Rivista lasalliana 1-2011

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Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 10131 Torino - Strada Santa Margherita, 132

Rivista lasalliana

2011

Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n. 46) art. 1 comma 2 - CNS/AC - ROMA - “In caso di mancato recapito inviare al CMP Romanina per la restituzione al mittente previo pagamento dei resi”

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ISSN 1826-2155

Rivista lasalliana

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ La catechesi battesimale di san Giovanni Crisostomo ✓ Gli Ebrei e la scuola italiana tra Otto e Novecento ✓ Tolstoj educatore tra crisi religiosa e pedagogia familiare ✓ Nuove chiese evangeliche: quale valutazione pastorale? ✓ Pensare per insegnare: come gli insegnanti in situazione pensano la propria esperienza ✓ Come le scuole lasalliane in Spagna affrontano la diversità religiosa ✓ Il passaggio alla gestione laicale delle scuole libere: problemi e soluzioni dal contesto nordamericano ✓ La Salle e la sfida educativa del suo tempo ✓ F. Agilberto Gatti nel rinnovamento catechistico del ‘900

GENNAIO-MARZO 2011 • ANNO 78 - 1 (309)


Rivista lasalliana trimestrale di cultura e formazione pedagogica 78 (2011) 1


RL

Rivista Lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, fondata in Torino nel 1934, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719) e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi storici sulle fonti bibliografiche della vita e degli scritti del La Salle, sull’evoluzione della pedagogia e della spiritualità del movimento lasalliano, aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. È redatta da un comitato di Lasalliani della Provincia Italia e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche, para-scolastiche e universitarie della Regione lasalliana euro-mediterranea.

Anno 78 • numero 1 • gennaio-marzo 2011

Direzione Rivista lasalliana, Via Aurelia 476, 00165 Roma, tel. 06665231-0666523305. Gli articoli vanno inviati esclusivamente via e-mail all’indirizzo: fpajer@lasalle.org. Riviste in cambio e libri per recensione vanno inviati a: Rivista lasalliana, Casella postale 9099-Aurelio, 00167 Roma Gruppo redazionale 2011 Roberto Alessandrini, Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Mariachiara Giorda, Anna Lucchiari, Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, Francesco Pistoia, Lorenzo Tébar Belmonte, Francesco Trisoglio, José María Valladolid Collaboratori e consulenti Bruno Bordone, Ernesto Borghi, Emilio Butturini, Robert Comte, Sergio De Carli, Paulo Dullius, Pedro Gil, Edgar Hengemüle, Alain Houry, Léon Lauraire, Herman Lombaerts, Matteo Mennini, Patrizia Moretti, Diego Muñoz, Israel Nery, José María Pérez Navarro, Gerard Rummery, Giuseppe Tacconi Editore Associazione culturale lasalliana, Strada Santa Margherita 132, 10131 Torino Amministrazione e diffusione Associazione culturale lasalliana, gabriele.pomatto@gmail.com, cell. 3471033855, tel. 0632294503, fax 063236047 Abbonamento 2011 Ordinario in Italia e 24 - docenti lasalliani e 18 - Paesi dell’Unione europea e 30 - altri continenti Usa $ 50 - sostenitori e 50 - un fascicolo separato, anche arretrato, e 6,50. A richiesta sono disponibili annate arretrate per biblioteche e ricercatori. Il versamento della quota si effettua mediante bonifico bancario sul codice Iban IT51N076000000012378113 oppure mediante modulo ccp n. 12378113 intestato a «Associazione culturale lasalliana». L’abbonamento ai 4 numeri annui decorre dal 1° gennaio e si intende continuativo, salvo disdetta scritta Progetto grafico Federico Fiorini, cell. 3384583313 Stampa e spedizione Stabilimento Tipolitografico Ugo Quintily spa., V.le E. Ortolani, 149/151, Zona Ind. di Acilia, 00125 Roma - quintily@quintily.com tel. 0652169299. ISSN 1826-2155. Registrazione del Tribunale di Torino n.353, 26.01.1949 (Tribunale di Roma n.233, 12.6.2007) Periodico associato alla USPI, Unione stampa periodica italiana - Responsabile a termine di legge F. Pajer - Spedizione in abbonamento postale: Poste italiane DL 353/2003 (conv. in L n.46, 27.02.2004) art.1 c. 2 - DCB Roma.


Rivista lasalliana 78 (2011) 1 Sommario

RICERCHE • STUDI • PROPOSTE 7 Francesco Trisoglio La catechesi battesimale a doppia intonazione: Giovanni Crisostomo Eminente tra i Padri della Chiesa greca, “bocca d’oro” per eccezionale eloquenza, il Crisostomo ha lasciato una cospicua opera letteraria: trattati teologici, predicazioni, catechesi, lettere. Autorevoli, in particolare, le sue Catechesi rivolte alla doppia categoria di uditori, i catecumeni da introdurre al vangelo, e i neofiti da confermare nella loro ‘giovane’ fede. Elegante fluidità di eloquio, robustezza teologica di argomentazione, esigente richiamo etico al senso e alla coerenza della conversione battesimale sono pregi unanimemente riconosciuti, ieri e oggi, a colui che viene venerato nella Chiesa come il patrono degli oratori cristiani.

19 Mariachiara Giorda La paternità carismatica di Antonio Il contributo rilegge l’esperienza di Antonio alla luce del suo essere figlio e poi padre spirituale. Antonio è un ottimo esempio per andare alle origini della pratica della direzione spirituale. Visse nell’imitazione dei santi e dei profeti antichi e, a sua volta, divenne modello per apprendere il controllo sull’anima e sul corpo. Antonio fu un padre per i discepoli che lo seguirono, per i monaci che si recavano da lui, nonché un esempio da imitare per i lettori della sua biografia scritta dal vescovo Atanasio.

31 Teresa Salzano Tradizione e cultura ebraica in Italia tra Otto e Novecento Una presenza minoritaria ma di eccezionale qualità e incidenza culturale quella delle comunità ebraiche nel periodo dell’unificazione italiana. Il breve excursus elenca e contestualizza i non pochi meriti acquisiti dal mondo ebraico italiano nel campo dell’educazione scolastica e parascolastica, senza dimenticare la preziosa intraprendenza nella editoria per ragazzi. Personaggi e istituzioni che, in un’azione parallela e complementare con quella del nascente sistema educativo nazionale, hanno indubbiamente arricchito la cultura della scuola italiana.

39 Emilio Butturini Dal “nuovo cristianesimo” di Tolstoj alla sua “passione educativa” Il profilo del grande scrittore ed educatore russo, a cent’anni dalla morte, viene riproposto nell’intreccio ineludibile tra i dati biografici del cristiano eretico e scomunicato ma aperto all’orizzonte ecumenico, e le fervide intuizioni pedagogiche, talora contraddittorie, sperimentate nella scuola e soprattutto nelle tensioni della vita familiare.


51 Arnaldo De Vidi Le nuove chiese evangeliche. Una lettura pastorale dal Brasile Il fenomeno delle nuove chiese di matrice protestante conosce sviluppi sorprendenti in America Latina, specialmente in Brasile. L’a., missionario saveriano a Manaus, da anni osserva dall’interno il fenomeno e ne può analizzare con piena cognizione di causa le manifestazioni esteriori, le ragioni del successo popolare, ma anche le evidenti derive di natura etica, teologica, ecclesiale. Il tutto come provocazione per un salutare esame di coscienza della comunità cattolica, chiamata non a plagiare l’ingannevole e compiacente spettacolarità delle sette, ma a recuperare la forza carismatica e dirompente del primo vangelo, sapendo emanciparsi anche dalla zavorra culturale ereditata dal modello pastorale della cristianità coloniale.

65 Giuseppe Tacconi Pensare per insegnare. Come gli insegnanti pensano il proprio agire Il contributo rende conto di un ricerca condotta tra insegnanti di diversi gradi di scuola, per sollecitarli a narrare situazioni ed episodi di vissuto scolastico. Si tratta di analizzare come gli insegnanti pensano il proprio agire: non cosa pensino sul loro insegnamento, ma come pensino la loro esperienza didattica e il ruolo che il pensare assume nell’esperienza stessa. La densità riflessiva della pratica è uno degli elementi nuovi e significativi emersi dalla ricerca. Il pensare dell’insegnante sembra avere il proprio perno vitale nell’attenzione con cui egli si osserva e si interroga: attenzione all’altro e, specularmente, anche a se stessi.

87 Juan Bautista de las Heras Millán La diversidad religiosa en los Centros La Salle en España Esposizione ragionata del che cosa, del come e soprattutto del perché una rete di scuole confessionali decide di aprire il proprio insegnamento al dialogo interculturale e interreligioso. La gestione della diversità religiosa – nell’insegnamento curricolare della religione, e non solo – non è più una pesante necessità a cui piegarsi ma una felice opportunità educativa a vantaggio di tutte le componenti, alunni cattolici e insegnanti compresi. Testo di un rapporto informativo fornito in occasione del XIV Incontro euro-mediterraneo dei dirigenti scolastici lasalliani (Alessandria d’Egitto, aprile 2010).

95 Kevin J. Ruth Toward a Working Lay Model of Catholic Independent Schools Come assicurare la continuità dell’identità cattolica di una scuola quando viene meno il personale religioso che la gestiva? Cosa fare per mantenere lo specifico carisma originario quando la gestione della scuola passa da un ordine religioso a un altro? Quali modelli di nuova gestione da parte del personale laico si stanno sperimentando ultimamente? L’articolo, nel rispondere a questi interrogativi in relazione a situazioni sperimentate nel contesto nordamericano, indica buone pratiche e stimoli di politica scolastica validi, mutatis mutandis, nel vecchio Continente.

101 Anna Lucchiari Chiaroscuri Cose dell’altro mondo – Solitudini fantascientifiche – Del silenzio – Aeroporti e bagagli – La creazione è una cosa meravigliosa


MISCELLANEA LASALLIANA 113 Bruno Bordone Come il La Salle ha risposto alla sfida educativa del suo tempo Rilettura del percorso biografico-spirituale del La Salle in due tappe: anzitutto le inquietanti “scoperte” che hanno portato il non ancora trentenne Jean-Baptiste a incontrarsi con il mondo della povertà sociale, dell’abbandono ozioso di tanti ragazzi, dell’impotenza educativa dei genitori, della incompetenza didattica dei pochi maestri di scuola; e quindi il percorso compiuto dal La Salle e dall’iniziale nucleo comunitario per accettare tale sfida educativa, affrontarla con sano realismo pragmatico ma lungimirante sul piano dell’invenzione delle strutture e dei mezzi didattici (democratizzazione della scuola in aderenza alla domanda sociale – formazione iniziale e continua di maestri - coinvolgimento della famiglia - collaudo e codificazione di metodologie di insegnamento e apprendimento…), ma anche con altrettanto radicalismo evangelico, al limite dell’eroico, sul piano dell’ascetica personale.

129 José María Valladolid Retazos lasalianos Continua la serie di flash illustrativi su episodi biografici meno noti del La Salle, su pagine controverse dei suoi scritti, su questioni piccole e grandi relative alle vicende passate e presenti della storia dell’ Istituto lasalliano. La serie è iniziata dal numero 4/2009 della rivista, e continuerà nei prossimi numeri della presente annata. [26] Los maestros de La Salle, ¿cuándo dejaron de ser grupo y comenzaron a ser comunidad? [27] ¿Qué cambios introdujo La Salle en la escuela tradicional para convertirla en cristiana? [28] Tres Cahiers lasalliens sobre la familia de La Salle que tal vez nunca se publiquen [29] Dos votos de obediencia muy distintos: el de 1686 y 1694, y el de 1725 [30] ¿Cómo daban la clase los primeros maestros de La Salle?

145 Marco Paolantonio Una vita per la catechesi: Agilberto Gatti FSC (1905-1977) Catechista e formatore di catechisti, saggista di pedagogia religiosa e redattore di testi per la parrocchia e la scuola di religione, fr. Agilberto ha occupato degnamente la scena del rinnovamento catechistico nell’Italia del dopoguerra e dell’immediato postconcilio. Seguace non pedissequo ma oculatamente critico delle correnti della pedagogia attivistica del Novecento, psicologo ‘intuitivo’ dell’animo religioso del fanciullo, seppe infondere in migliaia di catechisti, insegnanti, pastori di ogni regione d’Italia l’entusiasmo e la competenza per la diffusione della Parola di Dio, additando insieme sagge regole metodologiche sperimentate sul campo e codificate in numerosi saggi scritti.

161 CRONACHE LASALLIANE La Salle et le ministère de l’éducation (Gilles Routhier) The Faces of Joy and Hope in Asia (Anthony Rogers) Orfani del terremoto di Messina accolti dai FSC (Alejandro Mario Dieguez).


BIBLIOTECA 165 Recensioni e segnalazioni Berliner D. 177 - Chiarapini M. 179 - Claris S. 175 - Comité européen d’Experts 178 - Einaudi L. 172 - Jannaccone A. 176 - La Torre G. 166 - Martini L. 171 - Martinetti N. 174 - Mattioli Carcano F. 173 - Melloni A. 165 - Savarese G. 176 - Sisti R. 174 - Trisoglio F. 166,167,169 - Valitutti S. 172.

182 Novità librarie – Dalle riviste in cambio

Hanno collaborato a questo numero: Roberto Alessandrini, docente dell’Istituto universitario ‘Progetto Uomo’, Modena Bruno Bordone, FSC, cultore di Storia e Spiritualità lasalliana, Torino Emilio Butturini, docente di Storia dell’educazione occidentale, Università di Verona Juan Bautista De Las Heras Millán, FSC, Formazione continua degli insegnanti, Spagna Arnaldo De Vidi, teologo pastoralista, esperto di intercultura, missionario a Manaus Mariachiara Giorda, ricercatrice docente di Storia delle religioni, Università di Torino Anna Lucchiari, scrittrice, Roma Mario Maritano, docente di Patrologia, Università salesiana di Roma Marco Paolantonio, FSC, già docente e dirigente scolastico, Torino Francesco Pistoia, dirigente scolastico, saggista, Cosenza Kevin J. Ruth, assistant headmaster for advancement, St Edmond’s Academy, Delaware Teresa Salzano (†2008), esperta in Storia e cultura dell’Ebraismo italiano, Venezia Giuseppe Tacconi, docente di Didattica della formazione professionale, Univ. di Verona Francesco Trisoglio, FSC, docente emerito di Storia e Letteratura Patristica, Torino José María Valladolid, FSC, cultore di Storia e Pedagogia lasalliana, Madrid


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La catechesi nei Padri della Chiesa / 12

La catechesi battesimale a doppia intonazione: San Giovanni Crisostomo FRANCESCO TRISOGLIO

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acque, verosimilmente, nel 344 ad Antiochia, della quale fu la gloria che la illuminò, come della sua Scuola divenne il fulcro che la trattenne in una rigorosa ortodossia ed il garante che la tutelò da sospetti e da incomprensioni. Il padre, Secondo, o fu personalmente magister militum Orientis, cioè comandante militare supremo del fronte orientale, o fu generale addetto al suo Stato maggiore. Morì poco dopo la nascita di Giovanni, lasciando vedova la madre Antusa, la quale, a vent’anni, nella rinunzia ad ogni appariscenza mondana, si consacrò totalmente all’educazione del figlio, suscitando, per la sua nobiltà morale, l’ammirazioe del celebre pagano Libanio. Giovanni si formò frequentando la scuola retorica di Libanio, dal quale attinse la fine purezza della lingua, il cenacolo ascetico di Carterio, da cui assorbì un’austera severità di condotta, ed il seminario esegetico di Diodoro (poi vescovo di Tarso) e di Melezio (dal 360 vescovo di Antiochia), dai quali derivò i principi dell’ermeneutica biblica. Battezzato nella notte pasquale del 368, si sentì chiamato alla solitudine monastica, dalla quale lo ritenne, momentaneamente, la madre, supplicandolo di “non renderla vedova una seconda volta”. Alla morte di lei, dopo essersi sottratto ad una proposta di elezione all’episcopato (373), si ritirò a vita monastica presso Antiochia, dove per quattro anni visse sotto la direzione di un vecchio monaco, e dopo, per due anni, in un eremitismo assoluto. Però motivi di salute e maturazione interiore1 lo indussero a tornare ad Antiochia (378), dove nel 381 fu ordi-

1 Br. H. Vandenberghe, La charte du prêtre, selon saint Jean Chrysostome, in La Vie spirituelle, aoûtsept. 1957, a p.178 ricorda che il Crisostomo nel De sacerdotio pensò che la vita monastica fosse troppo unicamente preoccupata della perfezione personale e del riposo contemplativo con un certo egoi-


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Francesco Trisoglio

nato diacono da Melezio e nel 386 presbitero dal successore Flaviano, che lo delegò alla predicazione.2 Nei 12 anni nei quali rimase ad Antiochia, fu l’affascinante direttore delle anime,3 che attirò con la sincerità del suo amore, persuase con l’intima verità del suo messaggio, richiamò al dovere con l’autorevolezza di chi, prima di dare norme, offriva esempi, e con l’incanto di una parola che fondeva squisitamente semplicità ed eleganza.4 Il 27 settembre 397 moriva Nettario, bonario ed arrendevole patriarca di Costantinopoli;5 la corte pensò di sostituirlo con Giovanni, ma, dinanzi ad un suo ben prevedibile rifiuto, lo prelevò da Antiochia e lo condusse, a sua sorpresa. mediante un tranello, a Costantinopoli, dove fu consacrato vescovo il 26 febbraio 398. Si avvide subito che l’ambiente era, moralmente, assai rilassato. Intraprese quindi con un fervore impaziente un’opera di riordinamento e di purificazione. Incominciando da sé, soppresse i lussi del palazzo episcopale, poi redarguì il clero mondanizzato, disciplinò i monaci vaganti, richiamò all’ordine le pie signore intriganti, propose severi esami di coscienza ai ricchi... attirandosi un’appassionata adesione da parte della gente ed insieme coagulando un nucleo di oppositori implacabili. Al suo purissimo zelo non si accompagnava infatti sempre il tatto prudente di chi, rivestendo un’alta responsabilità pubblica, deve valutare, in lucida perspicuità, modi e limiti di interventi che possono scatenare opposizioni capaci di annullare gli effetti degli interventi stessi.6

smo sacro, per cui realizzava un ideale meno ampio di perfezione cristiana dell’apostolo che invece si occupa anche della salvezza dei suoi fratelli. 2 La sua vicenda spirituale non può essere più felicemente illustrata che accostandole quella che il Manzoni (Pr. Sp. cap. 22), con tersa riflessività, tracciò per il card. Federigo: “La sua vita è come un ruscello, che scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’abnegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità dei piaceri... Badò, dico, a quelle parole, le prese sul serio, le gustò, le trovò vere; vide che non potevano dunque essere vere altre parole opposte... e propose di prendere per norma delle azioni quelle che erano il vero. Persuaso che la vita non è già destinata ad essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò fin da fanciullo a pensare come potesse rendere la sua utile e santa”. 3 Aug. Piédagnel, SC 366, Appendice I, pp. 247-249, pensa che, all’epoca, la città avesse circa 400.000 abitanti. 4 L’inaugurazione di questa missione e di questo prestigio avvenne in occasione di un dissennato eccesso demagogico compiuto dalla teppaglia urbana, che, in reazione ad un aumento delle tasse, demolì le statue della famiglia imperiale. Dinanzi allo smarrimento di prevedibili dure rappresaglie da parte di Teodosio, la folla, angosciata, fu da Giovanni sostenuta, incoraggiata, richiamata, animata in una serie di 21 omelie, Sulle statue, che costituiscono un capolavoro di didattica nel raggiungere i cuori e di nativa eleganza nell’aprirsi ad essi la via. 5 Era succeduto nel 381 alla ben più alta figura di Gregorio di Nazianzo. 6 Lui, siriano ed ex monaco, non possedeva la duttilità politico-diplomatica di un Ambrogio, romano ed ex governatore.


La catechesi battesimale a doppia intonazione: San Giovanni Crisostomo

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Finì pertanto col venire in urto con l’imperatrice, l’orgogliosa Eudossia, che, in collaborazione con Teofilo, patriarca d’Alessandria, lo sottopose ad un processo tenuto nella villa detta La quercia, presso Calcedonia (403), nel quale Giovanni fu condannato alla deposizione. Ne seguirono tafferugli nella folla ed una violenta repressione armata, per cui l’imperatore Arcadio inviò Giovanni in esilio a Preneto, nel golfo di Nicomedia (403). Però un avvenimento misterioso, accaduto a palazzo, spaventò Eudossia, inducendola a richiamare Giovanni per un accordo; l’intesa però risultò effimera. L’inaugurazione di una statua dell’imperatrice accanto a Santa Sofia, con i conseguenti festeggiamenti e schiamazzi, provocò la stizza di Giovanni, che venne di nuovo allo scontro con Eudossia. Ne seguirono ancora agitazioni, in seguito alle quali il 9 giugno 404 Arcadio emanava un nuovo decreto di esilio con deportazione a Cucuso, nell’Armenia Minore, località aspra nel clima ed infestata dalle incursioni di predatori Isaurici, per cui, nell’autunno del 405, egli dovette rifugiarsi nella fortezza di Arabisso. Anche laggiù continuò con indomito fervore la sua azione apostolica scrivendo lettere (ne abbiamo 236), ricevendo ammiratori da ogni parte, con un’alacrità che inquietò la corte, la quale, nell’estate del 407, ne decise il trasferimento nella remota ed isolata Pitionte, nel Ponto Eusino, ai piedi del Caucaso. Però durante il viaggio, a Comana nel Ponto, Giovanni si accasciò esausto; passò l’ultima notte nella cappella del martire S. Basilisco, che gli apparve; il 17 settembre 407 Giovanni moriva mormorando: “Gloria a Dio in tutte le cose”.7 A Costantinopoli i suoi aderenti si strinsero in un gruppo autonomo di tenace fedeltà, che rifiutò la comunione con la Chiesa ufficiale; seguirono faticosi ed infruttuosi tentativi di pacificazione, la quale fu raggiunta solo il 27 gennaio 438, quando le reliquie di Giovanni furono trionfalmente accolte a Costantinopoli e deposte nella chiesa dei SS. Apostoli.

Le omelie battesimali Nuove scoperte - Delle catechesi battesimali del Crisostomo ne era nota soltanto una, pubblicata da Fronton du Duc ed accolta da Montfaucon nella Patrologia greca (PG) vol. 49,221-240. Ma nel 1909 il bizantinista A. Papadopoulos-Kerameus in un omeliario della biblioteca sinodale di Mosca trovò del Crisostomo quattro catechesi, delle quali la I era quella già pubblicata in PG, mentre la II, III, IV erano inedite. Papadopoulos pubblicò la scoperta in una miscellanea che conteneva testi di vario interesse, in russo, a Pietroburgo nel 1909; il luogo e l’imminenza della guer-

7 In Cat. VI,8-13 egli spiega diffusamente che cosa significhi “fare tutto a gloria di Dio” (1 Cor 10,31), concentrandosi nella sintesi: “Nulla glorifica tanto il nostro Signore quanto la condotta più perfetta possibile” (11, p. 221,6-7).


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ra resero quasi sconosciuta l’edizione. Opportunamente Auguste Piédagnel ne ha curato una riedizione.8 Nel 1955 A. Wenger, a sua volta, scoperse nel monastero di Stavronikita, sul Monte Athos, un’altra raccolta, che pubblicò in Sources Chrétiennes (SC) 50.9 Di esse egli passò in rassegna la struttura (pp.36-48); dimostrò l’autenticità (48-59); affermò che furono pronunciate ad Antiochia e non a Costantinopoli (59-63); nella Pasqua probabilmente del 390 (63-65). I destinatari - Queste omelie sono catechesi battesimali e quindi hanno come centro d’irraggiamento il battesimo, il quale può però venire considerato nei suoi due momenti, della preparazione e dell’applicazione. Prima e dopo sono logicamente connessi da un’intrinseca dinamica di sviluppo, ma sono fasi, in se stesse, nettamente distinte; il battesimo infatti non segna lo stadio di un processo, produce uno stato. Prima l’uomo è soltanto una creatura, chiuso nella sua limitatezza, soggetto agli scadimenti della sua finitudine, esposto alle inadempienze e quindi alle colpe ed alle punizioni inerenti; dopo, continua a vivere nel tempo, ma in esso si è inserita un’apertura escatologica che si prolunga all’infinito; da isolato nell’angustia della sua natura è passato ad una comunicazione con Dio che si intensifica a comunione; nella transitorietà del tempo è penetrata una dimensione di eternità propria dell’era escatologica. Nelle due fasi c’è diversità di atmosfera. Giovanni parlò ai catecumeni, quelli in cammino ma non ancora arrivati, ed ai battezzati, da poco o da molto, neofiti o fedeli abituali; tra loro la distinzione aveva la tenue labilità di una cronologia superficiale; nella realtà avevano la stessa dignità e responsabilità; Giovanni li riunì quindi spesso in una medesima categoria ed in un’identica sostanza di messaggio.

Le catechesi ai catecumeni Specificamente loro rivolte sono le tre pubblicate da P(apadopoulus-Kerameus) e le prime due tra le otto edite da W(enger). Furono pronunciate in un ambiente riservato a persone che si trovavano in uno stato d’animo particolare di attesa, di trapasso; a questa temperie si intonarono le parole ed il sentimento del Crisostomo. S’introduce chiamando i catecumeni “i nostri nuovi fratelli” (Cat. I,1 P p.112,1);10 crea così un’atmosfera di affettuosa benevolenza, come lo pervade con un’effusio-

SC 366. Trois catéchèses baptismales, con testo, traduzione e note, Paris 1990. Omette la IV perché già stampata da Wenger come III. 9 Huit catéchèses baptismales inédites, con intr. testo critico, trad. e note, Paris 1957. 10 Romano il Melodo, Inno dei neofiti, Inno 52, § 2, tomo V, SC 283, p. 344 proclama: “Non sono più come stranieri, respinti via dalle cose divine, ma vengono trattati come membri della famiglia; hanno sentito l’invito ‘Venite’. Non indugiano più alla porta della stanza nuziale, poiché si sono rivestiti lo Sposo. Non si diffida più di loro, si affida invece loro tutto; mettono mano alle cose sante non più come spie ma come custodi”. 8


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ne di gioia (Cat. I,1 W p.109,1-5).11 Giovanni mira a dissipare subito dal corso dottrinale il sospetto di uggia che facilmente gli aderisce, presentandolo nella letizia di una festa nuziale ed insieme nella coscienziosità di un arruolamento militare. Le due metafore si compenetrano nel designare i rapporti con Dio. Toglie subito la paura; garantisce infatti che il Redentore non considera la bruttezza dell’anima contaminata dal peccato, la accoglie invece con disponibilità (I,6 W p.111). “Hai visto l’indicibile amorevolezza di Dio?” (I,8 W p.112,1) Il dramma del male è depurato dal suo clima tragico, è diventato il luogo dell’applicazione della generosa amorevolezza di Dio. Ed incalza con la provocazione: “Hai visto la condiscendenza del Signore? Hai visto la sua inconcepibile amorevolezza? Non ci ha chiesto nulla di penoso”, non di compiere miracoli, ma di imitarlo nella sua dolcezza di cuore (I,30 W p.123,1-6).12 Di fronte all’immolazione che Cristo ha fatto di se stesso per rendere la Chiesa pura e gloriosa (Ef 5,25-27) impronta il dialogo con l’ascoltatore di un accento familiare: “Hai visto la grandezza dei suoi doni? Hai visto l’inesprimibile eccesso del suo amore?” (I,17 W p.117,1) A documentare la bontà di Dio, ripercorre la storia delle origini (II,3-7 W) col paradiso ed il godimento dei suoi beni, ai quali l’uomo rispose con la trasgressione; “Ma guarda, anche qui, la grandezza dell’amore di Dio” (II,4 W p.135,1), che riscattò l’uomo ribelle. Ricostruisce la storia della salvezza in coinvolgimento; non racconta; vedono insieme; il fatto lontano si fa incontro diretto, dove emerge una sapienza che compenetra magnanimità e giustizia.13

E la intensifica inquadrandola sullo sfondo immenso della gioia celeste, come la insaporisce col gusto terrestre di farsi beffe del diavolo e delle sue reti (§ 2 p.109,1-3). 12 Per prevenire timori infondati, evidenzia l’accessibilità delle esigenze di Dio: “Il Signore ci chiede una cosa sola, la dimenticanza del passato e la rettitudine di spirito per l’avvenire” (I,15 W p.116,9-10) e sottolinea la facile tollerabilità dei suoi precetti: “Non abbiate paura sentendo la parola ‘giogo’ (Mt 11,29); questo giogo infatti non scortica il collo e non sospinge a volgere la testa in basso; insegna invece a pensare alle cose di lassù, la vera filosofia” (I,29 W p.123,3-6). È un’esortazione partecipata, affettuosa, con una sua inflessione d’interiorità. 13 Il castigo del peccato si rivela oculato provvedimento di correzione. Dio viene umanizzato nel suo sentimento, pur conservando intatta la sua natura. C’è uno squisito senso della misura: Dio e l’uomo vengono avvicinati senza confondersi; la natura viene condotta da Dio a Dio con una delicata sollecitudine. È una delicatezza garbata che si continua (§ 5 p.135,1-4) nell’osservazione che la felicità edenica era ozio, il quale divenne stimolo alla trasgressione: “Non avevi niente da fare e ciò ti indusse a concepire idee che andavano al di là della tua propria natura” ed allora Dio, a rimedio dell’inerzia, pose il lavoro, non tanto castigo quanto antidoto di riscatto. “Ti sei immaginato prospettive grandiose, non hai voluto restare dentro i tuoi propri limiti e per questo dispongo che tu ritorni alla terra, dalla quale sei stato preso” (p.136,7-9): la punizione nasce dall’interno, è il logico ristabilimento di un ordine, non ha l’asprezza di un’ingiunzione ostile. Per evitare che la ‘lezione’ si dissipasse con l’abitudine ma far sì che durasse come richiamo permanente, “Dio non collocò Adamo in qualche luogo lontano, ma vicino al paradiso, perché in ogni momento vedesse di quali beni si era privato, ricevesse un ammonimento continuo e, per l’avvenire, osservasse con maggiore sicurezza i comandamenti ricevuti” (§ 6 11


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La condanna ed il riscatto di Dio presuppongono nell’uomo la responsabilità, la quale viene resa possibile dalla libertà di scelta, di cui l’uomo è sicuramente dotato: “Tutto dipende dal libero arbitrio e non dalla natura” (I,10 W p.113,5-6). Come fondamento sia della morale che della dignità della persona, Giovanni lo afferma categorico in asserzioni ricorrenti. Sopprime qualsiasi determinismo; svincola la coscienza dalla schiavitù oppressiva dell’antico fato, onnipotente ed indecifrabile, privo di motivazioni e pieno di costrizioni. L’uomo può diventare colpevole proprio in quanto è signore di se stesso; la colpa, nella sua negatività, rinvia ad una violazione. Siamo nell’arruolamento militare (I,1) per una spedizione che mira all’elevazione della propria dignità nella conquista del vero, su cui poggia il buono:14 si apre un panorama in cui spira l’entusiasmo della magnanimità spirituale. Il vero viene offerto dalla fede, che è la base di ogni valore: “Su, parliamone, affinché, dopo aver posto un fondamento infrangibile, possiamo poi costruire tutta la casa con sicurezza” (I,20 W p.118,1-4).15 La sua è un’ortodossia tanto tranquilla quanto rigorosa: “Hai visto la confessione esatta? Hai visto una dottrina esente da ambiguità? Che nessuno, d’ora innanzi, venga a sconvolgerti introducendo nei dogmi della Chiesa i risultati delle sue elucubrazioni personali. Fuggi la compagnia di tali individui come droghe rovinose” (I,24 W p.120,1-5).16 La fede accoglie la trascendenza tanto della verità rivelata (Bibbia) quanto del significato simbolico incluso nei riti battesimali (liturgia);17 della fede “è infatti proprio aderire a ciò che non vediamo come se lo vedessimo” (II,9 W p.138,1-11).

p.136,1-7). Con solerte penetrazione psicologica commenta che “finché godiamo dei beni non ci accorgiamo, come dovremmo, del beneficio, quando poi li perdiamo ce ne rendiamo meglio conto” (p.136,710). È simpatica questa interpretazione che svelenisce la condanna facendo dell’espiazione educazione; la giustizia di Dio viene animata di una paternità che, per essere genuina, deve anche essere sapientemente severa nell’esigere una disciplina ragionevole. 14 In I,34-38 W accanto ai fondamenti dogmatici pone le esigenze morali; alla verità costruisce l’ambiente; sa che è più facile cristianizzare le idee che i costumi. In Cat I, 17-18 P ammonisce sul pericoloso uso della lingua ed in I,19-23 e II,1-2 e 8-9 P sull’abuso del giuramento. In I,22 P p.158,3-5 la deplorazione si fa pungentemente sarcastica: “Anche quando comperiamo dei legumi, bisticciamo per due oboli, irritandoci con i nostri servi, e chiamiamo Dio a testimone”. 15 Nei §§ 21-23 espone, contro ariani e sabelliani, la dottrina su Cristo e sullo Spirito Santo scandendola in una precisione messa in risalto dal tono pacato; è una verità che s’impone per intrinseca evidenza. 16 Saggezza pratica e lucidità pedagogica lo inducono a prescrivere che nelle catechesi prebattesimali si presenti la teologia solo nei suoi contenuti assodati e indubitati. L’esperienza degli sbandamenti ereticali e delle velleità allegoristiche lo metteva in allarme dinanzi alle estrose trovate di docenti; quello era il luogo di porgere la verità indiscussa, non di ostentare originalità. 17 In II,12-27 W ne percorre una rassegna illustrandoli nelle loro motivazioni. Sottolinea particolarmente la severità dell’impegno che comportano la rinunzia a Satana e l’adesione a Cristo, veri atti ufficiali corrispondenti a quelli notarili che sanciscono il trasferimento delle proprietà materiali; “le parole che voi pronunciate qui vengono registrate in cielo ed i patti che esprimete con la lingua rimangono indelebili presso il Signore” (§ 17 p.143,13-16). L’unzione sulla fronte col crisma è un vero arruola-


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Giovanni vede e sente; dinanzi al terribile impegno “Rinuncio a Satana” viene colto da un soprassalto di commozione: “Mi viene ora da piangere con amari singhiozzi; ripenso al giorno in cui anch’io pronunciai queste parole e, considerando il carico di peccati che da quel giorno ad ora ho messo insieme, mi sento sconvolto nella mente e morso nella coscienza, vedendo la vergogna che mi sono procurata per la mia trascuratezza a questo proposito”, chiede scusa agli ascoltatori e li scongiura di pregare per lui dinanzi al giudizio di Dio (II,19 W p.144,1-16). Qui parla l’anima nella sua nudità; siamo lontanissimi da accorgimenti retorici volti a suscitare l’emozione; l’oratore viene travolto dal suo argomento; nessun altro catechista ha assunto atteggiamenti analoghi.18 Dinanzi alla drammatica serietà del battesimo19 Giovanni si congratula con i presenti, che sono accorsi presto a riceverlo, evitando la miserevole pratica di rinviarlo in punto di morte, nel confuso scompiglio dei familiari in lacrime, di cui abbozza un vivido quadro (Cat I,3-4 P). Giovanni nella sua parola esprime davvero quello che ‘ditta dentro’ nella più immediata schiettezza della sincerità; è nobile per l’elevatezza dell’anima e la finezza del gusto; non è il letterato che va a cercare l’espressione, è l’amico che lascia liberamente uscire quello che gli vive nel cuore, è questo che parla. Le sue catechesi sono confidenze; non c’è distanza tra lui e gli ascoltatori: “Volete che rivolgiamo il discorso a coloro...?” (II,15 W p.141,1): la familiarità assume il tono dimesso dell’uguaglianza, sono sullo stesso piano; di fronte al basilare problema della salvezza sono soppresse le distinzioni sociali e si sfumano anche quelle gerarchiche; difatti subito dopo invita: “Riflettimi, mio caro...” (141,4-5). La sua parola scorre distinta senz’ombra di fatica o di asperità; ha la fluidità signorile di chi domina a proprio agio il suo argomento. Soprattutto nella serie Wenger traspare un’eleganza nativa che si sviluppa in spontaneità ed in una disinvoltura che, all’occorrenza, non ignora l’ironia. La distinta pacatezza del tono e l’equilibrio delle proposte e delle richieste creano un ambiente di simpatica adesione che agevola l’accoglienza del messaggio.20

mento (§ 22); il battezzato ha cambiato schieramento, passando dal diavolo a Cristo mediante una vera battaglia (§ 23). Genuina ed affettuosa è la scena nella quale i fedeli tradizionali accolgono festosamente i nuovi cristiani al loro risalire dalla piscina (§ 27). In Cat. I,10 P p.132,9-10 li vede, in quel momento discriminante, “risalire più puri dei raggi del sole”. 18 È un ribollimento interiore che egli confida anche in Cat. III,5 P p. 230,2-7. 19 In Cat. III,3 P p. 222,22-24 proclama: “Colui che battezza non è un uomo ma lo stesso Unigenito Figlio di Dio”20 S. Colombo, in G. Crisostomo Dialogo sul sacerdozio, testo, traduzione e note, Corona Patrum Salesiana, Torino 1934, intr. p. XXIV, afferma: “Come maestro il vescovo deve soprattutto saper parlare, poiché la parola è l’arma più potente per combattere i nemici esterni ed interni del gregge di Cristo. Il magistero della parola richiede però grande dottrina, per cui il vescovo dovrà essersi acquistato la cultura necessaria, non solo religiosa, ma anche classica e profana”.


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Le catechesi ai neofiti Lo spartiacque tra le due categorie è dato dalla notte pasquale, nella quale si riceveva il battesimo e ci si accostava all’Eucaristia. Le catechesi I-II W specificano la natura del sacramento, le III-VIII si propongono di farne vivere la grazia. Giovanni non era, di professione, un catechista specializzato nella tecnica introduttiva; non aveva una delega apposita a quel settore di pubblico; si vedeva abitualmente dinanzi il popolo indiscriminato della sua metropoli; parlava a tutti21 ed anche qui si rivolge a tutti, ‘anche’ ai neofiti,22 i quali, mescolati agli altri fedeli, più che i destinatari, costituivano l’occasione dei suoi interventi. L’area nella quale si muovevano i suoi interessi era delimitata, più che dai riti del battesimo, dallo spirito della settimana pasquale. Non procede su una falsariga programmatica; i suoi spunti sono contingenti; vanno da una lettura biblica catalogata nel calendario liturgico del giorno all’arrivo inatteso di un gruppo omogeneo di ascoltatori. Non pensa ad una formazione propedeutica, si inserisce piuttosto in quella permanente; quasi più che istruzioni, le sue allocuzioni sono esortazioni; più che dottrina, sono pratica della dottrina; più che presentare la teoria del battesimo, aspira a creare l’ambiente in cui esso possa fruttuosamente esplicarsi. Nella sua lucidità pastorale si rendeva conto che il tarlo corrosivo della fede non si annidava tanto nel simbolo quanto nei comandamenti. Al suo pubblico composito offre un insegnamento composito; la sintesi sistematica la lascia compiere vitalmente dalla coscienza di ognuno alla mercé delle spinte che riceve; la varietà dei cibi si unifica automaticamente in efficacia di nutrimento. L’importante per Giovanni non è l’organicità della trattazione, è la puntualità dell’interesse. Pertanto quando scorge nella anonima uniformità dell’assemblea un raggruppamento di rurali provenienti dalle campagne vicine indirizza loro la parola, dà loro il benvenuto, proponendosi di ricompensarli della fatica del cammino con la fornitura di un abbondante cibo spirituale che serva loro da viatico (VIII,1); non si sentano umiliati per la loro lingua barbara e per il loro abbigliamento esotico;23 quel-

Cfr. V,18 p. 209,8-9: nel ricordo dei benefici di Dio “diamoci da fare ogni giorno per la buona salute della nostra anima noi (tutti) e soprattutto voi che siete stati or ora ritenuti degni dell’iniziazione divina”. 22 “La mia esortazione è intenzionalmente rivolta in comune a tutti, agli iniziati da molto tempo ed ai battezzati recenti” (VIII,16 p. 256,2-6). 23 Ed in consonanza con la loro mentalità rustica si attiene a verità elementari: la fuggevolezza della ricchezza, che spesso è causa di disastri, e l’instabilità della gloria (§ 12); richiama l’immagine vulgata della ruota della fortuna nel suo perenne girare (§ 13); traccia un embrionale regolamento della giornata: venite in chiesa al mattino a portare le vostre preghiere; poi, uscendo, ognuno attenda ai suoi affari, sempre col pensiero di ritornare alla sera a renderne conto a Dio (§ 17). Cura di adeguare il tono alla loro capacità recettiva. 21


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lo che conta ai suoi occhi è la loro austerità di vita e la loro dedizione alla preghiera (§§ 2 e 4); lavorano e pregano, praticano la sapienza pur senza averne ricevuto insegnamenti dall’esterno (§ 5), in un distacco dai beni della terra loro ispirato da Dio (§ 6). Insieme traccia e riconferma un tenore di vita, animandoli con un apprezzamento corroborante che nessuno aveva mai loro rivolto. Fu un’eventualità fortuita, Giovanni si guardò bene dal lasciarla cadere.24 Il lezionario biblico rievoca Abramo? Gli viene spontaneo farne un modello (VIII,7-8) e modello sublime gli si configura s. Paolo, il persecutore in buona fede che fu convertito, a conforto di quanti soffrono crisi di fede.25 Gli capita che i fedeli si radunino nel santuario di un martire? Dedica ai martiri una lunga parte della catechesi (VII §§ 1-19) asserendone l’aiuto, raccomandandone la devozione ed esortando ad imitarli nel loro disprezzo per i beni terrestri e nell’aspirazione a quelli celesti. Gli spunti li raccoglie da ogni parte come gli si offrono, dal bene e dal male Gli avviene di trovarsi davanti un’udienza ridotta, perché molti alla chiesa avevano preferito lo stadio delle corse ippiche; rileva la meschinità della scelta: più che analizzarla in se stessa, sfoga la scorata deplorazione che essa gli aveva suscitata nell’animo,26 non è un’argomentazione a stretto rigore dialettico, ma è un aggancio a pronta presa. Ben più allarmante del cedere da un’occasionale impulsività emotiva gli appare però lo stagnante abbandonarsi all’ubriachezza, che egli riscontra quale piaga diffusa; questo vizio non aveva nessuna connessione, né dogmatica né liturgica, col battesimo, ma ne era il rinnegamento pratico; Giovanni si sentiva urgere la preminenza di una campagna risoluta, che egli conduce con un’ insistente pressione di richiami. Inculca che l’ubriachezza è “uno sprecare la ricchezza della virtù” (V,7 p. 204,8-9), è un “lasciare la casa aperta da tutte le parti e facilmente accessibile a tutti gl’insi-

24 In analogia, imbattendosi nel centurione Cornelio, ne approfitta per ammonire i militari: “Imparino che non costituisce un impedimento ad un’intensa pratica della virtù, per chi vuole vivere sobriamente, il portare il cinturone e la divisa militare” (VII,28 p. 243,3-8). 25 “Quando Dio, nella sua bontà, vede un’anima ben disposta, che erra per ignoranza, non la trascura, non la lascia per molto tempo senza provvedere; per parte sua non omette nulla di ciò che conduce alla nostra salvezza, purché noi ci rendiamo degni di attirarci con abbondanza la grazia dall’alto” (IV,8 p.187,5-11). E sull’analisi dottrinale del procedimento divino innesta un vivace movimento d’aggancio: “Hai visto, o caro, che grande cambiamento? Hai visto che grande trasposizione? Hai visto come, dopo di aver gustato l’amorevolezza divina, ha apportato abbondantemente da parte sua lo zelo, il fervore, la fede, il coraggio” (IV,10 p.188,9-13). 26 “Con quale gusto, dimmelo, mi dedicherò, d’ora innanzi, a questa istruzione consueta, vedendo che dalle mie parole non avete tratto nessun guadagno e che, quanto più si prolunga il mio insegnamento, tanto più cresce la vostra trascuratezza?” (VI,2 p. 216,1-4). La dottrina, universale, arriva attraverso alla sensibilità, personale. Emana un delicatissimo pathos da questo maestro che, nel suo magistero, insegna dall’alto, ma anche quasi scende a supplicare il conforto di sentire che non va sprecato nel disinteresse il motivo della sua vita.


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diatori” (§ 9 p. 204,2-3), è “il tradimento della ragione, una sventura che suscita risate, una malattia di cui ci si fa beffe” (ibid. p. 205,5-7). Efficace arma didattica gli diventa il realismo descrittivo. Il realismo nell’osservazione lo conduceva anche a mettere in guardia dagli strascichi negativi delle opere buone. Il termine dell’austerità quaresimale con il suo digiuno poteva provocare una reazione psicologica di allentamento nella coscienza:: “Io adesso ho paura della licenza e dell’afflosciamento morale che ne deriva; non c’è infatti nulla contro cui la natura umana sia così incapace di resistere come contro la rilassatezza morale” (V,15 p. 208,4-6). Al battesimo cinge un cordone protettivo di sicurezza. Per ovviare alla superficialità di chi è tentato di fermarsi ai riti, vedendo nel sacramento solo una cerimonia, Giovanni, in solennità di appello, ne proclama la validità giuridica: “Io parlo a tutti voi, a quelli che hanno ricevuto or ora l’iniziazione ed a quelli che l’hanno ricevuta molti anni fa; il mio discorso è rivolto a tutti noi, perché tutti abbiamo sottoscritto con Cristo un patto” (III,20 W p.162,3-6 e ancora in VII,23 p. 240,1-3). A Giovanni non interessa la data della firma, importa che il trattato venga lealmente osservato;27 non discrimina quindi le due categorie, le fonde nell’unità di un impegno per il quale egli cerca di sostenerle. Non si tratta più tanto di sapere, quanto di vivere in fattiva aderenza a quanto si è appreso.28 Queste sono catechesi di rassodamento; vuole rianimare ed impegnare. Proclama infatti i neofiti (III,1 p.151,1-3) ed i fedeli in genere (IV,3 p.184,6-8) stelle che sulla terra brillano più di quelle del cielo: è un plauso che si riflette immediatamente in dovere. “Quelli che ieri erano prigionieri, adesso sono liberi”, “fratelli di Cristo”, “templi e strumenti dello Spirito” (III,5 p.153,2-11; sono dignità che vanno alacremente difese, per cui considera i battezzati come campioni chiamati a spiccare sotto gli occhi della gente e degli angeli (§ 8 p.155,1-5), soldati di Cristo, il quale è pronto a darci la sua grazia, se noi portiamo la nostra buona volontà (IV,6 p.185,1 e 910);29 egli irraggia il battezzato di una luce tale che il diavolo “non ha neppure più il coraggio di guardarlo in faccia” (lin. 7-8). In quell’abito bianco, che richiamava gli sguardi di tutti, Giovanni scorge l’implicita chiamata a conservarlo intemerato accrescendone lo splendore, in modo da attira-

“I patti che avete conclusi col Signore manteneteli saldi ed irremovibili” (IV,31 p.198,1-3). Romano il Melodo, Inni, tomo V, n. 52,12 SC 283, p. 358 esorta: “Siccome hai detto ‘Credo’, persevera nel tuo credere e quale fu il tuo schieramento [la tua scelta di campo], tale sia il tuo comportamento esteriore. Non spogliarti della tua gloria insieme col tuo vestito; rimani ancora vestito di bianco nel tuo pensiero. Che l’Ingannatore non abbia a dirti : Soltanto per sette giorni tu hai l’obbligo di dimorare insieme a Colui al quale ti sei impegnato a salmodiare gioiosamente: Se voi sentite la sua voce quest’oggi (Ps. 94,7); così canta ogni giorno la nostra rigenerazione”. 29 Coraggio! Nel nostro combattimento contro il diavolo “Cristo non si pone neutrale; è tutto dalla nostra parte” (III,9 W p.155,4-5). 27 28


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re anche gli altri alla medesima glorificazione di Dio (IV,18 p.192,6-13); Giovanni fa di quell’abito la divisa dell’apostolo.30 È infatti possibile essere sempre neofiti, “non solo per due o tre giorni, ma per dieci, venti, trent’anni, per tutta la vita” (V,20 p. 210,1-5), “sapendo che, dopo la grazia di Dio, tutto dipende da noi e dal nostro impegno” (V,24 p. 212,1-2); in tutta la sua produzione ritorna ritmico, a rassicurazione ed a sfida, il comma “se noi lo vogliamo”. Per Giovanni il nemico è la neghittosità rinunciataria.

Linguaggio e ritmo Per stimolare, non si lascia sfuggire gli spunti che sollecitano e persuadono, come non teme d’insistere con una calma che arriva talora al blando per permettere al messaggio di filtrare e di depositarsi. Della lentezza del suo passo è ben consapevole egli stesso e se ne giustifica: “So che ho parlato a lungo; perdonatemi; è la grande amorevolezza che nutro per voi che ha reso fin troppo lunga la mia istruzione. Vedendo la vostra ricchezza spirituale e conoscendo il furore del diavolo maligno, vi richiamo che dovete stare molto in guardia; perciò vi ho esortati a praticare la sobrietà e la vigilanza continua” (IV,30 p.197,1-7). Una certa prolissità è zelo trepido, nella viva percezione della sublimità dell’eterno destino umano, che è quotidianamente insidiato dalla tentazione; ed è forse anche perspicacia critica, che sa quanto di ciò che il docente dice vada dissipato prima di arrivare all’attenzione dell’ascoltatore. La sua è una conversazione distesa, senza fretta, un prolungare la sua permanenza tra loro, per cui non rifugge dall’intrattenersi su idee vulgate. Assume volentieri il tono colloquiale (“dimmi”) che del monologo fa un dialogo a comunicazione diretta. Talora movimenta l’esposizione: “Gli ubriachi sono più animaleschi degli animali. In che modo? Adesso ve lo dico.” (V,13 p. 207,1-2); dopo la sua affermazione che Abramo lasciò le cose sensibili aspirando a quelle spirituali, s’interrompe: “Ciò che vi ho detto può sembrarvi un enigma; ma non agitatevi; io vi spiego come questo...” (VIII,9 p.252,1-2); talora sorprende con uno scatto improvviso, come quando reagisce ad un’affermazione di san Paolo: “Ma che cosa dici, o beato Paolo?” immaginandone la risposta, che lo introduce ad un’analisi della fede di Abramo (VIII,10 p. 253,1). Le omelie del Crisostomo seguono spesso un percorso divagante nella struttura proprio in quanto è unitario nell’intento: nutrire le anime nella molteplicità delle loro

Cfr. VII,24 p. 241,4-7: “È un atto di giustizia che voi, che avete ricevuto poco fa il dono del battesimo, e voi tutti, che ne avete in passato goduto il beneficio, spicchiate dinanzi a tutti per il vostro impeccabile tenore di vita ed illuminiate come una lampada tutti coloro che vi vedono”. Giovanni, l’araldo della verità con la parola, se li fa alleati e fiancheggiatori con l’esempio; la verità va insieme creduta e praticata. 30


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esigenze, per innalzarle alla purezza della verità e della virtù. L’unità risiede nel suo spirito, alacre ed insieme inquieto per la sua gente. “Considero la vostra negligenza un mio danno personale” (VI,4 p. 217,4). Ed un giorno, parlando ai suoi fedeli (Om. sulle statue IX,1 PG 49 col.116) confidò: “Per me la vita non consiste in altro che in voi e nella vostra salvezza”. * * * Profili patristici finora pubblicati: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.

Il De catechizandis rudibus dì sant’Agostino, 2008, 1, 7-22. La catechesi nella teologia: san Gregorio di Nazianzo, 2008, 2, 163-179. La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi di san Giovanni Clìmaco, 2008,3,307-322. La catechesi popolare: san Pietro Crisologo, 2009, 1, 7-24. L’unica catechesi battesimale parlatali! De Sacramentis di sant’Ambrogio, 2009, 2, 185-198. La catechesi battesimale del primo cristianesimo: il De baptismo di Tertulliano, 2009,3, 375-385. San Cesario di Arles: la catechesi in una società multietnica, 2009, 4, 563-574. San Giovanni Damasceno: la catechesi dell’icona, 2010, 1, 5-14. Teodoro di Mopsuestia, il più lucido dei catecheti investito dalla più torbida delle tempeste, 2010, 2, 199-213. 10. La catechesi culturale: Teodoreto di Ciro, La terapia delle malattie elleniche, 2010,3, 359-368 11. Il catechista ‘ufficiale’ dei catecumeni: san Cirillo di Gerusalemme, 2010, 4, 539-551. 12. La catechesi battesimale a doppia intonazione: san Giovanni Crisostomo, 2011, 1, 7-18.


RivLas 78 (2011) 1, 19-30

La paternità carismatica di Antonio MARIACHIARA GIORDA S’il est un point d’accord parfait entre la vie, les lettres et les Apophtègmes, c’est bien la reconnaissance d’Antoine comme maître spirituel. L. Brottier1

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ntonio, uno dei primi e sicuramente il più celebre tra i monaci che popolarono il deserto egiziano della Tarda Antichità, incarna l’ideale di perfezione evangelica raggiunto attraverso un percorso di crescita dell’interiorità e santità e di progresso morale. Egli vive nella imitatio Christi e ciò è reso esplicito dal suo ritiro nel deserto, dalla lotta contro i demoni, “angeli del diavolo” e dalla sua ascesi, fatta di fatiche, di pratica della virtù, di mortificazione del corpo per mezzo di rinunce al sesso, al cibo e al benessere, ed attraverso i digiuni, le veglie, la preghiera incessante e il lavoro manuale. La sua vita ascetica ebbe inizio con un distacco progressivo, fisico e spirituale, dalla sua abitazione e con la decisione di mettersi alla scuola di chi, in quel momento, iniziava a praticare nuove forme di vita ascetica.

1 L. Brottier, Antoine l’ermite à travers les sources anciennes: des regards divers sur un modèle unique, Revue des Études Augustiniennes 43 (1997), 23. Per le fonti citate in questo saggio: Athanase d’Alexandrie, Vie d’Antoine, a cura di G. J. M. Bartelink, Cerf, Paris 1994: d’ora in avanti VA. Historia Monachorum in Aegypto, a cura di A. J. Festugière, Bruxelles 1971: d’ora in avanti HM. Palladio, Historia Lausiaca, a cura di G. J. M. Bartelink, in Vite dei Santi, C. Mohrmann (ed.), Fond. L. Valla, Milano, 1974: d’ora in avanti HL. Il riferimento agli apoftegmi è sempre basato sulla collezione alfabetica dei detti dei Padri del deserto: L. Regnault, Les sentences des Pères du désert, collection alphabétique, Sablé sur Sarthe, Abbaye de Solesmes 1970 (PG 65, 71-440), d’ora in avanti Alph. seguito dal nome del monaco. Id. Les sentences des Pères du désert, série des anonymes, Bégrolles-en-Mauges, Abbaye de Bellefontaine 1985.


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I modelli di Antonio: l’anziano e gli zelanti Vi era allora, nel villaggio vicino, un vecchio che si esercitava nella vita solitaria dalla giovinezza. Antonio lo vide e gareggiava con lui nel bene. In un primo tempo cominciò anch’egli ad abitare nei dintorni del suo villaggio e di là, non appena sentiva parlare di qualcuno che era pieno di fervore, andava a cercarlo come l’ape sapiente e non faceva ritorno a casa sua prima di averlo visto e di aver ricevuto una sorta di viatico per camminare nella via della virtù (VA 3,3.4).

Antonio non è il primo a dedicarsi all’ascesi: si legge che un vecchio eremita era suo modello nella pratica di ascesi; l’uomo un anziano2 e non maestro, termine che qualifica l’anzianità dell’esperienza ascetica. I due non sono legati da un rapporto esclusivo o di obbedienza formale ed infatti quando Antonio prega il vecchio di seguirlo nel deserto egli rifiuta adducendo come motivazione l’età e il fatto che fino ad allora non c’era stata questa consuetudine di addentrarsi nel deserto. La gerarchia padrefiglio è ribaltata subito dopo il formarsi di tale legame, è negato il valore della convivenza ed è invece sottolineata l’eccezionalità di Antonio, il suo essere sciolto da legami “terreni” di ogni tipo: il monaco non ha più bisogno di imparare o di essere guidato: pur non essendo ancora diventato un anziano, gli è sufficiente osservare altri che praticano l’ascesi. Antonio infatti si mette al seguito di altri uomini sono spoudaioi, pieni di zelo, da cui raccoglie, per farne tesoro, diverse virtù. L’aggettivo che accompagna questi modelli qualificherà i membri delle “confraternite religiose” laiche, gli spoudaioi (o philoponoi) che praticavano una vita religiosa comune fatta di opere di carità e beneficenza ed erano utilizzati dal clero non solo nelle feste religiose, ma anche quotidianamente. In questo testo è possibile ipotizzare un uso tecnico del termine, che si riferisce appunto agli zelanti che si organizzavano per rendere dei servizi alla Chiesa episcopale e che, probabilmente, avevano militato dalla parte di Atanasio almeno in un’altra occasione. La più antica testimonianza3 di questo gruppo risale infatti all’epoca delle persecuzioni contro Atanasio e i suoi partigiani ad Alessandria e in Egitto nel 356, quando, tra coloro che soffrirono molte pene sei mesi dopo l’esilio Questo termine ha un’origine scritturistica: Mt 11,30; 14,25; 15,2.4.6.22; 20,17; 1Tm 5,17; Tt 1,5; 1Pt 5,1. 3 Cf. J. E. Gohering, The letter of Ammon and Pachomian monasticism, Berlin-New York, de Gruyter, 1986: Lettera Ammon, cap. 31-32. In realtà anche un’altra opera parla di questi uomini zelanti, in riferimento al gruppo di spoudaioi che mettono al sicuro il corpo di Pietro decapitato e contengono la pressione della folla. È questo un testo copto del VI sec. che si riferisce però ad avvenimenti del 312: Atti del martirio di S. Pietro, in H. Hyvernat, Les actes des Martyrs de l’Egypte tirés des manuscrits coptes de la Bibliothèque Vaticana, ed. E. Leroux, Paris 1977. Un’interessante pista di ricerca si è aperta riguardo alla presenza di spoudei e philoponoi e alla loro eventuale organizzazione in confraternite in appoggio alla Chiesa ed in particolare legate al vescovo. A questo proposito cf. E. Wipszycka, Les confréries dans la vie religieuse de l’Égypte chrétienne, in Ead., Études sur le christianisme dans l’Égypte de l’antiquité tardive, (SEA 52), Inst. Patr. Augustinianum, Roma 1996, 57-278; F. R. Trombley, Hellenic Religion and Christianisation 370-529, 2 voll., ed. Brill, Leiden 1994, 2, 1-51. 2


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di Atanasio, avvenuto sotto l’imperatore Costanzo per opera degli Ariani, c’erano i monaci santi, le vergini consacrate e degli spoudaioi laikoi, uomini zelanti. E’ dunque probabile che Atanasio si sia servito di questa qualificazione con l’intento di far collocare al lettore tali eremiti all’interno della sua Chiesa, in uno schieramento unito e compatto. Antonio riflette sullo zelo ascetico di ognuno e osserva le diverse virtù degli asceti, proprio come la l’ape saggia che raccoglie e immagazzina4. Il fatto di non creare un legame formale tra Antonio ed il vecchio o gli eremiti potrebbe essere un’attenzione di Atanasio per sottolineare l’eccezionalità e l’unicità del suo protagonista che, in un certo senso, non aveva bisogno di imparare da nessuno. Già al tempo di Antonio esisteva un fenomeno monastico e dunque delle figure chiamate monachoi5 con cui probabilmente egli entrò in contatto, forse ricevendo qualche tipo di insegnamento, ma anche è quasi sicuro che non esistesse un rapporto più stretto e gerarchico tra coloro che per primi si allontanarono dalle città per dedicarsi all’ascesi. E’ probabile che gli eremiti cui si affiancò Antonio fossero meno “ortodossi” del suo biografo o meglio, meno legati e partecipanti alla vita e alle sorti della Chiesa egiziana anche se a quel tempo il rapporto tra eterodossia ed ortodossia era molto confuso e i confini delle due parti non così netti come sarebbero diventati in seguito. Piuttosto, sarebbe stato controproducente per l’azione politico-religiosa di Atanasio riconoscere l’esistenza di un sistema educativo e di una pratica cristiana in qualche modo alternativi a quelli istituzionali. Sono perciò molti i motivi che non rendono possibile né corretto ipotizzare che Antonio ebbe un legame più solido con gli altri eremiti o che addirittura ebbe un maestro o un padre personale, sia la condizione storica di questo monachesimo delle origini, sia il confronto con le altre fonti antoniane. In nessuna fonte emerge, dunque, un quadro più definito su questa ipotetica gerarchia del deserto fondata sul possesso di un sapere o di carismi e concretizzata in un rapporto fatto di obbedienza, insegnamenti e trasmissione dei carismi stessi. Il Signore lo custodiva per l’utilità nostra e degli altri, affinché egli diventasse per molti un maestro nell’ascesi che aveva appreso dalle Scritture. In effetti molti, soltanto a vedere il suo modo di vivere, si sforzavano d’imitare la sua condotta (VA 46, 6.7).

Questa metafora è utilizzata da Atanasio per descrivere Antonio che si mette in ricerca di uomini diligenti, è un’immagine che si trova già in Prv. 6,8 dove è espresso un invito a osservare l’ape e imparare come è laboriosa; inoltre paragoni con le api e il miele sono frequenti nella letteratura patristica e monastica. A titolo di esempio si legge in Clemente che il suo maestro Panteno è definito “un’ape sicula”, che ha ottenuto il suo raccolto dalla coltura di profeti e apostoli; l’ape infatti ronza sui fiori di tutto un prato per ricavarne un solo miele (cf. Clemente, Stromati, I,6,33-36); i Padri della Chiesa greci ed orientali allargheranno i loro paragoni sulla base di Clemente; ne ricorderemo qui due esempi: le Institutiones di Cassiano, (V, 4,1-2), dove è scritto che l’ape prende il miele, cioè le virtù e le pone nel suo cuore e la Lettera 125 di Gerolamo, dove si legge che il monaco prende l’umiltà da uno, la pazienza da un altro, da un altro il silenzio e la mansuetudine da un altro ancora. 5 Cf. E.A.Judge, The earliest use of monachos for « monk » and the origins of monasticism, Jahrbuch für Antike und Christentum 20 (1977), 72-89. 4


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Antonio modello da imitare Lo strumento precipuo della crescita e dell’apprendimento da parte di Antonio dell’ascesi cristiana è dunque l’imitazione, l’imitazione dei modelli di cui si circondò in un processo descritto secondo le categorie tipicamente atanasiane di osservazione, emulazione e riflesso: Antonio si sforza infatti di mostrare tutto ciò che ha raccolto in se stesso. Egli è ancora figlio o fratello (VA 4,4), ma è amante di Dio, capace di dimostrare le sue virtù e di accrescerle se qualcun altro gliene fornisce l’occasione, intento a specchiarsi nell’immagine di Elia; trascorre circa vent’anni in solitudine, mentre molti lo tormentano per farsi curare, per ammirare, emulare e tentare di eguagliare gli esercizi di un uomo ormai purificato ed integro. E’ un asceta che vive solo, riluttante a mostrarsi in pubblico poiché sa di essere un mero strumento nelle mani di Dio, ma forte abbastanza da resistere alle tentazioni e agli inganni del demonio. Antonio ha osservato ed imitato diversi modelli ed è quindi pronto per essere imitato, riconoscibile dallo straordinario equilibrio della sua anima, del suo viso, dal suo essere governato, al modo di uno stoico, dalla ragione. La funzione di modello svolta da Antonio emerge fin dal prologo dell’opera, che fornisce delle informazioni utili sui destinatari e sul fine della lettura della Vita, vale a dire la narrazione a qualcuno che si trova in terra straniera, probabilmente a dei monaci, della vita di Antonio, degna di memoria, per poterla emulare. Antonio è proposto come modello di vita cristiana che, come tutti i santi, va imitato poiché è “esempio per l’ascesi degli anacoreti”. Antonio è stato un padre per i monaci che l’hanno conosciuto, ma anche può essere un modello per i lettori della sua Vita: il testo dunque è in un certo senso capace di una “direzione” nei confronti di chi in esso legge la vita di un grande santo. D’altronde il ricordo di Antonio è un grande guadagno anche per Atanasio, ed è la stessa utilità che arrivava ai monaci dalle parole di Antonio in persona. Anche il capitolo conclusivo della Vita che meglio riprende l’idea di strada da percorrere offerta dal testo stesso, per la virtù del suo protagonista che è di utilità agli altri, cristiani e pagani: lo scritto offre un modello, che susciti il desiderio di imitazione. Il corpus degli apoftegmi conferma l’importanza di vedere ed imitare Antonio: Tre padri avevano l’abitudine di recarsi ogni anno dal beato Antonio. Due di loro lo interrogavano sui pensieri e la salvezza dell’anima, uno invece taceva sempre e non chiedeva nulla. Dopo molto tempo abba Antonio disse: ecco, è tanto tempo che vieni qui e non mi chiedi nulla. E gli rispose quello: a me basta vederti, padre!6.

Ciò detto, bisogna però riconoscere che Antonio ebbe una funzione più tecnica che quella di “oggetto di imitazione”, instaurando un rapporto di paternità per i monaci che gli vissero accanto. Pertanto, si proverà a mettere in luce gli aspetti fondamen6

Cf. Alph. Ant. 27.


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tali del suo ruolo di padre, al fine di comprenderne le caratteristiche comuni anche ad altri padri spirituali, ma soprattutto quelle più personali che lo resero padre dei monaci per la tradizione monastica e più in generale cristiana.

Le virtù e i carismi di Antonio E se qualche volta ci importa conoscere il futuro, purifichiamo il nostro spirito. Io credo che un’anima interamente purificata e conforme al suo stato di natura può, divenuta chiaroveggente, vedere più cose e più lontano dei demoni, perché è il Signore a rivelargliele (VA 34, 2.3).

Il possesso di alcune precise virtù apprese all’inizio del suo percorso ascetico e che, a sua volta, vorrebbe insegnare ai suoi figli spirituali è il fondamento dell’esercizio di un ruolo autorevole nei confronti degli altri monaci. Esse sono le quattro virtù cardinali, ed inoltre l’intelletto, l’amore per i poveri, la fede in Cristo, la mansuetudine e l’ospitalità (VA 17,7), la tranquillità d’animo, lo zelo per l’ascesi, la disponibilità d’animo e l’umiltà7. Alcuni tratti distinguono nettamente Antonio dai suoi figli spirituali e dagli altri eremiti, in cammino verso la perfezione ma non ancora progrediti come lui: egli era ammirevole per la sua fede8 e per la sua pietà verso Dio (VA 93,4) e si distingueva dagli altri per la serietà di costumi, la calma (VA 36,4; 67,5.6) e la purezza dell’anima (VA 7,12; 14,3; 39,1; 60,11; 66,7; 67,5; 79,6; 89,6). Pur non essendo l’obiettivo della pratica dell’ascesi, condotta per piacere a Dio, tuttavia si dice che un’anima purificata -come quella di Antonio, è sottointeso- diventa chiaroveggente (VA 34, 23). Questa notazione è molto importante perché la chiaroveggenza9 diventerà un carisma precipuo dei padri spirituali: benché nella Vita non sia specificato come carisma, pare significativo il fatto che Atanasio riconosca che Antonio, come Eliseo, aveva un’anima chiaroveggente. Infatti c’è un carisma strettamente connesso alla purezza che è la capacità di attirare, con il suo volto pieno di grazia10, anche coloro che non lo hanno mai visto. Dal momento che la sua anima è priva di timore, ma

Cf. VA 67,1, dove si legge che Antonio era privo di malizia e umile. Anche nelle altre fonti emerge un Antonio carico di ogni sorta di virtù: nelle lettere è facilmente intuibile il valore dell’amore in particolar modo quello rivolto verso i figli spirituali, della capacità di controllare l’orgoglio e della pazienza; gli apoftegmi restituiscono un Antonio caratterizzato dall’amore per il prossimo, da cui dipendono la vita e la morte e dall’umiltà insegnate quale unica resistenza contro il demonio, dall’accondiscendenza verso i fratelli che bisogna essere pronti a perdonare ed infine dal discernimento, inteso come la capacità di trovare la giusta misura in tutto. 8 Cf. VA 68,1: qui è Atanasio che è chiaramente interessato a fare di Antonio un campione di fede ortodossa. La fede in Cristo è la prima cosa per ogni cristiano, come si legge in VA 14,6. 9 Cf. VA 34; 58,5; 59,3.6; 60; 86,7, dove ricorrono esperienze di rivelazione. 10 La grazia sul volto è un aspetto caratteristico dei martiri dei primi secoli, d’altronde si è già detto che il monaco è il nuovo santo cui tributare il culto, in sostituzione di quello dei martiri. 7


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colma di gioia e letizia e in perfetto equilibrio, anche il suo corpo, i suoi movimenti e il suo viso manifestano tale stabilità, poiché si può dire, citando i Proverbi, che «Quando il cuore gode, il volto è lieto. Quando invece è triste, anche il volto è triste» (VA 67,4.7). Il discernimento degli spiriti (VA 22,3; 38,5; 44,1; 88,1) è comunque il carisma principale posseduto da Antonio, uno dei frutti più importanti dell’ascesi, poiché il progresso nel cammino della perfezione è segnato da tappe successive, quali la capacità di conforto e cura, la chiaroveggenza, il discernimento e infine la contemplazione di Dio. Egli lo ha ricevuto dallo Spirito Santo e perciò non può trasmetterlo lui stesso ai figli spirituali, ma può indicare la via affinché essi arrivino a possederlo tramite la pratica dell’ascesi. Il fine del possesso di tale carisma è concreto: da un lato l’obiettivo è quello di comunicare agli altri ciò che l’anima ha acquisito sotto l’influenza del dono, che è comunque purificante e volto al raggiungimento della perfezione da parte di chi possiede il carisma, dall’altro lo scopo è la vittoria sui demoni al termine della lotta che accompagna l’ascesi. Antonio possiede infine un terzo carisma: «Aveva anche questo dono: seduto da solo sul monte, se era in dubbio su qualcosa che cercava, ciò gli veniva rivelato, nella preghiera, dalla Provvidenza divina» (VA 66,1). Questo dono da parte di Dio non è la preveggenza, ma è la possibilità di ricevere delle rivelazioni, strettamente connessa con la chiaroveggenza di un’anima divenuta chiaroveggente11. Sono necessarie la preghiera incessante e l’ascesi […]; noi che abbiamo avuto esperienza dei demoni, dobbiamo correggerci gli uni con gli altri per tenerci lontani da loro. Perciò io che li ho sperimentati in qualche modo, vi parlo come a dei figli (VA 22,3.5). Come giunse alle dimore degli eremiti fuori dalla montagna, tutti lo abbracciavano, considerandolo come un padre. Ed egli, come se avesse portato delle provviste dalla montagna, li nutriva e li rendeva partecipi di quanto aveva imparato (VA 54,6).

Si legge nella Vita che Antonio sovrintendeva a tutti come un padre (15,3; 54,8): egli può istruire gli altri raccontando il proprio vissuto personale ed è proprio la parola il mezzo privilegiato attraverso cui esercita la sua autorità, tanto che l’inizio della paternità spirituale di Antonio coincide con la sua capacità di usare la parola e di intessere lunghi discorsi per i monaci: Voi come figli portatemi qualcosa come ad un padre, dicendo ciò che sapete; ed io essendo più anziano per età, vi trasmetto ciò che so e di cui ho fatto esperienza (16,2).

Pur non essendo utilizzato il termine charisma, la capacità di Antonio di ricevere visioni o rivelazioni è sottolineata anche in altri passi, come il caso in cui al monaco è rivelato nella preghiera che uno dei due eremiti che si stanno recando da lui è morto e l’altro sta per morire (VA 59,3), o nel racconto della visione antiereticale (VA 82,3), o ancora quando si legge che egli godeva delle visioni delle cose divine, stando solo sul monte come un novello Elia (VA 84,2 dove si allude a II Re 1,9). 11


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La VA è interamente costruita su grandi discorsi che Antonio offre ai suoi monaci e sono numerose le occasioni nelle quali egli offre parole come veri insegnamenti (55,2) ed esortazioni a credere in Cristo, pregare, imitare i santi, mantenersi puri (54,5; 56,1; 66,7; 69,1; 82; 89). La paternità di Antonio fondata sull’esperienza di ascesi vissuta in prima persona non è dunque dimostrata solo dai fatti, e neppure si esercita soltanto attraverso l’esempio di vita o la convivenza ma, senza negare la presenza e l’importanza di questi aspetti più concreti12, sono i suoi verba il mezzo più efficace di esercizio di tale autorità. E’ vero che Antonio parla solo perché e dopo che ha avuto l’esperienza di lotta contro i demoni e di ascesi, esperienza personale che egli si accinge a raccontare per dimostrare la verità di ciò che dice (39,1), ma soprattutto può parlare poiché ha ricevuto la grazia dal Signore: « il Signore donò ad Antonio una grazia, nelle parole cosicché consolasse molti afflitti e riconciliasse altri che disputavano tra loro; diceva a tutti di non preferire nulla al mondo all’amore di Cristo.» (14,6); egli consola le persone tristi (50,7; 82,11; 87,3), riconcilia chi è in lite (87,3), persuade a compiere scelte di vita solitaria (14,7), accresce l’ardore di chi è già monaco attraverso il fascino di ciò che dice (15,2.3). L’effetto delle parole di Antonio è immediato: tutti i monaci gioiscono e crescono nel desiderio di virtù, esortandosi alla fede l’uno con l’altro e ringraziando il Signore (44,1-4; 54,7; 56,2; 72,4). In virtù dei suoi discorsi « tutti erano decisi a disprezzare i sotterfugi dei demoni ed ammiravano la grazia del discernimento degli spiriti che il Signore aveva concesso ad Antonio» (44,1). Egli li rende partecipi del suo guadagno, coinvolgendo sia gli eremiti sia la gente che arriva da lontano, per la quale anche soltanto il ricordo di lui è di conforto (88,3). I monaci vogliono da lui un discorso ed egli si appresta a pronunciarne uno poiché, dice Atanasio, pur essendo le Scritture sufficienti all’istruzione, è un bene incoraggiarsi a vicenda, esortarsi nella fede e “ungere l’animo con discorsi” (16,1). I discorsi di Antonio sono un viatico che egli offre ai monaci; lo stesso nutrimento che Antonio aveva a sua volta ricevuto attraverso l’esempio dei suoi modelli, è ora egli stesso ad offrirlo con le parole rendendoli partecipi di un grande guadagno (54,6). All’interno degli apoftegmi si trovano anche delle riflessioni sul giusto uso della parola, sulla capacità di dominare la lingua13 e fare silenzio, quando è opportuno14; in un detto si pone come fondamento del progresso morale il precetto di Deut.32,7: «Ho visto dei monaci, dopo molte fatiche, cadere e perdere il senno, perché avevano riposto fiducia nelle loro opere e avevano trascurato quel precetto che dice: Interroga tuo padre ed egli te lo annunzierà»15, secondo cui l’anziano deve essere interrogato16 e a

Si ricordi l’importanza dell’osservare Antonio e delle visite fatte da parte di Antonio ai monaci e viceversa. 13 Cf. Alph.Ant. 6. 14 Cf. Alph.Ant. 30. 15 Cf. Alph.Ant. 37. 12


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lui si deve confidare tutto, perfino quanti passi uno fa e quante gocce d’acqua beve17. Il fine più specifico e tecnico è senza dubbio l’acquisizione della discrezione degli spiriti donata dallo Spirito Santo come si evince anche dalle lettere, dove però Antonio non dà alcuna disposizione degli strumenti attraverso cui raggiungere il possesso di tale facoltà, ma prega affinché i suoi figli la ricevano da Dio; il discernimento è infatti un dono elargito dall’alto, insieme alla sapienza del cuore18. Più in generale la vera essenza della paternità di Antonio risiede nell’utilità pratica19, caratteristica tipica della paternità spirituale e molto importante perché potrebbe essere uno degli aspetti discriminanti che differenziano il padre spirituale dal maestro, in quanto quest’ultimo è interessato piuttosto ad una crescita interiore ed intellettuale del suo discepolo. L’immagine che mette meglio in luce l’utilità pratica di cui possono giovarsi i figli spirituali di Antonio, è quella del medico: egli è il medico dell’Egitto (VA 87,3) e infatti i suoi discorsi sono accolti come una medicina (VA 56,2)20.

I destinatari della paternità di Antonio Dopo qualche giorno, egli ritornava alla montagna. Molti, da allora, andavano da lui. [...]. Questi precetti donava a coloro che venivano trovarlo. Aveva compassione dei malati e pregava per loro. Spesso, in molti casi, il Signore lo ascoltava (VA 55,1; 56,1). Giunto allora alla montagna interiore, là dove dimorava abitualmente, dopo pochi mesi si ammalò. Chiamò i suoi due compagni, che abitavano con lui nella parte interna del monte e che da quindici anni praticavano l’ascesi e lo servivano poiché era molto anziano e parlava con loro (VA 91,1).

Nella biografia atanasiana i discorsi di Antonio sono rivolti ad un gruppo di monaci ed anche le sue epistole sono indirizzate ad una colonia di eremiti e non ad un sin-

Si confronti con quanto detto a proposito dell’opera di Atanasio, dove Antonio è più spesso interrogato o supplicato di parlare. 17 Cf. Alph.Ant. 38. Hausherr cita questo apoftegma come esempio di manifestazione dei pensieri! Hausherr, Penthos. La doctrine de la componction dans l’Orient chrétien («Orientalia Christiana Analecta» 132), Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1944, 82-83. Accanto all’importanza della parola, nella spiritualità monastica emerge anche la centralità del valore del silenzio: è nella sua preghiera che il monaco chiede al Signore che lo protegga dalla sua lingua, quasi essa avesse un potere indipendente che in effetti lo rende peccatore e lo fa vacillare tutti i giorni. (Alph.Sisoes 5). Anche un padre come Arsenio d’altronde dirà di non essersi mai pentito di tacere, ma piuttosto di aver parlato: un buon padre sa offrire parole utili, di conforto e salvifiche, ma sa anche in che circostanze è opportuno tacere. Poemen tace, per non peccare di stoltezza o per rispetto di chi è più anziano, pur possedendo, esattamente come Antonio, il carisma della parola: Alph.Poemen 108 (Guy 110). Anche quest’ultimo, d’altronde, è spesso restio a parlare per la sua umiltà. 18 Cf. (G) Ep. 4,5. 19 Cf. VA 22,4; 45,4; 46,6; 54.6; 62,1; 66,7; 87,2.-6; 88,2.3; 94,1. 20 Secondo il pensiero sviluppato già nella filosofia pagana il saggio aveva il potere di guarire le anime. Tale metafora fu ripresa e rinnovata in ambito cristiano dove medico d’anime e corpi è Gesù Cristo. 16


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golo come spesso succederà nel monachesimo posteriore, mentre sono pochi gli elementi che riconducono ad un rapporto più intimo con qualche monaco. Uno spunto di riflessione è offerto dal prologo della Vita, dove, dopo il riferimento al fatto che il manoscritto di Atanasio deve essere spedito per nave, si parla di notizie su Antonio «apprese da colui che l’ha frequentato assiduamente e che versava l’acqua dalle sue mani». La seconda parte dell’espressione è un rimando biblico che riprende, anche dal punto di vista lessicale, il rapporto tra Elia ed Eliseo (cf. 2Re 3,11) e che dunque nel nostro testo rafforza l’intensità del legame tra i due, poiché il versare l’acqua dalle mani di qualcuno è segno di rispetto e servizio. È importante che Atanasio parli di qualcuno che era strettamente legato ad Antonio: il verbo usato per la sequela è il medesimo che è usato nel NT per indicare la sequela di Cristo da parte degli apostoli21: un verbo di forte valenza, che designerebbe un rapporto molto stretto tra Antonio e questo discepolo. Poco interessa se sia lecito identificare questo personaggio con Serapione di Thmuis, che compare solo altre due volte nella VA come testimone di una visione di Antonio e quando il suo maestro sta per morire (82,3; 91,9), momento in cui, insieme ad Atanasio è prescelto come erede della pelle di pecora di Antonio; emerge palesemente l’intenzione del biografo, interessato a sottolineare che è stato proprio lui stesso insieme ad un altro vescovo a raccogliere l’eredità fisica e spirituale di Antonio22. Lo stesso verbo è usato in un passo in cui si fa riferimento agli eremiti che erano con Antonio sulla montagna (82,2): il fatto stesso che Atanasio ricordi che Antonio e gli eremiti si trovavano su una montagna, farebbe pensare ad un rapporto particolare, in un certo senso vicino a quello evangelico di Gesù con i suoi apostoli. Inoltre, senza voler rendere l’Antonio di Atanasio soltanto un esempio “spersonalizzato” di imitatio Christi, occorre notare come in tutta l’opera il protagonista rievochi con azioni e parole la vita terrena di Gesù, così come è narrata nei Vangeli: emerge infatti una forte somiglianza con l’apostolato evangelico, nel fatto stesso che egli abbia una cerchia di discepoli, che li ammaestri parlando, spesso rimanendo su una montagna. In uno dei capitoli conclusivi della VA si accenna a due discepoli che sono stati con Antonio per quindici anni e lo hanno servito; essi ebbero un legame più profondo di quello instaurato da Antonio con altri monaci, ma i particolari forniti dalla fonte non permettono di spingersi oltre.23

Il verbo è utilizzato, all’interno del NT, solo nei Vangeli, in riferimento al seguire Cristo, nel senso di partecipare alla salvezza da lui offerta, ma anche di una comunione totale di vita, nella condivisione di successi e sofferenze. Chi si mette al seguito di Gesù, partecipa al suo destino. Per una riflessione in senso tecnico del verbo, rimandiamo al saggio di M. Hengel, Sequela e carisma, («Studi biblici» 90), Paideia, Brescia 1990. 22 Anche questo gesto allude ad un gesto che compì Elia con Eliseo: cf. 4Re 2,13ss. 23 Le uniche altre notizie che abbiamo su di loro, sono quelle di Palladio che identifica i due discepoli con Macario ed Amata: cf. HL, 21,1. 21


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Negli Apophthegmata sono nominati dei gruppi di fratelli, ma in alcuni casi si legge di un monaco che interrogò Antonio; tuttavia, ciò che dice l’abbas non è rivolto in un’occasione particolare, ad un monaco specifico, ma è applicabile universalmente e inoltre nulla fa presagire un rapporto particolarmente intimo di questi monaci con Antonio: Poemen fu monaco a Scete, Pambo fu chiamato a sostenere la causa atanasiana ad Alessandria con Antonio, ma per tradizione fu discepolo di Amun di Nitria, di Ammonas si dice che conosceva le abitudini di Antonio e forse potrebbe avere avuto un contatto più stretto con il monaco, ma di nuovo nei testi nulla è aggiunto a sostegno di tale ipotesi. È necessario cercare altrove testimonianze che restituiscano un padre più strettamente legato ai suoi figli spirituali: nei detti e nell’Historia Lausiaca24 di Palladio si parla di Paolo il Semplice, “suo discepolo” che si reca da Antonio per apprendere la vita eremitica attingendo dallo stile di vita quotidiano del monaco. Antonio sottopone Paolo ad una dura prova per valutare la sua costanza e la sua resistenza, poichè il discepolo potrà diventare un monaco soltanto dopo aver superato tale periodo di sperimentazione. Inoltre, dopo aver abitato da solo un anno, facendo esperienza dei demoni, come aveva fatto Antonio, Paolo riceve la grazia di lottare contro di essi e addirittura un carisma diverso da Antonio. Le notizie riguardanti Paolo sono confermate dall’Historia Monachorum (HM, 24), dove si legge che è un’obbedienza assoluta nei confronti di Antonio a permettere a Paolo di ricevere da Dio la grazia di scacciare alcuni demoni che neppure Antonio è in grado di allontanare: Paolo riceve la grazia che gli spetta grazie all’osservanza, faticosa ma costante dei precetti del suo padre spirituale. Secondo il medesimo testo, Pityrion fu un altro discepolo di Antonio (HM, 15) che si era stabilito sul monte Pispir dopo Antonio ed Ammonas25. Egli, per terzo, era succeduto ad Antonio

Paolo è il protagonista del cap. 22 di HL dove è messo alla prova duramente da Antonio. Come ho già messo in luce nell’articolo precedente in questa stessa rivista (Mc. Giorda, Alla base della pedagogia monastica: le tecnologie del sé nell’Egitto del IV-V secolo, in Rivista Lasalliana 77/2 (2010),215-226, Ammonas è autore di un corpus di lettere indirizzate ai suoi figli spirituali; si noti come le lettere appartengano a uno dei generi letterari privilegiati per la pratica della direzione spirituale: il fatto che siano indirizzate ad una collettività e mantengano un tono e dei contenuti adattabili ad un gruppo eterogeneo di persone, è il segno di una riflessione e rielaborazione da parte di un padre consapevole della sua responsabilità. Questo farebbe pensare all’esistenza di una direzione letteraria, il cui strumento è lo stesso genere letterario dell’epistolografia: pur riconoscendo una certa originalità delle lettere di Ammonas, rispetto ai pochi scritti simili, presenti nella letteratura monastica, è anche vero che esse possono vantare illustri precedenti nelle epistole esortative, contenenti istruzioni filosofiche ed etiche rivolte da un maestro, un padre o un anziano, quali le lettere di Epicuro ai discepoli e quelle di Seneca destinate a Lucilio, ma di portata universale nella classicità e l’epistolario paolino in ambito cristiano. Per queste ragioni, sarà solo la lettura delle fonti posteriori che ci permetterà di comprendere l’evoluzione e la specificità dell’epistolografia educativa nella letteratura cristiana ed in particolare monastica, e il suo uso, ammesso che ciò avvenga, come strumento di direzione del singolo individuo.

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in quel luogo: quest’espressione sembra infatti far riferimento ad una vera e propria successione, una successione pratica testimoniata invece con maggiore sicurezza solo successivamente e solo in ambito cenobitico26. Pityrion avrebbe avuto, tra gli altri, il potere di scacciare i demoni, avendo ricevuto in eredità i carismi dei suoi predecessori: sembrerebbe infatti esistere un legame tra la successione di Ammonas, che si stabilisce nello stesso luogo dove abitava Antonio e la ricezione degli stessi carismi, quasi l’uno legittimasse e rendesse possibile, a buon diritto, l’altro. Infine i detti lasciano intendere che Macario visitò Antonio in diverse occasioni27; nell’Historia Monachorum (cf. 21) Macario è discepolo di Antonio e come lui compie guarigioni e segni; Macario è infatti l’erede di Antonio, poiché ha ricevuto lo spirito di Antonio, secondo le stesse parole del padre dei monaci28. Anche in questo caso, senza dubbio quella dell’Historia Monachorum è una reinterpretazione posteriore del legame di Antonio e Macario, sia per il carattere straordinario della discesa dello spirito di Antonio sia per la volontà di creare collegamenti tra i monaci, al fine di legittimare la loro autorità. Sembra infatti più probabile che Macario raccolse l’eredità di Antonio, ma non in modo immediato e diretto, al punto da poter parlare di un vero rapporto di discepolato tanto più che in tutta la letteratura degli apoftegmi l’unico ad essere insignito dell’appellativo di “portatore di spirito” (pneumatophoros) insieme ad Antonio è Macario: tale investitura gli dona un’autorità in un certo senso pari a quella di Antonio o per lo meno legittimata allo stesso modo.

Conclusione Il rapporto di Antonio con i suoi modelli si fonda prettamente sulla imitazione, mentre è più problematico definire ed enucleare i tratti principali del legame del monaco con i suoi figli spirituali. Antonio è un padre per gli altri monaci e ciò che caratterizza la sua funzione di guida sono i discorsi e le sue lettere, parole indirizzate a un gruppo di monaci, basate sulla sua personale esperienza e volte all’utilità prati-

Il rapporto di successione tra Pacomio, Teodoro ed Orsiesi sarà un tema fondamentale nella trattazione del discepolato nei monasteri pacomiani. 27 Una volta Macario si reca sul monte da Antonio il quale, con la stesse maniere dure già viste nel caso di Paolo il Semplice, lo lascia fuori dalla porta, poi lo fa entrare per la sua pazienza ed infine gli permette di lavorare le foglie di palma per intrecciare una cesta mentre parlano della salvezza dell’anima. La chiara corrispondenza con il cap. dell’HL già commentato, al di là di quale episodio dipenda dall’altro, mostra il suo carattere di stereotipo; più che sottolineare i talenti di Macario infatti è interessante la scena in sé, per gli elementi della durezza del padre e della sopportazione del figlio spirituale e del lavoro svolto insieme ed unito al discorso spirituale, due cardini di un rapporto di discepolato. 28 Notiamo come tale investitura dello spirito era già avvenuta nel cap. VII, dove è scritto che lo spirito del profeta Elia si è posato su Elia monaco secondo il dettato biblico di Is. 11,2 e I Pt. 4,14, in cui il soggetto è lo Spirito di gloria e di Dio 26


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ca. Antonio possiede delle virtù che ha imparato all’inizio del suo percorso ascetico e che a sua volta trasmette e tenta di insegnare agli altri monaci, ma si distingue per il possesso dei carismi, quali la facoltà di ricevere visioni e rivelazioni, di attrarre gli altri con la grazia del suo volto dovuta ad un’anima pura e chiaroveggente, ma soprattutto il suo carisma peculiare è il discernimento degli spiriti, nel senso della capacità di distinguere le diverse tipologie dei demoni; non si fa però alcun cenno ad una possibile trasmissione dei carismi o del sapere dal maestro al discepolo. Antonio incarna insomma il modello di vita dell’imitatio Christi e vuole insegnare ai suoi discepoli a fare altrettanto, cioè a praticare rettamente l’ascesi al fine del raggiungimento della perfezione e del concreto obiettivo di vittoria sui demoni. Gli interessi del vescovo alessandrino autore della biografia, pesano, senza dubbio, sull’immagine di Antonio trasmessa e infatti Atanasio esprime l’eccezionalità di Antonio, modello per il presente e per il futuro, descrivendo l’esercizio di una paternità carismatica, autorità fondata essenzialmente sul dono della discernimento degli spiriti. Tale ruolo di Antonio nei confronti dei suoi discepoli è fondamentale in tutta la sua complessità proprio perché getta le basi per il rapporto tra maestro e discepolo che andrà definendosi e poi istituzionalizzandosi nel monachesimo successivo.


RivLas 78 (2011) 1, 31-37

La scuola nella storia dell’Unità d’Italia

Tradizione e cultura ebraica in Italia tra Otto e Novecento Educazione e strutture scolastiche TERESA SALZANO

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el 1861, anno della proclamazione del Regno d’Italia, l’analfabetismo generale degli Italiani raggiungeva il 64,5%, mentre quello degli Ebrei italiani era solo del 5,8%. Il cenno a questa scarna eloquenza dei numeri è solo per introdurre il mio discorso intorno al livello di istruzione, alle istituzioni scolastiche ed educative ebraiche, nonché al contributo degli ebrei per elevare il livello culturale e sociale della nazione che stava faticosamente raggiungendo l’unità e l’indipendenza politica a seguito delle lotte risorgimentali. Questi semplici dati statistici servono infatti a spiegare, almeno in parte, la meravigliosa fioritura di scritti e di iniziative pratiche che, ad opera di pedagogisti, educatori, scrittori, editori, benefattori e filantropi (come allora si diceva) contribuì in modo notevolissimo - e, vorrei dire, assolutamente sproporzionato alla scarsa consistenza numerica dell’Ebraismo italiano - ad elevare il tenore dì vita della popolazione, Nel gran crogiolo delle diverse etnie che componevano il mosaico della penisola, dal Piemonte alla Sicilia, con abissali disparità nelle tradizioni e nei dialetti, tra le diverse culture locali la componente ebraica, nella seconda metà dell’Ottocento, si rivelò più matura e preparata, rispetto alla classe intellettuale e dirigente italiana e precorse, spesso di decenni, con l’apporto anche finanziario di privati cittadini, leggi e provvedimenti governativi che avrebbero dovuto risolvere i più urgenti problemi, la cui portata era indicata con efficacia dal noto aforisma di Massimo D’Azeglio: “L’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”. La disponibilità ad occuparsi fattivamente degli aspetti generali più gravemente deficitari della nazione, in una minoranza come quella ebraica che, nella prima metà


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del secolo aveva dovuto affrontare enormi problemi psicologici e pratici derivati dalla parificazione giuridico-sociale, è un fenomeno che ha del prodigioso e Attilio Milano, nella sua Storia degli Ebrei in Italia1, tenta di spiegarlo, attribuendo ad una specie di eredità inconscia, ad un’innata predisposizione favorevole che si era andata maturando nei secoli della segregazione e dell’isolamento, attraverso l’abitudine alla meditazione ed allo studio, l’osservanza di sane norme di vita, dettate dalla Bibbia, l’istituzione ed il funzionamento di complesse e ben articolate forme di assistenza sociale (Confraternite e Talmùd Toràh) e soprattutto il senso della giustizia e l’allenamento alle sofferenze ed alle sventure che, invece di infiacchire gli animi, li aveva temprati e resi sensibili ai bisogni ed alle sofferenze degli altri. Di tutti questi fattori, vorremmo prendere molto rapidamente in esame le istituzioni scolastiche ebraiche che, precorrendo di secoli le leggi sull’obbligo scolastico, avevano fatto dell’alfabetizzazione e della cultura non un privilegio per pochi fortunati, ma un diritto-dovere democraticamente esteso a tutti, senza differenze di censo o di classe sociale. Sergio Della Pergola2 apre così il capitolo sulla Scuola ebraica: “L’importanza tradizionale assunta dall’educazione, presso gli Ebrei è attestata dal fatto che il nome originario dei cinque Libri del Pentateuco è Toràh che, in ebraico, significa insegnamento. Scopo essenziale di tale insegnamento è di regolare la vita dell’individuo ebreo indicandogli in ogni azione quotidiana un modello ideale di comportamento che può definirsi santità”. E più avanti nota che, in molte comunità, incluse quelle italiane (ed io aggiungo: anche nella comunità veneziana) il termine “scuola” indica anche la Sinagoga che non è soltanto luogo di preghiera, ma anche di assemblea e di studio. Fino al momento dell’emancipazione, i nuclei ebraici italiani, come quelli delle altre regioni europee, si erano retti sui principi del Diritto talmudico che regolava tutta la vita della comunità: dalle norme del culto all’esercizio della giustizia, dalla riscossione delle tasse, all’istruzione nelle scuole di ogni livello che prendevano il nome di Talmùd Toràh (studio della Toràh), erano gratuite per i poveri e si suddividevano in tre gradi: preparatorio (che raccoglieva i bambini, maschi e femmine, a partire dal terzo anno di età), primario e secondario. Il corso primario durava quattro anni e comprendeva il leggere e lo scrivere in ebraico e in italiano, il far di conto, la lettura del Pentateuco e dei Profeti, i più facili commenti biblici, l’apprendimento del servizio rituale e dei canti sinagogali. Il secondo grado degli studi (Hesgher, internato) durava da tre a quattro anni e comprendeva lo studio della Bibbia, del Talmùd, dei commenti rabbinici, oltre alla grammatica ed alla letteratura italiana. Raramente figuravano, come materie collaterali, il latino, la

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Einaudi, Torino 1963. Anatomia dell’Ebraismo italiano, Carucci, Roma 1976.


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musica e il ballo. Infine c’erano le Yeshivòt (accademie rabbiniche), i cui studi si articolavano in quattro anni, per coloro che si avviavano alla carriera rabbinica. Peraltro, queste complesse strutture scolastiche, interne alle comunità, entrarono in crisi e persero gran parte del loro ruolo e della loro fisionomia quando, in seguito alle note vicende politiche, si giunse all’abolizione dei ghetti e le “Università degli Ebrei” (com’erano allora chiamate le comunità israelitiche), si trovarono nella necessità di adattare le proprie istituzioni sociali e amministrative all’ordinamento e ai principi degli stati moderni, nell’ambito dei quali erano venute a trovarsi. I gruppi ebraici più strettamente conservatori cercarono di mantenere immutata la propria organizzazione interna e si isolarono dalla realtà sociale che lì circondava; altri gruppi preferirono sostituire alle loro istituzioni, i servizi che lo stato laico offriva a tutti i cittadini, giungendo così ad una rapida dissoluzione della vita comunitaria. Tra questi due estremi, si posero invece quelle Comunità che, ispirandosi alle correnti dell’Illuminismo ebraico sorte nell’Europa centrale all’inizio del XIX secolo, si sforzavano di conservare una vita sociale autonoma adattando le proprie istituzioni alle basi giuridiche e all’ordinamento amministrativo dell’epoca. Tale fu l’orientamento della comunità ebraica di Padova, che in questa fase di transizione si distinse tra le altre comunità italiane per la serietà e la saggezza del suo ordinamento amministrativo, il cui Regolamento provvisorio (del 1829) fu rielaborato nel 1841 da Samuel David Luzzatto, il più autorevole degli ebrei illuministi italiani. Il suo nome è legato alla nascita ed allo sviluppo dell’Istituto Convitto rabbinico di Padova, il primo d’Europa, fondato nel 1829, per volontà dell’imperatore d’Austria, Francesco I. I benefici effetti di tale istituzione si fecero sentire in tutta la metà del XIX secolo, perché, dalle fila dei suoi allievi, uscirono rabbini e intellettuali che contribuirono in modo determinante al superamento della crisi della coscienza religiosa e culturale ebraica. Tornando al Regolamento della Comunità di Padova, si nota che, già nella sua prima stesura, prevedeva la carica di due Commissari alla pubblica istruzione religiosa e morale e che, nel testo del 1841, figurava, per la prima volta, una Commissione promotrice dell’ammaestramento nelle Arti e Mestieri che ricevette vigoroso impulso morale e finanziario ad opera del rabbino David Graziadio Viterbi. Il compito di tale Commissione era di indirizzare i giovani delle famiglie più modeste ai mestieri manuali e artigiani, sottraendoli al parassitismo o al commercio ambulante. I ragazzi venivano collocati, in varie officine, presso esperti maestri che provvedevano alla loro formazione artigiana, religiosa e morale. Quindici anni dopo, nel 1856, il rabbino Graziadio Viterbi riuscì a realizzare un’iniziativa più organica e completa, nell’ambito dell’educazione femminile. Nella raccolta dei suoi sermoni, troviamo un discorso sull’educazione della donna (25 gennaio 1852) ed un’allocuzione da lui pronunziata (24 gennaio 1856) nella sua qualità di Presidente del Consiglio d’Amministrazione, in occasione dell’inaugurazione


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del “Pio Istituto d’educazione e d’asilo delle fanciulle israelite”, successivamente chiamato “Istituto Castelfranco” dal nome del suo principale benefattore, Jacob Castelfranco, il quale, morendo, aveva lasciato per testamento, a tale scopo, la quarta parte dei suoi beni, cioè 65 mila lire austriache. Il lascito fu poi integrato dall’apporto di altri benefattori, tra cui Gabriel Trieste che fece donazione della sua casa ad uso scuola ed asilo infantile. Lo scopo della Fondazione, come si legge nel primo articolo del regolamento, era di “promuovere gratuitamente l’educazione, il mantenimento e il collocamento in matrimonio di povere bisognose ragazze della Comunione Israelitica di Padova”. Successivamente vennero accolte nell’Istituto anche fanciulle di famiglie modeste, ma non indigenti, dietro versamento di una retta per il vitto, l’alloggio e il compimento degli studi. I programmi davano largo spazio ai lavori femminili e comprendevano, oltre all’insegnamento religioso, lettura, calligrafia, grammatica, aritmetica, comporre. Finora, sono state considerate le istituzioni educative gestite direttamente dalla comunità israelitica di Padova, durante la seconda metà del XIX secolo. Tuttavia, di tali iniziative poteva usufruire solo una minima parte delle ragazze e dei ragazzi ebrei. Infatti, dopo l’emancipazione, la maggioranza di essi aveva preso a frequentare le scuole pubbliche municipali o governative e ricorreva alle istituzioni della Comunità solo per lo studio specifico delle materie ebraiche: lettura della Bibbia, Storia sacra, Talmùd, lingua e grammatica ebraica, traduzione del Pentateuco e delle preghiere. Tale criterio, nello svolgimento degli studi, non poteva però trovare consenzienti le personalità ebraiche più consapevoli nel campo pedagogico ed educativo che, auspicando un ritorno alla scuola ebraica “a tempo pieno”, come si direbbe oggi, denunziarono a più riprese questa specie di frattura, di pericolosa dicotomia nel processo formativo dei bambini e dei giovani, aggravato da una sempre maggiore indifferenza verso i valori ebraici che si riscontrava nelle famiglie. Parallelamente a questo processo di assimilazione e di laicizzazione, gli intellettuali ebrei, spinti da motivazioni filantropiche e umanitarie, si occuparono, a titolo personale, dei problemi educativi e sociali più urgenti. Per brevità, mi limito a segnalare solo gli interventi più coraggiosi ed innovativi. I nuovi metodi froebeliani per l’educazione prescolastica furono introdotti per la prima volta in Italia da Adolfo Pick (1829-1894), di origine boema, che perciò occupa un posto importante nella Storia della pedagogia italiana. Sulla sua scia, nel 1874, Adele Levi Dalla Vida fondò a Venezia il primo Giardino d’Infanzia dove veniva applicato tale metodo. Se ne fece energico diffusore, successivamente, l’ingegnere Vittore Ravà. Per questi suoi meriti, nel 1919 gli venne conferito il premio della didattica dell’Accademia dei Lincei. Nel 1870, il ferrarese Augusto Lampronti creò la prima istituzione per l’istruzione elementare dei carcerati. Il torinese Pacifico Ghiron si dedicò alla prevenzione della delinquenza minorile. A Milano, Gioconda Sorani Pinzi (1858-1904) fondò un asilo sperimentale per maestre giardiniere e introdusse il lavoro manuale nelle scuole. Sempre a Milano, nei primi anni del ‘900, con un lascito di Prospero


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Mosè Loria, morto dieci anni prima, nacque la Società Umanitaria (realizzata da Augusto Osimo), con un programma di istruzione e di educazione del popolo e della classe operaia in Lombardia e nelle Venezie. La fiorentina Aurelia Josz, nel 1902, fondò la prima scuola pratica di agricoltura femminile a cui fece seguito, nel 1921, il primo corso magistrale agrario per maestre rurali. Un discorso a parte meriterebbe il veneziano David Levi Morenos a cui si devono istituzioni come la “Scuola libera popolare”, nata nel 1894, con un programma di conferenze, corsi di aggiornamento, visite e gite guidate, nonché la nave-scuola o (come allora si diceva) la nave-asilo “Scilla”, per raccogliere ed educare alla vita marinara, orfani della gente di mare e fanciulli moralmente o materialmente abbandonati. Questa iniziativa si inseriva in un più vasto disegno che comprendeva un orfanotrofio ad Anzio, per accogliere i fanciulli al di sotto dei dieci anni non ancora addestrati alla vita di bordo, corsi speciali per i figli dei pescatori, dai dodici ai sedici anni, istituiti a Chioggia, Pellestrina, San Pietro in Volta e Burano, e corsi per preparare i pescatori d’alto mare (per giovani maggiorenni) agli esami di abilitazione al comando di barche da pesca (titolo diventato obbligatorio per legge dal 1880, ma al cui conseguimento nessun ente pubblico provvedeva), nonché la scuola tecnico-professionale di Pesca e Acquacoltura di Venezia. A queste iniziative ed istituzioni sociali e scolastiche che, oltre alla dedizione, richiedevano largo impiego di mezzi finanziari, si affiancò l’opera di educatori e scrittori nel campo pedagogico-educatìvo fra i quali ricordo Erminia Foà Fusinato, Dino Provenzal, Emilia Formiggini Santamaria e Guglielmo Lattes, fratello maggiore del più celebre Dante Lattes e autore anche di un Cuore di Israele, racconto per fanciulli che, ricalcando le orme di Edmondo De Amicis, ricostruisce l’anno scolastico di un bambino ebreo seguendo le scansioni del calendario liturgico ebraico ed inserendo tutte le tematiche utili ad una organica e completa educazione ebraica. Questo caso, però, rimane isolato, in quanto gli altri autori ebrei per ragazzi si rivolgevano ad un pubblico indifferenziato e non affrontavano specifiche tematiche ebraiche. Notevole successo riscossero: Paola Carrara Lombroso (1872-1954), che scrisse per bambini ed adulti e che nel 1912 istituì le biblioteche rurali e fu ispiratrice dell’idea del Corriere dei piccoli del quale fu collaboratrice fissa con lo pseudonimo di Zia Mariù; Augusto De Benedetti, torinese, prosatore e poeta, autore di Affetto (altra imitazione del libro Cuore) e di Antologia zoofila, che mirava a infondere nei fanciulli l’amore per gli animali; e ancora Virginia Treves Tedeschi (Cordelia), Laura Orvieto Cantoni, Lina Schwarz. Nel campo delle pubblicazioni per fanciulli e adolescenti, gli editori ebrei di questo periodo possono essere considerati degli autentici scopritori di talenti: basti pensare che pubblicarono per primi le opere più significative, destinate poi a diventare classici della letteratura per l’infanzia: a Firenze, Paggi fu editore del Giannettino e di Pinocchio, che comparve prima a puntate sul Giornalino dei Bambini (supplemento del Fanfulla della Domenica), Treves fu l’editore del Cuore di De Amicis e Bem-


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porad del Giornalino della Domenica e degli scritti di Vamba (Luigi Bertelli), autore del Giornalino di Gian Burrasca. L’elenco potrebbe continuare, ma penso siano sufficienti questi nomi per attestare le benemerenze ebraiche nel campo pedagogico ed educativo. L’affermazione di tante personalità nella sfera civile e culturale è un indice molto chiaro del nuovo clima che stava permeando la società italiana tra Ottocento e Novecento. Nel nome di una comune umanità, si tendeva laicamente ad abolire o ad ignorare le differenze ideologico-dottrinali che avevano costituito, in passato, l’elemento discriminante per tutte le minoranze, non solo per quella ebraica. Ma per mettersi su di un piano di parità, per arrivare ad una pacifica convivenza e collaborazione con la maggioranza, era forse necessario confondersi con essa, rinunziare alle proprie tradizioni religioso-culturali? Era appunto questo il fenomeno che si stava verificando in seno all’Ebraismo italiano, sotto la spinta delle correnti di pensiero razionalistiche e positivistiche. La coscienza dell’appartenenza ad un diverso ceppo etnico-religioso-culturale non era scomparsa dagli ebrei italiani, ma, di fatto, come nota Attilio Milano, essi avevano totalmente perduto i rapporti con la genuina tradizione ebraica e l’individualismo imperante aveva allentato in essi il senso comunitario. Tuttavia, nel generale processo di assimilazione, le scuole direttamente gestite dalle comunità israelitiche non si arresero alle difficoltà oggettive e continuarono con coraggio la loro azione di salvaguardia e di recupero dell’identità ebraica, cercando di armonizzare, fin dove era possibile, i programmi comuni alle scuole pubbliche con i contenuti specificamente ebraici. Ce lo attestano i risultati dì un’inchiesta, condotta nel 1911 da una commissione composta da Umberto Cassuto, Alfonso Pacifici ed Elia Artom, il quale, l’anno successivo, presentò un’ampia e documentata relazione al II Convegno giovanile ebraico di Torino. Tuttavia, tali scuole (fatta eccezione per Livorno e Torino) non andavano oltre il livello elementare e, nei casi più fortunati, della scuola media inferiore. Si sarebbe giunti alla scuola superiore ebraica, anche nelle comunità medie e piccole, come Venezia e Padova, solo in tristissime circostanze, nel 1938, dopo l’espulsione di insegnanti ed allievi ebrei dalle scuole statali. Fu quella la “causa di forza maggiore” che diede origine alla moderna Scuola ebraica italiana, come afferma Sergio Della Pergola, nel saggio sopra citato. Trascorso il periodo di emergenza, sopravvissero solo le scuole della fascia dell’obbligo, fatta eccezione per Milano, che conservò sempre il curriculum completo degli studi dalle elementari al liceo, successivamente esteso anche a Roma. Ma nel frattempo un altro evento di portata storica era venuto a mutare, questa volta in senso positivo, le sorti dell’Ebraismo, offrendogli la soluzione radicale dei problemi nei quali si era sempre dibattuto: la nascita dello Stato di Israele che rappresentava e rappresenta, per la diaspora, un modo di riconoscersi, un punto di riferimento oggettivo ed una garanzia per la propria identità. Il moderno Stato ebraico, infatti, con le sue istituzioni culturali, accademiche, sociali ed educative, consente il


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recupero integrale di tutto il patrimonio del passato e incanala le nuove energie per il futuro, assicurando a questo Popolo il diritto dì vivere in mezzo agli altri popoli con pari dignità e consapevolezza dei valori di cui è portatore3. Bibliografia Annie Cagiati, Che cosa sappiamo della religione ebraica?, Marietti, Casale M.to 1983. Riccardo Calimani, Storia del Ghetto di Venezia, Rusconi, Milano 1985. Umberto Cassuto, Storia della letteratura ebraica postbiblica, Carucci, Assisi-Roma 1976. Antonio Ciscato, Gli Ebrei in Padova (1300-1800), Cooperativa Tipografica, Padova 1901. Sergio Della Pergola, Anatomia dell’Ebraismo italiano, Carucci, Assisi-Roma 1976. Alfonso Di Nola, Antisemitismo in Italia (1962-72), Vallecchi, Firenze 1973. Riccardo Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche a cura dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, Sabbadini, Roma 1976. Salvatore Foà, Gli Ebrei nel Risorgimento italiano, Carucci, Roma 1978. Gina Formiggini, Stella d’Italia, stella di David. Gli Ebrei dal Risorgimento alla Resistenza, Mursia, Milano 1970. Franco Gioia, Pedagogia ebraica, Carucci, Assisi-Roma 1977. Dante A. Lattes, L’educazione presso gli Ebrei, in Aspetti e problemi dell’Ebraismo, Borla, Torino 1979. Guglielmo Lattes, Educazione e civiltà israelitica, Stab. S.Belforte e C., Livorno 1892. Davide Levi Morenos, La scuola libera popolare nel suo ottavo anno di vita, Tipografia Callegari e Salvagno, Venezia 1902. Davide Levi Morenos, Scuola veneta di Pesca e Acquacoltura, A.Camelli, Venezia 1905. Samuel David Luzzatto, Discorsi storico-religiosi agli studenti israeliti, Crescini, Padova 1870 Attilio Milano, Storia degli Ebrei in Italia, Einaudi, Torino 1963. Giuseppe Lazzaro Morpurgo, Della educazione e istruzione della gioventù israelitica, Tipografia del Lloyd Austriaco, Trieste 1846. Eugenio Saracini, Breve storia degli Ebrei e dell’antisemistismo, Mondadori, Milano 1977. Lea Sestieri, Gli Ebrei nella storia di tre millenni, Carucci, Roma 1980. Statuto organico del Pio Istituto Jacob Castelfranco in Padova, Sanavio e P., Padova 1898. David Graziadio Viterbi, Sermoni, Bianchi, Padova 1854-1856.

Articolo e selezione bibliografica sono tratti, con alcuni ritocchi redazionali, dal volume Coloro che ti benediranno io benedirò. L’ebraismo vivente visto da Teresa Salzano (1930-2008), a cura di Maurizio Del Maschio, Granviale editori, Venezia 2009 (vedi una breve presentazione in “Rivista lasalliana”, 4/2010, 706-707). Per un puntuale e documentato aggiornamento del tema in questione, cfr. Anna Foà, voce «Ebraismo della diaspora», in Dizionario del sapere storico-religioso del Novecento, a cura di Alberto Melloni, Società editrice Il Mulino, Bologna 2010, vol. 1, pp.797-810, con bibliografia.

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Nel centenario della morte

Dal “nuovo cristianesimo” di Tolstoj alla sua “passione educativa” EMILIO BUTTURINI

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roponiamo una riflessione (dentro e oltre i capolavori letterari) sul pensiero religioso e educativo-pedagogico di Leone Tolstoj (1828-1910), che Mohandas K. Gandhi (1869-1948) considerava come «uno dei suoi maestri» nella strada della “lotta nonviolenta”1, anche per ricordare il centenario da poco concluso della morte del grande scrittore russo e la fine del Decennio 2000-2010, proclamato dall’ONU «Decennio internazionale per la promozione d’una cultura di pace e di nonviolenza per i bambini del mondo».

Cenni su una vita che vale quanto l’opera letteraria e sulla sua “crisi” religiosa Della morte di Tolstoj, avvenuta nella piccola stazione ferroviaria di Astapovo (oggi Lev Tolstoj) all’alba del 7 novembre 1910, alla presenza d’una grande folla di discepoli e di “curiosi”, parla anche la moglie Sofija Andréjevna Bers (18441919), ricordandosi con amarezza nei Diari di averlo potuto vedere, insieme con alcuni figli, solo quando ormai era fuori conoscenza e «stava esalando gli ultimi

Vedi Prefazione di Gandhi alla Lettera a un indù di Tolstoj in P.C. Bori, G. Sofri, Gandhi e Tolstoj. Un carteggio e dintorni, Il Mulino, Bologna 1985, p. 219. Si è scritto “nonviolenza” con una sola parola, accettando la indicazione di A. Capitini (Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano 1967, p. 9) per attenuare l’accezione puramente negativa del termine e favorirne un’interpretazione positiva, così da avvicinarsi ai termini gandhiani ahimsa e satyagraha. 1


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respiri»2. Il conte Lev Tolstoj l’aveva sposata quasi mezzo secolo prima, il 13 settembre 1862, quando lui aveva 34 anni e lei 18 e dal matrimonio erano nati, fra il 1863 e il 1888, tredici figli e figlie, che lo fecero sentire per qualche tempo «felice e tranquillo marito e padre», come già in una lettera dell’autunno 1863 aveva scritto alla prozia Aleksandra Andréjevna Tolstaja (1817-1904)3. Successivamente, specie a partire dagli anni Settanta e Ottanta del 1800, era subentrata la crisi religiosa, che aveva contribuito a incrinare il rapporto coniugale, anche per una visione sempre più rigida e severa della sessualità da parte di Lev Tolstoj, che era portato a considerare il matrimonio come una «prostituzione legalizzata», fondato com’era più sull’attrazione fisica che sull’unione spirituale, fino a ritenere che le parole del Vangelo sul peccato commesso guardando una donna con desiderio vadano riferite «non solo alla donna d’altri, ma anche e soprattutto a nostra moglie», come scrive nel lungo racconto Sonata a Kreutzer del 18894. Certo, in quegli anni si era accentuata la sua “crisi” (“1881, anno della crisi” titola Viktor Sklovskij la quarta parte della sua magistrale biografia di Tolstoj5), ma non erano mancate in periodi precedenti profonde inquietudini religiose, che già fra il 1852 e il 1855 (gli anni del servizio militare, per i quali l’unica cosa buona che si aspettava era il congedo) l’avevano portato a parlare di una «religione di Cristo ripulita della fede e del miracolo, una religione pratica che non prometta la felicità futura, ma dia la felicità sulla terra»6. Questa religione avrebbe finito con il coincidere con l’idea della fraternità universale, che l’avrebbe poi orientato verso una decisa scelta dell’azione nonviolenta, «di evidenza geometrica» nel messaggio evangelico, che offre «quella comprensione del

2 Cfr. S. A. Tolstoj, I Diari (1862-1910), a cura di F. Ruffini e R. Setti Bevilacqua, La Tartaruga, Milano 1979, p. 292. 3 Questa parente, che egli per scherzo affettuoso chiamava “nonnina” o “zietta”, era in realtà la donna da lui più intensamente amata, destinataria di un gran numero delle sue lettere, dal 1857 al 1903, apparse anche in Italia, prima a cura di O. Resnevic Signorelli (Carteggio confidenziale con A. A. Tolstaja, Einaudi, Torino 1944?, p. 85 per la citazione puntuale) e poi, a cura di L. Radoyce, nei due volumi, con numerosi altri corrispondenti, de Le lettere di L. N. Tolstoj, Longanesi, Milano, 1977-1978 (pp. 309310, per la citazione dal I volume). 4 Cfr. in particolare il cap. 11 de La sonata a Kreutzer, trad. it., Passigli Ed., Firenze 1985, p. 34 per le citazioni puntuali. 5 V. Sklovskij, Leone Tolstoj, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1978, p. 411. 6 Vedi i suoi Diari, trad. it. Garzanti, Milano 1997 (2-4 marzo 1855), p. 85. Era il preannuncio delle “negazioni”, sempre più pesanti della sua “professione di fede”, che lo porterà nelle opere della sua “crisi religiosa” a rifiutare verità fondamentali del cristianesimo, fino a proporre – come dirà a «l’amico Léon la sua vecchia Bàbu?ka» Tolstaja in una lettera forte, severa, ma profondamente affettuosa, dell’agosto-settembre 1887 (Carteggio confidenziale, cit., pp. 195-199, 198-199, per le citazioni puntuali) - «un vostro Vangelo abbreviato, che la vostra fantasia ha spogliato di così innumerevoli tesori», incapace di farsi carico delle «molteplici sofferenze della umanità». «Che cosa darete - gli domanderà - a coloro che gridano di dolore e a cui è indispensabile la conferma dell’amore e della potenza di Cristo per aumentare la fede nella Sua dottrina?».


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bene che è stata e sarà sempre uguale per tutti» e «che può essere sempre verificata» nel «sacrario dell’anima», per usare espressioni di Levin negli ultimi capitoli di Anna Karenina, specie in quello conclusivo. La centralità dell’amore del prossimo, fino ad amare come Cristo ha amato si legge anche nella professione di fede del principe Andrej morente in Guerra e pace (III, 3°, 32). «Respingere o attenuare - scriverà poi in un testo del 1893 Il Regno di Dio è in voi - l’assioma della uguaglianza dei raggi del cerchio è non comprendere cosa è il cerchio. […] respingere o attenuare nella dottrina di Cristo il precetto della non resistenza al male con la violenza, è non comprendere la dottrina»7. Non voleva egli negare la sopravvivenza personale ultraterrena, ribadita anche negli ultimi anni, ma affermare la “inaccessibilità” ora della forma di questa sopravvivenza e, soprattutto, la priorità pratica dell’amore del prossimo e dell’«intendimento della vita» (razumenie, che meglio si potrebbe rendere con “comprensione o conoscenza del senso della vita”), piuttosto che della sua “razionalizzazione”8. Italo Mancini, in un suo saggio su Tolstoj, rilevava quanto di illuministico e positivistico emergesse da questo “nuovo cristianesimo”, ribadendo - sulla scia della Lettera ai Romani di Karl Barth (1886-1968) - che la prassi cristiana «non è prodotta dalla razumenie e dalla autonoma decisione per il bene, ma è data dall’apriori divino, che irrompe, spezza, sequestra […], senza nessuna continuità ontologica, psicologica, storica con l’uomo reale, quello che mangia, beve e veste panni»9.

Cristiano eretico scomunicato, ma con “aperture” verso i poveri e verso l’ecumenismo Tolstoj però – sempre nel suo Vangelo (pp. 82-83) - era poco disposto a seguire non solo“l’Antico Testamento”, ma lo stesso san Paolo, che accusava di essere stato un «travisatore del cristianesimo», non avendo «compreso troppo bene la dottrina di Cristo» e di avere segnato l’inizio di un «Talmud cristiano». Queste ed altre sue posizioni, anche più decisamente radicali, come il rifiuto della «incomprensibile trinità», della «favoletta» del peccato originale o, ancor più della «sacrilega storia di un Dio nato da una vergine»10, portarono alla scomunica del Santo Sinodo russo del 20-22 febbraio 1901, a cui Tolstoj oppose fieramente la sua Risposta alla deliberazione del Sinodo del

Il Regno di Dio è in voi, già pubblicato da Bocca, Roma 1894, ora in riproduzione anastatica presso Publiprint/Manca, Trento-Genova 1988, pp. 100-101. 8 Cfr. L. N. Tolstoj, Il vangelo (trad. it. del testo del 1905, Breve esposizione del Vangelo), Quattro Venti, Urbino 1983, pp. 95-96. 9 I. Mancini, Scritti cristiani, Marietti, Genova 1991, specie pp. 39-41 e p. 60. 10 Cfr. L. Tolstoj, Indagine sulla teologia dogmatica del 1880, pubblicata a Ginevra nel 1891, che però non ho potuto consultare. Posizioni simili si riscontrano nei Diari, dove parla appunto di un suo articolo su «Paolo travisatore del cristianesimo» (22 maggio 1907, Ed. Garzanti cit., p. 533) e nelle Lette7


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4 aprile di quello stesso anno. Di particolare significato è la conclusione della Risposta: «Chi comincia con l’amare il cristianesimo più della verità, ben presto amerà la propria Chiesa o setta più del cristianesimo, e finirà con l’amar se stesso - la propria tranquillità - più di tutto al mondo, come disse Coleridge. Io ho seguito un cammino opposto. Ho cominciato con l’amare la mia fede ortodossa più della mia tranquillità, poi ho amato il cristianesimo più della mia Chiesa, e adesso amo la verità più di tutto al mondo. E finora la verità coincide per me con il cristianesimo, così come io lo intendo. E io confesso questo cristianesimo; e nella misura in cui io lo confesso, vivo in pace e con gioia, e in pace e con gioia mi approssimo alla morte»11. Accanto però al cristianesimo della razumenie persisteva con forza in Tolstoj un mondo visto «attraverso la porta spalancata di un’izba», la nostalgia del cristianesimo di tanta povera gente, fatto sì di tutti i miti e i riti delle ortodossie, con l’aggiunta anche di «ulteriori superstizioni», ma insieme di una grande fede, semplice e pacificatrice, come quella del soldato-contadino Platon Karataev, l’uomo che «non aveva amori, ma viveva con amore» e che prima di addormentarsi pregava Dio di farlo «giacere come una pietra» e di farlo «rialzare come una focaccia» (cfr. Guerra e Pace, IV, 1a, 12). Questo personaggio del suo grande romanzo era quasi un preannuncio del contadino V. Sjutaev che Tolstoj incontrò nel 1881 e poi frequentò più volte, colpito dal fatto che egli non ammetteva né riti né sacramenti, ma voleva essere autenticamente uomo di fede, cristiano senza chiesa, che viveva in una famiglia “indivisa”, dove tutto era comune ed immerso in un grande amore, esteso anche agli animali che si portavano al pascolo o che tiravano l’aratro12.

re, come in quella non inviata del 16-19 ottobre 1895 (Vedi Ed. Longanesi cit., II vol., pp. 227-239), nella quale scriveva, ad esempio, (p. 234): «Mi viene tramandato come qualcosa di antico e di ragionevole che Dio consiste nella Trinità, che Cristo è Dio, ecc. La mia ragione non accetta questo e io non considero queste “verità” come regole della mia vita». Analogamente in un testo, pubblicato la prima volta a Ginevra nel 1884, Confessioni (a cura di M. B. Luporini e P. C. Bori, Marietti 1820, Genova 1996, pp. 98-102) aveva parlato della “incomprensibilità” della Trinità, della Resurrezione di Cristo, dell’Eucarestia, ecc., motivi ben presenti anche nel suo ultimo grande romanzo Resurrezione, a cui lavorò dal 1889 al 1899. Vedi, ad esempio, il cap. 39 della I parte. 11 Per il testo della scomunica e la sua Risposta, vedi l’antologia di scritti tolstojani, a cura di Igor Sibaldi, Perché la gente si droga e altri saggi, Mondadori, Milano 1988, pp. 269-284. Mancini nel saggio su Tolstoj degli Scritti cristiani cit., p. 42, si chiede a ragione con quale diritto si instauri l’arroganza di questo “io”. Può essere però interessante ricordare che Nikolaj Berdjaev Aleksandroviˇc (18741948), il quale, dopo gli anni dell’oppressione zarista e sovietica, finirà esule in Francia, frequentando circoli culturali di Marcel o di Maritain, Mounier, ecc., ritenne «sconvolgente» la scomunica di chi «tanto aveva fatto per risvegliare l’interesse religioso» e si chiese se il Sinodo non fosse da considerare «piuttosto un organo del regno di Cesare che della chiesa di Cristo». Cfr. N. Berdjaev, L’idea russa, (a cura di C. De Lotto), Mursia, Milano 1992, p. 190 e p. 205. 12 Cfr. Sklovskij, L. Tolstoj, p. 413 e pp. 427-428. Per Tolstoj la vita dei contadini era “la vita”, come la Bibbia era “il libro” (vedi Diari, 2 aprile 1906, Ed. Garzanti cit., p. 514). Egli stesso decise di vestire e di lavorare come contadino e così è rappresentato in un celebre quadro ad olio del 1887 di Ilya, Yefimovic Repin.


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Una notizia infine poco nota e poco diffusa riguarda un viaggio di Tolstoj a Firenze nell’autunno 1891, per partecipare ad un convegno ecumenico internazionale, tenutosi in una sala di un palazzo di viale Principe Amedeo, n. 34. Certo, si trattò di un “vertice” di pochi intellettuali, tra cui Ruggero Bonghi, Cesare Cantù, mons. Isidoro Casini, il gen. Booth dell’Esercito della salvezza, il polacco don Pietro Smudowski, ecc., ma si conservano ancora i testi dei vari interventi, fra cui quello di Tolstoj, che – sia pure con un ecumenismo troppo facile e sbrigativo - applaudì alla proposta di fondere le Chiese cristiane in una sola, accettando anche come padre comune «il Papa di Roma» e come «fondamento il pensiero di Cristo dei Vangeli», a partire dal rifiuto di ogni violenza e di ogni guerra «qualunque essa sia e qualunque ne sia la causa»13.

L’attività educativa nella scuola e nella sua famiglia L’aspetto forse meno noto della vita e dell’opera di Tolstoj è l’impegno da lui profuso nell’attività educativa dei figli dei mugichi e dei suoi stessi figli e i testi di vera e propria riflessione pedagogica da lui scritti. È noto che la metà circa dei 90 volumi dell’Opera omnia, pubblicata dal 1928 al 1958 dal governo dell’URSS, rispettando precise disposizioni di Lenin14, è costituita da saggi di carattere religioso e pedagogico, che Tolstoj stesso considerava la parte veramente importante della sua attività di scrittore, espressione dei periodi più felici della sua vita, quelli dedicati con tutte le sue forze agli altri, attraverso la scuola, l’attività di giudice di pace, gli aiuti agli affamati, l’opera religiosa15, per contrastare «la civiltà falsocristiana», di cui parla insistentemente negli ultimi cinque anni dei Diari. A più riprese Tolstoj dichiara di aver letto e riletto Rousseau, proprio come i Vangeli, sempre riprovando «il medesimo sentimento di slancio spirituale e di meraviglia». Da ventunenne studente universitario di Legge, nel 1849, egli aprì una prima scuola per i figli dei contadini, forse sotto l’influsso del suo Rettore Nikolaj Lobaˇcevskij (1792-1856), famoso matematico e promotore della istruzione popola-

Vedi V. Arnone, A Firenze un Tolstoj “ecumenico” «Avvenire», 6 maggio 2010. Per analoghe “aperture ecumeniche” cfr., ad esempio, Tolstoj, Confessioni, ed. cit., pp. 106-108, dove parlando del ricongiungimento dei “vecchi credenti” con la chiesa ufficiale, ribadisce la possibilità di fare qualcosa di simile anche con i protestanti e i cattolici, «riunendosi con loro nell’essenziale» e non certo uccidendosi a vicenda «in nome dell’amore cristiano». 14 Cfr. V. I. Lenin, Lev Nikolaevic Tolstoj (1910), Opere complete, XVI vol., Ed. Riuniti, Roma 1965, p. 302, dove, fra l’altro, si riconosce che nell’eredità tolstojana .«c’è anche qualcosa che appartiene al futuro». 15 Cfr. G. Gazzeri, Il magistero nonviolento di Leone Tolstoj, «Quaderni Satyagraha», 2002, n.2, p. 11. 13


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re, specie attraverso il sistema del mutuo insegnamento, che Tolstoj ricorda come «metodo Lancaster pupilteachers»16. Nell’autunno di dieci anni dopo riprese in un’ala della sua casa la scuola “per ragazzi, ragazze e adulti” e propose la costituzione di una “associazione per l’istruzione popolare” e la pubblicazione di una rivista, che prendeva nome dalla sua tenuta e dalla sua scuola, «Jasnaja Poljana» (“radura luminosa”). Continuavano intanto i suoi viaggi in Francia, Italia, Svizzera, Germania, Belgio, Inghilterra, anche per conoscere i diversi sistemi scolastici, su cui espresse giudizi pesantissimi (cfr. Quale scuola?, cit. p. 59 e p. 63), mentre la sua scuola continuava, con la collaborazione di exseminaristi e studenti universitari, anche se - a leggere i Ricordi del suo migliore allievo Vassilij Stiepànovic Morósov - «tutto sembrava triste e vuoto» e solo al suo ritorno «la scuola riprese a funzionare in pieno e tornò l’usata allegria»17. La scuola era espressione della personalità di Tolstoj, per il quale insegnare era «naturale come respirare»18, era «l’unico interesse che lo legava alla vita»19. Egli era un uomo di prorompente vitalità, amico dei giochi e degli scherzi, pronto anche a far la lotta con i suoi allievi («Su, tutti addosso a me! Vediamo se riuscite ad atterrarmi!») o a farsi «legare come un cavallo» per tirare una grande slitta sulla collina (così, Morósov nei Ricordi), ma era soprattutto impegnato a cercare di capire «con amore e con fatica [...] come pensa il popolo e il bambino del popolo», così da comunicare davvero con lui, per citare da una lettera del 29 febbraio-1° marzo 1876 al principe E.V. L’vov20. Tolstoj ci parla nella rivista (Quale scuola?, specie pp. 151-169) della sua scuola senza costrizioni e obblighi: «nessuno porta niente con sé, né libri né quaderni», né lezioni da ripetere, «porta solo se stesso»; «nessuno viene rimproverato per un ritardo»; «gli allievi si siedono dove vogliono», sono liberi di muoversi, di ridere, di scherzare, persino di venire o no a scuola, di seguire o meno le lezioni, di andarsene quando vogliono, poiché solo tale possibilità può garantire una presenza libera e un’attenzione autentica. Non si tratta per Tolstoj di anarchismo o neppure di disordine, semmai di «ordine libero», fondato sul fatto che gli scolari «vogliono imparare [...] e perciò per loro sarà facile giungere alla conclusione che per imparare occorre sottomettersi a certe condizioni» (Quale scuola?, p. 158). Nella stessa rivista Tolstoj (Quale scuola?, p. 181 ss) scrive che nella sua scuola «si insegna di tutto, proprio come ai figli dei signori» e analizza le varie “materie”, con

16 Cfr. l’antologia di suoi scritti pedagogici Quale scuola?, Mondadori, Milano 1978, p. 56. Altri riferimenti a questa antologia verranno fatti d’ora in avanti non in nota, ma nel testo dell’articolo. 17 Vedi L. Volpicelli, V.S. Moròsov, A scuola da Tolstoj, Armando, Roma 1971, pp. 218-219. 18 Lettera a B. N. Čičerin del 30 gennaio 1860, dal I volume delle Lettere, Longanesi, Milano 1977, p. 243. 19 Lettera a Aleksandra Andréjevna Tolstaja del 25 novembre 1860, vol. sopra cit., p. 264. 20 Lettere, II vol. Longanesi, Milano 1978, p. 14.


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acute e ancora valide osservazioni pedagogico-didattiche, a partire dalla «lettura strumentale e graduale» e dalla «scrittura e stesura dei componimenti», per venire alla «storia sacra» («il libro dell’infanzia del genere umano sarà sempre il miglior libro dell’infanzia di ogni uomo»), alla «storia e geografia», alle «materie artistiche, disegno e canto». C’erano tre grandi stanze per le lezioni, ma spesso si faceva scuola nel giardino o nel bosco o in chiesa per il canto liturgico o per la celebrazione di sacramenti spiegati dal vivo ed egli si stupiva della sua felicità e ringraziava Dio di aver trovato un lavoro tranquillo, silenzioso che lo assorbiva tutto21. Non mancavano i voti, specie da parte dei collaboratori, ma talora anche da parte di Tolstoj, che «li segnava molto di rado e quasi per scherzo», ma Morósov, a tanti anni di distanza, ricorda come la «ricompensa più grande» il 5 (il voto più alto per i russi), magari circondato da tanti <+>22.

La “crisi” della sua scuola e il riavvio, anche per l’educazione dei figli Il successo della scuola, la caratterizzazione politica di alcuni collaboratori, la provocatoria novità dei metodi usati e divulgati sulla rivista, diffusa dal febbraio 1862, portarono prima a sospetti e denunce e poi ad una perquisizione della sua casa (6-7 luglio 1862). Egli protestò energicamente con la “zia” Tolstaja (specie con la lettera già ricordata del 7 agosto 1862) e con lo stesso Zar (lettera del 22 agosto 1862), scagionando i suoi collaboratori e ribadendo, non senza enfasi, quanto significasse per lui la scuola :«Era tutta la mia vita, il mio monastero, la chiesa nella quale avevo cercato e trovato la salvezza da tutte le inquietudini»23. La scuola continuerà per qualche mese, come si può capire dall’ultimo numero della rivista del marzo 1863 e, in particolare, dai quaderni degli allievi scritti in quello stesso mese secondo i Ricordi, di Morósov24. L’anno dopo però scrive alla Tolstaja (17-31 ottobre 1863): «Amo i bambini, la pedagogia, ma mi resta difficile vedermi come ero un anno fa. I bambini vengono da me la sera e mi portano il ricordo di quel maestro che era in me e che non sarà mai più. Adesso sono scrittore con tutte le forze dell’anima»25. A cambiare la sua vita, più che le noie politiche, furono il poco favore della moglie per il lavoro pedagogico (questo essenzialmente per Morósov, che ricorda il distacco con cui li squadrò una volta «mettendo l’occhialino»), il rinato fervore per l’attività letteraria e più ancora, forse, la crisi interiore - di cui parlerà

Cfr. Lettera ad A.A. Tolstaja del 7 agosto 1862, in Lettere, I vol., Longanesi, Milano1977, p. 286. Cfr. Volpicelli, Moròsov, A scuola da Tolstoj, p. 246. 23 Cfr. sempre lettera alla Tolstaja del 7 agosto 1862, p. 285. 24 Cfr. Volpicelli, Moròsov, A scuola da Tolstoj, cit., pp. 300-303. 25 Cfr. lettera alla Tolstaja, in Lettere, I vol., cit., p. 309. 21 22


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nelle Confessioni - nata dalla consapevolezza che il “come insegnare” dipendeva dal “che cosa e perché insegnare” e questo a sua volta dal “come e perché vivere”26. L’interesse educativo e pedagogico in realtà non si era spento se il 14 novembre 1865 poteva scrivere alla Tolstaja che pensava sempre molto all’educazione e che aspettava con impazienza il tempo in cui avrebbe cominciato a insegnare ai figli, preparandosi a riaprire la scuola e a scrivere un résumé su quanto sapeva dell’educazione27. Proprio in quegli anni, che egli definisce di «orgia narcisistica» per la composizione di Guerra e pace, e in quelli immediatamente successivi Tolstoj aveva elaborato anche l’Abecedario, pubblicato nel 1872 come «l’unica opera importante» della sua vita, quella dove aveva messo «più lavoro e amore» che in tutto il resto, come scrisse alla Tolstaja tra fine gennaio e inizio febbraio 187328, per ribadire che egli non aveva voluto fare con quel lavoro e con quello dei Quattro libri di lettura (1875) un’opera popolare considerata tale perché scritta male, come egli stesso aveva denunciato di tanti libri popolari dieci anni prima (cfr. Quale scuola?, p. 194). Si può dire invece che l’appassionata fatica intrapresa da Tolstoj per l’elaborazione di quei “libri per il popolo” costituisce di per sé una geniale contraddizione d’ogni facile spontaneismo o d’ogni ideologica “libertà negativa”, essendo proprio tale fatica la condizione necessaria per il conseguimento di tanta forza ed immediatezza comunicativa. Egli aveva dedicato continua e appassionata attenzione e approfonditi studi per capire i problemi di tante persone e per padroneggiare il linguaggio, in modo che gli interlocutori capissero e ci fosse una vera comunicazione con la cultura delle classi popolari, quelle che portavano il peso del lavoro per se stesse e per le altre classi e che non avevano però perso «il senso della vita»29. L’impegno posto in quel tipo di studi e di pubblicazioni rappresentava per lui una modalità di prendere coscienza della cruciale importanza della vita quotidiana del popolo, espressa in mille occasioni concrete, che egli riconosceva sempre più come la vera base di ogni processo di formazione. Si trattava in particolare di evitare atteggiamenti paternalistici e moralistici e di accogliere il bisogno dei contadini di qualcosa di reale, di concreto, di «accaduto davvero», il loro vigore educativo ed umano, la loro disponibilità ad una vita forte e severa, talora anche crudele, nella generosa dedizione dei genitori e nell’inesorabile distacco dei figli30. Il desiderio, del resto, di una tale comunicazione era ben presente nell’opera letteraria, se è vero che Levin di Anna Karenina scopre la verità proprio quando accetta di

Cfr. Tolstoj, Confessioni cit., pp. 38-41. Lettere, I vol. ed. Longanesi cit., p. 337. 28 Lettere, I vol., p. 406. 29 Cfr. Tolstoj, Confessioni, cit., pp. 70-73. 30 Cfr. Volpicelli, Moròsov, A scuola da Tolstoj, cit., pp. 109-122. 26 27


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condividere - come farà per vari anni lo stesso Tolstoj - le fatiche dei contadini o se già Bezuchov di Guerra e pace vede risorgere la fiducia nella sua anima e nell’umanità al contatto con la serena e matura fede del soldato contadino Platon Karataev. I grandi personaggi storici di questo romanzo, Napoleone, lo zar Alessandro I, lo stesso sonnecchiante vincitore dei francesi generale Kutuzov sono apparentemente protagonisti della storia, mentre in essa conta di fatto solo «la vera vita degli uomini, con i suoi interessi essenziali, la salute, le malattie, il lavoro e il riposo e con gli interessi del pensiero, della scienza, della poesia, della musica, dell’amore e dell’amicizia, dell’odio, delle passioni» (Guerra e pace, II, 3a, 1). Come aveva scritto alla “zia” Alexandrine, a partire dall’autunno 1871 aveva cominciato ad insegnare ai figli e riaperto la scuola, seguendo anche l’attività di suoi collaboratori impegnati in altre scuole. Esistono vari documenti che confermano la ripresa del suo interesse per la scuola e la pedagogia, come il nuovo testo Sull’istruzione popolare, scritto nel maggio 1874 e pubblicato negli «Annali Patri» (1874, 9) o l’interessante lettera alla “zia” del 23 giugno 1874, dove ribadisce la sua attività di organizzatore di scuole e di elaboratore di progetti, in contrasto con «la pedagogia pietroburghese» del suo protégé ministro P. I. o quella del dicembre 1874, nella quale, fra l’altro, parla del suo ritorno «dalla pedagogia astratta a quella pratica» con il suo impegno per le scuole della provincia, che lo porta «ad amare queste migliaia di ragazzi con cui ho a che fare»31.

Le contraddizioni di Tolstoj educatore, specie nell’ambito della propria famiglia Col passare degli anni Tolstoj diventa sempre più consapevole della complessità dei problemi pedagogici, anche se non mancano difficoltà e contraddizioni, specie nell’ambito della sua famiglia. Certo, egli continua a contrapporsi al modello allora dominante della scuola tedesca, con la sua insistenza su Gehorsam (ubbidienza) e Ruhe (silenzio), che contrastano con il desiderio dei ragazzi di comunicare e di muoversi e li inducono alla menzogna e all’ipocrisia. Lo studio di testi classici della pedagogia tedesca, specie del primo Ottocento, porta Tolstoj ad anticipare significativi motivi della critica di P. Natorp a J. F. Herbart e dell’attivismo di Dewey in particolare32. Così è dell’idea dell’insegnamento globale che deve sgorgare dalla vita stessa, perché concreto per il bambino non è ciò che è presentato ai suoi sensi, ma

Cfr. sempre dal I vol. de Le lettere, cit., p. 430 e p. 439, dove appare anche che Tolstoj non puntava tanto sul superamento delle discriminazioni sociali e neppure sulla promozione di classe dei “capaci e meritevoli” quanto piuttosto sulla realizzazione delle potenzialità dei ragazzi, specie di quelli che potevano rivelarsi dotati di straordinari talenti. 32 Cfr. S. Hessen, Leone Tolstoj.Maria Montessori, Avio, Roma 1954, p. 30. 31


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ciò che è strettamente connesso con la sua quotidiana esistenza o quella della necessità di comunicare al bambino regole e definizioni solo dopo ch’egli sia venuto in possesso d’un proprio materiale d’esperienza. Nei Consigli e nelle Indicazioni generali per il maestro, inseriti nella prima edizione dell’Abecedario, dopo varie considerazioni nate dalla sua diretta esperienza, che spesso anticipano realmente motivi fondamentali dell’attivismo di Dewey, egli delinea la figura del maestro che non è colui che sa (o pretende di sapere) tutto, ma colui che non si annoia a imparare continuamente e a insegnare e che riesce a unire in sé «l’amore per il suo lavoro e per gli scolari»33. Si sa dai Diari (cfr., ad esempio, 15 gennaio 1890 e 13 febbraio 1907) che egli ricominciò più volte a riorganizzare scuole per i figli dei contadini, con la collaborazione di vari maestri e soprattutto della sua secondogenita Tat’jana (nata nel 1864) e della quintogenita Marija (1871), non disdegnando di tornare egli stesso a far lezione34. Egli continuò a più riprese ad interessarsi di scuole e di pedagogia (cfr., ad esempio, I pensieri sull’educazione e sull’istruzione di cui parla nel carteggio con Čertkov e che furono pubblicati, a cura di quest’ultimo, nel 1902 a Londra, Ed. Christ Church) e, soprattutto, continuò a prestare massima attenzione al problema dell’educazione popolare, come mostrano i numerosi scritti militanti degli ultimi anni e i vari “Circoli di lettura”. «Come dovrà agire l’educatore - si domanda Tolstoj (Quale scuola?, p. 113) - per non varcare i confini della formazione culturale, cioè della libertà?» e risponde che dovrà limitarsi a «trasmettere informazioni, conoscenze, senza cercare di penetrare nel campo morale delle convinzioni, delle credenze e del carattere». L’unico influsso educativo consentito è quello dell’«amore del maestro verso la sua materia e dell’entusiasmo con cui la trasmette» (p. 116). È chiaro che con “formazione culturale” (obrazovanie)35 Tolstoj non intende solo il processo di acquisizione delle conoscenze, ma anche quello dello sviluppo delle capacità proprie d’ogni persona, tramite lo studio e l’esperienza, ma soprattutto attraverso il rapporto caldo e vitale con la personalità del maestro. Certo, questi non deve essere l’onnisciente precettore di Emilio, che prevede e preordina tutto, compresa la futura moglie del suo pupillo36,

Cfr. la tesi seguita da me e dalla prof.ssa Cinzia De Lotto di Laura Mattei, Lev Tolstoj e la letteratura per l’infanzia, Università di Verona, anno accademico 1998/1999, pp. 99-102. 34 Occorre però ricordare che già nel 1906 morirà Marija, la figlia che secondo il primogenito Sergej «sapeva dare a nostro padre quella tenerezza e quel calore di cui egli aveva bisogno». Cfr. L. Radoyce, «Che cosa sono io?». Una nota su Lev Tolstoj, in appendice a Tolstoj, Le Lettere, Longanesi, II. vol. cit., p. 685. 35 La parola russa deriva dal termine «obraz», che significa “forma” come Bild in tedesco, da cui Bildung, intesa non come “messa in forma”, ma come “morfogenesi” dall’interno di ogni persona. 36 Cfr. la frizzante critica di Emilio e del suo precettore nel Frammento sull’educazione di G. Capponi, Scritti pedagogici, edizione critica e ampio studio introduttivo (p. CCV) di A. Gambaro, La Scuola, Brescia 1968, pp. 61-62 in particolare. 33


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ma deve poter sbagliare e non perdere con questo la sua autorevolezza, a condizione di riconoscere l’errore e magari di arrossire, con un gesto «assai meno distruttivo che non fare arrossire cento volte il bambino davanti a sé e fare l’infallibile», come scrive in una splendida lettera alla “zia” del 26-27 novembre 1865 per incoraggiarla ad accettare la nomina d’istitutrice della figlia dello Zar Marija Nikolàevna37. Le contraddizioni più pesanti emergevano in famiglia per i contrasti ricorrenti, specie con la moglie, ma anche con gli stessi figli (con Lev, in particolare, ma anche, come vedremo, con Andrej) sulla linea da tenere, destinata a risultati sconfortanti «per le opposte convinzioni del padre e della madre». I figli finivano per scegliere «il criterio del più facile e del più piacevole» e lui che – come dirà la moglie in un capitolo della sua autobiografia - «voleva piegare l’umanità non è riuscito a piegare la propria famiglia»38. In realtà non sempre i figli facevano le scelte “più facili e piacevoli”, come avvenne quando, in occasione della guerra russo-nipponica del 1904-1905, Andrej, il suo nono figlio, nato nel 1877, decise di arruolarsi come volontario, mentre egli si schierava «per il popolo lavoratore dei due paesi, ingannato dai governi e costretto a combattere contro il proprio benessere, la propria coscienza e la propria religione»39 e da anni insisteva sulla necessità del «rifiuto da parte delle singole persone di prender parte all’omicidio di guerra», come scrisse in A proposito della Conferenza sulla pace, tenutasi a L’Aia nel maggio 189940. La scelta del figlio, radicalmente contrapposta alle posizioni del padre, non impedì a questi di mantenere un rapporto affettuosamente educativo con lui, come mostra la breve e accorata lettera del 18 settembre 1904, che, a conclusione del nostro contributo, riportiamo integralmente. «In questi ultimi giorni penso continuamente a te, caro Andrjusa. Quando sei andato via non credevo quasi che saresti andato in guerra, eppure sei già in pieno inferno. So per esperienza che in guerra tutti vivono incoraggiandosi l’un l’altro e cercando di dimenticare se stessi, altrimenti non sarebbe possibile adempiere l’opera terribile della guerra; ti prego, tuttavia, di non dimenticare la tua anima nemmeno in guerra. E cerca di essere buono con tutti. A te questo resta facile perché hai un’anima buona. Addio per ora, ti bacio e ti voglio molto bene»41.

Cfr. di Tolstoj, Le Lettere, Longanesi, I. vol. cit., pp.339-343, p. 342 per la citazione puntuale. Cfr. Radoyce, «Che cosa sono io?». Una nota su Lev Tolstoj, cit., p. 683. 39 Così nel testo del telegramma inviato il 3 febbraio 1904 a Filadelfia al «North American Newspaper». Cfr. P.C. Bori, Tolstoj. Oltre la letteratura (1875-1910), ECP, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1991, pp. 65-66. 40 Cfr. Bori, Tolstoj. Oltre la letteratura, cit. pp. 159-165, p. 163 per la citazione puntuale. La considerazione della guerra come risultato del «concorso di milioni di volontà umane, fra le quali quella del condottiero o del diplomatico non ha maggior peso di quella dell’ultimo soldato» si poteva leggere sul suo capolavoro di almeno trent’anni prima (Guerra e pace, III, 1a , 1). 37 38

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Tolstoj, Le lettere, Ed. Longanesi, II vol., cit. p. 450.



RivLas 78 (2011) 1, 51-64

Le nuove chiese evangeliche Una lettura pastorale dal Brasile ARNALDO DE VIDI

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i preoccupa il moltiplicarsi delle chiese evangeliche. La lingua batte dove il dente duole? Un prete non può non allarmarsi quando vede i fedeli lasciare allo sbando la sua chiesa; ma io non sono un chierico geloso o allarmista, né un impresario che prima aveva l’intero mercato religioso e ora si ritrova con un solo stand. Mi preoccupa la dimensione e rapidità del fenomeno che pare uno tsunami. Per darvi un’idea, immaginate Treviso - mia città natale, di 90mila abitanti - invasa da centinaia di pastori con cravatta e auto-stima a tutta prova, che aprono oltre cento luoghi di culto dai nomi più fantasiosi e, pur in concorrenza tra di loro, attraggono quasi metà della popolazione che passa a vestirsi in modo diverso, a venerare la Bibbia, a riunirsi ogni sera... Treviso diventerebbe una Matrix. È quello che sta avvenendo nella periferia di Manaus dove svolgo il mio lavoro pastorale. Mi assale il dubbio che il popolo sia imbrogliato, e il Regno di Dio stia regredendo invece di avanzare. Mi sento sfidato a capire le chiese evangeliche nella loro complessità e nei risvolti culturali. Faccio anche l’esame di coscienza sulla crescita degli evangelici: è frutto di errori di noi cattolici? o è un kairòs, un evento provvidenziale? servirà magari a purificare la chiesa cattolica? Siccome lavoro nella base, nella pastorale diretta, mi mancano tempo, strumenti, dati, per uno studio più documentato e scientifico. Rivolgo l’invito a qualche universitario di scienze religiose che venga qui per fare la sua tesi di laurea sul fenomeno. La tesi dovrebbe cominciare col distinguere due tipi di chiesa dentro alla “galassia evangelica”; e mi spiego ricorrendo all’esperienza di Paolo di Tarso. Paolo era giudeo educato alla scuola di Gamaliele, un fariseo ligio alla legge, meticoloso dal punto di vista etico-morale, abituato alla vita comunitaria di piccoli centri, dove la comunità religiosa, coordinata dagli anziani, controllava i suoi membri. Quando è approdato in Grecia, Paolo ha trovato una situazione ben differente: in città non ci


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sono persone unite in comunità; ci sono individui che confluiscono nei “no logo” a formare una massa assembleare. Paolo ha accettato la sfida della città e ha sviluppato una teologia urbana: ha sostitito l’esigenza rigida dei comandamenti con l’influsso gratificante dei carismi; il cammino di Gesù col soffio dello Spirito; la centralità della Pasqua con la Pentecoste. cf. 1Lettera ai Corinti. Così abbiamo in Paolo due tipi di chiesa: la moralista e la pentecostale. Più tardi Paolo si corregge propondo i ministeri (servizi comunitari), invece dei carismi (doni personali). cf. Lettera agli Efesini. Semplificando, potrei dire che a Manaus ci sono chiese sia nella linea giudaicamoralista, che in quella greca-pentecostale. A sua volta, le chiese “pentecostali” si distribuiscono in un amplissimo ventaglio: da quelle che garantiscono salvezza eterna, a quelle che garantiscono benessere spirituale terreno; dalle apocalittiche ed esorciste, a quelle centrate nella Parola di Dio, fino a quelle che sono “supermercato religioso” con inflazione di cosiddetti “miracoli”. In ogni caso, la linea pentecostale ha preso il sopravvento su quella moralista, influenzandola. Delle seconde chiese, pentecostali, vorrei dire, per cominciare, cosa non sono. Se disponessimo di più spazio, potremmo fare molti distinguo: inevitabilmente devo ricorrere a una presentazione abbastanza generica.

Le nuove chiese evangeliche non sono... * Le chiese evangeliche non sono sette chiuse, fondamentaliste che segreghino, facendo un lavaggio cerebrale sul tipo di Becky Fisher coi suoi Jesus Camp. E non c’è l’ossessione di intruppare le persone per una guerra santa, sul tipo dei bambini islamici preparati a morire come kamikaze per Dio/Allàh. Anche le chiese evangeliche di ieri, pur moraliste, non arrivavano ad essere un ghetto. * Le chiese evangeliche non sono chiese mandate e comandate dall’estero. Sappiamo, per es., che R. Reagan in vista della sua rielezione alla presidenza degli Stati Uniti, aveva fatto ricorso ad una équipe di experts - sociologi, teologi, politologi - che studiassero la situazione del continente americano e elaborassero una strategia di politica estera; l’équipe aveva stilato il Documento di Santa Fé (198086) dove si afferma che gli Stati Uniti avrebbero avuto buon gioco nel continente solo rompendo il monolitismo della chiesa cattolica in America latina. Reagan non esitò a foraggiare alcune chiese evangeliche, sia pentecostali che fondamentaliste, perché invadessero l’America latina, soprattutto il Brasile. Ma è storia passata. Gli Usa “consumisti” non sono più così entusiasti delle chiese evangeliche... che consumano solo Bibbia e qualche decimetro in più di stoffa per giacche e gonne castigate. Oggi le chiese evangeliche sono, nella quasi totalità, autonome, autosufficienti e nazionali.


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* Le nuove chiese evangeliche non sono neppure vere chiese protestanti. C’è chi le chiama non evangeliche ma evangelicali. Basti ricordare le tesi 93-95 di Lutero che dicono: Benvenuti tutti quei profeti che dicono al popolo di Cristo: Croce, croce!, mentre croce non c’è. Si devono esortare i cristiani a sforzarsi di seguire il loro capo, il Cristo, attraverso le pene, le morti, gli inferni. E ad entrare nel cielo attraverso molte tribolazioni (Atti 14,22) piuttosto che confidarsi nella sicurezza di una falsa pace.

Le nuove chiese sono semmai nella linea della New-age/Next-age. Non croce ma adrenalina. * Le chiese evangeliche non sono figlie del secolarismo. Materialismo pratico, secolarismo e relativismo svuotano le chiese cattoliche nel primo mondo. Ma qui la crisi del cattolicesimo (e del protestantesimo classico) s’accompagna a una rivincita del sacro. Semplicemente i cattolici sono invitati con insistenza a frequentare altre chiese e finiscono per accettare. * Le chiese evangeliche non si originano dal conflitto tra tradizionalisti e profeti. Qui non c’è una protesta verso la chiesa cattolica perché tradizionale, o verso la politica “invadente e oscurantista” del Vaticano su temi sociali fondamentali. Semmai c’è una critica alla chiesa cattolica brasiliana, perché impegnata nel sociale... a scapito del bene spirituale delle anime. Altre critiche ai cattolici riguardano il poco studio della Bibbia, l’idolatria (?) del culto ai santi (Maria compresa) e alle immagini. Qui nessuno chiede lo “sbattezzo”, anzi molti si battezzano una seconda volta nelle chiese evangeliche. In genere oggi il proselitismo delle chiese rifugge dal confronto, dalle crociate. C’è ancora qualche chiesa che denigra il papa come anticristo e che si presenta come l’unica capace di salvare, ma la pubblicità evangelica oggi è piuttosto “ecumenica” e nella linea della concorrenza: ogni chiesa vende il suo pesce, invitando tutti - i cattolici in particolare - a participare alle celebrazioni evangeliche. * Le chiese evangeliche non sono né dogmatiche né anti-dogmatiche. Dicono i sociologi che viviamo un tempo di cultura di massa, in cui il popolo vuole un’identità chiara, fatta di pochi precetti indiscutibili. La religione che più cresce oggi nel mondo è l’islam perché con i cinque pilastri meglio risponde a questa esigenza dogmatica; tra le chiese cristiane crescono quelle fondamentaliste; e dentro al cattolicesimo crescono i movimenti integralisti. Ma nella cultura di massa, ci sono anche persone che preferiscono l’estremo opposto, di assenza di dogmi: tutto è relativo. La dottrina che meglio vi corrisponde è il buddhismo: non una tegola sopra il capo, non una zolla di terra sotto i piedi. Si va alla deriva, senza traumi. Anche il buddhismo è in crescita. Nella linea dell’antidogmatismo c’è il pentecostalismo, lui pure in espansione. Dicono i sociologi che la chiesa cattolica perde terreno perché preferisce il centro, prendendo le distanze dal dogmatismo radicale e dal relativismo. D’accordo con questa analisi, i due ultimi


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papi avrebbero tentato di limitare i danni avvicinando la chiesa cattolica al terreno del dogmatismo. Sarebbero le nuove chiese evangeliche dogmatiche? Esse hanno il precetto sacrosanto delle decime e dell’astensione dall’alcool, ma su altri punti transigono parecchio, senza però cadere nel relativismo. Si tenga anche presente che l’islam e il buddhismo qui sono irrilevanti, senza adepti.

Le nuove chiese evangeliche sono... Dicendo cosa le nuove chiese evangeliche non sono, emerge l’interrogativo su che cosa esse siano. Accennammo sopra che il ventaglio è ampio, ma incontriamo più di un elemento comune a tutte. * Le chiese evangeliche sono “sinagoghe”. Sono luoghi non propriamentre di celebrazione ma di lettura-e-studio della Bibbia (e di preghiera). I pastori partono da una pagina della Bibbia e fanno esegesi e commento, a volte con buona base, a volte con retorica moralistica, fino ad una apocalittica sadomaso. Insomma centrale è la predicazione; tale centralità mi ricorda la tradizione protestante come è presentata, per es., nei film americani, con i predicatori che fustigano i vizi, lanciano minacce divine e invitano alla conversione. Il volume o il tono delle prediche è alto (al punto che i passanti commentano, con ironia: Pare che il loro Dio sia sordo!). A volte la predicazione è fatta da “neofiti” all’incrocio delle vie, con microfono. * Le chiese evangeliche sono “punti ristoro spirituale”. Gli ambienti evangelici, saloni aperti direttamente sul marciapiede della strada, sono molto acessibili, senza “sagrato”, pronao, portico, recinto... E di preferenza sono localizzati sulle vie principali: in trecento metri di “avenida” ho contato, sui due lati, nove di questi saloni, con scritte cubitali e immagini del pastore fondatore, o simboli. Le chiese di solito rimangono aperte tutto il giorno, con un volontario di guardia a turno. * Le chiese evangeliche sono “distributori... di miracoli”. Un loro denominatore è la preghiera di supplica per ottenere miracoli. Quelle evangeliche sono chiese della speranza certa. C’è chi considera questa caratteristica come l’elemento vincente: in tempo di cambiamento e instabilità economica-politica-sociale-psicologica, c’è struggente bisogno di ricevere l’aiuto dall’alto. Il tono delle preghiere crea una identità tra la fede di chi chiede e la certezza di ottenere la grazia. Per dar forza e fede alla supplica, non mancano celebrazioni con concentrazione di pastori. Ci sono celebrazioni finalizzate a miracoli specifici: grazia-miracolo della cura, della riuscita negli affari, dell’amore ritrovato, di esorcismo... E ci sono le testimonianze dei miracolati, cioè di persone che hanno risolto il loro gravissimo problema dopo essere entrati a far parte di quella specifica chiesa. Tra i “convertiti” molti sono i malati e rispettiva famiglia, che lasciano la comunità cat-


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tolica e passano a una chiesa che garantisce la grazia della cura, specie dal cancro, il male che non perdona. Per i miracoli un palco privilegiato è la televisione. Si arriva all’assurdo di spazi noleggiati in tv commerciali, con 20 miracoli in diretta ogni ora. Slogan: Tu credi in Dio? Allora credi nei miracoli! * Le chiese evangeliche sono “Ufficio Oggetti Smarriti”. In realtà, esse offrono ai cristiani il Gesù che era stato smarrito. Slogan: Io ho incontrato Gesù! E tu? Non si tratta di considerare il cristianesimo più come una persona (Cristo) che come una religione; ma, d’accordo con la religiosità urbana cui si accennava sopra, è posto l’accento sull’orazione piuttosto che sulla morale. Incontrare Gesù non significa formale pentimento dei propri peccati e obbligo a una morale personale, famigliare, sociale. Significa partecipare alla predicazione della Parola in quella specifica chiesa. Anche qui possiamo dire che siamo davanti a un elemento vincente. Immaginate una donna che non riceve la comunione, non partecipa alla vita sacramentale o soffre grande disagio spirituale “perché non sono sposata in chiesa”, o per una situazione irregolare o un grave peccato... A un certo momento essa è abbordata da un evangelico che le dà la buona notizia che Gesù lo si può reincontrare e non le chiede conto della vita coniugale, sessuale, sacramentaria. A lei è chiesto di convertirsi a Gesù, accettarlo nella propria vita (è il fascino della conversione). La morale cui deve sottomettersi come convertita è: pagare le decime; non radere i peli e poco più. Se si tratta di un uomo, deve astenersi dall’alcool, usare camicia bianca e cravatta... Si arriva a pensare che il “boom” delle chiese terminerebbe se esse cominciassero a imporre un codice morale sul tipo della chiesa cattolica. * Le chiese evangeliche sono ufficio anagrafe del paradiso. Esse si sono appropriate dell’affermazione del Concilio di Firenze (1442): “Fuori della chiesa non c’è salvezza!”. Non è più la chiesa cattolica che salva, né la pratica dei nove primi venerdì del mese, ma il battesimo in età adulta nella chiesa evangelica. Battesimo e participazione in una chiesa sono polizza di salvezza. Col battesimo va l’eliminazione delle immagini dei santi e delle candele, quasi-idoli che portano alla perdizione. * Le chiese evangeliche sono “gabella delle tasse”. Basilare è la “strategia delle decime” (=10% del salario o dell’attivo di un mese di attività). La raccolta delle decime è un punto alto religioso e, più ancora, economico; infatti, ogni decina di persone salariate che paghino le decime, fornisce un salario al pastore: è matematica. L’obbligatorietà delle decime è ribadita dal profeta Malachia. Può un uomo frodare Dio? Eppure voi mi frodate e andate dicendo: «Come ti abbiamo frodato?». Nelle decime e nelle primizie. Siete gia stati colpiti dalla maledizione e andate ancora frodandomi, voi, la nazione tutta! Portate le decime intere nel tesoro del tempio, perché ci sia cibo nella mia casa; poi mettetemi pure alla prova in questo - dice il Signore degli eserciti -, se io non vi aprirò le cateratte del cielo e non riverserò su di voi benedizioni sovrabbondanti! (3,8-10).


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Malachia, il cui libro profetico è l’ultimo del Primo Testamento, andava a braccetto con i sacerdoti del tempio; ed è il preferito dei pastori che nella loro predicazione ripetono: Chi paga le decime è benedetto da Dio con l’abbondanza materiale, chi non paga le decime è maledetto. Dio stesso dice che è solo: provare per credere! Diventa di somma importanza la testimonianza di fedeli che hanno provato e hanno ricevuto il centuplo. Grazie alle decime, le chiese evangeliche sono fonte di ricchezza. Le decime dei fedeli coprono le spese della chiesa (un problema che invece assilla la chiesa cattolica) e avanza un buon lucro per i pastori. La maggioranza delle chiese escludono iniziative sociali che richiederebbero tempo, strutture, risorse umane ed economiche, controlli statali e comunali: esse hanno deciso di limitare praticamente il ministero alle celebrazioni serali, che sono orario di punta. I pastori spesso sono liberi professionisti che arrotondano lo stipendio con le prediche serali. * Le chiese evangeliche sono “case del lotto”. La Bibbia parla anche di offerte: i pastori studiano meccanismi per avere offerte quanto e più delle decime. I fedeli evangelici sono sorprendentemente generosi (al confronto le offerte dei cattolici sono ridicole). Le offerte lavorano come scommesse o azzardo. Forse la cosa si spiega dicendo che - chiedo venia - nelle chiese si può giocare e vincere. Chi sta al banco è Dio che è generoso e non bara. La posta in gioco è sempre alta: la salute per un malato grave; la ripresa economica di chi è in fallimento o in crisi; il superamento di vizi o di altri problemi tali da non vedere luce in fondo al tunnel: veri miracoli! Con la posta in gioco alta, anche l’offerta dev’essere alta. Si dà il caso di persone che donano tutto alla loro chiesa, perfino la casa, in vista del miracolo. Se il miracolo non avviene non ci sarà restituzione-risarcimento: il fedele non ne ha diritto perché egli stesso ha alienato volontariamente i suoi beni (proprio come il giocatore al casinò). * Le chiese evangeliche sono “teatri religiosi”. Non celebrazioni ma “show”. Un evangelico mi disse: “Chiesa è come squadra di calcio: a ciascuno piace la squadra di cui è tifoso...”. L’uomo comune va nella chiesa come il tifoso va alla partita della squadra del cuore, senza problema rispetto alla verità. Si tenga presente che gli abitanti di Manaus nella quasi totalità vengono dagli argini dei fiumi, dalla foresta o da altre regioni dove vivevano una vita “mansa”, cioè rilassata, seduti in riva all’acqua o sotto un albero... Venendo a Manaus, hanno accettato gli orari di lavoro del PI (Polo Industriale) della Zona Franca di Manaus (ZFM); ma di sera, a fine settimana e in tempo di ferie siedono sul marciapiede davanti a casa (a vederli dà una stretta al cuore), dove spesso improvvisano un piccolo bar. Col passar del tempo e con l’incentivo della televisione, sentono la necessità del divertimento. In città però i teatri e i cinema sono pochi ed esigono il biglietto d’entrata. Ecco allora che le chiese offrono quasi ogni sera lo show religioso. Si tratta praticamente del monologo di uno o più pastori. La formula funziona perché la cultura amazzonica è orale e non scritta; e la parola di Dio ha un fascino irresistibile su tutti, uomini e donne. Raramente c’è qualcosa di piú teatrale: il


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corridoio della liberazione formato da 72 pastori (ricordando i 72 discepoli di Gesù), la distribuzione del fazzoletto unto, il battesimo sul fiume, la partecipazione di cantautori ... La celebrazione-show suscita candidati pastori: ogni fedele, coinvolto dalla retorica del predicatore, sogna di diventare lui stesso un pastore. Il reclutamento è semplificato dal fatto che non ci sono esigenze relative al celibato o al sesso. Tra i candidati a pastori, sono molte le donne e molte le coppie marito e moglie. * Le chiese evangeliche sono “circoli a-politici” (con la politica della non-politica). La colonizzazione ha alienato e de-culturato gli indios e le popolazioni meticce; ha minato la partecipazione, e stabilito un meccanismo di dominazione politica autoritaria che concentra la ricchezza e il potere nella mani di pochi e garantisce l’esclusione della maggioranza. La mancanza di vere esperienze di democrazia riflette ancor oggi nella vita religiosa, oltre che nella politica. Le chiese evangeliche non sono democratiche. Esse sembrano democratiche perché, essendo numerosissime, permettono a molte persone di accedere a un poco di potere. Le cattoliche CEBs (Comunità Ecclesiali di Base) che propongono una chiesa ministeriale con responsabilità e ruoli distribuiti democraticamente, hanno vita difficile perché vanno controcorrente. La CNBB (Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile) che dà direttrici per coscientizzare le persone, abbinare salvezza e liberazione..., è criticata di ingerenza indebita. La CNBB ritiene suo dovere aprire gli occhi dei fedeli, in particolare nelle elezioni: per questo censura i candidati corrotti, la pratica della compra-vendita del voto, le alleanze finalizzate a ottenere privilegi... I pastori evangelici dicono che è anti-biblico entrare in politica, ma nell’ora delle elezioni trescano con politici corrotti; formano “feudi elettorali” di partiti di destra per poi averne favori; si presentano come candidati, obbligando i fedeli a votare per loro, dichiarando che se eletti favoriranno la loro chiesa... * Le chiese evangeliche sono filiali (tipo catene di supermercato). Per capire bene la strategia, occorre tener presente la “franchia”. Ci sono chiese che hanno saputo organizzarsi meglio, con più coraggio, perfino con spregiudicatezza, come la Chiesa Universale del Regno di Dio del “vescovo” Edir Macedo e la Chiesa Universale della Grazia del “missionario” R.R. Soares. Si tratta di chiese “elettroniche e supermercato” con filiali ovunque, anche all’estero; padrone di canali televisivi e di imperi economico-religiosi. Sociologi religiosi negano che si tratti di chiese e le definiscono come sette o, meglio, “imprese”. Esse oggi preferiscono clonarsi con la franchia: concedono il marchio a un pastore che ne faccia richiesta, in cambio di una percentuale sul guadagno. Dirigere una chiesa evangelica è un affare lucrativo e di modico investimento. In tempo di crisi, la carriera come predicatori è una possibile soluzione per operai e professionisti disoccupati o in difficoltà economica. Questo è l’iter che l’aspirante pastore deve seguire: frequentare un corso di formazione per pastori; prendere in affitto un salone; acquistare un centinaio di sedie di plastica (bianche, da giardino, per intenderci); com-


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prare a rate una cassa acustica con microfono, entrare in contatto con R.R. Soares e aprire la filiale della Chiesa Universale della Grazia di R.R. Soares. Dovrà pagare una alta franchia (fino a 60%), ma c’è possibilità di guadagnare più di quanto guadagna(va) di salario. Se gli va male, il debito sarà piccolo e, chissà, sarà trattato col rispetto che si deve a un “religioso”. * Le chiese evangeliche sono emittenti elettroniche. L’uso dei MCS è notevole, anzi determinante. Con il supporto della televisione le chiese evangeliche funzionano come micro-società: si riproducono ogni giorno. Lo spazio che in Italia è occupato dalle tv a cavo e tv commerciali, o da programmi di “info-imbroglioni”, qui è occupato da programmi religiosi, talvolta persino di buon livello artistico e musicale. A Manaus, l’emittente che meglio si sintonizza è “Boas Novas”, evangelica, con 24 ore al giorno di programmi religiosi. Grande spazio è dato alla musica, con generi che mixano ritmi conosciuti e ritmi religiosi. Molti sono i saggi di lezioni di Sacra Scrittura, accompagnati dalla propaganda di libri, corsi e dvd di specializzazione in Bibbia, con Laurea, Master e Dottorato... Elementi comuni. Riassumendo e completando, sono: la frequenza delle celebrazioni (quasi ogni sera, per due ore); la participazione del marito con la sposa; il vestito, quasi un’uniforme; il ruolo del canto e di una participazione elementare con “amen, alleluia”; uno spirito missionario-proselitista, frutto di entusiasmo e convinzione; l’uso-abuso di nomi e frasi biblici ovunque: nei finestrini delle macchine, come nomi di edifici, nella conversazione, nel micro e macro commercio (essi sostituiscono i nomi dei santi che avevano invaso le colonie “iberiche”)... Non mancano aspetti interessanti: di solito, chi “si converte” abbandona alcool, fumo, prostituzione; dovendo pagare le decime, comincia a organizzare la sua economia per poter essere fedele; sostituisce la Madonna e i santi con la Bibbia; passa a credere molto nei miracoli; compra cd e dvd di musica religiosa; diventa “Jesus freak” (cioé Gesùdipendente, drogato di Gesù)...

A questo punto, mi permetto qualche osservazione Quanto alle decime. Praticamente è entrata la prassi pericolosa che qualsiasi (pastore) può prendere l’iniziativa di farsi “banchiere di Dio” per riscuotere le decime. L’Apostolo Valdemiro Santiago ripete alla tv che ha ricevuto da Dio la missione di arrivare in 3 anni a un milione di dizimistas (fedeli che pagano le decime). Se ci riesce, intascherà l’equivalente di centomila salari al mese! Inoltre, ricorrere a 3 versetti di Malachia, presi alla lettera, prescindendo dal contesto e del tempo in cui furono scritti, è terrorismo religioso a scopo di estorsione. Al tempo di Malachia, la pratica delle decime rispondeva alla struttura di una società teocratica con sovrastruttura religiosa pesante e che attendeva anche ad attività sociali. Gesù dizimista


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diede non il 10%, ma il 100%: Il mio corpo è vero cibo: chi lo mangia vivrà per sempre (cfr Gv 6). [Nell’Italia agricola la chiesa aveva stabilito il “quartese”: uno per quaranta, o 2,5%. Le decime sono quattro volte il quartese! La chiesa cattolica in Brasile incoraggia (non obbliga) il cattolico a pagare una mensilità, ma è il fedele stesso che ne decide il valore, e la comunità che raccoglie le mensilità deve presentare il bilancio di quanto è entrato e come viene speso. Questa pratica è estranea alle chiese evangeliche, dove il pastore intasca le decime senza nessun rendiconto].

Quanto alle decime e alle offerte. Le persone, salvo eccezioni, si ritengono onorate a pagare decime e offerte. Questo forse si spiega culturalmente: gli amazzonici hanno una spiccata religiosità e pagare le decime è dare a Dio quel che è di Dio. Inoltre, essi hanno sofferto uno iato tra lavoro e ricchezza, infatti per gli indios tutto è comune perché è dono di madre natura; per i negri il lavoro non dava ricchezza allo schiavo ma al suo padrone. Lo iato continua in un’economia quotidiana senza calcoli, col denaro fluido: qui si chiede, si presta, si spende, si dona molto facilmente. Ma così i pastori diventano i furbetti del quartiere. Capita che la moglie del pastore testimoni truccata da popolana per provocare generosità. In questa strategia “decime + offerte” c’è la chiave per capire il moltiplicarsi delle chiese. A questo rispetto, grazie a Dio, i cattolici son meno sfacciati. Un recente sondaggio nella nostra periferia ha dato questo risultato: oggi chi garantisce il maggior guadagno non è né l’industria, né il commercio, ma la religione, anche perché essa è libera da tasse. Quanto ai miracoli. C’è un clima di pan-miracolismo. “Tu credi in Dio? Quindi credi ai miracoli”. Uno dei miracoli più annunciati è quello della prosperità. Ma il miracolo dell’arricchimento non avviene per i poveri. Si dà il caso di industriali o commercianti in fallimento che sono stati aiutati a risollevarsi con prestiti di denaro (perfino con lavaggio di denaro sporco). Quanto all’alienazione. Si direbbe che siamo all’opposto dell’obiettivo della religione che, a detta di A.J. Heschel, “dev’essere quello di contrastare la banalizzazione dell’esistenza umana”. Siamo anche all’opposto della tradizione ebraico-cristiana: il popolo di Dio aveva ben presente la questione sociale, la giustizia, l’attenzione al bene comune, i diritti dei poveri. Coincidenza non casuale: le nuove chiese evangeliche si diffondono in un periodo in cui la giustizia è in ribasso nel pianeta (da 20 anni a questa parte) ed esse rinforzano una cultura di esclusione e manipolazione invece di costruire participazione critica e cultura democratica. Considerando che la Bibbia è più antropocentrica che teocentrica, ritengo l’attuale “rivincita del sacro” come un malinteso. Il ricorso ossessionante a nomi e slogan religiosi pecca contro il comandamento di non nominare il nome di Dio invano. Personalmente, mi sento stomacato da questa invasione del vocabolario biblico-giudaico e sento molto la mancanza della “laicità”. Mettendo insieme i vari elementi presentati fin qui si capisce che le nuove chiese evangeliche sono “un affare per i pastori e una moda per i fedeli”. Moda non necessariamente nel senso peggiorativo, quanto nel senso che andare a sera ad una


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celebrazione è “in” ed è pratica molto diffusa. E’ ciò che... tutti i parroci da sempre desidererebbero avvenisse nelle loro parrocchie. C’è poi il senso di conversione da cattolici-non-partecipanti in evangelici-fervorosi, decisi a coltivarsi spiritualmente attraverso la Parola di Dio. Sono uomini che durante il giorno lavorano in condizioni spesso disagiate, umilianti, ma a sera vestono bene, prendono la Bibbia sotto il braccio e, con la famiglia, si incamminano ad un salone-chiesa. Il pastore non ha fatto 4-5 anni di teologia, ma ha un bagaglio sufficiente, un linguaggio accessibile e nessuna tonaca che lo separi dalla gente. In genere, i fedeli sono grati ai loro pastori: li vedono dediti, accessibili, preparati; insomma simpatici. Mi ha sorpreso una bambina che mi disse: “Mi piacerebbe che tu fossi un pastore”. Stava facendomi un elogio, come dire che meritavo d’essere un pastore, e non un prete obsoleto, superato.

Una lettura differente Dicevo in apertura: il fenomeno pare tsunami. Quindi, fin qui il discorso è stato, mio malgrado, apologetico. Ma bisogna riconoscere che la diffusione delle chiese evangeliche presenta delle virtù. Per la verità, poche chiese evangeliche organizzano un lavoro sociale: con ragazzi e adolescenti, o per il ricupero di drogati, e meno ancora... di lotta per la riforma agraria; ma molte praticano le opere di misericordia. Ricordo qui le opere spirituali e corporali più praticate dalle chiese evangeliche: visitare gli infermi; visitare i carcerati; consigliare i dubbiosi; insegnare agli ignoranti; ammonire i peccatori; consolare gli afflitti. In un articolo recente (Chiesa cattolica in picchiata, 18.10.2010) Maurizio Chierici dice degli evangelici, citando Frei Betto: “Essi stanno interpretando il post moderno con l’impegno di tener viva la spiritualità della gente. Senza di loro non ci sarebbe niente. [Noi cattolici] non ci siamo adeguati all’evoluzione dei tempi: gerarchie e abitudini rigide, non troppo diverse dagli anni della colonia. Nelle metropoli il concetto organizzativo della parrocchia appartiene ad un altro secolo. Se un fedele ha bisogno di parlare col suo prete deve prendere appuntamento una settimana prima. La gente è cambiata. Vuol parlare e subito. Essere ascoltata quando ha bisogno... La luce delle case d’accoglienza di pentecostali ed evangelici è sempre accesa”. Ci sono volontari che ascoltano, consolano, insegnano a parlare direttamente con Dio. Chi soffre li ritrova sulla porta di casa.

L’esame di coscienza della chiesa cattolica Le chiese evangeliche provocano la chiesa cattolica ad una riflessione seria sulla sua identità e sulle sue omissioni. Per cominciare, c’è il problema che la chiesa cattolica è clericale, clero-dipendente, anche in Brasile e anche qui a Manaus, dove la condu-


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zione delle comunità è pienamente affidata ai “ministri non-ordinati”. Il dilemma è che i pastori sono equiparati ai preti e sono dieci volte di più, mentre i “ministri nonordinati” della chiesa cattolica - più numerosi dei pastori - sono considerati molto meno dei pastori. Allora in Brasile si sente la mancanza... di oltre 100mila preti! La mancanza di preti, la resistenza a de-clericalizzare la chiesa e il veto a ordinare sacerdoti sposati o donne, spiegano perché la chiesa cattolica segni il passo. Per la verità, Benedetto XVI nel discorso ai vescovi brasiliani a conclusione della visita ad limina (10.09.2010) sul problema dell’espansione delle chiese evangeliche, indica altre cause: l’evangelizzazione superficiale dei cattolici, la cui fede è fragile, spesso basata su un ingenuo devozionismo; e il proselitismo aggressivo dei nuovi gruppi religiosi. Ergo, il rimedio consisterebbe nella catechesi e nell’ecumenismo (sempre difficile). Ma i due motivi spiegano solo in parte l’esodo dei cattolici. Ritengo inoltre che il problema vada collocato più in alto e più in profondità. Non nella perdita quantitativa dei fedeli, ma sulla fedeltà della chiesa al suo Signore Gesù. La domanda allora è: I cattolici sono pronti a dar ragione della speranza che è in loro (1Pt 3,15)? Una chiesa per il Regno. Sto riflettendo nelle comunità sull’identità della chiesa che è a servizio del Regno. Per motivi didattici, io prendo ispirazione dal versetto - che cito spesso – di Rom 14,17: “il Regno di Dio è giustizia, pace e gioia nello Spirito”. Per corrispondervi, la chiesa dev’essere liberatrice (perché ci sia giustizia), tradizionale (perché ci sia pace) e carismatica (perché ci sia gioia nello Spirito). Insomma, una chiesa che si rispetti dovrebbe avere i tre livelli, nell’ordine. 1. Il primo livello, il più importante, è quello della giustizia-liberazione che, intesa biblicamente, è molto ampia perché significa vivere secondo la volontà di Dio. E Lui vuole che la casa del mondo sia il suo Regno, dove noi viviamo con molta dignità, come figli e figlie di Lui: preoccupati della pratica più che della ortodossia teorica; senza il dominio di alcuni ad opprimere i fratelli; senza esclusione, corruzione, avidità, miseria... Gesù ha affrontato la morte per essere fedele alla sua missione di giustizia-liberazione. Per vivere questo ideale sono nate in America Latina le CEBs. Nelle CEBs (Comunità ecclesiali di base) si prende in una mano la vita (la situazione di oggi) e nell’altra la Bibbia. La Bibbia è lo specchio di luce a dirci qual è la volontà di Dio e su questo specchio proiettiamo la situazione per vedere se vi corrisponde. Laddove notiamo uno “s-compasso” tra la volontà di Dio e la situazione, ci rimbocchiamo le maniche e ci impegniamo a mettere in opera dei correttivi. “Vedere-giudicare-agire”. Ogni CEB è una comunità di dimensione umana, in rete con altre, e con la parrocchia, la diocesi e la chiesa universale. I vescovi brasiliani e latino-americani hanno riconosciuto le CEBs come provvidenziali, suscitate dallo Spirito. Purtroppo gli ultimi due papi e l’alta gerarchia della chiesa hanno fatto terra bruciata attorno alle CEBs, alla Teologia della Liberazione e all’opzione per i poveri, accusate di essere viziate di marxismo. Le CEBs faticano a riprendere, adesso che il Documento di Aparecida (2007) le ha rilanciate (gli incontri


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che prima erano delle CEBs, ora sono piuttosto realizzati - in chiave biblica disincarnata - da qualche chiesa evangelica!). L’opzione per i poveri oggi è una scelta di pochi preti, suore e laici. La chiesa brasiliana, ieri profetica, s’è “moderata”: oggi essa non rompe, nella pratica, l’ingiustizia, le disuguaglianze che angosciano il tessuto sociale: da una parte c’è il pacchetto delle grandi famiglie (latifondisti, impresari, gerarchie politiche), dall’altra una alta percentuale di gente con problemi di sopravvivenza materiale e spirituale. Sappiamo del debole di Roma: non per la giustizia del Regno, ma per le borghesie devote all’Opus Dei o ai Legionari di Cristo. Questa tragica apostasia allontana la chiesa dalla sua missione e la rende “dispensabile”! 2. Il secondo livello è quello della tradizione per avere pace. Il popolo brasiliano è molto religioso ed è molto pacifico (è passato attraverso i secoli quasi indenne da guerre). La tradizione religiosa ha giocato un ruolo di rilievo nella trasmissione di usi, costumi, credenze... Si vedano le feste, la dovozione ai santi, le benedizioni quotidiane dei genitori ai figli..., per restare nell’immaginario cattolico. Occorre qui specificare che in sé la religiosità popolare è una nave o un convoglio che può trasportare sia la coscientizzazione sia l’alienazione. Ma la religiosità tradizionale ha sofferto un duro colpo nel secolo XVIII e seguenti, ad opera di una romanizzazione imposta da Roma. Non più cappelle e capitelli, ma matrici o cattedrali; non più santi nomadi, ma il Dio insediato; non più feste agresti, ma celebrazioni liturgiche rituali; non più sodalizi di mutuo soccorso, ma confraternite del Santissimo Sacramento... Oggi la religiosità tradizionale sopravvive nelle novene che nelle chiese o cappelle sono più frequenti delle messe. Purtroppo i testi delle novene - per es., della Novena del Perpetuo Soccorso, recitata ogni mercoledì nella maggioranza delle chiese - sono traduzioni di testi devozionali europei medievali. Queste novene non sono “coscientizzanti” e offrono il fianco alla critica degli evangelici, che le definiscono idolatriche. La vera tradizione per la pace (cfr. le sezioni parenetiche delle lettere di San Paolo) resiste nell’immaginario religioso del popolo di contadini, minatori-estrattivisti, artigiani... e anche nei migranti. Essa dà alla comunità cattolica un volto popolare-umano. 3. Il terzo livello è quello carismatico della gioia nello Spirito Santo. Viviamo nel tempo dello Spirito; viviamo la missione dello Spirito. Gesù Cristo ha inviato i suoi discepoli in missione fino ai confini dello spazio e del tempo. Per questo con il Padre e da parte di Lui, Gesù ha mandato lo Spirito a vivificare la chiesa dei discepoli. Nei secoli i cristiani s’erano quasi dimenticati dello Spirito, come gli Efesini di Atti 19,2-5: Non abbiamo neppure sentito parlare che esista uno Spirito Santo. Grazie a Dio, oggi lo Spirito Santo non è più il grande sconosciuto. Ma è lo Spirito del Padre (creativo e misericordioso) e lo Spirito di Gesù (fedele e coraggioso), elargito nei nostri cuori? A volte pare uno spirito di religione misterica urbana! Lo Spirito di Pentecoste fa pensare alle CEBs, le quali vivono la lotta per il Regno nella prospettiva del martirio, come un’esperienza gioiosa! Una chiesa che armonizzi i tre livelli sarebbe gradita al suo Signore (e sarebbe umanissima!). Pare, purtroppo, che la chiesa non sia capace di focalizzare bene ciascu-


Le nuove chiese evangeliche

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no dei tre livelli, come ho appena mostrato. Peggio ancora, pare che la chiesa cattolica - tanto la gerarchia come le singole chiese e/o comunità - non riesca a mettere insieme in armonia i tre livelli, ciascuno impegnato a cancellare l’altro. Le CEBs non hanno pazienza e attenzione nei confronti della tradizione, del simbolico; le comunità più tradizionali non riescono ad attualizzarsi nei simboli e nel linguaggio (che sia antibellico ed ecologico); il Rinnovamento dello Spirito disgiunge la fede dalla vita; si crede kerigmatico e l’unico capace di scongiurare l’esodo dei cattolici verso il pentecostalismo...

Previsioni per il futuro? Personalmente m’aspettavo che si arrivasse alla metastasi del boom evangelico. Ma non sono più così convinto. Io pensavo: le chiese, nascendo per iniziativa privata, moltiplicandosi fuori di ogni controllo, finiranno per esaurire il mercato dei fedeli. E quando l’offerta supera la domanda, si ha l’inflazione che porta alla recessione e alla crisi: questo in campo economico ma anche religioso. Pensavo: mancheranno fedeli-clienti per tante chiese, così finirà l’affare economico. Ma devo ricredermi: 50 famiglie danno al pastore 5 salari famigliari di decime e una somma almeno equivalente di offerte. Più che sufficiente! Nella mia area missionaria di oltre 20 mila famiglie (e 16 comunità cattoliche), c’è spazio per 400 chiese evangeliche. Attualmente non superano le 200. C’è anche chi sta preconizzando la fine del boom evangelico. Esso è sorto molto rapidamente, quindi sarebbe destinato a spegnersi altrettanto rapidamente. Non s’è trattato di una vera “pentecoste”, nonostante il nome di pentecostalismo: mancherebbero basi spirituali, mistiche e teologiche solide. E’ molto esteso, di superficie, ma non sufficientemente profondo. La configurazione attuale è di 60% cattolici di poca participazione e 40% evangelici convinti: un “quadro sociale nuovo” e non a caso i politici stanno corteggiando gli evangelici. Essi stanno influenzando la vita politica, economica e sociale seppure sia ancora presto per capire quanto accade. Attualmente la spiritualità degli evangelici non è originale, è importata e spesso alienante. Ma in futuro, chissà, può diventare un cammino di liberazione. Spiego: una chiesa nella linea delle CEBs ci ricorda le comunità giovannee, specialmente dell’Apocalisse, in conflitto con l’impero romano; le chiese evangeliche ricordano piuttosto le comunità degli Atti (direi le comunità paoline e/o lucane) che non polemizzano con l’impero romano pagano ma, crescendo, lo svuotano di adepti. Forse il superamento del neoeoliberalismo più che dalla chiesa cattolica verrà dalle chiese evangeliche? Voglio precisare: ho messo volutamente fianco a fianco previsioni contrastanti, essendo il panorama estremamente ambiguo o ambivalente.


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Conclusione Il vento si alza / bisogna tentare di vivere! (Paul Valery) I fedeli evangelici si sono alzati, ma manca loro quella umanità di pranzare con Matteo e di trasformare in vino l’acqua di Cana. Un esempio banale: a Manaus aumentano le pizzerie che non servono la birra: gli evangelici stanno forzando una cultura analcolica, che può essere un elemento identitario ma che non risolve il problema dell’alcoolismo, come s’è visto con la legge del proibizionismo! A Manaus un uomo, a sera, dopo un giorno duro o va alla chiesa evangelica, o continua ad andare al pub per berci su. Mi domando: perché non va agli incontri biblici delle Comunità di base, o alle riunioni civiche, o non resta in casa con i suoi? Se l’invasione delle chiese evangeliche è - come dicono - fenomeno tipico di tutto il terzo mondo, esso dev’essere studiato con la stessa serietà che il neo-colonialismo del capitalismo neoliberale. Non avvenga che i “signori evangelici” siano le nuove élites locali che hanno imparato in fretta la lezione dell’uomo bianco di sfruttare e plagiare i suoi simili. Mi domando anche perché l’alternativa debba essere «chiesa cattolica “romana” / chiesa evangelica “anglosassone”»? Alla finestra, mentre tramonta il sole - alle diciotto tutti i giorni di tutti i dodici mesi - mi domando: - Se siamo nel cuore dell’Amazzonia, dov’è il canto dell’acqua? Dove il fremito degli alberi della foresta? Il jamburee dei papagalli? E sogno la storia che vorremmo e dovremmo costruire. Come contrapporre l’identità all’alienazione; l’inclusione al metodo dell’esclusione ... Per cominciare, occorre conoscere e riconoscere le differenze culturali, coperte dalla cenere della colonizzazione. E non solo affermarle, come anche sceglierne i valori in libertà per una costruzione dinamica, con i piedi a terra, in vista di una identità da terzo millennio. È la convivialità delle differenze, che deve stare anche all’orizzonte del primo mondo popolato di migranti. Ma qui in particolare si tratta di ascoltare le voci dell’indio e della foresta che si condizionano mutuamente e si parlano: una lezione di vita per i problemi ambientali. Ci sono poi le culture meticce, come la cabocla-rivierasca, fatta di cameratismo, solidarietà, generosità, incline alla festa, lontana dall’ambizione e dall’accumulazione... Indios e caboclos hanno una fede in Dio non discorsiva, ma fatta di esperienza, vita, spiritualità del quotidiano; come viandanti la cui orma leggera non ferisce la Madre Terra e... il cui destino è nei pascoli eterni. Intanto il sole è tramontato: è bene che prenda il mio breviario e reciti Compieta.


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Perché e come analizzare la pratica didattica

Pensare per insegnare Come gli insegnanti pensano il proprio agire GIUSEPPE TACCONI

1. Introduzione Una ricerca che intenda essere utile ai pratici è una ricerca che riesce a mettere in parola il sapere vivo che i pratici hanno maturato nella loro esperienza. Si tratta di un sapere ricco e prezioso, che spesso però rimane “non saputo”, incarnato com’è nei gesti e nelle azioni, nei corpi e nei contesti. È quel sapere che nasce nel dialogo costante che i pratici intrattengono con le situazioni, mutevoli e largamente imprevedibili, con cui sono quotidianamente confrontati (Schön, 1983). Alla consapevolezza che i pratici rappresentano la fonte principale per la ricerca didattica, corrisponde dunque il tentativo dei ricercatori di porsi, nei loro confronti, come risorse per la messa in parola della pratica, in un rapporto alla pari, che richiede una reciproca cordialità e uno specifico patto (cfr. Damiano, 2006). I ricercatori fanno questo innanzitutto sollecitando i pratici a narrare situazioni ed episodi, raccogliendo le loro storie, e poi elaborando percorsi rigorosi di analisi che, dando fiducia alle storie (Lackey, Sosa, 2006), consentano di passare dalle parole dei testi narrati alle parole di una formalizzazione scientifica che di quelle narrazioni si riconosce debitrice. La ricerca nasce così dalla pratica (e dai pratici), se ne alimenta continuamente e ad essa (essi) incessantemente ritorna, in cerca di validazione e nella speranza di contribuire a quel miglioramento continuo dell’azione che può avvenire attraverso i processi riflessivi che la ricerca stessa attiva in coloro che vi partecipano. In questa direzione si muovono i percorsi di ricerca del Centro di ricerca educativa e didattica (Cred) del Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia dell’Università di Verona, diretto dalla Prof.ssa Luigina Mortari, che, nel panorama italiano, si caratterizza per un esplicito riferimento al metodo fenomenologico nella ricerca


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educativa (cfr. Mortari, 2007). La fenomenologia, infatti, in forza di una radicale apertura al dato, guida ad un lavoro di descrizione e di analisi delle esperienze – nel nostro caso le pratiche didattiche – che aiuta a coglierne le specificità essenziali. Il presente contributo intende dar conto di uno degli aspetti essenziali emersi nella ricerca dal titolo Dire la pratica. La cultura del fare scuola, coordinata da L. Mortari e condotta, nel triennio dal 2007 al 2009, da chi scrive e da P. Dusi, C. Girelli, C. Sità (cfr. Mortari, 2010a). Si tratta di come gli insegnanti pensano il proprio agire1. La densità riflessiva della pratica è infatti uno degli elementi trasversali emersi nella ricerca, che ha coinvolto 35 insegnanti di ogni ordine e grado (dalla scuola dell’infanzia alla scuola secondaria di secondo grado) e di diversi ambiti disciplinari2, scelti tra coloro che i/le colleghi/e indicavano come punti di riferimento nelle loro realtà scolastiche. L’epistemologia che è stata assunta come riferimento nella ricerca del gruppo veronese è quella di carattere fenomenologico (che richiede fedeltà alle cose, per come esse si rivelano), applicata però alla ricerca empirica3. Un “salto fuori dal cerchio” dei discorsi accreditati, che raramente riescono a giustificare adeguatamente il ricorso alla fenomenologia (scienza di idealità, basata sull’intuizione) per avvicinarsi a fenomeni concreti, ha consentito al gruppo di ricerca di elaborare i tratti di una fenomenologia empirica (Mortari, 2010b) che, orientando a cogliere l’essenza del concreto, può servire come metodo nel campo delle scienze umane e, in questo caso, guidare a cogliere le qualità essenziali di ciò che i docenti interpellati considerano essere una buona pratica didattica. Attraverso interviste conversazionali e ricorsive (cfr. Mortari, 2007), focalizzate sull’esperienza, i ricercatori hanno raccolto un “materiale vivo”, costituito dai racconti che i docenti fanno delle loro pratiche. Un percorso paziente e rigoroso di analisi, sempre attento a mantenere viva la memoria e la riflessione sul suo stesso procedere4, ha consentito poi di sostare sui dati, di met-

1 Questo contributo, pur facendo riferimento al lavoro congiunto di analisi di tutto il gruppo di ricercatori, è stato elaborato in modo autonomo da chi scrive e rappresenta dunque uno sviluppo originale di quanto contenuto nel volume che dà conto della ricerca (Mortari, 2010a). 2 8 insegnanti di Scuola dell’Infanzia, 11 di Scuola Primaria, 8 di Scuola secondaria di I grado; 8 di Scuola secondaria di II grado. 3 Una particolare attenzione è stata dedicata dal gruppo dei ricercatori alle questioni relative al metodo. Per avvicinarsi al campo della pratica, senza imporre ai fenomeni le proprie concettualizzazioni e lasciando parlare le storie, serve infatti un metodo “morbido e gentile” (Fenstermacher, 1994). Una ricerca che adotta un metodo qualitativo, inoltre, realizzandosi all’interno di una relazione, pone sempre anche una questione di carattere etico, richiede consapevolezza e responsabilità, per avvicinarsi in modo accogliente al mondo dell’altro ed esercitare autentico ascolto delle persone (in fase di raccolta dei dati) e dei testi (in fase di analisi). Il “dar voce” ai docenti, infine, rivelando la ricchezza del sapere che può maturare nell’esperienza, fa assumere alla ricerca anche una valenza politica, soprattutto oggi, in un tempo in cui, almeno in Italia, assistiamo ad un processo di delegittimazione sociale della professionalità degli insegnanti. 4 Del percorso della ricerca, nel volume che presenta la ricerca stessa, si dà conto in modo accurato (cfr. Mortari, 2010a, pp. 45-68).


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tere in ordine i temi emergenti e di estrarre induttivamente quelle categorie che progressivamente hanno dato corpo ad una teoria capace di restituire la qualità propria dell’oggetto indagato. La teoria si configura come un’umile descrizione, che tenta di essere il più fedele possibile alle qualità con cui le pratiche si manifestano e dunque ai significati che i docenti hanno costruito nella loro esperienza. Ciò che emerge e viene restituito, con ampio ricorso ai testi stessi dei parlanti, è una teoria non riduzionista – perché sempre vicina alla fonte – dell’agire in classe5. Qui si intende dar conto di un elemento specifico ma estesamente presente nel racconto dei docenti: il pensare degli insegnanti. Non si tratta tanto di cosa gli insegnanti pensano sull’insegnamento6, ma di come gli insegnanti pensano la loro esperienza didattica e del ruolo che il pensare assume nell’esperienza stessa.

2. Lasciare libero spazio al pensiero Il pensare che gli insegnanti interpellati identificano come una sorta condizione per agire bene, perché orienta a discernere cosa è meglio fare nelle specifiche situazioni che la vita scolastica presenta, non è tanto - o solo - ciò che si fa quando, ad esempio, ci si mette a tavolino e ci si interroga sui metodi da adottare in classe il giorno dopo; non è nemmeno quel pensare lineare e sequenziale che – per usare le parole di un’insegnante – si esprime con frasi del tipo: “se succede così..., allora farò così...”. Pensare significa piuttosto “portarsi a casa” le situazioni che si sono vissute a scuola, ritornarci pensosamente su, lasciare che il pensiero lavori: mi viene (da pensare) soprattutto dopo una giornata scolastica, perché non ho il tempo materiale per mettermi a riflettere fintanto che lavoro; quando

Questi sono gli elementi che caratterizzano tale pratica e che vengono ben esposti nel libro (cfr. Mortari, 2010a): la valorizzazione continua dell’esperienza (che significa offrire la possibilità di operare scelte, di interrogarsi, di sbagliare e ricominciare; di costruire narrazioni e conversazioni a partire dall’esperienza; di assumere un ruolo attivo nel processo di apprendimento); la cura del pensiero degli allievi (che significa: promuovere processi di pensiero consistenti e far ricercare interpretazioni, ipotesi, collegamenti); l’attenzione a far trovare senso nell’imparare (che significa: mettere gli allievi nelle condizioni di dare senso a ciò che viene loro proposto; far sì che i saperi acquistino “sapore” e vengano continuamente riscoperti e ricreati, sia da chi insegna che da chi apprende; far sperimentare la valutazione come ricerca di senso); la costruzione del senso di essere parte di una comunità (che significa: aver cura della relazioni, voler bene e costruire comunità). Oltre che alle pratiche, la ricerca si è rivolta anche alle condizioni che consentono di agire bene: lo stare in dialogo continuo con le situazioni, assumendo un habitus riflessivo; l’essere in ricerca, come atteggiamento insieme riflessivo ed etico, e il sapersi costantemente in formazione; il confronto e l’interazione con i colleghi e con gli altri attori del sistema scolastico; la tessitura di alleanze educative con le famiglie e con il territorio. 6 Aspetto questo studiato dagli studi sulla conoscenza pratica degli insegnanti che vanno sotto il nome di Nuova Ricerca Didattica (cfr. Tochon, 2000; lo stato dell’arte su questo filone di studi ci viene offerto da Damiano, 2006). 5


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finisce la giornata o già quando salgo in macchina ed esco dal cancello, comincio a rivedere, scorrendo come in un film, a ritroso, quello che ho fatto [...], se ci sono stati degli episodi particolari a livello di rapporto coi genitori o con i bambini o con le colleghe, perché comunque non sei un’isola, fai parte di un contesto; ci ripenso, cerco di valutare le varie situazioni, poi magari lascio scemare la cosa e, non so, la sera, quando mi metto a fare qualcos’altro, magari mi torna ancora in mente; se non è un grosso problema, non me lo porto addosso più di tanto, cerco un attimino di rivedere le cose e poi di costruire su quello che ho rivisto (I4/36)7; quando ritorno a casa e mi accorgo che, alla mattina, un bambino mi è sfuggito, oppure che - perché comunque ci si ricade - mi hanno chiamato al telefono, avevo fretta di finire un lavoro e mi rendo conto che magari un bambino era venuto a raccontarmi (qualcosa) e io l’ho liquidato in fretta, questo mi fa dispiacere […] (P3/12); a casa queste situazioni si portano. Non chiudo la saracinesca. Ci sono anche situazioni un po’ problematiche e queste cose mi lavorano dentro, per cui le porto a casa. In questi momenti non è però che ci sia il pensiero: “allora, sì, faccio così...” oppure “farò cosà...”. Credo che l’intuizione, non so come dire, sia qualcosa che viene così (M8/165), (lasciando) che il pensiero lavori [...] (M8/167). Quando mi trovo davanti a qualcosa, lascio un po’ che (il pensiero) lavori e produca in modo spontaneo un cambiamento, una modalità di azione. Non c’è qui un pensiero preciso, di tipo logico: “se succede così, allora farò così”. No. Mi capitano queste intuizioni e poi le provo, provo a vedere se funziona... (M8/169); il pensiero sul mio lavoro ce l’ho costantemente [...]: vado in macchina e penso a cosa fare, non solo pianificando il giorno dopo, ma ripensando a ciò che è accaduto, magari nella gestione del gruppo, e a che cosa potrei fare (S1/233). La vita scolastica offre continue occasioni per pensare. Nei racconti dei docenti,

I codici riportati alla fine di ciascun estratto indicano l’intervista (I = Infanzia; P = Primaria; M = Scuola Media o Secondaria di I grado; S = Scuola Superiore o Secondaria di II grado; I1 = Intervista Infanzia n. 1, P2 = Intervista Primaria n. 2 ecc.) e la posizione che il brano riportato ha nel testo intero. Il numero che segue la barra indica infatti il turno di parola all’interno del quale si colloca il brano nella matrice che contiene le trascrizioni delle interviste per l’analisi (cfr. Mortari, 2010a). Rispetto alla maggior parte degli elementi emersi dall’analisi, sono riportati brani estratti da diverse interviste che fanno tra loro eco. È questo uno dei criteri che ci hanno portato ad individuare gli elementi essenziali.

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intravediamo un pensare che avviene prima dell’azione, quando si progettano le azioni possibili, e un pensare che si svolge durante l’azione stessa, quando conversando con essa (Schön, 1983) nasce l’intuizione. Alcuni docenti danno voce proprio a quel pensiero che prende avvio dall’interazione tra le conoscenze, la sensibilità e le disposizioni interiori dell’insegnante (la sua capacità di “muoversi di pancia”, come la chiama un’insegnante) e gli stimoli offerti dalla situazione specifica e sempre nuova. Tutto questo assume spesso i caratteri di un’inventiva a cui si può ben dare il nome di “intuizione”: l’intuizione e il “muoversi di pancia” - come dico io - hanno un grande ruolo; [...] a volte si riescono ad intuire il movimento e la risposta adeguata ad un bambino, ad un gruppo di bambini, non mettendo in campo tutto ciò che è razionale, il sapere o le conoscenze, ma proprio giocando di pancia, di intuito (I2/180); succede che ti si accende una lampadina: una cosa che non avevi considerato, non avevi pensato, oppure una modalità, che può essere la più divertente, la più banale, è quella che invece può diventare la più profonda. (Si va) dal capire che, in quel momento, con un bambino non serve il contenimento brusco, ma un abbraccio, al capire che, in quel momento, per riorganizzare un gruppo di bambini particolarmente agitati, che non ti ascoltano, non servirà urlare o richiamare, ma magari sarà più utile salire in piedi su una seggiola, facendo finta di essere sull’autobus. Sono intuizioni strategiche che una ha e che risolvono la situazione [...]: capire che un bambino ha necessità di un abbraccio o di una sgridata o che, in quel momento, c’è bisogno di un no deciso e determinato [...]. Non so da dove venga l’intuizione; viene dalla pancia, sicuramente, però non so quali siano i dati che arrivano e che si intrecciano nel tuo sapere. Probabilmente (si tratta di) un insieme di cose che accadono (I2/182) [...]; (l’esperienza) è un sostegno aperto, quando ti dà una serie di dati, perché comunque una serie di dati [...] li hai in mano, perché ti è già successo, perché cose simili sono accadute, perché hai studiato, perché ne hai discusso, perché ne hai parlato; in qualche modo, credo che l’esperienza possa essere sostegno all’intuizione: in quel momento probabilmente tutto questo, in una sorta di magia, fa scattare qualcosa di risolutivo: “Oh che bella idea!”; tac, scatta qualcosa ed è bellissimo, come quando [...] guardi negli occhi una mamma che arriva al mattino, ti sta dicendo una cosa, ma con gli occhi te ne sta dicendo un’altra, e ti viene - di pancia - la risposta giusta al momento giusto (I2/184); non riesco a riproporre due attività uguali [...] deve esserci sempre qualcosa di nuovo [...]. Ad esempio, il percorso che ho fatto l’anno scorso potrei riproporlo, ma c’è sempre qualcosa di nuovo che dipende [...] dai bambini con i quali mi trovo a lavorare, perché da quello che mi danno invento percorsi diversi [...] (P6/33);


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ci sono (momenti di pensiero) “obbligati”, legati al contingente: “Devo fare, devo correggere, devo sistemare...”. Ce ne sono altri, che trovo più belli e creativi, che sono quelli in cui [...] penso ad una strategia di lavoro da inventare [...]; sono i momenti in cui c’è l’aspetto più creativo del lavoro [...], i momenti di pensiero più importanti e vitali, che sono in funzione di qualcosa che arricchisce, che crea, che rende piacevole l’esperienza [...], oppure momenti in cui, riflettendo su alcuni casi, mi rendo conto che c’è qualcosa di più o di diverso da fare (M5/97); ho visto a posteriori che a volte ho inventato veramente sul momento una situazione nuova e mi è nata tra le mani un’esercitazione che probabilmente a tavolino non avrei mai pensato [...] (S1/158): nasce da una battuta, da una frase detta da uno studente, da una situazione che viviamo in quel momento; [...] questa cosa me ne fa venire in mente un’altra, per generazione di idee, e allora mi lascio un po’ andare e vivo quella cosa fino in fondo [...] (S1/160). Alla fine di una lezione, dopo una verifica o al termine di un anno scolastico, il pensiero si fa esplicito ed interrogante ritorno sull’esperienza, un “camminare con le domande” che nascono dentro, che consente di guadagnare consapevolezza del cammino e di crescere: succede che ti chiedi, a fine giornata, se sei stata in grado o meno di rispondere a questi bambini, al loro bisogno di conoscenza (I2/150); secondo me [...] è giusto farsi delle domande, sempre, anche quando le cose vanno bene, o pensi che vadano bene. È importantissimo essere sempre lì a chiedersi: “Come mai? Che cosa sta succedendo? Cosa posso fare? Cosa non posso fare?...”, senza voler andare a cercare il pelo nell’uovo. Non si tratta di farsi domande a tutti costi; le domande vengono [...], a me viene naturale pormi delle domande, perché mi indirizzano su dei percorsi (P10/168); [...] per esempio, con la classe che ho da quattro anni, le cose vanno bene, però mi viene la domanda: “Perché sta andando bene? Cosa sto facendo? È successo qualcosa che mi sta sfuggendo di mano?...”. Bisogna interrogarsi sempre, anche perché le cose vanno bene adesso ma potrebbero andare male domani, fare un’analisi di quello che ci sta intorno, porsi delle domande [...]. Ho davanti delle persone che ogni giorno sono diverse. Come faccio ad andare avanti sempre allo stesso modo? Allora mi faccio delle domande e cammino con loro (P10/172); alla fine dell’anno, vado a vedermi tutte le unità e comincio a dire: “Questa è andata bene, questa mica tanto. Come la posso cambiare? Che cosa non ha funzionato lì?”...; è un lavoro che faccio regolarmente (M3/282);


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si riflette alla fine di ogni lezione o alla fine di una giornata e si riflette in occasione delle verifiche canoniche che si fanno, perché le verifiche non riguardano soltanto le acquisizioni da parte degli alunni, ma anche l’efficacia di quello che l’insegnante ha predisposto (S8/57). La riflessione che gli insegnanti attivano a fine giornata o a fine percorso è, in tutti gli ordini di scuola, una riflessione su come sono andate le cose, che diventa però insieme anche riflessione su di sé e su ciò che è ancora possibile fare; riuscire a vedere le cose diversamente da quando vi si era immersi implica l’apertura di nuovi spazi di azione. Nella mente dei docenti, la scuola è un oggetto persistente di pensiero, non circoscritto o circoscrivibile ad alcuni momenti specifici, e il pensare acquisisce proprio la forma di un habitus, un’attitudine riflessiva, che accompagna anche nella vita quotidiana, al di fuori del contesto scolastico, quando si è in macchina, mentre si sbrigano le faccende domestiche, quando si parla con un’amica, quando si sta leggendo un libro o si va a vedere un film: ci penso 24 ore su 24 ore; quando arrivo a casa, tiro fuori i miei libri, le mie cose; le domeniche le passo su queste cose [...]; in un certo senso, (il nostro) è uno dei lavori in cui la persona è assorbita al 100%, se lo vivi in un certo modo (I8/126); bisogna aprire gli occhi, le orecchie e tutte le antenne possibili, per leggere tutto quello che la realtà circostante ci manda [...]; io cerco un po’ di avere questo atteggiamento [...] (P9/310); quando sono a casa, quando sono nel mio studio, quando stiro, quando asciugo, penso. Quando sono in malattia (penso); loro “hanno il terrore” che io vada in malattia, perché (si dicono): “...quando torna, cosa ci darà da fare?”; anche stamattina ho portato una serie di tracce e ho detto: “Guardate che qua ragazzi ci sono tutte queste tracce e dobbiamo farle tutte!”. “Ma quando le ha preparate?”. “Ieri!”. “Ecco, non doveva esserci la domenica?”… (M3/260); (penso) nei miei tempi liberi, quando vado a casa e dico: “Eh, oggi pomeriggio penserò a qualcosa…”, ma qualunque occasione è buona, anche quando parlo con qualche mia collega che magari insegna alle superiori e mi dà qualche idea... (M3/262); non c’è un momento privilegiato per pensare [...] credo che ci sia sempre [...] anche un utilizzo a fini scolastici di quello che sto leggendo, di quello che sto facendo, di quello che sto vedendo (S4/173); credo che (quello sull’insegnamento) sia un pensiero abbastanza costante. Quella degli insegnanti che parlano moltissimo del loro lavoro è una nota che a volte risulta anche negati-


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va, perché a volte, quando si va a cena e ci sono due o tre insegnanti, gli altri dicono: “adesso non parlerete ancora di scuola?”. Perché questo mestiere ti entra dentro (S4/173), comporta un pensiero impegnativo [...], appassionante, che occupa uno spazio molto grande, a volte fino alla noia per chi vive con me; [...] questo lavoro ti pone in una dimensione affettiva molto forte e questi ragazzi, a volte, ti chiedono proprio aiuto; [...] non sono una che, finita la scuola, quando suona la campana, stacca; c’è sempre questo pensiero… (S4/175) Si pensa in continuazione e in continuazione si sente l’esigenza di condividere questi pensieri con altri - in particolare con altri insegnanti -, fino quasi a correre il rischio di risultare molesti per coloro che ci stanno accanto e non hanno direttamente a che fare con la scuola. Il pensiero dell’insegnante nasce da un intenso coinvolgimento relazionale ed emotivo e, anche quando magari si vorrebbe, non si riesce facilmente a staccare la spina - per quanto, talvolta, sia anche necessario e opportuno farlo -, perché il pensiero ritorna inevitabilmente sulle relazioni che si stanno vivendo. Il pensare degli insegnanti sembra avere il proprio elemento vitale nell’attenzione con cui si osserva. Questa, infatti, prima che una pratica relazionale, è un modo di essere e pensare, apertura a ciò che succede, a sé, all’altro, capacità di sorprendersi, desiderio di imparare8: l’osservazione mi aiuta un po’ a fare un lavoro di introspezione [...], a trovare delle conferme: “eh, lo sapevo che andava così!” [...], oppure a dire: “ah, però, caspita! Cioè, avrei pensato che... e invece...”; [...] anche lì hai uno stimolo per approfondire, perché ritengo [...] che, come educatori, non si abbia mai finito di imparare, e che [...] la vita ti riservi sempre - anche a livello personale - delle sorprese; comunque si impara: si impara dalla vita, dalle esperienze, anche dagli errori (I4/238); (è importante) l’attenzione alle piccole cose: c’è lo sguardo di M. (un’allieva, ndr), che può essere triste, e io ne tengo conto, non perché [...] io debba per forza fare da mamma, ma perché ritengo che sia importante la sua presenza per il gruppo; allora, se è triste, mentre parlo, mi rivolgo velocemente a lei e le dico: “Parliamo dopo” [...]; oppure c’è il bambino autistico - non sapevo nulla sui bambini autistici, però ho imparato che l’attenzione alle piccole cose, con questi bambini, è importantissima -; ha tante difficoltà, è molto chiuso, non parla, però io e l’altra insegnante abbiamo pensato che dovesse

Potremmo dire che il modo di essere e pensare di cui stiamo parlando è la condizione che rende possibile l’attenzione come pratica educativa.

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fare vita di classe e per questo abbiamo chiesto ai bambini di non alzare troppo la voce, perché altrimenti lui si metteva ad urlare; ora, per i bambini, è normale non alzare la voce più di tanto; [...] un giorno, pronunciando il suo nome non direttamente a lui, ho notato che mi ha lanciato uno sguardo e allora ogni mattina ho ripristinato l’abitudine dell’appello; a me non serve più, ma arriva il suo nome e lui alza lo sguardo e sorride; è stato l’inizio di una nuova apertura. Ecco, se non ci fosse stato il [...] saper cogliere questa piccola cosa, il bambino non avrebbe fatto tutti quei progressi; adesso, quando si parla di qualcosa che lo interessa, lui ascolta, interviene; l’educatrice mi dice che a volte ripete le parole che dico io, se la cosa lo colpisce; ha fatto molti progressi (P2/176); alcuni colleghi li ricordo ancora oggi, proprio per la loro capacità di instaurare un feeling con i ragazzi, per il loro carisma, per la loro capacità di gestire la classe, di essere attenti alle esigenze dei ragazzi, ma anche dei genitori, per la loro delicatezza nei modi (M4/46); sto molto attenta con i ragazzi, faccio attenzione soprattutto alle persone più riservate, perché penso che spesso a scuola siano trascurate; si tende a correre dietro o a chi si impone o a chi dà fastidio, ma quelli che non vogliono fare l’onda, a volte, ci riescono e alla fine sono trasparenti per gli insegnanti (S1/152). Dagli insegnanti emerge un pensare che si attiva prestando attenzione agli altri e, specularmente, anche a se stessi. L’attenzione stimola all’introspezione, a muoversi verso la profondità (I4). Nel caso raccontato da L. (P2) affinare lo sguardo, allenandolo a stare attento alle piccole cose, consente di individuare piste di intervento insospettate. D. (M4) ricorda figure di colleghi significative nella loro capacità di gestire il rapporto con gli allievi proprio perché capaci di attenzione e C. (S1) confessa come l’attenzione le consenta di rendere visibili - e considerabili, “pensabili” appunto - quegli allievi che altrimenti, per la loro riservatezza rischierebbero di restare trasparenti e invisibili. Questa forma di pensiero è ben espressa dalle parole di Roberto Mancini che, in una riflessione sul pensare, afferma: «L’attenzione è apertura, sensibilità, coscienza di sé, senso dell’altro, dell’altrimenti, dell’ulteriore. È il movimento dell’andare incontro. È insieme scoperta e discrezione, empatia e rispetto, ricerca e cura. Riassume in sé la forza della critica e la delicatezza dell’ospitalità [...]. L’attenzione è micrologica, cioè si dedica a ciò che appare trascurabile e che invece è prezioso. Il pensiero è cura di ciò che sarebbe scartato o dimenticato...» (Mancini, 2002, p. 119). Quando il confronto sull’esperienza avviene con un gruppo di docenti che riesce nell’impresa condivisa del dialogo - cosa che sembra avvenire stabilmente nella scuola dell’infanzia e in quella primaria e, con minore intensità, nella scuola secondaria di primo e di secondo grado -, le possibilità di pensare


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si amplificano: non è possibile essere una brava maestra, se non collabori e non ti confronti con le colleghe; la forza del collegio è la forza che ti fa crescere, la forza del confronto; nel collegio trovi conferma o disconferma delle tue idee, il collegio fa le scelte insieme; bisogna essere capaci di relazionarsi, di dire “sì” anche ad alcuni aspetti che magari non si condividono totalmente, di accettare le critiche costruttive, professionali e non personali, ed è difficile [...] perché, quando qualcuno ti dice qualcosa che non va, comunque ci resti male, [...] però saper accettare anche queste critiche, mettersi in discussione, mettersi nel confronto ti fa crescere. Non si fa bene scuola da sole, assolutamente [...] (I2/132); [...] proprio nel confronto con le colleghe e nella messa in discussione con le colleghe c’è stata [...] la spinta, la molla a cercare risposte diverse; è attraverso il confronto con le colleghe che si è arrivate a identificare un disagio nel modo di fare scuola, oppure a fare il punto della situazione e a capire che in quel momento forse bisognava fare altre scelte o cercare altri percorsi formativi, perché si era in uno stato di blocco, perché c’era qualcosa che non andava; a questa consapevolezza non sono arrivata da sola, ci sono arrivata nel confronto con le altre, specchiandomi nelle altre; [...] penso che il collegio e la comunicazione fra colleghe ti aiutino a crescere, a cercare risposte o soluzioni diverse, perché, se sei sola, se sei isolata, se te ne stai nel tuo orticello, è difficile che ti rendi conto [...] di dove sei, di che cosa stai facendo, di quello che c’è intorno a te [...] (I2/134); mi accorgo che, parlando con gli altri delle cose che faccio, mi si chiariscono e mi si formano i pensieri a riguardo e quindi riesco ad andare avanti [...]. Mi aiuta molto parlare con A., con C. (colleghe, ndr), perché parlare con loro mi mette nelle condizioni di progettare. E così mi succede anche con la mia collega G.: parlare con lei dei problemi mi mette nelle condizioni di pensare in maniera chiara e quindi di farmi un pensiero (P10/82), di avere uno sguardo diverso anche su di me [...], su quello che dico e su quello che faccio; [...] il confronto dà spessore al pensiero, [...] posso dire di aver toccato proprio con mano questa cosa, [...] perché, se sono con un altro, parlo e il parlare dà forma al mio pensiero (P10/84). Il pensiero così si realizza, altrimenti rimane solo un pensiero [...]: finché un pensiero non si dice, non esiste; [...] io magari ne ho tanti, ma, finché non li dico, non si realizzano (P10/86); faccio parte di un gruppo di lavoro di insegnanti di matematica [...], c’è un confronto tra di noi, [...] ci troviamo ogni quindici giorni, ci riuniamo; siamo di scuole diverse (M7/33) (Questo lavoro) è nato da noi, solo dopo siamo entrati a far parte di un progetto [...]. Noi lo facciamo con piacere, perché il confronto è veramente importante (M7/35); [...] mi sono trovata molto bene


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[...] a lavorare con insegnanti di scuole diverse sulle stesse cose, trovandoci periodicamente, vedendo come stavano andando le cose... (M7/37); (il confronto) ti aiuta a rivedere alcune tue premesse, [...] permettendoti con umiltà di guardare la realtà con gli occhi di un altro; tu cambi il tuo punto di vista se assumi il punto di vista di un altro, allora vedi il tuo punto di vista, ritorni e sai come cambiarlo (S5/182). È come dire che il pensiero vive dialogicamente. Nel suo racconto, G (I2) descrive come il confronto - soprattutto se vivificato da critiche costruttive - stimoli a pensare, perché fluidifica le rappresentazioni e fa da “molla”, mette ogni volta in moto il pensiero. Il confronto rende consapevoli di “dove si è”, delle proprie premesse (S5), del proprio punto di vista, o meglio, del fatto che il proprio è un punto di vista - e non la rappresentazione “adeguata” della realtà -, uno di quelli possibili, che va messo in dialogo con gli altri, perché si possa camminare insieme verso una considerazione più ricca e viva della realtà stessa. Anche L. (P10) coglie come il dialogo con i colleghi consenta al pensiero di prendere forma, di uscire dal non detto, di realizzarsi, e come questo diventi condizione essenziale per agire bene. A. (M7) sottolinea che il confronto, non obbligato ma scelto, con altri insegnanti è un’esperienza piacevole e produttiva. Nei racconti di alcuni dei nostri insegnanti compaiono anche quelli che, con van Manen (1993), potremmo chiamare pensieri sui pensieri. Si tratta di un’altra qualità del pensare, una sorta di “riflessione seconda”, che consente di mettere a tema il modo stesso in cui pensiamo (Mortari 2003): ci sono delle categorie che tu ti sei fatta, perché il lavoro ti porta a fare delle categorie: “la famiglia attenta al bambino”, “la famiglia disattenta”, “la mamma apprensiva”, “quelli che lavorano tanto”. A partire da una serie di dati che tu raccogli nelle osservazioni, fai delle conclusioni. Questo è rischiosissimo, perché tu fai entrare in categorie preordinate delle persone che sicuramente sono diverse. È proprio questa rigidità, questo pregiudizio, che potresti avere che non va bene. Certo, hai una capacità, una competenza ormai di conoscenza, di lettura delle persone che incroci, perché comunque questa è una competenza che ti sei costruita negli anni. Però (questa azione) non deve diventare dominante: bisogna stupirsi ancora di fronte alle persone, interrogarsi, essere interessate alle persone, alla società, anche al tuo modo di fare scuola (I2/168). quando ripenso ad una situazione, penso a come è andata, a come l’ho gestita, anche per vedere se continuare così o se cambiare (M8/181). Trovo che, [...] se uno fa un lavoro su di sé, poi questo lavoro torna in tutto. Io lavoro su di me; questo mi dà una maggiore consapevolezza e poi io credo che questa consapevolezza uno la manifesti [...]. Quindi si tratta di un dialogo con sé, in


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cui valuti, cerchi strategie, e io credo che il modo migliore sia trovarle all’interno, perché noi dentro abbiamo tutto (M8/183). ci sono zone di pensiero molto informali; è un sottofondo, un continuo travaso [...]. È tutto un mescolare delle cose, ma c’è un filo rosso comune (S1/239) [...] da quello che vivo in classe alla teoria [...], ai colleghi ai quali racconto; mi avvalgo anche di esperienze concrete [...] situazioni della mia vita di insegnante, anche recenti, che ho vissuto e poi ripensato; [...] nel momento in cui le spiego, le esplicito [...] le dichiaro, perché ne parlo con gli altri, ci ragiono su [...]; poi da lì ripenso e ritorno [...] in classe e [...] riconosco situazioni [...] (S1/64). G. (I2), ad esempio, nota in sé la tendenza ad operare delle categorizzazioni rigide, che rischiano di bloccare il pensiero, perché gli impediscono di sorprendersi. M. (M8) nota che ripensare alle situazioni non solo consente di aprire un autentico scrigno, pieno di spunti e idee, ma genera una consapevolezza (frutto del pensiero su di sé) che non può che manifestarsi in una diversa qualità dell’agire. C. (S1) invece rinviene un “sottofondo pensoso”, che fa da sostrato a tutte le sue esperienze lavorative e di vita, che si connettono e si arricchiscono a vicenda. Riflettere significa per lei esplicitare - parlandone con altri - le proprie conoscenze tacite, cogliere le connessioni, rintracciare il filo rosso che lega tra loro i vari pensieri e - connettendoli riuscire a vedere sempre cose nuove. Il pensiero dunque - quello che fluisce liberamente, in ogni circostanza, che si esercita con particolare densità ritornando riflessivamente sull’esperienza, che trova la sua cifra nell’attenzione, che viene amplificato nel dialogo e nel confronto con gli altri, in particolare con i colleghi, che diventa riflessione quando si esercita anche sui pensieri - appare una condizione indispensabile per agire.

3. Sostare su quelle situazioni che danno da pensare La pratica educativa, ciò che succede, in aula e fuori dall’aula, regala l’opportunità di pensare. Pensare significa innanzitutto ascoltare sé e la propria esperienza, prestare attenzione agli aspetti rilevanti di essa. Se poi il pensare è rivolto al futuro, all’ancora possibile, significa soprattutto fermarsi ed aspettare, fare delle soste, per rivedere criticamente il proprio agire e dunque intravedere ulteriori possibilità di azione. L’allargamento dello spazio mentale di ciò che si ritiene possibile in termini di cambiamento, guadagnato attraverso la sosta riflessiva, apre alla sperimentazione: succede che rivedo il mio agire [...]; se fino a ieri ho agito in un determinato modo, mi fermo e mi dico: “aspetta un attimo, probabilmente può esserci


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un altro modo per...”, oppure “vediamo un attimo se c’è un modo migliore per...”, oppure rifletto se è stato un mio comportamento ad attivare conseguenti comportamenti nei bambini, quindi mi dico: “aspetta un attimo, proviamo, sperimentiamo, come il bambino fa”; l’insegnante fa, sperimenta, prova, cambia, per trovare davvero l’intervento migliore nel contesto, che poi può essere ancora rivisto (I6/152); una volta mi sembrava di essere talmente dentro nella situazione da non riuscire a tenere le redini; immaginati un insegnante che assorbe tutto, vive tutto, senza distanza; [...] non avevo quell’occhio critico che ho poi cercato di farmi, perché ne ho sentito l’esigenza. Il vivere, quasi il subire le situazioni, andando per tentativi ed errori, alla cieca [...], senza scindere, ad esempio, l’individualità del bambino e la classe, perché una cosa sono le singole individualità, un’altra cosa è l’identità della classe, che non è la sommatoria degli individui e va vista in maniera olistica; ci ho messo parecchio a capire questa come situazione che davvero devi gestire, ma con una certa distanza (P7/34); è chiaro che, nel momento in cui sei dentro, ti stanchi da matti e ti sembra di non veder niente. Quante volte, all’uscire dalla classe, dicevo: “Caspita! Ho passato due ore e ancora non viene fuori niente!”. Ma questo è un lavoro in cui bisogna avere tanta pazienza, (bisogna ogni tanto fermarsi): i semi li butti sempre e anche quello che arriva più lontano qualcosina butta fuori (M5/89); l’insegnante non può essere insegnante, se non dentro ad un’esperienza intersoggettiva, ma non può vivere questa esperienza, se prima non è una persona adulta, che sa stare da sola (S5/103); il fatto di essere costantemente esposto e quindi messo in discussione dallo sguardo dell’altro, ti permette di misurarti con le tue difficoltà e anche con le tue immaturità; allora un docente, che è continuamente esposto, in classe, con i colleghi, ha due possibilità: o si difende, con meccanismi che sono conosciuti - compensa, reagisce in modo aggressivo, dimentica, nega; soprattutto tende a negare la realtà, quando questa gli impone di fare un passo avanti - [...] oppure accetta di domandarsi: “che cosa significa per me?” (S5/107). Fermarsi significa guadagnare una certa distanza dalla propria esperienza, per poterla osservare ed ascoltare meglio (I6). Il passaggio, descritto nel racconto di M. (P7), dalla piena immersione nelle situazioni alla capacità di fermarsi e di assumere uno sguardo critico rispetto a ciò che si vive, richiama la distinzione che Luigina Mortari fa tra il vissuto, «...quel tessuto di eventi che si snodano in una condizione preriflessiva, dove si vive l’accadere delle cose in una condizione di muta immediatezza, stando corpo a corpo con gli eventi», e l’esperienza, che «...prende forma quan-


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do il vissuto diventa oggetto di riflessione e il soggetto se ne appropria consapevolmente per comprenderne il senso» (Mortari, 2003, p. 15). In questo passaggio, la riflessione che si regala a ciò che accade consente quella presa di distanza che sola può portare ciò che si vive all’evidenza della coscienza (ibid., p. 16). Ci vuole però innanzitutto la pazienza di sostare, come ci ricorda M. (M5), senza pretendere di arrivare immediatamente a delle conclusioni, anche in quei momenti in cui si ha l’impressione di non riuscire a vedere. Fermarsi significa inoltre, come ci dice M. (S5), coltivare spazi di “sana solitudine”, che consentano di interrogarsi sul significato dell’esperienza che si vive. Gli elementi che normalmente danno da pensare sono innanzitutto le risposte degli allievi, soprattutto quelli che vivono situazioni difficili, ma anche i momenti in cui ci si trova confrontati con le proprie difficoltà e con la complessità del costruire relazioni con i colleghi.

3.1. Le risposte degli allievi Lasciarsi interrogare dalle risposte degli allievi diventa, in tutti gli ordini di scuola, la condizione essenziale per riuscire a mantenere pensoso, e dunque dinamico e modificabile, il proprio agire. In base ai feedback e alle sollecitazioni che riceve, un insegnante è in grado di sviluppare consapevolezza rispetto all’adeguatezza delle proprie azioni e delle proprie comunicazioni, ed eventualmente di modificare il suo modo di fare; mirare al cambiamento negli allievi significa infatti innanzitutto esporsi al proprio, rinunciare all’idea di poter determinare l’apprendimento degli allievi e lavorare su di sé, mettendosi in discussione e disponendosi ad imparare e a cambiare per primi: le tue azioni, in qualche modo, hanno una ricaduta sul bambino; una certa risposta di un [...] bambino ti conferma che il tuo agito va bene, un altro tipo di risposta no! Oppure ti mette in crisi; oppure agisci in un determinato modo e ti rendi immediatamente conto che non è giusto, dallo sguardo che il bambino ti dà, che (ti dice) che forse, in quel momento, [...] hai avuto una reazione o hai fatto un intervento che non era adeguato [...] (I2/138); [...] credo che un bravo insegnante sia colui che non fa scuola sempre allo stesso modo, per tanti anni, ma modifica e sa modificare il suo modo di proporre le cose, sulla base delle risposte che riceve dai bambini. Non si può essere o considerarsi arrivati [...], perché i bambini cambiano, perché non hai a che fare con delle cartine o con qualcosa di rigido; loro sono persone [...], che vivono in una società in continua evoluzione. Tu non puoi fare scuola [...] sempre allo stesso modo [...]. Quindi l’operazione che faccio io è di mettermi in discussione, di non pensare di essere sempre una brava maestra, di confrontarmi con loro e a volte di dire: “Ok, qui le cose non funzionano. Forse bisogna rivedere la modalità!”. Magari la mia impostazione ha funzionato fino ad un certo punto


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e adesso non funziona più, perché i bambini ti danno questa famosa risposta che è il feedback (I2/150); [...] le risposte che mi danno sono per me la verifica [...]; una volta mi è successo che avevo fatto solo una domanda e, dalle risposte che avevo raccolto, avevo capito che quel bambino lì, del lavoro che era stato fatto, aveva proprio un’idea, [...], l’altro si stava cominciando a muovere, quell’altro era ancora nella nebbia, quell’altro era arrivato già oltre in un lavoro… È quella per me la verifica. Tengo molto conto del colloquio che faccio con loro (P10/36); a volte, mi accorgo che quello che io avevo in mente non è quello che è passato (P10/112) e quindi mi dico: “cavoli, avevo l’obiettivo di far capire [...], per esempio, che, a seconda di cosa vuoi misurare, devi scegliere uno strumento opportuno, il metro del falegname piuttosto che..., e magari questi mi dicono…”; [...] è sempre un ritorno per me; poi io rifletto e dico: “eh, probabilmente li ha sviati questa cosa...”; [...] se capisco che è una cosa di tutta la classe, si tratterà di andare a cercare qual è la cosa che li ha portati da questa parte…; se sono i soliti (a non aver capito), allora mi regolo di conseguenza…; il ritorno da loro mi fa capire anche il grado comprensione che è avvenuta [...] (P10/114); difficilmente ho delle risposte passive; posso avere delle risposte negative, magari, come qualche volta mi succede, però in genere, quando arrivo, percepisco un ritorno positivo (M6/102); è inevitabile fare i conti con se stessi, e, naturalmente, con la ricezione di quello che è stato proposto [...]. Questo può accadere senza ricorrere necessariamente ad una verifica immediata: si percepisce se la comunicazione ha funzionato. Un insegnante, che sia consapevole del ruolo che ha la comunicazione e della sua efficacia, riesce a percepire, anche istintivamente e con consapevolezza, se quello che ha proposto ha funzionato, è stato decisivo, incisivo ed è stato recepito in modo adeguato dai destinatari (S8/57). Gli stimoli di riflessione che derivano dalle risposte dei propri allievi alle sollecitazioni didattiche rappresentano una risorsa per l’agire, per il metodo, ma interrogano anche l’essere del docente e possono rivelare aspetti nuovi ed inediti di sé.

3.2. Le situazioni difficili Sono in particolare le situazioni di difficoltà quelle che attivano il pensiero dell’insegnante e questo, a sua volta, è condizione essenziale per affrontare adeguatamente il compito di insegnare. Quando si accorgono della difficoltà di qualche allievo,


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gli insegnanti sono spontaneamente portati ad interrogarsi su ciò che non ha funzionato e sul perché: (il caso difficile) ti smonta, ti fa riflettere tantissimo [...]; sono abituata a fare una certa autovalutazione: “Ho fatto davvero tutto quello che andava fatto?”; [...] per quello alla fine mi arrabbio [...] con me stessa, perché forse potevo fare qualcosina d’altro... (I4/34); direi che impari di più quando una cosa non funziona tanto bene che quando ti va tutto liscio, perché, delle volte in cui ti va tutto liscio, [...] di solito, serbi meno il ricordo, te lo dimentichi, invece, dove hai trovato la difficoltà, dove hai cercato strategie alternative per superarla e dove magari hai visto anche che (tali strategie) funzionano, [...] non ti dimentichi più e magari la volta dopo ci riprovi e rimigliori quella cosa, la rimigliori all’infinito (P4/48); faccio parte di quegli insegnanti - penso siano tanti - che, di fronte ad un risultato che non va, la prima cosa che si chiedono è: “Perché non sono riuscito in questo?”; per cui, se c’è un ragazzo che è insufficiente, mi chiedo: “Perché non sono riuscito ad interessarlo?” (M6/8); le situazioni difficili ti fanno imparare di più, perché non sono scontate e quindi devi metterti in gioco, se ti piace la professione, se non hai fatto (l’insegnante)... così, per ripiego, tanto per fare (S1/10); il vincolo, il fatto che, per alcuni anni, quando sono andata alle superiori, ho avuto una ragazza che era sorda profonda, per esempio, mi hanno fatto molto ragionare [...] su come preparo i contenuti, su come uso gli strumenti, su come posso comunicare, su come far sì che anche la classe si attivi su certe situazioni comunicative (S1/26). La situazione problematica è infatti «...il “grave”, ciò che ha una certa gravità, quello che ci dà da pensare e spezza la continuità del tempo: un prima e un poi. Obbliga - chiama - alla riflessione attenta. Gli eventi ci obbligano a “fare un’esperienza” nel senso di patirla, di soffrirla, di essere raggiunti da qualcosa che non ci lascia impassibili, né nel pensiero, né nell’azione» (Bàrcena, Mèlich, 2009, p. 129). Nei vari ordini di scuola, ma con un’intensità minore nella scuola superiore, ci sono insegnanti per i quali la difficoltà, il “non ho capito” dell’allievo, lungi dallo scoraggiare o dall’indurre a “mollare la presa” e a ritirarsi, mette in moto energie che attivano, portano a ricercare la possibilità di sbloccare la situazione, di trovare un’eco, di individuare il punto su cui far leva per potenziare l’autostima dell’allievo e avviare percorsi di miglioramento, tanto da poter dire che la difficoltà dell’allievo si trasforma davvero in una delle principali risorse didattiche, stimolatrice di pensiero inventivo, spinta a cercare e a provare soluzioni inedite:


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si vede cosa funziona e quindi si valuta, si prova a ragionare: “perché questa cosa ha funzionato così?” (I3/162), a pensare, mettere in pratica, riflettere sul risultato ottenuto e a trovare una strategia diversa, che possa portare al raggiungimento dell’obiettivo che ci si è prefissati, finché non si trova la strategia giusta. Tante volte un solo tentativo non basta, non ne bastano due, non ne bastano tre; a volte serve anche un anno scolastico intero per risolvere alcuni problemi, a volte non basta nemmeno quello. Però importante è il non accontentarsi, non dire: “Non ha funzionato! Basta, non c’è niente da fare!”, ma [...] “Non ha funzionato con questo metodo, con questo intervento, devo trovare un’altra soluzione” (I3/166). Osservo i cambiamenti - in ogni intervento, per pochi che siano, i cambiamenti ci sono, positivi o negativi [...], valuto se questi cambiamenti sono dovuti al mio intervento o se c’è stato altro; da lì, dal punto provvisorio di arrivo, devo ripensare tutto per ripartire con un altro intervento (I3/168); [...] quando il bambino non capisce [...] mi vivo in maniera molto attiva [...]: cerco di trovare mille modi diversi per farlo arrivare a comprendere quello che non aveva capito. Quando mi dicono: “Non ho capito!”, non mi viene da dire: “Ecco, non sono stata brava!”, ma è come se scattasse una sfida e mi piace vedere cosa sono capace di mettere in campo, quali altri strumenti operativi... (P7/80); tutta la giornata dell’insegnante è “in difficoltà”, nel senso che non hai mai niente di scontato; se “difficoltà” significa porsi l’interrogativo di come affronto il problema, mi ci sono trovata spesso; se “difficoltà” significa: “abbandono, non cerco soluzioni”, allora no. Naturalmente non sempre le soluzioni cercate e trovate sono state eccellenti. Anzi, alcune volte, torni sulla scelta fatta per dire: “No, non era la strada giusta”. Ritengo che questo sia pane quotidiano per l’insegnante [...]: l’apprendimento non è mai scontato, hai sempre l’interrogativo, la domanda, la difficoltà, il gruppetto che non si coinvolge. Allora ti poni sempre l’interrogativo: non si coinvolgono perché non capiscono? Stai andando su un livello troppo elevato? Ciò che stai trattando con loro è fuori dalla loro esperienza, non riesci a collocarlo nella loro esperienza, quindi non riesci a smuoverli? È un continuo interrogarsi e guardarli [...] in faccia e guardare i loro prodotti, le loro cose; è un ritornare continuamente su ciò che si fa. Allora, se “difficoltà” significa continuare a rivedere, questo è di tutti i giorni e con tutti; [...] hai sempre situazioni diverse da affrontare. Il pensiero che far lezione abbia sempre un esito positivo, e che tu raggiunga sempre quello che ti sei proposto, l’ho scartato; la lezione è sempre un momento di prova, di verifica e di riprogettazione (M1/39); non mi adatto e non mi adagio su quello che trovo [...] (S1/84).


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In questi e in tanti altri racconti degli insegnanti intervistati ritroviamo molto di quell’”ostinazione a ripescare” che, in un suo recente lavoro, Daniel Pennac riconosce come tratto fondamentale di alcuni di quegli insegnanti, ai quali afferma di dovere il processo del suo risveglio e della sua maturazione, della sua metamorfosi da somaro a professore, da analfabeta a romanziere (Pennac 2008, p. 33). In un certo senso, viene articolato in questi racconti il “principio speranza” di cui parla Ernst Bloch, l’orientamento del pensare ad oltrepassare, a superare il mero dato, che induce alla constatazione rassegnata (e che fa pensare alla tipica frase di tanti insegnanti: “È così! Non studia! Non si impegna!”, non rintracciabile nelle parole dei nostri intervistati), a muoversi verso i territori del non ancora (Bloch 1994) che può maturare nel soggetto. Senza queste tensioni e aperture, il pensiero non potrebbe dirsi autenticamente educativo.

3.3. Il confronto con altri Come abbiamo visto sopra, il confronto con altre persone - quello istituzionalizzato con i colleghi, ma soprattutto quello che si attiva spontaneamente o quello che avviene con persone esterne alla propria scuola - è uno spazio in cui il pensiero, grazie al respiro relazionale che assume, può rianimarsi. Spesso, infatti, nel confronto, si ha l’occasione di constatare che alle stesse parole non si attribuiscono gli stessi significati, di chiarire il proprio pensiero a se stessi e agli altri, di mediare, di assumere sguardi differenti, cogliendo aspetti della realtà che altrimenti sfuggirebbero: la possibilità di discutere insieme agli altri le cose nelle quali credo, la possibilità di mediare o di modificare le mie idee, di cambiarle talvolta e di trovare insieme la soluzione migliore per intervenire a scuola, quindi la mediazione, ma anche [...] l’attenzione a delle problematiche alle quali, ad esempio, non avevo mai pensato [...], sono aspetti importanti (I1/121); davanti alle griglie, il gruppo docente fa lo sforzo di pensare a “...come è Pierino, cosa fa Pierino, cosa faccio io quando Pierino fa così, cosa fanno i compagni...”; [...] fare collegialmente queste griglie non è stata una passeggiata, perché uno può dire: “a me il bambino che chiacchiera non disturba...”; quindi il fatto di partire da [...] una griglia nascondeva l’intento di dire: “mettiamoci intorno ad un tavolo per chiarirci, almeno noi che lavoriamo con Pierino, che cosa intendiamo per...”; una volta che abbiamo messo nero su bianco, che abbiamo concordato che il disagio di Pierino è questo, (ci chiediamo): “bene, quali risorse mettiamo in campo per...”; [...] se io continuo a vedere Pierino così e tu cosà e ci raccontiamo che Pierino è così..., va beh, sapremo un po’ più di Pierino, ma non facciamo il passo ulteriore: una volta che abbiamo capito che Pierino è così, che cosa facciamo? (P1/67);


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D. (il collega che insegna musica, ndr) non è solo la persona che mi offre il caffè ma la persona che, quando mi dice qualcosa su un ragazzo, dato che l’osserva da un punto di vista molto diverso dal mio, perché fa educazione musicale, [...] è da considerare con molta attenzione; in un ambiente diverso, forse anche privilegiato, perché lui non ha così tante ore e insegna una materia più piacevole, ti assicuro che vede alcune cose dei ragazzini che dici: “Porca miseria, potrebbe essere proprio così!”. Quindi hai colleghi con cui ti confronti, che sanno entrare nel profondo dei ragazzini e li vedono in maniera diversa da te e ti danno qualcosa [...]. Non so se in altri lavori sia sempre possibile, ma sicuramente qui lo è… (M2/325); gli spazi di pensiero sono più che altro collegati alla mia vita di formatrice dei formatori, perché quello è il luogo dove in effetti rifletto di più anche sul mio modo di lavorare, lo inglobo. Con i miei colleghi non (rifletto molto), forse perché ho trovato quello sfogo intellettuale e allora non cerco molto la riflessione con i colleghi; con qualcuno sì, però nella scuola non esistono momenti canonici, spazi veri e propri per queste cose, spazi dove tu impari. Io cerco di ragionare su quello che faccio soprattutto nelle situazioni di formazione; [...] lavoro anche molto su di me; discuto con le persone, anche con i supervisori, i tutor; quando ci troviamo, porto dei casi, magari dei casi miei, e ragioniamo insieme su quelli [...] (S1/233). Il rapporto, dentro o fuori della scuola, con altri adulti che, come dice L. (P10) nella citazione riportata sotto, gradualmente diventano “amici privilegiati di pensiero”, riesce a rivitalizzare il pensiero stesso e ad orientare verso la profondità: (alcuni colleghi) sono stati dei mediatori, dei ponti, delle fonti di energia, [...] dei sostenitori, sono stati importanti solo non solo dal punto di vista professionale ma anche personale, per cui il rapporto [...] amicale è andato fianco a fianco a quello professionale [...] (I6/164); (con loro) c’è la possibilità di sentirsi valorizzati, di avere conferma del proprio agire, oppure la possibilità di mettere in discussione il proprio agire, ricevendo una critica costruttiva da una persona di cui ti fidi e nei confronti di cui hai stima. [...] Io mi sono sentita stimata, accettata, accolta, valorizzata e libera nel potermi esprimere; [...] ho sentito che anche gli altri mi hanno dato fiducia, non ero soltanto io a riporla in loro [...] (I6/166) io ho degli amici; è sempre l’incontro con le persone che mi ha aiutato a scoprirmi, [...] la relazione con gli altri [...]. Per esempio, nelle attività di pensiero vere, (sono essenziali) gli incontri, anche casuali, anche non programmati, con degli amici che però poi sono diventati amici privilegiati di pensiero [...] (P10/174); [...] se io incontro persone [...] non vere, con queste per-


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sone non riesco a spiaccicare neanche mezza parola, al di là di: “sa, io ho fatto questa torta e ho dipinto le pareti di rosso” - forse neanche rosso, è un colore che dovrei giustificare, quindi bianco -; l’incontro con queste persone non riesce a darmi niente, mi sento vuota e mi dico: “non ho pensieri, non ho niente!”. Ci sono delle persone che [...] considero persone vere e buone ed è come se, nell’incontro con loro e nelle parole che scambio con loro, nascessero e si formassero i miei pensieri, perché da loro vengono i pensieri che suscitano i miei pensieri e c’è questo scambio, ci sono queste riflessioni su temi come l’amore, il dolore, l’esistenza, il senso della vita, che mi fanno dire: “ma allora, anche tu sai pensare! Ma guarda che pensieri profondi sai tirare fuori, L.!”. [...] È come se l’incontro con persone vere alimentasse il mio pensiero, la mia capacità di riflettere. L’incontro con persone non vere invece mi lascia piatta, insoddisfatta, vuota e mi fa dire “non hai pensieri!”. Con questi amici con cui parlo - ma senza dire: “ci incontriamo per parlare” - le discussioni non sono mai banali e quindi ho la possibilità di esercitare questa riflessione [...] e mi sento ricca, non perché io sia ricca ma perché è dall’incontro che nasce la ricchezza. Con loro vivo questa complicità di pensiero e di condivisione su temi che riguardano la loro esistenza, la mia esistenza, i loro amori, i miei amori, il loro lavoro, il mio lavoro (P10/176); a me piace moltissimo esplicitare quello che faccio [...] con le mie amiche [...]; parlo spesso di scuola con le mie amiche (M3/284) [...]; con le mie amiche delle superiori riesco a parlare molto della didattica, del modo di rapportarmi coi ragazzi: mi hanno insegnato tanto! [...] Ci diciamo esattamente quello che facciamo, per cui mi vengono delle idee e alla fine dico: “Guarda, l’anno prossimo faccio anch’io così!”. E intanto scrivo e metto da parte il bigliettino… (M3/286); all’inizio dell’anno, con i colleghi, con gli amici insegnanti della mia scuola, rifletto a lungo; [...] quando ci incontriamo, la riflessione diventa molto profonda (S4/173). La relazione di reciproca fiducia che si crea diventa fonte di energia anche per il pensare (I6). E quale sia il legame tra amicizia e pensiero è ben illustrato da L. (P10). Nel suo racconto, come in quello di M. (S4) e di C. (M3), sembra quasi che la possibilità stessa di pensare in modo profondo sia legata al fatto che esistano rapporti di amicizia e di stima reciproca tra le persone. È come se, proprio nella relazione con l’altro visto come amico, il pensiero riuscisse a diventare vivo e profondo (cfr. Mortari, 2002, p. 106). Se la relazione si gioca su un piano di inautenticità, anche il pensiero rimane muto e infecondo. Ma se la relazione è autentica e amicale, il pensiero diventa vitale e generativo: da un pensiero nascono altri pensieri, dai pensieri degli amici prendono forma i propri, in un movimento che non ha fine, che


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trasforma e fa sentire tutti più ricchi, non perché padroni di una verità definita, ma perché capaci di accordare ospitalità a quella verità che insieme non si smette di cercare. Seppur colto in tutti gli ordini di scuola come condizione essenziale per il pensiero, il dialogo con i colleghi risulta molto praticato tra gli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, che, del resto, rispetto ai loro colleghi di altri ordini di scuola, hanno ancora - non si sa fino a quando - qualche possibilità in più di lavorare insieme, a livello di compresenza e dunque di interagire più intensamente. Nella scuola secondaria di primo e di secondo grado, risulta invece spesso difficile trasformare il dialogo tra colleghi in fonte rilevante di energia, di pensiero e di apprendimento; prevale un certo senso di solitudine e di isolamento e il dialogo, come condizione per pensare ed agire, si sperimenta al massimo con quei pochi con cui ci si sente in sintonia, perché magari si è condiviso qualcosa di importante insieme, o si vive con i tirocinanti in formazione o con altri adulti, all’esterno dell’ambiente scolastico. Nella scuola secondaria, gli insegnanti dicono di sentirsi soli, ma non smettono di sottolineare la rilevanza della relazione tra colleghi per pensare e dunque per agire efficacemente, magari proprio denunciandone la mancanza o auspicandone il potenziamento, confermandone comunque lo statuto di condizione essenziale per agire bene.

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La diversidad religiosa en los Centros La Salle en España JUAN BAUTISTA DE LAS HERAS MILLÁN

El 16 de abril 2010, tuve la oportunidad de participar “en una de las esquinas del Mediterráneo”, Alejandría, en una mesa redonda sobre el diálogo intercultural e interreligioso en nuestros centros educativos de la Salle tanto en Europa como en Oriente Próximo. La aportación mía consistió en contar la experiencia que tenemos en el Colegio La Salle-El Carmen de Melilla y la titulé: Cien años de diálogo, de respeto y de tolerancia. Fue una buena ocasión para exponer algunos criterios sobre la finalidad del diálogo intercultural e interreligioso, además de narrar las acciones educativas que lo refuerzan. Empezaba afirmando que lo importante no es el cómo o qué hacer (que también lo es) sino el por qué y para qué lo hacemos. Ofrezco el texto que aporté en aquel foro, para seguir reflexionando en voz alta sobre nuestras prácticas educativas en este contexto. Por mi parte no deja de ser una palabra más en el gran diálogo que tenemos en este mundo globalizado.

Marco de referencia para situarnos “La Iglesia exhorta a sus hijos a que… mediante el diálogo y la colaboración con los adeptos a otras religiones,… reconozcan, guarden y promuevan aquellos bienes espirituales y morales, así como los valores socio-culturales, que en ellos existen” (Nostra aetate, 2) “Los creyentes, por tanto, deben estar siempre dispuestos a promover iniciativas de diálogo intercultural e interreligioso, para estimular la colaboración en temas de interés recíproco, como la dignidad de la persona humana, la búsqueda del bien común, la construcción de la paz, el desarrollo.” (Benedicto XVI, diciembre de 2008) “En cuanto al diálogo interreligioso, tenemos escuelas de mayoría musulmana,


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budista, hinduista o con alumnos de diversas religiones… nos interesa… a partir del diálogo de la vida, ofrecer a los niños y jóvenes posibilidades para su pleno desarrollo y para que tengan vida y vida en abundancia. Al facilitar el diálogo, la tolerancia y el respeto mutuo, estas obras ofrecen al mundo un servicio incalculable” (Hermano Álvaro, Carta Pastoral, diciembre de 2009) “No puede haber paz entre las naciones sin paz entre las religiones” (Hans Küng, Proyecto de una ética mundial, 2000)

Algunas notas en el contexto de España Población inmigrante. En España hay una población aproximada de 46,7 millones de habitantes, de los cuales, más de 5,7 millones son emigrantes, de origen fundamentalmente latinoamericano y del norte de África; y también algunos grupos significativos de Centro Europa y de Asia. Su presencia ha sido más notoria desde hace unos 15 años y están teniendo un impacto significativo en diferentes ámbitos de la sociedad, tanto en el mundo laboral, como en el cultural e incluso en el desarrollo de la vida cotidiana. Lógicamente su presencia en los Colegios se hace evidente, necesaria y obligatoria, al menos, hasta la edad de 16 años. Legislación educativa del área religiosa. La base legal: Constitución 1979, art. 27.3 y Acuerdos 1979 del Estado con la Iglesia Católica y con otras Confesiones religiosas en otras fechas. El tipo de enseñanza religiosa: confesional católica y otras religiones con acuerdos estatales. Realidad educativa. Cada vez tenemos más conciencia de la importancia que tiene la escuela, como plataforma educativa, en la integración y el diálogo tanto intercultural como interreligioso. Conceptualmente prefiero las palabras interculturalidad e interreligiosidad, pues, me orientan más al diálogo; a las de multiculturalidad y multireligiosidad que me inclinan más hacia la coexistencia pacífica pero sin interrelaciones. En este contexto educativo, van surgiendo reflexiones y prácticas en torno a la interculturalidad y la interreligiosidad, con iniciativas y experiencias muy interesantes que se tienen como referentes y modelos, a seguir, cuando en los Colegios se da la pluralidad cultural y religiosa en el alumnado. Asimismo, cabe indicar que en la generalidad de los colegios, además de la pluralidad religiosa, se da el fenómeno de la indiferencia religiosa, tal vez propiciada, por la secularización en su versión laicista; dándose el caso de que bastantes alumnos, sobretodo mayores, plantean su agnosticismo o el mismo ateismo. También para estas situaciones se necesita el diálogo y una planificación adecuada. Y aunque en nuestros centros no hubiese presencia de inmigrantes o alumnos de


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otras culturas y religiones, la educación para el diálogo intercultural e interreligioso tiene que ser una dimensión necesaria en el contexto del mundo global en el que vivimos. No estarán en las escuelas pero están en nuestros barrios, convivimos en el mismo bloque, compramos y nos divertimos en los mismos centros comerciales (todo esto aparece en diferentes publicaciones educativas y en páginas Webs, a las que todos podemos acceder con facilidad).

Realidad de los Centros lasalianos en España y Portugal Como es lógico en los Colegios de la Salle se participa de esta situación que se está dando en España y Portugal. Por consiguiente, también está teniendo su repercusión en nuestras aulas la presencia de los inmigrantes que nos llegan con sus tradiciones culturales y con sus creencias. Muchos de ellos proceden de tradiciones cristianas y se adaptan a los planteamientos y ritmos de nuestros Colegios. Especialmente de Latinoamérica y centro Europa. Pero también nos están llegando alumnos de otras religiones, especialmente, musulmanes. Hasta el momento, no hemos tenido problemas significativos, pues a estas familias, cuando traen a sus hijos, se les explica el carácter propio del Centro y suelen aceptarlo sin mayores problemas. Con todo esto no hacemos otra cosa que dar respuesta a lo que viene siendo una preocupación institucional y que está muy bien definida en los diferentes documentos que nos vienen de los Capítulos generales y Asambleas internacionales. Precisamente en la última carta de nuestro Superior general, el H. Álvaro, nos insiste en la importancia de seguir en la dinámica de favorecer el diálogo interreligioso en nuestros Colegios. (cf. Carta Pastoral a los Hermanos, Roma, 25 de diciembre de 2009). De una forma u otra en todos los Distritos tenemos presencia de inmigrantes en nuestros centros, pero aún es minoritaria la incidencia del alumnado de otras religiones. Aunque no tenemos tiempo para detenernos, sí es conveniente nombrar algunos de los Colegios que ya están en esta situación: Manlleu y Fundación Comtal(Cataluña); Benicarló, Inca y Manacor (Valencia); La Salle Managua (Valladolid); Sestao (Bilbao); San Ildefonso, San Rafael, La Paloma, Alucinos, (Madrid); Hogar de Menores de Guadix y Hogar de Extutelados de Jerez (Andalucía). Sería interesante poner ejemplos de lo que está surgiendo en la vida cotidiana de nuestros centros, pero lo vamos a dejar para cuando hablemos del caso de Melilla, en el que pueden converger bastantes de las situaciones. Aunque sí destacar como notas distintivas y más comunes: - el buen ambiente de convivencia y de compañerismo que se da en la comunidad educativa. La tolerancia y el mutuo respeto lo favorecen; - aunque no en todos los centros se tiene, la figura y presencia de una Mediadora sociocultural, facilitada por la Administración, favorece positivamente la integración;


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- se empiezan a tener actividades específicas orientadas a la interculturalidad y el diálogo interreligioso. Por otro lado, destaco como hechos más sobresalientes, lo que vienen haciendo las diferentes comisiones regionales en todo este tema con algunos documentos y experiencias que nos sitúan en la reflexión y conciencia que estamos teniendo en España y Portugal sobre este importante asunto. 1. Temas de desarrollo del carácter propio: a/ multiculturalidad e inmigración criterios para la escuela lasaliana; b/ criterios básicos de la escuela lasaliana ante el pluralismo religioso-cultural 2. Encuentro de interreligiosidad: en Irún, julio de 2007, con representantes de todos los distritos 3. Proyecto de verano, Melilla, puerta de Europa: voluntariado de ONG’s lasalianas de Europa, Comisión lasaliana europea de misiones (CLEM) 4. Obras socioeducativas (educación no formal): a/ centros de día; b/ hogares de menores y de extutelados; c/ escuelas talleres; d/ los programas de cualificación profesional inicial.

Experiencia del Colegio La Salle-El Carmen de Melilla: cien años de diálogo, de respeto y de tolerancia. Una vez que nos hemos situado en el contexto de España y Portugal, en lo que a los colegios y obras socioeducativas de la Salle se refiere, voy a detenerme a comentar más detalladamente, la experiencia de diálogo interreligioso, que durante casi 100 años estamos teniendo en el Colegio La Salle-El Carmen de Melilla, pues, en el año 2012 celebraremos el centenario. Tal vez sería interesante recordar la historia de los orígenes y saber, con precisión, el por qué los Hermanos se instalaron en Melilla. Esto nos llevaría muy lejos y lo que aquí nos interesa es recordar y constatar que la misión de evangelizar, es decir, llevar la educación humana y cristiana ha estado y está muy presente en la Misión lasaliana del Colegio La Salle-El Carmen. En su alumnado, siempre ha predominado una mayoría cristiana, aunque siempre hemos tenido alumnos de otras religiones. De éstos el grupo más numeroso siempre ha sido el musulmán, les siguen los hebreos y minoritariamente los hindúes. Cada vez está aumentando más el número de familias musulmanas que traen a sus hijos al colegio; -las políticas educativas de España lo favorecen-. Me voy a centrar, en comentaros cómo realizamos algunas de las prácticas educativas cotidianas:


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Reflexiones de la mañana • Dirigidas a todo los alumnos. La mayoría centradas en valores universalmente asumidos por todas las religiones. • Las de contenido cristiano, son aceptadas y seguidas por todos, aunque participan menos los alumnos de las otras creencias. • Algunos días, se les invita a los alumnos de otras religiones a que las traigan preparadas con sus textos sagrados y oraciones. • En las fiestas religiosas importantes de todas las religiones se hacen reflexiones apropiadas. • No existe ningún problema en cuanto a la simbología religiosa que hay en el centro. • En Primaria, cada cierto tiempo se hace una reflexión general en el patio, y en bastantes ocasiones están presentes las mismas familias. Celebraciones interreligiosas • Se iniciaron por un problema de convivencia pública en Melilla y para aportar, desde el Colegio, un clima de unidad y buena convivencia entre todos. Coincidió en el tiempo, cuando el papa Juan Pablo II, en 1986, tuvo un encuentro con los líderes de otras religiones, en Asís. • Consistió en un encuentro de oración en el teatro del Colegio y acudieron representantes de todas las religiones que en ese momento estaban presentes en el centro. • Este tipo de celebraciones se vienen repitiendo en el contexto de las “convivencias escolares” de las que luego hablaremos. Visitas guiadas a los diferentes templos • Llevamos varios años participando en una actividad que ha surgido de las autoridades de la ciudad, y que consiste en hacer una visita a cada uno de los templos de las diferentes religiones. • Al grupo de alumnos les explican en cada uno de los templos: Iglesia, Mezquita y Sinagoga, el significado religioso del templo y la utilidad que le dan en cada una de las religiones. • Los alumnos tienen que hacer un trabajo relacionado con la visita. Clases de religión • Siempre se ha dado clase de religión católica. • Los alumnos de las otras religiones están presentes en el aula y la práctica ha sido muy variada. Durante las clases: o Unos han estado haciendo las tareas de otras asignaturas. o Otros han seguido con interés las clases. o Hay profesores que les mandan trabajar sobre algunos temas de sus respectivas religiones y luego las exponen en la clase a los demás compañeros.


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o En otros casos durante las clases tienen asignados libros de lectura que luego tienen que presentar un resumen. o Cuando en las clases de religión católica se tratan las otras religiones los propios alumnos informan a sus compañeros. o Nunca se han producido conflictos y en concursos de carácter religioso han ganado, casi siempre, los alumnos de las otras religiones. Convivencias escolares • Organizadas por los departamentos de Enseñanza Religiosa y de Orientación y animadas por el tutor de la clase. • Asiste toda la clase. • Se terminan siempre con una celebración interreligiosa. El esquema es el siguiente: o El lugar de estas convivencias es la capilla del colegio, de la que discretamente se retiran los signos religiosos cristianos. o Se inicia con un saludo de paz. o Se canta alguna antífona de tema espiritual y universal. o Por orden, cada religión lee un texto de su religión y hace una oración propia, los demás con sumo respeto se unen a ellos. o Se deja un tiempo de silencio. o Se suele terminar con el canto del Himno a la Alegría. Celebraciones sacramentales • Siempre asisten los alumnos a las celebraciones. Normalmente no participan y siguen las mismas con actitud respetuosa; pero en ocasiones piden colaborar (tocar la guitarra) o se quieren imponer la ceniza el miércoles santo,… • Por lo general, ha existido un problema que esperamos pueda solucionarse en un futuro: “Al no tener profesores de apoyo, los alumnos de las otras confesiones no se pueden quedar solos en la clase.” • Las familias no han expresado ninguna oposición a está práctica. Salle joven • Nos movemos en el ámbito de las actividades extraescolares y, concretamente, en las catequesis, en esta actividad, hay alumnos, sobre todo de hijos de matrimonios mixtos, padre o madre musulmana o cristiana, que manifiestan su interés por asistir a las catequesis del movimiento juvenil Salle joven, y por participar en los encuentros distritales. Bien es verdad que el componente principal es la amistad. Semanas de innovación pedagógica • Es una de las actividades más recientes y ambiciosas en el propósito del diálogo interreligioso. Se viene realizando desde hace unos 6 años.


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• Lo más característico es que todo en el colegio: profesores, alumnos, asignaturas,… gira durante esa semana sobre el tema elegido para ese curso. Es toda la comunidad Educativa la que se hace presente y las familias se integran participando con interés y numerosas iniciativas. • Los cuatro primeros años se dedicaron a cada una de las cuatro religiones presentes en el Colegio: cristiana, hebrea, hindú y musulmana. • De la mano de sus tutores y profesores, los alumnos de 4º de ESO, tienen mucho protagonismo durante la semana: Hacen el teatro, dan explicaciones a los otros cursos, animan distintas actividades, etc. • Cada vez somos más conscientes de que para que exista un verdadero diálogo interreligioso hay que empezar por conocernos. Hemos dado un salto cualitativo. Hasta ahora estábamos juntos, nos respetábamos, surgía la amistad y todos nos sentíamos lasalianos. • En los últimos años caminamos de la mano de la interculturalidad y el diálogo entre las religiones que tienen nuestros alumnos. Acto de acogida de todas las confesiones en el colegio • Con ocasión de la visita del Superior general, H. Álvaro Echeverría, se invitaron a las autoridades religiosas de las diferentes religiones a tener un encuentro institucional. • El acto fue sencillo, pero muy significativo por el mensaje de concordia y convivencia que se manifestaron, signo de las buenas relaciones que existen entre las diferentes confesiones religiosas. El proyecto Alfa y el proyecto de Infancia lasaliana Ambos proyectos son respuestas educativas, en el ámbito extraescolar, en las que el Colegio, en el contexto de la Pastoral de conjunto, colabora con Caritas interparroquial en dos ámbitos que tienen en común apoyar y ayudar a mujeres y a niños musulmanes. Y también es una respuesta, desde el colegio, a la población marginada y con menos recursos. En este sentido el colegio abre sus puertas a personas que lo necesitan, contribuyendo a la integración social de las mismas. El proyecto Alfa está dirigido a la alfabetización de mujeres musulmanas que pasan de Marruecos a Melilla, suelen trabajar en el servicio doméstico y tienen interés de aprender español. Además se les proporciona talleres que les facilita recursos para su trabajo en el área social. El proyecto de Infancia lasaliana, completa el compromiso que tenemos adquirido de colaborar durante el año con chavales de las barriadas musulmanas de Melilla. Programamos para ellos actividades de refuerzo educativo y de tiempo libre. Con ellos organizamos también las colonias veraniegas para reforzar los dinamismos que se trabajan durante el curso.


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Conclusiones: la escuela lasaliana, instrumento singular para educar en el diálogo intercultural e interreligioso - Los Colegios La Salle en la ARLEP, están en sintonía con la sociedad española y portuguesa de atender, desde el diálogo intercultural, a la población inmigrante que viene a nuestros centros. Los colegios que van abriendo camino, como hemos visto, están apostando, de un lado, por los criterios que nos vienen desde los documentos lasalianos y que nos dan una buena fundamentación y, por otro lado, aceptando con creatividad la realidad que se nos impone, pero sin agobios, aunque sí siendo conscientes de que nuestra educación está en función de un mundo globalizado en donde la palabra diálogo es clave. - Se hace cada vez más necesario que las diferentes culturas y creencias entren en un proceso de diálogo, que respetando las identidades favorezcan la buena integración para una mejor convivencia. Precisamente la escuela lasaliana es una buena plataforma que aporta a los alumnos de las diferentes culturas y religiones estos procesos basados en la tolerancia, el respeto y el diálogo. - Considero muy importante que se vaya reflexionando y trabajando lo que podríamos denominar el perfil del educador intercultural y, desde siempre, lo que venimos constando es que un buen ambiente y clima cordial, favorecen la convivencia en el centro y facilitan el encuentro y el diálogo. - Creo que el Colegio La Salle-El Carmen de Melilla, puede ser motor de innovación pedagógica por el recorrido histórico que lleva hecho. Lo cual sigue siendo todo un reto para los próximos 100 años, sabiendo que no siempre damos las respuestas adecuadas..., pero caminando se hace el camino.


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atholic independent schools are undergoing significant changes in leadership, which is no secret to anyone familiar with our schools. Lay leaders have begun to assume the reins at the president and head level and in senior administration, yet we must acknowledge that this process of entrusting operations to lay leaders is far from over. New-leaders are faced with enrollment challenges, demographic changes, Rind-raising for capital improvements, keeping current with educational trends, providing meaningful professional development for faculty and overseeing aging facilities, among other issues. To be sure, a leader of any independent school faces a similar litany of responsibilities and challenges. Yet there remains one area that lay leaders in Catholic independent schools are charged with overseeing and nurturing, one which our purely independent counterparts do not have to manage—that of Catholic identity. How can lay leaders ensure the continuity of Catholic identity at a time when religious and priests are moving out of Catholic independent schools? What can lay leaders do to maintain the Catholicity of an institution, and possibly a religious charism, if the school has been run by a religious order? The key to successful lay leadership in Catholic independent schools can be summed up in one word: planning. A Catholic Identity Plan would be invaluable in helping schools to identify appropriate tipping points, i.e., those areas where, once a focus on Catholic message has been articulated and the right leader is in place, momentum for change is easily seen and felt, and “messages and behaviors spread

Kevin J. Ruth is assistant headmaster for advancement at Saint Edmond’s Academy in Wilmington, Delaware. He is also the president of Quo Vadis Group, Inc., a company offering board education and philanthropy services to nonprofit groups. This article was originally published in Momentum, September/October 2009, and reprinted in De La Salle Today, Spring 2010, by the Christian Brothers Conference, Washington D.C. USA, with permission from the editor. 1


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like viruses do.� (M. Gladwell). The creation of such a plan takes time, energy and commitment to the institution, and it encompasses a handful of key areas, which are outlined here. One caveat: this list is not meant to be exhaustive; rather, it is intended to be the springboard for a discussion that, ideally, will occur in schools as a result of this article.

Governance The first step in undertaking a Catholic Identity Plan involves a review of the existing governance structure of the school, because the board plays a capital role in articulating an identity plan. Catholic independent schools tend to benefit most from one of two models. The first is two-tiered, with a corporate board and board of directors. In this model, a board of directors (15-25 people with a variety of professional backgrounds, which may or may not include educators) is charged with general oversight of the school, undertakes strategic planning and sets general policy. Its counterpart, the corporate board, tends to approve (or disallow) mea-sures that the board of directors has written and its powers are limited (or aggrandized) by the bylaws. We see this structure most often In schools affiliated with a religious order, in which the corporate board is composed of members of the order, either entirely or predominantly. An oft-heard criticism of this type of governance structure is that the corporate board can have too much authority over the board of directors, effectively rendering the latter impotent. Yet a set of bylaws that limits the powers of the corporate board can eliminate this power struggle and ensure a healthy school. The second governance model is that of a single entity (i.e., board of trustees). In this model, Catholic independent schools identify a certain percentage of board seats for clergy or members of the religious order, usually around 25 percent, though it may be higher in some schools. Schools run by the Religious Society of Friends (Quakers) tend to follow this model. This board has full governance over the school, and can respond quickly with policy decisions. An oft-cited downside to this kind of board is that, if the board is factious to any degree, decisions can leave out entire constituencies, thereby creating dissension and aggression within the overall school community. Distrust of the board is a surefire recipe for disaster, whether the pressure valve is found in admissions, development, curriculum or personnel. Either model can work in Catholic independent schools, so long as it dovetails with school culture, but make no mistake about it - governance is as important as selecting the right lay person to be the school leader. Governance should be a concern of the local bishop and of all board members. To that end, it would be wise to undergo a governance audit on a fixed schedule, perhaps every five years, to ensure overall health in this vital area of school operations.


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Selecting the School Leader The most important role the board plays is that of selecting the leader of the school. If the school is moving from clerical (or religious) leadership to lay leadership, then the board would do well to engage in succession planning. Proper succession planning is akin to getting ones estate in order. First, there is general housekeeping: revisiting and, when appropriate, rewriting bylaws; revisiting board structure; engaging a consultant to audit the governance model at the school. Second, the board should identify potential school leaders, from both external and internal resources. Using a search firm may be of particular value. Candidates worthy of the board’s time and energy should be, first and foremost, devout, practicing Catholics. They should be capable of either maintaining an already-strong Catholic presence in the school, or be ready to institute programs that will rein-vigorate that presence, following the lead of the board. Indeed, the head/president is the person to manage the Catholic identity of the school. If it is a question of maintaining a particular religious charism, it may behoove the board to consider an oblate or third-order (or similar) if the religious order has such a group. With decreases in vocations in so many orders, there may be a silver lining with the growth of oblates or third orders. The Order of Saint Benedict has seen significant oblate growth in the past 25 years. Writing in The Tablet, the United Kingdoms Catholic weekly, James Roberts noted that in 2005, the year of the first World Congress of Oblates in Rome, the number of Benedictine oblates worldwide was estimated at 25,000. A second gathering in 2009 is expected to see a significant increase in that figure. If the school is a single-sex school, it makes sense to look for a leader of that same gender, although strong candidates should not be dismissed because of gender. Sometimes a male leader can run a girls school well, and sometimes a female leader can run a boys school well. Obviously, the school leader should have experience in education. One could argue that experience in the nonprofit world merits consideration (it does), but an educational “sense,” i.e., an acute understanding of how school culture works and where the touchstones of school life are, is like a compass pointing in the right direction.

Catechetical formation of personnel Once the lay leader has been chosen, that person must then attend to the business of Catholic identity “in the trenches.” The school needs to exude Catholicity and, where a religious order has been active, it needs a heightened awareness of the reli-


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gious charism. That can be challenging in the absence of priests and/orreligious who provided such a valuable outward symbol of the disciplined spiritual life. By giving attention to the following areas, though, a lay leader can have an effective school culture that is supportive of Catholic identity. A first area of focus for the school leader should be personnel. If the leader is seeking to maintain or reinvigorate a strong sense of Catholic identity, then it stands to reason that the majority of the employee base should be Catholics in good standing who participate regularly in the sacramental life of the church. However, a school may not have that luxury. In either case, it would make good sense to offer a sort of “Formation for the Apostolate” on a yearly basis, using Pope Paul VI’s “Apostolicam Actuositatem” (Apostolate of the Laity, 19_5) as a guide. There is a golden opportunity here for a communion of cooperation with diocesan schools, in which all schools could gather annually for formation workshops, sharing in the costs. A particular benefit for schools run by religious orders is that they can offer institutes or workshops that focus on the order’s charism, something that has been undertaken already by the Congregation of Holy Cross, the Xaverian Brothers, Augustinians and Jesuits, for example.

Praxis of maintaining identity With a good governance model, a solid leader and an outstanding formation program in place, it is time to consider how schools can maintain their identity in purely pragmatic terms. This process will be different in most schools, yet there are some central focus areas: • Visual: Display posters, banners and perhaps habits and vestments in high-traffic areas. • Literature: Include a mention of Catholic identity in every publication, from admissions to development, in parent letters, newsletters and school newspapers. • Web site: The site should contain visual/symbolic representations of the faith, as well as verbal reinforcement; for example, a video spot where school leaders and students talk about Catholic identity. • Public Gatherings: Liturgies, family nights, open houses, grandparents’ days and other events should exude Catholicity. • Professional Development Days: The head/president should allocate time in the day’s schedule to discuss Catholicism. Some points of departure might be Pope Paul VI’s Apostolate of the Laity mentioned previously or any of the encyclicals by Pope John Paul II, or those being generated by Pope Benedict XVI. • Classrooms: On significant feast days, teachers should be encouraged to highlight the feast by reviewing its importance with each of their classes.


Toward a Working Lay Model of Catholic Independent Schools

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Pitfalls for the Catholic independent School Here is a brief, non-exhaustive list of potential pitfalls for schools that are struggling to maintain or highlight their identity. 1. Not including clergy or religious on boards, preferring instead laity-only. The laity alone cannot - and should not - decide the Catholicity of the institution. The danger here is that this approach will lead to becoming entirely independent, resulting in obfuscating, then losing, the school’s Catholic identity. Worse, if keeping the Catholic label despite an overt practice of secularism, the school is making a statement to the community that being Catholic means embracing secularism, which, of course, it does not. That is called relativism, and it is one of our greatest struggles today. This potential downward spiral into relativism is precisely why the clergy and religious (including the local bishop, if he is amenable, or his designee) should be invited to sit on the board. In the end, Catholic schools are a tool of Catholic evangelization, as Pope Benedict XVI recently highlighted in his address to Catholic educators at Catholic University in April 2008. 2. Over-emphasizing the religious congregation at the expense of the Church. Do not become over-zealous and end up deifying the founder(s) or significant religious within the order. Do not forget that saints were Catholics dedicated to a mission, and that mission is always God-focused and God-driven. In print and in speech, be sure to cite the larger Church and what is transpiring and then highlight how the charism of your school’s order speaks to these actual events and circumstances. To be sure, there is a balance to be maintained here, as your school’s unique identity is a result of its association with a specific order, and that identity should be celebrated. 3. Allowing your non-Catholic employee base to become the majority in the school. As Catholics, we are called to lead by example. Therefore, we need Catholic employees, from school leadership to administrative support staff to classroom teachers, to be a guiding presence in the school. With a non-Catholic majority in the employee base, the mission of the school becomes increasingly more difficult to uphold. The end result is a “lone gun” Catholic lay administration in charge of maintaining the school’s Catholic identity, but without buy-in from the faculty and staff. Tne end result— taking either a few years or perhaps a full generation—will be the loss of Catholic identity. The school may remain Catholic in name, but it will not be Catholic in reality. 4. Putting ongoing formation of the apostolate on the backburner because of other pressing issues at the school. Without continued adult formation, Catholic identity will begin to erode. 5. Ignoring succession planning. If a school is owned by a religious order whose members are of retirement age, to not engage in succession planning is a catastrophe for the board, the school and the civic community. The overarching issue of how


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Kevin J. Ruth

the school will be run will not solve itself. Members of the order and board members must be active on this front. Orderly succession planning promotes healthy dialogue around all-school issues, from transitioning to lay leadership to board structure and personnel policies. If the religious order and the board find it difficult to engage in succession planning because of expectations or a bylaw structure that gives too much authority to one group over the other, then a consultant should be hired to direct the discussion process. The goal of succession planning in such circumstances is to do what is best for the school community, not what is best for the board or for the order. Mutual understanding of this focal point is necessary for an orderly transition. The school’s continued existence should be front and center of any agenda.


Chiaroscuri

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Probabilmente è una sensazione antica quella di impotenza di fronte ad un debole volere il bene contro un forte impulso del male se nel libro di Giobbe (9,24) si legge “La terra è data in balìa dei malvagi; egli copre il volto ai giudici”.

CHIAROSCURI di Anna Lucchiari

Cose dell’altro mondo

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el 1977 il segretario dell’ONU Kurt Waldheim e il presidente americano Jimmy Carter, consegnarono alle sonde spaziali Voyager 1 e 2 un messaggio destinato ad eventuali abitanti di altri mondi. Il messaggio era composto da un disco che conteneva una serie di informazioni che avrebbero dovuto consentire agli alieni di farsi un’idea della terra e della “civiltà” che i terrestri avevano costruito. Il tutto accompagnato da parole che suonano oggi tenere e sognanti…”mando questo messaggio d’augurio per conto della gente del nostro pianeta. Facciamo un passo fuori dal nostro sistema solare verso l’universo soltanto in cerca di pace e di amicizia, per insegnare se saremo chiamati a farlo, per imparare se saremo fortunati”. Ma quando mai gli uomini che si sono messi in marcia verso qualche altro paese sono stati portatori di pace e d’amicizia… La nostra storia è un sfilza interminabile di massacri e soprusi, di guerre e di assassinii, giocata in uno scenario dove le passioni si scatenano spesso senza controllo e dove la cupidigia e l’invidia sono motori costanti e poderosi.

Abbiamo tutt’ora, dentro di noi, l’ipotesi romantica che gli uomini siano tutti buoni e che solo le avverse condizioni li possano rendere malvagi ma stranamente, malgrado i progressi della scienza, della tecnologia che ci fa stare a contatto gli uni con gli altri senza soluzione o barriere di tempo e di spazio, le società di tutto il mondo continuano a produrre uomini e donne che infrangono tutto il decalogo e oltre. La nostra storia è lastricata di buone intenzioni, a volte, ma è evidente che le missioni di pace intraprese dagli esseri umani, sono quanto di più crudele si possa immaginare. “Noi andremo nel nuovo mondo a portare la lieta novella” è stato tradotto in furti rapine e massacri. Una religione contro un’altra, una etnia contro l’altra, una filosofia di vita contro l’altra… Pare che riusciamo a produrre solo tragedie sul teatro della nostra terra e che non riusciamo a concepire la commedia, che esprime ironia verso le debolezze umane, che si gioca entro sentimenti quotidiani elementari e mai portati all’estremo. Come poi è la vita dei tanti nessuno che popolano le nostre città, disturbati solo se un evento più efferato di altri si fa largo nella selva di notizie che “dobbiamo” ricevere: per un attimo comprendiamo con orrore e paura che il “malvagio” c’è sempre. E allora proviamo ad immaginare una delegazione di alieni che arriva e va in giro per la nostra terra al fine di raccogliere elementi utili per integrare i dati inseriti nel famoso disco d’oro che hanno trovato nel Voyager: musica letteratura, immagini di una bellezza mozzafiato. Potevano


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pensare di trovarsi nell’Eden, un luogo di pace e delizia e, apposta per quello, si sono precipitati a venire per raccogliere informazioni di persona. Se sono arrivati, poniamo dalla costellazione di Andromeda, hanno fatto un viaggio piuttosto lungo; perfino con mezzi molto sofisticati, sempre lunghissimo rimane. Arrivati qui, sguinzagliano i loro cronistorici e scoprono che non c’è un luogo della terra dove la cupidigia e l’invidia non guidino le azioni degli stati. Quanto poi alla pace, riscontrano dovunque scoppi di bombe e non fuochi d’artificio e li registrano. Tra di loro ce n’è uno buono che invece di pensare che chi ha mandato il messaggio era un bugiardo, pensa che era solo un sognatore e convince i suoi compagni a tornarsene da dove sono venuti. “E’ un postaccio” dirà nella sua strana lingua. “Meglio lasciar passare qualche altro migliaio di anni prima di tornare”. E scapperanno a gambe levate perché loro, forse, hanno imparato a coltivare i semi buoni che ci sono dentro gli esseri viventi e a tenere a freno le passioni, specialmente quelle che devastano. Noi forse, stiamo facendo una scorpacciata di male: magari come nelle indigestioni di pasticcini ci sarà poi una liberazione benefica, chissà. Dopo la quale, magari riusciamo ad impegnarci davvero nella ricerca della pace e dell’amicizia… Domani devo andare ad una riunione di condominio… Vorrei essere su Andromeda!

Solitudini fantascientifiche

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io creò l’uomo destinandolo alla pratica del gioco - scriveva nella presentazione del Libro de Juegos il re

Anna Lucchiari

Alfonso X nel 1280, anno più, anno meno. Malgrado la dichiarazione porti con sé anche qualche risvolto divertente, non credo che il saggio re avesse in mente una umanità perennemente impegnata nel gioco della palla o simili e credo invece che avesse in mente un tipo di attività, cui il Creatore avrebbe destinato l’essere umano, liberamente scelta e volontariamente esercitata. La finalizzazione dell’attività di per sé può non essere considerata indispensabile per connotare il fare, a meno che non ci si riferisca a quell’insieme di attività che l’uomo pone in essere per assicurarsi i mezzi necessari alla sua vita. In ogni tipo di società c’è sempre stata una tendenza a separare con molta chiarezza l’attività lavorativa da quella diversiva. Anzi, molte culture hanno coniato detti che hanno nel tempo e nei luoghi numerose varianti ma che si compendiano bene nel nostro noto: prima il dovere e poi il piacere. Intendendo chiarire a tutti, cominciando dai bambini, che vi sono alcune attività cui si deve attendere e attività che si possono esercitare solo una volta che le altre siano compiute. In ogni tempo però, le attività elettive hanno avuto un notevole prestigio, il Medioevo di Alfonso X non fa eccezione, e si è sempre ritenuto che le attività non finalizzate a garantire la sopravvivenza o la collocazione sociale, rappresentino una parte importante e irrinunciabile nella vita di ogni persona. I secoli trascorsi non hanno mutato l’atteggiamento dell’uomo nei confronti del gioco anche se è stato considerato nella sua più corrente accezione, passatempo, evasione, rifugio. La stessa parola ‘diversivo’ starebbe ad indicare una attività diversa da quella consueta, capace di allentare la fatica e la tensione che l’altra porta con sé.


Chiaroscuri

Nel 1938 Johan Huizinga pubblicò Homo ludens, opera importante, perché in essa il concetto di gioco viene decisamente ribaltato. Huizinga sosteneva che il gioco autentico costituisce una delle basi fondative della civiltà. Concetto che può sembrare anche la traduzione dotta o consapevole di una vecchissima intuizione popolare, però, l’autore ne indagò i fondamenti scientifici. Il gioco è una attività che travalica ogni tipo di barriera culturale, razziale o generazionale. Con poche varianti, gli stessi giochi sono posti e riproposti in ogni angolo della terra, in ogni tempo e possiedono un lessico familiare universale. Non fanno eccezione i giochi moderni perché attraverso la rete, si ripropongono giochi di strategia, giochi di abilità intuitiva, giochi di pazienza: cambiano i mezzi e i nomi ma i concetti sono sempre gli stessi. In un mondo che chiede così tanta parte della vita personale, le attività ludiche sono importanti in ogni fase, in ogni età, perché rappresentano, come sempre, il passatempo, il rifugio, l’evasione, il tentativo di conquistare un auspicabile equilibrio tra essere e avere, perché offrono la possibilità di dedicarsi ad una attività che non ha alcun fine economico, che è fine a se stessa e dalla quale si ottiene solo una gratificazione legata alla riuscita. La gratificazione è un mezzo per procurarsi una gioia che nel corso delle attività lavorative, ad esempio, non sempre è ottenuta od ottenibile. Però il gioco di oggi è molto cambiato, è, mi pare, un’attività che sempre di più pone grandi e piccoli non davanti a partner reali, a situazioni reali, ma a realtà completamente virtuali. Ricordo le schiere di ragazzi intenti a giocare con i tappi sulle piste disegnate per terra col gesso, le interminabili partite di

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palla avvelenata dopo le quali sembrava che ci fossimo passati sul viso del carminio brillante per quanto eravamo eccitati e accaldati, ma anche le partite a scacchi o a dama che nei paesi si giocavano verso sera, con le scacchiere disegnate sulle panchine e la folla di attenti osservatori radunata alle spalle. Erano momenti esaltanti di per sé per l’impegno anche fisico al gioco, ma che avevano il pregio di riuscire a farci dimenticare le interrogazioni, le pagine di storia da imparare o, più tardi, le giornate nere trascorse nei posti di lavoro, le scadenze e i problemi… Poi penso alle schiere di creature di ogni età che in ogni minuto libero si siedono davanti al computer pensando di giocare. I bambini non si trovano, non si incontrano.. nemmeno i grandi se è per questo e giocano, esattamente come i bambini, con antagonisti inventati formando squadre o gruppi che non si conoscono affatto, con cui non avrebbe senso ad esempio scambiare un parola e nemmeno una parolaccia, di cui non si sa nulla e che vivono in contesti a volte lontanissimi dai nostri, dentro vite che non si intrecceranno mai con quelle che stiamo vivendo… Il gioco, si sa, oltre che evasione è anche fuga, che in qualche misura partecipa del sogno, e mi rendo conto ora della enorme differenza che c’è tra il gioco vissuto per così dire nel modo classico e quello elettronico. Quando si voleva dar vita ad una sessione di gioco, occorreva trovare i partners, organizzare l’incontro e, ovviamente, anche se non era necessario conoscere direttamente i giocatori, certamente erano reclutati tra conoscenti, amici di amici, nella peggiore delle situazioni tra persone almeno definite genericamente come cultori dell’attività specifica. C’era insomma un contatto dal vivo almeno nel corso della sessione ludica, che era


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appassionato, coinvolgente e dove la personalità del giocatore aveva una sua importanza. Ammetto di guardare i moderni giocatori con una certa perplessità. Innanzi tutto non hanno un momento per il gioco: basta aprire il computer e il gioco è fatto. Secondo: non conoscono e probabilmente non conosceranno mai i partner con cui giocano e, ultimo ma non certo per significato, possono richiamare l’attività liberatoria in qualsiasi momento della giornata. È noto che proprio per essere attività libera, volontaria e gratificante, questa attività funge da ponte verso quel mondo irreale dove spesso si finisce per rifugiarsi. E questo mondo altro che viene frequentato rigorosamente da soli, è una specie di paese delle meraviglie frutto delle elaborazioni ed elucubrazioni di una moderna Alice, pieno di cappellai matti, di svaniti Bianconigli e di perfidi e sanguinari re e regine, ma anche di alieni ed esseri immaginari che racchiudono in sé tutti i peggiori incubi. Guardandomi intorno e osservando i giovani e meno giovani alle prese con i loro schermi ultramoderni in una specie di simbiosi robotica, mi sento simile al fantasma di un bibliotecario d’altri tempi che ancora si aggiri sommesso tra i tavoli di una biblioteca popolata di muti lettori. Solo che questi non leggono, interagiscono con uno schermo e vivono molte ore in una non realtà dissociativa e siccome le ore dedicate a questo tipo di gioco (per ammissione degli stessi giocatori) spesso sopravanzano di molto quelle dedicate al lavoro, mi viene il dubbio che ci sia qualcosa di pericoloso, non nei giochi in sè, ma nelle modalità che consentono. Facebook ad esempio è una tipica attività ludica, che non offre nulla se non una visibilità di alcuni frammenti della vita di una persona che per lo più di quella

Anna Lucchiari

persona dicono poco o nulla e che comunque sono assolutamente insufficienti a stabilire qualunque tipo di relazione che abbia un senso. Però vi sono persone che dedicano a questa attività, quattro, cinque, sei ore della propria giornata e navigandoci dentro ci si rende conto di quante banalità vi vengano spacciate per verità rivelate… Ma a parte questo penso alle ore consumate davanti a questo fantasma collettivo, ore che vengono tolte al sonno, al ludus delle relazioni vere, quelle umane, carnalmente tradizionali nel corso delle quali le nostre emozioni potrebbero viaggiare attraverso tutta la gamma del possibile e guardo questi giocatori ‘alieni’ che sono soli per ore e ore davanti ai loro schermi e che lasciano che il tempo scorra loro addosso, dimenticandosi che c’è un mondo fuori dallo schermo del computer, dentro il quale ci sono infiniti modi di spendere fruttuosamente e non intendo in senso economico, ogni ora della propria vita. Se come diceva Huizinga il gioco dà il senso della civiltà, che senso possiamo dare alla nostra guardando le schiere sedute davanti agli schermi dei computer? La fantascienza a volte ci regala dei bei sogni, a volte degli incubi, queste sessioni solitarie mi paiono capaci di portare la persona in un isolamento davvero ‘alieno’.

Del silenzio

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ablo Neruda è stato un entusiasta, un fantasista, un giocoliere delle parole che amava pescare nel cuore e nella memoria per farle poi rotolare fuori dalle labbra, servendole come manicaretti prelibati per consentire a tanti di gustarle. Ma proprio perché amava con tutto se stesso le parole, aveva una grandissima considerazione del silenzio che ha


Chiaroscuri

celebrato in tanti versi, arrivando a dire che l’amico vero è quello con il quale si può stare in silenzio. E, comunque, in una sua celebre poesia, invita a provare per una volta, per un momento a stare tutti fermi, a non parlare nessuna lingua, a non fare rumore, a non gesticolare per potersi immergere in una “subitanea stranezza”. Una strofa di questa poesia recita: “Se non potemmo esser unanimi movendo tanto le nostre vite, forse, se per una volta non facessimo nulla e facessimo un gran silenzio, potrebbe interrompersi questa tristezza di non comprendersi mai, di farci del male, di minacciarci di morte…. Ci pensavo sentendo l’ennesimo commento politico del commento politico, del commento del fatto, del ricommento con ipotesi spesso fantasiose di qualcosa che alla fine si sperde perché si accumulano troppe parole al punto da far sfuggire principio e traguardo…. La televisione deve parlare, i giornali devono parlare, la radio parla di ciò che ha detto un tizio un giorno e su quell’argomento si va avanti per settimane…D’altra parte, gli spazi vanno riempiti, i silenzi vanno relegati lontano dalle nostre vite come se il silenzio fosse il vero nemico da battere. E’ un fatto che i dialoghi sono diventati monologhi, che sono discorsi tra sordi e che non si parla per far comprendere all’altro, ma solo per esprimere le proprie convinzioni le uniche, ad ogni costo, che abbiano un senso ed una dignità. Ai poeti le parole, si può pensare, anche se le parole sono di tutti, sono un patrimonio, una opportunità grandiosa che viene usata tanto male. In ogni caso le parole sono spesso troppe, non c’è argine che tenga, e quando si moltiplicano perdono di intensità e anche di efficacia.

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Camminando per strada, vedo i giovani che hanno l’auricolare e ascoltano parole, magari cantate, rumori nei quali camminano estraniati da quello che li circonda. Se stanno davanti al computer, non è che compongano versi immortali, si spediscono parole di nulla tanto per riempire spazi che nel silenzio rivelerebbero la loro assurdità abissale. Ho guardato un documentario degli anni cinquanta-sessanta del secolo scorso: un gruppo di bambini giocava. Si rincorrevano, lottavano, formavano gruppi e li disfacevano correndo nei campi dove i rumori erano quelli della natura che disperdeva le voci concitate che disegnavano la scena. Oggi i bambini giocano alla play station e il gioco è accompagnato da rumori e musiche varie, alcune assordanti. Al Nintendo DS dove cliccano appassionatamente accompagnati da musichette ossessionanti: sono suoni e parole che riempiono il vuoto presunto della vita. L’annacquamento verbale, come una specie di acquazzone travolge le nostre vite. Siamo trascinati dal diluvio che ormai consideriamo componente irrinunciabile delle nostre esistenze. Provocare un attimo di silenzio sarebbe appunto cadere in una “subitanea stranezza” o, forse, in una voragine spaventosa con le nostre anime che cercherebbero appigli sonori per continuare a confondersi adeguatamente. Nemmeno il pregare è più silenzioso: si canta e si parla per evitare che ciascuno possa esprimere la personale pochezza ad un Creatore che peraltro la conosce molto bene. Per questo per una volta, si potrebbe provare. Un attimo di silenzio, un “attimo fragrante”, un attimo di immobilità per riprendere contatto con quella parte dentro


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di noi che dal diluvio si è salvata. I diluvi terminano. Terminerà questo di parole che avvolgono la terra e ogni esistenza? E con quale ombrello ci potremo riparare se non con quello del silenzio da scoprire come un toccasana, un mezzo per riemergere e guardare al cielo che non è solo il contenitore delle rotte aeree, ma che è il simbolo della fragilità in cui siamo immersi. Perché il silenzio non faccia più paura, basta ricordare che non c’è solo quello minaccioso, ma che c’è il silenzio che esprime più amore di qualsiasi parola, che l’intensità dei sentimenti si espande nel silenzio e si esalta, che la saggezza viene alimentata dal silenzio, che il silenzio non va confuso con la inattività…. Silenzio, si pensa! Potremmo accorgersi che quando tutto pare morto, in realtà tutto è ancora pieno di vita, come l’inverno che prepara e custodisce l’esplosione della primavera…Magari, come spera Neruda, l’inquietudine che la “subitanea stranezza” produrrebbe, potrebbe farci sentire per una volta tutti uniti, consapevolmente fragili, imperfetti, ma uniti.

Aeroporti e bagagli

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tavo guardando dall’immensa vetrata che si affaccia sulle piste il traffico che si svolgeva piuttosto sostenuto. C’erano bus e pulmini, macchine d’ordinanza e gli immancabili convogli che trasportano bagagli con tratti snodati e compositi che sfrecciano con l’eleganza di vermi ipertrofici e anche un po’ pazzerelli. Che siano pazzerelli, ne ho avuto conferma poco dopo perché mentre uno di questi prendeva allegramente una curva, quattro o cinque valige sono cadute rumorosamente sulla strada senza che il conducente si sia

Anna Lucchiari

accorto di nulla. Siccome cominciavo ad agitarmi in preda a sconforto, mi sono attivata per cercare un dipendente dell’aeroporto e mostrargli il mucchietto di bagagli che erano stati abbandonati sulla pista. Il “non è compito mio, qualcuno ci penserà”, non mi ha affatto rallegrato e da allora, pensando ai poveretti che non si sarebbero ritrovati nemmeno la biancheria intima, cerco sempre di portare il bagaglio a mano. Poca roba, ma almeno so che qualcosa avrò con me. Quando non mi è stato possibile, ho imbarcato e viaggiato col dubbio se avessi avuto o no la ventura di ritrovare i bagagli al mio arrivo. Alcune volte li ho trovati, altre no. Non ho nemmeno trovato un collo lungo e stretto per il quale ho pagato 175 dollari di sovrapprezzo: era il pezzo di ricambio per un frigorifero nautico. Chissà chi l’ha trovato che ci ha fatto. Poi stamattina ho avuto l’illuminazione. Si svolge il 9 giugno la consueta asta dei bagagli smarriti nell’aeroporto di Malpensa. Secondo il regolamento vigente I bagagli dopo tre mesi vengono acquisiti in proprietà dall’aeroporto e dopo un anno possono essere rivenduti. Si riforniscono in queste aste periodiche commercianti di bric-à-brac, casalinghe e curiosi e c’è di tutto, perfino protesi di ricambio per non parlare della vastissima gamma di computer, cellulari, abiti appena acquistati, usato divertente, passeggini, cavalletti per quadri ecc. ecc. Ho fatto anche il pensierino cattivo che a nessuno venga voglia di cercare i proprietari delle valige che i dipendenti dell’aeroporto (i dipendenti) non i viaggiatori hanno smarrito. Perché questo è l’equivoco su cui si punta tutto e che ha animato perfino il cronista televisivo che con una certa incredula sufficienza parlava di “dimenticanze dei viaggiatori”. Ma quali dimenticanze!


Chiaroscuri

Il viaggiatore prepara la valigia, ci mette su anche la targhetta con nome e cognome, indirizzo, in modo che si possa sempre risalire al proprietario e fiducioso la manda in stiva. Il nastro trasportatore che traghetta la valigia cui la hostess ha applicato altre rassicuranti targhette la trascina come un fuscello in preda alla corrente verso una caverna ignota da dove potrà emergere e andare alla destinazione…, oppure no. Se quel giorno il conducente si voleva divertire un po’ ed aumentare la velocità di trasporto o che so, fare a gara con un collega e giocare, così tanto per divertirsi, per spezzare la monotonia, poco male. Qualcuno dei bagagli non arriverà mai e questo non fa che confermare che nel nostro come in altri paesi, il venti-trenta per cento dei bagagli spediti non arriva mai a destinazione. Il che non è rassicurante ma quello che davvero mi lascia sconcertata è che nessuno cerchi di contattare il proprietario, che so, mandargli un biglietto dove si indichi l’ubicazione della valigia e della data entro cui il viaggiatore, non maldestro, ma solo sfortunato, potrà ritrovare le sue cose. Insomma le compagnie aeree, per scrollarsi di dosso le loro responsabilità, chiamano in causa la “distrazione del passeggero” mentre più spesso dovrebbero ammettere la “negligenza del dipendente”. Su questo ricercato equivoco si basa evidentemente il regolamento dei tre mesi. Che è assurdo anche perché a me personalmente è capitato di scavalcarli nella speranza di ritrovamenti miracolosi consigliata da immancabili “amici” che sono pratici, nel seguente modo. Partenza per un mese. Denuncia immediata all’arrivo a destinazione di colli mancanti. Due giorni in attesa di avere notizie. Poi soggiorno di vacanza. Alla fine della vacanza, tornata in Italia, ho presentato

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denuncia ma un amico mi ha detto non ti preoccupare, vado io nei magazzini della compagnia che sono immensi e cercherò. Ovviamente nulla è stato trovato, però i giorni sono passati e, quando ho presentato ricorso sono venuta a sapere che la denuncia fatta all’aeroporto d’arrivo non valeva e che appena rientrata in Italia avrei dovuto farne un’altra in assenza della quale, non avrebbero proceduto nemmeno al rimborso del sovrapprezzo pagato. Siccome il pezzo per cui ho pagato il sovrapprezzo costava nuovo circa quattrocento euro, anche se la compagnia lo vendesse a metà prezzo, avrebbe “trovato” senza fare nulla duecento euro più il famoso sovrapprezzo. Ma è mai possibile che si possa smarrire un pezzo lungo due metri e mezzo e largo 45 centimetri? Ma è mai possibile che siccome i lavoratori degli aeroporti devono portare le cuffie, e forse hanno anche i paraocchi, non si accorgano delle valige cadute, non sentano niente, non si curino affatto che quello che viene sbarcato dalla stiva di un aereo vada tutto dove deve andare e non si perda? Non voglio fare altre supposizioni ma penso davvero che questa situazione, al di là del folklore dell’asta di Malpensa come immagino di quella degli altri aeroporti, richieda soluzioni diverse e più rispettose dei diritti dei viaggiatori da parte delle compagnie.

La creazione è una cosa meravigliosa

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tavo sul gommone per superare la distanza non enorme, ma nemmeno minima che separava la barca all’ancora dal piazzale di Kharty. Dovevo vivere l’esperienza certamente inusuale di attraversare con una jeep un lungo tratto di


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foresta fino ad un fiume che doveva essere guadato e poi ancora foresta, fino a Panama. Percorso alternativo a quegli aerei che paiono i giocattoli dei bimbi, che ho frequentato ma non amato. Magari questo percorso via terra sarà un’esperienza forte, ma certo saranno almeno tre ore e mezza “diverse”. E con questo spirito mi accingevo ad arrivare al famoso spiazzo davanti al mare: una specie di minuscolo molo di cemento con attraccati un po’ di caiucchi e di gommoni, un fronte mare anonimo con spiaggia minima, un paio di capanne, tante macchine che si intravedevano sullo sfondo: dietro, misteriosa e non molto invitante, la foresta. Man mano che il gommone si avvicinava, scorgevo sempre con maggiore chiarezza una piccola moltitudine di gente che saltellava agitando braccia e gambe in quella che poteva sembrare anche una danza. Ormai in prossimità dello sbarco, valutai che fossero presenti una cinquantina di persone tra indigeni e forestieri, tutti rigorosamente partecipanti allo strano spettacolo. Mi aveva fatto venire in mente i movimenti energici dei cantori di Jodel, ma data la latitudine, il clima e il colore della gran parte dei partecipanti, pensai che fosse una specie di danza tribale, propiziatoria. Poi sbarcai. Un ragazzo khuna mi venne incontro con un rassegnato sorriso e mentre pronunciava la sua parola chiarificatrice, mi resi conto che anch’io avevo dato il via ad una danza che non avevo affatto preparato. La parola fu “chitras” e io risposi un po’ scioccamente “chitras” e lo imitai battendo i piedi e roteando le braccia come fossero palette e dandomi ogni tanto schiaffetti sempre meno gentili per cercare di prenderne una, solo una. Ma non si vedono, non fanno quel rumorino cui ci hanno abituato le zanzare

Anna Lucchiari

nostrane, sono silenziose e quando senti la puntura hanno già fatto e se ne sono andate da quel punto pronte ad attaccare altre parti del tuo corpo. Tutte quelle che sono esposte e anche quelle che stanno sotto a leggeri strati di cotone. Ero impegnatissima a cercare di difendermi: e pensare che in Italia vengo pochissimo infastidita dalle zanzare perché a loro evidentemente non piace molto il mio sangue ma queste erano di bocca buona anche se ricordo di aver ricevuto solo una cinquantina di pizzichi contro i centocinquanta di mio marito. Mi sono documentata. Sono davvero capaci di distruggere il lavoro di una agenzia turistica, perché una persona, aggredita in quel modo, difficilmente potrà rimanere calma e tranquilla. Il paradiso caraibico diventa molto imperfetto e posso assicurare che le mosche sabbia, o zanzare sabbia, o come le chiamano gli anglosassoni un-see-ums, arrivano quando cala il vento che altrimenti le porterebbe via, numerose quanto i granelli di sabbia dell’arenile. Nel silenzio si sentono solo gli schiaffi che le persone indifese si autoinfliggono e siccome pare che per evitare qualche puntura sia necessario non fermarsi mai, le persone in attesa vuoi di persone in arrivo, vuoi di macchine su cui salire, paiono in preda a raptus ginnici: camminare, camminare, muoversi muoversi e da qui l’impressione di danza collettiva tribale che avevo avuto mentre il gommone si accostava. Ho ripensato alla frenetica danza prodotta dalle chitras quando ho udito il familiare ronzio di una zanzara nostrana e ho pensato: cara mia, non sei nessuno! Green Island è un’isola speciale. Lo dice il nome, è splendida e il mare all’interno delle sue flessuose braccia è


Chiaroscuri

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semplicemente color smeraldo. Mi ci hanno portata perché si considerava indispensabile che facessi l’esperienza dell’immersione in queste acque uniche davvero. Non me lo sono fatto ripetere e appena buttata l’ancora mi sono immersa.

come fossi in un acquario. Già gli scimmioni mi fanno ribrezzo e degli altri, a parte il bradipo incredibile che mi ha tagliato la strada un giorno (ci siamo dovuti fermare per lasciarlo passare) li guardo molto volentieri nei documentari.

Un sogno. Il vento gentile, i colori dentro, sotto e attorno, un sogno. Mi sono lasciata cullare dal mare e mentre sciacquettavo in visibilio, mi sono resa conto di una stranezza. Come mai mi domandavo in questo posto splendido non ci sono decine di barche all’ancora e tante persone in acqua? Poi quando dopo un po’ ho osato chiederlo mi è stato risposto: “Perché c’è Rocco”. E sempre con l’aria di penetrare un segreto da poco, ho chiesto: “E chi è Rocco?” Il comandante mi ha guardato con un mezzo sorriso e con semplicità mi ha risposto : “Un coccodrillo che si è insediato qui da vari anni”. La risposta ha avuto su di me un effetto dirompente e con la velocità di un racer sono risalita in barca. Mentre mi asciugavo mi è stato spiegato che in fondo è grande solo circa tre metri e che di solito esce solo quando ha fame e, sempre di solito, si mangia due o tre pellicani e poi se ne torna a cuccia. E se poi un giorno Rocco decide all’improvviso di cambiare dieta, che facciamo?

La creazione è una cosa meravigliosa davanti alla quale credo occorra essere molto prudenti e non è solo questione di dimensioni: è pericoloso Rocco con i suoi tre metri e passa, sono pericolose le invisibili chitras e sono pericolosissime le formiche lunghe un centimetro, rosse e minacciose che camminano ai bordi dei sentieri. Per non parlare dei ragni e di tutte quelle altre forme strane che si agitano tra gli intrichi dei rami, che costruiscono nidi giganteschi sopra o sotto…. Un grido prorompe dal cuore: voglio tornare a Fregene!

Ho riflettuto. Non sono coraggiosa, non ho lo spirito avventuroso di quelli che entrano nelle foreste col machete, la maggior parte degli animali selvaggi mi fa paura, molta paura. Forse sono una ammiratrice della natura dalla poltrona del salotto. Di sicuro né le chitras né i coccodrilli mi ispirano pensieri di stupore e soddisfatto compiacimenti verso la immensità della creazione, probabilmente mi piacciono solo quelli innocui, il piccolo geco barcaiolo, gli uccelli che vedo volare e sento cantare la mattina, i pesci che guardo dall’alto


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LA SALLE : PEDAGOGIA JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE Itinerario educativo. Un’antologia Arti Grafiche S.Rocco, Grugliasco (To) 2002, pp.190 Educare è arte sempre più difficile e complessa, al punto che gli educatori più avvertiti sentono l’esigenza di attingere a quei maestri che nel passato hanno dato il frutto migliore. Un segno positivo che rischia però di vanificarsi se il percorso non è guidato da chi è ricco di dottrina e di esperienza, di spiritualità e di saggezza pedagogica. In tale ottica si colloca questa raccolta che offre, in una struttura articolata, l’itinerario educativo lasalliano tratto dall’ampia saggistica pedagogica e ascetica del Fondatore dei Fratelli.

NICOLAS CAPELLE, FSC (a cura) Voglio venire nella tua scuola! La pedagogia lasalliana per il XXI secolo Editions Salvator, Paris 2006, pp. 320

Testimonianze sorprendenti di esperienze educative a servizio dei giovani, sui cinque continenti, in contesti culturali molto differenti. Racconti che coinvolgono il lettore: sottolineano sfide dimenticate e nuove, tracciano cammini di speranza. Gli educatori che raccontano vivono sul campo, spesso in situazioni limite: immersi tra le popolazioni aborigene di Australia, con i Gitani di Francia, nelle bidonville di Nairobi, sfidati dalla violenza in Colombia, guide all’incontro interreligioso in Asia, promotori delle minoranze maya o papua sulle Ande, mediatori culturali di giovani migranti di Chicago o di Filadelfia, docenti universitari che militano per la trasformazione sociale. Educatori lasalliani in situazioni di frontiera, in una dinamica educativa sempre fragile ma sostenuta da un umanesimo e da un senso civico ispirati alla fede cristiana.

ALDA BARELLA Essere per educare: attualità della pedagogia lasalliana Alle sorgenti della lasallianità per essere educatori oggi e insegnare con successo

Effatà editrice, Cantalupa 2009, pp. 222 Essere per educare è il punto prospettico da cui cogliere il senso e la sostanza degli argomenti proposti. Far scuola, oggi come ai tempi del La Salle, significa impegnarsi senza riserve, in un ruolo etico che, nel rispetto di chi impara, chiede a chi insegna coerenza di comportamento ed evangelica schiettezza di ideali. Le pagine qui riedite hanno il merito dell’indagine condotta con rigore filologico su testi ed esperienze di tre secoli fa unito alla giusta esigenza di verificarne il senso e il valore oggi. Alda Barella, insegnate e dirigente del MPI, è stata per decenni a contatto con i problemi della scuola avvertendo il dovere di trovare risposte pertinenti a problemi reali.


MISCELLANEA LASALLIANA Come il La Salle scoprì e accettò la sfida educativa del suo tempo (Bruno Bordone) Quesiti di storia lasalliana: come ebbe inizio la prima “società delle scuole cristiane”? come facevano scuola i primi “fratelli”? quali le innovazioni pedagogiche della scuola lasalliana? voto canonico di obbedienza: due versioni? (José María Valladolid) Agilberto Gatti FSC, il fratello “tuttocatechesi” (Marco Paolantonio) Cronache lasalliane


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U n P re m i o N o b e l p u ò n a s c e re a c i n q u e a n n i s u i b a n c h i d i s c u o l a Ho imparato a leggere a cinque anni, nella classe di fratel Justiniano, al Collegio La Salle di Cochabamba. È la cosa più importante che sia successa nella mia vita. Quasi settant’anni dopo, ricordo con nitidezza come quella magia – tradurre le parole dei libri in immagini – abbia arricchito la mia vita, rompendo le barriere del tempo e dello spazio e facendomi viaggiare con capitano Nemo ventimila leghe sotto i mari, facendomi lottare con d’Artagnan, Athos, Portos e Aramis contro gli intrighi orditi alla Regina ai tempi dello scaltro Richelieu, o trascinandomi nelle viscere di Parigi, nelle vesti di Jean Valjean, con il corpo inerte di Marius sulle spalle. La lettura trasformava il sogno in vita e la vita in sogno e metteva alla portata di quell’ometto che ero l’universo della letteratura. Porto il Perù nelle mie viscere, perché là sono nato, cresciuto, mi sono formato e ho vissuto da bambino e da ragazzo quelle esperienze che hanno modellato la mia personalità, hanno forgiato la mia vocazione e perché lì ho amato, odiato, goduto, sofferto e sognato […].

M a r i o Va r g a s L l o s a insignito del Nobel per la Letteratura 2010, dal discorso pronunciato a Stoccolma alla consegna del Premio.


RivLas 78 (2011) 1, 113-128

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arlare della risposta del La Salle alla sfida educativa del suo tempo, implica un approccio di conoscenza su di lui, come protagonista. Giovanni Battista, a 11 anni, avverte un primo richiamo alla vocazione sacerdotale, la matura a 16, quando diventa canonico della cattedrale di Reims, la concretizza con una formazione specifica, nel seminario di Saint-Sulpice a Parigi e la corona, nonostante innumerevoli difficoltà, a 27 anni con l’ordinazione sacerdotale da parte del suo arcivescovo Charles-Maurice Le Tellier. Non è sempre facile trovare una vocazione così chiara al sacerdozio. Dall’alto di questa sua maturità, può valutare la situazione di degrado del clero, ai suoi tempi, sia per la scelta del sacerdozio come semplice opportunità di vita agiata, sia per mancanza di formazione e di precisi obiettivi pastorali. Di qui ha origine la sua chiamata a realizzare gli ideali di riforma del clero, intravisti nel seminario di Saint-Sulpice alla scuola del Bérulle e dell’Olier.

1. Il La Salle di fronte all’emergenza educativa del suo tempo Ma per un piano misterioso di Dio, benché imbevuto di queste necessità ecclesiali, egli si trova invece a formare nella loro professione insegnante un gruppo di improvvisati maestri. A tanti ormai è nota la storia di Adrien Nyel, maestro di Rouen, che viene a Reims ad aprire una scuola per fanciulli poveri e come egli si sia incontrato casualmente con il canonico Giovanni Battista de La Salle. Non valutiamo, però, in tutto il suo significato che il La Salle non aveva nessuna intenzione di lasciarsi coinvolgere dalla nuova situazione di vita che lo interpellava. Egli desiderava soltanto formare maestri preparati, da affidare poi a Nyel, per dare consistenza e dignità alle scuole che egli stava aprendo.


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Le circostanze tuttavia lo orientano sempre più verso la scuola ed egli, abituato a leggere la volontà di Dio dai segni posti sul suo cammino, si addentra sempre più in quel mondo scolastico a lui sconosciuto. Quando Adrien Nyel, stanco del suo affannoso prodigarsi per aprire scuole e conscio che ormai la loro vitalità è nelle mani del La Salle, decide di tornare a Rouen, questi si trova, suo malgrado, ad accettarne la responsabilità che implica un cambiamento di vita ben lontano dai suoi progetti iniziali. Il La Salle assume la direzione delle scuole, ma a suo modo: continuerà a formare i maestri, li trasformerà in Fratelli, curerà la loro formazione aprendo il noviziato, li seguirà nelle loro prime esperienze, accetterà la loro volontà di votarsi a Dio per la continuità delle scuole; ma non sarà mai direttore di una scuola, non siederà mai in cattedra ad insegnare. Egli sarà il Fondatore dei Fratelli delle scuole cristiane e a loro affiderà le scuole e l’insegnamento. Per lui le scuole sono i maestri da formare: è convinto che la loro solidità e la loro continuità stia nella dedizione e nella competenza degli insegnanti. E la storia gli ha dato ragione. Il La Salle di fronte alla nuova situazione di vita a cui Dio lo chiama: il mondo dei poveri. È un passaggio durissimo nella sua vita, che forse noi non valutiamo in tutta la sua tragica realtà: la scoperta del mondo dei poveri. Dire che tra la nobiltà e il popolo esisteva un divario abissale è noto, ma per capirlo occorre andare alle fonti.

La prima scoperta: i “maestri” di Nyel Certamente fu un impatto destabilizzante. È noto che i nobili, dotti, non si chinavano a istruire il popolo: la distinzione delle classi era tassativa. Nyel recluta i primi maestri tra i popolani in cerca di un lavoro con cui campare, che sapessero leggere e scrivere. Giovanni Battista intuisce l’abisso che li separa dall’ideale di insegnanti-educatori e ricorre a un primo espediente: riunirli in una sola casa perché Nyel potesse occuparsi della loro formazione. La descrizione che ci offre Bernard di quella prima accolta di maestri è tragica pur nella delicatezza dei tocchi: “La loro vita fu impostata in modo regolare innanzitutto per quanto riguardava la notte…” 1. Ma il Nyel passava le giornate impegnato nella scuola o seguendo progetti di apertura di nuove scuole e non seguiva gli insegnanti. Scrive Bernard: “In sua assenza non vi era disciplina. I maestri si accostavano ai sacramenti a loro piacere e impegnavano la mattina delle domeniche e delle feste in dissolutezze”2. Più significativa è la confessione del La Salle riferita dai tre primi biografi. Cito Blain: “Se io avessi solo pensato che l’aiuto dato ai maestri, frutto di pura carità, mi

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Frère Bernard: Vita di Giovanni Battista de La Salle, 1721, Fratelli delle scuole cristiane, 22007, p. 81. Id., ivi, p. 82.


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avrebbe condotto a dimorare con loro, io non mi sarei lasciato coinvolgere. Infatti ponevo coloro che sono stato obbligato a impegnare nella scuola, soprattutto agli inizi, al di sotto del mio valletto e il solo pensiero che avrei dovuto vivere con loro mi era insopportabile. Sentivo una gran ripulsa a riceverli in casa mia; e questo durò due anni” 3. Un inizio così lacerante per un nobile ci permette di valutare in tutto il suo significato l’impegno di formazione che si è concluso 14 anni dopo, il 6 giugno 1694, con la prima consacrazione dei Fratelli.

La seconda scoperta: la dimensione popolare Le pagine di storia della Francia del 1600 abbondano di riferimenti a guerre, carestie, pestilenze che hanno ridotto il popolo alla fame tanto da creare la situazione disperata delle famiglie migranti di città in città alla ricerca del necessario alla sopravvivenza. Ne cito una: “I periodi più critici dal punto di vista climatico ed alimentare furono gli anni dal 1626 al 1630 e quelli dal 1648 al 1652. Le due carestie più gravi si verificarono nel 1628 e nel 1645. Esse provocarono un elevatissimo numero di morti in quanto alle carenze alimentari si aggiunsero le malattie infettive. Bisogna infatti considerare che, per lo più, le condizioni igieniche erano pessime, le acque potabili inquinate, gli scarichi fognari privi di controllo, le abitazioni sovraffollate, fatiscenti e prive di servizi. Ancora nella prima metà del XVII secolo, la peste imperversò in molte zone d’Europa. Si ebbero infatti almeno tre gravi ondate del terribile morbo: la prima agli inizi del secolo, la seconda negli anni 1630 e 1631 e la terza negli anni 1647 e 1648. Oltre a tutto questo, il ‘600 fu anche l’età dei mendicanti, dei vagabondi e delle rivolte popolari. Gli storici hanno parlato di un pauperismo seicentesco in quanto il fenomeno della povertà assunse proporzioni notevoli, superiori a quelle del passato e arrivò a toccare il 40 % circa della popolazione. Infatti, alle tradizionali cause di indigenza già nominate, se ne aggiunsero altre, tipiche dell’epoca: la forte pressione fiscale, la crisi agricola, il processo di privatizzazione capitalistica delle terre comuni, che tolsero a una parte della popolazione contadina le risorse essenziali e che costrinsero all’abbandono delle campagne verso le città; lo sviluppo delle manifatture, che provocò la crisi delle attività artigianali tradizionali. Le torme di indigenti che popolavano le strade urbane e rurali divennero un vero e proprio problema sociale e di ordine pubblico, in quanto costituivano un serbatoio di rivolta sociale e alimentavano la criminalità e il brigantaggio: d’altra parte il confine tra onestà e disonestà, tra legalità e illegalità, era diventato sempre più labile, in una società in cui gran parte della popolazione era costretta a vivere di espedienti. Spesso i cosiddetti delinquenti erano poveri che sceglievano la via del crimine per trovare una soluzione ai loro problemi di sopravvivenza”. Jean-Baptiste Blain, La vie de Monsieur Jean-Baptiste de La Salle Instituteur des Frères des écoles chrétiennes, Cahier lasallien 7, p. 169. 3


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Aggiungo un dato economico riferito al 1500: un artigiano poteva guadagnare 30 “lire” all’anno, mentre un nobile ne poteva ricavare 6.000 dalle sue rendite, soprattutto terriere. Questo ci illumina anche sull’uso del termine “artisan” nella storia lasalliana, così lontano dalla concezione storica degli artigiani in Italia. Il La Salle dimostra di avere capito bene la situazione perché nei Devoirs d’un chrétien esenta gli “artisans” dall’obbligo del digiuno perché compiono un lavoro “fort et pénible”4 e i poveri perché non hanno di che fare “un repas raisonnable”. I Fratelli hanno aperto la loro prima scuola a Rouen per una popolazione di “artisans” che lavorava 15 ore al giorno negli opifici dei fabbricanti di stoffe, drappieri, tappezzieri, tintori con un salario insufficiente al mantenimento di famiglie numerose, come era a quei tempi. Di qui, la difficoltà per la maggior parte della popolazione, di consumare ogni giorno “un repas raisonnable”5. Anche nella vita del La Salle è ricorrente la scadenza di carestie: in quella del 1694 egli distribuisce i suoi beni ai poveri, i Fratelli vivono in prima persona la grande carestia del 1709 per cui il La Salle è costretto a spostare il noviziato da Rouen a Parigi, nella speranza di assicurare la sopravvivenza ai novizi; qui condivide la penuria di cibo della popolazione. In una precedente carestia, mentre era ancora a Reims, dopo avere distribuito i suoi beni ai poveri e rinunciato al beneficio di canonico, aveva detto: “Miei cari Fratelli, grazie a Dio, benché non disponiamo né di fondi né di rendite abbiamo passato due anni difficili di carestia senza fare debiti, mentre altre case religiose sono state costrette a chiudere”6. Infine, nell’impatto del La Salle con il mondo dei poveri, trovo illuminante una citazione di Bernard, quando il La Salle va a vivere con i maestri in Rue Neuve: “Egli provava inizialmente una forte ripugnanza ad abituarsi al nuovo genere di vita, così diverso da quello raffinato di casa sua. Si sentiva rivoltare lo stomaco quando gli veniva servita la minestra con grasso di maiale”7. I Fratelli vorrebbero preparargli cibi diversi, ma egli non accetta e si abitua al nuovo genere di vita.

La terza scoperta: la situazione drammatica dei fanciulli Le pagine di storia sono avare di particolari sulla condizione dei fanciulli, nella situazione sociale appena descritta. Blain si limita a precisare che sono figli di “artisans”, di sarti, di calzolai, di facchini, di conciatori, di indigenti senza lavoro fisso, a volte figli di “pauvres honteux”, cioè di benestanti ridotti in miseria. Michel Fié-

J.B. de La Salle, Les devoirs d’un chrétien, tomo I, Cahier lasallien 20, p. 158. Id., p..158. 6 François-Elie Maillefer, Vita di Giovanni Battista de La Salle, 1740, Fratelli delle scuole cristiane, 2007, p. 85. 7 Frère Bernard, cit. , p. 135. 4 5


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vet, nella sua biografia del La Salle ci offre un quadro impressionante degli alunni dei Fratelli, ma senza citarne la fonte: “…figli di soldati, di trasportatori e della più spregevole plebaglia, figli di gente miserabile e disgustosa, ragazzi molto volgari e come affogati nella carne, frivoli, volubili di carattere”8. Considerata la miseria in cui versava la società e la logica della scuola della strada, forse la descrizione non si distanzia dalla realtà. Gli storici per lo più la danno per acquisita, e si soffermano a descrivere i provvedimenti in favore dei figli dei poveri, soprattutto da parte della Chiesa. Anche il La Salle non si diffonde in particolare sulla situazione di disagio dei fanciulli. Nella nota seconda Meditazione del tempo del ritiro si limita a questo accenno: “Riflettete sulla situazione, che purtroppo è abituale, in cui vengono a trovarsi le famiglie degli artigiani e dei poveri, costrette a lasciare troppa libertà ai loro figli, che si abituano così a vivere da vagabondi, scorrazzando di qua e di là, finché non riescono a trovare un lavoro. Non si preoccupano di mandarli a scuola, sia perché sono povere e non possono pagare gli insegnanti, sia perché - costrette a cercare lavoro fuori casa - debbono necessariamente abbandonare i figli a loro stessi. Le conseguenze sono disastrose perché questi poveri ragazzi, abituati per anni a fare i fannulloni, stentano molto ad abituarsi al lavoro. Frequentando, inoltre, cattive compagnie conducono un vita viziosa, che non riescono più a lasciare, a causa delle cattive abitudini contratte. Dio ha avuto la bontà di rimediare a un inconveniente così grave, istituendo le Scuole Cristiane”9. Un accenno significativo al mondo di povertà degli alunni lo offre la Conduite a proposito dei pasti che si consumano a scuola: “Il maestro farà attenzione che gli alunni portino tutti i giorni la colazione, a meno che sia sicuro della loro povertà”. Per questi fanciulli, tutti i loro compagni sono invitati a “porre nel cestino il pane dei poveri”. “Il maestro li esorterà a fare questa carità con qualche motivazione commovente, per spronarli a fare ciò di buon grado e per amore di Dio”. La Conduite riporta ancora un cenno di delicatezza: “Il maestro non farà portare carne, e se qualcuno ne dovesse portare, la distribuirà ai più poveri che non ne mangiano in casa”10. Altri accenni ai fanciulli li troviamo nel La Salle a livello pedagogico: egli sembra fare un raffronto tra la sua infanzia felice, segnata dall’affetto della sua famiglia, con quella dei fanciulli dei poveri che non gustano né la gioia dell’intimità, né quella più preziosa dell’affetto. Per questi fanciulli chiede ai Fratelli di usare una dimensione dell’amore che è tipicamente lasalliana: la tenerezza: “Se li guidate con la severità di un padre, amateli con la tenerezza di una madre”11. “Dimostrate per loro una tene-

Citato da Michel Fiévet, Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori, Città nuova, Roma 1991, p. 77. 9 J.-B. de La Salle, Opere, Città Nuova, Roma 1999, vol. 2, Meditazione 194, 1. 10 J.-B. de La Salle, Opere, cit., vol.3, Articoli 1 e 3 passim, pp. 53ss. 11 J.-B. de La Salle, Opere, vol. 2, cit. Meditazione 101, 3. 8


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rezza speciale, considerandoli come membra di Cristo e oggetto della sua predilezione”12. Ho insistito sulla povertà materiale perché è la madre di tutte le povertà: umana, spirituale, morale, intellettuale, sociale. Il La Salle, scoprendo il mondo dei poveri, ha capito l’abisso della loro situazione che egli ha valutato dall’alto della sua vita privilegiata. Egli e i suoi Fratelli si immedesimano in questo universo di miseria umana e spirituale; e lo fanno per libera scelta, con un progetto ben chiaro di risposta attraverso la scuola. Esprimendoci con il linguaggio di oggi, egli ha capito l’emergenza educativa del suo tempo e ne ha accettato la sfida, dedicandovi la sua vita. E ai suoi Fratelli insegnerà: “Per loro (i fanciulli) siate disposti a dare la vita, tanto vi sono cari”13.

2. Come il La Salle ha accettato la sfida educativa Citerò 10 punti che mi sembrano fondamentali. 1. Il La Salle non si è accontentato del ruolo di formatore, ma si è compromesso in prima persona. Sappiamo che il La Salle inizialmente pensa di dare una mano al Nyel, poi avverte l’abisso di impreparazione dei maestri e, dall’alto della sua sensibilità, capisce che non può ignorare il problema. Lo affronta con decisione opponendosi ai familiari, al clero e al suo ceto nobiliare. Quando matura la decisone di costituire una comunità con loro in ambito popolare, ormai si sente coinvolto in modo determinante. Tuttavia egli non sente suo il mondo della scuola. Saranno le circostanze, che egli legge come inviti di Dio, a orientarlo definitivamente verso la nuova vita. Soprattutto saranno i Fratelli a coinvolgerlo perché lo sentono padre spirituale e maestro di vita, e quando Nyel, stanco e consapevole che ormai il suo ruolo si era concluso, torna a Rouen, il La Salle capisce che la sua è una via senza ritorno. La sintesi della sua conversione si esprime in quei noti passaggi: - da nobile e ricco si è fatto povero tra i poveri per elevarli a una nuova nobiltà di vita, non di blasone o di censo; - da teologo si è fatto pedagogista e maestro, inventando una nuova cultura educativa e una nuova dimensione della scuola; - da prete si è fatto istitutore nella Chiesa della novità di una congregazione di religiosi tutti laici: i Fratelli.

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J.-B. de La Salle, Opere, vol. 2, cit. Meditazione 80, 3. J.-B. de La Salle, Opere, vol. 2, cit. Meditazione 198, 2.


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È notevole che tutta la vita del La Salle si sia dipanata all’insegna della novità. È il frutto più significativo dell’azione dello Spirito nelle sue scelte esistenziali. Avremo modo di ribadirlo altre volte. 2. Ha creduto all’uomo più che alle istituzioni. I primi biografi narrano che il La Salle cercava di ostacolare il Nyel nell’apertura delle scuole, perché la sua preoccupazione era la preparazione dei maestri. Con loro il La Salle inizia una vita nuova e scopre la sua nuova vocazione: dare alla società e alla Chiesa la persona del maestro nella pienezza della sua dignità educativa e professionale. Sottolineo: - dimensione educativa: è sintetizzata nei 14 anni dal 1680 al 1694 in cui egli compie il suo capolavoro: la trasformazione dei maestri in Fratelli. Saranno loro a testimoniargli che il suo sogno si è realizzato, quando gli chiedono di consacrarsi a Dio per la vita e insieme tenere le scuole per i poveri, anche a costo di vivere di elemosina: il Fratello è costituito come consacrato; - dimensione professionale: è definita nell’Épitre introduttiva e nella Préface della prima edizione della Conduite des écoles del 1720, in cui si fissano due principi essenziali alla professionalità lasalliana14: 1. il desiderio di “une sainte uniformité” nel fare scuola alla luce delle esperienze più progredite che venivano diffuse manoscritte, finché non si è sentita l’esigenza di una pubblicazione a stampa; una impostazione unica non per nulla definita “santa”, perché impegno dei Fratelli che ha segnato nei secoli lo stampo della scuola lasalliana nella società e nella chiesa; 2. il contenuto frutto di “un grand nombre de conférences”, tra il Fondatore e i Fratelli più esperti che hanno visto il felice connubio tra la preparazione culturale del La Salle e la professione dei Fratelli nel creare, impostare, finalizzare la scuola: il Fratello è costituito come maestro.

Per questo suo impegno di formatore, giustamente, la Chiesa riconosce il La Salle patrono degli insegnanti e degli educatori. 3. Ha capito e si è donato al mondo dei poveri. La vita del La Salle è costellata di scelte determinanti di non facile comprensione, ma che egli persegue con una determinazione che lascia stupiti. Quando, in una riunione di famiglia, si sente rinfacciare di essere il disonore dei La Salle per il suo compromesso con i maestri, egli tace, perché i suoi familiari non avrebbero mai capito il perché della sua decisione. La stessa determinazione nel seguire i suoi progetti, egli rivela con il vescovo Le Tellier, che lo vuole trattenere nella sua diocesi, impedendogli di partire per Parigi; con il Parroco di Saint-Sulpice de La Barmondière, che vorrebbe un’impostazione diversa della scuola parrocchiale; con il suo successore Baudrand de La Combe sulla sua richiesta di servizio dei Fratelli in parrocchia oltre alla scuola, con il vescovo di

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Conduite des écoles chrétiennes, Cahier lasallien 24, Épitre-Préface, introduzione.


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Rouen, Godet des Marais, che pretende, a scuola, l’insegnamento della lettura in latino prima che in francese. In tutti questi casi egli oppose un rifiuto netto. Ma l’episodio più rilevante in fatto di scelte da parte del La Salle è la sua decisione, frutto del colloquio con i primi Fratelli, sull’invito a donarsi a Dio con la fiducia nella Provvidenza che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo. Essi rispondono che non è facile conciliare la sua raccomandazione di ricco con la loro esistenza di poveri. Egli comprende l’equivoco di fondo che ormai sta alla base della sua nuova vita con i Fratelli e decide di farsi “come loro”, cioè povero come loro e come loro fiducioso solo nella Provvidenza15. Il La Salle impiegherà due anni nel processo di assimilazione con i poveri: dovrà convincersi, lui per primo, che i suoi beni sono dei poveri, non delle scuole che ormai sono nella mani della Provvidenza e deve convincere i suoi superiori ecclesiastici che la dignità e la prebenda di canonico sono incompatibili con la nuova scelta di vita. La meditazione del Natale offre l’occasione al La Salle per definire la sua nuova vita con i Fratelli. La esprime con un “noi” molto significativo: “Noi siamo poveri Fratelli, dimenticati e poco considerati dalla gente del mondo. Non ci sono che i poveri che vengono a cercarci e non hanno nulla da offrirci se non il loro cuore, disposto a ricevere le nostre istruzioni”16. Ancora la meditazione del Natale e quella dell’Epifania offrono al La Salle l’occasione per definire l’aspetto umano e soprannaturale della sua appartenenza al mondo dei poveri: - in dimensione umana, il La Salle insegna ai Fratelli che devono essere “aimés et goûtés”17 dai poveri, due verbi diventati emblematici per i Fratelli; - in dimensione soprannaturale, insegna a riconoscere Gesù “sous les pauvres haillions”18 dei fanciulli: in loro incontrano Gesù che per primo ha amato la povertà.

Il La Salle, con il suo esempio, ci insegna che non esiste sfida educativa senza partecipazione esistenziale. L’educazione passa attraverso la partecipazione, non si limita alla sfera culturale. 4. Ha scelto la scuola come mezzo indispensabile per elevare i fanciulli dalla loro situazione di abbandono. È stato Nyel a introdurre il La Salle nel mondo della scuola a lui familiare quando era bambino, avviato a studi regolari, in famiglia, prima, poi al “Collège des bons enfants”, che lo ha visto uscire con il giudizio di “summa cum laude probatus”, aprendogli le porte allo studio universitario. Ma se la scuola non costituiva una novità per il La Salle, tutta nuova si presentava la sua funzione in rapporto ai poveri. Il La Salle lo afferma nella nota definizione della secon-

François-Elie Maillefer, cit., p. 75. J.-B. de La Salle, Opere, vol. 2, Meditazione 86, 2. 17 J,-B. de La Salle, Méditations pour les dimanches et les principales fêtes de l’année, Cahier lasallien 12, Meditazione 86, 3, p.236. 18 J.-B. de La Salle, Opere, cit., Meditazione 96, 3, p. 11. 15 16


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da Meditazione per il tempo del ritiro: “(Nelle Scuole cristiane) si insegna gratuitamente e solo per la gloria di Dio. In queste scuole i ragazzi restano per tutto il giorno e imparano a leggere, a scrivere e i primi elementi della nostra religione. Abituati a essere sempre impegnati, non troveranno troppo faticose le ore di lavoro quando i genitori ve li manderanno”19. Una scuola ben diversa da quella che egli ha frequentata. Dunque la finalità della scuola lasalliana non è la cultura, ma l’avvio al lavoro come elemento indispensabile di crescita umana. Come pegno di successo, egli pone alcune condizioni: la gratuità per garantire a tutti l’accesso all’istruzione di base come essenziale alla crescita culturale; la frequenza a tempo pieno per non trovare gravoso il lavoro, quando la famiglia lo deciderà; la prospettiva cristiana della vita, espressa dalla proposta esplicita della dimensione evangelica a base dell’educazione, cioè porre Cristo a modello di uomo realizzato. Con la scuola il La Salle mira a raggiungere due scopi di grandissima importanza: - togliere i fanciulli dalla strada, anch’essa scuola ma di ogni perversione; - scoraggiare le famiglie dall’avviare i figli al lavoro minorile, perché questo, se può essere fonte di reddito immediato, è causa della carenza di istruzione, da cui ha origine il circolo vizioso che produce la povertà. Il La Salle non si limita, come altri iniziatori di tentativi falliti, a evitare gli elementi negativi, ma impegnerà tutta la vita a dare consistenza alla scuola, sia nella sua struttura, sia nella formazione delle persone che ne garantiranno il successo.

Di qui nascono le due grandi novità del La Salle nel mondo della scuola: il rinnovamento della scuola popolare a cui darà quell’impostazione che è ancora oggi attuale nella società e la creazione della figura del maestro che ne è l’unica garanzia di efficienza. 5. Ha dato agli educatori un fondamento teologico, quale qualifica della loro formazione pedagogica. È il contenuto delle “Meditazioni per il tempo del ritiro, ad uso di tutte le persone impegnate nell’educazione della gioventù e in particolare per il ritiro dei Fratelli delle Scuole Cristiane durante le vacanze”. Ne do solo un accenno, perché l’argomento è troppo vasto. Il centro della costruzione teologica del La Salle è Dio: Dio vuole tutti gli uomini salvi, Dio ha fondato le scuole cristiane per la salvezza dei fanciulli, Dio ha scelto voi educatori per quest’opera di salvezza; ringraziatelo. Posta questa premessa, si rivolge agli educatori tracciando la linea del loro impegno: l’educatore si pone nella mani di Dio come strumento di salvezza; egli è chiamato,

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J.-B. de La Salle, Opere, cit., Meditazione 194, 1. J.-B. de La Salle, Opere, cit., Meditazione 201, 3.


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come l’angelo custode, a curare l’istruzione e l’educazione di ogni alunno, personalmente; indirizzandolo alla salvezza, egli compie un “ministero” ecclesiale, perché opera in un settore vitale della Chiesa; infine si spende con zelo ardente fino a “consumare la vita”20 per l’educazione dei fanciulli. Questo costituisce il pegno di una gioia in terra, mista di apprensione, ma anche di gloria futura che Dio ha assicurato a chi si è speso totalmente per l’opera della salvezza. In questa impostazione la pedagogia lasalliana accetta e valorizza la dimensione umana dell’insegnante che sceglie l’educazione come massima espressione della sua professionalità, ma trascende la dimensione umana e si situa in quella soprannaturale di chi si propone di fare tutto in Dio e per Dio, che è la sintesi dello “spirito di fede”.

Anche per noi Lasalliani di oggi il richiamo assume tutta la sua importanza per rispondere alla sfida educativa: il carisma lasalliano di educazione umana e cristiana dei giovani affonda le radici nella spiritualità secondo l’impostazione che il La Salle ha dato alla sua opera. 6. Ha codificato con i Fratelli la struttura e il funzionamento della scuola. Si tratta della Conduite des écoles in cui il La Salle con i primi Fratelli crea la struttura della scuola e ne codifica il funzionamento. Già abbiamo fatto cenno alla nascita della Conduite parlando del valore dato dal La Salle alla persona del maestro, in quanto nata con il concorso dei Fratelli, non scritta a tavolino dal La Salle stesso. Qui mi limito a un accenno del contenuto. È divisa in tre parti: la prima tratta della struttura della scuola e delle materie di apprendimento: la classe; i gruppi di apprendimento, la lettura, la scrittura, l’aritmetica e in particolare, la religione; la seconda presenta i mezzi a disposizione del maestro per rendere efficace l’insegnamento: l’impegno personale, i registri, le ricompense, le correzioni, gli incarichi, il signal, le vacanze…; la terza è riferita alla persona del direttore, ma comprende anche capitoli importanti, come la composizione delle classi e la promozione al gruppo di studio o alla classe superiore. Oltre alla più preziosa edizione manoscritta del 1706, dall’anno dell’editio princeps, il 1720, ad oggi ne sono state fatte 26 edizioni, sempre aggiornate in quanto, per sua natura, la Conduite è un testo in evoluzione, aperto al crescere della dinamica scolastica. L’ultima edizione risale al 1903 e comprende l’aspetto nuovo della scuola lasalliana, nel contesto dell’istruzione obbligatoria ormai affermata in tutte le nazioni civili. La Conduite non è più, quindi, un testo normativo ma assume un’importanza insostituibile per lo studioso che vuole scoprire l’origine della scuola moderna.

Tuttavia il maestro attento può ancora scoprire nella Conduite alcune perle di valore perenne: come prepararsi alla professione insegnante, come rendere efficace il proprio comportamento in classe,(anche senza dispendio di inutili energie), come premiare, correggere, incoraggiare gli alunni nel loro apprendimento. Aspetti di tutta attualità.


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7. Ha coinvolto la società per assicurare la gratuità di insegnamento a tutti gli alunni. La gratuità è sempre stata la caratteristica delle scuole lasalliane dalle origini: nelle Scuole Cristiane “si insegna gratuitamente e per la sola gloria di Dio” 21. Fedele questo principio il La Salle apriva scuole solo alla condizione indispensabile che un gestore assicurasse la sussistenza dei Fratelli e il funzionamento della scuola. Normalmente il gestore non era un privato, ma un ente pubblico perché la scuola è un bene che interpella la comunità civile ed ecclesiale. La storia dice che la richiesta di aperture di scuole normalmente proveniva al La Salle dalle municipalità: è stato un segno dei tempi, perché si diffondeva tra gli amministratori della cosa pubblica l’apporto della filosofia cartesiana, che larga diffusione ebbe in Francia, con la nascita di circoli scientifici, accademie, salotti, ambienti religiosi aperti alla cultura, come quelli promossi dagli Oratoriani e dai Giansenisti. Il loro influsso coinvolse non sola la scuola, ma la società nel suo complesso che si fece promotrice della rinascita culturale delle masse popolari. Anche in questo senso, il La Salle è stato un innovatore perché ha impostato la sua scuola come esigenza insostituibile di crescita civica, quindi a carico della società civile, oppure della Chiesa, aperta al mondo della cultura, per rendere più efficace l’evangelizzazione. Il contributo finanziario delle famiglie al gestore della scuola non è mai stato affrontato come problema negli anni degli inizi: lo è diventato in seguito, quando la gratuità della scuola contrastava con le precarie finanze del municipio come gestore. Un esempio significativo del valore assoluto della gratuità ci viene offerto dal primo convitto aperto dal La Salle a Saint-Yon per le famiglie benestanti: esse pagavano la retta del convitto, ma la scuola era assolutamente gratuita.

La lunga storia legata al declino della gratuità è stata una delle pagine più sofferte nell’Istituto e noi stessi, oggi, ne valutiamo tutta l’importanza nella situazione storica in cui viviamo. 8. Ha coinvolto le famiglie nel processo educativo della scuola. Le Scuole cristiane sono nate con una funzione di supplenza nella situazione di degrado delle famiglie, impossibilitate a dare un’educazione ai figli sia per carenza di istruzione, sia per le proibitive condizioni di lavoro. Lo spiega chiaramente la prima Regola dei Fratelli: “Gli operai e i poveri sono poco istruiti ed occupati tutto il giorno a guadagnare il pane per sé e per i loro figli: non possono quindi dare loro l’istruzione necessaria e un’educazione civile e cristiana. Per procurare questo vantaggio ai figli degli operai e dei poveri sono state istituite le Scuole cristiane” 22. Tuttavia il La Salle, forse conscio dell’influenza che la famiglia ha avuto nella sua educazione, non rinuncia a coinvolgere i genitori nell’impegno educativo della scuola. Egli chiede in progressione: che sentano il dovere di mandare i figli a scuo-

21 22

J.-B. de La Salle, Opere, cit., Meditazione 194,1. J.-B. de La Salle, Opere, vol. 1, p. 257.


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la, che garantiscano la frequenza ordinaria e che rinuncino alla grave tentazione di ritirare i figli dalla scuola per avviarli precocemente al lavoro. In queste esigenze fondamentali per le famiglie, il La Salle è perentorio fino a chiedere espressamente ai parroci e ai dirigenti di opere caritative di non dare elemosina a quei genitori che non mandano i figli a scuola. Ma il La Salle non si accontenta di queste richieste di base; nei Devoirs d’un chrétien si diffonde a dare spunti educativi nel positivo: i genitori non si accontentino di assicurare il nutrimento ai figli ma, innanzitutto, siano attenti a “vigilare sulla propria condotta per essere sempre di buon esempio ai figli”; inoltre, personalmente o, in caso di necessità attraverso a persone delegate, devono “insegnare loro le verità della fede, i comandamenti di Dio e le preghiere quotidiane”. Compito specifico è quello di “corregge i figli, ma con dolcezza e carità”, e “insegnare la buona creanza, non dimenticando le motivazioni spirituali nell’agire per la gloria di Dio”; infine “avviarli al lavoro al momento giusto” 23. A questi consigli per i genitori, corrispondono quelli per i figli nei doveri verso i loro genitori; e ne fa una dettagliata presentazione, affidando ai Fratelli la responsabilità della loro attuazione. E’ sempre significativo che il La Salle ponga la mediazione del Fratello, non solo nel rapporto con gli alunni, ma anche con i loro genitori.

Le richieste de La Salle ai genitori sono elementari, è vero. Ma se si pensa che nella scuola italiana il coinvolgimento diretto dei genitori è avvenuto con i Decreti delegati nel 1975, è notevole che solo il La Salle abbia pensato a un loro apporto, benché minimo, all’atto di fondazione della scuola popolare. 9. È andato oltre la scuola di base aprendo nella società le prospettive per una scuola aderente alle richieste della società. Il La Salle è giustamente considerato antesignano della scuola, nel senso più ampio del termine, cioè istituzione aperta alle esigenze della società, prima fra tutte l’avvio alla professione. Egli inizia dalla scuola di base con l’insegnamento di discipline adatte al lavoro predominante della popolazione: a Calais, per esempio, pone la nautica tra le materie di insegnamento dei futuri marinai. Ma accoglie altre esigenze di scuola oltre a quella di base: a Parigi inizia le “Académies chrétiennes”, scuole domenicali di perfezionamento professionale in risposta all’affermarsi delle nuove tecniche produttive; a Rouen apre un convitto per i figli dei professionisti desiderosi di dare una cultura specifica per i loro figli, inoltre si affianca allo stato, che aveva scelto l’infelice iniziativa degli “hôpitals” impostati a regime carcerario, accettando i giovani corrigendi in una struttura educativa a cui i magistrati hanno subito guardato come a una novità che apriva alla speranza. Si tratta della nota esperienza di Saint-Yon, in cui il La Salle

Citazioni da G. B. de La Salle, Itinerario educativo, a cura di Secondino Scaglione. Tipografia San Rocco, Grugliasco 2002, n. 14, p. 60.

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mira a realizzare il sogno di corrigendi che possano integrarsi con gli studenti del convitto, nella certezza che ogni giovane può accedere a una vita onesta, se opportunamente educato. Blain, testimone oculare di quell’esperienza, afferma che i giovani inseriti nel sistema educativo del La Salle “perdevano ogni segno di ferocia e di empietà”, facendo onore a quell’istituzione da cui ”uscivano dando l’esempio di una vita santa”. Non mi soffermo sul “Seminario per i maestri di campagna”, giustamente definito il primo esperimento di scuola magistrale: solo il primo ebbe successo, anche se di breve durata24 e fallirono altri due tentativi per ricostituirlo negli anni a venire. Il La Salle, dunque, è iniziatore della scuola nella vastità delle sue prospettive.

Questa è un’ulteriore sottolineatura di quel carattere di novità a cui abbiamo accennato come distintivo di tutte le iniziative del La Salle e che coinvolge anche noi, oggi, nelle continue riforme che ci interpellano per aggiornare la scuola e renderla efficace sul piano didattico ed educativo. 10. È iniziatore della scuola per i poveri, ma non in dimensione classista. Gli anni 1703-1704, con precedenti dal 1696 fino al 1706, sono segnati dai processi intentati al La Salle dai “Maestri scrivani” e da quelli delle Petites écoles per la presenza, nelle scuole dei Fratelli, di alunni non compresi nell’elenco dei poveri. Sono anni determinanti per definire l’identità delle Scuole cristiane. Il La Salle ha aperto le sue scuole per i poveri, non guidato da una scelta sociale di classe, ma per un’esigenza storica, non solo dal punto di vista sociale, ma alla luce dei segni di Dio nella sua vita. L’ultima volontà di Cristo: “Andate e fate diventare miei discepoli tutti gli uomini del mondo”, nel 1600, non poteva ignorare una carenza specifica nel mondo dell’infanzia tra i figli del popolo minuto. Il La Salle comprende quell’emergenza e ne accetta la sfida. Le sue saranno scuole per i poveri, ma non circoscritte al mondo dei poveri perché la salvezza di Cristo è offerta a tutti i fanciulli, indipendentemente dal censo. Il La Salle, nelle lunga diatriba giudiziaria, di cui è stato protagonista, gioca la carta, inizialmente perdente, della sua indipendenza dagli intrighi del mondo ecclesiastico e civile: sarà costretto ad accogliere nelle scuole solo alunni di famiglie iscritte nell’elenco dei poveri, le scuole stesse verranno saccheggiate e chiuse nel 1706. Ma presto saranno riaperte per volontà dei genitori degli alunni. Sono loro a cui il La Salle guarda, per loro dona la sua vita, cercando le risposte più adeguate alle loro esigenze. Gli ostacoli, soprattutto quelli frapposti dai potenti, non lo hanno mai fermato. Intanto il La Salle guarda oltre le beghe di Parigi, sceglie Rouen come centro del suo Istituto, e l’identità delle Scuole cristiane si afferma sul suolo francese

24

Cfr. Frère Bernard, cit., pp.152-153.


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secondo le sue indicazioni, anzi si apre alle nuove sperimentazioni di cui abbiamo parlato.

La sfida del La Salle, nella sua situazione storica, interpella noi nella nostra. Oggi, in Italia, dobbiamo accettare sfide agli antipodi di quella sostenuta dall’Istituto nei suoi inizi. Mi riferisco al fatto che l’azione educativa lasalliana, salvo qualche oasi nel deserto, si rivolge a giovani di famiglie abbienti, con esigenze ben diverse da quelle dei poveri, nel ‘600. Come il La Salle ha risposto alle attese dei suoi tempi, noi siamo chiamati a rispondere con altrettanta chiarezza a quelle del nostro tempo. Formulo, per concludere, qualche interrogativo: possiamo guardare con serenità all’esperienza del La Salle all’inizio della sua fondazione e assumere la nostra libertà di azione nella situazione storica in cui siamo inseriti? Ma come? Quale rilevanza dare alla sfida lanciata dagli ultimi Capitoli generali dei Fratelli sul ritorno ai poveri? E ancora: come realizzarci oggi come Lasalliani, nel Progetto culturale della Chiesa italiana e sentirci protagonisti in un campo che è vitale per la nostra identità, nel mondo civile ed ecclesiale?


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LA SALLE : BIOGRAFIA FRÈRE BERNARD Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 153 L’autore ha vissuto in comunità con il La Salle ed ha attinto dalla viva voce dei primi Fratelli le testimonianze che trasmette. Più che biografo è un testimone che offre con limpidità il La Salle nella sua veste di fondatore di una comunità di uomini affascinati da un giovane prete e votati a tenere insieme e in associazione le scuole gratuite.

FRANÇOIS-ELIE MAILLEFER Vita di Giovanni Battista de La Salle trad. it. e presentazione di Bruno Bordone, Vercelli 2007, pp. 301 Nipote del La Salle, l’autore scrisse su incarico della famiglia La Salle. Suo scopo è delineare il volto dello zio in tutta la sua autenticità attingendo a fonti sicure e trattandole con competenza. Con esemplare incisività presenta il giovane Jean-Baptiste alla ricerca della sua vocazione, teso a realizzare il piano di Dio tra l’affetto dei suoi figli spirituali e le resistenze di quanti non capivano il valore profetico delle sue scelte.

ELIO D’AURORA Monsieur de La Salle – una fedeltà che vive Editrice A&C, Torino 1984, pp. 275 La vita del La Salle si svolge nell’irriducibile realismo di una società dibattuta da crisi di coscienza, statolatria, ambizioni del potere, sete di ricchezze, necessità di rigenerarsi. La Salle non colloca la sua pedagogia nelle belle lettere, ma nelle arti e nei mestieri, presagendo il travaglio di un rivolgimento politico e sociale che l’Europa stava covando. Nella Francia del Re Sole, tra guerre miserie e pestilenze, ad onta dello splendore del Grand Siècle, La Salle rovesciò le concezioni pedagogiche di una società che nutriva solo disprezzo o falsa pietà per i ceti popolari. D’Aurora mette tutto questo in risalto con una brillante e documentata biografia.

MICHEL FIÉVET Giovanni Battista de La Salle maestro di educatori trad. it. di Serafino Barbaglia, Città nuova, Roma 1997, pp. 190 L’autore è un professore, sposato, che ha collaborato a lungo con i Fratelli scoprendo poco a poco il loro Fondatore. Affascinato dalla personalità del La Salle ne ha approfondito il profilo come santo e come pedagogista, tanto da riuscire a svelare agli stessi Fratelli aspetti inesplorati della fisionomia del loro Padre e Fondatore. •••

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JEAN-BAPTISTE DE LA SALLE

OPERE COMPLETE in 6 volumi, rilegati con sovracoperta, 22 x 15 cm. Prima edizione italiana a cura di SERAFINO BARBAGLIA

1. Scritti Spirituali / 1 Raccolta di vari Trattati brevi – Regole – Scritti personali Presentazione di A. HOURY – Introduzione di M. SAUVAGE e M.-A. HERMANS pagine 544

2. Scritti Spirituali / 2 Meditazioni – Spiegazione del metodo di orazione Presentazione di J. JOHNSTON pagine 1194

3. Scritti Pedagogici Guida delle Scuole cristiane – Regole di buona creanza e di cortesia cristiana Edizione italiana a cura di R. C. MEOLI pagine 480

4. Scritti Catechistici I doveri del cristiano verso Dio Traduzione e note a cura di G. DI GIOVANNI e I. CARUGNO pagine 862

5. Istruzioni e Preghiere Istruzioni e preghiere – Esercizi di pietà – Canti spirituali Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA e I. CARUGNO Presentazione di Á. RODRIGUEZ ECHEVERRÍA pagine 470

6. Le Lettere Traduzione e note a cura di S. BARBAGLIA Introduzione di R. L. GUIDI pagine 560

CITTÀ NUOVA EDITRICE Via degli Scipioni, 265 – 00192 Roma tel. 063216212 – comm.editrice@cittanuova.it


RivLas 78 (2011) 1, 129-144

RETAZOS LASALIANOS [26-30] JOSÉ MARÍA VALLADOLID

Los maestros de La Salle, ¿cuándo dejaron de ser grupo y comenzaron a ser comunidad? [26] Los comienzos del Instituto lasaliano plantean muchos interrogantes que no han sido plenamente desentrañados, a pesar de que, al parecer, los primeros biógrafos, y en especial Blain, han aportado abundantes datos. Con todo, cuando este autor habla de los orígenes, lo hace con los materiales que le facilitaron, y él mismo confiesa, copiando y repitiendo a Bernard, que fueron muy escasos. Es fácil de comprender: los primeros maestros abandonaron su estado apenas dos años después de convivir como grupo de maestros, primero en la casa de la parroquia de San Mauricio, puesta a su disposición por el párroco Dorigny, luego en la casa alquilada, cercana al domicilio del señor De La Salle, durante dieciocho meses, y después en la casa de De La Salle, en la calle santa Margarita. En 1680 se inicia el pleito por el cual los familiares de Juan Bautista le exigen vender la casa de sus padres, y antes de terminar el juicio, el 24 de junio de 1681, Juan Bautista y sus maestros pasan a vivir juntos en la casa alquilada en la Calle Nueva. Pero seguían siendo un grupo, no una comunidad. Es interesante ver cuáles fueron los pasos que juntos dieron para llegar a merecer el nombre de comunidad. 1. Hasta este momento, junio de 1681, los maestros no llevaban vida de comunidad, aunque La Salle les había dado unos reglamentos muy elementales, tratando de poner orden en la vida de aquellos maestros habituados a vivir a su antojo. Eran un grupo de personas que residían juntos, con la obligación era ir diariamente a las escuelas para dar clase, y poco más. Y ellos no querían aceptar ninguna otra obligación. Daban la clase prácticamente sin cobrar nada, sólo por el alojamiento y la comida, pues las fundaciones que sostenían las escuelas eran insuficientes para pagar el salario de los maestros. Juan Bautista De La Salle tuvo que poner bastante dinero de su bolsillo, ya pagando el alquiler de las dos casas en que vivieron, ya


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mandando preparar los alimentos en su propia casa y haciendo que se los llevaran a los maestros a las horas de las comidas. 2. Ya en la casa de la Calle Nueva, 24 de junio de 1682, La Salle advierte que varios de los maestros se están desalentando y quieren retirarse. Juan Bautista no se lo impide, porque ve que no tenían cualidades para ser maestros capaces de llevar unas escuelas distintas a las existentes en aquel momento. Es importante pensar que en los dos años transcurridos desde la apertura de la primera escuela La Salle se había interrogado, y había conseguido que sus maestros se interrogasen, si valía la pena tener unas escuelas que no se distinguieran de las que había en aquellos momentos. Y, poco a poco, habían conseguido tener unas escuelas distintas. ¿En qué se diferenciaban? Es lástima que Blain no señale las diferencias ya desde este momento. Lo hace, sí, más tarde, pero cuando ya no eran estos maestros los que acompañaban a La Salle. 3. A mi modo de ver, los cambios introducidos en las tres escuelas de La Salle, con los primeros maestros, antes de que retiraran, eran los siguientes: la enseñanza simultánea; aprender la lectura partiendo del francés, la enseñanza diaria del catecismo y la disciplina en la clase y en el trabajo. Eran los prolegómenos de la Guía de las Escuelas, muy elementales, pero ya muy importantes. Junto a estos cambios en la escuela, estaban los cambios en la vida del grupo de maestros: horario marcado para todo el día, desde el momento de levantarse hasta la hora de retirarse a dormir; la preparación de las clases; el aprendizaje de la lectura y la escritura; los ejercicios espirituales diarios. Eran el inicio de unos reglamentos.... Escuela y Vida compartida tenían que ir juntas, en la mente de La Salle. 4. Esta doble exigencia, en la escuela y en la vida del grupo, fue lo que desalentó a unas personas poco capacitadas, elegidas por Niel para dar clase, pero sin preparación... Y a finales de 1681 y comienzos de 1682 (sólo dos años y medio desde que comenzaron las escuelas), aquellos maestros se marcharon. El biógrafo dice que sólo quedaron uno o dos (sería, creo yo, sin contar a Adrián Niel y su ayudante, el joven Cristóbal). El hecho es que crearon un vacío por la falta de maestros, y Juan Bautista tuvo que sustituirlos con urgencia. Pero no se retiraron todos a la vez, sino a lo largo de seis meses. Y a medida que unos se marchaban, la Providencia enviaba a otros que querían incorporarse al grupo. Fijémonos bien: eran ellos los que pedían entrar en el grupo de los maestros; no había nadie que fuese a buscarlos, como antes. El biógrafo tampoco nos lo cuenta así, pero tuvo que ser este flujo y reflujo de personas lo que iba a ser el origen de la comunidad. Y es también lo que explica la falta de datos de los primeros treinta meses de las escuelas: no quedaron testigos que lo vivieran, salvo Juan Bautista. 5. Estos nuevos maestros eran personas de valor. Es probable que entre ellos estaban Nicolás Vuyart, Gabriel Drolin, José París, y Nicolás Bourlette. A medida que se fueron integrando en el grupo, iban asumiendo las innovaciones introducidas tanto en la escuela como en la convivencia. Y lo que parece seguro es que ingresaron más personas de las que habían salido. Así se comprenderá que unos meses más


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tarde, para junio de 1682, el santo se comprometa a enviar a dos maestros bien formados para la escuela de ChâteauPorcien (Carta 111). 6. Fue en este momento histórico cuando se produjo, poco a poco, el nacimiento de la primera comunidad, que fue abriéndose como una flor que surge del capullo. La decisión de estos nuevos maestros denotaba un compromiso con la obra de las escuelas, y les hacía muy conscientes que esta obra iba a abarcar toda su vida, incluso hasta su vejez. Y ese compromiso es el que les mueve a echarle en cara a La Salle, en el segundo semestre de 1682, que él no estaba comprometido con la obra de las escuelas si no se hacía pobre como ellos. Y en estas palabras Juan Bautista halló el eco de las palabras de Jesús: deja cuanto tienes y luego ven y sígueme. 7. Así que fue este segundo grupo de maestros los que pusieron a Juan Bautista de La Salle en el verdadero compromiso con la obra de Dios. Niel llevó a La Salle a descubrir el valor de la escuela; y los maestros de su propia comunidad le llevaron a descubrir la escuela cristiana, la escuela gratuita para los pobres, atendida por maestros pobres... y le exigieron que él también lo fuera... Esta actitud de aquel grupo de maestros, encarándose con Juan Bautista, fue, en el plan de Dios, un auténtico acto fundacional, que nos muestra que el Instituto no fue obra exclusiva de La Salle, sino también de sus compañeros de la primera comunidad. Aquellos maestros se habían comprometido con la obra de Dios antes, incluso, que Juan Bautista, y habría que reconocerles su mérito en el nacimiento del Instituto. Algo parecido había ocurrido con los frailes menores de San Francisco; y con los compañeros de san Bruno, en la Gran Cartuja; y con los compañeros de San Ignacio, cuando dieron vida a la Compañía de Jesús... 8. Muchos me han preguntado por qué Adrián Niel no se integró en la primera comunidad, y así hubiera sido, sin duda, la columna más sólida del Instituto de La Salle. El hecho es que Adrián Niel nunca quiso integrarse en una comunidad que tuviera como finalidad sostener y dirigir las escuelas gratuitas. El P. Barré lo había intentado con él, ya en Ruán, en los años precedentes, y no lo consiguió. Y cuando la señora de Maillefer le envió a abrir una escuela en Reims, Adrián Niel, muy previsor, y por si no llegaba el dinero que dicha bienhechora prometía, tuvo cuidado de hacer un depósito de sus propios bienes, a cobrar en Reims, para completar la pensión con la que tendría que vivir él mismo y su ayudante, el joven Cristóbal. *** A este propósito, será muy interesante leer los textos en que Blain, a pesar de sus saltos en el orden de los hechos, describió estas situaciones. Así escribe sobre el desaliento de los primeros maestros: «No pasó mucho tiempo sin que se diera cuenta de que algunos comenzaban a desanimarse en los senderos de la virtud, y que la perfección no es para todos. Una vida tan regulada parecía molesta a quienes la habían llevado más libre bajo la autoridad del señor Niel, en la casa vecina... El yugo de una vida de retiro, de silencio, de obediencia, de regla, comenzaba a pesarles y a hundir


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bajo su peso algunas voluntades débiles y demasiado poco firmes en el bien. Prefirieron, pues retirarse, lo que no fue sin pesar» (B-I-178-179). Esto ocurría cuando los maestros vivían en la casa del señor De La Salle (desde el 24 de junio de 1681), y comenzaron a retirarse en el último trimestre de 1681. Y sobre los nuevos sujetos que envió la Providencia, en el último trimestre de 1681 y primer trimestre de 1682, dice así: «En poco tiempo su rebaño aumentó con nuevos jóvenes, inspirados de dejar todo, a ejemplo suyo. Entre ellos había algunos que seguían estudios, y que los abandonaron para juntarse con él, a pesar de sus familiares y a pesar de los consejos importunos de los prudentes del mundo... Estaban convencidos de... que no tendrían que hacer otro estudio que conocer y practicar la doctrina cristiana a la letra, para estar en disposición de enseñarla con fruto; y que sin ser sacerdotes, ni eclesiásticos, podían desempeñar la función del ministerio más necesario y útil a los pobres» (B-I-224). Y la época en que el grupo comienza a ser comunidad, la describe así: «Fue, pues, por entonces, es decir, hacia finales de 1681 y los comienzos de 1682 cuando la casa de los maestros de escuela comenzó a tomar verdadera forma de comunidad. El buen señor Niel..., estaba agradablemente sorprendido de los cambios que se estaban verificando ante sus ojos, encantado por el buen orden que reinaba entre los maestros, y edificado de la nueva forma de vivir, tan regular y tan recogida... Al parecer, él mismo hubiera debido añadirse y echar raíz en el grupo, pero... enemigo de la estabilidad, no pudo renunciar a su inclinación, que le empujaba a todas partes...» (B-I-179). Los maestros aumentaron en mayor número que los salidos, y dice el biógrafo: «Como el rebaño había aumentado, la casa donde vivían resultó demasiado pequeña, y hubo necesidad de alquilar otra más amplia. Se encontró una en la calle Nueva, y posteriormente el señor De La Salle la adquirió, gracias a varios donativos que le hicieron para comprarla, como ya se dijo. De modo que ha seguido siendo propiedad de los Hermanos, y es la casa que, con justa razón, se puede considerar como la cuna del Instituto». (B-I-224). El alquiler de la casa de la Calle Nueva comenzó el 24 de junio de 1682. Juan Bautista fue obligado a vender la casa de la calle Santa Margarita, la casa paterna, a causa del pleito que le pusieron sus familiares. Él hubiera querido conservarla, pero a pesar de los tres intentos que hizo para adquirirla en la subasta, se vio forzado a dejarla. Fue en esta casa de la Calle Nueva, en el segundo semestre de 1682 y primer semestre de 1683, cuando los maestros comenzaron a mostrar que eran comunidad: vida regulada, métodos nuevos en la clase, vida en común, no tener bienes propios, una autoridad que gobernaba a todos... Y en este momento dice el biógrafo: «Una vez que todo venía a ser nuevo en la creación de las escuelas, casas, maestros, forma de vida y dirección, Jesucristo podía decir a este respecto: Ecce nova facio omnia: hago nuevas todas las cosas para mi siervo» (B-I-179). En el segundo semestre de 1682 fue cuando los maestros reprocharon a La Salle que


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era rico, mientras que ellos eran pobres... Y Juan Bautista, después de un retiro y de consultar el asunto, en 1683 decide desprenderse de todo. En agosto de 1683 dejó la canonjía, en 1684-85 repartió sus bienes a los pobres... En 1685, Adrián Nyel dejó las tres escuelas que dependían de él, Rethel, Guisa y Laón, y regresó a Ruán, y en el último trimestre de 1685 La Salle pensó por primera vez en formar una «congregación»: «El señor De La Salle, al verse al frente de un buen número de maestros de escuela repartidos por diversas ciudades, pensó que era conveniente formar con ellos una pequeña congregación, y prescribirles una forma de vida uniforme. Aunque hubiera podido adoptar hasta entonces alguna regla con los suyos, todavía no constituían una sociedad perfecta...» (B-I-232).

¿Qué cambios introdujo La Salle en la escuela tradicional para convertirla en escuela cristiana? [27] El recorrido con los primeros maestros - En cuanto Juan Bautista De La Salle ayudó a Adrián Nyel a abrir la primera escuela en Reims, la de San Mauricio, probablemente en mayo de 1679, se preguntó a sí mismo si esta escuela tenía que ser igual que las demás existentes a en la ciudad, y que eran atendidas por maestros que cobraban por enseñar. Él tuvo bien claro que aquella escuela tenía que ser gratuita, para los hijos de los pobres, y que había que enseñarles a ser buenos cristianos, pero que no podía funcionar como las demás escuelas. En el mes de octubre de mismo año se abrió la segunda escuela, merced a la fundación de la señora de Coyères, que murió seis semanas antes de abrirse la escuela en su parroquia de Santiago. Ahora la preocupación de Juan Bautista fue mayor, aunque él quería quedarse al margen de las escuelas. Pero los maestros contratados por Niel no sabían enseñar y tampoco eran de conducta ejemplar. Niel no se preocupaba de atender a aquellos maestros, y si él no lo hacía, aquellas escuelas serían como muchas otras. Al año siguiente, en 1680, se habían trasladado los cinco maestros a la casa alquilada por La Salle, y por sugerencia de Nyel La Salle tuvo a bien poner en la misma casa dos clases, una escuelita, que corría a cuenta del grupo de maestros. Fue la escuela de San Sinforiano. Y ya eran siete los maestros. Nyel, además, se marchó a Rhetel, pues le habían hablado de que allí querían abrir otra escuela. Fue entonces cuando La Salle toma en su mano la orientación de aquellos siete maestros, y comienza a examinar, a evaluar, con ellos, el trabajo que realizaban diariamente.

La revisión, motor del cambio - ¿Qué les pudo decir Juan Bautista en aquellas reuniones, al final del día, donde repasaban lo que habían hecho en clase? Lo podemos adivinar: que Dios les había dado aquel trabajo de maestros para que enseñar a


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los niños no sólo a leer y escribir, sino también a ser buenos cristianos; que aquel trabajo era una llamada que Dios les hacía...; que aquellos niños que tenían en la escuela no eran unos simples críos, sino que tenían que mirarlos como si fueran hijos de Dios...; que en la escuela no tenían que impacientarse, porque tenían que dar buen ejemplo a los niños... que tenían que vigilar sobre los niños para que no hicieran nada inconveniente, etc. Es decir, eran las mismas reflexiones que encontramos en las Meditaciones para el tiempo del Retiro... y todas ellas convergían en un mismo punto: que tenían que ver todo aquello desde el punto de mira de Dios...: ¡el inicio del espíritu de fe!

La revisión llevó a los cambios - A lo largo de 1680 y 1681, las revisiones y las reflexiones tuvieron que ser sistemáticas, probablemente diarias, y a través de ellas se dieron cuenta de que su modo de enseñar dejaba mucho que desear. Comprendieron que enseñar a leer a los niños uno por uno era terriblemente lento y fatigoso. ¿Por qué no enseñar a leer a varios niños a la vez? Se hablaba de que en algunos lugares ya se hacía, y desde luego en los colegios, después de la enseñanza elemental, se empleaba para todo el sistema simultáneo. ¿No podrían intentar ellos enseñar a los niños a leer y a escribir en pequeños grupos, según el nivel que tuvieran? Estas mismas reflexiones y la práctica de enseñar la lectura en grupos les hizo caer en la cuenta de que no valía la pena enseñar a leer en latín, y luego pasar al francés. Los niños no lo entendían y aprendían más fácilmente comenzando por la lengua que entendían y que hablaban. También cayeron en la cuenta de que para enseñar a los niños a ser buenos cristianos tenían que darles «instrucciones» (catecismo) todos los días, y como ellos no sabían qué tenían que enseñar, Juan Bautista les hizo un listado de las cosas que los niños tenían que aprender de memoria, con las preguntas que el maestro debería hacerles... y la respuesta que los niños tenían que dar. Y ese sería el origen del llamado Compendio Menor, del que más tarde saldría el libro «Deberes del cristiano para con Dios», por preguntas y respuestas... Cayeron también en la cuenta de que había que exigir a los niños disciplina y trabajo. Todos tenían que estar a la hora en punto en la escuela, y las actividades se tendrían al mismo tiempo. En la escuela se comenzaría y se terminaría con una oración, que más tarde daría lugar al librito de «Oraciones para las Escuelas Cristianas». Todos los días, si era posible, antes de salir a mediodía, se llevaría a los niños a misa, a la parroquia, y durante los catecismos se les explicaría la misa, para que la siguieran con atención y fervor. Al terminar la escuela se saldría de la clase por orden, en filas, y los maestros acompañarían a los niños, en silencio, hasta cierta distancia de la escuela... ¿Qué eran todos estos cambios, salidos de aquella reflexión diaria y de aquellas evaluaciones dirigidas por Juan Bautista? Sencillamente, los primeros pasos de la Guía


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de las Escuelas. Las primeras Guías, que tal vez se redujeran a cuatro o cinco hojitas, que copiaba para sí mismo cada maestro, tuvieron que ser, sin duda, anteriores a las que hoy conocemos y que están recogidas en las Obras Completas, pues en la que conocemos, de 1705, ya se da por supuesto que los Hermanos daban la clase según el método simultáneo y enseñaban a leer en francés, según los carteles que en ella se reproducen. Habían pasado tal vez veinte años desde que hicieron la primera Guía de las Escuelas Cristianas. ¡Y todo esto lo tuvo que conseguir Juan Bautista con aquellos primeros maestros, con aquel grupito de siete personas, tan toscas, con las que se fue a vivir el 24 de junio de 1681! ¿Y cómo sabemos que lo consiguió con estas personas? Porque en estos dos primeros años, de 1679 a 1681, las escuelas del señor De La Salle, ya eran conocidas por su eficacia, por sus efectos y por la nueva forma de enseñar.

Los nuevos maestros se incorporan al camino desbrozado... - Y sin embargo, en este primer grupo de maestros todos fallaron, salvo uno o dos. Todos se marcharon, porque tanto la escuela como el reglamento de vida, se les hacía muy cuesta arriba. Sí, se marcharon, a finales de 1681 y en los primeros meses de 1682. Pero mientras unos salían, otros ingresaban, y estas últimas eran personas con buenas cualidades, algunas con estudios, que interrumpieron para unirse al señor De La Salle. Y los nuevos maestros aceptaban y aplicaban con destreza todos los cambios que ya se habían introducido, como la cosa más natural. Y hay que pensar que si se marcharon cuatro o cinco, ingresaron bastantes más, quizás hasta ocho o diez, pues el señor De La Salle les admitía a todos, para tener personas de repuesto si alguno se ponía enfermo; y todos se iban entrenando en el modo de dar escuela con todas estas novedades. Recordemos que en mayo de 1682 el ayuntamiento de Château-Porcien le pide dos Hermanos para abrir una escuela. Y que Niel, que ya se había hecho cargo en 1683, de las escuelas de Rethel, Guisa y Laón, pidió a La Salle que le mandase alguno de los maestros que ya había formado; y La Salle le mandó, al menos, a Nicolás Vuyart y a Gabriel Drolin, y a su propio hermano, Juan Luis de La Salle que durante algunos meses dio clase en Sedán, que probablemente sea Guisa; de allí se marchó al Seminario de San Sulpicio, en París, al que llegó con un poco de retraso. Pues bien, en el corto espacio de cuatro años, de 1679 a 1683, las Escuelas de La Salle habían comenzado a difundir su fama... Eran unas escuelas distintas de las existentes, y los padres querían que sus hijos ingresaran en ellas. Los cambios dan origen a una escuela distinta: la escuela cristiana - ¿Qué cambios había introducido La Salle con la ayuda de aquellos maestros? Primer cambio, y el más importante, fue el cambio del maestro, en su persona, dándole un espíritu que le permitiría mover todas las dificultades posteriores. Y el espíritu que infundió en los maestros fue el espíritu de fe: Dios os ha llamado..., los niños son


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hijos de Dios..., tenéis que enseñarles la doctrina..., tenéis que darles buen ejemplo... El segundo cambio fue la gratuidad. Ningún niño tendría que pagar nada por ir a la escuela e instruirse. Los siguientes cambios fueron metodológicos: servirse del método simultáneo, enseñar a lectura comenzando por el francés, elaborar carteles, preparar modelos para la escritura, etc. A continuación se aplicó la disciplina y el orden en el trabajo y en la convivencia. Se puso como materia diaria el catecismo y, en la lectura, la urbanidad... Se reformo el horario, añadiendo las prácticas piadosas y el rezo diario. Estos fueron los cambios que en tan breve tiempo distinguieron a las escuelas tradicionales de las escuelas del señor de La Salle, y que poco más tarde se llamarían «Escuelas Cristianas y gratuitas»

Tres Cahiers lasalliens sobre la familia de La Salle que tal vez nunca se publiquen [28] El nombre de León Aroz, León María Aroz, Luis Aroz, corresponden a la misma persona, y es bien conocido de todos los investigadores y estudiosos de San Juan Bautista de La Salle. En la serie de Cahiers Lasalliens publicó más de veinte volúmenes, fruto de sus investigaciones sobre el santo Fundador. Durante muchos años residió y trabajó en Francia. Yo le conocía desde mis años de estudiante en Roma, por los años sesenta, pero posteriormente tuve una relación mucho más estrecha con él, cuando estuve en Roma como director de las Publicaciones Lasalianas. Luego yo regresé a España en 2001, y él siguió sus trabajos de investigación en París, y residía en el colegio de Francs Bourgeois. Cuando se suprimió la comunidad de Hermanos de este centro lasaliano optó por regresar a España, cercano ya a los noventa años de edad. En 2003 se incorporó a la comunidad del Centro Regional de Madrid, en Marqués de Mondéjar, 32, y tuve la suerte de compartir unos años con él, hasta que pasó a residir a Bujedo. Cuando volvió a España se trajo el tesoro de todas sus investigaciones, en forma de diapositivas o de fichas. Y llevó también consigo el último trabajo que había preparado para publicar en los Cahiers lasalliens. Se trataba de tres cuadernos que aún tenía en borrador, y en gran parte escrito a mano, como era su costumbre, con una letra excelente y una limpieza extraordinaria. Vivíamos, pues, juntos, en la misma comunidad, y me pidió que le ayudara para terminar el trabajo y poner los tres libros en la forma requerida para la publicación. Lo hice con sumo gusto, y mi ayuda consistió en ponerlo todo en soporte informático. Cuando estuvo terminado, en el mismo año 2003, se sacaron, con la impresora del


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ordenador, diez ejemplares de cada volumen, con 472, 489 y 387 páginas, correspondientes al tomo I, al tomo II y tomo III, respectivamente. Los diez ejemplares se encuadernaron y los regaló a las personas que le habían ayudado en sus investigaciones. Tuve el honor y la alegría de recibir una copia de los tres volúmenes, preciosamente encuadernados, y los conservo con un cariño especial, que es también gratitud y admiración hacia una persona excepcional en la vida del Instituto. Además de esas copias escritas, yo conservo el trabajo informático, y me pidió varias copias en CD. Cuando el Hno. León se retiró definitivamente a Bujedo, me consta que uno de los CDs, con los tres volúmenes preparados para ser editados, en formato similar al de los Cahiers Lasalliens editados en Roma, lo envió a Roma, para ser depositado en la Oficina de los Estudios Lasalianos. En varias ocasiones me expresó su deseo de que pudieran ser publicados y añadidos a la serie de los Cahiers lasalliens. Tengo la impresión, a través de breves conversaciones que he mantenido posteriormente, que en el Departamento de Estudios Lasalianos no están muy animados a llevar a cabo esta publicación. Parece ser que no se da demasiada importancia al contenido de este estudio tan amplio. Por eso es muy probable que nunca los veamos publicado. Sin embargo, personalmente, que tan implicado me vi en la preparación de estos tres volúmenes, tengo que confesar que se trata de un trabajo de investigación de extraordinario valor. El título general es: La famille De La Salle de Reims. Ascendence soissonaise. Filiation rémoise. Documents probantes (1486-1795). Traducido sería: La familia De La Salle de Reims. Ascendencia en la ciudad de Soissons. Rama de Reims. Documentos probatorios (1486-1795). El primer volumen recoge los Textos y las Fuentes documentales; el segundo volumen, recoge el listado de todos los documentos, clasificados y numerados; el tercer volumen es un índice general de personas. Desde luego, no se trata de una obra de lectura, sino de un instrumento de investigación, que tiene un valor incalculable. Es impresionante el trabajo minucioso que realizó el Hno. Aroz, de forma sistemática, en todos los archivos que podían aportar algún dato sobre las familias De La Salle. Si no quedan recogidos en la serie de Cahiers lasalliens, muy pronto se perderá la memoria de este trabajo; y es lamentable, porque todo está preparado para ser llevado a la imprenta y entrar en prensa, sin más complicaciones, de forma inmediata. [Ni que decir tiene que si algún investigador lasaliano está interesado por disponer de este trabajo, con gusto se lo facilitaría yo mismo, en formato pdf, para ser leído con el programa Adobe Reader. Se lo puedo enviar a través de e*mail - jmvalladolid@lasalle.es].


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Dos votos de obediencia muy distintos: el de 1686 y 1694, y el de 1725 [29] En repetidas ocasiones se empeña Blain en poner en la boca o en la pluma del Fundador el profundo deseo que tenía de que sus hijos se consagrasen a Dios mediante los tres votos de religión. De manera especial vuelve a insistir en ello cuando el Instituto fue aprobado mediante la Bula In apostolicae dignitatis solio, en 1725. El santo fundador apreciaba muchísimo los votos religiosos, pero nunca los quiso para sus hijos. Se opuso con todas sus fuerzas a que los emitieran. Dudo seriamente, después de repasar una vez más todos los argumentos que da Blain, que el biógrafo oficial del santo, amigo personal y confesor durante algún tiempo de Juan Bautista, comprendiera el pensamiento que tuvo La Salle sobre la consagración del Hermano a Dios, con su vida de educador, al fundar su Instituto. El santo fundador estaba plenamente convencido de que sus hijos, retirados del mundo, estaban ya consagrados a Dios mediante el ministerio que ejercían, de educadores cristianos. Y esta consagración existía incluso sin votos. Ocurre, además, que algunos Hermanos, doce, emitieron el voto de obediencia por tres años, a partir del domingo de la Santísima Trinidad de 1686, renovable cada año; y más tarde emitieron el voto perpetuo de obediencia, el 6 de junio de 1694. Blain sitúa la primera emisión del voto de obediencia en 1684, en la primera Asamblea celebrada con 12 Hermanos. Esta fecha es totalmente imposible, porque en tal fecha Juan Bautista —y lo dice el mismo Blain unas páginas antes— todavía no había pensado establecer con los maestros de las seis escuelas existentes (tres en Reims, más las de Rethel, Guisa y Laón) algo parecido a una comunidad religiosa. Pensó en ello en el tercer trimestre de 1685, una vez que Nyel había regresado a Ruán, lo que ocurrió en septiembre u octubre de 1685. Mal podía convocar a una asamblea, en 1684, a maestros que ni siquiera dependían de él, sino de Adrián Nyel. A Blain, en las cuestiones referentes a los orígenes del Instituto le bailan las fechas y los hechos. Hay que comprenderlo, pues no conoció a ninguno de los ingresados antes de 1683, salvo a Gabriel Drolin, ya al final de su vida. Los ingresados posteriormente y que sólo conocieron los orígenes de la Sociedad por los comentarios de algunos Hermanos veteranos, ya habían fallecido o habían abandonado la Sociedad. Hay que dudar de la fidelidad de su memoria. Pues bien: todo lo que Blain dice de la asamblea de 1684 hay que pasarlo a 1686, y fue en esta asamblea donde se trató la necesidad de unas Reglas que plasmaran los reglamentos que existían en Reims, la forma de vestir, el nombre de Hermanos, la forma de dar la enseñanza, la comida... Y sobre todo, un tema que no indica Blain, pero que era el motivo de la Asamblea: ¿Estaban los maestros dispuestos a unirse unos con otros, para sostener juntos y asociados, las escuelas cristianas? Era el tema


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de la Asociación, y de él se derivaban todos los demás asuntos. En efecto, ¿para qué servía hablar del hábito y de las Reglas, y de todo lo demás, si no hubiera previamente existido la propuesta y la aceptación de formar una «Sociedad», es decir, de asociarse? Blain acaba sus consideraciones hablando de los votos, y del deseo que tenían algunos de los participantes de hacer también voto de pobreza y de castidad, y algunos lo deseaban para toda la vida. Al final consigue sintetizar todas las propuestas ateniéndose al consejo de Juan Bautista: voto de obediencia por tres años, renovable cada año. Pero, si se ha seguido hasta aquí todo lo ocurrido en aquella asamblea, y que está resumido en las líneas precedentes, se comprenderá fácilmente que lo primero de todo era la Asociación, y que todo lo demás, incluso el voto de obediencia, era consecuencia de aquélla. En efecto, el voto de obediencia iba ligado y unido a una promesa previa: «prometo unirme y permanecer en sociedad»... «para tener juntos y por asociación las escuelas gratuitas... en cualquier lugar y para desempeñar cualquier empleo...» Y para poder realizar ambas cosas, se hacía el voto de obediencia «al señor De La Salle, o a aquel a quien él designase como superior». Recuérdese que al año siguiente, 1687, La Salle consiguió que los Hermanos eligiesen superior al Hermano Enrique Lheureux, que sólo estuvo en el cargo unos meses, porque las autoridades eclesiásticas de Reims no consideraban adecuado que un doctor en teología estuviese sometido a alguien que no tenía «carácter» sacerdotal. La Salle aprovechó esta circunstancia para hacerle estudiar teología, dos años en Reims, luego otros dos en París, y sólo le faltaba un año para hacer que se ordenase como sacerdote y pudiera ser el superior, cuando en la primera semana de enero de 1692 moría santamente. Todas las previsiones de La Salle quedaban truncadas. En resumen: se deduce claramente que el voto de obediencia de 1686 sólo se puede entender, y tiene sentido, si va ligado a la «asociación»de las personas que lo emiten. Y eso significa que esas personas forman «sociedad» por vez primera, cuando se asocian. Y al asociarse, nace la sociedad. Y el superior de la Sociedad, a quien hay que obedecer, es el señor De La Salle. El Hno. Maurice-Auguste, al hablar de los votos de los Hermanos antes de la Bula de Benedicto XIII (Cuadernos Lasalianos nº 11, p. 62-63), tiene reparo en admitir que esa «Sociedad» de los Hermanos haya nacido en 1686, y la razón es que no disponemos de las fórmulas de votos de este año. La extraordinaria prudencia del Hno. Maurice le exige ese reparo. Pero yo estimo que, habiendo sido La Salle el redactor de las fórmulas de 1686 y de 1694, el fundamento racional de las fórmulas del voto de obediencia, salvo la duración del mismo, tenía que ser igual en 1686 y en 1694; es decir: la asociación de los Hermanos para tener las escuelas juntos y por asociación. Y la consecuencia es que hacen voto de obediencia. Estas aclaraciones pueden parecer disquisiciones sin importancia; pero no lo son.


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Condicionan el itinerario mismo del nacimiento del Instituto, que se sustenta en la decisión de los Hermanos de someterse, «por voto», a la autoridad de quien fuera el superior, o la persona que lo sustituyera. ¿Y qué alcance podría tener un voto semejante, tanto en 1686 como en 1694? Ante todo, no era un voto religioso, en el sentido canónico del término de hoy. Era un voto privado, hecho de común acuerdo por varias personas que tienen un objetivo común. El voto se hacía con relación a una persona muy concreta: el fundador, mientras fuera superior; o el superior delegado por quien tuviera la autoridad; la finalidad era acudir al lugar donde uno fuera enviado para sostener las escuelas... Hay que tener en cuenta que el voto de obediencia se extendía a todo lo que abarcase la vida del Hermano, puesto que, de hecho, la vida de cada Hermano condicionaba la marcha de las escuelas... En la Vida de La Salle se habla de un Hermano que violó la obediencia porque se guardó unos dineros que procedían de su herencia familiar (II.co.106.D); la obediencia le obligaba a guardar la pobreza, y él no la cumplió. ¿Quién podía dispensar de este voto de obediencia? Al tratarse de un voto privado, era el confesor, o el director espiritual quien podía dispensar de él. En Blain, I, 366, se habla de que Vuyart pidió la dispensa de su votos... («il se fit relever de ses voeux,»); y en II.co.109, se habla de un Hermano que dejó la Sociedad y pidió a un sacerdote jansenista que le dispensara del voto, y dicho sacerdote, con otros de su cuerda, se burlaron de él, porque el voto de que hablaba no tenía valor alguno. *** El año 1725, la Bula pidió a los Hermanos que hiciesen los tres votos de la vida religiosa, pobreza, castidad y obediencia. Pero este voto de obediencia ya no era privado, sino público, reservado a la Santa Sede, no ligado a una persona en concreto, sino a los superiores, en general, y extensivo a todo lo que afecta a la vida religiosa. Tal vez ésta era la idea que el Vicario General, Pirot, se hacía del voto de obediencia de los Hermanos, cuando acudió en diciembre de 1702 a la Casa Grande, para deponer al señor De La Salle y nombrar otro superior, el señor Bricot. Ignoraba que el voto perpetuo de obediencia, del 6 de junio de 1694, vinculaba a los Hermanos, personalmente, con el señor De La Salle. Y seguro que ignoraba también que los doce Hermanos habían firmado, el 7 de junio, el acta por el cual se comprometían a no admitir nunca como superior a un sacerdote ni a nadie que no perteneciese a su mismo cuerpo de Sociedad. Resumimos todo lo dicho subrayando que el voto de obediencia de 1686 y 1694 era muy distinto del voto de obediencia de 1725. Se trata de una cuestión muy importante en la vida del Instituto, sobre la cual el Hermano Maurice-Auguste señaló observaciones muy interesantes en su libro: Los votos de los Hermanos de las Escuelas Cristianas antes de la Bula de Benedicto XIII.


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¿Cómo daban la clase los primeros maestros de La Salle? [30] Hay en Blain una página (245-246) en que retrata lo que le ocurría al señor De La Salle con las escuelas y con los maestros cuando se hizo cargo de las mismas y cuando comenzaron a funcionar en Reims. Vale la pena reproducirla y comentarla en algunos aspectos, pues se ve cómo la memoria de los comienzos del Instituto quedaba muy borrosa unos años después de la muerte del fundador. El texto de Blain fue publicado en 1733. Dice así: «Hay que decirlo todo: sus discípulos, por muy fervorosos que fueran, todavía no estaban muy avezados en su oficio; todavía no tenían ninguna uniformidad entre ellos ni ninguna regla segura para la dirección de las escuelas. En esta época les bastaba la buena voluntad para ponerles a dar la clase; y como no estaban bien formados para un empleo muy difícil para desempeñarlo bien, iban a realizarlo sin competencia, sin método y sin capacidad suficiente».

¿De qué época nos habla Blain? Si habla del tiempo en que se abrieron las tres primeras escuelas en Reims, tenemos que pensar que sólo hubo en ellas, desde mayo de 1679 a octubre de 1681, siete maestros, y dos de ellos eran Adrián Nyel y el joven Cristóbal. Si se habla de las tres escuelas abiertas por Adrián Nyel en Rethel, Guisa y Laón, entre 1681 y 1683, no fue Juan Bautista quien contrató a los maestros necesarios, que fueron otros seis... Y sólo Nyel se ocupaba de ellos. Y en aquellos años, los maestros no mostraban ciertamente mucho fervor, pues de los siete de Reims se retiraron todos menos uno o dos, a finales de 1681 y comienzos de 1682. Por tanto, las palabras de Blain no pueden referirse a esta primera época, pues por un lado no hubo el fervor a que alude; y, por otro, no se sabe que en esos años en señor De La Salle cambiara a ninguno de sus maestros. Sigue diciendo Blain: «En estos primeros años, el señor De La Salle no había podido abrir todavía un Noviciado, para probar su vocación, corregir sus defectos, modelar su temperamento y su carácter, suavizarles y educarlos; en una palabra, para comunicarles el espíritu de su estado y formarles en sus funciones».

El Noviciado se abrió en Vaugirard en octubre de 1691. Por lo tanto, Blain habla de la época que va de 1682 a 1691. En 1682 estuvo el momento en que se retiraron casi todos los primeros maestros de Reims y cuando los maestros nuevos, enviados por la Providencia, vivían en la calle de Santa Margarita y luego en la calle Nueva. Por lo cual, Blain puede referirse a los años que van entre 1682 a 1688, año en que Juan Bautista se va a París. Puede coincidir el cuadro que Blain nos pinta con el ambiente de fervor y abnegación que surgió con el ingreso de los nuevos maestros. Los primeros maestros, los que se retiraron, ya habían introducido de la mano de La Salle, entre 1679 y 1682, algunos de los cambios importantes en las escuelas de la Salle, que en seguida se distinguieron de las tradicionales. Los nuevos maestros que pedían incorporarse al grupo de La Salle tenían que aprender y adaptarse a los nue-


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vos métodos. ¿Cómo se hacía? Si seguimos leyendo a Blain, tendríamos que decir que ocurría casi por ósmosis. Entre 1682 y 1683 La Salle había conseguido formar según su nueva pedagogía a un buen grupito de maestros, que serían, en primer lugar, los siete que necesitaba para las tres escuelas de Reims. El señor Nyel ya estaba residiendo en Laón, y el joven Cristóbal había fallecido en mayo de 1682. Y tuvo que ser ese grupito de maestros bien formados, y comprometidos con las escuelas gratuitas, los que se enfrentaron a Juan Bautista para echarle en cara que él era rico, y ellos pobres; y quienes le convencieron de que si quería atender a los pobres, tenía que hacerse pobre, como los mismos maestros y como los niños. Eso ocurría en el segundo semestre de 1682; y en el primer semestre de 1683 Juan Bautista se decide, después de consultarlo, a desprenderse de sus bienes y de su canonicato. Sigue escribiendo Blain: «El fervor que reinaba en la casa suplía a la realidad, pues al entrar en ella, recibían las primicias de su espíritu. Los que se presentaban eran recibidos, cuando impresionados por los ejemplos de piedad y de paciencia que les daba el señor De La Salle y los Hermanos, [el nombre de Hermanos no se usaba en el momento histórico del que habla Blain, se adoptó en 1686] pedían una casa que sólo les ofrecía una vida dura, pobre, laboriosa, mortificada, y que el público no recompensaba la instrucción gratuita que daba a los niños y jóvenes sino con burlas e insultos».

Aquí es necesario completar el cuadro con algo que Blain no dice expresamente, pero que sabemos, por la Guía de las Escuelas, que se remonta al comienzo del Instituto. Y este complemento consiste en recordar que todos los nuevos maestros que se iban añadiendo, además de «recibir las primicias de su espíritu» eran asignados a las diversas escuelas, bajo la dirección de un maestro experimentado, y viendo el nuevo maestro cómo actuaba el maestro veterano, aprendía el arte de enseñar según los nuevos métodos en breve tiempo. Lo dice, en parte Blain, pero de forma incompleta, cuando prosigue: «Una vez que habían sido iniciados y que habían seguido el reglamento de la casa durante algunos días, se les ponía a enseñar, y se les asignaba una clase para ejercer en ella un oficio que no dominaban, o que sólo conocían imperfectamente».

Sí, efectivamente, se les ponía a enseñar, pero se les asignaba una clase bajo la dirección del maestro encargado. Y por eso las escuelas de La Salle triunfaron en una función tan delicada. Podemos, pues, eliminar el siguiente párrafo de Blain: «De ese modo, actuando cada uno como podía, y de ordinario bastante mal, no era posible que triunfasen en una función tan delicada, en la cual ellos mismos eran novicios y no habían seguido ningún aprendizaje. Así pues, como no tenían al dar clase ninguna regla, ni ningún principio de conducta, se daba un poco al azar, con mucha dificultad y fatiga por parte de los Hermanos, y con poco éxito por parte de los escolares; de ahí se derivaba la ruina de los dos puntos fundamentales de las Escuelas Cristianas, que son la instrucción y la manera de darla. En efecto, para enseñar a leer bien, y a escribir, y para aprender bien las cuentas y la doctrina cristiana era preciso conocerlo perfectamente. Y para saberlo perfectamente, hubiera sido necesario habérselo enseñado, con buenos maestros, dentro de la casa; y eso es lo que entonces faltaba».


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Vuelvo a insistir: creo que el párrafo anterior, en Blain, está de sobra, y no pudo tener aplicación en la época a la que él se refiere. Efectivamente, por la época en que estamos, años 1683 a 1687, La Salle no abrió ni una sola escuela más, y no hubiera consentido poner al frente de una clase a uno de que aquellos nuevos maestros, sin haberle dado tiempo a aprender, junto a otro maestro experimentado, las normas de enseñar que estaban en uso en las tres escuelas de Reims. Aquellos nuevos maestros necesitaban saber leer, escribir, cuentas y doctrina cristiana a la perfección. Para ello, desde los primeros años, ya adoptaron dedicar todos los días un tiempo a la lectura, a la escritura y a las cuentas, cuando regresaban a la comunidad al final de la jornada escolar. ¿Y para la doctrina cristiana? Ciertamente fue La Salle quien lo suplió cuanto antes, pues el elenco de las preguntas y respuestas sobre la doctrina cristiana, contenidas en el Compendio menor, compuesto por La Salle, era el que los maestros tenían que aprenderse y luego hacer que los niños los repitieran al preguntarles en la clase de catecismo. Bueno, y en resumen, ¿qué resultado dio esta manera de formar a los maestros que desde 1882 fueron pidiendo su admisión en el grupo? Pues sabemos varias cosas. El señor Nyel, que desde Laón dirigía tres escuelas (Rethel, Guisa y Laón) no encontraba maestros adecuados en aquellas localidades, y en varias ocasiones pidió al señor De La Salle que le mandara algún maestro bien formado. Y el señor De La Salle tuvo maestros bien preparados para enviarle; por lo menos, fueron tres: Grabriel Drolin, Nicolás Vuyart y Juan Luis De La Salle, su propio hermano. Sabemos también que tuvo personas suficientes, bien formadas, para poner al frente de los muchachos jóvenes con los que constituyó una especie de noviciado menor, en 1686. Igualmente, tuvo personal formado para dirigir y formar a los jóvenes que en Reims acudieron al primer Seminario de maestros rurales. Y cuando en febrero de 1688 se marchó a París, aparte de los dos Hermanos que llevaba consigo, dejaba en Reims diecisiete Hermanos, ¡que atendían siete clases!


Conduite des Écoles dans la série «Cahiers lasalliens» par Léon Lauraire, FSC

1. Approche contextuelle - L’école lasallienne est née dans un contexte social, ecclé-sial et scolaire particulier: celui de la France de la fin du 17e siècle, encore mal exploré dans les textes antérieurs sur la Conduite des Écoles. Ce contexte explique en grande partie l’organisation et la pédagogie de l’école lasallienne. Cahier lasallien n. 61, 2001, pp. 246.

2. Approche pédagogique - A la clientèle particulière de leurs écoles, Jean-Baptiste de La Salle et les Frères voulaient offrir des structures, des apprentissages et des méthodes adaptés à leurs besoins humains, professionnels et religieux. Le second volume essaie de dégager les principaux aspects de cette réponse. Cahier lasallien n. 62, 2006, pp. 263.

3. Approche comparative - Les 16e et 17e siècles constituèrent une période dynamique et novatrice dans le domaine de l’éducation et de la pédagogie; en France, ils sont connus comme la Renaissance et le Classicisme. Mr. de La Salle est considéré comme le dernier grand éducateur français de cette période. Il a bénéficié des apports de ses prédécesseurs. Il eut des contacts directs avec quelques grands personnages, ses contemporains: Jacques de Batencour, Charles Démia, Nicolas Barré, Nicolas Roland. Ce troisiè-me volume identifie les convergences et les différences entre ces auteurs. Cahier lasallien n. 63, sous impression.

4. Approche diachronique - Dès le début, la Conduite des Écoles a été considérée comme un projet éducatif en évolution, condition inévitable d’une adaptation aux besoins évolutifs des jeunes. La révision du texte 1706, demandée par la Chapitre général de 1717, et réalisée par J.-B. de La Salle lui-même, témoigne de ce souci d’évolution. Perspective confirmée par la vingtaine d’éditions ultérieures de la Conduite, jusqu’en 1916. Ce quatrième volume essaiera d’identifier les changements intervenus, leurs motifs internes à l’Institut et les facteurs externes. Cahier lasallien en préparation.

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Cahiers lasalliens CASA GENERALIZIA FSC • VIA AURELIA 476, I-00165 ROMA • atesfai@lasalle.org


RivLas 78 (2011) 1, 145-160

Una vita per la catechesi: Agilberto Gatti FSC (1905-1977) MARCO PAOLANTONIO

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uttocatechesi è il sottotitolo della biografia di fr. Agilberto scritta dal confratello Beniamino Bonetto1. L’ha giustificato con l’annotare: “Frugando di lui e nelle sue cose, altro non si trova che la catechesi. La catechesi non era soltanto l’arma del suo combattimento, l’attrezzo della sua arte, un suo possesso e ricchezza: ne era l’incarnazione personale”. Se in queste righe si avverte un po’ di enfasi, basta scorrere la ricca documentazione che correda il volume per convenire nella sostanza.

Quasi un autoritratto Una prima verifica della veridicità di quanto il biografo afferma, la si trova in una paginetta che fr. Agilberto inserì fra quelle di Catechismo e catechisti 2. Chi lo conobbe, affiancandolo nell’attività di catecheta extra moenia o condividendo la diuturna fatica di catechista in classe cui non rinunciò mai, vi trovò ritratta sia la sua abituale prassi educativa sia le mete che si prefiggeva nel perfezionamento professionale proprio e delle persone, animate dai suoi stessi propositi, cui si rivolgeva: C’è una forza nell’educatore che lo sostiene nella sua fatica. Essa è lo zelo. Fiamma che arde trasformando in potenza educatrice quanto di umano e di divino esso trova, lo zelo è veramente l’anima dell’anima dell’educatore. Tuttavia anche lo zelo deve avere le sue forme, i suoi limiti, i suoi controlli. Se è smodato, suscita reazioni noci-

1 Beniamino G. Bonetto, Fratel Agilberto delle Scuole Cristiane. Tuttocatechesi, Editrice A&C, Torino 1980, pp. 199. 2 Edizioni Sussidi, Erba (Como) 1957, p. 18.


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ve; se intempestivo, diventa pesante; se inadeguato all’ambiente o all’individuo cui si rivolge è un dispendio inutile, è, spesso un antipatico conformismo. Ci vuole anzitutto umiltà e pazienza nel dispiegare il proprio zelo. Se è il proprio ‘io’ che fa capolino, allora l’insuccesso è sicuro. Lo zelo non ha bisogno di alleati di tal genere. Deve rimanere solo: l’orgoglio non gli deve turbare la calma; le ragioni del proprio ‘io’ non gli devono smorzare l’impeto. Ma è pure l’adattabilità della propria azione che deve essere curata. Non ci può essere, in educazione, uno zelo cieco, che tutto brucia. Bisogna fare in modo da rispettare le esigenze fisiche e psichiche dei fanciulli e dei giovani. Quindi bisogna far precedere al suo corso un’adeguata conoscenza del mondo giovanile e dei singoli soggetti. Infine lo zelo deve essere lieto, ottimista. Non deve partire già battuto. Anche oggi, come sempre, i giovani sono buoni, suscettibili di formazione, generosi nel rispondere all’azione nostra. E poi il divino aiuto non verrà mai meno: aiuto del quale l’educatore deve fare sommo calcolo, dal momento che alla resa dei conti, noi, da noi, con il nostro zelo non avremo contato nulla, mentre tutto verrà fatto da Chi veramente sa arrivare alle anime e ai cuori.

Lo zelo, termine che insieme con la spirito di fede caratterizza l’azione educativa lasalliana, qui inteso come dedizione completa all’opera intrapresa. Si fonda sulla prudenza, che impone il rispetto della dignità umana e cristiana dell’educando e sulla preparazione pedagogica, obbligo deontologico.

Filigrana di un’esistenza Tempi, luoghi e persone si intrecciano e sostanziano quel tessuto di rapporti - le coordinate biografiche - che caratterizza in modo irripetibile ogni esistenza. C’è chi, come fr. A., vi legge l’attuarsi di un provvidenziale e paterno disegno di Dio: è un coniugare il vissuto con il lasalliano spirito di fede, cui fr. A. fa spesso riferimento nella catechesi scritta e orale e nei suoi appunti personali. È impensabile - scrive nel 19693 - un’educazione alla fede che non abbia il suo primo fiorire in famiglia. Si tratta di un leit motiv che fr. A. riproporrà in vari trattatelli4. Ne era profondamente convinto, anche perché faceva parte della sua esperienza personale, come ci ricorda con numerosi aneddoti la ‘memoria’ biografica del fratello Domenico che lo precedette nella scelta della vita religiosa5. Nato a Oviglio (AL) nel 1905, Tomaso Gatti è il terzo di quattro fratelli. Il padre, capomastro, assicura una discreta agiatezza economica alla famiglia; la madre offre, insieme con la solerte attività di casalinga, l’esempio di un robusta pratica

A p. 13 di Primi educatori delle fede, Editrice A&C, Milano 1969, pp. 174. V., oltre all’intero volumetto sopra citato, ad es., in Catechismo e catechisti, il cap. Educazione familiare, pp. 19-28; in Una mamma e un focolare, Editrice A&C, Torino 1945, pp. 39-45. 5 v. biografia alle pp. 21-25. 3 4


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cristiana. Tomaso frequenta in paese le classi del corso elementare con impegno, ma con lo scarso frutto dovuto alle difficoltà d’apprendimento che presenta una scuola pluriclasse. Nel 1917, alle soglie dell’adolescenza, segue il secondogenito, Domenico, - che diverrà fratel Delfino delle Scuole cristiane - nell’aspirantato di quella congregazione. Nel nuovo ambiente il cammino scolastico si fa regolare e proficuo, mentre viene maturando in modo sempre meglio definito la chiamata alla vita religiosa, sorretta dal concorde consenso dei genitori6. Gli anni successivi segnano un regolare svolgimento dell’iter di formazione religiosa e scolastica: vestizione dell’abito religioso nel novembre del 1921: ingresso allo studentato universitario nel novembre dell’anno successivo; inserimento in una comunità d’insegnamento, il Gonzaga di Milano, nel luglio del 1923. Seguono 24 anni di tirocinio nei corsi elementari e medio di varie istituzioni lasalliane7, fino alla laurea in materie letterarie (1947), che comporterà incarichi di direzione e presidenza a Piacenza (1947-1951), Biella (1951-1955) e infine a Ferrara (1955-1958) dove gli è affidata l’apertura dell’Istituto Canonici-Mattei (corsi elementare e medio) di cui otterrà il riconoscimento legale. Il 1958 segna l’inizio del ventennio (1958-1977) di direzione della rivista catechistica Sussidi. Farà seguito l’ultimo periodo di attività (Milano, Istituto Gonzaga, 1972-1977) che lo vedrà impegnato anche nell’animazione del corso elementare. Muore per infarto, quasi improvvisamente, la mattina del 27 novembre 1977.

Testimone della Parola Rileggendo le precedenti coordinate biografiche, non è difficile notare il quarto di secolo abbondante (1930-1947) che intercorre tra l’abilitazione magistrale e il conseguimento della laurea. Il biografo, insieme con chi potè verificarne la veridicità lavorando accanto a fr. A., ne dà la seguente spiegazione: “I successi da lui conseguiti durante i primi anni del magistero scolastico all’Istituto Gonzaga gli affinarono l’arte didattica ed accrebbero il suo gusto per la scuola primaria fino al punto di trascurare, e magari di interrompere, gli sudi religiosi (disposti dalla Congregazione, n.d.r.) e quelli letterari, ai quali si era da tempo orientato per il conseguimento dei diplomi accademici e della laurea”.8 La passione per l’insegnamento catechi-

6 Al riguardo il biografo (p. 23) riporta una testimonianza di fr. A: “Il monito dei genitori ci impegnava a fondo, certi della chiamata di Cristo, non poteva che essere così. E così fu, senza che mai ci sfiorasse la tentazione di volgere le spalle”. 7 Viareggio, Ist. ‘S. Paolino’ 1929-1930, Piacenza, Ist. ‘S. Vincenzo’ 1930-1933, Vercelli, Ist ‘S. Giuseppe’ 1933-1939, Biella Ist. ‘La Marmora’ 1939-1947. 8 Biografia, p 27.


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stico sul campo lo caratterizzò infatti fino agli ultimi anni. Non era infrequente la richiesta di affiancarsi o sostituirsi per qualche lezione all’insegnante titolare, allo scopo di ristabilire con un gruppo di giovani alunni il dialogo vivace su temi di formazione cristiana. E ‘lezioni pratiche’, condotte con le scolaresche dei luoghi in cui svolgeva corsi di catechetica, rientravano con frequenza nei programmi degli incontri che tenne in centinaia di località italiane. Caratterizzata da un attivismo fondato anche su basi teoriche, la sua catechesi era innanzitutto un’esigenza personale e professionale, orientata alla testimonianza e alla proposta di verità capace di dar significato alle esperienze d’ogni giorno. Scriveva9: Il Catechismo! È l’arma del Fratello privilegiato - la ‘spada dello Spirito - che fulgida e tagliente può manovrare in difesa della verità. È la sua fondamentale missione. Per essa il Fratello serve la gioventù catechizzandola, non solo, ma deve dischiudere ad altri i segreti della sua scienza pedagogica e didattica: si darà all’apostolato della penna, andrà sulle cattedre umili ed alte, parlerà, sarà maestro nei convegni pastorali e catechistici, diverrà animatore delle scuola di pedagogia, consigliere competente nell’orientare i promotori ed educatori della fede.

Evidenti le pennellate retoriche, a sottolineare l’effetto che la comunicazione doveva raggiungere. Tali le caratteristiche dello stile comunicativo, che il biografo descrive “unico ed inimitabile: suadente ed irruente, penetrante e carezzevole, aggressivo e remissivo, con voce in alternanza piana e tonante, col gesto misurato e solenne, l’occhio sereno e penetrante, la battuta pertinente, la risposta penetrante, il giudizio sicuro, a volte perfino tagliente”10. Attributi di un rapporto indirizzato all’immediato contatto con l’uditorio e capace di adattarvisi nel modo più efficace. Gestualità, mimica e tono di voce, che apparivano talora enfatici, erano mezzi studiati per attirare e tener desta l’attenzione sui concetti esposti, non per contrabbandare vezzi retorici un po’ teatrali. Che l’uditorio lo percepisse e apprezzasse questo suo personalissimo modo di comunicare è testimoniato dalla frequenza e dal numero degli incontri con sacerdoti, suore11, seminaristi, insegnanti di religione oltre settemila, calcolava per difetto il biografo.12 -. Ne esistono numerose testimonianze fotografiche in archivio13, oltre a sporadici, ma illuminanti (e stupefacenti)

Parola Amica, bollettino dell’istituto lasalliano S. Vincenzo di Piacenza. Citato in Biografia, pp. 30-31. Biografia, p. 43. 11 V. ad es. al capitoletto Scritti di pedagogia religiosa le dispense per i corsi tenuti per la Federazione delle Suore Insegnanti. 12 …’ ma in realtà assai più numerose’, Biografia, p. 45. 13 Torino, archivio del Centro La Salle, faldone 2123/444. 9

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‘pro-memoria’ di fr. A14 e ai resoconti delle attività della Commissione Catechistica Lasalliana pubblicati su Sussidi.

L’attivismo come anima della didassi Il problema della metodologia didattica anche nella catechesi oscilla ciclicamente tra disciplinaristi (che pongono al centro i contenuti) e pedagogisti (che privilegiano le modalità con cui i contenuti possono essere proposti). Negli ultimi cent’anni si è così passati dal Metodo di Monaco all’attivismo, dal metodo kerigmatico a quello antropologico. E’ perciò possibile ravvisare in alcune pagine di fr. A. - quelle delle esercitazioni attive in particolare linguaggio e temi oggi non più di moda; ma un elementare senso di correttezza filologica ci impone di inquadrarli nel loro tempo e davvero poco pare discutibile della loro sostanza dottrinale. L’iniziatore di una metodologia attiva nell’insegnamento della religione è considerato E. Dévaud15. Lo stimolo era venuto da correnti pedagogiche naturalistiche e materialistiche, che si riferivano a valori e realtà che l’educazione cristiana aveva per troppo tempo segregati o disciolti in una retorica speculativa o disincarnata. Il primo settore che beneficiò dell’attivismo fu quello catechistico, più disponibile ad accogliere l’impianto dei centri d’interesse, il principio di coinvolgimento attivo del discente, il puerocentrismo, il senso e la dimensione comunitari, lo spirito di libertà e di iniziativa. Dall’ambito catechetico - osservava Silvio Riva16 - venne spontaneo e immediato il ‘passo’ all’educazione religiosa globale, coi suoi momenti di vita liturgica, di vita di pietà, di vita sacramentale, la vita morale, approfittando del ‘globalismo’ che sembra la via più consona che lo spirito umano percorre nell’acquisizione di verità e di beni spirituali.

14 V., ad es., nel faldone sopra citato, al titolo: Attività catechistiche (salvo imprevisti) del novembre 1960, fr. A., annota: 2 nov., mercoledì, Corso di pastorale presso i Cappuccini (v.le Piave). 3, giovedì: Grugliasco, studenti del Paedagogium. 4, venerdì: Parma, corso di religione per le scuole medie. 7, lunedì: Religione alle Suore del S. Cuore (P.zza Buonarroti). 9, mercoledì, Pastorale presso i Cappuccini (v.le Piave). 13, domenica, Voghera, presso i PP. Barnabiti, conf. alle mamme. 14, lunedì, Suore del S. Cuore (P.zza Buonarroti). 15, martedì, Grugliasco Paedagogium. 16, mercoledì, Pastorale presso i PP. Cappuccini (v.le Piave). 27. domenica, Parma Corso di religione per ins. di Religione scuola media. 28, lunedì, Suore del S. Cuore (P.zza Buonarroti). 29, martedì, Grugliasco, Paedagogium. 30. mercoledì, Pastorale presso i PP: Cappuccini (P.zza Piave). NB: il martedì, giovedì e sabato faccio un’ora di Religione al Gonzaga. 15 v. Per una scuola attiva secondo l’ordine cristiano, La Scuola, Brescia 1940, pp. 369. 16 Silvio Riva, La pedagogia religiosa del Novecento in Italia, Antonianum-La Scuola, Roma-Brescia 1972, p. 133.


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Lo stesso autore, riconosciuto competente al riguardo, ricorda come dal Dévaud presero l’avvio gli attivisti cristiani italiani per le loro ricerche ed applicazioni nel settore catechetico e pedagogico-religioso: fr. Candido Chiorra, Mario Casotti, Gesualdo Nosengo, Silvio Riva, Giovanni Modugno, Augusto Baroni, Vittorio Chizzolini, Mario Agosti, fr. Leone di Maria, Carlo Gnocchi, Antonio Cojazzi, fr.Agilberto Gatti, fr. Anselmo Balocco ed altri. L’azione di fr. A. va dunque inserita in questo contesto metodologico. In ambito lasalliano è poi da inscrivere nel movimento che fece capo alla rivista Sussidi, nata nel 1936, e al Centro catechistico lasalliano costituitosi a Erba (Como) nel 1942. Entrambe le fucine di innovazione e di azione ebbero fra i rappresentanti e i collaboratori più attivi fr. Leone di Maria, fr. Beniamino Bonetto, fr. Anselmo Balocco, fr. Remo Re, fr. Mansueto Guarnacci, p. Silvio Riva e, appunto, fr. Agilberto. È connaturato in lui, a cominciare dalla prima collaborazione alla Rivista (1938), il ricorso allo stile discorsivo e dialogico che caratterizza appunto l’attivismo. Si tratta, è ovvio, di un artificio di stile, che conduce allo svolgimento delle singole parti della trattazione e alla conclusione dell’argomento per mezzo di domande che rendono immediata e convincente la risposta. Occorre tuttavia ricordare che chi utilizza questa forma espositiva ha ben presente sia le situazioni concrete e gli attori con cui ha operato sia quelle in cui si troverà chi affronterà l’argomento di fronte a un uditorio giovanile. Impostazione dottrinale e illustrazione aneddotica, così come linguaggio ed esercitazioni applicative sono, e devono essere, esplicitamente calibrate sull’uditorio. In Catechismo e Catechisti, ad es., fr. A. ne offre esempi che ritiene significativi17 e nell’introduzione ribadisce: È soltanto da una conoscenza adeguata dell’alunno che sgorga il metodo vivo; il metodo che segue e sfrutta ogni sano impulso, ogni originale e libera movenza dell’interesse del piccolo: Altrimenti sarebbe la noia, la mortificante oppressione di una pesante cappa di formalismi ed altre congestioni su un’anima che è fatta per la vita, la espansione, la ricerca del vero e la bontà.

A distanza di anni, pur ammettendo che molti degli espedienti didattici ‘attivistici’ hanno avuto la precaria esistenza delle mode, ribadisce la validità del metodo induttivo che ne sta alla base, e induce a stabilire sempre con il discente un personale rapporto di sintonia18.

17 Edizioni Sussidi, Erba (Como) 1957, pp. 288. Gli esempi si trovano alle pp. 233-285. Introducendo la lezione In quanti siamo? (intesa a instillare il senso della presenza di Dio), avverte: Questo incontro con i piccoli è veramente avvenuto e secondo le linee dialogiche qui esposte: nulla di inventato, nulla di esagerato. Il catechista può persuadersi ancora una volta che se l’insegnamento è vivo, concreto, adatto al piccolo, ne viene fuori sempre qualcosa di mirabile, tanto da sentir battere il cuore innocente del fanciullo sotto l’impulso della fede. 18 È ancora idoneo l’attivismo catechistico tra i ragazzi?, in Sussidi, 1974, 5, 34-46.


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Scritti di pedagogia catechistica Al riguardo va premesso che si tratta sempre di metodologia didattica, in cui la teoria è sempre ordinata all’utilizzazione pratica delle proposte. Come l’a. stesso ricordò in varie occasioni, nei suoi manuali confluirono aspetti e argomenti trattati nelle lezioni in classe, nelle conferenze, nei raduni e nei congressi o negli articoli destinati a riviste. Spesso nacquero allo scopo di compaginare e ordinare idee che afferivano allo stesso tema in risposta alle richieste di suoi lettori o uditori. Itinerari di pedagogia catechistica19. Manualetto di grande praticità, frutto dell’esperienza dell’a., scritto ‘con arguzia pedagogica piacevolissima’ (Riva, 323). La prima delle due parti offre una sintesi delle qualità educative auspicabili in un catechista: serena autorevolezza; conoscenza dei problemi psicologici connessi con un’operatività didattica in cui sono coinvolte le dinamiche di gruppo e le esigenze dell’intervento personalizzato; capacità di creare l’ambiente più adatto e di servirsi della strumentazione più adeguata. Alle strutture teoriche (tali di nome, perché si rivelano stimolanti e pratici mezzi didattici) è riservata la seconda parte, che si occupa della preparazione prossima della lezione (scaletta degli argomenti, scelta del linguaggio e perfino di un’aneddotica adeguati al’uditorio), dello svolgimento (funzione del dialogo imperniato sulla proposta di domande che stimolino risposte spontanee e sincere), strumenti (lavagna, schemi e simboli; esercitazioni per il quaderni attivo). Il lavoro incontrò grande favore sia per la novità dell’impianto sia per la ricchezza di proposte operative. Pedagogia e didattica catechistica nel Vangelo 20. “Uno dei primi sondaggi pedagogici del Vangelo in prospettiva catechetica, evocando episodi e atteggiamenti di Cristo che indicano il suo intuito psicologico, il rapporto educativo e l’efficace didattica” (Riva, 323). È l’esplicito invito ai catechisti “di non infarcire il programma di nozioni, preoccupandosi invece di renderle vitali nell’animo del fanciullo. Gesù non insegnava solamente per istruire, ma per vivificare e anime”. Episodi e personaggi del Vangelo sono raccolti in quattro sezioni, ognuna delle quali pone in luce un aspetto della funzione educativa del catechista: la grande missione, l’arte pedagogica, la conoscenza psicologica, l’abilità didattica. Il lavoro è ‘fraternamente’ dedicato a fr. Afrodisio (Luigi Trisoglio), fondatore della rivista Sussidi, alla cui direzione fr. A. successe nel 1958. Catechismo e Catechisti 21. Costituisce la più significativa costruzione di didattica e metodologica di fr. A.; una summa che raccoglie il meglio di quanto fino allo-

Editrice A&C, Torino 1944, pp. 106. Edizioni Sussidi, Erba (Como) 1956, pp. 190. 21 Editrice Sussidi, Erba (Como) 1957, pp. 388. 19 20


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ra esposto a voce e per iscritto22. Il primo dei sei capitoli affronta il tema dei problemi educativi. Il secondo è dedicato all’ambiente catechistico. Didattica e metodica catechistica è l’argomento del terzo, il più ricco di suggerimenti: - Segue catechismo e liturgia nella Scuola Media. Quinto capitolo: per la catechesi nella Scuola elementare. Il capitolo conclusivo, Catechesi svolte, raccoglie otto lezioni presentate con metodo attivo a scolaresche di varie età. Nuclei tematici che, con la titolazione dei sotto-temi relativi, sono esposti nel capitoletto che chiude il presente profilo bibliografico (‘Sussidi’ per una sintesi conclusiva); sarà facile trovarvi sia il riscontro alla praticità delle proposte sia quello della loro collocazione primigenia. Primi educatori della fede23. All’indomani del concilio Vaticano II, fr. A., “tra i primi in Italia a trattare l’argomento con solidità e organicità” (Riva, 323), afferma che la Chiesa ha fiducia nell’opera educativa dei genitori, i quali trovano nella locale comunità di fede la più ampia collaborazione. Premesso che l’educazione in famiglia non segue programmi predefiniti, l’a. suggerisce alcuni principi per l’educazione alla fede: educazione al senso di Dio, primi colloqui con Gesù, primo risveglio al senso della Chiesa, accompagnamento nella preghiera, nella maturazione del senso morale (esame di coscienza e sacramento della penitenza), partecipazione all’eucarestia, forza nella testimonianza cristiana (cresima), uso dei mezzi di comunicazione sociale, adeguate forme di educazione sessuale. Le dodici virtù di un buon maestro di Fratel Agatone, a cura di fr. A.24, che premette brevi note storiche a una nuova traduzione di un classico della tradizione educativa lasalliana. Dispense di scienze educative ad uso dei corsi F.I.R.25. Corrispondono ai tre corsi e ai relativi schemi-sunti funzionali che, in qualità di Docente di Pedagogia e di Didattica catechistica, fr. A. tenne a Milano tra il 1962 e il 1974 per conto della sacra Congregazione dei Religiosi (di cui era prefetto il card. Larraona). I temi trattati: Pedagogia catechistica generale - Pedagogia catechistica speciale - Didattica catechistica. Nel 1972 se ne aggiunse un quarto: Didattica e metodologia catechistica.

Biografie e corrispondenza catechistica Fr. A. era ‘professionalmente’ convinto che la catechesi più interessante, suggestiva, suasiva fosse quella dell’esempio, del modello dell’eroe, capace di incarnare e far

cfr., in fondo al presente profilo, il capitoletto: ‘Sussidi per una sintesi conclusiva’. Editrice A &C., Milano 1969, pp. 174. 24 Dattiloscritti ciclostilati in proprio, Milano, via delle Chiuse, 9. 25 Federazione Italiana Religiose. 22 23


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rifulgere in sé la sostanza e il fascino della dottrina. A questo criterio risponde la scelta dei personaggi tratteggiati nelle biografie o nei profili dati alle stampe. Fratel Candido Chiorra26. Considerato l’iniziatore della ‘stagione catechistica’ di stampo lasalliano27 che ebbe inizio in Italia nel primo Novecento, fr. Candido costituisce per fr. A. l’esempio inimitabile del catechista, efficace nella parola parlata e scritta soprattutto rivolta ai piccoli, in immediata sintonia con l’uditorio e il lettore, inesauribile nel repertorio di esempi e di aneddoti, instancabile animatore di catechisti. Il Fratello Leone di Maria delle Scuole Cristiane28. È la vita del catechista più eminente che la Congregazione dei Fratelli potè vantare in Italia per oltre quarant’anni del Novecento. Fr. Leone risponde pienamente alla ‘cifra’ scelta dal biografo, perché - e lo si documenta in modo convincente - fu uno dei più eminenti teorici dell’attivismo nell’insegnamento della religione in Italia, ma nel contempo - e lo si testimonia con numerosi esempi - seppe viverne e proporne i valori didattici, come catecheta e catechista eccezionale. Lo stile discorsivo e piano rende piacevole la lettura. Il tono, mai enfatico e celebrativo, manifesta con sincerità l’ammirazione e la riconoscenza per il confratello, l’amico, il modello con cui fr. A. condivise ideali, progetti e fatiche. Una mamma e un focolare29. Nel redigere il su ricordato Primi educatori della fede fr. A. attinse senza dubbio - oltre che alle copiose fonti specialistiche cui fa riferimento - alle testimonianze umane di cui aveva esperienza. Una delle più convincenti è la vita di Bigina Giraudi Marangoni, biellese, madre di sette figli morta a 39 anni. Il biografo, che la conobbe giovinetta nella famiglia d’origine, l’accompagna nell’itinerario di figlia esemplare, di fidanzata, di moglie e di mamma. Con ‘penna agile e fresca’30 fr. A. pone in luce, attraverso un’aneddotica di prima mano, la singolare maturità di spirito che la donna sapeva unire a una giovialità serena, quasi infantile. La visione soprannaturale delle cose dava ‘luminosità alle sue parole, sicurezza ai suoi atteggiamenti, sodezza senza asprezze alla sua spiritualità.’ Una mamma31. È la raccolta di ‘elevazioni spirituali’ dedicate alla mamma defunta di un ex-alunno con la quale fr. A. aveva intrattenuto una costante collaborazione educativa. Temi ne sono: la fatica educativa accettata e svolta come missio-

In Rivista lasalliana, Torino 1942, vol. XVII, pp. 50-60. Ricorda S. Riva nell’op. cit.: “Candido Chiorra, sull’esempio di tanti ‘Fratelli’ fu soprattutto un catecheta e un catechista fuori ruolo, per l’eccezionalità e l’originalità del suo procedimento didattico. Si sa che fu il primo a occupare, nel seminario arcivescovile di Torino, la cattedra di catechetica, nell’ottobre del 1907, e certamente anche il primo in Italia” (p. 208). 28 Editrice A&C, Milano 1970, pp. 240. 29 Editrice A&C, Torino 1945, pp. 104. 30 Tale il giudizio del vescovo di Biella mons. Carlo Rossi nell’introduzione. 31 Ed. Fresching, Parma 1949, pp. 25. 26 27


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ne, la serenità e la gioia spartite senza calcoli, il dolore accettato con cristiana fermezza. Posto a sé merita la nutrita corrispondenza che fr. A., curò con allievi ed ex-allievi tra il 1933 e il1946. Era convinto che la comunicazione scritta - biunivoca, s’intende - potesse costituire un efficace mezzo di crescita per mittente e destinatario: una catechesi a distanza, dialogo scritto - e perciò più proficuo - fra educatore ed educando. Il biografo fr. Beniamino, specialista in psicologia, si affretta a chiarire che il ruolo di ‘consigliere’ assunto da fr. A:, non può essere confuso con quello di ‘direttore spirituale’; e precisa: fr.A. non aveva né il tempo né il ‘taglio comportamentale’ richiesto dalla seconda mansione. Spicca su tutte la copiosissima e ‘catechesi per corrispondenza’ (65 lunghe lettere spedite in 14 mesi tra l’agosto del 1944 e il gennaio del 1946!) 32 con un ex-alunno che, dopo aver frequentato con lui la 1.a media si era trasferito in un’altra scuola lasalliana.

Scritti vari Vieni, Signore Gesù33. Testo di preparazione alla 1.a Comunione e alla Cresima. Nacque come complemento alla serie di catechismi per le classi elementari scritti da fr. Anselmo Balocco che l’Editrice ’Sussidi’ aveva pubblicati. 30 brevi lezioni su dogma, morale e culto, costituite da uno spunto iniziale, stimolate da domande (cui segue la risposta intonata), arricchite da esercitazioni per il ‘quaderno di vita’ e concluse con un breve repertorio di esempi tratti dall’agiografia giovanile. Valori e finalità della vita comunitaria religiosa 34. Raccolta di conferenze tenute durante una ‘settimana di riciclaggio spirituale’ organizzata per oltre un centinaio di religiose canossiane. Vi è posto in evidenza il senso di condivisione con cui animare il lavoro apostolico comune nella vita di famiglia, nell’inserimento nella comunità ecclesiale, nella preghiera e nell’animazione liturgica dell’istituzione, nel rapporto di collaborazione educativa con le famiglie. Metodo di orazione per Religiose35. Esemplato su quello che J.-B. de La Salle ha lasciato ai Fratelli, ripercorre, in modo aggiornato e sveltito, le fasi che lo caratterizzano: il mettersi alla presenza di Dio, il riflettere sulla Parola, il progettare successive azioni che portino a una vita più spiritualmente matura perché rispecchiata nel Cristo.

In buona parte conservata autografa nell’archivio di Torino FSC, fald. 212/401. Ed. ‘Sussidi’, Erba (Como) 1957, pp. 79. 34 Pro manuscripto, Ed. Istituto Canossiano, Caprino Bergamasco 1969, pp. 123. 35 Editrice A&C, Milano 1971, pp. 31. 32 33


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Un best seller dell’editoria catechistica Fratel Agilberto deve la sua notorietà nazionale ai testi di religione scritti tra il 1943 e il 1962. Nacquero come risposta alla prima delle decisioni operative che la Commissione catechistica lasalliana aveva formulata a conclusione dell’adunanza del 26 aprile 1942. La necessità di innovazione scaturiva sia da quella di adeguare i testi di religione alle recenti disposizioni ecclesiastiche sulla catechesi - e in particolare al decreto Provido sane - sia per ridare vigore alla tradizione catechistica lasalliana che si era affermata in Italia fin dal 1909 con la traduzione dal francese del Manuale del catechista, dell’Editrice A & C. I tre volumi di Gesù è la vita, per la scuola media inferiore, sono la prima fatica di fr. A., che si avvalse del consiglio e dell’apporto di alcuni confratelli. Su Rivista lasalliana (giugno 1943) illustrò i criteri cui si era attenuto: - divisione della materia: Storia Sacra e vita del Salvatore (vol. I), Credo e Comandamenti (vol. II), Sacramenti e storia della Chiesa (vol. III). Ci si attiene a un metodo storico-intuitivo, compensando o eliminando gli inconvenienti di una trattazione monotematica con accenni, schemi e ricapitolazioni che ‘tengano costantemente sotto gli occhi del ragazzo tutto il mirabile insieme della scienza religiosa’; - sviluppo delle lezioni: in numero di 25, quante quelle previste dall’ordinamento della scuola di Stato, si prestano sia alla semplice lettura fatta in classe (in attuazione alla scuola del leggere prevista dalla normativa) sia all’esposizione dei concetti-base fatta dall’insegnante e poi integrata con la lettura, privata o pubblica, degli alunni. Lo specchietto riassuntivo premesso ad ogni lezione consente all’alunno di rilevare con la dovuta chiarezza la linearità dell’esposizione e fornisce al docente un utile sussidio didattico qualora, trascrivendolo sulla lavagna, se ne servisse per dare organicità e interesse alla sua esposizione; - ricapitolazioni, studiate in modo che in ognuna delle tre parti si offrano significativi e logici raccordi con la materia trattata in altri volumi; - studio a memoria, introdotto (‘nonostante che certi nuovi metodi d’insegnamento catechistico abbiano svalutato lo studio mnemonico, nei confronti dell’apprendimento intelligente’) perché ‘il fanciullo dimentica le nozioni superficialmente apprese e non agganciate ad una formula chiara, facile e ben assegnata alla memoria’. Domande e risposte sono quelle del classico catechismo detto di Pio X; - Quaderno di vita. Le esercitazioni proposte non mirano tanto a far riprendere in forma diversa gli argomenti svolti nella lezione quanto a stimolare l’alunno a riflessioni e conclusioni originali perché spontanee, in grado di offrire stimoli a successive discussioni dell’argomento in classe. Particolare attenzione fu posta nella scelta delle illustrazioni, lineari nel disegno in modo che potessero essere riprodotte dall’alunno e, come le tavole in policromia, dotate di didascalia per stimolare il giovane lettore insieme con la comprensione del


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messaggio globale all’osservazione dei particolari. L’opera ebbe uno straordinario successo editoriale: tre edizioni in vent’anni, con ben diciotto ristampe. Alla scuola di Gesù. Testo di Religione per la Nuova Scuola Media36, in tre volumi, esce nel 1963 in sostituzione del precedente e in considerazione della riforma ministeriale introdotta in Italia nell’anno precedente. Vistose le modifiche di metodo introdotte: - la trattazione degli argomenti ‘evade dalla solita aridità sistematica per animarsi di un chiaro spirito biblico-liturgico’; - lo sviluppo della materia ‘è visto nell’apprendimento generale e si colloca al centro delle diverse discipline: storia, geografia, osservazioni scientifiche, ecc., vi confluiscono portandovi la loro efficace testimonianza; - ogni lezione ‘ha carattere di appello alla vita del ragazzo per farne il centro dell’attività d’apprendimento. Si preoccupa inoltre di svelargli il posto che egli occupa nel disegno divino della salvezza e il metodo di aderirvi con piglio vivo e personale’; Come nella precedente edizione, ‘disegni e diagrammi illustrativi invitano a comprendere e ad agire’. ‘Questo secondo testo - annota con obiettività il biografo - esaurito in breve volgere di tempo l’iniziale ampio consenso legato alla novità dell’opera, non ebbe l’accoglienza entusiasta del primogenito37…’ A una terza pubblicazione interamente rinnovata fr. A. aveva posto mano nel 1966. Risulta che avesse raccolto molto materiale e stesse elaborando un piano di cui aveva informato i superiori, ma non portò a termine il lavoro, perché interamente assorbito nei Corsi che teneva e dalla cura della rivista Sussidi, affidata in pratica esclusivamente a lui.

Fr. Agilberto e Sussidi: vite parallele Nata nel 1936 per iniziativa di fr. Afrodisio (Luigi Trisoglio) sotto forma di circolare interna delle scuole dei Fratelli in Italia, Sussidi offrì inizialmente spunti per la ‘riflessione’38. Nel giro di un paio d’anni divenne un periodico di varie pagine, cam-

Editrice A&C, Milano 1963. e prosegue: ‘molti clienti della stessa Casa Editrice l’adottarono più per un riguardo di fedeltà alla Casa e anche all’Autore) che non per la convinta e acquisita coscienza dell’eccellenza autentica del testo. Affiorarono quasi subito i difetti, i limiti e, di conseguenza, le critiche, che, per la verità, si erano previste dagli amici dell’Autore che erano al corrente delle condizioni, per nulla ideali, nelle quali egli lo aveva preparato e scritto’. (Biografia, p. 75). 38 una ‘specialità’ lasalliana, cioè dieci minuti di meditazione colloquiale, ogni giorno, in ogni classe, traendo spunto da avvenimenti, episodi quotidiani. 36 37


Una vita per la catechesi: fratel Agilberto Gatti (1905-1977)

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biò l’intitolazione in Sussidi per la riflessione e il catechismo39 e varcò i confini della Congregazione, dato l’interesse che suscitava negli ambienti pastorali e scolastici, trasformandosi in rivista mensile. Il fondatore ‘scrisse poco, ma seppe far scrivere gli altri, mettendo nel suo lavoro un impegno dinamico ed entusiastico’. (Riva, 323), Fra i primi collaboratori, direttamente interpellato da fr. Afrodisio nel luglio 1938, ci fu fr. A., che allora lavorava all’Istituto San Giuseppe di Vercelli. Insegnante nel corso elementare, aveva inoltre l’incarico dei giovani di Azione cattolica, Aspiranti e Juniores, e veniva abitualmente richiesto per incontri con gruppi di catechisti parrocchiali della città. Dopo qualche intuibile perplessità, fr. A. iniziò la sua collaborazione con una lezione attiva su La grazia sacramentale dell’Ordine sacro per alunni della terza classe del corso medio inferiore (allora ‘ginnasiale’), che venne pubblicata sul foglio n.15 di Sussidi. Per quarant’anni l’esistenza della rivista e di fr. A. scorsero in vitale simbiosi. Entrambe si spensero nel 1977. Quella di Sussidi si chiuse registrando ‘le amarezze di un artigiano della catechesi’40. La lunga stagione era stata ricca di meritati riconoscimenti. Nel gennaio del 1967, mons. Mario J. Castellano, Presidente della Commissione episcopale per la Catechesi, scriveva fra l’altro a fr. Ruggero Morelli, Assistente Generale per l’Italia dei FSC: ‘Ci è particolarmente nota l’attività preziosa e costante che il Centro Catechistico Lasalliano e la rivista Sussidi svolgono da anni a servizio delle diocesi, del clero, dei catechisti parrocchiali.(…) Contiamo sempre sulla presenza dei rev.mi Fratel Leone di Maria, Fratel Anselmo e Fratel Agilberto nelle varie riunioni di studio del Consiglio dell’Ufficio catechistico Nazionale, grati se altri Fratelli potranno dedicarsi al lavoro che stiamo sviluppando…’. Com’è noto, la rivista riprese vita nel 1983 e dimostra tuttora la sua vitalità. Nel link Sussidi per la catechesi è possibile trovarne in internet la sintesi della storia passata e presente41. Tra l’altro vi si legge:’Dopo un lungo periodo di grande vitalità , verso la metà degli anni ’70, ‘Sussidi’ cominciò ad avere difficoltà a causa della compresenza di altre riviste e case editrici di rilievo nello stesso campo e per la diminuzione del numero di Fratelli delle Scuole Cristiane impegnati direttamente nel settore. Tanto che nel 1977 ne fu decisa la sospensione e la Commissione Catechistica Lasalliana fu sciolta’. L’annotazione storica è di fr. Mario Presciuttini, che con fr. Anselmo Balocco e fr. Beniamino Bonetto faceva parte della redazione diretta da fr. A. A sua volta ne divenne direttore alla ripresa della pubblicazione. Il biografo, puntuale e attento nel registrare gli episodi della vita e nel presentare le

mutandolo in ‘Quaderno di Teoria e Pratica Catechistica’ nei quattro numeri del 1945 e aggiungendovi nello stesso anno e con la stessa sede editrice , l’Istituto Gonzaga di Milano, le sei Circolari per i sussidi ai Catechisti, delle Parrocchie . 40 Fr. A. in Sussidi, 1977, 5, p.78; il successivo n. 6 ne recherà il necrologio. 41 v. il link Sussidi per la catechesi. 39


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pubblicazioni, a proposito di Sussidi se la cava con spiccia diplomazia42, concludendo: ‘bisogna consultare le quarantadue annate della Rivista per averne una giusta misura’. È appunto quello che sarebbe giusto fare (ed è stato fatto), per riconoscenza verso fr. A. e per doverosa completezza bibliografica. Per darvi corretta esecuzione, occorrerebbe elencare qui sotto i 275 titoli dei suoi contributi scritti ; ma sarebbe fatica di scarsa praticità. Si è perciò scelto di porre in luce i principali nuclei tematici e alcuni degli articoli che li trattano.

Da Sussidi una sintesi conclusiva Già si è detto che la pubblicazione di maggior impegno di fr. A. è Catechismo e Catechisti , chiarendo nel contempo che non si tratta di un’opera costruita attorno a un progetto originale e specifico, quanto piuttosto di una silloge di argomenti trattati nelle conferenze e pubblicati dalla rivista Sussidi. In quest’ultimo caso, 138 su 275 scritti trattano tematiche riconducibili alla psicopedagogia e alla metodologia catechistica; 72 trattano di liturgia ed ecclesiologia; 53 riguardano vita sacramentale e vita morale; 12 si occupano di Sacra Scrittura. I soggetti destinatari sono, nella quasi totalità, fanciulli e adolescenti, catechisti, genitori. Psicopedagogia - Metodologia - Didattica (44 titoli su 173) - Conoscere l’Alunno (I) (Orientamenti didattici della Catechesi nella Scuola Elementare), 1950, V, 208-213; Conoscere l’Alunno (II) (Orientamenti didattici…) 1950, VIII, 398-405; Conoscere l’Alunno (III) (Orientamenti didattici…), 1951, I, 7-12; Ogni lezione, un’opera d’arte, 1951, III, 115-119; Saper usare il formulario catechistico di Pio X, 1952, I, 12-18; 1954, VIII, 366-369; Didattica della Comunione dei Santi, 1954, IX, 418-425; Educazione dei piccoli alla vita di Grazia (I), 1955, X, 459-463; Educazione alla vita di Grazia (II), 1956, I, 31-36; Educazione dei piccoli alla vita della Grazia (III), 1956, 2, 81-83; Grazia, dono soprannaturale, 1956, 3, 121-127; Domani farò lezione, 1956, 275-280; L’insegnamento della Religione negli Istituti dipendenti dall’Autorità Ecclesiastica, 1958, 9, 409-415; Formazione dei bimbi alla preghiera, 1960, 2, 85-91; Quella benedetta ora di Religione, 19860, 10, 481-487; Le adolescenti e la preghiera, 1960, 11, 540-547; Direttorio di pastorale catechistica, 1964, 4, 229-236; Il bimbo ha bisogno di pregare coi gesti, 1964, 10, 501-504; Pastorale e scuola secondaria, 1964, 12, 605-610; Programma e originalità dell’Insegnante di Religione, 1965, 12, 572-576; L’insegnamento religioso si fa dialogo,

‘La produzione di gran lunga più ricca della catechesi cartografica di fr. A. è senza dubbio la rivista ‘Sussidi’. E qui c’è tale abbondanza di articoli, saggi, trattatelli, conferenze, relazioni, indicazioni librarie e recensioni…, da non poter neppur tentare una raccolta ordinata per titoli e argomenti trattati…’.

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Una vita per la catechesi: fratel Agilberto Gatti (1905-1977)

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1965, 1, 55-58; Catechesi e adattamento metodologico, 1967, 3, 144-148; Impostazione dei programmi per l’Anno della Fede, 1967, 10, 511-520; L’insegnamento della Religione e gli altri insegnamenti, 1967, 12, 616-621; Insegnare ai fanciulli a pregare, 1969, 3, 162-169; La prima educazione sessuale, 1969, 4, 212-219; Le altre cattedre, 1969, 5, 283-290; Alla scoperta della carità, 1969, 8-9, 422-430; Possibilità e pericoli della nuova catechesi, 1969, 12, 645-651; Dio associa il ragazzo al suo piano d’amore, 1970, 1, 26-31; Aiutiamo i bimbi a pregare, 1970, 5, 260-266; Difficoltà nell’insegnamento religioso, oggi, 1970, 8-9, 446-451; Il metodo induttivo nell’insegnamento religioso, 1970, 10, 512-520; I primi passi nella fede, 1970, 11, 550-554; Come e quando iniziare la formazione della coscienza, 1971, 3, 131136; Catechesi a bimbi e fanciulli e vita sociale, 1972, 4, 59-71; Occasionalità e sistematicità nella catechesi scolastica, 1972, 5, 46-57; Dal video alla…catechesi, 1973, 2, 30-39; Educazione del fanciullo al senso di Dio, 1973, 3, 34-43; Catechismo per l’infanzia, aspetti metodologici, 1973, 4, 30-38; Dalla catechesi per classi alla catechesi per gruppi, 1974, 1, 40-50; La primissima chiamata (I bambini), 1974, 2, 49-55; C’è una conversione possibile per i fanciulli?, 1974, 3, 28-37; È ancora idoneo l’attivismo catechistico tra i ragazzi? 1974, 5, 34-46; Una pedagogia e una didattica nuova nel CDF?, 1974, 6, 52-61; Il fanciullo di oggi di fronte alla vita, 1977, 1, 27-36; Il fanciullo soggetto privilegiato della catechesi, 1977, 2, 31-37; L’educazione al lavoro nel CDF, 1977, 4, 67-73; Scuola e promozione religiosa del fanciullo, 1977, 5, 67-7343. Liturgia - Ecclesiologia (21 titoli su 72) - L’Ordine Sacro considerato nella sua grazia sacramentale, 1938, 15, 2-544 Schemi di riflessione secondo i cicli liturgici, le feste e le ricorrenze del calendario, 1939, 1, 27-31; Simboli e Catechesi, 1959, 8, 469-474; S. Giovanni Battista guida nell’Avvento, 1959, 19, 599-604; Si conosce la Chiesa studiandone la storia, 1960, 3, 161-167; Il ‘Vaticano II’ e la Catechesi, 1962, 12, 639-642; Catechesi nel tempo del Concilio, 1963, 1, 5-10; Il mio Vescovo, 1964, 8-9, 445-452; Catechismo Parola di Dio, 1964, 8-9, 463-468; Il catechismo problema chiave, 1966, 5, 285-290; La Catechesi domani con nuovo catechismo, 1968, 89, 443-448; Metodologia per una catechesi liturgica, 1968, 12, 610-619; Chiesa popolo di Dio (paraliturgia), 1969, 8-9, 453-458; La Religione e il ministero della Parola, 1971, 4, 205-211; La famiglia: una comunità catechistica ancora da impegnare, 1971, 8-9, 399-406; La figura di Cristo presentata ai preadolescenti, 1973, 5, 44-54; Catechesi sui Novissimi a bambini e fanciulli, 1974, 4, 22-33; La Chiesa nei nuovi catechismi della CEI, 1975, 3, 69-77; Il mistero di Maria nella catechesi ai fanciulli, 1975, 4, 27-36; L’apostolato dei fanciulli nel Catechismo della CEI, 1975, 5, 24-32; Aspetti pedagogici e didattici nel CDF, 1975, 6, 62-72; Aspetti metodologici nel CDF, 1976, 6, 76-84.

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ultimo articolo di fr. A. pubblicato dalla Rivista. primo articolo.


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Vita sacramentale - Decalogo (18 titoli su 53) - I sacramenti ci santificano, 1947, II, 119-124; Prima confessione del fanciullo, 1960, 4, 201-205; Catechesi e Messa, 1962, 8-9, 441-446; Per una catechesi inserita nella liturgia, 1965, 8-9, 333-338; Educazione alla vita della Grazia, 1966, 1, 34-39; Nella presentazione di VI Comandamento facciamo scoprire i lati positivi, 1966, 11, 564-571; Il Matrimonio come vocazione, 1967, 4, 239-242; Parlare ai giovani di divorzio?, 1968, 4, 248255; Celebrazione per la 1^ Comunione, 1968, 656-659; Prima educazione della coscienza, 1969, 2, 79-85; Prima iniziazione all’Eucaristia, 1969, 3, 136-143; Ruolo dei genitori e dei catechisti nella preparazione alla Cresima, 1972, 2, 34-49; Compito dei genitori nel preparare i fanciulli ai sacramenti dell’iniziazione, 1973, 1, 50-62; I fanciulli dinanzi all’opera di sacramentalizzazione, 1973, 6, 41-48; Riconciliazione ed educazione della coscienza del fanciullo, 1975, 1, 57-66; Catechesi postbattesimale ai fanciulli, 1976, 1, 63-70; La celebrazione eucaristica e i fanciulli, 1976, 3, 39-47; Il matrimonio nella catechesi dei fanciulli, 1976, 4, 18-24; Insegnare ancora ai fanciulli il ‘Decalogo’, 1976, 5, 33-42.


Cronache lasalliane

CRONACHE LASALLIANE

La Salle et le ministère de l’éducation Texte tiré de l’éditorial de la revue Lumen Vitae, n.3/2010, du Centre international de la Formation des Jésuites de Bruxelles. Signé par Gilles Routhier, théologien et catéchète canadien, et directeur adjoint de la Revue, l’éditorial introduit le fascicule thématique - Des ministres pour la catéchèse? - portant sur la redécouverte actuelle du rôle des catéchistes comme d’une fonction ecclésiale à caractère proprement ministériel.

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u XVIIème siècle, Jean-Baptiste de La Salle rassemblait des maîtres dans sa propre maison afin de les former, spirituellement et pédagogiquement, à l’éducation chrétienne des jeunes. Dans ses Méditations pour le temps de la Retraite, il ne rechigne pas à utiliser le terme «ministère» pour parler de la fonction occupée par ces hommes voués à l’éducation chrétienne de la jeunesse: «Puis donc que Dieu par sa miséricorde vous a donné un tel ministère [d’annoncer sa parole], n’altérez point sa parole...»1 Dans la même méditation, il écrira, «vous regardant en cela comme des

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ministres de Dieu et les dispensateurs des mystères» (p. 77). II revient sur la même idée, dans le deuxième point de sa première méditation : «Vous donc que Dieu a appelés à ce ministère, employez selon la grâce qui vous a été donnée le don d’instruire en enseignant...» (p. 78). Dans le troisième point, il revient à nouveau sur la même réalité: «C’est pourquoi vous devez honorer votre ministère, tâchant d’en sauver quelques-uns. Car puisque Dieu, suivant l’expression du même apôtre, vous a rendus ses ministres...» (p. 79). On pourrait reparcourir ainsi toutes les méditations, car ces passages ne sont pas des affirmations isolées. Pour preuve, on trouve encore, à la troisième méditation, le passage suivant: «Comme vous êtes les ambassadeurs et les ministres de Jésus-Christ dans l’emploi que vous exercez, vous devez le faire comme représentant Jésus-Christ même» (p. 88). C’est ainsi qu’il relit et comprend spirituellement l’emploi et l’œuvre de ces hommes voués à l’éducation chrétienne de la jeunesse, des pauvres surtout. Aujourd’hui, l’Église est beaucoup plus «frileuse» dans l’emploi du terme ministère. On réserve souvent le mot aux fonctions exercées par les évêques, les prêtres et les diacres. Certes, on invoque à bon droit que tout n’est pas ministère et qu’il ne faut pas abuser du terme. On craint, en plus de cette dévaluation, que la reconnaissance d’un ministère soit en quelque sorte céder à un besoin de reconnaissance de personnes qui revendiquent un titre qui leur ferait honneur, il faut en effet prendre garde de ne pas entrer dans cette logique mondaine qui s’insinue aussi dans l’Église et dont ne sont pas

J.-B. de La Salle, Méditations pour le temps de la Retraite, présentation par Miguel Campos FSC, texte intégral de l’ editio princeps, Rome, Maison généralice, 1976, p. 76. 1


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à l’abri les évêques, les prêtres et les diacres, puisque ceux-ci partagent également la commune nature humaine. Ceci dit, il importe de rappeler que le ministère est avant tout celui de l’Église dans sa totalité. C’est elle, comme unique sujet, qui est appelée à catéchiser et elle le fait à travers la participation de tous ses membres, de manière différenciée: pasteurs (prêtres et évêques), laïcs à divers titres et selon diverses conditions, religieux et religieuses, parents, etc. Certains d’entre eux occupent des fonctions structurantes dans la mise en œuvre de la catéchèse si bien que, avec le Directoire Général pour la Catéchèse, en faisant les distinctions nécessaires, il nous faut examiner la possibilité d’instituer des ministères de catéchistes / catéchètes dans nos Églises. Les contextes religieux et ecclésiaux respectifs permettront de discerner s’il faut instituer de tels ministères, mais fermer !a question n’est sans doute pas approprié. Ce qui est en cause, c’est la construction de l’Église et sa manifestation à travers le ministère de la Parole et la mission catéchétique de l’Église. C’est également la reconnaissance des dons de l’Esprit faits à nos Églises et la capacité de relire en terme spirituel - et pas simplement fonctionnel - l’«emploi» de ces hommes et de ces femmes, si nombreux, qui œuvrent en catéchèse. Autrement, nous ne verrons qu’une organisation qui s’organise avec des gens désignés comme bénévoles ou intervenants de première ligne, sans arriver à nommer en terme spirituel l’œuvre de Dieu accomplie par eux et à travers eux. Le présent numéro, après avoir exploré le ministère de l’Église tout entière et les ministères particuliers dans le champ de la catéchèse, s’interroge sur la convenance, maïs bien au-delà, d’instituer des ministères de catéchètes (ou catéchistes) ou de créer des offices ecclésiastiques auxquels sont affec-

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tées des personnes qui jouent un rôle crucial dans la mise en œuvre de la fonction catéchétique de l’Église, il laisse aussi la parole à des personnes qui exercent de telles fonctions, leur permettant de faire le récit de leur cheminement sur ce chemin qui les fait «ministres et ambassadeurs de Dieu». La catéchèse apparaît alors un lieu test où se vérifie la commune responsabilité dans l’Église et la diversité des fonctions, le lieu où se construit l’Église, dans la fidélité à la tradition et dans l’écoute des contextes pluriels et de ce que l’Esprit dit aux Églises. Gilles Routhier Faculté de théologie et sciences religieuses de l’Université de Laval

«The Faces of Joy and Hope in Asia», a book by Anthony Rogers FSC

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bout the Author. Br. Anthony Rogers is currently the Director of the La Salle Brothers in Malaysia and Chairman of the Malaysian Lasallian Education Council (MLEC). A member of the religious congregation of Brothers of the Christian Schools since 1968, he was executive Secretary of the FABC (=Federation of Asian Bishops’ Conferences), Office for Human Development from 1990 - 2009 and has also been working in various FABC Offices, including the Office of Student Chaplaincy and Education and of the FABC Committee for Non-Formal Education for several years. A keen analytical observer of Asian affairs, he has written extensively on the ongoing theology and ecclesiology of the Asian Church. He has been both “doer and “writer” of Christian life and his latest contribution to the Asian Church has been the “Harmony Through Reconciliation” - in search


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of a holistic and integral vision of life in the 21st century. When he was the National Director of the National Office for Human Development/Catholic Welfare Services, Kuala Lumpur, Malaysia he has been involved in the work of formation, especially in the Social Doctrine of the Church. These include the development of ministries to migrants and refugees, indigenous peoples, people with HIV/AIDS and families and children with special needs since 1981. He has served as a member of the Caritas Internationalis- Executive Committee and on the International Advocacy Committee for a number of years. He is also a former Member of the Pontifical Council for Justice and Peace, and is currently a consultor of the Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant Peoples, Rome. Br. Rogers was born in Penang, Malaysia on March 5,1949. He obtained his Bachelor’s degree and Diploma in Education at the University of Malaya and obtained his Master’s Degree on Pastoral Sociology at the Asian Social Institute and De La Salle University in Manila, Philippines. About the book. This publication is a compilation of a number of papers that were presented at various seminars, conferences and contributions to various publications over the past 20 years. The issues covered have very much to with bringing the Good News of the Gospel of God to the People of Asia, reflecting the many faces of Joy and Hope that have been a part of my life. These faces, though in constant touch with grief and anguish have been able to bring to those around them that Joy and Hope rooted in love that is always the way of our one God of humanity. Being blessed with the opportunity to sharing my God-bestowed gifts in various responsibilities with the Church in Asia and specifically with the Church in

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Malaysia over the past 25 years, has been the source of both Joy and Hope. A gift of Joy that is cherished is always a gift of Hope to be shared with others. Life has been a Joy because of the countless persons (too many to name but they know who they are) who live with self-gifting Joy to bring meaning to the lives of the poor of Asia. They have through their lives of inherent Joy enabled and allowed others to recognize the face of the Divine within the human drama today. It is also strange that this inner and hidden Joy is also the communication of Hope that can be shared and nurtured amidst people in pain and misery. The reasons are obvious because both Joy and Hope have their common source in God and in the human heart. Some us want to continue to believe that communication of Joy and Hope is the fundamental mission of the Church in the 21st century. Joy and Hope is the face of God that effaces sin and evil. The renewed faces of human persons is the revelation of God to modern day humanity. Although some of the papers included in this compilation might be repetitive and overlapping, I hope that the common threads running through all of them, will allow each of us to weave our own icons and motifs. As a Lasallian educator attempting to link faith to life, has indeed been challenging. We are first expected to both live what we teach and to ensure that we communicate the deeper meanings of life from a hidden energy and source. Joy and Hope that we convey is indeed the mystery of the only God of Love. All these faces encountered have shown that Life is not just about teaching but reaching out from the self to the most in need of the love of God in the margins and touching their inner beings, since they are most in need of the compassion of a God in love with humanity. It has been in moments of deep pain and rejection that the Gospel of Joy and Hope


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has assured me of the need to live Love in Truth through authenticity. It is frightening but ultimately it is this Truth of our Being that will set us free to allow God to creep into the lives of others. The world of poverty and hunger and war and violence today to be replaced by a God of Love in Truth has to begin in the human heart devoid of anger. It is this fount of life within that augurs the coming of the reign of Joy and the dawn of Hope. This is the meaning of a new heaven and a new earth that Jesus born in Asia brought to all the peoples of Asia. (from Preface). * Anthony Rogers FSC, The Faces of Joy and Hope in Asia, published by FABC-Office of Human Development (1451 P. Guevarra Street, Sta Cruz 1014, Manila, Philippines), 464 pages. ISBN 978-971-93762-2-4. Mail: barogers@myjaring.net

Orfani del terremoto di Messina accolti dai FSC

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al saggio storico Pio X, gli Istituti religiosi e gli orfani del territorio calabrosiculo del 1908, a firma di Alejandro Mario Dieguez, e pubblicato dalla rivista accademica Claretianum ITVC, Roma 2010, pp. 153-224, estraiamo il paragrafo (p.186187) riguardante gli Istituti lasalliani che si prodigarono per l’assistenza agli orfani. […] Come altri istituti consimili, anche i Fratelli delle Scuole Cristiane ebbero modo di assistere gli orfani del terremoto negli istituti da loro diretti. - Anzitutto nell’istituto Pio IX degli Artigianelli di San Giuseppe, in via Santa Prisca 89, Roma, furono in tutto accolti ventitré orfani a carico della beneficenza pontificia. Il fascicolo conserva corrispondenza con il direttore, fratel Adriano di Maria (ASV [=Archivio Segreto Vaticano], Carte Forna-

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ri, b.1, fasc.3, ff.37-90). Fondato nel 1879 ed eretto in ente morale con regio decreto 15 giugno 1899, l’istituto Pio IX era diretto ed amministrato dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Ammetteva fanciulli dagli 8 ai 13 anni, che ricevevano l’istruzione elementare e venivano iniziati nella lingua francese, nel disegno, nella musica strumentale, nelle belle arti e in diversi mestieri. Contava officine di tipografia, meccanica, ebanisteria, falegnameria, intagli in legno, modellatura e mobili artistici. - Nell’Ospizio educativo S. Giuseppe per i figli delle vittime del lavoro di S. Giuseppe Vesuviano, Napoli, i Fratelli furono impegnati nella educazione di otto orfani, accolti a carico di Pio X, prima di lasciare la direzione di questo istituto nel novembre 1910. Il fascicolo conserva corrispondenza con fr. Salvatore Greco e con il fondatore dell’ospizio, don Giuseppe Ambrosio (ASV, Carte Fornari, b.4, fasc.42, ff.13-130). - Lasciata la direzione dell’istituto di San Giuseppe Vesuviano, i Fratelli delle Scuole Cristiane assunsero a Valle di Pompei quella del pontificio ospizio educativo Bartolo Longo per i figli dei carcerati, dove trovarono assistenza altri due orfani ricevuti a titolo gratuito. Il fascicolo conserva corrispondenza con lo stesso fratel Corrado Greco, con mons. Vincenzo Celli, ed altri prelati della delegazione pontificia (ASV, Carte Fornari, b.4, fasc. 46, ff. 295-368).


Biblioteca

BIBLIOTECA

ALBERTO MELLONI (a cura) Dizionario del sapere storicoreligioso del Novecento Il Mulino, Bologna 2010, pp. 1848. Si tratta di un coraggioso tentativo di censimento critico delle principali discipline religionistiche, tracciato da un centinaio di studiosi di diversi paesi. “Quest’opera – premette con una certa modestia il Curatore - non si propone di essere una delle cose che pur sarebbe auspicabile avere da qualche dotto o da gruppi di dotti : non è questa una storia generale della storiografia religionistica, non è un dizionario biobibliografico degli studiosi maggiori del Novecento e non è neppure un atlante storico-geografico dei religious studies così come si sono sviluppati in una peregrinatio scientiae che ha certo preso le mosse dal centro dell’Europa e che ha ormai raggiunto un policentrismo planetario che fa finalmente giustizia dei piccoli narcisismi individuali. Sono opere, queste, che sarebbero davvero desiderabili e che in parte sono state preparate dalle iniziative scientifiche prese in qualche grande occasione - come i grandi giubilei delle maggiori riviste, dei centri di ricerca o perfino nella incontrollata

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proliferazione del patrimonio culturale depositato sui web. Qui si è optato per uno strumento diverso, umile: innanzitutto un catalogo della frammentazione disciplinare così come essa si propone, individuando tutti quei settori di ricerca che si sentono tali o perché sono oggetto di insegnamento nella fase degli studi che connettono strutturalmente ricerca e docenza; oppure perché all’interno dì qualche ambito scientifico si connotano per quel livello di specialismo che giustifica la nascita di riviste, congressi, reti di studiosi attivi. Da questo catalogo si è poi giunti, sia attraverso accorpamenti sia attraverso il consiglio di maestri, ad una lista di voci che interpretavano questi settori dì studi tenendo conto sia delle articolazioni religiose maggiori, sia delle specificità geografiche o confessionali di taluni studi. Per tutti i grandi universi spirituali si è dunque preso in esame il modo di affrontare le proprie dottrine, le proprie vicende storiche, i testi sacri e le tradizioni, il culto e le norme, i nodi ermeneutici e pratici. Il panorama aggiornato al 2010 di centosette discipline fornisce già quello che il gruppo organizzatore si proponeva di fare e che aveva programmato in un convegno del 2003 tenuto ad Assisi. Descrivere cioè il modo in cui ciascuna disciplina dì questo mondo vivo e magmatico di ricerche aveva attraversato il Novecento, individuando le tappe, i centri, i maestri, gli strumenti che si erano prodotti e che avevano segnato quel secolo di studi. Nonostante qualche lacuna dell’indice generale e nonostante i dislivelli qualitativi che separano voci comunque espressione di una visione personale e situata della disciplina, mi pare che una lettura complessiva dell’opera faccia emergere una tramatura che tende a ripetersi, come fili verticali e orizzontali sui quali si dispongono vicende di studio molto diverse fra loro: su un lato, quello della diacronia, emergono stagioni della ricerca che mi pare scorrono per tutti questi saperi con


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impressionanti analogie; dall’altro lato, però, quello della sincronia, ci sono dei paradigmi della ricerca che si trasmettono orizzontalmente da un sapere all’altro”. (A. Melloni, dall’Introduzione, vol. I, p. XI-XII).

GIUSEPPE LA TORRE Bibbia e Corano Due mondi sotto un unico cielo Claudiana, Torino 2008, pp.140. L’autore è pastore valdese, attualmente in servizio presso la chiesa riformata nel Canton Ticino e docente di storia delle religioni presso il Liceo di Lugano. Impegnato nel dialogo interreligioso, è stato membro del Comitato europeo «Islam in Europa» della Conferenza delle chiese europee e del Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa. Per conto della Accademia islamica delle scienze di Colonia ha diretto la sezione dei testi in italiano di una ricerca internazionale su «L’islam nei testi scolastici». Attualmente presiede la Commissione evangelica per il dialogo con l’islam della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia. Così presenta questo suo nuovo saggio: “Fino a non molti anni fa l’islam era considerato come un qualcosa di lontano e di totalmente estraneo rispetto al contesto europeo. Sappiamo più o meno tutti della psicosi collettiva che nei paesi europei si è creata attorno al fenomeno della diffusione dell’islam. Quest’ultimo è conosciuto soprattutto attraverso pregiudizi e fonti non sempre esenti da atteggiamenti faziosi, alimentato da notizie allarmanti, votato a un confronto conflittuale con l’Occidente cristiano. L’islam, però, non è solo quello degli stereotipi: aggressivo, fanatico, retrogrado, oppressore delle donne e integralista. Questi stessi stereotipi possono ritrovarsi anche in altre religioni, cristianesimo compreso. Conoscere l’islam, avendo coscienza dei nostri pregiudizi, per poter meglio conoscere

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i musulmani che vivono nella società occidentale, è l’obiettivo di fondo che ci prefiggiamo in questo libro; questa non è, quindi, una semplice presentazione accademica dell’islam. Il confronto e il dialogo possono arricchire sia i cristiani sia i musulmani. Non dimentichiamo che l’Occidente cristiano non da molto tempo (né ancora del tutto) si è liberato dagli stessi “orrori” che si contestano alla società musulmana, come la sottomissione della donna, il fanatismo, la violenza ecc. Un altro fattore non trascurabile è che la matrice interpretativa che i musulmani hanno avuto fino ai nostri giorni per giudicare l’Occidente è il colonialismo, abbinato all’immagine di opulenza trasmessa dai mass media. A questo punto è lecito chiedersi: come condurre in modo ragionevole un dibattito sulla verità? Come conciliare il rispetto per la persona e la fede altrui con la propria fede e il dovere di testimoniarla? Questo lavoro non ha la pretesa di cercare un’ipotetica via di mezzo, né d’altro canto di sfuggire a tale pericolosa navigazione, ma affrontandola, vuole mantenere sia la testimonianza della fede cristiana sia rispettare la fede dei musulmani oltre alla libertà di Dio al di sopra di ogni religione (cristianesimo e islam compresi). In conclusione, questo libro intende essere un onesto contributo sulla via che ricerca nell’altro il volto di Dio”. Ci preme aggiungere solo che il saggio, pregevole per la documentazione essenziale che riporta e per la linearità espositiva, si rivela indubbiamente anche un ottimo sussidio per la scuola.

FRANCESCO TRISOGLIO Basilio il Grande si presenta: la vita, l’azione, le opere Analecta Kryptoferres 3, Monastero Esarchico, Grottaferrata 2004, pp.CV + 305. Questo libro su Basilio il Grande - opera dell’infaticabile prof. Francesco Trisoglio -


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viene definito nella presentazione come una «biografia in co-produzione, scritta da due autori in due tempi, in contemporanea e in differita. Vuole essere il ritratto di uno dei personaggi più decisivi in una delle epoche più decisive della storia». Dapprima, in un’ampia introduzione (pp. I-CV) l’autore presenta la vita, le opere di Basilio, poi ci introduce nel contesto storico, illustrando l’epoca del IV sec. e la situazione della chiesa in relazione a Basilio (particolarmente la difficile situazione ecclesiastica con la complicata condizione della Cappadocia divisa in due provincie, poi lo scisma di Antiochia e le discusse personalità di Eustazio di Sebaste e Apollinare di Laodicea). Poi si sofferma sul vescovo cappadoce come l’operatore nella società, sia ad alti livelli, sia nella piccola storia degli umili e dei poveri, infine ne approfondisce la figura come teologo (specificatamente in relazione alla teologia trinitaria, reagendo agli eretici ariani e agli oppositori della divinità dello Spirito santo o pneumatomachi), come asceta (valorizzando e rispettando la dignità della persona, che vive alla presenza e nel ricordo di Dio e allo stesso tempo si dedica all’aiuto dei prossimo), come scrittore (rivela una essenzialità stilistica unita all’eleganza linguistica): «le parole sono immagini dell’anima», afferma lo stesso Basilio, Ep. 9,1. Poi l’autore, in una buona traduzione italiana, riporta i testi (pp. 1-278), suddividendoli per argomenti: sono undici capitoli, che ripercorrono le principali tematiche delle opere basiliane riguardo a Dio (itinerarium mentis in Deum; Dio-Trinità), all’uomo (antropologia: la grandezza e il destino dell’uomo), alla vita morale (la natura del male e l’azione del demonio, il peccato e il vizio della cupidigia, i danni delle passioni), alla spiritualità (virtù e spiritualità), al monachesimo (vita monastica e vita di preghiera), alla cultura (cultura ed esegesi biblica), alle attività caritative (la carità sociale e gli interventi episcopali), e l’azione a favore della comu-

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nità cristiana (nelle tormentate vicende della Chiesa). Ogni capitolo inizia con una inquadratura, che introduce le idee essenziali proposte in seguito ed è suddiviso in vari paragrafi, che esplicitano i vari argomenti: l’autore premette un breve riassunto, evidenziando concetti fondamentali ricavati dal brano di Basilio, citato subito dopo. Anche le note, molto utili e pertinenti, arricchiscono le citazioni e aiutano a comprendere meglio il testo di Basilio. La bibliografia finale (selettiva) e il siglario (pp. 279-298) completano il volume. Gli argomenti presentati - ovviamente frutto di una scelta personale dell’Autore - rispondono bene allo scopo del libro: presentare gli «interventi più significativi» (p. 273) e le pagine migliori che ci chiariscono la figura, gli insegnamenti e la molteplice attività del vescovo cappadoce. Al termine del libro, il lettore si sente quasi “contemporaneo” di Basilio, reso presente dalle sue stesse parole, rivive le sue preoccupazioni, le sue ansie, le sue gioie, ammira il suo equilibrio e la sua saggezza, pur in mezzo a tante difficoltà. Ritengo dunque che il prof. Trisoglio abbia realizzato un testo molto utile per chiunque voglia capire sempre di più la personalità di Basilio e ci abbia offerto anche un modo storicamente “corretto” nell’accostare un autore antico: farlo “parlare” per così dire, in modo diretto, citando le sue opere con note esplicative e appropriate. Mario Maritano

FRANCESCO TRISOGLIO Gregorio di Nazianzo Teologia e Dogmatica Analecta Kryptoferres 8, Monastero Esarchico, Grottaferrata 2009, pp. 279. Da esperto conoscitore di Gregorio Nazianzeno, il prof. Francesco Trisoglio (Fratel Enrico) ci presenta la teologia e la dogmatica


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del Padre cappadoce, affrontando le principali problematiche dei primi secoli cristiani riguardanti Dio (uno e trino), e le creature (umane, angeliche e demoniache) e fornendoci una chiara visione del dogma trinitario e della spiritualità ad essa collegata. Il testo si articola, quasi sotto forma di manuale, in vari capitoli, che ripercorrono le fondamentali tematiche discusse soprattutto nel quarto secolo e offrono la confutazione delle eresie sorte in quel tempo. Un pregio positivo di questo testo è anche l’ampia visione delle problematiche: l’autore non si limita al Nazianzeno, ma spesso ripercorre anche gli apporti di autori precedenti su un tema specifico, che è ripreso, approfondito o innovato dal Cappadoce; egli ha poi portato nella soluzione dei problemi la sua peculiare impronta; ha inaugurato «un nuovo modo di vivere la teologia» (p. 85): così la Trinità non è solo oggetto di speculazione, ma «respiro della vita» (p. 182). Allo stesso tempo il Nazianzeno è consapevole dei limiti della ragione umana, si apre al mistero e lo contempla con fede e amore. Agli eretici risponde con lucida consapevolezza e ponderato equilibrio, denunciando l’insufficienza delle loro posizioni e le conseguenze negative delle loro asserzioni. «Il centro focale della vita e del pensiero di Gregorio fu la Trinità» (p. 1): dunque il presente volume si incentra fondamentalmente su questa tematica: sono sette capitoli su nove. Nel primo (pp. 1-19), il prof. Trisoglio si sofferma su Dio Padre, presentato dal Nazianzeno come «senza principio» (Or. 38,8), «luce suprema e inaccessibile» (Or. 40,5) e caratterizzato dalla paternità e ingenerabilità, coeterno al Figlio. Il Cappadoce confuta poi le obiezioni (il nostro autore ne enumera sette), che gli eunomiani propagavano contro la generazione divina ed eterna del Figlio da parte di Dio Padre. I capitoli seguenti (terzo, quarto e quinto: pp. 21-101) sono dedicati ad esaminare la teologia riguardante il Figlio. Dapprima la sua

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divinità (quanto a sostanza e natura, a parità di onore e grandezza, fondandosi su passi biblici); poi la redenzione e l’incarnazione (dalla caduta originale dell’uomo all’assunzione della perfetta e integra natura umana da parte del Verbo, perché l’uomo a sua volta ritornasse a Dio). Il nostro autore dedica un’appendice all’eresia apollinarista, data la sua importanza: essa privava il Cristo dello spirito o mente [nous] umano - sostituito dal Verbo - per cui egli non era “perfetto” uomo: controbatte Gregorio: poiché «solo che è stato assunto è stato guarito» (Ep. 101,32), se Cristo non avesse assunto una umanità completa, non ne poteva essere salvatore. Infine esamina la figura del Cristo nella sua unità di persona e integrità di due nature, come redentore e dominatore della storia: dalla salvezza alla divinizzazione. Il quinto capitolo (pp. 103-150) espone la teologia del Nazianzeno sullo Spirito Santo: lo dichiara increato e fuori del tempo, strettamente unito alle altre due persone trinitarie nel culto, nell’adorazione e nella santità. Contro gli pneumatomachi (che negavano la divinità dello Spirito santo) egli ribatte che lo Spirito procede dal Padre e divinizza l’uomo. Nel sesto capitolo (pp. 151-182) dedicato alla Trinità, l’autore espone la coesistenza di unità e triplicità e l’uguaglianza perfetta di natura all’interno della Trinità, luce unica in triplice bellezza, da adorare tutta insieme. Contro Sabellio che fondeva insieme i Tre in una unica entità, e contro Ario che li separava in tre entità estranee e diverse, Gregorio dichiara la norma ortodossa: adorare la Trinità, unificando la divinità e separando le proprietà (cioè le caratteristiche individuali di ogni persona trinitaria) ed esorta a custodire la fede trasmessa dai Padri e nella quale siamo stati battezzati. «Si ammira in Gregorio un’acutezza penetrativa coraggiosa, controllata però da un illuminato senso della misura» (p. 176). Nel capitolo settimo si esamina la posizione di Gregorio su «Ineffabilità di Dio e teologia»


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(pp. 183-201): si conosce l’esistenza di Dio con la ragione allo stesso tempo si conosce l’essenza nel mistero della fede. La Rivelazione divina nelle Sacre Scritture e la purezza del cuore ci aiutano a raggiungere Dio invisibile; Dio ci parla con la sua parola e le sue opere. Gregorio evita i rischi della dialettica teologica, fa appello alla sana ragione, ma soprattutto si immerge in una atmosfera di fede e di adorazione, vivificata dall’amore. Nel capitolo ottavo (pp. 203-240) il Trisoglio abbozza molto sinteticamente l’antropologia, l’angelologia e la demonologia del Nazianzeno, il quale inquadra le sue riflessioni nel piano divino: parte dalla creazione, cui segue il dramma della caduta e la conseguente necessità dell’incarnazione, perché noi rivivessimo. Il padre cappadoce specifica la natura e il fine dell’’uomo, si sofferma particolarmente sulla spiritualità dell’anima e sulla componente corporea della persona, sulla fragilità e instabilità dell’uomo. Gli angeli sono presentati come esseri puri e intelligenti, vicini a Dio, mentre i demoni sono potenze nemiche di Dio, tentatori e ingannatori dell’uomo. Conclude il nostro studioso (p. 239): «Gregorio non ha solo studiato l’uomo nei suoi rapporti con la morale, lo ha sperimentato nei suoi inquietanti dissidi interiori; non ha solo teorizzato che il demonio induce al male, lo ha visto in azione nell’intimo della sua coscienza; non si è limitato a codificare i compiti degli angeli, ha assistito alle loro danze adoranti attorno al trono di Dio». L’ultimo capitolo (pp. 241-257) si conclude con una «retrospettiva filosofica teologica». Per Gregorio - e in genere i Padri contemporanei - non si trattava di assimilare l’ellenismo (era l’atmosfera in cui si viveva nel IV e V secolo), ma di utilizzarlo per inserirvi il messaggio cristiano. Il Trisoglio passa in rassegna le principali posizioni degli studiosi moderni, che attestano, pur con diverse sfumature, la disponibilità di Gregorio all’incontro con la cultura ellenistica (particolar-

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mente col platonismo - filtrato attraverso il neoplatonismo -, per la filosofia e lo stoicismo, particolarmente per la morale), e d’altra parte sottolinea che la fonte primaria del Cappadoce è sempre il cristianesimo e, come teologo, l’ortodossia della fede. Nelle pagine finali dell’«Epilogo» (pp. 259-264), prima della aggiornata bibliografia (pp. 265-274) il nostro Autore scrive, concludendo il suo libro: «In Gregorio l’esperienza umana e quella divina si sono fuse ed integrate in una completezza ed in una vitalità che sono rimaste inuguagliate. Fu una delle figure che più si prestò a critiche svariate; in lui troviamo tanta della nostra passionalità immediata, che egli, però, depurò in una nobiltà spirituale che ci si fa invito ed incoraggiamento. Dei Padri greci è quello che ci sentiamo più vicino, più nostro contemporaneo, ed anche per questo da lui emana un fascino che sempre si rinnova» (p. 264). Con questo volume il prof. Trisoglio ci ha dunque aiutato a comprendere meglio la figura e il pensiero del Nazianzeno (pur con qualche inevitabile ripetizione di argomenti), ad apprezzarne i valori artistici e la profondità teologica, l’afflato lirico e la profonda spiritualità: si avverte in tutto il volume la simpatia con cui l’autore si accosta al Nazianzeno. Mario Maritano

FRANCESCO TRISOGLIO San Gregario di Nazianzo Un contemporaneo vissuto sedici secoli fa a cura di Remo L. Guidi e Donato Petti, Effatà, Cantalupa (To) 2008, pp. 464. [La miscellanea di F. Trisoglio è stata già presentata una prima volta sulla nostra Rivista (76, 2009, 2, 358-359). La presente recensione è uscita in originale su La Civiltà cattolica, q. 3845, 4 settembre 2010, 439-440. La riprendiamo, ringraziando il Direttore e l’Autore per la gentile concessione. ndr].


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I saggi raccolti nella miscellanea illuminano da vari punti di vista la personalità e la dottrina di Gregorio Nazianzeno, e sono frutto di appassionate e intelligenti ricerche condotte dall’A. nella sua lunga e feconda attività di studioso. Docente universitario e personalità di spicco nella Congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane, il prof. F. Trisoglìo è ricordato con affetto e precisa documentazione in alcuni testi premessi alla raccolta dei saggi. Sappiamo, così, di molteplici iniziative da lui volute e curate, e possiamo scorrere il lungo elenco della sua bibliografia. Nel primo dei saggi della miscellanea si affronta il terna della dottrina morale nel Nazianzeno, partendo da un punto fondamentale della sua antropologia, secondo la quale l’uomo è terrestre e celeste e ha il compito di armonizzare i tratti caratteristici delle rispettive peculiarità. Il discorso procede tenendo conto di questa impostazione anche su temi tipici dell’esperienza cristiana, come l’ascetismo, la verginità e il monachesimo. Trattando, poi, del male, del peccato e del Maligno nei Padri Cappadoci, si precisa anzitutto che la prima di queste tre entità non è senza autonomia, ma - come insegna anche Basilio - separazione (allotriòsis} da Dio. Quanto al peccato, il Nazianzeno ne avverte la trafila lungo tutto la storia; Basilio ne tratta in modo sistematico e ne vede il fomite nei piacere; il Nisseno pone l’accento sulle sgretolate passioni, di cui possiamo finire schiavi. Il Maligno è la potenza ribelle (apostatik dynamis), impegnata, ora, in un devastante compito di sviare l’uomo da Dio. Rimedio è la conversione - tema del terzo saggio - di cui si descrive la natura e se ne indicano gli incentivi e i mezzi, ma anche gli ostacoli, nel suo compiersi nel cuore dell’uomo, chiamato all’incontro con Dio. Caso assai frequente, nel IV secolo, di pigrizia nei confronti di un serio impegno cristiano, era la tendenza a procrastinare il battesimo. Pur condannando con forza questa prassi, il Nazianzeno ricor-

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da che, nell’attività pastorale, la strategia a cui ricorrere è la persuasione, perché, di fatto, nulla si otterrebbe cercando di costringere. Dal tema della conversione si passa, sempre a proposito del Nazianzeno, a quello della spiritualità dell’elevazione, illustrata anche con il ricorso a speciali metafore, come quelle dall’ala o della montagna. Si tratta di un percorso che conduce al di sopra delle cose visibili e ha per risultato un progressivo avvicinamento a Dio. I dati della Rivelazione cristiana possono essere interpretati e vissuti in linea con questa impostazione della vita spirituale, al cui centro sta Cristo nel mistero dell’Incarnazione e, soprattutto, dell’Ascensione, quando, cioè, egli «salì in alto per trarci a sé» (p. 207). Nel saggio che segue, dedicato al tema della verità nel Nazianzeno, se ne analizza — del vocabolo — l’accezione assoluta e intellettiva come pure la nozione di realtà effettiva, per approdare ad ambiti più squisitamente teologici, ove la verità viene a identificarsi con la stessa natura divina. Nel lessico della cogitatio fidei la verità designa spesso l’ortodossia in generale, nella sua integrità. Si tratta di un grande valore, da custodire, però, con equilìbrio, per non cadere nell’errore di coloro che, a Nazianzo, «erano troppo ortodossi» (p. 240). In ogni caso la conquista della verità esige una severa ascesi morale e intellettuale. E così che, nel Nazianzeno, si leggono pagine in cui si sente l’incontro fra teologia e preghiera, e che sono, spesso, splendidi esempi di Scrittura pregata. Alcuni testi hanno il sapore della vita vissuta, ispirandosi, come preghiere, al sorgere dell’alba o all’incombere della notte, o perché recano il segno di un’inquietudine che il Nazianzeno subito supera, stringendosi a Cristo. La dottrina del Nazianzeno, in non pochi casi, è posta a confronto con quella di altri Padri della Chiesa, così da rendere evidente la sintesi che vi si opera. Ciò avviene -nel saggio dedicato alla mariologia, ove l’insegnamento


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di Gregorio è contestualizzato con quello di Giustino, Ireneo, Clemente, Origene, Atanasio, Basilio. La presenza della Vergine è costante nella riflessione del Nazianzeno, come dato di fede da cui aver luce nel sapere teologico e nelle scelte da compiere nella vita spirituale. Seguono, nella miscellanea, due saggi dedicati, rispettivamente, alla politica e alla pace. Del potere, sia ecclesiastico sia civile, il Nazianzeno dichiara che «altezza e dignità sono corrispondenti al pericolo» (p. 325). L’insistenza è sui doveri connessi con i rispettivi ruoli e sugli ideali da perseguire. Fra questi è indicata in primis la tutela dei poveri, impegno da ritenersi fondamentale nel gestire la pubblica amministrazione. Personificazione del potere ingiusto e perfido è, per il Nazianzeno, Giuliano l’apostata, intelligente e astuto ma soltanto per colpire i cristiani, che voleva privare dell’uguaglianza civile e della protezione dei tribunali e delle leggi. Mosso da ideali di lealtà e di giustizia, Gregorio si trovò al centro di rivalità e di lotte, soprattutto nell’ambiente dei retori e dei monaci. Si fa cenno a questi fatti nel saggio sul tema della pace, ove si discorre anche dei contrasti a cui si va incontro per la difesa dell’ortodossia. Vi sono anche lotte che è necessario sostenere contro se stessi per vincere le proprie passioni e per non soccombere di fronte aì dolori e alle difficoltà. Nell’ultimo saggio che ha per titolo: «S. Gregorio di Nazianzo: l’uomo attraverso all’oratore», si documenta la «tenerissima ricchezza umana» (p. 445) del personaggio, impegnato nel rendere testimonianza alla verità nella prassi e presentandone i dati con parola elegante e ornata. Quanto all’acuta e raffinata sensibilità del Nazianzeno, si precisa che egli «non vede tutto male, ma non ha paura di vedere tutto il male» (p. 431). Il volume si raccomanda per la ricchezza dei dati e gli ampi orizzonti della ricerca e della trattazione. G. Cremascoli

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LUCIANO MARTINI Chiesa e cultura cattolica a Firenze nel Novecento Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009, pp. 510. Un profilo religioso e politico del Novecento fiorentino e insieme uno schizzo biografico di Luciano Martini, studioso e storico del cristianesimo, intellettuale di robusta statura, aperto al dialogo e ricco di umana sensibilità. Il corposo volume, inserito nella collana “Politica e storia”, comprende: una premessa siglata da diversi specialisti che, con la collaborazione di Teresa Martini, hanno raccolto le varie parti del libro nel rispetto delle linee tracciate dall’autore prima della sua scomparsa (gennaio 2007); quindici saggi su eventi e personaggi del Novecento; una ricca nota bibliografica; un indice dei nomi. Comprende altresì Esperienza di fede e dimensione ecclesiale, intervista autobiografica a cura di Massimo Capitti, che riporta i colloqui avuti col Maestro su iniziativa di Michele Ranchetti, che riteneva importante pubblicare la testimonianza del Martini sulle pagine dell’ “Ospite ingrato”, rivista del Centro Franco Fortini di Siena. E si tratta di testimonianza significativa. Il Martini risponde alle domande dell’intervistatore con estrema sincerità: ne viene fuori una storia della sua vita di studioso e un discorso appassionato sul cattolicesimo non solo fiorentino e toscano del Novecento. La lettura dell’intervista è una premessa all’intelligenza dei saggi che il volume contiene. Martini parla delle sue letture, dei suoi maestri, della sua carriera di militante, degli amici e collaboratori, delle riviste del Novecento, del comunismo e dei movimenti per la pace, di Giovanni Paolo II e dei papi, di uomini di chiesa e di politici e amministratori. Ascoltiamo: “Devo dire che tra i molti giudizi storici che la Chiesa ha dato e con i quali ha giustificato le sue azioni, anche quelle più discutibili, forse i più


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azzeccati sono stati quelli sul comunismo. Davanti all’ottimismo americano sull’avanzata russa, sul fatto che il comunismo potesse cambiare alla luce dell’esperienza bellica e democratizzarsi, lo scetticismo della diplomazia vaticana appare alla fine più realistico. Detto questo, le politiche e gli atteggiamenti pastorali che ne sono conseguiti sono stati criticati dai cattolici progressisti e restano criticabili. Ma il problema c’era” (p.431). Il volume contiene due studi su Ernesto Balducci e altri due su Giorgio La Pira; profili di Giuliotti (“cattolico antimoderno e apocalittico”), di Arrigo Levasti, di don Milani, di Mario Gozzini, di Giovanni Vannucci, di Antonio Lupi, di Enrico Chiavacci (“critico e fedele”), di Silvano Piovanelli; un capitolo su “Cristiani ed ebrei in dialogo”, un capitolo sulla rivista “Testimonianze”. Saggi e studi sono preceduti da un’ampia panoramica sulla cultura cattolica a Firenze nel Novecento. Nell’insieme un lavoro di ricerca storica di notevole peso. Non c’è un capitolo per Dossetti o per Papini: ma l’uno e l’altro sono ben presenti nel discorso del Martini, così come sono presenti esponenti della letteratura e della filosofia, della cultura laica (Croce, Gobetti, Spadolini), dell’idealismo, del marxismo, dei movimenti politici e sociali. Ampio spazio occupano le riviste del Novecento, le istituzioni educative e culturali, gruppi e associazioni che lavorano per la pace e per i diritti umani, il dibattito sul modernismo, sul Concilio e sulla sua ricezione, sulla DC e sui partiti, sulle proposte di rinnovamento. La figura di La Pira è studiata in tutti i suoi risvolti: le fasi della sua formazione, la cultura, l’impegno ecclesiale e la spiritualità, l’amore per la democrazia e la libertà, l’antifascismo, l’amore per i poveri, la passione educativa. Il Martini così conclude il primo capitolo: “Nelle settimane in cui, dopo troppo lungo tempo dall’occasione da cui sono state originate, concludo le pagine di questo profilo della storia della cultura dei cattolici fiorentini, sono scomparsi Turoldo e

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Balducci […]. La commozione estesissima e corale suscitata dalla loro scomparsa sono il segno della loro larga influenza sul piano culturale e religioso, sui più diversi ‘mondi’ della cultura nazionale e cittadina, e del rilievo di un’opera e di un’eredità, che indicano quanto il lavoro qui abbozzato sia bisognoso di essere ripreso e largamente approfondito” (p.59). Non si può non sottolineare, sia pure nel segno dell’ umiltà che ispira il lavoro del Martini, la valenza educativa e civile della sua lezione e la preziosità del suo contributo al dibattito sul Novecento. Francesco Pistoia

LUIGI EINAUDI, S. VALITUTTI La libertà della scuola a cura di Giancristiano Desiderio Liberilibri, Macerata, pp. 110. Scuola e istruzione hanno da sempre rappresentato un punto centrale nella riflessione dei liberali. In particolare, quello che da sempre li preoccupa è che il sistema formativo diventi una gabbia per imporre culture, valori e credenze espressione dell’autorità, si tratti di quella familiare, o ecclesiastica, o statale. Perciò, uno dei padri del liberalismo moderno, John Stuart Mill, chiariva senza mezzi termini: «Io non sono meno contrario di qualunque altro al sistema di affidare tutta o la massima parte dell’educazione nelle mani del Governo». L’intervento statale, peraltro, ha trovato molte giustificazioni, a partire dall’esigenza, rivendicata nei sistemi francese e italiano, di emancipare l’insegnamento «dall’influenza e dall’invadenza della Chiesa». La scuola di stato, in questo senso, rappresentava per i suoi fautori un affrancamento dal dogma: «La scuola libera nasceva in Italia come scuola dello Stato», ricorda il curatore dell’opuscolo. Ma i liberali non hanno mai abbassato la guardia contro i pericoli di una scuola monopolista e statalista: lo


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testimonia con efficacia questa raccolta di alcune significative pagine sul tema della scuola di due illustri rappresentanti della duplice anima del liberalismo italiano, quella piemontese e quella meridionale, ossia Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti. Se il primo non ha bisogno di presentazione, del secondo merita dì essere ricordato il ruolo importante di studioso e di politico che culminò in un significativo primato: quello di essere stato, nella Prima repubblica, il primo laico a gestire il ministero (allora) della Pubblica istruzione. Entrambi motivano la diffidenza verso il monopolio statalista della scuola, spezzando una lancia (soprattutto Valitutti) a favore del pluralismo dell’offerta scolastica, da garantire attraverso la presenza dì un sistema dì istruzione privato, ma effettivamente libero: ossia affrancato dall’asfissiante controllo statale che Valitutti ironicamente paragona all’universo aristotelico, nel quale «tutto si muove verso il modello della scuola statale per somigliarle e ottenere in tal modo i benefici derivanti dalla parità». Lo snodo per scardinare il sistema dell’eliocentrismo statalistico è individuato da entrambi nell’abolizione del valore legale del titolo di studio. L’accostamento delle pagine dei due liberali, separati da una generazione, risulta particolarmente interessante perché la diagnosi e la proposta di Einaudi, condivise da Valitutti, sembrano adattarsi perfettamente ai tempi diversi in cui scrive il secondo, quelli della scuola di massa. Valitutti, anzi, anticipa lucidamente il problema col quale continuiamo a fare i conti: il monopolio statale dell’istruzione può funzionare all’unica condizione di poter contare su risorse finanziarie crescenti; se e quando intervengono vincoli di bilancio, la scuola di stato perde la possibilità di conseguire l’obiettivo che la giustifica, ossia quello di garantire a tutti il servizio sociale di una formazione dì qualità. Il liberalismo che emerge da queste pagine si conferma così aperto, dinamico, conflittuale,

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non conformista. Non a caso, proprio Valitutti, in altra sede, avrebbe definito Einaudi un riformatore «liberale post-socalista»: una tradizione culturale che qui emerge limpidamente, in attesa che qualcuno ne raccolga l’eredità politica. (da «Il monopolio non fa scuola » di Salvatore Carrubba nel Domenicale de Il Sole24ore, 4 aprile 2010).

FIORELLA MATTIOLI CARCANO Santuari à répit. Il rito del ‘ritorno alla vita’ o ‘doppia morte’ nei luoghi santi delle Alpi Priuli & Verlucca, Scarmagno (To) 2009, pp. 221. Antiche paure, convincimenti religiosi, diffusa mortalità infantile e rifiuto popolare dell’idea del limbo - elaborata dai teologi tra il XII e il XIII secolo, mai entrata nelle definizioni dogmatiche del Magistero, ma presente nel suo insegnamento fino al Concilio vaticano II - sono all’origine dei santuari à répit (del respiro), detti anche del ritorno alla vita, della doppia morte o della morte sospesa. In Italia sono una quarantina, concentrati in gran parte nelle Alpi occidentali (in Val d’Aosta e nelle province piemontesi di Cuneo, Novara, Torino, Verbania e Vercelli), ma presenti anche in Friuli, Veneto, TrentinoAlto Adige, Lombardia e Umbria, come documenta questa interessante ricerca della Mattioli Carcano. Al termine di un viaggio che poteva durare anche diversi giorni e che aveva come méta luoghi impervi e appartati, compassionevoli cortei giungevano al santuario e deponevano, davanti all’immagine della Madonna, il figliolo morto senza battesimo. La richiesta, insolita ma frequente, era un “miracolo di tenerezza”, una temporanea resurrezione che consentisse di amministrare il battesimo, di seppellire il bambino in terra consacrata e di sottrarlo al limbo. In caso contrario, la sepoltura sarebbe avvenuta in


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terreni incolti (come già avveniva per suicidi, eretici e attori di strada), gli spiriti dei piccoli morti avrebbero vagato in cerca di pace o avrebbero subito le turpi pratiche di streghe e negromanti e nell’aldilà avrebbero occupato uno spazio liminare, privo delle sofferenze dell’inferno (che era comunque la destinazione finale dopo il Giudizio universale), ma anche della vista di Dio. Nel santuario, i piccoli che avevano chiuso gli occhi nei primi istanti della loro vita venivano deposti davanti a una sacra immagine, soprattutto della Madonna o dei santi (anche se sono documentati répit a distanza e ottenuti per contatto con copie miracolose). Le preghiere dei presenti invocavano il prodigio, il temporaneo rovesciamento di una situazione definitiva, che poteva essere indicato dal movimento di una piuma posta fra le labbra del bambino oppure da piccoli movimenti, emissione di liquidi, stille di sangue dal naso, bave alla bocca, comparsa di colorito alle guance, tensioni di un braccio o di una gamba. Alla comparsa di un segno di ritorno alla vita, il piccolo veniva prontamente battezzato scongiurando così per lui il rischio del limbo. Il ringraziamento si esprimeva con donazioni al santuario, figurine ex voto o quantità di grano pari al peso del miracolato. Si trattava di montature ad uso dei parenti afflitti e disposti a buone offerte oppure dì eventi naturali - cioè casi di morte apparente o fisiologici rilassamenti del corpo morto esposto al calore dei ceri - interpretati in modo soprannaturale? A lungo la Curia romana non interviene direttamente sul rito e sui luoghi delle resurrezioni temporanee, affidando ogni decisione ai vescovi, ma dal 1729 al 1751 emana sei sentenze, frutto di un’indagine condotta dal Sant’Uffizio. Fu un preciso “giro di vite” per una pratica che la Chiesa non intendeva più assecondare, ma bisogna attendere il 20 aprile 2007 per veder chiuso definitivamente il capitolo: con il documento La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo, la

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Commissione teologica internazionale riconduce alla misericordia di Dio una condizione che nel passato ha gettato nello sconforto genitori e parenti dei bimbi del limbo. Roberto Alessandrini

ROSSANA SISTI, N. MARTINETTI Visto, si stampi Viaggio nel mondo dell’informazione San Paolo, Cinisello B. 2010, pp.128. II giornale cinese Yanzhao Evening News del 3 luglio 2007 informa che, nella provincia settentrionale di Hebel, un tal signor Geng è stato svegliato a notte fonda dai guaiti del suo cucciolo, affrontato da un grosso cane. Per allontanare l’aggressore, il signor Geng si è avventato sull’animale, lo ha azzannato al collo e lo ha ucciso. Una notizia analoga compare il 4 aprile 2008 su Star Tribune: a Minneapolis, la signora Amy Rice ha preso a morsi sul naso un pit bull che stava minacciando la propria bestiola. Sono solo due esempi di un principio che domina da sempre nelle redazioni dei giornali: poiché una notizia è un fatto che va oltre la normalità e che rappresenta una novità, il cane che morde il padrone non finirà in pagina, ma il padrone che morde il cane sì. Lo ricordano in questo volumetto le due autrici, giornaliste del quotidiano Avvenire, da anni impegnate nel realizzare l’originale e fortunato inserto bisettimanale di informazione per ragazzi Popotus. Il volume, arricchito dalle illustrazioni di Stefano Misesti, si rivolge a bambini e ragazzi, ma si presenta come uno strumento completo, utile e gradevole anche per genitori, educatori e insegnanti interessati a conoscere le professionalità e le competenze richieste per la realizzazione di un giornale, i tempi delle notizie, le dinamiche e i criteri della loro selezione. La prima parte del libro inizia e finisce in edicola e prende in esame la riunione di redazione, le fonti di


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cui si servono i giornalisti, la definizione del “timone”, cioè la scelta che assegna gli spazi ad ogni sezione, l’articolazione e il disegno grafico delle pagine, la “chiusura” e l’ultimo viaggio verso la tipografia. La seconda parte si sofferma invece sugli aspetti giuridici, grafici e linguistici del lavoro giornalistico, sul gergo delle redazioni (da bufala a coccodrillo, da occhiello a catenaccio, da spalla a civetta), sul ruolo delle fotografie e il potere delle immagini. Un’ampia appendice consente infine un excursus in altri media: periodici, televisione, radio e Internet. Ne risulta un volume che riesce a spiegare e ad illustrare concetti difficili in modo semplice, senza mai fare ricorso a banalizzazioni, ammiccamentì o scorciatoie. Rossana Sisti e Nicoletta Martinelli prendono sul serio i loro interlocutori e sono evidentemente abituate a considerarli curiosi e riflessivi. “L’utile per iscopo. il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”, cioè la formulazione più nota della poetica romantica manzoniana, trovano qui un’esemplare traduzione nella “saggistica per ragazzi” che, per il suo brillante rigore, è di grande efficacia e utilità anche per i lettori adulti. Roberto Alessandrini

SONIA CLARIS L’esperienza del pensare Guida teorico-pratica per la formazione di insegnanti e formatori FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 150. Evidente nel sottotitolo il campo d’indagine scelto e proposto dall’a.: il rapporto insegnamento-apprendimento considerato nella dimensione storica e aggiornato in una proposta innovativa. Il primo aspetto è trattato nei due capitoli iniziali, che esaminano rispettivamente doti e ruolo dell’insegnante e le filosofie che stanno alla base della teoria generale dell’educazione. Nuovo e stimolan-

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te l’argomento trattato nei due ultimi capitoli: le caratteristiche dell’insegnante -facilitatore del dialogo formativo e la formazione di insegnanti capaci di operare secondo i criteri che ne sono alla base. L’indagine storica svolta nelle prime due parti è utile a chiarire i rapporti che nel tempo si sono stabiliti, e sussistono tuttora, fra le tre componenti dell’insegnamento intenzionale: chi insegna, chi apprende, che cosa (e perché) si apprende. “È difficile per noi oggi annota in via preliminare l’a. - nella società tecnologica e multimediale dell’informazione veloce e presto obsoleta ricordare la basilare legge di conservazione delle conquiste accumulate con il tempo e le fatiche di quanti ci hanno preceduti”; ma è una premessa deontologicamente fondamentale, per capire il perché stesso dell’insegnamento. L’excursus nel mondo dell’educazione occidentale parte, è ovvio, dal mondo greco, quello omerico, che ha come matrice culturale l’areté: la virtù e la nobiltà dell’anima. Modelli sono i grandi uomini idealizzati del passato, di cui occorre imitare la forza fisica, il coraggio, il senso del dovere e dell’onore. È un’educazione che oggi definiremmo ‘informale’, perché realizzata per immersione nel mondo stesso degli adulti. Con l’avvento della democrazia, in Grecia l’insegnamento si estende ai cittadini educati alle arti liberali ed è soprattutto veicolata della parola, che diventa uno strumento per ottenere visibilità e potere nella vita pubblica. L’amore per il sapere - la filosofia - segue il cammino metodologico del dialogo, maieutico in quello socratico, ricco di risorse dialettiche in quello sofistico (che al vero, al bene, al bello unisce l’utile). Il medioevo crea le università, nelle quali il programma del maestro orienta e vincola la scelta dei discepoli. Nel Cinque-Seicento i collegia e le scuole dell’alfabetizzazione popolare recano la chiara impronta e l’organizzazione delle istituzioni religiose che li creano e li mantengono in vita. Dal Settecen-


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to si fa strada la centralizzazione statale: la cultura ed il relativo insegnamento obbediscono alla logica politica ed al potere economico di chi governa. Ben poco è cambiato in seguito: i programmi e, spesso, i metodi, hanno matrice e controllo statali: pesante handicap per i docenti e per i discenti, la cui libertà di pensiero e di autonomia culturale è drasticamente limitata. Vanno quindi riscoperti i valori etico-culturali di un dialogo che propone di pensare in modo globale ed euristico capace di affrancare i discenti dai condizionamenti politici ed economici, per condurli a scelte libere e liberanti. Prendendo spunto dal metodo inaugurato da M. Lipman negli anni ’70 del Novecento in America, noto con l’acronimo P4C (Philosophy for children), l’a. si chiede quali contributi esso possa fornire alla formazione dei docenti e al rinnovamento metodologico del fare scuola. Questo tipo di insegnamento “è un apprendistato cognitivo, è apprendimento collaborativo e insegnamento reciproco” (p. 54). Occorre saper sfruttare, in situazioni appositamente costruite, l’interazione sociale ed il potenziamento educativo che il metodo porta in sé, offrendo un modello, ma indicando anche i modelli dei compagni più esperti, monitorando la qualità delle discussioni. Nel quarto capitolo si offrono spunti e percorsi operativi: - un esempio di formazione in servizio; - proposte per attivare la riflessività nella comunità di ricerca (argomentare, ‘filosofare’, coltivare il ‘pensiero dialogico’); tracce per operare in attuazione degli approcci metodologici suggeriti (studio di un caso preso in esame, giochi di simulazione per la gestione di conflitti, applicazioni del cycle time, del cooperative learning, del brainstorming). Tutti strumenti intesi, conclude l’a., a fare dell’insegnante un ‘professionista riflessivo’.”Se sono in grado di riflettere sulle mie ed altrui idee e pensieri (di qualunque tipo) sintetizza - sarò anche in grado di riflettere sulle idee di educazione, di insegnamento, di apprendimento, di conoscenza, di alunno, di

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formazione, di sviluppo, di maturità, persona, didattica, metodologia, valutazione, ecc.” (p.145). Marco Paolantonio

GIULIA SAVARESE, ANTONIO JANNACCONE (a cura ) Educare alla diversità Uno strumento per insegnanti, psicologi ed operatori FrancoAngeli, Milano 2010, pp.128. L’incipit del primo capitolo dà il tono del volume. Evoca il sogno di Anna, maestra elementare, che si risveglia tutta sudata come da un incubo. “Cosa stavo sognando? Ero in classe e non c’era modo di capirsi poiché ogni allievo parlava una lingua diversa. Non si capivano tra loro. Loro non mi capivano e io non li capivo. E poi erano tutti vestiti in modo sorprendente e dissimile: c’erano bimbi con un turbante alto quasi quanto loro, altri abbigliati come piccoli guerrieri giapponesi, bambine avvolte in un funereo burqa nero, altre con indecenti jeans a brandelli… Io mi chiedevo ‘ma come farò in questa babele a insegnare qualcosa?’ Meno male che mi sono svegliata”.(p. 15). La scuola italiana aveva tentato di gestire a mala pena la diversità socio-economica delle classi (con risultati più o meno convincenti per i più; decisamente disastrosi per il don Milani di cinquant’anni fa), ma è alle prime armi nel gestire l’incalzante diversità etnica, culturale, religiosa e persino nel riconoscere le tradizionali diversità legate al genere, all’orientamento sessuale, alla disabilità. Parole come pregiudizio, stereotipo, discriminazione, frontiere culturali, violenza simbolica, ghettizzazione, minoranza, xenofobia sono entrate nel vocabolario quotidiano della pedagogia scolastica. Scopo del volume – vi collaborano mezza dozzina di specialisti – è di offrire una lettura delle differenze finalizzata


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a fornire suggerimenti educativo-didattici ad insegnanti e mediatori, a psicologi ed educatori. La parola d’ordine che fa da filo rosso a tutto il saggio è sempre integrazione. Integrare: a livello intrapersonale, sapendo gestire i processi psicologici che si verificano nell’orizzonte individuale; a livello interindividuale tra più individui disomogenei viventi in un determinato contesto; a livello posizionale per capire e conciliare ruoli e status di diverse categorie di individui; e infine a livello ideologico e assiologico, per gestire il sistema di credenze sociali condivise. In particolare per integrazione scolastica gli autori intendono un modello educativo centrato sulla prevenzione di condizioni di svantaggio e sulla valorizzazione delle potenzialità di ogni alunno, a prescindere dalla sua appartenenza etno-culturale. Condizioni essenziali per promuovere buone pratiche di integrazione sono il coinvolgimento corale di tutti dentro e fuori la scuola, la costanza con cui si dà e si riceve aiuto, la crescita ‘sinergica’ di alunni e insegnanti mediante lo sviluppo di corrette competenze relazionali e comunicative. Perno dell’impegno educativo rimane sempre la conoscenza – conoscere l’altro e insieme farsi conoscere dall’altro – perché la diversità spaventa quando la si ignora e, di conseguenza, porta istintivamente ad allontanarci dal diverso. Per secoli la scuola ha preteso inseguire l’ideale dell’uguaglianza (confondendola volentieri a volte con l’omogeneità livellatrice: stessa lingua per tutti oltre i dialetti, stessi comportamenti mimetici e rituali, stessi valori condivisi dalla collettività ma estrinseci spesso alla coscienza individuale…); oggi la stessa scuola è chiamata a una rivoluzione copernicana: deve imparare a sfruttare la diversità come chance, come risorsa, come sfida positiva, e non a combatterla o a negarla come fosse un intralcio al collaudato tran-tran quotidiano. L’ostacolo semmai è insito in un certo residuale habitus

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etico e mentale, di matrice etnocentrica, che impedisce a larghe frazioni della categoria docente di aprirsi proattivamente alla diversità, non solo per capirne le dimensioni, le espressioni, la morfologia ma anche per farne una molla potenziale per la crescita della persona e della società. Silvana Rita Allais

DAVID BERLINER et alii Transmettre Ed. Maison des Sciences de l’Homme – Ministère de la Culture et de la Communication, Paris 2010, pp. 152. Comment approcher cette réalité insaisissable qu’est la transmission? Où commence le transmettre? Peut-on le décrire en-train-dese-produire ou n’en relatera-t-on que les effets a posteriori? Décrire les phénomènes de transmission, c’est reconnaître que des concepts, des pratiques et des émotions du passé ne s’invitent pas d’eux-mêmes dans le présent, dans l’esprit et dans le corps de nos interlocuteurs. Et c’est se mettre en quête des longs processus par lesquels ces objets circulent entre les générations et sont recyclés par les acteurs qui les acquièrent. La métaphore unidirectionnelle de la communication entre un «récepteur» et un «receveur» trouve ici ses limites. Jean Lave nous a appris à user du concept de transmission avec prudence et à insister sur l’«agencéité» [agency] de celui qui apprend, toujours interprète actif de ce qui lui est transmis dans le cadre d’un apprentissage «situé». Montrer le faire-passer, c’est en effet parvenir à déployer une scène très complexe et à en traquer les médiateurs: les acteurs, les institutions, les gestes, les interactions, les lieux, les idéologies, les moments critiques, les odeurs, les textes, les silences, les temps ordinaires, les sons. les émotions, les objets et les technologies. Dans la durée, l’anthropologue spéciali-


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ste de la transmission cherche les médias, les contextes, les types d’acteurs, les processus mentaux, les interactions et les matérialités par lesquels une telle opération de passation est rendue possible. Il se place du point de vue de l’effectuation même des pratiques, dans le tissu concret des interactions sociales et des faits de communication mais aussi des processus cognitifs, et tente de déterminer comment des manières d’agir, de sentir ou de penser sont transmises et apprises. Qui transmet quoi? Dans quels réseaux de transmission, formes d’organisation et idéologies tel héritage s’est-il constitué? En résumé, comment on transmet et comment on reçoit? A partir de son ethnographie chez les Darkhads de Mongolie, Laurent Legrain entreprend de décrire une telle «chaîne de transmission». Pour expliquer la naissance de l’amour du chant, il met en lumière le dispositif socialisateur auquel participent activement parents et enfants et par lequel l’attention des enfants pour la musique devient, petit à petit, sensibilité musicale, une sensibilité qui porte certaines valeurs fondamentales de la société mongole contemporaine. Les enfants sont, de fait, des acteurs essentiels à prendre en compte dans l’analyse de cette chaîne. Dans sa contribution de type épidémiologique Olivier Morin s’intéresse à la stabilité de certaines traditions enfantines, des populations pourtant très fréquemment renouvelées, et se demande pourquoi les groupes d’enfants sont tellement aptes à la transmission culturelle, la plupart du temps sans l’aide directe des adultes. Ecartant les théories classiques sur la mémoire et la fidélité, Morin invoque la notion de « prolifération » pour expliquer une telle stabilité, soulignant combien certaines traditions donnent l’envie de les reproduire et sont ainsi faites pour proliférer. Alors que le vif succès des théories de la cognition dans notre discipline a contribué à reformuler des questions fondamentales sur la transmission (notamment en se demandant pourquoi des concepts ou des

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actions sont formellement plus transmissibles que d’autres), il ne faudrait pas non plus nous enfermer dans le «tout-bio» et oblitérer les dimensions expérientielle, charnelle, sociale, interactive du transmettre. La «transmission s’impose à nous […] par son caractère processuel et médiatisé», écrit le philosophe Régis Debray. Et exposer la chaîne de la transmission, c’est se donner les moyens de retracer ce processus complexe et ses médiations multiples. La transmission est «proto-mémorielle». A travers la langue, les actions, les gestes, les émotions, elle «se fait sans penser» et «agit les individus à leur insu». Mais surtout, ce paysage est mouvant, étant lui-même le résultat de processus historiques compliqués. David Berliner

COMITÉ EUROPÉEN D’EXPERTS Carrefours d’histoire européenne Perspectives multiples sur cinq moments de l’histoire de l’Europe Editions du Conseil de l’Europe, Strasbourg 2010, CD + livre, pp. 400. http://book.coe.int; publishing@coe.int. Comment l’enseignement scolaire de l’histoire peut-il contribuer à l’esprit de tolérance en ce qui concerne la promotion de différents points de vue, le respect de l’autre et le développement du jugement critique et autonome de futurs citoyens actifs au sein de sociétés démocratiques? C’est la question à laquelle a voulu répondre le Comité de l’éducation en lançant en 2002 le projet sur «la dimension européenne dans l’enseignement de l’histoire». La présente publication est une contribution à la mise en oeuvre d’une méthodologie basée sur la multi-perspectivité permettant aux enseignants de présenter dans leur pratique de nombreux exemples d’approches ainsi que différents points de vue ou conceptions d’un même moment de


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l’histoire récente de l’Europe. Cinq conférences ont été organisées depuis 2002, respectivement sur «1848 dans l’histoire européenne», «les guerres balkaniques de 1912-1913», «la recherche de la paix en 1919», «la fin de la seconde guerre mondiale et les débuts de la guerre froide en 1945» et «les événements et les développements de 1989-1990 en Europe centrale et orientale». Trente-cinq des contributions présentées à l’occasion de ces conférences par des historiens éminents de différents Etats membres du Conseil de l’Europe ont été reprises dans cet ouvrage. Susceptibles d’être complétées par d’autres documents à l’initiative des professeurs, ces contributions ne prétendent évidemment pas à l’exhaustivité ni du point de vue des Etats concernes ni par rapport aux diverses conceptions de l’histoire. Cet ouvrage permettra ainsi aux enseignants et aux élèves de replacer l’histoire régionale et nationale dans un contexte plus large, de développer leurs connaissances historiques, d’établir des relations dans le temps et dans l’espace, et de comparer des points de vue différents sur les mêmes événements et courants historiques (présentation par l’Éditeur).

MARIO CHIARAPINI I sacramenti della fede L’infinito tra noi EDB, Bologna 2010, pp. 142. Il titolo della presente opera è uno di quelli che d’impulso fanno sospirare: «e che altro c’è ancora da dire su questo argomento?». Ne sono consapevole. Tuttavia sono anche convinto che, pur non essendoci nulla di nuovo da dire sul tema, si possano ancora riscoprire in modo nuovo tanti aspetti interessanti. Sì, perché ciò che viene trattato è talmente importante che richiede di essere continuamente riscoperto. La novità consiste nella fame e sete di Dio avvertite dall’ uomo

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di oggi. Per questa ragione ogni mia riflessione sui sacramenti inizia sempre dalla constatazione della realtà in cui viviamo e dalla considerazione che di essi ha la società attuale. Sulle strade della vita, a chi ci si può rivolgere per avere un aiuto? Impastati come siamo di materia, abbiamo ancora la possibilità di sollevarci e di respirare l’infinito e l’eterno? In una società come la nostra, erede di quella che, qualche decennio fa, aveva dichiarato la morte di Dio, le esigenze dello spirito, stranamente, si fanno di nuovo sentire. Una nuova ansia spirituale e un vago desiderio di trascendenza si avvertono un po’ ovunque; qua e là pare di assistere a un risveglio religioso che esprime il bisogno di imprimere una spinta esistenziale a superare la realtà in cui si è immersi. A detta di qualcuno, l’ansia del sacro - che per Mircea Eliade è elemento strutturale della coscienza e non una fase della sua storia - non è venuta mai meno. Alla religione si rimprovera la mancanza di risposte alle domande di senso; per questa ragione la ricerca per appagare la sete di speranza si volge altrove […]. I giovani, che con stupore si affacciano alla vita, non avendone ancora provato il disincanto e la delusione, sentono meno il bisogno di cercare altrove la risposta alle esigenze dello spirito. Molti si dichiarano credenti, ma senza che la fede li coinvolga più di tanto in un serio impegno comportamentale, e meno ancora con l’appartenenza alla Chiesa istituzionale. In Italia si diventa ancora cristiani per tradizione famigliare, ma tale prassi non necessariamente coincide con l’essere credenti. La fede ereditata non sempre viene personalizzata. Spesso, nel comportamento di molti cristiani, si avvertono una profonda dicotomia tra la fede e la vita e una totale mancanza di coinvolgimento nella comunità cristiana. Sono convinto che, nonostante il secolarismo e il materialismo di cui trasuda la società attuale, la domanda religiosa dei giovani è


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tuttavia ancora molto forte; la loro apparente indifferenza nasconde in realtà una profonda nostalgia di Dio e un urgente bisogno di trovare delle risposte convincenti ai grossi problemi che sono chiamati ad affrontare, perché il vuoto di Dio li ha lasciati disorientati e orfani. Dedico queste pagine a mia nipote Elèni e ai ragazzi e ragazze della stessa età, che vivono la crisi spirituale tipica della adolescenza e sperimentano il rigetto della pratica religiosa e della vita sacramentale, anche perché imbottiti di pregiudizi e di luoghi comuni nei confronti della Chiesa e della religione. L’argomento dei sacramenti è sicuramente arduo, fuori moda, lontano anni luce dagli interessi della maggior parte dei giovani di oggi; e tuttavia è importante perché va al cuore della nostra religione. I sacramenti -

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secondo la Sacrosanctum concilium, 59 sono la via ordinaria con cui ci giunge la salvezza. Sono anche effettivi strumenti di liberazione e di felicità e sottolineano le tappe più importanti della vita del credente. La stessa Chiesa è sacramento, cioè segno e strumento di salvezza. È attraverso i sacramenti che Dio cammina con noi sulle strade della vita e ci parla con il linguaggio dei segni per farsi comprendere. Catechisti e insegnanti di religione incontrano oggi più che in passato notevoli difficoltà nel presentare i sacramenti, soprattutto quando si tratta di restituire a questi un significato vitale che non sia solo di pura formalità, un rito residuale da ‘religione civile degli italiani’. Il sussidio si propone di offrire spunti e contenuti utili a facilitarli in questo compito. (dalla presentazione dell’A.).


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RICEVIAMO E SEGNALIAMO

Novità librarie Peter BERGER, Grace DAVIE, Effie FOKAS, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 216, e 18,50. ISBN 978-88-15-13754-8. Giancarla CODRIGNANI, Ottanta, gli anni di una politica, Servitium editrice, Milano 2010, pp. 221, e 16,00. ISBN 978-888166-323-1. Edu-CARE. Lasalliani alla prova. Atti del XIII Corso di Formazione lasalliana, Montebello di Perugia 1-3 luglio 2010, stampa in proprio, Roma 2010, pp. 146. Damiano FELINI, La città dei nomi comuni. L’epistemologia pedagogica di Sergio De Giacinto (1921-1989), “Testi e Studi” 234, Edizioni Unicopli, Milano 2010, pp. 192. ISBN 978-88-400-1448-7. Enrico NORELLI, Claudio GIANOTTO, Flavio G. NUVOLONE, Eric NOFFKE, Gli apocrifi del Nuovo Testamento e le origini cristiane: possibilità, difficoltà, chiarificazioni, monografia di “Parola & parole” della Ass. biblica della Svizzera italiana (ABSI: assbiblica@ bluewin.ch), Lugano 2008, pp. 96, CHF 8,00/e 5,00. Martha C. NUSSBAUM, Libertà di coscienza e religione, il Mulino, Bologna 2009, pp. 84, e 10,00. ISBN 978-88-15-13277-2. Thaddeus OSTROWSKI, Robert SMITH fsc, Primary Sources Readingd in Christian Morality, Saint Mary’s Press, Winona 2008, pp. 242, $ 11,95. ISBN 978-0-88489-989-1.

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Álvaro RODRÍGUEZ ECHEVERRÍA, Consacrati dal Dio Trinità, come comunità profetica di Fratelli appassionati di Dio e dei poveri, FSC, Roma Natale 2010, pp. 64. Anthony ROGERS FSC, The Faces of Joy and Hope in Asia, FABC-Office of Human Development, Manila 2010, pp. 464. ISBN 978-971-93762-2-4. Giulia SAVARESE, Antonio JANNACCONE (eds.), Educare alla diversità. Uno strumento per insegnanti, psicologi ed operatori, F.Angeli, Milano 2010, pp. 128, e 17,00. ISBN 978-88-568-2524-4. Piero STEFANI (ed.), Quando i cristiani erano ebrei, I Libri di Biblia n.5, Morcelliana, Brescia 2010, pp.228, e 16,50. ISBN 978-88-372-2395-3. Martina SUBACCHI, Sacro/Santo. Una categoria in prospettiva ontologico-analogica, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2010, pp. 344, e 36,00. ISBN 978-887094-772-4.

Dalle riviste in cambio Adolescenti e giovani. Interpretazioni del disagio e proposte educative, monografia di “Orientamenti Pedagogici” 5/2010, 789-1016. Asian Christians in the First Millennium, lezioni in università asiatiche di Ermis Segatti, “Archivio Teologico Torinese” 1/2010, 91-127. Atei: di quale Dio?, a cura di Solange Lefebvre, Andrés Torres Queiruga, M. Clara Bingemer, “Concilium. Rivista internaz. di teologia” 4/2010, 621-717. I barbari e la memoria. L’incombente mancanza di connessioni tra ieri e oggi, dossier


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con contributi di Anna O. Ferraris, Raffaele Mantegazza, Alessandro Cafieri, Nicola Altieri, Giuseppe Magistrali, Paola C. Marangon, “Conflitti. Ricerca e formazione psicopedagogica”, 4/2010, 6-20.

“il Mulino” 6/2010, 1056-10-65.

Cattolici nell’Italia di oggi. 46.ma Settimana Sociale, dossier a cura di Ilaria Vellani, “Dialoghi” 3/2010, 12-63.

Intervención familiar en el ámbito escolar: algunas herramientas para el análisis de la realidad, por Teresa de Jesús González Barbero, “Indivisa. Boletín de Estudios e investigación” del Centro Universitario LaSalle, Madrid, n. 11, 2010, 11-23.

Se copiare in classe non stupisce più, di Marcello Dei, “il Mulino” 6/2010, 939- 948. Darwinismo oggi: tra religioni, esegesi biblica e teologia, Atti del convegno 2009 della Facoltà valdese di teologia, “Protestantesimo” 1/2010, 1-68. Los desafíos del pluralismo religioso en búsqueda de una convergencia de valores, di J. Silvio Botero, “Religión y Cultura”, abrilseptiembre 2010, nn. 253-254, 453-478. Emergenza educativa. Educare: come? Unità dell’educazione, libertà di insegnamento, carità intellettuale, monografico di “Rivista Rosminiana” 2-3/2010, 103-310. Les enjeux actuels des relations entre juifs et chrétiens. La différence en partage, par JeanMarc Aveline, «Études» octobre 2010, 355-366. Gesù Cristo e l’uomo: il caso serio della libertà, fascicolo monografico di “Teologia. Rivista della facoltà teologica dell’Italia settentrionale” 3/2010, 323-504, con contributi di Duilio Albarello, Giuseppe Angelini, Maurizio Chiodi, Giuseppe Noberasco, G. Cesare Pagazzi, Giovanni Trabucco, Sergio Ubbiali. Giovani e scelte di vita – Giovani e futuro, di Luciano Luppe e Armando Matteo, “Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione” 1/2010, 131-168. A proposito di laicità, di Umberto Paniccia,

L’insegnamento laico del fatto religioso in Francia, di Flavio Pajer, “Pedagogia e vita” n. 3-4/2010, 14-37.

Livelli psicologici della comunicazione della fede, di Stefano Guarinelli, “La Scuola Cattolica” 3/2010, 373-395. Pluralismo, cultura e intercultura: “diventeremo tutti barbari?”, Simposio della Facoltà Teologica del Triveneto, a cura di Giuseppe Trentin, “Studia Patavina” 2/2010, 453-512. La religione visibile. Il pentecostalismo alla conquista del mondo, di Enzo Pace, rivista “il Mulino” 5/2010, 816-823. La teologia morale italiana dal concilio Vaticano II a oggi, di Basilio Petrà, “Rivista di Teologia morale” 2/2010, 165-180. La tratta degli esseri umani. Un fenomeno vicino e dai molti volti, monografia a cura di Stefania Lorenzini e Nadia Bonora, “Educazione interculturale” 3/2010, 291-412. Urgenza di educare ed “emergenze religiose”, dossier monografico di “Itinerarium” 1/2010, 9-78. Vangelo e catechismo, di Bruno Seveso, “Teologia. Rivista della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale” 1/2010, 87-113. La violence scolaire et la guerre des signes, «Études» octobre 1/2010, 319-330.


Actualidades Pedagógicas Publicación de la Universidad La Salle, Bogotá, Facultad de Ciencias de la Educación Sumario del n. 55 / 2010

Estilos de enseñanza, estilos de aprendizaje * La noción general de estilo en la educación: pertinencia, importancia y especificidad Christian Hederich * Una mirada integral al estilo de enseñanza Ángela Camargo * Estilos de enseñanza y estilos de aprendizaje: implicaciones para la educación Paulo Emilio Oviedo, Fidel Antonio Cárdenas, Margarita Rendón * Estilos cognitivos, de aprendizaje y de enseñanza: unas relaciones controvertidas Pedro Nel Zapata * Dirigir y tutorar proyectos de investigación en estilos de aprendizaje, cognitivos y de enseñanza en la Maestría en Docencia de la Universidad de La Salle Paulo Oviedo * Homo politicus: una lectura teológica de la dimensión política del ser humano desde el pensamiento de R. Panikkar José Luis Meza Rueda * Impacto de las prácticas de política educacional para mejorar la calidad de la educación en América Latina y el Caribe Aurora Cardona * Sentido de la educación política: juicio moral, ciudadanía, deliberación A. Buitrago * Educación en Derechos Humanos. Consideraciones para su comprensión en el panorama histórico actual Andrés Arguello Parra * Sociedad global, educación y restablecimiento del vínculo social Daniel L. Flórez * Autoconocimiento del estilo de enseñanza y del saber pedagógico para mejorar las prácticas docentes Gladys Cárdenas, Myriam Cuan * Concepciones y prácticas de organización espaciotemporal y la enseñanza en el aula Elsy Prada Romero Universidad La Salle • Carrera 5 B 59ª • Chapinero, Bogotá • Colombia http://publicaciones.lasalle.edu.co


CONHECIMENTO & DIVERSIDADE Publicação semestral dos Institutos Superiores La Salle. N. 3 - Janeiro a Junho de 2010

Política e diversidade * Robson de Oliveira Silva, Origens do Science Studies: política e interdisciplinaridade na constitução do movimento * Dirléia Fanfa Sarmento, Paulo Fossatti, Vera Lúcia Ramirez, Políticas e práticas de formaçao continuada: educação superior em foco * Wallace dos Santos de Moraes, República velha: trabalho faz greves. Estado e capital recuam nas premissa liberais * Wendel Freire, Metodologias em representações sociais aplicadas ao estudio de programas de jornal na educação * Ronaldo Rosas Reis, O abandono da totalidade e a distopia da diversidade * Cynthia Ganote, Integrating critical pedagogy, feminist pedagogy, and standpoint theory: connecting classroom learning with democratic citizenship * Tânia Mara Pedroso Müller, A consolidação da profissão docente no Brasil: uma retrospectiva * Rafael Berkenbrock, Gestão de escolas confessionais católicas frente à nova Lei da Filantropía Institutos Superiores La Salle-RJ • Niteroj - Rio de Janeiro • Brasil http://www.lasallerj.org/publicacoes.php


SINITE Revista de Pedagogía Religiosa La Salle Centro Universitário, Área de Ciências de la Religión Instituto Superior de Ciências Religiosas y catequéticas «San Pío X» volumen 51, números 154-155, Mayo-Diciembre 2010, pp. 213-640

50 años de la revista «Sinite» Presentación, José María Pérez Navarro Los primeros cincuenta años de la revista «Sinite», Teódulo García Regidor El futuro de la escuela cristiana, Álvaro Rodríguez Echeverría La enseñanza de la religión en Europa en los últimos 50 años, Flavio Pajer Cincuenta años de enseñanza de la religión en España, Carlos Esteban El futuro de la enseñanza de la religión en España, Rafael Artacho Una década crucial para la historia de la catequesis en España, Álvaro Ginel Los treinta primeros años. Nuevos retos en catequesis, André Fossion 50 años, 1156 artículos, 509 autores, José María Pérez Navarro

ACONTECIMIENTOS - CRÓNICAS La conciencia de ser simplemente cristianos, Juan Pablo García Maestro Conferencia Internacional de Catecumenado, José María Pérez Navarro IX Jornadas Inter-diocesanas de catequesis, Ricardo Mateo La dimensión narrativa de la catequesis, Antonio Alcedo BIBLIOGRAFÍA - ÍNDICE DEL VOLUMEN LI

*** La Salle Campus – C/La Salle, 10 – E-28023 MADRID – tel. 917 401 980 almudenag@lasallecampus.es


Revista Digital de Investigación Lasaliana http://revista_roma.delasalle.edu.mx/actual.php?lan=es Revista Digital de Investigación Lasaliana es una publicación semestral on line. Tiene como objetivo la difusión de artículos de investigación, ensayos, documentos, reseñas de libros y eventos para los Lasalianos y, en genera!, para todos aquellos que están comprometidos en la educación humana y cristiana de los niños, jóvenes y adultos alrededor del mundo. Siendo un instrumento nacido en el mundo lasaliano, se enfoca en todos aquellos ternas que giran en torno a la reflexión pedagógica, la acción educativa, la animación pastoral, la formación de maestros, el pensamiento lasaliano de los orígenes y, en general, todas las perspectivas que ayuden a ampliar la visión de lo que implica hoy educar desde un horizonte de valores cristianos y particularmente al estilo lasaliano. Así como Juan Bautista de La Salle y los primeros Hermanos reflexionaron juntos*** para consolidar la obra de las escuelas, nosotros queremos poner en común también nuestras inquietudes para impulsar una reflexión y, sobre todo, una acción educativa cada vez más coherente con las exigencias de un mundo en cambio. Esta Revista es un instrumento dentro de esa búsqueda. Año 1 ( 2010), N° 1 ALAIN HOURY, 50 años, y más, de Estudios lasalianos: crónica y perspectivas, propone un recorrido histórico que recoge criterios, cuestionamientos y tendencias indispensables para entender nuestro hoy y aquí en la Investigación Lasaliana. EDGARD HENGEMÜLE, Asociación: preguntas fundamentales, llama la atención a ele-mentos esenciales de la asociación lasaliana, como una invitación a debatir, frente a la riqueza de la reflexión producida en esta última década en el Instituto FSC. SANTIAGO RODRÍGUEZ, Apostillas teológicas sobre el voto de asociación para el servicio educativo de los pobres, enriquece esta discusión, pero desde un planteamiento teológico, trabajado desde la perspectiva critica. MARC SOMÉ, Punto de vista de la asociación lasaliana de África del Oeste: una lectura de la asociación lasaliana desde el contexto africano. Su aporte ayuda a tomar conciencia de un Instituto diverso, que se expresa cultural mente desde otras claves de lectura. DIEGO MUÑOZ, Cómo los Lasalianos comprenden la asociación desde su experiencia personal, reporta un estudio de testimonios de Hermanos y Laicos lasalianos de la Región Latinoamericana Lasallista, trabajados a partir del análisis proposicional. *** El Editor: «Querernos invitarles a participar en el Foro de nuestra Revista, porque consideramos que el conocimiento científico realmente cumple su función cuando una comunidad se asocia para reflexionar y transformar su realidad. Les convidamos a participar en el próximo Número de la Revista. Proponemos como tema: Familia Lasaliana y asociación para el servicio educativo de los pobres. Gracias por su apoyo y colaboración.» Contact: digitaljournal@lasalle.org




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Rivista lasalliana Direzione e redazione: 00165 Roma - Via Aurelia, 476 Amministrazione: 10131 Torino - Strada Santa Margherita, 132

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ISSN 1826-2155

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trimestrale di cultura e formazione pedagogica

✓ La catechesi battesimale di san Giovanni Crisostomo ✓ Gli Ebrei e la scuola italiana tra Otto e Novecento ✓ Tolstoj educatore tra crisi religiosa e pedagogia familiare ✓ Nuove chiese evangeliche: quale valutazione pastorale? ✓ Pensare per insegnare: come gli insegnanti in situazione pensano la propria esperienza ✓ Come le scuole lasalliane in Spagna affrontano la diversità religiosa ✓ Il passaggio alla gestione laicale delle scuole libere: problemi e soluzioni dal contesto nordamericano ✓ La Salle e la sfida educativa del suo tempo ✓ F. Agilberto Gatti nel rinnovamento catechistico del ‘900

GENNAIO-MARZO 2011 • ANNO 78 - 1 (309)


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