catequética, hoy, Bruño, Madrid 1972. 4 Joseph Gevaert en su clásico Studiare catechetica habla de este libro dentro del epígrafe “Manuales importantes de la generación precedente” junto a figuras señeras de la catequesis como J. Colomb, L. Csonka, J. Hofinger,,J. A. Jungmann, S. Riva, M. Van Caster. 5 J. J. RODRÍGUEZ MEDINA, Pastoral y catequesis de la Eucaristía, Sígueme-San Pío X, Salamanca 1966. 6 J. J. RODRÍGUEZ MEDINA - J. VIOLA, El religioso educador. Inquietudes, urgencias, soluciones. Sígueme-San Pío X, Salamanca 1970. 7 R. ARTACHO - J. J. RODRÍGUEZ MEDINA, Los textos de Religión, ¿estímulo o tropiezo para la fe?, San Pío X, Salamanca 1973. 8 En 1973, la Sociedad anónima OBISA, en su revista Orientación Biblográfica, acusa a las editoriales españolas de que los libros de Religión contienen graves errores doctrinales, entre ellos la casi totalidad de los libros editados por el Instituto “San Pío X”. Esta situación molestó a todos los autores e inmediatamente vino la respuesta de defensa y la presentación de las opciones catequísticas y pedagógicas que se habían escogido a la hora de la elaboración de los libros. 3
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José M. Pérez Navarro
y colaboraciones en 21 años9. Sus aportaciones en estos artículos van desde crónicas y valoración de los acontecimientos en los que participó (Equipo Europeo de catequesis, Asamblea conjunta obispos-sacerdotes de la Iglesia Española. 1972, II Congreso Catequístico Internacional, V Semana de Estudios Teológicos de Toledo (1973) Encuentros de Taizé (1975)..., hasta sus artículos en referencia a la Teología, la pastoral y la Catequética. En su primera época, desde comienzos de los años 60 fue, junto a otros profesores del San Pío X, el gran renovador de la liturgia con una obra que constituyó una revolución en el ámbito de la música religiosa española, Cantemos al Señor, que en sucesivas ediciones fue el inicio de las canciones litúrgicas en lengua española con la savia nueva del Concilio Vaticano II. A esta obra siguieron otras como: Celebraciones de la palabra de Dios (con más de 90 folletos), las fichas de música (más de 1000), los Folletos de música (unos 18) y los Discos grabados. Rodríguez Medina era el impulsor litúrgico y el comentarista catequético.
Pensamiento y aportaciones A la hora de analizar su pensamiento y aportaciones es Teódulo García Regidor, que lo conoce muy bien, quién analiza a través de sus artículos y publicaciones su aportación a la pastoral y catequética. “Sus primeros artículos reflejan la personalidad sensible y la formación rigurosa reali-
zada en Roma, París y Alemania a lo largo de sus estudios universitarios de Teología y de Pastoral. Los artículos de Teología Pastoral y de Liturgia son de lo más nuevo y de lo mejor que se escribe por entonces en revistas de Catequética. Pronto se observa que Rodríguez Medina no es un teólogo especulativo ni sistemático y que su dimensión teológica preferida era la vertiente práctica. Esto se notará en la predilección por la Teología Pastoral, por el kerigma, por el hecho cristiano como realidad salvífica que ha de ser experimentada y vivida por los creyentes, en la concepción dinámica de la Iglesia, en la Liturgia viva y participada de cuya renovación es él uno de los pioneros y de los puntales en la Iglesia española del pre y postconcilio”10
Algunos testimonios Para terminar este breve artículo cinco testimonios de personas que compartieron con él grandes momentos de su vida:
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Lista completa de estos artículos en: J. M. MARTÍNEZ BELTRÁN - J.MONROY, Artículos de Sínite desde el nº 1 hasta el nº 99, en Sínite 33 (1992) 100,41-471. Una selección de los artículos más interesantes en T. GARCÍA REGIDOR. Un colaborador destacado de Sínite, José Juan Rodríguez Medina, 417-437. 10 T. GARCÍA-REGIDOR, José Juan Rodríguez Medina. Breve semblanza de un pionero, 30.
José J. Rodríguez Medina
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“ Hombre de tu tiempo, conocedor de la realidad humana y espiritual de aquellos a los que serviste, tu nombre quedará en la mente de todos como alguien que, habiendo visto la luz con una claridad meridiana, quisiste repartirla a tu alrededor ; como alguien que, habiendo sentido vivamente la necesidad de una renovación pastoral en la Iglesia, aun antes del Concilio Vaticano II, pusiste manos a la obra con un coraje digno de todo encomio; como alguien, que enamorado profundamente de la catequesis, quisiste contagiar a cuantos te veían, te oían o te leían de la belleza de un tesoro descubierto” (Teódulo García Regidor, profesor del Instituto San Pío X). “La convocatoria del Vaticano II supuso para todos los estudiosos de la pastoral, cercanos a los movimientos de renovación y participación en la Acción Católica especializada - bien como militantes o consiliarios -, una sacudida inesperada y extraordinaria. Ya en 1960 volví a encontrar al Hermano Medina en Salamanca, él auspiciando el futuro Instituto Pontificio San Pío X y yo iniciando mis cursos sobre Pastoral y Liturgia en la Facultad de Teología. Hubo que abrir surcos nuevos en muchos campos de la catequesis, liturgia, pastoral, canto popular, etc.” (Casiano Floristán,
teólogo pastoralista).
“En el conjunto de la producción catequética actual, considero la obra de Rodríguez Medina como obra síntesis, que pone a disposición de los lectores una información global, pero precisa y documentada, acerca de las conclusiones más sólidas del movimiento catequético en lo que va de siglo. Una orientación equilibrada, que señala los caminos de la apertura postconciliar dentro de una línea de continuidad con la tradición de la Iglesia” (Elías Yanes, arzobispo de Zaragoza, sobre el libro de Rodríguez Medina Pedagogía de la fe. Situación y contenidos de la catequética hoy). “Hombre formado antes del Concilio Vaticano II, fue discípulo de teólogos y catequetas franceses, belgas y alemanes, todos ellos hombres del movimiento catequístico anterior al Concilio, pero también sin saberlo, contribuyeron decididamente a la renovación catequética postconciliar. A esta misión se apuntó gustosamente el Hermano Medina y su trabajo desde Tejares fue precisamente el de crear las bases de una Catequética Fundamental que asumiera la cimentación dogmática del Vaticano II y su sensibilidad pastoral en el diálogo con el mundo moderno en una nueva relación fecultura. Le obsesionó también la figura y misión del educador de la fe. Una renovación catequética como la propuesta necesitaba nuevos agentes que fueran sinceramente hijos del Vaticano II” (P. Manuel Matos SJ, catequeta y teólogo). “Él era ya una figura importante desde su magisterio en Tejares (Salamanca) sus publicaciones y participaciones en el equipo europeo de catequesis. Era conocido por los catequetas europeos y latino-americanos que se habían reunido allí. Me asombraba su sencillez, su aspecto insignificante, su descuido externo, su sentido común unido a una sabiduría clásica que asomaba en sus comentarios con socarronería canaria, mansa y pacífica, a lo que allí pasaba” (P. Manuel Matos SJ, sobre las jornadas del
equipo europeo de catequesis).
Conduite des Ecoles « Cahiers lasalliens » par Léon Lauraire, fsc
1. Approche contextuelle - L'école lasallienne est née dans un contexte social, ecclésial et scolaire particulier : celui de la France de la fin du 17e siècle, encore mal exploré dans les textes antérieurs sur la Conduite des Ecoles. Ce contexte explique en grande partie l'organisation et la pédagogie de l'école lasallienne. ! Cahier lasallien 61, 2001, pp. 246. 2. Approche pédagogique - A la clientèle particulière de leurs écoles, Jean-Baptiste de La Salle et les Frères voulaient offrir des structures, des apprentissages et des méthodes adaptés à leurs besoins humains, professionnels et religieux. Le second volume essaie de dégager les principaux aspects de cette réponse. ! Cahier lasallien 62, 2006, pp. 263. 3. Approche comparative - Les 16e et 17e siècles constituèrent une période dynamique et novatrice dans le domaine de l'éducation et de la pédagogie ; en France, ils sont connus comme la Renaissance et le Classicisme. Mr. de La Salle est considéré comme le dernier grand éducateur français de cette période. Il a bénéficié des apports de ses prédécesseurs. Il eut des contacts directs avec quelques grands personnages, ses contemporains : Jacques de Batencour, Charles Demia, Nicolas Barré, Nicolas Roland. Ce troisième volume identifie les convergences et les différences entre ces auteurs. ! Cahier lasallien 63, en préparation. 4. Approche diachronique - Dès le début, la Conduite des Ecoles a été considérée comme un projet éducatif en évolution, condition inévitable d'une adaptation aux besoins évolutifs des jeunes. La révision du texte 1706, demandée par la Chapitre général de 1717, et réalisée par J.-B. de La Salle lui-même, témoigne de ce souci d'évolution. Perspective confirmée par la vingtaine d'éditions ultérieures de la Conduite, jusqu'en 1916. Ce quatrième volume essaiera d’identifier les changements intervenus, leurs motifs internes à l'Institut et les facteurs externes. ! Cahier lasallien n. ? à paraître.
Cahiers lasalliens CASA GENERALIZIA FSC " VIA AURELIA 476 00165 ROMA " atesfai@lasalle.org
LASALLIANA
RivLas 76 (2009) 1, 145-156
Caminos para compartir carisma y misión en la educación Antonio Botana, fsc
H
ace poco más de 20 años comenzábamos a utilizar en la Iglesia, y más concretamente en el mundo de las congregaciones religiosas dedicadas a la educación, la expresión “misión compartida”. Hoy, sin embargo, hemos ampliado la expresión en el título de la reflexión: “compartir carisma y misión”. ¿Se trata sólo de una precisión lingüística, o hay aquí un nuevo significado que puede señalarnos también nuevos caminos en este “compartir” entre religiosos y laicos en el mundo de la educación? Cuando hablamos de “misión compartida” sucede frecuentemente que la realidad a que nos referimos sea simplemente una tarea compartida, aunque esa tarea sea la educación, o incluso la educación cristiana. Y es más frecuente aún que el compartir se limite al interior de las paredes de una escuela, sin que resulte alcanzada la comunidad religiosa, o sin que la responsabilidad de los que comparten la misión se sienta aludida por las llamadas que proceden de la misión más allá de esa obra educativa. Al introducir este factor, el carisma, estamos haciendo una opción decisiva que marcará profundamente el modo y el alcance de la misión compartida a que nos referimos. Misión y carisma se iluminan mutuamente y nos señalan el horizonte hacia el cual debemos dirigirnos en la “misión compartida”:
Antonio Botana
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- Si compartimos el carisma ponemos la misión en el contexto de la comunión, o más exactamente, en el misterio de comunión que define la esencia misma de la Iglesia, y entramos en una dinámica de comunión que alcanza a todos los que participan en la misión. Si compartimos el carisma entramos en la espiritualidad que descubre el sentido de la misión educativa y participamos también en el ministerio eclesial al que se refiere el carisma. - La misión que compartimos desde el carisma es la misión de la Iglesia, la única misión que existe en la Iglesia y que todos los miembros de la Iglesia comparten. Es la obra de la evangelización en toda su amplitud, que mira a liberar y salvar a la persona humana considerada en todas sus facetas. - El carisma que compartimos para el servicio de la misión es el don del Espíritu. El Espíritu es el auténtico protagonista de la misión de la Iglesia (EN 75, RM 21) y Él mismo es el Don que ha sido dado a la Iglesia para su misión. Al mismo tiempo es el Ser libre por excelencia, es como el viento: sopla donde quiere, no se detiene ante las fronteras de la Iglesia institucional, sino que las empuja para que la Iglesia se alargue hacia la amplitud del Reino de Dios.
Las respuestas están en el camino Cuando hablamos de misión compartida en el mundo de la educación, enseguida surgen interrogantes: - ¿Cómo transmitir el carisma, la espiritualidad… y cómo hacerlo a quiénes no están interesados en la dimensión espiritual de la persona? - ¿Cómo compartir con educadores que no son cristianos? - ¿Qué papel tienen los religiosos cuando se ha traspasado la responsabilidad de la gestión de la obra a los laicos? - ¿Qué procesos de formación se necesitan? etc.
Las respuestas a las preguntas concretas pueden ser muy variadas y hay que buscarlas en la experiencia. Necesitamos poner en común nuestras experiencias para iluminarnos mutuamente, sabiendo que las experiencias no se pueden copiar, porque las circunstancias son diferentes, pero sí pueden iluminar. Sin embargo, las respuestas a las preguntas concretas no valen nada cuando no están situadas en el camino. Y sabemos también que cuando se anda el camino, en él se encuentran las respuestas. Necesitamos identificar los caminos válidos, los que conducen a horizontes de futuro, no los que se cierran sobre sí mismos, no los que sirven sólo para solucionar el problema del momento, no los que proporcionan “pan para hoy y hambre para mañana”. Y tampoco pensemos en atajos si queremos soluciones duraderas, porque se trata del cambio interior de las personas, de adquisición de nuevas actitudes, incluso de nueva identidad, y todo eso exige tiempo y constancia. Muchos de los caminos de misión compartida elegidos por nuestras congregaciones en los últimos años han sido caminos fáciles, caminos cortos, por eso han sido tam-
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bién de resultados cortos. No han tenido en cuenta que la misión compartida auténtica incluye el compartir el carisma. En este tipo de caminos es donde se inscriben preguntas como ésta: “¿Y qué pasa con los educadores de la segunda generación, los que ya no han conocido en la escuela a los religiosos/as?” Esta es la señal de que lo que se ha hecho ha sido “traspasar” o “entregar”, o tal vez incluso “transmitir”, pero no se ha entrado realmente en el “compartir”. Se traspasa una escuela, se transmiten unas ideas, una historia, unos sentimientos. Pero un espíritu sólo se puede compartir. El espíritu a que nos referimos, el carisma, sólo el Espíritu (la Persona divina) puede concederlo. A nosotros nos toca compartirlo, porque este carisma se vive en la comunión y no existe al margen de la comunión. Si nuestras obras educativas, mientras estaban animadas por nuestras respectivas congregaciones, han podido mantener un espíritu, es porque estaban integradas en una red de relaciones en la que se compartía este espíritu. Cuando una obra educativa, o más exactamente sus educadores dejan de pertenecer a esa red de relaciones que comparte el espíritu, también el espíritu desaparece, aunque esta generación que ha estado en contacto con la “red” sea capaz de mantener una serie de reflejos, un estilo, unos criterios, unas motivaciones… Todo ello se esfuma rápidamente sin la sangre o espíritu que procede de la red carismática. A esta red de relaciones que comparten el mismo carisma lo llamamos hoy “Familia carismática”, o mejor aún, “Familia evangélica”. Por ello, la “misión compartida” que no llega a crear familia es una misión frustrada. Esa “segunda generación” de educadores que entra en una escuela y no encuentra la familia que asegura el espíritu o la sangre carismática de esa escuela, es una generación que asiste al cierre de la escuela, al menos en cuanto “escuela portadora de un carisma”. Tendremos, pues, que preguntarnos por los caminos que estamos siguiendo: de dónde vienen y a dónde conducen, de qué presupuestos partimos y hacia qué horizonte nos dirigimos. Los caminos contienen las opciones que, consciente o inconscientemente, hemos hecho, y señalan las metas a las que, en principio, podemos llegar. Lo que sí es evidente es que no podemos aspirar a unas metas que no estén contempladas por los caminos que hemos elegido.
Las opciones que fundamentan nuestros caminos El lenguaje empleado en nuestros documentos institucionales, tanto en los grandes (Regla, Capítulo General…) como en los pequeños (circulares internas a la obra educativa…), suele poner de manifiesto las opciones que fundamentan los caminos por los que desarrollamos la misión compartida. Y la evolución de lenguaje en las últimas décadas, desde los propios documentos eclesiales, refleja la eclosión de fronteras, del mundo encorsetado y clasificado en que hemos vivido en el interior protegido de la Iglesia, al nuevo mundo, todavía naciente, de la Iglesia-comunión, de misión única y compartida, y servidora del Reino.
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Compartir la misión En lo que respecta a la misión, hemos pasado, ya en el momento del Concilio Vaticano II, de “las misiones” en la Iglesia y de la misión acaparada por la jerarquía y la vida religiosa, a la única misión de la Iglesia, en la que participan todos sus miembros, cada uno con su carisma, y de la cual todos son corresponsables. Y esta “misión única” se ha enriquecido con el concepto “misión compartida”, en la que los carismas diversos se armonizan hasta formar una orquesta de carismas al servicio de la única misión. Dentro del concepto “misión compartida” ha habido varias amplificaciones: 1. La obra educativa. La versión más reducida es la que limita la misión compartida a la participación de tareas dentro de la obra educativa. Y la caricatura de esta versión es la que reduce la misión compartida a la “entrega de llaves” y de funciones a causa del envejecimiento o desaparición del personal religioso de la escuela. 2. La misión del Instituto. La versión más frecuente es la de “compartir la misión del Instituto”, donde se da por supuesto que los laicos vienen básicamente a colaborar en esta misión que “es del Instituto”, y por tanto, es de los religiosos/as. Los laicos sustituyen a los religiosos en ciertas tareas y funciones, pero los religiosos se reservan aquellas que parecen más pastorales, más evangelizadoras… El Instituto, los religiosos/as, son los garantes de la misión, y por tanto los últimos responsables de los fines perseguidos en la obra educativa. Se ceden responsabilidades a los laicos, siempre en dependencia de los religiosos, y se les asocia “con el Instituto” a aquellos que quieren participar en “el espíritu del Instituto”… 3. La misión de la Iglesia. La misión que se comparte es la misión de la Iglesia, la única misión, en la que tanto los religiosos como los cristianos laicos son llamados a colaborar juntos, al mismo nivel, sin precedencias de unos sobre otros. Cada uno aporta su propio carisma personal, su modo de vivir la vida cristiana. 4. La misión del Reino de Dios. Finalmente, la misión de la Iglesia rompe las fronteras de ésta y se convierte en la misión del Reino de Dios, en la que participan y son invitados a participar todos los creyentes de otras religiones, todos los hombres y mujeres de buena voluntad. Son muchos los valores y los objetivos en los que se puede coincidir, entre unos y otros, respecto de la realización de la persona y de la sociedad. Compartir el carisma En lo que se refiere a “compartir el carisma”, la evolución del lenguaje ha sido más tímida y reticente, aparte de que este término sea de muy reciente adquisición en el lenguaje de la vida religiosa. Uno de los elementos que dificultan la evolución es la excesiva identificación que se hace entre el carisma fundacional y el proyecto de vida religiosa propiamente dicho: 1. Cierta espiritualidad. En un primer momento se habla de compartir con los laicos algunos aspectos de la espiritualidad del Instituto, quizá aquellos que podrían ayudar
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al mejor cumplimiento de las tareas de la misión. Y se aportan aspectos anecdóticos o ejemplares de la vida del Fundador/a. 2. El espíritu del Instituto. Luego se habla de que los laicos vienen a participar en “el espíritu del Instituto”. Aunque no se sepa exactamente qué significa esto, tiene, sin duda, un carácter más global que el anterior. Pero el Instituto continúa ocupando el centro: los laicos vienen a nosotros, no nosotros a ellos. “Nosotros” continuamos en nuestro puesto y nuestra vida no resulta especialmente afectada por su llegada, pero algunos de nosotros les acompañan a los laicos en la adquisición del espíritu del Instituto. A este nivel los laicos descubren ya que el Fundador o Fundadora del Instituto es también su Fundador/a, porque les muestra un modo especial de ver la vida y de vivir la misión. Y es esta experiencia la que nos empuja al paso siguiente. 3. Carismas de la Iglesia. El salto más decisivo en la evolución se produce cuando comenzamos a asumir que el carisma del Instituto, o más ampliamente, los carismas fundacionales pertenecen a la Iglesia. El paso es difícil: tiene que separarse el concepto “carisma fundacional” del concepto “proyecto de vida religiosa” (o si se quiere, “carisma de vida religiosa”. Y esto mismo no siempre está claro, pues la forma jurídica o canónica en que se ha concretado ese proyecto no siempre refleja fielmente la intuición del Fundador/a, debido a la intransigencia o la incomprensión de la jerarquía o de los canonistas). Entonces se empieza a reconocer el carisma fundacional como un “camino para vivir el evangelio”, o “modo global de vivir el Bautismo”, que se puede concretar en diferentes formas de vida cristiana. Es en este nivel cuando realmente empezamos a hablar de “compartir el carisma”. Descubrimos el carisma fundacional como lugar de encuentro de religiosos y laicos, como convocatoria para vivir la comunión para la misión desde diferentes identidades cristianas. Así es como comienza el nuevo modelo de “Familia carismática” acorde con la Iglesia-comunión, entendida como “comunión de comunidades”. 4. Carismas para el Reino. El paso anterior tiene aún otra ampliación cuando comprendemos que, si el Espíritu no se queda encerrado en las fronteras institucionales de la Iglesia, tampoco sus carismas. Los carismas fundacionales aspiran a servir a todo el Reino de Dios. Son, efectivamente, “caminos de Evangelio”, y el Evangelio se expande también en semina Verbi o “semillas de la Palabra” (Ad gentes 11.2; 15.1) que están presentes en todas las culturas y religiones, y conecta con muchas expresiones humanas y religiosas más allá de la Iglesia Católica y de las Iglesias cristianas. Desde esta experiencia las Familias carismáticas comienzan su apertura para incluir a personas de otras religiones (incluidas no-cristianas) que se reconocen convocadas en ese mismo carisma que ellas identifican con el Fundador/a, y porque es para ellas un camino para vivir más a fondo su propia religión y su compromiso con la humanidad. Compartir la vida La comunión real entre religiosos y laicos ha estado muy mediatizada por el concepto de “estados de vida”, vigente en la Iglesia hasta el Concilio Vaticano II y prolongado hasta hoy por la fuerza de la inercia. Los “estados de vida” en la Iglesia han estado perfectamente delimitados, separados y jerarquizados. La eclesiología de comu-
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nión ha introducido en la Iglesia una dinámica que cambia radicalmente la relación entre los así llamados “estados de vida”, en el sentido señalado por el siguiente texto de Christifideles laici, un texto que bien pudiéramos calificar de antológico: “En la Iglesia-comunión los estados de vida están de tal modo relacionados entre sí que están ordenados el uno al otro. Ciertamente es común -mejor dicho, único- su profundo significado: el de ser modalidad según la cual se vive la igual dignidad cristiana y la universal vocación a la santidad en la perfección del amor. Son modalidades a la vez diversas y complementarias, de modo que cada una de ellas tiene su original e inconfundible fisonomía, y al mismo tiempo cada una de ellas está en relación con las otras y a su servicio.” (ChL 55.3). En este contexto de comunión se produce el cambio de lenguaje, para hacerlo más acorde con la realidad, de los “estados de vida” a las “formas estables de vida”. Lo que se quiere señalar es que la vida es lo fundamental, y la “forma estable” lleva consigo una estabilidad relativa. Y justamente eso que es fundamental, la vida, la vida cristiana que viene de la fuente común, el Bautismo, aspira a entrar en comunión y ser compartida. Los carismas fundacionales llaman a la comunión de las diversas formas estables de vida cristiana, para servir juntas a la misión eclesial. Las nuevas Familias carismáticas o evangélicas favorecen esta comunión para la misión. Dentro de la Familia evangélica las “formas estables de vida” ya no se ordenan en estratos separados y jerarquizados como era el caso de las antiguas Ordenes (primera, segunda y tercera). Sus miembros están animados por el mismo carisma y sirven a la misma misión, y desde esa base común se integran en “proyectos de vida y misión”, donde cada miembro enriquece el conjunto desde sus propios carismas particulares, desde su propio proyecto existencial. La fuerza de la Familia carismática no proviene de una institución dominante que arrastra a las demás como sucedía en épocas pasadas, sino de la comunión entre las diversas instituciones y grupos, la comunión puesta al servicio de la misma misión y enriquecida ésta por los carismas particulares de cada grupo.
Compartir la misión en una red de caminos Para desarrollar el proceso que conocemos con este nombre, “Misión compartida”, podrá ser útil considerarlo con esta imagen: red de caminos. No un camino único, y no sólo tramos de camino que vienen uno después de otro, sino una red de caminos, algunos pequeños y estrechos, sólo aptos para caminar individualmente y poner en relación pequeños grupos; otros amplios como autopistas, para comunicar ciudades. El punto de partida es múltiple, porque se trata de la realidad de cada educador que colabora en nuestras obras educativas: laicos, religiosos, sacerdotes; pero también cada una de las obras respecto del conjunto. Hay que encontrar a cada educador y a cada grupo de educadores en la situación en que está: interesado por el bien de los alumnos o sólo por su propio sueldo, creyente o in-creyente, de nuestra religión o de otra. Ése es su punto de partida para comenzar a participar en el carisma y la misión. El punto de llegada es el desarrollo de la Familia carismática que sostiene la misión, la continuación del relato colectivo de nuestro carisma en la Iglesia, y, en defini-
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tiva, garantizar el mejor servicio posible a la misión desde la comunión de todos los implicados. La estrategia debe tener en cuenta tres planos complementarios que podemos representar abreviadamente de esta forma: Pensar globalmente, actuar localmente, acompañar personalmente. 1. Pensar globalmente, para evitar el quedar prendidos por la urgencia de lo inmediato y la dificultad de cada situación concreta. “Pensar globalmente” significa en este caso que tengamos en cuenta el desarrollo del relato colectivo que nuestro carisma fundacional está guiando en la Iglesia y al cual hay que dar continuidad con un nuevo capítulo que integra actores muy diversos. Se trata de situar la obra educativa en una red capaz de sostenerla y orientarla. Esa red era, anteriormente, el Instituto religioso. Hoy hay que promover la red de educadores laicos y religiosos animados por el mismo carisma y comprometidos corresponsablemente para garantizar, juntos, la continuidad del carisma en las obras educativas. Para dar forma a esta red desarrollamos la Familia carismática en la cual los educadores encuentran vida y se integran en comunión. 2. Actuar localmente, porque es en cada lugar concreto, aquí y ahora, donde el compartir se hace efectivo. Todo comienza con una relación cercana, entre religiosos y laicos, de persona a persona, y de comunidad que acoge a las personas y comparte su experiencia de vida. Y en ese ambiente fraterno se integra la reflexión compartida sobre el desarrollo de los procesos personales. Al lado de la relación cercana y sin reemplazarla va una formación acomodada a los diversos niveles, que toma como punto de referencia la experiencia de los destinatarios, el itinerario evangélico de los fundadores y la nueva eclesiología de comunión. Y juntamente con la relación y la formación ha de facilitarse la participación en experiencias de comunión (de los laicos entre sí, de laicos con religiosos) y en las responsabilidades de la misión. Una estrategia para compartir la misión en el plano local, será el desarrollar un modelo de gestión participativa que, al tiempo que educa a las personas en la corresponsabilidad, asegure también las competencias que son específicas de los órganos directivos. 3. Acompañar personalmente, porque cada persona debe hacer su camino, y hay que encontrarla y acogerla allí donde está, en su situación y actitud. Ahí comienza un itinerario que ha de conducir a la persona a descubrir y profundizar su vocación de educador, a sintonizar con el carisma institucional y, tal vez, a participar en él; a experimentar los lazos de comunión con quienes participan en la misma misión y en el mismo carisma, en el mismo relato. Ahora ya, con el marco que nos proporcionan estos tres niveles, demos un vistazo a la red de caminos que desarrolla el proceso de la misión compartida, pero comenzando por el nivel más inmediato, allí donde las personas se ponen en camino.
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El itinerario vocacional de cada educador El carisma en la educación comienza a compartirse cuando se ayuda a los educadores a recorrer el itinerario que les lleva a vivir la vocación de educador. El itinerario comienza con el paso de “profesor” a “educador”. El buen profesor concilia estas dos facetas: la de trabajador o asalariado (preocupado por su propio bienestar y el de su familia), y la de profesional (preocupado por cumplir bien su función, por dar calidad a su enseñanza). La faceta o dimensión de educador comienza cuando el profesor se preocupa, ante todo, de escuchar, entender y dar respuesta al alumno, a cada alumno. Este es el itinerario vocacional del educador. A lo largo de su itinerario el educador descubre un sentido más profundo al trabajo educativo, a la tarea pastoral. Desarrolla primeramente la dimensión vocacional y comunitaria de su identidad; si la fe está presente en la persona el itinerario conduce a vivir la educación como lugar de encuentro con Dios; finalmente llega a vivir la educación como ministerio desde un compromiso estable. El acompañamiento durante el itinerario vocacional del educador tiene como objetivo dar la orientación carismática a todo el proceso. El carisma fundacional en la educación desarrolla un estilo, una sensibilidad especial ante determinadas necesidades, unas preferencias al seleccionar los destinatarios, unos criterios y opciones para el planteamiento de las respuestas y una manera de valorar la misión. Y el carisma proporciona también una espiritualidad, porque revela el sentido y la profundidad humana de la tarea educativa, y descubre ésta como un lugar privilegiado de encuentro del educador con Dios. Un proceso de comunión para la misión La misión compartida se desarrolla en cada lugar, en cada obra educativa, en cada grupo de educadores, como un proceso de comunión para la misión. Es un proceso lento, y consiste en una continua creación de lazos entre las personas, y de las personas con la misión. Los lazos han de promover, ante todo, la valoración mutua, la solidaridad y la corresponsabilidad; ésta es la actitud que da una base más sólida y firme a la misión compartida. Cuando estos lazos existen podemos hablar de comunidad educativa. Luego (o al mismo tiempo) vendrán los lazos que desarrollan la comunión en la fe, imprescindibles para realizar un proyecto de evangelización. La meta es la creación de la comunidad de fe. Hay que encontrar a cada persona en su propia situación, ya sea de lejanía, de acercamiento o de profundización en la fe, desde una aceptación total y respeto a sus opciones, pero ofreciéndole al mismo tiempo nuevas perspectivas y puntos de referencia que le permitan proponerse otros umbrales en el camino de la fe. Esos lazos pueden promoverse desde relaciones informales a través del diá-
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logo, o con estructuras más formalizadas como encuentros de reflexión, programas de formación, convocatorias de oración y celebración,... Finalmente vienen los lazos que podríamos llamar ministeriales, que se establecen a medida que el educador creyente contempla su implicación en la misión a la luz de la fe; entonces descubre la misión como “lugar teológico”, en el que Dios se le revela y lo llama a través de las urgencias del Reino, de las necesidades humanas a las que atiende... Estos lazos reúnen a los educadores en torno a la obra de Dios, estimulan el compromiso mutuo y la experiencia de compartir el ministerio; conducen a la formación de la comunidad ministerial que se hace responsable de dar vida a la obra educativa desde el carisma fundacional. Los lazos que se van formando en este proceso tienen una doble virtualidad: motivan respecto de la misión, y aproximan a las personas haciéndolas solidarias en la misión. A través del proceso se proporciona a los laicos aquello que normalmente los religiosos han podido adquirir anteriormente: motivaciones y formación. La formación se orienta primeramente a hacer consciente al educador de lo que lleva ya dentro de sí, pone palabras a su experiencia; le ayuda a descubrir y comprender una historia de salvación de la que él es destinatario y también mediador para sus alumnos; le introduce en el relato colectivo que este carisma está escribiendo en la Iglesia desde hace tiempo y le permite sentirse actor de un nuevo capítulo del mismo relato. Pero es necesario subrayar un factor que determina decisivamente la diferencia en el resultado de este proceso de comunión para la misión: que los religiosos/as estén plenamente en el interior del proceso, a todos los efectos, y que la formación que se prodiga sea conjunta; religiosos/as y laicos se encuentran y tienen la experiencia de descubrir y compartir sus personas, su experiencia, su fe, desde sus respectivas identidades. Una nueva dinámica de Provincia y de Familia carismática Compartir hoy el carisma y la misión con los laicos en la educación, ya no puede quedarse reducido al ámbito local sino que aspira a desarrollar una nueva forma de comunión eclesial que incluya a todos los participantes en el carisma y en la misión en cualquier sitio que estén y en las diversas formas de vida cristiana e, incluso, de otras religiones. Evidentemente, la vida interna de los religiosos y religiosas dedicados a la educación ha de quedar profundamente afectada, y tienen que situarse en este nuevo ecosistema eclesial de un modo muy diferente al tradicional, no sólo en las relaciones inmediatas con los laicos que comparten la misión en la obra concreta, sino también en el modo de constituir las relaciones a nivel provincial e institucional. Los religiosos/as aceptan que ni poseen en propiedad el carisma ni son los únicos responsables de la misión, y al mismo tiempo tienen un papel propio, profético, que deben cumplir dentro del conjunto, y liderar la iniciativa de impulsar el movimiento de compartir carisma y misión.
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La misión compartida pone en marcha una nueva entidad territorial correspondiente a la Provincia, Delegación, Distrito, o como llamemos a las agrupaciones de comunidades de nuestra congregación. En esta nueva agrupación se incluyen las comunidades de religiosos, de laicos, y también las de religiosos y laicos juntos que ya comienzan a surgir, motivadas siempre por un mejor servicio a la misión. Desde el concepto de comunidad ministerial, al que nos hemos referido en el anterior nivel, podemos comprender el sentido de estas nuevas agrupaciones territoriales así como el más universal de Familia evangélica o carismática. Tanto en un caso como en otro se trata de la comunión de comunidades unidas por un mismo carisma y responsables ante la Iglesia de la misma misión. Estamos lejos, pues, de pensar en una familia de lazos simplemente afectivos o piadosos. El motivo de esta Familia (universal o territorial) y de los que la integran es la misión que tienen encomendada desde la fidelidad creativa que deben al carisma fundacional. Y con esta motivación surgen nuevas estructuras (consejos y asambleas con representación de religiosos y laicos en igualdad de derechos en cuanto a voz y voto), distintas de las que servían para el funcionamiento de la “provincia religiosa”, mediante las cuales se intenta realizar las funciones que se espera de esta agrupación carismática de comunidades: - Discernir juntos las necesidades de la misión y la mejor forma de dar respuesta. - Fomentar la relación humana y, desde ella, la comunión entre las comunidades y entre los miembros de las comunidades. - Organizar la formación en el carisma institucional para que llegue a todos sus miembros. - Promover la elaboración corresponsable de los proyectos y la actuación subsidiaria entre todos los que comparten la misión. Proceder a la evaluación de las obras educativas ya existentes, para asegurar que responden a las necesidades de la misión y a los requerimientos del carisma. - Estimular entre sus miembros el sentimiento de pertenencia, a la Provincia y a la Familia carismática, a la historia viva originada por el carisma. Es muy probable que para llegar a este nuevo modo de relación y de comunión carismática entre religiosos y laicos sea necesario acometer cambios en nuestras Constituciones, Reglamentos o Directorios, y posiblemente haya estructuras jurídicas que deban ser transformadas. No sofoquemos ni retrasemos la nueva vida que está queriendo brotar, por un malentendido respeto a unos instrumentos cuya finalidad es favorecer la vida desde el carisma, no bloquearla.
Un reto urgente: la recuperación del carisma fundacional “Hoy se descubre cada vez más el hecho de que los carismas de los fundadores y de las fundadoras, habiendo surgido para el bien de todos, deben ser de nuevo puestos en el centro de la misma Iglesia, abiertos a la comunión y a la participación de todos los miembros del Pueblo de Dios.” Es la constatación de la Congregación para los In-
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stitutos de Vida Consagrada en su documento Caminar desde Cristo, n. 31, en el año 2002. “Ponerlos en el centro” significa situarlos en relación al bautismo y la confirmación, fuentes de toda vida cristiana y origen de la común llamada a la santidad, como también de la igual dignidad de todos los miembros de la Iglesia. De esas fuentes nacen los ríos que son los grandes carismas que aquí llamamos “fundacionales”, ríos que son producidos por el Espíritu y permiten vivir el misterio de Cristo en su gran riqueza y, simultáneamente, en la comunión de la gran variedad de las identidades eclesiales. Necesitamos situar el don del Espíritu que es nuestro carisma fundacional, en el centro de las relaciones laicos-religiosos y convertirlo en eje desde el que se organiza la vida interna de la familia carismática. Para ello hemos de recuperarlo en su raíz y en su originalidad, y hay que ser conscientes de que, en la inmensa mayoría de los casos, efectivamente es necesaria esa recuperación, pues suele estar confundido con los proyectos institucionales en que se ha plasmado, y más concretamente con el proyecto de vida consagrada a que ha dado lugar originariamente. En algunos casos, la confusión es tal que se hace imposible la participación de los laicos en el carisma, o bien se reduce esa participación a las tareas apostólicas del instituto en cuestión. Y con el carisma necesitamos recuperar una auténtica espiritualidad de la educación, que descubra a los educadores el sentido y el valor de su tarea educativa, primero como tarea profundamente humana y, después o por ello mismo, como lugar de encuentro con Dios. Si en nuestra “espiritualidad del educador” no se pueden sentir identificados, en los niveles más básicos, incluso los educadores agnósticos y los creyentes de otras religiones, o es falsa o está desencarnada; en cualquier caso, no es cristiana. El carisma fundacional con la espiritualidad a que da lugar se ha de redescubrir a la luz del itinerario evangélico del fundador/a, pero también desde la reflexión y el diálogo entre los grupos que están viviendo el carisma, laicos y religiosos; esta confrontación evitará que el carisma quede confundido con alguno de los proyectos en que se concreta, y al mismo tiempo subraya la responsabilidad de llegar a ser, juntos, el rostro del evangelio que el carisma ofrece a la Iglesia. A la luz de la eclesiología actual, que presenta la Iglesia como “misterio de comunión”, el carisma fundacional señala una forma de vivir la comunión para la misión y, en este sentido, cada familia evangélica se presenta a la sociedad como un icono de la Iglesia, tanto más expresivo cuanto mejor se vive en ella la comunión entre cristianos de diversas identidades, laicos y consagrados.
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CUESTIONES PARA EL TRABAJO DE GRUPOS
1. ¿Qué pistas nos parecen más significativas de las ofrecidas aquí, para avanzar en el proceso de la Misión compartida? 2. ¿Qué opciones predominan hoy en nuestras instituciones, en el modo de entender la misión, el carisma, la comunión en la Iglesia, que condicionan todo el proceso de la Misión compartida? 3. ¿De los niveles aquí propuestos para desarrollar la Misión compartida, cuál nos parece que conviene profundizar o concretar más? 4. Se ha hablado aquí de un reto urgente, la recuperación del carisma fundacional. ¿Qué otros retos nos parecen tanto o más urgentes en el campo de la Misión compartida?
BIBLIOTECA
RivLas 76 (2009) 1, 157-168
Remo GUIDI
L’inquietudine del Quattrocento Tiellemedia editore, Roma 2007, pp.1120. Il volume di Remo Guidi è uno di quei libri che non dovrebbero mancare nella biblioteca di uno studioso del Quattrocento o anche solo di chi desidera conoscere uno dei periodi storici e artistici più fecondi e ricchi di fascino della storia in generale e della storia italiana in particolare. Il volume conclude quanto già l’autore ebbe modo di scrivere e sottoporre all’attenzione degli studiosi con il saggio Dibattito sull’uomo del Quattrocento edito sempre dalla Tiellemedia editore, e analizza in maniera puntuale tutti i temi riconducibili a quell’inquietudine di cui è permeato il XV secolo, oscillante tra dinamismo e depressione, in una sorta di ambivalenza tra capacità, creativa e ozio, di coraggio e timore riscontrabile in ogni ambito sociale e religioso. Remo Guidi, facendo parlare i testi degli stessi letterati, pittori, filosofi e i documenti di quel tempo, apre al lettore un orizzonte immenso e sconosciuto, ma che paradossalmente riporta a somiglianze impressionanti col nostro tempo. Molti umanisti del tempo tentano di suggerire una definizione del momento storico in cui vivono e scopriamo che per alcuni era un tempo di ricerca smodata del successo, causata da ciò che il nostro autore definisce “una sottile e non effimera patologia dello spirito”, capace di togliere la serenità e il riposo a quanti ne erano affetti. Con questo volume l’occhio clinico dello storico esce dal perimetro meramente umanistico e indaga in maniera sottile nel mare non del tutto conosciuto del travaglio che alberga in uomini differenti per età, ambiti di competenze, stato sociale e cultura e scopre esserci in tutti loro un filo rosso che li unisce velatamente, ma fortemente l’uno all’altro, l’inquietudine. Tale stato inquieto apre certamente loro la via ad opere d’arte sublimi anche se nel medesimo tempo li lascia delusi e quasi umiliati per quella inadeguatezza che impedisce a ciascuno di loro di raggiungere in modo definitivo, completo quel che desideravano. La ricerca di Remo Guidi si trasforma in una vera e propria inchiesta in cui gli uomini scelti sono rappresentati mentre si interrogano, vivono e polemizzano sotto il peso delle domande che da sempre l’uomo si pone, nonostante la luce che già viene loro dai classici, dalla Bibbia e dalla scienza. L’autore compie questa inchiesta anche a livello sociale e sottolinea come anche gli Stati e la Chiesa del tempo hanno avuto nella precarietà uno dei loro segni più vistosi e distintivi e se questo avveniva macroscopicamente, non poteva non avvenire anche microscopicamente in ogni ambito della società, fino ad arrivare a ciascun individuo che, come un’onda d’urto veniva investito, magari inconsapevolmente dall’ansia dell’inquietudine. Come in una sorta di pendolo oscillante, l’autore osserva che l’altro versante del secolo inquieto fu un grande dinamismo, contrastante con il senso del limite e la coscienza della crisi, ma che da essi era generato. Nel tessuto ecclesiale “la fuga dal mondo” non tolse ai servi di Dio, il desiderio di rendersi utile al prossimo, e in quello delle arti umane la fragilità dei risultati e la stanchezza non tolse agli Umanisti l’affanno per la fama, la ricerca delle ricchezze e l’acre compiacimento delle contese, ma soprattutto non tolse loro la passione per le arti. Si può senza dubbio dire che gli Umanisti vissero per le lettere e nelle lettere. Paradossale, ma vero; tanto che uno di loro Benedetto Morandi, giunse perfino a dire che senza di esse avrebbe preferito non nascere. Il Quattrocento visse tra instabilità dovuta alle guerre, alle calamità naturali, alle epidemie, allo scisma, tutti fattori determinanti l’inquietudine che l’autore contrappone all’idea spesso descritta in Letteratura di un Quattrocento contraddistinto da una sorta di ottimismo ad oltranza. Nella sua rivisitazione degli spazi tematici dell’inquietudine, Remo Guidi sottolinea come gli umanisti respirassero profondamente il senso del limite, il fatto di sentirsi in una posizione altalenante tra la dialettica tra fede e ragione, “tra la voglia di darsi a gesti intrepidi e quella di esprimersi con capitolazioni pusillanimi”. Una situazione che l’autore accosta anche al nostro tempo, fatto di ritorni ciclici su questo punto senza mai apprendere la ricchezza
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Biblioteca
dell’esperienza precedente. Una crisi umana e spirituale che segna ancora giustamente i nostri giorni ogni qual volta ci si interroghi sul senso della vita e della morte, della dignità dell’uomo e dei suoi limiti e su quell’ansia dell’eterno che coglie tutti gli uomini, nella consapevolezza di restare inappagati. Il libro di Remo Guidi è una sua sfida posta con coraggio da chi ha compreso che quanto ci ha preceduto non può rimanere sotterrato nel passato, ma ha un valore perenne. Solo così si comprende il presente e si diventa creatori di futuro. L’Inquietudine del Quattrocento è per oggi: un testo che prova a verificare il dinamismo dell’inquietudine in un presente che spesso vuole solo l’effimero e cade nell’assurdo. Riprendere tra le mani l’inquietudine del passato è un modo per costruire la certezza serena del futuro.
Rino Fisichella
PONTIFICIA UNIVERSITÀ SALESIANA
Dizionario di Scienze dell’Educazione II ed. riveduta e aggiornata a cura di José Manuel Prellezo, Guglielmo Malizia, Carlo Nanni, LAS, Roma 2008, pp. 1325, con allegato Cd-Rom. 983 voci, 184 autori appartenenti a 15 diversi paesi, 1325 pagine, danno un’idea significativamente quantitativa di un’opera che si raccomanda per contenuto, praticità, utilità. Espliciti i criteri annunciati: Vi si tiene distinto ciò che è assodato dal punto di vista scientifico da ciò che
è problematicamente aperto o soggettivamente opinabile. Nel pieno rispetto della serietà scientifica, lo stile dei contributi cerca di essere chiaro e semplice, evitando, nella misura del possibile, terminologie eccessivamente specialistiche che solo gli addetti al lavoro potrebbero comprendere (p. 13).
Come nella prima edizione (1997), il Dizionario è redatto a cura dei docenti dell’Università salesiana; si tratta però di una edizione riveduta a fondo e aggiornata, che registra gli ultimi sviluppi delle scienze dell’educazione e affini. Le voci si suddividono in tematiche (riferibili ad ambiti disciplinari diversi, ma pedagogicamente rilevanti) e di carattere storico (autori, istituzioni, periodi storici di spiccato interesse educativo). Ogni voce è strutturata in una parte introduttiva, con una sorta di definizione del significato del termine seguita da una sintetica ma esaustiva esposizione del tema. Destinato agli studenti e studiosi di Scienze dell’educazione, è però di sicura utilità per docenti, educatori, genitori e, in generale, per le persone interessate ai problemi educativi. La chiave di lettura proposta è quella di un esplicito impegno etico che, accanto a una competenza professionale da qualificare sempre meglio, appare ormai ineludibile per chi opera nella scuola. La Presentazione chiarisce: L’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunica-
zione origina spinte contrastanti: moltiplica le opportunità di apprendimento, di informazione e di formazione e creazione di nuove forma di analfabetismo; ma genera anche consumo passivo, omologazione culturale, relativismo etico. Il non facile clima etico-religioso non solo rende difficili comportamenti sociali eticamente validi, ma rende pure difficoltosa una vita religiosa interiormente profonda e socialmente impegnata, come pure a una vita di fede sentita e motivata (p. 5). In coerenza con l’assunto editoriale, l’indagine e la definizione dei temi trattati sono specificamente indirizzate alla scoperta delle dinamiche sottese ai profondi mutamenti di una società avviata a diventare sempre più ‘mondializzata’, perché multietnica e multiculturale. Vi si affianca il proposito di ribadire razionalmente le ragioni su cui si fondano i valori tradizionali della nostra cultura, offrendo nel contempo criteri di verifica critica di quelli con cui veniamo a con-
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tatto, o in conflitto, ormai quasi quotidianamente. Emblematica la definizione di Educazione (a cura di C. Nanni): Promozione, strutturazione e consolidamento delle capacità personali fon-
damentali per vivere la vita in modo cosciente, libero, responsabile e solidale, nel mondo e con gli altri, nel fluire del tempo e delle età, nell’intreccio delle relazioni interpersonali e nella vita sociale storicamente organizzata, tra interiorità personale e trascendenza. Paradigmatica la rassegna di voci che la specificano: educazione ai media, all’economia, ambientale, artistica, comparata, cristiana, di genere, extrascolastica, fisica, intellettuale, interculturale, liberatrice, permanente, popolare, religiosa, scientifica, sessuale, sociopolitica, speciale, spirituale, stradale, tecnica (pp.369-404). Tra gli altri scopi dichiarati: l’opportunità di ridefinire gli orientamenti valoriali dell’educazione occidentale e cristiana sia pure secondo parametri formalmente nuovi - come quelli del Rapporto Delors che afferma come il sapere e il saper fare si devono coniugare con il saper essere e il saper vivere insieme; e la necessità di precisare, incoraggiare e sostanziare il sinergico concorso di tutte le agenzie educative: famiglia e scuola (che devono spesso riscoprire la loro originaria missione formativa), società civile e Chiesa; senza di esso nessun progetto educativo può aver successo. Al volume è allegato un Cd-Rom per le consultazioni off-line. Ogni voce, di facile reperimento, è agevolmente collegabile a contesti ipertestuali. Prossimamente il Dizionario sarà ulteriormente arricchito e aggiornato da un sito internet (http://dizionariofs.unisal.it). Giudizio decisamente favorevole, convalidato dalla pratica di chi, come l’estensore, ha tratto e trarrà vantaggi professionali da una consultazione frequente.
Marco Paolantonio
Benedetto VERTECCHI
Decisione didattica e valutazione La Nuova Italia, Firenze 2004, pp. 401. La valutazione costituisce uno degli impegni più ardui dell’insegnante, anche perché per valutare occorre sapersi valutare. Entrambi gli aspetti esigono una competenza professionale sempre vigile nello stabilire le finalità per cui operare e i mezzi di cui avvalersi. Considerazioni ovvie, che attendono risposte fondate, circostanziate, coerenti. Sono quelle offerte dal lavoro del Vertecchi, che ha tra gli altri il merito di chiedere al lettore lo scomodo ma redditizio obbligo di approfondire la lettura con un gran numero di esercizi. Essi, avverte l’A., “non sono di sola
applicazione di quanto si è appreso attraverso lo studio precedente, ma anche di problemi complessi. Molti argomenti sono sviluppati proprio all’interno degli esercizi, per consentire di effettuare immediatamente un’esperienza che confermi quanto è stato proposto in chiave generale o tramite un approccio teorico”. La chiave per l’autocorrezione posta in fondo al volume permette di confrontare il lavoro svolto col modello proposto. Il cammino è sviluppato in quattro tappe.
1. La decisione didattica. La valutazione è ridotta di solito all’espressione dei giudizi di profitto; ed è di solito compito del singolo insegnante in consonanza più o meno armonica con quella dei colleghi del consiglio di classe. Anche se momento conclusivo e necessario, costituisce però uno solo degli aspetti di un giudizio approfondito e articolato che, per essere valido, deve tener conto di un processo formativo complesso. “Una pratica razionale della valutazione deve esse-
re in grado di fornire alle scuole le informazioni delle quali hanno bisogno per precisare gli intenti della loro attività, per programmare gli interventi, per dare attuazione ad essi, per verificarne l’adeguatezza rispetto agli intenti”. Sono proprio la quantità e la qualità dei dati di cui dispongono che consentono alle singole istituzioni scolastiche, con l’effettiva collaborazione di tutte le componenti, di individuare i problemi che si pongono nel contesto in cui operano, a-
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vanzando di conseguenza le ipotesi sul modo di affrontarli, di stabilire in relazione a tali ipotesi l’adeguatezza delle risorse e le forme di intervento. Programmare la valutazione, in pratica vuol dire: prevedere momenti organizzativi, definire criteri razionali e stabilire come vi confluiscano e si armonizzino gli apporti personali e quelli dei gruppi. 2. La valutazione. Premessa di tipo sociale è la concezione educativa che sta alla base della valutazione. Altra infatti è quella di una scuola che seleziona (definita conservatrice) rispetto alla scuola che consente a tutti di raggiungere un livello di competenza adeguato alle personali capacità (scuola democratica). Solo in questo secondo caso si può aprire e attuare il ventaglio delle modalità degli interventi che, distinguendo tra misurazione e valutazione, valutazione formativa e sommativa, scale di misurazione (con relativa validità e attendibilità), ne prende in considerazione gli ‘oggetti’ (vale a dire i contenuti che costituiscono una base formativa comune, non le singole discipline), per approdare tra l’altro a una coerente nozione di ‘sufficienza’. Il modello organizzativo proposto ne riserva la parte terminale alla competenza dell’insegnante, attribuendo all’allievo la cogestione della valutazione intermedia. Ciò significa che a) all’allievo vengono fornite le informazioni (se ne attiva il processo di apprendimento); b) con lui si procede alle verifiche intermedie (formative); c) lo si pone nelle condizioni di stabilire l’(in)adeguatezza delle sue prestazioni; d) viene immediatamente attivata l’eventuale procedura di ricupero, si ripetono le attività elencate ai punti a-d; si conclude l’iter con la verifica finale (sommativa) dell’insegnante. A quest’ultimo scopo rispondono le prove oggettive, delle quali occorre però tener presenti i limiti: spersonalizzazione, prevalenza dell’accertamento delle nozioni rispetto ad abilità e competenze, possibilità di risposte fornite a caso. 3. Valutare la qualità dell’istruzione. Per valutare, abbiamo premesso, occorre sapersi valutare. Le difficoltà maggiori sembrano rappresentate: dalla mancanza di abitudine a esprimere giudizi che riguardino prevalentemente, o soltanto, i livelli di abilità osservati negli allievi; dalla scarsa consapevolezza dal carattere produttivo del servizio scolastico (con particolare riferimento all’alta dispersione e alla difformità su scala nazionale della distribuzione di risorse umane e materiali). Un nuovo corso della scuola secondo nuove prospettive dovrebbe proporsi: la consapevolezza che la scuola non può esaurirsi nell’acquisizione di abilità culturali, ma deve apprezzare e sviluppare gli atteggiamenti riguardanti valori e comportamenti significativi sui piani morale e sociale; la necessità di passare da un insegnamento individualizzato (che cerca di adattare il programma alle capacità dell’allievo) a un insegnamento personalizzato, che promuove le capacità del singolo allievo in modo da fargli esprimere il massimo delle sue potenzialità in ‘ambienti di apprendimento’; l’uso consapevole delle risorse; la crescita di una cultura didattica, epistemologicamente fondata. 4. Progetti ed esperimenti. È questa la parte del libro che sollecita l’interesse di chi intende scendere nel campo della sperimentazione. Frutto della trentennale esperienza dell’A., presenta prima ed espone poi in che modo: - stabilire il significato di qualità e quantità nel linguaggio comune e in quello scientifico; - distinguere, in educazione, le caratteristiche formali di un giudizio fondato sul ‘senso comune’ - affrontare, sulla scorta delle sperimentazioni in campo nazionale e internazionale, i problemi della misurazione; - selezionare il tipo di scala più opportuno per uno specifico contesto di misurazione; - impostare tabelle per l’organizzazione dei dati e calcolarne le percentuali; - formulare correttamente ipotesi, elaborando strategie di intervento didattico congruenti; - costruire una scala empirica, progettando e realizzando gli strumenti piùidonei alla misurazione della specifica realtà formativa individuata; - effettuare le rappresentazioni grafiche dei dati (valore della moda e della media, calcolando la deviazione standard); confrontare graduatorie, valutando i risultati ottenuti in più gruppi paralleli; - sapersi organizzare per il calcolo statistico e organizzare uno schedario. “Lo spirito di geometria – conclude l’A. – si combina (parafrasando Pascal) con la sensibilità di chi pratica l’educazione”.
Marco Paolantonio
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Elio DAMIANO
L’insegnante etico
Saggio sull’insegnamento come professione morale Cittadella editrice, Assisi 2007, pp. 405.
L’A. è stato insegnante di scuola primaria e secondaria, poi dirigente scolastico. Oggi è professore ordinario di Didattica generale presso l’università di Parma e si occupa, fra l’altro, dei rapporti fra teoria e pratica nella formazione degli insegnanti. Ha quindi le carte in regola per aiutarci a evitare sia l’errore di un ‘mestiere senza saperi’ (per cui basterebbero il buonsenso, l’esperienza, l’intuizione, il talento,...) sia quello di ‘saperi senza mestiere’ (ancorato a una cultura teorica non sottoposta alla severa verifica dell’insegnamento in atto). Il contributo offerto ha come oggetto un sapere ‘esperto’, da non identificare con quello codificato nelle discipline né con l’apprendimento più o meno tecnologico. Va inteso, infatti, come affrancamento dall’ insufficiente sapere morale che, a causa delle imprevedibili quanto numerose interazioni antropologiche in atto nella società, rientra tra i fattori della crisi che ha investito anche la scuola. Tre le tappe dell’itinerario: l’analisi dei cambiamenti che riguardano i soggetti dell’educazione, le caratteristiche attuali del rapporto tra giustizia ed educazione, il nuovo status professionale degli insegnanti. Ai quali si chiede di passare da un ruolo talvolta solo esecutivo e impiegatizio a quello della promozione morale, intesa come sollecitazione di tutte le qualità umane che afferiscono all’autentica realizzazione personale degli allievi. 1. Insegnare nella Società degli individui. Tante le cause di una profonda e diffusa crisi di parametri valoriali con la quale oggi gli insegnanti devono fare i conti. Per citarne alcune: l’individuo della ‘specie contemporanea’ è teso alla costruzione di un super-io mobile e fluttuante perché aggiogato alla soddisfazione egocentrica di bisogni e interessi immediati ed è insieme insofferente di qualsiasi ostacolo e pur minimo condizionamento; deve inoltre fare i conti con gli adulti, che non sono più, da un paio di generazioni, i fedeli custodi dei doveri e delle regole ereditati; - la pervasività della tecnologia delle comunicazioni fa accedere nella vita individuale a una realtà virtuale, eccedente e barocca, iper-realistica, che si affianca alla realtà vera e si lascia preferire; nella vita associata ha il volto della learning society, in cui apprendimento ed educazione sono sempre più gestite da agenzie esterne alla scuola, tanto dotate di seducenti strumenti multimediali quanto prive di ‘scrupoli’ etici; - la liberalizzazione dei costumi pone tra l’altro in aperto conflitto la gratuità culturale dell’offerta formativa della scuola, che dovrebbe essere fondata sulla ricerca di verità e di senso, con la crescente domanda di utilità pratica delle conoscenze manifestata dai giovani e dalle loro famiglie. Oltre che ‘vero’ il sapere che la scuola trasmette dev’essere ‘credibile’, vale a dire argomentato in modo convincente (con metodi adeguati) e capace di offrire chiavi di lettura della realtà (con perspicace scelta dei contenuti). 2. L’insegnamento azione morale. La questione etica, ricorda l’A. citando il Ricoeur, si pone tutte le volte che un essere umano si trova di fronte a un altro essere umano. Tra le diverse accezioni che può offrire il termine ‘morale’, il Damiano coglie quella che risponde alla domanda: per quale fine si insegna? I principi a cui ci si dovrebbe ispirare e dai quali dipendono le scelte degli strumenti idonei sono giustizia e verità. - Giustizia significa saper stabilire un corretto rapporto educativo con il singolo allievo, improntato al rispetto reciproco nella distinzione dei ruoli; saper gestire un potere che non deve trasformarsi in arbitrio; saper improntare la convivenza a principi di vera democrazia¸ saper valutare in modo oggettivo - ma per promuoverle - le capacità individuali (ricche di stimoli le pagine sulla giustizia fra i diversi) ; dar giusto valore a premi e punizioni. Ma è col suo comportamento stesso che l’insegnante si fa agente morale, perché il suo agire - nel bene e nel male - è sicuramente più convincente delle sue parole.
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- La ricerca della verità è guidata dall’ insieme di valori che l’insegnante persegue e propone in forza della ‘strategicità’ del suo ruolo, ‘che in ultima istanza determina il sapere effettivamente
insegnato in classe, assegnando il tempo all’uno o all’altro contenuto, nel lavoro di aula, sia alle priorità attribuite al momento della valutazione di quel che conta ai fini del giudizio, del buon voto per la promozione o della sanzione che può concludersi con la bocciatura. Necessaria dunque, e prioritaria per una moralità professionale, la conoscenza aggiornata di contenuti e di metodi che rendano valida e fruttuosa la sua mediazione didattica
3. Una professione etica. La formulazione di un codice deontologico, tanto necessaria quanto difficile, può fondarsi su alcuni orientamenti che l’A. riassume così: capacità di discernere i va-
lori in gioco nei propri atteggiamenti e comportamenti; capacità di giustificare, presso il pubblico interessato, le proprie decisioni relative all’adozione dei giudizi di valore, di strategie e metodologie congrue in relazione con il contesto normativo, alle caratteristiche dei soggetti e degli oggetti culturali da apprendere; capacità di discernere e collegare i problemi morali che si ponessero all’interno dell’aula e dell’istituto scolastico ai grandi temi della riflessione etica che attraversano la vita sociale nel suo insieme. Enunciazioni inevitabilmente astratte, che l’A. però sostanzia di indirizzi e di contenuti. Un libro di riferimento per i professionisti della scuola.
Marco Paolantonio
Bruno ROSSI
Avere cura del cuore. L’educazione del sentire Carocci, Roma 2006. ISBN 88-430-3992-X Maria Rita CASTELLANI
Il diritto del bambino alla tenerezza
Edizioni Dehoniane, Bologna 2007. ISBN 978-88-10-51049-0 Se c’è un equilibrio che rende possibile nell’uomo la sintesi tra io e mondo, tra personale e sociale; se quello stesso equilibrio per cui la storia di un singolo determina timidamente o prepotentemente la storia di un gruppo o addirittura di un popolo; se questo equilibrio sembra insondabile, inesprimibile, a tratti forse inesistente, le pagine di Bruno Rossi sembrano invece sfogliarlo, quell’equilibrio. Sembrano situarsi tra le pieghe e gli avvallamenti antichi di tante domande che affollano il nostro tempo e che non trovano risposta. Non perché la risposta non ci sia, ma perché non si ha il coraggio di pronunciarla.
Non mancano tra queste pagine di Rossi, già autore di ricerche importanti in questa direzione (Pedagogia degli affetti, Roma-Bari 2002; L’educazione dei sentimenti, Milano 2004; Intelligenze per educare, Milano 2005, solo per citarne alcune), parole nitide contro una cultura da “tuffi al cuore e brividi intensi” (p.64), professata da cercatori di emozioni e da collezionisti di piaceri che praticano l’ “autocura” e la “solitudine esistenziale”; contro la censura praticata alle emozioni difficili da parte del mondo dell’efficienza e del management (p.67); contro la «progressiva diffusione di personalità narcisistiche» (p. 172) ed atteggiamenti di necrofilia; contro un sentire post-moderno che barcolla tra una tirannia della razionalità e la ricerca delle emozioni-choc. E non perché non siano importanti emozioni e sentimenti. Tutt’altro: sono importantissimi. Ma vanno gestiti, educati, compresi nella loro ricchezza e complessità; emozioni e sentimenti possono costituire la porta di accesso ad una società cosmopolitica e multirazziale come quella che ad oggi si sta profilando. La vita interiore va pensata e riflettuta nel suo accadere, perché non esiste l’uomo che pensa distinto dall’uomo che sente, come tutta la cultura post-cartesiana ha voluto far intendere. Rossi sancisce un emblematico “Sento, dunque sono” che confermi l’uomo come essere desiderante, per rendere evidente che «l’affettività prende significativamente parte alla definizione dell’identità della persona» (p.77). C’è e deve esserci circolarità tra vita razionale e vita emozionale, senza che l’una prevarichi sull’altra e viceversa.
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La vita interiore va compresa, quanto più possibile va “alfabetizzata”. «L’alfabetizzazione emozionale consente di riconoscere le emozioni, le passioni e i sentimenti e di arricchire e affinare il proprio vocabolario affettivo, nonché di valutare con maggior precisione i propri punti di forza e di debolezza (…). La possibilità di elaborare l’esperienza affettiva anche al livello logicoconcettuale porta un contributo considerevole ai processi di affinamento e di evoluzione della vita affettiva» (p.82). In questo contesto si percepisce ugualmente prezioso l’andare verso l’altro e lo stare in solitudine, poiché entrambi possono diventar luoghi di ascolto e di comunione profonda con l’altro e con il sé. È chiaro che coltivare l’intelligenza del cuore che sente – parafrasando il titolo – ha una finalità, oltre che un convincimento in Rossi: che l’educazione affettiva può contribuire a rendere forte il sentimento dell’io, del tu e della vita, fondamenti indispensabili per un tessuto societario umano ed umanizzante, che sia culla di coscienze sane. Resta chiaro che l’emozionale non è il sentimentale. Ecco perché l’uomo contemporaneo deve imparare questa distinzione (p.60) e soprattutto deve imparare ad ancorare il sentire ad una forma matura di umanesimo dell’amore (p.166), entro il quale si relazionino personalità forti e capaci di amare. Ma in una relazione d’amore matura si coniugano eros e agape, per cui è essenziale educare all’auto-governo e al potenziamento dei sentimenti positivi: non è affatto laterale a questo che l’educazione alla sessualità sia abile a far apprezzare la differenza come risorsa, e ad aprire all’esperienza dell’amore come oblativo (p.177). Su queste premesse si potrebbero costruire legami solidi, duraturi, non confusi e capaci di essere il fondamento di una società capace di dialogare. L’esperienza pedagogica si risolve così, in questo lavoro di Rossi, come un gioco intenso, serio, maturo di equilibri: tra l’io, il tu, il mondo; tra cervello emozionale e cervello pensante; tra sentimenti e valori; tra amore e ragione. Questo gioco di equilibri che, dicevamo all’inizio, il volume di Rossi sembra sfogliare, conclude proprio evocando un bisogno e denunciando una necessità, come se la soluzione di questa ricerca passasse da qui: ovvero, tornare a sentire, e sentire con tenerezza (p.231ss). È l’“io tenero” che può essere capace di superare l’io prometeico e di non far scadere l’incontro con l’altro in un «soliloquio reciproco». Solo nella dimensione della tenerezza l’uomo può farsi davvero «cavità ospitante, spogliandosi delle proprie pretese e arroganze» (p. 233); è la tenerezza che ci consente di trascenderci, ed è forse l’unica risposta entro una società fragile come quella attuale. La conclusione di Rossi, aprendo l’eventualità di “nuovi spazi per la tenerezza”, evoca una recente pubblicazione della pedagogista Maria Rita Castellani, Il diritto del bambino alla tenerezza. L’autrice indaga la tenerezza come un diritto del bambino, diritto che se gli viene corrisposto potrà renderlo un adulto forte e sicuro di sé. Di tale diritto esperti, pedagogisti, giuristi potrebbero e dovrebbero parlare per promuovere: constatiamo però una profonda indifferenza ad un tema così delicato ed essenziale. Come anche il teologo Carlo Rocchetta (autore peraltro di una Teologia della tenerezza, Edb, Bologna 20054), evidenzia nella prefazione, di fronte ad una aumentata frequentazione di psicologi da parte dei bambini, la Castellani mostra come solo una dimensione affettiva di tenerezza agíta in famiglia e tra coniugi può soddisfare la profonda richiesta d’amore di ogni bambino. Calore affettivo, fiducia e stabilità: sono queste le declinazioni della tenerezza che il bambino deve vivere in famiglia e che vengono indagate dall’autrice nella loro dimensione personale, di coppia, di genitori. A fianco a questo, viene esaminato il volto concreto della tenerezza, fatto di linguaggio e gesti. Castellani correda ogni tema affrontato di tests, resi disponibili al lettore come tracce per la meditazione e l’approfondimento. Il libro della Castellani si configura così come un manuale, una guida utile in famiglia e a chiunque voglia accostarsi a questa dimensione dell’educazione all’affettività.
Flavia Marcacci
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Tilman ALLERT
Heil Hitler! Storia di un saluto infausto Il Mulino, Bologna 2008, pp. 98.
“Non mi sorprenderei troppo se un giorno i canarini e le tartarughe iniziassero a sollevare le zampe per tributare il saluto hitleriano e ad alzare la voce per pronunciare lo Heil d’accompagnamento”. Questa frase del teologo Karl Barth sintetizza con sarcasmo ciò che è avvenuto in Germania con il saluto hitleriano – Heil Hitler! – formula pronunciata con il braccio destro teso e alzato fino all’altezza degli occhi e il palmo della mano aperto - che per dodici anni, a partire dal 1933, fu imposto dalla politica “come cornice ad ogni comunicazione”, sostituì le precedenti forme di saluto, rappresentò un fenomeno unico e divenne un attestato di lealtà e un sismografo per misurare il consenso al regime. Forma essenziale della socialità e primo regalo simbolico che si fa all’altro, il saluto - in generale - mette in mostra una sequenza di aspettative e obblighi, rappresenta un primo passo verso la comunicazione e costituisce una pratica sociale che media le interazioni umane, disciplina l’incontro e regola l’apertura verso l’altro. Ma, come osserva il sociologo Tilman Allert, docente all’Università di Francoforte, il saluto tedesco è qualcos’altro e va inteso come un giuramento travestito che distorce “completamente le funzioni naturali di un gesto di reciproco riconoscimento e reciproco impegno”. Hiltler è cancelliere da soli sei mesi quando il 13 luglio 1933 il Reich promulga un decreto che definisce il saluto hitleriano un dovere civico. Il regime si infiltra così in ogni aspetto della vita quotidiana e sfida le aree della società tedesca che già avevano le loro tradizioni; diventa un “sacramento politico, un sacro giuramento di sottomissione a Hitler”, un giuramento di appartenenza ad una comunità carismatica. Già da quell’anno chi si sottrae al saluto viene incarcerato o rinchiuso in campi di concentramento, come accade al curato luterano Paul Schneider, che si rifiuta di attenersi al saluto all’inizio delle lezioni preparatorie alla cresima e che nel giorno del compleanno del Führer non saluta la croce uncinata. Le istituzioni educative introducono il saluto subito dopo la presa di potere dei nazionalsocialisti, i capi militari riescono a lungo a tenere in vita le proprie tradizioni e i propri protocolli di saluto mentre per le chiese la situazione è più differenziata. I testimoni di Geova lo rifiutano e vengono per questo attivamente perseguitati, la chiesa protestante luterana e la chiesa cattolica tedesca si adattano e fanno compromessi che derivano in parte dal loro diverso status, rispettivamente di chiesa nazionale e di minoranza religiosa. Entrambe esprimono eroi, come il vescovo di Münster, Clemens August von Galen, i pastori Karl Barth e Dietrich Bonhoeffer, anche se nella maggior parte dei casi le chiese protestanti incorporano il saluto hitleriano nelle istruzioni religiose ed evitano di prendere pubblicamente posizione contro il regime. “Benché i pastori e i preti non siano mai arrivati a compiere il saluto hitleriano dal pulpito o a incorporarlo nella pratica liturgica, le due maggiori comunità religiose tedesche hanno offerto in pratica molto poca resistenza al sovvertimento dei costumi sociali compiuto dai nazisti”, scrive Allert. La storia del saluto hitleriano è anche la storia di come “i tedeschi tentarono di sfuggire alla responsabilità dei normali rapporti sociali, rigettarono il dono del contatto con gli altri, permisero che i costumi sociali decadessero e rifiutarono di ammettere la natura necessariamente aperta e ambivalente dei rapporti umani e dello scambio sociale”. Come un fantasma – conclude Allert – il saluto sparisce dopo la guerra, pur continuando ad avere una vita propria, per quanto camuffata, per esempio nella successione delle lettere HH al centro della sequenza usata per le targhe delle automobili o, per esempio sulle T-shirt, nel doppio otto del numero 88, che cifrando l’ottava lettera dell’alfabeto allude al saluto Heil Hitler!, segni di riconoscimento tra “associazioni di cospirazionisti, antiprogressisti o razzisti”. Oggi il saluto nazista non è solo guardato con disprezzo, ma è illegale ai sensi del Codice penale tedesco, con l’unica eccezione giuridica dell’uso ironico ed esplicitamente critico.
Roberto Alessandrini
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Brunetto SALVARANI
Da Bart a Barth. Per una teologia all’altezza dei Simpson
Introduzione di Gioele Dix, postfazione di Paolo Naso, Claudiana, Torino 2008, pp.160. Milioni di spettatori in 70 Paesi del mondo, migliaia di siti web, 23 Emmy Awards, omaggi di Time, pubblici apprezzamenti dall’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, dal vescovo irlandese Donald Murray e dal teologo-catecheta anglicano Owen Smith, che si è proposto di affrontare le tematiche cruciali della fede cristiana facendo ricorso ad alcuni episodi della serie. I cartoni animati dei Simpson – storie quotidiane di una famiglia sgangherata e politicamente scorretta della working class, ritratta dall’osservatorio di una città media della provincia americana, Springfield – richiama ora l’attenzione dei teologi, così come era avvenuto negli anni Sessanta con The Gospel According to Peanuts, che l’ex pastore presbiteriano Robert L. Short aveva dedicato ai personaggi di Charles Schulz. Sullo sfondo di un’America necessariamente diversa, la nuova incursione teologica nel mondo dei cartoons si deve a Brunetto Salvarani, docente alla Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna, direttore di Cem Mondialità, Qol e Tempi di fraternità. La famiglia di personaggi gialli – questo è ormai il loro marchio di fabbrica - si presta a descrizioni impietose: il padre Homer, 35 anni “portati tragicamente”, obeso, pigro, ignorante, irascibile, mangiatore di ciambelle e bevitore di birra, è ispettore di sicurezza nella locale centrale nucleare, mentre la madre Marge è una casalinga perbenista e talvolta frustrata con un paio di sorelle single e gran fumatrici. I tre figli, cresciuti in una sostanziale anarchia educativa, sono il furbo e impenitente Bart, la saputella, ecologista e anticonformista Lisa e la piccola Maggie. Completano il quadro una serie di originali personaggi, tra cui il vicino di casa Ned Flanders, integralista religioso cristiano, creazionista antidarwiniano, convinto che il sole giri intorno alla terra e perennemente assillato da dilemmi etici; il reverendo Timothy Lovejoy, pastore di una non meglio precisata chiesa evangelica cittadina; il clown Krusty, emblema dello show-business, ripudiato da padre rabbino per aver scelto il mondo dello spettacolo. L’esordio televisivo dei Simpson in Usa risale al 1987, la prima serie vera e propria è del 1989 con una media di 13 milioni di spettatori, e il film per il grande schermo (The Simpsons – The Movie) approda in Italia nel settembre 2007. Un successo accompagnato anche dalle dure critiche dei gruppi fondamentalisti cristiani e dello stesso presidente George Bush Sr durante le presidenziali del 1992. In effetti, l’ideatore dei “musi gialli”, Matt Groening, nato da famiglia mennonita e cresciuto tra i metodisti, ricorre “a cartoons e fumetti per ragionare d’altro”, con una particolare attenzione alla multiforme dimensione del sacro. E il libro di Salvarani, inconsueto per gli approcci tradizionali della teologia, ma proprio per questo originale, riflette sul rapporto tra i Simpson e le religioni. Moltissime sono le citazioni da Genesi, Esodo, Libri dei Re, Qohelet, Vangeli, Apocalisse e molte le vicende religiose dei protagonisti, dalla conversione di Lisa al buddismo alla “svolta cattolica” di Homer e Bart, dalle critiche al miracolismo imperversante alle ricorrenti allusioni apocalittiche. Senza tralasciare la denuncia dei rapporti non sempre idilliaci tra le confessioni cristiane, la satira dei luoghi comuni del cattolicesimo e il dissacratorio tentativo del piccolo Bart di vendere la propria anima per cinque dollari. Sarcastici anche i riferimenti alla ipercommercializzazione della nuova chiesa cittadina, con tanto di cartelloni pubblicitari e luci al neon, e alle fantasie su un parco divertimenti di impronta cristiana – Osannalandia – che prevede anche un tunnel della paura in cui un enorme re David costringe i bambini a ascoltare la recita di tutti e 150 i salmi. Sullo sfondo, il panorama variegato dei movimenti della Next Age, dove si concorre al supermarket del sacro e si compete con altri messaggi di salvezza a colpi di workshop e manuali del benessere. Lontani da ogni logica disneyana, i personaggi simpsoniani si ammalano, si deprimono, tentano il suicidio e talvolta muoiono. “Conservando – precisa Salvarani - un discreto scetticismo nei confronti dell’azione divina nel mondo, ma anche rivolgendosi, all’occorrenza, in presa diretta a Dio (...) soprattutto nei momenti di più intenso scoramento”.
Roberto Alessandrini
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Salvatore VALITUTTI
La rivoluzione giovanile
A. Armando, Roma 2007, pp. 160.
Datato ma non troppo, questo libro, che l’editore Armando ripubblica in edizione speciale, con il sostegno della provincia di Salerno, per celebrare il centenario della nascita di Salvatore Valitutti (Bellosguardo/Salerno 1907 – Roma 1992). Erano noti sia l’acume critico che l’autentica passione scolastica del senatore, ministro della P.I., che fu, tra l’altro, uno dei più giovani provveditori agli studi del nostro Paese. Rileggendo questo testo che risale al 1955, ci si rende conto che quelli che per i più erano debolissimi segnali, diventavano evidenze inequivocabili per chi come Salvatore Valitutti sapeva leggere la realtà, come si dovrebbe sempre, sulla base dei numerosi dati dell’esperienza ma anche e soprattutto analizzandola alla luce di una profonda cultura storica, sociale ed economica. Credo che sia molto utile rileggere le sue pagine perché alcune delle riflessioni che faceva allora sono tuttora valide, sia per quanto riguarda l’uso strumentale che dell’arma gioventù molti “non più giovani e smaliziatissimi” hanno fatto e forse faranno, sia perché ripercorre storicamente l’evoluzione di senso e rilievo della concezione di gioventù nelle diverse società umane. Da Platone a Kant, dai movimenti giovanili a G. Wyneken, dai giovani nei totalitarismi ai giovani nella democrazia, il suo pensiero si chiarisce di pagina in pagina. Il più grande tradimento che si possa operare nei confronti della gioventù, sosteneva Valitutti, è quello di impedire loro “di maturare ad Uomini”, di evolvere, conoscere e soprattutto di acquisire una forte coscienza morale. Il giovanilismo latente, ripete con sofferta e consapevole insistenza, non aiuta il nuovo a nascere ma sfrutta e fissa quel che c’è nella immaturità giovanile: esso è la testimonianza di una distruzione delle forze della vita. In un articolo che seguì questo trattato, il Senatore riportava quanto in quell’anno stava accadendo in Francia. Pare, riporta il sen. Valitutti, “che nel novembre 1954 la inventività pragmatica di Pierre Mendès-France stesse per regalare alla Francia un Ministero della Giovinezza, il cui progetto venne però abbandonato. Il Ministero della Giovinezza che alcuni volevano e molti non volevano, non nacque né allora né dopo”.Mendès-France allora annunziò di voler costituire in seno ad ogni Ministero, nella cui competenza rientrassero problemi della vita giovanile, speciali commissioni formate da funzionari e da rappresentanti delle organizzazioni dei giovani, per lo studio dei problemi stessi e per progettarne e proporne via via la pratica risoluzione. Ci sarebbe stato anche un coordinatore sovraministeriale, denominato “addetto alla speranza” (altro che fantasia al potere!) e dipendente direttamente dal Capo del governo. L’intento del progetto di Mendès-France era quello di ottenere la partecipazione dei giovani all’azione dello Stato: ed era questo aspetto, sottolinea Valitutti, che ci preoccupava molto. I giovani non sono una classe sociale. Ad essi spetta il compito primario di diventare uomini: tutto il resto è subordinato a questo compito. La società democratica - insiste a buona ragione allora come ora l’Autore - esige che sia aiutato il processo di formazione umana dei giovani, in quanto essa ha bisogno del senno e del consiglio di tutti. La democrazia non può abbandonare i giovani a se stessi con il pretesto di rispettarne la libertà, per la ragione che essi non sono ma debbono diventare liberi e non possono diventarlo che con l’aiuto degli adulti. Abbandonare i giovani a se stessi, vuol dire, in realtà,abbandonarli all’influsso delle forze più incontrollabili, che diventano fattori irresponsabili della loro educazione o della loro diseducazione. Parole sante.
Anna Lucchiari
Cesare PAVESE
Dodici giorni al mare, Ed. Galata, Genova 2008. Nell’agosto del 1922 un Pavese non ancora quattordicenne (era nato il 9 settembre 1908) trascorre dodici giorni di vacanza al mare in un campo scout e affida al diario d’obbligo il resoconto dettagliato della sua “avventura” a Celle Ligure, a Savona e a Genova. Al ritorno a Tori-
Biblioteca
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no, decide in modo del tutto autonomo di dare una forma non richiesta, in qualche modo “ufficiale”, al suo diario, ricopiandolo parzialmente in bella, integrandone qua e là il primo getto (quello che veniva letto e approvato da un senior) e corredandolo di immagini (minuta e bella copia sono custodite presso l’Università di Torino, Centro Interuniversitario per gli studi di Letteratura italiana in Piemonte «Guido Gozzano – Cesare Pavese»). Il gruppo frequentato dal giovane Cesare, come è stato possibile ricostruire attraverso ricerche di prima mano documentate nelle note che corredano l’edizione, è il «Riparto II - La Salle», fondato dai Fratelli delle Scuole Cristiane in via Superga 8 (poi Martiri Fascisti, oggi Martiri della Libertà). Come si legge nel volume dedicato al Primo centenario dei Fratelli delle Scuole Cristiane in Torino 1829-1929, «già fin dai primordi della sua esistenza in seno alla Scuola si era formato un primo nucleo di Esploratori Cattolici che nel 1919, accresciuti di numero e perfettamente organizzati, costituirono uno dei più fiorenti Reparti Cittadini che, cellula vivente, diede origine ad altri nuclei, e seppe meritare in solenni circostanze il plauso delle pubbliche Autorità». Nella Storia della Casa (dal 1902 al 1963), conservata manoscritta nell’Archivio dell’Istituto, sotto l’anno 1919-1920 si trova la seguente annotazione: «Si ricostruì il 2° Reparto Esploratori e fu loro ceduta la sala ad angolo al 1° piano Via Superga-Ludovica». Pavese aveva, per così dire, il diritto di essere accolto lì, pur non frequentando l’Istituto «La Salle», come invece la maggior parte dei suoi compagni di campo, perché la madre, in seguito alla vendita, nel 1916, della cascina di San Sebastiano dove Cesare era nato (Santo Stefano Belbo), per le vacanze estive aveva acquistato una casa sulla collina torinese, a Reaglie, e il «La Salle» raccoglieva giovani provenienti non solo dalla città, ma anche dai comuni limitrofi di San Mauro, Sassi, Reaglie appunto, ecc. A vegliare su quel gruppo di ragazzi al mare è Fratel Emilio, ovvero Emilio Aburrà (18821954), professore presso l’Istituto «La Salle» di Torino dal 1919 al 1925, direttore e assistente ecclesiastico di quel reparto scout; «venuto prima di loro a cercare il posto per l'accampamento ed a assettare mille altre cose», «ha parole di lode per alcuni di biasimo per altri ma con tutti è sempre gentile e cortese». Il 16 agosto li raggiunge per un giorno un altro educatore, fratel Amerigo, ovvero Giuseppe Gherzi (1890-1971), professore di disegno presso l’Istituto «La Salle» di Torino dal 1920 al 1924 (prima agli Artigianelli di Genova, poi a Biella), diplomato all’Accademia di Brera e pittore. Il racconto della vita del campo, scandita da orari, regole e compiti precisi (l’odiata sveglia alle 5,30, la pulizia personale, l’alzabandiera, la messa, la colazione, la spesa in paese, il pranzo, le attività ludico-sportive, la cena, il rapporto, le preghiere, i turni di guardia) riflette le peculiarità di chi impugna la penna (o il lapis). In lui, insomma, è già possibile intravedere qualche timida traccia del futuro scrittore. La tendenza all’autoconfessione si coniuga con la precisa intenzione di rivolgersi a un lettore («Non starò a descrivere il mio quarto di guardia, lo lascio immaginare al lettore»), con la lucida previsione di un pubblico, possibile, anzi probabile. La scrittura di Pavese si nutre di similitudini, accumula immagini, introduce chiaroscuri e messe a fuoco di particolari, tradisce stati d’animo e sentimenti diversi, si abbandona a descrizioni minuziose di monumenti (chiese, palazzi e musei) e di paesaggi, primo fra tutti il mare, il luogo dei bagni, certo, delle magnifiche spiagge, ma anche e soprattutto l’elemento su cui il ragazzo comincia a sognare quei «mari del sud» di là da venire. E il sogno inizia allorché si ha «la fortuna di assistere all'entrata di un piroscafo, che luminoso, per le lampade delle cabine e per i fanali degli alberi, s'inoltra maestosamente nell'acqua calma» del porto di Genova e di sentire «il cupo boato» della sirena che sembra «risvegliare tutta l'immensità addormentata». Nella mente si affacciano e si accavallano domande mute, destinate a rimanere senza risposta («Chissà da quale lungo viaggio tornava quel transatlantico dalla mole enorme e dai fianchi poderosi? Chissà quante persone portava nel suo seno?»), mentre il sogno a poco a poco svanisce «fra le mille altre luci sparse sulla superficie sconfinata».
Mariarosa Masoero
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Arnaldo DE VIDI – Mario CELLI
Le cinque stagioni. Educazione alla mondialità, intercultura, pace
Tip. Spedim, Monte Compatri 2008, pp.272 (c/0 Regione Lazio. Assessorato Ambiente; c/o Comune di Monte Porzio Catone, Assessorato alle Politiche sociali). Le utopie si realizzano, asseriva Nicolas Berdiaeff, cioè le "u-topie" diventano "topie": quello che non ha luogo, l'avrà; chi non ha opportunità, l'otterrà. Allora importante è sognare utopie altamente positive. È la tesi di questa opera che parla di cinque stagioni. All'equatore ci sono due stagioni: quella secca e quella delle piogge; nelle zone temperate ce ne sono quattro: la primavera della rinascita, l'estate della maturazione, l'autunno dei frutti, l'inverno dei riciclo; ma solo la "quinta stagione" parla il linguaggio di un inedito mondo riconciliato. Sappiamo che il futuro del pianeta dipende da questo inedito di solidarietà e condivisone, che ancora non c'è. La Regione Lazio, sensibile a questa utopia, vuole trasmettere alle nuove generazioni questa speranza in un mondo riconciliato, dove i più fortunati siano magnanimi verso i meno fortunati; dove il primo mondo tenda le mani al terzo, anche perché gli è debitore dì molti doni. Il presente libro è nato dall'incontro dell'idealismo della Regione Lazio con l'arte di due autori che credono nelle cinque stagioni e nell'educazione alla mondìalità. Il loro intuito è essenzialmente pedagogico: fornire un buon materiale per l'educazione alla mondialità e all'incontro e cooperazione tra i popoli. Un buon materiale didattico passa necessariamente per due canali: la poesia e l'immagine. In particolare oggi assistiamo alla rivincita della poesia, grazie anche ad internet. Ma buona poesia scarseggia e tutti gli educatori sono sempre alla ricerca di buoni testi poetici per sé e per i giovani affidati alla loro missione formativa. Quanto all'immagine, essa è la marca registrata della nostra epoca, col solo pericolo che cattive immagini - violente, mostruose, trasandate provochino una "metastasi" della stessa. In quest'opera troviamo ottimi testi (dice l'illustratore) e ottime illustrazioni (dice il poeta). Ogni pagina è studiata graficamente per essere utile anche didatticamente a tutti gli educatori che hanno a cuore la formazione propria e della gioventù. Il presente libro è quindi destinato al mondo della scuola e dell'associazionismo, per gli istituti di lunga tradizione e per i gruppi spontanei, di base. Per questo la Regione Lazio che promuove varie iniziative di solidarietà a favore del terzo mondo, raccomanda quest'opera come esercizio pedagogico che crei l'atteggiamento giusto, senza il quale ogni azione solidale mancherebbe di anima. Questo si desume anche scorrendo l'indice coi temi trattati nelle sezioni del libro: Mondialità, Ecologia, Pace, Bambini, Donna, Terra, Solidarietà, Natale, Mistica... Non resta che congratularsi per una realizzazione tanto provvidenziale. (dalla Presentazione di Filiberto Zaratti, Asses-
sore all’Ambiente e alla Cooperazione della Regione Lazio).
BIBLIOTECA
RivLas 76 (2009) 1, 169-173
Democrazia, istituzioni, scuola nelle Cronache Sociali di Dossetti a cura di Francesco Pistoia “Nel quadro delle celebrazioni per il decennale della morte di Giuseppe Dossetti (1913-1996)
la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, che lo ha avuto come suo fondatore e presidente, ha promosso una serie di studi e ricerche: a quelle monografie, agli atti dei convegni, al dvd con i frammenti autobiografici s’è voluto affiancare questa edizione anastatica e digitale della rivista Cronache sociali nella quale Dossetti diede ancora una volta prova delle sue capacità di tessitore di sodalizi intellettuali audaci e di produttore di cultura anche politica nuova”. Il corsivo, che introduce l’opera*, indica chiaramente lo spirito che ispira i promotori dell’iniziativa: diffondere la conoscenza del pensiero e dell’azione di uno dei protagonisti più attivi del Novecento religioso e civile italiano. Lo stesso Istituto pubblica gli atti del colloquio Giuseppe Dossetti:la fede e la storia, studi nel decennale della morte, a cura di Alberto Melloni (Il Mulino 2007): esame attento e scrupoloso della personalità di Dossetti, cristiano, cittadino, politico, giurista, pensatore, sacerdote e religioso. E’ del Mulino (2003) anche l’intervista di Leopoldo Elia e Pietro Scoppola A colloquio con Dossetti e Lazzati, testimonianza viva e suggestiva.
Il primo numero di Cronache Sociali appare nel maggio 1947: è firmato da Antonio Amorth, Giovanni Baget Bozzo, Laura Bianchini, Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giuseppe Glisenti, Silvio Golzio, Luigi Gui, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Eugenio Minoli, Fausto Montanari, Aldo Moro, Umberto Padovani, Armando Sabatini, Aldo Valente. Direttore: Giuseppe Glisenti; Responsabile: Aldo Manera. La sede è a Roma in via Alessandro Farnese. Una copia costa lire 35, l’abbonamento annuale lire 700. L’ultimo numero porta la data 31 ottobre 1951. Contiene articoli di Antonio Amorth, Raffaele Pirro, Franco Grassini, Enzo Porcella, Pasquale Modestino, Rosario Assunto, Ugo Fasolo, Angelo Romanò… Responsabile: Marcella Ceccacci. La redazione è ancora a Roma, ma in via Caroncini, l’amministrazione è presso la L.E.F. in via Ricasoli, Firenze. Una copia costa lire 90, l’abbonamento annuale lire 1.800. I lettori sono informati in un box dell’imminente chiusura della rivista e invitati a venire in soccorso, con una testimonianza di attaccamento alla medesima, per il risanamento dei debiti. Struttura - Non è inopportuno soffermarsi un momento sull’aspetto del Quindicinale. In genere gli articoli si snodano su tre o quattro colonne per pagina. Pagine terse, arricchite di fotografie in bianco e nero, di tavole, di didascalie, di grafici. Assente la pubblicità (soprattutto nel primo volume): rare inserzioni riguardano, in buona parte, libri, riviste, annuari: il Digesto Cattolico (o Sintesi dal Catholic Digest), rassegna del pensiero cattolico, il Messale Quotidiano del can. Raffaello Cioni, L’attesa della povera gente di Giorgio La Pira , La paura del secolo ventesimo di Emmanuel Mounier, il Santo Vangelo con introduzione di Papini, la collana di scritti spirituali diretta da Nicola Lisi “Ventaglio di cedri”, la collana “Christus Jesus” di Enrico Bartoletti. E’ costante l’invito ai lettori a sentirsi partecipi dell’impresa. Si legge in un box del n. 10 del terzo anno (1 giugno 1949): “Lettori! Non lasciatevi vincere dall’inerzia! Rispondete al referendum sui ‘Quaderni di documentazione’. Nessuna iniziativa si potrà mai attuare fino a quando il pubblico non parteciperà alla vita della sua stampa”. I lettori sono tenuti informati sui progetti della Rivista, sulle sue iniziative, sulle difficoltà che ne rendono non spedito il cammino. Per i lettori che si fanno pure promotori sono previsti omaggi librari. Il fascicolo del 31 agosto 1947 (a.I, n.7) dà notizia della lettera pastorale del cardinale Suhard: “Riteniamo che essa sia uno dei più grandi documenti del pensiero sociale cristiano di tutti i tempi. Cronache Sociali inizia con questa pubblicazione la serie dei ‘Quaderni di Cronache Sociali’, nei quali andremo raccogliendo i documenti più vivi del pensiero sociale cristiano” (I, p.98). L’attuale edizione anastatica,
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Note bibliografiche
corredata di dvd, contiene in appendice anche i volumi di Giuseppe Dossetti (Chiesa e Stato democratico - discorso pronunziato all’Assemblea Costituente il 21 marzo 1947), di Giorgio La Pira (Architettura di uno Stato democratico e L’attesa della povera gente). di Emmanuele Suhard (Agonia della Chiesa?). Università, centri di cultura e di ricerca, biblioteche, istituzioni, comuni, organismi ecclesiali, parlamentari, studiosi hanno sottoscritto e sostenuto l’edizione: dall’Alma Mater Studiorum alla Biblioteca Apostolica Vaticana, dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana alla Fondazione Amintore Fanfani al Comune di Bologna, da Francesco Cossiga, presidente emerito della Repubblica, a Romano Prodi, presidente del Consiglio dei Ministri, a Massimo Cacciari, sindaco di Venezia…Un consenso ampio, che sottolinea la portata storica dell’impresa.
Movimento di opinione - Accuratissimi gli Indici, che agevolano la consultazione e la lettura. Uno sguardo sommario e ci si rende conto della ricchezza della Rivista. Partiamo dalle rubriche. La rivista aggiorna con puntualità su Politica interna, Vita internazionale, Economia, Partiti, Sindacalismo, Cultura. “E’ una rivista che diventerà anche un ‘movimento d’opinione’, come spiegò anni fa Paolo Pombeni, ma che al tempo stesso vuol essere ‘opinione di un movimento’ di cui si postula l’esistenza e sul quale si scommette, in qualche misura contra spem. E questa scommessa tiene unite differenze anche profonde di orientamento tra i fondatori”: così scrive lo storico Alberto Melloni nel saggio introduttivo La produzione di cultura politica come filo della “utopia” di Giuseppe Dossetti (1,p.XXVIII). Melloni ricostruisce la genesi del Quindicinale con dati scrupolosamente raccolti (incuriosisce l’accenno alla “Comunità del porcellino” di via della Chiesa Nuova, dove vivono Dossetti, Lazzati, La Pira, Fanfani, Glisenti, Ardigò, Baget Bozzo, Ciccardini…), partendo dal riferimento a Civitas humana e ai suoi fondatori, personalità robuste e intraprendenti. E traccia il cammino della rivista e degli uomini che la portano avanti. Tale cammino è un capitolo interessante della storia dei cattolici impegnati nella cultura, nella politica, nell’agire sociale, della storia italiana còlta nei suoi addentellati con la storia d’Europa e del mondo, delle relazioni tra Chiesa e Stato e delle relazioni tra cattolici che fanno politica e autorità ecclesiastiche. Le annate del periodico aiutano altresì a costruire la storia dei partiti e dei movimenti politici, del Pci e dei partiti laici, dell’Azione cattolica e dei suoi rapporti con la Dc. Vi si coglie il clima del dopoguerra, la volontà di ricostruire il Paese, di costruire la democrazia su basi solide, di battersi per un futuro migliore. Non c’ è evento, o tendenza, o proposta, o stato d’animo…che Cronache non consideri con la dovuta attenzione. Un viaggio nelle tensioni ideologiche, nelle inquietudini che lacerano il tessuto sociale dopo la Resistenza, nei tentativi di rilancio di forze neofasciste o di destra eversiva. Il fenomeno dell’Uomo Qualunque costituisce oggetto di riflessione attenta. Nel pezzo dedicato alla cronaca del II congresso si osserva:”In realtà, nessuno potrebbe negare l’evidente simpatia per l’Uq” degli uomini più compromessi col fascismo, “come non si può negare che questi uomini trovassero nell’atteggiamento e nel linguaggio tracotante di Giannini (…) l’illusione di poter trascurare l’esperienza della storia, e la speranza della rivincita” (1, p.139). Un viaggio nel socialismo e nel suo processo autonomistico. E un discorso sul PCI, i suoi uomini, i suoi comportamenti. Naturalmente un discorso sulla Dc, la sua politica, le sue relazioni internazionali, i suoi rapporti col Vaticano. Giovanni Baget Bozzo è attivo in queste pagine: citiamo gli articoli (compresi nel vol.I) Rassegna sull’interclassismo nella Dc (I,8), Sull’adesione di un gruppo di cristiano-sociali a Unione socialista (II,8), L’opposizione del Pci (II,16), E’ stabile la democrazia italiana? (II,19), La politica del Pci (II,4), L’antifronte, politica del liberalismo italiano (II,5), La crisi del socialismo italiano (II,17), La lotta politica al comitato centrale del Pci (II,19), La democratizzazione della Dc (II,23-24), Burnham, i difensori della libertà (II,3), Partiti, parlamento, governo (III,2), Ceti medi e Mezzogiorno nella lotta politica italiana (III,4-5), La petizione popolare contro la ratifica del Patto Atlantico (III,8), La destra politica italiana (III,16-17), De Gasperi e l’ordine democratico (III,18), La Dc e il Mezzogiorno (III,19), La Dc e l’unità europea (III,20), Per una democrazia cristiana europea (III, 21), I partiti italiani di fronte al Patto Atlantico (III,6), Realtà e possibilità di una socialdemocrazia in Italia (III,7), Il dilemma della Dc e del suo prossimo congresso (III,8), Lo schieramento della Dc di fronte al congresso (III, 9), La posi-
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zione politica della destra democristiana (III,10), Stato e partito al congresso della Dc (III,11), Il momento decisivo del socialismo democratico (III,12), Il momento presente della Dc (III,13)…
Baget Bozzo ha un linguaggio chiaro, frutto di convinzione e di studi, talora anche pungente, sempre stimolante. Appare interessato in modo concreto alla soluzione dei problemi che affliggono lo stato democratico e le forze politiche cattoliche ed è sempre schierato su posizioni “avanzate”. Nel secondo degli articoli citati si coglie il fulcro della sua visione di politologo e della sua filosofia politica. Il documento di adesione di un gruppo di cristiano-sociali all’Unione dei socialisti “propone in termini impegnativi il problema dell’incontro tra socialisti e cristiani militanti: un incontro che va facendosi storicamente maturo” (1, p.352). Scrive nell’aprile 1948: un intervento non condizionato dai risultati elettorali del 18 aprile, ma lucido e incisivo. E parla di marxismo e di cristianesimo, soprattutto di socialismo amarxista e delle prospettive che cattolici e socialisti sono chiamati a costruire per realizzare una democrazia certa e socialmente aperta. Alla domanda se si possa essere marxista e cristiano le pagine di Cronache Sociali rispondono con ripetuti interventi; e dedicano pure spazio a cristiani, fascisti, afascisti, fascisti pentiti. Baget Bozzo chiarisce (e auspica): “L’incontro di un cristiano con un socialismo depurato dal mito della classe e della violenza è possibile” (ivi). Per taluni aspetti la rivista è un dibattito ricco e robusto sulla cultura democristiana, sulle “correnti” dc, sulla destra dc, sulla sinistra dc, su De Gasperi…Il discorso di Melloni è lineare, ricco di spunti, di osservazioni, di chiarimenti. Si legga la storia di Dossetti: dalla sua ascesa ai vertici della DC, ai suoi contrasti con De Gasperi, alla sua uscita, a lungo meditata, dalla scena politica. E si tenga presente l’intuizione ironica del padre di Dossetti: “ti sei stancato di fare la rivoluzione nello Stato e ora vuoi tentare di farla nella chiesa” (1, p. XLIII). Politica sociale - Cronache Sociali è una rivista di cultura politica, di dibattito culturale, di idee, di programmi, di progetti. La sua ossatura è costituita dalla cultura cattolica e dall’attenzione alla dottrina sociale della Chiesa. I suoi scrittori sono osservatori attenti della realtà contemporanea, protagonisti della scena politica, del pensiero, dell’azione sociale. Amano la libertà e la democrazia. Vogliono contribuire alla costruzione di un ordine democratico trasparente e di strutture sociali che aiutino i poveri a uscire dall’emarginazione e a inserirsi come protagonisti attivi nel processo di crescita del Paese. Il discorso della rivista è fondato sull’osservazione dei fatti (l’analisi dei dati elettorali, politici, regionali, amministrativi, è di una puntualità straordinaria), sulla lettura costante del magistero, sulle proposte emergenti dall’insegnamento di filosofi e sociologi di grande levatura, sulla conoscenza della storia degli ultimi secoli. A titolo d’esempio si possono citare alcuni articoli sul parlamento, sui dibattiti parlamentari, sulla “seconda camera” e sui problemi costituzionali (Mortati), sulla legge per la difesa della Repubblica (Bettiol), sul valore della Costituzione italiana (La Pira), su “La psicologia dei cattolici di fronte ai disordini sociali” (Guidotti), sulle interpretazioni del 18 aprile (Glisenti, Turoldo, Dossetti, Lercaro), sulla promozione della democrazia e la difesa delle istituzioni. La rivista informa sulle proposte di “esclusione dei fascisti dal diritto di voto” (1, p.132) e lo fa con spirito aperto, sereno, costruttivo. L’educazione alla democrazia, all’impegno per la libertà, ai valori della cittadinanza, all’Europa è possibile sulla base di informazioni serie, severe, articolate. E la Rivista tratta dei lavoratori, degli operai, della lotta sindacale, della politica che portano avanti i Paesi d’Europa, degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica, del Terzo Mondo, dello sciopero, dell’emigrazione, della delinquenza e della mafia, della sanità… Impressiona la mole di problemi, nazionali e internazionali, su cui si discute; impressiona, soprattutto, e in senso pienamente favorevole, il quadro unitario entro cui tali problemi vengono collocati quale che sia la posizione dei singoli scrittori. Una comunità di cultura e di intervento che lascia tracce profonde nella storia del Novecento. Una comunità educante con la sua ricerca del dialogo, della verità, degli aspetti positivi che si possono cogliere nella diversità delle posizioni e degli orientamenti. Ci si accosta agli altri con senso di comprensione. C’è qualche spunto polemico, ma è segno di vivacità e di interesse; non si registrano gesti di intolleranza e di incomprensione. La comunità di Cronache Sociali addita agli uomini del nostro tempo, non solo con la serenità che viene dalla distanza dagli eventi cui la rivista è legata, la via da seguire per costruire una società a misura
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Note bibliografiche
d’uomo, una società fondata sul rispetto per la dignità della persona umana, per costruire una democrazia autentica. Tale intento, che potrebbe apparire secondario rispetto allo spazio riservato alla politica, spiega l’attenzione che la rivista riserva al mondo della cultura e dell’educazione. Cinema - Il fascicolo 4 dell’anno I, luglio 1947, sorprende con una domanda: “E’ educativo il cinema?”, inserita nel contesto di un servizio sul Congresso cattolico di cinematografia. Nella stessa pagina si parla di censura cinematografica. La nota di cronaca del congresso non è ovviamente soltanto una nota di cronaca: vuole discutere di cinema, dei suoi valori, della sua incidenza. Tema del congresso organizzato a Bruxelles dall’Office Catholique International du Cinéma: L’azione dei cattolici nell’avvenire del cinema alla luce degli insegnamenti dell’enciclica “Vigilanti cura”. Il curatore, Turi Vasile, precisa che si tratta del IV congresso (dopo La Haye 1928, Monaco 1929 e Bruxelles 1933), programmato per il 1938 a Vienna e rinviato per l’invasione dell’Austria e lo scoppio della seconda guerra mondiale. L’atteggiamento dei cattolici nei confronti del cinema è esposto in tutta la sua ampiezza: c’è apertura, interesse profondo, e c’è anche preoccupazione per gli aspetti morali. La valenza educativa del cinema è sottolineata dai cattolici con piena convinzione. Ma il cinema violento, apportatore di miti e di falsità, va respinto. Il cinema è chiamato a dare un contributo alla crescita dell’uomo. E’ bene che i cattolici ne prendano atto, contribuiscano a diffondere il buon cinema, si facciano produttori di cinema. Spicca tra i relatori Luigi Gedda, presidente del Centro cattolico cinematografico, che, citando Pio XII, parla del “potere suggestivo” del cinema, di cinema come strumento di cultura, di cinema e psicologia e soprattutto di cinema e giovani, di cinema e scuola. “Dal congresso - si legge nella parte finale della cronaca - è risultato soprattutto un vivo desiderio di reciproca collaborazione, perché i cattolici facciano sentire sempre più la loro presenza attraverso lo schermo per diffondere anche con i film il messaggio cristiano di pace e di elevazione morale” (1, p.71). Guglielmo Amerighi, affrontando i problemi del cinema italiano (III,1949,10), precisa: “La vitalità di una produzione cinematografica è misurata in primo luogo dalle sue doti artistiche”. Richiama l’attenzione sulle doti artistiche e nel contempo invita a riflettere su aspetti economici, industriali, commerciali, organizzativi, partendo dal dibattito, in vero superficiale, alla Camera del 7-9 marzo 1949, dalle interpellanze presentate da non pochi deputati e dalle risposte dell’on. Andreotti. L’articolo cita Quattro passi tra le nuvole di Mario Camerini, annunzio di “un periodo di sostanziale rinnovamento per la nostra cinematografia”, sostenuto da registi di robusta statura: Rossellini, Lattuada, Germi, Visconti, De Santis, De Sica. E parla di “politica” cinematografica. Teatro, eventi culturali, mostre, convegni sono all’attenzione dei redattori, che si inseriscono nel dibattito culturale e politico del tempo con vivacità, competenza, sensibilità pedagogica. Promuovere educazione e cultura significa promuovere l’uomo e il cittadino, promuovere progresso, costruire una civiltà. Scuola, giovani - Il fascicolo 21 del 1949, prendendo spunto da una inchiesta tra gli studenti delle scuole medie condotta dalla Gioventù italiana di Azione cattolica, descrive non pochi aspetti della scuola italiana: la sua organizzazione, i suoi indirizzi, il suo personale. Soprattutto l’autore dell’articolo cerca di capire l’iter che i giovani compiono, gli orientamenti da cui sono ispirati, il problema della scelta degli indirizzi nella scuola media superiore. Aspetti psicologici, pratici, economici, sociali, ambientali. Il discorso si concentra sul tema dell’istruzione liceale (classica, scientifica, magistrale) e dell’istruzione tecnica e professionale, sugli sbocchi lavorativi, sui “dottori” e sui “tecnici”. Sui “ripetenti”, sui metodi, sui rapporti alunni-professori, sui genitori. Sui giovani: sulle discipline che essi ritengono più interessanti, sulla loro formazione civica, sulle loro tendenze politiche. Si legge a un certo punto: “Chi direttamente o indirettamente è a contatto con la vita della scuola, sa che l’accusa, talvolta spietata, di inattitudine, fatta dagli studenti a certi loro insegnanti è troppo spesso ragionevole. Che se poi si volesse pensare a un insegnante che segue gli alunni anche al di fuori dello stretto orario e dello stretto dovere scolastico, sembrerebbe di cadere nella più irrealizzabile utopia. Lo stesso dovrebbe dirsi di un contatto tra famiglia e scuola, contatto più volte previsto, ma non attuato per colpa così della
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famiglia come della scuola”. E c’ è di più. Alla rivista interessa il giovane come persona, il giovane e il suo mondo. E così il discorso cade sull’associazionismo giovanile, sull’insegnamento della religione, sull’atteggiamento dei giovani nei confronti della religione. Altro è la religione, altro è il problema religioso. Il discorso si apre agli orientamenti spirituali. Non senza aver sottolineato una questione annosa: il reclutamento del personale insegnante deve avvenire secondo criteri severi, ma ai docenti “deve essere concessa una assoluta tranquillità economica”. Fausto M. Bongioanni scrive su “La scuola per i poveri” (16,1947), dove con piglio sociologico e ampie considerazioni di natura pedagogica spiega il concetto di “scuola di base”, che “l’Italia sta oggi imparando dall’estero” e che “risale all’illustre tradizione platonica”. Mette conto sottolineare: “La regola d’arte di una scuola di popolo che sia effettivamente popolare, dovrà insomma cominciare dalla determinazione d’un criterio di azione educativa conforme alla responsabilità sociale dell’insegnare”. I problemi dell’insegnamento, intesi come problemi sociali, l’accesso alla scuola di ragazzi economicamente disagiati, la formazione degli insegnanti e dei formatori, la responsabilità della cultura e dell’educazione, i precetti costituzionali sulla scuola… sono argomenti presenti in tante pagine della Rivista. La quale segue anche gli sviluppi dell’associazionismo scolastico e del sindacalismo scolastico: Laureati cattolici, Sindacato nazionale Scuola Media, Unione cattolica italiana insegnanti, Attività educative parrocchiali, Stampa cattolica, Movimenti universitari… Mario Apollonio – in “I cattolici e l’oscurantismo culturale” (16-17,1949) - tiene una robusta lezione sul concetto di “cultura”, di cultura come vita morale, come luogo del partecipare, come ricerca della verità, come libertà… L’interesse per la scuola è interesse per i giovani: e i redattori non possono trascurare il fenomeno della devianza minorile, che nasce spesso dall’assenza di prospettive. La funzione educativa della famiglia va sostenuta con una politica efficace per la famiglia. Una convinzione di questo genere spiega l’attenzione che la rivista-comunità riserva al Piano Fanfani per la casa: “Le premesse:la situazione edilizia” (17,1948), “Le premesse: il problema della casa in Italia” (18,1948). Un intervento, quello di Fanfani, significativo, ispirato da senso di giustizia e carità (come non ricordare i Colloqui sui poveri , recentemente ripresi?). Fonte di storia - Cronache Sociali, rivista-comunità, è una fonte per la storia di tanti aspetti del Novecento: storia dei partiti e dei sindacati, delle correnti culturali, dei movimenti d’arte (cinema, teatro, letteratura, musica…), del problema Europa, dello spirito della Costituzione, delle istituzioni, degli organismi internazionali… Una comunità politica ispirata dalla passione per la democrazia. E l’impegno della Rivista è nel suo complesso rivolto al problema dell’educazione alla democrazia attraverso comportamenti trasparenti ed esemplari, attraverso la scuola e la famiglia, attraverso la partecipazione, in particolare dei giovani, ad attività sociali, culturali, sportive…Nelle pagine della rivista è presente il problema del Mezzogiorno, dei conflitti internazionali, delle tensioni interne. La rivista ne tratta con grande serenità, suggerisce vie da percorrere, indica la strada del dialogo tra forze politiche e sociali anche di diversa impostazione ideologica e ideale. Ha una fisionomia precisa, contrassegnata in modo riconoscibile dalla forte impronta spirituale dei suoi promotori. Una testimonianza cristiana forte e autentica. * Cronache Sociali 1947-1951. Edizione anastatica in 2 volumi a cura e con introduzione di Alberto Melloni, con dvd a cura di Michele Ciuffreda, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 2007, pp. C +1984. E’ opportuno ricordare che anche le ed. Diabasis, Reggio Emilia, pubblicano una Copia anastatica delle Cronache Sociali di Giuseppe Dossetti, 3 volumi, con Antologia, a cura di Luigi Giorgi.
Estudios lasalianos nn.15-16
JOSEAN VILLALABEITIA, FSC
Un falso dilema I. ¿Religioso o maestro? II. La respuesta capitular Roma 2008, 286 + 264 páginas Casa Generalicia FSC, via Aurelia 476, I-00165 Roma atesfai@lasalle.org
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LIBRI PERVENUTI Roberto ALESSANDRINI, Immagini, “Parole delle fedi” 25, Emi, Bologna 2008, pp. 62. Roberto ALESSANDRINI (ed.), La mala misura. Antologia di bilance ingannevoli e pesi falsi, con pagine di Böll, Buber, Heine, Kafka, Rodari, Roth, Sacchetti, Shakespeare, Solženicyn, Tolstoj, Mobydick editore, Modena 2006, pp. 112. Sergio ANDREOLI, Angela da Foligno, penitente francescana. VII centenario della morte 13092009, Edizioni Messaggero, Padova 2008, pp. 80. Maurizio BASSETTI – Severino SACCARDI (edd.), Una vita per la cultura del dialogo. In ricordo di Luciano Martini, direttore di “Testimonianze”, Quaderni del Cinquantennale 3, Supplemento al n.1-2, Firenze 2008, pp.128.
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ID., Iniciación a la Historia del Instituto de los Hermanos de las Escuelas Cristianas. Siglo XX, 1928-1946, trad. José Martínez Ramos, Estudios Lasalianos 12, Casa Generalizia FSC, Roma 2008, pp. 143. Bruno Adelco BORDONE, Amò sino alla fine. Vita di Gianfranco Polimeno fsc, prefazione di A. Rodríguez Echeverría, Città Nuova, Roma 2008, pp. 145. Antonio BOTANA, Vocabulario Temático de la Asociación Lasaliana, Ensayos Lasalianos 3, Casa Generalizia FSC, Roma 2008, pp. 94 (anche in versione inglese e francese). ID., Bases para un modelo actual de Familia Lasaliana, Ensayos Lasalianos 4, Casa Generalizia FSC, Roma 2008, pp. 80 (anche in versione inglese e francese). CONFERÊNCIA EPISCOPAL PORTUGUESA (ed.), Encontro de culturas. Oito séculos de Missionação portuguesa, Mosteiro de S. Vicente de Fora, Lisboa 1994, illustrazioni a colori, rilegato, pp.480.
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