Rivista lasalliana 1-2010

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Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 00196 Roma - Viale del Vignola, 56

Rivista lasalliana

2010

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ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ La catechesi dell’icona in Giovanni Damasceno ✓ Laicità e religione nella sfera pubblica ✓ Caritas in veritate y el desafío de la solidaridad global ✓ La classe come laboratorio: la «didattica breve» ✓ Due secoli di insegnamento tecnico-professionale lasalliano in Italia ✓ Pedagogia lasalliana e formazione del detenuto ✓ Cinco preguntas sobre La Salle ✓ Anselmo Balocco FSC, catechista e catecheta

GENNAIO-MARZO 2010 • ANNO 77 - 1 (305)



Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica 77 (2010) 1


RL

Rivista Lasalliana Pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie della Regione lasalliana euro-mediterranea.

Anno 77 • numero 1 • gennaio-marzo 2010

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Sommario

RICERCHE E STUDI 5 Francesco Trisoglio San Giovanni Damasceno: la catechesi dell’icona L’immagine del sacro può suscitare reazioni psicologiche, ma anche guerre di religione che possono degenerare in conflitti politici. Il Damasceno, monaco e teologo, fu il protagonista dell’iconomachia del 7°-8° secolo cristiano. Per lui l’icona è epifania del divino e perciò dell’umano, funge da sintesi di ragione e di emozione, è ipostasi del vero e del bello.

15 Roberto Cipriani Laicità e religione nella sfera pubblica La secolarizzazione evolve verso una laicità post-secolare, e la religione, da fatto privato, rioccupa la scena pubblica. La transizione è ampiamente documentata da una lettura-confronto delle posizioni teoriche più significative: da Habermas, Giddens, Taylor, passando dalle “laicità” declinate alla francese, alla nordamericana e all’asiatica, fino a coinvolgere esponenti di spicco del dibattito nostrano, da I. Mancini a Dalla Torre, da De Rita a G. Enrico Rusconi.

PROFESSIONE DOCENTE 43 Marco Paolantonio La Didattica Breve e la Ricerca metodologica disciplinare Primo intervento di una sequenza in quattro passaggi sul gruppo-classe come laboratorio di apprendimento, l’articolo presenta i presupposti teorici e le ricadute pratiche del c.d. metodo della “didattica breve” nell’ambito di un sistema formativo a ‘qualità totale’, che prevede un insegnamento più rapido e flessibile e un apprendimento più veloce nello studio guidato e in quello personale. Una rassegna di strumenti metodologici convalida il quadro dei principi.

57 Lluís Diumenge Caritas in veritate y el desafío de la solidaridad global Non un commento, ma una lettura filtrata attraverso la chiave teologica dell’etica della solidarietà. L’a., teologo moralista, chiarisce anzitutto la cornice entro cui leggere alcuni concetti portanti dell’enciclica, quali globalizzazione, economia, politica, sviluppo. Definisce il senso di principi operativi come la gratuità, la sussidiarietà, la solidarietà. Prospetta la complessità dell’economia globale per una Chiesa scarsamente abituata all’autocritica.

69 Anna Lucchiari Chiaroscuri. Tempora e temporali – Politicamente scorretto? Appunti provocati da episodi offerti dalla attualità. Riflessioni come soprassalto etico di fronte agli insulti inferti al buon senso dalla “in-cultura” del presente.


LASALLIANA 73 Henri Bédel Le Scuole tecniche e professionali lasalliane in Italia Una visione panoramica dello sviluppo storico delle istituzioni di insegnamento tecnico-professionale che i FSC hanno creato e gestito in territorio italiano dal primo Ottocento ai nostri giorni. Una informazione puntualmente documentata che illumina un settore, assai inesplorato, della storia dell’educazione e della scuola in Italia.

121 Antonio De Salvia La formazione dell’uomo in detenzione: attualità della concezione formativa di J.-B. de La Salle La prassi formativa adottata nei CFPP-Casa di carità dell’Unione Catechisti di Torino e i principi pedagogici che la sottendono trovano un precoce riscontro, sorprendentemente moderno, nello spirito e negli scritti del La Salle. Alla luce degli scritti lasalliani, il saggio riflette sulla pedagogia attuale della prevenzione, della correzione, del recupero umano e sociale della persona, in particolare dei giovani.

153 José María Valladolid Retazos lasalianos [6-10] Continua la serie di flash chiarificatori su vita e scritti del Fondatore. La casistica in esame puntualizza questioni pendenti come: il modo di rinnovare i voti dei primi Fratelli, l’intenzione del La Salle di fondare un istituto secolare, il suo proposito di dimettersi da superiore della Società, le località presumibili dove preferiva ritirarsi in solitudine.

165 Marco Paolantonio Fratel Anselmo Balocco catechista e catecheta (1910-1995) A cent’anni dalla nascita (Vercelli, 10 marzo 1910), l’articolo ricostruisce il profilo della ricca personalità e della multiforme attività di un Lasalliano che ha segnato la storia della catechesi italiana nel secondo Novecento. La vicenda biografica dell’insegnante-catechista-conferenziere-preside si intreccia con la cospicua produzione saggistica del catecheta-scrittore-docente universitario.

BIBLIOTECA 185

Segnalazioni F. Aleo, Spirito Santo e Chiesa: Basilio di Cesarea e lo Ps.Macario Egizio - M. Baldacci, I profili emozionali dei modelli didattici – M. Baldacci, F. Frabboni, La Controriforma della scuola – A. Barella, Essere per educare? B.Bordignon, R.Caputi, Certificazione delle competenze – M. Comoglio, Educare insegnando – L. Luatti, Educare alla cittadinanza attiva – Vauchez, François d’Assise entre histoire et mémoire. Libri ricevuti


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La catechesi nei Padri della Chiesa /8

San Giovanni Damasceno: la catechesi dell’icona FRANCESCO TRISOGLIO

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ggi il gusto dell’icona è in auge; rischia perfino di trasformarsi in una moda. Buon segno? anche; ma è opportuno filtrarlo. È infatti sospettabile di ambiguità: può trattarsi di una devozione che si ispira ad una spiritualità delicata e meditativa e può arrestarsi al compiacimento estetizzante per un oggetto raffinato a sfumatura aristocratica. È un bivio che ha radici lontane: oggi si presenta come una divaricazione piuttosto smorzata, generalmente poco avvertita dalla coscienza; un tempo invece la diversità si inasprì ad uno scontro accanito che s’insanguinò in persecuzioni tiranniche. Sulla spontaneità della reazione psicologica dinanzi all’immagine si inserirono preoccupazioni ideologiche che finirono per appesantirsi in politiche.

L’iconoclastia: storia e dottrina Continuava così la catena delle ‘guerre’ di religione; terminate le persecuzioni imperiali con Diocleziano, Galerio e Massimino Daia (313), dopo qualche decennio ripresero quelle ariane con Costanzo II e Valente, interrotte dall’eruzione di Giuliano; col V secolo insorsero i torbidi sulla cristologia; nell’VIII scoppiò il conflitto iconoclastico. Le ostilità furono ufficialmente aperte da Leone III Isaurico (7171 741) nel 725 e continuarono, con periodi di sospensione, fino all’842. Gli iconocla-

1 Per un solido e documentatissimo prospetto storico-teologico cfr. C. Emereau, Iconoclasme, in Dictionnaire de Théologie Catholique VII,1 (1927), coll. 575-595; V. Grumel, Images, culte des, ibid. coll. 766-844 ne espone la storia e la dottrina in Occidente.


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sti intransigenti vietavano delle immagini sia l’uso che il culto, quelli moderati soltanto il culto. Lo scontro politico avvenne su uno sfondo ideologico; avversari delle immagini erano i monofisiti, per i quali in Cristo l’umanità era stata assorbita nella divinità, la quale non è ovviamente rappresentabile; essi insistevano sull’impossibilità di separare in lui il limitato, umano, dall’infinito, divino; distinguerli era un dividere Cristo in una sorta di due personalità, cadendo nel nestorianesimo. La questione del culto delle immagini era soprattutto dibattuta nelle regioni orientali dell’impero, dalle quali Leone proveniva; giudei e mussulmani, sulla scorta di norme dell’Antico Testamento, erano loro risolutamente contrari, vedendovi una deriva verso l’idolatria; in questa direzione non mancavano di agire anche i pauli2 ciani. Leone III cercò di sopprimere questa divozione con la persuasione, ma, 3 dinanzi alle resistenze, fece ricorso alla forza; bravo condottiero militare, pensò di organizzare la fede con gli stessi criteri dell’esercito, non rendendosi conto che la venerazione delle immagini era profondamente radicata nel rigoglioso ambiente monastico e nella massa del popolo. Anche nell’episcopato orientale all’inizio del secolo VIII c’era tuttavia un importante partito iconomaco, che aveva un forte credito su Leone; essi cercarono di arruolarvi anche Germano, patriarca di Costantinopoli, che delle immagini era invece un fervido difensore. Nel 729 Leone impose a Germano o di firmare il suo decreto o di abdicare, abdicò. Il Papa S. Gregorio II (715-731) ai tentativi di aggancio ed alle minacce di Leone aveva replicato con energia, confutandone specificatamente le asserzioni dottrinali; il suo successore S. Gregorio III (731-741) dimostrò la medesima fermezza; in un concilio, tenuto a Roma nel 731, scomunicò gli iconoclasti. Leone, irritato, quale rappresaglia, spedì contro l’Italia una flotta, che però affondò nell’Adriatico. Alla sua morte (18 giugno 740), il figlio Costantino V (741-775) ne continuò l’impresa con maggiore crudeltà. Dopo un periodo di tolleranza relativa, nel 753 convocò nel palazzo imperiale di Hieria un concilio, che si proclamò ecumenico, sebbene non vi partecipassero i patriarcati orientali di Antiochia, Gerusalemme, Alessandria e 4 soprattutto il Papa: erano però presenti 338 vescovi iconomachi. L’impianto dottrinale di Hieria poggiava sul dilemma: se si voleva rappresentare tutto Gesù Cristo, uomo e Dio, si circoscriveva la divinità e si confondevano le nature; se si intendeva

Cfr. R. Janin, Pauliciens, in DThC XII,1 (1933), coll. 56-62. Era una setta dualista, che si diffuse in Alta Siria e Armenia, passò in Frigia e poi in Bulgaria ed in Occidente sotto nomi diversi. Loro assioma fondamentale era la distinzione tra il Dio buono, creatore del cielo e delle anime, e quello cattivo creatore del mondo sensibile. Tutta la materia era quindi cattiva: era un dualismo marcionita di origine manichea. Nemici della materia, lo erano anche delle immagini, fatte di materia, e dei santi, che essi giudicavano servitori del demiurgo. 3 Con un decreto del 726 dichiarò che le immagini erano idoli condannati dalla Scrittura (Es 20,4-5); ma con questo intervento provocò una rivolta di ufficiali in nome dell’ortodossia. 4 L’alto numero può sorprendere, ma va ricordato che molti vescovi iconofili erano stati deposti e sostituiti da personaggi fidi alle direttive imperiali. 2


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rappresentare solo l’umanità, si dissolveva ciò che doveva restare unito; si faceva un corpo privo del divino, finendo nel nestorianesimo. Si respingevano come idoli le immagini della Vergine e dei santi; si vietava sia di fabbricare che di venerare le icone e si lanciava l’anatema contro i loro difensori e, in prima fila, contro il Damasceno. Costantino distrusse le reliquie, soppresse le immagni sacre nelle Chiese sostituendole con pitture di paesaggio, abbatté e profanò chiese, eliminò il titolo di ‘Santo’ anche nella topografia. Di fronte al largo cedimento episcopale si erse la compatta reazione 5 dei monaci, contro i quali Costantino replicò con aspra durezza, proibendo ai superiori di accettare novizi, esercitando coazioni indecorose e causando dei martiri. Col figlio Leone IV (775-780) la persecuzione si affievolì, in una fiacca applicazione dei decreti precedenti. Alla sua morte il figlio Costantino VI aveva sei anni, per cui prese il potere la vedova Irene (780-802), che era una convinta iconofila. Ella indisse pertanto il settimo concilio ecumenico, tenuto a Nicea nel 787, con la partecipazione dei delegati pontifici e di più di 300 vescovi: i Padri proclamarono la legittimità del culto delle immagini, confutarono le tesi di Hieria, ricollocarono le immagini di Cristo, della Vergine, degli angeli e dei santi, perché, riguardandole, lo spettatore si ricordasse di colui che vi era rappresentato e si sforzasse di imitarlo, senza tuttavia rivolgergli un culto di latria, che era riservato a Dio. Il concilio votò un eterno ricordo ai difensori delle immagini, tra i quali Giovanni Damasceno, eroi della verità. Una grande influenza esercitarono soprattutto i monaci di Studion, specialmente Teodoro, zelanti iconofili, come iconofilo fu il patriarca Niceforo (806-829). Ma nell’813 una rivoluzione portò al potere Leone V Bardas, che nell’814 riprese una persecuzione che fece più vittime di quella di Costantino V e provocò la distruzione di opere d’arte e di vasi sacri. Assassinato nella notte di Natale dell’820, gli successe Michele II (820-829), il quale richiamò gli esiliati ed accettò l’uso delle immagini ma non il loro culto. L’imperatore Teofilo (829-842) tornò a scatenare una persecuzione violenta, ma con la sua morte le oppressioni cessarono; con l’imperatore Michele III (842-867) l’11 marzo 843 si celebrò solennemente il ristabilimento dell’ortodossia con il motto: “L’onore dell’immagine risale al prototipo”.

L’anima ed il limite del culto dell’icona Verrebbe da dire: tanta tempesta per così poco? Fu assai più ridotta la bufera ariana, che pure verteva sulla Trinità. È vero: sono i disastri che il potere politico pro-

È interessante rilevare come i monaci, costituiti in ampia maggioranza da un elemento popolare di modesta cultura ma di intensa fede profondamente vissuta, siano regolarmente stati i baluardi dell’ortodossia, dai tempi di S. Atanasio, contro gli ariani, ad ora contro gl’iconoclasti. La loro vita traeva senso dall’intima unione con Cristo Dio, e tale lo vedevano anche attraverso le iconi; glielo presentavano dal vivo; facilitavano loro un colloquio che ne alimentava e rinfrancava lo spirito.

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voca quando si fa teologo, esorbitando dalla sua natura, dalla sua missione e quindi dalla sua capacità. Urgeva una discriminazione che fosse autorevole (lucida penetrazione intellettuale del problema) senz’essere autoritaria (esclusione della forza coattiva del potere dello stato). La devozione dell’icona si offriva come vigoroso propellente nell’incrementare una spiritualità che poteva anche salire fino alle vette più alte della mistica, ma poteva anche rinsecchirsi nella povertà di rinchiudersi in un oggetto assolutizzandolo: l’icona da transito poteva ricadere a sbarramento. A chiarire i termini esatti del problema e ad orientare sul bivio, evitando aberrazioni, sorsero taluni teologi illuminati, in 6 capo ai quali emerse Giovanni Damasceno. Fu oratore molto apprezzato e scritto7 8 re a largo raggio di interessi in campo dogmatico, polemico, ascetico ed esegetico, 9 ma acquistò fama e merito soprattutto con i tre discorsi in difesa delle immagini. Nel diffuso smarrimento di favorevoli e contrari irruppe le sentenza categorica di uno Stato che alla forza sovrappose la pretesa di essere sovrana istanza teologica con

Nacque a Damasco verso il 650 da una famiglia cristiana, nella quale suo padre, Sargun ibn Mansur, occupò un carica importante alla corte ommayade. Giovanni ricevette una solida formazione letteraria e filosofica, che gli permise di sottentrare al padre per qualche tempo nella carica, che egli però lasciò presto per ritirarsi nella laura di S. Saba, presso Gerusalemme. È favola che il califfo gli abbia fatto tagliare la mano destra, che gli sarebbe stata miracolosamente restituita dalla Vergine, determinando così la sua vocazione monastica. Fu ordinato prete prima del 726 e morì nel 749, probabilmente il 4 dicembre. Nel 1890 Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa. Mansur, come viene sovente designato, è soprannome arabo, nel senso di ‘vittorioso’, che Sargun ereditò da suo padre. 7 Tutte le sue opere sono raccolte nella Patrologia Greca 94-96; i tre discorsi in 94 coll.1231-1420. 8 In quest’ambito Giovanni è soprattutto noto per la Fons cognitionis, ampio trattato che si divide in Dialectica, De haeresibus, De fide orthodoxa (PG 94,525-2128) e si fonda su una ricca documentazione della speculazione antecedente; ciò gli valse la nomea di compilatore e talora di unicamente compilatore. A questo proposito è meritoriamente dosato il giudizio di B. Kotter, s. v., in Theologische Realencyclopädie XVII, (1987), p.129, che definisce il Damasceno soprattutto un compilatore che con occhio critico sceglie e con abile mano inserisce le parti svariate nel suo piano complessivo e così nella Fonte della conoscenza raggiunge una sistematicità che si richiama alle Summae dell’Occidente latino, ma che era preziosa per i bizantini. B. Studer, in Dict. Spir. VIII, fasc. 52-53 (1972), col. 455, aveva già rilevato che in certa sua attività compilatoria, consona con un ambiente che amava i florilegi, si ammira l’arte e la varietà con cui la compie, la sua informazione e cultura, la scelta giudiziosa dei testi, il vigore sintetico della sua opera principale, la Fonte, che si appoggia su di un materiale davvero considerevole; nell’interpretare i suoi scritti non si insisterà tanto su certi passi, quanto sulla linea maestra del suo pensiero e sui principi che lo hanno guidato. 9 B. Kotter ne ha fornito un’eccellente edizione critica, Die Schriften des Johannes von Damaskos, Contra imaginum calumniatores orationes tres, hrsg v. Byzantinischen Institut der Abtei Scheyern, besorgt v. B. K., De Gruyter, Berlin 1975. Quanto alla data di composizione, egli pensa che il primo discorso vada riportato assai vicino all’editto sulle immagini emanato da Leone III nel gennaio 730; il secondo dev’essere assai vicino al primo, forse ancora del 730 o appena dopo; il terzo non contiene elementi per una sua fissazione cronologica (forse 729-730), ma può anche appartenere alla revisione dei suoi scritti, che egli fece verso il termine della sua vita (p.7). Il terzo discorso, con il suo distacco dagli avvenimenti contemporanei, perde il carattere di scritto polemico occasionale diventando un trattato teologico sobrio ed obiettivo (p. 24). V. Fazzo, nella sua traduzione dei Discorsi nella Collana di 6


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arbitrio di decisione. Ad una tale teologia ‘orecchiata’ o sottilizzante andava contrapposta quella autentica e “S. Giovanni Damasceno fu innanzi tutto un teologo e 10 si può dire che fu solo quello”; alla ragion di stato oppose una razionalità nella 11 quale l’analisi critica respirava spiritualità. La sua analisi critica era però ben diversa da quella ariana, culminata in Eunomio (IV secolo), dove la teologia si inaridiva in una dialettica chiusa in se stessa e soddisfatta della propria elasticità deduttiva senza aprirsi agli immensi orizzonti del mistero divino. Giovanni, monaco, sapeva che teologia, più che discutere su Dio, è vivere in Dio, e perciò esordì con una preghiera al Signore, perché gli concedesse 12 una parola veritiera, immune dall’errore (I, 3; PG 94 col. 1233 C; Kotter p. 67); suo intento non era infatti quello di vincere in una gara ma di porgere una mano alla verità combattuta (1233 D; K 67). A tale scopo egli parte affrontando subito l’arma fondamentale degli iconomachi; dicevano: Dio, tramite Mosè, nell’Antico Testamento proibì la confezione di immagini; Giovanni replica vedendo nel fatto lo scopo: il divieto, al di là della sua materialità, mirò a scongiurare il pericolo di idolatria, ribadendo la fede nell’unico Dio (I, 4; PG 1233-36; K 75; cfr. cap. 7). Quelle leggi, emanate per i Giudei, facili a scivolare nel politeismo, non concernono noi “che possediamo la ricchezza della conoscenza divina ed abbiamo raggiunto, per dono di Dio, la capacità di discernere ciò a cui l’immagine si richiama e ciò che essa contiene” (I, 8; PG 1237 D; K 81). Imposta subito il problema, in perspicuità ed essenzialità: il culto delle immagini è lecito perché non è idolatria, in quanto la venerazione non si ferma all’oggetto ma trapassa alla persona rappresentata.

Testi patristici n. 36 di Città Nuova, Roma 1983, afferma (p.14) che il primo discorso fu scritto (730731) sotto la prima impressione della politica iconoclastica di Leone III e si sviluppa prevalentemente in difesa; il secondo assume una forma più accessibile per tutti, in un’esposizione meno teorizzante e più sintetica; il terzo è più ampio sia nelle sue riflessioni che nelle citazioni degli autori precedenti. B. Flusin, I “discorsi contro i detrattori delle immagini” di Giovanni di Damasco e l’esordio del primo iconoclasmo, in B. Flusin e altri, Giovanni di Damasco. Un Padre al sorgere dell’Islam, Atti del XIII Convegno ecumenico intern. di spiritualità ortodossa, Bose 11-13 sett. 2005, ediz. Qiqajon, Bose 2006, pp. 53-86 (sulla cronologia pp. 55-61), trova che i tre discorsi sono tre versioni di una stessa opera: il primo fu pronunciato in un’assemblea nella quale era presente il vescovo di Gerusalemme; poiché risultò troppo difficile, Giovanni ne compose un secondo, dove riprende molti passi del primo; infine, in circostanze ignote, ne scrisse un terzo, in cui riprende passi dei due antecedenti, ma contiene anche parti originali, nessuna delle quali contraddice un’attribuzione a Giovanni (pp. 55-56). 10 M. Jugie, in DThC VIII,1 (1947), col. 696. 11 V. Ermoni, S. Jean Damascène, Paris 1904, a p. 289, citato da H. Menges, Die Bilderlehre des hl. Johannes von Damaskus , München i. V. 1938, a p.187, affermò: “Nelle lotte contro gli iconomachi egli dispiegò tutte le risorse del suo spirito e del suo cuore; gettò le basi di queste trattazioni e si può dire che la teologia iconica non ha fatto un passo dopo di lui”. 12 I riferimenti al testo sono indicati tanto nella PG, più accessibile e di più facile lettura, quanto nell’ediz. di Kotter, criticamente ineccepibile, ma di lettura difficoltosa per la disposizione sincrona dei tre discorsi.


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Indotto dal clima duramente persecutorio, Giovanni alle attenzioni puramente didattiche prepone le preoccupazioni polemiche e teologiche. Soprattutto nel primo discorso, più che rivolgere lo sguardo agli uditori, pensa alla verità. Per assodarla avanza in un ragionare fitto, che nel suo svolgersi è portato ad inserire sempre nuovi elementi di sostegno, i quali rendono però la formulazione lenta nella sua compattezza. Non mira tanto ad attirare l’ascoltatore offrendogli una facile accessibilità, quanto a rassicurarlo con sodezza di argomentazioni. Talora, mentre procede sul filo di un perfetto rigore e di una tersa evidenza, la dialettica si riscalda: “Come si renderà con un’immagine ciò che è invisibile? Come si rappresenterà l’irrappresentabile? Come si dipingerà ciò che è privo di quantità, di grandezza, di limite? Come si 13 darà una qualità a ciò che è senza forma? Come si tratteggerà con colori ciò che è incorporeo? Come si può palesare ciò che è avvolto nel mistero?” (I, 8; PG 1237 D; 14 K 81). Segue la pista degli avversari mentre ne sventa la tesi; non combatte come falsa la loro teoria, la mostra infantilmente inutile. Giustifica la visibilizzazione del Dio invisibile con l’Incarnazione, nella quale Dio 15 si è fatto visibile in Cristo. La percettibilità del divino non è dunque soltanto un’esigenza umana, poiché fu realizzata dallo stesso piano divino di salvezza; noi adoriamo un Dio che si è reso visibile in forme percettibili. È una legittimazione che viene da Dio, estranea allo spiritualismo disincarnato ed astratto al quale si ancoravano gli iconoclasti.

L’icona come epifania Dall’osservazione del progetto divino Giovanni scende poi all’analisi del concetto umano: essi combattono le immagini, ma ne hanno un’idea esatta? Giovanni le definisce loro: “L’immagine (l’eikón) è una rassomiglianza che rende le caratteristiche del modello, conservando però una differenza da esso; non gli è infatti simile in tutto” (I, 9; PG 1240 C; K 83). È un fatto d’esperienza, inconfutabile, e Giovanni lo pone a diretta confutazione degli iconoclasti, che accusavano i cattolici di (con)fondere il quadro col personaggio rappresentato.

V. Fazzo in Vetera Christianorum 20 (1983) a p. 35 osserva che sia quando si riferisce alle affermazioni degli iconoclasti sia quando sviluppa la sua difesa, Giovanni usa sempre eikón per immagini dipinte, mai per quelle a rilievo. 14 All’interno della densità dimostrativa apre scorci di una mirabile chiarezza, che unisce l’ineludibilità all’immediatezza. Data la centralità del problema lo osserva da ogni lato; sembra ripetere ma sempre innova; appassionandosi suscita l’interesse del pubblico. 15 P. Evdokimov, L’art de l’icone. Théologie de la beauté, Desclée de Brouwer 1970; cap. VII: L’iconoclasme, pp.167-175, a p.167 precisa: “L’iconoclasmo esprime innanzi tutto un violento impulso di trascendentalismo semitico, giudaico e mussulmano, ed anche cristiano, che accresce il senso dell’invisibile divino a detrimento dell’Incarnazione e della Filantropia”. 13


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Ma soprattutto egli si solleva, e trascina, alle altezze supreme; le immagini, esecrate in blocco dai persecutori, nella loro forma più pura hanno una sede divina: “In Dio ci sono le immagini e gli esemplari di ciò che da lui sarebbe derivato, sebbene la sua volontà rimanga perennemente uguale” (I, 10; PG 1240 D; K 84). Contro la rozza materialità iconoclastica, Giovanni apre orizzonti immensi: le immagini, prima di essere (alla fine) ritratti delle cose, ne sono (al principio) i progetti ideali. “Le immagini sono le rappresentazioni visibili delle cose invisibili, di ciò che non ha forma mediante una forma corporea, perché ce ne facciamo un’idea almeno indistinta”, difatti la Scrittura riveste di figure Dio e gli angeli (I, 11; PG 1241 A; K 84). Giovanni colloca la religione in un ambiente psicologicamente sano; non scinde artificiosamente intelligenza da immaginazione; le sa agenti alleati nella conoscenza, come le sa alleate con i sensi. La figura sensibile è per lui riflesso di una intelligibile e ad essa riverbero. L’immagine si colloca quindi ai due livelli del punto di partenza (archetipo) e della sua proiezione sensibile (pittura). L’adorazione (proskinesis) è un segno di onore, che si distingue in due gradi 16 diversi di intensità e di elevazione, la latria riservata solo a Dio e la dulia, che, per 17 amore di Dio, viene rivolta ai suoi amici e servitori (I,14). Ma Giovanni spinge lo sguardo ben oltre, perché ben oltre si estendeva la questione; l’ostilità al dipinto era solo il velario dietro al quale si celava la condanna manichea della materia, la quale implicava la presenza e l’azione di un Dio cattivo. Ma la materia è intrinsecamente male perché connessa con un Dio cattivo? Giovanni, con una controllatissima audacia, la mostra buona perché assunta dal Dio che è salvatore; affronta il tema inserendolo nella sublime cornice dell’Incarnazione. È una ‘epifania’ che gli permette di aprire uno scorcio illuminante sia sul divieto mosaico che sulla pratica cristiana: in I,16; PG 1245 AB; K 89 osserva che, siccome il Dio mosaico era incorporeo, non poteva venire rappresentato, ma da quando, nell’Incarnazione, ha assunto la materia e l’ha resa divina nel suo corpo, essa in lui è diventata adorabile. In III, 6; PG 1325 A; K 77 riprende ed approfondisce: “Non adoro la creatura al posto del Creatore, ma adoro il Creatore che si è fatto come sono io, che è sceso alla creatura senza umiliarsi e senza insozzarsi, per glorificare la mia In III,27; PG 1348 D; K 135 definisce la proskinesis un segno di sottomissione, cioè di abbassamento e di umiltà, dividendola in vari modi di attuazione: 1) la latria, riservata a Dio, adorabile per natura (28; PG 1348-49; K 135); 2) l’ammirazione e l’affetto, rivolti a Dio per la sua gloria naturale e la sua immensa bellezza, bontà e sapienza (29; PG 1349; K 136); 3) la riconoscenza ed il ringraziamento a Dio per i benefici ricevuti (30; PG 1349; K 136); 4) la consapevolezza della nostra povertà e la richiesta di benefici (31 ibid); 5) la penitenza e la confessione, chiedendo perdono a Dio (32; PG 1349; K 137). 17 Di essi tutela il culto, confutando ampiamente un’obiezione che ne asseriva la superfluità (I,19-21; PG 1249-1253; K 94-109); dichiara infatti: “I santi, finché vivevano, erano ripieni di Spirito Santo; quando sono morti, la grazia dello Spirito Santo è sempre presente sia nelle loro anime che nei loro corpi, nei sepolcri e nelle loro immagini, non secondo la sua sostanza ma con la sua grazia e la sua azione” (19; PG 1249 B; K 95). In II,15; PG 1301 A; K 107 riflette: Noi veneriamo Cristo, signore e re, ed i santi che costituiscono il suo esercito; se i santi sono coeredi di Cristo nel regno futuro, perché non dovrebbero essere partecipi della gloria anche sulla terra? - Come al solito, la sua fede ha un’armatura di solida razionalità. 16


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natura e rendermi partecipe della natura divina. Adoro, insieme al re e Dio, la porpora del suo corpo, non come abito né come quarta persona, ma come quella che risulta ugualmente divina e diventa quella medesima cosa che è colui che l’ha consacrata, senza nessun mutamento. La divinità non è trapassata nella natura della carne; ma come il Verbo, rimanendo ciò che era prima, è diventato carne, senza mutamento, così anche la carne è diventata Verbo senza perdere ciò che è; si è fatta la medesima cosa del Verbo in base all’ipostasi. Perciò – Giovanni dichiara – ho il coraggio di rendere con un’immagine il Dio invisibile, che per causa nostra si è fatto partecipe della carne e del sangue; io non dipingo un’immagine della divinità invisibile, ma disegno una figura della carne visibile di Dio. Se è infatti impossibile tracciare un’immagine dell’anima, tanto più lo è di colui che ha dato all’anima di essere immateriale”. È una delle più ammirevoli pagine della patrologia greca: i concetti vi sono controllatissimi, soppesati con la solerzia più sveglia ed espressi in una forma tersa, nella quale le parole incidono in perspicuità di evidenza. Di fronte al mistero cristologico non è né elusivo né approssimativo; ha il coraggio di affrontare processi divini avvolti nel mistero; ma insieme ha la 18 consapevolezza che il minimo scarto può far scivolare nell’eresia. ll rapporto tra carne e divinità in Cristo affaccia sul mistero senza violarlo pur facendo sentire il fascino di ciò che si protende a lontananze irraggiungibili. Il ritmo espositivo è misurato con sollecitudine: né precipita né indugia. È un eccellente modello di catechesi: il vigore del 19 pensiero teologico ha incontrato un’elegante perizia espositiva. 20

Si dischiude un panorama di grande ricchezza: spiega la prassi giudaica e giustifica quella cristiana; supera il contrasto dualistico di materia e spirito elevando la materia non solo all’onore della razionalità, mediante l’unione con l’anima, ma addirittura alla dignità divina, mediante l’unione ipostatica col divino, che si attuò in Cristo. Il disordine del contrasto è stato ricomposto nell’unità dentro la luminosa prospettiva della salvezza.

Dalla ragione all’emozione Ma Giovanni non si ferma qui; dalla concettualità passa, con una simpatica ricchezza d’umanità, all’emotività. Nota infatti che saremmo nell’errore se facessimo un’imCi sono un compendio dell’ortodossia ed un rifiuto dell’eresia: delle due nature afferma tanto la compresenza quanto l’individualità di ciascuna al di fuori di ogni confusione; sottolineando la realtà della carne esclude sia il docetismo che il monofisismo; asserendo che Cristo si è fatto uomo come lo siamo noi, respinge tanto l’apollinarismo, che negava a Cristo un’intelligenza umana, quanto il nestorianesimo, che sdoppiava la personalità. 19 È un ambiente concettuale che gli è caro, perché lo riprende in II,14; PG 1300 BC; K 105-106, aggiungendo alla materia della carne di Cristo quella del “beatissimo legno della croce”, e sfocia nell’alternativa: o togli la venerazione di queste cose o concedici, secondo la tradizione della Chiesa, la proskinesis delle immagini di Dio e dei suoi amici. Ed insiste ancora in II,19; PG 1305 AB; K 118. 20 Siccome l’acrimonia iconoclastica aveva una copiosa fonte giudaica che scaturiva dall’Esodo, Giovanni la prosciuga con un’analisi puntuale dei fatti e dei loro motivi in I,16-17; PG 1245-48; K 90-93. 18


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magine del Dio invisibile, perché ciò che non è corporeo non è visibile e non può essere espresso con un’immagine, ma, dopo che Dio ha assunto la carne, rendendosi con essa visibile, è legittimo che ne tracciamo la figura, perché noi desideriamo vede21 re i suoi lineamenti (charaktér) (II,5 ; PG 1288 AB; K 71-72). Non si tratta di una vana curiosità, perché, vedendo, attraverso al disegno, la figura del corpo di Cristo, dei suoi miracoli e delle sue sofferenze, noi ne rimaniamo santificati, ci sentiamo pieni di gioia; contemplando i suoi lineamenti fisici ci mettiamo in mente, per quanto è possibile, la gloria della divinità. Poiché noi siamo duplici, composti di anima e di corpo, la nostra anima non è nuda, ma è come velata da una cortina, ci è impossibile arrivare ai concetti al di fuori dei tramiti corporei (III, 12; PG 1336 A; K 123). Dinanzi all’ovvietà della constatazione, Giovanni arriva a scorgere nella negazione un’insinuazione demoniaca; in II, 2-3; PG 1285, nello stendere un elenco delle aberrazioni che il diavolo ha inoculate negli uomini, dalle pratiche pagane alle eresie cristiane, arriva all’iconoclastia. In II, 6; PG 1288 B; K 72 afferma che il demonio ci invidia che noi, per mezzo di un’effigie del Signore, ci procuriamo la santità e glorifichiamo la potenza della divinità, ed in III, 2; PG 1320 B; K 71 dichiara che il proibire di presentare le azioni di Cristo e dei santi in immagini, attraverso le quali le possiamo 22 contemplare, glorificare, ammirare ed imitare, è un suggerimento del demonio. L’immagine acquista un energico dinamismo vitale; parla allo spirito, animandolo a superare le difficoltà del cammino; esercita un doppio effetto: sul fedele, che rinvigorisce, e sul personaggio rappresentato, che celebra; infatti “l’immagine è un trionfo, una manifestazione, una lapide incisa a ricordo della vittoria di quanti si sono distinti nel praticare le virtù ed a vergogna dei demoni sconfitti ed abbattuti” (II, 11; PG 1296 B; K 102). Quella celebrazione dell’icona che proclama, Giovanni la vive anche personalmente con un palpito di commozione: “Considerate quanta forza, quanta divina vigoria sia data a coloro che, con pura coscienza, si recano alle immagini dei santi. Perciò, fratelli, rimaniamo sulla roccia della fede e nella tradizione della Chiesa; non spostiamo i termini divisori che i nostri santi Padri hanno collocati; non diamo spazio a quelli che vogliono innovare e demolire l’edificio della santa Chiesa cattolica ed apostolica di Dio. Se infatti si concedesse una tale licenza a chiunque lo voglia, poco per volta verrà distrutto il corpo della Chiesa. No, fratelli, no, figli diletti della Chiesa, non disonorate la vostra Madre, non toglietele il suo ornamento...” (III, 41; PG 1356; K 141): è in diretta sconfessione delle spogliazioni iconoclastiche. E, a sigillo della sua opera, pone un’esortazione che ha la vibrazione di una supplica: “AdoCon immediata semplicità è resa l’aspirazione insita nella natura umana, che tutto conosce attraverso ai sensi, a rendere sensibile anche lo spirituale per poterlo meglio conoscere. L’idea acquista concretezza di vita quando si riveste di una forma; come le cose del cosmo parlano all’intelletto ed all’emotività, così quelle sopra la natura tendono ad assumere una percettività sensitiva. 22 Sono i quattro frutti della loro venerazione. 21


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riamo con un culto di latria il solo Creatore, il quale è adorabile per natura; veneriamo la Santa Madre di Dio, non come Dio ma come Madre di Dio secondo la carne, e veneriamo anche i santi, come eletti amici di Dio, che con lui hanno franca libertà di colloquio (parrhesía) (III, 41; PG 1357 A; K 142). 23

M. Gordillo ha essenzializzato l’apporto del Damasceno alla questione, presentandolo nel suo duplice versante negativo e positivo: I) egli rimosse gli ostacoli: a) all’autorità dell’imperatore compete la cura delle cose temporali non l’amministrazione della Chiesa; b) i precetti dell’Antico Testamento miravano solo a far evitare l’idolatria; c) non esiste un’opposizione dei Padri all’iconodulia, in quanto l’unico 24 portato in campo dagli iconoclasti era lo pseudo-Epifanio; d) dissolse i motivi degli avversari, in quanto la materia non è cattiva in se stessa, ma non va in se stessa adorata. II) Giovanni recò argomenti a favore: a) le tradizioni sacre della Chiesa, che confermano il culto delle immagini; b) la liturgia, che ammette l’adorazione del Vangelo e dell’altare; c) la ragione teologica, per la quale il culto delle immagini, essendo relativo, è lecito se lo meritano coloro che sono rappresentati; d) il frutto che i fedeli traggono da tale culto (§ 74 pp.117-118). 25

G. Ostrogorsky sui suoi interventi ha pronunciato un giudizio categorico: “L’opera più originale ed artisticamente più perfetta del Damasceno, anche se non la più nota, è costituita dalle tre orazioni in difesa del culto delle immagini” (p.150). Da 26 esse O. Bardenhewer aveva sentito emanare un penetrante efflusso: “Chiare e precise, percorse da un caldo entusiasmo o anche da indignazione, però moderate e distinte, queste apologie erano molto adatte a fare impressione” (p. 54). Ed è osservazione pienamente condivisibile. Il Damasceno, come cristiano, nel culto delle immagini si sentiva di fronte ad una prassi sanzionata dall’autorità della Chiesa; come teologo si vedeva dinanzi ad un quesito razionalmente aperto su una soluzione indubitabile; come uomo di gusto era urtato dallo scempio perpetrato sull’arte e sulla bellezza; come persona era offeso da un sopruso intriso di prepotenza; reagì quindi con tutto se stesso. Se non fu dotato di una brillante fantasia che gli facesse scrivere un capolavoro letterario, lanciò tuttavia un messaggio che illuminava la società di quella luce sicura che risplendeva tersa nella sua coscienza; la sua parola emanava genuinità di convinzioni ed era tramata su solidità di argomentazioni, per cui appariva davvero “molto adatta a fare impressione”.

23 M. Gordillo, Theologia Orientalium cum Latinorum comparata. Commentatio historica. I. Orientalia christiana analecta 158, Roma 1960. 24 Che quel testo fosse spurio Giovanni lo asserì in I,25; PG 1257; K 113-117) e come tale lo confermò anche S. Niceforo, patriarca di Gerusalemme, nell’Apologeticus minor pro sacris imaginibus § 4 PG 100, col. 837. 25 G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, trad. P. Leone, Torino 1968. 26 O. Bardenhewer, Geschichte der altkirchlichen Literatur. Vter Bd. 1932; rist. Darmstadt 1962.


RivLas 77 (2010) 1, 15-41

Laicità e religione nella sfera pubblica ROBERTO CIPRIANI

Premessa

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er alcuni decenni gli specialisti del fenomeno religioso si sono affannati a discutere di secolarizzazione, morte di Dio, fine della religione, o – al contrario – di risveglio religioso, ritorno di Dio, espansione dell’influenza della religione. In diversi casi si è assistito a qualche ripensamento, ad un ammorbidimento dei toni, a cambi di rotta a 180 gradi. Valgano per tutti i due esempi di Sabino Acquaviva (1971), già noto come teorico dell’eclissi del sacro, e di Harvey Cox (1968), profeta della città secolare. L’uno ha dovuto poi precisare che intendeva solo parlare di fine dell’uso magico del sacro (Acquaviva, Stella 1989) e l’altro, più semplicemente, di essersi sbagliato sul futuro della religione. Ma anche i fautori di una forte ripresa del ricorso alla pratica religiosa hanno poi dovuto ricredersi. In ogni caso è mancato un serio confronto con la realtà empirica, con i risultati delle indagini scientifiche serie e rigorose, non preconcette, oppure se vi si è fatto riferimento l’approccio è stato parziale, non contestualizzato, troppo facilmente generalizzato rispetto ad una realtà di fatto assai variegata e mutevole. Ma soprattutto non sono stati fatti i conti con il peso delle radici storiche, delle culture tradizionali, della socializzazione religiosa diffusa, del peso e dell’influenza delle strutture confessionali, sovente capillari ed alquanto efficaci nella loro azione (nonostante le apparenze immediate facciano presumere il contrario). In tempi più recenti, la nuova parola d’ordine dell’analisi teorica e del dibattito intellettuale sembra sia divenuta la laicità, con particolare riferimento allo stato, alle istituzioni pubbliche, all’attività educativa (specialmente scolastica, a livello pubblico). In realtà non si tratta di una novità assoluta perché già in precedenza qualche studioso aveva parlato di laicizzazione piuttosto che di secolarizzazione, invero con un significato diverso da quello che attualmente è oggetto di continue diatribe.


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Una certa accelerazione era venuta dalla ricorrenza centenaria della legge francese del 1905 sulla laicità dello stato. Ne sono nati documenti nazionali ed internazionali, convegni, volumi, dibattiti. E tutto questo non ha mancato di avere un riverbero anche in Italia. Ma prima ancora di risalire alle origini della questione pare opportuno richiamare alcune delle posizioni teoriche più recenti e significative (da Habermas e Giddens a Taylor).

Religione e sfera pubblica Il filosofo-sociologo tedesco Jürgen Habermas, da molti considerato un continuatore della cosiddetta Scuola di Francoforte, mostra una certa preoccupazione per la solidarietà sociale. Lo si desume dalla sua opera maggiore sull’agire comunicativo [Habermas 1986b, II: 603-18], il cui «sfondo normativo» è correlato con l’autorità del sacro, in cui Habermas riconosce le radici dell’etica. L’obbligo morale deriverebbe infatti dal sacro attraverso una mediazione simbolica, che conduce al linguaggio (ed all’etica del discorso, insomma all’agire comunicativo, non strumentale, non coercitivo). In definitiva Habermas ritiene che solo una morale universale sia capace di tenere unita una società secolarizzata, attraverso la garanzia di un consenso di fondo [Habermas 1986b, II: 669]. Per non seguire necessariamente tutte le implicazioni del pensiero habermasiano sull’agire comunicativo, basta rilevare che la sua «sistematica delle forme dell’intendersi» concerne quattro settori: «(1) l’ambito della prassi cultuale, (2) l’ambito di azione nel quale i sistemi di interpretazione religiosi conservano una forza di orientamento immediato per la prassi quotidiana, infine gli ambiti profani di azione nei quali la riserva di sapere culturale è utilizzata (3) per la comunicazione e (4) per l’attività finalizzata, senza che le strutture delle immagini del mondo si affermino direttamente negli orientamenti di azione». Dunque i primi due ambiti sono connessi direttamente al sacro. Per quanto concerne il primo: «al mito corrisponde una prassi rituale (e azioni sacrificali) dei membri del gruppo, alle immagini religioso-metafisiche del mondo corrisponde una prassi sacramentale (e le preghiere) della comunità, alla religione colta della prima età moderna corrisponde infine la attualizzazione contemplativa delle opere d’arte auratiche» [Habermas 1986b, II: 801]. In termini più espliciti Habermas fa capire che il sacro si fonda sulla prassi cultuale (con il rito che istituzionalizza la solidarietà sociale; il sacramento/preghiera che istituzionalizza le vie di salvezza e di conoscenza; la rappresentazione contemplativa di arte auratica che istituzionalizza la fruizione dell’arte) e, per quanto riguarda il secondo ambito, sulle immagini del mondo che guidano la prassi (con il mito; le immagini religiose e metafisiche del mondo; l’etica religiosa di convinzione; il diritto naturale razionale; la religione cittadina) [Habermas 1986b, II: 802]. Rito e mito appartengono alla società arcaica, sacramento/preghiera ed immagini religiose e metafisiche


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del mondo appartengono alle grandi civiltà antiche, rappresentazione contemplativa di arte auratica ed etica religiosa di convinzione nonché diritto naturale razionale e religione cittadina appartengono alla prima età moderna. Ma anche oggi la religione costituisce una sorta di sfida cognitiva in quanto dà contenuto e forza alle norme sociali e dunque alla solidarietà dei cittadini. Invece di scomparire [Habermas, Sölle, Luhmann 1977], la religione si situa anzi nella sfera pubblica [Habermas 2006a], dove svolge una sua funzione di mediazione fra due opposti, quello dei fondamentalismi e quello dei secolarismi. Habermas risponde così alla provocazione di Böckenförde [2007], il quale nega allo stato secolarizzato la possibilità di garantire le sue stesse premesse normative (possedute invece dalla religione cristiana) ed auspica una sua ristrutturazione come stato post-secolarizzato al fine di far fronte all’accentuata crescita della religiosità e dei movimenti fondamentalisti (allo stesso tempo però Böckenförde osserva che la religione, sempre più libera, non si conferma come fermento dell’ordine pubblico ed è separata dallo stato, che quindi non rappresenta e non protegge più alcuna religione, sebbene esso non giunga a negarla, oltretutto perché è nata prima). In realtà il sociologo francofortese non vede solo i valori religiosi a fondamento della democrazia, in quanto vi contribuiscono anche le regole ovvero le procedure. Ma ritiene indispensabile che le religioni rinuncino a pretese di possesso della verità, accettino l’autorità della scienza e si sottopongano al diritto secolare. Ovviamente il dissenso sia religioso che laico in proposito è sempre da mettere in conto. Il che non impedisce di giungere ad un consenso ragionevole. Una secolarizzazione distruttiva è lesiva anche della società stessa [Ratzinger, Habermas 2005]. La prospettiva preferita da Habermas è quella illuminista, razionalista [Habermas 2002b] e secolarista ma egli non si dimostra del tutto contrario alla religione, cui chiede comunque di far ricorso ad un discorso che permetta di dialogare con il mondo laico. In altri termini la religione è costitutiva del mondo della vita (Lebenswelt), anche se il processo di razionalizzazione e di secolarizzazione ne hanno ridotto la portata confinandola quasi solo alla questione del significato, giacché l’autorità del sacro è stata rimpiazzata da quella moderna del consenso. In questo è da vedere una crisi di legittimazione [Habermas 1975] della religione, insieme con lo sviluppo di una concezione secolare della conoscenza e dunque di una sfera pubblica sempre più indipendente dalla religione. Ma nel contempo Habermas [2006a] attribuisce alla stessa religione un ruolo non trascurabile nel processo di diffusione di linguaggi comuni, dando luogo altresì ad una «elaborazione linguistica del sacro» [Habermas 1986b: 648-96]. Insomma il pensiero religioso non sarebbe al di fuori della razionalità e può essere preso in considerazione per comprendere compiutamente forme e contenuti del processo di razionalizzazione. In definitiva il ruolo della religione non è scomparso ma è mutato. E ad ogni buon conto l’agire comunicativo non è assoggettabile ai condizionamenti di natura religiosa. D’altra parte però la maggiore secolarizzazione della società deve anche fare i conti con la persistenza delle concezioni religiose e delle


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comunità confessionali che le esprimono [Habermas 2002a: 99-112]. Pertanto le società post-secolari sono chiamate a porre in discussione la loro stessa comprensione della razionalità laica, in una prospettiva di maggiore apertura in chiave di allargamento della conoscenza (e dell’apprendimento anche dal pensiero religioso). In altri termini il principio della separazione tra religione e politica si fonda sulla base di una fase «post-secolare» di rispetto mutuo fra religione e ragione [Habermas 2006b: 19-50]. Lo stato laico però non può pretendere di imporre il suo linguaggio ai cittadini credenti, già costretti nella condizione asimmetrica (rispetto ai soggetti laici ed allo stato laico) di dover cercare una mediazione tra la loro fede e le ragioni laiche, mediante un equilibrio teologico ed etico [Habermas 2006b: 30]. È in tal modo che «il pensiero allarga le sue ali», come già Habermas [1986a: 202] ha ricordato a proposito dell’utopia e della speranza teorizzate da Ernst Bloch.

La religione nella modernità Anthony Giddens, sociologo della London School of Economics, ritiene che la religione (cui dedica anche il quattordicesimo capitolo del suo volume Sociology [Giddens 2006]) non abbia perso terreno nell’arena sociale a seguito del processo di secolarizzazione [Dawson 2006]. Semmai essa ha assunto un significato diverso per l’attore sociale, fornendogli la possibilità di affermare una sua personale identità, anche a prescindere dal suo riferimento di gruppo e di contesto sociale. A differenza di Steve Bruce [2002], che non vede un grande futuro per la religione, Giddens ne riafferma la funzione, anche se in termini diversi dai sostenitori del risveglio religioso e dai teorici del pluralismo religioso. Di fronte ai rischi della società tardo-moderna, secondo Giddens la religione torna ancora utile perché fornisce spiegazioni, motivazioni e risposte. Il processo di urbanizzazione ha allargato gli orizzonti ed ha interrotto i legami con i limiti dei contesti comunitari di appartenenza, lasciando gran parte della popolazione alla mercé degli eventi, dei fattori negativi, degli imprevisti. Per di più sono venute meno varie certezze del passato. Nella società frammentata di oggi non tengono le vecchie logiche del sacro e si cercano altre soluzioni, che si fondano sull’individualismo e sull’autoespressione. La riflessività sul senso del proprio vissuto apre poi la strada a nuovi orizzontiguida, per cui l’obbiettivo principale è quello di costruire il sé [Giddens 1991]. Giovani ed adulti cercano le vie d’uscita in modalità originali di vita, anche attraverso il miglioramento delle proprie capacità fisiche e produttive, tese soprattutto ad allungare la durata dell’esistenza. Diventano fondamentali anche le relazioni interpersonali, non più circoscritte ai quadri sociali di pertinenza ma focalizzate piuttosto sui rapporti emotivamente significativi, dunque quelli affettivi ed amicali e sempre meno quelli collettivi, comunitari, allargati.


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La tendenza è ad estromettere la vita sociale dalla relazione interpersonale profonda fra due soggetti, per evitare i rischi insiti nel mondo sociale, con le sue negatività di ogni genere. Ma la perdita dei punti di riferimento crea altresì inquietudine ed insicurezza, fattori che spiegano pure l’adesione dei giovani ai nuovi movimenti religiosi. Nonostante crisi e difficoltà, le istituzioni religiose tuttavia continuano ad occupare un posto rilevante. Però, mentre si registrano tentativi fondamentalisti di ritorno al passato, in pari tempo si cercano consolazioni in avvenimenti futuri, al di là della soglia esistenziale. Ecco dunque che la religione non si eclissa ed anzi riappare a più riprese ed in vari luoghi. Pertanto dubbi e speranze convivono ed il fondamentalismo della tradizione si accompagna - pur a debita distanza - all’originalità delle esperienze. Nascono dunque altri stili di vita ed altre convinzioni, le quali sono frutto di scelte dal sapore politico (che vanno dall’uso del corpo al femminismo, dall’aborto alla sessualità, dall’ecologismo alle tecniche di riproduzione umana). Tali sperimentazioni passano pure attraverso i nuovi movimenti religiosi, che quindi godono della fiducia delle giovani generazioni, le quali vogliono evitare i rischi della tarda modernità [Giddens 1990]. Però tutto questo significa altresì che la religione con la sua riflessività privatizzata è riuscita ad adattarsi una volta di più alle sfide del momento. In pratica, seguendo alla lettera quanto proposto da Giddens [1992: 5], «nell’ordine post-tradizionale della modernità, e contro l’ambito delle nuove forme di esperienza mediata, l’auto-identità diventa un tentativo organizzato riflessivamente. Il progetto riflessivo del sé, che consiste nel sostenere narrazioni biografiche coerenti, ma rivisitate di continuo, ha luogo nel contesto della scelta multipla in quanto filtrata attraverso sistemi astratti. Nella moderna vita sociale, la nozione di stile di vita assume una valenza particolare. Quanto più la tradizione perde la sua tenuta, e quanto più la vita quotidiana è ricostruita in termini di interazione dialettica fra locale e globale, tanto più gli individui sono forzati a negoziare le scelte di stile di vita fra una varietà di opzioni».

L’era secolare Nel 2007 il filosofo-sociologo canadese Charles Taylor (vincitore del Templeton Prize nel 2007 e del Kyoto Prize nel 2008, nonché docente emerito della McGill University a Montreal) con la pubblicazione di A Secular Age [Taylor 2007], un volume di oltre mille pagine nella versione italiana [2009], è balzato all’attenzione del mondo scientifico e religioso (e non solo). Il suo contesto di riferimento per definire secolare il nostro tempo è quello occidentale. L’autore si chiede soprattutto che cosa significhi passare da epoche in cui la fede religiosa era considerata un must, un obbligo di fatto, ad un’era in cui l’opzione religiosa è una fra le tante possibili. Il suo approccio ha un carattere storico e concerne in primo luogo il cristianesimo occidentale, che ha visto sviluppare tendenze sempre più secolari, dopo la scomparsa di vec-


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chie formule religiose. Il tutto avrebbe avuto luogo, secondo Taylor, non seguendo un’unica e medesima direttrice ma attraverso movimenti diversificati, che non solo non hanno fatto scomparire la religione, come preconizzato da qualche studioso, ma ne hanno moltiplicato la presenza in vari ambiti, pur a fronte di evidenti crisi della credenza e della pratica. Intanto per dare un significato all’esistenza sarebbero disponibili molte soluzioni: religiose ed anti-religiose, spirituali e materiali. Nel contempo si assisterebbe ad un incremento delle esperienze religiose collettive e delle mobilitazioni di massa, anche violente. Sono cinque le parti del testo tayloriano: l’opera della Riforma protestante [Taylor 2009: 41-282], il punto di svolta rappresentato dal «teismo provvidenziale» e dall’«ordine impersonale» [Taylor 2009: 285-378], il nova effect dovuto all’affermarsi dell’alternativa umanistica concernente l’autenticità rispetto a quella trascendente del deismo con la creazione di un più vasto raggio di soluzioni etiche e spirituali [Taylor 2009: 381-529], i racconti della secolarizzazione [Taylor 2009: 533673] e le condizioni della credenza [Taylor 2009: 677-966]. La prima obiezione già mossa nei riguardi di Taylor è che il testo risente molto della confessionalità del suo autore, cattolico praticante e dunque coinvolto direttamente nelle problematiche di natura religiosa. Inoltre la voluminosità dell’opera è quasi un deterrente per un lettore non specialista e varie parti della trattazione appaiono ripetitive, con numerose digressioni, in uno stile non sempre semplice. Ciò non inficia comunque il valore complessivo dell’analisi tayloriana, che qualche suo collega sociologo non ha esitato a definire di portata epocale perché segna in effetti un punto di svolta nelle lunghe diatribe sulla secolarizzazione. L’era secolare secondo Taylor offre numerose possibilità di scelta, fra religioso e secolare, fra spirituale e materiale, fra credenza e non credenza, fra deismo (o teismo) ed ateismo. Essa rappresenta una novità rispetto agli ultimi cinque secoli perché non ci sarebbe più l’incantamento del passato ma il disincanto del presente. L’orientamento della società non è più diretto in senso verticale, cioè metafisico, ma piuttosto in senso orizzontale, terreno, quotidiano, contingente. Nell’epoca attuale prevale il naturale invece del soprannaturale. Le gerarchie tengono meno che in precedenza. L’obiettivo di Taylor è mostrare che la religione ha ancora una sua funzione nel sociale; che l’individuo non può restare insensibile alle istanze della collettività; che conviene promuovere soluzioni ecumeniche; che gli esseri umani sono di per sé attori e protagonisti del conflitto; che è necessario decostruire il filone intellettuale della cosiddetta morte di Dio, il quale in realtà starebbe santificando gli individui sociali. Insomma la secolarizzazione non ha potuto eliminare la religione e pure la scienza è di aiuto nel supportare la religione. Inoltre Taylor auspica il ritorno di un certo rispetto da parte degli intellettuali verso la religione, ma soprattutto pensa che la società abbia bisogno di redenzione, la quale può passare pure attraverso il desiderio erotico e l’amore di Dio. Così la socie-


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tà può essere re-incantata con il ritorno a Dio, con i misteri dello spirito e con la stessa sensualità. Nella sua analisi storico-sociologica del secolarismo Taylor parla di tre fasi. Nella prima la visione religiosa del mondo cede il posto ad una scienza libera da condizionamenti ma l’esistenza di Dio non viene negata ed è solo relegata nell’area della trascendenza. Nella seconda fase il secolarismo reagisce al deismo provvidenziale (di un Dio che provvede a tutto ed a tutti), per cui diminuiscono la pratica religiosa e l’adesione alla Chiesa, in quanto l’individuo pensa alla sua auto-realizzazione, non usufruendo dell’orientamento del pensiero cristiano in materia di sessualità, tecnologia, commercio, relazioni. Così non si guarda più al di là di se stessi per cercare indicazioni e norme, Dio è posto ai margini, il cristiano è solo una persona buona: a questo si riduce la religione civile. Nella terza ed ultima tappa si accrescono le potenzialità decisionali ben oltre la dicotomia fra credenza e non credenza. Le alternative etiche sono molteplici, dunque il riferimento comune si parcellizza, si frammenta. Questa è la cosiddetta «età espressiva» basata sull’esperienza personale, in cui la religione è un aspetto come tanti altri. Nella transizione dal sistema gerarchico e fondato sull’autorità ad un modello che favorisce l’iniziativa personale si sono registrate perdite ed alienazioni nelle Chiese cristiane. Però la prospettiva all’orizzonte è quella di un rientro della trascendenza, resa più accettabile. Taylor vede infatti nel messaggio cristiano dell’incarnazione la chiave di volta per congiungere spirito e corpo, dato che la religione è fatta essenzialmente di comunione anche fra dimensione spirituale e fisica. La Chiesa stessa favorisce l’agape, dunque l’amicizia, l’attrazione sessuale, la generosità. Il darsi incondizionato per il bene dell’altro rappresenta ciò che è buono e fa parte della sfida dell’era secolare alle religioni tradizionali. Occorre pertanto recuperare la carnalità, la corporeità, la fisicità, perché la religione non è fatta per giudicare gli atteggiamenti ed i comportamenti relativi a tali ambiti. Il secolarismo peraltro l’aiuta a liberarsi dal timore dell’inferno ed a superare il contrario dell’incarnazione, cioè l’escarnazione ovvero la negazione del corpo. Sullo sfondo vi è una rivalutazione della resurrezione come atto conclusivo che non fa più temere la morte. Insomma Taylor ripropone la credenza nell’incarnazione per affrontare la violenza. Dunque la religione non fornisce solo significati ma anche chiavi di lettura per capire il verificarsi del male e rispondere ad esso con il perdono e non con la vendetta, ossia con la riconciliazione e non con il giudizio. Intanto però i racconti del secolarismo dicono di una realtà senza Dio, senza trascendenza. La moderna civiltà si presenta invero abbastanza piatta. In definitiva è il cristianesimo, per Taylor, a fornire la risposta giusta con la resurrezione che dà senso all’incarnazione e fa superare l’escarnazione ovvero il ripudio del corpo. L’autore di A Secular Age invita infine a partecipare alla storia, per cambiare «il mondo come esso è». «Per i nostri scopi la ‘religione’ può essere definita perciò in termini di ‘trascenden-


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za’, anche se quest’ultimo termine deve essere inteso in più di una dimensione. Il fatto che si creda o no in qualche agente o potere che trascende l’ordine immanente è sicuramente un aspetto cruciale della ‘religione’, a giudicare dal posto che ha occupato nelle teorie della secolarizzazione. È proprio la nostra relazione con un Dio trascendente che ha perso di centralità nella vita sociale (secolarizzazione 1); ed è il declino della fede in questo Dio che tali teorie investigano (secolarizzazione 2). Tuttavia per comprendere meglio i fenomeni che ci interessa qui spiegare dovremmo concepire la relazione della religione con questo ‘al di là’ in tre differenti dimensioni. E la dimensione cruciale, quella che rende comprensibile il suo impatto sulle nostre vite, è quella che ho appena esaminato: l’idea che esista un bene superiore alla prosperità umana, un bene che va al di là di essa» (Taylor 2009: 35-36).

Lo studioso di Montreal rinvia tutto ad una realtà ultraterrena che si configura entro il tracciato di un cristianesimo quale risposta da ritenere valida. Infatti «nel caso cristiano, potremmo concepire questa dimensione come agape, l’amore che Dio ha per noi e di cui partecipiamo mediante il suo potere. In altre parole, ci viene offerta una possibilità di trasformazione che ci conduce oltre la perfezione meramente umana. Ovviamente, però, questa idea di un bene superiore accessibile può avere senso solo nel contesto della credenza in un potere superiore, il Dio trascendente della fede che appare in moltissime definizioni della religione. Ma allora, in terzo luogo, il racconto cristiano della nostra potenziale trasformazione mediante l’agape esige che comprendiamo la nostra vita come qualcosa che va al di là dei confini della sua “naturale” sfera d’azione tra la nascita e la morte; le nostre vite si estendono oltre “questa vita”. Per comprendere il conflitto, la rivalità o il dibattito tra religione e incredulità nella nostra cultura, dobbiamo pensare alla religione come qualcosa che coniuga queste tre dimensioni della trascendenza» (Taylor 2009: 36).

In pratica la prima dimensione è data dall’agape che permette di trascendere il semplice stare bene a livello umano; la seconda dimensione è connessa alla credenza in un Dio trascendente; la terza ed ultima dimensione ha a che fare con la vita oltre la morte. Insomma tutto si gioca nel rapporto fra trascendenza della religione e sua negazione. All’interno di tale dialettica esiste una miriade di opzioni possibili. Ma oltre la secolarizzazione 1 e 2 c’è anche una secolarizzazione 3: «La secolarizzazione 3, su cui si concentra qui la mia attenzione, a discapito della secolarizzazione 1 (spazi pubblici secolarizzati), e 2 (il declino della credenza e della pratica), consiste perciò nella comparsa di nuove condizioni della credenza, in una nuova forma dell’ esperienza che ci sprona alla credenza ed è definita da essa e in un nuovo contesto entro cui deve procedere qualsiasi ricerca della dimensione morale e spirituale» [Taylor 2009: 36].

In conclusione l’approccio di Taylor, che ha un taglio per certi versi più filosofico che sociologico, diviene alla fine quasi teologico, pur se fondato sull’esperienza.


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La laicità alla francese In Europa ci sono religioni (e Chiese) di stato in Finlandia ed in Grecia nonché nel Regno Unito e nel Principato di Monaco (a Malta, poi, il cattolicesimo è religione della nazione) e ci sono separazioni ma anche accordi in Germania, Austria, Italia e Spagna. C’è peraltro l’eccezione della Francia, ufficialmente secolare ma con molte situazioni contraddittorie a livello operativo, specie in Alsazia e Lorena. Le costituzioni della Grecia e dell’Irlanda fanno riferimento alla religione, invece quella tedesca consente l’invocatio Dei, mentre la costituzione europea non vi accenna affatto. Altrove c’è un rimando a Dio nell’introduzione alla costituzione (in Polonia ed in Ucraina), oppure è richiamata la tradizione religiosa (come nella Repubblica Ceca ed in Slovacchia) od al contrario non vi è alcuna menzione di elementi religiosi, anche perché manca un preambolo alla stessa costituzione (in Albania, Armenia, Azerbaigian, Lettonia e Romania) o, comunque, Dio non viene citato (in Bielorussia, Bosnia, Bulgaria, Estonia, Ungheria, Lituania, Russia, Slovenia, Serbia e Montenegro). La citata eccezione francese è oggetto di ampie discussioni. Innanzitutto perché si nega la sua eccezionalità. La laicità, a detta di Jean Baubérot (2003, 2004, 2007a, 2007b), titolare della cattedra di Histoire et sociologie de la laïcité presso l’École Pratique des Hautes Études a Parigi, ha una valenza universale (ma in lingua inglese il termine ha fatto fatica ad affermarsi) e non ha a che vedere con il laicismo e con l’anticlericalismo tradizionale e neppure con la laicizzazione come sinonimo di secolarizzazione. Egli propone inoltre una sorta di patto laico, utile a definire i limiti ovvero le soglie della laicizzazione, andando al di là degli accenti polemici di tante discussioni sulla laïcité. Secondo tale approccio, per esempio, la laicizzazione turca attuata dall’alto ed in assenza di processi di secolarizzazione a livello sociale non appare una soluzione adeguata, perché le problematiche reali sono piuttosto complesse, molteplici e non risolvibili con un atto d’imperio (ma Böckenförde vede in essa una sorta di islam amministrato dallo stato). C’è poi da considerare il ruolo della religione civile, di quella secolare, di quella pubblica o con funzioni pubbliche. Dunque il quadro d’insieme non si presenta in modo autoevidente. Il punto essenziale è ovviamente definire che cosa si debba intendere per laicità, ma ogni ipotesi definitoria può contenere in sé un profilo vincolante e non sempre adatto alle situazioni polimorfe in atto. Del resto è esemplare proprio l’esito del tentativo messo in atto da Baubérot stesso di stilare e far firmare da 250 intellettuali nel mondo una sorta di Dichiarazione universale sulla laicità. Non tutti gli invitati a sottoscriverla l’hanno condivisa e firmata. Non solo. Il testo originale francese è stato poi tradotto e modificato. Così nella versione in lingua spagnola, proposta da Roberto Blancarte del Colegio de Mexico di Toluca, si invoca il diritto alla blasfemia come espressione di libertà e di autonomia. Certamente l’intento è quello di salvaguardare le possibilità di esplicitazione di un punto di vista, per esempio a livello artistico, ma va da sé che il riconoscimento del diritto ad una potenziale offesa verso l’alterità o la diversità di orientamento non


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si giustifica con il diritto alla laicità, giacché travalica le soglie della laicità prospettate da Baubérot. Nei riguardi della laicità prescritta in Francia per legge, si sono registrati andamenti alterni di rifiuto e di accettazione, di riproposizione e di rivisitazione. Di tali dinamiche si sono resi protagonisti, in successione di tempo, quasi sempre i medesimi soggetti intellettuali, religiosi e/o politici. A loro sostegno si sono aggiunte anche le suggestioni teoriche di alcuni pensatori sociali che hanno messo al centro dei loro interessi lo spazio pubblico della religione. Sta di fatto che da qualche anno a questa parte il tema della laicità è divenuto un argomento ricorrente di varie contese, non solo teoriche ma con conseguenze pratiche (tra l’altro, in merito ai contributi economici statali in favore delle Chiese). Dopo la cosiddetta grande secolarizzazione voluta da Napoleone Bonaparte, per l’acquisizione dei beni ecclesiastici, anche la legge francese del 1905 ha riguardato, in misura non trascurabile, i trasferimenti di rilevanti patrimoni a vantaggio dello stato. Ma la recente ripresa della diatriba sulla laicità ha obiettivi ben più ambiziosi, perché investe la presenza stessa della religione nel contesto sociale. In primo luogo c’è da chiedersi se la laicità a cui si pensa sia essa stessa scevra da connotazioni ideologiche. La verifica è possibile nella misura in cui le soglie della laicizzazione non siano prestabilite da una parte sola, quella proponente, ma debitamente condivise ed accettate dalle parti in causa. Insomma lo scenario da immaginare è quello di un agire almeno tendenzialmente comunicativo e non meramente strumentale, per restare entro i limiti della teorizzazione habermasiana in proposito (Habermas 1996b). Se si deve dare per scontata l’inutilità o pure la pericolosità sociale della religione (di qualsivoglia religione) non è altresì detto che sia da escludere del tutto una sua efficacia, fosse pure parziale, per il mantenimento dell’unità nazionale, della solidarietà comunitaria, del rispetto interpersonale. Tra Rivoluzione Francese e Terza Repubblica Francese quasi non c’è soluzione di continuità nei riguardi della religione, si tratti di indifferenza o di neutralità o di tolleranza o di incompetenza, nei fatti divenute forme di avversità in nome di una razionalità considerata superiore. Invero la stessa religione fornisce strumenti analitici e definitori per distinguere sacro e secolare, anima e corpo, sentimento e ragione, spirituale e temporale, ragion per cui le soglie di laicizzazione sono facilmente rinvenibili e praticabili come punti-limite, per evitare invasioni di campo, colonizzazioni, espansioni indebite. Ma d’altro canto lo stato laico proprio perché tale non può negare diritto di cittadinanza alle varie esperienze religiose dei suoi cittadini. L’autonomia del soggetto non può non stare a cuore allo stato, chiamato invece ad allontanare quanto possa arrecare danno. Nessun rappresentante di uno stato democratico può negare ai cittadini-membri il diritto alla credenza (o alla non credenza) religiosa. Per non dire poi di quello che una o più religioni possono rappresentare per la storia di un paese come la Francia (od anche la Germania e l’Italia), in relazione alla conservazione dell’appartenenza territoriale e della memoria locale.


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All’orizzonte c’è una prospettiva che contempla non più la strumentalizzazione o la mera contrapposizione ma una possibile sinergia, nel rispetto reciproco, fra stato e religione/i. Si verrebbe così a superare la paventata guerra delle due France, descritta da Émile Poulat (1987: 191), che sommessamente ricorda come Napoleone non fosse affatto contrario alla religione di stato, visto che come tale era da lui voluta nella costituzione della Repubblica ligure del 1800, della Repubblica italiana nel 1802 e del Regno di Napoli nel 1808. Il cattolicesimo per oltre un secolo, dal 1802 al 1905, è stata la religione della maggior parte dei francesi. Ma come spiegare allora la laicità francese, qualcosa che è difficile capire ma anche esportare? I processi storico-sociologici sono articolati e non facilmente districabili. Poulat prova a fornire qualche spiegazione ed alla fine conclude che tutti i francesi sono dei laici (anche se non capiscono il significato della laicità) e che oggi non si può parlare di una religione pubblica ma di una libertà pubblica di coscienza e di religione. Il che è ben diverso. In altre parole non si comprende la chiave di lettura della laicità alla francese se non si tiene conto del rapporto fra libertà e verità, ovvero fra i diritti pubblici della verità sostenuta dai cattolici ed i diritti pubblici di ogni coscienza. Nell’interazione fra gli uni e gli altri diritti è la chiave di volta del sistema francese della libertà unita con la laicità. Da un punto di vista storico quest’ultima appare a Poulat come lo specchio delle contraddizioni francesi, che attraversano quattro fenomeni: 1) laicizzazione e secolarizzazione insieme, con l’emergere della coscienza individuale e della ragione, mentre la religione cessa di essere alla base di ogni spiegazione; 2) due quadri diversi di riferimento, in particolare quello cattolico con il duplice statuto di clero e laicato e quello statale con il doppio rapporto intrattenuto, a titolo diverso, con i culti religiosi interni al paese e con il Vaticano come stato estero; 3) tre livelli della realtà, costituiti dallo stato come governo centrale, dalle istituzioni pubbliche (e dai servizi), dalla società civile (con la sua cultura); 4) quattro sistemi legittimatori, in epoche diverse, rispettivamente, di laicità sacrale con il sovrano che afferma la sua superiorità sul clero nello stato e mostra la sua sottomissione solo spirituale alla Chiesa; di laicità illuminata con la desacralizzazione del potere civile e dunque con la separazione fra Chiesa e stato; di laicità radicalizzata con la sua autonomia rispetto alla Chiesa e la sua neutralità dinanzi alle coscienze, sino a trasformarsi da laicismo spiritualista e religiosità laica in laicismo areligioso ed in effetti antireligioso; 4) una laicità riconosciuta, a livello costituzionale nel 1946 e nel 1958, con la Francia definita ufficialmente una repubblica laica ma successivamente costretta ad affrontare questioni concrete ed a divenire contrattuale pur restando conflittuale. Entro questo scenario si dipanano vicende storiche e relazioni non facilmente decifrabili che approdano dapprima alla legge del 1905 sullo stato secolare francese e successivamente ad atti applicativi ed in realtà modificativi dei principi normativi. Sullo sfondo resta comunque, per Poulat (1987: 226), la libertà pubblica di coscien-


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za, a poco a poco affermatasi come unica ed indivisibile, mentre la coscienza della libertà è molteplice e frantumata. In definitiva la laicità francese avrebbe una sua ambivalenza strutturale, frutto di una lunga e difficile conquista dello spirito umano, che riesce a porre termine al vecchio ordine delle cose e mette le basi per una legittimazione del pluralismo. Appunto riferendosi alla Francia, Jean-Paul Willaime (2004: 279) parla di una doppia neutralità della laicità, come indipendenza dello stato dalle religioni e come libertà delle organizzazioni religiose rispetto alle strutture statali. Però Micheline Milot (2002: 23), guardando al Québec, vorrebbe evitare l’ostacolo dell’ideologia insita nella laicità francese e preferisce insistere piuttosto sulla gestione politica e sulla successiva trasposizione giuridica del posto della religione nella società civile e nelle istituzioni pubbliche. Il che apre nuovi orizzonti per la discussione sulla laicità. In Europa anche laddove una particolare religione viene privilegiata dallo stato esistono, in realtà, margini di libertà per la sfera religiosa rispetto a quella politica. Tali margini consentono alle Chiese di curare i loro spazi di attività senza rendere conto ad altri. Inoltre la laicità non può ridursi ad una semplice questione di culti permessi, di riconoscimenti ufficiali, di privilegi concessi o negati. E le stesse relazioni fra stato, religioni e società non possono seguire un modello unico, visto che le storie, le istituzioni e le tradizioni variano da una nazione all’altra, con peculiarità non immediatamente trasferibili ed implementabili in contesti diversi da quelli di origine. Il caso francese per primo è a sé stante, come sottolinea Willaime (2004: 282), per varie ragioni: il conflitto fra stato e Chiesa è più accentuato; il problema della laicità è piuttosto ideologizzato anche per la presenza di correnti culturali a forte presa (libero pensiero, razionalismo, marxismo, massoneria); la supremazia dello stato è anche emancipatrice e centralizzatrice; la privatizzazione dell’appartenenza religiosa di solito non viene resa manifesta in pubblico. A differenza di Poulat, tuttavia, Willaime sottolinea che la situazione attuale è abbastanza diversa da quella dei secoli scorsi, perché presenta dati nuovi che inducono ad escogitare soluzioni innovative, passando dalla diffidenza della laicità ideologica alla fiducia della laicità giuridica, dal disconoscimento al riconoscimento, dall’astensionismo alla partecipazione (laïcité citoyenne). Secondo l’articolo 1 della legge del 1905, in Francia si assicurano sia la libertà di coscienza sia il libero esercizio dei culti. E l’articolo 2 aggiunge che non si riconosce e non si finanzia nessun culto. Nel 1958, l’articolo 2 della Costituzione della Repubblica prescrive che la Francia è indivisibile, laica, democratica e sociale, assicurando l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, senza distinzione d’origine, razza o religione e rispettando tutte le credenze. In pratica non c’è un riconoscimento ufficiale delle religioni ma esse possono esprimersi ed operare. Intanto però in Alsazia e Mosella sia i preti che i pastori ed i rabbini sono stipendiati dallo stato francese, in base al concordato del 1801 ed ai successivi articoli del 1802.


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Ma come spiegare allora la laicità francese? Per Willaime essa si è sviluppata in un contesto conflittuale dato dalla contrapposizione tra Francia laica e cattolica, appunto dalla guerra delle due France (analizzata anche da Poulat). Lo snodo sarebbe rappresentato dal carattere anticlericale, che di solito si sviluppa più in un paese cattolico che non a dominanza protestante, proprio perché è la Chiesa cattolica a segnare maggiormente un solco fra clero e laicato, fra spirituale e materiale, fra mondo ecclesiastico e società esterna, mentre nel mondo protestante ed in quello ebraico la differenza è assai meno evidente o non esiste affatto. Ed allora il risultato è, di converso, pure una sacralizzazione della politica che si accompagna ad una laicizzazione del religioso. Il che ha permesso, invero, di celebrare una messa di stato a NotreDame l’11 gennaio 1996 per i funerali del presidente Mitterrand. Ora, secondo Willaime (2004: 328), si è passati in Francia da una laicità di lotta ad una laicità di gestione. Superato l’anticlericalismo e l’atteggiamento neutrale nei riguardi della religione, si registra altresì una certa emancipazione, quasi completa, dalla tutela clericale. Nel frattempo si affacciano nell’arena pubblica numerose questioni a carattere etico. Il che potrebbe favorire la stipula di un patto laico (Baubérot 1990) inteso come soluzione dei nodi dovuti al pluralismo religioso, mettendo da parte la pura e semplice contrapposizione fra laicità e religioni, in fondo laicizzando la stessa laicità (Willaime 2004: 329) ed inserendola in un quadro più legato alle problematiche dei diritti umani (che non prevedono né l’obbligo né la proibizione della credenza e della pratica religiosa). La prospettiva concreta è quella di una democrazia pluralista, che non può non suscitare effetti sino nell’ambito delle Chiese stesse, favorendo lo spirito di partecipazione e di gestione comunitaria. Ed allora la separazione fra stato e Chiesa permane ma non impedisce la cooperazione su obiettivi comuni. L’esperienza della Commissione Stasi che avrebbe dovuto dare indicazioni proprio su questioni religiose di fondo non è sembrata del tutto positiva, visto che quasi tutto si è ridotto alla proibizione del velo islamico. La mancata adesione al documento di tutta la Commissione è indice di un chiaro disagio nei confronti di un testo rispondente quasi solo ad una logica conflittuale nei confronti degli estremismi religiosi, che costituirebbero un pericolo per la laicità dello stato francese. Le vicende recenti che hanno riguardato la laicità alla francese fanno capire ancor più che essa non può assurgere a modello unico di riferimento. Ed inoltre il fatto religioso non appare esclusivamente come una questione tutta individuale, giacché i suoi riverberi nella società sono quanto mai evidenti. In fondo sembra proprio che la secolarizzazione sia ben riuscita: il pubblico non è più sottomesso al religioso (che peraltro non è scomparso) e gli individui sociali sono autonomi ed emancipati da tutele magisteriali di tipo confessionale. L’auspicio finale di Willaime (2004: 345) è di reinventare una laicità in grado di far coagulare varie istanze e diversi apporti delle religioni, in vista di una società di individui più motivati socialmente.


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Laicità e credenza Uno degli ostacoli maggiori per un adeguato esercizio della laicità è probabilmente nella presunzione che essa di per sé comporti l’esclusione della credenza o che al contrario non vi possa essere laicità, politicamente corretta, nella stessa credenza. Conviene soppesare in proposito i due termini di libertà ed uguaglianza che sono frutto proprio della Rivoluzione Francese. Ebbene il principio della libertà comprende anche la libertà religiosa (o di religione/i). E quello di uguaglianza (ovvero di non discriminazione) include ogni forma di attività umana concretamente realizzabile od astrattamente pensabile, dunque anche le espressioni religiose. Il discorso vale anche rovesciando i termini della questione: lo spirito religioso riesce ad essere laico nella misura in cui non ritiene un avversario da combattere appunto lo spirito laico, con tutte le sue implicazioni connesse (pensiero non ispirato da alcuna credenza religiosa, atteggiamento critico nei riguardi delle istituzioni e delle azioni religiose, così come nei riguardi di altre istituzioni ed azioni: politiche, economiche, sindacali, formative, ecc.). Detto altrimenti, un corretto agire comunicativo fra le parti in causa può produrre esiti virtuosi, per cui tutto parrebbe risolto, ma solo se non ci fosse di mezzo la variabile umana, costellata di convinzioni pregresse, orientamenti difensivi, propensioni individualistiche e di gruppo, appartenenze codificate e saldamente radicate, timori di perdita dei punti di riferimento essenziali. Le resistenze per la realizzazione di un’efficace comunicazione fra soggetti laici e soggetti credenti derivano in primo luogo dal costituirsi dei due fronti a partire da basi istituzionali (intese in senso lato, sia in quanto veri e propri organismi storicamente fondati e sviluppatisi nel tempo, come nel caso degli stati e delle Chiese, sia in quanto complessi di idee, ovvero ideologie, che sono nate e si sono consolidate riscuotendo consensi variabili nel corso della storia ed attraverso le diverse aree geografiche, ma restando tendenzialmente stabili per qualche tempo, come nel caso del nichilismo, del materialismo, del marxismo, del positivismo, del razionalismo, del liberalismo, del secolarismo, del modernismo, dello scientismo, dell’esistenzialismo). La problematica della laicità – va detto – ha matrici tipicamente europee, inizialmente francesi e poi via via italiane, spagnole e sempre più ampie. Lo spunto iniziale è nell’età dei Lumi e successivamente nelle forme e nei contenuti degli eventi rivoluzionari del 1789 parigino (e non solo). Anche la federazione statunitense ha conosciuto ai suoi albori un momento rivoluzionario senza tuttavia dar luogo alle medesime conseguenze a livello di fenomenologia religiosa. Anzi nel Nord America il connubio fra politica e religione è abbastanza stretto: il motto che accompagna lo stemma degli USA ripone fiducia in Dio ed i discorsi di insediamento dei presidenti statunitensi contengono numerosi e ripetuti rinvii ai fondamenti biblici, alla tradizione cristiana e segnatamente protestante. In pratica la religiosità diffusa, con-


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fermata da varie indagini empiriche negli Stati Uniti, ma anche in Canada e specialmente nel Québec, non dà adito a sollevare questioni relative alla laicità o, almeno, non ne fa un focus principale di discussione. In tale quadro contestuale non si nota una marcata polarizzazione fra stato e Chiese, fra mentalità secolare e spirito religioso, almeno non nella medesima misura che si può verificare invece in molte parti dell’Europa. Nella realtà sociale nordamericana il ruolo pubblico della religione non pone particolari problemi: lo si dà per acquisito, scontato, tradizionalmente riconosciuto (anche per questo il lemma laicity ha preso a circolare solo di recente). Così realtà secolari e realtà religiose vivono la loro autonomia senza conflitti acuti, anche se non mancano confronti piuttosto vivaci su temi controversi (aborto, pena di morte, ecc.). La religione civile di Rousseau trova dunque entro questa cornice una sua consistenza concreta ed anzi sostiene la convergenza di credenze diverse verso l’unità politica, quasi si trattasse di un comune denominatore a valenza anche religiosa. D’altra parte è da tener presente che nell’America settentrionale è prestato gran rispetto alla libertà personale, al diritto individuale di scelta, pur restando tuttavia nell’orbita dei vincoli sociali, etnici, comunitari e religiosi (almeno in linea di massima). L’obiettivo perseguito è l’accordo fra legge civile e morale personale. Nondimeno permane un totale ed eguale rispetto per la coscienza individuale di ciascuno. Si ritiene che ciò sia un diritto, ossia la base necessaria per la ricerca dei fondamenti etici che diano un senso all’esistenza. Occorre pertanto uno spazio sufficiente affinché i soggetti singoli possano mettere in essere i loro intenti morali in qualunque modo, purché non sia in contrasto con l’interesse pubblico. Allo stesso tempo chi governa non scende in campo nelle discussioni religiose, non parteggia per l’una o l’altra espressione confessionale, dovendo considerare tutte le denominazioni alla pari, imparzialmente. L’uguaglianza dei cittadini è giudicato un principio superiore. Sulla scorta di questo fondamento, Martha Nussbaum (2008) dell’università di Chicago, filosofa già anglicana ed in seguito ebrea riformata, autrice di Liberty of Conscience. In Defense of America’s Tradition of Religious Equality, difende il diritto dei Mormoni alla poligamia, applicando quindi in pieno la sua idea di libertà di coscienza e di religione (un po’ come aveva già messo in evidenza Poulat, nel suo testo del 1987 su libertà e laicità). Pure la Nussbaum pare non gradire il tipo di laicità in auge in Francia perché a suo giudizio è troppo coartante per i credenti, invitati a non prendere parola in pubblico. Anzi per la docente di Chicago la separazione fra stato e Chiesa è appena un valore secondario rispetto al valore primario dell’uguaglianza di libertà per i cittadini, credenti e non. E sull’annosa questione delle trasfusioni di sangue per i Testimoni di Geova opta per una soluzione che preveda libertà di scelta per gli adulti, che sono maturi e consapevoli, ma non per i loro figli la cui vita andrebbe salvaguardata ad ogni costo. Infine Nussbaum auspica l’insegnamento relativo al creazionismo nei corsi di religioni comparate ma non in quelli di scienza.


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Appena a sud degli Stati Uniti, in Messico, il discorso sulla laicità si ripropone ma in maniera diversa. Anche qui vi è un episodio rivoluzionario iniziale, quello dello zapatismo che ha segnato la fine della presenza pubblica della religione, nella prima metà del secolo scorso. La prova più evidente della laicità dello stato messicano è da rinvenire nella proibizione dell’uso dell’abito talare in pubblico. Insomma si vuol dare chiaramente ad intendere che la religione è un affare esclusivamente privato che non può avere impatti a livello statale e quindi pubblico. Negli altri stati del centro e del sud dell’America gli andamenti dei rapporti fra stato e Chiesa hanno seguito le vicissitudini delle singole nazioni, passate attraverso multiformi esperienze, dalla dittatura al governo militare, dalla pseudodemocrazia alla democrazia effettiva. Non sempre le letture dei diversi eventi degli ultimi decenni sono state chiare e senza ambiguità di fondo. In qualche caso si è avuto di fatto un collateralismo o una non belligeranza ideologica fra stato e Chiesa, con conseguenze ancor oggi oggetto di valutazioni non concordi neppure sui dati di fatto. In Asia i rapporti fra stati e Chiese sono legati essenzialmente ai tipi di regime politico in vigore, ma in generale è l’autorità politica a stabilire regole e limiti, indipendentemente dal parere dei soggetti religiosi interessati. Salvo qualche eccezione, il potere politico risulta autoreferenziale ed osteggia ogni modalità religiosa non corriva con il sistema di governo vigente. Singolare è il caso della Repubblica Popolare Cinese dove esistono due Chiese cattoliche, di cui una piuttosto vicina alle posizioni dello stato nazionale mentre l’altra fa capo alla Chiesa di Roma. In Giappone d’altra parte è prevalso il modello jeffersoniano e statunitense dello stato neutrale che non sceglie alcun Dio fra i tanti, impedisce il cesaropapismo, favorisce la crescita di una società civile religiosa che sia pluralista e pacifica. In tal modo si spiega il carattere agnostico del sistema scolastico giapponese. La situazione africana varia secondo la cultura religiosa dominante nei singoli paesi, ma mostra il fallimento parziale di politiche scolastiche statali dirigiste in senso laico. La presenza dell’islam, quando maggioritaria, è di solito alquanto vicina all’orientamento dello stato ed in tal caso, in genere, non si pongono questioni di laicità per la particolare concezione della relazione fra la religione islamica e la politica, tanto sono in simbiosi entrambe. Ma l’islam (Bozdemir 1996) ha dovuto adattarsi alle correnti animiste, consentendo poligamia e forme di sincretismo. Più complesso è il rapporto fra laicità e religioni cristiane. In alcuni stati poi c’è una separazione formale fra stato e Chiese. In realtà non esiste un vero e proprio problema della laicità in Africa, perché la religiosità è largamente diffusa, in diverse forme, principalmente animiste ma pure kimbangiste, tradizionali ed indipendenti. Non mancano infine tentativi di eliminare la religione per decreto (Madagascar, Benin, Angola, Mozambico, Etiopia, Repubblica Popolare del Congo). Un po’ per volta la laicità si è fatta strada ed è entrata a far parte della maggioranza delle costituzioni statali, ma il dibattito su di essa latita ed è considerato un prodotto d’importazione, ridotto a piccole cerchie di intellettuali.


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In Australia il modello di riferimento è quello britannico, anglicano nella fattispecie, ma le condizioni non sono del tutto assimilabili a quelle riscontrabili nel Regno Unito e comunque il problema della laicità non sembra creare particolari differenziazioni. In definitiva si discute di laicità quasi solo in Europa. E soprattutto si assiste quasi ad una rincorsa da più parti a voler fornire la definizione di laicità da far assurgere a parametro unico. Quando la proposta di definizione proviene da intellettuali religiosamente orientati o dalla stessa Chiesa ufficiale sono i laici ad obiettare. Se le parti si invertono non manca certo il rilievo critico di parte religiosa. Si può osservare che non se ne esce se non si trova una soluzione da adottare congiuntamente, non necessariamente una volta per sempre ma cercando semmai caso per caso il punto di consenso. Chiedere il rispetto di tutte le definizioni della laicità significa di fatto arrendersi dinanzi alle difficoltà che ne derivano e dunque rassegnarsi a non ritenere valida alcuna definizione. Si potrebbe anche distinguere fra laicità debole (laica) e laicità forte (laicista e non credente) (Fornero 2008), ricorrendo or all’una or all’altra. Ma neppure questa pare essere la via d’uscita più adatta, anche se la prima delle due varianti appare a prima vista l’opzione preferibile, al fine di rendere più praticabile ed efficace il confronto. Ora però occorre fare i conti anche con quanti, religiosamente motivati, si dichiarano essi per primi come autentici laici. C’è da chiedersi a questo punto se il bouleversement dei ruoli possa giovare. Il puntare a raggiungere un più alto tasso di laicità non è detto che aiuti a risolvere i dilemmi in esame. Per di più, nel caso italiano, i due poli in gioco non sono semplicemente i laici per un verso ed i cattolici per l’altro verso: il mondo dei laici non è affatto omogeneo come non lo è quello dei non laici, i quali meno che mai possono corrispondere in toto all’insieme dei cattolici. Ben altre ed articolate sono le sensibilità religiose che si mettono in gioco nella diatriba sulla laicità. Per restare nel contesto italiano, che ruolo e che proposta hanno i protestanti e gli ebrei? Perché limitare alla sola Chiesa cattolica la funzione di destinataria delle sfide laiche? Il punto nodale è esattamente il ruolo pubblico della religione e delle religioni, anzi più proficuamente è lo stesso spazio pubblico l’arena principale dove far confluire suggestioni ed elaborazioni per capire primariamente i termini della disamina da condurre. La conoscenza adeguata, scientificamente calibrata, deriva tuttavia dalla messa in atto almeno di qualche espediente metodologico, a partire dall’atteggiamento di epoché, di sospensione del giudizio, in modo da capire attraverso il conoscere, per potersi solo da ultimo esprimere sull’argomento in esame, a ragione approfonditamente veduta. Habermas (2006a, 2006b) ha opportunamente richiesto che il mondo dei credenti con le sue argomentazioni possa entrare nella sfera pubblica e presentare le sue istanze. All’orizzonte è uno scambio virtuoso di prospettive fra laici e credenti, ma per quanto concerne l’Italia sembrerebbe che tale démarche non abbia senso perché è difficile trovare (sia da parte laica che da parte religio-


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sa) qualcuno disposto a fare un passo indietro, ad arrendersi per capire, a farsi prendere per poter poi catturare, cioè cogliere il risultato finale con la soluzione del problema affrontato. Non va dimenticato che ci possono essere laicità areligiose ed antireligiose, espresse da non credenti, e laicità non religiose, espresse da non credenti, od ancora laicità espresse da diversamente credenti ovvero da portatori di altre modalità di credenza che non rientrano nei canoni ufficiali di Chiesa o nelle azioni statisticamente modali, più ricorrenti. E qui si aprirebbe tutto un ventaglio di possibilità sull’etsi non daretur avente Dio come soggetto. Il tutto si situa poi nello scenario delle scelte da operare, sulla base di criteri ispirati alla responsabilità od alla razionalità. Ma le opposizioni, le divaricazioni e le ottiche polimorfe sono sempre in atto e non consentono percorsi agevoli. In conclusione, comunque, la laicità a partire dalla sua stessa pluralità di voci ed opinioni, che si concretizzano in definizioni e decisioni, resta profondamente, cioè fino in fondo, laica allorquando prevede che anche altri si possano presentare con alternative molteplici, non affini alle prospettive laiche.

Il dibattito sulla laicità e sul ruolo pubblico della religione Al principio della laicità, proprio in quanto chiede ad altri di rinunciare ai propri assolutismi, va addizionata una forte consapevolezza della sua dimensione relativa. Pure nella Chiesa cattolica, per opera del cardinale Carlo Martini (nel duomo di Milano, ai primi di maggio del 2005), si è giunti al riconoscimento di un relativismo cristiano, da cui discende l’istanza di una vita in comune cha vada oltre le differenze esistenti e che insegni a vivere insieme nella diversità, non nella sola tolleranza (che non è sufficiente ed è costantinianamente troppo datata, risalendo a 17 secoli fa) ma piuttosto nella comprensione e nell’accoglienza. Ed anche nel rapporto con la verità religiosa non esiste un’unica via di approccio, giacché ogni forma di conoscenza, per quanto rigorosamente scientifica, è provvisoria, precaria, contingente. Il relativismo perciò non è di per sé condannabile e non è identificabile sommariamente con l’areligiosità, l’irreligiosità, l’agnosticismo, l’indifferenza, il nichilismo. Esso rientra tra le forme possibili di pluralismo, che contemplano non a caso anche la laicità. È di fronte al pluralismo che non basta la neutralità ma serve l’imparzialità, soprattutto in campo etico e giuridico, dove il potere dello stato va esercitato a prescindere dalla tipologia dei destinatari che vengono interessati dai suoi interventi legislativi o sanzionatori. L’imparzialità del diritto significa il riconoscimento della libertà declinata nelle sue forme di libertà religiosa (il cui esercizio comprende anche la libertà di pensiero, associazione e riunione). In questa prospettiva fra l’altro non può più valere il vecchio principio del cuius regio eius et religio, perché nessuno è obbli-


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gato a seguire la religione del proprio sovrano o del proprio stato o del proprio governo. Da qui nascevano l’idea e la pratica della tolleranza nei riguardi delle religioni minoritarie, come recitava lo statuto albertino del 4 marzo 1848, nel secondo comma dell’articolo 1. Ma in seguito si è passati da una tolleranza riduttiva alla più vasta idea di libertà di credenza e pratica religiosa, senza condizionamenti da parte dello stato e con la possibilità di manifestare pubblicamente la propria appartenenza religiosa. Il parlare di tolleranza religiosa all’interno del principio di laicità è dunque un ritornare indietro rispetto a conquiste già ottenute a livello giuridico, sia formale che sostanziale. D’altra parte occorre riconoscere che la neutralità completa non è sempre implementabile ed essa stessa è in ogni caso una scelta e dunque una decisione non imparziale. Ma un ulteriore ostacolo si frappone: il fondamentalismo, che non media, chiede l’applicazione delle norme in tutti i casi senza distinzioni di sorta, non riconosce autonomia agli interlocutori, ribadisce solo i propri principi di riferimento. Sul piano strettamente giuridico, vale tuttavia il solo principio di giustizia, che non procede per favoritismi, applica la norma, non si autodefinisce né laico né religioso, rispettando così il criterio dell’uguaglianza. Resta però aperta la discussione sulla necessità o meno di conformare l’ordine giuridico positivo alla legge morale oggettiva, all’ordine morale naturale (Dalla Torre 2008: 178). Ad ogni buon conto è bene precisare che la laicità non può pretendere di appiattire su di sé la religione né tanto meno la religione è chiamata ad annientare la laicità per non avere contraddittori nella sfera pubblica. Per giungere ad una conclusione simile, molto c’è da fare a livello di cultura religiosa come pure di cultura politica, nel senso di fornire alle nuove generazioni soprattutto, ma anche a quelle più adulte, criteri di discernimento sufficientemente fondati in termini di conoscenza non orientata ideologicamente. Si sostiene giustamente che una buona formazione culturale in campo religioso non può non approdare ad una difesa strenua della laicità dello stato, non accettando formule surrettizie di accomodamento strumentale o patti del tipo do ut des, con assoggettamenti indebiti della Chiesa allo stato e viceversa. Il principio della laicità inclusiva non può essere considerato il grimaldello per l’ingresso della Chiesa nello stato né al contrario la sfera pubblica può essere lo spazio per il dominio dello stato sulla religione. Di complemento a tale problematica di carattere generale fa ancora questione il tema dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole dello stato italiano (argomento di incontro-scontro fra laici e non). Su tale terreno ci potrebbe essere un serio tentativo di dialogo realmente ed habermasianamente comunicativo tra mondo laico e mondo religioso, per esempio a partire dall’ipotesi di un programma a largo raggio finalizzato alla comprensione delle principali religioni presenti nel paese, il che diverrebbe un vero e proprio servizio di supporto al dialogo interreligioso ed interetnico, come già avviene in Europa (vedi tabella).


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Nazione

Insegnamenti

Austria Belgio

Cattolico o Islamico o Etico Cattolico o Protestante o Ortodosso o Ebraico o Islamico o Etico aconfessionale Ortodosso o Islamico Cattolico o Altre confessioni o Etico [nella secondaria] Cattolico o Etico (Scienza delle religioni) Protestante Luterano; Storia Religiosa nelle scuole secondarie Protestante Luterano o Etico [Un giorno libero nella scuola primaria per seguire l’educazione religiosa in una Chiesa a scelta] Cattolico o Protestante o Ebraico in Alsazia-Mosella Cattolico o Protestante o Islamico o Altro (Etica, Filosofia, Storia delle religioni…) Ortodosso o Islamico Protestante o Cattolico o Altro o Liberale (“Visioni della vita” o Umanesimi) Cattolico o Etico o Altre confessioni cristiane Cattolico o Altre confessioni cristiane Interconfessionale (Multifaith Religious Education) Ortodosso o Altro Ortodosso Culturale o Altro Ortodosso o Altre confessioni cristiane o Educazione civica

Bulgaria Croazia Repubblica Ceca Danimarca Finlandia Francia

Germania Grecia Olanda Polonia Portogallo Regno Unito Romania Russia Serbia, Montenegro, Kosovo Slovacchia Spagna Svezia

Cattolico o Etico o Altre confessioni cristiane Cattolico o Altro; o Islamico [al di fuori dell’orario scolastico] Nessun insegnamento confessionale (il fatto religioso è parte dell’area Studi sociali)

Nel contempo potrebbe pure porsi l’obiettivo del ripristino degli insegnamenti teologici nelle università statali in un’ottica non confessionale ma di rigorosa ricerca scientifica a tutto campo, con la possibilità di incrementare prolifiche aperture interdisciplinari quali quelle che hanno dato luogo all’esemplare colloquiare di Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger (Ratzinger, Habermas 2005). Potrebbe essere questa una strada per far cadere pregiudizi e resistenze ma specialmente per far salire il livello qualitativo dell’approccio scientifico ai temi della laicità e della religiosità, della bioetica e del biodiritto. In tal senso è da allargare la preoccupazione manife-


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stata da molti (ivi compreso papa Benedetto XVI) sul futuro dell’educazione in Italia. Un’altra preoccupazione, riaffacciatasi di recente (De Rita 2008), rimanda alla confusione fra sacro e santo: il primo è dato dal nesso con il mistero divino ed il secondo dalla presenza della fede nel sociale, ossia dal ruolo sempre più attivo della Chiesa italiana sul territorio del paese, in campo sociale, in sostituzione dello stato ed in ruoli pubblici. In particolare è dalla capacità manageriale del cattolicesimo (nel muoversi agevolmente fra sacro e santo) che deriva lo spazio sempre maggiore della religione cattolica nell’arena pubblica, suscitando perciò riprese di istanze laiche individuali e statali. Vale la pena di ricordare che già molti anni fa non la intendeva allo stesso modo Italo Mancini (1983), teologo e filosofo della religione nell’università di Urbino, il quale presago stigmatizzava la cultura della presenza del sacro (che indicava con l’iniziale maiuscola) e vedeva nel santo la vera salvezza contrapposta a quella falsa e violenta del sacro. Per lui il santo era la fede pura, separata, non assoggettabile agli interessi terreni e dunque non asservibile al sacro come suo management in termini di potere terreno da esercitare nella società. Il santo, il divino, non andrebbe confuso con l’umano di un certo tipo di sacro che vuol gareggiare con la forza laica del mondo profano. Non a caso, soggiunge Mancini, la cultura neo-ebraica ha distinto fra santo, innominabile, e sacro, immediato e manipolante. Orbene la nuova destra tende a confinare il santo entro ambiti minoritari e marginali, molto identitari, ed a valorizzare invece il sacro, vitale, attivo, operativo nella concretezza del quotidiano e del politico. Discutere qui la fondatezza dell’una o dell’altra distinzione richiederebbe troppo spazio e molta letteratura di riferimento. Conviene appena constatare e sottolineare qualche aspetto. Innanzitutto che si chiami sacro o santo l’agire della Chiesa nella società non è senza conseguenze e senza problemi. Inoltre il ricorso alle due qualificazioni, almeno in relazione al ruolo pubblico della religione, crea altre separatezze che le definizioni non risolvono, visto che risultano intercambiabili, a seconda delle prospettive ideologiche ed intellettuali di chi le usa. Infine non va sottovalutato che criticare una superficiale confusione di termini e poi crearne un’altra non è il miglior servizio che si possa rendere alla comprensione della realtà. Per questo, metodologicamente, sembra più corretto far ricorso a due lemmi tendenzialmente meno ambigui, almeno in linea di massima: Chiesa (intesa come organizzazione storica con la sua gerarchia, le sue strutture, associazioni, movimenti e soggetti individuali credenti, praticanti, appartenenti) e religione (intesa come insieme di attività che si rifanno ad una matrice ispiratrice di tipo spirituale, metafisico; ma anche la religiosità ha caratteristiche simili). Per ritornare a Böckenförde (2007), la religione non presiede più allo spirito dello stato (e dunque quest’ultimo non sarà più né cristiano, né islamico, né altro in chia-


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ve religiosa) ma sceglie di operare nella società, diviene religione civile, influenza l’ordinamento sociale attraverso gli individui e gli orientamenti che fornisce loro. Per questo c’è da aspettarsi, sempre secondo Böckenförde, che essa ambisca a svolgere un ruolo politico secondo una prospettiva che ad essa è propria, appunto quella religiosa. Soffermandosi sulla laicità dello stato, Böckenförde sembra disdegnare la laïcité di derivazione francese e prediligere il concetto di neutralità aperta a tutte le religioni (come in Germania), ma forse l’idea di imparzialità funzionerebbe meglio al riguardo ed aprirebbe una strada abbastanza larga per la presenza della religione ovvero delle religioni nella sfera pubblica, senza ghettizzazioni nel privato od al massimo nel cosiddetto privato-sociale in funzioni di supplenza dello stato stesso. Questo scenario consentirebbe una piena realizzazione delle Weltanschauungen religiose ebraica, cristiana ed islamica, che non vedrebbero pertanto alcuna soluzione di continuità fra credenza ed azione, fra vita spirituale e presenza nel mondo. Ancora una volta si tratta di trovare un equilibrio fra laicità dello stato ed esigenze religiose di una parte non insignificante di cittadini. In tal modo si prende atto della possibilità di recupero, come argomenta Böckenförde, dei principali valori dell’Illuminismo: diritti umani e libertà (anche religiosa). Certamente c’è un interconnessione fra il tópos della laicità e quello del pluralismo. L’una e l’altro si ritrovano ad interloquire con la resilienza della religione che dopo la ventata pluridecennale della secolarizzazione conserva una sua solidità di base. Le ragioni del pluralismo possono essere pragmatiche, di convenienza: a fronte della persistenza delle religioni l’unica modalità di governo sembra essere quella di una permissività diffusa. Questa scelta comunque non si fa carico delle difficoltà create a quanti si aspettano di poter usufruire di maggiori spazi di autonomia e di uguaglianza ed al contrario devono lasciare posto ad altri ed in qualche modo tollerarli: l’inclusività diviene di fatto una sorta di esclusione per quanti già sono all’interno di un sistema dato. Un pluralismo più riflessivo fa appello ai valori della giustizia, della libertà, della legittimità e del dovere socio-politico per far accettare posizioni diverse dalla propria pre-esistente. Il rischio è di forzare alla libertà anche chi non è d’accordo ed ha il diritto di non esserlo. O di chiedere, pure a chi non intende ricorrervi, la cosiddetta uguaglianza di rispetto, concetto tuttora presente, come filótimo, nella cultura greca di villaggio (Cipriani, Cotesta, Kokosalakis, van Boeschoten 2002). Gian Enrico Rusconi (2000) da lungo tempo è un intellettuale di riferimento sulla querelle della laicità, reso tale da una capacità di tenuta e di rigore che fa segnare ormai più di un quarantennio nel campo della polemica pubblica su religione e politica. Si tratta dunque di un protagonista e di un interlocutore di prim’ordine, attento, documentato e rispettoso. A suo dire la novità del tempo presente è nell’offerta di un’etica pubblica da parte delle Chiese. Ciò produce di per sé elementi di conflitto con l’approccio laico che tende ad impedire un apporto religioso alla medesima etica, insomma come se Dio non ci fosse (il noto etsi deus non daretur). Le Chiese invero non obiettano alla laicità dello stato ma si rifanno ad una cosiddetta sana lai-


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cità costruita sulla base dei loro parametri di riferimento. Da qui sorge la reazione da parte laica, che non gradisce forme di diktat provenienti da istituzioni che non siano lo stato. L’equivoco maggiore è probabilmente nella qualificazione di dittatura del relativismo che alcuni esponenti della cosiddetta religione-di-chiesa (vecchio termine assai caro a Rusconi) vedono nelle affermazioni di parte laica, che al contrario preferisce parlare di una regolazione consensuale dei principi etici e della loro applicazione. Da un lato vi sarebbe l’autorità dei criteri di fede, dall’altro quella dei cittadini nel loro insieme, ivi compresi i credenti a vario titolo (anche diversamente, come piace dire a Rusconi). Si sostiene che l’etica pubblica laica possa anche differire, in misura sopportabile, da quella privata. Dal canto suo l’etica pubblica religiosa appare più compatta, ma anche per essa vi sono possibili divari in ambito privato. Il discrimine maggiore poi proviene dalla diversa procedura messa in atto nelle due prospettive: in quella laica si registra la propensione a decidere caso per caso, mentre in quella religiosa varrebbe un corpus generale di principi validi per ogni questione. Intanto il laico non accoglie l’intrusione del divino nelle scelte operative che derivano da diritti definiti attraverso procedure razionali e consensuali. E chiede perciò al soggetto religioso di adeguarsi alle regole dello stato laico. In altre parole la convergenza tra fede e ragione non trova sostegno al di fuori della religione-di-chiesa. Ma la posizione laica non legittima affatto, aggiunge Rusconi, l’assenza di qualsiasi regola morale ed anzi ne prevede altre basate su un ethos consensuale, anche se non attingibile agevolmente. Rusconi, mentre contesta a Böckenförde (2007) la tesi di una religione cristiana in grado di assicurare le premesse normative che mancano allo stato secolare, osserva che le radici storiche cristiane possono essersi trasformate con il tempo in ragioni laiche e concorda infine con le richieste habermasiane per una rinuncia delle religioni al possesso esclusivo della verità, per un dialogo reale fra loro stesse, per un apprezzamento della scienza e per un’accettazione della supremazia laica nel campo del diritto.

Conclusione Il rapporto fra stato e religione/i investe varie realtà politico-territoriali e trova esiti che dipendono in larga misura dalle contingenze storiche, dagli andamenti elettorali, dai regimi governativi. L’Indonesia, ad esempio, è un paese contraddistinto dalla duplice presenza islamica (poco più dell’87%) e cristiana (poco meno del 10%), insieme con due minoranze religiose significative (induista attorno al 2% e buddista sull’1%). In un tale contesto, come in tante altre parti del mondo (dall’Irlanda a Cipro, da Israele all’India, dal Sudan alla Cina), c’è il problema della convivenza fra culture e tradizioni religiose diverse che insistono sul medesimo territorio.


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La storia universale, del resto, è attraversata da guerre di religione, conflitti interreligiosi, contrasti politico-religiosi. Nel caso dell’Indonesia la soluzione sembra sia stata trovata grazie al ricorso ad un’ideologia nazionale, detta Pancasila (Intan 2006), al cui interno la religione svolge un ruolo rilevante, basato essenzialmente sul dialogo interreligioso fra mussulmani e cristiani. Né il carattere islamico né quello secolare dello stato indonesiano costituirebbero altrimenti una via d’uscita. Pertanto «la Pancasila è la sola alternativa possibile se l’Indonesia intende conservare la sua unità e la sua diversità. Avendo a che fare con due ideologie in conflitto, la soluzione offerta dalla Pancasila è che l’Indonesia non vuole essere né uno stato secolare, in cui la religione è del tutto separata dallo stato, né uno stato religioso fondato su una sola fede particolare. In breve, sia la Pancasila che la ‘secolarizzazione come differenziazione’ […] consentono di evitare la scelta fra uno stato secolare ed uno stato largamente religioso» (Intan 2006: 18). Detto altrimenti, secondo i principi della Pancasila lo stato resta religioso ma non teocratico. L’idea della varietà nell’unità era nata ad opera di Sukarno (divenuto poi primo presidente dell’Indonesia), che aveva tenuto conto delle stesse diversità rilevabili nell’islam indonesiano e che il primo giugno del 1945 aveva esposto in un discorso i cinque principi della Pancasila, parola sanscrita e pali che indica i cinque (panca) fondamenti (sila). Originariamente i principi erano: nazionalismo, internazionalismo o umanitarismo, deliberazione o democrazia; giustizia sociale o benessere sociale; ed infine ketuhanan ovvero Lordship. Come si vede, si tratta di un mix fra contenuti islamici e contenuti secolari, invero più a vantaggio di questi ultimi. Quando però i principi vennero dapprima riformulati e ridotti infine ad uno, non fu fatto cadere proprio il rinvio alla dimensione religiosa riguardante il Signore, che anzi venne recuperata sotto la dizione della sua unicità. Insomma l’unità della nazione veniva garantita dalla base comune del riferimento al Signore, condiviso e da condividere fra i cittadini. Così rimaneva il contenuto religioso ma la nazione non si divideva anzi si rafforzava nell’unità relativa al medesimo Signore. Appunto l’unicità del Signore soddisfaceva gli islamici come pure i cristiani perché entrambi vi vedevano una forte coerenza con la loro fede. Ma intanto pure i fautori dello stato secolare restavano gratificati dal compromesso raggiunto attraverso l’esistenza di un fattore unificante a vantaggio dell’intera nazione indonesiana. In seguito, tuttavia, la situazione non è rimasta tranquilla e si sono registrati vari momenti di tensione fra le diverse parti della nazione indonesiana. Il principio dell’unica Lordship ha però contribuito di fatto ad una certa tenuta dell’unità nazionale. La situazione si è complicata ancor di più, dopo l’esperienza della cosiddetta Guided Democracy di Sukarno, in particolare con l’avvento al potere da parte del generale Suharto, la cui gestione ha avuto dei contraccolpi a livello di religioni, dell’islam in primo luogo. Le diatribe tuttora in atto in merito ai contenuti enunciati nella Pancasila sono numerose e sovente accompagnate da argomentazioni alquan-


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to peculiari. Come dato conclusivo appare comunque ribadito il peso decisivo della religione ovvero delle religioni indonesiane, come mostra l’incremento della presenza dell’islam nello stato, in particolare con il governo del New Order di Suharto. Per di più l’azione religiosa sembra essere anche fattore di promozione della democrazia e della liberazione. Né può essere trascurato il ruolo degli intellettuali (islamici e cristiani insieme) nell’accettazione della Pancasila. Infatti «come stile di vita, la Pancasila invita i cittadini indonesiani a fondare una nazione costruttivamente basata su valori umani contraddistinti dalle idee di inclusività e di non discriminazione» (Intan 2006: 222). Non è il caso di enfatizzare il caso dell’Indonesia, che resta giusto un esempio di soluzione non definitiva, realizzabile e realizzata. Ma esso dimostra che quando la laicità viene assunta come un valore da difendere da parte delle medesime religioni e quando le religioni sono prese sul serio dal mondo laico si può dire che una comunicazione virtuosa è stata attivata e che ulteriori traguardi sono raggiungibili. Forse, in ipotesi, solo la dignità umana non può essere oggetto di compromesso perché la si potrebbe ritenere in generale un valore non negoziabile e non soggetto all’obbligo della reciprocità: essa andrebbe rispettata ad ogni costo, anche se altri non vi ottemperassero. Per coerenza con quanto sostenuto sinora è evidente che quest’ultimo punto non vuole essere un’eccezione ma va esaminato e ricalibrato secondo l’esito del dibattito da condurre in merito. Può essere forse questa l’ipotesi rifondatrice di una laicità e di una religione che fanno a gara per deideologizzarsi e dialogare, pur senza rinunziare del tutto ai propri principi fondativi. La verità assoluta non è tutta da una parte, ma può essere disvelata con la partecipazione di entrambe le parti, che non possono non riconoscere agli altri quello che chiedono per sé. Rispetto e comprensione nascono tuttavia da un impegnativo tentativo di conoscenza reciproca, teso a delibare coscientemente gli aspetti che sollevano interrogativi etici, aprono orizzonti nuovi all’agire umano e nulla escludono dal campo del possibile, fatti salvi alcuni valori stabiliti di comune accordo.

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RivLas 77 (2010) 1, 43-56

Classe come laboratorio d’apprendimento/1

Didattica breve e Ricerca metodologica disciplinare MARCO PAOLANTONIO

Progetto 2010 Programmi di insegnamento e metodologie didattiche, rapporti interpersonali e ambienti in cui opera sono gli elementi che caratterizzano la scuola. Ovviamente, variando nel tempo contraddistinguono ‘epoche’ diverse. Per sintetizzare le due più recenti, pur incorrendo nel rischio semplificazioni, possiamo attribuire: - alla scuola ‘tradizionale’: la centralità della materia e dell’insegnante, che si traduce in un insegnamento trasmissivo, monodirezionale (lineare, frontale), sistematico, ciclico ed enciclopedico; l’aula come unico luogo fisico deputato all’insegnamentoapprendimento; - alle metodologie che si ispirano al costruttivismo: la centralità dell’allievo, che guida la scelta e la programmazione dei contenuti culturali, fondandole sugli interessi (spontanei e/o indotti), sulla concretezza (il rapporto con le esperienze culturali e le esigenze sociali d’oggi), una reale interazione fra degli insegnanti tra loro (metodologia transdisciplinare), di insegnanti e allievi (funzione tutoriale dei primi) degli allievi tra di loro (apprendimento cooperativo); molteplicità di ambienti d’apprendimento (laboratori, ateliers, biblioteche, aule multimediali…). Oggetto delle quattro puntate di quest’anno saranno alcune metodologie didattiche innovative, graduate dalle meno lontane dall’insegnamento sistematico (il più diffuso e storicamente il meglio sedimentato) a quelle che dichiaratamente si rifanno al costruttivismo cognitivista: 1. 2. 3. 4.

la Ricerca Metodologica Disciplinare (caratteristica della Didattica Breve) l’apprendimento in cooperazione (cooperative learning) l’apprendimento multimediale (e-learning) le Unità formative (modularità didattica )


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1. Motivazioni e corollari Nata in ambito universitario e riferita alle discipline scientifiche, la Didattica breve (DB) è in seguito approdata nelle scuole superiori e applicata anche alle materie umanistiche. Condotta correttamente e coerentemente, può portare, assicurano i promotori del metodo, a un risparmio di 50% del tempo dedicato al consueto lavoro di esposizione della materia e consentire così sia il raccordo culturale con il programma svolto negli anni precedenti sia la fissazione e il ricupero di conoscenze e abilità per mezzo dello studio guidato e di quello personale. Scopo dichiarato è quello di favorire nella scuola il raggiungimento della qualità totale (QT), che consiste non solo nell’assicurare il pregio del ‘prodotto’ migliore (studenti eccellenti), ma di ridurre al minimo le perdite sia di allievi (quelli che non arrivano alla fine del corso iniziato) sia a ‘sprechi’ culturali (docenti e organizzazione). La DB non si presenta come una metodologia univoca, ma come un insieme di metodologie - e anche di semplici procedure tecniche e di artifici dettati dalla esperienza - atte a velocizzare l’insegnamento nel pieno rispetto del rigore epistemologico di ogni disciplina, con il costante richiamo all’essenzialità delle nozioni da proporre e alle logiche interne che le compaginano. Per DB si intende il complesso di tutte le metodologia che, agli obiettivi della didattica tradizionale (rispetto del rigore scientifico e dei contenuti delle varie discipline) aggiunge anche quello della drastica riduzione del tempo necessario al loro insegnamento e al loro apprendimento.1 Elementi chiave, generatori di orientamenti e di procedimenti didattici della DB sono: • la ricerca metodologica disciplinare, vale a dire lo studio e la sperimentazione costante dei più efficaci strumenti didattici attinenti alla disciplina insegnata, per educare ed affinare negli allievi le capacità logico-espressive; • l’accordo metodologico transdisciplinare tra i docenti, ognuno dei quali continua a lavorare nel rispetto delle caratteristiche epistemologiche della materia insegnata, ma si accorda con i colleghi sui fondamenti del metodo, la semplificazione, la personalizzazione, una strumentazione didattica adeguata. La necessità di innovare i criteri di insegnamento è scaturita dalla constatazione che buona parte degli studenti licenziati dalle scuole superiori dimostra una forte incapacità di ragionare in una forma pulita logicamente e di esprimersi in forma corretta. Ciò non corrisponde certo a una generale mancanza di intelligenza, quanto piuttosto alla carenza di un sufficiente allenamento delle capacità logico-espres-

F. Ciampolini, La didattica breve, Il Mulino, Bologna 1993, riedita con aggiunte nel 2000. L’opera sarà qui indicata solo con DB.

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sive individuali. La principale causa di situazioni del genere va ricercata nel fatto che si insegnano troppe cose, spesso scarsamente adeguate all’età degli allievi, i quali inevitabilmente le capiscono male e le assimilano peggio. «Il vecchio detto ‘la scuola insegni a leggere, a scrivere e a far di conto’, interpretato con linguaggio più moderno significa: la scuola insegni a esprimersi e a capire correttamente» (DB, 28). Conseguenza di tale convincimento e insieme premessa per un’innovazione di metodo fruttuosa è che «la scuola diventa veramente consapevole che le grandi capacità di avanzamento sono realizzate solo da chi abbia precedentemente realizzato basse velocità, concentrandosi su pochi contributi, che devono essere visti soprattutto come pretesto per acquisire un metodo di studio» (DB, 28). Questo non significa eliminare o impoverire alcune materie - tutte ugualmente formative allorché privilegiano il metodo rispetto ai contenuti - ma sfoltire i programmi delle singole discipline, a cominciare da quelle ritenute fondamentali e a partire dagli anni in cui gli studenti possono essere utilmente esercitati nell’autonomia allo studio: «Si tratta quindi di realizzare una scuola a densità di contenuti fortemente crescente solo nella parte finale delle superiori: una scuola che si renda conto di quanto poco convenga studiare male oggi ciò che si può studiare bene (e molto in fretta) domani» (DB, 29).

2. Il metodo DB Prima di metterne in evidenza le caratteristiche è bene richiamare un paio degli elementi già accennati: • la DB accoglie tutti i suggerimenti metodologici della didattica tradizionale, nel rispetto del rigore scientifico e dei contenuti delle varie discipline. Il criterio della riduzione, drastica ma oculata, degli argomenti del programma da svolgere (non dunque una ‘bignamizzazione’ del programma nella sua integralità) è finalizzato al reperimento di un tempo utile per il ricupero e lo studio guidato; • la DB è nata in ambito scientifico, è quindi necessario ampliare le applicazioni alle materie umanistiche, ricorrendo all’apporto di altri ricercatori.2

2 Vedi, ad es., quelle facilmente reperibili in internet, come: - La DB e la ricerca medodologico-disciplinare: www.valsesiascuole.it/crosior/db; - Introduzione alla DB: http://rdm.scuole.bo.it/intervista/Capitolo%201.htm; - La DB come didattica sensata nelle discipline filosofiche: http://lgxserver.uniba.it/lei/sfi/bollettino/62_girotti.htm - La DB delle materie umanistiche: http:kidslink.bo.cnr.it/irrsaeer/db/dbfra3.html


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Le fasi del metodo sono sostanzialmente tre: - la distillazione (Dst), verticale e orizzontale, del programma e dei singoli argomenti presi in considerazione - la Ricerca metodologica disciplinare (RDM) - il ricupero e/o studio guidato con il ricorso alla multimedialità.3 2.1 La distillazione Distillare il programma annuale di una disciplina o una parte di esso significa evidenziarne tutte le logiche (gli elementi portanti e loro relazioni). La distillazione macrologica (Dst verticale) obbedisce alla scelta metodologico-culturale del docente; quella micrologica (Dst orizzontale) si riferisce all’analisi particolareggiata del singolo argomento, prima guidata, poi svolta sempre più autonomamente dallo studente. Alla base della Dst verticale ci sono dunque la preparazione culturale e l’esperienza didattica del docente, esperto della materia insegnata. Dopo aver elencato tutti gli argomenti4 del programma annuale, pone in evidenza quelli che ne costituiscono la struttura e sono perciò indispensabili sia per la comprensione e lo svolgimento del programma stesso sia per giustificare la presenza della disciplina fra le materie formative. La scelta degli elementi non essenziali obbedisce a due criteri: a) contrarre il tempo delle spiegazioni, b) per trovare quello da dedicare allo studio guidato e/o al sostegno-ricupero. Per non vanificare scopi e vantaggi di questa scelta metodologica occorre accantonare lo svolgimento pedissequo e indifferenziato di tutti i segmenti del programma elencati dal testo (o da eventuali tracce ministeriali); cosa che, del resto, espone non di rado al pericolo di non trattare a sufficienza o di eliminare tout court anche argomenti importanti, che il programma propone a fine anno, quando tempo e impegno scarseggiano o sono esauriti. A conclusione di questa fase si opera una distillazione totale del programma, che consiste nell’abbozzare ipotesi riaggregative degli argomenti presi in considerazione, prevedendo le forme di interventi didattici ritenuti più utili per il gruppo classe in corrispondenza ai vari segmenti in cui è stato articolato il programma stesso. La Dst orizzontale è simile, sotto certi aspetti, all’analisi logica usata nello studio delle lingue. Infatti, come quest’ultima suddivide un periodo (unità completa di significato) in proposizioni (contributi sintattici parziali) per ognuna delle quali individua gli

F.Ciampolini parla in particolare della videoregistrazione, ma prevede - e si augura - l’utilizzazione dei mezzi multimediali che nel frattempo (la 1. edizione della DB è del 1993) sono entrati ampiamente in uso. 4 Per argomento si intende ogni singolo ragionamento (osservazione, dimostrazione, interpretazione,…) che il docente ritiene opportuno proporre ai propri allievi durante lo svolgimento delle sue lezioni. 3


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elementi portanti (predicato, soggetto e complementi), allo stesso modo la Dst orizzontale suddivide un argomento nei ‘passi elementari’, sequenzialmente disposti secondo l’ordine con cui il ragionamento stesso ce li propone. In questa fase, prima guidata poi sempre più autonoma, lo studente allena e affina le capacità logiche. Materie scientifico-tecniche e materie umanistiche5 Il terreno più propizio alla DB, e il primo al quale è stato applicato, è quello delle materie scientifiche e, ancor meglio, di quelle tecnologiche. Entrambe sono infatti caratterizzate da un numero rilevante di applicazioni cui sono però sottesi pochi principi (leggi, regole, postulati) basilari. La Dst consiste quindi nel ricondurre le molte applicazioni ai pochi principi, prima smontando (Dst verticale) la disciplina nei suoi pezzi elementari, poi rimontandola ripulita in forma ‘breve’. Più problematica appare l’applicazione di un simile procedimento alla materie umanistiche. • Ci sono materie umanistiche, come quelle che attengono allo studio delle lingue, che rinviano a un limitato numero di strutture sintattiche. In questo caso si tratta di ordinare la materia, facendo emergere lo statuto epistemologico, i nuclei dell’argomento trattato e le logiche sottese. Da questa razionalizzazione, risultato di una continua ed intelligente ricerca metodologico-disciplinare del docente, discende la possibilità di un insegnamento più ‘breve’ e di certo qualitativamente migliore. • Altre materie (letteratura6, filosofia, arte) non si prestano a questa semplificazione se non sotto l’aspetto cronologico (storia della letteratura, ecc.). Non ha senso infatti escludere i momenti della libera e piacevole fruizione di un testo poetico o narrativo in nome di un’accelerazione incongrua oppure velocizzare il paziente, personalissimo processo mentale richiesto dallo studio della filosofia, disciplina incentrata sulla riflessione ragionata dei significati. In questi casi il rapporto con la DB sta nel fatto che essa consente, anticipando rapidamente gli aspetti fondamentali della disciplina (lo ‘zoccolo duro’) di ritagliare maggior tempo per richiamare e contestualizzare gli aspetti ritenuti basilari, perché più formativi sotto l’aspetto culturale e didattico. Didattica breve, dunque, in funzione di una didattica lunga, che si prefigge l’assimilazione delle categorie e dei concetti che caratterizzano la materia proposta.

Il paragrafo non fa parte della trattazione svolta dall’autore della DB. V. ad es. la trattazione ampia e particolareggiata, ricca di strumenti operativi di R. Crosio, La DB e la RMD: www.valsesiascuole.it/crosior/db/ - I sistemi-programma dell’insegnamento di letteratura italiana nel triennio. Un’esperienza del corso IGEA: www.valsesiascuole.it/crosior/DBBOLO-1.pdf Una ‘didattica lunga’ per una ‘didattica breve’. I movimenti letterari: categorie metastoriche, www.irreer.it/db//dbfra1.html A. Girotti, Introduzione alla filosofia secondo la Didattica Breve, in internet alla voce DB. 5 6


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2.2 La Ricerca Metodologica Disciplinare (RDM) La DB non va confusa con i ‘sunti’ che circolano (e sono talora consigliati) nelle scuole, anche se la capacità di sintesi è indispensabile sia per chi insegna sia per chi impara ad apprendere. Cuore della DB è infatti la RDM, che consiste nella ricomposizione rapida degli elementi-base scomposti con la Dst verticale. L’iter metodologico è: contenuti -> metodo -> contenuti. Al proposito va notato che abitualmente non si ha vera assimilazione di argomento al primo incontro (se per assimilazione si intende aver fissato la materia nella propria mente in modo tale che sia possibile richiamarla al momento giusto per intero e in modo giusto). È infatti fatale, o meglio ‘fisiologico’, che al momento del primo apprendimento segua, dopo l’interrogazione e più ancora dopo un esame, un periodo nel quale si ha l’impressione di aver dimenticato tutto. La fatica e il tempo necessari per ricostruire l’argomento studiato sono inferiori e più duraturi quando lo si riprende in mano con l’aiuto di una guida efficace e di appunti ben fatti. L’esito positivo della ricostruzione dipende anche sia dal modo con cui il docente ha saputo rendere chiara e stimolante l’esposizione sia dal grado di autonomia nello studio (metodo) già acquisita dallo studente. È importante considerare la ricostruzione rapida di un argomento come obiettivo immediato e funzionale all’acquisizione di un metodo di studio e solo come obiettivo a lungo termine la sua assimilazione. Almeno nella sua dimensione orizzontale (micrologica) la RDM è sempre più compito del singolo studente, perché attiva meccanismi e automatismi propri della sua mente (di cui è consapevole pur senza conoscerli a fondo). Utile allo scopo, se il docente ne fa abitualmente uso come ausilio efficace della propria esposizione, è il metodo della lavagna7 (anche luminosa e con slides). Sulla lavagna (o su altri supporti) viene evidenziata la ‘colonna logica’, nella quale sono indicati sequenzialmente i titoli sintetici dei passi logici fondamentali in cui la lezione è stata suddivisa. Con l’uso degli appunti - o della memoria - lo studente si sforzerà di costruire la Dst orizzontale di ogni segmento dell’argomento in modo chiaro e completo (cioè di saperlo riesprimere con proprie parole).

3. Strumenti metodologici della DB Sono da considerare tali i ragionamenti e i raggruppamenti concatenati di ragionamenti ai quali possa essere riconosciuta una autentica sistematicità di impiego in riferimento a qualsiasi disciplina. Rientrano certamente in questa fattispecie le sequenze espositive ottimali 8, la scelta all’interno delle quali dipende dai vari fattoA quanto proposto dal Ciampolini, possono essere aggiunte tutte le forme di rappresentazioni grafiche: mappe concettuali, diagrammi di flusso, ecc., spesso proposti dai testi o facilmente reperibili (nella loro logica) in internet: v. ad es. mappe concettuali nella didattica: http://www.pavonirisorse.to.it/mappe - http://lgxserver,uniba.it/scuola/ins2_1.htm - Mappe, complessità, strutture di comprensione: http:// www.noiosito.it/mcsc.htm.

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ri presenti nel gruppo-classe con cui si ha a che fare: tipologia degli allievi, tempo a disposizione, obiettivi che ci si propone di raggiungere, effettiva conoscenza delle tecniche da impiegare…

Sequenze storiche (time line 9) - Sono l’applicazione del procedimento induttivo. Si attengono alla sequenza cronologica offerta dalla storia della disciplina. Esplorata e semplificata dal docente, la sequenza storica propone allo studente modalità di studio e di ricerca ‘per scoperta’, simili a quelle di fronte alle quali si sono trovati ricercatori e scienziati. Offre il vantaggio di partire dal particolare (episodi specifici) per arrivare al generale (regole, categorie, concetti). Presenta lo svantaggio di portare l’allievo alla scoperta dei principi solo alla fine di un percorso più o meno lungo; tale procedimento può rivelarsi arduo soprattutto per gli allievi meno capaci di sintesi, e quindi meno capaci di riflettere sul valore delle conclusioni parziali, a separare l’essenziale dall’accessorio. Sequenze inverse - Sono l’applicazione del procedimento deduttivo. Propongono un cammino contrario al precedente, perché si forniscono subito allo studente i principi (regole, categorie, concetti) e le definizioni, procedendo poi verso i casi e le applicazioni particolari10. Offrono il vantaggio di stimolare lo studente all’esercizio del ragionamento. Poco indicate per studenti non inclini a un’applicazione costante (specie in materie aride); possono quindi provocare azioni di rigetto (disinteresse e conseguente disimpegno). Sequenze ‘a rampa ripida’ - Combinano, alternandole opportunamente, le due precedenti, cercando di sommarne i vantaggi. Danno modo di abituare gli allievi a scoprire e seguire il metodo di apprendimento che meglio loro si confà. Nella prima fase si opera con uno dei metodi su ricordati (induttivo-storico o deduttivo); nella seconda si applicano le procedure della sequenza opposta. La rampa è ‘ripida’ perché la prima fase è seguita solo per un previsto e determinato numero di ore e serve come ‘lancio’ per la seconda, ritenuta più importante. Sequenze iterative - Compatibili con quasi tutte le precedenti, di cui cumulano i vantaggi, riguardano lo svolgimento ‘distillato’ di un argomento importante che, per mancanza di tempo, o perché collocato alla fine del programma annuale, potrebbe essere solo accennato o addirittura non essere svolto. Per questo tipo di sequenze si applica il metodo della sequenza a rampa ripida, ma con il vantag-

Cui andrebbero aggiunte quelle relative alla distillazione totale di una disciplina, l’insegnamento ‘a carte scoperte’, i ragionamenti tipo, il metodo delle riflessioni, la ‘teoria degli esercizi’, strumenti per l’organizzazione didattica. Cf. DB pp. 103-146. 9 È possibile trovarne esempi sia in enciclopedie multimediali (ad es. Encarta) sia in siti di internet (v. i link corrispondenti alla voce). 10 È il procedimento che in altra parte della trattazione viene definito ‘a carte scoperte’, partendo cioè dalla soluzione dell’enigma (per mutuare il linguaggio del ‘giallo’) per arrivare all’identificazione di moventi, protagonisti, circostanze particolari. 8


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gio che a questo punto dell’anno la prima fase (nella quale è da preferire la sequenza storica) può fondarsi la su uno ‘zoccolo duro’, vale a dire sul possesso delle ‘chiavi della disciplina’ che lo studente ha già acquisito.

4. Lo studio guidato Già si è precisato che la DB11, condotta correttamente e coerentemente può portare, a un risparmio di una buona metà del tempo dedicato al consueto lavoro di esposizione della materia. Il risparmio, si è già detto, è però finalizzato a consentire sia il raccordo culturale con il programma svolto negli anni precedenti (essenziale all’acquisizione di sicure competenze), sia la fissazione delle abilità di base carenti mediante l’allargamento delle attività di ricupero e, appunto, di studio guidato. Questo aspetto non rientra ‘formalmente’nella DB, perché non si prefigge come obiettivo di minimizzare il tempo da dedicare all’apprendimento, ma è un contributo importante per abilitarvi l’allievo. Alla base c’è la personalizzazione degli interventi, che devono proporsi soprattutto di insegnare a studiare, chiarendo dubbi, facendo ripetere, correggendo i difetti di esposizione, abituando a sintesi e collegamenti, controllando (per ottimizzarli) i tempi. Se guidato dall’insegnante, richiede una netta separazione tra la fase e la funzione di tutoraggio e quelle della valutazione formale. Tra le principali forme di interazione docente-studente è possibile individuare quelle • di tipo cattedratico (lezione tradizionale, videolezione, didattica mista, interazione multimediale) • di tipo tutoriale, che tengono conto delle situazioni personali degli allievi (diversi per preparazione, stili cognitivi, maturazione…) le quali costituiscono in definitiva le vere difficoltà da superare e implicano l’ulteriore tipologia di interventi; • di interazione valutativa: operata sia con interrogazione individuale sia con lo smistamento selettivo, che assegna a piccoli gruppi omogenei per (im)preparazione e caratteristiche di apprendimento (ritmi, motivazioni, interessi) le attività più adatte, la frequenza ed il tipo di verifiche intermedie (educative), l’uso dei mezzi interattivi più opportuni12.

Questo e il successivo capitolo del saggio del Ciampolini rispecchiano in modo particolare la sua esperienza di docente universitario. Le considerazioni e i suggerimenti vanno considerati ed eventualmente accolti sotto questo aspetto. 12 Saper lavorare in gruppo non è una capacità spontanea e naturale; occorre che l’insegnante trovi anche momenti espliciti e non marginali per far riflettere sulle modalità d’azione che il gruppo ha utilizzato nel lavoro, individuando aspetti problematici e buone pratiche da estendere e valorizzare. Relazione di gruppo, tutoring, conflitti e co-costruzione della conoscenza sono gli elementi fondamentali dell’azione del gruppo sull’apprendimento individuale. 11


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Le interazioni di tipo valutativo assumono un’importanza particolare. Per chiarire il senso e la necessità di una profonda modifica delle forme classiche di interrogazione o di compito vale la pena di richiamare alcune pecche evidenti e note13: 1/ Sul versante dello studente: - una periodicità incongrua, quasi sempre tale da distanziare eccessivamente una performance dalla successiva, che di norma corrisponde ad un analogo periodo di studio da parte dell’allievo. Ne deriva un modo di studiare discontinuo, caratterizzato da ‘sgobbate’ concentrate a ridosso delle prova. Lo stress è aggravato da fatto che le poche interrogazioni/prove hanno però un effetto determinante, e, in caso di insuccesso, offrono altrettanto scarse occasioni per rimediare; - una conseguente distribuzione incongrua di energie e di tempo da parte dello studente che deve affrontare, spesso quasi contemporaneamente se poste alla conclusione di periodi ‘canonici’ (trimestri/quadrimestri) tutte o quasi tutte le materie. Si determinano così situazioni tra l’umoristico e il drammatico nelle quali una materia danneggia l’altra, perché mentre se ne studia una se ne trascurano altre giudicate meno importanti (o con docenti meno esigenti). 2/ Dalla parte del docente ne deriva un modo di valutare discontinuo, spesso soggetto all’aleatorietà di molti fattori che andrebbero invece attentamente calibrati. Forme di valutazione formativa Sono in sostanza quelle che si prefiggono la valutazione dei processi d’apprendimento. Tra gli strumenti illustrati nel testo della DB cui ci riferiamo ci sono l’interrogazione multipla (time sharing) e la staffetta autointerattiva. La prima, almeno con le modalità là esposte, si presta in modo specifico per le materie logico-combinatorie (che fanno riferimento a procedimenti, regole, corollari precisi); l’altra è con più efficacia realizzata mediante le forme di apprendimento cooperativo (di cui si tratterà prossimamente sulla Rivista). • L’interrogazione multipla si fonda sull’utilizzo, da parte del docente, dei ‘tempi morti’ dell’interrogazione tradizionale (i silenzi imbarazzati in attesa di una

Tra gli errori più frequenti in cui l’insegnante può incorrere, ricordiamo: • improvvisazione (non si segue una procedura prefissata, anche per non riproporre in classe gli stessi temi con le stesse parole, per toccare tutti gli aspetti dell’argomento trattato, per variare i registri della comunicazione verbale per tener desta l’attenzione degli allievi); • conseguente non omogeneità delle condizioni di prova: non tutti gli allievi sono posti nelle stesse condizioni (temi, tempo, rapporti interpersonali); • libera e talvolta arbitraria interpretazione delle risposte, condizionate dagli elementi sopra accennatati e dall’effetto alone (che, a parità di prestazioni, fa propendere per giudizi favorevoli per gli allievi giudicati migliori), dall’impossibilità di registrare la conversazione (esprimendo quindi un giudizio finale che è più che altro un’impressione globale); • presenza di rilevanti fattori di distorsione: spesso l’interrogazione è dialogata, nel senso che l’insegnante non si limita a far domande, ma completa, chiarisce, offre suggerimenti (a tutti?), tanto che alla fine è pressoché impossibile isolare, ai fini di una valutazione e allo scopo di offrire all’allievo elementi di autovalutazione, ciò che effettivamente ha detto lo studente.

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risposta che non viene; gli interventi dell’insegnante che interferiscono pesantemente nell’appurare la reale preparazione dell’allievo; la selva di mani per correggere l’interrogato, con conseguente confusione da parte sua e della scelta del contributo più centrato, ecc). L’insegnante li evita e sostituisce mediante il contemporaneo rapporto diretto con gli altri studenti del gruppo che ha convocato. In tal modo ogni studente vede suddiviso il tempo della propria interazione con il docente in intervalli bi-direzionali attivi, durante i quali o c’è il dialogo con l’insegnante o c’è maggior tempo per preparare la risposta al quesito posto. Ciò permette all’insegnante la rotazione di più interventi individualizzati nel tempo che ha predisposto per la valutazione del processo di apprendimento. Gli consente, quando lo ritenga opportuno, anche la valutazione sommativa degli esiti (voto o giudizio), per mezzo di una tabella sulla quale ha annotato, in corrispondenza a ogni singola risposta, i vari tipi di errori o di incertezze14, che nel corso del colloquio ha però già potuto segnalare e correggere. Evidente soprattutto per il docente l’impegno per la progettazione e lo svolgimento, richiesto da questa forma di valutazione, i cui risultati sono però di sicura gratificazione educativa sia per chi li propizia sia per chi ne usufruisce. La fatica può essere alleviata con l’uso di programmi informatizzati composti dal docente stesso o opportunamente da lui selezionati15. L’interazione personale docente/allievo rimane però fondamentale. • La staffetta autointerattiva prevede le dinamiche che caratterizzano il lavoro di gruppo, durante il quale gli studenti devono rispondere alle domande poste dai loro coéquipiers su argomenti e procedimento definiti, verbalizzando le conclusioni che esporranno all’insegnante e alla classe nel momento della discussione generale. Numerosi ed evidenti i benefici procurati da queste e altre forme di valutazione formativa. 1/Vantaggi per lo studente: - un numero molto accresciuto di valutazioni, con il È la metodologia sequenze informatiche crowderiane. Si parte con il frame principale; cui segue un domanda a scelta multipla per verificare l’acquisizione del concetto fondamentale del frame di partenza; se il soggetto risponde positivamente passa al frame successivo, se sbaglia viene rimandato a un percorso autoistruzionale per ricuperare gli elementi necessari a una risposta corretta. Il ruolo dell’errore è centrale. Partendo dalla convinzione che l’errore non è mai casuale ma frutto comunque di un apprendimento (errato), viene sempre proposto il ricupero, poi si procede. Al termine del percorso viene segnalata la frequenza delle risposte giuste e di quelle poi corrette con la relativa valutazione sommativa (espressa con voto e/o con giudizio). 15 Gli ipertesti, ad es., si costruiscono a partire da una mappa concettuale, che costituisce il primo e principale mezzo di navigazione. Costruire un ipertesto implica un’operazione di smontaggio e di rimontaggio della materia non diversa da quella che nella DB è detta ‘distillazione’. Come nella DB, un corretto procedimento ipertestuale implica la ricerca di connessioni fili, omologie, principi sottostanti, ecc., e non può quindi che convergere con una tecnologia didattica la cui essenza sta nel creare connessioni nel modo più breve e chiaro. Preferibilmente composti e ricomposti su una lavagna multimediale, gli ipertesti agiscono su più livelli cognitivi, accostando codici multipli (iconico, visuale, sonoro, simbolico, ecc). 14


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docente sempre in presa diretta; - un’interazione che permette in atto le strategie necessarie per ricupero e sostegno; - il superamento del meccanismo perverso di uno studio ‘a singhiozzo’ (pausa/sgobbata, pausa/sgobbata); - il disagio di sentirsi sotto osservazione quasi ininterrottamente è compensato dal senso di tranquillità che gli deriva dal sapere che anche un eventuale insuccesso parziale è facilmente riparabile; - i criteri di valutazione gli risultano trasparenti e oggettivi; - può lavorare in gruppi in cui una sana competitività fa scattare un positivo senso di collaborazione. 2/Vantaggi per il docente - L’innegabile dispendio di energia psicofisica richiesto dalla frequenza dei rapporti interattivi è controbilanciata dai miglioramenti che abitualmente si verificano nei singoli e nel gruppo, stimolati positivamente. I percorsi ‘accidentati’ non sono bollati con una votazione insufficiente, ma valutati per essere corretti nelle prestazioni meno soddisfacenti come errori di ragionamento, di imprecisione di linguaggio, di lentezza/incertezza nelle risposte, ecc); dunque in una logica di speranza, non di timore o di avvilimento destinati a crescere nel tempo. Quando i criteri d’azione siano stati capiti e acquisiti, sarà possibile fare un uso intelligente del ‘servosterzo’: il comando lo darà sempre l’insegnante, ma l’energia e la fatica saranno degli allievi, che, attraverso la soluzione frequente e rapida degli esercizi, acquisiranno la capacità di capire, sulla base di pochissime indicazioni del docente, che cosa si stia chiedendo loro e di rispondere in modo sempre più autonomo: di acquisire in modo sostanziale un personale metodo di studio. Ripasso come acquisizione di metodo Fra le forme di un ripasso autoformativo si possono attuare quelle: 1/ del ripasso regressivo (che applica il metodo induttivo) con cui lo studente - parte dal quesito posto dal docente al quale va risposto con una regola, un enunciato, una definizione; - sviluppa il primo livello di ‘regressione’, che consiste nel definire le fasi, le grandezze, gli elementi che l’argomento da altri simili; - allarga poi l’analisi al secondo livello, in cui compaiono gli elementi che caratterizzano in modo specifico l’argomento in esame; - passa al livello successivo, il terzo, della comparazione, che stabilisce somiglianze e differenze; - stabilisce, a un ulteriore livello, il quarto, gli elementi che hanno attinenza con principi e regole generali16 2/ del ripasso progressivo, nel quale si capovolge il procedimento.

A semplice titolo esemplificativo, la richiesta di esporre fatti, caratteristiche ed esiti delle guerre per l’indipendenza italiana potrebbero essere così schematizzati in una mappa a rete: 1° livello: cause e cronologia di ciascuna guerra; 2° livello: fatti d’arme, protagonisti, luoghi; 3° livello: trattati di pace e/o armistizi; 4° livello: motivi ispiratori - altre guerre d’indipendenza nell’800 in Europa e nel mondo. 16


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Per entrambi è possibile applicare, come si è accennato in nota, lo sviluppo grafico delle mappe concettuali e degli ipertesti che, partendo da una ‘voce-nucleo’, fanno muovere la ricerca a ritroso o in avanti, stabilendo una rete di relazioni, essenziali anche nella formulazione, e collegate graficamente. A proposito della metodologia ipertestuale, va tenuto conto dei limiti didattici che essa comporta con l’enfatizzazione degli aspetti dinamico-visivi (che andrebbero in ogni modo tradotti in linguaggio verbale) a scapito dei nodi testuali. La progettazione di un ipermedia rende possibile un intelligente insegnamento cooperativo tra gli alunni e i docenti. Le operazioni di analisi (distillazione) e di ricomposizione dei contenuti (creazione dei blocchi) avviene con pendolarità, perché si procede alternativamente dal locale al globale e viceversa, con un accrescimento proporzionale di legami logici, suggeriti dalle tappe stesse dei percorsi, ripetuti più volte nella realizzazione dell’ipermedia.

5. Lo studio personale Come lo studio guidato, lo studio personale è ordinato all’acquisizione dell’autonomia ‘professionale’ dello studente, che si manifesta nell’adozione del metodo di studio più efficace perché meglio adatto alle capacità individuali. Al raggiungimento di questo scopo devono concorrere, e perciò devono effettivamente collaborare, l’azione del docente e dello studente. Comuni gli obiettivi: il raggiungimento della capacità di ragionare in modo pulito e di esprimersi in forma corretta, vale a dire una competenza metacognitiva (che unisce la conoscenza della materia studiata al progressivo sviluppo delle personali capacità di studiarla). Capire la materia - A scuola non basta capire una materia, è necessario anche far capire agli altri che la si è capita. Ogni studente deve conoscere alcuni parametri oggettivi che gli permettono di capire se possiede realmente i contenuti studiati o se solamente avverte una non ben definita sensazione interna che ottimisticamente interpreta come ‘aver capito’. Capire un argomento significa saperlo dimostrare, ossia saperlo ricondurre, attraverso i passaggi di una logica ‘pulita’ ai pochi elementi che ne sono alla base. Gli insegnanti per primi non dovrebbero scambiare la prontezza degli interventi facili e parziali che si verificano durante una spiegazione con quelli che arrivano o che sono sollecitati a conclusione della trattazione. L’allievo è bene che si abitui e venga abituato a intervenire dopo una riflessione che permetta di ricondurre l’argomento in esame ai principi generali posti a base della disciplina ai quali l’argomento si rifà. Ciò non significa che non si debba stimolare gli allievi a una partecipazione attiva nel corso della lezione, ma che si eviti di attribuire agli interventi occasionali un valore che non hanno. Mezzi pratici per appurare se si è capito un argomento sono: • saperlo distillare ver-


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ticalmente, esponendo la sequenza completa delle parti che lo compongono (senza svilupparle, ma al solo scopo di conoscerle tutte e in modo ordinato); • per alcune di esse (a cominciare da quelle che paiono più importanti) operare la distillazione orizzontale, anche componendo una mappa concettuale scritta; • quando è possibile, sottoporre ad altri le due precedenti fasi del lavoro. Altro punto dolente per molti giovani che escono dalla nostra scuola è il mancato possesso di un sicuro spirito critico, ossia della capacità di ragionare in modo pulito e completo sotto il profilo logico. Gli strumenti per eliminare le cattive abitudini sostituendoli con pratiche vantaggiose sono quelle che caratterizzano la DB: la DST verticale (macrologica) e quella orizzontale (micrologica). La prima, sappiamo, si occupa dei principi (leggi, regole, concetti) ed è la più importante; va tuttavia applicata anche l’altra che è la dimostrazione, con i passi logici in cui può e deve essere suddivisa, delle capacità logiche dell’allievo. Tra le forme più utili del ripasso c’è quella regressiva, che obbliga lo studente a dare tutte le definizioni (ricordare le leggi, citare dati e fatti, esprimere i concetti) che, a partire dall’argomento di partenza, si incontrano lungo il percorso che lo collegano a quello che chiude il programma svolto. Esporre le conoscenze - Occorre però anche controllare la forma della comunicazione, cioè il modo di porgere le risposte in un linguaggio corretto, scorrevole e sicuro: sotto il profilo ‘scientifico’(dei contenuti) e quello sintattico (della comunicazione). Alla base del penoso ‘tira-e-molla’ in cui troppe volte degenera l’interazione studente/docente al momento dell’interrogazione sta proprio la forma sciatta e incerta delle risposte. Gli studenti ‘intelligenti’ sono proprio quelli che non hanno usato il cervello solo per appropriarsi in modo soddisfacente degli argomenti di studio, ma che hanno saputo crearsi una solida capacità di autoallenamento all’esposizione della materia, mettendosi così al riparo da sorprese nel rapporto con l’esterno. Tra le componenti di un’autoverifica efficace c’è l’allenamento alla ripetizione, anche ad alta voce e anche di ciò che si sa di sapere già. Il ‘quanto’ è legato alle caratteristiche personali; non si può comunque scendere al disotto del rapporto 1/1: un’ora di ripasso, possibilmente ad alta voce, per ogni ora di studio effettivo. Tirocinio duro ma necessario; in più va considerato che le ore di ripasso sono meno impegnative rispetto a quelle di ‘studio in avanti’ della parte nuova della materia. Un allenamento all’esposizione precisa e sicura si fa prevalentemente da soli; tuttavia - almeno nelle prime fasi di questo apprendimento - è bene che il controllo venga fatto da qualcuno che conosce bene la materia. Una volta acquisita una buona fluidità nell’esposizione, occorre evitare di cadere nella verbosità e nella prolissità. Un modo per allenarsi alla sintesi, all’essenzialità, è quello della ‘scaletta’ o sommario degli argomenti disposti in sequenza. Altro traguardo significativo è rappresentato dalla capacità di saper ripetere ‘tutto-tutti i giorni’ (si intende: il ripetere ogni giorno tutto ciò che di una materia si è studiato fino a quel momento).


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Preparare le prove scritte e orali - All’allenamento delle capacità logico-linguistiche riassunto sopra va unito lo studio del docente17. Per le prove scritte tale studio consiste: • nel conoscere la tipologia dei compiti che il docente solitamente assegna; • nell’avere cognizione delle modalità con cui il docente vuole che la prova scritta sia svolta (tempo a disposizione, tipo di commento che accompagna lo svolgimento del tema, ecc.). È utile insomma una specie di ‘indagine di mercato’ per appurare le richieste del docente e adeguare ad esse il prodotto elaborato dallo studente. Per le prove orali all’allenamento delle capacità logico-linguistiche e allo studio del docente18 è bene aggiungere una griglia delle domande ‘forti’ e la strategia d’attacco. Sbaglia lo studente che continua a dar poco se l’insegnante è poco esigente e a impegnarsi solo con chi lo è; anche se è logico che risani subito, dando loro la precedenza, le materie in pericolo. La griglia delle domande ‘forti’ è costituita sia dalle domande poste con più frequenza dall’insegnante sia da quelle che il (buon) testo pone come importanti (magari solo evidenziandone i contenuti con caratteri tipografici o fondini). La strategia d’attacco consiste nell’arricchire la risposta alla domanda dell’insegnante con collegamenti (logici e pertinenti) ad altri argomenti dell’area trattata (senza dar l’impressione di voler strafare).

Il docente intelligente sa benissimo di personalizzare la materia che insegna. La libertà d’insegnamento non consiste solo nelle scelte metodologico-culturali di fondo, ma anche nell’assunzione dei criteri di valutazione. In ciò non c’è nulla di male, perché in fondo la scuola deve educare l’allievo alle relazioni con il mondo esterno tutt’altro che omogeneo; quindi lo studente deve sapere che l’interazione con le persone, compresi i suoi insegnanti, presenta sempre qualche aspetto di novità che va attentamente valutato se si vuol far sì che l’interazione abbia a svolgersi nel modo migliore. 18 In questo caso è utile, da parte dello studente, una conoscenza ‘psicologica’ dell’insegnante: è paziente (e si presta a tempi lunghi di riflessione in attesa della risposta) o è aggressivo (al punto sfruttare le debolezze e di incalzare senza tregua)?; è di quelli che intervengono per raddrizzare le risposte sbilenche o tace con fare impenetrabile?; è comprensivo (si preoccupa di sapere ciò che lo studente sa) o inflessibile (va alla ricerca di ciò che lo studente non sa)?... 17


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Caritas in veritate y el desafío de la solidaridad global LLUÍS DIUMENGE La sociedad cada vez más globalizada nos hace más cercanos, pero no más hermanos (n.19).

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erano 2009. Benedicto XVI nos ha regalado Caritas in Veritate. Una encíclica que persigue construir un mundo más humano. Su tema único es el desarrollo humano entendido de modo integral, referido tanto a las dimensiones materiales como a las espirituales e incluyendo a todos los seres humanos. Estábamos acostumbrados a que todas las encíclicas sociales comenzaran con un análisis de la realidad. Juan XXIII, en Pacem in Terris, personificó una sensibilidad nueva ante los problemas del mundo moderno. Acentuó la dimensión más histórica, dinámica y atenta a lo nuevo que emerge. Confería el espaldarazo al método inductivo. Presupone el kairós mediante un quehacer de discernimiento, entre aquello que proviene del Espíritu de Dios y lo que es fruto del mal. CV es atemporal pero intenta responder a los desafíos de la grave recesión económica. Punta del iceberg de una crisis más amplia que debería servir para revisar la salud del sistema y detectar dónde falla. No ignora la realidad - basta ver los temas que aborda -, pero parte de principios. Declara que quien “está animado de una verdadera caridad es ingenioso para descubrir las causas de la miseria, para encontrar los medios de combatirla, para vencerla con intrepidez” (30). Todo proviene de la caridad de Dios, lo que constituye la verdad más originaria y nuestra vocación. Los profesores, a nivel de Universidad o de Secundaria, tienen ante sí una ardua tarea. ¿Cómo presentar y hacer asequibles los núcleos temáticos y la motivación hermenéutica ante un auditorio juvenil? Las preocupaciones de los jóvenes no son de índole doctrinal o moral. Viven inmersos en una sociedad enfermiza, de una insoportable levedad espiritual, hiperconsumista, egocéntrica y enfrentada al medio


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ambiente. Prefieren las historias a las teorías, las anécdotas a los conceptos, las imágenes a las ideas. Lo cual no es óbice para filosofar en torno a la ética económica y a la crisis hodierna. Creer y apreciar a los jóvenes constituye la premisa indispensable para cualquier tarea educativa. Más allá de las palabras, el ejemplo prevalece por impresionar el espíritu y el corazón. A su vez, ellos y ellas se convierten en educadores de los adultos. Pienso en personas que cursan el Bachillerato y han vivido un período estival de voluntariado en Bolivia o Etiopía. O en aquellos que a la hora de realizar el trabajo de investigación eligen temas como los vagabundos que han descubierto en su ir y venir de la escuela o polarizan su atención sobre el África en general o Zimbabwe en particular. También es de admirar el ejercicio del acompañamiento a personas discapacitadas o con algún retraso. El pasado 31 de agosto, Jordi Pujol, antiguo presidente de la Generalitat de Catalunya, publicó en La Vanguardia un artículo sobre el IVA. No aludía al Impuesto sobre el Valor Añadido sino que pretendía brindar pistas para construir el propio país. Difícilmente un país tendrá buena política, buena acción social y buena economía si no dispone de un substrato intelectual y ético: Ideas claras, Valores sólidos, Actitudes positivas. Quiero convertirlo en un texto inspirador en orden a construir bien la persona, a explicar el contenido de la encíclica y a promover la lectura cristiana de la realidad. Vivir la fe, con todas sus implicaciones prácticas, supone una condición importantísima: trabajar con la máxima calidad en la vida presente. Aquí radica el valor único, globalizador, del amor que el Papa anhela para todos los hombres y mujeres de nuestro mundo. Porque todos gozan de la misma dignidad. El plan de acción podría sintetizarse en torno a tres verbos: - renunciar a todo aquello que deshumaniza. Demasiadas miserias, demasiadas injusticias, demasiados egoísmos deshacen los corazones humanos. Unos como víctimas y otros como agresores; - denunciar aquello que no funciona en uno mismo, en la Iglesia, en el mundo. La transformación de las conciencias es imprescindible para afrontar las implicaciones morales con las que el mundo se topa y dar renovada prioridad a los pobres; - y, finalmente, anunciar la buena nueva del Evangelio. Con la vida y con la palabra. Para promover la fraternidad universal que otorgue un alma a la globalización que nos invade por doquier. Para estudiar como es debido CV debe empezarse por una previa lectura personal y refleja del texto que proporcionará una opinión propia. Siempre alejada de los precipitados, cuando no sensacionalistas, comentarios de prensa. Hoy, quizá más que nunca, requerimos dosis muy grandes de realismo evangélico que reclama capacidad crítica de las situaciones, autocrítica y confianza en la bondad de Dios.


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1. IDEAS CLARAS Destacaría en el texto la clarividencia en torno a tres temas fundamentales: la globalización, la economía y la política. 1.1 La globalización Repercute, una y otra vez, en el pensamiento de Benedicto XVI. Comprender su sentido y alcance puede, por sí solo, ser materia de una monografía. Adviértase, con todo, de que su tratamiento no es sintético. El fenómeno globalizador tiene sus defensores y sus detractores. Tanto los aspectos positivos como los negativos aparecen suficientemente subrayados. Admira la sabiduría que afirma: “la globalización no es, a priori, ni buena ni mala; será lo que la gente haga de ella” (42). El gobierno democrático de la globalización y el aprecio de la economía social son dos grandes concreciones. Conviene destacar el toque de atención sobre la imperiosa necesidad de eliminar el hambre “para salvaguardar la paz y la estabilidad del planeta” (27). 1.2 La economía […] la economía y las finanzas, al ser instrumentos, pueden ser mal utilizados cuando quien los gestiona tiene sólo referencias egoístas. De esta forma se puede llegar a transformar medios de por sí buenos en perniciosos. Lo que produce estas consecuencias es la razón oscurecida del hombre, no el medio en cuanto tal. Por eso, no se deben hacer reproches al medio o instrumento sino al hombre, a su conciencia moral y a su responsabilidad personal y social (36). Claridad a nivel de principios. Convendrá explicitar a partir de la cruda realidad. Sobre todo cuando se enfoca, ante un auditorio de estudiantes, cuestiones como el hambre, el mercado y la “crisis económico – financiera” (33.36). Todo ello reclamará la presencia de la ética. Ban Ki Mun, secretario general de la ONU, ve peligrar el plan de reducir la pobreza a la mitad antes del 2015. Mientras los países ricos se han gastado 18.000 billones de dólares para rescatar bancos y reactivar la economía, la ayuda para cumplir con los objetivos del Milenio el año pasado ha sido de 120.000 millones. En cifra, una larga historia de promesas incumplidas. En muchos países pobres el hambre causa todavía muchas víctimas (27). A principios de julio el G 8 reunió en L’Aquila una cuarentena de Jefes de Estado y de Gobierno. El nuevo plan contra la crisis alimentaria asciende a 14.200 millones de euros. La ayuda ha caído al nivel más bajo de los últimos veinte años. Guatemala acaba de declarar el estado de calamidad pública. A mediados de septiembre ya se


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habla de mil millones de hambrientos. La sangrienta hambruna -que afecta a uno de cada seis seres humanos- supone un serio riesgo. La FAO, en virtud de las últimas estimaciones que ha hecho, considera que si la tendencia en la lucha contra el hambre en el último decenio era desalentadora, el repunte en el número de las personas que la padecen en 2009 “pone de relieve la urgencia de encarar sus causas profundas con rapidez y eficacia”. En este capítulo puede resultar de máximo interés ofrecer la posibilidad de investigar sobre el testimonio de Norman Borlaug (1914 – 2009), el padre de la revolución verde que ganó el Nobel de la Paz (1970) por su trabajo para combatir el hambre. Se calcula que evitó alrededor de mil millones de muertes. Por otra parte, “sin formas internas de solidaridad y de confianza recíproca, el mercado no puede cumplir plenamente su propia función económica” (35). El mercado debiera atender a la justicia tanto conmutativa como distributiva y social. Su mal funcionamiento no puede remediarse con ayudas. Costará entender e interpretar la afirmación de que “no se debe considerar a los pobres como un fardo, sino como una riqueza incluso desde el punto de vista estrictamente económico” (35). El mercado, en su lógica propia, debiera recibir una crítica mucho más severa (36). Las leyes, hechos y usos que lo rigen, además de las actitudes de las personas, merecen mayores reservas. Mucho se ha hablado y escrito sobre la crisis y hasta qué punto la falta de ética ha sido su causa. Seguirán los vaticinios acerca del futuro. Se culpa del colapso financiero a la actitud depredadora de Wall Street y a esos productos de ingeniería financiera ideados por los banqueros norteamericanos, los estratosféricos incentivos de los ejecutivos, la falta de transparencia de los mercados, la dependencia de las agencias de calificación crediticia, los inútiles modelos de predicción y análisis económico… La cuestión de la lógica interna del mundo de las finanzas, su opacidad, su desarrollo como estructura de poder, su capacidad para esquivar las leyes fiscales, su concentración de propiedad, debió ser mucho más cuestionada. Tampoco el ejercicio político, con su palabrería fracasada, ha estado a la altura de los acontecimientos. Se ha perdido la confianza en la garantía estatal de los depósitos. Ha fallado también la responsabilidad social de muchos empresarios. Las víctimas de la crisis no se reclutan de modo idéntico en toda la población. Entre los más expuestos están seguramente los emigrantes, que son los primeros en ser despedidos y cuya tasa de paro es muy superior a otras categorías. Lo cual produce efectos en cascada: sin empleo, los emigrantes se ven obligados a tener que elegir entre moverse en la ilegalidad o volver a su país, y en la mayoría de los casos prefieren quedarse en el país de acogida. Por otro lado, aunque no haya demostraciones particulares de racismo o de xenofobia, la opinión pública dificulta la integración de estas personas.


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La cuestión de que las pobrezas más hondas (53) están en relación radical con la soledad y la falta de amor, sí, es cierto, pero suena idealista entre tanta carencia de lo más elemental y básico para subsistir. El verdadero problema económico del mundo pobre no es coyuntural ni periódico sino estructural y permanente. La crisis de Estados Unidos y de la Unión Europea, aunque pueda volver, se superará. África, en cambio, seguirá expuesta a enfermedades genocidas, a la degeneración del suelo, a la escasez de agua, al cambio climático, a toda suerte de dificultades para exportar, a la corrupción. Denuncias estremecedoras se han escuchado durante el II Sínodo Especial para Africa (octubre 2009). También, en la hora presente, se insiste en regulaciones y controles. Resultarán insuficientes si no mejora la calidad moral de la sociedad. El barómetro de la buena salud cultural reside en la centralidad de los más vulnerables de la sociedad. “La economía tiene necesidad de la ética para su correcto funcionamiento” (45). Hay que comprender qué significa aplicar la ética a la economía. La ética no es algo exterior a la economía, que técnicamente podría funcionar por sí misma, sino que es un principio interior de la economía, pues ésta no funciona si no tiene en cuenta la solidaridad. La correlación entre economía y ética requiere una educación de calidad que aglutine la racionalidad de ambas. Sólo así la economía resultará humana. Habrá que acompañar a los jóvenes para que piensen con magnanimidad y abran sus corazones a la solidaridad planetaria. Deberán percibir lúcidamente el nexo entre desarrollo auténtico, ecología y paz. Todo ello requiere, en el quehacer diario, vivir el sentido humano-social del trabajo. Trabajar no sólo para obtener una gratificación personal sino para promover un servicio colectivo. En el presente clima de pensamiento débil, educar en el sentido de la vida y de la actividad humana resulta muy complejo. Hay que salir del utilitarismo privado para abrirse a las exigencias de la justicia internacional. Camino de la utopía intrahistórica. No existe dominio alguno de la actividad humana que escape a la responsabilidad moral. Ha de evaluar las finalidades y los medios en vistas a la prosecución de objetivos. La justicia y el bien común son dos criterios para medir lo que es conforme al desarrollo humano. Poner la dinámica de la economía al servicio del bienestar de todos requiere compromisos personales en la escala ética y en la política, para evitar tanto la ceguera de quien no ve los problemas como la precipitación de quien elige falsas soluciones (liberalismos, nacionalismos o estatalismos acríticos), guiado por ideas e intereses que no responden a los desafíos de este tiempo. El apuntalamiento de los bancos y de las entidades financieras así como el incremento del gasto social que requerirá la crisis, dispararán el endeudamiento de las administraciones públicas y la necesidad de más aportaciones a las entidades sociales que ayudan a los afectados por la recesión. Existe indignación y resistencia entre los ciudadanos a pagar la factura de la


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crisis por vía fiscal. Hace falta una estructura razonable de la economía que equilibre el Estado y el mercado, la regulación justa y la libre creatividad para evitar que cualquiera de los polos se pervierta. 1.3 La política Para gobernar la economía mundial, para sanear las economías afectadas por la crisis, para prevenir su empeoramiento y mayores desequilibrios consiguientes, para lograr un oportuno desarme integral, la seguridad alimenticia y la paz, para garantizar la salvaguardia del ambiente y regular los flujos migratorios, urge la presencia de una verdadera Autoridad política mundial, como fue ya esbozada por mi Predecesor, el beato Juan XXIII (67). La Iglesia, como han reiterado los últimos Pontífices, no tiene soluciones técnicas que ofrecer y no pretende de ninguna manera mezclarse en la política de los Estados (cf. 9). Aún así, cabía esperar mayor incidencia en este capítulo. Ofrece orientaciones en orden a la consecución del bien común que es, sobre todo, responsabilidad de la comunidad política. “Por tanto, se debe tener presente que separar la gestión económica, a la que correspondería únicamente producir riqueza, de la acción política, que tendría el papel de conseguir la justicia mediante la redistribución, es causa de graves desequilibrios” (36), Hombres políticos y responsables de instituciones internacionales han intuido que la solidaridad es el mejor proyecto de desarrollo para los países pobres (cf. 27). La gobernabilidad del sistema económico global es el único instrumento legal. Los tratados internacionales (OMC, OIT, Protocolo de Kyoto…) resultan lentos e inefectivos. El problema no radica tanto en la globalización de los mercados cuanto en el hecho de que la globalización económica no está acompañada por una globalización política eficaz, que coloque los mercados bajo un conjunto de leyes de alcance mundial.

2. VALORES SÓLIDOS El compartir los bienes y recursos, de lo que proviene el auténtico desarrollo, no se asegura sólo con el progreso técnico y con meras relaciones de conveniencia, sino con la fuerza del amor que vence al mal con el bien y abre la conciencia del ser humano a relaciones recíprocas de libertad y de responsabilidad (9). Los valores no caen del cielo ni se generan espontáneamente. Constituyen la cristalización de un proceso de evaluación, actividad que el individuo no puede ejercer si permanece en estado de anomía. La moral de la responsabilidad apunta a la decisión concreta que alguien puede tomar, aquí y ahora, en esta situación. Práctica del arte de lo posible, de lo mejor posible. Con la conciencia sensible a las consecuen-


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cias de la elección. El actuar debe ser siempre “expresión de una libertad responsable” (70). La libertad es ella misma cuando sus decisiones son fruto de la responsabilidad moral. Libertad, responsabilidad y justicia son tres valores que interactúan en CV y muestran el itinerario hacia un desarrollo humano integral: “El tema del desarrollo está también muy unido hoy a los deberes que nacen de la relación del hombre con el ambiente natural. Éste es un don de Dios para todos, y su uso representa para nosotros una responsabilidad para con los pobres, las generaciones futuras y toda la humanidad” (48). Quizá sea éste uno de los puntos más explícitos y brillantes de la encíclica. “Esta libertad se refiere al desarrollo que tenemos ante nosotros, pero, al mismo tiempo, también a las situaciones de subdesarrollo, que no son fruto de la casualidad o de una necesidad histórica, sino que dependen de la responsabilidad humana. Por eso, los pueblos hambrientos interpelan hoy, con acento dramático a los pueblos opulentos. También esto es vocación, en cuanto llamada de hombres libres a hombres libres para asumir una responsabilidad común” (17). Entre los criterios orientadores de la acción moral destaca la justicia que “afecta a todas las fases de la actividad económica, porque en todo momento tiene que ver con el hombre y con sus derechos” (37). Es inseparable de la caridad, aunque ésta va más allá (6). Sorprende que no se haya planteado la cuestión del decrecimiento como forma de cambiar los estilos de vida. Para que puedan vivir todos, los ricos debieran vivir con bastante menos.

3. ACTITUDES POSITIVAS En este ámbito afloran los principios permanentes de la DSI. Son expresión de la verdad íntegra sobre el hombre conocida a través de la razón y de la fe. Brotan del encuentro del mensaje evangélico y de sus exigencias con los problemas que surgen en la vida de la sociedad. CV alude principalmente a tres. 3.1 Principio de gratuidad Frente a la productividad y utilidad, este principio es expresión de la fraternidad. “El ser humano está hecho para el don, el cual manifiesta y desarrolla su dimensión trascendente” (34). Tanto a nivel de ideas como de conducta este principio debe tener “espacio en la actividad económica ordinaria” (36). Aplicado al ámbito del mercado “la gratuidad no existe y las actitudes gratuitas no se pueden prescribir por ley. Sin embargo, tanto el mercado como la política tienen necesidad de personas abiertas al don recíproco” (39).


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3.2 Principio de subsidiariedad Es ante todo una ayuda a la persona, a través de la autonomía de los cuerpos intermedios. Respeta la dignidad de la persona, en la que ve un sujeto siempre capaz de dar algo a los otros. Es el antídoto más eficaz contra cualquier forma de asistencialismo paternalista (cf. 57). Debe mantenerse íntimamente unido al principio de solidaridad (58). Muy clarividente resulta la premisa de recurrir a la subsidiariedad fiscal “que permitiría a los ciudadanos decidir sobre el destino de los porcentajes de los impuestos que pagan al Estado” (60). La Autoridad política mundial que propugna la encíclica debe atenerse a este principio y al de solidaridad para el logro del bien común. “El desarrollo integral de los pueblos y la colaboración internacional exigen el establecimiento de un grado superior de ordenamiento internacional de tipo subsidiario para el gobierno de la globalización” (67). 3.3 Principio de solidaridad La solidaridad es “en primer lugar que todos se sientan responsables de todos” (38). “En la época de la globalización, la actividad económica no puede prescindir de la gratuidad, que fomenta y extiende la solidaridad y la responsabilidad por la justicia y el bien común en sus diversas instancias y agentes” (38). “Sin formas internas de solidaridad y de confianza recíproca, el mercado no puede cumplir plenamente su propia función económica” (35). A propósito de los problemas energéticos “hay también una urgente necesidad moral de una renovada solidaridad, especialmente en las relaciones entre países en vías de desarrollo y países altamente industrializados” (49).

4. GRANDES NOVEDADES Y NUEVAS SOLUCIONES Las grandes novedades que presenta hoy el cuadro del desarrollo de los pueblos plantean en muchos casos la exigencia de nuevas soluciones (32). La crisis global que padecemos reviste gran complejidad. Ante todo, porque los mecanismos reguladores dejaron de actuar o empiezan ahora a asumir su responsabilidad. Todos, quien más quien menos, buscan arbitrar posibles soluciones ante la espiral de la pérdida de empleo y el adelgazamiento de los recursos. 4.1 Complejidad de la economía global La economía global constituye un muy complejo arreglo de cooperación entre personas que no se conocen ni necesitan conocerse y, sin embargo, se ayudan mutuamente. Su dimensión global nace del carácter mundial de los mercados financieros. Los capitales se mueven vía telemática de Oriente a Estados Unidos y a cualquier


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rincón planetario. La bolsa vivió días de esplendor. Hasta que, en un momento determinado, estalló la burbuja y el crédito al sector privado experimentó una fuerte contracción. ¿Consecuencia de la codicia? Puede ser una de las causas que se diversificaría en la avidez de consejos de administración, en mecanismos de promoción/defenestración de ejecutivos, en el afán consumista de los ciudadanos, las imprevisiones optimistas de gobiernos… El afán de ganancias, carburante del motor económico, no es malo en sí mismo. La cuestión radica en los límites. Se debe ganar sin cometer injusticia a nadie. Los grandes fraudes rompieron todos los esquemas. Madoff con sus 50.000 millones de dólares desaparecidos o la caída de Lehman Brothers abocaron la economía mundial al borde de un abismo. Existió, además, un fraude informacional. Existe siempre asimetría entre la información de que gozan los vendedores con respecto a los compradores. Los primeros, con información privilegiada y ávidos por conseguir bonus, ensalzaron cualidades de determinados productos y silenciaron sus defectos. Los calificadores de riesgos tampoco actuaron con honradez. Los engaños llevaron a la quiebra de muchas fortunas y de pequeños ahorradores. Punto denunciado por CV 65: “Los agentes financieros han de redescubrir el fundamento ético de su actividad para no abusar de aquellos instrumentos sofisticados con los que se podría traicionar a los ahorradores”. También es cierto que quien gana con engañarnos cuenta a menudo con que nosotros queramos dejarnos engañar, atraídos por el señuelo del dinero fácil. En esta crisis financiera hay probablemente más de imprudencia que de injusticia intencional. Las burbujas que han estallado en distintos mercados (de valores, inmobiliarios, materias primas…) fueron infladas por dinámicas competitivas. En el mundo de las finanzas resulta especialmente difícil/tentador ver a otros enriquecerse, sin desear de inmediato subirse al mismo tren. 4.2 ¿Quién debería haber velado por la economía global? A lo largo de la historia la creación de instituciones bastaba para garantizar a la humanidad el ejercicio del derecho al desarrollo. Se había generado una confianza desmedida. Hoy las instituciones, por sí solas, no bastan. La responsabilidad debe ser compartida por todos (cf.11). El apoyo a los países pobres debe ir encaminado a que sean ellos mismos los artífices idóneos para satisfacer sus necesidades de bienes de consumo y de desarrollo (cf. 27), los que han de tomar las decisiones relacionadas con la política alimentaria, por citar un ejemplo. Deben ser ellos quienes decidan qué y cómo producir, para no estar sometidos a la oscilación del mercado. Se ha puesto de relieve que “la sabi-


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duría y la prudencia aconsejan no proclamar apresuradamente la desaparición del Estado. Con relación a la solución de la crisis actual, su papel parece destinado a crecer, recuperando muchas competencias” (41). Hoy se habla de que la Unión Europea quiere limitar los excesos de directivos bancarios y los sueldos de muchos financieros y brokers. Las potencias mundiales, agrupadas en el G 20, han dibujado el camino hacia una economía global más fuerte y equilibrada (Pittsburg, 25.9.09): nuevos requisitos de capitalización para frenar el crecimiento de los “superbancos” y moderar las bonificaciones desorbitadas. La consagración del G 20 como gobierno económico mundial certifica el ascenso de países como China, India y Brasil. Y evidencia la pérdida de influencia de Estados Unidos, cuya hegemonía se tambalea, y Europa, cuya voz podría oírse con menos fuerza. Parece que todo ello sea un paso más hacia la reforma tanto de la ONU como de la arquitectura económica y financiera internacional (cf. 67). 4.3 En busca de soluciones globales La evolución de la crisis es una muestra de cómo acostumbran a reaccionar las autoridades en algunos países. Primero intentan negar o minimizar el problema, señalando su carácter limitado al mismo tiempo que subrayan la fortaleza de las entidades financieras nacionales. Promueven el optimismo desde el poder, buscando prolongar la prosperidad de bases muy frágiles, para convertirla en votos. A medida que la problemática crece, buscan soluciones ad hoc: permitir que cierre un banco, nacionalizar otros, promover fusiones entre ellos. Más adelante se aplican soluciones, primero parciales y limitadas; después generales y generosas. Y cuando se ha llegado al límite, se busca la colaboración internacional para conseguir una regulación financiera inteligente. Conviene reconocer que “no hay recetas universalmente válidas” (47). La DSI desde siempre, más allá de denunciar los posibles males, ha avanzado propuestas de índole antropológica y teológica. A nivel antropológico sitúa siempre el bien de las personas y de los grupos humanos en el centro. Advierte de las estructuras de pecado: el afán de ganancia excesiva y la sed de poder (SRS 36-37). Propugna valores de justicia, equidad, respeto, paz, uso moderado de los bienes para que nadie quede en la cuneta de los desahuciados. Se mueve con gran desenvoltura en el ámbito teológico. El hombre ha sido creado a imagen de Dios. Esta es la base de su dignidad. De todos los hombres y, de manera especial, de los pobres. Subraya con fuerza: La religión cristiana y las otras religiones pueden contribuir al desarrollo solamente si Dios tiene un lugar en la esfera pública, con específica referencia a la dimensión cultural, social, económica y, en particular, política. La doctrina social de la Iglesia ha nacido para reivindicar esa carta de ciudadanía de la religión cristiana (56).


Caritas in veritate y el desafío de la solidaridad global

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Para seguir la reflexión CV está contribuyendo a incentivar el debate en torno a la recesión más grave de la economía mundial. No deja que las cosas sigan su rumbo sino que aspira a encontrar nuevas vías para la economía en las que el sentido de responsabilidad sea más fuerte que la voluntad de lucro y la solidaridad venza al egoísmo. Obama, Nobel de la Paz 2009, cree que es hora de cambiar de estrategia, de abandonar la base de rescate de entidades e ir hacia la reconstrucción. El mercado libre tiene su razón de ser, pero los gobiernos han de estar para fijar las reglas de juego sin poner barreras a la creatividad o innovación. Lugar primordial en este programa de reformas lo debería ocupar la supresión de paraísos fiscales, punta del iceberg del sistema hoy en quiebra. Más allá de la regulación pública también hay que seguir con atención aquellos cambios en la cultura económica que se están promoviendo desde la sociedad civil. Destaca, en este apartado, la banca ética, como experiencia pionera a la hora de construir unas relaciones financieras fuera de los valores estrictamente capitalistas. La Iglesia, por su parte, ha de ser capaz de autocrítica y de aplicarse a sí misma la moral social cristiana. Debe superar la asignatura pendiente de crear iniciativas y acciones solidarias donde la pobreza y el dolor constituyen una vergüenza humana. Las comunidades cristianas, por su parte, han de manifestar su potencial de autodonación en la tradición moral del sermón del monte. Benedicto XVI ha expuesto su pensamiento en una encíclica muy extensa y diversa, con múltiples aportaciones. Nadie puede permanecer impasible ante su denuncia del sobredesarrollo científico-técnico y el paralelo subdesarrollo ético, social y político que provoca desigualdad, injusticia y violencia. Una encíclica, sin embargo, lastrada por cierta autocomplacencia y a la que le falta un análisis social más visible de las estructuras y pobrezas actuales. Ciertamente no hay respuestas válidas de una vez por todas. La Doctrina Social de la Iglesia participa de una dinámica que insta a encontrar soluciones nuevas a tiempos nuevos. El reto más decisivo es atender a la relación efectiva entre principios e historia. En sintonía con el magistral pensamiento de Pablo VI en su Carta apostólica Octogesima Adveniens (1971): Mientras que unos, inconscientes de las injusticias actuales se esfuerzan por mantener la situación establecida, otros se dejan seducir por ideologías revolucionarias, que les promete, con espejismo ilusorio, un mundo definitivamente mejor. Frente a situaciones tan diversas, nos es difícil pronunciar una palabra única, como también proponer una solución con valor universal. No es éste nuestro propósito ni tampoco nuestra misión. Incumbe a las comunidades cristianas analizar con objetividad la situación propia de su país, esclarecerla mediante la luz de la palabra inalterable del Evangelio, deducir principios de reflexión, normas de juicio y directrices de acción según las enseñanzas sociales de la Iglesia… (3-4).


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Lluís Diumenge

Para saber más AA.VV., Crisis global de la economía. Análisis de la coyuntura desde distintas perspectivas, Minerva, Madrid 2009, 315. FAGAN, Brian, El gran calentamiento, Gedisa, Madrid 2009, 350. FERGUSON, Niall, El triunfo del dinero, Debate, Barcelona 2009. GREENSPAN, Alan, La era de las turbulencias. Aventuras en un nuevo mundo, Ed. B, Barcelona 2008, 620. MAALOUF, Amin, El desajuste del mundo. Cuando nuestras civilizaciones se agotan, Alianza, Madrid 2009, 317. OBAMA, Barack, L’Audàcia de l’Esperança, Mina, Barcelona 2008. SKIDELSKY, Robert, El regreso de Keynes, Crítica, Barcelona 2009.


RivLas 77 (2010) 1, 68-72

CHIAROSCURI DI ANNA LUCCHIARI

Tempora e temporali

S

tamattina ho ascoltato le previsioni del tempo: una signorina raccontava che purtroppo avremmo avuto una giornata pessima caratterizzata da pioggia e vento dovunque, neve in alta montagna. Ad un certo punto, riferendosi alla contingenza, ha usato l’aggettivo ‘disperata’ perché, ha ribadito, non ci sarebbe stata tregua al maltempo. Ogni tanto noto con pignoleria la disinvoltura con cui gli aggettivi vengono usati: disperata è una situazione dalla quale non si hanno più speranze di uscire. Ma non è il caso delle contingenze climatiche, di per sé e per definizione, evolventi e per convenzione incastonate nelle quattro stagioni. Mi suona perciò almeno strano che in pieno novembre ci si meravigli o si gridi alla disperazione perché piove o c’è un grosso temporale. Nessuno ha mai potuto stringere patti particolari con Giove Pluvio: di novembre, dicembre e gennaio piove e fa freddo, a volte febbraio è gelido e traditore, a giugno luglio e agosto in genere fa caldo, però può sempre piovere, marzo è pazzerello e gli altri mesi sono sulla vena. Da sempre? Con alti e bassi, da sempre. Qualche mese fa ho letto con molto interesse gli episodi di influssi climatici sui grandi eventi storici scritti da Andrea e Mario Giuliacci. Non è facile prevedere il tempo, sapere in anticipo come evolverà una stagione e le condizioni di temperatura e di clima, sicuramente sono fattori di alto rischio in molte delle imprese umane. Anche oggi, con una tecnologia certamente avanzata, possiamo fare previsioni attendibili ad una settimana o giù di lì; possiamo anche fare una previsione di massima della settimana successiva, ma le uniche previsioni che sono veramente affidabili sono quelle a dodici o ventiquattr’ore. Lo sa chi va per mare, ad esempio, che l’affidabilità scema proporzionalmente all’ampiezza del periodo considerato. Mi viene in mente il metodo Dessy, così denominato da noi allievi in onore del nostro professore di fisica, che in merito alle previsioni del tempo soleva ripetere: «Il metodo migliore è mettere la sera, prima di andare a letto, un foglietto di carta sul davanzale della finestra. La mattina dopo, quando vi svegliate, andate a vedere. Se è asciutto è sereno, se è bagnato piove, se è volato via, tira bora».


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Anna Lucchiari

Il clima, scrive il colonnello, non è altro che una media delle condizioni meteorologiche osservate su una regione geografica attraverso un periodo di tempo di almeno una ventina d’anni (arco temporale veramente minimo se riferito al tempo geologico). Il clima insomma, non è altro che un dato statistico e, del dato statistico ha tutte le caratteristiche e quella principale è che non è un dato reale ma un dato ottenuto elaborando, con vari metodi, quelli reali. Nella introduzione al libro, viene citata la spedizione che Erik il rosso attorno all’anno Mille, organizzò per andare oltre oceano a cercare terre fertili da colonizzare. Approdando sulle rive della Groenlandia, vide una terra ricoperta da una rigogliosa vegetazione tanto che la battezzò, appunto “Terra verde” che tuttavia verde e rigogliosa non rimase per sempre, visto che poi si è trasformata in una terra arida, ostile e ricoperta di ghiacci per gran parte dell’anno. Ci sono fenomeni che modificano incessantemente il clima, come le correnti fredde e calde che si muovono attorno alle terre emerse, come le eruzioni vulcaniche che, non solo hanno distrutto varie civiltà, ma hanno anche prodotto pesanti variazioni climatiche. Non siamo in grado né di prevederle né di condizionarle, dobbiamo solo rassegnarci e provare in qualche modo a porvi rimedi. Proprio per questa sua imponderabile essenza di mostro in movimento e in agguato, il clima attira l’interesse al punto da riempire le pagine dei giornali con notizie che si propongono ogni volta come scoop: come dire non ce l’aspettavamo, guarda un po’ cosa ci tocca subire. Ma facciamo di meglio, vogliamo poter attribuire la colpa a qualcuno perché “trovare il colpevole”, ci assolve un po’ ed è quantomeno consolatorio. E allora si corre alla ricerca di cause “umane”, più o meno governabili, che certamente hanno contribuito da sempre a modificare le condizioni di una regione (penso alla deforestazione della Sicilia operata dagli antichi Romani) o a quella che operiamo noi in altre importantissime e vitali aree, ma che non è che lo starnuto di un passero davanti all’eruzione del Krakatoa o a quella di Santorini. Possono essere al massimo concause e dobbiamo certamente far di tutto per eliminarle, ma i grandi mutamenti climatici hanno cause che stanno dentro la nostra terra che sono scritte nella sua nascita, nei suoi aggiustamenti spesso violenti, nei cataclismi che l’hanno sconvolta mutando le condizioni di vita e anche i suoi abitanti. È novembre, piove, mi pare che ce lo possiamo aspettare, ma le prime pagine dei giornali riportano come una offesa che Giove Pluvio infligge alla nostra amata terra, il temporale stagionale che introduce l’inverno! E poi, se i giornali riportano pagine intere dedicate ad un acquazzone autunnale, che puntualmente si ripropone ogni anno, a che serve? Ad uscire con l’ombrello l’indomani? Dalla lettura del libro dei Giuliacci, ho tratto una certa conferma ad un sentimento che non è davvero consolatorio e con il quale dobbiamo far sempre i conti: l’uomo è una foglia in balìa del tempo e… del temporale! (Novembre 2009)


Chiaroscuri

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Politicamente scorretto?

M

i ha molto colpito la sentenza della Corte europea di Strasburgo che ha detto no al crocifisso appeso nelle aule scolastiche, ma non mi ha stupito più di tanto. La religione cristiana, fin dalle origini, è stata combattuta, proibita, perseguitata soprattutto per il potenziale rivoluzionario, rispetto ai tempi in cui sorse, che contenevano i suoi principi. Tra gli altri il “siamo tutti uguali davanti a Dio” che creava grandi problemi pratici alle società schiaviste minando l’ordine economico esistente, e l’ “ama il prossimo tuo come te stesso” che si sostituiva alla legge dell’ “occhio per occhio” che aveva sino allora governato le azioni umane. I nemici della religione appartengono ad ogni categoria: molti sono filosofi che vedono la religione solo come oppio per i popoli, una specie di favola che si racconta ad uomini bambini per tenerli buoni e dominarli più facilmente. Poi ad un certo punto, cosa che accade periodicamente, è sembrato di poter coniugare la modernità soltanto con il laicismo, con la negazione di qualunque dio. È andata avanti per molto tempo e i cristiani si sono quasi vergognati di esibire la propria fede ed appartenenza perché non era d’aiuto in alcuna situazione proclamarsi credenti. I nemici della religione sono sempre stati tanti. Lo sanno bene coloro che, come me, lavorano o hanno lavorato per le scuole cattoliche. Come ho avuto modo di dichiarare molte volte, ci è stata fatta una guerra che ha lasciato sul terreno morti e feriti, che ha decimato le scuole, le case religiose, che ha ridicolizzato quanti semplicemente si dichiaravano credenti considerandoli nel migliore dei casi degli innocui imbecilli. E questo è ancora talmente vero che il signor Almodovar, può permettersi di dichiarare davanti agli schermi televisivi che la Corte ha fatto bene perché per lui la croce è solo una icona Pop. E’ molto bello che oggi chiunque possa dire qualunque cosa, che possa esprimere la propria opinione, ma non che possa insultare. È molto bello che non vi siano tabù legati alla religione professata ma questo non significa che i simboli della nostra religione che ci portiamo dietro da duemila anni, vengano considerati oggetti démodés. La questione della Croce va combattuta con energia (mi verrebbe da dire: cristiani di tutto il mondo alzate la testa!) perché rischiamo di essere sopraffatti da un relativismo distruttivo, ma credo anche con una certa ironia perché va respinto un politically correct che è ormai un argomento da cabaret. Se la Croce non va esibita come ostentazione di appartenenza religiosa, che ne facciamo del velo islamico, delle statue del Buddha, delle braccia danzanti di Shiva? Ma non mi voglio infognare in una discussione che da credente non può che essere in difesa della nostra cultura religiosa millenaria, e di tutte le altre fedi che rispetto, vorrei solo qui porre una domanda che mi angoscia. Come la mettiamo


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Anna Lucchiari

per la datazione? La data sarà per questi della Corte suprema di Strasburgo il prossimo ostacolo da abbattere? Sì, perché noi datiamo il tempo dalla nascita di Cristo e non è che la datazione verrà prima o poi considerata politicamente scorretta? E se sì, quale sarà la data che si sceglierà per ripartire? Me ne viene in mente una che potrebbe indicare la modernità: quella della discesa sulla luna del primo astronauta. Potrebbe essere un’idea perché è stata davvero una impresa straordinaria. Certo gli astronauti non hanno fatto miracoli, non hanno trascinato le folle, non hanno dettato una morale che è scritta nel nostro animo con gli stessi caratteri di fuoco del decalogo, non hanno cercato di dare regole alle ‘umane bestie’. Ma alla Corte suprema di Strasburgo non credo questo importi molto, perché i membri che la compongono evidentemente hanno perduto il comune senso del pudore, il comune senso della morale, della giustizia, del dovere… “Comune senso” che non offre la consolazione di parametro fisso, di quantità misurabile, di valore determinabile, che non si vede e non si tocca ma che esiste e che nessuno può permettersi di offendere. Lo citano le nostre leggi e quelle della maggior parte dei paesi civili. Certo, penso che se spostassimo la datazione alla discesa del primo uomo sulla luna, un po’ mi dispiacerebbe perché io sarei nata “avanti Aldridge”, e mi sentirei proprio come avanti Cristo. Signori della Corte, magari sarete “avanti Aldrige” anche voi! Vi sembra il caso? (Dicembre 2009) Anna Lucchiari


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Le scuole tecniche e professionali lasalliane in Italia HENRI BÉDEL

SOMMARIO Introduzione Il primo Ottocento 1815-1861: 1. Istituzioni per la formazione pro-

fessionale nello Stato pontificio e nei ducati di Parma e Modena; 2. Iniziative in Piemonte per la formazione di giovani apprendisti o di adulti lavoratori; 3. Prime forme di insegnamento tecnico in una scuola lasalliana Il secondo Ottocento 1861-1900: 1. Istituzioni per l’istruzione tecnica; 2. Istituzioni a indirizzo professionale; 3. Formazione professionale nelle scuole serali Il primo Novecento 1900-1945: 1. Formazione professionale impartita in scuole specializzate; 2. Istituzioni scolastiche per la formazione professionale; 3. Istituzioni per la qualificazione professionale di giovani e adulti; 4. Istituzioni per l’insegnamento tecnico Il secondo Novecento 1945-2010: 1. Istituzioni specializzate nella formazione professionale; 2. Istituzioni per l’insegnamento professionale o tecnico; 3. Formazione professionale per giovani non scolarizzati o per adulti (corsi serali, Casa di carità Arti e mestieri) Conclusione.

Introduzione

I

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n un precedente articolo di questa Rivista , illustravo come fin dalle loro origini i Fratelli abbiano considerato la scuola come preparazione al futuro profes2 sionale dei loro alunni. Questa considerazione, da cui parte anche la presente esposizione, è la stessa posta in evidenza nella sua tesi di laurea da F. Marco Tottoli quando scrive, a proposito di Jean-Baptiste de La Salle, che «il costante contatto

H. Bédel, I Fratelli delle scuole cristiane e l’insegnamento tecnico in Francia, Rivista lasalliana 74 (2007) 1, 27-50. 2 È anche un aspetto posto in evidenza con particolare efficacia da Léon Lauraire, FSC: Cahier lasallien 42, Roma 2006, cap. 4. 1


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Henri Bédel

con i figli degli operai matura il lui una convinzione che sarà come l’intuizione centrale della sua opera pedagogica. È in questa condizione che gli è più facile capire come la miseria, in massima parte, sia dovuta al fatto che i poveri non hanno un 3 vero mestiere, e non l’hanno a causa della loro ignoranza». È una disamina da cui l’autore trae due conseguenze a riguardo dei principi pedagogici ai quali si attenevano le ‘scuole cristiane’ (nome col quale il Fondatore dei Fratelli voleva che fossero designate quelle in cui operavano i suoi religiosi): «a) mestiere è una parola chiave della sua pedagogia. L’istruzione dovrà avere qualche rapporto con il mestiere futuro. Questo conduce a concepire e realizzare un insegnamento pratico, cioè che prepara l’avvenire. Ora, l’avvenire di un operaio non può essere pensato che in termini di mestiere. Scopo quindi della scuola è di insegnare e di preparare à bien vivre; b) l’insegnamento teorico dev’essere corredato da esercizi pratici. Prendendo in considerazione l’avvenire degli allievi e più precisamente il mestiere, nella scuola saranno proposti degli esercizi in stretta connessione con la vita pratica. Nella Guida delle scuole troviamo una ricchezza di esempi e di consigli in ordine a que4 sto punto» . Nel precedente articolo si è detto in che modo i Fratelli si mantennero costantemente fedeli nelle loro scuole in Francia a questi principi, introdotti in Italia fin dal 1702 – anno in cui il La Salle inviò a Roma due Fratelli –, ma soprattutto dal 1709, quando a F. Gabriele Drolin, rimasto solo, fu affidata la direzione di una ‘scuola del Papa’. Fu l’impostazione che caratterizzò innanzitutto quell’istituzione nelle varie sedi in cui si trovò a operare nel corso del Settecento, poi la scuola che nel 1793 papa Pio VI affidò ai Fratelli nel quartiere di San Salvatore in Lauro e successivamente quelle di Ferrara (1741) e di Orvieto (1795). Si tratta della stessa impostazione di metodo e di didattica che le scuole dei Fratelli adotteranno nell’Ottocento e nel Novecento, nello Stato pontificio prima, in seguito in Piemonte e in altre regioni d’Italia. È un aspetto al quale si farà ancora riferimento, anche se non verrà approfondito ulteriormente. Il La Salle voleva che i Fratelli avessero questa concezione fondamentale della loro azione educativa; e se diede vita a varie istituzioni assai diversificate, il suo scopo fu sempre quello di preparare i giovani alla loro futura professione. È una caratteri5 stica che F. Secondino Scaglione ha posto compiutamente in luce su questa rivista. Vari paragrafi del saggio aiutano a capire sotto quale forma si possono riconoscere in quelle realizzazioni i principi fondanti della formazione professionale o dell’inse-

Marco Tottoli, FSC, Ricerca sull’attività dei Fratelli delle scuole cristiane nell’ambito dell’istruzione tecnica, specialmente in Piemonte, 1750-1861. Tesi di laurea, Università di Torino, 1967-68, p. 21. 4 Ibid., p. 23. 5 S. Scaglione, Gli albori dell’istituzione tecnica lasalliana, Rivista lasalliana 45 (1978) 1, 3-18. 3


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gnamento tecnico. Alcune delle osservazioni espresse nel primo capitolo – L’istruzione tecnica professionale – chiariscono gli scopi del saggio, che coincidono con quelli fin qui esposti. L’articolo prende poi in esame il Pensionato che, per rispondere a un desiderio espresso da Luigi XIV, il La Salle aperse per i figli degli ufficiali irlandesi al seguito di re Giacomo II d’Inghilterra, esiliato in Francia. Lo scopo di questa creazione, secondo l’autore, “fa supporre un nutrito programma scolasticoeducativo atto a prepararli, in breve tempo, ai compiti della vita professionale”. Trattando poi dell’Académie Chrétienne creata dal La Salle nel 1799 per soddisfare la richiesta del parroco di Saint-Sulpice, Scaglione precisa che “si tratta di un gruppo di giovani operai carenti di alfabetizzazione, cui il lavoro e la povertà dei genitori ha impedito di usufruire dell’istruzione primaria di base. Ad altro gruppo sono impartiti corsi di aritmetica e di contabilità; ad un altro ancora nozioni di geometria, di disegno e di architettura”. Presentando le scuole di Saint-Yon, lo stesso autore nota: “L’interpretazione costante delle necessità e delle interpellanze del suo tempo lo rende creativo e fa progredire le sue istituzioni, senza uscire dall’ambito della scuola e della cultura tecnico-professionale, in alternativa alla forma di istituzione classico-umanistica esclusivamente destinata all’alta borghesia e ai ceti elevati”. Scaglione ha trattato in seguito più a lungo di queste due ultime realizzazioni su questa rivista in occasione del Terzo centenario della fondazione della Scuola domeni6 cale del La Salle e in un articolo su Saint-Yon intitolato Formazione tecnica di 7 avanguardia nell’esperienza lasalliana. Gli accenni che qui proponiamo fanno capire in che modo queste creazioni prefigurano quelle che i Fratelli realizzeranno a suo tempo in Italia nei campi della formazione professionale e dell’istruzione tecnica. A proposito dei giovani Irlandesi allievi dei Fratelli a Saint-Yon, va notato che, sebbene fossero di famiglia aristocratica, vivevano in Francia da proscritti, con i sussidi economici loro concessi da Luigi XIV. Chi di loro non avesse intrapreso la carriera militare avrebbe dovuto dedicarsi a un’occupazione non necessariamente corrispondente al suo ceto sociale. La funzione svolta dai Fratelli fa dunque pensare a quella che tantissimi di loro esercitarono a favore degli orfani, dei fanciulli delle categorie più povere, dei figli dei carcerati, nelle istituzioni loro affidate nell’OttoNovecento, dove, com’è noto, gli assistiti ricevevano una formazione professionale. L’Académie Chrétienne, creata per dar modo ai giovani operai di acquisire o di ampliare le conoscenze che sarebbero loro servite nel lavoro, è stata sotto certi aspetti il prototipo delle scuole domenicali e più ancora di quelle serali che i Fratelli aprirono, fin dal loro arrivo in Piemonte e successivamente in varie altre istituzio-

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Rivista lasalliana 66 (1999) 3, 148-157. Rivista lasalliana 70 (2003) 1, 21-36.


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ni, per gli allievi che avevano terminato i corsi scolastici o per altri ai quali occorreva dare una qualifica professionale. Lo stesso avvenne per i corsi pomeridiani aperti ai ragazzi che, dopo la licenza elementare, non potevano ancora inserirsi nel mondo del lavoro. L’istituzione di Saint-Yon, per l’estrazione sociale dei giovani che accoglieva e il tipo di formazione che dava loro, anticipò quelle che i Fratelli avrebbero istituite nell’Otto-Novecento, dove vi si impartiva un insegnamento tecnico a giovani la cui condizione sociale risultava assai simile a quella dei pensionnaires libres di Saint-Yon. Trattando delle istituzioni lasalliane in Italia, va introdotta una distinzione tra quelle dell’Ottocento e quelle del Novecento (e dei primi anni di questo secolo) per porre 8 in luce le diverse modalità con cui sono realizzati la formazione professionale o l’insegnamento tecnico. Non lo potrò fare applicando i criteri omogenei e generalizzati che mi è stato possibile usare per le istituzioni francesi, ma non mancherò, evidenziando le diverse tipologie, di raccogliere sotto lo stesso titolo quelle che presentano caratteri comuni.

L’Ottocento Prima di affrontare l’oggetto della trattazione, occorre ricordare una circostanza storica che riguarda i Fratelli allora operanti in Italia: l’influenza francese su molti Stati italiani, che ha caratterizzato il periodo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Alla fine del Settecento i Fratelli che si trovavano in Italia erano sfuggiti agli eccessi della Rivoluzione francese, ma ne avevano subìto diverse conseguenze. Negli anni 1791-92, alcuni Fratelli francesi in esilio avevano trovato ospitalità presso i loro confratelli di Roma o di Ferrara. Poiché non si avevano notizie del loro superiore generale fr. Agathon, nel 1795 papa Pio VI aveva nominato vicario generale della congregazione fr. Frumence (Jean-Baptiste Herbet), direttore della scuola di San Salvatore in Lauro in Roma. Se la calata dell’esercito francese nell’Italia del Nord (1796) non recò danni all’istituzione di Ferrara, la conquista di Roma (1798) obbligò invece i Fratelli a fuggire dalla città e ad abbandonare le loro scuole, che rimasero temporaneamente chiuse. Nel 1804 fr. Frumence fece ritorno in Francia per

L’espressione formazione professionale qui usata è più ampia di quella di insegnamento professionale adottata nel mio articolo precedente, ma la comprende. Come si vedrà, in Italia il contributo dei Fratelli in questo settore è andato oltre tale definizione in senso stretto. La distinzione che sarà operata tra formazione professionale e insegnamento tecnico si fonda soprattutto sul fatto che nel primo caso si trattava di una formazione di carattere eminentemente pratico, destinato a giovanissimi chiamati a entrare nel mondo del lavoro come operai al termine dell’apprendistato o che lavoravano già al fianco di operai adulti. Nel secondo caso si tratta di formazione soprattutto teorica, com’è dimostrato dai programmi di studio proposti a diversi livelli, mirata a preparare quelli che oggi definiremmo i ‘quadri’.

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raggiungere i Fratelli che si erano radunati a Lione, fidando nella protezione che Napoleone aveva assicurato all’Istituto. A Roma, invece, già all’indomani dell’annessione della città all’impero (1808), si erano create tensioni tra i Fratelli e l’amministrazione napoleonica. La delicata situazione in cui vennero a trovarsi i Fratelli italiani è sufficiente a spiegare il motivo per cui nessuno di loro partecipò al Capitolo generale che nel 1810 elesse superiore della congregazione fr. Gerbaud (Sébastien Thomas). Pare che il nuovo superiore trovasse difficoltà a capire la situazione in cui si trovavano i Fratelli in Italia e perciò non oppose grandi difficoltà alla chiusura della casa di Ferrara nel 1811. I Fratelli italiani potevano però contare sulla presenza di fr. Guillaume de Jésus (François Marre), che nel 1804 era diventato vicario generale. Rientrato in Francia nel 1813, fu nominato assistente nel 1816 e infine eletto superiore generale nel 1822. Nell’esposizione dei fatti, l’Ottocento sarà diviso in due periodi: il primo compreso tra il 1815 e il 1861, l’altro si concluderà con l’inizio del Novecento.

Il primo Ottocento 1815-1861 Il Congresso di Vienna (1815) seguito alla caduta di Napoleone, riportò in Italia la divisione in numerosi staterelli. È l’epoca che fu detta della Restaurazione dai sovrani ritornati sul trono e che nella storia d’Italia precede quella del Risorgimento. In questo periodo l’azione dei Fratelli nei campi della formazione professionale e dell’insegnamento tecnico presenta tre forme differenti, a seconda delle situazioni. 1. Istituzioni per la formazione professionale nello Stato pontificio e nei Ducati di Parma e Modena I documenti che è possibile consultare al riguardo rivelano che una delle caratteristiche di questo gruppo di istituzioni è la direzione affidata ai Fratelli di molti orfanotrofi in cui veniva impartita una formazione professionale. Quest’indirizzo riguardò soprattutto lo Stato della Chiesa, ma era frequente anche nei Ducati citati. Stato pontificio. Presenti dall’inizio del ‘700, i Fratelli continuarono la loro opera nelle due scuole di Roma e in quella di Orvieto (presso la quale venne aperto un noviziato nel 1795); e furono chiamati ad aprire una scuola a Bolsena (1717) e una a Spoleto (1825). Leone XII si accordò con il re di Francia Carlo X affinché nell’antico convento dei Minimi a Trinità dei Monti svolgessero insieme la loro specifica attività Francescani e Fratelli delle scuole cristiane di nazionalità francese. Nel 1828 altri Fratelli provenienti dalla Francia si stabilirono nella parrocchia di santa Maria ai Monti, nei pressi di Santa Maria Maggiore, dove l’anno dopo aprirono una scuola. Tutto ciò fece sì che a Roma coesistessero due gruppi di Fratelli, il primo posto sotto la responsabilità del Vicario generale, l’altro alle dirette dipendenze del Supe-


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riore generale per l’interposta persona del Fratello procuratore generale, che rappresentava l’Istituto presso il Sommo Pontefice. Come in Francia, i Fratelli in Italia consideravano l’insegnamento impartito agli allievi un mezzo per dar loro una preparazione professionale. Ad esempio, già ai suoi inizi, nel 1793, la scuola di San Salvatore in Lauro alle tre classi di istruzione elementare ne aggiunse una con il corso di disegno tecnico. All’indomani della Restaurazione i Fratelli furono chiamati ad aprire diverse case nello Stato pontificio, fra cui numerosi orfanotrofi. Se ne può ricostruire il funzionamento grazie a un registro manoscritto: il Prospetto generale dell’Istituto delle Scuole Cristiane n° 5. Descrizione degli stabilimenti esistiti nello Stato Pontificio fatta nel 1784, conservato negli archivi dell’ex-Provincia religiosa di Roma. Queste istituzioni, considerate opere di carità, accoglievano fanciulli orfani o appartenenti a famiglie povere. Occorre però arrivare al 1835 per aver menzione di un’istituzione del genere interamente gestita dai Fratelli a Roma. Si tratta dell’orfanotrofio S. Maria degli Angeli (il nome è lo stesso della chiesa vicino a cui si trovava) con l’aggiunta dei Termini, perché la chiesa sorgeva nell’area delle antiche Terme di Diocleziano. L’orfanotrofio, fondato da Gregorio XVI, era mal gestito; fu perciò chiesto ai Fratelli di subentrare nella gestione. Nonostante l’invito alla prudenza formulato dal superiore generale del tempo, fr. Anaclet (Claude-Louis Constantin), fr. Pio di Santa Maria (Luigi Ribotti) accettò l’incarico che veniva direttamente dal papa. Negli 9 archivi della Casa generalizia una scheda in francese offre particolari che non si trovano nel Prospetto citato sopra. Vi si legge: In questa istituzione sono accolti fanciulli poveri, che sono nutriti, accuditi, istruiti e ai quali, quando raggiungono l’età giusta, viene insegnato un mestiere. Funzionano due classi per i più piccoli, che ancora non lavorano, e cinque per gli altri, fuori orario di lavoro. L’opera ha avuto inizio con 18 Fratelli ai quali era corrisposta una pensione annuale di 100 scudi. Il loro numero, cresciuto con l’arrivo di altri due, non retribuiti, è tuttavia inadeguato al servizio richiesto; tre Fratelli sono alloggiati in una dipendenza dell’istituzione, detta Infermeria, mal dislocata, perché ha sopra di sé una casa di correzione e sotto un ospedale, quello dei Galeriani.

L’orfanotrofio fu affidato alla comunità dei Fratelli di S. Maria ai Monti. L’energico direttore, fr. Hervé de la Croix (Jean-Baptiste del la Haye), riuscì in breve tempo ad assicurarne l’efficienza, ma il precedente responsabile dell’istituzione intrigò per ottenere la sostituzione di fr. Hervé con fr. Pio. Quest’ultimo si prestò all’operazione e assunse la direzione dell’orfanotrofio nell’aprile del 1835, conservando la carica di Vicario generale. Senza scendere a particolari, si può dire che quel cambiamento avvenne a causa del malinteso esistente tra il Superiore generale dei Fratelli e il Papa. Il chiarimento si ebbe nel 1836, quando fr. Anaclet nominò vicario generale

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Collocazione ND 469/1.


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fr. Giuseppe Maria (Giuseppe Padovani) sostituendolo a fr. Pio, che continuò a dirigere l’orfanotrofio fino al 1839. Il suo successore, fr. Gioacchino (Francesco Angeloni) dovette far fronte a nuove difficoltà e, nonostante l’intervento di fr. Pio (di nuovo nominato vicario generale), i Fratelli furono costretti a ritirarsi nel 1848. In conseguenza di questi fatti il Papa chiese al Superiore generale di nominare un Visitatore speciale per il controllo delle opere affidate ai Fratelli nello Stato pontificio. 10 L’incarico toccò a fr. Leufroy, che lo svolse nel corso del 1850. A cominciare dal 1840 i Fratelli diressero diversi orfanotrofi. Così avvenne a Senigallia, dove nel 1840 quattro Fratelli ne aprirono uno intitolato a S. Gaetano; vi furono accolti prima 30, poi 40 e infine 50 orfani. A Loreto il vescovo locale volle affidare ai Fratelli un’istituzione del genere. Ai 400 scudi necessari per il mantenimento dei Fratelli la municipalità ne aggiunse 150 per far sì che anche i fanciulli della città ricevessero un’istruzione nella stessa sede. La casa venne aperta nell’ottobre del 1843, la scuola prese a funzionare, per 132 allie11 vi, il 5 novembre. Stando al Registro è ancora nelle Marche, ad Ancona, che il Comune ‘in piena intelligenza’ con il cardinale-vescovo, aperse un orfanotrofio, la Casa di Ricovero ed Industria. Degli orfani (32 all’inizio, 36 in seguito) si prendevano cura cinque Fratelli, mentre un altro dirigeva la scuola pubblica con 60 allievi. A Roma, a proposito dell’orfanotrofio dei Termini sopra citato, è detto che la preparazione riguardava le arti di sarto, calzolaio, falegname, bassa scultura, scalpellino, condotte in laboratori nei quali i ragazzi erano posti sotto la guida di artigiani specializzati. Per altri orfanotrofi non si parla di attività del genere, ma si può pensare che i minori ricoverati fossero ugualmente iniziati a diversi mestieri, eccettuato il caso che svolgessero già il loro apprendistato nelle botteghe di artigiani locali, come capitava per alcuni orfani dei Termini. Quantunque non si trattasse di un orfanotrofio, si può aggiungere che a Benevento, allora appartenente allo Stato pontificio, nel 1834 una scuola diretta dai Fratelli funzionava nell’antica abbazia di Santa Sofia “per la civile e religiosa educazione dei 12 fanciulli di povera condizione” . In quella sede nel 1852 la Congregazione “aprì e diresse gratuitamente un scuola di disegno e di figura la quale prospera fino al 1860. Questa scuola ha dato al paese dei valenti disegnatori e ha preparato molti alla pittura, alla scultura e alla litografia”. L’Impresa dei Mille, che pose fine al dominio pontificio su Benevento (1861), causò la chiusura di quella scuola di dise-

Cf. Études lasalliennes 9, XIXè siècle, 90. In questo Registro è menzionata anche Forlì, dove, dal 1859, nei locali di un orfanotrofio intitolato a s. Francesco Regis, i Fratelli dirigevano due ‘scuole pubbliche (due classi). Non ci sono elementi per affermare che si occupassero di orfani. Un’annotazione riguarda anche Vercelli dove i Fratelli avrebbero diretto un orfanotrofio (altre fonti dicono però che si trattò semplicemente dell’uso temporaneo dei locali di un orfanotrofio per attività scolastica). 12 Cenni storici della Canonica di Santa Sofia in Benevento. 10 11


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gno. I Fratelli e le suore dediti all’insegnamento non furono però obbligati ad andarsene, come avvenne per altre famiglie religiose maschili e femminili. Ducati di Parma e Modena. In questi ducati, ripristinati dal Congresso di Vienna, i principi regnanti si mostrarono favorevoli ai Fratelli. Presenti a Parma dal 1836 e a Piacenza dal 1843, i Fratelli si videro affidata a Parma, nel 1852, la Scuola della Provvidenza. Un regolamento definito in quell’anno, stabilisce (art. 1) che l’istituzione “è destinata a ricevere i fanciulli indigenti e ha per iscopo principale la buona educazione morale e religiosa dei giovanetti e l’apprendimento di un’arte o di un 13 mestiere’ . I tre Fratelli incaricati della scuola abitavano nell’edificio annesso ad un’altra loro istituzione in città. A Reggio Emilia, nel ducato di Modena, un orfanotrofio chiuso nel 1838 era stato riaperto nel 1852 dai Fratelli, che vi accoglievano anche esterni. Stando a una sche14 da d’archivio , nel 1859 ospitava 120 orfani, gratuiti o paganti una retta di 30 franchi mensili, e 150 esterni. Una nota precisa che 20 tra gli orfani più grandi imparavano un mestiere nei laboratori aperti a questo scopo nello stesso edificio. Un regolamento del 1852 stabilisce: (art. 13) L’istruzione degli Orfani nelle arti e mestieri comincia […] al compiere dell’età di dodici anni - (art. 14). Il termine dell’alunna15 to è fissato in massima al compiere dell’età di diciotto anni’. Fr. Hervé de la Croix, direttore dell’istituzione dal 1854, sarà posto a capo di una nuova Provincia dell’Isti16 tuto costituita dalle case esistenti nei due ducati. Nello Stato pontificio come nei ducati di Parma e Modena erano numerose in quel periodo le istituzioni d’orientamento professionale che accoglievano orfani o figli di famiglie povere. La formazione professionale che vi si impartiva riguardava i più piccoli ed era essenzialmente manuale. Anche quando si svolgeva nell’istituzione, prevedeva un tirocinio sotto un artigiano. Non si trattava quindi di un insegnamento professionale definito dalle autorità scolastiche. Pur non fornendolo direttamente, i Fratelli agevolavano l’insegnamento assistendo gli orfani mentre veniva loro impartito, assicurando una presenza educativa nel resto della giornata. 2. Iniziative in Piemonte per la formazione di giovani apprendisti o di adulti lavoratori Il Regno di Sardegna comprendeva nella sua parte continentale il Piemonte e la

13 Historique de la Maison de Parma. Decreto per il quale è approvato il Regolamento per la Casa della Provvidenza di Parma, AMG ND 458/1. 14 Archivio FSC Roma, AMG ND 463. 15 Archivio FSC Torino. 16 Un comitato convocato dal Superiore generale nel 1834 al fine di revisionare la Conduite des Écoles aveva deciso che quando in uno Stato al di fuori della Francia si contassero almeno 4 istituzioni, si formasse una provincia con a capo il direttore di una di esse, nominato direttore provinciale.


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Savoia. I Fratelli erano già presenti in quest’ultima provincia, a Chambéry, dal 1810. Intenzionato a estendere la scolarizzazione in Piemonte, il re Carlo Felice, con lettere patenti nel 1822, istituì le scuole comunali. Per rendere applicativa a Torino la legge, chiese alla dirigenza di un’opera di carità fondata nel 1743 – la Regia opera della mendicità istruita (ROMI) – di affidare ai Fratelli delle Scuole cristiane le scuole elementari maschili da essa dipendenti. e alle Suore di S. Giuseppe di Chambéry quelle femminili. Un progetto della ROMI che riguardava i Fratelli ottenne l’approvazione regia nel 1824, ma per una serie di ritardi essi non arrivarono che nel 1829, e dovettero aspettare il 1830 per poter trovare la sistemazione in un immobile della Regia Opera. sito nei pressi della chiesa di Santa Pelagia. Di là alcuni di loro si recavano a lavorare in altre due scuole dipendenti dall’Opera. Dal 1833 anche tutte le altre scuole elementari maschili di Torino vennero affidate ai Fratelli. In anni successivi vari altri comuni del Piemonte chiesero loro di dirigere le scuole maschili. Nel periodo in cui i Fratelli vi si stabilirono, Torino si stava estendendo. Non aveva ancora le caratteristiche della città industriale, ma vi erano presenti numerose attività artigianali. Sebbene, come di solito, i Fratelli impostassero il loro insegnamento in vista del futuro professionale degli allievi, non tardarono a preoccuparsi di offrire una formazione professionale a giovani apprendisti e ad adulti lavoratori. La scuola domenicale. La ROMI, creata per aiutare concretamente i poveri, verso la fine del Settecento aveva come principale scopo quello di insegnare ai figli delle famiglie povere “ad apprendere un mestiere ed a studiare” (Rocchietta, p. 10). Lo fece innanzitutto occupandosi di apprendisti che furono sottoposti a quattro anni di tirocinio. A loro si chiedeva specificamente di frequentare una scuola domenicale, dove veniva loro insegnato il catechismo e a leggere e scrivere. Nel 1790 era stata aperta una scuola elementare nei pressi della chiesa di S. Pelagia. Quando nel 1830 i Fratelli ne presero la direzione, ricevettero dalla ROMI anche l’incarico della scuola domenicale. Il progetto elaborato dai Fratelli e approvato dalla direzione della Regia Opera l’11 aprile 1831 prevedeva “di potervi ammettere chiunque avesse compiuto dodici anni, avesse già ricevuto il sacramento della Comunione e frequentato, per almeno 17 tre anni, le scuole diurne” . L’orario andava dalle 7,30 alle 10 e dalle 13 alle 15 pomeridiane, ora in cui una lezione di catechismo si concludeva con la benedizione eucaristica. Nel 1846, per fare un esempio, questa scuola domenicale , che funzionò fino al 1861, era frequentata da 52 ragazzi: “Fu la prima esperienza scolastica per gli adulti, lavoratori che sapevano già leggere, scrivere e far di conto; si insegnavano disegno tecnico e contabilità, materie utili per il lavoro e per dar loro l’opportunità di affrontare i cambiamenti socio-economici che si stavano verificando in Piemonte”.

S. Viansone, La presenza dei Fratelli delle scuole cristiane in Piemonte dal 1829 a oggi: l’istruzione secondaria. Tesi di laurea, Torino 2001-2002. Citazioni a p.23. 17


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La scuola serale. La creazione di una scuola serale nasce dalla volontà di estendere a giovani e adulti in modo più consistente le possibilità offerte dalla scuola domenicale. Il fr. Hervé de la Croix, provinciale dei Fratelli in Piemonte, che conosceva l’esistenza di questo tipo di insegnamento in Francia, volle che ne traesse vantaggio anche il suo Paese d’adozione. A questo scopo, scrisse al direttore della ROMI proponendogli di estendere l’azione educativa dei Fratelli con la creazione a Torino una 18 Scuola notturna . Per ospitarla occorreva costruire altri locali a Santa Pelagia, nei quali avrebbe trovato posto e possibilità d’espansione anche il noviziato dei Fratelli. Considerato che a Torino non esistevano corsi del genere, la proposta risultava di grande interesse. Il 3 luglio 1845 la ROMI approvava l’iniziativa e decideva di sottoporla all’approvazione del re. Essa fu concessa e comunicata al presidente dell’Opera il 22 dello stesso mese. Il 3 dicembre la Gazzetta del Piemonte pubblicò in prima pagina il testo del manifesto che la Regia Opera aveva fatto stampare e affiggere per annunciare l’apertura della scuola. Il 1° gennaio 1846 cominciò nell’istituzione che i Fratelli avevano in contrada delle Rosine, ossia a Santa Pelagia, la prima scuola serale di Torino – e forse d’Italia – per artigiani e operai. La scuola esordì con 3 classi e 150 allievi. Con i nuovi locali, aperti nell’ottobre 1846, le classi arrivarono a 8 con 480 allievi; nell’ottobre del 1850 le domande d’ammissione salirono a circa 700. A queste 8 classi se ne aggiunsero 10 in altre scuole comunali di Torino affidate ai Fratelli, che aprirono in Piemonte altre scuole dello stesso tipo. Nella seconda parte della lettera del maggio 1845 fr. Hervé de la Croix specificava che nei corsi serali «l’insegnamento consiste: 1. nella lettura; 2. nella calligrafia; 3. nella grammatica e composizione italiana; 4. nell’aritmetica; 5. nella geometria applicata al disegno lineare ed anche ornato; 7. nella tenuta dei libri commerciali a 19 partita semplice e a partita doppia». Questi insegnamenti erano impartiti in classi disposte gerarchicamente secondo il grado di preparazione degli allievi (Rocchietta, pp. 119-120). Anche se il tempo previsto per le lezioni della sera si limitava a due ore nei giorni feriali, c’era modo di porre solide basi alla formazione. In questo contesto storico occorre dare uno speciale rilievo al ‘sistema decimale dei pesi e delle misure’. L’11 dicembre 1845 fu stabilito che l’uso di tale sistema di misura diventasse obbligatorio nel Regno sardo a partire dal 18 febbraio 1850. I Fratelli, che già ne erano stati i diffusori nelle loro scuole diurne, lo applicarono anche in quelle serali. La pubbli20 ca autorità scolastica si rivolse a loro per divulgarne la conoscenza a vari livelli.

I corsi aperti a fine giornata erano indifferentemente dette serali o notturni. La parola scuola era spesso usata in quel tempo per designare quella che noi oggi chiamiamo corso. 19 Archivio ROMI, lettera citata da Tottoli, p.130. 20 Rivista lasalliana, 1995, 2. 18


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L’Albergo di Virtù. Alcune persone caritatevoli avevano fatto ristrutturare nei pressi della scuola di Santa Pelagia un vecchio edificio per accogliervi ragazzi, occupati soprattutto nella tessitura di stoffe, in vista di avviarli a un lavoro. Un accordo fu firmato il 1° maggio 1846 tra il responsabile di quell’attività e il fr. Hervé de la Croix, che si obbliga a destinarvi continuamente tre Maestri per assicurare ai giovani apprendisti un’ora e un quarto di scuola nei giorni feriali e un’ora e mezzo di catechismo la domenica e nelle altre feste dell’anno. A seconda delle stagioni, il tempo era collocato al mattino, a mezzogiorno o la sera dopo il lavoro. Qualche modifica fu introdotta nel1853 d’intesa fra il fr. Théoger, allora provinciale dei Fra21 telli, e il rettore dell’Albergo. 3. Prime forme d’insegnamento tecnico in una scuola lasalliana Nel corso di questa prima parte dell’Ottocento i pionieri delle varie forme di istruzione destinate a giovanissimi che vivevano in situazioni difficili si preoccupavano di prepararli a un mestiere. Anche un certo numero di responsabili di istituzioni scolastiche, consapevoli delle profonde trasformazioni sociali, avevano a cuore la formazione professionale degli operai. Di qui ebbero origine i corsi serali e domenicali, che tuttavia non si tradussero in un insegnamento professionale propriamente scolastico, anche se – almeno per ciò che riguardava il Piemonte – la necessità di una cultura allargata a ogni strato della popolazione era molto sentita’ (Tottoli, 143). In quest’ottica la legge Boncompagni del 1848 prevedeva, a livello di istruzione secondaria e a fianco dei corsi d’insegnamento classico che davano accesso all’università, una scuola speciale che preparasse all’esercizio delle professioni per le quali non è destinato alcuno speciale insegnamento nell’università (Di Pol, 78). In applicazione, la legge prevedeva la creazione di Collegi-convitti nazionali a Torino, Genova, Nizza, presso i quali fosse aperto, a titolo sperimentale, un corso speciale. La durata di 5 anni di questi corsi fu giudicata troppo lunga dal ministero Lanza che nel 1856 dispose di dividere il corso speciale in due periodi, l’uno triennale, l’altro biennale.’ (Verri, 25). La legge Casati del 1859 nel Titolo IV regola l’istruzione tecnica. La scuola speciale cambia nome: Scuola tecnica per il corso inferiore e Istituto tecnico per quello superiore. Dal canto loro i Fratelli, in un settore della loro istituzione di Santa Pelagia, intitolato a San Primitivo, avevano già dato vita nel 1847 a un Corso commerciale di 4 22 anni. Altrettanto fecero nella scuola comunale di Santa Barbara. Il programma di questi corsi era del tutto simile a quello stabilito nel 1856 per la Scuola speciale prevista dalla legge Boncompagni. Il 12 ottobre 1853 fr. Théoger (Joseph Buchalet), Provinciale per il Piemonte, si

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Archivio FSC di Torino. C. Verri, I Fratelli delle scuole cristiane e la storia della scuola in Piemonte, p 138.


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rivolse al Direttore della ROMI per sollecitarne il consenso e il contributo allo scopo di stabilire in Torino un Collegio, ossia un Convitto tecnico commerciale ad imitazione dei numerosi istituti che il loro Istituto possiede in Francia (Tottoli, 160). Il 17 novembre fr. Théoger indirizzava un’analoga richiesta al Provveditore regionale degli Studi di Torino. L’autorizzazione, arrivata il 24 novembre 1853, consentiva l’apertura del convitto per l’istruzione primaria tecnica e commerciale (Viansone, 45). Fu così possibile aprire dal1854-55 un corso speciale di 5 anni, un corso commerciale di 3 anni, un corso preparatorio all’Accademia militare di 2 anni, un corso preparatorio alla Scuola di marina di 2 anni, un corso di 3 anni per gli allievi destinati alla professione di ‘misuratore’ (oggi geometri). Questi corsi definiti ‘primari’ avevano programmi ancora lontani da quelli delle future scuole secondarie tecniche. Il 14 giugno 1854 i Fratelli ottennero il riconoscimento di Scuola tecnica del Regno Sabaudo per tutti i corsi tecnici del Collegio S. Primitivo’ (Viansone, 46-48). Nel 1857 i Fratelli aprirono in via dell’Arsenale un semiconvitto in cui venivano impartiti alcuni insegnamenti simili a quelli di cui si è detto poco sopra. A conclusione di questo paragrafo condivido l’osservazione della Viansone: «I Fratelli, sempre attenti all’evolversi della società, ritennero utile offrire un’istruzione più adeguata a quei ceti che stavano emergendo. Era necessario mettere in grado gli artigiani ed i proprietari di piccole botteghe di gestire autonomamente il proprio lavoro. Essi non volevano che i propri figli sapessero soltanto leggere e scrivere, ma volevano che fossero loro insegnate le materie utili per il lavoro futuro». (Viansone, 46)

Il secondo Ottocento 1861-1900 Mentre nel precedente periodo i Fratelli avevano esplicato la loro azione educativa nello Stato pontificio e nel Regno di Sardegna, in quest’ultimo e in altre parti dell’Italia si era sviluppato il movimento del Risorgimento, che mirava ad affrancare l’Italia dal predominio austriaco e a unificare l’intero Paese. Molti tentativi erano falliti tra il 1830 e il 1848, anno in cui, con la creazione della Repubblica romana il papa era stato costretto a lasciare Roma. I Fratelli non ebbero a soffrire degli avvenimenti, tranne quelli della casa alla Trinità dei Monti, che avevano lasciato la città per raggiungere a Civitavecchia l’esercito francese. Ben diversamente andarono le cose nelle Marche e in Romagna: Il Vicario generale, in un memoriale al papa (29 maggio 1848), esterna la sua costernazione per l’espulsione dei Fratelli da Ancona, Senigallia, Fano, Loreto, 23 città in cui la violenza aveva un carattere spiccatamente antireligioso. Dopo il fallimento del movimento nazionale e liberale, la politica impostata dal Cavour allo scopo di rafforzare il Regno sardo e di realizzare l’unità nazionale aveva

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U. Ferranti, I Fratelli delle Scuole cristiane nello Stato pontificio dal 1700 al 1870, p. 76.


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assunto un marcato carattere anticlericale. La legge del 1855 che aveva soppresso i monasteri e confiscati i beni delle congregazioni religiose non aveva colpito i Fratelli, perché non erano i proprietari delle opere in cui lavoravano. Tuttavia alcune municipalità, animate dalla stessa avversione, li avevano estromessi dalle scuole comunali. Avvenne così anche a Torino, dove, in seguito a una campagna denigratoria, nell’estate del 1856 i Fratelli dovettero abbandonare quelle di Torino, rimanendo solo nelle istituzioni scolastiche dipendenti dalla Regia Opera. La politica intesa all’unificazione cominciò a dare i primi risultati a partire dal 1859, quando la Lombardia fu annessa al Regno di Sardegna e alcune regioni dell’Italia centrale si sollevarono, chiedendo con i plebisciti l’aggregazione al Piemonte. A questo punto nelle Marche e in Romagna, già appartenenti allo Stato pontificio, si scatenò nuovamente una reazione antireligiosa particolarmente violenta. Quando Vittorio Emanuele II, proclamato re d’Italia nel 1861, trasferì a Firenze la capitale (1865), la politica fino allora seguita dal Piemonte nei confronti della Chiesa si estese all’intero territorio nazionale. Fu così che nel 1866, applicando una legge votata l’anno precedente, si soppressero le congregazioni religiose in quanto enti morali ed i loro beni furono confiscati. I Fratelli le cui case si trovavano nel nuovo Stato furono colpiti da quella legge. Potevano vivere in comunità e insegnare ancora nella loro scuola, ma a titolo personale, non più come membri di una congrega24 zione religiosa. Dopo la creazione del Regno d’Italia il Papa continuò ad esercitare il potere temporale su Roma e sul Lazio; i Fratelli poterono quindi proseguire il lavoro nelle loro diverse scuole. Nel 1869, su richiesta di Pio IX, ne aprirono una nuova a Roma nel popolare quartiere di Trastevere. Ma nel 1870, quando le truppe francesi che difendevano la città furono richiamate in patria allo scoppio del conflitto franco-prussiano, l’esercito piemontese potè impadronirsi di Roma e di ciò che restava dello Stato pontificio. Terminato il processo di unificazione – che ancora non comprendeva le regioni ‘irredente’ – le disposizioni di legge del 1866 furono estese nel 1873 all’intero territorio nazionale e riguardarono di conseguenza l’insieme delle istituzioni scolastiche e delle altre opere che i Fratelli dirigevano in Italia. Per quanto concerne l’Istituto, nel 1885 un rescritto pontificio eliminò la funzione del Vicario generale; i Fratelli delle due Province romane furono riuniti sotto l’autorità di un unico Fratello Visitatore posto di una nuova entità canonica: la Provincia di Roma. L’unificazione politica del Paese ebbe come conseguenza anche quella della legislazione scolastica. La legge Casati (1859) aveva organizzato il sistema scolastico del Regno dei Savoia comprendendovi la Lombardia. Per ciò che attiene

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Ferranti, I Fratelli delle Scuole cristiane a Roma, p. 27.


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all’istruzione secondaria, accanto al Ginnasio inferiore era stata creata una Scuola tecnica; entrambi i corsi erano triennali. A livello superiore, un Istituto tecnico della durata di tre anni (quattro dal 1871), si articolava in cinque indirizzi: fisicomatematico, agrimensura, commercio e ragioneria, agronomia industriale. Nel 1877 queste disposizioni furono estese all’intera nazione. A tale ordinamento il ministero dell’istruzione aggiunse, nel 1880, un corso preparatorio che nel 1885 si trasformò in corsi complementari aperti per quegli allievi che, terminata la scuola elementare, non potendo né continuare gli studi né essere ancora inseriti nel mondo del lavoro, avevano bisogno però di completare l’istruzione ricevuta in vista dell’occupazione. È in questo contesto storico, brevemente riassunto, che i Fratelli operarono negli ultimi quarant’anni dell’Ottocento, specialmente nelle istituzioni che impartivano un’istruzione tecnica o davano una formazione professionale. 1. Istituzioni per l’istruzione tecnica Nella seconda metà del secolo aumentò il numero dei giovani lavoratori che frequentavano i corsi serali o professionali per migliorare la loro condizione. La rapida industrializzazione esigeva infatti che i lavoratori diventassero strumenti della produzione senza che essa subisse il rallentamento comportato dai corsi d’apprendistato. Fu questa la situazione che fece nascere l’interesse per la creazione di scuole tecniche. I Fratelli delle Scuole cristiane, inseriti in tale contesto sociale , non potevano restare indifferenti alla sorte dei lavoratori, soprattutto giovani, e diedero il loro contributo alla formazione di un personale specializzato. (Osnato, 19) Torino, Collegio San Primitivo. Sorto come scuola speciale e tecnica, ottenne nel 1861 il diritto di impartire anche l’insegnamento classico. Si concludeva così il lungo conflitto che aveva opposto il direttore fr. Théoger alle autorità accademiche, che consideravano quell’istituzione di semplice livello primario superiore e non poteva perciò aspirare a quello più elevato. Purtroppo nel 1863 quel Fratello offerse a chi lo contrastava un motivo per attaccarlo, esponendosi all’accusa di eccessi25 va familiarità con gli allievi . Con decreto ministeriale il collegio fu chiuso temporaneamente il 20 aprile e definitivamente il 13 giugno. Collegio San Carlo. La stessa sorte era toccata al semi-convitto di via dell’Arsena26 le; questa volta con il pretesto che il direttore era straniero . Dopo la chiusura, l’immobile fu dai Fratelli sublocato ad alcuni sacerdoti che vi aprirono un istituto col 27 titolo di Collegio San Carlo. Nel 1867, il nuovo responsabile della Provincia del-

Cf. Études lasalliennes 9, XIXe siècle, 167. Cf. Archivio FSC di Torino FSC, M.04.5: Cronaca storica, p. 12. 27 Ivi, p. 20. 25 26


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l’Italia settentrionale, fr. Genuino (Gian Battista Andorno), assunse a nome proprio 28 la direzione del Collegio, che contava una scuola secondaria e un semi-convitto ai quali, nell’anno 1867-68, poté essere aggiunto un corso tecnico-commerciale. A giudicare dalle materie d’insegnamento riportate dai Bollettini scolastici conservati nel Collegio San Giuseppe di Torino, si trattava sicuramente della scuola tecnica triennale prevista dalla legge Casati. Quando le domande d’iscrizione si fecero troppo numerose, soprattutto nel ginnasio, fu necessario trovare una nuova sede. Nel 1972 fr. Genuino acquistò un terreno, su cui sorse una costruzione iniziata nel 1873 e terminata due anni dopo. Il 22 maggio 1875 l’attività scolastica del Collegio San Carlo fu trasferita nella nuova sede, che prese il nome di Collegio San Giuseppe. Collegio San Giuseppe. A fianco del corso ginnasiale quinquennale, che dava un’istruzione classica, nella nuova sede funzionava anche il corso commerciale triennale, i cui alunni crebbero progressivamente di numero, senza tuttavia superare i venti per classe, almeno fino alla fine dell’Ottocento. Orvieto. Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, i Fratelli continuarono a dirigere una scuola comunale a Orvieto. Nel 1861 vi aggiunsero la scuola tecnica triennale prevista dalla legge Casati; anch’essa era finanziata dal Comune. Precise informazioni relative a quest’ultima sono fornite da un registro amministrativo che riguarda il decennio 1866-1875. I frequentanti si mantennero nel tempo intorno a una ventina, tra allievi e uditori, riuniti in un’unica classe. Oltre a completare la loro formazione scolastica, gli allievi seguivano lezioni di calligrafia, disegno lineare, ornato e architettura, lingua francese, contabilità, ginnastica. In quegli stessi anni si dà notizia anche di una scuola serale. Le annotazioni sul registro si concludono con l’anno 1874-75, quando i Fratelli si ritirarono perché il Comune, liberale, aveva loro negato la possibilità di insegnare la religione. Gli accenni fin qui dati su vari corsi tecnici servono come introduzione al discorso sulla legge Casati e sulle conseguenze che ebbe la sua estensione all’intero Regno d’Italia. È così possibile vedere in che modo questa legge abbia contribuito a strutturare l’insegnamento tecnico secondario di due livelli – scuola tecnica e istituto tecnico – e in che misura i Fratelli vi si sono ispirati. È però solo a partire dal 1880, anno in cui fu istituito, che può essere preso in considerazione il corso complementare, come prima forma dell’insegnamento professionale. Anche dopo la scomparsa delle istituzioni a carattere professionale e tecnico che gestivano prima della costituzione del Regno d’Italia, i Fratelli continuarono a offrire una certo tipo di formazione professionale nelle poche istituzioni caritative e nelle scuola serali dove lavoravano. 2. Istituzioni a indirizzo professionale Istituzioni già esistenti - Nella prima parte dell’Ottocento i Fratelli avevano assunto

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Ivi, p. 25.


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la direzione di molti orfanotrofi nei quali era assicurata una formazione alle professioni. Queste istituzioni ebbero a soffrire per il clima anticlericale che si sviluppò nelle province già appartenenti allo Stato pontificio entrate a far parte del Regno d’Italia. «Une hécatombe d’écoles marque ici les débuts du royaume d’Italie» scri29 ve lo storico Georges Rigault. È per questo che, nelle Marche, i Fratelli dovettero lasciare gli orfanotrofi di Ancona (1961), di Loreto (1864), di Senigallia (1865). Il caso di Loreto presentò risvolti particolarmente deplorabili. I Fratelli furono sospettati di connivenza con un domestico accusato di immoralità e nella vicenda ne furono coinvolti alcuni che in quel periodo vivevano altrove. Nel 1965 arrivò la condanna in contumacia per diversi di loro e ad uno, già in carcere, vennero comminati dieci anni di detenzione. (Ferranti, 70). Nei Ducati di Parma e Modena, anche se non si verificarono circostanze del genere, l’orfanotrofio di Parma dovette chiudere nel 1862, quello di Reggio Emilia nel 1863. La riduzione delle istituzioni ebbe come conseguenza la soppressione della Provincia religiosa di Reggio Emilia (1862). Le opere superstiti furono aggregate a quelle che già costituivano alla Provincia religiosa di Torino. Nuove istituzioni - Nonostante tutto, nella seconda metà dell’Ottocento i Fratelli aprirono in Italia due istituzioni professionali: a Biella e a Roma. Nella città piemontese i Fratelli lavoravano dal 1844 nell’Ospizio della Carità, una scuola per orfani fondata nel 1702. Quando ne ottennero la direzione (1862), aprirono tre classi elementari e alcuni laboratori artigianali per offrire ai più grandicelli la possibilità di prepararsi a un lavoro. Nel 1878, alla ripresa delle lezioni, per far fronte ai problemi creati dall’insufficienza del personale insegnante, il fratello Visitatore provinciale suggerì di far frequentare agli assistiti dell’Ospizio nelle classi della scuola S. Filippo, diretta dai Fratelli. Quando però, nel 1891, il Comune tolse la sovvenzione alla scuola e i Fratelli furono obbligati porre una retta, gli ospiti dell’Ospizio tornarono nella loro prima sede. Nel 1894 alla S. Filippo fu aperta una quinta classe. Pio IX aveva espresso il desiderio di veder aperta anche a Roma una grande scuola professionale. Un comitato studiò la realizzazione del progetto e il 7 agosto 1879 potè essere inaugurata l’opera degli Artigianelli di San Giuseppe nel Borgo Vecchio, vicino al Vaticano. I laboratori che vi funzionavano furono affidati alla direzione di un sacerdote e all’esperienza professionale di capi d’arti. Le prime arti furono: tipografia, falegnameria e sartoria. Aumentando gli alunni, vi si aggiunsero la bigiotte30 ria, l’ebanisteria, la scultura in legno, la calzoleria. Allo scopo di assicurare il futuro dell’opera, Leone XIII chiese al Superiore generale che i Fratelli ne assumessero la direzione. Il 10 luglio 1882 otto Fratelli fecero ingresso nell’istituzione, che ospitava 69 allievi, con l’incarico della direzione e della sorve-

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G. Rigault, t. VI, 69. U. Ferranti, dattiloscritto, p. 6.


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glianza educativa; ma in quel primo periodo l’Amministrazione dell’opera non lascia31 va spazio a nessun tipo di iniziativa del Fratello direttore e della sua Comunità . L’istituzione passò sotto la completa responsabilità dei Fratelli nel 1889 e nel 1899 fu trasferita sull’Aventino, nell’edificio costruito superando non poche difficoltà finanziarie. Il 15 luglio dello stesso anno un regio decreto riconosceva l’opera pia Istituto degli Artigianelli di San Giuseppe come ente morale. 3. Formazione professionale nelle scuole serali Nella seconda metà dell’Ottocento i Fratelli continuarono a dirigere le scuole con lo zelo consueto, ma come era capitato per le altre loro istituzioni, il numero diminuì pure quello delle scuola serali. Anche se la rassegna è certamente incompleta, possiamo citarne due esempi. A Torino i Fratelli che lavoravano nell’istituzione di Santa Pelagia si videro obbligati ad abbandonare i locali in cui abitavano e a vestire l’abito sacerdotale (1866). Non meno soggette a limitazioni furono le loro consuete attività. Com’è noto, anche se erano ancora una minoranza, gli operai occupati nelle fabbriche moderne della città erano in costante aumento (Osnato, 17). Mentre la scuola domenicale cessò nel 1861, i Fratelli continuarono ad accogliere in quelle serali i ragazzi licenziati dalle scuole elementari e gli adulti lavoratori. In un Registro degli attestati di lode riguardante gli anni che vanno dal 1867-68 al 1901-02, tra le materie d’insegnamento figurano: disegno geometrico industriale, disegno d’ornato, lingua francese, aritmetica, lingua italiana. Erano rilasciati anche attestati d’onore, che variarono a seconda degli anni da un minimo di 150 a più di 300. Gli atti del Comune di Grugliasco (Torino), segnalano con un’annotazione di data incerta (1862 o 1866?) la prossima apertura di scuola serale. Vi si precisa che l’insegnamento si estenderà: 1. alla lettura ne’ libri e manoscritti - 2. alla scrittura: prima copiando, indi sotto dettato, poi componendo dietro una traccia - 3. alla calligrafia propriamente detta, de’ vari caratteri come Italiano, Inglese, Tonda, etc,.. - 4. all’aritmetica fondata sulle prime quattro regole delle medesima, seguite dalle varie operazioni, adattate alla vita domestica e commerciale - 5. alla lingua italiana per principii, forme e regolamenti grammaticali - 6. finalmente a un po’ d’insegnamento orale su la S. Scrittura, la civiltà e la morale cristiana.

La direzione di nuove opere intese a dare una formazione professionale, così come il mantenimento di alcune scuole serali, compensavano in piccola parte l’abbandono di numerose istituzioni o di scuole di avviamento al lavoro al quale i Fratelli furono costretti nella seconda parte dell’Ottocento. Alla fine del secolo ne sopravvivevano 14. La creazione di corsi per l’insegnamento tecnico dà rilievo alla continuità

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Ivi, p. 6


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dell’impegno che i Fratelli dedicavano nei campi della formazione e dell’insegnamento tecnico.

Il Novecento fino ai giorni nostri Per la congregazione lasalliana il 1900 è l’anno della canonizzazione del fondatore, Jean-Baptiste de La Salle. In quella circostanza, molti Fratelli convennero a Roma dove, come nel resto dell’Italia e nel mondo, il santo ricevette solenni onoranze. Ma all’avvenimento seguì da vicino (1904) in Francia la promulgazione della legge che sopprimeva l’Istituto. I Fratelli francesi erano poco più di 10mila dei 15mila che contava l’intera congregazione. Non potendo più esercitare pubblicamente il loro apostolato, molti Fratelli francesi vennero in Italia, dove si inserirono in comunità esistenti o presero a lavorare in istituzioni create – è il caso della Sicilia – per giovani sia francesi che italiani. La conclusione del Novecento assomiglia al suo inizio, perché a periodi molto favorevoli per l’Istituto se ne alternano altri in cui, in modo più o meno intenso e prolungato, esso è stato sottoposto a dure prove, come è accaduto nel corso delle due guerre mondiali. Così è stato per i Fratelli italiani, in particolare nel settore di cui ci occupiamo. È opportuno dividere in due sottoperiodi il secolo qui preso in esame, il cui spartiacque può essere il 1945.

Il primo Novecento 1900-1945 Dopo le perdite che si possono attribuire al formarsi dell’unità nazionale o alla politica anticlericale che seguì, l’Istituto poté registrare in entrambe le Province italiane una ripresa assai netta, che si tradusse in nuove iniziative nel campo dell’educazione e nell’apertura di nuove istituzioni. Un certo numero di conseguenze nefaste ebbe però la guerra del 1915-18, a causa della quale i Fratelli subirono una riduzione numerica dovuta sia alle perdite causate dal conflitto (morti e defezioni) sia alla 32 diminuzione di nuove vocazioni. Nella seconda guerra mondiale, i Fratelli, a differenza di quanto accaduto nella precedente, non furono obbligati al servizio militare; tuttavia, a partire dal 1943, ci furono vittime dei bombardamenti e molte istituzioni subirono gravi danni. In questo periodo la legislazione scolastica continuò ad evolvere e configurarsi in nuovi sistemi. Nel 1904 la legge Orlando limitò a 4 gli anni di durata della scuola

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Nel 1913 le due Province italiane contavano 459 Fratelli, scesi a 423 nel 1920.


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elementare per gli alunni che non avrebbero proseguito gli studi. Aggiunse invece una quinta e una sesta classe – il Corso popolare – per gli altri. A livello di istruzione secondaria mantenne la successione dei corsi Ginnasio-Liceo classico, ai quali si aggiunge dal 1911 un Liceo moderno. Restarono in vita la Scuola tecnica e l’ Istituto tecnico creati dalla legge Casati; si diede un riassetto alle scuole serali e festive. Con l’avvento del fascismo (1923), la riforma Gentile della scuola si propose soprattutto la formazione delle élites sociali, mediante la creazione di un sistema scolastico per livelli. Un Corso integrativo di tre anni costituiva un complemento molto modesto dell’insegnamento elementare (Cives, 125). A livello di scuola secondaria inferiore, la Scuola tecnica venne sostituita dalla Scuola complementare di tre anni, senza latino, che però non consentiva di continuare gli studi. Allo stesso livello nacque un Istituto tecnico inferiore di quattro anni, con molto latino, che proseguiva in un Istituto tecnico superiore senza latino, e trovava sbocco solo in corsi di agrimensura e di commercio-ragioneria. A livello di scuola secondaria superiore si collocavano il Ginnasio di 5 anni ai quali seguivano i 3 del Liceo classico e i 4 del Ginnasio che dava accesso ai 4 del Liceo scientifico. Solo questi due corsi di studio consentivano di iscriversi all’Università. Gli indirizzi dell’Istituto tecnico superiore erano dettati dal ministero dell’economia, che definiva anche i criteri con cui operare la formazione professionale nei tre anni delle Scuole di avviamento al lavoro, seguiti dal triennio delle Scuole di tirocinio. Nel 1928 i corsi dell’Istituto tecnico superiore che afferivano all’insegnamento professionale furono nuovamente affidati del ministero dell’istruzione. L’anno dopo una disposizione di legge riuniva nella Scuola secondaria di avviamento al lavoro, sia il Corso integrativo sia la Scuola di avviamento al lavoro e la Scuola complementare. La legge Bottai del 1939 modificò nuovamente il sistema scolastico italiano. Prevedeva la sostituzione dell’Istituto tecnico inferiore e del Ginnasio con una Scuola media di tre anni, ma conservava la Scuola di avviamento al lavoro. Favorì la parificazione degli istituti privati di insegnamento a quelli statali; ciò consentiva di far sostenere gli esami in sede e di rilasciare titoli di studio con valore legale. Molte scuole dei Fratelli si avvalsero dei vantaggi che questa legge offriva loro. 1. Formazione professionale impartita in scuole specializzate Come nel precedente periodo, nelle istituzioni a carattere caritativo i Fratelli accoglievano gli alunni tenendo conto della loro situazione familiare e univano all’insegnamento di base una formazione professionale. Agli inizi del Novecento questa preparazione risultava ancora elementare, ma prese a migliorare soprattutto quando alcune istituzioni cominciarono ad adeguarsi alla legislazione scolastica riguardante l’insegnamento professionale. Era questo il settore nel quale i Fratelli erano chiamati a trovare nuovi indirizzi, da aggiungere a quelli delle poche istituzioni che restavano loro. L’insieme delle realizzazioni può essere diviso in due gruppi.


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Ospizi. Nei primi anni del Novecento i Fratelli mantenevano la direzione dell’Ospizio della Carità di Biella. Nel 1906 vi era stato aperto un laboratorio per la formazione professionale degli allievi-tipografi. Ma quando, nel 1914, morì il Fratello che ne era il responsabile, la difficoltà di sostituirlo indusse a vendere la tipografia; all’acquirente fu posta la condizione di continuare ad assicurare la formazione degli allievi-tipografi dell’Ospizio, Nello stesso anno fu aggiunto un corso triennale di agricoltura, e nel 1919 fu cominciò a funzionare una sezione di piscicoltura. Nel 1923, in attuazione della riforma Gentile, nacque un Corso complementare; nel 1925 si decise di istituire un Corso integrativo per giovani operai che, come prevedeva la riforma, completava la scuola elementare. Nel 1927 l’istituzione cominciò a incontrare difficoltà con l’amministrazione cittadina, perché il podestà fascista aveva posto a capo della gestione membri del suo partito che condizionavano l’azione dei Fratelli, i quali si ritirarono dalla direzione nel 1931. L’anno dopo l’Ospizio fu chiu33 so, definitivamente . È pertinente ricordare a questo punto la Scuola teorico-pratica di agricoltura, aperta nel 1920 e ospitata dal castello di Massazza, nel Biellese. Era stato il vescovo della diocesi a richiederla ai superiori della congregazione che, dopo qualche esitazione, vi avevano destinato tre Fratelli. Cominciò a funzionare con due classi, una diurna e una serale; ma il 1° settembre 1923 una circolare dell’amministrazione comunicava che i Fratelli si ritiravano e sarebbero stati sostituiti da sacerdoti e laici. La scuola cessò l’attività alla fine dell’anno successivo. Il Regio Istituto pei sordomuti di Torino, fondato da un sacerdote nel 1836, fu affidato ai Fratelli nel 1898. I tre Fratelli che vi erano destinati fecero il loro ingresso il 17 settembre. Il loro compito fu inizialmente quello di occuparsi della direzione interna e della disciplina generale; la formazione scolastica e professionale dei giovani assistiti restava di competenza insegnanti laici che già vi operavano. I Fratelli che un po’ alla volta li sostituirono dovettero impratichirsi del Metodo orale puro che veniva attuato nell’istituzione. Nel 1906 la Comunità risultava composta da dieci Fratelli che si prendevano cura di una sessantina di allievi. Va notato che la formazione completa richiedeva 8 anni e non poteva essere data che in piccoli gruppi. I Fratelli si ritirarono nel 1910 a causa, pare, della «troppa schiavitù in cui essi erano 34 tenuti in riguardo all’Amministrazione» , ma nella lettera del 19 dicembre 1909 indirizzata al Fratello Assistente, è possibile cogliere altre ragioni, in particolare la preoccupazione che avevano i Fratelli della Provincia d’essere destinati a questa istituzione. Nei primi anni del Novecento l’arcivescovo di Catania progettò la creazione di un santuario dedicato al sacro Cuore con accanto un brefotrofio. Il proposito destò

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Cf. Viansone, Un amore lungo centocinquant’anni, pp. 47-50. Breve cenno storico, Archivio storico di Torino FSC, M 1623.


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il vivo interesse dell’Assistente fr. Périal-Étienne, che era alla ricerca di attività per impegnare i Fratelli francesi espulsi per legge nel 1904. Il 14 settembre ne arrivarono a Catania tre provenienti da Marsiglia; due non seppero adattarsi alla situazione e furono sostituiti da un Fratello proveniente da Roma e da un altro marsigliese. L’Ospizio educativo e di beneficenza del sacro Cuore, che contava all’inizio tra i 25 e i 30 assistiti, fu ampliato nel 1908 e dotato di laboratori. Nel 1913-14 contava 64 interni divisi in 3 classi dove apprendevano i mestieri di tipo35 grafo (6), calzolaio (3), sarto (5) . Nel 1916 l’istituzione fu aggregata alla Provincia romana. Le scarse notizie che si hanno al proposito non permettono di conoscere come l’opera funzionasse, anche se risulta che nel 1922 furono apportate le migliorie richieste. Ai Fratelli, che lasciarono l’istituzione il 18 agosto 1923, subentrarono i salesiani. Proseguendo nell’opera di redenzione sociale della zona allora chiamata Valle di Pompei. Bartolo Longo, dopo aver edificato un santuario alla Madonna del Rosario, si era prefisso di creare varie istituzioni di carità. Lo preoccupava soprattutto la situazione dei figli dei carcerati, che ben conosceva attraverso l’abituale contatto con i detenuti di diversi penitenziari. E proprio per permettere a quelli che chiamava orfani della legge di sottrarsi all’emarginazione cui erano esposti, progettò un’istituzione destinata ai figli dei carcerati. La prima pietra dell’ospizio fu posta il 29 marzo 1892. La costruzione, che sorgeva presso il santuario, fu completata nel 1894. Fin dal momento in cui l’aveva progettata, Bartolo Longo aveva pensato di affidare l’opera ai Fratelli delle scuole cristiane per assicurare l’educazione dei giovani ai quali era destinata. Siccome però essi non avevano accolto la proposta, per tredici anni l’istituzione fu diretta dagli Scolopi. Quando questi decisero di ritirarsi, Bartolo Longo si rivolse nuovamente al Superiode dei Fratelli, ma ricevette ancora una risposta negativa. Ricorse allora all’intermediazione di papa Pio X, e ottenne finalmente lo scopo. Il 1° ottobre 1907 un gruppo di Fratelli assunse la direzione dell’opera, finanziata con i proventi del Santuario amministrato dal vescovo di Pompei. Non appena dato inizio alla sua opera, Bartolo Longo s’era dovuto scontrare con l’ostilità dei sociologi positivisti, i quali sostenevano che, per ragioni ereditarie, il figlio di un delinquente non poteva che diventare un delinquente; era quindi irrecuperabile. Bartolo Longo, che sosteneva la tesi opposta, ne voleva dare dimostrazione proprio attraverso i risultati ottenuti nell’istituzione di Pompei. Si può dire che i Fratelli hanno saputo rispondere alle attese, ponendo in atto la loro tradizionale linea 36 educativa che può essere riassunta con due parole: fermezza e bontà. Una relazione che riassume la situazione nel 1913-14 precisa trattarsi di un’istitu-

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Archivio della Casa generalizia, AMG ND 419/2. Cf. Rivista lasalliana 1982, 4, p. 246.


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zione professionale per apprendisti, comprendente una scuola elementare con 130 interni più 30 esterni e un corso medio con 25 interni. C’erano inoltre 10 tipografi, 8 falegnami, 4 legatori, 17 meccanici, 6 calzolai. Per il loro apprendistato i tipografi si esercitarono prima nella tipografia creata da Bartolo Longo in locali vicini al santuario, poi in quelli che, a partire dal 1931, fecero parte dell’istituto a lui intitolato, dove trovarono posto anche altre officine. La formazione professionale costituiva però solo uno degli aspetti dell’azione educativa dei Fratelli, che univa l’istruzione alla formazione religiosa e all’educazione alla convivenza. Da sottolineare l’importanza avuta dall’avviamento alla pratica musicale, vocale e strumentale, particolarmente indicata per ragazzi privati dell’affetto familiare, che potevano per di più esibirsi in pubblico con la loro banda musicale. Sempre in Campania, il 18 dicembre 1908 era stato sottoscritto un accordo tra il vescovo di Nola e, in rappresentanza del Superiore dei Fratelli, dal fr. Assistente Louis de Poissy. Riguardava la direzione dell’Ospizio Educativo San Giuseppe, istituito a San Giuseppe Vesuviano per i figli delle vittime sul lavoro. Si stabiliva fra l’altro: […] 8. I Fratelli delle scuole cristiane devono non solo dare ai ricoverati una cristiana e conveniente istruzione ed educazione, ma procureranno altresì di prepararli alla vita sociale, affinché siano in grado di guadagnarsi un pane onorato - 9.A tal uopo all’Ospizio, oltre le classi elementari, il canto corale, la ginnastica e il concerto, ci saranno anche alcune scuole di arti e mestieri dove gli alunni potranno essere esercitati in qualche professione - 12. Gli alunni dovranno prestare la loro opera nelle funzioni celebrate nel Santuario.

Quando nel 1909 quattro Fratelli ne assunsero la gestione educativa, l’ospizio contava 19 interni, numero talmente esiguo da non consentire di raggiungere gli obiettivi previsti. Di conseguenza allorché nell’anno 1910-11 gli amministratori ritennero che ci fossero le condizioni per poter aprire delle officine, il fr. Visitatore da cui dipendeva l’istituzione giudicò né ragionevole né prudente la proposta. Il 29 ottobre 1910, dopo solo venti mesi di attività, l’esperienza si chiuse con il ritiro dei Fratelli. A Martina Franca dopo la Grande guerra era stata affidata ai Fratelli una Colonia agricola per orfani di guerra, sistemata in un antico convento di Cappuccini. Si trattava di un ospizio amministrato dalla provincia di Lecce e destinato a orfani tra i 12 e i 17 anni. Il compito dei Fratelli si trova precisato in un documento del 1928 con il quale i promotori dell’opera, l’arcivescovo e le autorità civili di Lecce, rinnovavano la convenzione con i Superiori dei Fratelli, che fra l’altro stabiliva: 1. I Rev.di Fratelli continuano a tenere l’istruzione e l’educazione dei piccoli orfani con quello zelo e con quell’affetto, che finora ha ispirato la loro opera religiosa, civile e patriottica - 2. Come per lo innanzi l’istruzione sarà impartita secondo i programmi delle scuole elementari dello Stato, dando maggiore sviluppo alla parte di istruzione agraria contenuta nei programmi stessi,...


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Il 27 maggio 1932 il Fratello visitatore dovette però comunicare al presidente dell’Opera nazionale degli Orfani di guerra che i Fratelli dovevano ritirarsi dalla colonia agricola. Fu una partenza rimpianta, come poi si seppe: I Fratelli si sono sempre mostrati sensibili alle situazioni di abbandono in cui potevano trovarsi fanciulli o adolescenti provati dalla morte di uno o di entrambi i genitori oppure dalla reclusione del padre. Parecchi di loro che hanno dedicato buona parte della loro vita a quei giovani hanno saputo stabilire con loro i rapporti che si vivono in una vera famiglia. Il fatto che gli incarichi assunti dai Fratelli in opere di quel tipo sono stati spesso solo temporanei e limitati a un piccolo numero, non ha impedito che, in condizioni spesso difficili, abbiano assicurato l’educazione e contribuito alla formazione professionale di moltissimi giovani a rischio

Istituti per Artigianelli. Fra le istituzioni destinate ad accogliere fanciulli o giovanetti di famiglie povere, tra i quali molto spesso si trovavano degli orfani, si possono prendere in considerazione quelle che, sotto il nome di Casa degli Artigianelli, avevano come scopo specifico di dare ai loro assistiti una formazione professionale intesa a farne degli operai qualificati. Se all’inizio del Novecento la formazione appare indirizzata all’inserimento in categorie artigianali, col progredire del tempo essa si è venuta adattando alle esigenze di un’economia industrializzata ed ha assunto le caratteristiche dell’insegnamento professionale definito dalla legislazione scolastica. Così avvenne a Roma nell’istituzione già detta degli Artigianelli di S. Giuseppe, che dopo il trasferimento nella nuova sede all’Aventino (anno 1893) aveva cambiato il nome in Istituto Pio IX. Gli allievi, che concludevano la loro istruzione elementare al terzo anno, frequentavano poi un corso di perfezionamento artigianale, esercitan37 dosi nei vari mestieri in officine allestite nella sede, sotto la guida di capi d’arte . Fu così per circa un quarto di secolo. Il permanere del carattere di opera caritativa è testimoniato dal fatto che nel 1914, ad es., vi furono accolti orfani di dipendenti delle ferrovie e che dopo il conflitto 1915-18 furono cinquanta gli orfani di guerra che vi trovarono ospitalità e istruzione. Gli anni Venti e Trenta segnano due svolte importanti nella storia del Pio IX. Nel 1919-20 le vecchie officine vennero chiuse perché erano stati allestiti locali più adatti alle nuove esigenze dell’insegnamento professionale. Nel 1923 fu inaugurata la scuola industriale S. Giuseppe, i cui allievi erano divisi in gruppi corrispondenti a vari mestieri: elettricisti, meccanici, ebanisti, tipografi, pittori decoratori, ceramisti. Vennero in seguito introdotte altre specializzazioni: elettrotecnica, galvanopla38 stica, aggiustaggio, fucina e, nel 1930, radio-telegrafia . Una deliberazione del Consiglio superiore per l’Insegnamento agrario, industriale e commerciale, confermata dal decreto ministeriale del 21 ottobre 1927 stabiliva:

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U. Ferranti, dattiloscritto, p. 32 Cf. Primo centenario 1879-1979, Sviluppo scolastico


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Henri Bédel art. 1. La Scuola d’avviamento professionale annessa all’Istituto Pio IX in Roma è dichiarata pareggiata alle regie quale scuola di avviamento al lavoro - art. 2. Gli attestati di licenza ed i certificati degli studi di suddetta scuola hanno, a tutti gli effetti, lo stesso valore legale di quelli rilasciati dalle regie scuole di avviamento al lavoro.

A prescindere dai vantaggi che comportava, il decreto interessa perché riconosceva in modo chiaro il rapporto paritario con le corrispondenti istituzioni pubbliche. Si trattava di una scuola per l’insegnamento professionale secondario di primo grado dipendente dall’allora Ministero dell’economia nazionale. Nel 1930 l’Ispettore che presiedette l’esame finale del 3° anno scrisse una relazione assai favorevole all’Istituto Pio IX, incoraggiando chi lo dirigeva a creare ‘una scuola di tirocinio’, trienna39 le, per la preparazione professionale di operai qualificati . Fu realizzata nel 1932. Un altro cambiamento importante si verificò nel 1933, quando venne soppresso il convitto perché ormai gli allievi provenivano da famiglie domiciliate in città. In applicazione della legge 5 gennaio 1939, il 3 agosto dello stesso anno il Ministro dell’istruzione decretava che la Scuola Tecnica Industriale annessa all’Istituto Pio IX in Roma è ammessa a far parte dell’Ente nazionale per l’Insegnamento Medio in qualità di associato. L’atto comportava il riconoscimento legale, che venne sancito da un ulteriore documento. Nei primi anni del Novecento esisteva a Genova una Casa degli Artigianelli, fondata nel 1857 da un sacerdote che l’aveva diretta fino al 1895. La direzione era stata affidata ai Fratelli nell’ottobre del 1906. Si trattava di un convitto per ragazzi dai 10 anni in su, in gran parte orfani o appartenenti a famiglie fra le più povere della città. Ne riportiamo una descrizione: Il carattere dei giovani rispecchia il tipo genovese; poco espansivo, poco portato allo studio, ma attivo e trafficante. Ciò spiega come preferiscano il tempo dell’officina al tempo della scuola. (...). 40 La fede e la pietà, specialmente verso la SS. Vergine sono in loro come una tradizione di famiglia.

Gli assistiti erano suddivisi a seconda dei mestieri: tipografi, compositori, legatori, scultori in legno, falegnami, fonditori in bronzo, fabbri ferrai, meccanici, sarti, indo41 ratori, calzolai . La Storia della Comunità scritta nel 1931, che dà conto degli indirizzi in atto, dimostra come si fossero posti al passo con i tempi; risultavano invece piuttosto inadeguate le strutture, che presentavano in parte caratteristiche di fine 42 Ottocento. Durante la seconda guerra mondiale, per evitare i rischi dei bombardamenti, gli allievi furono fatti sfollare a gruppi in località della provincia.

Cf. Archivio di Roma FSC, AMG ND 473/7. Archivio della ex Provincia FSC di Torino, T.01.2, Cronaca dalle origini al 1924, p. 21. 41 Ivi, Cenno storico sullo Stabilimento Artigianelli in Genova 1906-1909. 42 In una relazione è detto che il 1934 – anno in cui la rinnovata tipografia diede all’Istituto una vita nuova – può essere considerato come quello della rinascita dell’istituzione. 39 40


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2. Istituzioni scolastiche per la formazione professionale All’inizio del Novecento si accentuò un’esigenza già sentita alla fine del secolo precedente: quella riguardante i ragazzi che, al termine del loro percorso scolastico (elementare) non avevano ancora l’età per lavorare, ma dovevano completare la formazione ricevuta. Già nel 1880 il Ministero della PI aveva istituito un Corso preparatorio, divenuto complementare nel 1885. Successive modifiche legislative furono introdotte, come è già stato detto, nella prima metà del Novecento. Le scuole dei Fratelli hanno dovuto conformarsi ai cambiamenti. A Roma il cardinale Angelo Mai aveva aperto un corso tecnico a fianco delle classi di liceo. Per assicurare un futuro all’opera, Leone XIII avrebbe voluto affidarla tutta ai Fratelli, che però accettarono solo di dirigere le classi per l’insegnamento tecnico. Si decise di trovar loro sistemazione nell’edificio della scuola elementare Sant’Antonio ai Monti: il 4 novembre 1902 il Prefetto della Congregazione degli Studi inaugurò la nuova istituzione che prese il nome di Istituto Angelo Mai. Il programma della sezione tecnica, a giudicare dalla materie che vi erano insegnate – diritti e doveri del cittadino, contabilità e disegno –, coincideva con quello della scuola tecnica triennale della legge Casati. Quest’insegnamento, più di scuola tecnica che di istituto professionale, subì le modifiche imposte dalla riforma Gentile del 1923. Il corso tecnico divenne prima Scuola complementare e poi (1929) Scuola di avviamento professionale di tipo commerciale della durata di due anni. L’Istituto ottenne fu parificato nel 1936, ottenendo quindi l’ associazione all’E.N.I.M. 43 e il riconoscimento legale. A Torino l’importante comunità di Santa Pelagia continuava ad assicurare nel modo migliore la formazione professionale degli allievi. Scrive la Viansone: «La domenica molti ragazzi e bambini affollavano, prima e dopo la messa, il cortile di Santa Pelagia; un’ampia parte di loro non andava più a scuola, avevano terminato il corso elementare ma erano troppo giovani per lavorare, così il più delle volte trascorrevano la giornata senza far nulla; soltanto la domenica si recavano presso i Fratelli in via delle Rosine per ascoltare la messa e perché sapevano che il luogo era frequentato da molti altri ragazzi. I genitori non avevano tempo di occuparsi di loro, in quanto durante il giorno dovevano lavorare molto per guadagnare un misero stipendio che a mala pena permetteva loro di mantenere tutta la famiglia. Tanto meno avevano le possibilità economiche per far frequentare ai figli una scuola superiore o corsi professionali. F. Ugolino Goddet notando la condizione di questi giovani volle impegnarsi per offrire loro una possibilità migliore; quei ragazzi avevano bisogno di

Archivio dell’ex Provincia FSC di Roma, Cenno storico sulla scuola Angelo Mai. Per ciò che è dato capire dai documenti, la formazione professionale introdotta senza reali motivazioni all’Angelo Mai non valse ad aver più alunni nel corso elementare, a differenza di ciò che, come si vedrà, avvenne a Santa Pelagia dove le iniziative furono sempre una risposta alle esigenze, espresse o intuite, delle famiglie. 43


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insegnamenti pratici, tali da permettere loro un inserimento lavorativo facilitato. Per ottenere questo, F. Ugolino pensò di chiedere l’autorizzazione ad aprire un corso complementare» (op. cit. p. 130). Istituto La Salle. Nel marzo del 1902 fr. Ugolino propose al direttore della ROMI di trasformare i corsi serali in Corso complementare diurno, composto di due classi a cui se ne potrebbe aggiungere una terza (Viansone, 132). L’approvazione giunse nel giugno dello stesso anno e così per l’anno scolastico 1902-03 a Santa Pelagia poterono essere aperte due classi con insegnamento di tipo commerciale. F. Ugolino avrebbe voluto introdurre la completa gratuità, ma siccome la cosa si rivelò impossibile, chiese ed ottenne un sostegno finanziario da privati, specialmente dal barone Jocteau. I Fratelli inoltrarono subito al Ministero della PI la domanda di pareggiamento per le classi del Corso complementare, ma nel maggio del 1906 ebbero la risposta negativa di una commissione creata ad hoc. Nel frattempo il numero degli allievi era cresciuto al punto che occorreva pensare a una sede diversa da quella fin qui offerta nei locali della Regia Opera. Quando nel 1913 le classi poterono essere trasferite oltre il Po nacque l’Istituto La Salle. La nuova scuola era però a pagamento, quindi quasi inaccessibile per le famiglie del ceto popolare; stava inoltre prendendo un indirizzo scolastico diverso. Prima la riforma Gentile (1923) indusse a introdurre il corso facoltativo di latino; poi, nel 1929, il Corso complementare aperto nel ’23 fu sostituito dall’Istituto tecnico inferiore (parificato nel 1939); infine nel ‘24 fu possibile aprire la prima classe di Ragioneria. Nel 1943 fu trasferito al La Salle l’intero corso tecnico del Collegio San Giuseppe (Viansone, 139-140). Istituto Arti e Mestieri. I Fratelli della scuola di Santa Pelagia, constatata la diversità del ceto sociale a cui l’Istituto La Salle si era aperto, ritennero doveroso continuare ad occuparsi della formazione degli allievi licenziati dalla scuola elementare. Nominato direttore della Comunità nel marzo del 1919, Fratel Isidoro di Maria (Francesco Molinari) si propose di ricostituire l’associazione degli ex-alunni delle scuole dipendenti dalla ROMI, da lui già fondata nel 1908. Era sua intenzione trovare il loro appoggio per dar vita a una scuola professionale simile a quelle che i Fratelli avevano realizzate in Francia, a Lione in particolare, e in Belgio. Fr. Isidoro trovò la piena collaborazione di fratel Teodoreto (Giovanni Garberoglio), che, dopo esserne stato direttore, faceva ancora parte dalla Comunità. F. Teodoreto vedeva nella creazione di una scuola professionale il mezzo per dar risposta a quello che aveva quasi profeticamente previsto fra’ Leopoldo Musso, un frate francescano che gli era stato consigliere spirituale quand’era stata fondata l’Unione dei Catechisti di Gesù crocifisso e di Maria Immacolata. Un comitato ristretto elaborò il progetto che giunse a realizzazione nell’ottobre 1920 quando, nei locali della Regia Opera fu avviato un corso diurno di formazione professionale. Il nuovo corso scolastico, che prevedeva classi serali corrispondenti, consisteva in una ‘sesta classe’ successiva alla licenza elementare e si completava con un settimo anno (Viansone, 164-166). Il Comitato diede il nome di Istituto Arti e Mestieri alla nuova creazione, nonostante


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il parere contrario espresso da fratel Isidoro e da fratel Teodoreto che ne facevano 44 parte . Stimavano infatti che la denominazione riflettesse solo in parte quella di Casa di Carità Arti e Mestieri preconizzata da fra’ Leopoldo per il tipo di istituzione di cui aveva chiesto ai Fratelli di farsi promotori. Nel 1925 divenne ufficiale il nome fissato dal comitato. Quando nel 1932 l’istituzione ottenne il riconoscimento legale dei corsi professionali diurni come Scuola di avviamento industriale, vi funzionava anche un Corso di perfezionamento triennale per meccanici ed elettricisti. Siccome i locali erano insufficienti dato il crescente numero degli allievi, i Fratelli acquistarono un terreno in corso Trapani, dove fu edificata una nuova sede, in cui l’Istituto Arti e Mestieri si trasferì dall’anno scolastico 1935-36. Nel 1937-38 contava già 500 alunni suddivisi tra la Scuola di avviamento al lavoro, triennale, e la Scuola Tecnica, biennale. Conservava dunque il carattere di istituzione a indirizzo professionale. Biella. Quando, nel 1904, il Ministero della PI stabilì che la scuola elementare si limitasse alle prime 4 classi, i Fratelli dell’Istituto La Marmora sostituirono alla quinta classe un Corso di perfezionamento per quei ragazzi che, terminate le classi elementari, desideravano imparare ancora alcune nozioni che potessero essere utili nello svolgimento del lavoro futuro (Viansone, 213). All’inizio dell’anno scolastico 1911-12 il provveditore agli studi di Novara riconobbe al corso la denominazione di Scuola tecnica. Con la riforma del 1923 il nome mutò in Corso complementare e comprese l’insegnamento della dattilografia (con la conseguente necessità di acquistare un congruo numero di macchine da scrivere). Nel 1929 si ebbe l’ulteriore intitolazione in Corso di avviamento professionale commerciale e Istituto tecnico inferiore. Nel 1939 entrambi furono associati all’E.N.I.M. e godettero dei relativi vantaggi. Infine, nel 1940-41, mentre il Corso di avviamento manteneva nome e programmi, il Corso tecnico inferiore divenne Scuola media. L’evoluzione dell’insegnamento professionale destò l’interesse anche di alcuni industriali del Biellese che, nell’intento di offrire ai giovani la possibilità di acquisire una formazione tecnica in vista di un impiego pubblico, finanziarono la costruzione e il funzionamento di un internato, il Convitto biellese. Affidato ai Fratelli nel 1937, contribuì a potenziare in città la loro presenza educativa. Giaveno. In questa cittadina posta all’imboccatura della Val di Susa il canonico Giacinto Pacchiotti aveva fondato una Scuola professionale di Arti e Mestieri, assicurandole il futuro con un lascito testamentario. Dall’anno 1893-94 cominciò a funzionarvi anche una Scuola tecnica per l’insegnamento di disegno, calligrafia, tecnologia industriale e meccanica elementare. Come il altri casi già considerati, dopo essere diventata Scuola complementare (1923), nel 1928 aveva preso il nome di Scuola di avviamento al lavoro. L’insufficiente numero di allievi ne aveva però determinato la chiusura nel 1933. Quando nel 1936 fu loro affidata la direzione, i Fratelli aprirono la

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Fr. Teodoreto, Nella intimità del Crocifisso, pp. 164 ss.


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prima classe di un Istituto tecnico inferiore, che negli anni seguenti fu completato con l’apertura delle altre tre classi. Nel 1939 la scuola ottenne l’associazione all’E.N.I.M. insieme con il relativo riconoscimento legale. Nel 1940 la riforma Bottai soppresse la prima classe dell’Istituto tecnico sostituendole la prima della scuola media; la trasfor45 mazione dell’intero corso fu completata negli anni seguenti. Nel 1942, a sei anni dal loro arrivo, il direttore dei Fratelli poteva dire che «se gli studi come sono organizzati corrispondono ai desideri di un certo numero di famiglie, ben più numerose sono quelle di artigiani e operai che desidererebbero un corso di avviamento con indirizzo professionale che preparasse i loro figli con le esercitazioni pratiche al lavoro nelle numerose fabbriche in cui...» Era questa constatazione che induceva il direttore a chiedere all’E.N.I.M. l’autorizzazione a riaprire, accanto alla già esistente Scuola media, il 46 corso di Avviamento professionale di tipo industriale e commerciale. 3. Istituzioni per la formazione professionale dei lavoratori giovani o adulti Nella prima parte del Novecento molte istituzioni dei Fratelli continuarono a organizzare corsi estivi o domenicali per lavoratori giovani o adulti. Se ne parla in diversi documenti, ma le informazioni sono approssimative e parziali; perciò non si conosce ciò che effettivamente veniva realizzato in questo campo. Si può accennare, a proposito dell’Istituto Artigianelli di Genova, al funzionamento, nel 1938, di una 47 scuola serale di disegno per licenziati dal Corso di Avviamento per i più anziani.’ Le esperienze più significative si sono avute, all’inizio del Novecento, nelle scuole di Santa Pelagia a Torino. Se la scuola domenicale era cessata dopo il 1861, quella serale aveva continuato a funzionare. I registri tuttora a disposizione ci permettono di stabilire che all’inizio del Novecento nei corsi serali si insegnavano le numerose materie già in programma alla fine del secolo precedente. Nel 1902-03 i corsi riguardavano la lingua francese, il disegno di ornato e il disegno geometrico, l’architettura e le costruzioni, e interessavano un numero di allievi che poteva arrivare ai 250. Dal 1907 al 1916 i corsi si ridussero ai due di disegno, con 100-150 allievi. Dal 1911 al 1932 in quattro corsi (inizialmente cinque) di una Scuola serale di commercio si tennero lezioni con un numero di frequentanti che variava dai 150 ai 200. I cambiamenti che si registrano in questa lungo periodo dimostrano, in chi li organizzava, una grande capacità di adattare i corsi alle esigenze degli allievi. Le registrazioni si fermano all’anno 1932-33, ma da altre fonti è possibile stabilire che i corsi serali cessarono a Santa Pelagia solo nel 1936, quando cominciarono ad essere organizzati all’Arti e Mestieri di corso Trapani. La Scuola serale per Meccanici ed Elettricisti dell’Istituto Arti e Mestieri aperto nel

Archivio dell’ex-Provincia FSC di Torino. Ivi, Cenni storici...collocazione 2.01.4. 47 Archivio dell’ex Provincia FSC di Torino, Storia della Comunità, T.01.2. 45 46


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1920 passò progressivamente dai 2 ai 5 corsi, con un massimo d’un centinaio di iscritti. Una Scuola serale professionale di 4 classi funzionò dal 1926-27 al 1929-30. Nel 1932-33 si tenne un Corso per operai qualificati meccanici aggiustatori e nello stesso anno un Istituto tecnico serale accolse 51 allievi nel biennio inferiore e 28 in quello superiore. Dal canto loro, a partire dal 1925 i Catechisti dell’Unione fondata da fr.Teodoreto aprirono in via Feletto, nei locali della parrocchia di Madonna della Pace, un corso domenicale a carattere industriale. 4. Istituzioni per l’insegnamento tecnico Non è facile stabilire una distinzione fra le scuole dei Fratelli che davano una formazione professionale e quelle che impartivano un insegnamento che si possa qualificare tecnico. Per identificare il secondo aspetto ci baseremo sul fatto che l’istruzione che vi si impartiva era più teorica che pratica. Il Ministro della PI concesse nell’ottobre del 1900 al Collegio San Giuseppe di Torino le autorizzazioni occorrenti per l’apertura della prima classe di un Istituto tecnico. Da quel momento la Camera del Commercio e delle Arti della città cominciò a prestare interesse e collaborazione ai corsi tecnici tenuti in Collegio. È così possibile leggere in una lettera del 4 marzo 1903 che la Camera attribuiva la medaglia ai due più distinti alunni uscenti dalla scuole tecnica del Collegio S. Giuseppe. L’iniziativa si 48 ripeté ogni anno fino al 1913. Nel 1901-02 per gli alunni che avevano ottenuto la licenza tecnica e sentivano il bisogno di avere un diploma di cultura pratica per impegnarsi al più presto fu aperto in Collegio un Corso commerciale biennale. Una scheda informativa del febbraio 1909 rende noto che al S. Giuseppe funzionavano 8 classi del Corso elementare, 6 classi della Scuola tecnica (che aveva due sezioni), 2 classi del Corso tecnico, una Scuola commerciale con Banco modello. Nel 1921 fu deciso di completare il Corso tecnico aggiungendovi i due anni mancanti, ma limitandolo agli indirizzi fisico-matematico e di commercio e ragioneria (Viansone, 65-67). Nel 1923, con la riforma Gentile, una memoria storica del Collegio precisa: «Fin dall’ottobre successivo i corsi furono i seguenti: il Corso elementare, l’Istituto tecnico inferiore, il Superiore e il Liceo scientifico, limitandosi, per ora, per questi due ultimi corsi ad alcune classi solamente. Ed è così che, dopo 23 anni, si poté riaprire 49 il Corso ginnasiale che era stato frequentato con tanto successo fino al 1900». L’Istituto tecnico superiore commerciale del Collegio ottenne il riconoscimento legale nel 1940. Tre anni dopo lo chiese anche l’Istituto La Salle, ma ai superiori della Provincia religiosa non parve opportuno che due istituti dei Fratelli avessero nella stessa città corsi identici; perciò, come già si è detto, l’Istituto tecnico del Collegio S. Giuseppe venne ufficialmente trasferito all’Istituto La Salle.

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Archivio del Collegio San Giuseppe, 1: 1871-1919 Archivio FSC di Torino, Collegio S. Giuseppe, Supplément à l’historique 1900.


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A Roma, Monsignor De Merode, prelato belga, aveva aperto nel 1871 un doposcuola, dove allievi delle istituzioni statali venivano a svolgere i loro compiti e ricevevano complementi di istruzione scolastica e cristiana. Dopo aver tentato di aprire corsi universitari per giovani cattolici, aveva fondato un Istituto tecnico di matematica e fisica, che nel 1879 l’autorità scolastica italiana aveva autorizzato con il nome di Istituto Tecnico privato di grado superiore Francesco Saverio De Merode. Nel 1900 papa Leone XIII ne affidò la direzione ai Fratelli, che prima utilizzarono i locali del Collegio San Giuseppe e, dal 1903, lo allogarono in un edificio adiacente al Collegio. Le due istituzioni funzionarono separatamente fino al 1927, anno in cui si unirono anche nella denominazione. Fondato a Milano nel 1906, il Collegio S. Luigi Gonzaga acquisì nel 1908 l’attuale denominazione di Istituto Gonzaga. Con l’anno scolastico 1912-13 vi fu aperto un Corso tecnico commerciale conforme alla Scuola tecnica creata dalla legge Casati. Nel 1923, al momento della riforma Gentile, al Gonzaga funzionavano il corso elementare, la Scuola tecnica (divenuta in seguito Istituto tecnico inferiore), il corso di Ragioneria e quello Fisico-matematico. Per adeguarsi alle nuove disposizioni legislative si decise la costituzione del corso Ginnasiale e del Liceo scientifico, procrastinando per problemi di spazio la creazione del Liceo classico, avvenuta nel 1936. Nel 1938 l’Istituto tecnico inferiore e superiore divennero sede legale d’esami e, nell’anno successivo, ottennero la parificazione l’Istituto tecnico superiore e il Liceo 50 classico, associati all’E.N.I.M.N. Nella scuola di Benevento, aperta nel 1905, i Fratelli istituirono classi di insegnamento tecnico commerciale. In un verbale dal titolo Risultati degli scrutini e degli esami dell’anno scolastico 1914-15 si trovano menzionati un Istituto tecnico pareggiato, una Regia Scuola tecnica e una Scuola elementare. Una pubblicazione del 1919 dà notizia che il Collegio si compone di studi elementare, tecnico, istituto tecnico, e precisa: il Corso tecnico è regio e sono tre anni (questo fa pensare che si trattava di una scuola tecnica in conformità alla legge Casati) e che l’Istituto tecnico, pareggiato, si compone di quattro anni (era perciò un Istituto tecnico superiore). Il direttore del Collegio in una lettera del 17 settembre 1923 deplorava il fatto che siccome in città sarebbe rimasto in funzione un solo Istituto tecnico inferiore, pochi allievi del convitto avrebbero potuto accedervi. Fece quindi seguire l’annuncio che «la Direzione di questo Collegio ha deciso di aprire nei suoi locali un corso completo di Scuola Media di primo grado al fine di preparare gli alunni all’ammissione al primo corso della Scuola Media di secondo grado nei diversi tipi». Il comunicato precisa che tale passaggio implica un esame e che l’esame potrà essere affrontato in Collegio, riconosciuto ‘scuola regia pareggiata’. Non è però detto in modo chiaro

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Cf. Istituto Gonzaga, cento anni di presenza a Milano, pp. 23 e 35.


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che per proseguire gli studi occorrerà iscriversi a una scuola statale. Verrà poi aperto il Liceo classico (legalmente riconosciuto nel 1937). A conclusione di questo capitolo è possibile constatare che nei primi decenni del Novecento i Fratelli in Italia si sono preoccupati di far funzionare nelle loro istituzioni, insieme con il Ginnasio e i Licei, dei corsi di insegnamento tecnico, generalmente a indirizzo commerciale. Ciò ha loro consentito di tener conto della diversa estrazione sociale dei loro allievi e nello stesso tempo di rispondere, localmente e in sintonia con i tempi, alle richieste del mercato del lavoro. È però ugualmente evidente che la riforma scolastica del 1923 introdusse un cambiamento di prospettiva che esponeva i Fratelli al rischio di trascurare l’insegnamento tecnico e la formazione professionale, alimentando la tendenza a coltivare l’insegnamento classico.

Il secondo Novecento fino ad oggi 1945-2010 A partire dal 1943, dopo la caduta del fascismo, si impose il problema della scelta degli indirizzi e dei programmi d’insegnamento. Fu presa la decisione di abolire la Carta della scuola del Bottai e di ritornare, con alcune modifiche apportate in seguito, al sistema codificato dalla riforma Gentile. La Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948 stabiliva in 8 anni (dai 6 ai 14) la durata dell’obbligo scolastico, gratuito per le scuole statali, senza contributi dello Stato per le scuole cattoliche. Solo nel 1962 una legge rese possibile la reale estensione dell’obbligo scolastico, creando una scuola media statale a carattere unitario (Cives, 139). Il progetto di riforma della scuola secondaria di secondo grado, che innalza ai 16 anni l’obbligo scolastico ha costituito il tema di dibattito politico durato per anni. Per ciò che attiene l’insegnamento professionale, il ripristino del sistema scolastico anteriore al 1939 implicò quello della Scuola di avviamento al livello inferiore dell’insegnamento secondario e dell’Istituto tecnico per quello superiore. Quando nel 1962 fu approvata, la legge che istituiva la Scuola Media unica comportò la scomparsa delle classi di Avviamento al lavoro, frequentate dagli allievi di età fra gli 11 e i 14 anni. Una legge del 1961 modificò i programmi dei diversi indirizzi dell’Istituto tecnico e dal 1969 i diplomati degli istituti tecnici poterono accedere all’università. Ma se negli anni 1950-60 si era manifestato un favore verso questi indirizzi di studio, la crisi iniziata negli anni ’70 provocò una diminuzione di iscrizioni; le scelte furono quelle che permettevano di inserirsi nella società dell’informazione e dei servizi (Hazon, 106-113). La legge del 1970, che demandava alla Regioni la formazione professionale, non riguardò le istituzioni scolastiche solo in riferimento ad attività extrascolastiche come le scuole serali. Nonostante le privazioni, alcune vittime e i gravi danni materiali loro causati, la


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seconda Guerra mondiale non ebbe in Italia per i Fratelli le pesantissime conseguenze del conflitto precedente. Negli anni che seguirono la fine delle ostilità, a dispetto della la mancanza di aiuti pubblici, i Fratelli che potevano contare su una loro presenza numericamente significativa, non solo furono in grado di ripristinare e sviluppare le opere esistenti, ma ne crearono di nuove. La legislazione scolastica che si è venuta attuando ha però loro sottratto in pratica la possibilità di far entrare la formazione professionale nel quadro delle loro attività scolastiche. La crisi economica iniziata nel 1970 unita ai costi rilevanti di imposti dall’evoluzione tecnologica ha contribuito alla riduzione di insegnanti e di alunni, comportando nelle istituzioni dei Fratelli la quasi totale scomparsa dei vari Istituto tecnici. 1. Istituzioni specializzate nella formazione professionale Nel 1945, fra tutte le istituzioni dei Fratelli che abbiamo presentate nel corso della prima parte del Novecento, rimanevano in vita soltanto l’Istituto Bartolo Longo di Pompei e gli Artigianelli di Genova (aperta nel 1942). L’urgenza di porre rimedio ai danni fisici e morali che il conflitto aveva causato a tanta gioventù indusse i Fratelli a farsi carico di alcune istituzioni create appositamente Istituzioni già esistenti - A Pompei dopo il 1945 l’Istituto Bartolo Longo proseguì la sua azione con le stesse caratteristiche della prima metà del secolo. Suoi assistiti continuarono ad essere i figli dei carcerati cui veniva assicurata, oltre l’istruzione elementare, la preparazione a un mestiere. L’amministrazione ed il finanziamento competevano sempre sia al vescovo di Pompei sia a una commissione di cardinali residente a Roma. La tipografia, che aveva assunto il nome di Istituto per la Specializzazione Industriale (I.P.S.I.), nel 1952 fu dotata di nuovi macchinari. Dal 1954 nell’Ospizio prese a funzionare un Istituto tecnico grafico di secondo grado aperto anche ad alunni esterni. Tra il 1954 e il 1957 tutti i corsi del Bartolo Longo ottennero il riconoscimento legale e furono aggiunte le classi dell’Avviamento professionali e quelle di una Scuola tecnica industriale comprendente le sezioni per elettrotecnici, meccanici, motoristi, radiotecnici, ebanisti, tipografi. Furono invece chiusi i laboratori per sartoria, calzoleria, legatoria fotoincisione, che un’annotazione del 2 settembre 1955 dichiarava di rimpiangere, perché la soppressione «non consente più di far lavorare tanti giovani che non vogliono o non possono studiare». Mentre le strutture che conferivano all’Ospizio le caratteristiche di un’istituzione per l’istruzione professionale e tecnica si mantennero per un certo numero d’anni, l’Istituto tecnico grafico cessò di funzionare alla fine dell’anno scolastico 1974-75. Ma sulle ceneri del soppresso Istituto Grafico nacque l’Istituto professionale per le 51 Arti Grafiche , che successivamente travolto dalla moda delle nuove professioni

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Cf. Pompei. Splendori d’ieri. Miserie d’oggi, p. 102.


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emergenti legate all’uso del computer, fu sostituita dall’Istituto professionale Industria e Artigianato con due specializzazioni: Operatore elettrico ed Operatore elettronico per il triennio, Tecnico delle Industrie elettriche e Tecnico delle Industrie 52 elettroniche per il corso quinquennale. Un cambiamento importante si è verificato nel 2006 con la chiusura del convitto, dovuto alla legge che dispone l’accoglimento in famiglie o in case-famiglia dei i ragazzi che si trovano nelle condizioni di quelli assistiti dai Fratelli a Pompei. Nei locali dell’internato è sorto un centro polifunzionale che offre occupazione ai ragazzi fino alle 19. L istituzione comprende oggi una Scuola media e corsi di 3 o 5 anni per la formazione in elettronica. Nei suoi locali funzionano anche una scuola elementare e un doposcuola per ragazzi di famiglie disagiate, i quali usufruiscono anche di un semiconvitto finanziato dall’amministrazione del santuario.I ragazzi che li frequentano non sono più solo i figli dei carcerati, anche se alcuni di loro sono tuttora assistiti dall’amministrazione del Santuario, ma anche figli di extracomunitari, di famiglie indigenti, di genitori separati. I Fratelli hanno pure la direzione di una scuola per educatrici d’asilo. La banda musicale, aperta a tutti alunni, continua a perseguire gli scopi di sempre. L’Istituto Artigianelli di Genova, che durante la guerra aveva fatto sfollare gli allievi in vicine località della provincia, ritornò in sede nel 1948. Le condizioni in cui si svolgeva il lavoro nel 1950 sono così descritte: «La Casa Istituto Artigianelli ‘Montebruno’ accoglie una Comunità di 7 Fratelli, con 90 ricoverati. (...) Il personale scolastico è costituito da 74 ricoverati che frequentano i tre corsi di Avviamento Industriale e da 16 che lavorano nelle officine annesse di meccanica, falegnameria, tipografia. (...) Gli studi sono costituiti dal Corso di Avviamento Industriale. I nostri ragazzi la frequentano perché la legge italiana impone l’istruzione obbligatoria fino ai 14 anni, ma il programma dell’Istituto comporterebbe il lavoro nelle officine subi53 to dopo il coro elementare, con qualche ora di scuola come complemento». Il 18 dicembre 1954 venne inaugurata un’officina per motoristi. Il fratello Visitatore provinciale annotava nel suo Rapporto per la visita canonica che molti alunni degli ‘Artigianelli’ sono di famiglie bisognose incapaci a provvedere in modo conveniente all’educazione dei figlioli, parecchi dei quali provengono da istituti che raccolgono bimbi abbandonati. L’Istituto compie certo molto bene per essi. I Fratelli si dedi54 cano con molta carità. Nel 1963 l’orientamento dell’istituzione viene ridisegnato. Il rapporto per la visita di quell’anno segnala: «Col nuovo anno l’Avviamento sarà sostituito dalla Media Unificata. Si tratta di un grosso problema, soprattutto per questa casa». Negli anni successivi alle difficoltà determinate dal nuovo corso scolastico si aggiunsero le perplessità sulla funzione stessa dell’istituzione. Nel 1967 la

Id. Archivio dell’ex-Provincia FSC di Torino, Supplément à l’historique pour l’année 1950, M 1453. 54 Archivio citato, Rapporti di visita 1958-1967. 52 53


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situazione fu così riassunta: «Sta ai Superiori di prendere in considerazione il ritiro dei Fratelli stessi da questa Casa. Essa infatti non è più secondo lo spirito con cui è stata fondata sia per il tipo di scuola sia perché è diventata un colleggetto di bassa categoria, nel quale i Fratelli e gli impiegati vivono sulle tenui rette pagate dagli alunni». La decisione di chiudere l’istituzione arrivò nel 1968. Nel 1942 i Superiori avevano accolto la richiesta di destinare alcuni Fratelli all’Istituto Paolo Colosimo di Napoli, che dipendeva all’Opera Pia Patronato Regina Margherita diretta dal fondatore. L’istituzione affidata ai Fratelli accoglieva giovani ciechi alcuni dei quali sordomuti; ed ex-allievi ciechi erano gli insegnanti. Vi funzionavano una scuola elementare statale, una scuola d’avviamento professionale e una scuola tecnica professionale che poteva prolungarsi con un anno di perfezionamento. L’Istituto professionali per ciechi preparava impagliatori di sedie, rilegatori, tessitori, meccanici (addetti alla fabbricazione di macchine da scrivere per ciechi) e massoterapisti. Il numero degli assistiti raggiunse i 200. I ‘rapporti per la visita’ alla Comunità dei Fratelli sottolineano la peculiarità dell’opera. Nel 1949, ad es., il Visitatore provinciale scriveva: «quantunque limitata, l’azione dei Fratelli è socialmente assai valida». Il rapporto del 1964 metteva però in evidenza la delicatezza della situazione in cui si trovava la Comunità: «La posizione dei Fratelli non è affatto chiara nel quadro della complessa e delicata situazione (...). Essi mancano di un’autonomia che permetta loro un minimo di iniziativa» I Fratelli si ritirarono nel 1965, un anno prima della fine del contratto. Nuove istituzioni - Dopo la seconda Guerra mondiale la collaborazione dei Fratelli si è particolarmente esercitata al fianco di don Carlo Gnocchi, il fondatore dell’Opera Pro Infanzia Mutilata, costituita in Ente nel 1948. Com’è noto, lo scopo del sacerdote, dichiarato beato il 25 ottobre 2009, era quello di educare e di istruire giovani e giovanissimi che avevano subito mutilazioni a causa della guerra, assicurando loro nel contempo le cure mediche e riabilitative necessarie. Don Gnocchi a Milano era stato direttore spirituale degli alunni dell’Istituto Gonzaga negli anni 1936-37. Nominato cappellano militare, aveva fatto parte del corpo di spedizione italiano in Russia (1941-43). Ritornato in Italia aveva ripreso la sua missione al Gonzaga e nel contempo iniziò quella in aiuto ai grandi invalidi di guerra, agli orfani, ai mutilati55 ni , opera alla quale si dedicò completamente a partire dal 1946, focalizzandola sulle piccole vittime: i Mutilatini. Per loro pensò che occorresse creare centri educativi in cui non solo ricevessero l’assistenza medica ed ortopedica specialistica, ma anche quella psicologica che la loro condizione esigeva. A suo avviso la soluzione 56 ideale stava in un Collegio convitto speciale’ . La sua azione beneficiò assai dell’apporto dei Fratelli del Gonzaga, in particolare di fr. Gioviniano Negri e di fr.

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Bonetto, Riscatto del dolore innocente, p. 96. Ivi, p. 137.


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Beniamino Bonetto (che, avvalendosi della preparazione psicopedagogica acquisita negli Stati Uniti, mise la sua competenza al servizio dei mutilatini). Il primo ‘collegio’ del nuovo tipo affidato ai Fratelli nel luglio 1949 è quello di Parma. In questa istituzione denominata Santa Maria ai Servi, confluivano i giovani assistiti che avevano bisogno di protesi. Vi funzionavano una scuola elementare e una scuola media con insegnanti statali; e statali erano anche i docenti delle classi di Avviamento commerciale e della Scuola tecnica, distaccamenti di una scuola pubblica. In queste sezioni a indirizzo professionale funzionavano un laboratorio specializzato in calzature per motulesi e un altro che produceva protesi personalizzate. Gli assistiti che seguivano altri corsi di studi frequentavano le corrispondenti scuole statali della città. Nel collegio di Parma, dotato di una sala operatoria, confluivano dalle altre istituzioni della Pro Juvrentute i mutilatini che dovevano subire interventi e ricevere le attrezzature idonee. La struttura era in grado di ospitare fino a 300 mutilatini. Nell’ottobre del 1949 a Pessano, a nord della provincia di Milano, venne aperto il collegio Santa Maria al Castello, che ebbe vita breve. Nel luglio dello stesso anno, a Torino cominciò a operare il collegio Santa Maria ai Colli, che accoglieva i mutilatini dimessi da Parma e in cui trovarono sistemazione quelli di Pessano. Il 19 maggio 1950 fu solennemente inaugurato a Roma il collegio Santa Maria della Pace, in cui venne particolarmente curata la formazione professionale dei tipografi. Quando però don Gnocchi decise di ospitarvi anche i poliomielitici, nacquero problemi tali da indurre i Fratelli a ritirarsi dall’istituzione (1954). Nel 1951 a Salerno fu affidata ai Fratelli la direzione del collegio Santa Maria al Mare. Trasferita nel 1960 in una nuova sede costruita sul terreno offerto dal comune, l’istituzione poteva accogliere 150 ricoverati. Nel 1955 si ebbe a Milano l’inaugurazione del collegio Santa Maria Nascente, cui furono attribuiti nome e funzione di Centro pilota. I Fratelli ebbero anche la direzione del collegio di Torre di Palidoro, località litoranea in provincia di Roma. Già dal 1960 parecchie di queste istituzioni non esercitavano più la funzione per cui erano sorte e avrebbero perciò dovuto cambiare indirizzo. L’assistenza si orientò infatti soprattutto verso i poliomielitici, che avevano esigenze ben diverse da quelle dei mutilatini. È questo il caso dell’istituzione di Parma, che oggi assiste persone colpite da varie forme di handicap. Origine diversa ha l’Istituto Artigianato dell’Opera nazionale Maternità e Infanzia di Vibo Valentia dove i Fratelli arrivarono nel 1956. Si trattava di un’istituzione per ragazzi e giovani dai 12 ai 18 anni, la maggior parte orfani, figli di detenuti o di exdetenuti. In istituti statali, i più giovani frequentavano la scuola elementare, circa una metà degli altri seguiva il corso di avviamento commerciale i rimanenti erano distribuiti in vari corsi d’insegnamento tecnico. In sede era loro possibile svolgere esercitazioni in laboratori ben attrezzati. I Fratelli, che si occupavano della direzio-


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ne generale e dei convittori, avrebbero preferito che vi si aprisse almeno un corso professionale. Dipendevano però da un’amministrazione di cui era possibile enumerare i difetti ma non esercitare le funzioni. Per questo motivo si ritirarono nel 1966. Come avvenne dopo la prima Guerra mondiale, i Fratelli hanno saputo dar risposta anche alle necessità sociali causate dal conflitto finito nel 1945. Ma, senza considerare l’opera a favore dei ‘mutilatini’ evidentemente limitata nel tempo, i Fratelli che lavoravano nelle varie istituzioni hanno spesso dovuto sottostare a limitazioni che inceppavano la loro azione al punto da indurli a ritirarsi. Sono tutt’oggi presenti nella direzione dell’Istituto Bartolo Longo e nelle istituzioni dove, attuata in forme nuove, la loro azione educativa risulta utile ai giovani e di animazione per i collaboratori. 2. Istituzioni per l’insegnamento professionale o tecnico Ciò che al proposito si è osservato per la prima parte del Novecento va confermato, anzi maggiormente evidenziato nella seconda parte del secolo. Spesso infatti diventa arduo stabilire una distinzione fra le istituzioni professionali che preparano direttamente al mondo del lavoro e quelle che, dopo l’ insegnamento tecnico e un ulteriore grado di studi, danno accesso ai quadri dirigenti dell’industria e del commercio. Se infatti in alcuni casi i due tipi di formazione possono coesistere, in altri prevale il secondo. Sarà possibile appurarlo passando in rivista varie istituzioni, poste in successione secondo la loro collocazione geografica. Roma. Nel 1945 l’Istituto Angelo Mai, oltre al corso elementare e medio continuava funzionare la Scuola secondaria di Avviamento professionale a carattere commerciale e la Scuola tecnica commerciale. Quest’ultima venne soppressa nel 1946, per57 ché la maggior parte degli alunni trovavano subito un lavoro dopo il terzo anno . La Scuola di avviamento, dopo aver registrato una progressiva diminuzione di allievi e di insegnanti quando si verificò una notevole migrazione degli abitanti versi i quartieri periferici della città, dovette chiudere (1964). La scuola media smise l’attività nel 1996; quella elementare nel 1990. Sempre a Roma, l’Istituto Pio IX, già scuola degli Artigianelli di S. Giuseppe, era dal 1923 un centro per l’insegnamento professionale propriamente detto. L’organizzazione si mantenne invariata fino al 1957, anno in cui i corsi di studio comprendevano Elementari, Avviamento industriale, Scuola media, Istituto tecnico industria58 le e Scuola meccanica legalmente riconosciuti. Nel 1962 il corso di Avviamento industriale dovette essere sostituito con la nuova Scuola media unificata. Dall’anno 1955-56 alla sezione per meccanici dell’Istituto tecnico ne fu aggiunta una per la chimica industriale. Entrambe rispondevano alle attese delle famiglie della media

57 58

Cf. Archivio dell’ex-Provincia FSC di Roma, Storia della Casa dal 1827 al 1904. V. pubblicazione per il Primo centenario, capitolo: Lo sviluppo scolastico, p. 26.


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borghesia, che desideravano vedere i loro figli entrare nel mondo del lavoro o accedere all’università ben preparati. Anche in questo campo si verificò rapidamente un cambiamento di mentalità e l’insegnamento tecnico non riscosse più grande interesse. Già nel 1965 si era manifestata con frequenza la richiesta di sostituire l’Istituto tecnico industriale con un altro indirizzo di studi. Nel 1975-76 la risposta si ebbe con l’apertura del Liceo scientifico, che si affermò, mentre si andavano progressivamen59 te esaurendo le sezioni di meccanica e di chimica. Nonostante la guerra, il Collegio San Giuseppe-De Merode continuò a svilupparsi: nell’anno scolastico 1946-47 contava 1348 allievi. I Licei, classico e scientifico coesistevano in modo armonico con l’Istituto tecnico commerciale, che continuava a funzionare nell’edificio dell’Istituto De Merode. Quando nel 1938 il governo ventilò una minaccia di esproprio, i Fratelli acquistarono la proprietà di Villa Flaminia. Nel 1950 l’incremento della popolazione scolastica del Collegio indusse la direzione a edificare su quel terreno in vista di trasferirvi l’Istituto tecnico commerciale. Il trasferimento ebbe luogo nel 1956, ma per le ragioni che riguardarono gli istituti dello stesso indirizzo, il corso commerciale non godè a lungo della nuova sede. Dopo aver toccato un massimo di 290 nell’anno 1960-61, gli allievi diminuirono al punto da imporne la chiusura nell’anno 1970. Nel 1951 i Fratelli erano subentrati nella direzione dell’Istituto Giuseppe Toniolo che comprendeva Avviamento commerciale, Scuola media, Istituto tecnico commerciale, Istituto per geometri. Qualche anno dopo, per richiesta di Pio XII e con l’aiuto economico del Vaticano, i Fratelli acquistarono in una zona a est della città un terreno sul quale fecero costruire un edificio scolastico adeguato agli scopi. Le lezioni cominciarono nei nuovi locali cominciarono nell’ottobre del 1957. L’anno seguente l’istituzione fu intitolata a Pio XII e successivamente la Scuola professionale per tipografi, che ebbe in dotazione i macchinari già in uso nell’istituto del mutilatini chiuso nel 1954 e che funzionò fino al 1970. Come tutte le Scuole d’avviamento, nel 1962 quella del Pio XII fu sostituita da una Scuola media unificata. A sua volta l’Istituto tecnico commerciale cedette il posto al Liceo scientifico. In Piemonte a Torino l’edificio in cui dal 1913 aveva sede l’Istituto La Salle non aveva subito danni nel corso della seconda Guerra mondiale. Fu quindi più facile ottenere dal Ministero l’autorizzazione all’apertura della prima classe del corso per geometri che, iniziato nel 1946, fu completato con la quinta classe al termine dell’anno scolastico 1950-51. La stima di cui godeva l’attività didattica dell’Istituto, espressa anche formalmente dai commissari governativi negli anni 1956, 1959, 1967, 1975,...è tanto più da apprezzare quando si consideri che in quegli anni l’insegnamento tecnico era considerato da genitori e docenti come un rifugio per ragaz-

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Ivi, pag. 36.


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zi che non erano in grado di affrontare un liceo. Nel 1977 nuovo impulso venne dall’introduzione della scuola mista A questo favore dell’insegnamento facevano però riscontro alcuni problemi, il più grave dei quali rappresentato dal convitto, che andò perdendo effettivi al punto da dover essere chiuso nel 1982. Nell’anno 1986-87 con l’introduzione dei corsi curricolari di informatica, poterono essere utilizzati programmi creati per le varie specializzazioni, in particolare nel campo del disegno tecnico. Nel 1996 la Direzione generale per l’Istruzione tecnica del Ministero chiese alla direzione dell’Istituto se volesse far parte di una sperimentazione riguardante l’Istituto tecnico per ragionieri, intesa a costruire percorsi innovativi per il corso amministrativo senza stravolgerne la finalità e gli obiettivi (Viansone, 153-154). Nel 2000 un’Agenzia turistica torinese, che si proponeva di preparare tecnici del settore soprattutto in vista delle Olimpiadi invernali che la città avrebbe ospitato nel 2006, chiese all’Istituto La Salle di creare un corso, che nacque effettivamente nel 2002 sotto la denominazione di Istituto tecnico per il Turismo. Nel 2004 cessò di funzionare l’Istituto tecnico commerciale che era nato con l’istituzione stessa. Nel 2008, a causa della netta diminuzione di frequentanti, subirono la stessa sorte l’Istituto tecnico per geometri e quello per il turismo Nella stessa città, l’Istituto Arti e Mestieri continuò per trent’anni’anni ad assicurare agli allievi una formazione professionale in conformità alle intenzioni dei fondatori. L’orientamento cambiò con l’anno scolastico 1961-62, quando le classi della Scuola tecnica industriale furono progressivamente trasformate in classi dell’Istituto tecnico industriale per offrire agli allievi una formazione più completa e dar loro la possibilità di adire all’università. Il nuovo Istituto tecnico ottenne nel 1962 la parificazione della prima classe, cui seguì regolarmente quella delle altre. Nello stesso anno fu posta la prima pietra del nuovo fabbricato che l’aumento della popolazione scolastica rendeva necessario. Un primo segnale non positivo si ebbe nel 1975, quando un ispettore del Ministero rilevò la posizione irregolare di qualche insegnante, sprovvisto dei requisiti accademici richiesti per una scuola superiore (Viansone, p. 190). Nel 1983, considerando le difficoltà incontrate dagli allievi per trovar lavoro nel campo della meccanica di precisione, direzione e collegio dei docenti chiesero al Ministero e al superiore della Provincia religiosa l’autorizzazione di aprire un corso di informatica. L’ottennero, e ne1983 cominciò a funzionare un 3° anno di informatica, legalmente riconosciuto al termine di quell’anno scolastico. La crisi cominciò ad annunciarsi nel 1990, quando si accentuò la diminuzione delle iscrizioni degli allievi che dalla scuola media passavano ai corsi superiori. Ciò comportava l’aumento delle rette con il conseguente rischio di un’ulteriore calo di iscrizioni. Nell’anno scolastico 60 1994-95 si pensò di rimediare alla crisi varando un ambizioso progetto che non

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Archivio FSC di Torino, Arti e Mestieri, novembre 1995.


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ebbe seguito. A partire dal 1997 il fr. Visitatore provinciale prese la decisione di sospendere le iscrizioni nelle classi che iniziavano i corsi; l’Istituto cessò di funzionare due anni dopo. Giaveno. Nel settembre del 1945, a guerra appena finita, in una lettera indirizzata a un industriale, il direttore dell’Istituto Pacchiotti descriveva così la situazione in cui si trovava la gioventù maschile della zona: «Il maggior numero dei fanciulli del paese e dei dintorni, terminato il corso elementare non frequenta la scuola Media inferiore. (...) non potendo essere collocati all’impiego presso ditte commerciali o nelle aziende industriali, perché la legislazione non lo consente, sono, per lo più liberi di sé, faci61 li ed incoscienti vittime dell’ozio e del vagabondaggio». Per rimediale alla situazione, il direttore si diceva intenzionato a voler affiancare alla scuola media del suo istituto la Scuola di avviamento professionale, che con tre anni di studio e di esercitazio62 ni pratiche prepara direttamente i giovani all’industria e al commercio. La prima classe del corso di Avviamento professionale a indirizzo commerciale ottenne l’autorizzazione all’insegnamento al termine dell’anno scolastico 1945-46. Il 21 ottobre 1949, una lettera indirizzata alle Società Meccaniche Olivetti di Ivrea, informava che la direzione del Pacchiotti vuole aggiungere un Corso per motoristi. I corsi finirono di funzionare a partire dal 1963 con l’istituzione della Media unificata. Sebbene interessati alla riforma, i Fratelli non poterono opporsi alla diminuzione degli allievi dovuta anche alla concorrenza di una scuola media statale, e quindi gratuita, che era stata aperta nelle vicinanze. Nel 1988, a due anni dalla scadenza, il contratto con l’amministrazione non venne rinnovato. Nel 1989 una cooperativa subentrava nella direzione ai Fratelli, che mantengono tuttora al Pacchiotti una Comunità inserita nelle attività dell’istituzione e della zona. Nel 1946 l’azione educativa della Comunità dell’Istituto La Marmora di Biella, conosciuta anche fuori città, incoraggiò il parroco della vicina Valdengo a chiedere al direttore un gruppo di Fratelli ai quali affidare la scuola di Avviamento sorta nel comune. La scuola, aperta nell’ottobre di quell’anno contava 50 allievi divisi in due classi; nel 1949-50 ne contava già 120 nei corsi diurni e 40 in quelli serali. Ma proprio al termine di quell’anno scolastico le difficoltà finanziarie ne imposero la chiusura. Agli allievi fu offerta la possibilità di continuare gli studi all’Istituto La Marmora (Viansone, 236-37). A Montegrosso d’Asti il 17 ottobre 1955 a tre Fratelli fu affidata la Scuola agraria enologica, che coronava un progetto del 1920, che la seconda Guerra mondiale aveva del tutto reso irrealizzabile. Rinato al termine del conflitto, il proposito rispondeva all’opportunità di dare una specializzazione nel campo dell’enologia, caratteristica della regione. Alla direzione della scuola i Fratelli aggiunsero quella di un picco61 62

Archivio FSC di Torino, M 1824. Ivi.


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lo convitto. Un’annotazione senza data, ma sicuramente riferibile al 1959, riferisce che «nel primo anno gli allievi furono 21, nel secondo 28, nel terzo 36 e in quest’ultimo 45». Precisa che il Consorzio provinciale per l’Istruzione tecnica ha pagato lo stipendio agli insegnanti. La scuola si trovava in un edificio concesso gratuitamente, ma richiedeva nuovi spazi. Il ‘rapporto della visita’ del 1959 fa tuttavia presente che gli alunni sono pochi e difficilmente potranno aumentare. Venendo a mancare 63 l’attuale direttore, che è del luogo, la scuola non potrebbe facilmente sostenersi. La chiusura si verificò quell’anno stesso. Con una lettera del 5 marzo 1962 il comitato che aveva costituito un Mutuo Fondiario per la costruzione dell’Istituto professionale a indirizzo enologico di Montegrosso d’Asti riproponeva il progetto ai Fratelli, che però non accettarono. All’Istituto Gonzaga di Milano nel 1945 a livello di scuola secondaria superiore funziona, oltre ai Licei classico e scientifico, un Istituto tecnico per ragionieri le cui 5 classi erano state legalmente riconosciute tra il 1953 e il 1956. I responsabili scolastici, desiderosi di adeguare l’insegnamento al progresso tecnologico, presentarono una proposta di sperimentazione per l’anno scolastico 1984-85 allo scopo di introdurre nei primi due anni dell’ITC l’Informatica e applicazioni in sostituzione di Dattilografia e stenografia, materie che furono comunque insegnate finché incontrarono la richiesta dei genitori e degli allievi, che si esaurì nell’anno 1998-99 e comportò di conseguenza la chiusura della prima classe e successivamente della altre. Nel penultimo anno del secondo conflitto mondiale il direttore del Gonzaga aveva accolto con favore la domanda di operare in una scuola elementare di Crescenzago, località allora alla periferia di Milano. La richiesta veniva dal sacerdote cui era affidata la parrocchia San Giuseppe, dove dal 1943 i Fratelli erano presenti come catechisti. Nell’anno scolastico 1944-45 accanto alla scuola elementare prese a funzionare una scuola di Avviamento di tipo industriale, che l’anno dopo contava già 300 allievi. Dal 1954 entrambi i corsi poterono trasferirsi in una nuova costruzione, nella quale gli allievi della scuola professionale ebbero a disposizione officine modernamente attrezzate. Nel 1955 venne aperta la scuola media, che, in ottemperanza alla legge del 1962, incorporò progressivamente le classi di avviamento. Non ebbe seguito il progetto (1966) di istituire il primo biennio di Istituto professionale «in 64 modo da preparare ottimi meccanici e ottimi operai specializzati». Nel secondo dopoguerra l’attività scolastica riprese nella scuola di Benevento, che nel corso del conflitto era stata trasformata in ospedale per le vittime dei bombardamenti. Insieme al Liceo classico funzionavano le quattro classi dell’Istituto tecnico commerciale, che a partire dal 1972-73 fu gradualmente sostituito dal Liceo scientifico. Oggi nell’Istituto, paritario, funziona anche una scuola media.

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Archivio FSC di Torino, M 1506. Ivi in Documentazione per la storia. Istituto Gonzaga, p. 20.


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A Napoli i Fratelli dirigevano dal 1930 l’Istituto Armando Diaz (nome che nel 1950 fu cambiato in La Salle). Nel 1956 un gruppo di insegnanti chiese di poter aprire nei locali della scuola un corso tecnico commerciale pomeridiano. All’autorizzazione dei Fratelli si unì quella ministeriale e le lezioni poterono iniziare nel settembre dello stesso anno. Il corso passò alla direzione dei Fratelli nel 1962; la parificazione fu concessa nel 1963 per le tre prime classi dell’Istituto tecnico commerciale e nel 1964 per le ultime due. Nuovi vantaggi derivarono dalla parità accordatagli nel dicembre del 2000. Nonostante ciò l’indirizzo tecnico subì le conseguenze della demotivazione di famiglie e di allievi che lo consideravano inferiore al Liceo. Si aggiunsero le difficoltà create dal fatto che molti allievi provenivano da lontano e dovevano perciò aggiungere alle spese scolastiche quelle dei trasporti e il disagio della trasferta. L’Istituto tecnico che nel 1979-80 aveva superato i 200 allievi, ne contava meno di 100 all’inizio del 2003-04: la chiusura è parsa inevitabile. Nel 2007-08 al La Salle funzionava ancora una classe di Liceo e una di Istituto tecnico. La chiusura definitiva è avvenuta nel giugno 2009. La crisi riguarda a Napoli altre simili istituzioni rette da congregazioni: dal 1999 ne sono state chiuse quattro. A questo punto appare non poco sconfortante il bilancio che riguarda le scuole a indirizzo tecnico o professionale dirette dai Fratelli. Se il dopoguerra era stato piuttosto favorevole in questo campo dell’insegnamento, al termine del periodo ora considerato occorre constatare che per quanto riguarda i Fratelli in Italia esso si è praticamente chiuso. Nel tentativo di darne ragione, si è già accennato al cambiamento di mentalità delle famiglie e degli allievi che ha portato ad accantonare quel tipo di studi. Occorre aggiungere che in Italia le scuole non statali sono escluse da ogni sovvenzione pubblica e ciò è doppiamente penalizzante per l’insegnamento tecnico, particolarmente costoso. Va poi notato che il problema s’è ulteriormente aggravato con la diminuzione dei Fratelli. Le Comunità, ancora assai numerose nell’ immediato dopoguerra, hanno subito, insieme con una diminuzione del personale anche quella di chi possedeva specifiche qualifiche per l’insegnamento tecnico e professionale. Ciò ha comportato un sempre più impegnativo ricorso a collaboratori laici, con l’appesantimento dei bilanci che non sempre si è tradotto in miglior servizio per le famiglie. 3. Formazione professionale per giovani non scolarizzati o per adulti Le scuole serali aperte in numerose istituzioni dei Fratelli a partire dalla metà nell’Ottocento hanno continuato a funzionare anche in seguito. Ma ciò che sembra interessante e che anche nella seconda metà del Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, sono sorte iniziative dello stesso tipo tuttora operanti. Nel frattempo l’Unione dei Catechisti ha sviluppato la propria azione, creando una rete di Case di Carità (ben 16 in Italia) che danno una formazione professionale a giovani e adulti che si preparano a un mestiere o già lo svolgono. Corsi serali. A Torino la scuola serale di Santa Pelagia aveva smesso di funzionare nel 1936. È nel 1953 che trovò la sua realizzazione il progetto, di crearne una al Col-


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legio S. Giuseppe. Lo aveva caldeggiato un Fratello come campo di esperienza apostolica per i giovani del circolo di Azione cattolica. Ne fu affidata l’organizzazione a fr. Cecilio Ughetto, insegnante del Collegio, che, come è detto nella biografia intendeva «introdurre i poveri al San Giuseppe, metterli in fraterno contatto con i figli della borghesia mediante l’istituzione di una scuola serale gratuita per giovani operai; una scuola gestita, oltre che dai Fratelli, da docenti, ex allievi e magari da 65 allievi grandi del San Giuseppe». Le lezioni della scuola serale Fratel Teodoreto ebbero inizio il 17 ottobre e riguardavano un corso per disegnatore particolarista meccanico e due corsi di lingue (francese e inglese). La settimana si chiudeva con mezz’ora di istruzione religiosa, condotta in sintonia con i problemi e la preparazione degli uditori. Soprattutto agli inizi i frequentanti furono immigrati del sud Italia, che in quel tempo affluivano numerosi a Torino. I corsi erano gratuiti, perché gli insegnanti erano Fratelli o ex allievi. Le altre spese di gestione erano coperte dal Collegio e con il contributo di diverse imprese. Nominato direttore dell’Istituto Arti e Mestieri fr. Cecilio lasciò la scuola serale nel 1961. Dopo di lui i corsi, che preparavano anche alla licenza media, si sono arricchiti, integrando l’insegnamento con l’informatica. Le richieste sono però andate via via calando, soprattutto perché in Italia andava notevolmente crescendo il livello della scolarizzazione, perciò la scuola ha terminato di funzionare nel 2005. A Biella, al tempo della grande migrazione interna dal sud Italia e dal Veneto, fr. Narciso Barindelli, direttore dell’Istituto La Marmora, diede inizio nel 1955 a corsi biennali di contabilità prima e poi di dattilografia. Inizialmente vi fu ammesso solo chi non era in possesso della licenza media o di quella di avviamento professionale, poi la frequenza divenne libera. Grazie al volontariato di Fratelli, docenti ed ex allievi i corsi erano liberi. A partire dal 1960-61 ai due anni previsti dal corso per contabili si aggiunse un terzo anno di perfezionamento. In anni successivi furono offerti tre nuovi corsi di lingue (inglese, francese, tedesco) e un nuovo corso di dattilografia e stenografia. Nel tempo i frequentanti passarono dai 133 del 1970-71 ai 267 del 1975-76 (Viansone, 219-221). L’adeguamento della didattica portò all’apertura di un laboratorio linguistico (1987), di corsi di informatica e di analisi finanziaria (1989) e più recentemente alla realizzazione di un laboratorio d’informatica (2001) con 12 postazioni. Dal 1997 anche a Biella si è via via registrata una diminuzione di presenze, che ha portato alla chiusura dei corsi nel 2006. All’Istituto Pacchiotti di Giaveno venne creato nel 1945 un corso serale triennale per apprendisti disegnatori meccanici che fu subito legalmente riconosciuto dal Consorzio provinciale per l’Istruzione tecnica. Visto il buon esito del corso serale, nel 1949-50 se ne aggiunsero due festivi, uno per impiegati di commercio, l’altro per apprendisti motoristi (Viansone, 256-57). Nel 1955-56 i frequentanti furono 120; e

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Come Cristo a tempo pieno, pp. 119-120.


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quando anche a Giaveno si verificò una flessione di presenze, l’amministrazione comunale espresse il desiderio che la scuola serale venisse riattivata; cosa che avvenne alcuni anni più tardi, con l’avvio di quattro nuovi corsi, un dei quali d’informatica. Come si è visto, nel 1989 la gestione dell’Istituto Pacchiotti passò a una cooperativa, che mantenne e incentivò l’insegnamento serale. A Milano, nel 1990 fu inaugurata nell’Istituto Gonzaga la Scuola La Salle, con il precipuo scopo di fornire agli immigrati una conoscenza linguistica di base, creando opportunità di socializzazione e di sostegno all’integrazione degli immigrati nel mondo del lavoro. Ne sono stati coordinatori i Fratelli e il cappellano dell’Istituto, coadiuvati da ex allievi del Gonzaga, loro amici universitari e diversi liceali del 5° anno. Gli allievi dei corsi sono arrivati a 840 nell’anno 1993-94, per poi scendere ai circa 300 degli anni successivi. Gli insegnanti al novembre del 2007 sono 14; 10 le 66 classi, costituite a vari livelli. Casa di Carità Arti e Mestieri. Tre erano gli aspetti della missione che fra’ Leopoldo aveva affidata ai Fratelli: la diffusione della devozione a Gesù Crocifisso, l’istituzione dell’Unione dei Catechisti di Gesù Crocifisso e di Maria Immacolata, la creazione di una Casa di carità Arti e Mestieri. Obiettivo comune: la formazione di operai cristiani secondo la dottrina sociale della Chiesa e nel rispetto del principio secondo il quale la formazione professionale può rendere più umano ed efficace il lavoro 67 umano. Con la sua opera, fr. Teodoreto è riuscito a realizzare i primi due aspetti della missione ricevuta; non vi corrisponde invece il terzo, realizzato dai Fratelli, sia per quanto riguarda il nome sia per quanto attiene alla gratuità, che doveva essere completa. Anche nei corsi l’istituzione non corrispondeva con esattezza alla funzione che avrebbe dovuto caratterizzare la Casa di carità, vale a dire la formazione professionale di giovani apprendisti e di operai già occupati o in cerca di occupazione. Per questo l’Unione Catechisti ha fondato nel 1950 un proprio centro in corso Brin. In questa nuova sede, dopo aver ripristinati i corsi serali e domenicali, ha potuto estendere la propria azione aprendo corsi diurni di formazione per apprendisti e disoccupati. I Fratelli hanno però mantenuto solidi legami con la Casa di Carità. Un caso è rappresentato da Giaveno, dove nel 1961 venne costruita una Casa di carità A&M, in cui i Fratelli avrebbero voluto lavorare, ma a cui dovettero rinunciare perché numericamente ridotti e quasi privi di personale con una preparazione adeguata. Per assicurare il futuro a istituzioni di questo tipo, è stata creata un’associazione tra la Provincia di Torino dei Fratelli e l’Unione Catechisti, che ha portato alla nascita dell’Ente morale Casa di Carità Arti e Mestieri, di cui erano membri fondatori e corresponsabili della gestione. Oggi i due gruppi hanno espresso, in modo paritetico, i responsabili di una Fondazione che porta lo stesso nome.

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Notizie fornite da fr. Dino Gianesello. Dall’intervista con il dott. D. Conti.


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Attualmente sono circa venti le opere che si dedicano alla formazione professionale al di fuori della scuola istituzionale, sia nei corsi serali infrasettimanali, per operai che vogliono qualificarsi, sia nei corsi diurni, per apprendisti o per disoccupati. L’attività svolta nei vari centri è possibile grazie alle sovvenzioni delle industrie e agli stanziamenti delle Regioni, cui compete il settore della formazione professionale. Questi contributi finanziari permettono di rispondere in modo adeguato alle esigenze locali, come è avvenuto nel 2001, quando la Casa di Carità che ha sede nell’Istituto Pacchiotti ha potuto attivare uno sportello d’ascolto, per l’orientamento 68 professionale degli studenti della Valsangone. I Fratelli hanno sono stati parte attiva nelle istituzioni di cui è parlato fin qui; anzi alcuni di loro hanno dimostrato uno zelo davvero straordinario. Ciò che però acquista evidenza, soprattutto a partire dalla metà del Novecento, è che il rinnovarsi dei corsi serali che abbiamo ricordato è dovuto a gruppi di volontari e specialmente da ex allievi che si sono costituiti in Associazione per assicurarne il buon funzionamento e la continuità. Molti hanno dato eccellenti esempi di generosità

Conclusione 69

Come per l’articolo precedente , a conclusione di questo studio occorre innanzitutto mettere in evidenza quali sono state le persone coinvolte in Italia nella formazione tecnico-professionale. 1. Nel nostro caso si tratta in particolare dei Fratelli protagonisti che si sono dedicati senza riserve ai giovani e agli adulti per far loro acquisire competenze professionali. In queste pagine è stato citato il nome di un certo numero di loro. Per l’Ottocento si è trattato, a proposito dell’Orfanotrofio dei Termini a Roma, dei Fratelli Pio di santa Maria ed Hervé de la Croix. Difficile trovare personalità tra loro più differenti, ma pure un impegno più condiviso e totale. All’inizio del Novecento fra le figure di tanti Fratelli che hanno avuto quasi l’assillo per la formazione cristiana e professionale dei ragazzi dei ceti popolari. spicca la quella di Fratel Teodoreto; ma sarebbe ingiusto trascurare l’azione efficace svolta da fr. Isidoro di Maria perché fosse realizzato l’Istituto Arti e Mestieri. Si è parlato di fr. Cecilio, apostolo della stessa missione sia al San Giuseppe che all’Arti e Mestieri di Torino; e ancora di fr. Beniamino Bonetto, stretto collaboratore di Don Gnocchi nell’opera a favore dei ‘mutilatini’... Tanti altri Fratelli, dirigendo o insegnando, hanno contribuito all’opera realizzata nelle istituzioni per la formazione tecnica o professionale. Ma è doveroso parlare anche dei tantissimi che si sono occupati – giorno e notte, a scuola e in vacanza, negli

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Dal colloquio con fr. Felice Proi. I Fratelli delle scuole cristiane e l’insegnamento tecnico in Francia, Rivista lasalliana, 74 (2007) 1.


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orfanotrofi o in opere consimili – di bambini, ragazzi e giovani che vivevano situazioni personali, economiche e familiari difficili da gestire con sensibilità educativa. Spesso questi Fratelli erano assai pochi in rapporto al numero degli assistiti o alle mansioni che dovevano svolgere; e tutto ciò, anche se si potrebbero aggiungere altre ragioni, è sufficiente a spiegare perché, se non eccezionalmente, i Fratelli non sono stati in grado di assicurare la continuità della loro presenza. Sono tutti aspetti interessanti, ma non è possibile trattarne oltre; ma ce ne sono almeno altri due che occorre considerare alla luce di ciò che si è detto nel precedente articolo che esponeva analoghe situazioni in Francia. Dal raffronto è possibile far emergere sia le molte analogie sia le differenze che caratterizzano l’azione svolta dai Fratelli in Italia e in Francia. 2. Il primo rilievo riguarda quella che potremo definire la dimensione caritativa della formazione professionale. In effetti è un’evidente forma di carità cristiana quella di consentire a giovani o ad adulti che vivono in situazioni precarie di preparasi a un mestiere; eloquente la citazione che si è fatta trattando della ROMI a proposito della scuola domenicale di Santa Pelagia a Torino; vi si è letto che «questa esperienza segnò una svolta nell’attività dell’Opera; prese infatti avvio un processo di trasformazione che portò sempre più a privilegiare l’educazione rispetto all’assistenza» (Rocchetta, 10). Se questo aspetto non è posto in evidenza parlando delle istituzioni francesi è perché era da intendere come implicito. Quell’articolo si proponeva infatti di dimostrare che assicurare una formazione capace di affrancare dalle incertezze dell’esistenza è stato e resta per i Fratelli e gli altri Lasalliani un modo concreto per mettere in atto il ‘servizio educativo dei poveri’. Per quanto riguarda l’Italia è opportuno tener conto del notevole numero di Fratelli che ha lavorato in istituzioni caritative. Erano certamente consapevoli di ciò che facevano; e si è visto quanto sovente i Fratelli visitatori abbiano sottolineato questa dimensione. È la stessa posta in evidenza dal nome di ‘Casa di Carità Arti e Mestieri’ che i Fratelli Teodoreto e Isidoro di Maria avrebbero voluto per l’opera iniziata a Santa Pelagia nel 1920. Come si è visto, la Provincia religiosa stabilì come definitiva la denominazione in Arti e Mestieri, che corrisponde a quella che nel resto del mondo lasalliano è attribuita alle istituzioni di questo tipo. La dimensione caritativa pare infatti assicurata dal fatto stesso che i Fratelli le pongono al servizio del ceto popolare cui appartenevano il loro allievi, per preparali a una professione o, nel caso di apprendisti ed operai, per qualificarli nel lavoro. Sono i caratteri distintivi di un’azione educativa che risale ai primordi dell’Istituto, quando le scuole dei Fratelli erano appunto ‘Scuole di carità’ create ‘per i poveri’. Jean-Baptiste de La Salle volle che quelle da lui fondate fossero chiamate ‘Scuole cristiane’, perché tale nome includeva sì l’aspetto caritativo, senza però esaurirvisi. 70

A partire dal Capitolo Generale del 1966-67 l’Istituto ha nuovamente posto in risal-

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Rivista lasalliana, 2007/1, pp. 39-40.


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to il carattere caritativo della missione dei Fratelli, ridando importanza a quello che è designato come ‘il servizio educativo dei poveri’. In Francia i Fratelli si sono impegnati a darvi risposta nell’ambito della istituzioni già esistenti, e in particolare di quelle a indirizzo professionale o tecnico, ma hanno avvertito l’obbligo morale di trovare nuove forme per arrivare ‘ai più poveri’. Così è stato anche in Italia e in altri Paesi. L’orientamento capitolare del 1966 è stato anticipato in Italia, dove il desiderio di operare nel campo della solidarietà sociale ha portato alla nascita dell’Unione dei Catechisti e si è concretato nella multiforme attività della Casa di Carità71. Altre iniziative sorte intorno agli anni ’50 del Novecento hanno portato alla rinascita delle scuole serali, come a Torino S. Giuseppe e a Biella, dove è stata più forte l’influenza di fr. Teodoreto e della sua opera. 3. Una seconda osservazione merita d’essere fatta a riguardo di ciò che in un recente passato è capitato, in Italia e in Francia, alle istituzioni che si occupavano della formazione professionale e dell’insegnamento tecnico. Può darsi che sia stata un po’ idealizzata la situazione francese, lasciando capire che nel loro complesso le istituzioni di quel tipo non abbiano subito flessioni o addirittura abbiano incrementato la loro attività, perché ce ne sono che si trovano in difficoltà dovute principalmente alla diminuzione delle domande d’iscrizione ad alcuni degli indirizzi offerti. Per Italia occorre prendere atto che nelle scuola dei Fratelli la formazione tecnica o professionale è quasi del tutto scomparsa. Come già si è detto le cause sono da attribuire in gran parte alla disaffezione di genitori ed alunni, ma anche al fatto che in quelle istituzioni, non sovvenzionate pubblicamente, è divenuto sempre più difficile aprire sezioni con certe specializzazione anche a causa della mancanza di Fratelli. Difficile però spiegare situazioni tanto diverse tra loro se non si esamina un elemento che fa la differenza fra i due Paesi. In Francia le istituzioni scolastiche non statali godono delle sovvenzioni governative, cosa che, com’è arcinoto, non capita in Italia, dove fin dal primo momento occorre far conto unicamente sulle rette pagate dalla famiglie. Diventa arduo far pesare su di loro la gestione di un insegnamento e di attrezzature assai impegnativi sotto l’aspetto finanziario; e d’altra parte sono di solito proprio le famiglie a reddito modesto o basso che vorrebbero indirizzare i figli a quel tipo di studi. Fortunatamente, com’è stato ricordato, in Italia le Regioni si accollano parte delle spese che la formazione professionale e l’insegnamento tecnico comportano. Ciò permette alle varie Case di Carità dirette dall’Unione dei Catechisti di continuare nel loro servizio. A proposito del quale va detto che gli indirizzi presi si rivelano particolarmente lungimiranti, anche se, occorre ribadirlo, la situazione è peggiorata a causa della diminuzione dei contributi pubblici e dell’accresciu-

17 i centri operativi in Italia, ai quali vanno aggiunti i 7 enti associati e la ‘Casa de Caridad de Arte y Oficios’ di Arequipa, in Perù.

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ta difficoltà di trovare ragazzi e famiglie che si orientino verso i corsi di formazione offerti. Può servire a capire meglio la differenza fra le situazioni dei due Paesi, far notare che in Francia è più facile superare la rigidità del sistema scolastico, perché è possibile creare reti fra le scuole lasalliane che perseguono una preparazione più adeguata ai tempi e all’utenza, proponendo progetti professionali alternativi e sviluppando centri di formazione per lavoratori già in attività o in cerca di occupazione. Le considerazioni fin qui fatte ci permettono di concludere che, a riguardo dell’argomento trattato, Italia e Francia hanno in comune almeno la possibilità di proseguire nel loro cammino. Traduzione dal francese di Marco Paolantonio

Documentazione – Fondi d’Archivio Ex Provincia FSC di Torino: Case di Biella, Genova Artigianelli, Giaveno, Collegio S. Giuseppe e Scuola serale Fratel Teodoreto, Sordomuti. Ex Provincia FSC di Roma: Registro relativo alle Scuole lasalliane nello Stato pontificio prima del 1747 - Cartelle delle Scuole di Benevento, Catania, Martina Franca, Napoli Colosimo, Napoli La Salle, Pompei, Roma Angelo Mai e Pio IX, San Giuseppe Vesuviano, Vibo Valentia. Casa Generalizia: per le Case di Roma: Ospizio di Termini, Angelo Mai, S. Giuseppe-De Merode, Pio IX; per le Case di: Catania, Martina Franca, Parma, Pompei, Reggio Emilia. Altri archvi: Roma Collegio San Giuseppe-De Merode; Torino Collegio San Giuseppe.

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RivLas 77 (2010) 1, 121-152

La formazione dell’uomo in detenzione: attualità della concezione formativa di J.-B. de La Salle ANTONIO DE SALVIA

SOMMARIO – 1. Premessa – 2. Contesto storico e culturale – 3. La concezione pedagogica e formativa del La Salle – 4. I destinatari dell’opera del La Salle e dei Fratelli delle scuole cristiane – 5. La formazione della persona in detenzione secondo la concezione trattamentale nel sistema giuridico-penale contemporaneo – 6. La formazione professionale e il percorso di (re)inserimento lavorativo e sociale secondo l’esperienza del CFPP-Casa di Carità – 7. La formazione umana e cristiana – 8. La persona come centro del processo formativo: attualità dell’insegnamento di J.-B. de La Salle – 9. Alcuni aspetti critici della pena detentiva in Italia – 10. Prospettive e proposte – 11. Nota conclusiva – Riferimenti bibliografici.

1. Premessa

L’

opera di J.-B. de La Salle realizzata fin dal XVII secolo è stata per me una scoperta sorprendente che mi ha sollecitato ad intraprendere un percorso più attento di ricerca e di acquisizione di dati conoscitivi che potessero evidenziare contenuti e metodi, e che facessero risaltare la concezione pedagogica di fondo. Tale scoperta ha suscitato in me una posizione di umiltà e una di ammirazione: la posizione di umiltà, di disponibilità ricettiva, di ascolto, di assorbimento è stata indotta dalla imponenza, ampiezza, novità, adattabilità e versatilità dell’opera educativa e formativa; è stata, inoltre, determinata dal superamento dei luoghi comuni che l’impostazione iconoclasta dell’Illuminismo aveva attribuito all’ancien régime ignorando e non rilevando neppure la presenza di uno spirito illuminato prima dell’avvento del secolo dei lumi. La mia ammirazione deriva dalla constata-


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zione che l’opera lasalliana è testimonianza di un genio innovatore che è già avanti, anticipa non solo il XVII secolo, ma risulta avanti anche per i secoli successivi. Pur nella varietà dell’articolazione dell’opera lasalliana la cifra identitaria che qualifica e caratterizza i fini, i contenuti e la metodologia è sempre riconoscibile e rivelativa di una concezione antropologica cristiana che plasma e sostanzia la formazione dell’essere umano. La proposta di istruzione e formazione è rivolta a tutti: ai benestanti e ai disagiati, ai giovani e agli adulti, agli uomini liberi e a quelli in detenzione. L’organizzazione di percorsi di istruzione e formazione professionale (acquisizione di capacità tecnico-pratiche per l’esercizio di mansioni lavorative qualificate) è strutturata in funzione delle esigenze dei destinatari: continuativa e quotidiana per i giovani; ricorrente e ciclica per gli adulti. In ognuna di queste attività la formazione è intesa come un processo che comprende un binomio molto stretto e inscindibile (formatore/formando, operatore/allievo) che fanno vita comune (non solo attività didattica e didascalica); e tale processo si espleta nella comunità, che è testimone presente e sempre coinvolta, nella vita individuale e di relazione. La novità sorprendente di questa metodologia emerge come una rivoluzione copernicana se ci soffermiamo, anche fugacemente, a considerare che l’istruzione, l’attività didattica era prevalentemente un fatto privato che interessava un precettore e un allievo e, perciò, non poteva che riconoscersi come elitaria e individualizzata. Il tema che si intende sviluppare in queste pagine ha un ambito abbastanza definito: la formazione dell’uomo in detenzione; il focus di questa trattazione non può prescindere dal tenere presente questa specifica prerogativa e connotazione, senza dimenticare che la detenzione è una condizione temporanea (ha un inizio e una fine) e che colui che è in detenzione non perde mai la propria qualità di uomo e di persona. Pertanto, in questa trattazione, ci saranno riferimenti specifici alla condizione di detenuto senza disconoscere la facoltà dell’uomo inteso come essere conoscente, in divenire, che, anche in detenzione, non perde le proprie potenzialità, le proprie prerogative di soggetto e di faber suae fortunae.

2. Il contesto storico e culturale Il percorso esistenziale di J.-B. de La Salle ha inizio nel 1651 e termina nel 1719 in Francia. Quel periodo storico, anche ad un’analisi superficiale, risulta controverso e lo scenario che si intravede manifesta discordanze e asimmetrie adottando un parametro sia storico che sociale, giuridico, antropologico, pedagogico, criminologico. Rappresentanti emblematici in Francia del XVII secolo sono Luigi XIII, Richelieu, Luigi XIV, Mazarino, ma anche Molière, Racine, La Rochefoucauld, Pascal, Fénelon, Bossuet. Il re è il legato di Dio, esercita il potere assoluto; la religione di stato è considerata e utilizzata come strumento per governare.


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La società è ripartita rigidamente in tre stati o classi; l’appartenenza al clero, ai nobili o al terzo stato determina alcune modalità consequenziali nell’attribuzione e riconoscimento dei diritti: per giudicare e punire lo stesso delitto sono competenti tribunali diversi, e l’applicazione del codice penale è discrezionale, arbitraria, più benevola, evitando la condanna alle pene più afflittive (pena di morte, torture, detenzione nelle carceri comuni...) per gli imputati appartenenti all’ordine dei nobili o del clero. Per tutti gli altri «sotto l’ancien regime l’amministrazione della giustizia è pianificata per la rovina dei cittadini» (Voltaire). Sono considerati delitti l’ateismo, l’eresia, la stregoneria, la lesa maestà. Le pene da comminare: essere bruciati vivi, tortura della ruota, mutilazione, fustigazione, gogna, lavori forzati, carcerazione e privazione anche dei diritti più elementari. Molto diffuso e praticato il ricorso alle Lettres de cachet, alle denunce anonime a cui segue la scomparsa della persona considerata colpevole: «Datemi due righe scritte da qualcuno e posso attribuirgli tutti i delitti possibili» (Richelieu). Per quanto riguarda la concezione pedagogica riemergono alcuni precetti che ripropongono l’equazione istruzione = educazione (è educato e si comporta bene chi sa); ripropongono la predeterminabilità del comportamento: «come ci sono piante che nascono da malo seme, ci sono individui inclini incorreggibilmente al comportamento delittuoso»; queste affermazioni anticipano e rivelano la loro persistenza ancora nella seconda metà del 1800, quando il nostro C. Lombroso sostiene che esiste il delinquente nato, dotato di una costituzione fisica e patologica specifica che lo induce a commettere reati. Il valore dell’uomo nel contesto del XVII secolo non trova il suo fondamento nella sua essenza ontologica né è riconosciuta l’identità, l’equivalenza tra essere umano e persona, come sostanza individua di natura razionale (Boezio) o come principio dell’atto dell’essere in un individuo intelligente (Rosmini). J.-B. de La Salle segue alla lettera e mette in pratica gli insegnamenti del Vangelo: per conoscere ed essere utili ai poveri e alle persone disagiate bisogna condividere la loro povertà e ‘diventare’ poveri e disagiati, avere il sentimento di percezione e di appartenenza; per essere in grado di formare e di educare gli altri (giovani, adulti, istruiti o analfabeti, persone già integrate nel contesto sociale, persone devianti, emarginate, in stato di detenzione) non solo bisogna mettere a loro disposizione i propri beni materiali (quod superest vobis date pauperibus), ma soprattutto le proprie risorse e capacità personali per accompagnare l’altro nel proprio percorso di crescita, di maturazione ed autonomia. L’universalità dell’istanza pedagogica e formativa non è genericamente rivolta all’uomo, ma è specificamente, individualmente, pienamente indirizzata ad ogni essere nella sua differente ed irripetibile unicità esistenziale, nella convinzione che ognuno (giovane indisciplinato, libertin, detenuto, o studente di scuola superiore) possiede le risorse e le capacità potenziali che è necessario scoprire, attivare, orien-


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tare senza mai trascurare o disconoscere il suo ruolo prevalente di protagonista, di soggetto - e di soggetto conoscente - nell’elaborazione e nella realizzazione del proprio progetto formativo.

3. La concezione pedagogica e formativa di J.-B. de La Salle La concezione pedagogica e formativa sia nell’impostazione teorica che nella sua effettività pratica sorprende e stupisce per la vastità, per la completezza, per l’organicità della struttura, la sistematicità dell’articolazione e la stretta correlazione tra l’enunciazione ideale, teorica e la verifica puntuale ed immediata nella praticabilità quotidiana. Risulta pertanto difficoltosa - e arbitraria - la scelta di alcuni aspetti o elementi identificativi della pedagogia lasalliana. Tuttavia, per le dimensioni della presente trattazione e, soprattutto, per la mia insufficiente conoscenza dell’opera del La Salle, avverto l’obbligo e l’utilità di cogliere antologicamente alcuni elementi che si rivelano per me più significativi. Il processo formativo è fondato sulla intensità della relazione che si stabilisce tra l’educatore e l’educando, tra il formatore e l’allievo, tra l’ambiente educativo e la persona; tale relazione è in costante e dinamico divenire e costituisce un binomio nel quale i due elementi si sentono coinvolti e sviluppano la loro crescita e maturazione: l’educazione - ben diversamente dall’istruzione - non può essere trasmessa attraverso un protocollo o una raccolta di precetti e di adempimenti da assolvere; l’educazione deve essere avvalorata, inverata e consolidata dalla testimonianza di vita, espressa non tanto nella enunciazione didattica quanto piuttosto nella convivenza, nella realtà effettuale dei vissuti, nelle situazioni esistenziali più complesse dove le posizioni teoriche devono trovare il proprio banco di prova alimentando costantemente la dialettica e la corrispondenza tra il piano concettuale e quello pratico. Il modello lasalliano, pedagogicamente parlando, è il cristiano maturo, responsabile, consapevole, motivato, disponibile a relazionarsi con Dio recependo e sperimentando il suo amore (Deus caritas est) e a relazionarsi con gli altri riconoscendo il loro valore di figli di Dio (Padre nostro) e rispettando la loro dignità di persona. Ogni uomo, anche quando si allontana da Dio a causa del peccato o è allontanato dal contesto umano e sociale a causa del reato, mantiene sempre la capacità di maturare la decisione di ritornare alla casa del Padre (cfr. la parabola del figlio prodigo) o di richiedere la propria ricollocazione e il (re)inserimento nella società dopo aver intrapreso, seguito e compiuto un percorso emendativo. Si può rilevare un elemento connotativo della genitorialità nella sollecitudine e nella sensibilità con cui il formatore si pone nella variegata articolazione dei rapporti intersoggettivi. L’abbinamento dei sostantivi con gli aggettivi, oltre alla congiunzione lessicale e alla musicalità del tono, rappresenta una delle caratteristiche distintive della pedagogia lasalliana che si propone come pedagogia preventiva quando si


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rivolge agli allievi e ai ragazzi in formazione e come pedagogia emendativa quando si rivolge a giovani e adulti che, commettendo un reato, hanno violato il codice penale: essa rifiuta sempre non solo l’azione coercitiva, forzosa, impositiva, costrittiva, ma anche l’invadenza, la pressione importuna, l’insistenza indiscreta. Sono davvero apprezzabili - per contenuto, forma e accostamento - i concetti-guida che orientano l’attività formativa dell’educatore lasalliano:dolce persuasione, attesa paziente, attenzione preventiva, sapiente mediazione, testimonianza convincente, testimonianza evangelica coerente. La seduzione ideale e la mia adesione alla concezione pedagogica di J.-B. de La Salle diventa entusiastica quando riesco a metterla a confronto facendo emergere l’originalità del metodo che, ad esempio, risalta dalle seguenti raccomandazioni rivolte ai Fratelli in quanto educatori e formatori: La correzione deve essere proficua e vantaggiosa: deve sempre giovare a quanti la ricevono o la fanno (Conduite des écoles); gli uomini, e perciò anche i giovani, sono dotati di ragione, non devono essere corretti come dei bruti, ma come esseri ragionevoli (Méditations pour les temps de la retraite). Non riesco a tacere e a non ricordare per inciso una massima molto seguita nella pratica educativa di quel tempo: «Le busse (le botte) ai ragazzi fanno sempre bene, che le meritino o non le meritino; se le meritano sarà stata fatta giustizia, se non le meritano si eserciteranno nella pazienza». Invece, secondo la concezione lasalliana, la correzione è l’azione da intraprendere per aiutare il giovane o la persona che ha sbagliato, a comprendere il proprio errore, e deve esplicarsi come «caritatevole, giusta, proporzionata, moderata, calma, prudente, silenziosa, compresa ed accettata dall’alunno» (Conduite des écoles). Pur avendo come scopo e come modello della propria attività educativa la formazione del cristiano, traspare con illuminante e riaffermata chiarezza il riconoscimento rispettoso dell’essere individuale, dell’uomo, della persona da cui non si può prescindere come soggetto responsabile delle proprie scelte. L’educatore non deve interferire, affrettare i tempi, o irretire; egli deve piuttosto affiancare la persona nel proprio percorso di riconoscimento di sé, di maturazione consapevole, di acquisizione di autonomia nel giudizio, di capacità di discernimento per crescere e sviluppare le proprie potenzialità intellettive, affettive, emotive, volitive, spirituali, sociali, etiche, civili; deve offrire la propria disponibilità perché la persona assuma una propria identità e tenda al conseguimento di un proprio equilibrio alle istanze umane che trovano riscontro e consistenza nella cultura, nella concezione antropologica cristiana, nelle opere che qualificano l’umanità del cristiano. Ogni cristiano è uomo; anzi, ogni cristiano, prima di essere cristiano, è uomo: l’uomo e il cristiano non sono soggetti incompatibili, tuttavia l’uomo non è cristiano perché si definisce tale, ma perché si prepara seriamente e soprattutto vive da cristiano; ma neppure il cristiano può accreditarsi come tale senza basarsi su un’uma-


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nità piena, matura, responsabile, capace di fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a se stesso, di chiedere che vengano rimessi i propri debiti come egli li rimette agli altri, di dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, visitare i carcerati, di agire con giustizia, di riconoscere e tutelare i diritti, di rispettare la dignità delle persone... Tutta questa ricca, variegata, complessa, delicata, stimolante, impegnativa ricerca tesa alla elaborazione e alla composizione della propria sintesi di uomo, persona e cristiano non può mai né sottrarsi né trascurare due modalità che devono trasparire e identificare lo stile lasalliano; esse sono la politesse e la bienséance da non limitare al loro significato etimologico e letterale. Esse comprendono il loro significato nella loro ampiezza semantica e si appropriano simultaneamente di sensi e di sensibilità, di intenzioni e sentimenti che si concretizzano nella relazione interpersonale. - Politesse è la modalità con cui sia il formatore che la persona in formazione si relazionano: pulizia e cura della persona, decoro, dignità, discrezione, decenza, disponibilità all’ascolto e al confronto (pulizia anche interiore). - Bienséance (buona creanza) indica il modo di essere, quella prerogativa che deve sempre qualificarsi ed emergere come cortesia, garbo, affabilità, benignità, gentilezza, contegno, amorevolezza, delicatezza, rispetto. Quindi, il rapporto verso l’altro deve realizzarsi senza mai essere connotato da indifferenza, negligenza o, peggio ancora, da disinteresse, disistima, disprezzo e umiliazione. E, ancora una volta, sento il dovere di ricordare a me stesso che quest’opera ideale e reale è stata concepita ed attuata già nella seconda metà del 1600 in Francia.

4. I destinatari dell’opera del La Salle e dei Fratelli La situazione politica, economica e sociale è molto critica, deteriorata civilmente e umanamente, segnata da miseria profonda: la Francia è scossa da lunghe e logoranti guerre; essa è anche preda di carestie che determinano nella popolazione più povera disoccupazione, fame, dissolvimento dei legami familiari e sociali, il ricorso alla mendicità e al randagismo umano, l’adozione di comportamenti illeciti e delinquenziali; su 17 milioni di francesi, 2 milioni patiscono letteralmente la fame; a Parigi «quasi ovunque si vede un popolo ammutinato chiedere del pane con spirito di rivolta e di sedizione» (J.-B. Blain). Come poter offrire prospettive praticabili, umanamente accettabili e dignitose, socialmente preferibili e valorizzanti, eticamente apprezzabili ed efficaci? Intanto, secondo J.-B. de La Salle, è doveroso condividere pienamente la povertà rinunciando al proprio patrimonio e mettendolo a disposizione dei poveri; e simultaneamente offrire le proprie attitudini e orientare la propria vocazione di sacerdote a dedicarsi concretamente alla formazione delle persone per scoprire risorse e potenzialità


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nuove da sviluppare, adeguare, utilizzare in funzione del proprio inserimento lavorativo e sociale. Oltre alla particolare importanza e attenzione alla preparazione specifica dei formatori, La Salle istituì scuole per adulti, scuole domenicali e scuole popolari con l’intento di curare l’istruzione, la formazione morale, la preparazione tecnica, la formazione professionale teorica e pratica per acquisire le abilità necessarie ad espletare mansioni lavorative nei settori del commercio, dell’edilizia, dell’agricoltura, del giardinaggio. Per i ragazzi istituisce la pension libre, configurabile come collegio o convitto; per i ragazzi che manifestano comportamenti devianti egli costituisce foyer educativi, la pension de correction in cui si possa attuare un processo rieducativo mediante l’istruzione, la formazione morale e religiosa, la qualificazione tecnica e professionale; egli istituisce, inoltre, la pension de force per i giovani responsabili di comportamenti di rilevanza penale, condannati alla pena detentiva. Per coerenza e sviluppo del tema è conveniente limitarmi - e in modo sintetico - alla considerazione e all’approfondimento dell’opera educativa e dell’apostolato che il La Salle e i suoi confratelli rivolgono agli uomini in detenzione, per riuscire ad apprezzarne debitamente la forza propulsiva e innovativa. Dal 1705 inizia l’attività rivolta a giovani discoli, libertini, moralmente difficili a Saint-Yon (Rouen) per replicarla a Mareville (Nancy) dal 1745 e quindi dal 1817 presso la Maison de Refuge. Oltre il territorio della Francia l’opera dei Fratelli si realizza a New York presso il Protectory di Westchester in un’opera che negli anni annovera più di 4000 ragazzi e ragazze (orfani a rischio, ragazzi affidati dalle famiglie e pericolosi per carattere, adolescenti arrestati responsabili di reati non gravi); nel 1841 i Fratelli avviano la loro attività presso le Prisons Centrales di Nîmes e, dopo poco tempo, presso Fontevrault (Loire), presso Aniène (Herault) e presso Melun. In Italia dal 1907 i Fratelli si occupano presso l’ospizio Bartolo Longo a Pompei dell’istruzione, educazione e formazione professionale dei figli dei carcerati; In Piemonte, presso l’Istituto penale di Alessandria dal 1847 al 1853 i Fratelli sono impegnati nell’attività didattica, nell’istruzione religiosa e nel canto. La sinteticità di questi riferimenti, anche se è insufficiente per far comprendere e apprezzare pienamente la portata innovativa dei contenuti e della metodologia applicata, ci offre elementi di considerazione per riconoscere i segni precursori che rivelano l’assoluta modernità della concezione pedagogica e dell’essenzialità della partecipazione attiva degli adolescenti, dei giovani, degli adulti, degli uomini liberi e in detenzione per costruire e ricomporre la propria identità umana lavorativa e sociale. Come elementi comparativi si assumano i pochi dati riferiti agli Istituti penitenziari di Torino prima e dopo l’Unità d’Italia (1861). Il carcere “le Nuove”, progettato nel 1857 (architetto G. Pollano) entra in funzione nel 1869 sostituendo il carcere criminale (via S. Domenico, 13), il carcere correzionale (via Stampatori), il carcere delle Forzate (via S. Domenico, 32), il carcere delle condannate (Torri Palatine).


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Prima del 1869 i detenuti sono depositati nei locali delle prigioni in condizioni igieniche, sanitarie, alimentari precarie senza alcuna attenzione per la persona e nella più totale promiscuità, senza alcuna ripartizione dei detenuti in ragione dell’età, del curriculum criminale, delle situazioni psicologiche. Per reazione a questo stato di cose, dopo il 1869 nel carcere “le Nuove” sono in vigore l’isolamento totale (diurno e notturno) e la segregazione individuale e cellulare di ogni detenuto. Ovviamente tutti gli operatori oggi sono convinti dell’inammissibilità di un sistema di vita detentiva sia in condizione di promiscuità che di segregazione. Resta il fatto inconfutabile che il La Salle ha maturato queste stesse convinzioni tre secoli prima! Oggi, almeno nei Paesi occidentali, sono stati sanciti e accettati i diritti universali, il diritto naturale (salute, istruzione, giustizia, lavoro) recepiti dalle Carte Costituzionali e dai sistemi giuridico-penali; e per questa opera difficile e complessa sono impegnati operatori penitenziari (agenti di polizia, personale amministrativo e di direzione, operatori dell’area trattamentale), operatori esterni (medici, psicologi, criminologi, docenti, operatori del privato sociale, volontari), una ‘rete’ più o meno efficiente di servizi. Nelle carceri nelle quali hanno operato il La Salle e i Fratelli, essi hanno svolto ruoli e funzioni di operatori per l’istruzione religiosa, per il sostegno morale, per l’insegnamento di programmi didattici (materie tecniche ed esercitazioni pratiche), per attività trattamentali educative e formative.

5. La formazione della persona in detenzione secondo la concezione trattamentale nel sistema-giuridico penale contemporaneo La pena detentiva è la risposta istituzionale al comportamento delinquenziale della persona e si traduce in un’esperienza temporale, spaziale e relazionale di privazione della libertà compresa tra le date di inizio e di fine della carcerazione. Essa è contenuta in un parentesi che non deve essere ignorata né ritenuta avulsa dall’esistenza personale: quell’esperienza – che se è giusta in quanto a durata e privazioni – non si concretizza come atto o ritorsione contro la persona, può essere, invece, un’occasione per rielaborare e ricomporre il proprio progetto di vita da realizzare nel proprio contesto sociale. Le leggi n. 354/75 e n. 663/86 dànno attuazione all’art. 27 della Costituzione, interpretandone nella concezione teorica e talvolta nell’attuazione pratica la lettera e lo spirito. L’art. 27 dichiara: La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte. Le leggi di riforma penitenziaria dispongono gli strumenti e le opportunità a cui poter accedere per consentire all’interno del carcere la verifica e la valutazione dell’evoluzione del comportamento del


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detenuto e della sussistenza dei requisiti per riconoscergli la fruibilità di misure alternative alla detenzione come la semilibertà (art. 48), l’affidamento ai servizi sociali (art. 47), o la fruibilità di benefici come l’espletamento di un lavoro all’esterno (art. 21), la liberazione anticipata (art. 54), i permessi (art. 30). Le leggi di riforma recuperano l’istanza di responsabilizzazione soggettiva del detenuto: la concezione meramente retributiva della pena (determinata proporzionatamente alla gravità del reato) viene contemperata dal criterio di flessibilità della pena applicata in ragione del risultato dell’osservazione scientifica della personalità, della sussistenza dei requisiti giuridici, personali, motivazionali e professionali che rivelino la compiuta revisione di modelli ideali di riferimento e comportamentali. Si concorda pienamente con E. Fassone il quale appositamente afferma che le misure alternative alla detenzione e i benefici «si inquadrano in una sorta di ‘contrattazione’ tra lo Stato, titolare della pretesa punitiva, e il condannato soggetto alla pena inflittagli: questa viene sostituita da forme meno afflittive della detenzione, le quali si consolidano ed esauriscono il suo debito se il condannato dimostra il suo adattamento ai canoni dell’onesto vivere, mentre riaprono la via alla pena detentiva se l’esperimento fallisce». Durante la carcerazione il detenuto, anche avvalendosi di alcuni strumenti che caratterizzano il trattamento, deve acquisire la consapevolezza che la pena è una conseguenza diretta del reato, che la pena costituisce un atto di giustizia durante la quale il detenuto deve operare un’autoanalisi riproponendosi alcuni interrogativi (cosa ho fatto? chi sono? chi posso essere? chi voglio essere?), riparare il danno causato, superare la condizione di conflitto con la vittima diretta e le vittime indirette. La Riforma penitenziaria dedica il c. III (Modalità del trattamento) per specificare l’individualizzazione del trattamento (art. 13), gli elementi del trattamento (art. 15), la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa (art. 17), l’istruzione (art. 19), il lavoro (art. 20), il lavoro all’esterno (art. 21), la religione e le pratiche di culto (art. 26), le attività culturali, rieducative e sportive (art. 27), i rapporti con le famiglie (art. 28). L’art. 15 indica con precisione gli elementi del trattamento: Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti col mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Risalta chiaramente che tra gli elementi ritenuti più efficaci del trattamento ha una posizione di rilievo la religione (la professione di fede, l’osservanza dei comandamenti e dei precetti, gli atti di culto) come riconoscimento del sistema di valori che trovano fondamento in Dio, nell’Essere assoluto, ed esplicitazione e testimonianza nell’esistenza dell’uomo che in modo coerente ne trasferisce le istanze nelle relazioni umane e le istanze nell’essenza etica. Il soggetto, in altre parole, deve intrapren-


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dere un percorso nel quale coinvolgere se stesso e riesaminare il proprio modo di essere e i propri riferimenti etici. Per analogia con l’iter poenitentiale prescritto per il peccatore, si propone la funzionalità e l’efficacia anche per l’autore di reato di un percorso che richiede da parte del soggetto una revisione profonda e una conversione autentica. Per non risultare poco comprensibile evidenzio le fasi dell’iter poenitentiale applicabili nel percorso trattamentale e rieducativo dell’autore di reato: • il pentimento, come ammissione e riconoscimento della propria responsabilità nell’azione commessa e identificata come reato, mediante il quale si intendeva procurare un vantaggio personale a danno della vittima; • la restituzione del bene sottratto, la riparazione del male causato o delle violenze (fisiche, psicologiche, morali) indotte alla vittima, remissione in ogni caso dei propri debiti, • la penitenza, non solo accettazione della pena comminata, ma anche azione autonoma che l’autore del reato deve mettere in moto per espiare pienamente la propria colpa e motivare l’adesione consapevole a modelli di azione condivisi, leciti, utili a se stesso e agli altri: • la conversione, cioè contrizione e ravvedimento, maturazione, trasformazione della persona che rinuncia e rinnega il comportamento delinquenziale; • l’emenda, cioè correzione, modifica e purificazione, abolizione e sostituzione dei fattori di spinta e motivazionali al comportamento delinquenziale; • la redenzione, cioè riscatto, rifiuto, liberazione dai vecchi modelli e stili di vita, rigenerazione, acquisizione di capacità e comportamenti leciti legittimati dal contesto normativo e sociale; • la riconciliazione, cioè disponibilità e ripristinare e riaffermare rapporti più funzionali e rispettosi della persona senza pregiudizio; cioè propensione attuale alla reciprocità, all’ascolto, al dialogo, all’interazione, alla solidarietà, alla disponibilità a trasmettere la propria esperienza in interventi e incontri di prevenzione con gli adolescenti e i giovani per trasferire messaggi, consapevolezze, inviti a tralasciare comportamenti devianti, atti di bullismo, trasgressioni e violazioni di norme. Anche se questo itinerario risente di un’interpretazione personale nella sua formulazione, resta il fatto inconfutabile che il sistema giuridico-penale accrediti alla religione (a tutte le religioni) l’attribuzione riconosciuta di essere uno degli elementi principali del trattamento; la Chiesa nei secoli, attraverso l’opera preziosa e attiva di geniali operatori sociali e precursori come J.-B. de La Salle ne ha dimostrato la pertinenza senza trascurare la pratica attuazione anche degli altri elementi (istruzione, formazione professionale, lavoro) anticipando di tre secoli il nostro Ordinamento penitenziario. La legge 354/75 ribadisce che l’Amministrazione penitenziaria pone al centro


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della propria attenzione la persona in stato di detenzione predisponendo «il trattamento penitenziario che deve rispondere a particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto. Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l’osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisio-psichiche e le altre cause di disadattamento sociale (...). Per ciascun condannato ed internato sono formulate indicazioni in merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma (...)». Teoricamente l’enunciazione di questi principi rispecchia le convinzioni pedagogiche, psicologiche e criminologiche più accreditate; concretamente esistono carenze strutturali, impedimenti operativi e tendenze prevalentemente custodialistiche. Intanto sta acquisendo più spazio e più convinti sostenitori la cultura del controllo e dell’esclusione non solo dell’autore del reato, ma anche del deviante e dell’asociale ampliando la nozione stessa di reato e implicandovi la condizione individuale (ad es. la clandestinità). Il lavoro in carcere, escluso quello cosiddetto domestico che con qualche artificio contabile impegna il 10% della popolazione detenuta, si riduce ad una velleità e a una chimera: in Piemonte tutte le 10 carceri costruite dopo l’approvazione e l’applicazione della legge di Riforma penitenziaria del 1975 non hanno strutture che consentano l’espletamento di mansioni lavorative a un numero consistente di detenuti. Risulta sintomatico il modo in cui l’Amministrazione penitenziaria rileva i dati riguardanti la posizione lavorativa dei detenuti prima di essere carcerati: risulta invariabilmente negli anni una percentuale (che per il 2008 si attesta al 65,8%) molto alta nella colonna “occupazione lavorativa non rilevata”. Per le opportunità di istruzione e formazione professionale l’offerta delle proposte risulta più apprezzabile e consistente; tuttavia, se l’attenzione si sposta a considerare l’adeguatezza dell’ambiente e dell’efficacia del suo apporto nel processo rieducativo e formativo della persona, allora emergono tutte le difficoltà e le carenze strutturali. architettoniche, logistiche, dinamiche e relazionali di spazi e tempi organizzati per la gestione della pena, la custodia, la vigilanza, che surrettiziamente e fatte salve le esigenze di reclusione e sicurezza, si adattano per quanto possibile e in quanto compatibili ad accogliere programmi didattici e di formazione professionale. Alcune antinomie si ripresentano e ripropongono paradossi: un luogo di pena che si qualifica come privazione di libertà ed autonomia, può essere anche luogo di responsabilizzazione e di autonomizzazione delle scelte e delle decisioni? Se non esistono opzioni possibili, come si mostra la capacità di valutazione e discernimento, di preferenza? Anche l’accesso alle misure alternative è stato ridotto fino a quasi cancellare la fruibilità delle stesse misure. La situazione attuale risulta più critica a causa dell’immissione massiccia in carcere di nuove tipologie di detenuti, nonostante siano confermate le dichiarazioni che


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attestano la diminuzione significativa dei reati. In questa situazione complessa e confusa può emergere la persona, anche in stato di detenzione, che ha una notevole capacità di adattamento, che decide di evitare altre carcerazioni e che, pertanto, si impegna individualmente a riprogettare la propria esistenza, anche richiedendo il sostegno di operatori professionali e fruendo delle opportunità trattamentali disponibili (corsi scolastici e professionali, attività culturali e sportive, impegno da autodidatta, colloqui con operatori esperti di formazione, psicologia,educazione, assistenti sociali, volontari penitenziari).

6. La formazione professionale e il percorso di (re)inserimento lavorativo e sociale secondo l’esperienza del CFPP – Casa di Carità I corsi di formazione e di qualificazione professionale negli Istituti penitenziari del Piemonte erano presenti ben prima dell’approvazione della Riforma penitenziaria. Anche il CFPP-Casa di carità Arti e Mestieri, con altra denominazione, aveva iniziato presso il Ferrante Aporti (Istituto penale minorile di Torino) nell’esercizio 1973/74 ad organizzare e gestire i primi corsi di formazione professionale frequentati da detenuti minorenni. Con l’approvazione e l’entrata in vigore nel 1975 dell’Ordinamento penitenziario progressivamente, grazie alla disponibile attenzione della Regione Piemonte e alla concertazione con i referenti regionali della Amministrazione penitenziaria, le opportunità di formazione professionale furono estese a tutti gli Istituti penitenziari e furono affidate al CFPP. L’impulso dato dalla nuova legge è significativamente sostenuto dall’art. 19 il quale stabilisce che «l’Amministrazione penitenziaria cura la formazione culturale e professionale mediante l’organizzazione di corsi della scuola dell’obbligo e di corsi di addestramento professionale, secondo gli orientamenti vigenti e con l’ausilio di metodi adeguati alla condizione dei soggetti; - possono essere istituite scuole di istruzione secondaria; - è agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari; - è favorito l’accesso alle pubblicazioni contenute nella biblioteca con piena libertà di scelta delle letture». La legge al tema del lavoro dedica gli artt. 20, 21, 22, 24 e stabilisce che negli Istituti penitenziari deve essere favorita in ogni modo la destinazione al lavoro dei detenuti e degli internati; dichiara, inoltre, che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. La formazione professionale per la sua stessa connotazione si pone in una situazione bivoca perché per un verso si connette all’istruzione (programmazione didattica di materie teoriche e tecnologiche) e per un altro verso al lavoro (acquisizione qualificata di abilità tecnico-pratiche propedeutiche al lavoro). Grazie anche al favorevole contesto normativo sia nazionale (L. 407/90, 381/92,


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196/97) che regionale (L.45/95, già L.1/90, 28/93, 18/94), il CFPP, oltre ad aver gestito ininterrottamente dal 1974 la formazione professionale negli Istituti penali del Piemonte, si è impegnato a realizzare percorsi di (re)inserimento lavorativo di detenuti ed ex-detenuti strutturando interventi coerenti e connessi, adottando modalità di accompagnamento e tutoring per i detenuti, e di supporto e consulenza alle aziende, alle cooperative, ai datori di lavoro per negoziare, mediare, superare i problemi di gestione delle persone. Pertanto nella formazione professionale, così come è stata erogata negli Istituti penitenziari del Piemonte, sono riscontrabili 3 componenti necessarie che devono interrelarsi tra loro (e che peraltro si confermano essere anche per noi le direttrici che avevano orientato la pratica pedagogica lasalliana): A) gli operatori, B) i destinatari-allievi, C) i percorsi di (re) inserimento lavorativo e sociale. A – Gli operatori - Per la formazione professionale, che nella sua globalità si pone obiettivi e funzioni identificabili come formativi e professionali, occorrono operatori preparati, professionalmente competenti, umanamente e socialmente motivati. Questa esperienza, vissuta nella quotidianità del rapporto interpersonale, aiuta anche gli operatori direttamente coinvolti a confermare: • la convinzione che ogni persona, anche durante la detenzione, è sempre soggetto suscettibile di cambiamento, di sviluppo, di crescita, di maturazione, di responsabilizzazione; • la convinzione che ogni persona, anche nelle condizioni di maggior disagio, ha risorse – magari in forma residuale - intellettive, volitive, affettive, etiche, spirituali a cui può fare ricorso se riesce, anche con gli stimoli e il sostegno di altri operatori, a rendersene conto, a riconoscerle e ad attivarsi per acquisirle; • la convinzione che non possa occuparsi di formazione professionale l’operatore che non consideri l’allievo come persona capace di manifestare risorse proprie, di svilupparle, consolidarle, qualificarle armonizzandole con le altre potenzialità e abilità. Il gruppo di operatori è riuscito a farsi riconoscere e a farsi apprezzare perché, oltre a possedere i titoli e le competenze professionali per espletare gli incarichi di docenza tecnico-pratica, doveva possedere e manifestare una elevata motivazione umana, una sensibilità attenta verso le persone disagiate, la capacità di ascolto e di relazione instaurando un rapporto interpersonale adulto, la capacità di coinvolgere e motivare l’allievo a riscoprire le proprie risorse e a concretizzare le proprie potenzialità legittime e compatibili col proprio contesto di riferimento. Il docente nella conduzione del gruppo-classe avrebbe dovuto possedere: - l’autorevolezza personale per favorire e garantire la gestione partecipata in aula;


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- la capacità di mediare e superare gli eventuali conflitti; - la capacità di coinvolgere e motivare gli allievi all’impegno nell’attività di formazione e qualificazione professionale; - l’attitudine all’ascolto e la disponibilità al dialogo; - la competenza professionale e la versatilità ad adottare variabili metodologiche più adeguate al livello di istruzione e di apprendimento dell’allievo; - la capacità di recuperare le nozioni pratiche e manuali eventualmente possedute dagli allievi integrandole con nozioni e conoscenze teoriche, tecniche, scientifiche; - la capacità di assumere l’iniziativa di avviare la presa in carico della persona rilevando le informazioni (anamnesi professionale e bilancio delle competenze) relative al curriculum lavorativo e le prime risposte ai quesiti “chi vuoi essere, chi puoi essere, in quale contesto intendi inserirti; - la capacità di stabilire una relazione dinamica con l’allievo, di mantenerla ed eventualmente consolidarla nel tempo; - La capacità di rapportarsi con gli altri operatori impegnati – con altre competenze- nella gestione dell’Istituto e dei detenuti (direttore, agenti, educatori, operatori del trattamento, volontari, operatori del privato sociale); - la capacità di interrelarsi con i servizi del CFPP (servizio all’utenza, progettazione, amministrazione) e con la rete locale. Le due tabelle successive rappresentano quantitativamente la consistenza numerica degli operatori impegnati nella formazione professionale e nelle iniziative di (re)inserimento lavorativo e sociale dei detenuti ed ex-detenuti come dipendenti (a) o come collaboratori (b).

Tab. a – Numero di operatori dipendenti del CFPP: genere, età, titolo di studio Titolo di studio età: anni

maschi

femmine

Totali %

Licenza media

Qualifica profess.

Diploma

Laurea

2o-3o 31-4o 41-5o 51-6o > 6o

0 5 10 14 2 31 (60,8%)

8 6 5 1 0 20 (39,2%)

8 (15,7) 11(21,6) 15(29,4) 15(29,4) 2 (3,9) 51 (100%)

0 0 0 1 0 1 (2,0%)

0 0 1 4 0 5 (9,8%)

6 5 9 6 1 27 (52,9%)

2 6 5 4 1 18 (35,3%)

Totali

Fonte: Archivio CFPP (dicembre 2006)


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Tab. b – Numero di collaboratori del CFPP: genere, titolo studio, tipologia accordo anni

2o- 3o

genere M

F

7

9

31- 4o 22 41-5o 12 51-6o

9

> 6o

3

Totali

53

Totali

16 19,0% 11 33 39,3% 7 19 22,6% 4 13 15,5% 0 3 3,6% 31 84 100%

Titolo di studio lic.m.

qual.prof. diploma

Tipologia accordo laurea

p.IVA

co.co.co

prog

0

2

6

8

1

4

11

0

3

12

18

21

3

9

0

4

8

7

10

1

8

0

5

4

4

5

3

5

0

1

0

2

0

1

2

0

15 7,9%

30 35,7%

39 46,4%

37 44%

12 14,3%

35 41.7%

Fonte: Archivio CFPP (dicembre 2006)

Il CFPP, inoltre, (sempre facendo riferimento ai dati del 31 dicembre 2006) si avvale di accordi di partenariato e operativi con Associazioni (5), Cooperative (10), Istituzioni didattiche (3). Altre risorse sono i laureandi in stage (8 negli ultimi 4 anni), 1 tirocinante e alcuni volontari. In alcuni casi è il CFPP a partecipare come partner nella realizzazione di progetti nei quali sono titolari e capofila altri Enti che, comunque, hanno scopi statutari, obiettivi specifici compatibili e metodologie affini al CFPP. Il gruppo degli operatori sia per opzioni proprie che per necessità di adeguamento operativo e gestionale, ha dovuto evitare chiusure e isolamento connotandosi come gruppo aperto e disponibile ad accogliere istanze ed indicazioni più pertinenti ed innovative. Il processo di aggregazione e confluenza nella Casa di Carità, iniziato da oltre un decennio, ha costituito uno sviluppo spontaneo, naturale e reciproco con l’opportunità per gli operatori del CFPP di recepire e vivere il clima, lo spirito, il carisma identitario di Casa di Carità che si alimenta anche della straordinaria concezione pedagogica lasalliana trasmessa ai Fratelli e compendiata in un sistema organico che efficacemente continua ad essere riferimento, modello e termine di comparazione. B – Gli allievi - La formazione professionale si basa, come ogni altra attività didattica, sulla indissolubilità del binomio insegnante/allievi; anzi, a voler essere più precisi, tra gli elementi del binomio risultano più determinanti gli allievi. Dunque, è doveroso soffermarci e considerare alcuni caratteri che identifichino sufficientemente gli allievi, proprio perché questi riferimenti richiamano e rimandano - come una sorta di rispecchiamento - ai docenti. Anche per la formazione professionale in car-


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cere risulta fuorviante la pretesa di classificare il detenuto-allievo-tipo; esistono tanti detenuti con la loro identità e alterità personale rivelatrici di: - vissuti esistenziali individuali; - elaborazioni di sintesi in rapporto al contesto familiare e sociale; - esperienze significative di ruolo (matrimonio, genitorialità, intensità della relazione amicale); - attività lavorative eventualmente svolte (lavoro dipendente, autonomo, in nero, gratificante o meno) o della condizione di disoccupato o inoccupato; - livello di istruzione (anche acquisita da autodidatta); - reato o reati commessi (le vicissitudini giudiziarie, i sensi di colpa per le conseguenze indotte alla propria famiglia, l’incapacità di ammettere e riconoscere le proprie responsabilità, la sofferenza per le privazioni patite a causa del regime penitenziario); - capacità di trarre indicazioni dal proprio passato, di sottoporre a verifica i fattori di spinta del proprio comportamento, e di elaborare un progetto personale plausibile, condivisibile, realistico; - capacità di adattamento attivo e di riequilibrio più o meno rapido della propria personalità, dopo aver provato eventuali tensioni; - capacità di stabilire relazioni di reciprocità con gli altri allievi del gruppo-classe. I riferimenti temporali e quantitativi si riferiscono ad oltre 30 anni di formazione erogata e possono risultare indicativi sia la dimensione numerica e sia alcune connessioni e contingenze. La tabella c (a p. 16) è stata ripartita con dati che configurano 3 decenni in modo da rendere più agevole la comparazione. La tabella c è composta a parte su pagina autonoma orizzontale. Inserirla in testo nella pagina immediatamente adiacente Tab. c - Riepilogo complessivo e comparazione periodica della presenza e della frequenza di allievi-detenuti ai corsi professionali età in anni decenni

iscritti

Riepilogo dati 1974-84 Riepilogo dati 1985-95 Riepilogo dati 1996-2006 Riepilogo generale

2988 100% 3096 100% 6361 100% 12445 100%

Titolo di studio

18-25

26-32

> 32

1244 41,6% 717 23,2% 812 12,8% 2773 22,3%

951 31,8% 1237 40,0% 1874 29,5% 4062 32,6%

793 26,5% 1142 36,9% 3675 57,8% 5610 45,1%

Senza Licenza Licenza licenza elementare media elementare

137 4,6% 11 0,4% 14 0,2% 162 1,3%

1457 48,8% 570 18,4% 351 5,5% 2378 19,1%

1132 37,9% 2272 73,4% 5096 80,1% 8500 68,3%

Terminanti corso Diploma Accessori

Idonei

262 8,8% 243 7,8% 900 14,1% 1405 11,3%

908 30,4% 921 29,7% 3441 54,1% 5270 42,3%

Fonte: Archivio CFPP. Rilevazione ed elaborazione dati: Segreteria didattica.

998 33,4% 1019 32,9% 3702 58,2% 5719 46,0%


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Dalla comparazione dei dati dei 3 decenni possono essere desunte alcune inferenze che riguardano l’età cronologica, il titolo di studio, il numero degli idonei al termine del percorso formativo. Rispetto all’età cronologica si evidenziano il progressivo invecchiamento degli allievi e la diversa incidenza in assoluto e in percentuale delle fasce di età sul numero totale di detenuti allievi dei corsi professionali. Per quanto concerne il livello di istruzione emerge una tendenza regolare che nei primi anni segnala la presenza di detenuti o privi di licenza elementare o in possesso della sola licenza elementare (53,4%). Negli anni si passa dal 37,9% all’80,1% di detenuti allievi con licenza media e dall’8,8% al 14,1% di detenuti con diploma di scuola media superiore. La consistenza percentuale degli allievi idonei, grazie ad una più efficace organizzazione, al recupero di crediti formativi e di capacità lavorative pregresse, è significativamente variata passando dal 30,4% al 54,1%. Un dato da non trascurare si riferisce alla presenza nei corsi di formazione di allievi detenuti stranieri che dopo il 1990 comincia ad essere rilevata fino a rappresentare negli ultimi anni oltre il 30,0% degli allievi frequentanti. C – I percorsi di (re)inserimento lavorativo - La formazione professionale ha in se stessa la necessità e l’urgenza di essere finalizzata alla concretezza dell’espletamento del lavoro. Perciò la connessione tra formazione e lavoro deve essere molto stretta o, meglio ancora, consequenziale. Il lavoro tra le accezioni possibili recepisce la prerogativa di dovere, diritto, punizione aggiuntiva (lavori forzati, “lavorerai col sudore della fronte”), realizzazione personale, acquisizione di status, collocazione in ambito sociale. L’esercizio di una lavoro diventa l’elemento discriminante per accreditare ruoli e funzioni in ambito familiare, sociale, civile: se si lavora si è affidabili, si ha una reputazione positiva, si acquisisce valore etico, si migliora l’autostima; se non si lavora si è più propensi ad adottare comportamenti devianti oppure delinquenziali. Il detenuto verso le occupazioni finalizzate e verso il lavoro in particolare, anche per recuperare la considerazione che gli altri hanno di lui, deve dimostrare una disponibilità teorica ed intenzionale senza esitazione e ha il dovere di aderire e di accettare il percorso di inserimento lavorativo e sociale se vuole anticipare la propria libertà o semilibertà. Il lavoro (coi suoi requisiti, regole, parametri, prestazioni, riconoscimento di diritti, osservanza e adempimento di doveri, relazioni con gli altri operatori, tempi, mansioni, incarichi, verifiche...) costituisce una esperienza davvero concreta dalla quale emergono elementi determinanti per mettere alla prova le persone e desumere indicazioni di merito circa il processo di (re)inserimento lavorativo e sociale. Analogamente alla pertinenza della teoria criminologica, che spiega il comportamento delinquenziale come risultato dell’incidenza di molti fattori, si deve convenire che il processo di (re)inserimento deve coinvolgere molti fattori ed elementi che agiscono in sintonia e sincronia:


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- il detenuto o l’ex-detenuto deve aver compiuto un percorso preparatorio ed acquisito le condizioni soggettive (preparazione professionale adeguata, motivazioni personali, volontà di inserimento lavorativo e sociale, accettazione del programma di trattamento...); - la valutazione positiva dei requisiti da parte dell’equipe del trattamento, e la concessione della misura alternativa da parte del Magistrato di Sorveglianza; - la disponibilità da parte del datore di lavoro ad accogliere nella propria struttura lavorativa il detenuto o l’ex-detenuto; - l’affiancamento e l’accompagnamento della persona da parte di un tutor; - la disponibilità di una rete operativa che si prenda realmente cura del soggetto e sia in grado di sincronizzare le iniziative e di rimodulare il percorso se si verificano incongruenze, disfunzioni, incompatibilità, defezioni, irregolarità. Adoperando questo modello, che prevede una serie di fasi concatenate, il CFPP in 17 anni (1989 al 2006) è riuscito ad attivare più di 1.500 percorsi di (re)inserimento lavorativo: • alcuni, definiti come percorsi di qualità, hanno avvalorato la tesi che quando tra la formazione professionale e l’inserimento in una azienda omologa alla qualifica conseguita c’è un rapporto di successione e interdipendenza, per l’ex allievo detenuto (elettrotecnico, falegname, giardiniere) non solo il lavoro è gratificante ma all’interno dell’azienda si concretizza per lui un’elevazione di livello retributivo e di funzioni; • molti altri percorsi, anch’essi riusciti, si sono concretizzati in percorsi che hanno richiesto un adattamento dei detenuti all’esercizio di un lavoro; • per una percentuale rilevante (circa il 45%) il percorso di reinserimento si è interrotto per l’incidenza di concomitanti problemi personali (tossicodipendenza, Aids e patologie varie, mancanza di permesso di soggiorno o mancato rinnovo, recidiva, rifiuto dell’offerta di assunzione, indisponibilità della famiglia all’accoglienza, insufficienza della retribuzione, conflitto con gli altri lavoratori..) già nella fase iniziale del tirocinio, del cantiere di lavoro, dell’assunzione a tempo determinato. Pur concordando tutti (operatori sociali e istituzionali, amministratori locali, politici, studiosi ed economisti), che le opportunità concrete e praticabili di (re)inserimento lavorativo costituiscono un investimento sociale che incide sulla prevenzione secondaria, sui costi individuali e sociali (si pensi alle vittime), sui costi economici della recidiva, della tutela sociale, delle forze dell’ordine, dei processi e della permanenza del detenuto in carcere: eppure irresponsabilmente si trascura la predisposizione di programmi mirati e pertinenti. Predisporre e sincronizzare l’interiorizzazione di condizioni psicologiche o soggettive e la fruizione di condizioni ambientali o oggettive, pur avendo esse un costo relativo, consentono


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un risparmio economico ma, ancor più, un notevole risparmio sociale. In altre parole si può concordare con chi sosteneva che «una fabbrica in più, una scuola in più (e una formazione professionale più diffusa) equivalgono ad un carcere in meno».

7. La formazione umana e cristiana I due termini - umano e cristiano - non solo non sono in antitesi, ma possono correlarsi, costituire una sintesi, segnare una maturazione sequenziale. Tale affermazione diventa ancora più persuasiva ed attinente se i due termini si spostano di poco e sono riferiti ad umanità e religiosità. L’uomo nella tensione della propria ricerca di senso e di pienezza del proprio essere avverte la necessità di porsi domande, che durante il percorso esistenziale diventano più urgenti e che si incentrano sul riconoscimento del valore di sé in rapporto al valore degli altri, sulla connessione tra principi etici, norme e prassi, sulle modalità di stabilire rapporti con se stesso - come custodia ed insistenza di persona e individuazione di umanità -, rapporti con gli altri - come correlazione e interdipendenza tra identità e alterità (l’alterità è la condizione determinante della propria identità), rapporti con l’Altro - come trascendenza, paternità e maternità, come bontà e giustizia. In questo percorso di ricerca non si può eludere il punto di partenza, il fondamento, il principio, ed affermare con chiarezza che l’essere umano (il genio, l’eroe, il santo, ma anche l’autore di reato, la persona con patologie psichiatriche) è ontologicamente ed essenzialmente persona, cioè quel compendio di valori etici e bioetici, quella sintesi di capacità da armonizzare ed equilibrare in modo coerente, dinamico, proficuo, vantaggioso per sé senza provocare danni agli altri. E non si può neppure prescindere da una facoltà qualificante della persona che si evidenzia come sua energia dinamica: la spiritualità, cioè la tensione umana verso i valori dello spirito, l’aspirazione ad elevare la conoscenza fenomenica dall’esperienza sensoriale alla conoscenza razionale, metafisica, trascendente, teologica, alla conoscenza delle verità di fede e rivelate; la spiritualità, infatti, è riconoscimento, legittimazione, affermazione di valori umani, sociali, civili,etici ed estetici; la spiritualità è “slancio vitale” (Bergson), anima, soffio vitale, poetica dell’esistenza, vibrazione dell’essere in consonanza con gli altri esseri; essa è motivazione, ricerca e percezione dell’indeterminato, dell’assoluto, delle ragioni della propria esistenza; essa è apertura e disponibilità ad accogliere la presenza e la carità di Dio. La spiritualità è l’energia che permette di superare i conflitti, di accettare e tollerare le diversità, di ricomporre l’armonia, di non perdere le motivazioni al dialogo e all’ascolto di se stesso e degli altri, di evitare le chiusure, di aprire “le finestre sigillate” per capire che nella natura e nel mondo c’è l’impronta di Dio (Francesco


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d’Assisi) e una fondamentale unità che passa attraverso tutte le diversità attorno a noi (Gandhi). La spiritualità è la potenzialità, sempre presente e inesauribile, la dote comune a tutti gli uomini che nella nostra società multietnica può compiersi e sostanziarsi in una ricerca che si attua nell’adesione motivata alla religione cattolica, al protestantesimo, all’islamismo, all’ebraismo, alla concezione buddhista... La spiritualità - proprio nell’ambito penitenziario - anche per quanto concerne la funzione della pena è premessa e segna l’avvio di un itinerario personale per il detenuto che preveda e includa il pentimento, il ravvedimento, la richiesta di perdono alla vittima, la riparazione sociale, la riconciliazione, la volontà di rinascita e di catarsi, la decisione di prefiggersi e percorrere un itinerario di vita che si definisca in forza di comportamenti leciti, positivi e coerenti. La spiritualità, ricca e stimolante, di J.-B. de La Salle è percepibile chiaramente nella sua concezione pedagogica che - come è noto - si traduce nella dolce persuasione, nel rispetto della dignità e del valore della persona, che non sottrae all’altro il piacere, il gusto della conquista conoscitiva, dell’acquisizione di abilità tecnicopratiche, delle scelte comportamentali, dell’adesione a valori etici, delle relazioni interpersonali, delle proprie istanze alla trascendenza. Pur avendo come modello il cristiano e come obiettivo pedagogico la scelta dell’opzione cristiana nella vita e nel comportamento, egli raccomanda ai formatori, ai Fratelli di attenersi all’attesa paziente, di saper aspettare, di non affrettare o pressare, di rispettare i tempi di evoluzione personale che sono soggettivi, imponderabili e non predeterminabili. L’attesa paziente si traduce in disponibilità diligente, premurosa, assidua per rispondere agli interrogativi e alle eventuali richieste di sostegno: le scelte importanti che connotano la persona e la personalità (l’istruzione, il matrimonio, la paternità, il lavoro, l’impegno politico e sociale, l’adesione religiosa, la testimonianza di fede) non sono delegabili; ognuno singolarmente ha il dovere di fare scelte libere, consapevoli, responsabili, motivate. Gli altri, gli educatori, i genitori, gli insegnanti, gli operatori sociali possono solo richiedere se la decisione della scelta è sufficientemente consapevole e motivata, ma essi devono recepire e accettare la scelta più o meno autonoma della persona in grado di “intendere e volere”: «Aborro le tue idee, ma darei la vita perché tu possa avere la libertà di esprimerle» (Voltaire). Il modello cristiano nel processo formativo sostanzialmente propone un percorso evolutivo nel quale la persona acquisisce i riferimenti conoscitivi proposti dalla autorevolezza della concezione antropologica cristiana, dalla praticabilità dei valori culturali del Cristianesimo, dall’ampiezza di orizzonti che si aprono e danno senso all’esistenza, dalle testimonianze espresse da uomini che hanno vissuto pienamente l’esperienza cristiana e hanno sperimentato umanamente esperienze di fede e di vita religiosa.


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8. La persona al centro del processo formativo: attualità dell’insegnamento di J.-B. de La Salle La concezione pedagogica e formativa del La Salle indica con precisione i fondamenti principali sui quali qualsiasi processo educativo deve poggiare e radicarsi: il valore e la dignità di ogni persona, la indissolubilità del binomio tra i protagonisti della formazione (formatore-formando), l’indicazione chiara degli obiettivi, delle mete da raggiungere, la precisazione dei contenuti, la progressione temporale e funzionale del percorso formativo, la metodologia applicata, il supporto logistico, l’ausilio e l’uso di strumenti didattici, la progettazione e la rimodulazione degli interventi. Con molta modestia e pudore provo a delineare la trasposizione nell’attuale contesto storico, culturale, sociale della concezione pedagogica e formativa del La Salle, premettendo che questo è un tentativo che necessita di ulteriori e più autorevoli contributi, verifiche e approfondimenti1. Tutta la struttura - fondamento e sostegni portanti - mantengono anche attualmente la praticabilità della proposta formativa alle persone in detenzione; come si può constatare, alcuni aspetti innovativi sono determinati dalle trasformazioni radicali intervenute nel sistema giuridico-penale, nel progresso economico, sociale, civile, nella dichiarazione e tutela dei diritti universali, nella predisposizione di servizi prevalentemente assistenziali, nella articolazione di un lavoro di rete, nell’offerta di opportunità praticabili di (re)inserimento lavorativo e sociale... Sinteticamente di seguito sono stati colti alcuni temi e contenuti, apportando alcune considerazioni dedotte dall’esperienza diretta e attuale che emergono nella formazione professionale dei detenuti negli Istituti penitenziari. 8.1 Formazione al lavoro - La formazione professionale è propedeutica al lavoro come impegno sociale, civile, umano che promuove la realizzazione di sé attraverso l’armonico ed equilibrato sviluppo di capacità intellettive, tecniche e manuali. Con la formazione professionale si contribuisce a far acquisire all’allievo sia in libertà che in detenzione la propria identità professionale e, grazie a questa, si favorisce e precisa l’identità personale. 8.2 L’attenzione “paterna” nella relazione coi detenuti - La relazione deve basarsi sulla capacità di ascolto, comunicazione, dialogo che si configurino e si espletino in rapporto intersoggettivo, interpersonale, adulto, maturo, equilibrato, senza infingimenti e simulazioni; in un rapporto eticamente paritario, che rispetta l’allievo detenuto come soggetto – e soggetto conoscente – di se stesso, degli altri, del contesto di riferimento, come soggetto partecipe e attivo dell’elaborazione e realizzazione del proprio progetto di vita.

Peraltro la seguente rassegna antologica rappresenta il risultato di una collaborazione e del confronto di opinioni che si protrae da 3 anni tra il sottoscritto, il Presidente di Casa di Carità e, in modo informale, con un Fratello delle scuole cristiane.

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8.3 La riabilitazione morale - Nei Vangeli e nell’opera del La Salle “la pietra scartata che diventa testata d’angolo”, costituisce un orientamento insopprimibile per il formatore. La convinzione del divenire dell’uomo resta ferma anche nell’attività di formazione che si avvale dell’istruzione, dell’acquisizione di professionalità, della riflessione “sul voler essere e sul poter essere” per ricomporre l’ordine dei valori, le istanze morali, le dinamiche relazionali, per riproporre la propria adesione all’osservanza dei doveri e al rispetto dei diritti propri e altrui. Il formatore per tendere a questa meta si avvale della “dolce persuasione, dell’attenzione paziente, dell’attesa paziente, della testimonianza convincente, della correzione caritatevole, proporzionata, moderata, calma, compresa ed accettata dall’allievo”. Il formatore manifesti un profondo spirito di disponibilità all’ascolto diligente dell’allievo e di solidarietà attiva ed operativa nei confronti delle vittime dirette e indirette del reato. 8.4 Valore educativo della concezione formativa cristiana - Nel rispetto della libertà di coscienza e di altre opzioni umanistiche e religiose occorre evidenziare il valore formativo dei principi deontologici e dei modelli antropologici cristiani. Il comportamento che osserva l’etica trova il proprio fondamento e la propria validità sul sentimento religioso, inteso come rapporto autentico con l’Altro, vivificato dalla “verità che rende liberi” e dal rispetto della sacralità degli altri che rende degni «perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, carcerato e siete venuti a trovarmi. (...) ... ogni volta che avete fatto queste cose ad uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 34 ss). La formazione professionale consente l’acquisizione di strumenti teorici, tecnici e pratici, e consente l’espletamento di un lavoro come mezzo lecito per vivere, provvedere al soddisfacimento dei propri bisogni ed essere alternativa concreta al comportamento delinquenziale. 8.5 Occupazione permanente in carcere - Dare significato al tempo della pena in carcere è un impegno gravoso per gli operatori e di difficile soluzione per i detenuti. Riuscire a trovare occupazioni significative che contrastino l’ozio, l’inattività, l’inerzia è uno dei problemi prioritari e più inquietanti: la persona condannata all’ozio senza sollecitazioni e stimoli, regredisce, diventa amorfa, capace solo di soddisfare i propri bisogni primari. Già il carcere come istituzione totale provoca nella persona detenuta la spoliazione del sé, favorisce il processo di depersonalizzazione e di deresponsabilizzazione: sarebbe aggiungere alla detenzione un’altra condanna, “la pena del non-lavoro” (Berzano), dell’inoccupazione oltre le pene del carcere materiale e “le pene del carcere immateriale” (Mathiesen). È indispensabile, come aveva già compreso il La Salle, impegnare e dare senso al tempo della pena offrendo al detenuto attività di lavoro, formazione professionale, istruzione, cultura, sport e palestra, volontariato, solidarietà, giustizia riparativa, mediazione penale verso le vittime. 8.6 Incontri e gruppi di confronto - Fatti salvi i colloqui individuali, i momenti di riflessione personale scelti dal detenuto (studio, elaborazione scritta di riflessioni


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autobiografiche, lettura...) siano favorite occasioni di incontri allargati, in gruppi di studio, di lavoro, di giochi di squadra perché, attraverso i rapporti interindividuali, i gruppi di confronto e di discussione, le dinamiche relazionali siano facilitati e praticati i processi di socializzazione. A differenza di quanto meritevolmente ai suoi tempi La Salle propose e realizzò nelle prigioni nelle quali ha operato, ora queste modalità sono diventate patrimonio comune e generalizzato, e sono adottate per le pratiche di culto, di attività trattamentali, di conferenze su temi inerenti la salute, la cultura, l’ambiente, la prevenzione secondaria, il (re)inserimento lavorativo e sociale... 8.7 Sostegno morale - Il formatore deve essere in grado di recepire i bisogni espressi dal detenuto, di offrire il proprio supporto umano e deve essere in grado di attivare la rete di servizi, gli operatori coinvolti e competenti ad intervenire (direzione, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, volontari, addetti al servizio di reinserimento lavorativo e sociale) e a dare risposte attinenti al bisogno espresso. Si sottolinea la necessità di non fermarsi alla liturgia della parola, alle risposte illusorie e vagamente consolatorie; è necessario prendersi carico della persona in modo realistico, risolutivo, efficiente richiedendo simultaneamente al detenuto interessato la volontà ad aderire, ad impegnarsi, ad assumersi responsabilmente gli oneri dei doveri da adempiere. Comprensione e sostegno alla persona, ma anche“correzione proficua” nelle modalità indicate dal La Salle: Dobbiamo riprenderli [gli allievi] con equità e giustizia facendo comprendere il loro torto in modo che accettino la punizione (Méditations); gli educatori non puniranno mai sotto l’impulso della passione, né quando si sentiranno agitati (Règles communes des Frères). 8.8 Orientamenti formativi - Il regime di vita all’interno di un Istituto penale, stando anche al dettato costituzionale e alla legge di Riforma penitenziaria, non può essere disgiunto dalle attività trattamentali con maggiore valenza formativa, che incidano nel miglioramento delle condizioni soggettive e che si rivelino pertinenti alle aspettative del contesto sociale nel quale il detenuto intende (re)inserirsi. Per essere in grado di offrire un contributo serio a favore dei detenuti, dell’Istituzione e della società l’operatore di formazione professionale deve possedere individualmente o come gruppo i seguenti requisiti: - qualificata competenza didattica e professionale; - competenza metodologica modulabile, a seconda della composizione, delle esigenze e delle aspettative di gruppi di allievi (minorenni, adulti, tossicodipendenti, stranieri clandestini o regolari, istruiti, analfabeti di ritorno); - attenzione alle opportunità offerte dal mercato del lavoro e alle effettive capacità di assorbimento di manodopera qualificata; - disponibilità all’ascolto, al dialogo, all’atteggiamento di equiprossimità -tra vittima e autore di reato- per riproporre il superamento della dimensione conflittuale del reato; - grande disponibilità ad attivare la rete e tenacia nella prosecuzione e realizzazione di interventi correlati;


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- supporto alla formazione professionale fino al conseguimento della professionalità qualificata; disponibilità alla presa in carico, a prendersi cura della persona detenuta (gli anglosassoni hanno sviluppato il concetto di ruolo del caregiver e dell’helper) e a utilizzare la tecnica della staffetta per il passaggio e l’affidamento della persona ad altri operatori e servizi; - contributo al miglioramento degli spazi vitali, dell’ambiente e della vita di relazione tra detenuti, tra detenuti e agenti, tra detenuti e operatori del trattamento; - disponibilità a favorire anche il (re)inserimento sociale del detenuto; - disponibilità a collaborare con il proprio CFPP-Casa di Carità, con i Fratelli delle scuole cristiane dando visibilità e risalto alle iniziative e alle proposte di sensibilizzazione politica e sociale; - contributo alla costituzione di una rete ampia apartitica e aconfessionale che coinvolga enti pubblici e del privato sociale (servizi territoriali e istituzionali, Caritas, cooperative, associazioni no-profit, gruppi operativi...). 8.9 La prevenzione - Ogni sistema politico e sociale paga costi sociali ed economici molto onerosi per reprimere la devianza e la criminalità, e per assicurare la gestione della condanna attraverso l’utilizzo di risorse umane e professionali presenti nelle Istituzioni. L’attività di prevenzione e di sensibilizzazione rivolta ai giovani per i Paesi più progrediti assume il valore di investimento sociale mirato: per l’Italia ci sono molte declamazioni e pochi programmi strutturati con efficacia formativa. Sinteticamente gli obiettivi dichiarati della metodologia adottata dal CFPP dal 1992 nello sviluppo di programmi di prevenzione possono essere esplicitati nel modo seguente: - fornire consapevolezza per interpretare in modo critico, coerente e motivato alcuni aspetti delle realtà individuali e sociali (tossicodipendenza, svantaggio sociale, immigrazione, detenzione, esclusione, pacchetto sicurezza, integrazione); - fornire un filo conduttore per riuscire ad evitare il disorientamento di una realtà complessa e sempre in evoluzione che, di solito, ’fa cronaca’ per vicende scandalistiche e ‘ad effetto’; - conoscere senza distorsioni preconcette o interpretazioni unilaterali il carcere, il carcerato, la devianza, il disadattamento, la criminalità, i conflitti etnici, le differenze culturali; - offrire chiavi e motivi di lettura per non disperdersi tra approcci e posizioni contrapposte, frammentarie e talvolta confusionarie; - superare i luoghi comuni, le posizioni acriticamente generalizzate, ideologizzate, pregiudiziali; - superare la “cultura dell’indifferenza” senza partigianeria proponendo una posizione equilibrata tra azioni e reazioni, tra reo e reato, tra responsabilità e pena, condizioni e supporti istituzionali, tecnici, professionali, motivazionali, finalizzati all’inclusione e al (re)inserimento sociale.


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8.10 Conversione e percorso di reinserimento lavorativo e sociale - La formazione professionale incide e promuove l’elevazione umana; essa richiede l’impegno personale e il sostegno tecnico e pratico dei formatori competenti; essa contribuisce a rimettere in equilibrio le diverse facoltà della persona, aiuta a ridefinire in modo funzionale ruoli e funzioni nel contesto familiare e socio-lavorativo; contribuisce e prepara la persona ad agire secondo l’etica della responsabilità e secondo l’etica relazionale. La riassunzione di ruoli in modo responsabile rivela l’intento praticabile della propria conversione. 8.11 Sintesi e valore della concezione cristiana - La formazione personale e professionale, secondo i principi pedagogici di J.-B. de La Salle, anche se con gradualità e premurosa attenzione all’uomo, si pone come modello ed obiettivo finale il cristiano, che peraltro rende più preziosa ed apprezzabile la componente umana, in quanto si manifesta come: - fiducia nella capacità di recupero e volontà di cambiamento delle persone, anche se sono in detenzione; - testimonianza esemplare ed emulazione nel perseguire obiettivi effettivamente raggiungibili adottando modalità di prevenzione, di recupero, di progettazione partecipata mirata alla propria collocazione lavorativa e sociale; - accezione del valore assoluto della spiritualità, degli insegnamenti del Vangelo, dell’azione della grazia divina per il ravvedimento e l’emendamento delle coscienze; - consapevolezza della delicata funzionalità del rapporto interpersonale e del processo formativo che si instaurano tra il formatore e l’allievo dei corsi per maturare insieme e per favorire, dopo la carcerazione, la riacquisizione di ruoli (genitore, figlio, marito/moglie, lavoratore, soggetto sociale titolare di doveri e diritti), e per promuovere istanze di ricerca interiore, spirituale e religiosa, aderendo liberamente, consapevolmente, motivatamente, responsabilmente.

9. Alcuni aspetti critici della pena detentiva in Italia I fatti umani, come i comportamenti, sono realtà oggettive collocabili nell’esperienza personale e tra le dinamiche dei rapporti sociali. Essi implicano l’apporto di soggetti, di persone, di esseri sociali che investono i loro comportamenti di significati personali, di intenzionalità, di sentimento, di valore che possono, tuttavia, essere percepiti e recepiti in modo significativamente diverso da soggetti diversi. Anche il reato come fatto umano caratterizzato dalla violazione di una norma, non si sottrae alla significazione che coinvolge l’autore, la vittima, il contesto sociale, l’opinione pubblica, le istituzioni, gli operatori del trattamento e gli operatori del (re)inserimento lavorativo e sociale.


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Attorno a quel fatto e oltre quel fatto ci sono persone e la concezione della società, del sistema giuridico-penale, dei valori etici e della loro applicazione, dell’idea e della pratica della giustizia, delle prospettive politiche. E la giustizia - nella sua concezione ideale e nella sua prassi quotidiana - dà forma e caratterizza tutti gli altri diritti dell’uomo (dignità, salute, istruzione, lavoro). Pertanto la pratica della giustizia (entità, qualità e durata della pena) ed anche il senso, la funzione e lo scopo della pena sono determinanti non solo per il futuro degli uomini direttamente coinvolti ma anche per il tipo di sistema sociale che si intende costituire. Nella cultura umanistica del nostro sistema penale e nel pensiero della Chiesa la pena anche detentiva costituisce un segno, un avvertimento, un richiamo per l’autore del reato: l’istituzione, in nome della società che rappresenta, ha preso atto della sua responsabilità e lo punisce aspettandosi che il reo, a causa della punizione patita, sia più propenso ad ammettere e a riconoscersi colpevole, riesamini i propri vissuti e le proprie esperienze, e con l’aiuto di operatori preparati, rielabori il proprio progetto personale e si ponga come obiettivo un lavoro serio su se stesso per maturare ed acquisire i requisiti giuridici, personali, motivazionali, professionali (le condizioni soggettive) che facilitino l’attuazione del programma di (re)inserimento lavorativo e sociale. Contestualmente devono essere predisposte, attuali e sincronizzate le condizioni oggettive che permettono l’accoglienza del detenuto che beneficia delle misure alternative o dell’ex-detenuto, e permettono l’attuazione pratica del percorso di (re)inserimento lavorativo e sociale. Il profilo delineato, pur essendo teoricamente condivisibile e praticamente sostenibile, si imbatte nella inquietante problematicità della situazione reale messa in agitazione da contraddizioni, paradossi, dalla convinzione che i problemi sociali di attualità possono essere risolti facendo ricorso a forme indiscriminate di punizione. Si assiste così ad una diversificazione sempre più accentuata tra il dover essere e l’essere della pena detentiva e la rilevazione di alcune preoccupanti antinomie: • Il sovraffollamento oltre la capienza tollerabile degli Istituti penitenziari ha trovato spazio rilevante anche nei mezzi di informazione; se si continua ad aumentare la quantità delle norme che prevedono la pena detentiva (sono più di 35mila) «si aumenta il numero dei trasgressori ma non migliorano le condizioni della giustizia e della convivenza civile» (C. Beccaria). • Il carcere come contenitore unico di molte e diverse patologie sociali: si chiede al carcere di accogliere, vigilare, custodire persone che hanno commesso un reato e sono anche tossicodipendenti, alcool-dipendenti, malati di AIDS, stranieri, persone che hanno età diversa, un differente livello di istruzione e che hanno ricoperto ruoli familiari e sociali diversi. • La presenza di alcune tipologie di detenuti come i tossicodipendenti (26% in Italia e 34% in Piemonte in rapporto alla popolazione detenuta) e gli stranieri (39% in Italia e 53% in Piemonte) richiamano l’attenzione sulla responsabilità di non


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riuscire a comprendere che essi sono effetti di alcune cause che richiedono altre risposte e altri strumenti diversi dal carcere. Con l’adozione dei recenti provvedimenti del pacchetto sicurezza si è accentuato il ricorso alla carcerazione, considerando reato la condizione di clandestino, cioè un modo di essere prescindendo dal presupposto di un’azione penale che è successiva e richiede la commissione di un reato. Il pacchetto sicurezza non si pone come risoluzione del problema ma piuttosto come eliminazione del problema. Tra le condizioni di libertà e la condizione di pena detentiva non esiste la possibilità di avvalersi di una struttura intermedia (custodia a sicurezza attenuata) da destinare ai giovani maggiorenni under 25 anni autori del primo reato, ad adulti che lavorano e abbiano commesso reati non gravi (che non consistano in violenze contro le persone), detenuti con un residuo pena di durata breve che abbiano intrapreso un percorso di (re)inserimento lavorativo e sociale. Attenzione e capacità per intercettare i sintomi del disagio sociale e le persone che li manifestano prima che arrivino al ‘capolinea’ (in carcere) e sviluppino in senso delinquenziale e antisociale il comportamento asociale e deviante. Lo stesso luogo di pena - luogo di privazione della libertà e di altre potenzialità - può essere anche un luogo di responsabilizzazione? Come si può essere responsabili se non si è liberi? Come si può dimostrare di essere genitore, cittadino, lavoratore senza poter esercitare quei ruoli? Come può il carcere assolvere alla sua funzione di intimidazione se accoglie solo il 7% di coloro che commettono reati? Pur rappresentando il 65% in Italia e l’87% in Piemonte della popolazione detenuta - i tossicodipendenti e gli stranieri insieme -, essi non sono responsabili né del 65% né dell’87% dei reati che vengono commessi: è doveroso chiedersi se non esista la propensione a punire con la detenzione i più deboli ed indifesi. Negli ultimi 15 anni sempre più frequentemente si fa ricorso a misure restrittive e privative delle libertà personali: all’area penale interna costituita da 217 Istituti penitenziari, si è aggiunta l’area penale esterna che comprende i detenuti agli arresti domiciliari, in detenzione domiciliare, in libertà vigilata, in affidamento al servizio sociale... Da stime attendibili si desume che i soggetti in esecuzione penale esterna sottoposti ad un provvedimento restrittivo della libertà personale, siano circa 40.000: per loro paradossalmente esistono meno risorse professionali e opportunità trattamentali di quelle offerte e presenti negli Istituti penitenziari. Eppure l’art. 27 della Costituzione afferma che “scopo della pena è la rieducazione del condannato”. Il CIE (Centro di Identificazione ed Espulsione) è un “non-luogo, non-spazio, non-relazione” (M. Augé), un paradosso o assurdo giuridico perché, anche con quelle restrizioni privative delle libertà personali, si sostiene che gli extra-comunitari sono “giuridicamente liberi”, anche se quella condizione può protrarsi fino a 6 mesi.


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• Il paradosso raggiunge l’apice quando si considera la condizione degli extracomunitari in carcere (nella quasi totalità sono irregolari e clandestini): fino a quando non hanno commesso un reato devono nascondersi, appartenere al “popolo degli invisibili”, denegando la propria identità, provenienza, domicilio, luogo di lavoro in nero; dopo aver commesso il reato, essere stati giudicati e condannati alla detenzione, devono attribuirsi ed assumere una identità, sono riconosciuti i diritti che spettano agli esseri umani, e possono in carcere espletare una attività lavorativa retribuita, avere un’identità, un ruolo, una funzione accreditati e di fatto equiparati ai cittadini italiani in carcere. Possono partecipare ad attività formative e trattamentali (corsi di studio, di formazione professionale, attività culturali e socializzanti...) come se fossero effettivamente ritenuti destinatari e fruitori di opportunità di (re)inserimento lavorativo e sociale. Dopo la pena detentiva - dopo essere stati rieducati, come se partecipassero “al gioco dell’oca”- sono ricollocati nella situazione di partenza, che è persino peggiorata perché o vengono consegnati al CIE o viene consegnato loro il decreto di espulsione con l’ingiunzione di lasciare spontaneamente l’Italia entro 5 giorni! • La contrapposizione duale tra esclusi (clandestini, stranieri, tossicodipendenti, asociali, nomadi, devianti in genere) ed inclusi (persone che aderiscono e si conformano all’utilizzo di mezzi leciti per raggiungere mete legittime e codificate) si consolida nel pregiudizio fino a stravolgere il principio costituzionale e ad esprimersi nella presunzione di colpevolezza.

10. Prospettive e proposte La crisi del sistema giuridico-penale e sociale è profonda e complessa. Il carcere nella società moderna risulta essere un sistema con un equilibrio molto delicato e fragile perché in una spazio circoscritto (non-spazio vitale) concentra la presenza di antinomie che si scontrano coinvolgendo aspetti etici, bioetici, culturali, religiosi, spirituali, psicologici, relazionali, e, ovviamente, aspetti pratici, esistenziali, vissuti, economici, progettuali. Rispetto

alla persona che commette il reato, alla vittima e alle vittime, all’interesse sociale si mettono sempre in moto procedimenti e azioni che richiamano l’etica (principi e valori), la giuridicità (diritti e norme), la prassi (procedure e modelli di riferimento, applicazioni pratiche nell’organizzazione e gestione degli Istituti penitenziari). Quando i tre livelli – morale, giuridico, pratico - sono consonanti, armonici, interrelati, interdipendenti, consequenziari, c’è una coincidenza sostanziale, una proprietà transitiva e circolare, perché i valori e i principi (la dignità dell’uomo e della persona) costituiscono il fondamento e trovano conferma normativa ed applicativa anche nella realtà esistenziale. Assumono contorni problematici ed allarmanti, destano inquietudine e disorientamento la dissociazione, la disgiunzione, il distacco, il disconoscimento


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della relazione tra valore, norma e prassi esistenziale fino a raggiungere livelli inconcepibili di abiezione ed efferatezza (commissione di reati ad alta riprovazione, sistema di pene quali la tortura, la condanna a morte, la lapidazione, la mutilazione, la riduzione in schiavitù), fino a sostituire i valori con i disvalori, le norme con l’arbitrarietà, i diritti con la prevaricazione. Il momento più acuto di crisi delle istanze universali e dei principi fondamentali corrisponde «alla cifra emblematica del fallimento rappresentata dagli orrori di Auschwitz» e dalla delegittimazione delle grandi narrazioni (le grandi visioni complessive del mondo) (Lyotard) che affermavano ed offrivano motivi e istanze di coesione sociale e la forza della coerenza alle argomentazioni.

Le persone in detenzione - la qualità della vita in carcere - mettono alla prova i valori di riferimento, il grado di civiltà giuridica, penale e sociale che il sistema riconosce ed attua. L’istanza, che emerge dall’esigenza di giudicare e punire gli autori di reato, non può non riferirsi ed avvalersi dei principi etici e bioetici (la persona come fondamento ontologico, la dignità della persona come valore e metro di valutazione anche delle privazioni della pena, l’essere umano come sintesi di corporeità e spiritualità), dei principi giuridici stabiliti dalla Carta Costituzionale e recepiti dall’Ordinamento penitenziario (i diritti della persona, rispetto delle regole e dei doveri di comportamento), dei principi tradotti nella pratica quotidiana della pena detentiva e della sua gestione (la rilevazione dei bisogni fisio-psichici, l’osservazione scientifica della personalità dei detenuti, opportunità di studio e lavoro, progettazione di percorsi di (re)inserimento lavorativo e sociale).

Una riflessione doverosa: richiamare l’attenzione sul riconoscimento, per l’autore del reato, della sua legittimità ad essere e ad essere considerato persona, della sua titolarità di diritti e dignità come essere-uomo-persona non significa assolvere la responsabilità del reato e incoraggiare il male, né significa stabilire un metro di equidistanza tra reo e vittima. La condanna del reato e la pena inflitta all’autore del reato, se giuste, sono doverose e necessarie per la società, per la vittima, ma anche per la persona che ha commesso il reato.

Tra le antinomie e le contraddizioni, accanto ai problemi reali, si evidenziano alcuni pretesti strumentali per adottare provvedimenti di profilassi e bonifica sociale, tolleranza zero, respingimento ed espulsione degli stranieri, la castrazione chimica, l’anticipazione a 12 anni della responsabilità penale per i minorenni... In tal modo le risposte istituzionali sono quasi esclusivamente intimidatorie ed afflittive: come si può rieducare se ci si limita soltanto a praticare forme punitive?

Nessuno ha una ricetta per una terapia efficace e risolutiva, però, qualche proposta può essere presa in considerazione: • I flussi migratori sono determinati da fattori di spinta e di attrazione: essi continueranno ad esserci verso i Paesi Occidentali del Nord del mondo perché, ad esempio, nell’Africa sub-sahariana mancano i 5 euro giornalieri per consentire la sopravivenza di una famiglia di 4 persone; fino a quando i Paesi occidentali si limitano «a sviluppare nei Paesi sottosviluppati il loro sottosviluppo» (Franck) e non concor-


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dano programmi ed interventi seri che migliorino effettivamente le condizioni di vita dei residenti nei loro Paesi, il flusso non solo non si arresterà ma diventerà ancora più massiccio, perché neppure la prospettiva di trovare la propria tomba nel Mediterraneo è motivo sufficiente per fermare l’esodo. • La carcerazione dei tossicodipendenti dovrebbe essere in grado di ammettere che dei due problemi - detenzione e tossicodipendenza - per la persona è la tossicodipendenza il problema prevalente: depositare nel contenitore-carcere il tossicodipendente che sconti la pena senza che intraprenda e segua un percorso trattamentale finalizzato alla disintossicazione, alla riabilitazione e al recupero significa lasciargli in dote lo stesso problema che ha inciso sul suo comportamento delinquenziale.

11. Nota conclusiva Queste indicazioni, espresse a titolo di esempio, rivelano la complessità dei problemi e delle implicazioni di fattori molteplici: bisogna tranquillizzare i cittadini onesti e liberi, bisogna condannare i colpevoli e custodirli, dopo la pena bisogna restituirli alla società. Tutti concordano che non è sufficiente l’afflittività della pena per contromotivare le persone e per rifiutare il comportamento deviante e delinquenziale. Tra i diversi modelli proposti e le metodologie sperimentate c’è una sostanziale concordanza trasversale fino a quando essi si riferiscono alla rassegna delle specificità della persona (risorse fisiche, intelligenza, affettività, emotività, volontà, capacità manuali, relazioni interpersonali, rapporti sociali, legami familiari). Le differenze emergono quando si cerca l’ampiezza dell’orizzonte e la profondità di senso, il principio fondativo e la meta finale, «l’autenticità dell’esistenza che si accetta e dell’essere che si dà» (Heidegger), la specificità identitaria della concezione cristiana. La concezione educativa del La Salle mantiene anche per noi la sua forza propulsiva specialmente per quanto riguarda la preparazione dei formatori, la gestione dei gruppi-classe, la qualità della relazione da stabilire con gli allievi, l’importanza riconosciuta al rispetto dell’allievo, la proposta della adesione ai valori e alla cultura cristiana, la decisione di vivere e testimoniare il Vangelo. Anche per quanto concerne la didattica nella formazione professionale sono sufficienti alcuni adeguamenti in ragione di alcune innovazioni tecnologiche e strumentali intervenute nel frattempo. Resta come parametro sorprendentemente attuale la stretta connessione che il La Salle stabilisce tra lo svolgimento della funzione di formatore, la persona che egli è e la persona che è l’allievo, perché quando si verifica questa connessione le persone non solo dialogano, ma comunicano, si relazionano ed entrano in empatia nel rispetto della loro dignità e del loro modo di essere: per il formatore cristiano questa relazione si conforma alla richiesta di Cristo: Amatevi come io ho amato voi. Sono davvero numerose e stimolanti le sollecitazioni che emergono dalla concezione educativa lasalliana:


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• I genitori sono obbligati a correggere i figli (...), però lo facciano con dolcezza e carità, non nei momenti di collera, evitando le ingiurie. • Lo scopo essenziale della vostra missione (di formatori) consiste nell’educare al bene coloro che si trovano nel vostro campo d’azione. • L’apostolo san Giacomo scrive: - Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?. Di conseguenza, a cosa servirebbe istruire i giovani nella verità della fede se non fossero guidati ed aiutati a compiere opere buone?. • La condotta dell’educatore deve essere per gli alunni un continuo esempio di modestia, di saggezza, di pietà.... • L’educatore sappia guardarsi dall’attività eccessiva, dalla leggerezza, dalla durezza, dalle preferenze e dal dispetto, dalla volubilità e dall’incostanza. • Per amor di Dio, non date ceffoni. Non è a forza di schiaffi che si possono attrarre giovani a Dio e al bene. • State attenti a non lasciar diminuire il numero degli allievi con il vostro modo di fare: insegnate bene perché essi non abbiano ad andarsene via. • Amate la povertà, onorate i poveri. Usate grande tenerezza nei loro riguardi e superate la riluttanza della natura che potrebbe suggerirvi di preferire i ricchi. • Nella vostra missione non dovete combattere contro gli eretici, ma contro le tendenze che portano i giovani al male. • Un insegnante deve dare tutto se stesso ai propri alunni: questi devono essergli tutti indifferentemente e ugualmente cari. • Il frutto che si ricava da una saggia correzione, porta chi la riceve a mutare condotta e a riparare i propri errori. • La moderazione è uno dei mezzi migliori per impressionare e conquistare il cuore di quanti sbagliano e per disporli alla conversione. • Se vi sentite turbati dalla passione, evitate di punire (gli allievi), altrimenti il castigo nuocerebbe sia a loro che a voi. • L’uomo è nato per la società, per tessere relazioni con i suoi simili. • La politesse, considerata sotto il suo migliore aspetto, non è altro che la carità cristiana messa in pratica. • (Gli educatori) sapranno essere posati e austeri, però con atteggiamenti sereni e simpatici; sapranno inoltre conciliare la dolcezza con la severità.

Sapere che queste convinzioni e raccomandazioni sono state rivolte, consegnate, motivate a formatori che hanno operato nel XVII secolo suscita la nostra ammirata adesione per la loro attuale proposizione, e avvalora - con le sue solide fondamenta, con la consistenza delle opere e la loro persistenza nel tempo - la nostra confermata adesione ad avvalercene, trarne sostegno e a proseguire.


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RETAZOS LASALIANOS [6-10] JOSÉ MARÍA VALLADOLID

Dos lugares de retiro para La Salle: Saint Maximin y la Sainte Baume [6] ¿La «noche oscura» de La Salle? -Todos los lasalianos tienen cierta idea de la época en que Juan Bautista de La Salle abandonó París y se marchó al Sur de Francia. Pero existe cierta confusión, incluso entre los mismos biógrafos, Maillefer y Blain, sobre su recorrido, sus actividades, el orden de las mismas y las fechas en que ocurrieron. Se sabe perfectamente que salió de París el 18 de febrero de 1712 y que regresó a París el 10 de agosto de 1714. Los biógrafos hablan de que atravesó «la noche oscura del alma» y que cortó todo contacto con el centro del Instituto, lo cual no es exacto, ni mucho menos. Esta etapa de su vida necesita ser mucho más estudiada y profundizada. Pero en estas breves líneas vamos a recordar los cerca de cincuenta días de retiro que dedicó a su vida espiritual mientras estuvo en Marsella. La Salle en Marsella - La Salle llegó a esta ciudad hacia el 12 de junio de 1712. Blain se refiere muchas veces a ella, pero no la nombra ni una sola vez. Juan Bautista fue muy bien recibido por todos: Hermanos, sacerdotes, seglares de la Compañía del Santísimo Sacramento, y sobre todo por el obispo, monseñor Enrique Francisco Javier de Belzunce de Castel Moron, que llevaba poco tiempo al frente de la diócesis. Todo fue muy bien al principio: apertura de escuelas, adquisición de locales para un noviciado, afluencia de vocaciones, ayudas de todo tipo..., hasta que en febrero de 1713 las cosas se torcieron. Los dos Hermanos de la escuela se disgustaron porque el fundador les mandó que en el tiempo que tenían libre después de las clases fueran al Noviciado, para seguir el reglamento comunitario, pues su fervor había decaído mucho. Por ello se fueron a quejar al párroco de la escuela y, recogidas sus quejas, comenzaron en la ciudad las críticas contra La Salle. Éstas se exarcervaron cuando en una reunión del clero, en la que predominaban los simpatizantes del quietismo, él se manifestó fiel devoto de la Santa Sede. Desde entonces, todo lo que habían sido facilidades se trocaron en dificultades. Alguien publicó, incluso,


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un libelo difamatorio contra él, que llegó también a las comunidades de Hermanos del Sur de Francia, y un Hermano llegó a reprocharle que hubiese ido allí, pues «parecía que sólo había llegado para destruirlo todo». Tanto Blain como Maillefer escriben que esta acusación, de uno de sus hijos, le dolió de manera especial, y llegó a pensar que tales palabras, que él consideraba justas, eran una señal de Dios que le demostraban que debía dejar la dirección del Instituto. Era preciso huir también de Marsella - En tal situación decidió acudir a su método habitual: la oración y la penitencia. Pensó que para alejar de sus hijos las persecuciones que se promovían contra él, lo mejor era retirarse a un lugar adecuado para hacer, de forma individual, un retiro largo, donde poder discernir la voluntad de Dios. Decidió, pues, alejarse de Marsella, y sólo comunicó su objetivo y destino a algún Hermano de Marsella; nos inclinamos a pensar que sería el Hermano Director, aunque da la impresión de que los biógrafos no quieren decirlo. Una Semana Santa en la Sainte Baume - Había transcurrido el mes de marzo y se acercaba la Semana Santa, que aquel año iría del 9 de abril, domingo de Ramos, al 16, domingo de Pascua, y consideró que ése era el tiempo más oportuno para su retiro. Salió de Marsella, probablemente, el 6 de abril y se dirigió, a pie, a una cueva conocida como la Sainte Baume (del provenzal baumo = cueva), situada a unos 40 kilómetros de la ciudad, y que se abría hacia la mitad de la ladera norte, muy vertical, del monte StPilon, de unos mil metros de altura. Una tradición antiquísima dice que allí vivió santa María Magdalena, la discípula de Jesús, haciendo penitencia, hasta su muerte. Durante siglos hubo peregrinos que acudían allí, y por eso, en 1689, los dominicos, que tenían encomendada la santa cueva, abrieron, cerca de ella, una hospedería. Más de cuarenta días en San Maximino - Juan Bautista pasó allí toda la Semana Santa, y una vez terminada se marchó al convento de San Maximino, que distaba unos 22 kilómetros, y que pertenecía también a los dominicos. El santo pasó con aquella comunidad «más de 40 días», viviendo su reglamento, e incluso levantándose con ellos para los oficios nocturnos. Dicen los biógrafos (¿cómo lo saben?) que Juan Bautista, en estos días, tuvo la idea de abandonarlo todo y dedicarse a una parroquia, pero que en seguida rechazó estos pensamientos. Parece que fue aquí, en san Maximino, donde recibió la visita de un Hermano que llegó desde Marsella. Blain dice que era «un amigo»; Maillefer dice que era el Hno. Timoteo, director del Noviciado; y Gallego opina que fue el Hno. Bernardino. Sea quien fuere el visitante, las noticias fueron muy tristes: en Marsella seguían las calumnias contra él; el Hermano Medardo, que tantos problemas le había creado al santo, había fallecido en Alès casi repentinamente; el noviciado había desaparecido, porque los enemigos del santo lograron desanimar a todos...; y hasta el Hermano Ponce, a quien había nombrado Visitador para la zona del sur, había abandonado el Instituto y se había llevado el dinero del Instituto, que él guardaba...


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Grenoble, un lugar donde esconderse... Con tan negro panorama, ¿qué podría hacer La Salle? No era conveniente volver a Marsella. Pero tuvo que visitar Mende, en cuya comunidad había un problema serio. Y parece que de allí se marchó a Grenoble, el lugar más alejado donde había una escuela de Hermanos, allí, probablemente, sus adversarios podrían olvidarse de él y dejar en paz al Instituto. Allí, en Genoble, permanecería hasta que los Hermanos de París le rogaran y mandaran, mediante la carta del 1 de abril de 1714, regresar para hacerse cargo del gobierno del Instituto. ¿Qué fue de la Sainte Baume y del convento de San Maximino? - Aún hoy siguen llegando peregrinos, pero más movidos por el turismo de la zona que por impulsos de superar alguna «noche oscura». Existe una pequeña localidad que lleva el nombre de «San Maximin La Sainte Baume», donde se venera la basílica de Santa Magdalena.

Cómo renovaban los votos los primeros Hermanos [7] Los primeros votos en el Instituto - De acuerdo con los biógrafos del Instituto, fue en 1686 (sólo habían pasado siete años desde el encuentro con Niel) cuando se emitieron votos por primera vez en el Instituto. Fue al final de una asamblea convocada por Juan Bautista de La Salle, que debería durar desde el 23 de mayo, fiesta de la Ascensión, hasta el 2 de junio, día de Pentecostés, pero que tuvo que prolongarse una semana, hasta el día 9, fiesta de la Santísima Trinidad. En esa asamblea se habló de los Reglamentos (es decir, de la Regla inicial), de la escuela (los cambios introducidos en las primeras escuelas, y cuyo funcionamiento daría origen a la Guía de las Escuelas, o «Regla de la Escuela»), y de los votos. Aunque en los cuatro relatos que nos han dado los tres primeros biógrafos del santo hay no pocas divergencias, los datos que aquí aportamos parecen los más probables. Al final de esta asamblea los participantes, que fueron, al parecer, doce Hermanos, emitieron el voto de obediencia por un año, aunque una de las versiones dice que por tres años. Las fórmulas de votos de esta primera emisión no nos han llegado. Lo que sí sabemos es que al año siguiente sólo renovaron el voto ocho Hermanos, y cuatro no lo renovaron; lo cual da pie a Blain para hablar de la debilidad e inconstancia del hombre y de la sabia prudencia del fundador, que el año anterior supo moderar el fervor de quienes proponían que el voto fuera perpetuo y a los que querían hacer también voto de castidad. Tampoco tenemos las fórmulas de los ocho que renovaron el voto en 1687. Conocemos la fórmula del «Voto heroico» emitido por La Salle, Nicolás Vuyart y


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Gabriel Drolin el 21 de noviembre de 1691, y que nos llegó gracias a que el Hno. Gabriel Drolin no se deshizo de la fórmula cuando regresó desde Roma a Francia en 1728, pero se la mostró al Hno. Timoteo, que la ignoraba por completo, y probablemente también a Blain, que la copió. Aparte de la anterior, las primeras fórmulas de votos que conservamos son las del 6 de junio de 1694. Son trece en total, la de La Salle y las de sus doce compañeros, y en ella se comprometen a formar «sociedad» con los Hermanos de las Escuelas Cristianas para sostener las escuelas gratuitas» y «para lo cual» emiten voto perpetuo de obediencia. Fórmulas de renovación de los votos - Desde esta fecha hasta el año 1724, año anterior a la obtención de la bula de aprobación del Instituto, conservamos otras 29 fórmulas de emisión o de renovación de votos. Las fórmulas de renovación más antiguas que conservamos datan de 1717 y de 1718. Pero no podemos ignorar que desde 1694 hubo Hermanos que emitían votos temporales y los tenían que renovar hasta que eran admitidos a los votos perpetuos. Las fórmulas de emisión y las de renovación variaban ligeramente, cambiando el «prometo y hago voto» por «renuevo los votos que tengo ya hechos de...». En la Regla de 1718 se incluyeron dos fórmulas de renovación de votos, una para los Hermanos de Escuela y otra para los Hermanos sirvientes. Pero hay que tener en cuenta que todos los Hermanos que tenían votos perpetuos también los renovaban cada año, el día de la Santísima Trinidad, diciendo: «renuevo los votos que tengo ya hechos....» y «prometo guardar inviolablemente durante toda mi vida». Votos por tres años, renovados anualmente, con una nueva fórmula - ¿Y cómo hacían los Hermanos que tenían sólo votos temporales? Aquí viene la forma original de hacerlo, que según parece se vino aplicando desde 1694. Pero lo conocemos de forma segura gracias a la Regla de 1726 (la que se publicó después de la recepción de la bula de aprobación), que dice, copiando de la bula: «Los Hermanos que no hayan cumplido veinticinco años sólo harán los votos por tres años; los renovarán todos los años por el mismo tiempo, con una nueva fórmula, hasta que sean aceptados y admitidos a los votos perpetuos» (pp. 57-58). ¿Qué significaba esta forma de renovar los votos? En primer lugar, que no había votos anuales, puesto que en la primera emisión temporal ya se hacían por tres años. En segundo lugar, que si un Hermano de votos temporales deseaba salir de la Sociedad o del Instituto, dejaba de renovar los votos, pero aún mantenía el compromiso «de estabilidad» por dos años, y no podía retirarse hasta haber cumplido todo el tiempo de su trienio. En tercer lugar, la frase «con una nueva fórmula» no significa «con un texto nuevo», sino con «una copia nueva», que el interesado hacía de su puño y letra. Voto de asociación y voto de estabilidad - Hagamos una consideración final. Se trata de subrayar la relación que tenía el voto de «unirse en sociedad...» con el voto


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de «estabilidad en la citada sociedad», ya que el voto de asociación llevaba una duración mínima de tres años, que el interesado no podía romper, sin violar sus compromisos, antes de terminado el trienio. Esta forma de renovar los votos temporales también se relacionaba con el buen gobierno del Instituto, ya que facilitaba las previsiones del destino del personal de cada escuela, que debía hacer el superior para los años sucesivos, y planificar el desempeño del ministerio de cada Hermano.

¿Pretendió La Salle fundar un «instituto secular»? [8] Un enfoque distinto del carisma fundacional de La Salle - Todos recordaremos fácilmente el acalorado debate que sacudió al Instituto hacia los años sesenta y setenta, del pasado siglo, y que ocupó más de una sesión de algún Capítulo General. Desde luego es éste un asunto que no se puede dirimir con los votos de los partidarios del sí o del no, o de la mayor o menor simpatía que despierte una u otra postura, sino a base de un estudio serio de lo que fue la experiencia fundacional del santo y del itinerario que se siguió en los orígenes del Instituto. Desde luego hay indicios que pueden apoyar a los partidarios del sí y otros que sustentan a los partidarios del no. En estas líneas trataremos de reflexionar sobre la actitud de nuestro fundador desde su pensamiento y su experiencia de la vida religiosa de su tiempo. La originalidad del santo fundador - Lo que está sumamente claro es que La Salle no quiso fundar una familia religiosa en la línea tradicional que presentaban las que existían en su tiempo, como los benedictinos, los franciscanos, los dominicos o los jesuitas. La prueba es que no propuso a sus hijos una vida semejante a la que llevaban aquellas órdenes religiosas, sobre todo en el asunto de los votos, que era tradicionalmente algo fundamental. Pero también está claro que su intención era formar una sociedad de personas consagradas a Dios, y por lo tanto, apartadas del mundo y entregadas a las prácticas ascéticas propias de las personas que profesaban en las órdenes religiosas. La originalidad del santo estuvo en concebir una familia religiosa que se definiría en función del ministerio apostólico: dar cristiana educación a los niños por medio de la escuela cristiana. Esto, que parece una frase retórica, es la raíz de la gran originalidad de la idea del santo: era la concepción de una nueva forma de vida religiosa, cuyo motor sería la finalidad apostólica, y de ella se derivaría la forma de ser de sus miembros. En las órdenes existentes hasta entonces, lo primordial era la consagración a Dios, mediante los votos, que constituían a sus miembros en el «estado religioso»; y de


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este estado y de los votos emitidos derivaban los distintos ministerios que ejercían en sus vidas. La Salle invirtió los términos: lo primordial es la finalidad del Instituto, el ministerio de la educación cristiana; y para realizar ese ministerio cada miembro del Instituto hace su consagración. Y esta consagración es distinta de las existentes hasta entonces; es una consagración nueva, que no consiste en los votos de pobreza, castidad y obediencia; sino en los votos de asociación, para sostener las escuelas, en las cuales se evangeliza a los niños. Nueva forma de consagración a Dios - Lo que intuyó La Salle es que para consagrarse a Dios no es imprescindible hacer profesión de pobreza, de castidad y de obediencia. Que hay otras formas de consagración radical a Dios, y una de ellas consiste en dedicarle toda la vida desde el ministerio que Él mismo encomienda a cada persona. Y este cambio de perspectiva queda reflejada claramente en la fórmula de votos: «Santísima Trinidad...: me consagro enteramente a Vos.... (consagración, dedicación) Y a este fin, prometo unirme y permanecer en sociedad (asociación) con los Hermanos... Que se han reunido para tener... las escuelas gratuitas (ministerio)... Por lo cual prometo y hago voto de obediencia (compromiso votal)». Quedan totalmente de lado la pobreza y la castidad, y eso que desde el comienzo las practicaban todos, - ¡y con qué fidelidad y exigencia!-. En la idea fundacional de La Salle no se excluían los votos. Pero no se sujetaba a los votos tradicionales de la vida religiosa, pobreza, castidad y obediencia, en los cuales la Iglesia y los teólogos, de forma inequívoca, centraban lo fundamental de la consagración del religioso a Dios. Pero La Salle coloca la consagración en otros votos: Me consagro a Vos... Y para ello me uno en sociedad con los Hermanos... para sostener las escuelas... donde se enseña cristianamente a los niños. Clara intención de fundar una familia religiosa - El análisis del pensamiento del santo Fundador nos lleva, sin ninguna duda, a afirmar que él deseaba crear una familia religiosa distinta de las existentes. Los primeros trataditos de la Colección, que se remontan a los primeros tiempos de la «Sociedad» (por lo tanto, antes de 1694) se refieren claramente a «religiosos», «personas separadas del mundo y consagrados a Dios. Pero es sobre todo en las meditaciones para los domingos y fiestas y en las meditaciones de los santos, donde con más claridad se ve: «Por este mismo camino obtendréis vosotros la remisión de todos los pecados que cometisteis en el mundo, y de todos los que cometéis aún cada día, en la casa de Dios» (M 4,2); «Nosotros, a quienes Dios ha llamado a vivir según la perfección del Evangelio, temamos perdernos...» (M 5,3) «Pedid con frecuencia a vuestros superiores que no permitan en vosotros tales debilidades» (M 14,2). «Puesto que Dios os ha concedido la gracia de llamaros a vivir en comunidad, no hay nada que debáis pedirle con mayor insistencia que esta unión de espíritu y de corazón con vuestros Hermanos» (M 39,3). «Consideraos, incluso, como muertos al mundo, y no tengáis ningún trato con él» (M 41,2).


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Los textos que pueden probar la intención de La Salle de formar una familia religiosa distinta de las existentes se pueden multiplicar hasta la saciedad. Pero citemos, como mero ejemplo, unas palabras que relacionan esa vida religiosa con el ministerio de educar a los niños: «Pedidle, pues, insistentemente que nada os haga desagradables a sus ojos, ya que tenéis la obligación de inspirar su amor en el corazón de aquellos a quienes instruís» (M 39,1). Nueva familia religiosa, con rango similar a otras ya existentes - A pesar de la diferencia en la consagración religiosa, La Salle veía claramente que su nueva familia religiosa se situaba en la misma categoría que otras existentes en la Iglesia de su tiempo. Y no tiene reparo en compararla con otras de larga tradición monástica. Hablando de los jesuitas, dice, por ejemplo: «Puesto que el fin de vuestro Instituto es el mismo que el del Instituto fundado por san Ignacio, que es la salvación de las almas; y ya que Dios os ha llamado a educar a los niños en la piedad, lo cual también realizan los discípulos de este santo fundador, vivid con tanto desasimiento y tened tan vivo celo en procurar la gloria de Dios como lo tuvo este santo, y como lo tienen los de su Compañía, y produciréis copiosos frutos en aquellos que instruís» (M 148,3). Palabras que valen de paralelismo en el ministerio de ambas congregaciones y de la vida ascética y espiritual de las ascética entre los miembros de ambas. Meditando sobre la obra de san Benito, dice a los Hermanos: «Gracias a esa santa regla (de san Benito) y a su observancia muy exacta y regular, atrajo numerosas almas para Dios, alejándolas del mundo y de cualquier trato con él, para ponerlas en disposición de no tratar más que con Dios. Ese es uno de los mayores beneficios que se pueden alcanzar en esta vida y uno de los principales medios para entregarse a Dios. Cuanto más regulares seáis, tanto mejor adquiriréis la perfección de vuestro estado; y cuanto menos tratéis con los hombres, tanto más se comunicará Dios a vosotros» (M 111,1). Y termina la meditación diciendo: «Aprended de san Benito a educar bien a los niños cuya dirección tenéis, y procurad obtener de él, por vuestras oraciones, la gracia de guiarlos debidamente» (M 111,3). Hablando de san Bruno y de sus cartujos también toma pie para alentar a sus Hermanos: «San Bruno y sus compañeros... tomaron juntos y de común acuerdo tres medios segurísimos para ir a Dios: el retiro por el resto de sus días; la oración casi continua, y la mortificación en todo. Unánimemente emplearon estos medios durante toda su vida para trabajar eficazmente en su santificación» (M 174,3). Y acaba: «Si no podéis practicar esas tres cosas de forma tan continua... practicadlas, al menos, con la misma fidelidad y fervor» (M 174,3). Conclusión - Tal vez quienes sostuvieron que La Salle quiso fundar una congregación similar a los Institutos Seculares surgidos en el siglo XX se apoyaban en el carácter laical de sus miembros. Pero en todas las enseñanzas de La Salle no hay ni una sola referencia a la laicalidad como diferencia con las demás familias religio-


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sas. Él sabía muy bien que también había laicos, es decir, no sacerdotes, entre los miembros de las órdenes religiosas existentes. Pero el hecho de la laicalidad en el Instituto, se situaba, en su mente, en relación con el ministerio. Sus Hermanos no necesitaban el sacerdocio porque se trataba de maestros que evangelizaban a los niños en la escuela, y para realizar ese apostolado y ministerio, sencillamente no se necesita el sacerdocio. Así, pues, de los razonamientos expuestos, tenemos que concluir que La Salle ni siquiera pensó fundar algo parecido a un Instituto Secular; pero sí pensó y quiso fundar una familia religiosa diferente de las que entonces existían, y la diferencia radicaba en que sus miembros se consagraban a Dios,.no mediante los tres votos tradicionales, sino convirtiendo en voto su compromiso apostólico, es decir, su ministerio.

Cuando el Fundador se marchó al Sur, ¿pensaba desprenderse del cargo de superior? [9] Una de las etapas de la vida del santo Fundador que requiere profundo estudio es el que los biógrafos señalan como «la huida al Sur». Tanto Maillefer, en sus dos biografías, como Blain, se hacen un pequeño lío con algunos episodios de este tiempo y a veces los interpretan con cierta prevención. Por París llegó a circular el rumor de que La Salle había abandonado a sus hijos y su obra Conocemos con exactitud el día, 18 de febrero, en que dejó la casa de la calle de la Barouillère. Había avisado de su marcha a muy pocos Hermanos; uno de ellos, sin duda, el Hermano Bartolomé, pero los biógrafos no lo dicen expresamente. Y tomó, a pie, el camino de Marsella, pasando por Aviñón, Alès, Les Vans, Gravières, Mende, Les Vans, Alès y Uzès (en este recorrido sí coinciden los biógrafos). El día anterior, 17 de febrero, el Châtelet había anulado las actuaciones del joven abate Clément, y según todas las previsiones de los abogados, Juan Bautista iba a ser condenado por el tribunal. Cuando se dictara la sentencia él ya estaría lejos de la capital. Pero no era la única angustia que le atenazaba el corazón. En París, desde hacía tiempo, el «adversario del santo» había estado moviendo los hilos para que todo lo que él emprendía fracasara, y los intentos de intromisión en el gobierno interno del Instituto eran patentes. Es cierto: Juan Bautista partió de París con aquellas dos penas en lo íntimo del corazón; pero no se marchaba, ni mucho menos, porque quisiera desentenderse del gobierno del Instituto. Había nombrado dos Visitadores, uno, el Hermano José, para las casas del norte, excepto París. Otro, el Hermano Ponce, residente en Aviñón, para las casas del sur. Él, durante este viaje, quería conocer mejor los problemas que se planteaban en las casas del Languedoc y de Provenza, y era bien consciente de


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que su presencia en aquella zona era como superior de la Sociedad, y su actuaciones eran de gobierno. Y efectivamente, durante los veintiocho meses de su estancia en el sur, realizó diversas gestiones que suponen el ejercicio de su autoridad como superior; como prueba queremos reseñar algunas de ellas. • En la última semana de febrero Juan Bautista estaba ya en la ciudad de Moulins, a 280 km de París; y hacia el 9 de marzo llegó a Aviñón, a 420 km de Moulins. Uno de los Hermanos estaba enfermo y Juan Bautista le reemplazó unos días en la clase. Allí residía el Hermano Ponce, nombrado Visitador, y pudo hablar con él. • El 13 de marzo el ayuntamiento de Alès entregó a los Hermanos una nueva casa, ya que la anterior era poco adecuada. La Salle llegó a esta localidad hacia el 23 de marzo, después de pasar por Uzès. Es lógico que se alojara en la nueva casa, y cabe suponer que de alguna manera expresó su gratitud a la corporación municipal. La villa le recibió con muestras de gran cariño, y por eso acortó su estancia, y sólo se quedó tres o cuatro días. • Hacia el 10 de abril llegó a Les Vans, donde se quedó unos diez días. En la ciudad dominaba el calvinismo, y los Hermanos Renato y Maximino hacían un apostolado muy difícil. El santo se alojó, al parecer, en casa del alcalde Luis de Roure, (opinión del Hno. Félix Paul), pariente del fundador de la escuela, o en la del señor Jaufrès, pues en la casa de los Hermanos no había sitio. Un día lo dedicó a visitar a su amigo Pedro Meyner, párroco de Gravières, a unos 12 km de distancia. Una tradición asegura que fue durante estos días cuando un pintor, tal vez a esondidas, pintó un bosquejo del santo, que sería el famoso cuadro de Gravières. En él aparece el santo en traje civil, pero en 1951, mediante los rayos X, se comprobó que debajo del traje estaba pintado el hábito sacerdotal. • Desde finales de abril La Salle estuvo en Mende, donde se detuvo casi todo el mes de mayo, y allí se vio asediado por mucha gente que deseaba visitarle, y todos le trataron con gran veneración. Eso le molestaba y por ello se marchó con suma discreción, casi sin despedirse. • A comienzos de junio llegó a Alès y marchó en seguida a Uzès, donde estuvo conversando con el obispo, Mons. Miguel Ponzet de la Rivière. • Pasó por Aviñón y se detuvo muy poco tiempo, pues hacia el 12 de junio llegó a Marsella, donde fue muy bien acogido por todos: el clero, la Compañía del Santísimo Sacramento, y especialmente por el obispo, Mons. De Belzunce de CastelMoron. • En Marsella propuso abrir un noviciado para el Languedoc. Todos se volcaron para apoyarlo con ayudas y con el envío de postulantes. El obispo le ofreció la escuela de Nuestra Señora de Accoules. Abrió el noviciado, en agosto, y puso de director al Hno. Timoteo. Según la tradición los Hermanos y postulantes peregrinaron al santuario de NotreDame de Garde el 15 de agosto.


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• Nombró un nuevo director de Mende para reemplazar al Hermano Timoteo, a quien mandó a Marsella como director del Noviciado • En Marsella tomó dos pasajes para viajar en un barco a Roma. Quería encontrarse con el Hermano Gabriel Drolin, y también, según los indicios, tantear las posibilidades de la aprobación del Instituto. Renunció al viaje porque el obispo le requirió para una fundación. El paso por las primeras comunidades citadas se puede considerar como una verdadera visita regular, práctica que había seguido durante años con las casas del Norte. Y vemos también que el trato con los obispos, la capacidad de abrir casas, de fundar un noviciado, de cambiar de casa a los Hermanos, de nombrar cargos, etc. suponen el ejercicio de la autoridad de superior. No se puede, pues, sostener bajo ningún concepto que La Salle pretendiera desentenderse de su cargo. Todos los hechos citados corresponden al año 1712. Casos parecidos se podrían señalar en 1713 y en 1714. Nuestra conclusión es, por tanto, que La Salle, al viajar a la Provenza y al Languedoc era muy consciente de que lo hacía como Superior del Instituto, aunque iba a ocuparse de forma más directa de las casas del Sur.

¿Tuvo J.-B. de La Salle una crisis vocacional después de la muerte de sus padres? [10] Ni Bernard ni Maillefer, éste en sus dos biografías (1723 y 1740), hablan de que Juan Bautista se planteara alguna duda sobre su vocación sacerdotal. Maillefer, concretamente, dice en sus dos biografías: «La multiplicidad de los asuntos que absorbían su atención no borró de su mente las primeras ideas, concebidas en San Sulpicio de París, de comprometerse irrevocablemente en el estado eclesiástico». En cambio, Blain insinúa, en dos ocasiones, que el joven seminarista atravesó un momento de duda, aunque lo resolvió de forma positiva. Después de hablar de la muerte de su madre (19 de julio de 1671) dice: «Sin embargo, este golpe tan fuerte para un corazón tan tierno como el suyo, no interrumpió el curso de sus estudios, pero suspendió por un tiempo sus resoluciones de comprometerse con el estado eclesiástico». Y después de hablar de la pérdida del padre, dice: «La voluntad de Dios que él adoraba en el proceder de su Providencia, le servía en gran medida para hacérselo más ligero, pues la voluntad divina fue siempre la estrella que dirigió sus pasos en la noche oscura de las dificultades del mundo, y quien, en medio de las tormentas y tempestades que de ellas se derivan, mantuvo su espíritu tranquilo y su corazón contento. Por lo demás, dueño de sí mismo en la época de que hablamos, en posesión de la herencia paterna y con total libertad para decidirse o por el lado del mundo o por el


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altar, se vio ilusionado por tener que hacer una nueva elección, para confirmar la que ya había hecho y alcanzar por ello un nuevo mérito ante Dios...». Pues bien, si seguimos la sucesión de los hechos ocurridos en esta etapa de la vida de La Salle, no tenemos más remedio que concluir que, ni por asomo, hubo en Juan Bautista la mínima duda sobre el seguimiento de su vocación sacerdotal. Veámoslo. Año 1666, 9 de julio: Pedro Dozet cede la canonjía a Juan Bautista Año 1667, 7 de enero: Juan Bautista toma posesión de la canonjía Año 1668, 17 de marzo, recibe en Reims las cuatro órdenes menores Año 1669,10 de julio: recibe el título de «maestro en artes» (= bachillerato) en octubre: comienza el primer año de Teología, en Reims Año 1670, 17 de octubre: ingresa en el seminario de San Sulpicio; 2º de Teología Año 1671, 19 de julio: muere su madre 19 de octubre: comienza el curso en San Sulpicio; 3º de Teología Año 1672, 9 de abril: fallece su padre, Luis. Le nombra tutor de sus hermanos 12 de abril: da por terminados sus estudios en la Sorbona 19 de abril: sale de París hacia Reims 23 de abril: llega a Reims 27 de abril: es confirmado como tutor de sus hermanos desde mayo a agosto: continúa 3º de Teología en Reims 24 de mayo: autorizado por el arzobispado para recibir el subdiaconado 27 de mayo: autorizado por el cabildo para recibir el subdiaconado 11 de junio: recibe el subdiaconado en Cambrai 18 de junio: despide a Poncette, la sirvienta de la familia 24 de junio: termina la vida en común de los hermanos mes de junio: elige como director espiritual a Nicolás Roland 8 de octubre: obtiene el certificado de los cursos del Prof. Egan 10 de octubre: interrumpe los estudios para ocuparse de la Tutoría 6 de diciembre: obtiene certificados de 3º de Teología de París Año 1673, todo el año dedicado a la Tutoría Año 1674, hasta octubre, dedicado a la Tutoría 10 de octubre: comienza Filosofía Año 1975, agosto: obtiene el título de Bachiller en Teología Año 1976, 1 de enero: comienza la licenciatura en Teología 20 de enero: proyecto permuta de la canonjía, aconsejado por Roland 3 de febrero: Cloquet deshace el proyecto de permuta de la canonjía 13 de marzo: autorización del cabildo para recibir el diaconado 21 de marzo: recibe el diaconado 6 de mayo: Juan Bautista es descargado de la Tutoría 2 de octubre: presentación de la Cuenta de Tutela 31 de diciembre: termina 1º de licenciatura en Teología Año 1977, 31 de diciembre: termina 2º de licenciatura en Teología Año 1978, 9 de abril: Juan Bautista es ordenado sacerdote


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Este calendario, elaborado con los documentos oficiales que hoy poseemos, no los conocieron los primeros biógrafos, que además incurren en bastantes errores, tanto de fechas como de lugares. Pero ahora sí tenemos los datos exactos, gracias, en gran medida, a las investigaciones del Hermano León Aroz (q.e.p.d.), consignadas en los Cahiers Lasalliens. Comprobamos que apenas salido Juan Bautista del Seminario de San Sulpicio, el 19 de abril de 1672, y de regreso Reims (27 de abril), sólo pasaron cuatro semanas para solicitar (24 de mayo) del arzobispado la ordenación de subdiácono. Mal hubiera tenido tiempo para atravesar una crisis vocacional. Por el contrario, ese breve espacio demuestra que su resolución de recibir el subdiaconado estaba ya programado en San Sulpicio. Por otro lado, tampoco pudo haberse consejado con su director, Roland, pues a éste lo eligió después de haber recibido el subdiaconado, en el mes de junio de 1672. En fin, se ve que Juan Bautista, ya desde que recibió las órdenes menores, a los dieciséis años (17 de marzo de 1668), tenía adoptada la firme decisión de consagrarse a Dios en el sacerdocio. Las afirmaciones que hace Blain hemos de catalogarlas entre las muchas piadosas consideraciones que introduce por su cuenta, sin haberse preocupado de si eran o no ciertas. En el caso que tratamos, las posibles dudas vocacionales de Juan Bautista, que siguieron a la muerte de sus padres, fueron suposiciones erróneas, que, además, ni tuvieron tiempo material de existir. (continua)


RivLas 77 (2010) 1, 165-184

A cent’anni dalla nascita

Ricordando fratel Anselmo Balocco catechista e catecheta (1910-1995) MARCO PAOLANTONIO

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ra gli anni 1930 e 1970 le due Province lasalliane d’Italia conobbero un fervore catechistico, dottrinale e didattico, che per merito di numerosi Fratelli si estese all’intero territorio nazionale1. Unico fra i protagonisti di quella stagione vivace e feconda, fr. Anselmo Balocco non ha finora trovato un biografo. Questo spiega l’assenza nelle presenti note di particolari relativi al primo periodo della sua vita; ma, almeno nel nostro assunto, si tratterebbe di annotazioni accessorie. Vale la pena invece di premettere delle testimonianze che pongono in luce alcune dimensioni della sua personalità. Cultura. «Chi si accosta all’ampia produzione di Fratel Anselmo, che si estende dalla teologia alla catechesi, alla pedagogia e psicologia, alla letteratura, alla Sacra Scrittura e agli studi lasalliani, rimane a tutta prima sorpreso per la vastità degli interessi che hanno ravvivato per un sessantennio, in molteplici forme, l’opera del docente, dello studioso e dello scrittore. La varietà dei mezzi espressivi di cui si è servito nella sua attività sparsa ma non dispersa, in svariati campi, nulla toglie alla sua unità di pensiero, alla sua integrità personale, alla sua completa attuazione del suo ideale educativo e specialmente alla sua qualificazione lasalliana. La gerarchia che si istituisce in virtù di una idea dominante può concedere un’evasione nei campi dell’arte, del giornalismo, dell’organizzazione esterna dell’apostolato, senza mai perdere nella sua unità; ma soprattutto ha consentito a Fratel Anselmo di compiere escursioni nel campo degli studi umanistici, pedagogici, catechistici»2.

Basti ricordare, con fr. Leone di Maria (il ‘capostipite’), fr Remo Re, fr Beniamino Bonetto, fr. Eusebio Battezzati, fr. Agilberto Gatti, fr. Giovannino Verri, fr. Mansueto Guarnacci, fr. Siro Ferranti, fr. Ugolino Ferranti, fr. Massimo Sborchia, fr. Alberto di Maria… 2 In Elenco delle pubblicazioni di Fratel Anselmo A. Balocco FSC, su Rivista lasalliana 2003/1, 5064. L’introduzione, non firmata, è attribuibile al solerte collaboratore della Rivista, Elio D’Aurora. 1


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Tratti biografico-professionali. «Uno dei suoi ultimi gesti che connotano perfettamente il suo stile e la sua mente è di poche settimane fa: 21 aprile, giorno del suo onomastico. Mi consegnò un foglio che riportava un pensiero di Anselmo d’Aosta e riassumeva nelle parole “fides quaerens intellectum”: il suo progetto di vita. Fratel Anselmo fu il Fratello che più di ogni altro, nella nostra provincia religiosa, seppe mettere il grande dono dell’intelligenza, fornitagli abbondantemente, al servizio della fede, o meglio, dell’educazione alla fede. Una fede non come astrazione teologica, ma ben ancorata nella struttura dell’uomo, particolarmente dei giovani, attenta alla loro sensibilità finalizzata alla crescita nella fede. Compì tutto con rigore di impegno fondato su competenze acquisite in seri e prolungati studi convalidati da riconoscimenti accademici: laurea in lettere (1941, Statale di Milano); laurea in filosofia (1943, Cattolica di Milano); laurea in teologia (1958, Gregoriana, Roma); licenza in scienze bibliche (1960, Pontificio Istituto Biblico, Roma). Esercitò il suo ministero sia nella scuola sia nei corsi di formazione per Fratelli e insegnanti di religione, attendendo nel contempo a vari incarichi impegnativi: ispettore ministeriale per l’insegnamento della religione nelle scuole statali; vice-preside del Pontificio Istituto Jesus Magister; consultore vaticano per la catechesi; professore di teologia e catechetica in vari atenei ecclesiastici romani; direttore (1963-1983) di Rivista lasalliana…»3. Cifra educativa. Vercellese di nascita, fu diligente alunno delle lasalliane Scuole cristiane di Vercelli. Visse le prime esperienze educative a Rodi (1927-29), Tripoli (1929-31 e 32-34), Bengasi (1931-32). Furono anni che ricordava con nostalgia e segnarono fortemente la sua esperienza pedagogica e didattica. Tornato in Italia fu insegnante di scuola elementare a Torino (1934-35, S. Pelagia), a Vercelli (1935-36, Istituto S. Giuseppe), nuovamente a Torino (1936-38, Collegio S. Giuseppe). Trasferito a Milano (1938-50), vi conseguì la laurea in lettere e quella in filosofia e insegnò nei licei dell’Istituto Gonzaga. Dopo una breve parentesi romana (1950-51), tornò all’insegnamento al Gonzaga di Milano dal 1951 al 1956, anno in cui inizia il lungo periodo (1956-1976) che lo vedrà impegnato nelle mansioni su ricordate. Dal 1976 al 1980 è all’Istituto La Salle di Torino, responsabile del Centro Studi sull’Educazione religiosa ‘Fratel Leone di Maria’, animatore della Fondazione Balzaretti. Dal 1980 alla morte farà parte attiva della comunità che anima il Centro universitario ‘Villa S. Giuseppe’ di Torino. I primi trent’anni hanno dunque la classe come luogo di tirocinio e di perfezionamento educativo. Tra i suoi liceali degli anni ’50 c’è chi lo ricorda così: Era per noi professore di filosofia e storia, materie che possiamo definire ostiche o almeno noiose: dalla prima lezione amammo la materia e il professore; e tanto basti. Le sue spiegazioni avevano per fine non un’arida per quanto esatta esposizione delle Da Notizie di Famiglia n. 46, giugno 1995, pubblicazione periodica della Provincia FSC di Torino. Note di fr. Felice Cometto, provinciale emerito. 3


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idee o di avvenimenti, ma piuttosto l’educazione di ciascuno di noi che lo ascoltavamo, che anche in base alle sue parole saremmo diventati uomini. Parlava a noi dalla cattedra, ma amava assai più l’incontro diretto: e dove tale incontro può essere più schietto se non nel divertimento e nello sport? Quante volte papà e mamme videro svolgersi nella palestra del Gonzaga partite di basket, che vantavano in lui il direttore e l’arbitro, l’allenatore e l’avveduto consigliere!(…) Lo sport era anche visto al lume di un insegnamento che ripeteva spesso: ogni momento dev’essere impiegato; ogni idea dev’essere tradotta in azione; ne verrà forse un risultato imperfetto, ma rimarrà ferma la soddisfazione di averlo raggiunto. (…) Durante la settimana lo vedevamo partire varie volte per Venegono a tenervi importanti lezioni di catechetica; spesso trovavamo nell’atrio, specialmente al sabato pomeriggio, dei suoi ‘giovani amici’, che lo attendevano per portarlo a presiedere qualche riunione cattolica di istruzione, a tenere le sue conferenze tanto attese, tanto attuali ed esaurienti…4

1. Preparazione culturale solida e versatile Se, com’è agevole appurare scorrendo la sua bibliografia, le pubblicazioni a firma di fr. Anselmo hanno per tema costante catechesi e catechismi, non è difficile individuarvi un fil rouge che corrisponde alla progressiva maturazione professionale e culturale perseguita. Nel primo periodo - corrispondente alla laurea in lettere (1941) - prevalgono composizioni e articoli di taglio letterario5. Quello successivo, caratterizzato dalla laurea in filosofia (1943) e concluso con la laurea in teologia (1958), il più denso e significativo6, dà agli scritti di catechetica e all’animazione catechistica di fr. Anselmo il convincente suggello di una riconosciuta competenza professionale. Segue quello, coronato dalla licenza in scienze bibliche (1960), che conferirà colori ‘testamentari’ e spessore dottrinale soprattutto agli articoli per Rivista lasalliana e Sussidi per la catechesi. Il saldo impianto dottrinale e l’abilità didattica furono riconosciuti in modo inequivoco da operatori della pastorale e da esperti di catechesi. Nella Prefazione alla seconda edizione di Educazione catechistica (1950), mons. Giovanni Urbani scriveva: «Chi non conosce in Italia - e non solo in Italia - Fratel Anselmo? La sua competen-

Un ex-allievo ricorda Fratel Anselmo, in “Incontri”, annuario dell’Istituto Gonzaga, 1957, pp. 14-15. I tre volumetti di liriche: Rintocchi, Acquerelli, pref. di Renzo Pezzani, A & C,Torino 1938 pp. 78 e 95; Ritmi, pref. di Alberto Serra-Zanetti, A & C, Torino 1939, pp. 108. Articoli e recensioni pubblicate su Italia, il quotidiano cattolico di Milano: Il compagno di banco - Un dugentista poeta burlesco (1940). - Messer Marco Polo e i Re Magi - La Regina della celeste Jerusalem - La candelora - Premio e pena - L’araldo dell’Incarnazione - La finestra dell’anima - Il vessillo del re (1941) - Amedeo d’Aosta, padre dei poveri - L’autore di nuova salute - I tre re - Italia e India in una pagina del ‘Primato’ O Roma felix! (1943) - Profumo di tiglio o sapor di bruciato? su Il Popolo, Milano 1946. 6 Corrisponde alla pubblicazione di Lineamenti di Catechetica (1948); Educazione catechistica - Organizzazione catechistica - Didattica catechistica (1950). 4 5


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za nel campo della pedagogia, dell’organizzazione e della didattica catechistica, accompagnata da una generosissima azione di propaganda è ben nota a tutto il clero italiano, che già per l’addietro ha fatto tale buona accoglienza alle sue lezioni raccolte in un solo volume da esaurirne, in breve tempo, la prima edizione. Questa […] può veramente dirsi ‘nuova e originale’ e non solamente per le nuove esperienze raccolte dall’autore durante il suo peregrinare apostolico, che danno all’opera una vivace freschezza di vita vissuta, ma specialmente per l’ampiezza e la completezza del disegno, che risponde in sobrie e dense pagine, a tutte le esigenze del catechista. Chiarezza di esposizione, ricchezza di materia, sodezza di dottrina, attinta a fonti sicure e varie, semplicità di metodo e di stile, precisione di vocabolario e di pensiero sono le qualità che appaiono al lettore».

Silvio Riva, riconosciuto esperto del settore, annotava nel 19727: «Fratel Anselmo Balocco è oggi l’esponente lasalliano di punta. Ispettore nazionale per l’insegnamento della religione nelle scuole di Stato, consultore della sacra congregazione del clero per la sezione catechistica, primo reggente del Pontificio Istituto di Teologia Jesus Magister, professore di teologia negli atenei romani, apparve nell’ambiente catechistico con un volumetto: Missione educatrice (1944) con una succosa prefazione di U.A. Padovani8. È un lavoro coraggioso, che fonde filosofia e pedagogia, teologia e didattica, aggiornatissimo nel tempo in cui uscì, considerate in funzione della catechesi. Un lavoro d’ampio respiro che merita d’essere riconosciuto come un contributo fondamentale per la catechesi italiana, sono i tre volumi di Catechetica. 1. Educazione catechistica; 2. Organizzazione catechistica; 3. Didattica catechistica (1950): lo scibile catechetico è messo a soqquadro con gli uomini, i saggi e gli studi più ragguardevoli, di casa ed esteri, ma con una aderenza all’ambiente pastorale italiano che rivela la conoscenza di fratel Balocco della geografia catechistica più valida. Nel settore della didattica si notano: Esercitazioni catechistiche, in tre volumi, che sono il fior fiore dell’attivismo suscitato nella scuola di religione e nella catechesi ai ragazzi-preadolescenti».

Di valore non solo affettivo l’apprezzamento dattiloscritto e autografato, che fr. Anselmo ha conservato fra le sue carte. Belluno, 17/12/1949 Onoratissimo Fratello, il sottoscritto, che dirige l’Ufficio catechistico diocesano di qui, ha dovuto compilare per le scuole dei catechisti un opuscoletto. Nello stenderlo, ha preso più d’una volta ispirazione dalle di Lei opere, come potrà vedere, se appena avrà il tempo e la bontà di dare un’occhiata. Ne ho fatto solenne confessio-

S. Riva, La pedagogia religiosa del Novecento in Italia, Antonianum-La Scuola di Brescia, 1972, p. 324. Coetaneo di fr. Anselmo, Silvio Riva (1913-1994) fu, tra l’altro, responsabile della cattedra di Catechesi e preside del Pontificio Istituto di Pastorale alla Lateranense. 8 Ordinario di Filosofia morale nell’Università cattolica di Milano; nella prefazione succitata esprime «il piacere di presentare questi saggi di pedagogia pratica per le scuole elementari, intelligenti e fervidi, spigliati ed eleganti, di Fratel Anselmo delle Scuole cristiane - la moderna Congregazione religiosa così benemerita e specializzata per l’educazione religiosa dei giovanetti - il quale fu nostro ottimo allievo nell’Università cattolica del Sacro Cuore, e con noi si laureò degnamente in filosofia». 7


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ne nella avvertenza iniziale. Spero che non me ne vorrà male e che non vedrà malvolentieri l’opuscoletto che Le faccio avere insieme con questa mia. Con sensi di alta stima, dev.mo don Albino Luciani.9

E, da cardinale, il futuro papa scriveva a fr. Anselmo il 4 marzo 1978 «scusandosi di essere indiscreto, ringrazia vivamente per i volumi del venerato fr. Leone di Maria».

2. Sussidi per la catechesi: tappe di un cammino di cinquant’anni La rivista Sussidi per la catechesi, fondata a Torino nel 1936, ebbe inizialmente il titolo di Sussidi per la riflessione e il catechismo. Foglio d’animazione per Fratelli, a sostegno del loro impegno catechistico all’interno delle loro scuole, in breve tempo si fece conoscere e stimare anche al di fuori di quell’ambito, divenendo una rivista a diffusione nazionale. Fr. Anselmo diede inizio alla collaborazione nel 1939 con Natale, schemi di lezione10 e la concluse nel 1995, anno della morte, con un articolo che pare un commiato: Nel tempo, in prospettiva dell’eterno. Fra le due date si contano almeno 152 contributi in forma di articoli, brevi saggi, schemi, schede di esercitazioni attive… Tale vasta produzione può, senza forzature, essere raccolta intorno a quattro nuclei tematici, che si intrecciano variamente nel tempo ed hanno come perno operativo la “pedagogia a misura dell’educando”. Nucleo liturgico, prevalente dal 1939 al 1952, propone, con intelligenti piste attive, il senso, lo studio e la pratica religiosa dei ‘tempi forti’: • Natale (1939,3,74-77) e Natale, catechesi innologica (1942,7,77-78) • Epifania (1940,4,101-105) e Catechesi innologica sull’Epifania (1942,7,103-106) • Pasqua (1940,6, 174-178) - Alleluja, traccia di catechesi ad adolescenti (1952,4,166-167) - Pasqua e l’aritmetica (1942,8,251) • Ascensione (1940,7,207-209 e 1952,5,220-224) • Pentecoste (1940,8,241-245) e Il Santificatore (1957,6, 283-286) • Regalità di N.S. (1940,5,5255 ) e Cristo Re (1942,7,40-41) • Tre quadri introduttivi sulla S. Messa (1940,5,8182) • Circoncisione (1940,5,92-93) • SS. Nome di Gesù (1941,4,121-123) • Solennità della Croce (1941,6,187-192) • SS. Trinità (1941,8,245-248) • Corpus Domini (1941,9,283-287) • Sacro Cuore di Gesù (1942,10,315-318) • Sette riflessioni sul Vangelo (1948,6,382-386) • Cinque riflessioni sociali su spunti della Quaresima (1949,2,138-141) • Schemi catechistici dei Vangeli festivi (1951,10,480-499) • Feste mariane (1954,2,75-78; 3,126-129;5, 216; 6, 328;9,416; 1955,5,234-235;

Giovanni Paolo I, catechista convinto, fu un grande estimatore dei Fratelli: v. Rivista lasalliana 1978,3-4, pp. 147-149. 10 Già chiari nell’impostazione e corposi nelle proposte divise in Cenni storici - Missione messianica Le tre messe - Pratiche, manifestazioni popolari, iconografia. 9


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1957,8,340-345) • Itinerario sacramentale del cristiano (1995,3,34-39) • Il quotidiano colloquio con Dio (1995,4,57-62). Rientra nel nucleo il volume Le feste del Signore (1953), che riprende in parte, ma reimposta in modo originale, arricchisce e aggiorna, molti degli argomenti già trattati negli articoli. Giusto qui ricordare che fr. Anselmo non si limitò mai a far ristampare le sue pubblicazioni, ma le sottopose sempre a una revisione accuratissima, aggiungendovi integrazioni significative e liberandole da anacronismi e imprecisioni.

Nucleo dottrinale, trattato con più frequenza negli anni 1945-54, consta del già citato Missione educatrice (1944) e dei saggi: La scuola di dottrina cristiana (1946), L’insegnamento della religione ai ragazzi (1959), dei 5 volumetti di esercitazioni catechistiche [La luce della fede - La fiamma dell’amore - Il conforto della Grazia - La nuova Alleanza - Verso il Messia, 1947], Lineamenti di catechetica (1948), che anticipano temi poi ripresi e ampliati in Didattica della catechesi (1959), 3 volumetti di esercitazioni [Il dogma - La morale -Il culto, 1949], 3 volumetti di esercitazioni catechistiche [Credo - Legge - Grazia, 1954], altre esercitazioni catechistiche [Battesimo - Confessione - S. Messa - Cresima - Eucaristia, 1954], 5 catechismi per le classi elementari11 [Ama Gesù -Segui Gesù -Vivi con Gesù - Vivi per Gesù - Vivi di Gesù] e infine Verbo perenne, corso di religione per le scuole medie12. Sintesi critica di questo nucleo tematico può essere indubbiamente considerato il volume Catechesi e catechisti (Sussidi, Milano 1958, pp.192), presentato originariamente come tesi di teologia all’Università Gregoriana, e che porta come sottotitolo: Saggio sulle tendenze e sugli atteggiamenti teologico-pastorali degli odierni catechismi diocesani a diffusione nazionale. Altri articoli e saggi di questo nucleo: L’anima della scuola di dottrina cristiana: il sacerdote (1945,4); Compito di religione nelle scuole superiori (1948,3); Sua Santità Pio X assertore dell’insegnamento catechistico (1951,3); Programmi per le classi elementari (1954,2); Ciclo natalizio (1954,1); Dio creatore (per adolescenti). 1° e 2° comandamento (per adolescenti). I Sacramenti (per fanciulli) (1954,2); Passione e morte di Gesù (per giovani) (1954,3); Articoli 5-6-7- e 11 del Simbolo (per giovani); 6 e 10 Comandamento (per adolescenti); Cresima ed Eucarestia (per fanciulli) (1954,4); Gli ultimi articoli del Simbolo (per giovani) - Precetti e virtù (per adolescenti) - Estrema Unzione, Ordine e Matrimonio (per fanciulli) (1954,5); Nove secoli di scisma (1954,7); Sua Santità Pio XII sollecita alla cura delle vocazioni (enc. Sacra virginitas) (1954,7); Sua Santità Pio XII incoraggia gli educatori all’azione (1954,9); Sua Santità Pio XII istituisce la festa di Maria Regina (enc. Ad coeli Reginam) (1954,10); Diritto e dovere (1956,1); Annuale giornata del catechismo (1956,6); Catechesi occasionale (1957,2); Dal Congresso internazionale di 11 12

Ed. A&C, Torino-Milano 1952-54, pp. 32, 48, 64, 80, 96. Ed. Bietti, Milano 1969, pp.115 cad.


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Anversa (1956,8 e 9;1957,1; 2; 3,; 5,); Catechesi al popolo (1957,1; 2; 3,); Catechismo e catechismi (1957,4; 6; 9); La mariologia nella catechesi (1957,8); Il problema del contenuto nei catechismi (1958,3); Un testo di catechismo (1958,4); Formulario universale? (1958,5); Catechesi sulla Chiesa (1958,6); Catechesi in prospettiva sociale secondo i documenti del Magistero (1972,4); Il formulario catechistico argentino (1975,4); La scuola nel quadro della catechesi (1972,5); Un documento sul rinnovamento penitenziale (1975,1); Contenuti essenziali nel Catechismo dei Fanciulli (1976,6); Spunti per la catechesi mariana (1992,2); Cristiani e non credenti (1992,5); Cristiani seminatori di pace (1992,6); Cristianesimo e relazioni umane (1993,1); La ricchezza, dono che fa problema (1993,2); Nuove tendenze religiose: una sfida alla pastorale (1993,4).

Nucleo psicopedagogico-sociologico - Esamina le caratteristiche psicologicocognitive dei ragazzi in età scolare per proporre interventi efficaci. Sonda e interpreta in chiave educativa, con vigile sensibilità, i profondi cambiamenti della società nella seconda metà del Novecento. Fattori che favoriscono la memoria (1940,5); Concorso su ‘il sacerdote’ (1943,6); Il problema del divertimento nei giovani (1946,1); Esercitazioni scritte (1946,2); Lo stato d’animo, fattore determinante per la riuscita della lezione (1948,2); Matite e colori (1952,1); Consigli alle vigilatrici (1954,6); Mimica e sceneggiatura (1955,2); Studiare a memoria (1955,3); Preparazione immediata della lezione (1955,8); Avvertenze didattiche (1955,9); Filmini e catechismo (1955,10); Canto e catechesi (1956,2); L’amicizia dell’educatore (1956,7); Mezza dozzina di pillole (1958,7); Apostolato oltre la scuola (1959,10); Messaggio e limiti infantili (1970,12 e 1971,1); Quindicenni nel popolo di Dio (1971,2); Diciottenni in alternativa: interiorizzazione-azione (1971,4); L’animazione del catechista e l’azione di Dio (1972,1); Pastorale giovanile d’impegno nel tempo libero (1972,3); Collaborazione tra comunità ecclesiale e famiglia (1973,1); Attivi di fronte ai mass-media (1973,2); Le prima educazione religiosa dei bimbi (1974,1); Scuola e catechismo dei fanciulli (1974,6); Spunti didattici: Gesù (1975,1); Educazione affettiva e sessuale in Francia (1975,2); I giovani e l’avvenire della fede (1976,3); L’interdisciplinarità nel quadro dell’insegnamento della religione (1989,3); Prestare maggiore attenzione alla famiglia (1989,6); L’attenzione ai giovani (1992,3); La dialettica comandare/obbedire (1993,3); Lo stile cristiano dell’incontrarsi (1993,6); Tonalità gioiosa del Cristianesimo (1994,1); Il dare e l’avere del cristiano anziano (1994,2); La famiglia, già catechista, sempre da catechizzare (1994,3); Cristiani impegnati nell’apostolato (1994,4); Il quotidiano colloquio con Dio (1965,4); Il tempo in prospettiva dell’eterno (1995, 6). Nucleo di didattica biblica - Il più ricco di proposte operative. A partire dal 1961 e fino al 1995: approfondisce - con prevalente preoccupazione didattica - argomenti e aspetti dell’AT e del NT.

Primo sguardo alle Lettere di Pietro (1967,2); I Salmi: preghiera e catechesi (1967,3,


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268-270; 335-337; 480-482; 539-541); Salmi regi e messianici (1968,1); I Salmi: preghiera e catechesi (1968,2); L’azione vivificante dello Spirito Santo secondo gli Atti degli Apostoli (1972,2); Preghiere di qualche millennio fa (1972,6); La chiamata di Dio nella Bibbia (1974,2); Il linguaggio dell’amore nella Bibbia (1975,2); Le primitive comunità cristiane (1975,3); L’impegno apostolico nel NT (1975,5); Scuola e Bibbia ne Il catechismo dei fanciulli (1975,6); Il Battesimo: fondamenti biblici (1976,1); Dalla Bibbia alla liturgia (1976,3); Il concetto di Dio nella Bibbia (1977,1); L’uomo e i suoi compiti (1977,2); Attivi cooperatori (1977,4); Annotazioni sull’uso didattico della Bibbia-1.Nell’Antico Testamento (1989,4; 2.Nel Nuovo Testamento (1989,5); Per incontrare Gesù: attingere alla fonte. Ascoltiamo Matteo. Ascoltiamo Marco (1990,1); Spunti per una catechesi mariana. Ascoltando Luca. Ascoltando Paolo (1990,2); Spunti per una catechesi mariana. Ascoltiamo Giovanni (1990,3); Il ‘gioioso’ annuncio cristiano (1990,4); Attingere alle fonti. La Lettera di Giuda (1990,5); Attingere alle fonti. Rileggiamo gli Atti degli Apostoli (1990,6); I Salmi tra preghiera e catechesi (1991,1; 2; 3); La comunità di Colossi (1991,6); La comunità di Tessalonica (1992,1); Parole di Dio e preghiera dell’uomo (1994,5); Il disegno divino della salvezza (1995,5); La speranza cristiana: motivazioni e sostegno (1994,6); Lo Spirito di Dio nostro sostegno (1995,1); Il sudato pane quotidiano (1995,2).

3. Un «contributo fondamentale per la catechesi italiana»13 L’editrice Sussidi pubblicò la già citata trilogia Catechetica (1950): 1.Educazione, 2. Organizzazione, 3.Didattica. Sappiamo con quale favore furono giudicati al loro apparire da chi aveva sicura competenza nel campo. Rientrano, anzi ne sono la base, nelle trattazioni dogmatico-dottrinali cui si è accennato sopra. Ad essi possiamo aggiungere L’insegnamento della religione ai ragazzi14 e i Lineamenti di catechetica (1948), che mons. Norberto Perini, arcivescovo di Fermo, presentava ai lettori con un’enfasi che tuttavia non pare mera adulazione: Il volume segna decisamente un gran passo nell’arte della Catechesi. È un vero testo teorico e pratico, che presenta il problema nella sua fondamentale importanza, che studia con fine psicologia le doti del maestro e le disposizioni dell’alunno e suggerisce i più svariati accorgimenti didattici, perché la materia sia compresa, e amata, e immessa nella circolazione spirituale della vita. Quando si è finito di leggere questo libro, ci assale un senso di sgomento; ci si domanda: “Ma come ò [sic] potuto io insegnare ed educare senza essere a conoscenza di queste regole?” O, meno drammaticamente, ci si dice: “Quanto più e di meglio avrei fatto, se la stessa quantità di energie che ò dedicate all’insegnamento e alla educazione, l’avessi Giudizio ‘tecnico’ di Silvio Riva, cfr. la precedente citazione da La pedagogia religiosa del Novecento in Italia. 14 Editrice A&C, Tipografia pontificia, Pompei 1959, pp. 125. 13


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spesa seguendo certe regole, attuando certi accorgimenti che questo libro, ecco, m’insegna!”.

I tre volumi della Catechetica costituiscono le sezioni complementari di una vera piccola enciclopedia monografica, ricca di esercitazioni, indici, bibliografia. Ebbero due edizioni, che nel 1956 risultavano esaurite. - Educazione catechistica (pp. VII-242). La prima parte, dottrinale e tecnica, prende in esame i rapporti della catechesi con teologia, filosofia, pedagogia, sociologia (c. I), le forme dell’insegnamento e dell’educazione catechistica nelle dimensioni storica e geografica (c. II), le principali caratteristiche delle metodologie in uso (c. III). La seconda parte, più pastorale, tratta della formazione morale (c. IV), dell’elevazione sacramentale (c. VI), della vita eucaristica (c. VII). - Organizzazione catechistica (pp. 299). Esaminati criticamente ruoli e responsabilità di chi esercita una funzione direttiva (c. I), si passa a considerare le caratteristiche della scuola parrocchiale (c. II), della disciplina in un complesso giovanile (c. III), della personalità del catechista (c. IV), della preparazione della lezione (c. V), dell’insegnamento della religione nelle scuole governative (c. VI), della (indispensabile) conoscenza psico-pedagogica del catechizzando (c. VII) - Didattica catechistica (pp. 255). Dalla catechesi ‘storica’, fondata sulla Bibbia e la storia della Chiesa (c. I), alle esercitazioni grafiche: composizioni, questionari, esercitazioni attive, prove oggettive,…(c. II). Qualità e difetti della lezione espositiva (c.III), come sollecitare e sorreggere l’interesse (c. IV). Caratteristiche delle ‘scuole di metodo’ più diffuse (c. V), attività giocose: canto, animazione liturgica e teatrale (c. VI), la catechesi degli adulti: ambienti e categorie sociali, temi e metodi (c. VII). Il problema della metodologia didattica anche nella catechesi oscilla ciclicamente tra disciplinaristi (che pongono al centro i contenuti) e pedagogisti (che privilegiano le modalità con cui i contenuti possono essere proposti). Negli ultimi cent’anni si è così passati dal Metodo di Monaco all’attivismo, dal metodo kerigmatico a quello antropologico. È perciò possibile ravvisare in alcune pagine di Fr. Anselmo quelle delle esercitazioni attive in particolare - linguaggio e temi oggi non più ‘di moda’; ma un elementare senso di correttezza filologica ci impone di inquadrarle nel loro tempo e davvero poco pare discutibile della loro sostanza dottrinale. Fr. Anselmo rilevava in un articolo del 198115: “La convergenza più evidente si verifica proprio sul tema fondamentale della catechesi cristiana: il cristocentrismo. Giovanni Paolo II precisa infatti che il “cristocentrismo” di ogni “autentica catechesi” significa innanzitutto che al centro stesso della catechesi noi troviamo essenzialmente una persona: quella di Gesù di Nazareth, unigenito del Padre” (CT 5). È il leitmotiv della sua catechesi. Catechesi tradendae e Rinnovamento della catechesi a confronto, in “Via verità e vita”, Centro Catechistico Paolino, Roma 1981. 15


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4. Rivista lasalliana: mezzo secolo di collaborazione, vent’anni di direzione La prima collaborazione di fr. Anselmo alla Rivista16, nata nel 1934, è del 1944. Rientra nel fervore di studi lasalliani promossi dai Fratelli Goffredo Savorè, Dante Fossati, Emiliano Savino, e conterà almeno altri 20 contributi, l’ultimo dei quali nell’anno della morte. L’apporto alla Rivista è assai più corposo: si tratta di altri 51 articoli, che svolgono in particolar modo temi legati alla catechesi e alla Bibbia. Sono più numerosi nel periodo (1963-1983) in cui Fr. Anselmo ebbe la direzione della Rivista. Una sezione della raccolta rilegata dei suoi scritti, da lui stesso curata, li suddivide in tre categorie:

Psico-pedagogico e dottrinale: Orizzonti catechistici tra la Mosa e la Schelda (1952/1,82-94); La pédagogie religieuse et catéchétique au service de l’homme (1959/1,7-20)17; L’insegnamento della religione nelle scuole statali italiane nei cent’anni dell’unità (1961/1,16-67); Note sull’insegnamento religioso secondo i nuovi programmi (1964/1,32-42); Perenne cura dell’adolescenza cristiana (1964/8, 125175); Età evolutiva e sentimento religioso (1965/1,3-38); Educazione centrata sul gruppo (1968/2, 242-276); Religiosità e religione nel fatto educativo (1974/4, 288303); Avviando ai gruppi di discussione (1975/4,318-330); Persona e comunità (1976/1,25-45); Insegnando religione nella scuola secondaria 1967/3, 270-303; Maturità feconda (1977/1,3-23); Preadolescenti in famiglia (1980/2,134-146).

Biblica - Avviando i giovani studenti alla lettura di San Paolo (1962/2,115-141); Strutture ritmiche nei Vangeli (1962/4,310-330); Avviando alla lettura dei Salmi (1963/3,179-216); Echi biblici nella Divina Commedia (1965/3,199-230); Avviando alla lettura di San Pietro (1966/3,180-213); Centralità dei discorsi nel libro degli Atti degli Apostoli (1968/3,242-276); Sintesi bibliche della storia della salvezza (1968/4,319329); Introducendo alla lettura del quarto Vangelo (1969/4,272-290); Acculturazione e contestualizzazione del messaggio cristiano (1979/3); La famiglia nella Bibbia (AT) (1980/1,57-71); Famiglie cristiane emergenti nel NT (1980/3,226-235).

Lasalliana - In margine a una nota di Fratel Agatone (1945/2,37-48); Il primo centenario dell’Istituto delle scuole cristiane di Vercelli18 (1947/3,182-188); Fratel Emiliano: evocatore di immagini (1963/1,80-92); Giovanni XXIII e i Fratelli delle scuole cristiane (1963/2,95-112); Fratel Biagio delle scuole cristiane e la Federazione delle Associazioni sportive cattoliche italiane (1965/2,3-62); Il Tridentino nei Devoirs del La Salle (1966/1,7-45); La Bibbia nei Devoirs d’un Chrétien

In margine a una nota di Fr. Agatone, in “Rivista lasalliana” 1945, 2, 37-48. Si trova nel volume rilegato che indicheremo come Lasalliana. È una conferenza pronunciata in francese in occasione del Congresso mondiale degli ex-allievi lasalliani, tenutasi in Belgio. 18 Si trova qui uno dei rarissimi riferimenti autobiografici di fr. Anselmo, che scrive “alla sgargiante sinfonia dei toni prestò la concretezza d’un’elegante elevazione di pensiero sulla missione lasalliana Fratel Anselmo, professore all’Istituto Gonzaga di Milano, ex allievo delle Scuole Cristiane di Vercelli”. 16 17


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(1966/4,243-270); La voce dei Padri della Chiesa nei Devoirs d’un Chrétien (1966/2,79-119); Il Decalogo nei Devoirs d’un Chrétien (1967/2,105-122); Le due redazioni dei Devoirs d’un Chrétien (1970/3,163-177); La Bien-séance del La Salle e i suoi destinatari (1970/4,357-380); Il Centro studi sull’Educazione religiosa ‘Fratel Leone di Maria’ (1971/1,3-13); L’Institut Pontifical Jesus Magister, in Bulletin des Frères des É.C. (1968/48,7-17); La Dottrina breve del Bellarmino nel Compendio di Fratel Regolo (1971/1,32-44); Fratelli Insegnanti e pastorale giovanile (1971/2,116-148); Caratteristiche del Compendio di Dottrina Cristiana di F. Regolo (1971/3,174-203); L’azione dei Fratelli italiani nel Mediterraneo orientale19 (1972/1,17-34); L’effimera Provincia dell’Emilia (1972/3, 143-174); I due Ispettori nazionali per l’insegnamento religioso nelle scuole statali italiane (1972/4, 227299); Il beato Fratel Miguel e il Catechismo di san Pio X (1977/4,299-305); Un ventennio di studi lasalliani (1975/4,299-311); Tonalità socio-religiose emergenti nei Devoirs (1978/2,71-88); Il La Salle nel Discurso di Andrés Manjón (1980/4,243250); Il garbo come virtù nel La Salle (1981/2,123-136); Genitori animati dal La Salle (1981/3,175-185); L’educatore plasmato dal La Salle (1981/4, 339-356); Il La Salle nell’alveo del realismo pedagogico (1982/3,139-151); Il La Salle a tu per tu (1990/2);Vocati al ministero educativo (1991/2,79-94); Chiarezza fino allo scrupolo; il c’est-à-dire del La Salle (1992/3,87-95); Il nerbo dello stile paolino nella didattica del La Salle (1992/4,274-283); Il La Salle catechista dei semplici (1993/3,240-246); Nella scia di santi e illuminati educatori (1994/4,257-262); Da assidui ascoltatori della Parola a zelanti discepoli (1995/2,117-122).

5. Collaborazione con altre riviste e pubblicazioni Miscellanea è il titolo che fr. Anselmo fece stampare sul dorso del 6° volume degli scritti - studi, saggi e articoli - comparsi su altre riviste, che volle rilegati. La rassegna, che è testimonianza della notorietà del Nostro in campo non solo nazionale, vi appare incompleta. Per integrarla citeremo anche i dati che riporta l’Elenco delle pubblicazioni di Fr. Anselmo Balocco20: 1950 Educazione della gioventù nell’apostolato catechistico, in “L’Assistente ecclesiastico”, 24, 340-342.

Altro riferimento autobiografico:”Personalmente convinto che la diffusione del messaggio cristiano in paesi di mista religione inizi con l’accoglimento inconscio e globale dei valori (e quindi dello spirito) del Cristianesimo, interrogai vari Fratelli i quali, come me, trascorsero vari anni in comunità nel Mediterraneo orientale. Sulla scorta delle loro risposte, sottopongo a riflessione una particolare nostra esperienza di vita apostolica”. 20 L’elenco (RL 2003/1, 50-64), che integra un fascicoletto a stampa che fr. Anselmo redasse e pubblicò nel 1969, è però talora privo di riferimenti bibliografici quali numero e pagine della fonte citata. 19


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1952 Il fanciullo interrogato, in “Rivista del catechismo”, 1, 15-17. 1953 Elementi vitali nell’insegnamento della religione, in “Lettera fraterna”, 7, 11; Tempi psicologici nell’insegnamento della religione, in “Lettera fraterna”, 7, 12. 1954 L’attiva partecipazione del fanciullo alle lezioni di religione, in “Maestri di Azione cattolica”, 1; Metodologia catechistica d’oltralpe e d’oltremare, in “Maestri di Azione Cattolica”, 2. 1958 Catechetica (I,54), Catechismo (I,541-544), Catechista (I,544-545), Catechistica (legislazione) (I,546), Dottrina cristiana (I,908), in Dizionario Ecclesiastico, UTET, Torino. 1959 La catechesi per la 1. comunione, in “Orientamenti pastorali”, 7, 21-26; Telescuola: lezioni di religione per la I e la II classe, ERI, Roma, pp.70; L’insegnamento della religione ai Ragazzi, A&C, Milano, pp.144. 1960 L’insegnamento religioso nelle scuole, in AA.VV., La catechesi oggi in Italia, LDC, Colle don Bosco, 55-68; Television Schooling, in “Lasallian Digest”, 2, 68-70. 1961 Famiglia e catechesi oggi in Italia, in “Rivista del catechismo”,10, 187-192. 1962 Storia dell’insegnamento della Religione in Italia (1861-1961), in La religione nelle scuole italiane. Manuale giuridico per gli insegnanti, Cenac, Roma, 338721; La catechesi dei sacramentali, in “Orientamenti pastorali”,10,124-131;Telescuola: lezioni di religione per le classi I e II (fascicoli), ERI, Roma, pp.70; La enseñanza religiosa en Italia, in “Educadores”, 4, 507-517; Proyectos de Catechismo Universal, in “Anuario Catequistico”, Ed. La Salle, Tejares, 129-134. 1964 Sulle tracce del Divin Maestro, in “Maestri di Azione Cattolica”,18, 2; La religione in 1. media, in “Scuola e didattica” (I,27; III,142; V,259; VII,372; IX,500; XIII,617; XV,779); Telescuola: lezioni di religione per le tre classi medie (fascicoli), ERI, Roma, pp.100; Schemi per un corso di aggiornamento catechistico ad uso dei Seminari maggiori, S.C. de Seminariis et Stud. Univ., 404,64; L’insegnamento della religione nella scuola secondaria, in “Studi Cattolici”, 43,54-55. 1965 Le realizzazioni educative del Cristianesimo per l’adolescenza, in Enciclopedia dell’adolescenza, Queriniana, Brescia, 221-256; L’istruzione catechistica, in Attualità della pastorale di s. Carlo Borromeo, Massimo, Milano, 115-140; Un precursore nel rinnovamento tomistico: Fratel Louis de Poissy FSC, in “Aquinas”, 429-43822; Telescuola: lezioni di religione per la classe III (fascicolo), ERI, Roma, pp.30; Educatio, in Dictionarium morale et canonicum, a cura di P. Palazzini, Roma, vol II, 234-236. 1966 Il sacerdote nella scuola, in “Seminarium”, 18, 431-451; L’istruzione scolastica e le sue offerte intellettuali, in “Problemi della Scuola Cattolica”, Fidae, Roma, quad. 21-22, 87-88. 1967 Vocazione: Dio chiama, in “La Fiaccola”, 41,4-6; Perenne patrimonio di Fede, in “L’Amico del clero”, 50,511-51523; Il sacerdote nella scuola secondaria, in Semi21 22

È la ristampa del saggio comparso su “Rivista lasalliana” 1961/1. Lo studio fu pubblicato anche sul “Bulletin des Frères ÉC”, 47, 234-236 e a cura della PUL, Roma.


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narium, 19,417-433; Note di psicopedagogia pastorale (pro manuscripto), PUL, Roma, pp.144; L’Institut pontifical romain ‘Jesus Magister’ in “Bulletin des Frères des ÉC”, 48,7-17; I nuovi programmi per il primo biennio della scuola secondaria nel 1967-68, in “Quaderni dell’UCN”, 1,69-7424 ; La catechesi nella scuola italiana (pro manuscripto), PUL, Roma, pp.103. 1968 Famiglia e vocazioni, in “La Fiaccola”, 42, 4-6; Psicologia pastorale nella scuola, in “L’Amico del clero”, 51,104-106; Istanze psicologiche e pedagogiche del predicatore, in La predicazione nella luce del Concilio, in Atti del I° Congresso dei Predicatori Cappuccini italiani, Domus Pacis, Roma, 105-116. 1970 Religiosità e personalità, in Esperienze sociali. Scuola Superiore del Servizio Sociale, Palermo, 3-21; Educare animando. Note di psicopedagogia pastorale, PUL, Roma, pp.117. 1971 ‘Ritornelli’ e ‘Selah’ nella scansione strofica dei Salmi, in “Rivista biblica”,19, Paideia. 1974 La vocazione nella Bibbia, in La catechesi della vocazione, LDC, Leumann, 41-63; Contenuti e orientamenti metodologici nella catechesi odierna, in “Seminarium”,1,79-102. 1978 Dal programma tracciato al programma vissuto, in “Catechisti parrocchiali”, 9, 10-16. 1980 Catechesi tradendae e Rinnovamento della catechesi, in “Via verità e vita”, 7, 14-23;The Religious Sense and Religious Education, in Voice of the Hidden Waterfalls, St. Paul Publications, Nothampton, 95-108. 1981 Dossier post-cresima: come? in “Catechisti parrocchiali”, 9,13-20; Maturità feconda. Invito a considerare il futuro serenamente. Relazione al Rotary Club di Asolo (Treviso). 1986 Ragazzi di scuola media. Il servizio del genitore educatore, Agesc del Collegio S. Giuseppe,Torino. 1987 Famiglia e scuola, AGESC del Collegio S. Giuseppe, Torino; Dibattiti sulla Religious Education. L’IR in Europa, in “Religione e scuola”, 3. Dal 1988 fr. Anselmo riserverà la collaborazione a Rivista lasalliana e Sussidi.

6. Apostolato catechistico diretto: convegni, conferenze, corsi, lezioni alla tv Se può stupire la quantità di pagine - e di temi - dati alle stampe da fr. Anselmo, un aspetto del pari straordinario è quello offerto dalla sua attività di conferenziere, direttore e relatore di convegni, animatore e docente di corsi, insegnante in cicli di lezioni teoriche e pratiche. Ne offrono un buon saggio i tre faldoni conservati nell’archivio della Provincia FSC di Torino zeppi di inviti, di programmi e di ringrazia23 24

E in Sussidi, 32, 407-411. E in Sussidi, 1967, 8/9.


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menti. Ne fornisce una parziale riprova la relazione sulle attività del Centro Catechistico lasalliano25 al capitolo Attività del ‘Centro’ al servizio delle diocesi, che allega un prospetto generale delle conferenze catechistiche nelle due province italiane FSC nel decennio 1959-1969. In complesso si trattò di 19.269 incontri, 1687 dei quali da attribuire al Segretario (fr. Anselmo). Non è il caso di spingere la contabilità fino ad accertamenti…fiscali, ma l’idea che è possibile trarre da questi semplici accenni è sufficiente a dimostrare la continuità e lo spessore dell’impegno apostolico di fr. Anselmo. A giudicare dalla tabella citata i gruppi cui si riferiva di preferenza furono: clero, congregazioni femminili insegnanti, catechisti parrocchiali, insegnanti di religione (maestri e professori), seminaristi, gruppi giovanili, genitori. Il segreto del successo era l’esposizione limpida, fluente, sapientemente compaginata, sapida perché ricca di aneddoti e di citazioni letterarie, felicemente evocativa, fondata sulla poliedrica preparazione professionale e sull’approfondita conoscenza degli argomenti trattati, attenta alle caratteristiche dell’uditorio cui sapeva adattarsi con immediatezza. Le doti native si erano venute via via perfezionando; la riflessione sulle forme più efficaci della comunicazione verbale portò ai suggerimenti pratici frequenti nei suoi trattati destinati ai catechisti26. Fu un impegno che onorò per oltre cinquant’anni in misura davvero eccezionale. I faldoni che nell’Archivio di Torino raccolgono una documentazione ordinata e particolareggiata, tipico tratto di fr. Anselmo, elencano in ordine alfabetico 105 località27 in cui si recò per corsi, conferenze, convegni e relazioni. Il numero va elevato a

“Rivista lasalliana” 1971/2, 7-10. V. ad es. Insegnare il catechismo, in Lineamenti di catechesi, pp. 62-67, dove non mancava di suggerire, insieme con la precisione e la semplicità di un linguaggio ben articolato, l’attenzione al tono di voce, il portamento, l’espressione del volto. Consigli ripresi ed arricchiti in Didattica catechistica, pp. 83-114. 27 A puro titolo di curiosità li diamo in ordine alfabetico, come li dispose fr. Anselmo e sono conservati nei faldoni 14, 15, 16 della documentazione che lo riguarda. I puntini dopo le date indicano che la presenza si verificò più volte. Abbiategrasso (’55), Agrigento (’68), Amalfi (’69), Anagni (’68), Andria (55), Arezzo (’57,…), Ascoli (’63), Assisi ’74,…), Bari (’65), Belgioioso (’46), Belluno (’49), Benevento (’49,…), Bergamo (’48, …), Bertinoro (’57), Biella (’65,…), Bologna (’52, …), Bra (’57), Brescia (45, …) , Bressanone (’49), Broni (’46), Cagliari (’53), Capriano (BG) (’53), Capranica (VT) ’72, Capua ’74), Carpi (’51), Caserta (’68), Cassano (’44), Ceglie (BR), (’59), Cesena (‘53), Chiavari (’61), Chieti (’52,…), Civita Castellana (’72), Como (’44, …), Cormano (MI) (’45), Crema (’54,…), Fabriano (’52), Fano (’47,…), Feltre (’46,…), Fermo (’64), Ferrara (‘’68), Firenze (’53,…), Frosinone (’66), Genova (’48,…), Gazzada (’53,…), Gorizia (’47), Iglesias (’50), Isernia (’56), L’Aquila (’60), La Spezia (’49), Latina (’50), Lecce (’51), Lecco (’54,…), Lissone (’50), Lodi (’48,…), Lucca (’52), Luino (’50), Macerata ((’50), Malè (TN) (’47), Mantova (’55,…), Martina Franca (’73), Massa (’47,…), Mendola (’59,…), Messina (’64), Milano (’44,…), Molfetta ’65), Monza (’47), Mortara (’53), Napoli (’65), Nocera U. e Gualdo T. ’47), Oria (’55), Oristano (’65), Padova (’49,…), Palermo (’51,…), Parma (’48,…), Patti (’71), Pavia (’46,…), Perugia (’59), Pesaro (’62), Pescara (’67), Piacenza (’48,…), Piazza Armerina (’55,…), Policastro (’49), Porto (Roma) (’69), Potenza (’72), Ravenna (’52, …), Reggio E. (’49), Rimini (’66), Roma (’58,…), Salerno (’67), Segni (’70), Seregno (’44,…), Taranto (’58), Teggiano (‘72), Tempio P. (’70), Terni (’50), Torino (’50,…), Trento (’48,…), Trieste (’47), Udine (’50,…), Venezia (’57) , Venegono (’55,…), Verona (’54), Vicenza (’45,…), Vigevano (’47,…), Viterbo (’71), Vittorio Veneto (’45). 25 26


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potenza, perché abitualmente gli inviti venivano reiterati (è, ad es., il caso di Palermo; al proposito fr. Anselmo annota: 1951, 1953, 1956, 1957, 1961, 1962, chiamato dalla fiducia del card. Ruffini; e vi si recherà poi nel ’66, 67, 69, 70, 71). A questa imponente mole di prestazioni dichiaratamente professionali vanno aggiunte quelle pastorali, cioè riservate ai giovani delle varie associazioni cattoliche: l’ACI maschile (cui fr. Anselmo si era legato fin dal 1932-34, giovane delegato per gli studenti di AC a Tripoli) e la Gioventù femminile di AC, l’AGESCI e la FGCI, la POA (per assistenti di colonie) e il CTG (Centro Turistico giovanile), lo CSI e la GIAC (Az. Cattolica. Lasalliana)… Con i giovani condivideva, nei campi estivi, anche la vita; lo testimoniano le fotografie allegate alle relazioni. Scorrendo le quali non è raro imbattersi in documenti di sicuro interesse, come la lettera in cui Carlo Carretto, allora presidente centrale dell’AC, comunicando a fr. Anselmo che era stato organizzato ad Asiago un campo nazionale per studenti di Associazioni interne, scriveva: Data l’importanza dell’iniziativa, vorremmo avere Lei come maestro almeno per le prime tre lezioni (…). Non oso chiederle di restare con noi lassù per tutta la durata del campo perché temo che i suoi impegni non lo consentiranno; tuttavia se potesse accettare di essere oltre che il maestro anche l’amico e l’avvicinatore dei giovani farebbe un vero regalo alla GIAC (Roma, 4.7.52).

Mons. Giuseppe Nebiolo, dell’Ufficio Centrale studenti di AC, rinnovando un invito al Campo scuola nazionale per dirigenti (Ugovizza, agosto ’57), annotava: Lei sa quanto noi contiamo sulla sua opera in un’iniziativa che, grazie al Signore, ha sempre una profonda risonanza spirituale nei suoi partecipanti; anche per questo siamo certi che Lei vorrà accogliere positivamente questo nostro invito..

Conseguenza e ulteriore promozione della notorietà di cui fr. Anselmo godeva fu la serie delle 20 lezioni integrative tenute settimanalmente alla televisione tra il 1958 e il 1962. Chi le seguì poté apprezzare il consueto stile spigliato ma concettoso, unito a una perizia didattica che si avvaleva del materiale e del consumato ‘mestiere’ acquisito con le migliaia di esercitazioni create per i suoi scritti catechistici. Com’è stato ricordato, le lezioni furono pubblicate dalla ERI negli anni 1959, 1962, 1964, 1965. Numerosi quanto richiesti gli incontri con docenti ed alunni delle scuole lasalliane d’Italia. Tutte e diciotto le istituzioni del Nord Italia lo vollero in cattedra (alcune più volte), come parecchie altre istituzioni del Sud.

7. Preside di facoltà e docente del Pontificio Istituto Jesus Magister La proposta di aprire a Roma una facoltà di Pedagogia, affiancandola a un Centro di studi religiosi, era stata avanzata nel 1946 al Capitolo generale della Congregazione lasalliana dalla Commissione studi, presieduta da fr. Leone di Maria. Il Consiglio generalizio eletto in quello stesso anno la scartò quasi subito. “E ciò che fu giudica-


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to inattuabile allora dai Superiori dei Fratelli venne attuato pochissimi anni dopo dai Salesiani”28. Un caldo invito a porre in essere un’iniziative consimile venne espresso dal card. Valeri, prefetto della S.C. dei Religiosi, quando si recò alla sede generalizia dei FSC per felicitarsi con il nuovo superiore generale, fr. Nicet-Joseph, che si sentì subito personalmente impegnato nella realizzazione di un progetto che condivideva. Mentre sollecitava alla collaborazione i superiori delle congregazioni insegnanti, fr. Nicet-Joseph trovò in fr. Leone di Maria e soprattutto in fr. Anselmo un aiuto più qualificato ed efficace, anche perché entrambi, insegnanti in atenei ecclesiastici della Capitale, conoscevano ed erano conosciuti da rettori e docenti. Il Pontificio Istituto Jesus Magister nacque il 1° luglio 195729. Il protocollo che lo istituiva ne indicava la sede, il Pontificio Ateneo Lateranense e il pro-rettore, mons. Antonio Piolanti. Fr. Anselmo venne in seguito nominato Vice-Praeses (incarico rinnovato annualmente per un decennio). Furono affrontate con determinazione e in buona misura superate le numerose, inevitabili difficoltà organizzative, soprattutto riguardanti sede30, piano di studi, titoli31, studenti32 e docenti33. Il peso delle trattative, talora estenuanti, e degli accordi, non sempre soddisfacenti, ricadde su fr. Anselmo, sempre e fattivamente sostenuto dal superiore generale fr. Nicet-Joseph34, il quale ne ebbe in cambio preziose consulenze professionali35 nei rapporti ‘triangolari’ con le congregazioni dei Fratelli insegnanti, la SC dei Religiosi e la Pontificia Amara riflessione dello stesso fr. Leone di Maria, autore dell’ampia relazione su Il primo decennio del Pontificio Istituto ‘Jesus Magister’, in “Rivista lasalliana” 1967/3, 209-269. 29 Decreto Prot. N. 01034/57 della sacra Congregazione dei Religiosi. 30 La sede, Roma, imponeva a molte congregazioni lunghe e costose trasferte di personale. Alcuni superiori optarono, quando e non appena fu possibile, per analoghe istituzioni che nel frattempo si andavano fondando in alcuni dei loro Paesi. 31 Il riconoscimento della licenza avvenne nel 1965; per sette anni, perciò, perdurarono incertezze e dubbi. Anche l’equipollenza non soddisfece, perché dava la possibilità, in Italia, di insegnare materie letterarie e religione solo nelle istituzioni dipendenti dall’autorità ecclesiastica. 32 Non fu infrequente il caso di studenti non solo privi di studi classici ma della necessaria preparazione scolastica. Fu quindi necessario ottenere una deroga insolita: la sostituzione del latino - lingua d’obbligo negli atenei ecclesiastici romani - con corsi in lingua francese e inglese. 33 Si assistette, soprattutto all’inizio, a un non infrequente ricambio di insegnanti con inadeguata preparazione specifica (in materie caratterizzanti come la catechetica) e didattica. La mancanza di docenti (e di studenti) portò presto alla soppressione dei corsi in lingua inglese. 34 … che gli testimoniò sempre affetto e stima. Ottantaquattrenne, ospite della casa di riposo di AthisMons, scriveva, rispondendo a una lettera di fr. Anselmo che gli annunciava il rinnovamento dell’incarico di Consultore della SC: Quelle joie m’apporte votre lettre. Elle suffit complètement à l’émerveillement d’un jour! Recevoir un telle lettre d’un ami que j’estime profondément, qui m’a rendu de grands services, et voici qui m’annonce son maintien dans un des plus hauts services de l’Église, comment ne serais-je pas heureux, et obligé de dire à Dieu mon merci le plus joyeux?’(15.09.1984). 35 Fr.Leone nel citato Il primo decennio dell’Istituto Jesus Magister, annota (pp.238-239): Non occorre molto intuito per capire che documenti e lettere importanti erano sempre preparate con la collaborazione del fr. Anselmo e qualche volta anche mia, e che a lui ne era poi in definitiva chiesta la redazione, che il Superiore rivedeva in bozza. 28


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Università Lateranense, la SC dei Seminari e delle Università. Nel novembre 1959 la SC dei Seminari e Università approvava gli Statuti ad experimentum, concedendo agli studenti che regolarmente avessero superato le prove dell’intero quadriennio il titolo di licenza in Scienze religiose. I primi a ottenerla furono i finalisti del 1961, ma, come osservò fr. Anselmo36 “non è che si fossero placate, da parte di alcuni settori, le ansie e le remore”. Importante per la situazione dei Fratelli insegnanti in nazioni a regime concordatario, fu la successiva dichiarazione di equipollenza37, che al titolo in Scienze religiose rilasciato dal JM attribuiva lo stesso valore della Licenza in Sacra Teologia. Il 25 giugno 1965 fu emanato il Decreto d’approvazione degli Statuti definitivi da parte della SC dei Religiosi e da parte della SC dei Seminari e Università. La ratio studiorum quadriennale contemplava un primo anno38 e un successivo triennio39. Era concesso il Baccellierato alla fine di un biennio. Fr. Anselmo (Pastorale catechistica) e fr. Paul Griéger (Psicologia religiosa) furono gli unici docenti che tennero ininterrottamente l’insegnamento negli anni 1957-67. Vice-Praeses con incarico annuale, fr. Anselmo sostituì occasionalmente docenti non ancora reperiti per corsi di filologia biblica e ottenne un particolare favore quando tenne un corso libero di elementi di lingua ebraica, al quale si iscrisse (e lo frequentò) oltre la metà degli studenti. Dai 22 studenti del primo anno si passò ai 76 dell’anno successivo, ai 95 del terzo anno, ai 121 del quarto; cifra quest’ultima che segnerà la media degli anni susseguenti. Negli anni 1961-1967 i licenziati furono 219. Quindici le famiglie religiose che inviarono studenti da 35 nazioni di quattro continenti. Nel maggio del 1968 l’Università Lateranense, adeguandosi al decreto Normae quaedam della Congregazione per l’Educazione, stabilì su basi nuove gli statuti delle facoltà interne. In ottemperanza al decreto, l’Istituto JM avrebbe dovuto adattare indirizzo e programmi alla specializzazione in ‘Teologia della vita religiosa’. Era il settore universitario che i Claretiani gestivano già da una dozzina d’anni come istituto all’interno della Lateranense stessa. Siccome sarebbe stato assurdo tenere in vita due entità accademiche identiche, ai Superiori delle congregazioni insegnanti fu chiesto di aderire al nuovo corso. La risposta unanime fu negativa, perché in tal

Dix années de travail: 1957-1967. L’Institut pontifical romain Jesus Magister, Bulletin des Frères ÉC, 48, 1967, 17. 37 In Italia valido anche per l’insegnamento di Lettere e Filosofia negli istituti dipendenti dall’autorità ecclesiastica. 38 Materie principali: Sintesi di Filosofia Scolastica; Apologetica; Teologia fondamentale; Introduzione alla Sacra Scrittura; Introduzione alla Teologia Morale – Materie ausiliarie: Letteratura Religiosa; Filosofia biblica; Istituzioni di Diritto Canonico – Due insegnamenti semestrali a scelta. 39 Materie principali: Teologia Dogmatica; Teologia Morale; Antico Testamento; Nuovo Testamento – Materie peculiari: Pastorale catechistica; Pedagogia religiosa; Metodologia catechistica; Psicologia religiosa – Materie ausiliarie: Storia Ecclesiastica; Liturgia; Art e Sacra; Letteratura religiosa – Insegnamenti speciali: Apologetica; Catechistico-Pedagogia; Ascetica e materie opzionali. 36


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modo si sarebbero così vanificati il valore fondante e la funzione specifica dell’Istituto JM che si prefiggeva la preparazione anche teologica, ma soprattutto quella psicopedagogica di religiosi appartenenti alle congregazioni religiose insegnanti consociate. A questa difficoltà sostanziale si aggiunse la recrudescenza di alcune delle difficoltà organizzative ricordate sopra40. La conclusione, che amareggiò profondamente fr. Anselmo, si ebbe alla fine dell’anno accademico 1970-71, quando l’Istituto Jesus Magister cessò la sua attività41.

8. Cattedratico, Ispettore nazionale, Consultore conciliare, Consultore vaticano per la catechesi, Segretario del Centro catechistico lasalliano La realizzazione dell’Istituto Jesus Magister fu possibile anche grazie alla notorietà e alla stima di cui fr. Anselmo godeva nell’ambito degli atenei ecclesiastici romani. Se l’era guadagnata con corsi istituzionali tenuti e replicati nel Pontificio Istituto Pastorale dell’Università Lateranense, nell’Istituto superiore di Scienze religiose Mater Ecclesiae, nella Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino de urbe, nel Pontificio Istituto Regina Mundi42… Insieme con la definizione di programmi ed orari non è raro trovare nel carteggio di fr. Anselmo attestati di vivo apprezzamento dei presidi, che abitualmente vi univano l’invito per successivi impegni. Nell’articolo I due Ispettori nazionali per l’insegnamento religioso nelle scuole statali italiane43, fr. Anselmo scriveva: Fratel Alessandro Alessandrini e Fratel Leone di Maria, ancora ben ricordati da molti per la loro multiforme dinamica presenza nella scuola e nella catechesi, furono anche gli unici due Ispettori nazionali per l’insegnamento religioso nelle scuola statali.

Il lungo articolo (72 pagine) descrive e precisa meriti ed azione dei due eminenti Fratelli, ma omette di ricordare che non furono gli unici: terzo ed ultimo della ‘serie’ fu proprio lui, fr. Anselmo, anche se limitatamente all’Italia centrale e per la scuola

V. note 32-35, cui va aggiunto l’impegno economico corrispondente alla maturazione di ogni licenza. 41 Le note riguardanti cause e tempi della chiusura dell’Istituto J.M., qui riassunti, sono di fr. Francis Ricousse, attuale archivista della Casa generalizia FSC, Roma. AMG (Archivio Casa Generalizia), EB 171.3 et EG 378.6. 42 Ad es., p. Aniceto Fernandez o.p., Maestro generale dei Frati Predicatori, Gran cancelliere della Pontificia università S.Tommaso scriveva a fr. Anselmo il 12.11.’66: A norma dell’art. 7 dello statuto dell’Istituto superiore di Scienze religiose Mater Ecclesiae, sono lieto di affidarle l’incarico dell’insegnamento nel detto Istituto per l’anno accademico 1966-67, secondo l’intesa intercorsa col P.Preside. Certo del suo impegno per la formazione degli alunni in un campo così importante per la loro vita e il loro apostolato, Le esprime fin d’ora il mio più vivo ringraziamento. 43 “Rivista lasalliana”, 1972/4, 227-299. 40


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dell’obbligo. Ricevette l’incarico nel 1957 e lo assolse fino al 1970, quando incombenza e titolo furono aboliti. Si trattava di un impegno gravoso, che fr. Anselmo sommò agli altri cui non si sottrasse in quegli anni44. Oltre alle ispezioni45, che comportavano momenti di ascolto e di presenza in classe, di esame dei testi adottati, di adempimenti burocratici, di contatti con le autorità religiose e scolastiche (e non infrequentemente, di conversazioni didattiche con gruppi di insegnanti) l’incombenza lo obbligava a relazioni circostanziate da inviare al prelato Segretario della SC del Concilio46. Unico rappresentante di istituto religioso laicale, fr. Anselmo fu, nella fase preparatoria del Concilio Vaticano II, membro della Pontificia Commissione della disciplina del Clero e del popolo cristiano. L’imponente documentazione che conservò, annotata in latino con puntigliosa precisione, ricorda anche (20.5.1961): a proposito della costituzione De cura animarum: In congregatione cum S.S. Johannes XXIII. Conseguenza della competenza riconosciutagli, fu l’incarico che mantenne fino alla fine dei suoi giorni di Consultore vaticano per la catechesi. Ciò comportava un esame attento e il conseguente giudizio critico dei testi di religione per la scuola che gli venivano sottoposti. Il carteggio con la Commissione vaticana, in parte conservato, testimonia la consueta coscienziosità dell’esperto e la frequenza con cui veniva interpellato. Fu un incarico cui tenne molto negli ultimi anni di vita, non rinunciando a spedire (vezzo veniale) su carta intestata anche corrispondenza privata. Si è accennato al periodo di eccezionale fervore per la catechesi che animò entram-

Qui soccorrerebbe la ‘contabilità - solo aritmetica, non certo di merito - che somma gli impegni romani (Jesus Magister e altre facoltà di Roma) alle conferenze e alle lezioni in varie parti d’Italia e alle pubblicazioni. È bene ricordare che negli anni ’60-’65 fr. Anselmo fu anche Consultore conciliare. 45 Anche al proposito ci atterremo all’abitudine di puntualizzare, tipica di fr. Anselmo. Dalle sue carte ricaviamo le tappe del suo professionale ‘giro d’Italia’, raccogliendole per anni: 1957: Civitavecchia, Tivoli, Lanciano; 1958: Camerino, Firenze, Fano, Grosseto, Sutri, Sulmona, Livorno, Recanati, Todi; 1959: Alatri, Assisi, Città di Pieve, Fabriano, Veroli, Senigallia, L’Aquila, Lucca, Pisa, Pistoia, Rieti, Massa; 1960: Anagni, Arezzo, Avezzano, Cagli, Chieti, Segni, Siena, Velletri, Civita Castellana, Bagnoregio, Prato, Roma (1), Viterbo; 1961: Urbino, Pesaro, Roma (2); 1962: Vasto, Spoleto, Roma (3); 1963: Jesi, Osimo; 1965: Cortona; 1966: Campobasso, Frosinone, Isernia; 1968: Montefiascone; 1970: Città di Castello, Foligno, Nocera Umbra e Gualdo Tadino. 46 Ad es., in quella del ’58, da Fano (3-5 febbraio), dopo aver riassunto tono e sostanza dei colloqui preliminari con il Vescovo e il Provveditore, passa in rivista e valutazione gli insegnanti di religione della città, riferisce anche i giudizi dei responsabili scolastici, ed esprime senza reticenze sia i meriti sia le manchevolezze. Riporta le impressioni che ha tratto assistendo in qualche classe alla lezione di religione e dà conto del clima culturale in cui si trovano a vivere gli insegnanti di religione della città, nel nostro caso della preoccupazione destata dal Movimento di Coop. Educativa «che diffonde praticamente l’agnosticismo religioso attraverso il Metodo Freinet con la rivista MCE, redatta a Firenze e stampata a Fano. Ne unisco una copia in allegato. Il Vescovo e il Provveditore agli studi ne sono al corrente, e il primo auspica che si possa contrastarne il passo attraverso l’AIMC, l’UCIIM e altri organismi cattolici». 44


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be le Province lasalliane d’Italia nei decenni tra il ’40 e il ’70. L’organismo unificatore e propulsore ne fu il Centro catechistico lasalliano. Fr. Anselmo, che ne fu segretario a cominciare dal 1968, nell’articolo Il Centro studi sull’Educazione religiosa ‘Fratel Leone di Maria’47, ne ricostruisce la storia, ne documenta l’intensa attività, ne traccia le linee a venire «nell’ambito della pastorale giovanile cattolica’ con ‘un’azione concordata e armonizzata’ per cui ‘occorre favorire scambi di vedute tra esperti ed enti educativi qualificati, nel senso dell’informazione e della reciproca integrazione. E’ fuori dubbio l’efficacia illuminante di un’ampia documentazione sulle realizzazioni dell’educazione religiosa in Italia e all’estero.(…) Promuovendo incontri di studio, occorrerà quindi coordinare le ricerche operate da studiosi (FSC e amici) su particolari problemi di attuale interesse, come quelli segnalati dalla Conferenza episcopale italiana: compiti della catechesi odierna - originalità del metodo della catechesi - formazione dei catechisti nel quadro della comunità profetica» (pp.12-13). La capacità di animazione del Centro studi e di buona parte dell’attività esterna (conferenze, lezioni, corsi) perse poi vigore a mano a mano che i protagonisti si ritirarono per raggiunti limiti di età. L’impegno catechistico della Provincia Italia è tuttavia proseguito per merito di alcuni convinti epigoni e con la pubblicazione di Sussidi per la catechesi (che conobbe un’eclissi dal 1977 al 1982). Nella sede posta a sua disposizione all’Istituto La Salle di Torino, fr. Anselmo unì alla propria la ricca biblioteca specialistica di fr. Leone di Maria. Nel 1978 diede vita anche alla Fondazione Balzaretti, che intendeva sovvenzionare, con fondi ereditati dalla famiglia, il premio nazionale omonimo. Si trattava di un concorso per monografie inedite capaci di illustrare esperienze significative nell’ambito dell’ educazione familiare. Sebbene dotata di buoni fondi, l’iniziativa ebbe scarso esito. Com’è stato ricordato, fr. Anselmo trascorse attivamente gli ultimi anni nel Convitto universitario Villa San Giuseppe di Torino, dove tenne brevi ma apprezzatissimi incontri settimanali con gli studenti; con i quali fu prodigo di consigli (richiesti) e che aiutò anche in ricerche bibliografiche per la tesi. Altra ragione di soddisfazione, per lui, assai esigente nell’accettare e concedere forme di familiarità, fu quella di essere inserito in una comunità in cui anche a tavola era possibile trattare argomenti che nutrivano il cuore e la mente48.

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“Rivista lasalliana” 1971/1, 3-13. Contributo spontaneo di fr. Igino Trisoglio, direttore del Centro.


Biblioteca

BIBLIOTECA Francesco ALEO

Spirito Santo e Chiesa Basilio di Cesarea e lo Ps. Macario Egizio: due prospettive ecclesiologiche a confronto Giunti-Studio Teologico San Paolo, FirenzeCatania 2009, pp. 270. Francesco Aleo sviluppa la teologia dell’inabitazione dello Spirito Santo approfondendo le opere dello “Pseudo” Macario, uno scrittore ecclesiastico vissuto in Asia Minore nel IV secolo, i cui scritti sono stati posti dalla tradizione sotto il nome di un suo contemporaneo, il noto monaco Macario l’Egiziano. Tale operazione, premessa necessaria dello studio di Aleo, ha come motivo principale il fatto che la dottrina degli scritti in questione si accostava all’opzione messaliana: e così, in un’epoca di accesi scontri dottrinali tra correnti cristiane, si preferì tramandare alcuni testi che facilmente avrebbero contribuito ad un’elaborazione considerata eretica, sotto la paternità di Macario, personaggio di spicco del monachesimo copto, protagonista dell’età dell’oro del movimento monastico in Egitto, per come è tramandato dal corpus dei detti dei padri del deserto. Il contenuto centrale di questi scritti è dunque la dottrina dell’inabitazione personale dello Spirito nell’anima dell’uomo santificato dalla grazia; sulla scia degli studi di V. Desprez, l’autore li pone a confronto con l’ecclesiologia di Basilio di Cesarea, in particolare con il De Spiritu Sancto, in cui è centrale il tema della divinizzazione del cristiano. Inoltre, grazie ad una notevole padronanza del metodo filologico, Aleo stabilisce un rapporto di mutua dipendenza di entrambi i testi - dello Pseudo Macario e di Basilio - nei confronti di Eustazio di Sebaste. Se, come emerge dal volume, riguardo a tali scritti fu necessaria una grande cautela da parte delle istituzioni, non si può negare che essi ebbero un ruolo nella definizione dogmatica della proclamazione della divinità della Terza persona della Trinità, avvenuta durante il Concilio di Costantinopoli del 381. La prospettiva ecclesiologica pneumatica è rintracciata soprattutto grazie allo studio della dottrina del Logos 52 della Collezione I dello Pseu-

185 do Macario, ma più in generale si può dire che la presenza dello Spirito nella Chiesa sia uno dei maggiori interessi della riflessione mistica, etica e teologica e della esegesi scritturistica dell’autore. Per Basilio di Cesarea la distribuzione equilibrata ed armonica dei carismi all’interno della Chiesa, prova la divinità dello Spirito e la carità dei suoi membri testimonia che la stessa è espressione del Cristo. Per entrambi il carisma vivifica l’istituzione ecclesiastica: lungo tutte le pagine di questo studio, il tema della divinità dello Spirito Santo è intrinsecamente connesso al tema della sua inabitazione nella creatura e nell’insieme delle creature che compongono la Chiesa. Oltre alle speculazioni teologiche che il volume offre, sono di rilievo le acquisizioni sul piano storico-critico, prime fra tutte un’analisi dell’ambiente storico e geografico dell’area orientale dove fiorì il monachesimo, e in particolare la ricostruzione dei rapporti di continuità e rottura tra Macario, lo Pseudo Macario, Basilio e Eustazio. Mariachiara Giorda

Massimo BALDACCI (a cura)

I profili emozionali dei modelli didattici Come integrare istruzione e affettività Franco Angeli, Milano 2009, pp. 158. Il volume, che raccoglie i contributi di alcuni docenti della facoltà di Scienze della formazione dell’università Carlo Bo di Urbino, vede riassunti nell’introduzione del curatore il senso e gli apporti che il titolo indica già con sufficiente chiarezza. Punto d’avvio è la constatazione che la dimensione emotiva della vita scolastica balza sempre più spesso, e malauguratamente, agli onori della cronaca. Se non mancano analisi attendibili della numerose cause, appaiono invece scarsi e disomogenei i rimedi. Tra le cause: l’era postmoderna vissuta dai giovani d’oggi contrassegnata dal venir meno delle grandi narrazioni capaci di dar senso alla storia e all’esistenza e dal neoliberismo, che ha elevato il consumo, il denaro, la competizione e il successo al rango di nuovi idoli della società. «Un’età in cui l’affermazione narcisistica di sé pare diventata il nuovo imperativo categorico: o hai successo o non sei nessuno; ma in cui l’incertezza del futu-


186 ro dovuta alle dinamiche della competizione ha reso quanto mai aleatoria nella sua realizzazione». Tra i rimedi l’educazione alla ragione: che trova a scuola l’allenamento della mente all’acquisizione dei saperi disciplinari insieme con quello dei rapporti interpersonali, inserito vitalmente nel contesto dell’attività scolastica (con spazi, tempi, attività di gruppo) e in effettivo critico rapporto con le realtà esterne alla scuola (società prossima, ambiente naturale e urbano…). Affettività è il termine che fa da denominatore comune dei vari interventi: - Affettività e modello dei talenti personali (P. D’Ignazi). I talenti personali si possono sollecitare e far maturare mediante il saldo possesso delle competenze di base (veicolo per l’attuazione di una cittadinanza attiva); sono perseguibili però attraverso l’interazione di due specifici dispositivi didattici al servizio educativo degli allievi: l’individualizzazione, che prevede traguardi comuni, e la personalizzazione, che implica la diversificazione delle mete formative per la promozione delle potenzialità del soggetto (ad es. laboratori in orario scolastico e crediti didattici che consentono di coltivare aree culturali elettive in orario extrascolastico). - Affettività e modello delle competenze di base (S. Fioretti). Nel concetto di competenza è possibile rilevare due significati complementari: il primo di carattere cognitivo-disciplinare, comportamentale il secondo (che si fonda su motivazioni, interessi, emotività, capacità relazionale). Entrambi gli aspetti sono strettamente collegati a una molteplicità di effetti emotivi (simpatia/rifiuto, leaderismo/gregarismo) soprattutto nelle prime fasi della esperienza scolastica. Occorre quindi che la scuola si proponga insieme con la crescita cognitiva (apprendimento dei saperi disciplinari) l’educazione di personalità equilibrate (apprendimento di comportamenti positivi). - Affettività e modello dei processi cognitivi superiori (R. Persi). Luogo privilegiato dell’esperienza d’apprendimento sono le attività di ricerca - i laboratori - dove una fruttuosa attività individuale richiede la progressiva, positiva interazione con il gruppo. Vi si impara a imparare, rispondendo sia alle ragioni motivazionali del soggetto che apprende (i suoi bisogni cognitivi, sociali, valoriali) sia alle ragioni culturali rappresentate dagli oggetti di conoscenza (paradigmi

Biblioteca della cultura letteraria e linguistica, scientifica e tecnologica, storica e artistica…), in forme di collaborazione che educano ai rapporti costruttivi (rispetto, comprensione e accettazione, collaborazione). - La dimensione emozionale dell’organizzazione scolastica (G. Annacontini). Una educazione autenticamente democratica è incentrata sulla cura per il dialogo (la capacità di interagire, accettando la diversità per costruire insieme), per il pensiero strategico (la capacità metacognitiva di saper studiare con metodo, conoscendo sempre meglio e attivandole proprie capacità), per l’iniziativa responsabile (la capacità d’essere attore e non semplice spettatore), per le conoscenze (capacità di scoprire i legami transdisciplinari - le logiche comuni - fra le materie). - Attività e assetto interno della scuola (M.C. Michelini). Per suscitare e sorreggere l’interesse dei discenti occorre ad es. affrontare il tema dell’opzione tra orario settimanale rigido e orario modulare. Articolare educativamente una sessione di lavoro significa prevedere rispettare i tempi d’attenzione e d’apprendimento dei destinatari (l’alunno che vede assecondati i propri ritmi maturerà un senso d’adeguatezza rispetto al sapere e penserà di potercela fare). Fastidio e disinteresse dipendono molto dal fatto che le attività sono per lo più eterodirette (dagli insegnanti, dagli orari, dalle materie proposte solo come incalzare d’argomenti). Il ricorso a forme d’apprendimento che implichino una cooperazione adeguata ai livelli di socializzazione, impostata e condotta con professionalità, risulta uno strumento valido di maturazione culturale in senso pieno, cioè sotto gli aspetti cognitivi, emotivi e relazionali. Marco Paolantonio

Massimo BALDACCI, Franco FRABBONI

La Controriforma della scuola Il trionfo del Mercato e del Mediatico Franco Angeli, Milano 2009, pp. 124. Il titolo riassume in modo significativo le tesi degli autori: il ritorno al maestro unico, la soppressione delle compresenze, l’accorpamento dei plessi scolastici - con il conseguente depauperamento degli spazi laboratorio-atelier - finiranno per indebolire l’efficacia della scuola e per ren-


Biblioteca dere più fragile l’alfabetizzazione dei nostri alunni. Il giudizio totalmente negativo che il Frabboni aveva già pronunziato a riguardo della riforma Moratti - giudicata antidemocratica, antipedagogica, antieuropea - in La scuola che verrà (Erickson 2007), si estende ora a quella della Gelmini, che aprirebbe agli studenti «lo spettro di un’istruzione che celebra la trasmissione-riproduzione delle conoscenze da imparare (metabolizzare) così come sono state cucinate nel triplice forno della lezione, del manuale e del power-point». Netta quindi la riprovazione per presunte innovazioni che si concluderanno, secondo lui, con un bilancio culturale profondamente rosso. Tre le parti di un’esposizione che assume spesso i toni e l’incalzare di una requisitoria: la prima - Diritto allo studio e alla cultura, addio?- è un’analisi critica della riforma. Prende in considerazione i fondamenti pedagogici dell’azione didattica che da copernicana (il discente al centro dell’azione educativa) rischia di ritornare ad essere tolemaica (la quantità di ‘saperi’ come unica meta e metro di valutazione). Questo ritorno al passato priva la scuola, dall’università ai banchi della primaria, delle caratteristiche dell’apprendimento per scoperta (scuola come laboratorio in cui si pensa, si dubita, si crea) e di una reale democrazia (che pone tutti nelle stesse condizioni d’apprendimento), per reintrodurre i principi dell’utilitarismo (si impara solo ciò che serve) e della meritocrazia (fa più strada chi è anche socialmente privilegiato). La seconda parte - L’alfabeto della Gelmini: meritocrazia, esclusione, signorsì, nozionismo - è riassunta in sede di bilancio, con icastica terminologia bellica: «il ministro Gelmini sta impugnando due armi letali per la scuola. Il primo missile - il nozionismo al potere - mira a distruggere la qualità dell’istruzione. Niente trasversalità delle conoscenze, niente laboratori, niente ricerca, niente creatività: niente pensiero plurale. Il secondo missile - la competitività in classe lascia al suo passaggio una lunga scia nera dove si può leggere, a lettere cubitali, la parola Esclusione». La terza sezione - La scuola come la vogliamo - è la pars construens del saggio. Un primo capitolo confronta le tesi dei progressisti e dei conservatori sulla mission della scuola. Per i primi si tratta di perseguire inclusione e integrazione sociale, priva di ticket di ingresso (perché gratuita) e di tagliole selettive (di discriminazione sociale), gestita in collaborazione educativa

187 (team di docenti); per i conservatori - e il loro proposito si manifesta nel pervicace tentativo di smantellare la scuola pubblica - si tratta si tratta invece di introdurre semplici criteri aziendali (si impara solo ciò che serve al futuro lavoro), mediante l’attuazione di criteri omologanti e autoritari, in una struttura fortemente accentrata e gerarchizzata (insegnante prevalente). Il capitolo successivo pone le due opposte posizioni ideologiche a confronto sul tema della mission formativa, emblematicamente rivestendo i progressisti con la maglietta delle teste-ben-fatte e del cuore solidale, mentre agli avversari compete quella delle teste-piene e del cuore inaridito. Fra gli impegni che attendono il Ministero, c’è quello di formulare le Indicazioni curricolari nazionali, visto che, osservano gli aa., quelle del precedente governo sono state subito censurate e portate in soffitta. Il contributo-proposta è il seguente: assicurare alla scuola italiana le mission culturali che l’Europa attribuisce al sistema formativo: una mission longitudinale, che ha per traguardo l’educazione permanente, in grado di formare la persona per l’intero arco dell’esistenza; una mission orizzontale, capace di coinvolgere in un sistema educativo integrato tutte le forze sociali e le agenzie intenzionalmente educative: la famiglia, gli enti locali, l’associazionismo, le chiese, il mondo del lavoro. Ciò sarà possibile solo a patto che possa stravincere «il referendum promosso dai progressisti sia per abrogare i provvedimenti legislativi della Gelmini, sia per progettare e illuminare nuovi orizzonti sociali, culturali e valoriali di politica scolastica e universitaria». Si tratta dunque di un lavoro connotato da un’esplicita cifra ideologica, ma vivacemente argomentato; giusto perciò prenderlo in considerazione, se non altro per saperne controbattere tesi, attendibilità degli elementi esposti, conclusioni. Marco Paolantonio

Alda BARELLA

Essere per educare Attualità della pedagogia lasalliana Editrice Effetà, Cantalupa (To), 2009, pp. 224. Alla base degli studi lasalliani c’è il desiderio di scoprire il segreto del tricentenario successo edu-


188 cativo ottenuto dal La Salle, ancor oggi testimoniato dalla vitalità delle numerosissime istituzioni operanti nel mondo che si ispirano alla sua linea educativa. Pare di poterlo individuare nel fatto - più o meno esplicitamente dichiarato da parte degli studiosi della pedagogia lasalliana che il La Salle non è partito da considerazioni teoriche, ma dal quotidiano contatto con la realtà di una scuola vissuta come missione. Da tale esperienza ha fatto scaturire indirizzi di vita condivisa e di metodo perfezionati senza posa (spirito di zelo) alla luce di una spiritualità intensa e fortemente caratterizzata (spirito di fede). A questo doppio valore si sono ispirati e si ispirano coloro che ne hanno seguito e ne seguono gli insegnamenti, attenti per tradizione sia alle esigenze degli allievi, delle famiglie e della società la porzione di vita vissuta nel loro tempo - sia alla spiritualità del La Salle, sorprendentemente capace di rispondere alle nuove situazioni, facendo scoprire la perenne attualità dei principi fondanti. Sono gli aspetti messi a fuoco dalla professoressa Barella nei saggi qui ripresentati, che hanno come tema di ricerca l’opera pedagogica più significativa e conosciuta del de La Salle, quella Conduite des Écoles che non costituisce solo un’eccezionale eredità educativa per i Fratelli sparsi nel mondo, ma che è un insieme di regole scolastiche la cui importanza nella storia dell’istruzione popolare è paragonabile a quella della Ratio studiorum nella storia della scuola secondaria (G. Chiosso). Il titolo Essere per educare offre il punto prospettico da cui cogliere, al dilà di apparenti diversità, il senso e la sostanza degli argomento proposti. Far scuola, oggi come ai tempi del La Salle - dice l’A.- significa impegnarsi personalmente e senza riserve, in un rapporto etico che, nel rispetto di chi impara, chiede a chi insegna la coerenza del comportamento e l’evangelica schiettezza degli ideali. Il sottotitolo Attualità della pedagogia lasalliana è la chiave di lettura. Tutte le pagine qui riedite hanno il merito dell’indagine condotta con rigore filologico su testi ed esperienze di tre secoli fa unito alla giusta esigenza di verificarne il senso e il valore oggi. E qui si manifesta la professionalità dell’A., che, come insegnante e dirigente, è stata per decenni a contatto con i problemi della scuola avvertendo il dovere di trovare risposte che facessero evitare illusioni e delusioni. Gli argomenti proposti dal volumetto, attinti all’ampia pubblicistica dell’A. di cui si fa men-

Biblioteca zione in appendice, seguono uno sviluppo consequenziale: partono infatti dalle radici di una pedagogia collocata nel suo tempo - Alle sorgenti della lasallianità - affrontando con perizia ermeneutica alcuni dei documenti che caratterizzano il pensiero e l’azione del La Salle; trovano la logica conclusione nell’ultima sezione - Insegnare con successo - che riassume, in forma di paradigmi educativi applicabili nella scuola, la dottrina lasalliana, filtrata e validata dall’esperienza educativa dell’A. Inevitabili in alcune pagine gli accenni, datati e perciò legati a situazioni contingenti, dovuti alla cronica fibrillazione della normativa scolastica italiana. Non influiscono sulla sostanza delle proposte educative. Marco Paolantonio

Bruno BORDIGNON, Rosetta CAPUTI (a cura)

Certificazione delle competenze Armando editore, Roma 2009, pp. 607. Competenza: «capacità di attivare un processo che, nel tessuto vitale di un ‘attesa, e dalla percezione psicologica di un bisogno in continua evoluzione, parte dall’identificazione di un problema, ne elabora una teoria esplicativa, la controlla e la falsifica per vedere se porta alla soluzione del problema individuato, intervenendo e trasformando la realtà per dare una risposta (prestazione) sempre perfettibile, altrettanto concreta e pratica al bisogno individuato». Questa la puntuale e articolata definizione di competenza, da cui partono i curatori del volume. ‘Insegnare per competenze’ non è solo uno slogan, ma uno stile e un metodo che si acquisisce mettendo in atto specifiche procedure. La raccolta della documentazione diventa altresì importante non solo per la sperimentazione, ma per il beneficio che gli alunni stessi ne ricevono, anche in vista della valutazione e certificazione finale. Gli autori sottolineano che le procedure proposte tendono ad una visione nuova del ‘docente libero professionista’ nel contesto di una scuola autonoma che mediante il progetto educativo d’Istituto offre specifici servizi e adeguate risposte ai bisogni dell’utenza e del territorio. ‘Insegnare per competenze’ significa essenzialmente progettare l’apprendimento degli studenti, nel rispetto della libertà dei singoli secondo i ritmi ed i


Biblioteca livelli di ciascuno, mettendo in atto la dimensione educativa dell’apprendimento, che valorizza la persona nella sua integralità e la dimensione educativa dell’insegnamento, che scandisce le azioni e gli interventi appropriati di una costruttiva relazione didattica, che rende il docente attento e capace di saper guardare tutti ed osservare ciascuno. In questo incrocio di dimensioni si inserisce la sussidiarietà formativa della scuola e la relazione positiva con i genitori, principali responsabili dell’educazione dei figli. Si tende ancora ad evidenziare che le unità di apprendimento non limitano la libertà di insegnamento del docente, né soffocano la sua creatività, bensì la potenziano e la vivificano. Il volume raccoglie ad esemplificazione le unità di apprendimento, e gli indicatori di competenze messi in atto nell’anno scolastico 2006-07 di una classe prima di scuola secondaria di I grado e di una classe terza di scuola secondaria di II grado delle scuole campione che hanno partecipato alla sperimentazione (si tratta delle scuole salesiane di Catania, Caltagirone, Milano, Varese, Pordenone e Roma). La scuola di oggi dovrebbe anche recuperare la cultura della documentazione, che messa in atto costituirà un patrimonio di risorse per la scuola ed un vero investimento in termini di tempo e di potenzialità di sviluppo. Il progetto, promosso dall’Invalsi ed elaborato nell’ambito di alcuni istituti paritari, propone questo volume come prezioso strumento di lavoro anche per gli insegnanti delle scuole statali, in cammino verso una più elevata qualità dell’istruzione e della formazione. Giuseppe Adernò

Mario COMOGLIO

Educare insegnando Apprendere ad applicare il Cooperative Learning Edizioni LAS, Roma 22007, pp. 523. È raro imbattersi in un’opera che, come questa, sappia contemperare una radicale proposta d’innovazione metodologico-didattica non solo con la chiara esposizione dei principi ma con una convincente proposta di strumenti che consentono di tradurla in atto. Il Cooperative Learning si inscrive nella logica del costruttivismo, ma, come precisa l’a., «non è né una moda, né una

189 tecnica. È, invece, un metodo che, istruendo, educa alla responsabilità individuale e alla capacità di relazione con gli altri e trova un equilibrio tra diversi estremi: istruzione e educazione, istruzione e autoapprendimento, responsabilità individuale e sociale, impegno individuale e aiuto reciproco, impegno in un compito individualisticamente accessibile e impegno a un compito complessivo e cooperativo». È un’esigenza avvertita dai molti insegnanti che nell’individualismo verificano un limite del loro insegnamento; carenza facile da condannare, molto più difficile da correggere costruendo una reale capacità di lavoro collaborativo. Per ammissione dell’a., il volume (ponderoso) è complesso perché intende perseguire molti obiettivi insieme. Il primo è di agevolare il passaggio dai principi teorici al livello operativo. Per questo viene innanzitutto proposto agli insegnanti un transfert esperienziale cioè l’applicazione pratica dei principi per mezzo di esercitazioni. Per essere efficace, il trasferimento dev’essere ‘cooperativo’ anche in questa prima fase, cioè condotto in sintonia operativa con colleghi ugualmente interessati all’innovazione. Altro obiettivo, postulato dal precedente, è quello di offrire agli insegnanti la possibilità di prepararsi su una metodologia che molti di essi, giustamente, dicono di conoscere in modo sommario, anche perché i contenuti e i programmi scolastici ne rendono difficile l’applicazione. Il lavoro del Comoglio, frutto di ricerche e di sperimentazioni più che decennali, unisce all’esposizione chiara dei principi fondamentali la proposta di esercitazioni concrete, convincenti, numerose, articolate secondo i diversi livelli scolastici. Quattro i capitoli, che affrontano e illustrano altrettanti aspetti delle metodologia cooperativista. Nel primo, dopo aver offerto uno stimolante test agli insegnanti, per accertare la loro disponibilità reale alle innovazioni proposte, vengono suggerite numerose e ben articolate esercitazioni, corredate da chiavi di lettura, che consentono di verificare sul campo le differenze tra le due modalità - la competitiva e l’individualistica che caratterizzano la didattica tradizionale e quella cooperativa. La conclusione è lasciata agli insegnanti che hanno condotto le esperienze proposte: è questo l’unico modo, assicura l’a., per convincerli della validità della proposta. Il secondo capitolo affronta il primo livello di


190 competenze sociali da sviluppare in un lavoro collaborativo: la competenza comunicativa. Per educarla occorre considerare due gruppi di abilità: quelle relazionali e quelle che rendono efficace il lavoro svolto in collaborazione. Una particolare accentuazione è data all’abilità del chiedere e del dare aiuto. La terza parte, dopo aver passato in rassegna i vari modi storici di intendere e svolgere il lavoro in cooperazione e gli aspetti del dibattito tuttora aperto, prende in considerazione le più efficaci forma di negoziazione dei conflitti che si verificano nell’impostazione e nello svolgimento dei lavori di gruppo. Il quarto e ultimo capitolo può essere considerato, a detta dell’a. stesso, la maggior novità nella riflessione sul Coperative Learning e le competenze sociali che si propone di stimolare ed educare. La competenza sociale decisionale è una competenza conclusiva, tipica del problem solving (e riccamente esemplificato nelle esercitazioni proposte nel volume). La risoluzione di un problema e la decisione che ne consegue sono infatti le due fasi che caratterizzano una reale competenza sociale. Si sviluppano in modi diversi, che perciò occorre conoscere bene, analizzandone componenti e dinamica, allo scopo di dar loro autentica valenza educativa. «Da tutto l’insieme - conclude l’a. - si può comprendere la ricchezza di potenzialità educativa del metodo Cooperative Learning, ma anche i grandi limiti di una scuola che si limitasse e si preoccupasse solo della trasmissione di contenuti disciplinari». Ma rassicura: « Il metodo, tuttavia, non è solo un’opportunità educativa, ma anche un modo per assimilare significativamente i contenuti disciplinari». E, stimolando alla sperimentazione seria, conclude: «Tutte queste riflessioni orientano a pensare che la riforma scolastica, prima di essere guidata dall’alto, debba cominciare dall’interno della classe, dall’insegnante e dal suo modo di condurre l’insegnamento e l’apprendimento». Marco Paolantonio

Lorenzo LUATTI (a cura)

Educare alla cittadinanza attiva Luoghi, metodi, discipline Carocci editore, Roma 2009, pp. 310. Educazione e cittadinanza, i due termini-con-

Biblioteca cetto messi a fuoco dal titolo, sono da considerare in sé e nella reciproca dipendenza, che nel nostro caso pone l’accento sulle responsabilità della scuola, cui compete il compito di contribuire alla formazione di cittadini attivi. Il concetto di cittadinanza, precisato da un attributo che ne qualifica senso ed estensione, sta subendo profonde trasformazioni, prossime a rivoluzioni non solo culturali. Il concetto democratico-liberale, fortemente nazionale o al massimo continentale, centrato sull’individuo, che caratterizza le società occidentali, si scontra con quello di una cittadinanza ‘sociale-planetaria’, che esige di coniugare le istanze dell’uguaglianza su basi nuove: multietnicità culturale e universalità dei diritti umani. Da una parte, dunque, il senso di appartenenza a un gruppo identitario per storia e cultura, dall’altro il magmatico dilatarsi di un villaggio globale. Al rischio di una difesa che sconfina in eccessi razziali si contrappone quello della perdita di identità, che può condurre a melting pot potenzialmente esplosivi, perché sottratti a condivisi principi di legalità. Tutte ragioni che impongono un nuovo modo di intendere l’educazione, cui deve contribuire la scuola, che è però un ambiente di socializzazione culturale ‘secondaria’, strettamente vincolato a quelli ‘primari’ - famiglia e società esterna - dai quali è sostanzialmente condizionato. Secondo il curatore della pubblicazione, tre sono le condizioni per muovere nella giusta direzione: favorire un’educazione alla cittadinanza ‘come pratica’incoraggiando la partecipazione a tutte le forme della vita associata, allo scopo di saper concorrere attivamente alla definizione di norme utili alla convivenza; sviluppare una coscienza di appartenenza all’umanità, opponendo a una ‘cultura della separazione’ - che considerà tabù intoccabili lingua, tradizioni, costumi - quella ‘della convivenza’ che assume il punto estremo e più ‘lontano’ come prospettiva e punto di vista di ogni pratica a livello locale; dare carattere di continuità all’educazione permanente, che rappresenta il presupposto di una cittadinanza attiva capace di rinnovare le energie della democrazia rinvigorendo le forme di rappresentanza e partecipazione. Il volume raccoglie i contributi di trenta studiosi, specialisti in discipline che vanno dalla Sociologia dell’educazione alla Pedagogia inter-


Biblioteca culturale e delle religioni, dalla Psicologia sociale alla Linguistica, dalla Filosofia alla Comunicazione in contesti multiculturali; presenti anche le esperienze di ricercatori e formatori di organismi pubblici e privati che operano in ambito socio-educativo. Il volume è organizzato in tre parti: Dimensioni e contesti dell’educazione alla cittadinanza - Educazione alla cittadinanza a scuola, metodi, saperi - Materiali di documentazione (come si fa ricerca e dove la si può soddisfare). La seconda sezione, la più ampia, è quella che più direttamente interessa gli insegnanti. Suddivisa in 13 capitoli, prende in esame metodi e saperi. L’educazione alla cittadinanza - ed è il leit motiv delle varie trattazioni - può diventare davvero efficace se accanto alle capacità cognitive si aiutano gli allievi a sviluppare competenze socio-affettive e abilità nei rapporti interpersonali. Gli approcci didattici univoci, uniformi e rigidi, risultano sempre meno efficaci, come la lezione frontale basata sul verbalismo che non è sensibile alle differenze. Nei gruppi-classe, sempre più socialmente eterogenei e multiculturali, le metodologie cooperative offrono approcci didattici capaci di rendere l’organizzazione del sistema classe più flessibile e ospitale. Anche la semplice presentazione dei titoli delle trattazioni raccolte in questa seconda parte assume valore di stimolo alla lettura quando si conosca la sicura professionalità degli autori: a) Metodi: Formarsi all’osservazione in classe con approccio etnografico (G. Pozzo) - Educazione alla cittadinanza e apprendimento cooperativo (M. Polito) - Didattica laboratoriale e cittadinanza (M.P. Pieri) - Percorsi ludici per l’educazione alla cittadinanza (P. D’Andrea) - Narrazione e decentramento cognitivo (A. Fucecchi). b) Saperi; Quando la ‘cittadinanza’ interroga i curricula (A. Surian) - Educazione civica e storia (A. Brusa e F. Fiore) - Geografia ed educazione alla cittadinanza (G. De Vecchi e D. Pasquinelli D’Allegra) - Per una letteratura italiana interculturale: riflessioni intorno alla ‘letteratura della migrazione’ (S. Camillotti) - Didattica delle lingue e cittadinanza (F. Caon) - L’educazione scientifica: una chiave per il futuro (T. Chiappelli) - Insegnamento dell’economia ed educazione alla cittadinanza (M. Lepratti) - Cittadinanza & Costituzione e istruzione religiosa (F. Pajer). Marco Paolantonio

191 André VAUCHEZ

François d’Assise. Entre histoire et mémoire

Coll. « Biographies historiques », Fayard, Paris 2009, pp. 579. D’innombrables biographies et ouvrages lui ont été consacrés depuis le Moyen Âge et, de nos jours, sa réputation dépasse largement les frontières du catholicisme, puisque des croyants de toutes les confessions et beaucoup de non croyants s’intéressent à lui et au franciscanisme qui a profondément marqué le christianisme occidental. Malgré la sympathie générale qui entoure sa figure, le « Pauvre d’Assise » reste cependant mal connu du public, car son image a parfois été brouillée par des interprétations édifiantes ou fantaisistes qui ont affadi ou dénaturé son message. Depuis un demi-siècle, les recherches qui lui ont été consacrées, en Italie et dans le monde entier, ont profondément modifié la connaissance et la compréhension que l’on pouvait avoir du Poverello. Aussi était-il devenu urgent de lui consacrer une nouvelle étude nourrie des travaux les plus solides. On se réfère aujourd’hui souvent à l’ « esprit d’Assise » qui pourrait contribuer à ramener la paix entre les religions à travers le monde (Jean-Paul II a invité dans cette ville, en 1986, les principaux chefs des grandes religions). Le présent ouvrage cherche à expliquer, en se plaçant du point de vue de l’historien, pourquoi François d’Assise continue à exercer une réelle fascination à huit siècles de distance. André Vauchez, professeur émérite d’histoire du Moyen Âge à l’université de Paris X-Nanterre, membre de l’Institut, Visiting fellow à l’Institute for Advanced Studies de Princeton, a été directeur de l’École française de Rome de 1995 à 2003. Auteur de nombreux travaux portant sur l’histoire de la spiritualité et de la vie religieuse, en particulier dans l’Italie médiévale, il est membre du conseil scientifique de la Société internationale d’études franciscaines (Assise). [s.r.a.]


192

Biblioteca LIBRI PERVENUTI

ARTACHO LÓPEZ Rafael, Enseñar competencias sobre la religión. Hacia un currículo de Religión por competencias, Desclée de Brouwer, Madrid 2009, pp. 422. ISBN 978-84-330-2356-8. ASSMANN Jan, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 216. ISBN 978-8815-12818-8. AVGERi Parthenia, Edouard JAGODNIK, Marie-Pierre MAGNILLAT, Alexandre NANCHI, Lexique des termes européens, Editions Foucher, Vanves 2008, pp. 224. ISBN 9782216109562. BIBLIA (ed.), Paolo di Tarso: apostolo o apostata?, Atti del seminario invernale, Pesaro 26-28 gennaio 2007, [con contributi di Y. Rédalié, M. Perroni, G. Barbaglio, S.Levi Della Torre, A. Pitta, R. Fabris], Morcelliana, Brescia 2009, pp. 114, s.i.p., pro manuscripto. BORNE Dominique, Jean-Paul WILLAIME (eds.), Enseigner les faits religieux. Quels enjeux ?, préface de Régis Debray, Armand Colin, Paris 2007, pp. 223. ISBN 978-2-2003-4640-9. DECORMEILLE Patrice, Isabelle SAINT-MARTIN, Céline BÉRAUD (eds.), Comprendre les faits religieux. Approches historiques et perspectives contemporaines, CRDP Bourgogne, Dijon 2009, pp.202. ISBN 978-286621-551-4. Faire vivre un charisme d’Église, Cahier hors-série n.1 de « La Salle Liens International », par Nicolas Capelle, H.-J. Gagey, A.Botana, J.-L.Schneider, R. Comte, H. Lombaerts, J. Rivera Moreno, édité par l’Association La Salle, Paris 2009 (78 rue de Sèvres), pp. 72. HAVE HENK A.M.J, Michèle S.JEAN (eds.), Unesco: la Déclaration universelle sur la Bioéthique et les Droits de l’Homme. Histoire, principes et application, Editions Unesco, Paris 2009, pp. 404. ISBN 978-92-3204088-6. LORENZETTI Luigi, La morale nella storia. Una nuova voce nei 40 anni della Rivista di teologia morale, 1969-2009, EDB, Bologna 2009, pp. 779. ISBN 9788810505496. NOVATI Laura (ed.), La buona morte, contributi di L. Berzano, P. Borgna, P. De Benedetti, G. Filoramo, Amos Luzzatto, L. Novati, S. Spinsanti, P. Stefani, I. Zatelli, “I libri di Biblia” 4, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 174. ISBN 978-88-372-2338-0.

PISANU Nicolò (ed.), Dipendenza e libertà. La Chiesa raccoglie le nuove sfide: stili di vita e dipendenze, Atti del convegno nazionale Spoleto 2-3 ottobre 2008, Ed. Istituto Progetto Uomo, Vitorchiano (VT) 2009, pp.116. RIGHI Davide (a cura), Il tutto nei frammenti. Fecondità del cristianesimo tra teologia, filosofia e storia. Atti del 3° convegno della Facoltà teologica dell’EmiliaRomagna, Bologna 3-4 dicembre 2008, con contributi di G. Forni Rosa, D. Garrone, G. Larcher, P. Prodi, P. Walter. Suppl. al n. 26 di “Rivista di teologia dell’evangelizzazione”, EDB, Bologna 2009, pp. 121. SALVARANI Brunetto, Strani maestri. Anarchie educative dai Peanuts ai Simpson, collana “Le api” a cura di Roberto Alessandrini e N. Pisanu, Ed. Istituto universitario di scienze psicopedagogiche e sociali “Progetto Uomo”, Vitorchiano (VT) 2009, pp. 20. TENG WOON PHENG, Michaet, Be merciful: The tragedy and productive power of suffering Humanum in E.Schillebeeckx and the Analects of Confucius, Dissertatio, pro manuscripto, Academia Alphonsiana, Roma 2009, pp, 242. VALMIR Biaca et al., O Sagrado no Ensino Religioso, Caderno pedagógico de Ensino Religioso, Secretaria de Estado da Educação do Paraná, Memvavmem editora, Curitiba 2008, pp. 120. ISBN 978-85-85380-67-0. VARI, Antropologia e teologia: un ripensamento urgente, numero speciale della rivista della facoltà teologica dell’Italia settentrionale “Teologia”, 34 (2009) 3, 319519, con contributi di D. Albarello, G. Angelini, F. G. Brambilla, M. Chiodi, M. Epis, G. Trabucco, ed. La Scuola, Brescia 2009. ISSN 1120-267X. VARI, Movimento cattolico e Popolo di Dio: dalla Rerum novarum ad oggi, numero speciale della rivista “Storia e società”, 11 (2009), n.31, con contributi di F. Appi, G. Campanini, P. Nepi, E. Preziosi, A. Sindoni, B. Sorge, pp. 128 [consultabile in www.assostoriaitaliana.it]. WILLAIME Jean-Paul, Le retour du religieux dans la sphère publique. Vers une laïcité de reconnaissance et de dialogue, Editions Olivétain, Lyon 2008, pp. 110. ISBN 9782354790257. ZAMAGNI Stefano, Adriano GUARNERI (eds.), Laicità e relativismo nella società post-secolare, Il Mulino, Bologna 2009, pp. 232. ISBN 978-88-15-13341-0. SÉGUIER ÉTIENNE, Cultive tes talents! Desclée de Brouwer, Paris 2009, pp. 177.



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ISSN 1826-2155

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ La catechesi dell’icona in Giovanni Damasceno ✓ Laicità e religione nella sfera pubblica ✓ Caritas in veritate y el desafío de la solidaridad global ✓ La classe come laboratorio: la «didattica breve» ✓ Due secoli di insegnamento tecnico-professionale lasalliano in Italia ✓ Pedagogia lasalliana e formazione del detenuto ✓ Cinco preguntas sobre La Salle ✓ Anselmo Balocco FSC, catechista e catecheta

GENNAIO-MARZO 2010 • ANNO 77 - 1 (305)


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