Rivista lasalliana 2-2009

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Rivista lasalliana

Trimestrale di cultura e formazione pedagogica anno 76, n. 2, aprile-giugno 2009


RL

Rivista lasalliana, pubblicazione trimestrale di cultura e formazione pedagogica, si ispira alla tradizione educativa di Jean-Baptiste de La Salle e delle Scuole cristiane da lui fondate. Affronta il problema educativo in un’ottica prevalentemente scolastica, in particolare in area italiana ed europea, offrendo strumenti di lettura valutativa dei contesti culturali e stimoli orientativi all’esercizio della professione docente. Promuove studi sulle Fonti lasalliane e aggiorna su ricerche in corso, avvalendosi della collaborazione di un gruppo internazionale di consulenti. E’ redatta da un comitato di Lasalliani e di altri esperti in scienze umane, pedagogiche e religiose operanti con ruoli di ricerca, docenza e formazione in istituzioni scolastiche e universitarie della Regione Euro-Mediterranea. Rivista lasalliana trimestrale fondato in Torino nel 1934 anno 76, n. 2, aprile-giugno 2009 Direzione e redazione Rivista lasalliana, Via Aurelia 476, 00165 Roma fpajer@lasalle.org – telefoni: 06 66523305 – 06 665231 Riviste in cambio e libri in recensione: Rivista lasalliana, Casella Postale 9099, 00167 Roma Gruppo redazionale Mario Chiarapini, Gabriele Di Giovanni, Flavio Pajer Marco Paolantonio, Nicolò Pisanu, hMario Presciuttini, Roberto Zappalà Comitato scientifico Emilio Butturini (Verona), Robert Comte (Lyon), Sergio De Carli (Varese), Lluís Diumenge (Barcellona), Mario Ferrari (Pavia), Teódulo García Regidor (Madrid), Pedro Gil L.(Bilbao), Edgard Hengemüle (Porto Alegre), Herman Lombaerts (Leuven), Vito Moccia (Torino), José M. Pérez Navarro (Madrid), Lino Prenna (Perugia), Gerard Rummery (Australia), Jean-Louis Schneider (Lyon), Lorenzo Tébar Belmonte (Paris). Amministrazione Editore: Associazione culturale lasalliana: Elio Pomatto, Viale del Vignola 56, 00196 Roma gabriele.pomatto@gmail.com – telefoni 06 32294503 – 3471033855 – fax 06 3236047 Abbonamenti Ordinario in Italia (4 numeri trimestrali da Gennaio a Dicembre 2009) € 24.00 - Riservato ai Docenti lasalliani € 12.00 - Sostenitore € 50.00 - Estero € 30.00 ($ 36) - Un numero separato € 7.00, arretrato € 8.00 Conto corrente postale n. 12378113 intestato a ACL Associazione culturale lasalliana Composizione, stampa, spedizione Graphisoft, Via Labicana 29, 00184 Roma – tel.067001450 – fax 0677255402 www.graphisoft.it - info@graphisoft.it – M. Proetto art director Registrazione Tribunale di Torino 26.01.1949 n.353 -Tribunale di Roma 12.06.2007 n.233 Direttore responsabile Flavio Pajer Periodico associato all’USPI, Unione Stampa Periodica Italiana ISSN 1826-2155 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 (convertito in L 27.02.2004 n.46) art.1 comma 2.


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Mario Presciuttini, FSC Montefiascone 1942 – Roma 2009 Collaboratore di Rivista lasalliana fin dal 1970, e membro permanente del Gruppo redazionale dal 1979, vi ha firmato circa una quarantina di articoli, tra cui una dozzina di studi specificamente lasalliani, compresa la recente ricostruzione bibliografica consuntiva del 75° anno della Rivista, sua ultima fatica. Docente di metodologia catechetica in istituti superiori di scienze religiose, redattore capo per oltre un ventennio della rivista consorella Sussidi per la catechesi e l’insegnamento della religione, organizzatore di curricoli di qualificazione del personale docente, consulente presso gli uffici pastorali della Conferenza episcopale italiana, ha contribuito a promuovere a livello nazionale lo studio e la pratica della pedagogia religiosa nella sua declinazione lasalliana. Il suo raggio d’azione stava per ampliarsi a dimensione internazionale in seguito all’incarico, appena ricevuto nell’autunno 2008, di animare il neonato ufficio centrale di “Ricerche e risorse lasalliane”. Rivista lasalliana fa memoria del suo fedele Collaboratore, e ne affida il competente insegnamento a quanti, sulla scia del La Salle, operano nell’educazione dei giovani e nella formazione dei loro educatori.

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2009, n. 2 (302) RICERCHE E STUDI 185 Francesco Trisoglio, L’unica catechesi battesimale ‘parlata’: il De Sacramentis di sant’Ambrogio 199 Emilio Butturini, La Dichiarazione universale dei diritti umani. Un

operoso dialogo tra istanze religiose e ‘laiche’ lungo i secoli

207 Nicolò Pisanu, Dipendenze in Italia:dall’emergenza alla pandemia 221 Hilaire Raharilalao, Eglise et Fihavanana dans le contexte malga-

che marqué par la mondialisation et la fracture sociale

233 Patrizia Moretti, Una pastorale rinnovata nel segno dell’educativo

La prospettiva dell’educazione permanente (1) PROFESSIONE DOCENTE

249 Lorenzo Tébar Belmonte, ¿Por qué no creamos otra escuela para 253 265 281 291

construir un futuro mejor? Lluís Diumenge, Etica per educatori. Un minilessico: Educazione - Famiglia - Relazione/amicizia - Religione Marco Paolantonio, Autoanalisi e autovalutazione del docente Roberto Alessandrini, Credere di capirsi. Errori, malintesi linguistici e incomprensioni Anna Lucchiari, Ricordando Massimo Baldini LASALLIANA

297 Assunta Di Sante, La Scuola di disegno e lo Studio Pontificio

delle Arti a San Salvatore in Lauro

309 Luigi R. Guidi, Una città e i suoi maestri 327 Herman Lombaerts, La spiritualité de J.-B. de La Salle au 21e

siècle: Dieu présent, l’inoubliable

341 Cronache dal mondo lasalliano

BIBLIOTECA 349 Francesco Pistoia, Michele Federico Sciacca nel centenario della

nascita – Attualità educativa del Rosmini

Recensioni e segnalazioni - Libri pervenuti


Sommario FRANCESCO TRISOGLIO

185-198

L’unica catechesi battesimale ‘parlata’: il De Sacramentis di sant’Ambrogio –

Sei sermoni per spiegare ai neobattezzati il senso spirituale e il rituale liturgico del battesimo e della eucaristia, e per commentare il Pater. La voce del grande vescovo di Milano quasi in presa diretta, nella spontanea immediatezza del dialogo con i neofiti. Una parola che si fa eco della Parola, un Ambrogio maestro di sapiente esegesi biblica e di coerente scavo teologico.

EMILIO BUTTURINI

199-205

La Dichiarazione universale dei diritti umani. Un operoso dialogo tra istanze religiose e ‘laiche’ lungo i secoli – La genesi storica della definizione dei diritti umani ha visto da almeno tre secoli in Occidente lo scontro-incontro tra opposte visioni della persona e tra diversi sistemi di significato, religiosi e non. Il contenzioso aperto in passato tra istanze religiose e istanze filosofiche, oggi in via di ricomposizione sul piano dei comuni valori democratici, rischia di riaccendersi polemicamente sul fronte delle diversità etnico-religiose.

NICOLO’ PISANU

207-220

Dipendenze in Italia. Dall’emergenza alla pandemia – A partire dai dati, quanto meno allarmanti ma inoppugnabili, offerti dall’ultimo Rapporto nazionale sull’entità statistica delle dipendenze giovanili, l’a. puntualizza le ragioni e le conseguenze della crescente inarrestabile deriva di giovani e giovanissimi verso l’uso e l’abuso di liquori, tabacco, droghe, giochi, spettacoli…, e affida quindi alle responsabilità della famiglia, della scuola, dei media, nonché ai rappresentanti titolari del potere legislativo e giudiziario, una serie di consegne terapeutiche e operative per prevenire, arginare e sanare quel “mal di vivere” che sembra assurgere a figura di reale pandemia nelle nuove generazioni.

HILAIRE RAHARILALAO

221-232

Eglise et Fihavanana dans le contexte malgache marqué par la mondialisation et la fracture sociale – Anche in Madagascar l’implantatio ecclesiae ha dovuto far i conti con la cultura nativa, che è quel sostrato antropologico costitutivo dell’identità secolare di un popolo. Oggi ancora il vangelo entra doverosamente in dialogo con un contesto connotato dalle culture ancestrali come dalle congiunture postmoderne. Resta imprescindibile il discernimento dei semina Verbi, come anche si impone quale criterio prioritario di ecclesiologia quello di una Chiesa-famiglia di preferenza a quello della Chiesa-istituzione, di matrice occidentale. Sintesi di un più ampio saggio di teologia indigena dell’inculturazione, condotto in chiave ermeneutica.

PATRIZIA MORETTI

233-248

Una pastorale rinnovata nel segno dell’educativo. La prospettiva dell’educa zione permanente (parte1) – A una domanda di educazione che cresce dalle società in crisi di valori e in deficit di conoscenze una delle risposte più pertinenti e vincenti sembra sia finora quella offerta dal sistema dell’educazione permanente, e quindi dell’educazione attualizzata degli adulti. Da oltre cinquant’anni il modello ha attirato l’attenzione degli organismi internazionali, che hanno promosso campagne di sensibilizzazione e attivato progetti a vari livelli. Anche il sistema educativo italiano si è inserito nel movimento dell’educazione permanente coinvolgendo università e scuole, enti pubblici e centri privati. Su questo sfondo di un concetto di educazione quantitativamente e qualitativamente in progressione, può inserirsi – sostiene


l’A. – un salutare e creativo ripensamento anche del profilo cristiano dell’educazione, e quindi della complessiva azione pastorale dei soggetti ecclesiali.

LORENZO TEBAR BELMONTE

249-252

¿Por qué no creamos otra escuela para construir un futuro mejor ? – Niente di meglio, in tempo i crisi, che abbandonare i sentieri abusati che non portano più da nessuna parte e mettersi a riprogettare il futuro. La scuola, per esempio: che volto assumerebbe se si avesse coraggio e realismo sufficienti per tentare la ‘via stretta’ di una educazione scolastica responsabilmente alternativa?

LLUIS DIUMENGE

253-264

Etica per educatori. Un minilessico (2):Educazione, Famiglia, Relazione/Amicizia, Religione – A seguito della prima puntata, il servizio di rivisitazione lessicale continua con un secondo grappolo di parole chiave idonee a ripensare oggi la responsabilità etica degli educatori impegnati con giovani e adulti. Il taglio è familiare e divulgativo, volutamente discorsivo, ma la riflessione porta decisamente sui “fondamentali” del vivere personale, sociale, ecclesiale.

MARCO PAOLANTONIO

265-280

Autoanalisi e autovalutazione del docente – In base al quadro convenuto dei tre livelli di abilità educative richieste oggi al docente e alla declinazione delle rispettive competenzechiave, vengono esplicitati i contenuti e le procedure dei vari momenti didattici e vengono offerti opportuni strumenti esemplificativi per un’autoanalisi, che vuol essere tendenzialmente ‘obiettiva’, del comportamento personale e professionale del docente.

ROBERTO ALESSANDRINI

281-289

Credere di capirsi. Errori, malintesi linguistici e incomprensioni – I malintesi linguistici sono ostacoli ricorrenti non solo nella comunicazione quotidiana ma anche nelle ricerche scientifiche di etnologi e antropologi. Di malintesi linguistici sono popolati i ricordi autobiografici di scrittori e dei professionisti della parola in genere. La religiosità popolare è inconsapevole veicolo di memorabili esilaranti qui pro quo sul latino liturgico. Anche l’ultima arrivata, la scrittura internet, ha tutte le premesse per incappare in incresciosi infortuni….

ANNA LUCCHIARI

291-294

ASSUNTA DI SANTE

297-308

Ricordando Massimo Baldini – Rievocazione, a tratti autobiografica, della figura del filosofo credente, prematuramente scomparso (1947-2008), esperto di mistica cristiana, studioso delle utopie storiche e docente di semiotica dei linguaggi specialistici. Con una riflessione supplementare sulla saggia eloquenza del silenzio. La Scuola di disegno e lo Studio Pontificio delle Arti a San Salvatore in Lauro Il saggio ricostruisce gli antecedenti storici della istituzione - presso la scuola lasalliana di San Salvatore in Lauro in Roma - di una Scuola di disegno voluta da Pio VI Braschi (1794), sostenuta economicamente dalla Fabbrica di San Pietro, seguita poi dalla nascita dello Studio pontificio delle Arti, e dipana le vicende che portarono alla sofferta estinzione della Scuola di disegno, soppiantata praticamente dalle nascenti scuole a vocazione accademica. Un tentativo storico, unico nel suo genere agli albori dell’Ottocento, di raccordare manualità tecnica e insegnamento scientifico, pratica artistica e campo dei mestieri e delle scienze applicate.


REMO L. GUIDI

309-325

Una città e i suoi maestri – I centosettant’anni di ininterrotta presenza educativa dei Lasalliani in una città emblema come Parma offrono alla curiosità dello storico l’occasione di comporre un mosaico policromo in cui si intrecciano echi di storia e episodi di cronaca, figure popolane e personaggi curiali, sindaci guardinghi e prelati gelosi, in un misto di ideali medioborghesi filtrati dalle ansie educative che trapelano dalle aule di una scuola operosa, dedita solo a formare generazioni di uomini credenti e insieme di cittadini responsabili.

HERMAN LOMBAERTS

327-339

La spiritualité de J.-B. de La Salle au 21è siècle: Dieu présent, l’inoubliable –

Quale portata reale può ancora avere quella spiritualità esigente che La Salle aveva posto come tratto distintivo dell’educatore cristiano del suo tempo? L’a. si propone di riallacciare l’odierna cultura secolarizzata, ma tutt’altro che a-religiosa, con l’intuizione fondatrice di tre secoli fa, riesplorando le radici premoderne della mistica cristiana e le consonanze con quella buddhista, rileggendo gli autori spirituali coevi al La Salle e soprattutto captando non poche singolari sintonie che la spiritualità lasalliana potrebbe rinvenire in certi tratti inattesi dell’antropologia del nostro tempo e nel suo potenziale spirituale, da discernere e valorizzare.

Cronache dal mondo lasalliano

QUEBEC. L’informatisation des Manuels scolaires lasalliens ROMA. 1959-2009: i Cahiers lasalliens compiono 50 anni MADRID. El nuevo Centro Universitario LaSalle HOLY LAND. The Cardinal Martini Leadership Institute BRASILE. La nuova rivista «Conhecimento e Diversidade» di Uni-LaSalle RELEM. Paul Griéger, FSC (1916-2009), studioso dell’uomo e dei popoli.

341-348


RICERCHE E STUDI

RivLas 76 (2009) 2, 185-198

La catechesi dei Padri della Chiesa / 5

L'unica catechesi battesimale 'parlata': il De Sacramentis di sant'Ambrogio Francesco Trisoglio, fsc un'interessante originalità: gli altri trattatisti ci hanno lasciato una relazione rielaborata, sistematizzata, delle loro omelie per catecumeni e neofiti; qui Ambrogio ci fa sentire la sua voce 'in diretta'. Il De Sacramentis1 consta di sei sermoni che, pronunciati durante la settimana di Pasqua, spiegano ai neobattezzati i sacramenti del battesimo e dell'eucaristia e le cerimonie con cui vengono amministrati, inoltre commentano il Pater.

È

I

La composizione e l'autenticità - L'opera presenta, per contenuti e formulazione, una spiccata rassomiglianza con il De Mysteriis [Myst], il quale è però un trattato, e più succinto. Se lo scopo e lo spirito sono identici, diverso è lo stile, per cui, a cominciare dal secolo XVI, si mise in dubbio l'autenticità ambrosiana del De Sacramentis

1 L'edizione usata è quella di O. Faller in CSEL LXXIII, Vienna 1955 - J. Huhn, Die Bedeutung des Wortes sacramentum bei dem Kirchenvater Ambrosius, Fulda 1928, pp.108, redige

un elenco completo dei significati che la parola riveste, nella sua accezione militare e nell'iniziazione battesimale, in riferimento alla lavanda dei piedi, all'Eucaristia, alla penitenza, al matrimonio; ne osserva il significato nell'Antico Testamento, il valore di simbolo e di verità o cosa salvifica, la designazione dell'Incarnazione e Passione di Cristo, la connessione con la Chiesa e con la grazia divina.


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Francesco Trisoglio

[Sacr], considerandone con fastidio la stesura. Un mutamento di valutazione avvenne alla fine del secolo XIX, quando F. Probst (1893) vi vide una redazione stenografica dei discorsi pronunciati da Ambrogio, il quale non li destinò alla pubblicazione; l'ipotesi fu ribadita da Dom G. Morin (nel 1894 e ancora nel 1928); a sostegno venne O. Faller (1929). L'autenticità ambrosiana fu poi assodata da Faller (1940) e da R. H. Connolly (1942)2. O. Faller3 afferma che il Sacr per la sua divisione in sei conferenze poteva essere usato immediatamente come modello della viva catechesi pasquale, perciò ne furono presto desiderate e trasmesse copie; il più grande battezzando di Ambrogio, Agostino, ne potrebbe aver richiesto una (p.100); attraverso lo stenogramma del notarius noi possiamo percepire la voce stessa di Ambrogio mentre porgeva la sua lezione ai neofiti senza la stilizzazione letteraria presupposta al suo tempo (p.101)4. G. Lazzati5 riconferma l'autenticità di Sacr, che dice ormai accettata da un consenso quasi universale (p.17) e, sulla linea di R. H. Connolly, lo accosta all'Explanatio Symboli,6 sicuramente autentica ed anch'essa allo stato di redazione stenografica (p. 21); evidenzia poi la fitta frequenza di modi di dire proprii dello stile orale in Sacr e la loro assenza in Myst (p. 32). J. Schmitz7 respinge la tesi di K. Gamber, il quale aveva attribuito il Sacr a Niceta di Remesiana, e contro tale annessione si pronunciò anche Aimé Solignac in Dict. Spir. 11 (1981), coll. 214-219. Sui rapporti tra Sacr e Myst si è soffermata Chr. Mohrmann8, la quale asserisce che i 2

Per la cronistoria della questione vedi l'edizione di B. Botte in SC 25bis, Paris 1961, pp.721, il quale, oltre a confermarne l'autenticità, ricorda che De sacramentis non è il titolo, ma solo la citazione delle due prime parole della prima catechesi (p.16) e dichiara che il De sacramentis è anteriore al De mysteriis. Per la storia del problema "negli ultimi 70 anni" puoi vedere anche A. Paredi, La liturgia del «De sacramentis», in Miscellanea C. Figini, Venegono Inf. Varese 1964, pp. 59-72 (60-66). 3 O. Faller, Ambrosius, der Verfasser von De sacramentis. Die Inneren Echtheitsgründe, in Zeitschrift f. kath. Theologie 64 (1940), pp. 81-101. 4 Chr. Mohrmann, Le style oral du De sacramentis de saint Ambroise, in Vigiliae christianae 6 (1952), pp.168-177, alle pp. 168-170, tracciando anch'essa una storia del dibattito, affaccia la possibilità che sia stato Ambrogio stesso a far raccogliere i sermoni che un tachigrafo o un ascoltatore qualunque avessero scritti. 5 G. Lazzati, L'autenticità del De sacramentis e la valutazione letteraria delle opere di Ambrogio, in Aevum 29 (1955), pp.17-48. 6 L'Explanatio symboli (essa pure nel vol. 73 di CSEL, ed. O. Faller, pp.3-12) è strettamente imparentata con il De sacramentis come tema e come testo; è il rapporto stenografico di una seduta della traditio symboli. È in uno stile parlato, nel quale le frasi sono rese in un'ossatura scheletrica che incide le idee. 7 J. Schmitz, Zum Auctor der Schrift De sacramentis, in Zeits. f. kath. Theologie 91 (1969), pp. 59-69. Per Kl. Gamber, Die sechs Bücher «Ad competentes» des Niceta von Remesiana. Frühchristliche Taufkatechesen aus dem römischen Dacien, in Ostkirchliche Studien 9 (1960), pp. 123-163 il De sacramentis sarebbe una parte perduta di quell'opera di Niceta. 8 Chr. Mohrmann, Observations sur le De sacramentis et le De mysteriis de saint Ambroise, in Ambrosius episcopus, Atti del Convegno per il XVI centenario della sua elezione episcopale, 1974, Milano 1976, vol. I, pp. 103-123.


L’unica catechesi battesimale ‘parlata’: il De Sacramentis di sant’Ambrogio

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testi dipendono reciprocamente uno dall'altro; rileva che anche nel Myst ci sono elementi della lingua parlata; nota che in alcuni passi, soprattutto in quelli ispirati dal Cantico, si avverte uno slancio poetico che mostra il desiderio di conferire alla catechesi un carattere più spirituale; pensa che il confronto fornisca una chiara idea dei processi letterari con i quali Ambrogio trasformò i suoi sermoni in trattati. Quest'ultima affermazione presuppone però che il Myst sia una trascrizione letteraria del Sacr ma è idea che stenta a reggersi per la diversità di contenuto delle due opere; tra loro ci sono punti di contatto ma non parallelismo. Più plausibile è l'opinione accolta con favore da C. Markschies9 a p. 56, il quale sostiene una loro vicendevole indipendenza, motivando le concomitanze sia con il ritorno annuale dell'occasione di simili allocuzioni a battezzati sia con la tenace memoria di Ambrogio. Fr. Petit10 afferma che i sermoni del Sacr. furono predicati ai neobattezzati nella settimana di Pasqua, verosimilmente dal lunedì al sabato; vi riscontra le caratteristiche dello stile orale in un riflesso diretto della sua predicazione; conferma che il testo non era diretto alla pubblicazione e che probabilmente ci è pervenuto grazie alla note stenografiche di un ascoltatore; specifica che qui non abbiamo semplici omelie ma vere catechesi. Il carattere orale dell'opera è stato recentemente analizzato da V. De Muro11, il quale vede nelle figure retoriche usate nel Sacr un intento sia di eleganza che di facilitazione della memoria (p. 413) e si pone la domanda chi sia stato il tachigrafo, avanzando "per la prima volta" l'ipotesi di Agostino stesso (p. 423). II

Impostazione della catechesi battesimale - Era regolata dall'istituzione del catecume-

nato, che si suddivideva in una preparazione remota ed in una prossima al battesimo. Nella prima, chi desiderava aderire al cristianesimo ne presentava richiesta al vescovo, esponendo i motivi della sua decisione; la domanda doveva venire ufficialmente accettata. Si procedeva allora all'imposizione del segno della croce sulla fronte e delle mani sul capo, cerimonie che avevano un certo valore consacratorio preliminare. Dopo questo stadio iniziale, chi lo desiderava ed aveva positivamente superato un controllo da parte del clero, chiedeva il passaggio alla classe dei competenti (aspiranti), petizione che si effettuava ordinariamente qualche settimana prima di Pasqua; dopo un esame che accertava le condizioni prescritte, il postulante veniva inserito nei registri in liste ufficiali. La preparazione immediata generalmente coincideva con la quaresima e puntava ad una formazione sia intellettuale che morale. Le istruzioni erano accompagnate dalla pratica del digiuno e di atti penitenziali, dalla confessione dei peccati, e miravano ad un approfondimento delle conoscenze già acquisite. Vi aveva un ruolo preminente la spiegazione particolareggiata degli articoli del Credo (la traditio symboli) e del Pater, che i catecumeni erano invitati a recitare poi a memoria in una redditio, che talora 9

C. Markschies, Dizionario di Letterarura cristiana antica, a cura di S. Döpp e W. Geerlings, 2002, trad. di C. Noce, Roma 2006. 10 Fr. Petit, Sur les catéchèses post-baptismales de saint Ambroise. A propos de De sacramentis IV,29, in Rev. Bénédictine 68 (1958), pp. 256-265. 11 V. De Muro, Stile orale e intervento del tachigrafo nel De sacramentis di Ambrogio di Milano, in Augustinianum 40 (2000), pp. 407-430.


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Francesco Trisoglio

avveniva dopo il battesimo. Restavano da chiarire la natura, il compito, l'importanza del battesimo, della confermazione12, dell'Eucaristia e del sacrificio della Messa, che costituivano l'iniziazione cristiana; ciò avveniva in apposite cerimonie liturgiche. Ricevuto il battesimo i neophyti o infantes o recenter illuminati, come venivano chiamati, dovevano portare fino alla domenica seguente (detta perciò in albis depositis) i vestiti bianchi che avevano indossati uscendo dal fonte, simboli della purezza dell'anima e dell'innocenza riacquistate13. Se la struttura didattica del catecumenato era sostanzialmente uguale in tutto il mondo cristiano, sorgevano tuttavia qua e là adattamenti particolari suggeriti da tradizioni locali. Così a Milano l'istruzione specifica sul battesimo e sull'eucaristia non precedeva, ma veniva dopo che i neofiti erano stati ammessi al battesimo ed alla comunione. Durante la quaresima il vescovo riuniva ogni giorno i catecumeni per le istruzioni morali e per l'esposizione delle principali verità della fede. Una settimana prima di Pasqua consegnava oralmente il simbolo apostolico spiegandone i dodici articoli; nella notte tra il sabato e la domenica i neofiti ricevevano il battesimo, uscivano dal battistero ed entravano nella vicina cattedrale, partecipavano per la prima volta alla celebrazione eucaristica e ricevevano la prima comunione. Nella settimana seguente il vescovo convocava i neobattezzati per spiegare loro il significato del battesimo e dell'eucaristia14. III La parola di Ambrogio - Il carattere più immediatamente vistoso della parola di Ambrogio è la vivezza del suo dialogo. La sua allocuzione non si svolge con la continuità unitaria del discorso ininterrotto, che può facilmente indurre monotonia; giunge con lo sciacquio vivace dell'incontro i due correnti che si dirigono in senso inverso. Parla sentendo parlare e soprattutto stimolando a parlare; a questo scopo, quando l'altra voce non scaturisce, la suggerisce egli stesso imprestandola. Il suo ritmo preferito è la proposta-risposta; teme il passivismo recettivo che smorza la parola al suo arrivo, ne ottunde le vibrazioni e quindi ne attutisce l'effetto. È convinto che un messaggio per essere animatore deve essere espresso in modo alacre; la verità, che non può essere confutata da argomenti, può risultare indebolita dal suo veicolo verbale. La sua preferenza è di partire con una domanda, che può essere formulata di sua iniziativa personale o raccolta da un supposto intervento altrui. Inaugura il suo metodo incominciando subito, fin dall'esordio: "Avete ricevuto il battesimo: che cosa abbiamo fatto sabato? L'apertura; ma tu mi domandi: perché?" (I,1,1-3): l'immediatezza della comunicazione orale, nella quale le idee (o forse più ancora le emozioni) affluiscono spontanee senza il filtro di un esame critico che ne vagli l'opportunità e ne sistemi la connessione, può, più efficacemente, affrontare e dissipare incertezze. 12

A. Caprioli, Battesimo e confermazione in S. Ambrogio, in La scuola cattolica 102 (1974), 403-428, alle pp. 424-428 sintetizza che in Ambrogio i due sacramenti costituiscono un'unitarietà, per cui è difficile separarli, anche in considerazione del fatto che egli parlava ad adulti; ciò non significava però uniformità di riti, che erano caratterizzati dalla gradualità, perché si trattava di una teologia informata alla crescita ed al progresso in vista del perfezionamento. 13 G. Bareille in Dict. de Théol. catholique II,2, 1932, coll. 1968-1987. 14 Cfr. A. Paredi, Catechesi della Messa in sant'Ambrogio, in Rivista liturgica 53 (1966), pp. 562-569 (563).


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In I,2,7 p.18,26-27: Quomodo? Accipe: non sviluppa l'argomento in tono discorsivo, che potrebbe suscitare un'impressione di lento, ma in modo dialettico, che agita le idee e, contrapponendole, infonde loro un nerbo più vigoroso. Più che presentare egli stesso le difficoltà, fa che emergano, con una sfumatura di sfida, provocando una risposta che assume la vivezza della replica. Sa che le obiezioni, invece di scattare nell'animo, generalmente vi ristagnano e fermentano, se non ingenerando dubbi, almeno rendendo fioca la chiarezza della verità. Quando in I,3,9 p.19,5 pone: Quare? Dicam l'immediatezza e la sicurezza della risposta suggeriscono l'indubitabilità della dottrina. Dinanzi al prodigio dell'angelo che scendeva a muovere le acque nella piscina (Giov. 5,4) pensa: Dicis forte: "Quare modo non movetur?" Audi, quare: signa incredulis, fides credentibus (II,2,4 p. 27,9-11): l'estrema concisione della domanda e della risposta colloca in una luce risoluta l'essenzialità del problema; la categoricità della soluzione la fa intendere definitiva. Incontra regeneratio e subito si chiede: Quid est regeneratio? e ne porge l'immediata spiegazione (III,1,2 p. 37,9); analogamente, quando in Rom 6,3 legge che siamo battezzati nella morte di Cristo, si domanda: "Che cosa vuol dire 'nella morte'"? (II,7,23 p. 35,23) l'interrogazione concentra l'attenzione sulla spiegazione che viene subito data; Ambrogio cura di evitare la dissipazione della mente focalizzando con precisione il problema e stimolando la curiosità. Talora il dialogo si prolunga in una serie di questioni: Vis scire? audi... audi iterum...

deinde quid acceperis recognosce... vis scire? iterum audi... quare? quia... si teneas quod accepisti (IV,2,5-6 p. 47,6-15): è un incalzare che non si stanca; la dottrina

emerge vivace; più che venire presentata, è lei che si presenta. In II,4,11 p. 29,3-4 Dic mihi, o homo suona come un appello solenne, ma non chiede nulla; è solo un contatto psicologico, un coinvolgimento, una comunione d'inserimento in un grande problema. Talora, come in II,6,16 p. 32,1, propone un argomento della sua trattazione ed invita il pubblico a parteciparvi. Altrove, per facilitargli l'orientamento, scandisce lo sviluppo tanto dei riti quanto della sua spiegazione. "Sei salito dal fonte: che cosa è poi venuto dopo?" (III,1,4 p. 39,38) ed ancora, a breve intervallo: "Segue"... (III,2,8 p. 42,1) e "dopo ciò, che cosa segue?" (III,2,11 p. 43,19): conduce, come per mano, l'ascoltatore e gli dà il senso che lo guida per una via sicura, della quale gli specifica le tappe. IV

A colloquio con i neofiti - Ambrogio procede volentieri appaiato in un colloquio con

i suoi neofiti dove le parole si intrecciano, in una ricerca compenetrata. Si crea un'amabile atmosfera di comunione, ma così il passo tende a rallentare, mentre il tempo urge con le sue inderogabili misure di scadenza. Bisogna allora accelerare l'andatura ed Ambrogio si pone a capofila, avanzando personalmente nella trama dei riti. Espone il valore dei singoli gesti, apre sfondi di significato dietro ai movimenti, però sul monologo incombe pur sempre il rischio della monotonia; il docente può anche non avvedersi che sulle sue parole insensibilmente si deposita, come la polvere sui mobili, un velo di opacità, se ne accorgono però bene gli ascoltatori. Ed allora Ambrogio riprende il colloquio, non più con i discepoli, ma con la Bibbia, maestro sommamente autorevole, che dalla sua lontananza infinita viene a farsi presente recando il fascino, insieme, dell'esotico e del sacro, mentre i suoi insegnamenti s'inseriscono nel discorso con la naturalezza di ciò che sembra germogliare dall'interno piuttosto che arrivare


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dall'esterno. Infatti i suoi richiami biblici hanno l'innesto immediato di ciò che è spontaneo e quindi ovvio nella sua testimonianza. Non affastella le citazioni, come fu talora vezzo sgradevole in qualche pagina patristica, dove aggravano più che illuminare; qui centrano l'argomento e s'immettono sul filo del discorso conferendogli sempre prestigio, sovente anche grazia. Ambrogio è infatti felicissimo nello scegliere singoli passi biblici che facciano da fondamento alla sua lezione; così nel Melchisedec di Ebrei 7,3, che appare senza padre e senza madre, vede la figura tipologica di Cristo, che nella generazione celeste nacque senza madre ed in quella terrestre senza padre; sviluppa lo spunto schematico di Ebrei in una precisa catechesi sulla doppia generazione di Cristo, punto di partenza per la sua doppia natura (IV,3,12 p. 50,29-37). L'immediatezza si fonde spesso con la concretezza: considera infatti l'impegno che il catecumeno assume di rinunciare al mondo come una cambiale firmata (I,2,8 p.19, 34-40): dall'astrazione dell'idea, che può facilmente slittare sulla mente, passa all'incisività dell'esperienza corrente; esto sollicitus: quell'ansia che non manca mai dinanzi ad un obbligo ufficiale di pagamento la propone anche nella responsabilità morale. In II,6,16 p. 32,2-3 dice: "Sei venuto al fonte, vi sei disceso dentro, hai notato il vescovo, hai visto il sacerdote al fonte": non descrive gli atti come sono prescritti nel rituale, vede coloro che li hanno eseguiti con le proprie persone; li fa anch'essi persone. Sovente nella sua esposizione ci sono più cose che parole; subito all'inizio presenta, nel rito dell' 'apertura', il sacerdote che tocca le orecchie e le narici: quid significat? (I,1,2 p.15,9-11): attacca di colpo; la sua lezione è rappresentazione; vuole che il tono, secco, faccia subito capire la serietà e la densità della sua trattazione. Le sue parole sono sovente azioni: "Siamo venuti al fonte, ci sei entrato; sei stato unto. Bada a chi hai visto, che cosa hai detto, riflettici, ripensaci con diligenza. Ti è venuto incontro il levita, ti è venuto incontro il sacerdote; sei stato unto come un atleta di Cristo, come se stessi per lottare nella lotta di questo mondo. Hai proclamato le lotte in cui dovrai gareggiare. Colui che lotta ha un motivo di speranza; dove c'è gara c'è anche corona. Tu lotti in questo mondo, ma sei coronato da Cristo. E sei coronato per le lotte di questo mondo; infatti se il premio è collocato in cielo, sta tuttavia quaggiù il merito del premio" (I,2,4 p.17,1-9). Inserisce il premio futuro nell'impegno presente; colloca la prospettiva della felicità eterna nel tenace sforzo quotidiano: 'lotta' torna insistente, è realismo nel constatare la durezza effettiva della virtù ed è incoraggiamento a non lasciarsene deprimere. Fa vedere azioni e fa riscontrare deduzioni; non trasmette una verità, la presenta mentre essa emerge: La sua persona, in questa assolutizzazione estrema del linguaggio, sembra svanire, pienamente sostituita da quella dell'ascoltatore, che emerge ad un'importanza decisiva: è lui che opera, vede e ragiona. Vi ritorna in III,2,15 p. 45,57-58: "Sei andato, ti sei lavato, sei venuto all'altare, hai cominciato a vedere ciò che prima non avevi visto": movimenta il rito in una scena di visiva perspicuità; c'è vivezza (schietta), senza drammatizzazione (artificiosa); la sua fantasia evoca, non ricama, non enfatizza. L'azione può anche assumere una straordinaria intensità: "Sei venuto all'altare; il Signore Gesù ti chiama" (V,2,5 p. 61,1); anche la meccanicità strumentale del movimento, che potrebbe apparire indifferente, qui è assorbita nell'avvio ad una più alta liturgia, viene penetrata di un'intima sacralità; nella decisione umana si scherma la presenza sollecitatrice di Cristo. Nel rito scorge un'anima misteriosa di rivelazione (I,5,17-19 p. 22,33-52): richiamando il battesimo di Gesù, che pone a sfondo di quello del cristiano, evidenzia, con precisa distinzione, la presenza e l'azione delle Tre


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Persone della Trinità; mentre proclama il dogma fondamentale del cristianesimo, con un formula densa e concisa, combatte arianesimo e sabellianesimo, le due eresie che ne sono la dissoluzione15. Connesso con la densità è l'altro grande pregio dell'essenzialità; le parole danno, non ornano; i concetti si susseguono secondo una linea precisa, ma nel loro succedersi non sono agevolati da collegamenti verbali, sono scanditi come rintocchi; ciascuno dice una realtà e giunge come un appello a ben soppesarla; è lontanissimo dal blandire, piuttosto provoca. Ad enucleare in perspicuità la sostanza, le frasi sfilano scarne, spesso si concentrano in ellittiche; tra l'una e l'altra sembra interporsi uno spazio, come un istante di silenzio, che permetta di ben capire e di congruentemente rispondere. In drammatica essenzialità rievoca la situazione degli Ebrei, che, bloccati dal mare e inseguiti dagli Egiziani, murmurare coeperunt; Dio li esaudì con la colonna dalla quale emanavano luce ed oscurità (Es 14,9-15 e 13,21-22). Dopo aver considerato la scena, il racconto potrebbe proseguire rapido verso l'epilogo, ma Ambrogio l'interrompe sollevando una questione morale: "mormorarono": Ambrogio trasferisce quel remotissimo atto di smarrimento nella vicissitudine quotidiana, rilevando che Dio li esaudì, ma che quel comportamento rimane colpa; l'esaudimento non diventa giustificazione; l'ansia di un rischio deve volgersi in preghiera, non in lamento (I,6,20-21 p. 24,612). L'osservazione non entra nella linea della teologia battesimale, ma nell'urgenza della vita:la catechesi non è chiamata a redigere un trattato ma a reggere la condotta; la deviazione, tanto più facile ad aprirsi all'interno di un colloquio orale, si contiene in uno spazio rigoroso; dice, in una stringatezza che non incrina il filo del discorso. La frequente schematicità dell'espressione potrebbe apparire quale elementarità, ma è un'essenzialità che si fa immediatezza di percezione e dominio dell'espressione, perché è, non di rado, compenetrata da una distinzione di ritmo e da un garbo melodico da cui traspare la finezza spirituale di chi parla ed il suo rispetto verso chi ascolta; parla semplice ma parla bene; il valore del messaggio penetra anche grazie al gradimento dell'ascolto. Ed in fondo risulta simpatica anche la disinvolta scioltezza con cui trapassa dal 'noi', che lo inserisce tra i fedeli, in una comunanza dinanzi a Dio, al 'voi', nel quale assume le vesti del maestro che rivela la via della salvezza (cfr. II,7,22 p. 35,15-21); ed un senso di distesa familiarità traspare anche dalla frequente alternanza del 'tu' e del 'voi'. V

La sua parola, eco della Parola - Ambrogio parla, ma la sua parola ha legittimità e valore unicamente in quanto risonanza di quella di Dio. Procede tenendosi stretto alla Sacra Scrittura. Il metodo potrebbe sembrare pacificamente sicuro, se quella voce, ol-

tre al suono immediato, non suscitasse anche echi che si prolungano lontano nelle

15 C. Granado, El Bautismo de Jesús en San Ambrosio de Milan, in Estudios Eclesiásticos 55 (1980), pp. 339-354, sintetizza la concezione ambrosiana: Gesù è il Cristo; il Padre lo unse di Spirito Santo nel battesimo; quest'unzione ricapitola tutte le unzioni frammentarie che si ripetevano nell'Antico Testamento. L'efficacia plenaria dello Spirito su Gesù apre un periodo nuovo nella storia della salvezza; attraverso alla sua parola ed alla sua attività Gesù manifesterà di essere il portatore per eccellenza dello Spirito Santo.


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più indefinite direzioni. Fu impegno, ansia e tormento di tutti gli esegeti, passare dalla concretezza di un senso reale quale è fornito dalla comune accezione delle parole, esattamente precisabile in base ai documenti storici ed alle regole linguistiche, all'impalpabilità di quello 'spirituale', per il quale non esistono mappe che traccino percorsi sicuri; qui si era abbandonati ad un intuito che intrecciava esiti luminosi al rischio dei più arbitrari sbandamenti nell'area di un soggettivismo indimostrabile. Anche il linguaggio corrente ricorre spesso al traslato per designare concetti che difficilmente potrebbero venire indicati in altra maniera (i 'piedi' di un mobile, una 'catena' di montagne) e che così assumono un'evidenza anche, non di rado, pittoresca (quell'uomo è un leone, un'aquila). Il trasferimento specifico è quello dell'allegoria, la quale, al di là della rappresentazione di primo piano, ne proietta una seconda, più fine e più ricca, avvolta in un velo di mistero. Questa doppia lettura sorse presto e fu determinata principalmente dalla necessità di salvare dalla condanna i poemi omerici, i quali rappresentavano gli dei in un antropomorfismo connesso con azioni e passioni suggerite da una candida fantasia ancora aliena da preoccupazioni filosofiche e morali. Con l'affermarsi della riflessione critica, se ne avvertì la sconvenienza, per cui, dietro a quelle narrazioni, si ipotizzò la proposta di dottrine occulte, riservate agli ingegni più penetranti. Quest'opera di scoperta-salvataggio per Omero incominciò presto: la patrocinò già Senofane nel VI-V secolo a. C. Il problema non tardò a ripresentarsi anche per la Bibbia, nella quale non mancavano pagine conturbanti ed enigmatiche. L'ebreo Filone d'Alessandria (ca 30 a. C. - ca 45 d. C.) ne intraprese un'ampia reinterpretazione sistematica e sulla sua scia si posero i cristiani, soprattutto Origene (183/185 - 253/254) e Gregorio di Nissa (ca 335 - ca 394), i quali si spinsero però talora fino ad interpretazioni arbitrarie scarsamente persuasive, che, se soddisfacevano le esigenze ascetiche, erano carenti verso quelle scientifiche. L'allegorismo fu seguito da tutti i Padri della Chiesa, però con diverso senso del limite e dell'accettabilità. Ambrogio se ne servì combinando con accortezza la sua lucidità di teologo, la sua brama di perfezione morale e la sua pacatezza psicologica di ex-governatore. Dinanzi alla guarigione del cieco di Gv 9,6-7 invita a riflettere sugli occhi della propria intelligenza, i quali dalla visione delle cose materiali sono chiamati a sollevarsi a quella delle realtà spirituali (III,2,12 p. 44,35-37): il trasferimento avviene in perfetta naturalezza: occhi chiusi dal fango del peccato che, lavati con l'acqua del battesimo, riacquistano la visione nell'area spirituale16. Da Lc 7,30, in raffronto con il passo di Giovanni, Ambrogio deduce che il battesimo è una 'deliberazione' (consilium) di Dio e commenta: "Quanto grande è la grazia, dove c'è una deliberazione di Dio!" (II,6,18 p. 33,26-28): del testo biblico dischiude la ricchezza insita; sulla parola di Dio proietta la propria luce umana, che, lungi dal sostituirla, la mostra in tutta la sua valenza; ha pensato ed invita a pensare. Partendo da Qo 2,14, dove si afferma che il sapiente vede con gli occhi collocati nella testa, di16 D. Ramos-Lissón, La tipología de Jn 9,6-7 en el "De sacramentis", in Ambrosius episcopus II, 336-344, a p. 343 afferma che la simbologia della guarigione, come propria del battesimo, si sviluppa gradualmente in tappe distinte nella sua applicazione al neofita cristiano per illuminare più esattamente il mistero della salvezza. La Scrittura ha in Ambrogio un dinamismo vitale che supera molto il semplice letteralismo; non è solo la parola viva di Dio, è Cristo che opera hodie et nunc in virtù del rito sacramentale.


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chiara che "la sapienza (umana) senza la grazia (divina) ristagna inerte (friget), ma quando la sapienza ha ricevuto la grazia, allora ci si avvia alla perfezione" (III,1,1 p. 37,6-8): dalla costituzione fisica dell'uomo viene a preconizzare la composizione dei valori umani e di quelli divini; sul punto di partenza umano pone l'arrivo del perfezionamento divino; la grazia non annulla la natura; l'uomo è disponibilità, Dio apporta l'effetto: ci sono equilibrio e lucida razionalità. In I,5,13 p. 21,1-3 ricorda la ragazza che consigliò Naaman a ricorrere ad Israele per il ricupero della salute (II Re 5,1-4) ed in II,3,8 p. 28,1-4 la interpreta come tipologia della Chiesa: lo asserisce ma non lo dimostra; il rapporto lo presuppone, in quanto entrambe invitano alla salvezza attraverso al battesimo (nelle acque del Giordano). L'allegorismo di Ambrogio si concreta volentieri nella tipologia, che aveva fondamenti saldissimi: nel Nuovo Testamento era stata infatti praticata da Gesù stesso, che aveva dichiarato il serpente di bronzo sua immagine precorritrice (Gv 3,14), da S. Paolo, che disse Adamo figura di Cristo (Rm 5,14) e da S. Pietro, che affermò il diluvio emblema del battesimo (I,3,21). Con tali garanti, la tipologia fu applicata con pieno diritto lungo tutta l'esegesi biblica antica, con tendenza ad espandersi; era un metodo che ammetteva molteplici applicazioni. Ambrogio una figura del battesimo vide nella scure che Eliseo fece emergere dal fondo del pozzo (2Re 6,5-7): prima di riceverlo l'uomo affonda come il ferro, dopo emerge come il legno di un albero fertile di frutti (II,4,11 p. 29,4-10); l'applicazione, se ha aleatorietà, ha anche spontaneità: c'è l'uomo che scende nell'acqua aggravato dal peccato e ne esce leggero e ricco di doni di grazia; evita le astrazioni cerebrali. La colonna di luce che guidava il popolo ebraico (Es 13,21-22) era la verità ed era Cristo (I,6,22 p. 24,14-17) ed anche il diluvio era figura del battesimo, così gli rivendicava un'anteriorità che era segno d'eccellenza (ibid. 23 p. 25,22-25). Ambrogio considera la notizia di Gn 1,20-21 che, all'inizio della creazione, le acque produssero gli esseri viventi, come un precorrimento del privilegio del battezzato "che dall'acqua viene rigenerato alla grazia, come quelle generarono alla vita" (III,1,3 p. 38,24-27): il perfetto parallelismo esprime anche una persuasiva concomitanza di effetti. Rammenta che nel secondo tabernacolo c'era la verga di Aronne, la quale seccò e poi rifiorì (Num 17,16-26) e soggiunge: "Anche tu eri arido ed hai cominciato a rifiorire grazie all'irrigazione del fonte battesimale" (IV,1-2 p. 46,7-12). Collega la triplice professione di fede nel battesimo con il triplice rinnegamento di Pietro, al quale seguì la triplice dichiarazione d'amore (Gv 21,17) che portò alla sua assoluzione (II,7,21-22 p. 34,11-19). L'allegorismo era un sentiero, insieme orlato di fiori e cosparso di asperità, per il quale qualsiasi lettore della Bibbia doveva transitare; Ambrogio lo percorse unendo ad un sollecito senso della misura, per quanto concerne la sua estensione, una solerte discrezione, per quanto riguarda la sua frequenza. Distribuì la presenza biblica con garbo e con varietà, conferendo alla propria parola la sacra autorevolezza della Scrittura, in una multiformità di spunti non di rado pittoreschi e nell'attrattiva di panorami inattesi che all'improvviso si aprono. È la verità, unitaria, raggiunta da diversi punti di partenza. Alle similitudini bibliche, spesso insite nell'allegoria, Ambrogio aggiunse quelle personali, gradevoli per un'evidenza che scaturiva dalla comune esperienza. Al cristiano che subisce le tempeste della vita pone a modello il pesce che non viene travolto da quelle marine (III,1,3 p. 38,27-34): di quel pesce tutti avevano dinanzi agli occhi la figura, per cui il richiamo morale arrivava spontaneo. Introdotto dal Salmo 43[42],4,


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Ambrogio interpreta il peccato come una vecchiaia e la conversione come un ricupero di giovinezza (IV,2,7 p. 48,19-22). Insieme alla visione delle cose, porge anche quella di uno spettacolo; rappresenta infatti gli angeli che osservano con ammirazione i catecumeni che si avviano al battesimo (IV,2,5 p. 47,1-6): la scena è limpida ma sobria; nessuna ridondanza né descrittiva né celebrativa; non si lascia prendere la mano; ha una chiara consapevolezza della sua linea, dalla quale non devia. VI

Dottrina eucaristica - La liturgia battesimale si completava e si sublimava nella celebrazione eucaristica: dal cammino verso Cristo all'incontro diretto con lui. La Eucari-

stia, posta sull'altare quale cibo offerto da Cristo a cristiani, gli richiama, per analogia, la manna procurata da Dio agli Ebrei (Es 16,13-15); al confronto si fa condurre da un'eventuale domanda sui motivi per cui l'Eucaristia è superiore alla manna (IV,3,812 p. 49,1-40): il dialogo si svolge con una moderata vivacità, che crea interesse senza provocare tensione; Ambrogio non polemizza contro l'errore, espone la verità, la quale si esplica in un dinamismo che fa alacrità senza cadere nella precipitazione. Abilmente richiama che il pane e il vino furono offerti da Melchisedec ad Abramo, mentre la manna cadde al tempo di Mosè; sulla base di una cronologia indiscutibile, risulta quindi l'anteriorità del simbolo eucaristico (ibid. 3,10-11 p. 49,6-29), affermazione di grande importanza, in quanto era diffusa opinione che il tempo nel suo scorrere apportasse un progressivo degrado rispetto all'origine, la quale era eccellente, perché conservava ancora immediata l'impronta dell'azione creatrice di Dio: arriva così ad una conclusione definitiva nella sua lapidaria categoricità: anteriora esse mysteria... et diviniora esse sacramenta Christianorum quam Iudaeorum (p. 49,6-8). Stabilita la cornice generale, Ambrogio punta al centro della dottrina: "Poniamo su solide basi in che modo quello che è pane sia il corpo di Cristo" (IV,4,14 p. 52,8-9) e dichiara che la consecratio è operata dalle parole di Cristo: le parole del sacerdote che precedono sono soltanto preghiera. L'accettazione del prodigio è agevolata dal miracolo antecedente della creazione del mondo, sulla quale Ambrogio si sofferma in una pacata riflessione: "Cristo comandò e fu prodotta tutta la creazione... Vedi quanto la parola di Cristo sia operatrice; se c'è dunque tanta potenza nella parola del Signore Gesù, per cui cominciò ad esserci ciò che non c'era, quanto più è operatrice affinché ci sia ciò che c'era e venga mutato in un'altra cosa" (IV,4,15 p. 52,17-23). Il prodigio eucaristico resta tale nella sua unicità, ma su questo sfondo, acquista una sua razionalità che ne facilita l'accoglienza. La consacrazione, se trasforma la materia da uno stato vecchio in uno nuovo, si riverbera anche in una trasformazione innovativa dell'anima: "Anche tu c'eri, ma eri una vecchia creatura; dopo che sei stato consacrato (col battesimo), hai incominciato ad essere una creatura nuova" (IV,4,16 p. 53,28-30). È un parallelismo che testimonia un solerte tatto pedagogico: tranquillizza la ragione adducendo un precedente cosmico ben constatabile, unisce nel concetto di trasformazione i due sacramenti essenziali, stimola la coscienza a rendersi conto che il suo corpo è diventato analogo a quello di Cristo e quindi ad adeguarvisi nei sentimenti e nelle azioni. Scende nel fondo della fede e dell'anima rispettandole entrambe; la sua parola emerge da dense meditazioni; può quindi essere saldamente assertivo: non erat corpus Christi ante

consecrationem, sed post consecrationem dico tibi, quia iam corpus est Christi

(IV,4,16 p. 53,25-27): s'impegna direttamente; mentre dice s'investe; mentre insegna la verità la contempla. All'accoglimento razionale del mistero eucaristico aveva


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agevolato l'accesso col richiamo della creazione del mondo, ma sale, ulteriormente, al livello sommo della nascita verginale di Cristo, nella quale erano state superate tutte le leggi naturali della genetica (IV,4,17 p. 53,34-41): dimostra la fede con la fede; ma non è una petitio principii; trasporta la logicità che aveva riscontrata nella creazione del mondo nella connessione dei dogmi, infondendo loro una coerenza che li fa apparire un complesso organico, il quale, con la sua stessa congruenza, segno di sapienza, li mostra affidabili. A rincalzo delle considerazioni cosmologiche e cristologiche, Ambrogio aggiunge quelle bibliche, ricordando che anche Mosè operò prodigiosamente sulla natura superandone le leggi, quando divise le acque del Mar Rosso (Es 14,21-22) e rese potabili le acque amare di Mara (Es 15,23-25); Eliseo, a sua volta, fece emergere dal fondo del pozzo una scure che vi era caduta (2Re 6,5-7) (IV,4,18 p. 53,41-53): si attiene stretto ai fatti sulla linea dimostrativa, senza fronde descrittive; avverte che un sufficiente alone d'attrattiva si trova già nella loro aureola di eventi ad impronta divina. Non trascura né la concretezza dell'episodio né la sfumatura mitica che lo avvolge; ne trae una rigorosa deduzione logica: "Se la parola celeste agì nella fonte terrestre, non agirà nei sacramenti celesti?" (IV,4,19 p. 54,55-56); àncora la fede anche alla sanità della ragione17. Ed è una consequenzialità che, dalla sostanza della fede egli traspone alla sua pratica: "Quando, alla comunione, il sacerdote dice: «Il corpo di Cristo», tu rispondi «Amen» cioè «È vero»; dunque ciò che la lingua confessa, la piena adesione del cuore lo conservi" (IV,5,25 p. 56,35-37): conferisce alle parole del rito pienezza di significato. Conclude la sua istruzione con una preghiera che da essa scaturisce e su di essa si riflette: "Il Signore Dio nostro vi conservi la grazia che vi ha data ed illumini più compiutamente gli occhi che vi ha aperti" (IV,6,29 p. 58,21-23). Nella lezione seguente (V,3,12 p. 63,4-5), riprendendo il tema, lo ribadisce con un sigillo definitivo: "Chi ha ricevuto il corpo di Cristo non sentirà più la fame in eterno". Questa assolutezza di eterno si riverbera anche sul tempo permeandolo di una gioiosa soddisfazione; Ambrogio dichiara infatti che, quando i neofiti hanno ricevuto il corpo di Cristo, e quindi la sua grazia, "la Chiesa si rallegra che siano molti quelli che sono stati redenti" (V,3,14 p. 63,19-21) e questa gioia descrive in passi del Cantico dei Cantici ricchi di fascino poetico18. VII Esegesi del Pater - L'ingresso ufficiale nella Chiesa avveniva con il transito dall'amministrazione del battesimo alla celebrazione eucaristica, i due cardini essenziali della fede. Nella Messa, tra le molte parole umane, risuonavano due volte quelle creatrici di

17 Maria Becker, "Delectabar suavitate sermonis". Zur Interferenz von Rhetorik und Mündlichkeit im Stil des Ambrosius von Mailand, in Latin vulgaire. Latin tardif. VIII. Actes du VIIIe Colloque international sur le latin vulgaire et tardif, Oxford 6-9 septembre 2006, Hildesheim 2008, pp.198-203, a p. 202 dichiara sorprendente come l'esegesi di Ambrogio si adatta alla parola biblica nella sua forma interrogativa e nel suo tono riprensivo. 18 G. Lazzati, Il valore letterario dell'esegesi ambrosiana, Milano 1960, pp.103, a p. 102 afferma che Ambrogio all'esegesi allora in voga unì un'ispirazione poetica, per cui al suo discorso esegetico-spirituale rivolse lo sguardo l'esegesi monastica medioevale.


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Cristo, che trasformavano la materia del pane nel suo corpo, mediante la consacrazione, e la persona dell'uomo nel figlio di Dio, tramite la recita del Pater. Fondandosi sul Pater (Mt 6,9-13), Ambrogio osserva: "Da servo cattivo sei stato fatto figlio buono; non inorgoglirtene; non sei stato tu a realizzare questa trasformazione, ma la grazia di Cristo; qui non c'è arroganza, c'è fede" (V,4,19 p. 66,14-16); rileva un intreccio di sublimità in quell'elevazione e di umiltà in quella percezione che è un dono a cui corrispondere. - Padre nostro: "Dici Padre come figlio" e Ambrogio distingue la paternità di Dio nei riguardi "di Cristo che generò e dell'uomo che creò"; noi dobbiamo chiamarlo Padre per meritare di essere figli (V,4,19 p. 66,20-25). Dalla preghiera passa a precisare il dogma con un riflusso sulla preghiera; si rivolge alla mente ed al cuore; fa della fede un'unità vivente nel mistero trinitario, nell'Incarnazione e nella corrispettiva reazione umana. Illumina gli aspetti singoli in una visione comprensiva che li inserisce nella totalità. - che sei nei cieli: "È cielo dove non c'è più la colpa; è cielo dove le turpitudini cessano; è cielo dove la morte non infligge più le sue ferite" (V,4,20 p. 67,31-33); si rivolge volentieri all'area morale; si rende conto che la maggioranza non rilutta al cristianesimo per le difficoltà concettuali del dogma ma per l'austerità delle sue applicazioni morali19. - sia santificato il tuo nome: "Sia santificato in noi, affinché possa arrivare a noi la sua azione santificatrice" (V,4,21 p. 67,38-39). - venga il tuo regno: "Il regno di Dio viene quando voi avete ottenuto la sua grazia" (V,4,22 p. 67,43-44). - sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra: significa che ci sia la pace ottenuta con il sangue di Cristo, che ha debellato il diavolo (V,4 23 p. 68,46-51). - dacci oggi il nostro pane quotidiano: poiché il greco epiúsion può essere interpretato come 'quotidiano' e come 'sostanziale', Ambrogio ne accetta entrambe le accezioni fondendole e prescrivendo che, come ogni giorno si prende il pane per la vita fisica, così si assuma anche quello eucaristico per la vita eterna. "Se è pane quotidiano, ricevi ogni giorno ciò che ogni giorno ti possa giovare; vivi in maniera che tu lo possa ricevere ogni giorno" (V,4,24-25 p. 68,51-67); la dottrina, se è un dato obiettivo, si sviluppa anche in un ammonimento che ha la forza cogente della logicità. Prescrive, ma non suscita l'istintiva avversione di ciò che è imperioso, perché a parlare è la razionalità con la sua coerenza. - rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori: il debito è il peccato a cui l'uomo è stato assoggettato quando ha perduto il suo stato di fatto ad immagine di Dio; ha perso l'umiltà diventando arrogante, così è diventato debitore del diavolo, perdendo la sua libertà; ma il Signore col suo sangue ha cancellato il 'tuo' debito e ti ha restituito la libertà (V,4,27 p. 70,83-94). - non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male: "Chi si affida a Dio non teme il diavolo" (V,4,29-30 p. 71, 99-109): è la sentenza che chiude la lezione in un'atmosfera di serena fiducia, al di là di tutte le insidie del demonio. 19 G. Bardy, Ambroise, in Dict. de Spir. I, 1937, col.428 nota che Ambrogio fu anzitutto uomo di governo; considerò in genere i problemi dal punto di vista morale; si preoccupò della conformità degli atti umani alla regola dei costumi più che delle loro qualità soprannaturali.


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VIII

Riepilogo - La sesta ed ultima catechesi ha l'aria di un riepilogo integrativo; giunto al

termine, Ambrogio dovette rivolgere lo sguardo al cammino percorso, rilevando che erano opportuni alcuni chiarimenti e completamenti; in ciò fu forse aiutato dalle perplessità di qualche ascoltatore e dalle conseguenti domande. Le sue precisazioni vertono sui tre temi fondamentali dell'Eucaristia, della Trinità e della preghiera. - Parte con una risoluta categoricità: "Come Gesù Cristo è il vero Figlio di Dio, non per grazia come gli uomini, ma in quanto nato dalla sostanza del Padre, così è vera carne quella che riceviamo ed è il suo vero sangue quello che è bevanda"20. Ambrogio è un deciso assertore della presenza reale in tersa perspicuità di affermazione21, ma lo fa con uno sveglio equilibrio; ad evitare l'ovvia ripugnanza, che insorse già nei primi discepoli (Gv 6,57-66) ad un'interpretazione rozzamente materiale di quella carne da mangiare, specifica: "Tu ricevi il sacramento simbolicamente (in similitudinem), ma ottieni la grazia e la virtù di ciò che esiste realmente (verae naturae) (VI,1,3 p.73,15-18). Ambrogio ha il tatto di non tradire l'integrità del dogma e di non urtare la sensibilità umana, precisando la verità nella sua accessibilità. - Se l'iniziazione culmina nella formula della consacrazione eucaristica, inizia con quella battesimale nel nome della Trinità intera, per cui Ambrogio rileva che le Tre Persone operano in unità (VI,2,5 p. 73,2-5), ne esamina l'azione concorde e conclude: "Vedi che c'è la distinzione delle Persone, ma che tutto il mistero della Trinità è connesso" (VI,2,8 p. 74,21-22). Richiama in limpidezza quella che era una verità essenziale, ma che allora veniva accanitamente impugnata dagli ariani che Ambrogio si vedeva attorno; inserisce la verità, eterna, nella situazione del momento. E siccome, nella Trinità, era specificatamente negato lo Spirito Santo dai pneumatomachi contemporanei, ne difende la divinità (§§ 9-10). - Risposta al mistero divino non può essere che la preghiera umana, la quale lo accoglie e lo immette nella propria vita; Ambrogio conclude quindi il corso di catechesi con una sua ampia illustrazione (VI,3,11 - 5,25), lasciando come motto direttivo e rassicurativo: "Se Dio regna in noi, il demonio non vi può trovare posto" (VI, 5,24 p. 83,45-46). IX

Ambrogio maestro - Ambrogio è un maestro, che si colloca in mezzo ai suoi ascolta20 A. Largent, S. Ambroise, in Dict. de Théol. cath. I, 1930, coll. 942-951, in col. 949 scrive: "Ambrogio ha esposto e difeso con una costanza intrepida ed anche con una precisione irreprensibile i dogmi della Trinità, dell'incarnazione e della divinità di Gesù Cristo". Cl. G. Morino, Catechesi eucaristica in Sant'Ambrogio, in Palestra del clero 51,6 (1972), pp. 327-342, a p. 341 osserva che Ambrogio collega l'Eucaristia all'Incarnazione; l'Eucaristia è possibile in quanto il Figlio di Dio assunse nella sua persona divina la natura umana, un corpo umano, e come è irreversibile l'Incarnazione così è irreversibile la transustanziazione. 21 A. Paredi, Catechesi della Messa, a p. 563 afferma che in Ambrogio si possono leggere le espressioni più chiare e più aperte della fede della Chiesa antica sull'Eucaristia, tanto che a lui si richiamarono i difensori della presenza reale nei secoli IX e X.


Francesco Trisoglio

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tori cogliendone i sentimenti, ed è insieme una guida, che procede davanti a loro tracciandone il cammino; imposta la sua lezione su una riflessività nella quale cura di coinvolgere quella degli altri; si attiene alla verità assodata evitando ipotesi aleatorie, che potrebbero più facilmente confondere che aprire su utili prospettive, però, personalmente, sa inquadrare le verità particolari in ampiezza di orizzonti luminosi. Non è disposto a transigere sulla verità, ma s'impegna ad agevolarne l'accesso all'intelligenza umana; espone l'ortodossia anche combattendo le eresie ma astenendosi da polemiche che potrebbero cadere nell'acre; concilia la libera razionalità con il senso del mistero; compone l'azione divina, che rivela e sostiene, con quella umana, che è chiamata a corrisponderle. Nei riti dai gesti fa trasparire l'anima; ricorre con regolarità alla Bibbia ma sempre con precisione di inserimento ed efficacia dimostrativa; alla rivelazione divina pone a risposta la preghiera umana. Si esprime con un'immediatezza ed una semplicità che favoriscono la comprensione; usa spesso frasi scarnite nelle quali le singole parole sono dense di un pensiero che emerge perspicuo e che, non di rado, si articola in formule le quali, attraverso la fantasia, entrano nella memoria facendosi viatico per tutta la vita. Il suo linguaggio conserva il decoro di una tradizione letteraria di grande prestigio, evitando però di raggelarlo in un purismo di scuola, ma animandolo con gli apporti che il deflusso dei tempi fa germogliare; la sua dizione è gradevole senza bisogno di applicare accorgimenti retorici, in quanto le figure sorgono dalla spontaneità del discorso e non mostrano l'artificio di venire studiatamente inserite. Parla davvero "come ditta dentro"; consiglia quello che pratica ed insegna quello che vive22. * ■ NdR - Articoli di questa serie già pubblicati: 1. Il De catechizandis rudibus di sant’Agostino, RL 2008, 1, 7-22. 2. La catechesi nella teologia di san Gregorio di Nazianzo, RL 2008, 2, 163-179. 3. La catechesi nell’ascetica: la Scala Paradisi di s.Giovanni Climaco, RL 2008,3,307-322 4. La catechesi popolare: san Pietro Crisologo, RL 2009, 1, 7-24. 5. presente articolo 6. prossimo articolo: La prima catechesi battesimale: il De Baptismo di Tertulliano.

22 A. G. Martimort, Attualità della catechesi sacramentale di S.Ambrogio, in Vetera Christianorum 18 (1981), pp.81-103, esordisce (p.81) asserendo:" Rimane sempre opportuno e proficuo chiedere al gran vescovo di Milano l'aiuto della sua esperienza pastorale e pedagogica, di cui è pervenuto a noi il monumento vivo, cioè la catechesi ai neobattezzati, sia quella che è stata registrata stenograficamente mentre parlava, come la leggiamo nel De sacramentis, sia quella da lui riveduta a tavolino e diventata il trattato De Mysteriis".


RICERCHE E STUDI

RivLas 76 (2009) 2, 199-205

La Dichiarazione universale dei diritti umani Al di là degli scontri un operoso dialogo fra istanze religiose e ‘laiche’ lungo i secoli Emilio Butturini

Università di Verona

S

ecolari istanze religiose e “laiche” sono la premessa delle varie Dichiarazioni dei diritti dell’uomo (ma anche della donna o del fanciullo), nonostante tensioni e lotte nel corso della storia fra gli stessi protagonisti di tali eventi. Sono passati ormai oltre sessant’anni da quando fu approvata, il 10 dicembre 1948, dall’Assemblea generale dell’Onu la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, come fu chiamata dalla Commissione, presieduta dalla già First Lady Eleanor Roosvelt (1884-1962), che aveva iniziato i suoi lavori nel gennaio 19471. La Assemblea era stata convocata a Parigi ed era allora costituita da 50 Paesi (rispetto ai 192 attuali), anche per la decisione di escludere quelli che si erano assunti la prima responsabi-

1

Cfr. M. Flores, Storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna 2008, p.214, dove sottolinea, fra l’altro, la novità di aver scelto di denominare «universale» la Dichiarazione, al posto di «internazionale», come si era fatto fino ad allora. A p.221, l’Autore osserva che nello stesso periodo in cui si scelse quella denominazione ci si orientò anche ad inviare un questionario a uomini politici e pensatori di vari Stati membri dell’Onu, per avere pareri e suggerimenti attraverso l’agenzia culturale dell’Onu, da poco costituita con il nome di Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation) e con sede a Parigi. In quella stessa pagina Marcello Flores, docente di Storia comparata all’Università di Siena, ricorda anche la pubblicazione dei pareri raccolti (con introduzione di Jacques Maritain) a cura dell’Unesco, Human Rights. Comment and Interpretation, Allan Wingate, London 1949.


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lità della nuova guerra mondiale, fra cui l’Italia, che sarà ammessa a farne parte solo dal 15 dicembre 1955. Erano passati poco più di tre anni dalla fine del conflitto, con tutte le tragedie e gli orrori propri di ogni guerra, a cui si erano aggiunte le terribili esperienze dei Gulag sovietici e dei Lager nazisti, espressione di regimi entrambi connotati da un altissimo tasso di repressione e di violenza, ma anche l’altrettanto tragica vicenda delle due bombe atomiche fatte esplodere in Giappone da uno stato democratico come gli USA. Dai “doveri dei sudditi” ai “diritti dei cittadini”, pur sempre nell’alveo dell’ideale cristiano di fratellanza Si trattò di un’affermazione di principi in gran parte non ancora realizzati negli stessi “Paesi sviluppati”, come ben immaginavano i membri della Commissione, che elaborarono il testo della Dichiarazione2 Nel preambolo dei trenta articoli di quel testo si parlava infatti di un «ideale comune da raggiungere da tutti i popoli […], al fine che ogni individuo ed ogni organo della Società […] si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento», parole che saranno in parte riprese da Giovanni XXIII nell’aprile 1963 nell’enciclica Pacem in terris (n.75). Per qualche altro cenno ad alcuni articoli della Dichiarazione, si possono qui ricordare – pensando alla realtà sempre più drammatica degli incessanti flussi migratori – l’art. 13 che proclama per ogni individuo il «diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato» e l’art.14 per il quale «ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni», mentre l’art. 29 richiama i doveri di ciascuno «verso la comunità nella quale è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità». Non mancano i classici «diritti alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione», inclusa «la libertà di cambiarla e manifestarla […] sia in pubblico che in privato» (art.18), nonché, sia dalla parte degli uomini che delle donne, «il diritto di sposarsi […,] senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione», con «eguali diritti riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e all’atto del suo scioglimento»(art. 16). Per i lettori di una rivista come la nostra è opportuno anche ricordare l’art. 26, che afferma il diritto di ogni individuo all’istruzione e quello dei genitori di «priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai propri figli». Sul problema del riconoscimento dei diritti umani Norberto Bobbio (1909-2004) pure deciso teorico dell’Illuminismo come età di passaggio dai “doveri dei sudditi” ai “diritti dei cittadini” - non ha temuto di parlare di una «grande svolta», iniziata a partire «dalla concezione cristiana della vita, secondo cui tutti gli uomini sono fratelli, in 2 Il consenso di fatto non fu “universale” e vari Stati, specie dell’area islamica, liquidarono subito la Dichiarazione, definendo «occidentali» i diritti proclamati. L’Arabia saudita, ad esempio, rifiutò di sottoscrivere la Dichiarazione e ribadì nel 1970 le proprie riserve in tema di matrimonio, apostasia e libertà di sindacato. Cfr. S. Semplici (a cura), Pace, sicurezza e diritti umani, Messaggero, Padova 2005, p.138 e n.3; Amartya Sen, Diritti umani e valori asiatici, in M. Flores (ed.), Diritti umani. Documenti, Utet, Torino 2007, pp. 436-449.


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quanto figli di Dio»3. Si potrebbe quindi risalire alle fonti della tradizione cristiana - su alcune delle quali, del resto, ho riflettuto in vari miei scritti sul tema della pace e della guerra, con riferimenti ai testi biblici e a quelli dei primi secoli cristiani4 - che dovettero ispirare più d’uno degli estensori della Dichiarazione del 1948. Qui mi limito a fare essenziali riferimenti a passi notissimi del Nuovo Testamento, come il “discorso della montagna”, ad esempio del Vangelo di Matteo (5,1-12), o il reiterato richiamo delle Lettere di S. Paolo alla radicale uguaglianza di tutti gli uomini, al di là di ogni differenza di razza, di ceto sociale, di genere (Gal 3, 28; 1Cor 12, 13; Rm 10, 12; Col 3, 11). Omettiamo poi riferimenti a testi medievali, come la Magna Charta inglese del 1215 o tutti quelli del primo movimento valdese o francescano, così come non ricordiamo in questa sede i teorici del «Diritto di natura» del Cinque e Seicento (De Vitoria, Suarez, Grozio) o pensatori come Hobbes e Pascal, per risalire subito all’età illuministica, a Locke (specie per il suo Saggio sul governo civile del 1690) e a Rousseau (con Il contratto sociale del 1762), tra i primi ad ispirare i legislatori dei diritti umani, o a Montesquieu, che già nel 1748 condannava, in nome dell’umanità, la schiavitù (Esprit des lois XV, 5), seguito da Voltaire nel 1756 (Essai sur les moeurs), per arrivare alla Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776 e, in particolare, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, sulla scia dei primi due capitoli del volume del prof. Flores5. La Dichiarazione del 1948 fa naturalmente più diretto riferimento a quella del 1789, proclamata dall’Assemblea nazionale costituente, alla quale Luigi XVI re di Francia aveva invitato a partecipare anche Nobiltà e Alto clero, dopo che i rappresentanti del Terzo Stato (la borghesia), col consenso di minoranze di nobili e di clero, avevano deciso di costituirsi in Assemblea nazionale e di riunirsi nella famosa sala del gioco della «pallacorda». Furono così affermati i principi di libertà ed uguaglianza giuridica, di sicurezza personale e di giustizia senza privilegi, di proprietà, di equa distribuzione degli oneri fiscali, di separazione dei poteri, di voto, ecc., così da riconoscere al popolo la fonte prima della sovranità. 3 N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1997, p. 57. Cfr. pp. 22-24, dove si delinea il tramonto della teoria organicistica della società di matrice aristotelica, in nome del primato dell’individuo, con la nascita dei diritti dell’uomo «come diritti naturali universali», destinati a svolgersi «come diritti positivi particolari, per poi trovare la loro piena attuazione come diritti positivi universali». Cfr. anche Semplici, Pace, sicurezza e diritti umani, cit. p. 137. 4 Cfr. E. Butturini (a cura), La nonviolenza nel Cristianesimo dei primi secoli, con saggio introduttivo di D.M.Turoldo, Paravia, Torino 1977 (nuove edd. 1979 e 1986); La croce e lo scettro. Dalla nonviolenza evangelica alla chiesa costantiniana, Ed. Cultura della pace, Firenze 1990 e Guerra e pace nei Padri della Chiesa nel 33° volume del Dizionario di spiritualità biblico-patristica, a cura di S.A. Panimolle, Borla, Roma 2002, pp.22-125. 5 Cfr. Flores, Storia dei diritti umani, cit. pp. 13-90. Cfr., in particolare, pp. 80-90, per l’attenzione posta alle rivendicatrici dei Diritti della donna e della cittadina, a cominciare da Marie Gouze, che si farà chiamare Olympe De Gouges, vicina ai Girondini e destinata ad essere ghigliottinata, il 2 novembre 1793, pochi giorni dopo il capo girondino Jacques Pierre Brissot. Già dai primi giorni del settembre 1793 erano iniziati i tempi del «Terrore», che si accanirono, in particolare, contro i Girondini. Fu arrestato anche il Condorcet, che morì in carcere nel 1794.


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Apporti di ‘laici’ e di cristiani in nome della “dignità della persona umana” per una nuova convivenza civile Fra gli estensori di quel documento si ricordano in particolare il Conte di Mirabeau (1749-1791), eletto come rappresentante della borghesia, e il Vicario generale di Chartres, l’abbé Emmanuel-Joseph Sieyès (1748-1836), autore in quegli anni del Saggio sui privilegi e del famoso pamphlet Che cos’è il Terzo Stato?6. Da ricordare anche, fra gli esponenti più significativi, a livello di pensiero e di azione, il marchese di Condorcet (1744-1794), del gruppo dei Girondini, che era stato relatore sulla riforma dell’istruzione alla prima assemblea legislativa del 1792. In base al principio contenuto nella prima delle sue Cinque memorie sull’istruzione pubblica (nuova edizione italiana del 2002), di non lasciar sussistere «inuguaglianza che sia causa di dipendenza», egli riteneva, fra l’altro, che occorresse la pari opportunità di scolarizzazione di maschi e femmine fino all’università. Significativa dal punto di vista pedagogico un’altra sua considerazione (espressa nella quarta delle sue Cinque memorie) sulla necessità di qualificazioni superiori anche per ruoli, allora del tutto subalterni, come quello di infermiere/infermiera: «Tenere nell’ignoranza – egli osserva – chi deve solo eseguire per avere uno strumento più docile è da tiranni, che vogliono non cooperatori, ma schiavi. Essi vogliono comandare la volontà invece di dirigere la ragione». Gli «Universali e immortali principi dell’Ottantanove» (richiamati fin dal primo articolo della Dichiarazione del 1948: «Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza») risentivano certo del clima rivoluzionario del momento e dell’ influsso dei grandi autori citati dell’illuminismo ‘laico’, ma molto anche dell’ illuminismo cristiano e “umanitario” – specie di area italiana - attento ai valori di libertà, uguaglianza e fraternità di radice evangelica. Ricordo, ad esempio, il sacerdote modenese Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) o il nonno di Manzoni, Cesare Beccaria (1738-1794), che «dichiarò sempre d’essere buon cattolico», come si legge nella biografia di Giorgio Pica del 1849 e che all’inizio del suo fortunato libro Dei delitti e delle pene (1764) proclamava : «Tre sono le sorgenti dalle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini: la rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società», con una tripartizione già formulata da Locke e ripresa da Montesquieu (Esprit des lois XXVI, 2) 7. Ai valori contenuti negli «Immortali Principi» si rifaranno, alla fine del 700 significativi uomini di chiesa come il card. Gregorio Barnaba Chiaramonti, il futuro Pio VII, che proclamerà la non opposizione fra «la forma di governo democratico adottata fra di noi» e il Vangelo8. Analoga scelta di compatibilità cristiana di molti tratti della “mo6

Per un’edizione italiana dei due saggi vedi quella a cura di Umberto Cerroni, Ed. Riuniti, Roma 1972. 7 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Consulte criminali, Introduzione e note di Giuseppe Armani, Garzanti, Milano 1987, p. 4, con n. 7. Cfr. p. 47 per un singolare anticipo di “personalismo cristiano” per l’affermazione di Beccarla relativa al fatto che: «Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa». 8 Per l’omelia del Natale 1797 del card. Chiaramonti e la presunta distinzione in due parti, una scritta direttamente da lui e l’altra da incauti o malevoli collaboratori, che vi avrebbero inserito


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dernità civile”, nata dalla rivoluzione francese, aveva fatto il vescovo di Verona, l’ex gesuita Giovanni Andrea Avogadro (1735-1815), in un’omelia del 13 giugno 1797, a cominciare dai valori di «Libertà, Eguaglianza, Sovranità del Popolo», sia pure dettata dall’opportunità politica di rendere accettabile il giuramento imposto dalla Municipalità fin dal 30 aprile 1797 (sei giorni dopo la conclusione delle «Pasque veronesi»)9. L’essenzialità evangelica dei tre principi verrà nella prima età romantica più volte ribadita e sviluppata, ad esempio dal filippino padre Antonio Cesari (1760-1828) in alcune sue opere, dove amava rifarsi alle grandi suggestioni della storia del suo tempo, letta alla luce dei testi biblici e patristici10. Resta, comunque, il fatto che papa Pio VI, nell’allocuzione tenuta in concistoro segreto con i cardinali (Communicamus vobiscum, marzo 1790) condannò quella Dichiarazione, definendo «mostruosi» i diritti appena proclamati11. Analoga condanna certo non ci fu per la Dichiarazione del 1948 da parte del pontefice allora regnante Pio XII, che preferì però non pronunciarsi su quel testo, non essendo stata esplicitamente ricordata l’origine divina dei diritti umani. Toccherà al suo successore, Giovanni XXIII, sempre in Pacem in terris, n.75, esprimere un deciso apprezzamento dell’Onu e del suo intento fondamentale di «mantenere e consolidare la pace fra i popoli […] in tutti i settori della convivenza» ed in particolare di quella Dichiarazione, definita «un atto della più alta importanza compiuto dalle Nazioni Unite», così che fosse «riconosciuta, nella forma più solenne, la dignità di persona a tutti gli esseri umani», accettando quindi che la chiesa «madre e maestra» potesse essere anche “discepola” della storia degli uomini, disposta ad accogliere gli insegnamenti, che potevano venire dai «segni dei tempi». Sulla posizione più “aperta al dialogo” del nuovo papa dovette influire un famoso intervento di quello stesso periodo di un autorevole padre conciliare (e futuro cardinale), il gesuita tedesco Augustin Bea (1881-1968), che, nella discussione sul documento relativo alla libertà religiosa, a chi aveva obiettato che l’errore non ha lo stesso diritto della verità, aveva risposto che non l’errore o la verità sono soggetti di diritto, ma la persona, anche se erra invincibilmente12. Veniva in tal modo spostato il punto fondamentale del dibattito su verità e libertà al concetto della dignità della persona, concetto pregnante già fatto proprio dal linguaggio dei costituzionalisti. Si pensi, ad esempio, all’art.1 della Costituzione tedesca del 1949, ripreso nel medesimo articolo della Carta dei diritti dell’Unione Europea o «Carta di Nizza», secondo cui «la dignità

anche l’affermazione sopra citata, controfirmata, comunque, in entrambe le parti, sia pure «sventuratamente», dal futuro papa cfr. A. F. Artaud, Storia di Pio VII, vol. I, Resnati, Milano 1838, pp. 43-51. 9 Per il testo dell’omelia del vescovo Avogadro cfr. il mio volume, Rigore e libertà. La proposta educativa di don Nicola Mazza (1790-1865), Editrice Mazziana, Verona 1995 , pp. 221-224. 10 Cfr. A. Cesari, La vita di Gesù Cristo, vol. 2°, Merlo, Verona 1817, pp.214-217 e Lezioni storico-morali sopra la Sacra Scrittura, vol. 1°, Stella, Milano 1830, p.14 e p.39. 11 Cfr. F.P. Casavola, Eredità rivoluzionaria e fede cristiana, Scuola di specializzazione per la tutela dei diritti umani, Padova 1993, p.9. 12 Cfr. A. Bea, Verità e tolleranza, «Il Regno», febbraio 1963, p.6.


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umana è intangibile» o «inviolabile»13. Questo concetto diverrà la parola chiave della Dichiarazione sulla libertà religiosa approvata in Concilio il 7 dicembre 1965, che inizia appunto con le parole Dignitatis humanae personae. Apporti di varia ispirazione, anche religiosa, per la Dichiarazione del 1948. Apprezzamenti dei Papi e la «correlazione fra diritti e doveri» Può essere utile ricordare che, come per gli «Immortali Principi» del 1789, anche per la Dichiarazione universale del 1948 vi fu la collaborazione di pensatori ‘laici’ e di esponenti di varie religioni. Così, accanto al giurista ebreo René Cassin o al confuciano cinese Peng-chun Chang, vi fu il libanese cattolico Charles Malik e il noto filosofo – già sopra ricordato - Jacques Maritain, allora ambasciatore di Francia presso la santa Sede14, mentre – come già si è accennato – presidente della Commissione dell’Onu era la vedova del presidente degli USA Roosevelt, di cui Flores sottolinea la «grande capacità politico-organizzativa, la tenacia a difendere i principi e l’abilità diplomatica e di mediazione»15. Dopo le prese di posizione di Giovanni XXIII e del Concilio, ci furono le visite dei Papi all’Onu, a cominciare da quella di Paolo VI il 4 ottobre 1965, quando ad accoglierlo fu Amintore Fanfani, allora presidente dell’Assemblea generale, per venire a quelle di Giovanni Paolo II, che, nel discorso del 5 ottobre 1995 definì la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo «una delle più alte espressioni della coscienza umana nel nostro tempo», pur richiamando – come farà nel Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali del 27 aprile 2001 – la necessità di un «codice etico comune». Più articolata e dialogica fu la posizione dell’attuale pontefice, che, nel discorso del 18 aprile 2008 alle Nazioni Unite, riconobbe che quella Dichiarazione era «il risultato d’una convergenza di tradizioni religiose e culturali, tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni, leggi e interventi della società», ma ribadì pure che «deve esserci una correlazione fra diritti e doveri, con cui ogni persona è chiamata ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte» e che i diritti umani «sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà»16.

13

Cfr. V. Onida, Coscienza cristiana e coscienza democratica, «Aggiornamenti Sociali», dicembre 2008, p.732. 14 Cfr. Philippe Chenaux, Editorial, «Notes et documents», janvier/avril 2008, p.9. Cfr. anche Flores, Storia dei diritti umani, pp. 221-222 per l’importante ruolo avuto da Maritain. A p. 214-215 Flores si sofferma su Malik, che avrebbe offerto «il giudizio più completo sul lavoro svolto dalla Commissione», evidenziando anche «l’eredità della cultura latinoamericana riassunta nella Dichiarazione di Bogotá sui doveri e diritti dell’uomo (2 maggio 1948) e la saggezza asiatica, sia indiana che cinese». Vengono anche indicate nel volume di Flores le radici positive, secondo Malik, della Dichiarazione nelle «Quattro libertà del Presidente Roosevelt del 1941: libertà di parola e di fede; libertà dalla paura e dal bisogno», mentre le radici negative si trovavano nelle «atrocità della guerra appena conclusa». 15 Cfr. Flores, Storia dei diritti umani, p. 215. 16 Benedetto XVI, Discorso alle Nazioni Unite, «Aggiornamenti sociali», giugno 2008, pp. 459465, p.460 e 462 per le citazioni puntuali.


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Questo “ritorno” al diritto naturale, che stava tanto a cuore al magistero di Pio XII, convinto con il grande giurista filorosminiano Giuseppe Capograssi, che «la sola storia con le sue catastrofi» avesse impartito «tremende lezioni di diritto naturale», sembra connotare una linea ricorrente del magistero dell’attuale Papa, che proprio riferendosi all’indicazione di Giovanni Paolo II di un «codice etico comune», nel Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2009 (n.8), ha espresso l’esigenza che le norme di un tale codice «non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano». Tale motivo, del resto, era ben presente anche negli incontri di dialogo del card. Ratzinger con significativi rappresentanti del pensiero “laico”17. Osserva a questo proposito Giorgio Campanini che proprio Ratzinger aveva affermato con forza che il diritto positivo non è l’unico e assoluto arbitro che decide ciò che diritto sia o non sia e che occorre fare riferimento ad un’istanza superiore al semplice “principio di maggioranza”, fosse anche solo la «traduzione salvante», di cui parla Habermas, con la proposta di «tradurre l’idea di un uomo creato a immagine e somiglianza di Dio nell’idea di un’eguale dignità di tutti gli uomini, da rispettarsi incondizionatamente»18. E con ciò anche un grande pensatore “laico” come Habermas finirebbe per ribadire la scelta conciliare della centralità del concetto di «dignità della persona umana», per fondare le varie dichiarazioni dei diritti dell’uomo e sottrarle ai “giochi delle maggioranze”. Richiama papa Benedetto anche il tema della «correlazione fra diritti e doveri» già chiaramente esplicitato dalla «Dichiarazione di Bogotá» del maggio 1948 – qui ricordata alla n.14 – e ben presente nella risposta al questionario dell’Unesco di Mohandas K. Gandhi (1869-1948), destinato ad essere ucciso da un fanatico indù il 30 gennaio 1948, più di dieci mesi prima della proclamazione della Dichiarazione universale. Nel suo scritto il Mahatma sosteneva con forza che «Tutti i diritti da meritare e preservare derivano da un dovere ben fatto. Così lo stesso diritto alla vita matura in noi solo quando concediamo il diritto di cittadinanza del mondo. Da questa dichiarazione fondamentale forse è abbastanza facile definire i doveri dell’Uomo e della Donna e correlare ogni diritto a un corrispondente dovere che deve prima essere adempiuto»19. Qualche anno prima aveva iniziato un suo libro (pubblicato nel 1949 da Gallimard) Simone Weil (1909-1943), con analoghe incisive affermazioni. «Un diritto non è efficace di per sé – scriveva la Weil - ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. L’obbligo è efficace allorché viene riconosciuto. L’obbligo, anche se non fosse riconosciuto da nessuno, non perderebbe nulla della pienezza del suo essere. Un diritto che non è riconosciuto da nessuno non vale molto»20.

17

Cfr. ad esempio, M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano 2004 e J. Ratzinger, J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005. 18 Cfr.G. Campanini, Fondare i diritti dopo i totalitarismi e la secolarizzazione, «Aggiornamenti sociali», settembre/ottobre 2008, pp.614-615. 19 Cfr. Flores, Storia dei diritti umani, p.222. 20 S. Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Comunità, Milano 1980³, p. 9 (la prima edizione italiana, sempre con Comunità, è del 1954).


NICOLAS CAPELLE (a cura)

Voglio venire nella tua scuola ! La pedagogia lasalliana per il XXI secolo Questo libro presenta dei racconti sorprendenti di esperienze educative riuscite a servizio dei giovani, sui cinque continenti, in contesti culturali molto differenti. Esperienze che sottolineano sfide dimenticate, indicano frontiere innovative, tracciano cammini di speranza. Gli educatori che raccontano sono tutti impegnati nel vivo dell’educazione. Vivono talora situazioni limite: immersi nel cuore delle popolazioni aborigene dell’Oceania, nel mondo dei Gitani in Francia, delle bidonvilles di Nairobi, della violenza urbana in Colombia, dell’incontro interreligioso in Asia, della promozione della culture minoritarie maya o papua, dei giovani migranti ispanici di Chicago o di Filadelfia, dell’impegno universitario per formare ai valori della giustizia sociale… Educatori che vivono oggi situazioni di frontiera, in una dinamica educativa apparentemente fragile e informale, ma sostenuta da un umanesimo e da un senso civico che si fondano sulla fede cristiana, nello spirito del carisma lasalliano. La prefazione al volume è di Rigoberta Menchú, Nobel per la Pace. La traduzione in italiano è di Mario Presciuttini, fsc. Sono disponibili le versioni in francese e in spagnolo. *** Edizioni Salvator ■ Paris-Roma 2007 ■ pagine 288, € 13,00 Diffusione in Italia: Segreteria Provinciale, viale del Vignola 56, 00196 Roma – fedoardo@pcn.net


RICERCHE E STUDI

RivLas 76 (2009) 2, 207-220

Dipendenze in Italia: dall’emergenza alla pandemia Nicolò Pisanu 1 In occasione della Giornata mondiale contro la droga, è stata diffusa la Re-

lazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia anno 20072, che presenta il panorama delle dipendenze in Italia: dal per-

cetto che ne ha la popolazione, alla diffusione e uso delle sostanze, alle nuove dipendenze… fino alle connessioni cliniche, terapeutiche e giudiziarie delle stesse nella vita del Paese e agli esiti della prevenzione e profilassi. Si tratta di uno spaccato, molto dettagliato, di una realtà che attraversa il mondo adulto e giovanile, offrendo seri spunti di riflessione sugli stili di vita che connotano l’Italia. A fronte di un’attenta lettura e analisi della Relazione, sono stati, quindi, stralciati i punti salienti e più interessanti, data la mole imponente ed estremamente dettagliata dei dati lì sviluppati, onde offrire chiavi di lettura degli stili di abuso al fine di provocare le auspicate ricadute pedagogiche.

L’

impressione di fondo che se ne trae è di una situazione che non si può più definire epidemica bensì pandemica, cioè le dipendenze ormai fanno parte del nostro tessuto sociale, che le sta metabolizzando, come è avvenuto nel corso del tempo con l’alcolismo, alternando picchi di acuzie a stati di stabilità o di

1 Pedagogista, psicologo, psicoterapeuta, preside dell’Istituto universitario di Scienze psicopedagogiche e sociali Progetto Uomo, affiliato alla Università pontificia salesiana. 2 Presidenza del Consiglio dei Ministri, 25.06.2008.


Nicolò Pisanu

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diminuzione, mai di remissione. In effetti, nell’opinione pubblica italiana si nota ancora il fronte del “no” e del pericolo nei confronti delle sostanze psicotrope però i comportamenti degli stessi italiani, soprattutto giovani, mostrano come al giudizio negativo si contrappongano stili di abuso. L’attestarsi degli stimolanti, degli allucinogeni, del doping e del gioco d’azzardo… dimostrano che si sta cronicizzando l’uso di sostanze a scopo ludico e nel solco della ricerca di piacere e di attenzione… contrariamente a quanto accadeva con l’eroina e gli eroinomani, che si connotavano sovente per una fuga da una realtà di disagio o di sofferenza. Né è più plausibile parlare di emergenza droghe: sono troppi i decenni che registrano la presenza di dette sostanze nel nostro Paese. Semmai l’emergenza è mantenuta artificiosamente, quale categoria sociale, da una parte per giustificare il ballo ideologico e politico delle politiche antidroga, che difficilmente riesce a trovare una pausa di intesa “bi-partisan” capace di riconoscere almeno il taglio educativo della lotta alla droga, per prevenire un uso di cui si può fare a meno come la sigaretta; dall’altra perché lo stato di emergenza permette che tutto accada secondo una costante incertezza e ineluttabilità, esimendo dallo sforzo umile del monitoraggio e della verifica (Si è mai visto un Governo che lascia concludere una progettazione sperimentale del Governo precedente, pur non condividendola, per amore di scienza e obiettività ?). Se, infine, si considera che gli stili di abuso interessano sempre più persone, soprattutto giovani, costituendo, quindi, un bacino di voti da non deludere, allora si comprende come tale emergenza permette di mantenere in alternanza posizioni “proibizioniste” o “anti-proibizioniste” senza mai adire una soluzione, anche di profilo minimo, che scontenterebbe o gli uni o gli altri, a svantaggio del voto. PARTE I

- I dati della Relazione 2007

1. POPOLAZIONE GENERALE • 84,6% disapprova l’uso • 89,8% percepisce il rischio • 98% percepisce la pericolosità dell’eroina e il 96% della cocaina • 70% disapprova l’uso della cannabis e il 78% ne percepisce la pericolosità

Il contesto italiano pare esprimere disapprovazione verso l’uso di sostanze in genere e percepire la pericolosità insita nell’uso stesso, specie verso l’eroina e la cocaina. EROINA

Sostanziale stabilità negli ultimi 4 anni, dopo precedente flessione 1/1000 uso frequente (>15/24-64 anni) Significativo aumento tra i maschi fra 15 -34 anni Primo contatto: ¾ 17 anni o meno (25%) ¾ 18-20 anni (50%) • • •

Non si riscontra però simmetria fra il “giudizio sociale” e i comportamenti soggettivi, infatti: l’eroina mantiene posizioni di ripresa soprattutto tra i maschi, seguita da stabilità, e tocca la popolazione adolescenziale e giovanile.


Dipendenze in Italia: dall’emergenza alla pandemia

209

COCAINA

• • ¾

¾

Arresto della crescita pluriennale del consumo 1/1000 ne fa uso frequente (15-64 anni), in prevalenza maschi (25-34 anni) Primo contatto: 18 anni o meno (25%) 18-21 anni (30%)

Nel contempo, la cocaina denuncia un arresto della crescita ma si riscontra un uso frequente soprattutto fra i giovani maschi. CANNABIS

Crescita del consumo, rispetto al 2005/06: + 40% donne e 50% uomini, fra 25-34 anni + 70% donne e 20% uomini, fra 35-44 anni • 14persone/1000: uso frequente (15-64 anni con prevalenza 15-24 e diminuzione dopo i 35) • 1/3 della popolazione ha fatto uso 1 o più volte (15-64 anni) Primo contatto: 15 anni o meno (20%) 16-20 anni (50%) ¾ dopo i 20 anni (30%) ¾ ¾

Il livello minore di disapprovazione che fa eco alla cannabis, rispetto alle altre due sostanze summenzionate, trova concordanza con una notevole crescita del consumo della stessa, sia fra maschi che femmine, e conferma la minore percezione di pericolosità, che però diminuisce con l’aumentare dell’età della popolazione. La cannabis, come vedremo, si colloca quale sostanza privilegiata dagli adolescenti. STIMOLANTI E ALLUCINOGENI

Consumo stabile: • 7/1000 usano anfetamine, ecstasy, GBH… soprattutto fra i 15-24 anni • 6/1000 usano allucinogeni, con prevalenza sporadica/occasionale

La stabilità del consumo si nota anche per gli stimolanti e allucinogeni, rimarcando le fasce giovanili, con un’incidenza da non sottovalutare. -

POLIASSUNTORI - In aumento, soprattutto fra chi usa cocaina (76%) ALCOOL + EROINA: 93% consumatori COCAINA: 95,6% CANNABIS: 92,4% TABACCO: consumo triplo di sigarette rispetto a chi non usa sostanze

Menzione a parte merita il policonsumo. Fenomeno noto da molto tempo, ora in aumento, soprattutto fra i consumatori di cocaina, con implicanze sociali e trattamentali notevoli, tali da definire ormai una nuova tipologia di “tossicodipendente”. La costante di questi consumatori sta nel concomitante abuso di alcool, probabile fenomeno conseguente e di completamento o di alternanza a fronte dello stile di vita dipendente. Lo stesso dicasi per il consumo di sigarette che triplica negli assuntori.


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2. STUDENTI Spostiamo ora l’attenzione sulla fascia dei ragazzi scolarizzati e studenti in genere, estrapolati dalla popolazione generale. 70,2% degli studenti disapprova in genere l’uso: 76m-85f % dell’eroina 74-84% della cocaina 55-65% della cannabis e avverte • 76-82% pericolosità eroina • 70-76% pericolosità cocaina • 58-65% pericolosità cannabis La disapprovazione e la percezione della pericolosità diminuiscono con l’età • • •

La disapprovazione per l’uso di eroina o cocaina ricalca parametri alti di disapprovazione e di percezione del pericolo rispetto all’eroina e alla cocaina mentre si mostra maggiore tolleranza verso l’uso di cannabis, soprattutto nella fascia 15-19 anni. CONSUMI NEI GIOVANI SCOLARIZZATI

- EROINA: 2,2% ha provato almeno una volta, di questi lo 0,4% ne fa uso frequente; sostanziale stabilità fascia15-19 anni e 30% in meno nelle 16enni e nei 18enni. - COCAINA: arresto della crescita; 6,3% ha provato almeno una volta; 7 consumatori su 100: consumo frequente (fascia15-17 anni).

Come per la popolazione generale il consumo di eroina registra stabilità – anzi, è in calo fra le 16enni e i 18enni – e quello di cocaina non è in crescita; comunque le fasce di età adolescenziali sono anche qui presenti. • CANNABIS: consumo leggermente diminuito, particolarmente nei 15enni (> 15-

17). Il 66,4% ha provato almeno una volta (19enni); il 2,7% ne fa uso frequente.

• STIMOLANTI: aumento dell’uso; 40% ha provato almeno una volta; 50% ne

riferisce il consumo (>16-19 anni).

• ALLUCINOGENI: leggero aumento soprattutto tra le 18-19/enni; 4,4% ha

provato almeno una volta, di questi lo 0,4% ne fa uso frequente (> 15/16-19).

Anche per la cannabis si nota un leggero calo, particolarmente nei giovanissimi. Invece, stimolanti e allucinogeni, non meno pericolosi dell’eroina e della cocaina, sono in aumento, in specie nell’arco 16-19 anni. Si direbbe, dunque, che performance, maggiori prestazioni fisiche, ansia da prestazione e desiderio di evasione, si confermano come bisogni dei nostri adolescenti che ricorrono, appunto, a dette sostanze. ALCOOL

POLIASSUNTORI

+ EROINA: 91% consumatori COCAINA: 94,7% CANNABIS: 93% CANNABIS + EROINA: 40,3% COCAINA: 77,8% TABACCO: consumo di sigarette nettamente superiore rispetto a chi non usa sostanze.


Dipendenze in Italia: dall’emergenza alla pandemia

211

Particolarmente preoccupante è il quadro dei giovani poliassuntori. Il dato più interessante consta, a mio parere, nell’abbinamento della cannabis all’eroina o alla cocaina o all’alcool, che fornisce una descrizione piuttosto problematica di questi giovani. Va poi richiamata l’attenzione sull’abuso degli alcolici. 3. SOGGETTI IN TRATTAMENTO o in altri circuiti Aumento dei soggetti: 21% nuovi utenti 87% maschi (35 anni) 7% stranieri 59% occupati, 31% disoccupato,10% non attivo /studenti. Livello istruzione medio (62%) Sostanza “primaria”: oppiacei 74%, cocaina 16%, cannabis 8%, altro 1% Poliassuntori: 41% Latenza: 9 anni per cocaina 7 a. per oppiacei o cannabis Totale in carico: 171.771

25% nuovi utenti 10% inviato dai Ser.T. 84% maschi (34 anni); 16% fem. (> Ser.T.) 36% occupati, 54% disoccupati,10% non attivi Livello istruzione medio (62%) Sostanza “primaria”: oppiacei 79%, cocaina 17%, cannabis 4% Poliassuntori: 41% Consumatori di cannabis: percentuale maggiore di istruzione e occupazione Totale in carico: 18.357

E’ in aumento la percentuale di coloro che si rivolgono al Ser.T. o entrano in Comunità Terapeutica (CT), in maggioranza maschi sui 34 anni, anche stranieri. Vi sono sostanziali differenze, fra i due Servizi, nei tassi di occupazione degli utenti, in linea con le diverse caratteristiche trattamentali laddove l’offerta non residenziale dei Ser.T. è più adeguata ai lavoratori. Nei due ambiti è poi uguale e alta la percentuale degli studenti e dei poliassuntori, così come risultano egualmente ripartiti coloro che hanno un livello di istruzione medio, cui si aggiunge un picco più alto in CT. In totale, circa 200.000 persone sono in trattamento, che vede principalmente come sostanza primaria gli oppiacei. DETENUTI 27% popolazione carceraria

MINORI 46% ingressi varie strutture

Oppiacei 25%

9%

Cocaina 21%

10%

Policonsumo: 36%

Policonsumo: 24% (crak) Cannabis: 78%

3.227 persone affidate ai Servizi Sociali per iniziare o proseguire un trattamento della tossicodipendenza.

Un terzo della popolazione carceraria (maggiorenni) è tossicodipendente (come già riferito nel 2004); di questo, il 36% consuma oppiacei e cocaina. Merita, dunque, riproporre l’attivazione veloce e diffusa delle Custodie attenuate all’interno delle carce-


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ri, con il concorso dei servizi pubblici e del privato-sociale. Anche il numero dei minori “abusanti” risulta elevato (46%) rispetto alla totalità affidata alle Strutture giudiziarie minorili, con indici significativi per la cannabis e il policonsumo. • • • • •

825 nel ± 520 ± 600 551 589

DECESSI per OVERDOSE 2001 (età media 33) 2002-3 2004-5 2006 2007 (età media 35) Sostanza: ◘ EROINA 40% ◘ COCAINA dal 2,3% al 6%

Mortalità acuta per overdose o incidenti cardiovascolari riguarda i consumatori discontinui.

Riguardo i decessi per overdose - cioè con diagnosi di morte per assunzione certa di sostanze psicotrope – assistiamo ad un forte decremento dal 2001 al 2006, al quale segue un aumento fra il 2006 al 2007, con un innalzamento dell’età media (da 33 a 35 anni), causa principale l’eroina. Va, inoltre, segnalato che l’uso discontinuo non è garanzia di “non-mortalità” anzi… 4. ALTRE DIPENDENZE ALCOOL

Popolazione:una o più ubriacature negli ultimi 12 mesi: 38,3%M-26,4%F (15-24 a.)

Studenti (15-19enni): Consumatori regolari 6,5% Binge drinking: 47%M-32%F

DOPING

Popolazione: lo 0,1% fa uso di anabolizzanti, di cui il 57% con frequenza

Studenti: 1% (> ormone della crescita)

FUMO

24,7% popolazione è un fumatore quotidiano

L’Alcool detiene il suo triste primato e raccoglie nuovi adepti fra gli adolescenti anche con nuovi stili quali il “Binge drinking”: è doverosa una riflessione sull’osservanza delle norme a tutela dei minori nei locali pubblici, sui controlli delle discoteche e sulla ipocrisia mercantile dei gestori di tali locali; lo stesso dicasi per le disattenzioni colpevoli dei genitori o familiari. Indici molto preoccupanti sono registrati dal Doping e l’1% degli studenti fa uso dell’ormone della crescita: si può arguire che nella popolazione esista una smodata attenzione all’immagine e alla prestazione fisica, come il mondo sportivo ci mostra sempre più di frequente. Il fumo di sigarette abbraccia circa il 25% della popolazione. GIOCO D’AZZARDO

- Il 40% della popolazione ha giocato almeno una volta. -Il 21% presenta compulsività (+45enni) - il 5% rischio gioco problematico - l’1% gioco patologico

- Il 44,6% studenti partecipa a giochi con denaro. - Picchi di compulsività: 15enni. - Picco di omertà sulle somme: 10,5% fascia 15-24 anni.


Dipendenze in Italia: dall’emergenza alla pandemia

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Anche il gioco d’azzardo si attesta con indici notevoli e trova numerosi adepti nei giovani, a cominciare dai 15enni più omertosi e compulsivi degli altri. Le percentuali di gioco problematico e gioco patologico sono ragguardevoli e devono fare riflettere

soprattutto lo Stato che, come per il tabacco, detiene, diffonde o permette il gioco con denaro (lottomatica, videopoker), anche tramite la tv e internet, secondo un con-

sumato copione mercantile e ipocrita e senza strumenti educativi o correttivi, per una prevenzione o terapia delle patologie correlate al gioco problematico o patologico. 5. CONSIDERAZIONI ALCUNI FATTORI NEGATIVI ASSOCIATI ALL’USO DI SOSTANZE • Uso psicofarmaci senza prescrizione • Uscire la sera in giro con gli amici • Amici/fratelli che usano droghe • Aver partecipato a giochi in cui si

spendono soldi

• Rapporti sessuali non protetti o di cui

si è pentiti il giorno dopo • Aver perso 3/+ giorni di scuola negli ultimi 30 giorni • Aver speso 50 euro senza controllo dei genitori

ALCUNI FATTORI POSITIVI ASSOCIATI AL NON USO DI SOSTANZE Percepire attenzione da parte dei geni• • • • • •

tori Sentirsi accolto dai genitori Interessamento dei genitori verso dove e con chi si esce la sera Avere un rendimento scolastico medio-alto Aver un’alta percezione dei rischi derivanti Aver cura della casa e delle persone e/o animali

Trovo, in conclusione, utile riportare la modesta ma significativa raccolta di considerazioni degli studenti, raccolte nella Relazione, che rivela un quadro di concomitanze che influenzano il rapporto con le sostanze. Risulta evidente che stili educativi attenti, e gratificanti sul fronte affettivo, associati ad un rendimento scolastico motivante sono assimilabili a fattori di resilienza contro il disagio. Di contro l’adolescente lasciato a se stesso, senza possibilità di rielaborazione delle esperienze proprie dell’età, compresi gli errori, può adire derive devianti. In definitiva, sono i giovani stessi che ripropongono la necessità di interagire con adulti empatici e autorevoli, con i quali confrontarsi e scontrarsi in una cornice di accoglienza e di crescita: prima ed ineludibile attività di prevenzione. PARTE II

- Riflessioni sulle politiche italiane contro la droga

Stante il panorama minuziosamente descritto nella Relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia - anno 2007, un’efficace politica delle droghe in Italia deve, in primis, nascere da una rivisitazione dell’orizzonte socioculturale in cui ristagna il Paese, specialmente sul fronte giovanile. Il consumo di sostanze, infatti, “non appare un fenomeno a sé stante ma una sorta di sottoprodotto o prodotto correlato di un mutato atteggiamento culturale che fa del vivere al presente e della ricerca dell’emozione fine a se stessa, due pilastri delle modalità d’azione e di consumo della società contemporanea”3. Di conseguenza una politica sulle droghe 3

AA. VV., Giovani del nuovo secolo – Quinto rapporto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 2002.


Nicolò Pisanu

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non può esser politica “specialistica” o di riduzione come fino a qualche tempo fa, nel quale la droga si ergeva quale nuovo fenomeno collusivo col disagio e con la devianza. Il sistema società, oggi, ha assimilato tale fenomeno metabolizzandolo quale caratteristica epocale cronicizzate, al pari dell’alcolismo o del tabagismo, innescando, cioè, una sorta di meccanismo di difesa sociale che, da un parte, giustifica certa impotenza nel debellarlo; dall’altra, evita di entrare nello spinoso ambito dell’etica, in quanto prevedrebbe un serrato confronto sui margini di libertà dello Stato e del cittadino a fronte dell’uso di sostanze. “Non è tempo di contrapposizioni o polemiche, ma di crescita e scambio dei saperi accumulati, perché il mondo delle dipendenze è in rapida evoluzione. In genere il dipendente da sostanze si comporta ormai come un normale consumatore, che soddisfa i propri bisogni ricorrendo a prodotti diversificati offerti con dovizia dal mercato e cambiati rapidamente: alcool, sostanze chimiche, cocaina. Raramente ha consapevolezza del proprio stato e tende a non rivolgersi ai servizi. Tra coloro che si rivolgono ai servizi pubblici o del privato sociale, la percentuale di chi ha problemi anche psichici (la cosiddetta «doppia diagnosi») aumenta sempre di più. Sono soggetti che spesso diventano cronici. Va inoltre ricordato che i tossicodipendenti rappresentano un terzo dell’intera popolazione carceraria, in condizioni di espiazione di pena punitive e non riabilitative”4.

Non necessariamente ciò comporta la fuga in soluzioni semplicistiche, quali indulti e amnistie, piuttosto ambigue nei confronti del concetto di giustizia, bensì la creazione, il sostegno e il finanziamento di meccanismi alternativi alla carcerazione, per altro previsti dall’Ordinamento Penitenziario, quali l’inserimento dei tossicodipendenti detenuti nel circuito delle Comunità Terapeutiche o in altre forme di Affidamento ai Servizi e l’attivazione veloce e diffusa delle Custodie attenuate all’interno delle carceri, con il concorso dei servizi pubblici e del privato-sociale. Detta premessa spinge il sistema antidroga - che include politiche, prevenzione, trattamento, reinserimento, riduzione del danno… - a riposizionarsi nei confronti sia delle droghe sia della società e ne mette in luce alcune caratteristiche:

1. La riduzione del problema al tipo di trattamento Una politica “antidroga” non può partire dall’ultima fase dell’intervento, cioè la scelta del trattamento, ma deve presentarsi come politica della salute, quindi in termini di promozione dei fattori di resilienza atti al benessere sociale, da tradursi in azioni che dovranno diventare consuetudinarie, previo monitoraggio e verifica in itinere, all’interno di un Piano nazionale di educazione permanente. Inoltre, vanno chiariti, su base scientifica, i termini riduzione del danno e riduzione del rischio: - la riduzione del danno è ormai prassi consolidata, in quanto permette una stabilizzazione temporanea del tossicodipendente necessaria al raggiungimento di un’astinenza motivata, quale protesi che sostituisce l’assunzione della sostanza stupefacente e permette un aggancio della persona al servizio pubblico o del privato-sociale.“Le strategie di riduzione del danno sono oggi adottate localmente in molti Paesi e certamente si sono dimostrate utili nel perseguire gli obiettivi che si sono proposte: innanzitut4

Cfr. G. Stenico, Usati e ignorati, in “Persona e Comunità – Progetto Uomo” online (www.progettouomo.net), Marzo 2006.


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to salvaguardare la vita e la salute dei soggetti coinvolti e degli altri che potrebbero essere contagiati” 5. Non deve, comunque, dare adito a cronicità, lesive della persona ed eticamente riprovevoli; “la preoccupazione è che la scelta di un male minore possa portare comunque ad un’accettazione del male ed a un ulteriore rafforzamento di comportamenti negativi all’interno della società”6. La riduzione del danno comporta, perciò sia la presa in carico tossicologica sia l’integrazione con programmi terapeutici personalizzati a carattere psico-sociale. - la riduzione del rischio, invece, è finalizzata ad evitare danni collaterali derivanti dall’uso di sostanze, in chiave più epidemiologica che terapeutica. In tal senso vanno lette sperimentazioni quali: distribuzione di siringhe, somministrazione controllata di eroina, stanze per iniezione di eroina… Si tratta di una strategia di puro controllo sociale e profilassi igienica, non condivisibile in quanto, pur nello sforzo più plateale che reale di contenere gli effetti mortali o i correlati di contagio (AIDS) della dipendenza, è ben lontana dalla presa in carico del tossicodipendente; comunque, veicola la cronicizzazione della dipendenza che nel tempo, in maniera più “elegante”, porterà alla morte fisica o psichica e sociale del tossicodipendente. Inoltre, può essere letta dal tossicodipendente e dalla società, soprattutto dagli adolescenti, quale resa e collusione dello Stato nei confronti delle dipendenze.

2. Una rete frammentata e la presenza di protagonismi Il “sistema antidroga” appare costellato da assertori di certezze che, reclamizzando efficacia di percorsi riabilitativi, enfatizzano, più o meno consapevolmente, il trattamento. Ne consegue la diatriba interna fra i tipi e l’efficacia delle Comunità e quella esterna con i Ser.T. laddove, poi, gli interventi dello Stato, nei confronti delle prime, si rivelano né equi né puntuali mentre, nei confronti dei secondi, non sono sufficienti. Comunque, si focalizza l’impegno sul tossicodipendente, ancora secondo criteri di contenimento di un’epidemia, nella ricerca della cura migliore e con la minima spesa. Il quadro sociale, invece, afferma che il tempo delle emergenze e dei presidii è terminato in quanto l’uso di sostanze rientra, seppur con valenza negativa, nei mores sociali e il tossicodipendente, quale identità ben definita, è mimetizzato nelle intercapedini della pandemia. La vera emergenza è data dal clima sociale, dalla deriva di giovani e adulti e dall’assenza di una concertazione. Per concertazione s’intende la stabile formalizzazione di tavoli programmatici, a livello nazionale e regionale, che riuniscano il pubblico, il privato sociale, l’associazionismo, il volontariato, la scuola… e li chiamino, ognuno secondo le proprie possibilità e competenze, a comporre un mosaico di interventi sinergici che, partendo dall’educazione permanente, arrivino alla promozione della salute per tutti e ai trattamenti e alla riabilitazione per qualcuno. In tal caso si potrà parlare non di “offerte” ma di un sistema di intervento, che supera, valorizzandone i seppur presenti punti di forza, l’odierno e frammentato “sistema antidroga”. Questo significherà ripartire dall’educazione formale e da quella informale, scoprendo che una vera e attenta azione educativa coincide a pieno titolo con la “prevenzione primaria”, la cui estrema 5

U. Nizzoli, M. Pissacroia, Trattato completo degli abusi e delle dipendenze, Vol.I, Piccin, Padova 2003, pagg. 82-83. 6 Ibidem, nota 5.


Nicolò Pisanu

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settorializzazione ha creato un binomio inscindibile col disagio, assimilandola, di conseguenza, alla psicoprofilassi. “E’ necessario elaborare e attuare azioni e strategie preventive per tutti i gruppi di persone di ogni età, in particolare per i bambini e i giovani. Piuttosto che concentrarsi esclusivamente sulle droghe illecite, tali azioni dovrebbero trattare i comportamenti a rischio e le dipendenze in generale, inclusi gli aspetti relativi all’uso di alcol, farmaci, sostanze dopanti nello sport e tabacco. Occorre offrire a bambini e giovani attività ricreative valide in alternativa al consumo delle droghe. Un efficace metodo di prevenzione è rappresentato dall’individuazione precoce dei comportamenti e rischio di bambini e giovani e degli eventuali problemi che sono alla base di tali comportamenti, unitamente ad un’azione adeguata di sostegno diretta agli interessati e alle loro famiglie, prima che si verifichi l’assunzione di droghe. Sono altresì utili i programmi destinati ai genitori, soprattutto nelle aree in cui il consumo di droghe è elevato 7”.

3. Il mosaico delle Comunità terapeutiche “Le organizzazioni non governative, che hanno una lunga tradizione di sensibilizzazione dell’opinione pubblica e di formazione giovanile, nonché di assistenza ai tossicodipendenti e alle loro famiglie e di intervento destinati a riparare i danni causati dal consumo di droga sono spesso all’avanguardia nell’individuare prospettive e metodologie d’intervento 8”. Riunite sotto sigle diverse o rappresentate da fondatori o capi carismatici, le Comunità terapeutiche (CT) presentano filosofie e metodiche d’intervento diverse, con alcuni punti di forza: - la vasta diffusione sul territorio nazionale; - l’attenzione all’accoglienza e al “prendersi cura”; - le differenze fra le stesse, quale caleidoscopio di opportunità per rispondere alle diversità sempre più marcate che contraddistinguono le persone portatrici di disagio e/o dipendenti; - il volontariato e le professionalità; - la presa in carico globale della persona e della sua costellazione familiare; - l’esperienza accumulata nel tempo; - l’impegno nella prevenzione; - per talune anche il costante impegno nella formazione dei propri Operatori ed Educatori. Mentre, sul fronte problematico, si nota: - per taluni, forte esposizione politica con il rischio della strumentalizzazione; - una spinta non sempre controllata alla trasformazione legata sia ad un’acquisita consapevolezza circa l’importanza di un’elevata e specifica professionalità e di una logica aziendale sia al problema di una non facile successione dei fondatori 9; - per taluni, il porsi come unici e validi interlocutori di un sistema antidroga in concorrenza con gli altri con la conseguenza di indebolire il sistema stesso e

7

Consiglio Europeo, nota del COREPER, par. IV, 01/12/1999. Consiglio Europeo, nota del COREPER, par. IV, 01/12/1999. 9 Cfr.: G. Stenico, Usati e ignorati, cit. 8


Dipendenze in Italia: dall’emergenza alla pandemia

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di adire derive politicizzanti che, di fatto, vanno a discriminare i tossicodipendenti presi in carico.

4. Linee guida -

Alla luce di tali considerazioni, si possono tracciare alcune li-

nee guida utili per una nuova politica delle droghe in Italia: 4.1 Chiarezza scientifica e coerente chiarezza normativa nei confronti delle droghe Similarmente alla campagna contro il tabagismo, lo Stato ha diritto e dovere di prendere posizione contro tutto ciò che nuoce alla persona e alla società, in linea con la promozione della salute, in quanto “processo che mette in grado le persone di aumentare il controllo sulla propria salute e di migliorarla10” laddove la salute “è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale11” che non dovrebbe, quindi, reggersi su “protesi chimiche”. Già la Relazione 2004 denunciava che: i rilievi sulla popolazione generale e studentesca evidenziano un incremento del consumo di sostanze illegali e una riduzione della consapevolezza rispetto alla pericolosità delle droghe, in particolare tra i giovani. Una evidenza costante negli ultimi anni appare l’incremento del consumo di psicostimolanti che sono utilizzati in una porzione piuttosto consistente di giovani a partire dall’età evolutiva. (…) L’incremento della porzione di consumatori che utilizzano cannabis, cocaina o più sostanze assieme, e che in una percentuale consistente passano dall’assunzione episodica all’uso regolare, lascia intravedere serie conseguenze per la salute psicofisica dei cittadini, per la convivenza civile e la sicurezza”12. Va da sé la gradualità, il peso della norma e della sanzione rispetto ai comportamenti derivati dall’uso delle droghe. La stigmatizzazione e la penalizzazione sono indispensabili contro lo “spaccio”, non efficaci contro il consumo. La liberalizzazione è, invece, in ogni caso nociva nonché lesiva del diritto alla salute che, in tal caso, lo Stato non tutelerebbe più. Anzi, la liberalizzazione è simile all’atteggiamento svincolante di certi adolescenti, però con dati anagrafici da adulti, che o non sanno discernere l’aspetto diseducativo delle loro ideologie libertarie nei confronti dei minori e dei veri adolescenti o suppongono che nel lecito possa entrare tutto ciò che loro considerano innocuo. E’ pur vero che talvolta la distinzione fra spacciatore e consumatore, in base al ritrovamento di certa quantità di sostanza, non è così netto ma, al di là del caso eccezionale, un continuo e attento controllo del territorio e della circolazione delle sostanze nonché della loro qualità può portare a stabilire dei parametri per distinguere fra uso personale e detenzione per spaccio nonché fra tossicodipendente o consumatore occasionale e spacciatore.

4.2 Una organizzazione più funzionale dei Servizi che allinei pubblico e privatosociale (certificato) secondo una molteplicità di offerte Ciò comporta condivisone: dei percorsi formativi e riconoscimento di quelli già sperimentati a livello del pubblico e del privato-sociale, per una maggiore qualificazione 10

Carta di Ottawa, 1986. OMS, 1948. 12 Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dip. Nazionale per le politiche antidroga, Relazione 11

annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, 2004.


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e a favore della formazione permanente; di metodiche scientifiche e opportunità variegate; di nuovi strumenti terapeutici e riabilitativi; di sbocchi occupazionali e di reinserimento sociale per coloro che escono dalla dipendenza. Si tratta di permettere che i Servizi pubblici e privati possano “concorrere, mettendo in comune le specifiche competenze, le risorse esperienziali e le opportunità formative, a delineare quelle articolazioni terapeutiche – riabilitative differenziate (...), in un insieme funzionale improntato alla pariteticità”13. La stessa intenzionalità va applicata nelle azioni rivolte ai tossicodipendenti detenuti, declinando con equilibrio e conoscenza di causa la condizione afflittiva della pena e la necessità della cura e della riabilitazione, a favore del soggetto e della società che dovrà riaccoglierlo. “Questi pazienti necessitano di un approccio riabilitativo specifico che comprenda nella misura maggiore possibile l’applicazione delle alternative alla detenzione e che offra all’interno degli Istituti Penitenziari tutte le risorse di cura che sono garantite dai Servizi sul territorio”14 . Né si possono standardizzare quelle dipendenze che nascono e si sviluppano con caratteristiche complesse connesse ad evidenze cliniche preesistenti o conseguenti all’uso delle droghe: è il caso della cosiddetta “doppia diagnosi”, terreno del disturbo psichiatrico, povero di interventi integrati e, in genere, delegato dai Dipartimenti di Salute mentale a quelli delle Dipendenze. “Se un numero consistente di pazienti tossicodipendenti è affetto da disturbi psichiatrici maggiori o da disturbi della personalità, solo provvedendo interventi specifici, integrati con la cura dei disturbi additivi, si potrà ottenere un significativo miglioramento dell’efficacia terapeutica”15.

4.3 Svelare la nebulosa delle “buone pratiche” e della prevenzione Il sistema delle “buone pratiche” e delle prevenzione appare un sistema nel sistema antidroga. Si tratta di un sistema “feudale”, lasciato o alla buona volontà o ai soliti esperti o alle logiche amministrative delle Regioni e/o delle Scuole e/o dei Ministeri, con dispersione di fondi e di buone intenzioni. Proprio ribadendo il concetto che la prevenzione primaria coincide con l’educazione e con la promozione della salute, nella sua accezione più ampia e completa, una politica antidroga, capace di ampio respiro, non può delegare la prevenzione alla “buona volontà” di qualcuno o dei soliti noti né può permettere il diffondersi di sperimentazioni o di buone pratiche di nicchia, simili a meteore. “Fare uso di droghe oppure no è una questione di scelte, scelte consapevoli. Dobbiamo diffondere la consapevolezza che le droghe sono illegali perché rappresentano un problema e che quindi il problema non è l’illegalità delle droghe. Il nostro lavoro si deve concentrare soprattutto sui giovani, attraverso reti estese e paritetiche, facendo uso di opportunità come lo sport per mantenere i giovani attivi, in salute e fiduciosi. Questo significa anche coinvolgere e incoraggiare genitori e insegnanti affinché svolgano pienamente il loro ruolo16”.

13

Ibidem, nota 10. Ibidem, nota 10. 15 Ibidem, nota 10. 16 Kofi Annan, Messaggio del 26/06/06 per la Giornata Mondiale contro l’uso e il traffico di droga. 14


Dipendenze in Italia: dall’emergenza alla pandemia

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Vanno perseguiti i criteri della scientificità, dell’esperienza affidabile, della costanza e verifica del metodo e dei risultati, dell’economicità rispetto ai risultati, della diffusione territoriale e della riproducibilità e del coordinamento. Pur nel rispetto sia della territorialità e delle peculiarità socio-culturali del nostro Paese sia delle scuole di pensiero in cui nascono programmi e metodi di prevenzione – e senza, per questo, privilegiare la fama contro l’esperienza - è necessario riconoscere autorevolezza e fondi al Dipartimento Nazionale affinché possa sviluppare un Piano nazionale e, a cascata, locale che coordini e dia le linee programmatiche degli interventi, chiamando a raccolta le forze in campo per poi selezionarle e attribuire loro significanza operativa e mezzi. Ciò può permettere ai vari organismi afferenti la prevenzione e le “buone pratiche”, che intendono collaborare fattivamente, di ottenere gli strumenti per produrre interventi sinergici, secondo obiettivi da perseguire a tappeto, fino a toccare tutti gli ambiti e i soggetti che possono fruire di un’azione educativa a preventiva capillare, pur nella specificità di ogni intervento, seguiti da opportune verifiche. Fra le vari agenzie da coinvolgere va ricordata, in primis, la Scuola che, da sola, soprattutto oggi “in altre faccende affaccendata” dati i cambiamenti epocali in atto nell’educazione formale, non può arrogarsi percorsi di prevenzione del disagio autoreferenziali e privilegiati. Essa non rappresenta più, infatti, il centro della vita del bambino o del ragazzo, né l’unica o la più autorevole agenzia formativa, come dimostrato dagli studi delle Scienze dell’educazione17 e dall’esperienza. I genitori, poi, assumono atteggiamenti ambivalenti verso la Scuola, di collaborazione scarsa o ridotta all’uso di un servizio dal quale pretendono dei risultati, secondo una logica di delega e di deresponsabilizzazione che si accompagna ad uno svuotamento di autorevolezza nei confronti dei docenti. Per cui la Scuola, almeno in campo preventivo, può giocare un ruolo importante e decisivo solo in “squadra”, disponibile a giochi sinergici con tutte le agenzie con le quali colludono, in modi e tempi diversi, le famiglie e i ragazzi. Si tratta, essenzialmente, di un criterio epistemologico ed economico: distinguere gli ambiti, condividere i terreni comuni, liberare l’efficacia, lavorare secondo logica (obiettivi e strumenti non propri ma legati alla risoluzione del problema a monte). E’ un’opera di “disboscamento” preliminare ad ogni opera di impianto, onde evitare il consolidarsi di aree sopradimensionate o desertiche, per impedire che la prevenzione e le ”buone pratiche” si presentino sul territorio a “macchia di leopardo”, e con costi incomprensibili mentre chi già lavora nel campo da anni e con qualità si trova a far fronte con seri problemi di budget. Un’ultima nota: la vera novità di una politica antidroga consta non tanto in una strumentalità aggiornata quanto nell’attenzione ai mutamenti epocali e ai bisogni che la persona esprime attraverso la manifestazione, più o meno cosciente, del disagio esistenziale, vero e unico centro focale delle dipendenze stesse.

17

Cfr., fra gli altri, D. Demetrio, L’Educatore di professione, Ed. Nuova Italia .


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L’Istituto PROGETTO UOMO

informazione

Nel 1995 è andato costituendosi l'Istituto di Ricerca e Formazione "Progetto Uomo" (IPU), dando corpo e organicità anche accademica alla formazione della Federazione Italiana Comunità Terapeutiche (FICT). La FICT rappresenta 49 Organismi presenti su tutto il territorio nazionale; opera da decenni nello specifico campo della prevenzione, cura e riabilitazione dalla tossicodipendenza e da altre forme di emarginazione. Il 25 febbraio 2008, la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha concesso l'Affiliazione alla Facoltà di Scienze dell'Educazione dell'UPS, che permette di rilasciare titoli di Baccalaureato (Laurea triennale). Di conseguenza l'IPU ha cambiato denominazione in Istituto Superiore Universitario di Scienze Psicopedagogiche e Sociali "Progetto Uomo". Nel novembre 2001 è stato aperto un Polo didattico decentrato dell'Istituto a Taranto, nel 2006 a Modena e nel 2007 a Reggio Calabria. Sono state attivate collaborazioni con Enti, Fondazioni, Centri e Università italiane e straniere che contemplano attività culturali, formative (e di Servizio civile per l'Italia). L'Istituto si avvale di un Ufficio stampa e realizza la rivista "Progetto Uomo", settimanale on line per educatori e operatori nel sociale (www.progettouomo.net}. Consapevole del fatto che il disagio è realtà complessa e articolata in continuo divenire, l'IPU considera fondamentale l'aspetto dell'osservazione e della ricerca, al fine dì predisporre strumenti formativi innovativi attenti all'utilizzo di nuove tecnologie. Promuove anche l'organizzazione di Convegni, Seminari e Corsi di aggiornamento e formazione permanente. Risponde alle esigenze formative dei Centri della FICT organizzando attività didattica anche presso le rispettive sedi di appartenenza. Gli studenti, di diversa età e provenienza, che hanno frequentato o frequentano le attività sono circa 700. Le finalità - Costituiscono aree privilegiate verso le quali indirizzare l'attività formativa i settori della prevenzione e cura del disagio. Di conseguenza, la gamma di coloro che fruiscono delle iniziative formative dell'IPU si presenta variegata, in quanto lo stesso si considera interlocutore della società e del mondo scolastico, professionale, accademico e religioso per la ricerca e l'attuazione di sinergie educative. La sua è quindi una presenza di complemento specifico nel quadro della formazione continua, superiore e universitaria. L’IPU predispone progetti che prevedono la realizzazione di processi formativi finalizzati a tradurre l'elaborazione pedagogica in capacità operative qualificate e qualificanti. Inoltre, l'attenzione al mondo del lavoro - inteso come luogo di espressione delle capacità del singolo e del gruppo e quindi effettivo strumento di riduzione disagio - costituisce un peculiare tratto dell’Istituto. Vengono, perciò, promosse anche azioni innovative per la formazione e l'occupazione, rivolte all'inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro di disoccupati di lunga durata o esposti alla disoccupazione. Tali iniziative (anche a valenza europea) si sviluppano attorno all'asse del reinserimento socio-lavorativo di categorie vulnerabili, con particolare attenzione agli ex-tossicodipendenti, al fine di evitare le recidive tossicomaniche. L’IPU si propone, infine, di realizzare iniziative di studio e ricerca nell'ambito specifico della formazione e della prevenzione del disagio giovanile. Gli obiettivi - Alla luce di tali premesse, l'Istituto "Progetto Uomo" intende: ■ promuovere, mediante la ricerca,lo studio e la sperimentazione, sia il progresso delle scienze dell'educazione sia la figura dell'educatore, al fine di tutelare il benessere globale ed etico della persona; ■ contribuire sul piano italiano ed europeo alla promozione della figura professionale dell'educatore e dell'operatore di Comunità terapeutica; ■ formare in modo approfondito nei settori scientifici di competenza, quanti operano in campo sociopsico-pedagogìco, per sviluppare atteggiamenti professionali orientati ai valori universali quali la solidarietà, la condivisione, la gratuità, l'attenzione agli ultimi; ■ fornire conoscenze e strumenti pedagogici, traducibili in riferimenti scientifici e metodologici; ■ coltivare forme di presenza e di partecipazione, conformi alla natura dell'Istituto, soprattutto dove esistono problemi attinenti la formazione e tutela di giovani in situazione di rischio, disagio, devianza; ■ elaborare percorsi formativi che utilizzino metodologie didattiche e tecnologie innovative; ■ dare organicità e spessore formativo all'esperienza dei Centri federati alla FICT.


RICERCHE E STUDI

RivLas 76 (2009) 2, 221-232

Eglise et « Fihavanana » dans le contexte malgache marqué par la mondialisation et la fracture sociale Hilaire Raharilalao, fsc Théologien, Antananarivo

A

border un tel thème c'est entrer résolument dans une perspective de réflexion, d'étude et de recherche centrée sur l'inculturation. D'abord par l'évocation et la mise en apposition de deux réalités d'ordre différent, l'Eglise qui est d'ordre institutionnel, universel et le Fihavanana qui est d'ordre culturel, local. Ensuite par la mise en contexte plutôt large et globalisant de ces deux mêmes réalités, le contexte de la mondialisation et de la fracture sociale. Si déjà, il n'est pas aisé de considérer ce qu'est l'Eglise dans un premier contexte culturel malgache de Fihavanana, la tache sera encore plus ardue de situer ce problème dans un second contexte, celui de la mondialisation et de la fracture sociale. En termes plus clairs, nous voulons signifier que la préoccupation majeure qui ressort de ce thème demeure l'Eglise, «en tant qu'elle est dans ce monde et qu' elle vit et agit avec lui » (GS 40). Elle rencontre aujourd'hui, dans l'exercice de sa mission, le monde malgache du Fihavanana dans un contexte général caractérisé par la mondialisation et la fracture sociale. Aussi, pour mettre en exergue ce qui fait la vie et l'expérience actuelle de l'Eglise en milieu malgache, proposerions-nous les points de réflexion suivants : 1. Quel visage de l'Eglise à Madagascar, 50 ans après Vatican II ? - 2. Eglise et Fihavanana à Madagascar dans un contexte socio-culturel évolutif: mondialisation et fracture sociale. - 3. RaharahamPihavanana: l’art de vivre l'identité malgache face à l’émergence des nouvelles va-


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Hilaire Raharilalao

leurs. - 4. Eglise et Fihavanana à Madagascar1: un ouvrage de recherche théologique en inculturation. - 5. Une Eglise-Fihavanana comme Eglise-famille de Dieu. Pour conclure: et si l'Eglise malgache évangélisait à son tour d'autres peuples ...

Quel visage de l'Eglise malgache 50 ans après Vatican II ? Où en est l'Eglise de Dieu à Madagascar après 150 ans de première évangélisation par les missionnaires expatriés venus de la lointaine Europe ? Que dit-elle d'elle-même 50 ans après que le concile Vatican II a ouvert irréversiblement la voie à ce que nous appelons aujourd'hui par le vocable « inculturation » par le décret Ad gentes sur l'activité missionnaire de l'Eglise dans le monde de ce temps ? Répondre à de telles questions engage à faire une relecture de l'histoire et du cheminement de l'évangélisation avec ses implications dans le contexte malgache contemporain. Mais notre propos se veut beaucoup plus modeste sinon ciblé compte tenu du thème proposé, des problèmes mais aussi des attentes qu'il suscite. Est-il besoin de rappeler pour la circonstance, ce pourquoi l’Eglise a été au commencement, à sa naissance, et non pas ce qu'elle est devenue par la suite à travers les grands territoires socio-culturels. Ce besoin de recentrement du problème est capital pour mieux comprendre le sens de l'Eglise, son rôle et ses engagements à travers le temps et l'espace. Née de l'amour du Père, fondée dans le temps par le Christ rédempteur, rassemblée dans l'Esprit (GS 40.2), l'Eglise est l'expression de la volonté et du commandement de Jésus-Christ, manifestés aux apôtres après sa résurrection d'entre les morts et avant son ascension dans les cieux : Allez par le monde entier, proclamez l'évangile à toutes les créatures. (Mc16,16-20).Vous allez re-

cevoir une puissance, celle du Saint-Esprit qui viendra sur vous: vous serez alors mes témoins à Jérusalem, dans toute la Judée et la Samarie et jusqu’aux extrémités de la terre (Ac 1,8). Si d'une part dans ce contexte premier, il est affirmé l'origine de l'Eglise par le Seigneur qui agit avec les apôtres et la puissance du Saint-Esprit qui descend sur eux, et si d'autre part, il est dit que le lieu d'émergence de l'Eglise est le monde entier; partout dans les villes (Jérusalem), les régions (Judée et Samarie) et jusqu'aux extrémités de la terre, il reste clair que le propre de l'Eglise est d'annoncer l'évangile à toutes créatures. Tache qui vise l'enracinement de l'évangile au cœur de toutes créatures, œuvre confiée aux apôtres ainsi qu'à leurs successeurs, à la fois les agents et les témoins d'une Eglise toujours en devenir

L'Eglise à Madagascar : Fiangonana, famille de Dieu - C'est ainsi que par l'an-

nonce de l'Evangile en milieu socio-culturel malgache, l'Eglise est née à Madagascar2. Une évangélisation qui s'est faite naturellement par la parole dans une culture orale mais qui s'est propagée très tôt aussi par l'usage d'une première traduction malgache de la Bible (1835). Cette ère missionnaire coïncidait en partie avec le temps de la royauté suivi de la période coloniale. L'Eglise à Madagascar, disons, a contribué à faire du malgache et du peuple malgache un peuple chrétien. L'Eglise, par la voix du 1

Hilaire Aurélien-Marie RAHARILALAO, Eglise et Fihavanana à Madagascar, Préface de R. Andriamananjara président de l’Académie Malgache, Ed. Ambozontany, Antananarivo 2007, pp. 447. [NdR: L’article présente le texte de l’intervention faite au Département de Théologie de l’Institut Catholique de Madagascar à la Session interdisciplinaire annuelle, février 2008]. 2 Cfr. Cesare GIRAUDO, “Da pagani a pre-cristiani. Il Verbo Seminatore sui sentieri dell’Isola Rossa”, in Universalità del Cristianesimo. In dialogo con Jacques Dupuis, a cura di M. Farrugia, San Paolo, Cinisello Balsamo MI 1996, pp. 233-252.[ndr]


Eglise et Fihavanana dans le contexte malgache marqué par la mondialisation et la fracture sociale

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Concile Vatican II et fidèle au commandement de son Maître, prôna pour une évangélisation adaptée aux aspirations des peuples, aux spécificités des cultures, soucieuse des civilisations et du développement, attentive aux changements et aux progrès. Cette ère post-missionnaire de l'Eglise à Madagascar qui coïncidait avec l'avènement de l'indépendance politique et sociale a vu se déployer tout un effort pour malgachiser le christianisme ou encore donner un visage malgache à l'Eglise, De ces premiers temps de l'Eglise, nous retenons l'expérience de la foi manifestée par l'émergence des Fiangonana implantés en milieu urbain et rural comme une nouveauté, un autre signe d'appartenance et surtout une nouvelle manière de vivre dans un environnement socio-culturel malgache. Ce visage de l'Eglise qui n'a pas de nom propre sinon celui générique et conventionnel de l'Eglise catholique apostolique romaine a non seulement le mérite de créer un nouveau rassemblement dans et par la foi au Dieu de Jésus-Christ et à son évangile, mais aussi de rechercher une forme authentique d'existence malgache en Eglise. En terme de visage, nous évoquons celui de Fiangonana qui n'est pas une simple traduction du mot Eglise, Fiangonana exprime l'accueil et la compréhension malgache de la proclamation de l'Evangile qui se manifeste aujourd'hui en Fiangonana-édifice, Fiangonana-assemblée et Fiangonanacommunauté de vie chrétienne. Autre visage de l'Eglise que le christianisme à Madagascar a adopté et dans lequel il se reconnaît lui vient des orientations de l'Assemblée spéciale pour l'Afrique du Synode des Evêques: une Eglise-famille de Dieu. Non seu-

lement le Synode a parlé de l'inculturation, mais il l'a appliqué en prenant pour l'évangelisation en Afrique, l'idée-force de l'Eglise-famille de Dieu. Les Pères y ont vu une expression particulièrement appropriée de la nature de l'Eglise pour l'Afrique. La nouvelle évangélisation visera donc à édifier l'Eglise-famille (Ecclesia in Africa, 63). Pour mettre en oeuvre cette exhortation post-synodale de Jean-Paul II, l'Eglise malgache a fait de cette image l'objet de son II Synode (Antananarivo,19-23 août 1998), sur le thème Eglise-famille de Dieu, rassemblée par l'Eucharistie.

Eglise et Fihavanana dans un contexte socio-culturel évolutif : mondialisation et fracture sociale Le rapport Eglise et Fihavanana représente déjà en lui-même un défi majeur pour l'évangélisation à Madagascar. Proposer de vivre la foi chrétienne dans un milieu culturel comme celui du Fihavanana peut tout aussi bien amener à l'indifférence car ce n'est pas une évidence, ou par contre susciter des interrogations qui seront significatives de vitalité pour l’une et pour l'autre. Evangéliser l'homme malgache et sa culture marquée par le Fihavanana est une double exigence de la foi et de la culture dans une démarche réciproque de rencontre vivante et originale, et qui mérite en elle-même une attention particulière sinon une étude systématique empreinte d'une méthode propre à la science théologique dont nous donnerons un exemple par la suite, mais en plus une telle rencontre se situe aujourd'hui dans un contexte évolutif de mondialisation et de fracture sociale. Quel chemin prendra notre réflexion devant cette complexité de rapports qui vise à une meilleure expression de la foi chrétienne et à une vision plus idoine de l'Eglise contemporaine à Madagascar ? Il convient donc de cerner, ne fut-ce qu'en passant, ce qui constitue la réalité de chacun des éléments en présence : Eglise, Fihavanana, mondialisation.


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Etre Eglise c' est être en état d'inculturation permanente - Le propre de l'Eglise,

en quelque lieu et en quelque temps que ce soit, est d'être en état d'inculturation permanente de par la parole fondatrice de son Maître. Proclamer l'évangile à toutes les créatures, à l'homme et à sa culture, engage une mission de tous les temps pour l'Eglise. L'évangile, et donc l'évangélisation, ne s'identifie certes pas avec la culture et

sont indépendants à l'égard de toutes les cultures. Et pourtant le règne que l'Evangile annonce est vécu par des hommes profondément liés à une culture et la construction du royaume ne peut pas ne pas emprunter des éléments de la culture et des cultures humaines. Indépendants à l'égard des cultures, évangile et évangélisation ne sont pas nécessairement incompatibles avec elles, mais capables de les imprégner toutes sans s'asservir à aucune (EN 20). L'histoire de l'Eglise depuis les Actes des Apôtres (cf Ac 15, 22-35) et comme actes d'apôtres est un long récit d'inculturation diverse de sorte que la foi au Dieu de Jésus-Christ s'enracine dans la culture et que la culture puisse exprimer cette foi. C'est l'histoire des fondations des Eglises particulières dans un contexte local caractérisé par le milieu humain et des circonstances précises. Parler toutefois d'inculturation revient à exprimer fort bien une des composantes du grand mystère de l'incarnation selon l'expression de Jean-Paul II, l'inculturation étant dans son essence l'incarnation de Dieu dans l'homme, dans son monde et dans sa culture, elle est au cœur et au bout de tout acte évangélisateur.

Situer le Fihavanana dans la vision et l'intelligence malgache du monde Demander à un Malgache: qu'est-ce que pour vous le Fihavanana ? serait un exercice

très intéressant. Pour notre part, il nous a fallu sérier les résultats d'une vaste enquête pour nous y retrouver dans le concept, les partenaires, les caractéristiques, le lieu d'émergence et l'idéal du Fihavanana qui, somme toute, restent indissociables, pour ne pas dire entremêlés. Ces éléments constitutifs de notre analyse déterminent en quelque sorte les catégories interdépendantes propres à l'évocation du Fihavanana que sont la nature, les agents, les aspects, les lieux et la fonction. Le seul mot du Fihavanana exprime chez le Malgache une réalité multiple : la parenté, la consanguinité, l'amitié, la solidarité, la convivialité et les relations interpersonnelles. Peut-être le Fihavanana ne s'explique-t-il pas pour un Malgache. 11 relèverait de l'ordre de ce qui se montre mais qui ne se démontre pas. Mais il reste qu'au-delà de ce qui se vit et se voit, la réalité du Fihavanana pose question quant à son contenu et son expression. Le Fihavanana à Madagascar exprime une tradition vivante qui se définit à partir de l'existence personnelle et collective. S'il n'est pas aisé pour le Malgache de l'expliquer d'une manière exhaustive, sa définition la moins imparfaite parce que la plus proche, se fera en fonction des faits circonstanciels précis, de contextes et autres événements. Bref, il en est du Fihavanana comme d'un prisme à multiples facettes qu'il faut sans cesse tourner et retourner pour avoir une saisie plus conforme à la réalité. Nous dirons du Fihavanana qu'il est la capacité malgache de se mettre en relation avec l'autre, les autres et le tout Autre, En d'autres termes, nous privilégions la manière malgache d'être « un-à-plusieurs » ou encore l'unipluralité. Le Fihavanana est une réalité propre à l'humanisme malgache : le dire, l'agir, l'être malgache vibrent de la profondeur de cette réalité : l'expression typique de sa manière d'être au monde. Exprimer cette réalité dans le vécu signifie être avec, vivre avec son entourage. L'homme malgache est par culture et par nature membre d'un groupe familial, social dans lequel il se sent pleinement solidaire et où il vit constamment un attrait naturel et gratuit, un besoin de tension vers l'autre, une proximité consciente car le Malgache authentique ne peut souffrir d'être neutre en face de quel-


Eglise et Fihavanana dans le contexte malgache marqué par la mondialisation et la fracture sociale

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qu'un: le Fihavanana se vit comme une réalité d'engagement et non de neutralisme, encore moins d'abstention. Enfin elle est ouverture avec la totalité du monde des êtres visibles et invisibles, vaste milieu qui lui fournit un équilibre personnel et social qu'il considère comme étant le lieu d'harmonie nécessaire pour s'assurer la vie-Aina présente et à venir. Ce qui n'exclut guère tensions, heurts et conflits.

Comprendre le phénomène de mondialisation et de fracture sociale - Le phé-

nomène de mondialisation et de fracture sociale qu'elle véhicule relève d'une conception hégémonique d'ordre socio-économique, religieux et culturel. C'est un autre néologisme mais qui n'est en aucune façon un phénomène particulier de la dernière décennie. On parle plus exactement de « vagues de mondialisation » dont la première eut lieu du temps de l'Empire romain qui voulait étendre son influence économique et culturelle dans l'ensemble du monde (Terra nostra) autrefois connu. A la même époque, d'autres mouvements de mondialisation, en Chine par exemple, ne pouvaient même pas être remarqués. Une seconde vague de mondialisation gagna aux 16è et 17è siècles le monde alors connu avec la colonisation de l'Amérique latine, de l’Afrique/Madagascar et de l'Asie par les puissances européennes et l'exportation de la culture occidentale qui s'ensuivit. Elle fut d'un point de vue historique étroitement liée aux efforts missionnaires chrétiens. Une troisième vague débuta finalement au 20è siècle et dont nous sommes aujourd'hui les heureux, ou les malheureux, protagonistes selon les points de vue. Cette dernière vague se résume essentiellement en un style de vie qui inclut la révolution cybernétique de la technologie de l'information et de la communication qui relie entre elles toutes régions géographiques et les structures sociales du globe, la libération de des marchés financiers appuyés par les lois de la libre concurrence, et enfin l'adoption et le triomphe du modèle économique néolibéral pour toute la planète terre. Cette mondialisation entraine avec elle en dépit de son nom une contradiction dont la fracture sociale, à l'image de la ligne de démarcation entre les pays du Nord (riche) et du Sud (pauvre). L'unification ou uniformisation culturelle et politique qui va de pair avec la mondialisation néo-libérale conduit à des phénomènes apparemment à contre-pied de fondamentalisme exacerbé et de nationalisme à outrance. Il y a de plus en plus de guerres et de conflits ethniques et religieux. Le processus de mondialisation crée des divisions et fait des exclus à l'intérieur de la communauté humaine.

Vivre aujourd'hui dans un contexte social, culturel et religieux évolutif - Par ce

sous-titre, notre objectif est de participer à la recherche d'un langage approprié d'identité dans un contexte culturel malgache en pleine mutation. En d'autres termes, notre propos tente de dépasser le dualisme tradition-modernité ou l'opposition passéprésent, en parlant plutôt de « typiquement malgache » ou du « culturellement correct » dans la pensée malgache. Ainsi par exemple : que signifie faire référence à la sagesse des ancêtres pour le Malgache contemporain? Pouvons-nous rester Malgaches en adoptant d'autres valeurs culturelles, en assimilant d'autres modes de penser et de vivre, en parlant d'autres langues, en devenant membres d'une religion dite étrangère? Si la question vaut d'être élucidée, ce n'est plus pour contourner la vague de mondialisation qui survient et qui n'a de nouveauté que le nom. Mais bien plutôt pour circonscrire autant que faire se peut le mécanisme culturel prédominant chez le Malgache dans sa «gestion» habituelle des mouvements interculturels, interethniques, interreligieux, dans sa considération des modes d'échange et de rencontre.


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Hilaire Raharilalao

Engagé dans une évolution irréversible qu'il n'est pas toujours aisé de définir ni de maîtriser, ou encore moins de donner un sens, le Malgache doit être attentif à d'autres valeurs pour essayer d'y découvrir celles qui peuvent l'épanouir davantage. Pour y parvenir, point n'est besoin pour lui de quitter sa culture, de renier l'essentiel de son histoire et de ses traditions. Par contre aujourd'hui aucune culture, fut-ce-t-elle du Fïhavanana à Madagascar, ne peut prétendre à elle seule trouver réponse à l'ensemble de ses interrogations. En effet, du Fïhavanana, voilà ce dont vit et vibre le milieu humain malgache à toutes sollicitations étrangères à sa manière d'être, d'agir et de penser. Fïhavanana: qu'est-ce à dire? Fondamentalement, il s'agit d'une attitude de considération qui porte les membres d'une société ou d'un groupe à adopter les uns envers les autres un comportement analogue à celui que se portent les membres d'une même famille. Et par extension, cette attitude fait de l'autre en l'occurrence un Havana, nom générique pour désigner toute personne considérée comme membre de ma famille de par son âge, son statut, son expérience ou par ses relations. Ce milieu humain se caractérise par une triple réalité qui, dans l'humanisme malgache, comporte une articulation et une signification propres, signe de grande richesse culturelle: - une vision communautaire du monde intégrant la personne humaine, les êtres vivants, les ancêtres et le Créateur (Olombelona, Razana, Zanahary) ; - un sens de la famille, de la solidarité et le besoin de se sentir en harmonie avec l'entourage dans une confiance et un soutien réciproque (Fihavanana) ; - un projet culturel orienté vers le sens de la vie (Mamy my Aina).

Cet humanisme à caractère relationnel, fort dépendant de son milieu d'insertion et de vie, reflète un trait dominant de la sagesse malgache. Aujourd'hui les formes ont évolué certes et contribué à susciter de nouvelles expressions, mais le fond culturel reste inchangé : une aspiration à vivre harmonieusement avec tout homme en toute circonstance et en tout lieu, comme entre les membres d'une même famille. Toutefois, parler en ces termes, c'est courir un double risque. D'abord celui d'appauvrir la symbolique malgache des valeurs (Vintana, lahatra, anjara, tody, etc ... ) et ensuite celui d'avoir une conception statique du Fihavanana duquel on aime relever plutôt le coté normatif et positif. Sont souvent occultées les tensions inhérentes au Fihavanana, tensions venant soit du champ traditionnel où il s'exerce (famille, clan, tribu, ethnie), soit de l’insertion concrète dans de contextes socio-politiques et économiques inédits. En effet, il convient de reconnaître que, depuis toujours, il existe une situation conflictuelle au sein de la logique malgache du Fihavanana dit traditionnel comme il l’est aussi aujourd'hui face aux mutations sociales et idéologiques. En fait le Fihavanana malgache tend à s'adapter selon le temps et l'espace face à l'émergence des nouvelles valeurs véhiculées par les relations internationales et organisations mondiales, les moyens technologiques et financiers, le confort et le bien-être familial, la multiplication des mass média et surtout l'importance de l'avoir et du savoir qui sont venus introduire des nouveaux critères d'existence et d'image de marque personnelle ou collective. Les conflits en question proviennent des mutations diverses qui ont pour effet de déséquilibrer l'environnement naturel et culturel de l'homme malgache, ou du moins de le remettre en question. Ces mutations sont dues, soit à des facteurs étrangers à la culture malgache, soit à des crises internes de croissance de la société malgache, influant toutes deux sur la vie du Fihavanana. D'une manière plus précise, nous voulons dire que le Fihavanana fait face à un nouveau statut social défini par des possibilités d'accès au savoir, au pouvoir et au progrès.


Eglise et Fihavanana dans le contexte malgache marqué par la mondialisation et la fracture sociale

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Raharaham-Pihavanana: l'art d'exprimer l'identité malgache face à l'émergence des nouvelles valeurs

Bien que le terme est devenu aujourd'hui significatif d'une conciliation et de réconciliation, ou encore d'un arrangement à l'amiable provoqué par des situations litigieuses de toutes sortes : accidents de circulation, conflits passagers ou oppositions latentes, divergences d'opinion ou de point de vue..., le Raharaham-Pihavanana va bien audelà de toutes formes de facilitation de procédure administrative, transactionnelle et juridique. Il s'inscrit dans un cadre plus grand de la philosophie malgache de l'existence qui ne s'accomode pas de neutralisme ou d'indifférence. Il s'agit, dans un sens littéral du terme, d'une manière d'évoquer les tours et les contours d'une situation jugée dommageable ou menaçante pour l'environnement physique, psychologique, social et culturel afin d'en dégager les potentialités d'harmonie propre à la vie du Fihavanana. C'est enfin un acte culturel qui vise, par le moyen de repères sociaux, à instaurer ou à restaurer l'équilibre relationnel et à se maintenir dans l'harmonie vitale nécessaire à l'épanouissement de l'homme malgache, de sa famille et de la société. Instinct de conservation? Réflexe socio-culturel? Ou humanisme propre? En tout état de cause, le Raharaham-Pihavanana représente dans la mentalité malgache tout un art de vivre conforme au sens de l'interdépendance et de l’unipluralité - « être-un-àplusieurs », l'essentiel de l'existence étant sauf: être reconnu dans son statut social, être bien dans sa peau (Mahazo Aina). S'approprier des nouvelles cultures ou se laisser approprier par d'autres constitue dans les deux sens le mouvement intégratif caractéristique du Raharaham-Pihavanana.

Raharaham-Pihavanana : quête de sens de l'agir et de l'existence - Ainsi, face

à l'inconnu, aux innovations et aux mutations d'ordre social et religieux, culturel et juridique, politique et économique, l'homme malgache réagit dans son être de Havana ou de Mpihavana en contexte nouveau, par le biais du Raharaham-Pihavanana aussi bien dans sa mentalité, comme dans ses faits et gestes, et cherche comment en arriver à ce qui est «culturellement correct». C'est en quelque sorte la réponse malgache, spontanée ou intentionnelle, à l'émergence des valeurs étrangères aux siennes. Le Malgache accorde beaucoup d'importance aux valeurs de relation et c'est ce qui l'incite à rechercher une certaine harmonie entre les personnes et à éviter les conflits et les heurts. D'ailleurs un Malgache à qui on demande ce qu'il pense ne développerait généralement que les aspects qui ne heurteraient pas, toujours dans le souci de ne pas rompre l'esprit du Fihavanana. Un auteur a pu écrire à ce sujet : ce qui compte ce n'est pas tellement ce que le Malgache dit mais ce qu'il ne dit pas. Et même, des ethnologues vont jusqu'à affirmer que le Malgache est tout en nuance. Sous des apparences exubérantes ou sous des dehors désolés, la réserve reste un caractère inné pour le Malgache. C'est aussi le lieu permanent où s'engagent débat et discernement, dans la mesure où la notion du bien, du vrai et du beau passe au crible du Raharaham-Pihavanana pour avoir droit de cité ou de mise à l'index, et même de «stand by», par exemple donner aux Malgaches ou aux sociétés rurales malgaches le temps d'intégrer une innovation dans le schème mental et l'environnement culturel qui leur est propre. Quoi qu'il en soit, la problématique réside non pas tant dans l'objet ni l'expression du Raharaha en question mais dans le souci constant du Fihavanana, autrement dit du «culturellement correct». Le Raharaha relié à un objet étant un terme utilisé dans ce cas pour désigner les tenants et aboutissants d'une affaire ou en-


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core tout ce qui se rapporte à une réalité significative d'existence. Ainsi l'on parle souvent de Raharaham-Pirenena, Raharaham-Panambadiana, Raharaham-Pianakaviana… L'histoire du peuplement de Madagascar et de l'organisation de ses royaumes, la période de l'histoire coloniale et de l'évangélisation, le temps de la démocratie républicaine, les vagues de mondialisation n'ont-ils pas pour effet de favoriser l'interculturalité et de véhiculer d'autres valeurs, entraînant inexorablement un choc culturel qui n'a pas de nom? Ce choc culturel se situe, pour nous, dans la juxtaposition d'une conscience collective regroupant l'ensemble des normes et des valeurs qui sont des repères réglementant la vie sociale du Fihavanana, à l'effet de l'individuation des rapports sociaux. De plus, compte tenu de l'explosion démographique, de nouveaux besoins apparaissent, engendrant un nouveau choix de valeurs, accentué par l'effet du marketing, car les apports culturels exogènes servent également de repères, surtout en milieu urbain. Le look, le langage et la mentalité, et même le régime alimentaire sont en passe de changement notamment chez les jeunes générations. Il est donc difficile de dire aujourd'hui si Madagascar est une société traditionnelle, moderne ou post-moderne. Il faut voir l'évolution de l'ensemble. Toutefois la question demeure: comment peut-on recevoir la culture des autres si on n'a pas notre propre culture, le Fihavanana? Et comment entrer en rapport avec la culture des autres si ce n'est par le génie propre de notre culture: le Raharaham-Pïhavanana? C'est un fait qu'à l'heure de la mondialisation et à l'instar des autres pays, Madagascar et le peuple malgache ne peuvent pas s'isoler ni adopter une attitude passéiste. Ce qui amènerait à une atrophie culturelle. Notre culture malgache éprise du Fihavanana n'est pas non plus imperméable aux cultures étrangères. Ce qui est certain, c'est que Madagascar traverse une crise identitaire face à l'invasion de nouvelles données culturelles. Aussi une sélection des valeurs, des repères et des normes venant de l'extérieur s'impose en même temps que la promotion de la culture malgache du Fihavanana. Le débat récurrent à ce sujet, entre Malgache progressiste et altermondialiste, est de savoir lesquels de ces repères sont conformes à notre culture. Si les repères exogènes ne sont pas incompatibles aux nôtres, ils pourraient faire leur chemin ensemble, avec ses avantages et ses inconvénients, dans le sens d'une saine acculturation. Ce fait en appelle au besoin d'agir, ou de réagir, pour retrouver à chaque circonstance l'équilibre relationnel, gage d'harmonie et de bien-être social : le « Raharaham-Pihavanana ». Ce creuset de notre culture, expression d'un art de vivre, ne demande qu'à d'être exploité à bon escient et selon l'esprit de sagesse malgache exprimé dans les pensées imageantes des proverbes. Ainsi par exemple, le Malgache dira : - Adin' ombalahin' ny mpianakavy, ny mandresy tsy hobiana, ny resy tsy akoraina: dans le combat de taureaux de la famille, on n'acclame pas le vainqueur et on ne blâme pas non plus le vaincu, pour signifier que les circonstances conflictuelles ne peuvent pas faire l'objet de rupture des relations;

- Tery omby ririnina ka atao izay tsy hampahia an-dreniny ary izay tsy ahafaty an-janany: quand il faut traire la vache en hiver, chercher à ne pas amaigrir la mère et à faire vivre le petit, pour dire qu'il faut faire attention à deux réalités à la fois; - Atao toy ny dian-tana, ka sady jerena ny any aloha no itodihana ny any aoriana: imiter la marche du caméléon qui regarde à la fois en avant et en arrière, pour dire que dans la vie il faut aussi bien penser à l'avenir en tenant compte du passé; - Ataovy toa ny voankazo an' ala, ny mamy atelina, ny mangidy aloa : faites comme le fruit de la forêt, on avale ce qui est doux et on rejette ce qui est amer, pour dire que, face à l'inconnu ou à la nouveauté, il convient d'accueillir ce qui est bon et de rejeter ce qui est mauvais;


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- Tsy mamoha fota-mandry: ne pas remuer la boue qui s'est déjà décantée, pour dire qu'il ne faut pas raviver les douleurs ou évoquer les mauvais souvenirs du passé dans les conversations.

Tout ce qui vient entre autres d'être décrit comme expressions culturelles du Raharaham-Pihavanana trouve aussi son équivalent de synthèse dans une autre expression non moins pertinente que le Malgache appelle Ady gasy, la manière malgache d'agir ou de se comporter, d'adapter ou de s'adapter aux circonstances, révélant une identité propre à se favoriser la compréhension, l'acceptation et l'intégration. Cette expression n'est pas loin d'une autre Ady varotra, l'habitude de marchander ou de négocier les prix ou autre chose mais qui a également rapport à la mentalité malgache du Raharaham-Pihavanana. Ces expressions d'ordre social et économique constituent en somme un véritable critère culturel d'appréciation de l'homme malgache, plus affectif que rationnel, axé sur le sens humain et les rapports sociaux. Enfin, comment parler de Raharaham-Pihavanana en contexte culturel malgache sans évoquer une confrontation éventuelle avec l'idéal de justice. En effet, c'est le lieu où le bât risque de blesser toute une manière de penser et de vivre, respectueuse autant de l'harmonie que de la vie-Aina. Pour faire face à une telle situation, le Malgache prônera et s'ingéniera lui-même à trouver au mieux ce qu'il désigne par Marimaritra iraisana, c'est-à-dire un terrain d'entente. Ce n'est pas à proprement parler un «juste milieu» à la manière occidentale, ni une solution de compromis, encore moins de compromission, pour contenter les tenants du Fihavanana et de la justice, mais un compromis tout court, reflet et résonance de la pensée profonde malgache, soucieuse d'une certaine satisfaction et surtout de l'espoir d'un mieux, car l'essentiel, le Fihavanana, aura triomphé pour le bien des uns et des autres. Si donc le Fihavanana ne s'accomode pas d'une justice intransigeante et stérile, il n'est pas pour autant exempt de limites auxquelles il convient de trouver un correctif ou un palliatif selon le cas: n'est-ce pas là du Raharaham-Pihavanana poussé à sa plus haute expression? Parler du fameux Moramora relève aussi, dans la pensée malgache, de l'esprit du Raharaham-Pihavanana. Ce terme exprime un aspect particulier de la philosophie malgache de l'existence qui veut qu'en toutes choses la réflexion et le discernement s'imposent, mais non pas forcément l'idée d'une lenteur légendaire contraire à la vitesse V, caractéristique d'une évolution rapide. En effet courir un risque ou aller vers l'inconnu équivaut littéralement dans l'esprit de sagesse malgache à menacer l'harmonie vitale et pourrait amener à déstabiliser les rapports sociaux.

Raharaham-Pihavanana: préalable à une éducation et à un développement intégrés en contexte culturel malgache - Le questionnement, le débat plus ou

moins passionné tendant à mettre en exergue le profil du Malgache nouveau, soit en famille ou en société, sont une manifestation de ce qu'il convient d'appeler l'émancipation culturelle face à l'émergence des nouvelles valeurs, en réaction contre la tentation du ghetto culturel. Dans cette logique s'inscrit la crise identitaire, passage obligé vers l'attitude des voies de recherche ou d'approfondissement d'identité, une de ces voies étant pour le Malgache le Raharaham-Pihavanana avec les cultures ambiantes, présentes ou à venir. Car on hérite du passé et de sa propre tradition, mais on n'hérite pas de l'avenir, il nous le faut créer en prenant le risque d'être nous-mêmes, sous peine d'être méconnaissable par suite de déculturation, aggravée par la formule lapidaire de «autre temps, autre mœurs». Dans cette entreprise culturelle de RaharahamPihavanana, le modèle unique ou proposé n'existe pas, la tâche qui s'impose à toute action éducative, à tous les niveaux des rapports sociaux, est de construire l'homme


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malgache à chaque époque, selon les valeurs éthiques et permanentes du Fihavanana, modelantes d'harmonie, de bien-être et de vie-Aina. Eduquer l'homme malgache dans et par son «ethos» (ny atim-panahy maha malagasy) est donc la voie malgache de l'éducation. Il signifie atteindre le noyau culturel et le niveau le plus profond du Fihavanana où se posent les questions ultimes et vitales et s'opèrent l'accueil puis la réponse authentique de l'homme malgache à toutes innovations. Nous avons besoin, pour ce faire d'une véritable pédagogie de la rencontre où les adultes, parents et éducateurs révèlent aux enfants, aux jeunes et à la société malgache leurs propres possibilités et libèrent en eux des dynamiques culturelles cachés ou méconnus capables de s'harmoniser, de dialoguer avec les cultures des autres en proposant un Raharaham-Pihavanana qui consiste à donner et recevoir, ou apprendre des autres cultures. Les élites, les intellectuels et les responsables ont un rôle à jouer dans l'intégration du Malgache, la valorisation de ce qui est malgache dans un processus de mondialisation. Ne faut-il pas justement, par des penseurs ou idéologues malgaches interposés, chercher une voie qui dépasse la voie facile de juxtaposition, d'opposition, voire d'imitation, et chercher plus loin vers cette communauté humaine, aux valeurs capables de rassembler les cultures au lieu d'accentuer la différence. La diversité est culturelle. Après avoir été longtemps pensé comme le rattrapage des pays riches, industrialisés et développés ainsi que la reproduction de leur modèle, le développement est en train d'apparaître, à l'expérience, comme la remise en marche de dynamiques sociales et culturelles qui ont été perturbées par les influences extérieures. Mais le véritable développement doit partir de l'homme malgache et de sa culture, pour atteindre l'homme malgache qui demeure en définitive le sujet et l'acteur de son propre développement. Le Raharaham-Pïhavanana lui permettra alors de comprendre le développement comme une chance de questionnement certes mais aussi d'enrichissement culturel, un rendez-vous culturel du donner et du recevoir. Si «le Malgache n'est pas une île», pour reprendre le titre provoquant qu'un philosophe non-malgache a donné a son opuscule, c'est que Madagascar et le peuple malgache ont le moyen d'entrer résolument dans l'ère du développement culturel, condition d'une évolution dans la permanence de son identité, et constituer un microcosme dans le macrocosme du concert culturel des nations, pour une culture malgache rénovée, solide parce que enrichie au contact des autres. Le Malgache ouvert sur le monde est un citoyen à l'identité plurielle alliant, d'une manière heureuse et fort de son Raharaham-Pihavanana, l'avènement de l'individu véhiculé par l'effet mondialisateur à la conscience collective nationale héritée de la tradition culturelle des ancêtres. Le problème d'authenticité à Madagascar passe par la reconnaissance du fait que nous avons évolué et que nous continuons d'évoluer. Pour notre malheur, diront certains nostalgiques du passé. Pour notre bonheur, soutiendront ceux qui attendent de plus en plus de choses agréables. Les uns et les autres ont partiellement raison avec cette réserve que l'évolution n'a rien d'une fatalité, car nous avons toujours à décider si nous voulons en être les objets, ou si nous voulons simplement la subir en nous satisfaisant d'être avant tout des consommateurs, ou alors devenir des sujets, des créateurs de condition d'existence telles que nos besoins, sans cesse modifiés par la civilisation, se trouvent satisfaits. La culture malgache, de par le Raharaham-Pihavanana est aussi amenée à évoluer au fil de l'histoire, moyennant suffisamment de créativité, d'intelligence, d'imagination pour trouver les façons de mettre en relation le local et le mondial, le particulier et l'universel, le spécifique et l'identique sans se renier.


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Si le Fihavanana pour le Malgache est cette capacité culturelle qu'à une personne ou un groupe social d'entrer en relation harmonieuse et féconde de vie-Aina avec l'autre, le Raharaham-Pihavanana serait comme l'instrument avec lequel il exerce cette capacité, d'une manière habituelle ou exceptionnelle, mais qui exprime en toutes circonstances un art de vivre son identité particulière. Dans les inévitables rencontres de cultures et autre émergence de nouvelles valeurs, le Raharaham-Pihavanana constitue une véritable démarche stratégique ou même une arme défensive, au service de la société et du développement culturel malgache. Ce qui fait concrètement problème, ce n'est pas la culture en tant que telle mais son érection par ses représentants, malgaches ou non, en absolu, sa fermeture sur ellemême au risque de se scléroser ou encore, prétendre à s'auto-suffire et en entraîner le mépris ou l'hostilité et donc l'exclusion des autres cultures. Par contre, plus est vivant l'héritage culturel malgache du Raharaham-Pihavanana, plus l'ouverture aux autres cultures est source de vitalité et d'approfondissement de cet héritage. Quel sera alors l'avenir du Fihavanana malgache d'hier et d'aujourd'hui dans un monde en pleine effervescence culturelle? Il passera par l'homme malgache luimême, maître de sa vision du monde, sujet de sa propre éducation et acteur de son développement, sachant pertinemment que toute identité culturelle a son histoire et se recompose. C'est ainsi que l'on peut dire que grâce au Raharaham-Pihavanana, l'authenticité malgache franchissant les limites d'une cohérence traditionnelle n'est pas morte. Elle s'est, en contraire, épanouie dans une nouvelle cohérence. Elle s'est trouvée une nouvelle vie-Aina dans un contexte différent du sien et sans cesse changeant. II est urgent de rechercher ce qui pourra lui donner plus de vie-Aina sans détruire sa spécificité. En dépit des vicissitudes de l'histoire, le Malgache contemporain recherche la modernité et aspire au progrès en assimilant ou rejetant des valeurs nouvelles, et il entend affirmer son identité en s'enrichissant du trésor culturel de l'humanité, mais c'est comme Malgache qu'il veut s'employer à lui donner forme. Si le Malgache était capable de mettre en connexion les caractéristiques essentielles de sa culture de Fihavanana avec l'essentiel de la culture mondiale, il pourrait en tirer un profit immense et les autres cultures avec lui. Ce disant, notre objectif était d'élaborer un discours qui traduit le sens de ce qui se voit et se vit déjà dans la société d'aujourd'hui : la vitalité de l'expérience malgache de l'existence à travers le Malgache du 21e siècle que je suis et que nous sommes. La vraie culture n'est-elle pas celle que nous, Malgaches d'aujourd'hui, nous vivons? Mais le débat reste ouvert, sous le signe - et pourquoi pas? - du Raharaham-Pihavanana ! Eglise et Fïhavanana: un ouvrage de recherche théologique en inculturation - Cet ouvrage (447 pages) dont la première édition date de 1991 et la seconde de 2007 a fait l'objet d'une thèse de doctorat en Théologie biblique et porte comme sous-titre: Une

herméneutique malgache de la réconciliation chrétienne selon St Paul (2Co 5, 17-21),

II se divise en deux grandes parties, subdivisées en quatre sections, réparties en seize chapitres. Les quatre sections sont très suggestives quant au cheminement et à l'articulation de la pensée: de facture scripturaire et exégétique, puis anthropologique et culturelle, christologique et enfin théologique. Le but recherché de cette étude est d'amorcer une réflexion théologique solide et inculturée, ouverte à d'autres au sein de l'Eglise universelle, fiable et viable pour l'Eglise locale à Madagascar et dont les principaux éléments sont: une typologie du Fïhavanana: une étude systématique de la culture malgache à partir de l'intelligence malgache du monde; l'événement Jésus-Christ, une christo-


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logie malgache; un Fïhavanana chrétien: une lecture et compréhension malgache de l'évangile; Eglise-Fihavanana: un visage malgache du christianisme.

Une Eglise-Fihavanana comme Eglise-famille de Dieu Le mystère de l'Eglise n'est pas un simple objet de connaissance théologique, il doit être un fait vécu ; c'est sous cette formulation d'une Eglise-Fihavanana que nous entrevoyons ce que peut être le fait vécu ou l'inculturation de la foi chrétienne en milieu malgache. L'Eglise-Fihavanana n'est pas la résultante de qualités ni de qualifications toutes pratiques et extérieures, mais elle suppose une inculturation à la dimension de l'unipluralité qui caractérise la cosmovision malgache constituée d'une réalité ontologique et sociologique, d'un lien organique et même d'un contexte géographique. C'est également dans cette perspective d'une Eglise-Fihavanana que nous percevons le visage malgache du christianisme propre à nos Fiangonana, communautés chrétiennes locales rayonnant du Fihavanana du Christ dans les relations familiales, parentales, sociales, dans les rapports avec le monde visible et l'au-delà, avec les ancêtres et avec Dieu. Pour nous, la proposition terminale d'une Eglise-Fihavanana relève de notre compréhension de la prédication paulinienne (2Co 5,17-21), de l'expérience catallactique qui la sous-tend et surtout de la résonance profonde de la réconciliation chrétienne dans le contexte ecclésial malgache. Enfin, une Eglise-Fihavanana évoque le visage d'une Eglise locale chrétienne et malgache à part entière, capable de vitaliser l'Eglise universelle selon une croissance sans rupture et sans précipitation.

Conclusion - Et si l'Eglise à Madagascar évangélisait à son tour d'autres peuples ... Il

faut dire que c'est déjà la réalité vécue par les premiers pionniers missionnaires malgaches de l'ère post-conciliaire, soit par la collaboration interdiocésaine à Madagascar, soit par l'envoi en mission extra-territoriale, L'évangélisation par nature n'a pas de frontière, elle dépasse les barrières culturelles. Ce qui suppose une intériorisation profonde de l'expérience de la foi, de la rupture vis-à-vis de sa propre culture et un signe de maturité de l'Eglise qui donne et qui accueille, dans un contexte mondial de rencontre de l'évangile avec les cultures. Si le Malgache évangélisait d'autres cultures, il annoncera aujourd'hui l'évangile du Fihavanana qui n'est pas d'abord le sien mais celui des origines dans lequel Dieu avait créé l'homme et l'a sauvé en Jésus-Christ le Havana par excellence, pour un vie-Aina bienheureuse et sans fin avec Lui. Et dans cette perspective, le peuple malgache aurait été un instrument dans les mains de la Providence pour sauvegarder d'une manière plus évidente qu'ailleurs cette valeur créationnelle, chaque peuple ayant ses charismes.


RICERCHE E STUDI

RivLas 76 (2009) 2, 233-248

Una pastorale rinnovata nel segno dell’educativo

1. La prospettiva dell’educazione permanente Patrizia Moretti

I

l periodo storico che viviamo riporta all’attenzione, come non accadeva da tempo, il “problema educativo”. I giovani accusano un malessere dilagante di cui ancora si analizzano le cause. Se da una parte, le nuove generazioni presentano tanti tratti positivi (generosità, ricerca dell’autenticità, sensibilità sociale…), dall’altra, mostrano una crisi di identità che modifica l’approccio al quotidiano. Si riscontra una progressiva e costante insicurezza nell’affrontare la vita, una mancanza di ideali, di progettualità, che in un contesto di crisi valoriale, conduce verso il culto della persona (individualismo), o ancora maggiormente del corpo: un’assolutizzazione del primato della corporeità che raggiunge livelli preoccupanti. Ne sono testimoni e sicuramente anche causa, alcuni mezzi di comunicazione che contribuiscono consapevolmente allo sviluppo di un tale atteggiamento1. La perdita della dimensione temporale, il vivere costantemente nel presente, senza considerare il passato e senza sperare nel futuro, poi, modifica anche la percezione che i giovani hanno di se stessi, ridefinendo o addirittura, sostituendo alcuni punti di

1

“I media propongono allo spettatore e al lettore dei modelli di vita, un’intera visione del mondo, che si abbatte con forza doppia su coloro che, come la larga maggioranza degli utenti dei media, a questa visione del mondo non possono opporne nessun’altra per mancanza di cultura o di quelle motivazioni ideali che si assorbono, negli anni della formazione”. C. Giunta, L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, Il Mulino, Bologna 2008, p. 23.


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riferimento fino ad allora validi. Tutto ciò coincide spesso con la sola preoccupazione di rendere la vita più semplice, sollecitando un forte ripiegamento su se stessi2.

Una forte domanda di educazione. Quali risposte? Certamente il clima che si respira non è dei migliori: molti studiosi di varie discipline provano ad affrontare ciò che il Papa chiama “emergenza educativa”3. La Chiesa stessa, sulle orme di Cristo4, si è sempre fatta carico dell’educazione globale: essa è un fatto umano primario e fondamentale, è lo strumento principe dello sviluppo dell’uomo, e proprio in quanto tale, l’educazione è preoccupazione della Chiesa. […] l’educazione, che fin dall’antichità è uno dei più notevoli terreni di azione pastorale

della Chiesa, sul piano religioso e culturale come pure su quello personale e sociale, è più che mai complessa e d’importanza decisiva. Essa rientra fondamentalmente nell’am-bito di responsabilità delle famiglie, ma ha bisogno del concorso dell’intera società. Il mondo di domani dipende dall’educazione di oggi, e questa non può essere ridotta ad una trasmissione di conoscenze. Forma persone, le prepara a integrarsi nella vita sociale, favorendo la loro maturazione psicologica, intellettuale, culturale, morale e spirituale5.

E ancora, quasi dieci anni dopo: L’impegno educativo della Chiesa italiana è ampio e multiforme […] L’appello risuonato in tutti gli ambiti ci spinge a un rinnovato protagonismo in questo campo: ci è chiesto un investimento educativo capace di rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone 6.

La Chiesa è consapevole che oggi in Italia, come in tanti altri Paesi, esiste una difficoltà grande nell’affrontare ed impostare percorsi educativi che conducano i nostri giovani a sapersi orientare nella vita, a dare un senso al proprio progetto di piena umanizzazione. Il pontefice, nella Lettera alla diocesi e alla città di Roma, delinea le responsabilità personali, imputate non solo agli adulti e ai giovani, ma anche ad una mentalità diffusa che porta a dubitare del valore della persona, del significato stesso della verità e del bene, della bontà della vita7: diventa difficile, in un contesto così povero di certezze essenziali, la trasmissione del patrimonio vitale e culturale, anche se, proprio a causa di ciò, aumenta da diversi ambiti una domanda più insistente di educazione. 2

Cfr. M. L. De Natale, “La «crisi della ragione» e la nuova emergenza educativa”, in CEI/ Servizio nazionale per il Progetto Culturale, La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà. VIII Forum del Progetto Culturale, EDB, Bologna 2008, pp. 289-290. 3 Cfr. Benedetto XVI, “Speranza: anima dell’educazione. Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione”, in Regno/Documenti, 2008, 7, p. 193. 4 Gesù si è presentato al mondo come un rabbi ed è con questo titolo che è stato avvicinato, almeno secondo Marco e Matteo. La parola rabbi compare in questi due vangeli 15 volte. E’ assente in Luca. Il titolo indica la funzione di maestro, ma esprime anche una dipendenza (“mio Signore”). Cfr. G. Schneider, rabbi, in H. Balz, G. Schneider (edd.), Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004, cc. 1239 – 1242. 5 Pontificio Consiglio della Cultura, Per una pastorale della cultura, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 35-36. 6 CEI, Rigenerati per una speranza viva (1Pt 1,3): testimoni del grande «si» di Dio all’uomo. Nota pastorale dell’Episcopato italiano dopo il 4° Convegno ecclesiale nazionale, Figlie di San Paolo, Milano 2007, n. 17. 7 Cfr. Benedetto XVI, “Speranza: anima dell’educazione…”, cit., pp. 193-194.


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Il Convegno ecclesiale di Verona si era collocato all’interno di una tale esigenza rilanciando l’idea-chiave degli Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 20008, in cui si chiedeva alla Chiesa non solo un più forte impegno missionario, ma anche un più intenso impegno contemplativo, da realizzare in una fede convinta e matura, capace di entrare nell’attuale dibattito culturale e in uno slancio missionario caratterizzato in senso programmatico e sistematico9. E’ in questa prospettiva che va compresa un’azione pastorale sinergica ed integrata, che convergendo sull’educazione della persona, rispecchi la responsabilità della comunità cristiana locale10. Il compito educativo che ne scaturisce - coniugare l’elaborazione culturale con la formulazione di un “progetto formativo permanente”11, come afferma la Nota - è sicuramente molto arduo. Che cosa sia un “progetto formativo permanente”, nel testo non è esplicitato in modo dettagliato. In realtà qui nascono almeno due problemi: - il primo: le espressioni formazione permanente ed educazione permanente non sono la stessa cosa, anche se vengono (in modo improprio) utilizzate come sinonimi12; - il secondo: il concetto e la prassi di un’educazione permanente, se facilmente si comprendono nelle loro linee generali, oggi hanno acquisito una serie di sfumature di significato che vanno ben al di là di una ricezione ingenua della questione13. In concreto, la Chiesa opera in tutte le età dell’uomo, magari privilegiando alcuni momenti nodali della vita (la fanciullezza, la giovinezza, l’età del fidanzamento, il matrimonio, la malattia, la vecchiaia)14. Sembra tuttavia che ora si stia impegnando per concretizzare un percorso continuativo di pastorale, in vista di un cammino unitario e dunque permanente. Chiaro che in questa prospettiva assume una rilevanza nuova l’attenzione educativa al mondo adulto15, aspetto che finora era rimasto in ombra. Se nella pratica la Chiesa accompagna il cristiano da quando nasce fino a quando muore (si continua a pregare per i defunti), tuttavia un interesse su questo disegno educativo complessivo, ora comincia a maturare, grazie anche alle riflessioni che il

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Cfr. CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, presentazione del card. D. Tettamanzi, Piemme, Casale Monferrato (AL) 2001. 9 Cfr. D. Tettamanzi, “Presentazione”, in CEI, Comunicare il Vangelo…, cit., p.8. 10 Cfr. CEI, Rigenerati per una speranza viva (1Pt 1,3)…, cit., nn. 21-27. 11 Cfr. CEI, Rigenerati per una speranza viva (1Pt 1,3)…, cit., n. 12. 12 Una esposizione chiara ed esaustiva dei concetti di educazione e formazione in: S.S. Macchietti, “Educazione e formazione”, in Prospettiva EP, 4, ott-dic. 2004, pp. 41-65. 13 Si parla infatti di educazione permanente, di educazione/formazione degli adulti, di lifelong learning, di formazione continua, … con tutta una serie di accentuazioni che ancora oggi non hanno portato a significati ben precisi. 14 Non a caso i sacramenti scandiscono questi aspetti anche in senso temporale. 15 Riprendendo il testo sopra già citato, qui è necessario coglierne alcune idee importanti: […]

ci è chiesto un investimento educativo capace di rinnovare gli itinerari formativi, per renderli più adatti al tempo presente e significativi per la vita delle persone, con una nuova attenzione per gli adulti. […] Il tempo presente è straordinariamente favorevole a nuovi cammini di fede, che esprimano la ricchezza della azione dello Spirito e la possibilità di percorsi di santità. Tutto questo però potrà realizzarsi solo se le comunità cristiane sapranno accompagnare le persone,

non accontentandosi di rivolgersi solo ai ragazzi e ai giovani, ma proponendosi più decisamente anche al mondo adulto, valorizzando nel dialogo la maturità, l’esperienza e la cultura di questa generazione (sottolineature mie). CEI, Rigenerati per una speranza viva…, cit., n. 17.


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mondo civile ha portato avanti (negli ultimi cinquanta anni) a livello mondiale16, sugli stessi temi. Nell’ambito ecclesiale quindi, l’Educazione permanente, potrebbe risultare un punto di riferimento capace di rispondere alla nuova stagione di formazione che viene chiesta, e alle urgenze pastorali dettate dalla situazione in atto. A tal proposito è necessario analizzare gli spunti proposti dal n. 22 della Nota, in cui si possono identificare alcune linee che ritengo possano essere considerate fondamentali per la problematica che stiamo affrontando: - anzitutto nel testo, viene messo in dubbio che la pratica pastorale dei tria munera possa ancora essere effettivamente efficace17 nel cogliere le domande profonde delle

persone: soprattutto quella di unità, accentuata dalla frammentazione del contesto culturale.

- Conseguentemente si chiede un rinnovamento del paradigma pastorale18 che viene individuato nella esperienza stessa realizzata a Verona: non più settori di azione pastorale, ma ambiti di vita, che attraversano tutte le fasi dell’ esistenza. - Dal nuovo paradigma pastorale emerge la persona: è a partire da essa, dal suo percorso di vita verso la santità, che va pensata l’unitarietà del percorso pastorale. - Il testo dichiara che questa visione (la persona al centro) è teologicamente fondata su Cristo risorto19 e tale affermazione non è marginale.

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I documenti dell’Unesco ne sono una prova. Orientandosi nell’identificazione di ambiti di azione pastorale, il Convegno di Verona ha superato la settorialità dell’impostazione giocata su questa classica distinzione. Il testo infatti afferma: Uno degli aspetti più apprezzati della Traccia e degli eventi celebrati quest’anno in varie

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parti del paese è stato certamente l’inusuale formulazione dei cinque ambiti a tema qui a Verona. Con ciò si è voluto rompere la consueta articolazione dei momenti con cui si è soliti immaginare la missione della Chiesa nel mondo. La rappresentazione diffusa delle funzioni della pastorale (annuncio, celebrazione, comunione, carità, missione, animazione culturale, presenza sociale, lavoro, turismo, migrantes ecc.) ha sovente preso nella pratica un andamento molto settoriale e auto-referenziale. I settori della vita e dell’azione pastorale della Chiesa sono così diventati motivo per documenti e interventi talvolta senza ascolto reciproco e interdipendenza pratica. Il danno prevedibile è di perdere non solo l’unità della vita cristiana, e della missione ecclesiale, ma di non riuscire a servire alla vita quotidiana della gente. Relazione di F. G. Brambilla, “Immaginare una chiesa tutta pasquale”. IV Convegno ecclesiale nazionale, Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, in Il Regno-documenti 19 (2006), p. 617. 18 Cfr. S.Lanza, Convertire Giona. Pastorale come progetto, Ed. Ocd, Roma 2005, pp. 17-

18. 19 Chiaramente si assume l’evento Cristo in dimensione antropologica, cioè a partire dalla prospettiva dell’uomo che ha bisogno della salvezza, e la riceve dalla morte e dalla risurrezione di Cristo. Su questo cfr. H. U. von Balthasar, “Mysterium paschale”, in J. Feiner - M. Lohrer (edd.), Mysterium Salutis, vol. VI, Queriniana, Brescia ²1973, pp. 171-412. In un passaggio del suo intervento il card. Tettamanzi così si esprimeva: Non potrebbe incominciare da qui una

specie di seconda fase del progetto culturale in atto nella nostra Chiesa? Una fase che rimetta al centro la persona umana e il suo bisogno vitale e insopprimibile, appunto la speranza, come rilevava in modo incisivo sant’Ambrogio, dicendo che “non può essere vero uomo se non colui che spera in Dio” (De Isaac vel anima,1,1)? Forse è possibile una analogia: come la dottrina sociale della Chiesa e la conseguente prassi hanno la persona umana come principio fondativo e architettonico dei loro più svariati contenuti, così l’azione spirituale – pastorale – culturale della Chiesa potrebbe strutturarsi in riferimento alla centralità della persona umana, nella sua dignità di immagine viva di Dio in Cristo e nella concretezza delle sue situazioni e relazioni quo-


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- Si sostiene inoltre che da tale visione è possibile trarre indicazioni nuove per l’intera azione pastorale della Chiesa. Infatti mettere la persona al centro costituisce una

chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre comunità.

- Tutto ciò ha una doppia serie di conseguenze: sia organizzative20, sia legate alle modalità della nuova proposta pastorale21. Questa attenzione alla persona cambia effettivamente l’impostazione dei percorsi di pastorale fino ad oggi effettuati: la persona, riconosciuta in Cristo, diventa misura della realtà22.

Educazione permanente, un concetto ancora in evoluzione Il concetto di educazione permanente (EP), la cui espressione proviene dal latino, educatio (educazione), permanens (che permane, duraturo), è tutt’oggi poco chiaro. Andando con ordine, è possibile evidenziare che la stessa etimologia di educazione è incerta. Si colloca tra educare 23 (allevare, coltivare) ed educere (tirar fuori, sviluppare).

Nel corso del tempo è prevalsa la seconda accezione, che ha rafforzato una visione dell’educazione come processo in cui si sviluppano potenzialità che sono già dentro l’uomo e che aspettano, attraverso un intervento educativo, di essere tirate fuori, aiutate ad esprimersi. Progressivamente, attenendosi alla lettura delle definizioni sull’educazione elaborate negli anni, l’azione dell’educatore ha perso di importanza, lasciando il posto alla valorizzazione delle capacità e dell’intenzionalità del soggetto di auto-educarsi. Da ciò si può dedurre che non c’è una definizione univoca del termine educazione, ma che ad esso sottendono un pluralismo di concezioni dell’uomo, e un gran numero di modelli culturali 24. E’ cosa ormai provata che le finalità dell’educazione sono legate alle diverse antropologie25: il rapporto uomo-educazione è molto stretto, l’uno è collegato alla realtà dell’altra, determinandone gli sviluppi. Ad esempio in Italia, negli anni ‘60, esigentidiane. D. Tettamanzi, “Il dono di testimoni umili e coraggiosi”. IV Convegno ecclesiale nazionale, Testimoni di Gesù risorto…, cit., p. 605. 20

Qui la parola specifica diventa “coordinamento”. In effetti solo utilizzando l’apporto di varie agenzie formative coordinate tra loro è pensabile un cammino di educazione permanente. 21 In particolare, le conseguenze collegate alla dimensione relazionale. In questo nuovo paradigma la qualità della relazione, intesa in senso cristiano, è colta come un criterio fondamentale dell’azione pastorale. 22 Sui presupposti ora citati poggia lo sviluppo di questo primo articolo in cui verrà analizzata la proposta di soluzione offerta dalla pedagogia, consistente in un profilo educativo che riguardi tutti, in tutte le età della vita, e più avanti, di un secondo articolo, in cui si cercherà di accertare se questa proposta può essere valida per un cammino di vita che abbia la sua luce in Cristo. Lo studio qui presentato si strutturerà in brevi spunti di riflessione che hanno avuto un maggior ampliamento in altre sedi. In questo primo articolo è stata effettuata una scelta di tematiche, privilegiando soprattutto lo sviluppo storico dell’idea di EP nell’ambito degli organismi internazionali, e tralasciando studi specifici di pedagogia e di altre discipline afferenti. 23 Cfr. S.S. Macchietti, “Educazione e formazione…”, cit., p. 42. 24 Cfr. S.S. Macchietti, “Educazione e formazione…”, cit., pp. 42-43. 25 Particolare rilievo assume il personalismo, inteso come aspirazione speculativa a fondamento cristiano. Infatti pone le basi antropologiche per l’idea di un’educazione che contribuisca alla maturità , mai completamente conquistata, almeno nel contesto terreno. Maggiori e più noti esponenti: E. Mounier e J. Maritain.


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ze sociali e bisogni emergenti da un lato, e dall’altro lo sviluppo di una antropologia pedagogica che ha concentrato molta della propria attenzione sulla persona, come valore primario da custodire, coltivare, sviluppare, hanno consentito l’evoluzione di una prospettiva di studio e di ricerca, l’EP, caratterizzata da una precisa visione dell’uomo. Con essa tuttavia si è aperto anche un nuovo settore di indagine, l’Educazione degli Adulti26 (EdA), attualmente in grande espansione 27. Progressivamente si è consolidata in alcuni ambiti la tendenza ad identificare il concetto di EP con quello di EdA, facendo poi coincidere quest’ultimo con la formazione professionale o con l’alfabetizzazione, con l’ educazione non formale e informale 28, e a tralasciare il significato fondamentale di EP come processo di piena umanizzazione della persona. Le cause di un tale sviluppo, probabilmente, in un rapido incremento tecnologico e quindi in un’esigenza di assicurarsi competenze da spendere in campo lavorativo, e nelle differenti domande di educazione. Da queste precisazioni scaturisce un quesito che si propone come richiesta di chiarificazione ai dubbi rilevati appena sopra: che cos’ è l’EP? Un excursus storico, esteso al panorama internazionale, permette una visione più chiara della situazione e dello sviluppo dell’EP, fino ai giorni nostri. Com’è noto, tutto l’Ottocento è stato tempo dei cambiamenti. Le trasformazioni epocali in atto in quel secolo, tra cui la rivoluzione industriale, l’affermarsi delle scienze, l’espansione di istanze democratiche e lo sviluppo di diverse filosofie sull’uomo, influiscono su molti scenari della realtà socio-culturale, rimettendo in discussione la configurazione di alcuni di essi. L’uomo diventato pian piano soggetto di diritti che inevitabilmente rivendica come proprie connotazioni, percepisce l’importanza di un’evoluzione personale, che si esprime in varie esigenze29. Le misere condizioni salariali, conseguenza dello sfruttamento della manodopera sia nel settore industriale che in quello agricolo, una maggiore possibilità di confronto e di relazioni sociali, una accresciuta volontà di consapevolezza, portarono ad un progressivo impegno per un’elevazione del grado di istruzione e per una specializzazione nel campo lavorativo. Da qui la necessità di un percorso atto prima di tutto al miglioramento delle condizioni di vita: l’idea di un’educazione per gli adulti era già presente alla fine dell’800 nei paesi anglosassoni e scandinavi. Posteriore a questo, l’affermazione del concetto di EP, nella prima metà del Novecento.

EdA: i primi due modelli I due modelli a cui bisogna riferirsi per descrivere la cosiddetta educazione “classica” degli adulti, sono specificamente quello inglese e quello danese. Il modello inglese - Nell’Inghilterra della prima metà dell’800 si determina un divario tra il veloce progresso di beni materiali, causato dall’industrializzazione, e un basso livello di istruzione e di cultura delle masse. Il clima discriminante che si viene a creare,

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Apporti multidisciplinari importanti per la ricerca che ha come oggetto l’adulto, si individuano in alcuni studiosi come, ad esempio, E. Erikson, D. Levinson, R. Guardini. 27 S.S. Macchietti, Appunti per una pedagogia della persona, Bulzoni, Roma 1998, p. 139. 28 Id., “L’educazione permanente: esperienze , problemi, prospettive”, in Continuità e scuola, 1, gen-febbr. 1994, p. 10. 29 Cfr. R. Rémond, Introduzione alla storia contemporanea. Vol.2 -Il XIX secolo, 1815-1914; Vol.3 - Il XX secolo, dal 1914 ai nostri giorni, Rizzoli, Milano 1976.


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induce alcuni singoli e associazioni private ad impegnarsi per la promozione di iniziative atte a porre rimedio all’ignoranza delle masse lavoratrici. Per concretizzare questo progetto sorgono dei Mechanic’s Institutes, spesso finanziati dagli stessi lavoratori, dove si tengono percorsi di aggiornamento tecnico-professionale, rivolti ad adulti che si collocano nella prospettiva di una mobilità sociale. Progressivamente queste iniziative confluiscono nelle attività socialiste e cooperativistiche che sono sostenute per lo più da motivazioni di natura economico-politica più che educativa. Le università, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, attraverso il movimento della University Extention, che si poneva sulla linea delle convergenze sociali, cercarono di facilitare l’istruzione

universitaria per i lavoratori. Non si trattava di un approfondimento di natura teorica, ma di una offerta formativa basata su alcune considerazioni, così come afferma T. Kelly nella sua A history of adult education in Great Britain: 1. la capacità intellettuale non è prerogativa delle classi più elevate, quindi la nazione deve poter utilizzare anche il contributo che proviene da altri ceti; 2. tutti devono avere la possibilità di accedere ad una cultura non limitata alle sedi universitarie; 3. di conseguenza, si ha la convinzione che l’educazione possa essere un elemento di freno contro le agitazioni rivoluzionarie30.

Questa tipologia di EdA, si presenta come intervento straordinario a carattere tecnico-professionale e come strumento di promozione sociale, di formazione ricorrente. In accordo con tali affermazioni B. Suchodolskj ritiene l’EdA, irrinunciabile, per diversi motivi: aiuta l’uomo a maturare, a conoscere la vita, a conoscere se stesso, a capire gli atteggiamenti da assumere nelle diverse situazioni, a riconoscere le esigenze di comunicazione con gli altri uomini. Naturalmente il presupposto è che si protragga per tutta la vita31. Suchodolskj, come risulta nel suo Trattato del 195932, attribuisce quindi molta importanza all’EdA, che è vista nella prospettiva dell’“extrascolasticità”, con i relativi temi di cultura generale, di istruzione e riqualificazione professionale, di scuola integrativa, di aggiornamento culturale, e del tempo libero33. Il modello danese - In Danimarca e nei paesi scandinavi, vi era una maggior esigenza di partecipazione e responsabilizzazione degli adulti alla gestione e conduzione del Paese, quindi una maggiore necessità di un’EdA che andasse oltre la semplice istruzione. In questo senso lavorò N.F.S.Grundtvig34, una delle figure più significative della cultura danese del tempo. La sua teoria dell’EdA si fondava su un’antropologia cristiana che percepiva l’uomo come soggetto relazionale, legato agli altri uomini, in una reciprocità che si esprimeva nella comunicazione verbale e nella instaurazione di una comunità, radicata in un preciso contesto. Convinto del valore della persona e delle sue potenzialità di miglioramento, della sua capacità di libertà, Grundtvig rileva l’importanza di un’educazione che renda l’uomo consapevole dei suoi legami con la comunità, in riferimento alle tradizioni del passato, alla propria vita presente e alle proprie responsabilità ed aspirazioni per il futuro. Non ritiene adeguata l’istituzione 30

Cfr. M. L. De Natale, Educazione degli adulti, La Scuola, Brescia 2001, pp. 41-45. Cfr. S.S. Macchietti, “L’educazione permanente: esperienze…”, cit., p. 13. 32 Cfr. B. Suchodolski, Trattato di Pedagogia generale. Educazione per il tempo futuro, ed. it., Armando, Roma 1964. 33 Cfr. E. Guidolin, L’Educazione Permanente, Liviana, Padova 1981, p. 47. 34 Cfr. M. L. De Natale, Educazione degli adulti…, cit., p. 46. 31


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scolastica del tempo, tanto da proporre ed attuare le cosiddette “Scuole superiori popolari”, orientate a chiarificare i problemi concreti della vita. La scuola che teorizza per i contadini adulti del suo tempo, deve possedere programmi che aiutino a realizzare i bisogni della vita, favorendo una efficace interazione. Le caratteristiche che connotano queste scuole sono in sintesi: la residenzialità, una durata non eccessiva, la apertura a tutti, un curriculum attinente problemi culturali e sociali di interesse generale. Gli adulti si riuniscono in queste scuole quindi per prendere coscienza di sé, in quanto esseri adulti, e del contesto in cui si svolge la propria attività. E’ un nuovo modello di EdA.: l’adulto non si pone in un atteggiamento passivo, ma riceve dal docente e fornisce in cambio tutta la ricchezza umana di cui è capace. L’accento è posto sull’essere più che sull’avere. Entrambi gli esempi menzionati dominano la riflessione sull’educazione permanente svolta nei primi cinquanta anni del Novecento35.

EdA: l’attenzione degli organismi internazionali ■ Nel 1949, l’Unesco, appena quattro anni dopo la sua istituzione, promuove la Prima Conferenza mondiale sull’educazione degli adulti36, ad Elsinore, proprio in Danimarca. In un’epoca ancora preoccupata per i pericoli a cui si può essere soggetti a causa della mancanza di cultura, l’educazione alle responsabilità civili diventa il motivo dominante del dibattito sull’educazione degli adulti 37. Uno dei limiti della Conferenza, ormai accertato, fu la partecipazione in maggior numero dei delegati dell’Europa dell’Ovest e dell’America del Nord. A causa soprattutto di questo la Conferenza nelle sue risoluzioni accolse la tradizionale impostazione “liberale” inglese dell’EdA. Infatti il punto cruciale fu la definizione di EdA data da M.E.N. Hutchinson: L’espressione educazione degli adulti designa gli studi volontari intrapresi dagli individui (nel Regno Unito al di sopra dei 18 anni), al fine di sviluppare le loro capacità e le loro attitudini personali – senza tendere principalmente ad accrescere la propria competenza professionale – e al fine di poter assumere responsabilità sociali, morali e intellettuali più estese nel seno della comunità locale, nazionale, mondiale. In questo senso, tanto nel Regno Unito che nei paesi scandinavi, il termine presuppone che questi adulti, abbiano già raggiunto un certo grado di istruzione generale nella loro infanzia, in virtù della legislazione relativa all’istruzione obbligatoria38.

Questa definizione alquanto restrittiva procurò problemi nella sua attuazione, a livello internazionale. Infatti una buona parte della popolazione mondiale, in quegli anni, ancora non possedeva la cultura di base e il riferimento al perfezionamento personale sembra fuori dalle realtà concrete. Sembra quasi che il dibattito ad Elsinore si svolgesse sui due piani, che rispecchiano la dicotomia tra il settore di una alfabetizzazione come rimedio ad una situazione deficitaria, e quello dell’EdA “classica”39. 35

Cfr. Id., Educazione degli adulti…, cit., pp. 47-52. Cfr. Unesco; International Conference on adult education Elsinore 1949, Paris 1949. 37 Cfr. M. L. De Natale, Educazione degli adulti…, op. cit., p. 53. 38 E. M. Hutchinson, “Relazione tra le istituzioni private di educazione e lo stato in Gran Bretagna e in Svezia”, in Aa.Vv, L’educazione degli adulti, discussioni ed esperienze, La Nuova Italia, Firenze 1953, pp. 71-72. 39 Cfr. A. Lorenzetto, Lineamenti storici e teorici dell’Educazione permanente, Studium, Roma 1976, pp. 22-24. 36


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■ Chi invece si fece interprete del “dramma della ignoranza involontaria”, come si chiamò ad Elsinore, il problema delle masse analfabete, fu il Convegno internazionale di Roma del 1951, indetto dall’Unla (Unione per la lotta contro l’analfabetismo), con il patrocinio dell’Unesco. La centralità che ebbe la lotta contro l’analfabetismo è da riportare alla situazione del Mezzogiorno d’Italia40. ■ Nel 1960 si tenne la Conferenza internazionale di Montréal 41, sul tema “L’educazione degli adulti in un mondo in trasformazione”. Il clima si presentava diverso. La strutturazione dell’assemblea rispecchiava la nuova realtà: fu un vero incontro di quasi tutti i popoli del mondo. E’ bene anche ricordare che l’Italia non fu presente. Assenza di cui non si comprendeva il motivo42. In questo assetto venne comunque confermata l’essenzialità del concetto di continuità nell’educazione. Il titolo dell’assemblea già presupponeva un approccio differente alla situazione: in una società in continua evoluzione non si poteva non tener conto dei cambiamenti ricorrenti. Gli adulti quindi dovevano essere preparati ad affrontare questa condizione, e l’educazione doveva aiutarli a capire la natura del mutamento e a riconoscere in quale misura potevano orientarlo, controllarne gli effetti. Due furono le idee che ne scaturirono:

- l’educazione degli adulti costituisce un tutto nel quale la lotta contro l’analfabetismo rappresenta per il momento, l’aspetto più importante e più tragico43;

- si apre una nuova prospettiva educativa che si pone come itinerario per tutta la vita: l’Educazione permanente (Lifelong Education). Questa non comprende solo l’educazione scolastica ed extrascolastica dei giovani, ma anche le istanze dell’educazione degli adulti. In questo diverso approccio l’EdA assume caratteri differenti e trova il suo fondamento nel valore della persona, a cui devono essere garantiti i mezzi per esprimersi adeguatamente44.

■ Le prerogative dell’EP vengono approfondite soprattutto in Europa, attraverso l’attività del Consiglio della Cooperazione culturale, che dal 1962 opera all’interno del Consiglio d’Europa. Nel 1967 il Consiglio della Cooperazione culturale e la Fondazione Europea della Cultura, esprimono in 22 punti le motivazioni che giustificano la proposta di una nuova EP. Riassumendo: - l’EP sembra la proposta educativa più appropriata ai tempi: riscoprendo la persona come unicum, come valore, ne segue la necessità di un impegno educativo che consenta alla persona di realizzare se stessa, di portare alla luce l' originalità individuale;. - in questo senso l’EP diventa il più efficace mezzo di investimento delle risorse umane; - il diritto ad una educazione continua, che comprenda naturalmente il periodo scolastico e prosegua in forme diverse per il resto della vita, chiede una ristrutturazione del processo di apprendimento-insegnamento (il riferimento non è soltanto a quello scolastico): viene puntualizzata la necessità di tenere presente le motivazioni dell’apprendimento, di individualizzare il pro-

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Cfr. E. Guidolin, L’Educazione Permanente…, cit., p. 15. Cfr. Unesco, Conférence mondiale sur l’éducation des adultes, (Montréal 1960), Paris 1960. 42 Cfr. A. Lorenzetto, Lineamenti storici e teorici…, cit, p. 65. 43 Id., , La scoperta dell’adulto, Armando, Roma 1966, p. 18. 44 Cfr. M. L. De Natale, Educazione degli adulti…, cit., p. 58. 41


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cesso educativo in corrispondenza degli interessi del soggetto, di pensare una nuova caratterizzazione dei docenti e delle università; - si auspica, in riferimento al campo dell’educativo, un recupero dei mezzi tecnici attuali e una nuova corrispondenza tra mondo della formazione e mondo del lavoro45.

In occasione dell’Anno internazionale dell’Educazione, promosso dall’Onu nel 1970, il Consiglio della Cooperazione culturale raccoglie i contributi più significativi sul tema dell’EP46. L’impegno a livello europeo non si ferma, e il Consiglio d’Europa, nel 1971 redige un “modello di sviluppo”, intitolato Fondamenti per una integrata politica educativa, che ha una chiara valenza di scelta politica. Diventa quasi subito un documento essenziale, perché rispetto alle riflessioni precedenti, apre una prospettiva operativa. Nella varietà di documentazione pubblicata in quel periodo, si cerca di mettere in evidenza: - l’importanza di sostenere ed incoraggiare le aspirazioni culturali di un popolo affinché possano esprimere la propria originalità; - la necessità di personale educativo pedagogicamente qualificato. La riflessione a livello europeo si sposta così verso il “cambio sociale”, soprattutto insistendo sull’importanza dell’EdA per lo sviluppo della società: ogni persona deve diventare un produttore e un agente di cambiamento nella società. In questa prospettiva l’EP individua alcuni compiti dell’EdA, quali: - cominciare dai bisogni delle persone; - aiutare a risolvere i problemi, tenendo conto dei fattori ad essi connessi; - affrontare i problemi, dove si presentano; - creare situazioni dove gli adulti possano responsabilizzarsi alla propria educazione; - sviluppare una funzione critica dell’educazione. L’educazione quindi si esprime come impegno sociale e in particolar modo l’EdA si apre al mondo della formazione, della disoccupazione, del lavoro47; si configura come maggiormente attenta al miglioramento della qualità di vita dell’individuo, attraverso un percorso che sviluppi le attitudini e gli interessi di ognuno. Insomma un’educazione che sappia formare dei cittadini capaci di costruire il proprio futuro. Questa tesi viene avvalorata dalla individuazione di cinque nuove strategie, atte ad organizzare un sistema di apprendimento longlife, programmato e coerente, quali: rivolgere un’attenzione significativa all’individuo, protagonista attivo del suo percorso educativo; creare un percorso formativo diversificato; coordinare in un insieme coerente il sistema educativo; professionalizzare gli educatori; garantire per legge agli adulti il diritto all’educazione48. ■ Negli anni ’90 le linee tracciate fino a quel momento vengono ulteriormente sviluppate, ma senza che ci sia un vero e proprio cambiamento di rotta. Anche se qualche seme da irrigare viene piantato. Con il Rapporto Unesco del 1996, Nell’educazione un tesoro49, vengono individuati i quattro pilastri dell’educazione, compreso il concetto di EP come chiave d’accesso al ventunesimo secolo. In una società che

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Cfr. Council of Europe, “Réflexion sur l’éducation permanente”, in Education and culture, Strasbourg 1968, pp. 23-25. 46 Cfr. Aa. Vv., Permanent Education, Council of Europe, Strasbourg 1970. 47 Cfr. M. L. De Natale, L’educazione degli adulti…, cit, pp. 66-70. 48 Cfr. Aa. Vv., Adult education at the Council of Europe. Challenging the future, Strasbourg 1995, pp. 53-84. 49 Cfr J. Delors (ed.), Nell’educazione un tesoro, trad. it. Armando, Roma 1997.


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non riesce a riflettere su se stessa perché troppo velocemente si trasforma, l’individuo si percepisce come travolto dagli eventi e non capace di reagire adeguatamente. Questo, il contesto giusto per i due imperativi di un’educazione che -dice il Rapporto- deve trasmettere, efficacemente e massicciamente, una crescente quantità

di conoscenze e cognizioni tecniche in continua evoluzione, adatte a una civiltà basata sul sapere, perché proprio questo forma la base delle competenze del futuro. Nello stesso tempo, deve trovare e additare i punti di riferimento che, da una parte consentano agli individui di non essere sommersi dal flusso delle informazioni [...] e dall’altra sappiano prospettare lo sviluppo degli individui e delle comunità come suo fine50.

L’educazione, quindi, dovrebbe essere organizzata attorno a quattro tipi di apprendimento, che nel corso della vita di un individuo corrispondono ai pilastri della conoscenza. Il primo, imparare a conoscere, implicherebbe non tanto l’acquisizione di informazioni codificate, quanto il venire in possesso degli strumenti della conoscenza: quest’apprendimento può essere considerato sia un mezzo, sia un fine della vita umana. Il secondo, imparare a fare, connesso strettamente al primo, per acquisire non solo una abilità professionale, ma la competenza di affrontare molte situazioni, e di lavorare in gruppo. Il terzo, imparare a vivere insieme, mira allo sviluppo della capacità di comprensione degli altri e di un apprezzamento dell’interdipendenza, in uno spirito di rispetto per i valori del pluralismo. Il quarto, imparare ad essere, postulato per sviluppare meglio la propria personalità, per essere in grado di agire con una crescente capacità di autonomia, di giudizio e di responsabilità personale51. Il concetto di educazione a cui qui ci si riferisce, è quello di EP. Esso supera la distinzione tradizionale tra educazione iniziale e permanente. Si collega al concetto di società educativa, in cui ogni cosa può essere occasione di apprendimento e di realizzazione. Un’educazione che deve contribuire allo sviluppo totale di ogni individuo: spirito e corpo, intelligenza, sensibilità, senso estetico, responsabilità personale, e valori spirituali. Un’educazione che deve aprire possibilità di apprendimento a tutti, che deve valorizzare tutte le opportunità che la società può offrire52. Un’educazione insomma non soltanto puntata sulle conoscenze da acquisire, ma finalmente più attenta all’insieme dimensionale che caratterizza la persona. ■ LaV Conferenza mondiale promossa dall’Unesco, sul tema “Prospettive e proposte per l’educazione degli adulti” (Hamburg 1997)53, conferma quanto emerso nel Rapporto Delors: avvalora l’EP come quadro giustificativo di tutti i processi di formazione e in questa prospettiva l’EdA è colta ormai come un diritto della persona, in nome di una cittadinanza attiva e della partecipazione della persona alla società. ■ Nel Memorandum del 2000, la Commissione delle Comunità Europee, sembra, con alcune affermazioni, cambiare registro, ma poi quasi si corregge. Segnala come obiettivi prioritari di una istruzione e formazione permanente, la cittadinanza attiva, intesa come partecipazione dei cittadini a tutte le sfere della vita sociale ed economica, e l’occupabilità, nel senso della capacità di trovare e conservare il posto di lavoro. E’ interessante però riflettere su una dichiarazione. Quando ci si riferisce alle compe50

Ibidem, p. 79. Ibidem, pp. 79-90. 52 Cfr ibidem, pp. 87-103. 53 Cfr. Unesco, V Conferenza internazionale sull’educazione degli adulti, Hamburg 1997. 51


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tenze di base, accanto a quelle richieste dai nuovi alfabeti, si dice che: le competenze sociali, quali la fiducia in se stessi, l’autodeterminazione e la capacità di assumere dei rischi, sono sempre più determinanti, in quanto si suppone che le persone acquistino sempre maggiore autonomia rispetto al passato54.

Il documento individua sei fattori: 1. nuove competenze di base per tutti; 2. maggiori investimenti nelle risorse umane; 3. adozione di nuove tecniche di insegnamento e apprendimento; 4. valutazione dell’apprendimento; 5. ridefinizione dell’orientamento; 6. dislocazione capillare dell’apprendimento. Nel complesso, nei diversi sviluppi del documento non sembra ci sia una evoluzione vera e propria: di fatto l’attenzione dell’Europa si rivolge primariamente all’economia, la persona ed i valori vengono sostituiti da principi quali la flessibilità e la certificazione delle competenze55. Nel Rapporto Unesco56 si auspica infine un passaggio dalle società delle conoscenze, alle società del sapere, per mettere in risalto che la conoscenza non è un bene di consumo, né una merce. Con ciò viene sottolineato che una mera conoscenza vale poco se ad essa non si accompagna un approfondimento etico. Da queste indicazioni si ricava che l’ EP presenta ancora a livello mondiale, molti aspetti di riflessione e necessità di puntualizzazioni. In Italia la riflessione internazionale ha esercitato un influsso determinante nell’impostazione del processo di EP. Gli Organismi internazionali, riconoscendo la necessità di un intervento educativo (forse inizialmente inteso soltanto al recupero di conoscenze), rivolto in modo particolare agli adulti, hanno consentito di orientarsi anche verso una prospettiva più ampia di una EP, mossa soprattutto, come si intuisce dagli ultimi documenti, da una trasformazione socio-economica vertiginosa. Ma gli stessi convegni internazionali non dettero molto credito alla possibilità di concretizzazione di percorsi di EP, perché si avanzò l’ipotesi che soltanto le società opulente potessero accollarsi le “fatiche” di un’impresa di vaste proporzioni come questa. Nella nostra nazione, la pedagogia personalista degli anni ‘6057 rivolse particolare attenzione all’EP, come nuova prospettiva di ricerca: considerava il processo educativo, fin dalle origini, come un cammino che scandiva tutti i momenti della vita della persona, quindi, almeno implicitamente, essa è stata sempre intesa come educazione permanente58.

EP: forse un’utopia? Il quadro delineato mostra come l’EP non sia un risultato raggiunto una volta per tutte, e piuttosto si collochi tra le utopie pedagogiche del nostro tempo. Utopia tuttavia feconda per gli stimoli che offre e per le realizzazioni concrete seppur parziali a cui ha dato vita. Come altre grandi idee capaci di promuovere processi sociali e culturali

54

Commissione delle Comunità Europee, Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente, Bruxelles 2000, (Messaggio chiave n. 1), p. 11. 55

Cfr. M. L. De Natale, “Persona e educazione permanente”, in XLIV convegno di Scholé,

Persona e educazione, La Scuola, Brescia 2006, pp. 163-164. 56 Cfr. Unesco, Vers les sociétés du savoir, Paris 2005. 57 58

In Italia, negli anni ’60-70, nomi rappresentativi sono stati M. Mencarelli e G. Santomauro. Cfr. S.S. Macchietti, Appunti per una pedagogia…, cit., p. 141.


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di grande portata non ha avuto vita facile59: ha incontrato sostenitori entusiasti, ma

anche scettici sulla effettiva possibilità di una sua realizzazione concreta. Nel tempo si è evoluta passando da problemi collegati alla alfabetizzazione degli adulti a quelli oggi presenti, collegati all’apprendimento nella cosiddetta “società della conoscenza”60. Questa evoluzione della EP credo le sia in qualche modo strutturale. Facendosi carico dei bisogni educativi degli uomini, accetta i progressi degli stessi e dei tempi in cui vivono. Ad esempio il concetto di EP, evoca attività che vengono percepite in modo diverso a seconda dell’ambito dal quale le si considera: l’ambiente associativoculturale le avverte come una buona opportunità per promuovere lo sviluppo personale e la partecipazione alla vita della comunità, quello politico, come un mezzo per sollecitare i processi di innovazione sociale, quello economico, come un’occasione di accrescimento delle competenze professionali dei lavoratori61. Ed è dunque normale, che oggi ci si interessi di “apprendimento per tutta la vita”, con riferimento soprattutto all’avvento delle nuove tecnologie nei confronti delle quali un po’ tutti siamo ignoranti. Allo stesso tempo però non si dovrebbe subordinare l’uomo ai processi economici, che tendono quasi sempre a disumanizzarlo. Ormai l’espressione lifelong education (educazione permanente), sembra essere inusuale, anche se ancora in molti pensano62 che essa costituisca un’idea-guida capace di dare indicazioni prospettiche a cui tendere. E’ quasi sostituita da lifelong learning63 (apprendimento lungo tutto il corso della vita) che naturalmente ha un significato ed una motivazione ben precisa. Ciò che sembra importante nel mondo contemporaneo, soprattutto nel mondo adulto, è recuperare i deficit di conoscenze che un rapido sviluppo tecnologico e conoscitivo hanno causato, quindi ci si riferisce all’ “apprendimento” inteso ad assicurare competenze da spendere nell’ambito lavorativo. I due 59

S. Angori, “Educazione permanente: quali linee di sviluppo?”, in Prospettiva EP, n. 4, ottdic. 2003, p. 158. 60 Su questo cfr. A. Alberici, Imparare sempre nella società della conoscenza, Bruno Mondadori, Milano 2002. In questo testo, la Alberici, mette in risalto la posizione esistenziale dell’adulto, e i suoi compiti evolutivi e sociali, facendo emergere il nucleo concettuale sottostante all’EdA, non più intesa come pratica compensativa e/o emancipatoria, ma come orizzonte teorico, e operativo della possibilità-necessità di apprendere sempre. Della stessa a. sullo stesso argomento: Educazione in età adulta. Percorsi biografici nella ricerca e nella formazione, Armando, Roma 2000, oppure, La parola al soggetto, Guerini e Associati, Milano 2001. 61 Cfr. S. Angori, “ La promozione della persona nella prospettiva dell’educazione permanente”, in S.S. Macchietti (ed.), Alla ‘scuola’ del Personalismo. Nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier, Bulzoni, Roma 2006, p. 451. 62 E tra questi oggi, M. L. De Natale, una delle pedagogiste che, occupandosi di EdA, all’interno di un discorso più ampio di EP, intesa in senso cristiano, sottolinea l’importanza del recupero, nella sfera dell’educativo, del suo nucleo unitario, capace di chiarire il nuovo impegno dell’uomo nei confronti della libertà, della responsabilità, e della rielaborazione dei valori. A tal proposito, tra le diverse pubblicazioni, un testo da me già citato: M. L. De Natale, Educazione degli adulti, La Scuola, Brescia 2001, oppure, M. L. De Natale (ed.), Adulti in cerca di educazione, Vita e Pensiero, Milano 2001, in cui viene preso in considerazione un settore dell’educazione degli adulti, ancora tutto da percorrere, soprattutto per quanto riguarda la realtà italiana, l’educazione dei genitori. 63 A questa espressione si è aggiunta anche l’espressione lifewide learning, che interessa tutti gli aspetti della vita e si estende orizzontalmente rispetto alla verticalità cronologica dell’altra formula. Cfr. S. Cicatelli, Conoscere la scuola. Ordinamento, didattica, legislazione, La Scuola, Brescia 2004, p. 179.


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Patrizia Moretti

termini spesso vengono confusi e alcune volte, il termine EP sembra servire soltanto a “nobilitare” le più svariate riforme: da quelle scolastiche, a quelle che riguardano lo sviluppo socio-culturale del Paese, a quelle che riguardano la formazione professionale64. Più specificatamente, volendo analizzare qualcuna delle ricadute che questi processi hanno avuto a livello nazionale, bisogna prendere in considerazione l’evoluzione legislativa rilevante per lo sviluppo di tali concetti. In ascolto delle indicazioni internazionali ed in particolare europee, l’ Italia negli ultimi anni ha dato avvio ad alcune interessanti iniziative. Ad esempio: l’istituzione nel 1997 dei “Centri Territoriali Permanenti”65, la pubblicazione del documento dal titolo La riorganizzazione e il potenziamento dell’educazione degli adulti in Italia66, che accompagna l’Accordo tra Stato, Regioni e Autonomie locali, siglato il 2 marzo 200067, in cui sono tracciate le coordinate utili per la costituzione di un “sistema di educazione degli adulti”, il quale stenta ancora a decollare. Per ultimi sono stati pubblicati, il documento concernente la normativa che regola “il nuovo obbligo d’istruzion”68, e a livello regionale (Regione Lazio), “Le linee di indirizzo per l’apprendimento permanente degli adulti su tutto il territorio regionale”69. E’ importante esaminare, anche se brevemente, le linee-guida di questi documenti. ■ I Centri Territoriali Permanenti (CTP), si configurano come luoghi di lettura dei bisogni formativi, di progettazione, di concertazione, di attivazione e di governo delle iniziative di istruzione e formazione in età adulta, nonché di raccolta e diffusione della documentazione, e trovano riferimento didattico e amministrativo presso un’istituzione scolastica preesistente. Ogni Centro predispone un servizio finalizzato a coniugare il diritto all’istruzione, con il diritto all’orientamento ed al riorientamento e alla formazione professionale. Gli obiettivi che i CTP sono chiamati a perseguire, si configurano come obiettivi di alfabetizzazione culturale e funzionale: consolidamento e promozione culturale, rimotivazione e riorientamento, acquisizione e consolidamento di conoscenze e competenze specifiche, pre-professionalizzazione e/o riqualificazione professionale70. Tra le caratteristiche salienti di questi CTP si trova l’attenzione ai linguaggi e alle culture, l’alfabetizzazione alla multimedialità, la formazione relazionale come conoscenza del sistema sociale, ambientale, economico, geografico71. Si è potuto notare dalla normativa, che si configurano come offerte formative, atte a sviluppare alcuni bisogni degli adulti presenti nel territorio.

64

Cfr. S. Angori,“ Educazione permanente…”, cit., p. 164. Cfr. OM 455/97. 66 Cfr. G. U. n. 147 del 26 giugno 2000. 67 Cfr. Conferenza unificata Stato-Regioni-Autonomie locali (ex art. 8 del D. lgs 28.08.1997, n.281), La riorganizzazione e il potenziamento dell’educazione permanente degli adulti, 2 marzo 2000. Si può notare nel titolo, come si sia cercato impropriamente di fare dell’EP e dell’EdA, un’unica entità. 68 Cfr Decreto 22 agosto 2007, con il quale è entrato in vigore l’obbligo d’istruzione elevato a 10 anni, in base alla legge 26.12.2006, n. 296, articolo 1, c. 622. Con questo regolamento il nostro sistema scolastico compie un passo in avanti per l’allineamento con i sistemi di altri paesi dell’Unione europea. 69 Cfr Giunta Regionale del Lazio, Delibera 845/2007. 70 Cfr. S. Cicatelli, Conoscere la scuola…, cit., p. 180. 71 Cfr. ibidem, pp. 180-181. 65


Una pastorale rinnovata nel segno dell’educativo

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■ Nel documento che riguarda“La riorganizzazione e il potenziamento dell’educa-zione permanente degli adulti”, sono indicate le linee di un “nuovo sistema integrato di educazione degli adulti”, capace di soddisfare la domanda di formazione espressa da ogni strato della popolazione, nella prospettiva del lifelong learning. Questo sistema presenta diversi livelli istituzionali: quello nazionale, quello regionale, quello locale. L’ambito locale costituisce la sede privilegiata della programmazione delle iniziative di educazione formale degli adulti (attività corsuali che si concludono con il rilascio di titoli) e di educazione non formale (attività svolte da agenzie, il cui interesse spazia dall’educazione professionale all’animazione culturale, dall’ambito ricreativo all’educa-zione nella terza età). ■ La normativa italiana sull’ “obbligo di istruzione” pone le sue fondamenta nel quadro di riferimento dell’Unione europea che, nella “Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 18 dicembre 2006, relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE)”72, invita a sviluppare strategie per assicurare che: - l’istruzione e la formazione iniziali offrano a tutti i giovani gli strumenti per sviluppare le competenze chiave, atte ad una preparazione alla vita adulta, ad ulteriori occasioni di apprendimento, come pure per la vita lavorativa; - i giovani, che a causa di svantaggi educativi, determinati da circostanze varie, abbiano il sostegno adatto per realizzare le proprie potenzialità; - gli adulti siano in grado di sviluppare e aggiornare le loro competenze chiave, in tutto il corso della vita, con attenzione particolare ai gruppi di destinatari riconosciuti prioritari nel contesto nazionale, regionale e/o locale73.

Su questa base l’Italia legifera, con l’obiettivo di fornire ai giovani gli strumenti per l’acquisizione dei saperi e delle competenze indispensabili per il pieno sviluppo della persona in tutte le sue dimensioni e per l’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza. Sono le scuole, in questo caso a “realizzare” e non ad “applicare” l’innovazione74. Da questo punto di vista la scuola acquista un proprio ruolo rilevante nell’ambito della EP, dell’apprendimento permanente, anche se il documento specifico sembra più sbilanciato sul versante delle acquisizioni di competenze per un domani lavorativo. ■ La delibera della Giunta regionale del Lazio, da un lato definisce le linee di indirizzo per riorganizzare e potenziare il sistema educativo nell’ambito del sistema integrato regionale di istruzione, formazione e lavoro, dall’altro, propone di finanziare progetti di sviluppo di percorsi formativi in grado di contrastare i rischi di marginalità sociale, connessi a competenze di base insufficienti. ■ Oltre queste deliberazioni, l’EdA ha avuto grande stimolo anche dai cosiddetti, negli anni Settanta, “corsi delle 150 ore per i lavoratori”, che consentivano la regolarizzazione di numerosi adulti rispetto all’obbligo scolastico, oggi trasformati in corsi per adulti, di cui gli articoli 137 e 169 del Dlgs 297/94 e in permessi retribuiti di 150 ore per il diritto allo studio, contemplati dal Dpr 395/98. 72

Cfr. G. U. dell’Unione europea del 30.12.2006, L. 394/10-18. Cfr. Ministero della pubblica istruzione, Il nuovo obbligo di istruzione: cosa cambia nella scuola? La normativa italiana dal 2007, Comunicazione Agenzia Scuola, Firenze 2007, p. 10. 74 Cfr. Id., Il nuovo obbligo di istruzione…, cit., p. 3. 73


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Patrizia Moretti

■ In ultimo è importante anche registrare le opportunità che provengono dall’elearning. I mass media e i media digitali hanno apportato un cambiamento sostanzia-

le nelle modalità di apprendimento. Si è passati dall’autoistruzione (la formazione a distanza), che concepiva un soggetto passivo rispetto a chi forniva conoscenze, al recupero attraverso la “rete” della dimensione sociale, per arrivare ad un apprendimento cooperativo ed assistito e quindi ad una “comunità che apprende”e ad una “rete” che può stimolare la vita individuale e quella comunitaria75. Dalla situazione legislativa italiana sembra emergere un contesto molto attento soltanto ad un “apprendimento permanente”, anche se sostanzialmente traspare una grande aspirazione educativa.

In sintesi Nella sua evoluzione l’EP qualche volta ha tradito la sua vocazione umanistica, preoccupata più di aspetti tecnico-professionali che di liberazione delle potenzialità e dei talenti che ogni uomo possiede. Il dibattito intorno ai termini che vengono usati è indice di questi slittamenti di significato sempre ricorrenti e qualche volta fuorvianti, se non si mantengono saldi alcuni principi di fondo. Nonostante queste difficoltà, Quello

che è certo è che l’educazione di tutti, per tutti, per l’intero corso della vita e quindi capace di alimentare l’umanesimo della singolarità della autenticità76, e dunque della

dignità dell’uomo, è stata sempre considerata come un traguardo difficile da raggiungere in tempi brevi. Oggi sembra definitivamente assodato che le strutture pubbliche debbano cominciare a farsi carico del problema della EP. E’ infatti una esigenza di grande rilevanza sociale, avvertita a tutti i livelli.

E l’EP, conservando la sua carica ideale, per certi versi profetica, si propone come prospettiva e come metodo. La prospettiva è evidentemente proiettata nel futuro, nel raggiungimento di una pienezza umana di vita dove ciascun uomo possa effettivamente mettere a frutto per se stesso e per l’intera società, le potenzialità di cui è portatore. Il metodo si fonda sull’essenziale rispetto dovuto ad ogni uomo, sempre, perché impari a vivere come persona responsabile di se stessa ed in grado di vivere con gli altri in una visione di fraternità universale. Insomma, sia la prospettiva che il metodo di una EP capace di ispirare ed orientare le azioni educative in ambito scolastico e in quello extrascolastico, quelle a carattere formale e quelle non formali, hanno come punto di riferimento l’uomo, colto nella sua essenza, nella sua interezza77. Oggi tuttavia la materia che riguarda l’EP, pur con puntualizzazioni che vengono svolte dal mondo cattolico, resta per tanti versi magmatica. Certamente non è un blocco unitario, piuttosto un terreno di incontro di molteplici aspettative, ma è proprio in questa sua varietà che l’EP si presenta all’incontro con la Pastorale, argomento che sarà affrontato nel prossimo articolo.

(1. continua)

75

Cfr. S. Angori, Educazione permanente…, cit., p. 172. Ibidem, p. 158. 77 Cfr. ivi. 76


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 76 (2009) 2, 249-252

¿ Por qué no creamos otra escuela para construir un futuro mejor ? Lorenzo Tébar Belmonte, fsc

Secretario executivo de la RELEM, Paris

E

l desafío creador de otra1 escuela se entiende en un intento de diseñar, renovar, transformar. No es una tarea simple, ni de hoy para mañana: Se trata, nada más y nada menos, de lograr una alianza social, en la que todos reconozcamos que la misión de la escuela es imprescindible y urgente, si queremos que asuma su función con eficacia y coopere a una positiva transformación de la sociedad del futuro. Los problemas educativos son cada día más complejos y más difíciles, debido a las muchas variables que condicionan nuestra vida: educando, familia, escuela, sociedad, medios, economía, trabajo, estructuras de globalización… Pero el ser humano, que con su inteligencia es el promotor de todas las grandes hazañas, como también de los grandes problemas, sabe cómo avanzar hacia un cambio estructural de nuestra escuela. Las reformas educativas en los países siembran desunión y desconcierto entre los sectores implicados, los gobiernos se muestran remisos en incrementar la inversión económica y los recursos humanos profesionales adecuados a los problemas crecientes en las aulas, debido a las tensiones que la misma sociedad genera, que la economía desestabiliza y que los medios de comunicación amplifican y distorsionan. 1

“La educación, como todo tipo de relación social, está fundada en el amor, una relación que depende de la capacidad de ver al otro”. (H. Maturana, in W. Bohm - E.Schiefelbein, Repensar la educación, U. Javeriana, Bogotá 2004).


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Lorenzo Tébar Belmonte

Muchos docentes abandonan su profesión para buscar otro campo laboral más tranquilo y lucrativo. Esta situación ha sido calificada como “el problema moral más grave de Europa” (O. González de Cardedal). Conocemos los males que aquejan al mundo educativo. Entonces, ¿por qué no pensamos otra escuela? ¿Acaso sirve la que hoy tenemos? ¿No se exige en todos los foros una gran transformación, un cambio profundo, una mayor profesionalización de los docentes, una decidida tarea educadora de toda la sociedad? Nadie nos impide creer en las utopías, diseñar una escuela con una serie de rasgos que modernicen su rostro, actualicen su misión, y sean el reflejo que las aspiraciones de los auténticos educadores de hoy, que quieren formar a los niños y jóvenes con visión de futuro. ¿Qué rasgos esenciales debería tener la nueva escuela del futuro? Empecemos por éstos: 1. Una escuela con identidad, abierta a toda la sociedad - Toda escuela debe tener bien definidos su misión, visión y valores, que orienten su proyecto educativo. Ya que la escuela acoge la parte más querida de la sociedad: sus hijos, la promesa del futuro, debe decidir qué tipo de persona quiere formar. Abrir las puertas de las aulas implica tener equipos seguros y profesionales que no tienen miedo a perder sus seguridades y su función. La escuela debe abrirse para conocer las necesidades del entorno, que sepa desterrar el miedo a la familia, a los problemas de la calle, a la competitividad de los medios, a la sociedad consumista… Abierta a que por ella pasen los ciudadanos ejemplares: sabios, artistas, deportistas, científicos, testimonios de virtud, de valores y mérito social. Abierta a todas las culturas, a los idiomas, a las nuevas tecnologías, a las religiones, a los saberes, a las artes. Abierta a Europa, al mundo, al futuro e, incluso, a afrontar la incertidumbre. Abierta a la convivencia sana de todas las formas de la vida social. ¿Por qué la escuela de hoy está cerrada a los empresarios, médicos, pilotos, ingenieros, premios Nobel, medallas de oro, campeones, periodistas, locutores, profesores universitarios? ¿Acaso el currículo impide que otro sea más competente o tenga otras ideas? Ser educadores abiertos es sinónimo de profesionales seguros de sí mismos, sabedores de su trascendente misión, que se sienten solidarios de un proyecto compartido. 2. Una escuela comunidad, para toda la sociedad - Pero, ante todo, animada y dinamizada por un equipo de profesionales competentes y bien pagados. La comunidad es la muestra de todas las partes implicadas en un proyecto educativo consensuado y asumido. La comunidad se configura en un tejido de incontables relaciones, actitudes, valores y vivencias. Pero, esencialmente, la comunidad da calor, ayuda, sintonía, vida. Las comunidades prestan afecto, reconocimiento, proyección, sinergia. Reconocemos la importancia del liderazgo integrador y armonizador de un proyecto dinámico, diversificado en las oportunidades. En la comunidad deben caber todas las sensibilidades, deben enraizarse los valores y se debe fundar la ciudadanía. La escuela debe ser experiencia ética, en clima forjador de valores, incentivando el mérito y la coherencia que debe preceder en los mayores.


¿ Por qué no creamos otra escuela para construir un futuro mejor ?

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3. Una escuela despertadora de sensibilidades y valores - Educar es creer y acoger a todos sin condiciones, es humanizar, ante todo; es asentar profundamente la dignidad del ser humano y de cuanto potencia y ayuda a vivir mejor. El tiempo de escolarización es la gran oportunidad para saborear los valores que dan sentido y permiten apreciar las riquezas de la existencia, el conocimiento y la creación humana. Despertar, incluso a los valores interiores, a los religiosos, a las culturas, desterrando los prejuicios y barreras de exclusión, cultivando actitudes tolerantes y comprensivas, valores de sentido y dimensión trascendente. 4. Una escuela educadora - Además de transmitir enseñanzas, la escuela debe formar personas competentes, autónomas, libres, responsables. Escuela de la teoría y de la praxis, del saber aprender y del saber vivir y convivir. La escuela sitúa en el centro a los educandos y toda la comunidad se siente educadora y exige a la sociedad que también se comprometa en su proyecto. Las estructuras, los contenidos, las experiencias, etc. deben estar en consonancia con esta meta desafiante, casi utópica. La escuela debe sentirse responsable, profética, denunciadora y promotora de educación de calidad en sus palabras y en sus obras. La formación integral se explica y se realiza desde una escuela educadora. 5. Una escuela que busque el éxito - Los frutos también deben exigirse, aunque en educación no son únicamente los resultados académicos ni las medallas o diplomas. La escuela se empeña en desterrar el fracaso, en ayudar a los alumnos en sus dificultades, en motivar, en implicar a todos sus actores, en superar sus resultados, en buscar la eficiencia en las mil caras del éxito: humano, personal, social, deportivo, educativo, cultural… El éxito debe ser consistente, basado en la formación integral, en aprender a aprender, en formar personas autónomas, con sentido crítico, con capacidad creativa, con sed de seguir aprendiendo toda la vida. Pero el éxito mayor está en crear un clima de relaciones cordiales, de sana, solidaria y alegre convivencia. El éxito momentáneo no debe cegar la trascendencia de la preparación para la vida, orientar vocacionalmente a sus educandos para el empleo y el compromiso de formar una sociedad mejor. A la escuela se le debe pedir el desempeño de su misión, esencialmente referido a la formación intelectual, a la transmisión de saberes y competencias, a través de una pedagogía eficaz, que potencie íntegramente a cada educando. 6. Una escuela que forme en competencias y oriente para la vida y el empleo - La escuela debe estar atenta para conocer cómo es y qué necesita la juventud para abrirse paso en la sociedad del mañana. Debe también estar a la escucha de lo que necesita la sociedad, qué demandas de empleo presenta, con qué medios y técnicas se forma al trabajador, para incorporar sus recursos y tecnologías a la formación escolar. Si la sociedad avanza desde unos controles selectivos y exigencias de cualificación, la escuela debe adelantarse con la formación pertinente a superar esas barreras con éxito, transformando las dificultades en oportunidades formativas. La escuela debe estar en conexión con los nuevos foros e instituciones, abierta a otras culturas, a otros idiomas y creencias, a incorporar elementos profesionales que abran al trabajo y al éxito en la vida.


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Lorenzo Tébar Belmonte

7. Una escuela que aprende y forma permanentemente - La escuela es una institución protagonista e imprescindible artífice de la sociedad del conocimiento, por lo que debe estar en situación de permanente renovación y actualización en sus contenidos, técnicas y recursos psicopedagógicos. La formación debe ser a la vez vehículo de intercambio, búsqueda e incentivo para toda la comunidad colegial. La formación debe formar parte esencial del proyecto educativo, como exigencia de calidad y como estímulo y reto de perfeccionamiento personal y grupal. La escuela presta atención a otros centros docentes, a las corrientes de vanguardia, para presentar, compartir y divulgar su propio crecimiento profesional con generosidad. 8. Una escuela en red - En una sociedad multicultural y globalizada, la escuela necesita proyectarse en las nuevas formas de conexión, en búsqueda de la riqueza de relaciones y de experiencias de otras instituciones educativas y formativas. Directivos, profesores y educandos necesitan dominar los medios tecnológicos e idiomas para poder expandir ampliamente su interacción e intercambio. Las redes de la escuela deben proyectarse según sus posibilidades, desde el ámbito educativo entre iguales, con toda la comunidad escolar, el pueblo o ciudad, hasta llegar a otras instituciones nacionales e internacionales, en ámbitos universitarios y profesionales superiores. 9. La escuela que innova e investiga - Sin pretensiones mercantilistas, la escuela debe expresar la permanente actitud de control de sus resultados, para perfeccionar y renovar sus métodos y sus medios. La escuela necesita pedir colaboración a otras instituciones que le permitan estudiar, diagnosticas y tomar decisiones acordes con las nuevas demandas de una sociedad en permanente progreso. A través de estudios y proyectos de innovación la escuela se sitúa en la dinámica auténtica de la calidad y de la renovación que se espera de ella. Esta disposición será fuente de motivación para la formación y el empeño continuado de los educadores, para el crecimiento de su lazos sociales y de autoestima por su noble misión. 10. La escuela solidaria y asociada - La escuela necesita tener y ampliar constantemente sus vínculos con otras instituciones educativas, próximas a su carisma y a su sistema de creencias, y también con una proyección de partenariado, de intercambio y compartir ideales educativos. La escuela no puede encerrarse en sí misma, sino que debe sentirse cercana a otros centros pedagógicos y educativos, proyectar su compromiso, ayuda e intercambio con otras culturas, religiones y estilos de vida. 11. La escuela evangeliza educando - La escuela conoce la trascendencia del tiempo de formación para toda la vida. Una educación integral de calidad es, por definición, potenciadora, personalizadora y socializadora. La educación humana y cristiana debe forjar la persona libre y autónoma, capaz de construirse su proyecto vital, inspirada en los principios del humanismo cristiano, la proclamación explícita del Evangelio, buena noticia para todo ser humano e inspirada en el carisma vocacional puesto al día. Crea un clima de relaciones fraternas, de justicia y caridad, comunidad referencial de valores humanos y cristianos. Una escuela católica, además, alegre, dinámica, solidaria y universal. ltebar@lasalle.es


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 76 (2009) 2, 253-264

Etica per Educatori – un minilessico [2] Lluís Diumenge, fsc

Educazione Educare significa portare l’essere umano alla dignità di persona, cioè alla coscienza della propria identità e singolarità, perché non si perda nell’anonimato della collettività. Educare è aiutare la persona a costruirsi con libertà e responsabilità. Ma l’azione educativa suppone una relazione duale dove educatore ed educando non sono distinguibili a priori. Certo i ruoli sono e devono essere diversi, ma se il figlio/alunno impara dal padre/maestro, di fatto è vero anche l’inverso. Inevitabilmente. Vale anzitutto evidenziare il fattore persona. L’educazione è processo che coinvolge la partecipazione di tutto l’uomo. Dall’educatore si richiede una intenzionalità tesa ad assicurare il passaggio del capitale etico-culturale alla nuova generazione. Dall’educando si richiede una consapevole autoconvinzione. Ed è qui che entra in gioco la variabile libertà, che spiega come non sempre i risultati conseguiti corrispondono agli sforzi profusi. Resta primario il compito di motivare in permanenza il desiderio di crescere, scoprire, formarsi (Camus ricordava che nell’uomo la fame più insaziabile è la fame di scoprire). L’educazione i basa su principi, valori e saperi costitutivi della propria cultura, ma è finalizzata non tanto a conservarli tal quali ma a garantirne la pertinenza nella novità dei contesti multiculturali. Di solito il peso della responsabilità educativa ricade sulla scuola. Essa è anche una struttura al servizio del sapere e delle competenze, ma dovrebbe essere anzitutto un luogo di vita e di formazione offerto a persone e gruppi che desiderano crescere e costruirsi in quanto persone. Il dispositivo scolare mira ap-


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punto a questa doppia costruzione, personale e sociale a un tempo. A tale scopo il contesto scolastico dovrebbe offrire le condizioni per la crescita personale e l’apprendimento della relazione con l’altro. Ma la conoscenza, si sa, si è convertita in motore economico nelle società occidentali. Il capitale culturale di una persona è posto a servizio della professione, e fattore di produzione, quindi sottoposto alle leggi del mercato. L’etica rovescia il rapporto e si chiede: la società della conoscenza mette al centro l’essere umano? La conoscenza, per esempio, è veramente per tutti? Aiuta a migliorare la qualità della vita, a garantire meglio la salute, a rispettare la convivenza sociale e l’ambiente naturale? Oltre a trasmettere conoscenze e competenze, la scuola insegna a vivere, memore del classico motto non scholae sed vitae discimus ? C’è una cortina di sfiducia reciproca che si interpone tra società e scuola: l’una pensa male e giudica male l’altra. Questo stato di cose, se dovesse perdurare, è letale per il futuro di un paese perché è letale anzitutto per l’educazione dei giovani. La mutua fiducia è condizione imprescindibile. La scuola inserisce nella società, ma deve anche educare a cambiarla, dando strumenti critici per valutarla e strumenti tecnici o competenze per trasformarla. Non si può educare contro la società (sarebbe ribellismo), ma nemmeno la società deve osteggiare le sue istituzioni educative (sarebbe sabotaggio). Le conseguenze saltano all’occhio: gli universitari, sentendosi irretiti nella burocrazia, non si fidano del processo di Bologna; i sindacati degli insegnanti non si fidano delle riforme in nome della qualità; molte famiglie convertono i loro sospetti in capi d’accusa contro la scuola… Educare correttamente presuppone conoscenza delle nuove sfide e capacità di rispondervi con creatività. Ma tutta la società, e non solo la scuola, è mobilizzata a tal fine. La formazione scolastica rimane indispensabile, ma non è sufficiente se le altre agenzie educative non adempiono al ruolo che loro compete. La società globalizzata agevola la mobilità di modo che le persone possano concretizzare un progetto di vita in un qualsiasi altro punto del pianeta, e tale mobilità genera la differenza etnica, linguistica, religiosa, identitaria. Differenza che pone nuove sfide al sistema educativo. Risulta stimolante, ma anche problematica, l’assunzione delle nuove tecnologie dell’informazione nell’educazione di tutte le capacità della persona. In quanto tecnologie sono strumenti che impongono un loro ritmo, accelerano certi processi di apprendimento e ne rallentano altri. Modificano i ruoli tradizionali tra adulto e giovane, tra maestro e scolaro. Proprio perché c’è il rischio di una egemonia abusiva degli strumenti sui fini, occorre una vigilanza accresciuta sulle reali finalità dell’educazione, che non è la sola padronanza strumentale delle tecniche comunicative, né il solo apprendimento informativo, né la sola capacità di elaborazione di dati oggettivi. Questo sarebbe solo un mero consumo di cultura, di saperi. Mentre l’educazione in senso proprio, o è promotrice di cultura, o non è. Il secolo XXI ci fa vivere in un arcipelago di culture, che hanno forme e contenuti etici diversi. Si sono indeboliti i meccanismo di identificazione tradizionale (credenze, norme, simboli…). La precedente uniformità cede di fronte alla disparità. Nessun sistema etico più imporsi da se stesso sugli altri, anche perché non è più omogeneo in


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se stesso. In una società dove si constata che nessuno deve privarsi di nulla non è per nulla facile assumere le proprie responsabilità personali. La scuola stessa, se è fedele alla sua funzione mediatrice, è chiamata a costruire ponti tra il patrimonio eticoculturale ereditato e i nuovi destinatari che lo devono far proprio a modo loro. La scuola, purché rinnovata, resta un innegabile anello di congiunzione tra una società strutturata ma in evoluzione e i valori profondi, identitari, che intende trasfondere nella nuova generazione. Viviamo un tempo di transizione in cui sopravvivono valori antichi che non smettono di scomparire, ma dove non riescono a imporsi valori nuovi. Come fare a trasmettere i valori emergenti? Un interrogativo che angustia chiunque abbia cuore il problema educativo, in primo luogo quei genitori ed educatori impegnati nella difesa di valori come la responsabilità, la tolleranza, il rispetto, il lavoro serio… Le condizioni perché possa verificarsi trasmissione di valori sono la credibilità, l’iterazione o ripetizione, la coerenza dei trasmettitori, e anche il corretto uso delle situazioni esistenziali, delle congiunture ambientali, delle occasioni di fatto. L’educazione ai valori si prefigge la consapevolezze e l’accettazione, da parte dell’educando, di quel capitale di valori che sono inerenti alla cultura della società di appartenenza. Certi stili di vita tra i giovani sono il segno del vuoto che vivono. Genitori ed educatori sanno di andar controcorrente quando tentano di insegnar loro che la vita ha un senso se vissuta per gli altri. Prima e più che un elenco di valori, vanno presentate loro regole di vita che aiutino a crescere, ma a crescere in modo sempre più personalizzato, cioè autonomo, responsabile. Certo, ogni norma esiste in funzione del valore, qualità che possiedono alcune realtà, considerate beni, ragion per cui sono stimabili. Quanto più rilevante è il valore tanto più impegna e, per questo, esige un processo di maturazione. La pedagogia dell’esperienza risulta qui imprescindibile. L’incontro con persone coerenti è un metodo plausibile ed efficace per concretizzare i propri ideali. Gli esseri umani tendono a riprodurre comportamenti positivi. Si sentono compensati e gratificati quando si sentono accettati e amati. Il campo delle proprie possibilità si allarga si apre a un orizzonte di progresso personale. L’educazione non è mai qualcosa che possa funzionare con un pilota automatico. E’ nell’interesse della società stessa crescere membri che acquisiscano autonomia personale. Genitori ed educatori mettono a buon frutto la loro autorità sui soggetti in educazione nella misura in cui sanno trasformarli in protagonisti della loro vita. Assumono il ruolo di mediatori e “scompaiono” una volta adempiuto il proprio servizio. ■ Un film: La stanza del figlio (Nanni Moretti, 2001) – Un padre psicoanalista, una madre dolce e affettuosa, due figli adolescenti, legami familiari attraversati da luci e ombre di una vita vissuta insieme, come in tante famiglie. Finché l’irruzione del dolore non metterà alla prova anche gli affetti più profondi…

■ Per saperne di più G. ANGELINI., Educare si deve, ma si può?, Vita e Pensiero, Milano 2002. G. GATTI, Etica delle professioni formative, Elledici, Leumann-To 1992. E. DAMIANO, L’insegnante etico. L’insegnamento come professione morale, Cittadella, 2007.


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Famiglia Cellula primaria della società e istituzione base della convivenza civile, la famiglia è un nucleo di persone legate da parentela, che vivono insieme, che collaborano con la società e che dalla società hanno diritto di riconoscimento e di aiuto. La famiglia gode di diritti propri. E’ luogo privilegiato di comunicazione interna tra generazioni. Promuove l’espansione e lo sviluppo della persona e della società. Permette a ciascuno dei membri di sentirsi amato. Per la sua complessità psicologica reclama la figura paterna (fermezza) e materna (tenerezza). La comunanza di criteri e la collaborazione amorevole è prerequisito per una educazione riuscita dei figli. Nel suo insieme, la struttura familiare è sottoposta a vincoli di costume e a norme legislative. Il matrimonio non è un semplice patto di convivenza, ma una relazione di rilevanza sociale unica, posto che il contesto familiare e l’educazione dei figli si configura come lo strumento principe per la crescita integrale. La personalità degli sposi/genitori si comprova e si verifica non settorialmente, ma globalmente; non occasionalmente ma nella continuità. Aver successo nel matrimonio è un’impresa di notevole difficoltà. La creazione biblica evoca il disegno di Dio: “non è bene che l’uomo sia solo; voglio fargli un aiuto che gli corrisponda” (Gn 2,18). Nella natura personale dell’essere umano e, più profondamente, nella mente del Creatore sta inscritto che relazioni talmente decisive come la sponsalità, la paternità/maternità, la filiazione e la fraternità si realizzano nel matrimonio, inteso come indissolubile unione di vita e di amore tra un uomo e una donna, aperto alla trasmissione responsabile della vita, frma peculiare della speciale partecipazione dei coniugi all’opera creatrice di Dio. Il fatto poi che la famiglia cristiana sia stata consacrata da un vincolo religioso ha avuto una rilevanza sociale di altissima efficacia. Le ha dato maggior solidità, ha accentuato il suo prestigio, ha garantito la affermazione dei suoi diritti e quindi la protezione legale, ha potenziato la sua capacità educativa, ha salvaguardato il rispetto reciproco tra i coniugi. A riprova, basterebbe confrontare la realtà della famiglia sviluppatasi dalla matrice e nell’orizzonte della tradizione ebraico-cristiana con situazioni concrete di famiglie in altre culture. La civiltà occidentale ha conosciuto vari tipi di famiglie. La famiglia tradizionale appare nel secolo XV e si caratterizza per i valori borghesi del risparmio, dell’utilità, della sicurezza. Quella consumista nasce col capitalismo del Settecento ed è una famiglia nucleare, coniugale con le due funzioni base di procreazione e di equilibrio affettivo. In reazione a questo modello, patriarcale e monogamo, sorge la famiglia socialista che milita per l’uguaglianza totale di diritti tra uomo e donna. La fede non sovrappone alcuna struttura particolare, né mette in discussione il profilo della famiglia nucleare. Interviene solo per animarla dall’interno con sentimenti di giustizia e di carità. L’apporto specificamente cristiano è quello che discende dal sacramento del matrimonio, sacramento che pone le basi della comunità coniugale escludendo l’adulterio, il divorzio e la poligamia. Il Vaticano II, pur consapevole delle crescenti perturbazioni, si mostra fiducioso nelle possibilità dell’istituto matrimoniale quando afferma: “Il bene della persona e della società umana è strettamente connes-


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so con una felice situazione della comunità coniugale e familiare” (GS 47). La famiglia è l’unico approdo quando vengono a mancare gli altri appoggi. Ripetuti sondaggi d’opinione confermano che nella scala dei valori la famiglia conserva sempre una posizione di primissimo piano. La famiglia, cassa di risonanza sociale, è esposta alle mutazioni della condizione umana e ai rivolgimenti del mondo. La Modernità ha fatto precipitare la crisi dell’istituzione, che, in certi punti, è collassata. Dalla famiglia nucleare si è passati alle famiglie monoparentali, cresce il numero dei matrimoni celebrati unicamente con rito civile, aumenta il divorzio express, si diffonde il ‘matrimonio’ tra persone dello stesso sesso ed è in paesi a maggioranza cristiana che si verifica il maggior crollo dei tassi di denatalità. La mutazione epocale in cui ci troviamo nasce da una triplice radice: la globalizzazione, la rivoluzione tecnologica, il nuovo ruolo della donna. Di qui la domanda radicale: ma esiste ancora un modello di famiglia fondata sull’unione uomo-donna, o dobbiamo ammettere altri modelli che vanno dai monoparentali agli omosessuali? Se in Italia, in Francia, in Spagna il diritto riconosce modelli alternativi di famiglia, scompare una azione tutelare durata millenni. Queste nuove forme di organizzazione della convivenza sono varianti contemporanee della tradizionale unione duale. Conviene interessarsene con realismo non ingenuo: a che si deve l’attuale contestazione dl matrimonio? Come comportarsi cristianamente di fronte a unioni di fatto, specie se avvengono nel proprio ambito familiare? Che giudizio meritano le leggi che tentano di regolarizzare queste unioni? Il fenomeno nuovo dei matrimoni omosessuali è già così rilevante perché la società, lo Stato e la Chiesa non restino indifferenti. Più che ignorare i fatto, conviene assumerlo. Aumenta il numero delle persone che pensano al matrimonio come a una celebrazione pubblica di una unione emotiva e sessuale tra due persone. Dobbiamo quindi interrogarci se il modello di matrimonio cristiano non chieda un serio e profondo esame, affinché, senza cessare di essere esigente, sia comprensibile. Il sacramento del matrimonio è uno dei segni fondamentali della fede cristiana. Presuppone la fede in chi lo celebra. Implica un impegno forte e permanente. Sposarsi da cristiani è una decisione di fede, libera e responsabile. Sta di fatto però che, al presente, la Chiesa ha perso potere culturale sul matrimonio e la famiglia: l’aspetto religioso nei riti sociali della famiglia tende a scomparire, mentre lo Stato ha in mano il controllo giuridico. Un difficoltà che potrebbe convertirsi in opportunità. A livello ecclesiale è auspicabile passare dal controllo religioso alla offerta di senso, mediante un accompagnamento pastorale più mirato. Prima che repertorio di diritti e doveri giuridici, il matrimonio è una trama di relazioni interpersonali. Il vincolo emerge dallo spessore umano dell’amore. In assiologia è più importante la tela che la cornice, la coppia viva che la sua istituzionalizzazione. Psicologia e sociologia ci aiutano a riflettere e dare priorità alla tela. Si impone un rodaggio per imparare a convivere. Celebrate le nozze, la vita matrimoniale non si riempie per incanto o a suon di imperativi legali. Si riempie di quello che ciascuno porta nella coppia, se questa storia d’amore continua.


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Anche nella società multiculturale la Chiesa ha diritto di proporre e difendere, in sede privata e pubblica, la sua visione del matrimonio, con un riferimento particolare ai principi inscritti nella natura umana (protezione della vita, riconoscimento e promozione della struttura naturale della famiglia, diritto all’educazione dei figli…). E ancora deve ricordare, nelle dovute forme, “alle autorità civili che devono considerare come un sacro dovere quello di rispettare, proteggere e favorire la vera natura del matrimonio e della famiglia” (GS 52). Tuttavia questo diritto non esime dallo star attenti all’evoluzione culturale, sapendo mostrare all’occorrenza capacità di resistenza ai modelli dominanti. Urge rispettare sempre l’indipendenza dei governanti, dei partiti politici e dei cittadini, perché propongano e decidano regole giuridiche in accordo con i criteri etici di una sana laicità, che non presumono di combaciare necessariamente con i criteri morali della Chiesa. Al presente si avverte una esigenza urgente di un’altra visione sulla famiglia, una visione comprensiva che ponga l’accento sulla serietà del patto tra due persone che decidono insieme di realizzare un progetto comune, e lo decidono in un’ottica di fedeltà perenne, senza ritorno. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale che collochi la famiglia nel posto ambìto e apprezzato dalla immensa maggioranza dei cittadini: in prima fila tra le priorità e gli obiettivi vitali. Il futuro della famiglia dipende dai valori che sapremo privilegiare per il futuro dell’uomo, un futuro che è già presente.

*** ■ Un film: Caos calmo, di Antonello Grimaldi (2007). Una bella favola familiare ricavata dal bestseller omonimo di Sandro Veronesi. A pochi giorni da una morte improvvisa, padre e figlia cercano di tornare alla vita quotidiana. Ci vuoe tempo per elaborare il lutto e nulla di meglio che lasciarsi interrogare dalla vita. Alla fine, la calma ha la meglio sul caos dei sentimenti e delle vicende. La calma di spirito che sopraggiunge quando uno decide di essere sincero con se stesso e con gli altri.

■ Per saperne di più: D. BELLANTONI, Ascoltare i figli. Percorso di formazione per i genitori, Erickson, Trento 2007. R. A. FABIO, Genitori positivi, figli forti. Come trasformare l’amore in educazione efficace, Erickson, Trento 2008. V. PAGLIA, L’amore cristiano, San Paolo, Milano 2008.

Relazione / Amicizia Relazione è sinonimo di rapporto, contatto, connessione, corrispondenza. E’ comunicazione di qualcuno con un'altra persona; a più livelli d’intensità, fino a quello di carattere amoroso e coniugale. Capire la relazione presuppone averne un’esperienza. E quando se ne ha un’esperienza, il capirla per via cognitiva non è necessariamente congruo né necessario. L’atteggiamento base di ogni relazione interpersonale è la confidenza, la fiducia reciproca. Mancando questa vien meno la possibilità di un vincolo affettivo. Senza questa manca il criterio determinante per un qualsiasi tipo di relazione che possa durare lungo la vita.


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La relazione ha origine nell’imperiosa necessità di guarire il “male della solitudine”. La miglior maniera di conoscere chi siamo è di saper osservare come ci vedono gli altri. Attraverso il loro sguardo percepiamo qualcosa di essenziale della nostra identità personale. Serve imparare a vedere e a vedersi. Il ritmo convulso della vita impedisce di specchiarsi nell’altro e di imparare da come lui ci vede. L’uomo e la donna sono fatti per comunicare e amare, secondo il disegno creatore di Dio. E ciascuno vive l’immensa nostalgia di poter comunicare a fondo e in modo autentico, pieno. Non c’è normalmente persona umana che sfugga a questo intimo desiderio, che impronta tutte le relazioni. I vincoli affettivi fanno sì che gli esseri umani siano quello che sono. Nella scala defli affetti ci sono livelli e gradi. La famiglia d’origine è un grado di prossimità, un altro grado sono i figli, verso cui si accende anche un preciso vincolo di responsabilità, e altri gradi ancora possono esistere nelle relazioni tra amici. Ciò nonostante il dono della comunicazione può essere rifiutato. Uno dei motivi del rifiuto è, senza dubbio, la mancanza di fiducia nella gratuità e nella sincerità dell’atto comunicativo. E’ una tentazione che appare di continuo nella storia e che invade tutti gli ambiti dl vivere. Si rompono le amicizie, si deteriora la convivenza familiare, si interrompono i contatti, si violano i patti tra nazioni… A riflettere sulla relazione con un essere umano non si percepisce solo la personalità dell’altro, né unicamente la corrente d’amore che l’attraversa. Nel tu si fa in certo modo esperienza del mistero dell’amore divino, un mistero che trascende, che sta oltre la persona dell’altro. Si esperisce sempre una certa qual trascendenza passando attraverso relazioni concrete e vere con l’altra persona o con la creazione. L’amore, come l’amicizia, sono necessità vitali. Senza amicizia e senza amore, l’essere umano si ammala nell’anima. C’è un’amicizia ispirata a utilità, a convenienza, a diletto, cioè basata sull’egoismo, e come tale è destinata a durar poco. Solo le amicizie fondate sull’oblazione di sé sono destinate a durare e sono degne di tal nome: in esse si vede come i desideri e i sentimenti degli amici coincidano. L’amicizia è come il sole che illumina la vita. Una vita senza amicizia risulta oscura a senza sapore. Gli psicologi osservano che le persone prive di amici finiscono più facilmente per cadere vittime dei colpi del destino. E’ nelle avversità - come dice la saggezza antica - che si prova la tenuta dell’amicizia. Senza un amico, niente è apprezzabile, amabile. Ma nulla garantisce che l’amicizia abbia sempre successo. Quando tra amici non c’è più nulla da dirsi, nulla da comunicarsi, nulla càpita di nuovo che possa rompere la monotonia, nulla è più capace di riattivare un dialogo, allora l’esperienza può dirsi conclusa. Se uno degli amici adotta un modo di fare da “capetto” o da primo della classe o da terapeuta, inferiorizza gli altri e compromette il fondamento stesso dell’amicizia. Perché l’amicizia si instaura sulla base di un tu e di un io situati allo stesso livello. Un amico è un dono per l’amico: rende feconda la vita dell’altro; la genuina amicizia si basa sulla parità degli amici, altrimenti il rapporto si incrina e muore.


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In certi momenti della vita, specie nell’adolescenza, ragazzi e ragazze hanno bisogno di un’anima gemella. Vivono e presentono realtà che non osano o non sanno commentare con qualunque persona. Cercano istintivamente amici coi quali condividere, credere, scoprire, realizzare. Nella società del benessere molti intristiscono nella solitudine, e cercano un rifugio, una rivalsa, un’àncora nel gruppo. Nelle loro camere ben fornite di computer, internet, cellulare, tv e tutto l’armamentario tecnologico, l’adolescente finisce per sentirsi solo/sola. Angosciato da una impazienza irrazionale si espone al rischio di rimaner incarcerato nel suo egoismo solitario. In qualsiasi relazione c’è la spinta positiva ad andar sempre oltre se stessi. Ogni giorno càpita di dover perdonare qualcosa a qualcuno, di dover mettersi da parte per far spazio all’altro. L’amicizia, di solito la si deve cercare, e se la si trova non è detto che sia vera e duratura. A un primo entusiasmo sentimentale segue quasi sempre una fase di difficoltà, di disillusione, fino al punto talvolta di dover lasciarsi di comune accordo. Un distacco molto doloroso per ambedue. Si direbbe che l’amicizia – relazione densa di significato emotivo e sentimentale, tanto cercata con una determinata persona – rivela improvvisamente, all’atto concreto, limiti, riserve, carenze insopportabili vissute come tradimento, inganno, errore di persona. Col rischio conseguente di isolamento e depressione. O, alla meno peggio, con la ricerca di una nuova amicizia. E’ possibile una vera amicizia tra ragazzi e ragazze che non sfoci in innamoramento e amore? E’ questione di orgoglio personale saper giungere ad essere amico di una persona dell’altro sesso, serenamente, senza cadere nell’infatuazione dell’innamoramento. Importa esaminare la causa di questo interesse per un problema la cui soluzione in fin dei conti è inutile, in quanto non esiste un sì o un no teorico che risolva la questione. Inoltre, saper chiaramente se è possibile la vera amicizia tra ragazzo e ragazza continua ad essere un problema aperto per gli stessi adolescenti. Perché? L’adolescente sta uscendo dalla famiglia. Basterebbe questo a dargli/darle un senso di profonda incertezza e solitudine. Discussioni a non finire in casa. L’amore tra adolescenti è sempre visto con sospetto. Anche in tempi di maggior permissività. Loro, gli adolescenti, cercano di giustificare come possono queste amicizie. Tentano di dimostrare che sono maturi per un’amicizia bella e trasparente. Fatte salve tutte le buone intenzioni, gli adolescenti cercano nelle amicizie, in modo più o meno consapevole, quel contatto esclusivo io-tu che costituisce il nucleo centrale dell’amore. La cosa può sembrare contraddittoria, ma solo in apparenza. L’adolescente si sente sollecitato a concretizzare la sua idea di amore “leale, costante, aperto…” in un Amore, anche a costo di rimanere poi disilluso dalla persona concreta incontrata. Ma allora ritenta con un’altra persona. Tirocinio dell’amore, gioco di esperienze. Ed è proprio questo il campo dell’intervento educativo: aiutare a veder chiaramente la realtà sessuale, le sue componenti psicosociali, le sue ricadute nel quadro più ampio della vita. Interventi educativi tra i più delicati, che, comunque, dovrebbero sempre partire dal positivo della questione, almeno in entrata. Serenità, rispetto, autocontrollo, son tutte forme positive da valorizzare. Certo, ci sono situazioni che impediscono la crescita, che non sono in linea con l’amore vero, ma ne sono la negazione egoistica, perché si tratta di gratificazioni facili e immediate che banaliz-


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zano l’amore. Come, appunto, gli innamoramenti precoci, che sono una forma di unione illusoria condannata all’insuccesso. Il futuro della relazione coinvolge e impegna sia l’io che il tu. In un processo che nasce dalla relazione domestica, ludica e spensierata, transita dalla amicizia cercata e costruita e può sfociare nel miglior dei casi in un amore oblativo. Processo mai indolore, perché sempre sono in agguato alti e bassi, e condizioni deteriorate da risanare. Gli esseri umani sono il paradigma perfetto della connettività. Siamo fatti a base di innumerevoli e stupefacenti connessioni. Viviamo intrecciati con il mondo che ci circonda. Possiamo fruire di straordinarie capacità di comunicazione reciproca, di rapporti elettivi, fino alle forme di convivenza più intima. Al punto che ciascuno potrebbe esclamare con lo stupore muto del poeta:

Al final del camino me dirán - ¿Has vivido? ¿Has amado? Y yo, sin decir nada, Abriré el corazón lleno de nombres.

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■ Film sull’amicizia: Gli anni di corsa (Pierre Boutron) – Arrivederci ragazzi (Louis Malle) – Breakfast club (John Hughes) – Cielo d’ottobre (Joe Johnston) – Dov’è la casa del mio amico? (Abbas Kiaristami) – Giardino segreto (Agnieszka Holland) – West Beyrouth (Ziad Doueiri) – Yaaba, la nonna (Idrissa Ouedraogo)… ■ Per saperne di più Vittorino ANDREOLI, Lettera a un adolescente, Rizzoli BUR, Milano 2006. Zygmunt BAUMAN, Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari-Roma 2006. Federico OCCHETTA sj, L’amicizia, in “La Civiltà Cattolica” 2009, I, pp. 30-36, quad. 3805.

Religione Si conviene definire religione l’insieme di credenze o convinzioni circa la divinità, di sentimenti di venerazione e di timore verso di essa, di norme morali per il comportamento individuale e sociale e di pratiche rituali, specialmente il culto mediante la preghiera e il sacrificio. La religione mira a orientarci verso Dio, origine e fine di tutto. La realtà di Dio ci situa di fronte alla dimensione ultima delle nostre vite, anche se molte cose ci distraggono e ci distolgono da questo orientamento. Non ha senso chiedersi se credere in Dio sia importante, perché Dio stesso è la misura di ogni importanza. Il nesso tra religione e morale è stato assai studiato e dibattuto. Per il credente, la persona è ordinata a Dio ma non come a mezzo bensì come a fine. La morale abita nell’universo religioso e questo diventa autentico attraverso una prassi di carattere etico.


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Nel secolo XXI, il cristianesimo dovrà essere profondamente mistico, facendo appello all’esperienza religiosa diretta e, al tempo stesso, profetico nella sua capacità di promuovere la costruzione sociale della fraternità. Viviamo in un mondo dove la religione si sta trasformando in un articolo da supermercato, in risposta a sentimenti e preoccupazioni di tipo individualistico dinanzi al mistero della vita. Esiste un forte contrasto nella gamma di significati possibili di religione: dalla superstizione al sacrificio del martire, dalla ciarlataneria dei visionari all’ascesi del contemplativo, passando dai praticanti domenicali e dai fedeli che si soddisfano della religione civile… Dal punto di vista scientifico, o, per meglio dire, scientista, la religione è un’area di comportamenti arbitrari e inspiegabili. Nel mercato editoriale di vari paesi appaiono novità che evidenziano l’accanimento di uomini di scienza e di intellettuali a voler smantellare l’inganno religioso e liberare l’essere umano dal giogo paternalista della divinità. Ma nondimeno si parla di ritorno di Dio e del sacro nello spazio pubblico. Il termine desecolarizzazione, tipico della post-modernità, è venuto da qualche anno a scalzare il precedente suo omologo e contrario secolarizzazione, che sembrava la parola vincente nella modernità. Cosicché anche le istituzioni umane, civili e politiche, hanno dovuto rettificare certi loro statuti per garantire l’esercizio della libertà religiosa all’interno del quadro delle libertà sancite dai diritti umani. Dei 6,7 miliardi di abitanti attuali del pianeta il 91 percento pratica una qualche religione (stando al National Geographic). In auge il rito del pellegrinaggio: 300 milioni di pellegrini solo nel 2007. Senza voler fare di ogni erba un fascio, un tratto comune sembra legare questa umanità in ricerca: l’uomo scopre l’Altro attraverso l’altro, sia nel trasalimento estetico-ecologico con il cosmo sia nella novità genuina delle relazioni interpersonali. Siamo dunque a un ritorno della religione, o non si ritorna piuttosto a un uso strumentale della religione? Di fatto, quando il mondo occidentale fa ricorso alla religione, non è tanto un ritornare quanto un approfittare della religione. E lo fa perché ha bisogno di dare una vernice di legittimità a certe azioni politiche che ne apparirebbero carenti. Il cosiddetto “ritorno del religioso”, lungi dall’essere una reazione quasi biologica di fronte agli eccessi del laicismo, è un evidente fenomeno politico che di religioso esibisce soltanto il nome. Va di moda interpretare letteralmente la Scrittura. Come il fondamentalismo islamico serve spesso come matrice identitaria per la reazione politica antioccidentale, così il letteralismo cristiano negli Stati Uniti serve per legittimare la affermazione di una nuova febbre imperiale. Più che di un dibattito o di un confronto tra atei e gestori della fede, si tratta dell’eterna lotta per il potere. Gli atei insistono sulla superiorità della ragione e la gerarchia cattolica difende invece la sua franchigia. In un contesto presente in cui la fede ha cessato di essere una testimonianza che si trasmette tra generazioni, e in cui l’appartenenza religiosa ridiviene una questione di scelta volontaria, nulla di meglio che i cittadini possano disporre dei mezzi per decidere da se stessi, e, in definitiva, per aderire liberamente alla fede o per scegliere, altrettanto liberamente, l’alternativa agnostica.


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Pensiamo all’universo dei giovani. Molti si auto-percepiscono come persone religiose. Cercano a tastoni un senso alla loro vita. Di solito oggi sono più interessati ad aspetti spirituali piuttosto che a quelli dottrinali. Non li preoccupa granché l’appartenere o meno alla religione come istituzione. I giovani credono senza dover necessariamente appartenere. Si auto-emarginano volentieri dai rituali della cristianità. Si affidano così alla mercé di fenomeni generatori di confusione, sincretismo, disorientamento con il risultato finale di una sfiducia in una qualsiasi fede storica. Vivere la fede nelle condizioni socioculturali di questo inizio di millennio è compito più che arduo. Da ogni parte la fede è posta in questione quando non sospettata o ridicolizzata. Il nucleo focale delle religioni, per loro natura, è alieno dal rispondere a esigenze utilitaristiche; al contrario, è inquietante, problematico, sovversivo. La religione è di per sé sconcertante per le persone, e destabilizzante per le società. La religione esiste per incontrare l’Altro. A partire dal secondo dopoguerra il pluralismo religioso è diventato la norma, specialmente in Occidente. Moschee, templi indù, santuari buddisti, sinagoghe… fiancheggiano sempre più spesso le nostre chiese. Altre fedi convivono nel cuore della cristianità. Ma che futuro è immaginabile per queste comunità religiose disseminate ora nel tessuto civile dell’Occidente cristianizzato? Come si svilupperanno gli inevitabili rapporti di forza tra gruppi identitari concorrenti? Sono pensabili rapporti diversi dai rapporti di forza? Cesseranno le religioni di essere prepotenti e violente con il pretesto che hanno il “vero Dio” solo dalla loro parte? Se davvero crediamo che tutti gli uomini - credenti, diversamente credenti o non credenti - sono sotto l’azione salvifica dell’unico Dio, la frontiera tra cristiani e non cristiani si fa porosa e trasparente. E’ la tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. Dio non è cattolico, è ben oltre le frontiere stabilite dalle chiese e dalle religioni. Il Vaticano II ha parlato di verità e di efficacia salvifica delle altre religioni (cf. Nostra aetate 2). E che cosa sono le religioni, se non dei modi di configurare socialmente la scoperta che Dio ci crea per la felicità in comunione con Lui? Per questo, di fatto e di diritto, le religioni si considerano rivelate. Non c’è che da partire sempre dal principio che tutte sono vere e per questo costituiscono un cammino reale di salvezza per quanti onestamente le praticano. Il dialogo interreligioso ha cambiato notevolmente la geografia religiosa del pianeta. Nutrire l’identità cristiana postula un confronto ormai ineludibile, indifferibile, tra il vangelo di Gesù Cristo e il messaggio delle altre religioni. La catechesi deve abilitare al discernimento e educare i fedeli a scoprire i semina Verbi presenti nelle altre tradizioni religiose. D’altra parte, la distanza critica rispetto alle religioni o la difficoltà di credere, davvero non hanno nulla a che vedere con il Regno di Dio? E nella critica che altre religioni rivolgono al cristianesimo, in nome di legittime aspirazioni umane, non si può forse cogliere anche una denuncia provvidenziale di pratiche alienanti o di rappresentazioni idolatriche di Dio? La grande porta del dialogo è indispensabile per raggiungere la pace tra le religioni. Dialogo necessario perché i gradi problemi della giustizia, dell’ecologia e della pace


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reclamano una comprensione reciproca dei popoli del mondo. “Non ci sarà pace tra le nazioni se prima non c’è pace tra le religioni”, non si stanca di ripetere il teologo cattolico Hans Küng. Tuttavia non ci si può nemmeno nascondere il possibile rischio di relativismo in questo voler accettare le religioni sulla base pregiudiziale della loro parità. Dio non si lascia possedere da nessuno, al fine di poter essere cercato da tutti. Il lungo cammino dell’ecumenismo esige un lavoro paziente e gratuito come insegna la parabola del grano e della zizzania. Tale dialogo interreligioso va condotto con le armi dell’amore evangelico. A questa condizione passeremo dalla vecchia logica dell’espansione istituzionale (e fondamentalmente colonialistica) alla logica dell’emergenza dei valori di cui le persone sono portatrici. Le nuove generazioni stanno rendendosi conto che ogni uomo che viene in questo mondo ha in tasca un biglietto per il viaggio di andata verso Dio. O, detto con altra immagine, ogni essere umano – a misura che approfondisce il mistero insondabile del suo vivere – ha in mano la capacità di entrare in contatto vitale con Colui che, agostinianamente, “è più intimo a me stesso della mia stessa intimità”.

*** ■ Un film: L’ora di religione (Marco Bellocchio, 2002. DVD) - Sergio Castellitto nel ruolo del pittore Ernesto Picciafuoco, un agnostico dalla personalità tormentata. L’artista viene a sapere da un prete che la propria madre sarà beatificata. Davvero inopportuno che una futura santa risulti madre di un non credente. Per di più il figlio di Ernesto, che non vuole essere discriminato a scuola decide di frequentare l’ora di religione. Un’occasione per ragionare con adolescenti maturi su come funzionano i pregiudizi religiosi in salsa italica.

■ Per saperne di più: Georges CORM, La question religieuse au XXIème siècle. Géopolitique et crise de la modernité,

La Découverte,Paris 2006. Giovanni FILORAMO, Che cos’è la religione. Temi metodi problemi, Einaudi, Torino 2004. Carlo Maria MARTINI, Colloqui notturni a Gerusalemme, con Georg Sporschill, San Paolo, Milano 2008.

Prossimo numero: 3. Cittadinanza - Comunicazione - Economia - Politica


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 76 (2009) 2, 265-280

Autoanalisi e autovalutazione del docente Marco Paolantonio

D

all’autoreferenzialità al rendiconto sociale - La valutazione è da sempre un tema di attualità nella scuola, ma di solito è stata gestita in senso autoreferenziale, ossia la scuola si è data da sé le regole in base alle quali osservare, misurare e controllare il proprio servizio. In sostanza è sovente mancata l’etica del ’render conto’ cui sono tenute tutte le istituzioni che erogano un servizio sociale, anche se in questo senso si è mossa la legislazione scolastica con leggi quali la 142/90 e la 241/90 che hanno introdotto il principio della trasparenza. Prima dell’emanazione della Carta dei servizi i diritti dell’utenza erano riconosciuti, ma in modo discrezionale perché stabiliti da chi dirigeva la singola istituzione scolastica. A partire dal DPCM del giugno 1995, ogni scuola è tenuta, in quanto eroga servizio pubblico, a render conto del proprio operato. Punti prospettici - Come già a proposito dell’ educare ad apprendere1 e dell’autoformazione del docente2, l’ottica della serie di appunti che verranno proposti quest’anno è quella dell’insegnante in esercizio, cioè di chi agisce all’interno di un’organizzazione - statale o paritaria - e deve saper vedere con chiarezza senso e posizione della sua funzione professionale: autonoma senza essere indipendente, collaborante senza essere eterodiretta. Altra considerazione d’evidenza palmare: l’autovalutazione acquisisce utili elementi sia dalle domande e dai giudizi di allievi e famiglie, sia - quando mira a una collaborazione più efficace - dalle esperienze dei colleghi e dalle valutazioni variamente espresse dei dirigenti. Tre, in successione, le puntate della trattazione:

- Autoanalisi e autovalutazione del docente (RL 2009, 2) - Valutazione e autovalutazione dell’istituzione (RL 2009, 3) - Dalla valutazione all’autovalutazione dello studente (RL 2009, 4)

1 2

Cf. Rivista lasalliana 2007, nn.1,2,3,4. Cf. ivi 2008, nn.1,2, 3 e 2009, n.1.


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Modello gerarchico delle abilità educanti Da Paolo Meazzini3 attingiamo orientamenti metodologici coerenti e proposte operative praticabili, che si possono riferire a tre livelli di abilità/competenze: Abilità di I livello Abilità di II livello Abilità di III livello

Comunicare Affrontare i problemi e decidere Autocontrollarsi Programmare i contenuti Prevedere i tempi Predisporre le attività Fare lezione Condurre la classe Risolvere i problemi socio-emotivi e cognitivi degli alunni

1. Abilità di primo livello Si tratta di quelle abilità che caratterizzano la persona, ancor prima dell’insegnante. Sono elementi che dovrebbero essere presenti nell’insegnante prima ancora che intraprenda la sua carriera di educatore. La loro assenza, anche se parziale, potrebbe pregiudicare seriamente la sua capacità di raggiungere le finalità educative alle quali è orientata la sua attività.

1.1 Saper comunicare - E’ uno degli aspetti di più difficile attuazione dell’arte4 di insegnare. Ce ne siamo occupati trattando dell’autoformazione dell’insegnante5; qui ribadiremo gli aspetti che si riferiscono al ‘far lezione’ e in particolare alla lezione frontale - espositiva - che è la normale e più diffusa forma di mediazione didattica. Essa si compone essenzialmente degli elementi che caratterizzano la comunicazione: l’argomento disciplinare da svolgere (il messaggio), il modo di comunicarlo con linguaggio verbale e non verbale più o meno supportati da mezzi multimediali (il canale), i destinatari (gli allievi nella loro concretezza dell’hic et nunc), il tempo a disposizione (normalmente l’ora di lezione inserita fra quelle disposte dall’orario della giornata scolastica). Ci limitiamo per ora ad alcune osservazioni sui modi del comunicare, riprendendo quelle riguardanti il messaggio al momento di trattare le fasi della lezione (v. punto 3.1). È la capacità di comunicare che stabilisce essenzialmente le differenze tra i docenti, che, pur svolgendo una funzione apparentemente identica (l’insegnamento), approdano a risultati sostanzialmente diversi (offrendo supporti più o meno efficaci all’apprendimento)6.

3

P. Meazzini, L’insegnante di qualità. Alle radici psicologiche dell’insegnamento di successo, Giunti, Firenze 2000, pp.7-15; cit. pp.30-31. Dello stesso a. un altro testo ricco di suggestioni è L’insegnante valutato, Vanni ed., Gussago (BS) 2007. 4 Anche se alcuni sociologi non sono d’accordo sul termine ‘arte’ riferita all’insegnamento, ci pare che esso corrisponda proprio alla professione dell’artista, che deve saper coniugare una sicura conoscenza del ‘mestiere’ (saperi e tecniche) alle spesso imprevedibili situazioni umane (caratteristiche di chi apprende) con cui deve saper fare i conti. 5 Cf. Rivista lasalliana 2008, 2, 209-224. 6 Utili per un esame volto al miglioramento della conduzione collegiale sono anche i questionari sociometrici; v. ad es. www.cittadelladellascienza.it/lamo/sociometrico.htm.


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Ovviamente, la conoscenza dell’argomento da trattare è alla base. Se il rem tene, verba sequentur, precetto classico della retorica latina, non convince del tutto (perché dà per scontata la capacità di saper esporre con efficacia), è indubbio che l’insegnante ripetitore meccanico di contenuti raccolti da altre fonti (e magari unicamente trasmessi attraverso la lettura più o meno commentata del testo) non si trova nelle condizioni necessarie e sufficienti per offrire una vera mediazione didattica. Tentando una definizione7: ‘La competenza comunicativa può essere in senso generale definita come la capacità di identificare e di mettere in atto, in ogni momento della lezione, le modalità comunicative più adatte alla propria intenzione, al contesto, allo scopo e ai destinatari” L’efficacia della comunicazione dipende poi dalla capacità di introdurre mutazioni nel registro comunicativo (tono, chiarezza, postura, gestualità,...), alternando all’esposizione la problematizzazione dei contenuti, l’interazione verbale con gli ascoltatori, una strumentazione didattica stimolante. Occorre infine pianificare il rapporto tempo-percorso, in vista di un apprendimento sempre più autonomo e significativo:

Una lezione frontale è intrinsecamente governata dal principio della semplificazione e della economicità: di fatto il docente costruisce una ‘mappa’, o ritaglia uno spazio/ tempo simbolico, entro il quale e attraverso il quale il discente/ascoltatore si orienta in uno spazio illimitato e in un tempo indefinito. La mappa offerta diventa categoria strutturale nella mente del discente, soprattutto quando questi è molto giovane. (...) Tali mappe, indipendentemente dalla loro qualità e da come vengono definite, sono in grado non solo di ‘mediare’, ma anche di ‘anticipare’ l’esperienza cognitiva futura del discente, generando in lui delle pre-comprensioni, rispetto a categorie di fatti e teorie, che assumeranno nella sua struttura cognitiva un ruolo positivamente pregiudiziale.8 Spunti per l’autoanalisi9 ● Qualità del linguaggio: il lessico (anche del testo in uso) è adeguato al gruppo-classe? ● Coerenza logica: il collegamento tra i concetti esposti risulta chiaro? (l’interazione verbale con gli uditori è un insostituibile strumento di verifica); ● Qualità dei contenuti: il grado di conoscenza che ne ho è superiore a quello che espongo agli allievi (e sono quindi in grado di rispondere a eventuali domande di approfondimento e/o di chiarimento senza limitarmi a ripetere termini e formulazioni)? ● Comunicazione non verbale: il mio modo di fare (sguardo, movimento delle braccia, postura, posizionamento nell’aula,...) è rilassato e sicuro o incerto e teso? ● Struttura della lezione: ho ben previsti i tempi da dedicare alle varie attività (esposizione, interazione verbale per l’attivazione dell’interesse e la verifica della comprensione, eventuali lavori di gruppo, uso di materiali didattici,...)? ● Disponibilità educativa: sono capace di accettare, e sollecitare, gli interventi degli allievi anche quando sembrano mettere in discussione la mia capacità di comunicare oppure mi adombro e metto a tacere gli ‘importuni’? Sono in grado di far fronte a situazioni impreviste, modificando il progetto di lezione che avevo predisposto?

7

M.T. Moscato, Diventare insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento, La Scuola, Brescia 2008, p. 93. 8 Moscato, cit., p. 89. 9 Sono un adattamento della tabella Caratteristiche della comunicazione e della conoscenza dei contenuti, in L’insegnante valutato di P. Meazzini, op.cit., p. 168.


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Altro elemento necessario è la capacità di stabilire corretti e stimolanti rapporti personali con gli ascoltatori. E’ la dimensione che gli specialisti chiamano prossemica e va dal gestire all’atteggiarsi del volto, dal tono di voce alla distanza fisica posta, o imposta, con l’uditorio. Registro comunicativo e dimensione prossemica sono volti a sollecitare l’ascolto attivo: altro aspetto fondamentale di una comunicazione che in classe non deve, né può, ridursi all’esposizione accademica. 1.2 Affrontare i problemi - L’ultimo degli spunti riassunti sopra ci propone una serie di situazioni che si verificano abitualmente in classe e sono imputabili al comportamento del gruppo o di singoli allievi. Sono riconducibili a due aspetti: il primo riguardante la disciplina (qui da intendere soprattutto nell’accezione di comportamenti più o meno adeguati alle regole della vita associata) e l’altro relativo all’apprendimento. Sono intimamente connessi con quello che solitamente viene definito ‘clima della classe’, che è ‘la percezione collettiva che gli alunni hanno del loro stare in classe con

i diversi insegnanti e che è tale da influenzare la loro motivazione e il loro impegno’.

Tale ‘clima’ presenta diverse caratteristiche, ciascuna delle quali ha una precisa influenza sugli allievi e sul loro modo di sentirsi parte del gruppo-classe. Ne sono state classificate nove:1.Chiarezza degli scopi di ciascuna lezione, sia rispetto al programma più ampio di cui ciascuna lezione è parte, sia rispetto alle finalità e agli obiettivi della scuola. 2. Ordine nella classe: mantenimento della disciplina e di comportamenti civili. 3. Definizione di chiari standard di apprendimento e di comportamento, dove l'accento è posto più su standard elevati che su standard minimi. 4. Equanimità: assenza di favoritismi e coerenza fra riconoscimenti e risultati acquisiti. 5. Partecipazione: possibilità per tutti gli alunni di partecipare attivamente alle lezioni attraverso la discussione, le domande, il lavoro su materiale predisposto dall'insegnante e altre attività simili. 6. Sostegno: supporto psicologico ed emotivo agli alunni per indurli a tentare il nuovo e apprendere dagli errori. 7. Sicurezza: la classe come ambiente sicuro, dove è bandito il bullismo sia fisico che psicologico. 8. Interesse: la classe come luogo stimolante, ricco di sollecitazioni per l'apprendimento. 9. Ambiente: la classe come ambiente fisico confortevole, ben organizzato, pulito e attraente. (da: www.ospitiweb.indire.it/adi/ProfDoc/McBerClm.htm).

Ovviamente si tratta di un impegno che, per essere coerente anche sotto l’aspetto educativo, deve coinvolgere tutti i docenti che operano nella stessa classe (e si inserisce nel ‘clima dell’istituzione’, che dovrebbe figurare nel piano dell’offerta formativa). Com’è noto (e l’abbiamo illustrato10) si possono individuare tre stili di insegnamento: - l’insegnante autoritario ritiene prioritaria la trasmissione delle conoscenze; è poco interessato alle caratteristiche degli allievi come persone e a valorizzarne le capacità di pensiero creativo; decide da solo sia gli obiettivi che le procedure da attuare per raggiungere le mete; non dichiara né spiega i criteri di valutazione; - l’insegnante permissivo si sottrae all’esercizio della funzione di autorità connessa al suo ruolo (‘proibito proibire’), lasciando spesso che in classe regni la confusione; non precisa abitualmente né la scelta degli obiettivi né le procedure per raggiungerli; approssimativi e poco coerenti i criteri di valutazione;

10

v Rivista lasalliana, 2008/2, pp. 215-216.


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- l’insegnante democratico ricerca l’equilibrio tra permissivismo e autoritarismo, stabilendo poche regole fondamentali che vengono spiegate agli allievi e con loro concordate; è consapevole della necessità di comprendere le dinamiche relazionali e le componenti affettive del gruppo-classe; pone in discussione sia gli obiettivi che le procedure, al fine di raggiungere il consenso della classe e l’impegno responsabile di ciascuno al conseguimento delle mete; per questo controlla e valuta sia i percorsi attuati. sia gli esiti conseguiti. La conduzione della classe deve (dovrebbe) essere collegiale anche sotto quest’aspetto; ma va precisato che la completa’omogeneizzazione’ degli stili d’insegnamento è resa pressoché impossibile per l’inevitabile diversità d’idee, temperamento e formazione dei docenti, oltre che essere controproducente in senso educativo. E’ giusto infatti che gli allievi si allenino alle difficoltà dei rapporti interpersonali. Tocca ai docenti evitare che diventino assurdamente contrastanti e perciò traumatiche11. Strumento utile: un regolamento di classe, alla cui formulazione abbiano contribuito tutti - docenti e studenti - e al rispetto del quale sono tutti lealmente impegnati. Spunti per l’autoanalisi ● Interazione docente/allievi: gli allievi mi apprezzano come persona (equilibrio, equanimità, disponibilità), e non solo come insegnante? Quali sono le doti che i miei allievi apprezzano maggiormente nei miei colleghi e che potrebbero migliorare la mia azione educativa? ● Interazione fra gli allievi: il rapporto tra gli allievi è improntato a reciproco rispetto e disponibile alla collaborazione? Il gruppo-classe è unitario o frazionato? Ci sono leaders positivi/negativi che condizionano o possono condizionare il clima della lezione? se sì, come penso di comportarmi? ● Regole e aspettative: esiste un regolamento di classe? E’ stato discusso e condiviso con i colleghi e gli allievi? Quali forma di intervento prevede? ● Coerenza educativa: l’impostazione didattica è stata progettata e programmata dal consiglio di classe? E’ attuata e verificata con frequenza? Gli interventi riguardanti regole e comportamento sono concordi? ● Partecipazione degli allievi: gli studenti assumono spontaneamente (sono portati ad assumere) un ruolo attivo nel porre domande e fornire risposte? E’ attuato con frequenza un corretto lavoro di gruppo?

1.3 Autocontrollarsi - Per chiarire senso e sostanza di tale aspetto Meazzini annota : E’ fuori d’ogni dubbio che il lavoro dell’insegnante sia ricco di situazioni stressanti ed irritanti. La necessità di condurre gruppi classe non sempre disponibili al dialogo, di entrare in rapporto con genitori spesso orientati al conflitto, ecc., esige da parte dell’insegnante una forma di autocontrollo continua e rigorosa. E’ infatti necessario che tale figura professionale sappia offrire di sé un esempio di pacatezza e sobrietà. Nel caso in cui non sappia controllare le proprie ansie e la propria collera, sono infatti prevedibili numerosi problemi. Primo fra questi l’inevitabile perdita di efficacia educativa. In che 11 Utili allo scopo sono gli strumenti che permettono ai docenti di sintonizzarsi con i colleghi su temi educativo-didattici; vedi ad esempio il Questionario sociometrico di Mario Di Mauro: www.cittadellescienze.it/lamo/sociometrico.htm


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modo, infatti, l’insegnante può pretendere dai propri allievi equilibrio nella soluzione dei loro conflitti, se l’esempio offerto va nella direzione opposta? (op. cit. p. 33)

Per ciò che riguarda gli insegnanti, il termine ‘autocontrollo’ può essere tradotto nella la parafrasi ‘saper gestire il potere’ che deriva dalla loro funzione sociale. Osserva il Durkheim: la scuola non è un luogo in cui la democrazia può essere esercitata ‘naturalmente’, perché la società attribuisce all’insegnante il ruolo dell’autorità, all’allievo quello di chi vi è sottoposto; lo sperimenta anche chi riscuote i maggiori consensi perché adotta uno ‘stile democratico’12. Il rapporto con i due aspetti precedenti (saper comunicare e affrontare problemi) è organico e consequenziale. Ad es., un insegnante in preda a forti emozioni negative è portato a esercitare il proprio ‘potere’ in forme repressive e violente; se sa controllare le proprie emozioni e reazioni, è in grado di trasformare il proprio ‘potere’ in autorevolezza Pare superfluo precisare che una professionalità a tutto tondo si realizza quando l’equilibrio umano si somma alla competenza didattica e che il rapporto educativo si fonda sulla conoscenza e il rispetto di diritti che hanno il corrispettivo nei doveri di ciascuna delle parti interessate13. Occorre inoltre tener presente che: insegnare vuol dire, spesso, agire nell’urgenza, decidere nell’incertezza, cioè operare senza avere il tempo di meditare, di utilizzare strumenti di riferimento, di chiedere consiglio, di attendere per conoscere meglio la situazione (cosa possibile per professioni apparentemente simili come quelle del medico e dell’avvocato), e prendere comunque una decisione quando sarebbe più ragionevole procrastinare, per disporre di più dati, utili a calcolare i probabili risultati dell’azione.(P.Perrenoud, Enseigner: agir dans l’urgence, décider dans l’incertitude, ESF, Paris 1996, p. 11).

Per tentare una rassegna degli elementi su cui può fondarsi l’automonitoraggio di un insegnante, occorre partire dalla considerazione che la sua professione rientra nella categoria di quelle che si incentrano sulla relazione d’aiuto. Si tratta quindi innanzitutto, come bene argomenta il Damiano14, di un impegno etico che comporta: ● l’obbligo morale di ridurre, fino a superarla o a eliminarla se è possibile, la distanza in fatto di conoscenze tra lui e l’allievo;

12

E’ provato - annota il Damiano in L’insegnante etico, p. 185 - che non corrisponde al vero la tesi per la quale un insegnante ‘democratico’ lasci più spazio agli studenti, ché il numero dei suoi interventi è perlomeno pari, se non superiore a quello degli insegnanti ‘autoritari’… 13 Il pedagogista americano Lee Canter li individua nei seguenti: 1.Diritto degli insegnanti di: - decidere le regole di una vita di classe in grado di favorire un clima ottimale per l’apprendimento; - pretendere dagli allievi il rispetto delle norme stabilite; - esigere dalla parte degli studenti un comportamento idoneo a una vita di classe comunitaria; essere appoggiati nell’azione educativa da parte dei dirigenti scolastici; - avere il consenso ed il pieno sostegno da parte delle famiglie. 2.Diritto degli allievi di: - vivere in un ambiente sereno; - incontrare insegnanti disponibili; di conoscere le regole della classe; - apprendere e di essere aiutati nei momenti di difficoltà; - conoscere le conseguenze sia positive che negative delle proprie scelte. 14 L’insegnante etico, in particolare pp. 230-254 (capitolo ‘Il buon insegnante’).


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● il dovere di esercitare il potere in funzione d’aiuto, operando in modo che l’ asimmetria del rapporto educativo sia indirizzata al progressivo irrobustimento dell’autonomia culturale e umana dell’allievo; ● la necessità di coinvolgere realmente gli allievi, poiché l’insegnamento non è la causa né unica né sufficiente dell’apprendimento e soltanto la reciprocità degli sforzi di entrambi i soggetti può consentire di raggiungere i risultati attesi. Va aggiunta la considerazione, elementare per chi ha pratica di scuola, che ogni insegnante, senza rendersene conto, può lasciare un’impronta permanente sugli studenti ben oltre di quanto potrebbe desiderare qualora se ne accorgesse. I ragazzi dedicano una buona parte del loro tempo a guardare l’insegnante, anche quando l’insegnante non sta guardando nella loro direzione, per cercare di capire ciò che l’insegnante sente e prova a riguardo dei diversi aspetti ed eventi che contrassegnano la vita della classe, dall’accettabilità del sorriso alla soddisfazione per le risposte esatte. E così ‘studiano’ l’insegnante per regolare la loro condotta, fra le sue preferenze dichiarate, le sue aspettative, i comportamenti favoriti come quelli solo concessi, tollerati, sgraditi, fino a quelli oltre al limite, vietati e sanzionati. (E. Damiano, o. c., p. 236). Spunti per l’autoanalisi ● Forme dell’ascolto attivo: mi propongo sempre di far corrispondere la mia esposizione all’essenziale del messaggio che intendo comunicare? Mi accerto abitualmente che i segmenti della mia esposizione siano stati capiti, ponendo domande, problematizzando, reiterando i concetti in forma diversa? ● Circolazione condivisa del feed-back: sollecito, senza esasperarla o pretenderla, la collaborazione tra gli allievi nei vari momenti dell’apprendimento (ascolto, interventi, conclusioni)? Mi preoccupo che essa avvenga in modo corretto e tra loro rispettoso? ● Regole come strumenti di maturazione sociale: quando devo intervenire per stigmatizzare, correggere o reprimere un comportamento, faccio sempre riferimento a una regola conosciuta e condivisa? Evito di trasformare il rimprovero in un conflitto personale? Mi curo di evitare, o mi rendo subito conto che gli interventi disciplinari possano aver creato in classe gruppi antagonisti tra loro o con i docenti? ● Concretezza della proposta didattica: programmo la mia esposizione in modo che l’attenzione dell’intero gruppo (o di buona parte di esso) sia sollecitata e tenuta desta? So adattare la comunicazione al grado di attenzione dell’uditorio senza far abitualmente ricorso a rimproveri o atti d’impazienza? Accetto la richiesta di spiegazioni o di ripetizioni senza considerarla un segno di disistima, ma un valido contributo a comprendere ciò che intendo esporre? ● Le forme di disattenzione: verifico nei vari momenti della lezione il livello di attenzione prestati da tutti gli allievi (o dalla maggior parte di essi)? Cerco di capire le ragioni della mancanza di attenzione (mancanza di preconoscenze, scarsa comprensione del linguaggio, astrattezza od osticità dell’argomento, monotonia dell’esposizione,...)?

2. Abilità di secondo livello

Si tratta di abilità che non vengono usate nel contatto con l’allievo e il gruppo-classe. Costituiscono, però, un fondamento all’insieme delle altre abilità che possono essere definite terminali o di contatto (L’insegnante di qualità, o.c., p. 34).


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2.1 Programmare i contenuti - La lezione è la traduzione pratica della programmazione, cioè l’ insieme attualizzato di procedimenti volti a dare informazioni, creando interessi e generando comprensione per un gruppo di allievi specifico, in peculiari. situazioni. Ovviamente si può svolgere la lezione senza avere altre idee e processi logici oltre quelli suggeriti dal testo letto, o fatto leggere, con l’aggiunta di glosse più o meno improvvisate; ma questo è l’esatto contrario della definizione da cui siamo partiti (e che riteniamo corretta). Prima ancora di essere un fondamentale mezzo didattico, la programmazione è per l’insegnante un efficace allenamento logico, un’intelli-gente previsione di situazioni e un’accorta predisposizione di materiali. Viste e condotte in questo modo le diciotto ore settimanali dell’insegnamento di cattedra implicano almeno altrettante ore per la preparazione; se vi si aggiungono le ore da dedicare alle correzioni, ai colloqui, alle valutazioni educative (la verifica personalizzata del lavoro svolto, che comporta eventuali forme di ricupero), al tempo da dedicare all’aggiornamento,... ci si rende conto di quanto sia immotivata l’accusa rivolta agli insegnanti di godere di orari ‘leggeri’. Nel suo svolgimento ogni lezione è poi un repertorio di situazioni che, oltre a competenza culturale e didattica, richiedono inventiva e saldo equilibrio emotivo. Esamineremo più avanti le caratteristiche della lezione in atto; qui ricordiamo alcuni accorgimenti. 2.2 Prevedere tempi e predisporre le attività - Il Meazzini annota ancora (pp.34-35) : I dati a disposizione dimostrano che l’insegnamento vero e proprio occupa una percentuale addirittura minore del tempo speso dall’insegnante in aula. La parte preponderante, infatti, è utilizzata per attivare l’interesse da parte del gruppo classe, gestire la disciplina, ecc. E’ importante. quindi, che l’insegnante, durante la sua permanenza in aula, sappia efficacemente applicare strategie mirate a suscitare attenzione nell’allievo e a spingerlo a mantenerla il più a lungo possibile centrata sull’argomento.

Ogni insegnante sa in che misura gli si attaglino le osservazioni esposte sopra; è tuttavia certo che, al di là della facilità/difficoltà di assicurare l’ordine, l’impegno più oneroso (e, di norma, il segreto per ottenere un comportamento disciplinato) è quello di mantenere vivi attenzione e interesse, allo scopo di propiziare un apprendimento che possa essere valutato in termini di comprensione. Non occorre essere specialisti per sapere che la quantità e la qualità dell’attenzione sono legate all’interesse e alla motivazione. E’ il tema fondamentale che va approfondito (v. punto 3.1); qui proseguiamo nell’analisi degli elementi che costituiscono una lezione. Prevedere e programmare le attività da svolgere nel corso della lezione è un po’ come agire strategicamente nel corso di una partita a scacchi, tenendo conto dei ‘pezzi’ a disposizione, da muovere secondo le loro caratteristiche nel momento più opportuno. Fuori metafora, si tratta di: ● individuare gli obiettivi formativi che gli alunni debbono perseguire; ● organizzare le attività individuali e di gruppo che gli alunni debbono svolgere; ● individuare, indicare oppure offrire i materiali di apprendimento che gli alunni debbono utilizzare; ● motivare gli alunni ad intraprendere le attività di apprendimento; ● animare, sostenere, orientare e guidare gli alunni durante le attività; ● tenere sotto controllo le attività per introdurre immediatamente gli eventuali correttivi che si rendessero opportuni; ●


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verificare i risultati finali; ● promuovere le eventuali attività di recupero per gli alunni che non avessero raggiunto gli obiettivi formativi; ● motivare gli alunni ad effettuare le opportune attività di consolidamento delle competenze acquisite15. Elencate in modo analitico, le attività da considerare e porre in essere durante una lezione paiono davvero tante, ma sono proprio tutte quelle che ogni buon insegnante prende in considerazione, in modo più o meno esplicito, ogni volta che si prepara ad entrare in classe. Affrontarle con coscienza professionale significa porle in ordine d’importanza, secondo i criteri educativo-didattici richiesti dalle concrete situazioni umane affrontate (gruppo-classe e singoli allievi in specifiche condizioni spaziotemporali), attribuendo a ogni operazione il tempo e l’impegno considerati congrui. Ci saranno lezioni in cui sono da ritenere più metodologicamente importanti le fasi di orientamento e di impostazione (le prime tre); altre in cui prevarranno i criteri di animazione e di esecuzione (le tre successive); altre infine - al termine di un’unità didattica, ad es., - che porranno l’accento sul consolidamento delle competenze e sulla loro valutazione (innanzitutto educativa). Questo implica la necessità di considerare la singola lezione all’interno di una programmazione didattica di ampio respiro, per contingenti necessità organizzative incasellata nell’orario giornaliero e settimanale, ma organica e coerente nell’impostazione e nella traduzione in opera. (l’unità didattica, cui si è accennato, ne è la forma più conosciuta). Spunti per l’autoanalisi ● Previsioni di metodo: quale tipo di lezione (frontale ‘classica’, centrata su problemi, sequenziale, comparativa, a tesi) intendo porre in atto? Quali intrecci fra i vari tipi prevedo di stabilire? ● Previsioni di contenuti: che cosa sto cercando di fare con questa lezione? Che cosa devono imparare gli studenti dal suo svolgimento? A quali conclusioni intendo farli arrivare? Con che mezzi penso di poter appurare l’apprendimento? ● Previsioni di fasi: a) introduzione: quali motivazione al lavoro ritengo più efficaci? in che modo intendo stimolare l’attenzione; b) sviluppo: quali strumenti didattici (testo, illustrazioni, multimedialità) intendo affiancare alla mia esposizione per mantenere in vita l’interesse? quali tipologie di lavoro associato intendo adottare?; c) conclusione: in che modo intendo valutare il grado di comprensione e attivare le eventuali forme di ricupero.

3. Abilità di terzo livello

Sono le abilità usate dall’insegnante nel contatto diretto col singolo allievo e con il gruppo-classe. Ognuna di esse è articolabile in una serie di sottoabilità. Naturalmente, accanto a queste abilità che costituiscono il nocciolo duro del concetto pedagogico d’insegnamento, spazio rilevante deve essere accordato alle specifiche conoscenze disciplinari possedute dall’insegnante. (L’insegnante di qualità, o.c., p. 35).

15

U. Tenuta, Analisi dell’attività docente: www.rivistadidattica.com/metodologia_metodologie _ 43.htm.


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3.1 Far lezione16 - Raccogliamo sotto questo titolo anche il condurre la classe, trattando poi a parte il ‘risolvere i problemi socio-emotivi e cognitivi dell’allievo’. Nei primi due ‘livelli’ i contenuti dell’insegnamento e gli allievi sono stati per il docente una presenza ‘virtuale’: egli ha cioè impostato e progettato a tavolino il proprio iter didattico. E’ dal momento in cui entra in classe e dà vita ai processi che offre l’efettiva dimostrazione del suo ‘saper insegnare’. Dando per scontata la competenza disciplinare (fondata su una corretta epistemologia pedagogica), sua e dei colleghi, ci pare necessario insistere sugli aspetti che rendono ‘etico’ il suo insegnamento, cioè

capace di rifarsi alla psicologia dei processi cognitivi degli studenti, alle loro caratteristiche socio-culturali, alla loro realtà esistenziale. Sono i fattori che caratterizzano la didattica generale in forme che restano costanti trasversalmente a tutte le didattiche specialistiche’17 e permettono di condurre con i colleghi una formazione culturale a

tutto tondo.

Il modo più diffuso di far lezione nella scuola secondaria è quello della lezione espositiva. Ne elenchiamo volutamente gli aspetti meno eticamente18 accettabili per stimolare un riesame professionale.

Spunti per l’autoanalisi La lezione frontale-espositiva diventa oggetto di forti critiche in quanto: ● sviluppa esclusivamente le funzioni intellettive; ● utilizza prevalentemente il linguaggio verbale; ● non considera né il ritmo né la durata della capacità di attenzione degli allievi; ● non tiene conto degli interessi, delle curiosità, delle motivazioni degli allievi; ● con la comunicazione monodirezionale mantiene gli studenti in uno stato di recettività passiva; ● risulta faticosa, per insegnante e allievi, se sviluppata in modo intenso e continuativo; ● la sua efficacia è limitata ai primi processi dell’apprendimento, relativi alla percezione e all’acquisizione delle conoscenze, e non considera i successivi processi di assimilazione, di accomodamento, di consolidamento, ecc; ● riduce al minimo l’interazione tra l’insegnante e lo studente, e tende ad annullare l’interazione fra gli studenti stessi; ● costringe la valutazione al controllo delle capacità mnestiche, ed in particolare alla memoria verbale e riproduttiva; ● nega agli allievi la possibilità di contrastare l’informazione ricevuta con proprie riflessioni o con giudizi critici; ● si presenta per lo più come ripetizione di ciò che è esposto nei libri di testo, o con fonti bibliografiche accessibili, che possono essere consultate direttamente dagli studenti (F.Tessaro, Metodologie espositive: le lezioni, p.6; www. univirtual.it/corsi/2001_II/ Tessaro/download/tessaroPM107.pdf).

È logico e doveroso osservare che, passando in rassegna questa tabula absentiae, occorre: - considerare che l’intera serie di insufficienze andrebbe ascritta al ‘peggiore’ degli insegnanti (categoria ipotetica, come quella dell’insegnante ‘perfetto’).

16

Argomento già svolto su Rivista lasalliana 2008, 3; qui ne propongo aspetti complementari. Vedi l’ampia disamina al proposito in Graziano Cavallini, Fondamenti della didattica, Ed. Junior, Bergamo 2002, pp. 65 e ss. 18 Si tratta di etica professionale, nel senso definito da Damiano e qui riassunto al punto 1.3. 17


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- fare una distinzione tra materie espositive e logico-combinatorie (matematica e lingua 2), che danno meno spazio alle ‘manovre’, perché devono attenersi a regole e procedure più definite; - ricordare che la lezione espositiva, quando è bene organizzata: 1. è efficiente, perché la trasmissione informativa è condensata: in breve tempo si presentano numerosi contenuti, dati, informazioni; 2. è definita, perché l’argomento o il tema della lezione è delimitato e necessariamente strutturato in procedure sequenziali e in spazi controllabili (le pagine del testo o degli appunti); 3. pone le basi e organizza il campo per lo studio individuale o di gruppo; 4. presenta modelli di razionalità e codici linguistici e semantici impostati secondo le regole della struttura e dell’epistemologia disciplinare (Tessaro, o. c., p. 7). I modelli alternativi a quello tradizionale di ‘far lezione’19 oppongono

- alla centralità dell’insegnante ►quella dell’allievo; - alla priorità data ai contenuti da insegnare in modo sistematico ►quella del metodo con cui proporli, partendo dagli interessi (spontanei o indotti) della classe per giungere a sintesi culturali adeguate alle caratteristiche cognitive dei discenti (scuola primaria / secondaria di I e II grado); - al lavoro individuale ►quello per gruppi; - alla monodisciplinarità del testo ►la multimedialità possibile con i laboratori, a partire da quelli informatici.

Se è bene evitare i rischi delle posizioni estreme (lezione di stampo ‘ipertradizionale’ da una parte, lezione ‘ipercostruttivista’ dall’altro) è opportuno tentare una mediazione per cogliere da entrambe i contributi trasferibili in una lezione ‘normale’ (aggettivo mai sinonimo ‘di tutto riposo’) 20 Premessa: la dissezione ‘anatomica’ delle varie fasi e di una lezione e delle loro articolazioni ha solo valore illustrativo. Ogni insegnante le conosce, le applica in gran parte o ne esclude alcune a ragion veduta. Vale tuttavia la pena di offrirne una panoramica, che inevitabilmente presenta e ribadisce alcuni degli spunti per l’autoanalisi già offerti.

Avvio della lezione - Per catturare interesse e attenzione: ● determinare il tema della lezione e degli obiettivi: Quale tema o quali temi saranno

sviluppati? Quali obiettivi di apprendimento dovranno essere raggiunti al termine della lezione? ● individuare, selezionare e condividere i saperi preesistenti: Quali preconoscenze necessarie sono da appurare negli allievi? Quali sono le loro misconoscenze (carenze o stereotipi culturali) più diffuse e radicate sugli argomenti proposti?21; come si possono appurare (per mezzo della conversazione o discutendo i risultati di un questionario somministrato preventivamente...)?;

19 Già una quarantina di anni fa Renzo Titone illustrava quelli psicocentrico ed empiriocentrico, accogliendo anche la novità offerta dall’unità didattica proposta dal Casotti. 20 Sono qui riassunte le pp. 9-11 del già citato trattato on line di F. Tessaro. 21 Si possono appurare per mezzo della conversazione o discutendo i risultati di un questionario somministrato preventivamente).


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● promuovere la motivazione iniziale: A quali stimoli il gruppo-classe è più disposto (problematizzazione, lavoro di gruppo, uso di mezzi multimediali)? ● creare il ‘clima’: Quali sono i comportamenti verbali (tono, pause, uso di un lessico adeguato all’uditorio) che meglio servono per una comunicazione efficace con questo gruppo-classe? Quali sono i comportamenti paraverbali più idonei (atteggiamenti, mimica posizione e postura)? Quali le condizioni ambientali più vantaggiose (disposizione dei banchi, scelta dell’aula o del laboratorio, formazione dei gruppi)? Svolgimento della lezione - Per puntare all’essenziale, creare catene logiche, chiarire temi/concetti/lessico: ● sviluppo ordinato e coerente dell’argomento: Quali sono i mezzi con cui è resa evi-

dente l’esposizione dei concetti (schemi alla lavagna. paragrafi o illustrazioni del testo, slides alla lavagna luminosa,...)? ● transfer delle conoscenze: Con quali esempi o quali analogie si agevola il collegamento del tema proposto sia con le esperienze vissute dagli studenti (transfer esistenziale) sia con temi e concetti precedentemente sviluppati (transfer disciplinare)? ● stimolo continuo verso l’obiettivo: In che modo è costantemente monitorata l’attenzione degli allievi (sguardi, atteggiamenti)? Con quali mezzi si superano i momenti di disattenzione o di stanchezza (con richiami e reprimende o con momenti di relax e nuove modalità di procedimento)? ● uso formativo della ridondanza: Concetti fondamentali e passaggi logici importanti sono debitamente richiamati - magari in termini più efficaci - per favorire un’adeguata e personale organizzazione mentale delle conoscenze acquisite? A quali mezzi è possibile ricorrere (termini e codici diversi, esempi, casi, metafore, immagini)? ● rinforzi tematici: Per quali elementi della trattazione (concetti, principi, eventi e situazioni) gli allievi dimostrano particolare interesse o, avvertiti come problematici, impongono un approfondimento per rinforzarne l’apprendimento? ● feedback parziali: Con quali modalità esplicite (domande aperte, formulazioni problematiche) sono poste in atto osservazioni e controlli sul grado di comprensione? Con quali modalità implicite (dedotte dal comportamento degli allievi: atteggiamento sbadato, sguardo errante,...)? ● conclusioni intermedie: Con quali brevi sintesi dei concetti fondanti la lezione sono poste le basi per il loro apprendimento (con ricorso ad appunti, a schemi,...)? Come tali sintesi saranno inserite in quella conclusiva, riguardante l’intera lezione? ● uso degli esempi: E’ abituale e adeguato all’uditorio (alle sue capacità cognitive, esperienziali e linguistiche) il ricorso a citazioni, esempi, analogie, situazioni e casi reali dedotti dall’esperienza o riferibili ad essa? ● uso di mezzi didattici: Quali strumenti multimediali sono previsti per confermare e rafforzare (mai per sostituire interamente) l’esposizione dell’insegnante? Insieme con la loro efficacia è chiaro - anche agli allievi – la loro funzione strumentale (mai sostitutiva per un apprendimento significativo)? ● partecipazione degli studenti: Gli interventi degli studenti sono utilizzati (e sollecitati) produttivamente per rinforzare, chiarire e approfondire aspetti importanti dell’argomento trattato? Sono proposte situazioni problematiche da affrontare e approfondire per conto proprio? Sono previsti esercitazioni, personali o di gruppo, che assicurino la comprensione degli argomenti trattati e possano introdurre quelli successivamente proposti?


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Conclusione della lezione - Per contestualizzare, riassumere, prevedere (è fase fondamentale, spesso trascurata per mancanza di tempo o imprevidenza): ● riassunto finale: In quali forme è possibile una sintesi finale (con l’aiuto del testo,

schemi già eseguiti da riconsiderare, brevi suggerimenti per produrne in vista di una prossima rilettura)? Quali interrogativi è opportuno formulare per stimolare la curiosità degli studenti in funzione degli argomenti futuri? ● controllo finale - assegnazione di esercitazioni: In che modo, e con che mezzi (questionari da completare, esercitazioni da svolgere, letture e approfondimenti da operare) è possibile sondare ulteriormente il livello medio di riconoscimento, comprensione e acquisizione personale dei contenuti proposti? ● presentazione di riferimenti anticipati: E’ possibile (e opportuna) la presentazione a grandi linee del tema o dell’argomento della lezione successiva? E’ possibile (e opportuno in questo momento) mettere in rilievo i collegamenti concettuali e la progressione di sviluppo con la lezione appena conclusa? ● clima finale: Quali sono gli atteggiamenti prevalenti nel gruppo-classe: insoddisfazione per un’attività interessante interrotta; sollievo dovuto al momento della giornata scolastica, alla difficoltà dell’argomento, alla scarsità d’interesse suscitato; indifferente - o preoccupata - attesa della lezione successiva? Quali di questi fattori positivi / negativi sono imputabili a un insegnante (e perciò da iscrivere fra quelli da reiterare/ rimuovere in futuro)? 3.2 Risolvere i problemi socio-emotivi e cognitivi degli allievi - L’attenzione e la cura degli allievi caratterizzati da disabilità di apprendimento, svantaggio socioculturale, disturbi socio-affettivi costituiscono indubbiamente una priorità, cui deve corrispondere un’adeguata risposta educativa, soprattutto nella scuola dell’obbligo, dove i casi si presentano con relativa frequenza. E’ tuttavia con la problematica ‘normalità’ delle situazioni quotidianamente presenti a scuola che un insegnante deve fare i conti e trovare soluzioni, anche solo per assicurare in misura accettabile la sua funzione di mediatore culturale. Thomas Gordon è autore22 e convinto propugnatore di una proposta educativa che anche in Italia raccoglie consensi e trova sperimentatori23. Lo psicologo statunitense parte dal convincimento, non certamente inedito, che “ancora più importante di ciò

che si sta insegnando è il modo in cui l’insegnamento viene impartito e a chi è rivolto”, ma poi imposta e svolge con originalità una metodologia ben strutturata e coerente. Scopo dichiarato “quello di riuscire ad aiutare gli insegnanti ad aumentare la superficie dell’area di Insegnamento-Apprendimento in modo tale che gran parte del loro tempo sia utilizzato produttivamente, e molto meno tempo sia invece perso a causa dei problemi comportamentali”. 22

Cf. ad es. Insegnanti efficaci, Giunti, Firenze 1991, pp. 288. Sono i formatori del Corso T.E.T. - Insegnanti Efficaci; tutti insegnanti laureati, con 4 anni di specializzazione in psicologia. www.comune.pisa.it/centrorogeriano/insegnanti.htm.

23


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Considerazioni orientative:

Tutti i ragazzi, si entusiasmano se stanno imparando veramente, e si annoiano invece se non stanno imparando niente. Tutti i giovani si scoraggiano quando sono emarginati se hanno fatto male o poco. Tutti i ragazzi sviluppano dei meccanismi di difesa da contrapporre all’uso di potere da parte dell’insegnante. Tutti i ragazzi hanno la tendenza a volere essere dipendenti anche se contemporaneamente lottano disperatamente per l’autonomia. Tutti i ragazzi si arrabbiano e diventano vendicativi; tutti i ragazzi provano orgoglio se riescono a ottenere dei risultati e lo perdono invece quando gli viene detto che non riescono a fare abbastanza; tutti i ragazzi danno un grosso valore alle proprie necessità e proteggono i propri diritti civili (op. cit. p. 31). Latino, Greco, Matematica, Lingua o letteratura, Disegno meccanico o Chimica, in definitiva qualsiasi insegnamento può diventare interessante se impartito da un insegnante che abbia appreso il modo corretto di rapportarsi con gli studenti, instaurando una relazione di reciproco rispetto (op. cit. p. 24). Tale rapporto di reciproco rispetto va stabilito su basi che evitino sia l’autoritarismo sia il permissivismo (Gordon usa come sinonimi ‘destra’ e ‘sinistra’, conservatorismo e progressismo):

Coloro che reclamano la rigidità, la forte autorità, la ferrea disciplina e così via vogliono che gli adulti dirigano e controllino i giovani attraverso l’uso del potere e dell’autorità. Coloro che invece reclamano la permissività e la libertà per i ragazzi nella scuola inconsapevolmente optano per delle condizioni in cui agli studenti è permesso di usare il loro potere e di rendere quindi dura la vita agli insegnanti e agli amministratori della scuola. Qualsiasi di queste filosofie prevalga, comunque qualcuno è destinato a perdere (op. cit. pp. 34-35). In base a queste riflessioni, Gordon ha messo a punto quattro tecniche per migliorare i rapporti tra insegnante e allievo: ascolto - messaggio in prima persona - metodo del problem solving - metodo senza perdenti. Nel tratteggiarne alcune caratteristiche, è inevitabile il rischio di operare le approssimazioni, molto simili a travisamenti, insite nelle sintesi; perciò risulta raccomandabile la lettura delle opere del Gordon e il contatto con chi ne sta applicando la metodologia: ■ Ascolto (messaggio-Tu) - L’ascolto attivo si fonda innanzitutto sulla comunicazione verbale dell’insegnante, da cui deve essere espunto il ‘linguaggio del rifiuto’, codifica-

to dal Gordon in 12 barriere. Si tratta di eliminare gli interventi: a) che escludono il dialogo (comandare, minacciare, far la predica, offrire consigli non richiesti, tentare di convincere a fil di logica); b) che implicano giudizi e valutazioni pregiudiziali (criticare, ridicolizzare, far previsioni più o meno fosche); c) volti a negare la situazione di disagio (apprezzare/consolare formalmente); d) intesi a screditare l’ascoltatore (insinuare dubbi, ironizzare); e) tendenti a rinviare o eludere l’argomento. In breve: nel ‘messaggio-Tu’ occorre che il pronome non sia puntato come un indice accusatore. La capacità di ascoltare comprende anche l’ascolto passivo (prestare reale attenzione), messaggi di accoglienza verbale (ti sto ascoltando), inviti espliciti (incoraggiamenti a proseguire liberamente), partecipazione empatica (ascoltare riflettendo, senza pregiudizi).


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■ Messaggio in prima persona (messaggio-Io) - E’ la sincera dichiarazione, da parte dell’insegnante, di ciò che pensa e prova nei confronti di comportamenti e atteggiamenti che l’inducono ad agire. Es: Quando tu offendi un compagno (descrizione senza giudizio), ed egli non è in grado di difendersi (effetto verificato), io mi sento in dovere di intervenire (reazione all’effetto). E’ una tecnica che permette all’allievo di entrare in contatto con i vissuti personali dell’insegnante, non con la sua più meno ostentata funzione sociale. L’allievo sente che l’insegnante sta comunicando il proprio stato d’animo con autenticità e assumerà meno facilmente atteggiamenti di difesa. ■ Metodo del problem solving - E’ la tecnica da adottare, ad es., nella formulazione del regolamento di classe e consiste nell’applicare le tipiche fasi del metodo: esposizione del problema - proposte di soluzione - valutazione degli aspetti positivi e nega-

tivi delle proposte - scelta della proposta più idonea - attuazione - verifica dei risultati - eventuali correzioni del cammino in atto. La tecnica può essere opportunamente associata al tempo di relazione (10 minuti al

giorno o in giorni definiti della settimana) da dedicare al miglioramento dei rapporti) e al circle time, lo spazio/tempo in cui gli alunni possono discutere su un argomento scelto da loro, disposti in cerchio in modo da creare un clima di collaborazione e di amicizia. In entrambi i casi il ruolo dell’insegnante (che può esercitarlo a nome e per delega dei colleghi) è quello di facilitare e monitorare la discussione.

■ Metodo senza perdenti - Da adottare quando le precedenti tecniche non hanno dato i frutti sperati, ma occorre comunque risolvere una situazione conflittuale, trovando soluzioni vantaggiose (educativamente) per insegnante ed allievi. L’obiettivo è rispettare i diritti di ciascun senza sopraffazione. Sei le tappe: identificare e definire il

conflitto - enumerare le possibili soluzioni - valutare le soluzioni enumerate - scegliere la soluzione più conveniente ed accettabile - stabilire i particolari e i mezzi di applicazione della decisione - rivedere e valutare le decisioni.

Al momento di concludere la trattazione (p. 287), l’autore non si fa illusioni: Ci sarà certamente bisogno di una nuova generazione di insegnanti e di genitori che possano accettare la sfida contenuta in questi principi. Allora sì che riusciranno ad ottenere il massimo dai ragazzi a cui insegneranno’. Alcuni dei suoi suggerimenti possono però essere seguiti, se non altro per appurare in qual misura rispondono allo scopo dichiarato (e già richiamato) “di riuscire ad aiutare gli insegnanti ad aumentare la superficie

dell’area di Insegnamento-Apprendimento in modo tale che gran parte del loro tempo sia utilizzato produttivamente, e molto meno tempo sia invece perso a causa dei problemi comportamentali’(p. 55).

Conclusione provvisoria Si chiude qui il capitolo riguardante l’autovalutazione dell’insegnante, annotando che, per essere equilibrata e convincente, essa deve tener conto delle valutazioni ‘esterne’: quelle di colleghi e dirigenti, di allievi e famiglie, del contesto sociale in cui opera, dei livelli (internazionali, nazionali, regionali, d’istituto) e degli ambiti (processi, esiti, soggetti) che la ricerca educativa aiuta a individuare. Sono gli aspetti presi in considerazione nella prossima puntata - Autovalutazione e valutazione d’Istituto - visti sempre


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nell’ottica di chi va in classe per procurare apprendimenti attraverso il proprio insegnamento condiviso. Rimane aperta la vexata quaestio: esistono criteri ‘oggettivi’ che consentano di valutare un insegnante? Un documento ufficiale24 (dando per scontata la competenza professionale), ne accenna alcuni: ♦ capacità di proporre progetti di innovazione didattica effettivamente attuati a beneficio dell’intero istituto; ♦ indagini sul livello di soddisfazione dei genitori/studenti25; ♦ verifiche sul livello di apprendimento degli studenti (sulla base dei criteri, parametri, test messi a punto dall’agenzia nazionale di valutazione26; ♦ monitoraggio del conseguimento di obiettivi didattici di miglioramento del singolo insegnante da parte di insegnanti senior27. Soluzione efficientista di un esperto in economia28: ‘Il primo passo verso la riforma

della scuola è l’abbandono dei concorsi pubblici e la loro sostituzione con un sistema in cui le assunzioni vengono decise da chi poi sopporta le conseguenze di un’eventuale decisione sbagliata, in primo luogo i presidi di ciascuna scuola’. E’ pur sempre chiedere il risultato di una somma senza precisarne gli addendi.

(1. continua.

Prossimo articolo: Autovalutazione e valutazione d’Istituto)

24

Ministero della P.I., Breve ricognizione di esperienze internazionali di valutazione degli insegnanti. Report finale, 7 giugno 1999. 25 Il Rapport Attali (2008), pone al 5° posto tra le 300 décisions pour changer la France quelle

di far valutare gli insegnanti in base alla loro capacità di far progredire tutti gli allievi. Sono subito nati blog, ben presto annullati per intervento della pubblica autorità, in cui gli studenti, coperti dall’anonimato, davano i voti ai docenti, i cui nomi erano invece chiaramente indicati. Un’iniziativa del genere garantiva quasi solo la gogna per alcuni. 26 L’INVALSI, com’è risaputo, suscita ancora molte perplessità sia da parte degli insegnanti, ‘perché le prove ‘verificano’ obiettivi di programma estremamente specifici ed ‘anticipati’, se-

condo le modalità particolari del test a risposta chiusa: questo - ripetuto tutti gli anni - tenderà ad annullare la libertà di insegnamento costringendo gli insegnanti ad inseguire in modo compulsivo i programmi e a privilegiare le modalità della didattica-a-quiz’ (http://digilander.libero.it/infoscuolalabaripoli. Non meno forti le riserve degli esperti in docimologia, perché ‘L’attuale indagine del sistema

messa a punto dall’INVALSI risulta particolarmente debole, in quanto affidata - a tutt’oggi - ad un voluminoso questionario che tende a combinare tipologie di dati differenti (evidenze empiriche, percezioni, dati quantitativi, dati qualitativi,) senza possibilità di una restituzione agli Istituti rispondenti utile e mirata’. M. Castoldi, Le scuole si possono valutare?, Scuola e didattica, 1 sett. 2008, p. 120. ...e chi, con quali mezzi, ne ha accertato la competenza? 28 F.Gavazzi, www.corrierere.it/editoriali/08_giugno_15/scuola_tabi_concorsi_fa1340f6-3aab 27


PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 76 (2009) 2, 281-289

Credere di capirsi

Errori, malintesi linguistici e incomprensioni Roberto Alessandrini

Istituto superiore universitario di scienze psicopedagogiche e sociali affiliato all’Università Pontificia Salesiana di Roma

Termini impropri, errori di pronuncia, traduzioni maccheroniche costituiscono un ricco deposito di potenziale ilarità provocata da incomprensioni e malintesi. Talvolta rilevanti sul piano linguistico e sociale, come il celebre “discorso tedesco” dell’allenatore italiano di calcio Giovanni Trapattoni. Ostacolo tra i più insidiosi nel lavoro degli etnologi e degli antropologi, il malinteso linguistico accompagna le memorie giovanili degli scrittori, le distorsioni della cultura popolare rispetto al latino liturgico e le nuove forme della scrittura in internet.

I

n una giornata d’autunno rigida e nuvolosa dell’anno 1224, colpita da una pioggia fredda e sottile e da un vento impetuoso e tagliente, due frati francescani si aggirano nell’isolata campagna nei pressi di Oxford. Poiché non vedono né case né fili di fumo, temono di dover pernottare nella foresta, tra disagi, pericoli e la paura dei lupi. Egidius, il più vecchio e devoto, incarna la forma ombrosa, testarda, rabbiosa e tormentata dalla fede. Gottlieb, il più giovane, esprime al contrario la gioia semplice e fresca dei seguaci di Francesco. Si potrebbe dire: la lettera e lo spirito, il cuneo e la guaina, la tensione eterna tra il rovello e l’abbandono, lo spavento e la fidu-


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Roberto Alessandrini

cia, la cupezza e la musica1. Assordati dal vento e dalla tempesta che infuria ed estenuati dalla stanchezza, i due frati si trovano finalmente davanti alle spesse mura di un convento. L’abate, che ama divertirsi, li crede giullari, saltimbanchi o cantastorie, li fa entrare, li invita a mangiare e bere pregustando uno spettacolo. Ma Egidius, trascinato da un fuoco sacro, tende solennemente la mano ed esclama: “Guai a voi, fratelli! Non siamo cantastorie e avventurieri, bensì inviati del Signore, siamo vostri fratelli e vi vogliamo insegnare ciò che il vostro santo Maestro ha insegnato a noi. Perciò rientrate in voi, dateci un boccone da mangiare e poi reciteremo insieme le orazioni…”. L’abate, in tutta risposta, ricaccia i due frati nel freddo della notte. E, come è prevedibile, i due francescani ricorderanno l’episodio in due modi completamente diversi. Per Gott- lieb, memore del suo Maestro “giullare di Dio”, sarebbe stato bene accettare l’invito a comportarsi come cantastorie per dichiarare poi, lietamente, la fede. Egidius, invece, sogna che i frati del convento vengano impiccati quella stessa notte, cosa che a suo dire è puntualmente avvenuta. Poiché divide l’alto dal basso e il sacro dal profano, il riso garantisce l’ordine, ma con la sua forza dissacrante lo minaccia dalle fondamenta. Per secoli Padri della Chiesa, monaci, teologi e predicatori individuano, classificano e proibiscono nelle chiese e nei monasteri le parole pronunciate con l’intento di far ridere. Scurrilità, turpiloquio, stoltiloquio, derisione, vaniloquio vengono considerate espressioni incompatibili con l’universo cristiano, anche se proprio questo sforzo classificatorio consente di individuare, per contrasto, gli spazi leciti e persino virtuosi del far ridere, arma efficace anche per chi ha il delicato compito di predicare2. Le parole sbagliate, i termini impropri, gli errori di pronuncia - come quelli della fioraia Liza Doolilittle che il professore di fonetica Henry Higgins vuole trasformare in una duchessa nel Pigmalione di Shaw3, le traduzioni maccheroniche, ma anche le parole giuste nel contesto sbagliato pronunciate dal-l’Idiota patentato di Anafasief4 - costituiscono un ricco deposito di potenziale ilarità provocata da gaffes, incomprensioni e malintesi. Talvolta con effetti rilevanti sul piano linguistico e sociale.

Il discorso tedesco di Trapattoni Un focoso discorso, proferito in 3 minuti e 10 secondi davanti a una selva di microfoni, provoca in Germania un terremoto linguistico senza precedenti. Monaco di Baviera, 10 marzo 1998. Nel corso della più breve conferenza stampa della storia della Bundesliga, l’allenatore del Bayern, l’italiano Giovanni Trapattoni, si lancia in un’accusa ai giocatori Scholl, Basler e Strunz, che lo avevano pubblicamente criticato

1

Hermann Hesse, “Una cattiva accoglienza”, in L’uomo con molti libri e altri racconti, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1986. 2 Cfr. Carla Casagrande, Silvana Vecchio, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1987; Jacques. Le Goff, “Rire au Moyen Age”, in Cahiers du centre de recherches historiques, 3, 1989. 3 George Bernard Shaw, Pigmalione, Mondadori, Milano 1993. 4 Aleksandr N. Anafasiev, “Un idiota patentato”, in Antiche fiabe russe, Einaudi, Torino 1953, pp. 34-35. Devo questa segnalazione ad Adriana Querzè.


Credere per capirsi. Errori, malintesi linguistici e incomprensioni

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per la sua tattica difensivistica.Trapattoni non padroneggia bene il tedesco e di solito si serve di un interprete, ma in questa occasione parla direttamente, e con foga, in un tedesco maccheronico, pieno di svarioni e di errori di ogni genere: Ci sono in questo momento in questo squadra, oh, alcuni giocatori dimenticano il loro professionista cosa sono. Non leggo molti giornali, ma molte situazioni ho sentito. Non abbiamo giocato in modo offensivo. Non c'è nessuna squadra tedesca gioca offensivo e i nomi offensivo come Bayern. Ultimo partita avevamo tre punte nella campo: Elber, Jancker e poi Zickler. Non dobbiamo Zickler dimenticare. Zickler è una punta in più, Mehmet (Mehmet Scholl ndr) più Basler. È chiaro queste parole? È possibile di capire, cosa io ho detto? Grazie. Offensivo, offensivo è come fare nella campo. Io ho dichiarato con queste due giocatori: dopo Dortmund hanno bisogno forse pausa un tempo. Ho visto in Europa anche altre squadre dopo questa mercoledì. Ho visto anche gli allenamento due giorni. Un allenatore non è nessun idiota! Un allenatore è lì ... vedere cosa succedere in campo. In questo partita esistevano due, tre o quattro giocatori, loro erano deboli come una vuoto bottiglia (in tedesco Flasche significa bottiglia, ma anche inetto, buono a nulla, ndr ). Avete mercoledì visto, quale squadra giocato ha mercoledì? Mehmet ha giocato, o giocato Basler, o giocato Trapattoni? Questi giocatori lagnano più che gioco! Sapete, perché le squadre Italia comprano non questi giocatori? Perché noi visto abbiamo molta volte tali partita. Hanno detto, giocatori non sono per italianen, eh..., campionis. Struuunz! Strunz è qui da due anni, dieci partita ha giocato, è sempre ferito. Cosa permetten Strunz?! Anni scorsi diventato campione con Hamann, eh..., Nerlinger. Questi giocatori erano giocatori ed erano diventati campioni. È sempre ferito! Ha giocato 25 partite in questo squadra, in questa club. Respectare deve gli altri collegen! Hanno molto simpatici collegen. Ponga a questo collegen la domanda! Non hanno nessuna coraggio di parole, ma io so, cosa pensaren su questo giocatori. Devono mostrare ora, io voglio, sabato (in Germania si gioca il sabato, ndr) questi giocatori devono mostrare me, i suoi tifosi, devono vincere la partita da soli. Deve da soli vincere la partita! Io sono ora stanco padre di questi giocatore, eh, difendo sempre questi giocatoren. Io ho sempre i debiti (Trappattoni confonde qui le parole tedesche per debito e colpa, ndr), su questi giocatori. Uno è Mario (Mario Basler, ndr), uno, un altro è Mehmet. Strunz invece non è, ha solo giocato il 25 per cento questi partita! Io sono finito5.

5

Il discorso di Trapattoni è tratto dal sito www.viaggio-in-germania.de/trap.html, che propone anche la trascrizione in tedesco: “Es gibt im Moment in diese Mannschaft, oh, einige Spieler vergessen ihren Profi was sie sind. Ich lese nicht sehr viele Zeitungen, aber ich habe gehört viele Situationen. Wir haben nicht offensiv gespielt. Es gibt keine deutsche Mannschaft spielt offensiv und die Namen offensiv wie Bayern. Letzte Spiel hatten wir in Platz drei Spitzen: Elber, Jancker und dann Zickler. Wir mussen nicht vergessen Zickler. Zickler ist eine Spitzen mehr, Mehmet mehr Basler. Ist klar diese Wörter, ist möglich verstehen, was ich hab' gesagt? Danke. Offensiv, offensiv ist wie machen in Platz. Ich habe erklärt mit diese zwei Spieler: Nach Dortmund brauchen vielleicht Halbzeit Pause. Ich habe auch andere Mannschaften gesehen in Europa nach diese Mittwoch. Ich habe gesehen auch zwei Tage die Training. Ein Trainer ist nicht ein Idiot! Ein Trainer ist da ... sehen was passieren in Platz. In diese Spiel es waren zwei, drei oder vier Spieler, die waren schwach wie eine Flasche leer! Haben Sie gesehen Mittwoch, welche Mannschaft hat gespielt Mittwoch? Hat gespielt Mehmet, oder gespielet Basler, oder gespielt Trapattoni? Diese Spieler beklagen mehr als spiel! Wissen Sie, warum die Italien-


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Gli inappuntabili tedeschi reagiscono bene: la stampa sportiva, l’autorevole settimanale Der Spiegel e gran parte dell’opinione pubblica, anche chi non si interessa al calcio, apprezza il coraggio di criticare calciatori miliardari e irresponsabili. Ma ciò che accade dopo quella conferenza stampa è di portata notevolmente più ampia. Le televisioni pubbliche e private della Germania ripetono per mesi spezzoni della sfuriata, che viene proclamata “discorso dell’anno”, così come Trapattoni viene dichiarato “uomo dell’anno” dal quotidiano Taz. Negli stadi si diffonde rapidamente lo slogan “Strunz, Strunz, Flasche leer, Strunz!”, gridato ai giocatori della squadra avversaria, e il carnevale di Colonia, il 15 febbraio 1999, dedica un carro allo stesso motivo. Quelle parole proferite in “germanese” hanno “sensibilmente cambiato l’intera repubblica […], sul piano politico, sociale, psicologico e linguistico”6 con effetti immediati sul linguaggio quotidiano e su quello della politica. Durante la campagna elettorale del 1999, l’espressione Ich habe fertig appare sui manifesti della Spd, messa in bocca al cancelliere uscente per alludere alla fine del governo Cdu. Quattro anni dopo, durante il duello televisivo tra il cancelliere Schröder e il rivale conservatore Stoiber, quest’ultimo dichiara: “Chi guarda oggi il bilancio di Schröder, dirà: Flasche leer, wir haben fertig! Il discorso tedesco di Trapattoni invade inoltre i siti internet e ispira i musicisti; nascono così un Trapattoni-Rap, composto da spezzoni del discorso originale, e una versione italo-pop-dance – Ich bin fertig – che in alcune classifiche regionali spiazza persino i dischi delle Spice Girl7. Spropositato e solenne, il discorso che sconfina più o meno intenzionalmente nello sproloquio non nasconde l’errore ma lo esibisce, lo ingigantisce, ne fa un tratto distintivo, con evidenti effetti comici. Ne offre un ulteriore esempio il direttore del circo nel quale si esibisce il povero Pinocchio di Collodi, trasformato in ciuchino dopo l’infelice avventura nei Paese dei Balocchi:

Rispettabile pubblico, cavalieri e dame! L’umile sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre metropolitana, ho voluto procrearmi l’onore nonché il piacere di presentare a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe già l’onore di ballare al cospetto di Sua Maestà

Mannschaften kaufen nicht diese Spieler? Weil wir haben gesehen viele Male sulch Spiel. Haben gesagt, sind nicht Spieler für die italienen, eh..., Meisters. Struuunz! Strunz ist zwei Jahre hier, hat gespielt zehn Spiel, ist immer verletzt. Was erlaube Strunz?! Letzte Jahre Meister geworden mit Hamann, eh..., Nerlinger. Diese Spieler waren Spieler und waren Meister geworden. Ist immer verletzt! Hat gespielet 25 Spiele in diese Mannschaft, in diese Verein. Muss rispektieren die andere Kollega! Haben viel nette Kollegan. Stellen diese Kollegan die Frage! Haben keine Mut an Worten, aber ich weiß, was denken über diese Spieler. Mussen zeigen jetzt, ich will, Samstag, diese Spieler mussen zeigen mich, seine Fans, mussen alleine die Spiel gewinnen. Muß allein die Spiel gewinnen! Ich bin müde jetzt Vater dies Spieler, eh.., verteidige immer diese Spiele. Ich habe immer die Schulden, über diese Spieler. Einer ist Mario, einer, ein anderer ist Mehmet. Strunz ist dagegen nicht, hat nur gespielt 25 Prozent diese Spiel! Ich habe fertig!” 6 Peter Unfried, Der Mann des Jahres, in Tageszeitung, Berlino 14 marzo 1998. 7 Per un’analisi approfondita degli effetti linguistici del discorso di Trapattoni cfr. Jorg Sernf , “ Il discorso tedesco di Giovanni Trapattoni. Estasi della critica linguistica”, in Il Traduttore nuovo, Anno LII-LIII, 2002/2 – 2003/1, volume LVIII, p.84, op. cit., pp.63-84.


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l’imperatore di tutte le Corti principali d’Europa. E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza e compatiteci8. Tutto, qui, è zoppicante e anticipa la rovinosa caduta del povero Pinocchio. La spavalda, astuta, improvvisata esibizione del direttore del circo prepara, con le parole, l’esito imprevisto, ma prevedibile, della serata. Errori di grammatica, incongruenze, fraintendimenti, scambi di parole e scimmiottamenti del pomposo formulario burocratico9 appartengono anche ai funambolismi verbali di Totò e, in particolare, alla leggendaria dettatura di una lettera nel film Totò, Peppino e...la malafemmina di Camillo Mastrocinque (1956). “Una sorta di microtrattato di linguistica dell’italiano popolare”10 che schiera parole sbagliate e punteggiatura creativa. Qualcosa di simile all’eloquio del deamiciasiano, logorroico dottor Raganella, che per troppa foga parla scorretto, come un “torrente impetuoso che travolge sgrammaticature, cacofonie e contraddizioni” affogando il pensiero in parole inutili e fastidiose11. O come la praticante giornalista Cerasio Giada, che in un racconto di Michele Serra compone un testo sintatticamente improponibile sull’inaugurazione di un Museo della calza12: Da oggi anche la nostra città si annovera tra le città di livello europeo in maniera sempre più cospicua, con il patrocinio del sarto di fama europea ed extraeuropea Sabatino Mineo, grazie al nuovo Museo della Calza con il proposito di valorizzare meglio la storia e il valore di questo prezioso accessorio, inaugurato dal sindaco alla presenza di molti operatori economici e studiosi del fenomeno. Chi non ha mai affidato alle calze il compito di valorizzare meglio la propria personalità, affidandogli messaggi vuoi scherzosi vuoi erotici, vuoi la semplice igiene e decoro come simboli riconosciuti di un raggiunto benessere? 8

Carlo Collodi, Pinocchio, Feltrinelli, Milano 1993, pp.239-240. Un capolavoro di burocratese è contenuto nella parodia che Italo Calvino produce attraverso il verbale di un immaginario brigadiere. L’articolo appare sul quotidiano Il Giorno il 3 febbraio 1965 in risposta a Pasolini e alla sua tesi della nascita di un nuovo italiano tecnologico. “Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: ‘Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata’. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: ‘Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antemeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”. Cfr. Maurizio Trifone, “Il linguaggio burocratico” in Pietro Trifone (ed.), Lingua e identità: una storia sociale dell’italiano, Carocci, Roma 2006, pp. 213ss. 10 Fabio Rossi, La lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica, Bulzoni, Roma 2002, p. 82. 11 Edmondo De Amicis, L’idioma gentile, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006, p. 348. 12 Michela Serra, Il nuovo che avanza, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 119-128. 9


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Anche il difficile rapporto con un mondo moderno che produce sempre nuove e complicate diavolerie può indurre a cadere in errore. Accade, ad esempio, alla popolana “Sgnera Cattareina” del bolognese Alfredo Testori che, ai primi del Novecento, chiama il telefono telefo, il cinematografo cimet-grafò, le automobili ottonobili, il fonografo fonagro e i caffè-concerti cafè-sconzerti13. Diversa, ma non troppo distante dalla “signorina snob” che Franca Valeri interpreta in alcuni celebri sketches radiofonici italiani degli anni Cinquanta: perennemente alle prese con conversazioni telefoniche sui più disparati argomenti, la “signorina snob” si propone di parlar forbito, ma inventa espressioni surreali come “levataccia pregallica”, stile “tranquillo pompeiano pre-eruzione” e “genitrice madre”14.

Malintesi Nella seconda metà del XIX secolo, l’antropologo russo Miklucho Maklaj si trova in Nuova Guinea per studiare i “selvaggi”. Il 25 gennaio 1871 annota nel suo diario un’interessante esperienza di incomprensione: solo cinque mesi dopo il suo arrivo ha appreso le parole papuasiche che indicano “mattino” e “sera” e solo in seguito ha capito come tradurre la parola “bene” o “buono”.

Già due volte ero caduto in errore credendo di essere riuscito a conoscere tale termine e, naturalmente, usandolo. I papuasi certo non capivano che con quella parola volessi dire ‘bene’. E’ difficile farsi comprendere se la parola che si vuol sapere non è la semplice denominazione di un oggetto. Dopo molti tentativi e molti dubbi, Maklaj crede di aver trovato l’indigeno che lo capisce: ′buono′, in papuasico, suona ′kas′. L’antropologo registra il termine, lo ricorda e lo usa per due mesi. Sentendo la parola, fanno normalmente espressioni di piacere e la ripetono. Tuttavia, qualcosa non quadra.

Mi misi allora alla ricerca di un’occasione per controllare la parola. Incontrai a Bongu un uomo che mi pareva di intelligenza assai pronta, e che mi aveva fatto conoscere diverse parole difficili. Vicino alla capanna c’era una pentola in perfetto stato, più lontano erano ammucchiati i cocci di un’altra. Presi la pentola e i cocci e ripetei la procedura descritta. L’indigeno parve avermi capito, pensò un poco e disse due parole. Controllai indicando diversi oggetti: una scarpa in ordine e una rotta, un frutto buono e uno marcio; quindi domandavo: ′bab?′ (la parola che mi aveva detto). Egli ripeteva ′bab′ ogni volta. Finalmente ci sono, pensai. Usai di nuovo la parola ′bab′ per un mese e ancora notai che c’era qualcosa che non funzionava. Finalmente scoprii che ′kas′ in lingua papua vuol dire tabacco, mentre ′bab′ indica una grossa pentola. Inoltre i selvaggi hanno l’abitudine di 13

Cfr. Renato Bertacchini, Emilia Romagna, La Scuola, Brescia 1987, p. 211. Cfr. Franca Valeri, “Arriva la signorina snob”, in Toh, quante donne, Lindau, Torino 2004, pp. 81-82.

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ripetere le vostre parole. Ad esempio, mentre indicate un oggetto buono dite ′kas′, anche gli indigeni vi ripeteranno ′kas′. Voi pensate che vi hanno capito, mentre i papuasi a loro volta ritengono che voi parlate nella vostra lingua e cercano di ricordare che quel tale oggetto nella vostra lingua si chiama ‘kas’15. Il malinteso linguistico è uno degli ostacoli più insidiosi nel lavoro degli etnologi e degli antropologi. Nigel Barley, del Museo of Mankind del British Museum di Londra racconta in un libro la sua esperienza tra i Dowayo del Camerun, tra i quali l’oscenità è sempre dietro l’angolo. “Una lieve sfumature nel tono cambia la particella interrogativa, che si attacca alle frasi per farne delle domande, nella parolaccia più sporca della lingua dowayo”. Nella capanna di un mago della pioggia, dopo una proficua conversazione ottenuta al termine di molte richieste, la fretta di congedarsi porta Barley a dire: “Scusatemi, ho della carne sul fuoco”16. Se nelle scuole italiane dell’Austria-Ungheria, il primo verso del testo italiano dell’inno dell’impero – “Serbi Dio l’Austriaco Regno”- si trasformava in uno snaturante Seeerbidioòla-Ustriàco-Regno17, il linguista Tullio De Mauro ricorda che, da bambino, il refrain dell’inno fascista “e per Benito Mussolini/ eja eja a là là” gli aveva fatto credere che per-benito fosse una parola sola, il participio passato della parola “pervenire”, equivalente a “sia lodato” o qualcosa del genere. Analogamente, l’inno fascista che inizia con “Vibra l’anima nel petto” aveva suggerito, per equivoco, allo scrittore Luigi Meneghello, l’esistenza del popolo dei “Vibralani”. Ancora De Mauro ricorda che le grandi insegne di un bar Caffè, gelateria, torrefazione, considerate in scala ascendente dal caldo al freddo, lo avevano indotto a scrivere in un tema scolastico che i soldati italiani combattevano “dalle sabbie infuocate del deserto alle torride steppe gelate della Russia”18. Nel libro Il salto con le aste19 lo scrittore Domenico Starnone ricorda:

Il mio scontento lessicale è cominciato appena ho imparato a leggere, di fronte alla parola: rapina. Che, mi ricordo, premeva contro il vetro di un’edicola proprio all’altezza degli occhi, stampata su una copertina di Tex, rettangolare, colorata, un cavaliere su un cavallo impennato. ‘La rapina’ – misterioso agglomerato di lettere – mi ha abbagliato per una settimana. Non c’era giorno che non mi fermassi là davanti e pronunciassi mentalmente: la ràpina. […] E in qualche angolo della memoria ho catalogato per sempre ′ràpina′, vocabolo grazioso, odoroso di bambine da cinematografo con i fiocchetti rosa alle treccine, da sfoderare nei momenti migliori della giornata. 15 Miklucho Maklaj, Amicizia con I selvaggi (viaggi nella Nuova Guinea), Firenze, Istituto geografico De Agostini, 1963, cit. in Franco La Cecla, Il malinteso, Laterza, Roma-Bari 2005, pp.95-96. 16 Nigel Barley, Appunti da una capanna di fango. Diario di un antropologo nell’Africa Nera, Rizzoli, Milano 1991, cit. in Enrica Tedeschi, Sociologia e scrittura. Metafore, paradossi, malintesi: dal campo al rapporto di ricerca, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 95-96. 17 Cfr. Lino Carpinteri e Mariano Faraguna, Serbidiòla, Leonardo Editore, Milano 1990. 18 Cfr. Tullio De Mauro, Parole di giorni lontani, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 45-46 e 96-97. 19 Cfr.Domenico Starnone, Il salto con le aste, Feltrinelli, Milano 1989, p.91.


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Uno straordinario malinteso è donna Bissodia che, pur non avendo una vera vita, gode di una invidiabile biografia letteraria per effetto di un errore di pronuncia. Parlano di lei Sacchetti, Belli, numerosi i testi del Cinquecento e persino Gramsci, nelle Lettere dal carcere, ricorda che zia Grazia credeva in questa pia donna d’altri tempi. Bacchettona, devota, ma anche matta, poco seria, sguaiata, generosa, donna Bissodia è forse la più celebre personificazione di una vistosa, appariscente incomprensione operata dalla cultura popolare rispetto al latino liturgico. Se il sottotenente Summenzionato di Tynjanov vive grazie ad un errore di trascrizione, lei esiste in virtù di una frase mal compresa. Il “panem nostrum quotidianum da nobis hodie” del Padrenostro latino è, infatti, diventato persona in un processo di distorsione capace di trasformare formule incomprensibili e arcane, maestose, ma ripetitive, in espressive storpiature. La dotta preghiera ascoltata in chiesa e ripetuta nel genuino e ordinario biascicare dei fedeli digiuni di latino, non viene semplicemente replicata, ma arricchita di significati. E così, col tempo, da nobis hodie diventa donna Bissodia, che gode di vita autonoma e di autonoma fortuna letteraria. In compagnia, a dire il vero, di altri importanti personaggi, come il castigamatti er Nocchilìa, fusione romanesca della coppia di profeti Enoc ed Elia, e l’eccessivo e popolare Tenenosse, da Et ne nos (inducas in tentationem) 20.

Incomprensioni in rete In uno studio pubblicato dal Journal of personality and Social Psychology, gli psicologi americani Nicholas Epley, Justin Kruger, Jason Parker e Zhi-Wen Ng sostengono che la comunicazione per posta elettronica genera spesso incomprensioni e malintesi, con scambi di e-mail infuocate, insulti e veri e propri litigi on line21. Accanto agli errori involontari capaci di generare incomprensioni, si trovano in rete errori ortografici voluti. Molti, infatti, sono coloro che hanno attivato in questi anni siti internet con nomi famosi, ma scritti volutamente in maniera sbagliata, garantendosi migliaia di accessi non casuali. Tuttavia, un errore di battitura può trasformarsi in un’occasione mancata per chi desidera vendere in rete. Da quando esiste eBay, la maggior parte degli annunci è visibile tramite il motore di ricerca del sito e l’inserzionista che trascrive male il nome del prodotto da mettere all’asta avrà pochi offerenti. Ma anche l’arte di trovare errori di battitura su eBay è diventata un business e diversi siti offrono servizi di ricerca e software a pagamento per individuare questo genere di errori. Una raccolta di criteri per evitare incomprensioni e problemi si trova in internet e si intitola “Netiquette: etica e norme di buon uso dei servizi in rete”. Al punto 9, il testo invita espressamente a “non essere intolleranti con chi commette errori sintattici o grammaticali. Chi scrive è comunque tenuto a migliorare il proprio linguaggio in mo-

20

Gian Luigi Beccarla, Sicuterat. Il latino di chi non lo sa. Bibbia e liturgia nell’italiano e nei dialetti, Garzanti, Milano 1990, pp. 29-42.

21 Nicholas Epley, Justin Kruger, Jason Parker e Zhi-Wen Ng, “Egocentrism over e-mail. Can we communicate as well as we think?“, in Journal of Personality and Social Psychology, 89 (6), dicembre 2005, pp. 925-936.


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do da risultare comprensibile alla collettività22. Se si commette un errore, meglio non insistere, ma chiedere scusa, soprattutto se è un errore “ingombrante” (come un messaggio troppo lungo, o inserito nel posto sbagliato), spiega Giancarlo Livraghi in L’umanità dell’internet (le vie della rete sono infinite)23. “Uno dei giochi del gergo – continua l’autore – sta nello scrivere una parola con un’ortografia diversa ma che (in inglese) si pronuncia nello stesso modo. Come, per esempio, phat invece di fat (grasso), wyrd invece di weird (strano), be4 per before (prima), cu per see you (ci vediamo), filez per files (intesi come software), warez (una deformazione di wares, “cose in vendita”, che si usa per definire l’offerta di software “fuori dal comune”). Sulla rete si trovano anche consigli sul freewriting (scrittura libera), una tecnica per iniziare a scrivere “superando il blocco dello scrittore”. Errori, parole sballate, errori di ortografia, sintassi e distrazione sono ammessi. Si possono anche scrivere parolacce rivolte alle ex fidanzate, ai politici, ai vicini di casa. Sia che si utilizzi la penna, sia che si scriva in word, gli errori non vanno corretti. I pensieri vanno fatti fluire scrivendo tutto ciò che passa per la mente. In pieno flusso di coscienza. L’invito è scrivere per circa cinque minuti senza mai fermarsi, senza guardare fuori dalla finestra o cercare suggerimenti nelle cose che stanno intorno. Al termine, vanno corretti solo gli errori di battitura, mentre il significato delle frasi non va cambiato. Alla fine, il consiglio è di rileggere ad alta voce o di fare rileggere il testo a qualcuno. Questa tecnica, che ricorda vagamente la scrittura automatica dei surrealisti, viene talvolta utilizzata anche a scuola, come racconta Sandro Onofri nel suo appassionato Registro di classe24, diario di un anno scolastico in un liceo della periferia romana. Per fare sentire i suoi studenti “a casa e non in cella”, e in definitiva per fare loro scoprire che ci si può divertire anche con una penna in mano, ogni tanto il professore decide “di aprire i cancelli” e di lasciare gli studenti liberi di scrivere senza regole, “così come si sentono, con una traccia molto labile, e con una lingua il più possibile vicina a quella che usano parlando”. Anche in dialetto, se ne hanno bisogno. I risultati – assicura l’autore - sono spesso interessanti, e qualche volta sorprendenti, perché accade che anche i più svogliati e impreparati producano testi originali e pieni di invenzioni.

22

http://www.nic.it/NA/Netiquette.txt. Come osserva Luca Serianni in Prima lezione di grammatica (Laterza, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 106) la lineetta ondulata rossa del corret-

tore automatico, segnalando le devianze ortografiche della videoscrittura, finirà per fare precipitare le forme minoritarie ma lecite nel novero delle forme erronee. 23 www.gandalf.it/uman/42.htm 24 Sandro Onofri, Registro di classe, Einaudi, Torino, 2000.


Conduite des Ecoles « Cahiers lasalliens » par Léon Lauraire, fsc

1. Approche contextuelle - L'école lasallienne est née dans un contexte social, ecclésial et scolaire particulier : celui de la France de la fin du 17e siècle, encore mal exploré dans les textes antérieurs sur la Conduite des Ecoles. Ce contexte explique en grande partie l'organisation et la pédagogie de l'école lasallienne. ■ Cahier lasallien 61, 2001, pp. 246. 2. Approche pédagogique - A la clientèle particulière de leurs écoles, Jean-Baptiste de La Salle et les Frères voulaient offrir des structures, des apprentissages et des méthodes adaptés à leurs besoins humains, professionnels et religieux. Le second volume essaie de dégager les principaux aspects de cette réponse. ■ Cahier lasallien 62, 2006, pp. 263. 3. Approche comparative - Les 16e et 17e siècles constituèrent une période dynamique et novatrice dans le domaine de l'éducation et de la pédagogie ; en France, ils sont connus comme la Renaissance et le Classicisme. Mr. de La Salle est considéré comme le dernier grand éducateur français de cette période. Il a bénéficié des apports de ses prédécesseurs. Il eut des contacts directs avec quelques grands personnages, ses contemporains : Jacques de Batencour, Charles Demia, Nicolas Barré, Nicolas Roland. Ce troisième volume identifie les convergences et les différences entre ces auteurs. ■ Cahier lasallien 63, en préparation. 4. Approche diachronique - Dès le début, la Conduite des Ecoles a été considérée comme un projet éducatif en évolution, condition inévitable d'une adaptation aux besoins évolutifs des jeunes. La révision du texte 1706, demandée par la Chapitre général de 1717, et réalisée par J.-B. de La Salle lui-même, témoigne de ce souci d'évolution. Perspective confirmée par la vingtaine d'éditions ultérieures de la Conduite, jusqu'en 1916. Ce quatrième volume essaiera d’identifier les changements intervenus, leurs motifs internes à l'Institut et les facteurs externes. ■ Cahier lasallien n. ? à paraître.

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PROFESSIONE DOCENTE

RivLas 76 (2009) 2, 291-294

I chiaroscuri di Anna Lucchiari

Ricordando Massimo Baldini

C

orreva l’anno 1990. Avevo un appuntamento con qualcuno nella sede di una casa editrice e, dato che dovevo riempire i minuti di attesa, che furono molti ma del cui trascorrere non mi accorsi affatto, mi misi a scrutare i libri allineati in un ampio scaffale che stava di fronte al divanetto dove mi avevano fatto accomodare. Ci saranno stati più di cento titoli, sicuramente ma, come dice lo scrittore Zafon, a volte si ha l’impressione che siano i libri a cercare noi e chiunque ne abbia familiarità, sa bene che a volte pare sia proprio così. Avevo in animo di organizzare un convegno sulla parola, sulle parole, sul linguaggio e, naturalmente, quando si parla di parole, non si può non parlare di silenzio. Perciò mi attirò quasi subito un libro che portava scritto sul dorso verdino Le dimensioni del silenzio a cura di Massimo Baldini. Lo presi e lettane l’introduzione, lo comperai e lo conservo tra i miei libri più preziosi, perché già in apertura avevo compreso che l’argomento trattato era quello che mancava al convegno che avevo pensato. Il succo era questo. Si ritiene che ogni comunicazione non possa che avvenire mediante le parole al punto che ogni civiltà ha impegnato molte energie nella cura delle proprie potenzialità linguistiche. La civiltà greco-latina ebbe fede soprattutto nella ragione e nella parola, la ratio e l’oratio che confluivano entrambe nel termine logos. Il mondo romano in particolare scopre o riscopre (l’aveva già fatto Menandro) la parola come terapia ed elabora, accanto all’arte oratoria, la consolatio, che aveva come scopo quello di lenire il dolore. Doveva essere capace di influire sulla psiche della persona per consentirle, alleviandole, di sopportare le grandi sofferenze. Nelle Consolazioni, Seneca vive e condivide il dolore con Elvia e Polibio e la sua grandezza sta tutta nella sapiente ricerca delle parole, nella capacità che quelle sue parole possiedono di agire come lenitivo ma anche di avviare i destinatari sulla via della saggezza. Le parole possono avere valenze e funzioni diverse, aiutare, sollevare, convincere, raccontare e anche tradire ma come si comporta l’uomo di questo nostro tempo davanti ad esse? C’è un equivoco che forse va chiarito: siccome tutti in un modo o nell’altro imparano a parlare, si ritiene che questa facoltà non debba essere esercitata per saper esprimere il proprio pensiero. L’attitudine alla parola che è propria dell’essere umano, non è la sola che possiede, ne ha altre per l’affinamento delle quali sa bene di doversi esercitare. Pur disponendo di una capacità spontanea a coglier i suoni, oppure a riprodurre oggetti, nessuno può ragionevolmente pensare che l’attitudine sia sufficiente a farlo diventare Giotto o Mozart. Tutti sanno che ci vuole studio, applicazione, dedizione, sacrificio, perché queste facoltà possano produrre il meglio. Eppure è talmente scontato che tutti sappiano parlare, che il linguaggio è diventato invece che la massima espressione delle qualità umane, un diluvio inarrestabile nel quale non si può che sentirsi confusi. Jonesco, nel suo Diario, scrive che una civiltà di parole è una civiltà sconvolta. Le parole non sono la parola. Le parole creano confusione. Se non altro creano rumore e noi siamo immersi da anni e anni in un rumore chiacchieroso che è diventato una droga e al quale


Anna Lucchiari

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non sappiamo più rinunciare perché abbiamo paura del silenzio. Scrive Raimondo Panikkar1: L’uomo moderno non sa più stare solo, né sopporta il silenzio. Nell’immensa solitudine cui la vita frenetica, il progresso e l’architettura contemporanea lo costringono, egli cerca nervosamente la folla e tenta di affogare il proprio sgomento immergendosi in rumori di ogni sorta.

Di questo parlammo nel corso del nostro primo incontro, cui ne seguirono moltissimi altri perché il prof. Massimo Baldini accettò di parlare al convegno e a tutti quelli che in quasi tredici anni organizzai. Non solo fornendomi un aiuto prezioso ma rallegrando le lezioni che teneva a platee che lo ascoltavano rapite, con battute e aneddoti spiritosi. Ricordo la sua relazione sul linguaggio della pubblicità che fu utilissimo perché rivolto a molti giovani ai quali nessuno aveva mai spiegato prima, con tanta chiarezza e con dovizia di esempi presi dal quotidiano radiofonico e televisivo, che spesso le parole vengono pronunciate non per comunicare, ma per ingannare. Acutissimo osservatore della vita, delle sue caratteristiche e delle sue aberrazioni, con stile e piglio da maestro ha toccato anche temi apparentemente frivoli, come la moda o le fogge dei capelli lasciandoci alcune frasi indimenticabili come quella che definisce i parrucchieri venditori di felicità, perché, cita dottamente, Stendhal diceva che “la bellezza non è che una promessa di felicità”. Vi saranno personalità dottissime che studieranno i suoi libri, ragazzi in dirittura d’arrivo che faranno la tesi di laurea sui suoi numerosi e affascinanti scritti e altri che ne elencheranno le cariche e gli incarichi. A me piace ricordarlo come un grande amico, uno studioso che aveva saputo mettere la passione in ogni argomento solo che sapesse suscitargli la giusta dose di curiosità. Che sapeva trattare temi che avrebbero fatto tremare i polsi a chiunque con una lievità ed una ironia che li rendevano accessibili anche a coloro che non vi avrebbero mai attinto se non costretti da un’arma puntata. Un amico che intitolava il primo capitolo di una lezione sui limiti della ragione: La ragione umana non è un uccello del Paradiso bensì un pipistrello (v. “Cultura e Educazione”, n. 5-6, 1993). Uno studioso di costume che sapeva cogliere il senso dei sogni e dei vizi del tempo premettendo che niente è superfluo e che sembrava affermare, in accordo con Oscar Wilde: datemi il superfluo e farò a meno del necessario. Uno studioso che sapeva rimettere a posto i falsi detrattori dei messaggi pubblicitari con un laconico: non sono messaggi, sono massaggi. La pubblicità, soleva dire, non è così potente e nefasta come certuni l’hanno descritta e non è necessariamente una scuola di cretinismo per un pubblico di imbecilli. Ma è fondamentale sapere, scriveva Baldini che i messaggi pubblicitari…“avendo reciso quasi completamente i loro legami col reale, ci presentano un mondo fiabesco, un mondo nel quale gli anziani non esistono (tranne che a Natale e a Pasqua, in occasione delle vendite dei panettoni e delle colombe), dove i bambini sono sempre biondi e con gli occhi azzurri, dove la famiglia è infallibilmente composta da madre, padre e al massimo due bambini, un maschietto e una femminuccia, e possibilmente il maschietto è il primogenito, un mondo dove pochi lavorano e nessuno risulta mai am-

1

The silente of the word; non dualistic polarities, in “Cross Current”, vol. XXIV, nn. 2-3,

summer-fall 1974, p. 156.


Ricordando Massimo Baldini

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malato. Potrà sembrare strano, ma la malattia è un tabù un demone da non evocare. Non è che tutto vada bene, un raffreddore, un’emicrania, un doloruccio di denti possono capitare, ma non c’è da preoccuparsi, sono semplicemente fastidi che passano istantaneamente. Infine, quello della pubblicità è un mondo dove operai e contadini o, comunque, la componente popolare della nostra società, compaiono così raramente, sommersi come sono da architetti, ingegneri, capitani d’industria, manager ed emergenti vari, da sembrare categorie sociali estinte o in via d’estinzione”. Massimo Baldini ha combattuto per tutta la vita contro il “parlar oscuro” che caratterizza coloro che si vogliono ammantare di sapienze discutibili e ritiene che si possa esprimere qualsiasi concetto con rigore ma anche con semplicità in modo da venir intesi da tutti. In particolare si è scagliato con grande senso dell’umorismo contro il burocratese che vende cose banali vestite di arrogante supponenza (a volte di ignoranza). Ricordo che in occasione di uno dei nostri incontri per organizzare gli articoli per la rivista, mi portò un foglietto su cui aveva scritto quanto riporto. Biglietto trovato affisso alla Stazione Centrale di Milano: «Durante la disabilitazione, il servizio verrà disimpegnato dal personale di scorta ai treni senza riscossione di esazioni suppletive». Il messaggio sarebbe stato capito, certo, con maggior facilità, mi disse, se avessero scritto: «Quando lo sportello è chiuso, i biglietti si acquistano in treno senza sovrapprezzo». E purtroppo, il burocratese si trova nei discorsi politici come nei cartelli appesi agli uffici postali o alle stazioni ferroviarie. Cosicché il biglietto diventa un prestigioso e fascinoso titolo di viaggio che gli utenti dovranno obliterare. Ma il professor Baldini oltre ad aver messo alla berlina il linguaggio di coloro che dovendosi rivolgere al povero cittadino indifeso, lo torturano con vere e proprie contorsioni verbali, se la prende anche con gli estensori delle leggi e dei progetti di legge che non solo non sono leggibili ma che richiedono pure apposita legge interpretativa! Per ultimo, ma non per importanza, vorrei ricordare le sue ricerche sull’amicizia, sentimento che fiorisce grazie alla verità, alla speranza, alla reciprocità, alla fiducia, alla gratuità, alla tenerezza, alla confidenza e, nel contempo, alla discrezione, doti che lui possedeva tutte. L’amicizia diceva, è arbitraria, gratuita e superflua come la filosofia, l’arte, l’universo stesso. L’amicizia non ha valore ai fini della sopravvivenza ma è una di quelle cose che danno valore alla sopravvivenza. Mi mancherà il nostro ricordare i vecchi convegni e i vecchi articoli, le battaglie, l’entusiasmo che ci consentiva con altri amici di affrontare con pochi soldi progetti importanti… mi consola che la sua amicizia abbia dato valore alla mia e alla nostra vita. ■

Troppi orecchianti senza preparazione musicale Sempre sorpresa dalla lunghezza dei dibattiti, dalle zampillanti innovazioni lessicali e linguistiche, dalla quantità delle parole che vengono quotidianamente riversate dalla radio e dalla televisione, colpita dalla frenesia oratoria che corre come una terribile epidemia e che dura da molto, sogno il silenzio. E’ un sogno da sveglia, ovviamente, un sogno vecchio e non solo mio, se già nel 1703 san J.-B. de La Salle poneva l’arte del tacere tra le virtù del vivere civile, se nel 1771 l’abate J.-A.Tussaint Dinouart dava alle stampe L’arte di tacere, specialmente in tema di religione, nella quale si compendiano molte riflessioni a favore del silenzio e non solo in materia di religione.


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A parte la grande valenza spirituale del silenzio che accompagna il ritiro dal mondo e di cui l’abate parla, l’accento viene posto in più punti sulla convenienza che d’ora in avanti (!) il silenzio divenga una pratica quotidiana. Il primo grado della saggezza, scrive l’autore è saper tacere; il secondo è saper parlare poco e moderarsi nel discorso, il terzo è saper parlare molto, senza parlare né male né troppo. - E’ una parola! - mi verrebbe da esclamare. Ma sono affascinata dalla affermazione “mai l’uomo è padrone di sé come quando tace…quando parla sembra, per così dire, effondersi e dissolversi nel discorso” (cit., p.66). L’uomo si perde nella parola; la parola è ciò che sfugge: è flusso, ferita e in essa l’uomo si svuota, si effonde, si dissolve. Dice ancora l’abate che in una società civile intesa e concepita come luogo di scambio, di dialogo e di espressione, l’uomo deve contemporaneamente saper parlare e saper tacere. Poi dà molte regolette sempre attuali, sempre interessanti, che compendia in pochi punti, perché è ovvio che se bisogna saper parlare poco, bisogna anche sapersi contenere nello scrivere. E’ bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio; esiste un momento per tacere e uno per parlare; in generale è sempre meno rischioso tacere che parlare, fino al delizioso “desiderare fortemente di dire una cosa è spesso motivo sufficiente per decidere di tacerla”. Quanto al furor di scriver libri, il saggio abate scrive: “Verrà giorno in cui non ci saranno che letterati…poiché ci elettrizziamo reciprocamente. Niente è più sottilmente e rapidamente contagioso dei libri”. Poi si chiede: se tutti scrivono e diventano autori, che ce ne faremo di tutti i libri nei quali saremo sommersi senza risparmio? Quando tutto sarà stato pensato e detto, si ricomincerà come si fa da tempo immemorabile a pensare e a dire sempre le stesse cose? E non si diventerà troppo presuntuosi al punto da voler parlare di tutto e scrivere su tutto e spesso senza altra competenza che quella acquisita con una rapida lettura o dalle chiacchiere dei salotti? Era l’alba del 1771, i germi della rivoluzione si stavano già preparando ad attaccare massicciamente i Francesi e dopo quella, come altre rivoluzioni, il passato è stato come sepolto e molte delle piccole e grandi opere prodotte da persone che avevano dedicato la propria vita alla cultura, allo studio e alla meditazione, sono state semplicemente dimenticate. Forse sta succedendo e continuerà ad accadere quello che l’abate Dinouart aveva previsto: si sproloquierà e quando tutto verrà azzerato dalla progressiva perdita di potere delle parole sciacquate e annacquate nel loro stesso mare, scipite ed esautorate, ci si dovrà fermare a raccogliere qualche idea volante, a tirare il fiato, prima che il ciclo prometeico cui siamo condannati ricominci …all’infinito. La speranza è che qualche consiglio di autori vecchi e saggi emerga dalle acque del diluvio come intatto e che suo tramite venga ridata dignità alla parola sincera, perché ritorni in auge la virtù della prudenza nell’agire e nel parlare. Poi, come la luce si enuclea dalle tenebre, così dalle parole vere si ergerà il silenzio prudente quello dell’uomo che sa discernere quali parole, quante parole e quando pronunciarle. E questa sarà un’arte che dovranno necessariamente coltivare tutte le persone, non solo quelle che operano nella cultura ma soprattutto quelle che operano in politica, che è l’arte che più sconsideratamente adopera le parole come i lazos dei mandriani. Se un uomo politico deve saper parlare, scrive Fénelon più o meno nello stesso periodo dell’abate Dinouart, più degli altri deve usare prudenza perché “chiunque non sa tacere è indegno di governare”. ■ Anna Lucchiari


LASALLIANA

Ricerche • Studi • Note

■ Roma. Il breve esperimento di una Scuola pontificia di disegno ■ ■ ■

presso la scuola di San Salvatore in Lauro Parma. L’Istituto De La Salle commemora i suoi 170 anni di ininterrotta presenza educativa La spiritualità lasalliana ripensata con le categorie del 21° secolo Cronache dal mondo lasalliano



LASALLIANA

RivLas 76 (2009) 2, 297-308

Apprendere le arti applicate a Roma tra ‘700 e ‘800

La Scuola di disegno e lo Studio Pontificio delle Arti a San Salvatore in Lauro Assunta Di Sante

Viceresponsabile dell’Archivio Storico della Fabbrica di San Pietro

L

o Studio Pontificio delle Arti, evoluzione della Scuola di disegno istituita da papa Pio VI Braschi (1775-1799) nel 1794 presso le Scuole Cristiane a San Salvatore in Lauro, costituisce un’esperienza breve ma unica nel suo genere, rappresentando la possibile soluzione al problema dibattuto nelle Accademie italiane, già sul finire del Settecento e per tutto l’Ottocento, relativo al difficile ruolo di raccordo tra ricerca e insegnamento scientifico, pratica artistica e il campo dei mestieri e delle scienze applicate1. Sottovalutata dalla storiografia per la scarsità di riferimenti bibliografici, la storia dello Studio Pontificio riemerge oggi da documenti conservati dalla Fabbrica di San Pietro in Vaticano che, fin dalla nascita della Scuola di disegno, comprese l’utilità di un’istituzione pubblica per la formazione dei giovani artigiani, in stretta rispondenza alla propria esigenza didattico-esecutiva nei lavori della Basilica Vaticana2.

1

Per un’analisi del sistema accademico fra Settecento e Ottocento si veda G. RICCI (a cura di),

L'Architettura nelle accademie riformate. Insegnamento, dibattito culturale, interventi pubblici,

Guerini Studio, Milano 1998. Il presente contributo prende le mosse dal saggio pubblicato in seguito alla ricostruzione delle vicende della Scuola di disegno di San Salvatore in Lauro in A. MARINO (a cura di) Sapere e saper fare nella Fabbrica di San Pietro. Castelli e ponti di maestro Niccola Zabaglia 1743, Gangemi, Roma 2008. 2


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Due furono i principali punti di forza dello Studio: il sostegno da parte dell’ambiente artistico, l’Accademia di San Luca e la presenza autorevole della Fabbrica di San Pietro in Vaticano, vero e proprio “laboratorio sperimentale” di tecniche e macchine, capace di garantire il raggiungimento degli obiettivi dello Studio attraverso la definizione delle competenze necessarie a un bravo artiere e la possibilità di applicazione della teoria alla pratica con il lavoro in Basilica.

Istituzione della Scuola di disegno Papa Pio VI, con Motu proprio del 14 gennaio 17893, affidò ai Fratelli delle Scuole Cristiane, già presenti con una casa in via Sistina4, una seconda scuola a Roma, nella piazza di San Salvatore in Lauro. Già nel 1786 il Pontefice aveva confermato il decreto emanato dalla Congregazione dei vescovi e regolari in merito alla Regola dell’Istituto. Con premonizione di ciò che stava per accadere in Francia5, Pio VI decise di unire i frutti dell’eredità del Conte Palatino Giuseppe d’Hiltzer a quelli dell’eredità del cardinale Bernardino Giraud6 per “l’erezione di una nuova Casa di Scuole Pubbliche

nel rione di Ponte […] ad uso di Scuole per li Fanciulli, e Gioventù povera, e ad uso ancora di abitazione religiosa per i Fratelli delle Scuole Cristiane, che avranno ad esserne i Maestri […]”7.

3

Archivio di Stato di Roma (d’ora in avanti ASR), Trenta Notai Capitolini, Giovanni Lorenzini, 1789, cc. 204-245. La copia originale del Motu proprio è conservato in ASR, Trenta Notai Capitolini, Giovanni Lorenzini, 1794, c. 649. Cfr. anche Archivio della Fabbrica di San Pietro in Vaticano (d’ora in avanti AFSP), Arm. 52, B, 92, n. 91 Stato generale dell’Opera pia delle Scuole Cristiane a tutto il 5 novembre 1791. 4 Nel 1702 Jean-Baptiste de La Salle inviò a Roma due frères con la missione principale di ottenere dal Papa la Bolla di approvazione dell’Istituto e di far conoscere l’organizzazione e il metodo delle scuole lasalliane. Dopo aver superato l’esame di “lingua toscana”, i due insegnanti aprirono nel 1705 una scuola gratuita per i fanciulli poveri. L’esito fu tale che papa Clemente XI Albani (1700-1721) concesse loro la facoltà di aprire nel 1710 una “Scuola Pontificia” sulla via Ferrea, oggi via dei Cappuccini, nelle vicinanze di piazza Barberini. La Scuola fu poi trasferita, dal 1733 al 1743, di residenza in residenza, in una casa in via Felice (l’ultimo tratto della vecchia strada Felice è costituito dall’odierna via Sistina) presso la Chiesa di Trinità dei Monti dove è rimasta fino al 1905. Da quella data al 1950 ha avuto la sede a Corso d’Italia mentre oggi si trova a via dell’Imbrecciato (Colle La Salle). Si veda R. C. MEOLI, La scuola di fr. Gabriel Drolin a Roma, Fratelli delle Scuole cristiane, Roma 1995. 5 L’esistenza legale dell’Istituto in Francia cessò dal 1792 al 1805 e Pio VI, con un breve del 7 agosto 1795, stabilì un Vicario generale residente a Roma e gli affidò la direzione delle case dell’Istituto delle Scuole Cristiane esistenti in Italia. Si veda G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri giorni, Venezia 1854, LXIII, pp. 75-88. 6 Il cardinale Bernardino Giraud nell’ultimo suo testamento ordinò che una parte della sua eredità a disposizione del papa Pio VI si erogasse in opere pie, destinando per l’esatto adempimento di questa sua volontà come esecutori testamentari il conte Ferdinando Giraud e l’avvocato Giuseppe Benetti (AFSP, Arm. 63, C, 35, f. 1). 7 AFSP, Arm. 52, B, 92, n° 91.


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Dopo aver stabilito la gratuità dell’insegnamento e l’ammissione di tutti i fanciulli “per quanto fossero poveri e mal vestiti”8, il Pontefice destinò alla Scuola quattro locali, capaci ciascuno di cento ragazzi, come quattro dovevano essere le classi d’insegnamento (chiamate scuole): in tre di queste si sarebbero istruiti gli alunni nelle discipline previste dalla Regola dell’Istituto (lettura, scrittura, aritmetica e dottina cristiana), nella quarta avrebbe deciso in seguito se far impartire lezioni di disegno o di lingua francese. Inoltre, se mai i Fratelli avessero variato il metodo, introdotto altri insegnamenti oltre quelli indicati o cessato la loro attività nella città di Roma, sarebbero decaduti tutti i fondi e i capitali assegnati. La costruzione dello stabile destinato a ospitare la Scuola si protrasse fino al 1793 e, portato a compimento il nuovo edificio, furono acquistati il mobilio, i testi scolastici9 e gli oggetti necessari all’insegnamento del disegno: vedute, rami, carta per gli esemplari e corda per i telai degli esemplari10. Se infatti la decisione di inserire una scuola di disegno sarà ufficializzata più tardi, è lecito supporre che la scelta sia stata immediatamente successiva all’istituzione delle altre scuole perché, sin da subito, iniziarono gli studi relativi all’impostazione e al criterio di insegnamento11. Soltanto con Motu proprio del 14 febbraio1794 Pio VI ufficializzò la natura della quarta scuola: “[…] Nel predetto Moto proprio dei 14 Gennaio 1789 ci riservassimo di dichiarare una quarta Scuola, e siccome dall’esperienza abbiamo veduto il concorso dei giovanetti, che hanno bisogno di educazione, così approviamo che questa quarta scuola sia a carico dei Religiosi, come le altre. Avessimo anche in vista nell’eriggere detta Fabrica di dare un sollievo ai figli dei poveri artisti, e perciò ordinassimo che si scandagliasse la Fabrica in maniera che potesse essere soddisfatto anche questo nostro desiderio verso i poveri. Essendovi pertanto ivi anche questo commodo, ereggiamo nella sala ancora vacante una Scuola dei principi di disegno, e per maestro eleggiamo Andrea De Dominicis, del-

8

Ivi. Le Meditazioni sulla Passione di N. S. Gesù Cristo del r.do p. CRASSET; La storia della Sacra Scrittura; Dottrina cristiana di Giuseppe Domenico BORIGLIONI; Le Vite de' Santi di Jean CROI-

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e due libri di conti (AFSP, Arm. 52, B, 92, nn. 131-166). Relativamente alle attività svolte nelle Scuole cristiane e alle materie di insegnamento si veda J.-B. DE LA SALLE, Guida delle Scuole cristiane. Regole di buona creanza e di cortesia cristiana, ed. it. a cura di R. C. MEOLI, (Opere, 3), Città Nuova, Roma 2000. 10 AFSP, Arm. 52, B, 92, nn. 131-166. Il 4 settembre del 1794 viene pagato l’incisore Luigi Barbazza per aver inciso un ramino per uso delle Scuole col prospetto della Casa de’ religiosi (AFSP, Arm. 52, B, 92, n. 186). 11 Già nel 1791 furono inviati da Mantova il metodo e il regolamento osservati presso l’Accademia Teresiana che costituì indubbiamente un esempio significativo per l’impianto della Scuola di disegno di Roma. Le due istituzioni sono infatti assimilabili per almeno tre caratteristiche comuni: i destinatari dell’istruzione (i giovani artigiani), il metodo didattico, il rapporto con gli Accademici di San Luca. Inoltre la conoscenza dell’Istituto mantovano, più bottega o scuola che accademia, permette oggi di capire meglio l’orientamento generale della Scuola di disegno romana, a lungo priva di un regolamento proprio. Per la storia dell’Accademia di Mantova si veda P. PAPAGNA, L’Accademia di Mantova: la prima Accademia riformata in terra lombarda in L'Architettura nelle accademie riformate, cit. n. 1, pp. 153-165. Inoltre le vicende delle Scuole di architettura e pittura dell’Accademia di Mantova tra il 1752 e il 1802 sono state ampiamente illustrate da U. BAZZOTTI e A. BELLUZZI (a cura di) Architettura e pittura all’Accademia di Mantova (1752-1802), Centro Di, Firenze 1980. SET


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la cui abilità, ed onestà ne abbiamo tutte le riprove. Vogliamo che questa Scuola abbia ad essere solo nei giorni di vacanza, e feste, eccettuate le feste più principali, ed il mese di ottobre, come si danno le vacanze nelle Scuole […]”12.

In effetti, l’istituzione di una Scuola di disegno si inseriva pienamente nel contesto voluto da Pio VI a San Salvatore in Lauro, rione popolare abitato prevalentemente da artigiani. La possibilità di partecipare alle lezioni di disegno durante i giorni festivi senza rinunciare a giornate di lavoro, consentiva a molti giovani di frequentare la Scuola; il metodo didattico, impostato sull’insegnamento dei primi elementi del disegno, avrebbe permesso invece di unire, all’abilità manuale, nozioni indispensabili per intraprendere e proseguire adeguatamente la professione artigiana. A diciotto mesi dalla pubblicazione del Motu proprio, nel novembre del 179513, iniziarono così le lezioni di disegno e, al maestro e architetto Andrea De Dominicis (cit. 1773-1807)14 si affiancò, nell’assistenza ai giovani e nell’esercizio didattico, l’architetto Pietro Holl (1780-1850)15 che giunse presto ad assumere la carica di direttore, avendo il maestro perso la vista. Qualche anno dopo la sua l’istituzione, la Scuola fu però segnata da un avvenimento che ne caratterizzò profondamente l’evoluzione, fino a farne un’esperienza di notevole importanza per metodo didattico e finalità. Nel 1804 la Fabbrica di San Pietro in Vaticano chiese e ottenne da papa Pio VII Chiaramonti (1800-1823) la gestione economica della Scuola di San Salvatore in Lauro. Questa richiesta fu dettata principalmente dalla considerazione del vantaggio che la nuova gestione avrebbe comportato per la Scuola di disegno: la Fabbrica di San Pietro che da più di tre secoli gestiva l’attività di artisti, meccanici, manovali, architetti e ingegneri destinati a eseguire i lavori nella Basilica Vaticana, avrebbe potuto più di ogni altro seguire la formazione degli aspiranti artigiani. Al tempo stesso, però, c’è una considerazione d’obbligo da fare. La scelta della Fabbrica di San Pietro, se da un lato era dettata dall’opportunità che una scuola per gio12

ASR, Trenta Notai Capitolini. Giovanni Lorenzini, 1794, c. 650. Le fonti, nonostante non sia esplicita la data di apertura della Scuola, inducono a supporre che la data di inizio sia novembre del 1795. Infatti, con rescritto del 7 luglio 1795, Pio VI approva l’esposto di Angelo Benucci per l’immediata apertura della Scuola di disegno (AFSP, Arm. 63, C, 35, n. 522). A conferma di tale ipotesi c’è il fatto che Andrea De Dominicis percepisce il suo onorario come maestro di disegno da novembre 1795 (AFSP, Arm. 63, C, 35, n. 523). 14 Andrea De Dominicis era stato anche architetto capo della nuova fabbrica di San Salvatore in Lauro. Il 4 ottobre del 1790 si dichiara infatti soddisfatto della ricompensa come Architetto deputato per la fabbrica di S. Salvatore in Lauro e scrive di dover eseguire i seguenti lavori: 13

piante elevate delle case demolite, descrizione dei ferramenti, vetri, conci e legname servibile, disegni delle piante, prospetti e spaccati delle diverse idee già fatte e degli studi delle rispettive parti della fabbrica da farsi per gli artisti, scandaglio dell’importo dei lavori per risarcire e ridurre al succennato uso le casette e scandaglio della Fabbrica tutta edificata di nuovo (AFSP, Arm. 52, B, 92, n. 62). Per le notizie biografiche di De Dominicis si veda F. LUCANTONI, De Dominicis, Andrea in E. DEBENEDETTI (a cura di), Architetti e ingegneri a confronto, I. L’immagine di Roma fra Clemente XIII e Pio VII, Bonsignori, Roma 2006, pp. 254-255. 15 Per le notizie biografiche si veda S. MARCONI, Holl, Pietro in Architetti e ingegneri, cit. n. 14, pp. 332-335.


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vani artigiani fosse diretta dall’Istituzione che ormai da tempo deteneva il primato nel settore edilizio e manifatturiero in genere, dall’altro rientrava nel novero delle riforme intraprese in quegli anni dalla Fabbrica stessa. L’ascesa al soglio pontificio di Pio VI aveva portato, infatti, una considerevole ripresa dell’attività edilizia sia nello Stato Pontificio sia all’ombra della Cupola, con l’avvio del cantiere edificatorio della Sagrestia della Basilica Vaticana (1776-1784). Ciò, se da un lato aveva comportato un considerevole incremento della manovalanza, dall’altro favorì nell’ambito della Fabbrica una benefica ondata di riforme che portarono a una sempre più accurata definizione di ruoli e competenze delle proprie maestranze16. Fu così regolamentata, con un decreto del 1788, la struttura del corpo dei sampietrini: il numero dei manovali di ruolo fu fissato a venti unità e furono aggiunti sei manovali soprannumerari17, in genere di tenera età. I giovani aspiranti sampietrini dovevano essere istruiti principalmente nelle opere meccaniche, relative alla messa in opera di ponti e macchine per il sollevamento di gravi e nei lavori che richiedevano agilità fisica, come le salite e discese per mezzo di canapi dai ponteggi posti ad altezze vertiginose nei vari siti della Basilica. Era dunque necessario porre i giovani sampietrini nella condizione di poter ‘conoscere’ a fondo, tecnicamente e criticamente, l’immensa mole della Basilica Vaticana. La necessità di provvedere alla formazione di buoni meccanici - le cui competenze dovevano comprendere una discreta conoscenza dei princìpi di meccanica, il disegno e una buona esperienza pratica, oltre all’esercizio del ‘giudizio’, cioè di discernimento critico - portò dunque la Fabbrica a intravedere nella Scuola di disegno di San Salvatore in Lauro la possibilità di affidare a un’istituzione preposta alla formazione tecnica, per di più direttamente amministrata, la preparazione degli aspiranti sampietrini. L’intuizione dell’opportunità di fondere insieme l’apprendimento tecnico-pratico con quello teorico e artistico, attraverso un percorso di formazione che potesse svilupparsi a partire dal cantiere e non dal mondo accademico, condusse la Fabbrica a decidere di assumere il compito di seguire l’iter formativo dell’artiere – non solo sampietrini ma giovani artigiani in genere, probabilmente supplendo a quanto non avveniva più con l’apprendistato nelle botteghe - e questa scelta si dimostrerà fondamentale quando la Fabbrica stessa modificherà il carattere della Scuola sulla base delle reali esigenze lavorative. Su queste premesse, con rescritto pontificio del 2 agosto 1804, l’Economo e Segretario pro tempore della Fabbrica di San Pietro fu eletto amministratore dell’eredità Giraud - e dunque della Scuola di San Salvatore in Lauro - con l’espressa condizione

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Relativamente alla formazione del corpo dei manovali sampietrini si veda A. DI SANTE – A. GRIMALDI, Il sacro e l’umano: il lavoro nella Fabbrica di San Pietro, in A. M. PERGOLIZZI (a cura di), Magnificenze Vaticane. Tesori inediti dalla Fabbrica di San Pietro in Vaticano, catalogo della mostra (Roma, Palazzo Incontro, 11 marzo-25 maggio 2008), De Luca, Roma 2008, pp. 136-153. 17 I soprannumerari erano in genere giovani impiegati a cottimo in Fabbrica a seconda delle particolari esigenze lavorative e che dopo anni di apprendistato passavano al ruolo effettivo di sampietrino.


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di tenerne contabilità separata da quella della Fabbrica, per non correre il rischio di danni economici dalla diminuzione di capitali o rendite dell’eredità18. Dopo aver consacrato la nuova gestione con gli stemmi di papa Pio VII Chiaramonti (1800-1823), di mons. Tommaso Boschi Economo della Fabbrica e dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole cristiane, dipinti sopra l’antiporta della portineria della Scuola, la Fabbrica commissionò la stesura del regolamento dei concorsi annuali destinati ai giovani artigiani. In realtà già il Motu proprio del 1794 stabiliva un aumento della somma di denaro da destinare a “qualche distribuzione di premi per animare i fanciulli ad applicare”19. Fin dall’istituzione della Scuola, infatti, per conoscere il profitto dei giovani studenti e per suscitare al tempo stesso fra loro una positiva emulazione, nell’ultimo mese di ogni anno scolastico si faceva una prova di abilità e i disegni giudicati migliori erano esposti in pubblico con il nome dei loro autori, premiati con medaglie d’argento durante una cerimonia ufficiale20; cerimonia che dal 1804 divenne più solenne21 perché si consolidò anche l’uso di accompagnarla con una composizione poetica degli Accademici Tiberini22. Tuttavia, per regolare questa consuetudine, la Fabbrica decise di formalizzarne le procedure e nel 1805 fu stilato un regolamento di concorso23 sulla falsariga di quelli Clementino e Balestra dell’Accademia di San Luca. Condizione per l’ammissione era non essere già occupati nello studio dell’architettura presso qualche esperto architetto, per non svantaggiare i giovani principianti ai quali il concorso era destinato. La prova aveva inizio la prima domenica di luglio e terminava a metà settembre. Il direttore sceglieva i soggetti da disegnare destinandoli ai concorrenti divisi in tre classi a seconda della loro abilità e in un registro annotava i dati di ogni studente (disegno, nome, cognome e luogo di provenienza), facendo in modo che i disegni, contraddistinti soltanto da un numero, risultassero anonimi fino alla valutazione dei migliori. La scelta dei vincitori, effettuata in collaborazione con gli Accademici di San Luca, veniva ufficializzata durante una premiazione nella quale venivano mostrati i disegni di tutti i concorrenti che rimanevano esposti nella Scuola.

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AFSP, Arm. 45, A, 55, n° 212. ASR, Trenta Notai Capitolini, Giovanni Lorenzini, 1794, c. 650. 20 Non è stata al momento rintracciata documentazione che attesti tale usanza prima del 1803. Il 5 settembre dello stesso anno tra le spese della Scuola risulta un pagamento a Biagio Augi per importo di argento e fatture di tre medaglie per i premi della Scuola del Disegno e a Giuseppe Ludi per tre astucci fatti per le suddette medaglie (AFSP, Arm. 63, C, 35, n. 4). Cfr. anche G. A. GUATTANI, Memorie enciclopediche sulle antichità e belle arti di Roma, Roma 1806, tomo II, pp. 152-154. 21 Per la cerimonia del 29 settembre 1804 sono attestati pagamenti per 200 biglietti d’invito; per noleggio di 53 sedie per li Eminenti Cardinali, quanto per li Signori Prelati, Cavalieri ed altri di maggior riguardo; per paramenti per la Cappella, Scuola di disegno e corridoi della Scuola (AFSP, Arm. 63, C, 35, n. 4). 22 L’Accademia Tiberina fu fondata a Roma il 9 aprile 1813 da un gruppo di 26 privati cittadini, dotti e letterati di tutta Italia residenti nell'Urbe con lo scopo precipuo di coltivare le scienze e le lettere latine e italiane e, particolarmente, tutto ciò che riguardava gli studi storici su Roma. 23 AFSP, Arm. 52, B, 93, cc. 200-203. 19


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Di fatto, l’intero sistema didattico si concludeva e acquisiva il proprio senso nei concorsi annuali. Su di essi si concentrava l’attività di tutte le parti in causa: gli allievi, interessati a dare il loro contributo, a superarsi e a superare i colleghi; gli insegnanti, coinvolti nella decisione del tema e del giudizio; la Scuola, in quanto con il prodotto degli allievi produceva il proprio patrimonio scientifico. Malgrado l’impegno profuso, la connotazione tipologica della Scuola non era però ancora chiara: se nell’idea di Pio VI l’insegnamento del disegno era stato visto come la base per intraprendere con competenza la professione artigiana, nella Scuola di disegno, che ben presto nei documenti ufficiali assumerà la denominazione di Studio Pubblico di Architettura civile, l’insegnamento si era spostato verso i primi elementi di architettura, con scarsi esiti nella formazione dei giovani aspiranti artigiani. Tuttavia, la Fabbrica non percepì immediatamente il divario esistente tra le aspettative degli aspiranti artigiani e la reale preparazione che la Scuola riusciva a garantire e ne mantenne per più di un decennio l’impostazione iniziale. Gli eventi connessi all’occupazione napoleonica, che tra il 1808 e il 1814 funestò il pontificato di Pio VII, comportarono per di più ampi sconvolgimenti anche nell’organizzazione del lavoro in Fabbrica, causando uno smodato incremento di personale, con grave pregiudizio degli assetti economici e amministrativi preesistenti, faticosamente raggiunti in un lungo arco temporale. A partire dal 1814 fu infatti assunto al diretto servizio della Fabbrica un gran numero di manovali, per lo più muratori “di ogni età e non iniziati nell’arte”, impiegati da principio nella ristrutturazione delle parti superiori del colonnato di Piazza San Pietro. Per gli accennati lavori straordinari che non furono, come di consueto, affidati agli artisti patentati esterni e che esulavano dall’attività dei sampietrini, impiegati in genere nei lavori di manutenzione della Basilica, il corpo dei manovali fu accresciuto di molte unità. Se dunque con il decreto del 1788 il numero dei manovali di ruolo era stato fissato a venti unità più sei soprannumerari, intorno al 1818 la Fabbrica si trovava a dover retribuire giornalmente cinquantacinque uomini24. Terminati i lavori, di fronte alla difficoltà di impegnare i nuovi manovali generici per i lavori in Basilica, fu redatto un nuovo Piano di riforma dei lavori degli artisti al servizio della Fabbrica25 che riordinava le attività a partire dalla qualifica, dal ruolo e dalle specifiche capacità di ognuno. Alla luce di questa nuova riforma razionalizzatrice relativa alla pianificazione dei lavori e alla formazione delle maestranze, non è casuale la riorganizzazione dello Studio Pubblico di Architettura civile (già Scuola di disegno) di San Salvatore in Lauro, riorganizzazione che richiederà alla Fabbrica anche un significativo impegno economico. Sin dall’istituzione della Scuola, l’afflusso dei ragazzi, soprannumerari e giovani artigiani in genere, era stato significativo dal momento che la frequenza, oltre all’apprendimento di nozioni utili, costituiva una sorta di idoneità alla pratica professionale. I religiosi videro dunque “inondato l’intero corridoio della loro casa di Giovani Artieri” 24

Per i ruoli delle maestranze impiegate a vario titolo nella Fabbrica fra il XVII e XVIII secolo si veda S. TURRIZIANI, La Fabbrica di San Pietro in Vaticano: Istituzione esemplare del “saper fare” nei secoli XVII-XVIII, in A. MARINO (a cura di) Sapere e saper fare, cit. n. 2, pp. 106-121. 25 AFSP, Arm. 52, E, 107, cc. 1030-1037. Il Piano di riforma è pubblicato in A. DI SANTE – A. GRIMALDI, Il sacro e l’umano, cit. n. 16, appendice documentaria, pp. 150-153.


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che si radunavano nell’oratorio per ricevere lezioni di disegno e, per non dovere escludere una parte di essi dall’istruzione, si decise di acquistare una casa contigua all’edificio per destinarne una parte allo Studio26. Dal 1816 fu inoltre regolamentata la frequenza da parte dei soprannumerari: i giovani aspiranti sampietrini dovevano recarsi a lezione di disegno tutti i giorni festivi e nei pomeriggi del giovedì, con l’obbligo di consegnare alla Fabbrica il certificato di frequenza che garantiva loro anche il rimborso economico delle ore impiegate nella formazione. Oltre a ciò, la vincita del concorso annuale e l’attestato di merito del Direttore divennero condizioni necessarie per l’ammissione ai ruoli effettivi: la speranza che gli allievi più bravi potessero diventare valenti sampietrini era poi confermata o smentita dall’opportunità di lavoro in Fabbrica dove potevano essere messe in evidenza le capacità di ognuno. L’impostazione didattica dello Studio, basata sui primi elementi di Architettura civile, continuava però a essere inadatta e in contrasto con l’ambiente lavorativo in cui dovevano inserirsi gli allievi, e questo a causa di un’inadeguata preparazione tecnicoesecutiva. La Scuola di disegno di San Salvatore in Lauro, pubblica, gratuita e aperta nei giorni festivi, era stata istituita per la formazione della classe degli artieri esecutori che, per poter “operare con bravura e sicurezza” e per migliorare il livello dell’artigianato artistico - in pericolo dopo la soppressione dell’assetto corporativo e non ancora in grado di competere con la produzione estera - dovevano essere necessariamente istruiti negli elementi di base del disegno. I ragazzi già avviati al disegno che intendevano invece perfezionarsi in pittura, scultura, architettura, prospettiva e nelle discipline connesse, avevano a disposizione a Roma altre ottime istituzione nate per provvedere alla formazione della classe degli artisti. Con l’insegnamento dell’Architettura, però, la Scuola non veniva più a farsi carico delle singole attività professionali degli allievi, tanto meno dei processi produttivi, manuali o meccanici e, a quasi trent’anni dalla sua istituzione, si accertava ancora la difficoltà di trovare dei bravi artieri.

Lo Studio Pontificio delle Arti Il richiamo particolare alla necessità di adattare l’insegnamento alle effettive esigenze degli allievi vide allora la Fabbrica impegnata nel rinnovamento del metodo didattico della Scuola. Fu così affidato a Giuseppe Valadier, architetto soprastante e direttore dei lavori della Basilica Vaticana, e agli Accademici di San Luca e membri della Commissione di Antichità e Belle Arti Giovan Battista Martinetti (1764-1830)27,

26

L’economo della Fabbrica Pietro Maccarani, con una supplica del 29 marzo 1817 a Pio VII, chiede e ottiene dal Tesorierato della Camera Apostolica un prestito di 3700 scudi per l’acquisto dello stabile per la Scuola di disegno (AFSP, Arm. 63, C, 37, f. 2). 27 Per le notizie biografiche di Martinetti si veda G. NICOLÒ, Martinetti, Giovan Battista, in E. DEBENEDETTI (a cura di), Architetti e ingegneri a confronto, II. L’immagine di Roma fra Clemente XIII e Pio VII, Bonsignori, Roma 2007, pp. 175-177. Cfr. anche Allgemeines Künsterlexikon. Bio-bibliographischer Index A-Z, Munchen 2000, 6, ad vocem, p. 578.


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Clemente Folchi (1780-1868)28 e Gaspare Salvi (1786-1849)29, il compito di ripensare l’impostazione didattica della Scuola per ridefinirne natura, metodo e obiettivi. Tale impegno si concretizzò nel primo regolamento scritto della Scuola di disegno, redatto a distanza di venticinque anni dalla fondazione, la cui elaborazione segna un momento decisivo per le personalità coinvolte, per le modalità di esecuzione e, non ultimo, per le prospettive educative formulate. La prima bozza del testo risale all’ottobre del 182130. Se era importante ammaestrare gli studenti negli elementi di base del disegno, non dovevano essere trascurate le cognizioni più difficili dell’arte e, in particolare, la geometria e la meccanica: le nozioni relative agli aspetti tecnico-costruttivi dovevano costituire gli elementi caratterizzanti dei corsi. Valadier propose quindi un percorso di studi fondato sull’insegnamento della geometria pratica, della meccanica e dell’architettura elementare, ritenendo le prime due discipline propedeutiche all’apprendimento della terza, e confermando la funzione essenziale del disegno come elemento unificante delle diverse manifestazioni artistiche. Fra i contributi degli altri architetti coinvolti nella redazione, concordi all’unisono sulla necessità di inserire fra gli insegnamenti proposti da Valadier anche l’Ornato, desta particolare interesse l’intervento di Clemente Folchi che individua le tre classi di artieri da preparare alla professione e i relativi insegnamenti. La prima classe, costituita dai Muratori, Falegnami, Ferrari, Scalpellini si doveva istruire nelle regole e proprietà delle figure geometriche e nel disegno architettonico limitatamente ai contorni. Alla classe dei Pontaroli, Muratori, Falegnami, Machinisti si dovevano insegnare le leggi fondamentali della meccanica, arrivando al modo di armare le volte e i tetti, di fare le puntellature, ponti, tiri31, e tutto ciò che fosse stato necessario per trasportare pesi, per innalzarli, abbassarli o sorreggerli. Il percorso formativo doveva anche prevedere la conoscenza delle macchine utili alle decorazioni teatrali, feste, fuochi, etc. Alla classe degli Stuccatori, Intagliatori, Ebanisti, Argentieri, Recamatori, Apparatori, e Decoratori era necessario invece insegnare l’Ornato cominciando dalle figure e arrivando ai disegni di ornamento e decorazioni32. Basato su questi princìpi e stampato all’inizio del 1822, il regolamento finale sancisce definitivamente la denominazione ufficiale della primitiva Scuola di disegno, non più Studio Pubblico di Architettura civile ma Studio Pontificio delle Arti. Lo Studio fu diviso in tre classi, comunemente dette scuole. Nella prima, di Geometria e Meccanica, affidata a Giovanni Azzurri (1792-1858), gli allievi avrebbero imparato a conoscere e descrivere le diverse figure geometriche fino a comprendere i loro rapporti con le manifatture, per calcolare così la superficie delle forme che abitual28

Per le notizie biografiche di Folchi si veda A. CERRUTI FUSCO, Folchi, Clemente, in E. DEBE(a cura di), Architetti e ingegneri, cit. n. 14, pp. 294-297. 29 Allgemeines Künsterlexikon, cit. n. 27, 8, ad vocem, p. 662. 30 La prima bozza del regolamento risale al 15 ottobre 1821 (AFSP, Arm. 63, C, 37, f. 5, n. 41). 31 Tratto di canapo collegato alla puleggia di ritegno di argani e verricelli. Cfr. N. MARCONI (a cura di ) Glossario dei termini tecnici in Sapere e saper fare cit. n. 2, pp. 125-153. 32 AFSP, Arm. 63, C, 37, f. 5, n. 21.

NEDETTI


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mente si incontravano nell’esercizio dei diversi mestieri. In seguito, l’insegnamento della meccanica avrebbe fornito “i precetti teorici appartenenti a tale scienza applicabili alla pratica delle armature, e macchine le più economiche ed efficaci tanto per equilibrar pesi, quanto per muoverli”. Nella seconda scuola, quella di Ornato, affidata a Valentino Severini, a partire dall’esercizio nel disegno delle parti del corpo fino all’intera figura, progredendo con il disegno dei fogliami, si sarebbe dovuti arrivare alle composizioni più complesse. Nella terza scuola, quella di Architettura civile mantenuta da Pietro Holl, per la quale erano propedeutici l’insegnamento della geometria e dell’ornato, dalla conoscenza degli ordini di architettura si procedeva fino alla rilevazione delle piante, prospetti e spaccati di “qualche Fabbrica esistente”. L’affluenza allo Studio sin dal principio fu rilevante. A settembre del 1822 si contavano cinquanta alunni che al momento dell’iscrizione avevano dichiarato la professione che si proponevano di intraprendere: otto di loro aspiravano a diventare sampietrini della Fabbrica; gli altri, scalpellini, falegnami, agrimensori, stagnari, muratori, chiavari, ebanisti, argentieri, gioiellieri, pittori. Con impegno i professori si dedicarono all’insegnamento e i concorsi annuali, le cui premiazioni finali divennero sempre più solenni33, mostravano al pubblico le capacità dei loro allievi, “e di già i poveri artisti vedevano con gioia nei loro figli e nipoti sorgere degli allievi, che a Roma Regina delle Belle Arti ritornerebbero il trascurato pregio nelle Arti meccaniche e decorative”34. Inoltre, la partecipazione al concorso annuale costituiva per i giovani studenti un’occasione importante per mostrare le proprie capacità e, al tempo stesso, la vincita garantiva un riconoscimento di merito nel mondo del lavoro. Purtroppo però, in seguito a una presunta supplica invocata dai Fratelli delle Scuole Cristiane al Papa contro il sistema da qualche anno introdotto nella Scuola di disegno, il 16 settembre del 1824 la Scuola di San Salvatore in Lauro fu sottoposta alla Visita apostolica di Cesare Guerrieri Gonzaga35, Diacono Cardinale Prosegretario dei Memoriali di Leone XII Annibale della Genga (1823-1829). Al Guerrieri fu dato mandato di esaminare il reclamo e provvedere di conseguenza. Riferendosi al Motu proprio del 1794 sull’istituzione della Scuola di disegno e senza calcolare il grave danno che avrebbe arrecato ai giovani artieri, il Visitatore ritenne che i corsi aggiunti di Geometria, Meccanica e Ornato non avrebbero dovuto più aver luogo, in quanto considerati un’innovazione arbitraria a carico dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Con la creazione dello Studio Pontificio delle Arti l’unica Scuola di disegno, voluta da Pio VI, era stata infatti sostituita con una di Geometria e Meccanica, una di Ornato e una di Architettura, “per le quali si pretendeva che si dovesse prestare dai Religiosi la

loro pazienza, o servitù, ad onta del maggior numero di Maestri, che doveano necessariamente introdursi nella loro Casa, e del maggior disturbo, che doveva loro neces-

33 Durante la cerimonia di premiazione del 1822 si tenne un concerto di circa venti elementi diretti da Giovanni Maria Pelliccia e Giacomo Orzelli (AFSP, Arm. 63, C, 38, f. 61). 34 AFSP, Arm. 12, F, 10, f. 1, cc. 17-21. 35 Cesare Guerrieri Gonzaga, mantovano, nel 1824 venne nominato da Leone XII prosegretario dei memoriali. Tale carica fu ricoperta nel 1831 anche da Castruccio Castracane. Per la storia e le funzioni connesse a tale carica cfr. G. MORONI, Dizionario, cit. n. 5, pp. 179-193.


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sariamente venirne”36. La Regola dell’Istituto dei Fratelli delle Scuole Cristiane e le

leggi della Scuola di San Salvatore in Lauro vietavano, però, l’introduzione di qualunque disciplina oltre quelle previste dalla Regola stessa e dal Motu proprio di Pio VI. Dunque, per quanto fossero utili gli insegnamenti da poco introdotti, non si sarebbero potuti mantenere senza contravvenire apertamente alle leggi della fondazione. Guerrieri decise allora che i Fratelli di San Salvatore in Lauro non avrebbero dovuto sostenere un impegno maggiore di quello previsto al momento dell’istituzione e la Scuola di disegno avrebbe dovuto essere ricondotta al sistema prescritto da Pio VI. A seguito di tali considerazioni il 29 gennaio 1825 si decretò che nella Scuola di San Salvatore in Lauro, oltre quelle gestite dai religiosi, vi fosse unicamente una Scuola di disegno, “nella quale dirigendosi la mano dei fanciulli nei lineamenti del corpo uma-

no, si conducano al disegno dei fogliami, ed ornamenti migliori, si antichi che moderni, e vengano istruiti con maniera adattate al loro intendimento nei primi elementi di Architettura Civile”37. Si tornava quindi a una posizione dalla quale con sforzo e convincimento ci si era allontanati.

Tutti coloro che avevano creduto e operato per giungere all’istituzione dello Studio Pontificio delle Arti reclamarono contro l’inopportuna risoluzione a danno della formazione pubblica dei giovani artigiani. L’Economo della Fabbrica si rivolse al Guerrieri perché non privasse gli artieri di quei mezzi che a essi aveva potuto procurare, dal momento che l’aggiunta delle scuole di geometria, meccanica e ornato non poteva considerarsi innovazione arbitraria, in quanto riconosciute regolari e pubbliche dal Governo Pontificio e come tali approvate. Inoltre la Fabbrica, con il beneplacito di Pio VII, si era assunta l’onere del pagamento annuo del professore di geometria e meccanica, il che evitava anche di incidere negativamente sul bilancio economico della Scuola. In seguito a questo esposto, il Visitatore, pur restando fermo nella sua decisione, chiese agli Architetti Accademici di San Luca di esprimere il loro parere in merito allo Studio Pontificio delle Arti. Partendo dalla considerazione che ogni restrittiva interpretazione del regolamento del ’22 avrebbe riportato l’istituzione a una situazione inadeguata rispetto agli obiettivi contemplati da Pio VI, gli Accademici manifestarono il vantaggio che la nuova impostazione didattica aveva portato ai giovani artieri. L’idea dell’istitutore era stata quella di fondare una scuola di formazione professionale, pubblica, gratuita e aperta nei giorni festivi, per tutti quei giovani poveri la cui condizione non avrebbe permesso loro di iscriversi ai corsi di architettura, ornato e meccanica presso l’Accademia di San Luca e all’Archiginnasio de La Sapienza, dove in realtà si istruivano gli aspiranti architetti “lo che richiede non solo un più lungo esercizio, ma bensì che lo spirito sia già in altra cognizio, e maniera di cui generalmente ne suole essere affatto privo l’Artiere”38. Non era però pensabile formare i giovani a tutte le professioni artigiane senza aver insegnato loro l’ornato, la geometria e la meccanica e infatti, fino a che 36 37 38

AFSP, Arm. 98, C, 39, n. 4.

Ivi.

Il documento, del 30 novembre 1824, è firmato da Girolamo Scaccia, presidente dell’Accademia di S. Luca e dagli Architetti Accademici Giuseppe Valadier, Giovan Battista Martinetti, Gaspare Salvi, Clemente Folchi, Giacomo Palazzi, (AFSP, Arm. 63, C, 37, f. 5, n. 111).


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nell’Istituto di San Salvatore l’insegnamento si era limitato alle sole linee architettoniche, poco profitto si era osservato negli artieri. Il voto degli Accademici che inequivocabilmente conferma la necessità dello Studio non ottenne però gli effetti sperati e a nulla valse la difesa dell’Istituto neanche da parte della Fabbrica, tant’è che la proposta di Guerrieri Gonzaga si tradusse in atto: alla fine del 1824 lo Studio Pontificio delle Arti fu chiuso e la ripristinata Scuola di disegno proseguì la propria attività fino a tutto il 1850, quando venne definitivamente chiusa in seguito alla morte del decano Pietro Holl. Quello che oggi stupisce è che sia stato proprio il visitatore apostolico a decretare la chiusura dello Studio mentre gli accademici laici cercarono di difenderlo in ogni modo. Forse la motivazione ufficiale, legata alla necessità di tornare all’idea di Pio VI, nasconde la volontà di Leone XII di riunire nell’Ateneo La Sapienza le varie scuole di applicazione, separando quindi il livello professionale da quello artigianale: nello stesso anno infatti, con il Quod Divina Sapientia, il Pontefice ridisegna l’intero quadro disciplinare e i contenuti della formazione universitaria39. Potendo difficilmente il nostro Studio, figlio del cantiere e destinato a giovani che non potevano permettersi di frequentare La Sapienza, rientrare nell’ambito universitario, ma essendo allo stesso tempo - per metodo didattico, insegnanti, amministrazione - molto di più di un semplice corso di cultura applicata, questo può essere stato sacrificato in virtù del disegno di più ampio respiro sostenuto dal Pontefice. In ogni caso l’esperienza della Scuola di disegno prima (1794-1822; 1825-1850) e dello Studio Pontificio delle Arti poi (1822-1824) fu unica nel suo genere: la straordinarietà dell’Istituto di San Salvatore in Lauro sta nella perfetta fusione fra teoria e pratica garantita dalla Fabbrica di San Pietro, dove l’esigenza di diverse specializzazioni e la necessità di dover far fronte quotidianamente alla manutenzione di vastissimi spazi, il più delle volte difficilmente raggiungibili, ha portato, fin dalla sua nascita nel 1506, alla ideazione e sperimentazione di tecniche e macchine successivamente esempio per tanti altri cantieri in Italia e non solo.

39

La bolla Quod Divina Sapientia stabiliva la costituzione De recta ordinatione studiorum del 1824 con la quale le scuole accademiche di Belle arti, in quanto settore dell’istruzione superiore, venivano trasferite nell’Archiginnasio della Sapienza. Si veda G. RICCI (a cura di), L'Architettura nelle accademie, cit. n. 1, pp. 63-64.


LASALLIANA

RivLas 76 (2009) 2, 309-326

Una città e i suoi maestri

Nel 170° di fondazione dell’Istituto «De La Salle» di Parma Remo L. Guidi Le simpatie della duchessa Fu Maria Luigia (1791-1847) a chiamare i Fratelli a Parma, e credo proprio lo facesse in modo autonomo, anche se di scelte libere fino ad allora ne aveva compiute assai poche: quando si sposò, Napoleone la chiese, il principe di Metternich la offriva, e Francesco d’Asburgo, suo padre, dovette cederla (1809);1 a Parma, poi, dove arrivò nel 1816, si mosse con i suggerimenti di Adam Adalbert Neipperg (1775-1829), assiduo nel farsi dare gli ordini dal Metternich, sicché questa donna, già principessa a Vienna, regina a Parigi e giunta qui come duchessa, aveva alle spalle un grumo di reminiscenze poco piacevoli, e difficile a sciogliersi. Il Neipperg, venuto in avanscoperta, le aveva detto che le finanze erano al minimo, e notizie più rassicuranti non gliele scrisse Francesco IV di Modena; una volta insediatasi in città, a dispetto della intensa vita sentimentale che la portava, istintivamente, a estraniarsi dal reale2, un dettaglio, sugli altri, finì per indisporla, trovandolo non compatibile con gli anni della sua educazione viennese quando, in quella parentesi di spensieratezza, poté dedicarsi al giardinaggio, al disegno, alla musica, o al ricamo, ed era lo spettacolo deprimente

1 In quella circostanza Charles-Joseph, principe di Ligne (1735-1814), non si trattenne da una fulminante battuta, e disse che avevano gettato in pasto al minotauro una bella giovenca. 2 «Gli amori della duchessa Maria Luigia formano quel penoso capitolo che qualunque suo biografo preferirebbe saltare», I. SCHIELD, Maria Luigia una donna che seppe amare e che seppe governare, trad. G. Cuzzelli, Milano 1983, 341.


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Luigi R. Guidi

offertole dai maestri, e riproposto dalla sciatteria audace degli alunni sulle piazze e sulle strade3. Ci volle del tempo, ma alla fine nei ricordi della Duchessa, insieme agli ormai sbiaditi per sempre fantasmi di gloria, le tornarono a mente i Fratelli che aveva visto a Parigi, senza mai, peraltro, interessarsene; si informò su di loro, e seppe che erano una sorta di milizia scelta, fondata da Jean-Baptiste de La Salle (1651-1719), dedita esclusivamente alla istruzione dei ragazzi4. Proprio quello che cercava per la sua Parma! Li fece richiedere al generale frère Anaclet (1836)5 che, ilico et immediate, si disse disposto a servirla; e infatti, pochi mesi dopo, i Fratelli entravano nell’ex convento delle Benedettine di s. Alessandro, davanti alla Chiesa Magistrale della Steccata, dove ora sorge il Teatro Regio (lì sarebbero rimasti fino al 1862), dando inizio a un’attività che, dopo 170 anni, è ancora in vita. Il vetriolo dei liberal-massoni Fare un bilancio di un arco di tempo così esteso, durante il quale si sono avvicendati nelle aule dei Fratelli, a cavallo di due secoli, un numero incalcolabile di alunni e un folto manipolo di educatori, a ridosso di accadimenti che videro l’unità d’Italia, due guerre mondiali, la nascita della Repubblica e il miracolo economico, è proposito ar-

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G. FRANZÈ, nel fascicolo L’ultimo duca di Parma, s. a. s., ricordava che Carlo III proibì ai maestri (ma nel 1853 il decreto fu esteso a tutti i dipendenti pubblici) di portare «barba o mustacchi o lunga e ridicola barba»; tuttavia più che l’abbigliamento inusitato o strambo dei maestri, turbavano la Duchessa la loro scarsa istruzione, congiunta a una pronunciata irritabilità (Pietro Giordani, che morirà a Parma nel 1848, aveva definito le scuole ‘macelli di carne umana’), con il risultato che sui 75 mila residenti nel ducato, solo novemila frequentavano le aule (cf. L. BEDULLI, nel libro scritto a più mani Maria Luigia. Storia di una sovrana e del suo ducato, edito dall’Assessorato alla cultura e alla pubblica istruzione, Parma 1992, 82s). Ma era anche alta l’aliquota di quanti non finivano gli studi. 4 Jean-Baptiste nacque a Reims nel 1651, primogenito di 10 figli, crebbe in un ambito di agiatezza e accattivanti prospettive, dal quale, però, si distolse per entrare in seminario (1670); iniziò la formazione in istituti prestigiosi, ma dovette interromperla per la morte precoce dei genitori (1671 e 72), e le sollecitudini derivategli nei riguardi dei fratelli e del ragguardevole patrimonio da gestire, per cui solo dopo l’ordinazione (1678) conseguì il dottorato in teologia (1680). Nonostante avesse offerto prove di grande determinatezza e sicure capacità autogestionali, si legò a due affermati maestri di spirito (giunti anch’essi alla gloria degli altari): il canonico Nicolas Roland (1642-1678) e Nicolas Barré (1621-1686) dai quali gli vennero preziose suggestioni per orientare le polarità del suo spirito. La sua, dunque, fu una opzione controcorrente o, come si direbbe oggi, una sfida, perché si sottrasse a ogni forma di visibilità mondana, situandosi dalla parte dei deboli e dei poveri, lui che era facoltoso e, di certo, sarebbe diventato potente. In questo quadro il programma di Jean-Baptiste, proteso con l’istruzione gratuita al risveglio morale di quanti non erano ricchi, ridiscuteva antiche certezze e privilegi atavici, finendo per suscitare lo sdegno degli ecclesiastici (i quali non gli perdonarono l’autonomia delle scelte) e dello Stato, deluso per l’indistinta gratuità delle scuole. Né sarà da tacere come il Grand Chantre di Parigi, pressato dai «maîtres écrivains», gli interdisse l’insegnamento, e, dopo che la disposizione ottenne la ratifica del Parlamento (1706), gli inflisse pure un’ammenda. Rimasto senza sostegni e alla mercé dei parroci, che si spinsero a negargli il sostentamento, Jean-Baptiste non desistette dal diffondere, a macchia di leopardo, le sue scuole in Francia (un’altra l’aprì a Roma agli inizi del ‘700); sul letto di morte (1719) lasciò ai discepoli il proprio entusiasmo, e la forza di resistere a quanti avessero voluto distoglierli da quell’impresa. 5 Era nato nel 1788 e resse l’istituto dal 1830 al 1838.


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duo; né il discorso risulterebbe più facile nel caso in cui ci si limitasse a riproporre, per sommi capi, alcuni aspetti della fervida attività intellettuale e operativa del vivacissimo circondario parmense, che fece, per così dire, da contrappunto all’azione dei Fratelli6. Premetterei, invece, come nel ripercorrere le carte di Archivio della scuola, risalta, con im-mediatezza, l’ammirevole adattabilità alle contingenze di quanti le dettero vita7, e la risolutezza tenace dei cittadini nel difenderla dai propositi irruenti degli antagonisti e dello Stato8, il quale se da un lato, con le leggi Casati (13.11.1859) e Coppino (1.6.1877), si riprometteva una drastica riduzione dell’analfabetismo ammontante al 78 per cento, dal-l’altro, in contrasto con gli uomini più illuminati dello stesso governo9, dava l’ostracismo a quelli che della scuola avevano fatto una ragione di vita10, incamerandone le sostanze per distoglierli da qualsiasi impegno volto alla educazione dei ragazzi e, dunque, del popolo11. 6

A Giuseppe Verdi, che aveva ventitré anni quando giunsero i Fratelli, fecero seguito, tra i tanti, Vittorio Bottego († 1897), Riccardo Barilla (†1947), Arturo Toscanini († 1957), Giovanni Guareschi († 1968), Ildebrando Pizzetti († 1968), Renzo Pezzani (†1961) ecc. ecc. 7 La scuola, come notavo, inizialmente fu ospitata nell’ex convento delle Benedettine, con ingresso in Via del Voltone, oggi Via Carducci; nel 1859 il ducato di Parma e Piacenza fu annesso al Piemonte, e i Fratelli, in virtù di un regio decreto (31.8.1862), vennero costretti ad abbandonare su due piedi la sede, perdendovi le loro cose, da destinarsi alle istituende scuole serali patrocinate dal municipio; passarono, dunque, nel convento di s. Paolo dove rimasero solo un anno, perché il governo, per nulla tenero nei loro riguardi, concesse il locale alla Regia Scuola Normale femminile, e per la seconda volta ne incamerò le suppellettili. 8 «L’istituto dei Fratelli delle scuole cristiane, fra noi modestamente introdotto or sono diciassette anni, vinte le diffidenze, abbattuta la malignità, onde ben sovente sono avversati i nuovi metodi, giunse in breve a farsi noto per buono, onesto e utile, a render persuase e contente le famiglie, e divenire popolato a segno da non poter quasi più bastare all’incessante affluire dei garzonetti», Gazzetta di Parma, 1853 n. 180. 9 In occasione di un suo intervento in parlamento Francesco De Sanctis aveva rilevato (1874): «l’i-struzione elementare è innanzitutto una questione di interesse pubblico come l’amministrazione della giustizia, come la guerra, come la marina, come tutti i servizi pubblici; è qualche cosa che non interessa la famiglia solamente, ma interessa tutti. Ond’è che in questo concetto l’azione dello Stato diviene principale, e l’azione dei Comuni e della famiglia diviene sussidiaria». 10 Nella legge Coppino lo stile traballa, ma il senso è chiarissimo; li, infatti, si leggeva: i «genitori o coloro che hanno l'obbligo, di cui all'articolo 1, se non abbiano adempiuto spontaneamente la prescrizione della presente legge saranno ammoniti dal sindaco ed eccitati a compierle. Se non compariscano all'ufficio municipale, o non giustifichino coll'istruzione procacciata diversamente, con motivi di salute o con altri impedimenti gravi, l'assenza dei fanciulli dalla scuola pubblica, o non ve li presentino entro una settimana dall'ammonizione, incorreranno nella pena dell'ammenda stabilita nel successivo articolo». L’articolo 4 fissava l’ammenda in «centesimi 50, ma dopo di essere stata applicata inutilmente due volte, può elevarsi a lire 3, e da lire 3 a 6 fino al massimo di lire 10, a seconda della continuata renitenza». 11 Se lo Stato espropriando i beni della Chiesa mirava a sanare il bilancio in gran dissesto, non ultimo per le guerre contro l’Austria, i Parmigiani non volevano perdere i Fratelli, pertanto li aiutarono a prendere in affitto una piccola casa nella attuale Via Pietro Giordani (Case Bricoli [1863-1868]); ma quattro anni dopo la legge li colpì nuovamente, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi; e, infatti, una fredda mattina del 10 dicembre, ebbero la visita del delegato del demanio (un certo Piazza), giunto lì a pender possesso delle loro povere cose. In quella circostanza il canonico Giacomo Battei (†1874) e un gruppo di famiglie, costituitisi in comitato, riscattarono a proprie spese arredi e masserizie, riconsegnandoli ai Fratelli, i quali poterono


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La luna di miele dei Fratelli con il Palazzo, perciò, non sarebbe durata a lungo, a dispetto dei benèfici risvolti della loro presenza in città; la vita che conducevano, infatti, non si esauriva in una immersione estatica avulsa dal reale: per essi l’itinerario che porta a Dio era materiato di concretezza, e lo si percorreva con il prossimo, promuovendone gli interessi e favorendone l’elevazione. Ne era persuaso pure Vincenzo Mistrali, presidente delle finanze del ducato, il quale sollecitando il riconoscimento giuridico dei Fratelli (protocollo n. 113014), incise un medaglione di Jean-Baptiste (1843), e nell’evidenziarne la cura mordace per lo sviluppo morale e intellettuale della società, ammise che «non si poteva piacere a Dio senza essere utili agli uomini». E le classi dei Fratelli, traboccanti di ragazzi12, ben chiarivano, per un verso, la portata di quel loro impegno13, e, dall’altro, la conformità della loro condotta a quella immagine di dinamismo sdegnoso di soste in cui si riconosceva la congregazione14; qualche tempo dopo, con fratel Placido di Gesù (1875)15, essi compravano il Palazzo Scutellari dal quale non si sarebbero più mossi16. Ed è superfluo aggiungere come la città,

lavorare, perché il benemerito canonico li ospitò a casa sua (1868), in Borgo delle Colonne ai numeri civici 21 e 23. Ad Angelo Piazza, che a Torino insisteva con le critiche contro i Fratelli, Cavour avrebbe risposto in Parlamento (1849) di considerare la Francia più in debito con il Fondatore dei Fratelli, e assai meno con quello dell’Ency-clopédie. 12 All’epoca di Maria Luigia le classi, in genere, ospitavano da 60 a 80 ragazzi; si avverta, però, che le due prime (quella alla Steccata e l’altra a s.Giovanni) avevano nel 1834, rispettivamente, 112 e 113 alunni, cf. il cit. Maria Luigia. Storia di una sovrana e del suo ducato, 82s. 13 In quest’epoca i Fratelli usufruivano del solo mese di settembre per le vacanze, da dedicarsi, in gran parte, al ritiro spirituale, alla visita in famiglia e al trasferimento; ancora nel 1921 a Parma essi avevano una media di 40 alunni per classe. 14 Il b. Salomone delle scuole cristiane (1745-1792) in prima elementare aveva 120 alunni. Un viluppo su cui gli studiosi di problemi lasalliani un giorno vorranno pur riflettere in modo adeguato, è connesso alla grande mole di lavoro svolta dai primi Fratelli; si sa, ad esempio, che alcuni di essi finirono per risentirne nel fisico. Una conferma indiretta la si ha rileggendo i capitoli X e XXVII delle Règles (J.-B. DE LA SALLE, Oeuvres complètes, Roma 1993, 12s, 27-29), dai quali si deduce come le stesse feste offrissero ben poco sollievo ai religiosi, in quanto le destinavano, in grandissima parte, a lunghe ufficiature liturgiche e a speciali lezioni nell’école dominicale. La peculiarità dell' Istituto sembra essere stata proprio quella di chiedere ai suoi membri una grande erogazione di energie fisiche e nervose. Ancora all'epoca di Pio IX, i Fratelli impegnati nell'Ospizio di s. Maria degli Angeli (1847), «per le esorbitanti fatiche e privazioni di riposo, non che per l'aria anche poco salubre, spessissimo» cadevano infermi: cf. M. CHIARAPINI, L'Istituto dei Fratelli delle scuole cristiane a Roma nei primi anni del pontificato di Pio IX (1846-1850), 50. Tesi di laurea depositata presso l'Università di Roma, Facoltà di lettere e filosofia, a.a.1977-78. Il documento citato sta all'Archivio Segreto Vaticano, Relazione dei Superiori, pos. n. 36. 15 Le benemerenze di questo insigne educatore, al quale tanto doveva la città, furono ricordate sul suo feretro da Alessandro de’ Giorgi, professore dell’Ateneo parmense. 16 L’acquisto fu fatto con la permuta delle case Battei e conguaglio in denaro, reso possibile da un prestito (da restituirsi senza interessi in dieci ani) di Mattia Ortalli il quale, a ogni buon conto, mise un’ipoteca sull’immobile; il munifico signore, scaduti i termini, prorogò la moratoria per altri dieci anni, senza verun aggravio, e venuto a morte (†1889) fece erede di tutti i suoi beni patrimoniali il vescovo Andrea Miotti, che annullò l’ipoteca rinunciando a incassare il debito dei Fratelli.


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emozionata per un simile dispiego di energie, ricambiasse con trasporto gli sforzi dei maestri17. Anzi nei momenti critici la popolazione si strinse in maniera energica a difesa del La Salle, perché le bocche da fuoco dei nemici non sempre sparavano a salve18; quanti

amano la voce dei protagonisti possono andarsi a rileggere la prosa abrasiva (ma non fu la sola19) di Emilio Casa, sulle colonne de La Domenica (1883-84) contro i Fratelli, per strappargli di dosso (come insinuava) quella maschera di santimonia ipocrita tipica degli ecclesiastici, e farli conoscere nella loro losca essenza20; ma il fegatoso giornalista riservò righe al vetriolo anche alle famiglie, ree di consegnare i figli a uomini scevri di qualsiasi dignità; esse, però, non subirono, e compatte scesero a ribattere colpo su colpo21. Con gli anni questi depositi di acrimonia riemersero, è ovvio con tinte più sfumate; tuttavia la ciclicità con cui la scuola diveniva oggetto di critiche, era segno indiscusso della sua presenza operosa nel tessuto urbano, e delle sue capacità di incidere, in chiunque la frequentasse, un sigillo morale che poteva essere discusso, respinto con

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La scuola fino al 1843 fu sostenuta personalmente da Maria Luigia, poi passò a carico dello Stato. Nei rivolgimenti del 1848 il prestigio e l’equilibrio di fratel Aventino, con il sostegno di 250 persone autorevoli, la preservarono dal naufragio. 18 Nel 1863 don Agostino Chieppi (1830-1891), adeguatosi alle disposizioni del vescovo Felice Cantimorri che vietavano i riti religiosi nella festa dello Statuto, perse la cattedra al ginnasio e fu ridotto in miseria. Il pio sacerdote scrisse su vari periodici locali (tra cui Il mentore delle famiglie, Il veridico, ma diresse anche La sveglia), fondò le Piccole Figlie dei Sacri Cuori (1876), e fu membro del Consorzio dei Vivi e dei Morti; la sua biografia fu redatta da don Giuseppe Parma, beneficiario dello stesso Consorzio. La Chiesa lo onora con il titolo di venerabile dal 1992. 19 Tennero bordone a La Domenica, l’Eridano, il Cispadano e il Tribuno del popolo. In altre parti i Fratelli dovettero temere anche il peggio. A Carrara, dopo la partenza degli Estensi, nacque «una società clandestina di circa sessanta individui i quali si surrogavano [i. e. si alternavano] giorno e notte affine di proteggere i Fratelli da ogni ostile eventualità, laonde non furono menomamente molestati». Cf. A. BALOCCO, L’effimera ‘Provincia dell’Emilia’, in Rivista lasalliana 39 (1972) 159. 20 Fu Emilio Casa a chiedersi su La Domenica (6 dicembre 1863, I, n. 37), settimanale di Parma, come mai «questi frati con il doppio marchio del gesuitismo e dell’obbrobrio sulla fronte possano sfidare impunemente l’opinione degli uomini onesti e strappare al governo il diritto di mettere la mano sulle nostre creature». La radice di una così disonorevole vergogna stava, a giudizio del benemerito Casa, nella soggezione senza riserve che i religiosi concedevano ai superiori: «l’obbedienza passiva in un frate fa sì che lungo i nervi trasmissori della volontà corra un fluido che non è il suo, ma elaborato dove tenebrosamente si cospira il male». L’anno appresso (3 gennaio 1864 n0 1) l’esilarante Emilio tornava all’attacco, ma qualcuno dovette rispondergli e questa volta, più inviperito che mai, si rivolse ai genitori che mandavano i figli a ‘istupidirsi’ dai Fratelli, e dette credito ai suoi ragionamenti appellandosi a Gioberti (17 gennaio 1864, n.3), i cui acidi corrosivi non avevano risparmiato i Gesuiti, rei di imporre la propria volontà alle Dame del sacro Cuore e (ahi noi!) ai Fratelli, facili a infliggere punizioni corporali agli alunni: «singolare esercito – concludeva don Vincenzo Gioberti - che comincia con una squa-

driglia di gentili matrone e finisce in ispidi aguzzini armati dello staffile».

21 I genitori, chiamati in causa dall’atrabiliare polemista, in 250 reagirono con forza, non riscuotendo, peraltro, la necessaria attenzione dei politici; allora pubblicarono, a proprie spese, un atto di apprezzamento per l’opera dei Fratelli.


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sdegno, non ignorato22. Ma è tipico delle istituzioni, votate a resistere nel tempo, prendere consapevolezza delle proprie potenzialità anche dal riscontro dialettico con quanti le avversano. La scuola religiosa non è necessariamente bigotta Oddio! scrivere che tra i politici e la scuola corse sempre buon sangue, significa diffondere a forza un’aura fiabesca e monocroma su un quadro di rapporti dal diagramma perfino convulso, per il senso agonistico e variegato dei confronti cui dette luogo, e la difesa (anche ad oltranza) dei propri ambiti di manovra; qualora la scuola dei Fratelli la si rivisita dentro una simile dimensione, se ne apprezzeranno l’autonomia dei contributi e la ricchezza delle proposte a largo spettro23, che se un giorno piacquero ai regnanti24, in seguito ebbero il plauso dei loro meno blasonati sudditi25. Va rilevato, inoltre, che, a dispetto delle attinenze non sempre idilliache instauratesi con lo Stato laico, i Fratelli non si fecero prigionieri di una sterile contestazione: così quando nella I guerra mondiale vennero chiamati alle armi, si misero subito in grigioverde26; e anche se con qualche comprensibile resistenza cedettero il Palazzo Scutellari alla Croce Rossa (1917-1918), perché vi insediasse un ospedale per malattie infettive (ospedale contumaciale)27, a somiglianza di quanto fatto dal blasona22 Si potrebbero recuperare qui i battibecchi irosi contro la scuola cattolica ai tempi in cui democristiani e comunisti stavano sulle barricate; e se il direttore dei Fratelli non si calò nelle vesti di don Camillo per battersi in singolar tenzone con il sindaco di turno nel ruolo di Peppone – diamine, Guareschi non era forse di queste parti? - fu solo per un maggior senso dell’umorismo espresso dai protagonisti. Però alle insinuazioni dei compagni rispose Vita nuova (foglio diocesano fondato dall’ex alunno il canonico Giovanni Del Monte), e i Fratelli ricorsero al volantinaggio per far conoscere alla città le proprie ragioni. Già in precedenza, ma a Reggio, quando si deteriorarono i rapporti con l’Amministrazione locale, frère Hervé aveva messo in scritto la sua versione dei fatti (Cenni storici e documenti ufficiali sul Maschile Orfanotrofio di Reggio nell’Emilia [26 agosto 1861]), cui risposero pure dall’altra sponda (Schiarimenti intorno ai

Cenni storici dati in luce il 26 agosto 1861 dall’Ill.ma Amministrazione dell’Albergo OrfanoMendicanti di Reggio); e la sticomitia si arricchì presto pure delle anonime Aggiunte agli Schiarimenti ecc, che i bene informati attribuirono a don Antonio Pucci. 23 Si avverta che, stando all’Almanacco Ducale (1858), i Fratelli avevano nelle loro aule 426

alunni, e a Piacenza 286 (qui nel ‘49 supereranno i 400); essi, inoltre, a Reggio ebbero la direzione del-l’orfanotrofio detto Albergo dei poveri, e in Parma quella del convitto in un’ala del Palazzo del Giardino (1858-1861), ma dal 1854 operarono anche a Sassuolo. Queste case costituirono la Provincia lasalliana dell’Emilia, di brevissima durata. 24 In seguito all’uccisione di Carlo III (1854) la reggenza passò a Maria Luisa di Barry, la quale chiese a frère Philippe un istitutore per i due figli Roberto ed Enrico; le dettero (1857) non uno, ma due fratelli: Pierre Chrisologue e fratel Casimiro Antoniotti. 25 Rilevava L. Bedeschi sulla Gazzetta (23.5.1859): «a Parma, insomma, chi tocca le ‘Scuole Cristiane’ tocca un patrimonio cittadino di cui tutti sono gelosi». 26 Il direttore fratel Adelino Cagnola fu assegnato alla Milizia Territoriale, perciò rimase a Parma, il che gli consentì, nelle libere uscite, di tornare a dirigere la scuola; lo stesso facevano gli altri Fratelli rimasti in zona. 27 I Fratelli dovettero sentirsi spiazzati da quella richiesta, restandone frastornati al punto da manifestare perplessità all’assistente (carica nella congregazione inferiore solo a quella del generale) fratel Candido, che da Roma (20.11.1917) rispondeva: «per quanto sia doloroso il dover abbandonare la nostra casa e l’opera, e sebbene saremo nel pieno nostro diritto di non cedere, tuttavia, vi sono delle circostanze in cui il comodo privato e il diritto devono cedere e, dove non arrivasse il dovere stretto, la convenienza e più l’amor patrio, devono prestarsi larga-


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to de Merode a Roma28, e nello spirito di Maria Luigia nei giorni dell’epidemia29. Essi, dunque, si trasferirono con sollecitudine nel collegio dei Teologi in Via Farini 116, e così persero solo tre giorni di scuola; quando, poi, l’Italia fu colpita dalle sanzioni in seguito alla in guerra di Abissinia, il La Salle, anche se dietro ordini dall’alto, fece la parte sua unendosi al «movimento patriottico per la difesa della Patria» (1936)30. Il poco che si è rilevato è e resta la cornice, ma questi uomini, in realtà, messi sotto una lente ad espansione cosa avrebbero dato a conoscere? Erano religiosi, dunque la loro scuola portava nello stesso genoma un’insopprimibile dichiarazione ideologica, con un preciso inserimento socio-politico che, in un contesto fervido di animosità e rivendicazioni libertarie, come quelle del secolo XIX, non poteva sottrarsi a uno scrutinio rancoroso. Dal punto di vista professionale, però, i Fratelli sembravano inattaccabili, staccando la concorrenza di parecchie lunghezze, in virtù di una consuetudine con sperimentazioni didattiche plurisecolari, archiviate nella Conduite des écoles31 da considerarsi il vademecum per ogni eventualità metodologica, disciplinare e organizzativa, attinente alla gestione dell’aula; ed era lì che si annidavano i cromosomi peculiari dell’opera svolta dai Fratelli, la prima ed unica congregazione ecclesiastica maschile dedita, in esclusivo, all’insegnamento32. mente a dare il loro contributo […]. Giovi il nostro sacrificio ad accelerare il trionfo delle nostre armi e a darci una gloriosa vittoria». 28 Preside di quel prestigioso complesso era, all’epoca, fratel Alessandro Alessandrini, il quale non esitò un momento a concedere vasti spazi dell’istituto all’esercito per allestirvi un ospedale, curandovi personalmente l’installazione della radiologia (anzi le autorità lo mandarono, non una volta, al fronte nel 1915, per organizzarvi questo servizio); inoltre attivò corsi di recupero per far sì che i soldati, durante la degenza, prendessero la licenza elementare, altri li fece iscrivere al Conservatorio di s. Cecilia, ed altri all’Accademia delle Belle Arti; quando, poi, l’ospedale si trovò a corto di effettivi, coinvolse gli alunni più grandi e le madri, impiegandoli nella cucina o nelle corsie come personale paramedico. Ma il fiore all’occhiello, per quella inusitata risposta di una scuola ai drammi della guerra, restò il Centro nazionale di Rieducazione dei ciechi e dei mutilati: per quegli ospiti il Fratello organizzò una mostra di pittura (visitata dalla regina Elena), nella quale espose, tra gli altri, Alfredo Panzini autore del delizioso Dizionario moderno, cf. fratel REMO, Lasalliani in Italia, a.2, n. 7, p. 37. 29 In quel temibile contagio la duchessa fece visita agli ospedali, consolò gli ammalati, inginocchiandosi accanto a quelli che, per mancanza di letto, stavano per terra, aiutò le famiglie dei colpiti con denari e viveri, I. SCHIELD, Maria Luigia una donna che seppe amare e che seppe governare, cit., 351. 30 Le sanzioni, imposte dalla Società delle Nazioni, entrarono in vigore il 18.11.1935; un mese dopo ci fu la Giornata delle fedi, in cui le donne dettero gli anelli nuziali e i loro gioielli a sostegno della patria. In quella circostanza si promosse il risparmio energetico e il riciclaggio dei materiali, evitando tutti gli sprechi. Il dottor Ciro Mantovani, fiduciario del fascio rionale Ungherini, giunse al La Salle per complimentarsi con i Fratelli, e autografò le carte firmandosi fa-

scisticamente il 340 giorno del-l’assedio economico. Vedila in J.-B. DE LA SALLE, Oeuvres, cit. 595-729. 32 «La charta della pedagogia lasalliana è consegnata nella Conduite che si presenta come un 31

trattato singolare e inconfondibile, perfettamente definito nella impostazione e negli sviluppi […]. Un prontuario dinamico, vivo, sempre di attualità, a cui i Lasalliani si sono tenuti nell'insegnamento, pur con le innovazioni e evoluzioni richieste dai tempi. Frutto, dunque, di intense sperimentazioni, di riflessioni, di comunicazioni e di confronti, la Conduite è nata dal vivo e dal vissuto nel quotidiano esercizio dell'insegnamento dei Fratelli delle origini che, convocati periodicamente da Monsieur de La Salle, hanno saputo socializzare le esperienze, i successi e anche gli inevitabili inconvenienti. La ricchezza della Conduite consiste appunto in questa sintesi di esperienze dei Fratelli che sottopongono comunitariamente a vaglio critico il loro vissuto pro-


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Il conio religioso della formazione lungi dal compromettere i traguardi laici dello Stato poteva farsene struttura portante in molti casi33, né è credere che i Fratelli, per crearsi un seguito di aficionados in quegli anni di acri contrasti, fossero disposti a ingraziarsi le famiglie mercanteggiando su quelli che erano gli obblighi di maestri. A difenderli da una simile insinuazione c’è un ghiotto fatto di cronaca, da collocarsi nei primissimi anni della loro presenza a Parma, quando la vivacità di due indocili pargoli innescò una vivace reazione nel-l’inflessibile direttore, e ci volle del bello e del buono per ricondurlo a più miti consigli, perché voleva espellerli34. Questo perché il progetto educativo non era delegabile ai soli maestri, né le famiglie potevano autoescludersi, in quanto dalla coassialità delle loro interazioni, i ragazzi avrebbero conseguito una crescita più armonica e integra35; ma anche la stessa formazione religiosa dell’alunno esigeva molto rispetto, e più che metterlo nei ceppi dei divieti, intimidendolo con drastici imperativi, quasi a volergli togliere ogni fantasia e creatività, era auspicabile affrancarlo da controproducenti costrizioni arbitrarie36, per dimostrargli, con il vissuto fessionale a contatto con gli alunni, i genitori, gli insegnanti», S. SCAGLIONE, Le edizioni della

‘Conduite des Écoles’, Rivista lasalliana 58 (1991) 155s. 33

Si noti come frère Agathon presentava al maestro la virtù della prudenza, per fargliela apprendere: «la prudence est une vertu qui nous fait connaître ce que nous devons éviter, en nous indiquant les moyens sûrs et légitimes de parvenir à une fin louable. Elle détermine donc l’usage que nous devons faire de notre esprit, pour prévenir le repentir en chacune des démarches ou des entreprises de la vie. Au reste les moyens qu’elle emploie seront toujours légitimes s’ils sont inspirés par la raison ou par la foi, et il seront sûrs, s’ils ne sont insuffisants ni excessifs», Les douze vertus d’un bon maître par le vénérable de La Salle [...] expliquées par le frère Agathon, Versailles 1856, 36. - Le pagine dedicate alla prudence stanno a 36-51. Però anche ne Les douze vertus, vocaboli quali equilibrio, moderazione e sinonimi, visti in senso assoluto e degni, in sé e per sé, di essere studiati, compaiono piuttosto di rado, come, ad esempio, nel caso che segue: «elle [i. e. la correction] doit être modérée, c’est-à-dire, qu’elle ne soit ni trop forte, ni précipitée. Trop forte, elle pourrait aigrir, révolter, donner lieu à la haine, ou décourager; précipitée, elle pourrait n’être pas juste ni convenable» (op. cit., 127). Su questo scritto si vedano frère HENRI, Le douze vertus d’un bon maîtres: édition princeps et re-éditions, Bulletin des Ecoles Chrétiennes 42 (1961) 86-90; G. RIGAULT, Histoire générale de l'Institut des Frères des Ecoles Chrétiennes, Paris 1937-1953, II, 589-594 (per inquadrare il libro nel tessuto connettivo della pedagogia contemporanea); J. HERMENT, La doctrine spirituelle de saint Jean-Baptiste de La Salle, Namur-Bruxelles 1948, 170-186. 34 I due figli del farmacista Giacomo Pozzi andarono incontro alle sanzioni disciplinari della scuola, e a far recedere lo spigoloso fratel Michele, il farmacista pensò di ricorrere ai buoni uffici della intellighentzia locale e, in specie, del conte di Bombelles, che si ebbe questa risposta da chi gli professava «gli umili sensi del suo rispetto e la più profonda venerazione» (17 maggio 1839); i due piccoli impertinenti nel loro pedigree di indisciplina esibivano «il mancar sovente ai loro doveri scolastici ed il non voler riconoscere il fallo commesso; l’ostinarsi nei loro sentimenti volendo fare a proprio modo e sovente con iscandalo e disturbo della classe e del maestro; il villanamente rispondere […]; la bugia […]; il frequente battersi o fra loro o coi condiscepoli, istigandosi con parole insultanti, contumeliose […]». Ma la goccia che fece traboccare il vaso, per cui il direttore voleva espellerli, «fu l’essere fuggiti in giorno di festa dopo la santa messa, in luogo di recarsi con gli altri in iscuola a compiere a un dovere di religione».Ecco perché i due, pur riammessi, dovevano assolutamente cambiare condotta. 35 Lo ebbe a ripetere il direttore ai presenti, convenuti al cinema Verdi il 13 maggio 1950 per la festa dei premi. 36 Fratel Contardo all’inizio dell’anno 1959, per far comprendere a tutti la disponibilità del corpo docente, ricorse a una immagine piuttosto rustica, ma efficace: «si può accompagnare il cavallo al-l’abbeveratoio, ma non lo si può costringere a bere».


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di ogni giorno, come si poteva essere religiosi e liberi, onesti e utili, figli di Dio e sensibili alle sorti della società e della patria. In tal senso non sarà da trascorrere sotto silenzio la collaborazione instauratasi tra i Fratelli e padre Lino Maupas eroico francescano (Spalato 1866-Parma 1924), per un trentennio cappellano della ss. Annunziata e delle carceri (di lui ricordiamo l’energica azione moderatrice durante la settimana rossa37); dietro sua richiesta quattro Fratelli entrarono nella casa circondariale per preparare i ragazzi alla prima comunione e alla cresima, e anche dopo la morte del frate essi mantennero a lungo i contatti con quegli elementi fuori quadro, certi di non discostarsi dalle scelte di Jean-Baptiste38. Una povertà ilare e operosa Il La Salle era avviato a trasformarsi in una palestra in cui le nozioni davano innesco a metabolismi segreti, ma non ingannevoli, ad opera di maestri oberati dalla fatica ma disponibili, esperti e colti ma semplici, capaci di parlare ma propensi all’ascolto, quali espressioni di una vita ricca di interiorità per quanto povera di mezzi, densa di impegni per quanto avara di gratifiche. Vivevano con naturalezza in un contesto di rinunce senza deprimersi, sì da promuovere l’interessamento di quel fine conoscitore di uomini che fu don Bosco, già in ottimi rapporti con i Fratelli a Torino39, per cui,

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Nel giugno del 1914, dopo un comizio tenuto ad Ancona, la polizia sparò sui manifestanti, per cui, a quel gesto inconsulto, risposero fragorose manifestazioni di piazza soprattutto nelle Marche e in Romagna; la prosa sanguigna di E. BEVILACQUA ritraeva così i dimostranti: «la plebaglia, tumultuante per gli angiporti di Parma Vecchia, si avventa imbestialita contro ogni simbolo d’autorità: della religiosa non meno che della civile. Chiese e conventi diventano bersaglio di stolide manifestazioni […]. Ma intorno al convento di padre Lino correva come una parola d’ordine tra quelle furie scatenate: qui no: qui c’è padre Lino». E quando 60, tra i più accesi furono processati, la testimonianza del francescano li fece assolvere, cf. I fioretti di padre Lino da Parma, Bologna 1971, 93s, 96s. Il santo frate si spense di schianto nel pastificio Barilla, dove era andato a chiedere l’assunzione di un suo ragazzo. – Sui rapporti tra la spiritualità dei Francescani e quella dei Fratelli si possono leggere le pagine di R. L. GUIDI, Aspetti francescani nel pensiero di Jean-Baptiste, in J.-B. de La Salle: un problema storiografico del Grand Siècle, Roma 2000, 291-380. 38 Il gentiluomo francese de La Salle rivolse la sua pedagogia innovativa anche a una pension de correction, e a una pension de force per ragazzi disadattati o difficili (quello di Saint-Yon accoglieva «les plus indésirables des pensionnaires» [G. RIGAULT, Histoire générale de l'Institut des Frères des Ecoles Chrétiennes, Paris 1937-1953, II,323]; conferme vedile in frère LUCARD, Annales de l’Institut des Frères des Ecoles Chrétiennes, Paris 1883, II, 210s); cf., inoltre, fr. S. SCAGLIONE, La Salle, in Enciclopedia pedagogica, Brescia 1989-1995, IV, 6561-6563; Les Frères et l’éducation des prisonniers en France; Valle di Pompei et son Orphelinat, in Bulletin des Ecoles Chrétiennes, rispettivamente, 3 (1909) 28-63 e 6 (1912) 234-256, molto eloquenti qui le foto dei ragazzi incluse a 252s, 255; cf. ancora E. A. FITZPATRICK, La Salle Patron of all Teachers, Milwaukee 1951, 392-403 e, da ultimo, vedi anche M. PRESCIUTTINI, L’opera socioeducativa di B.Longo in favore del mondo degli emarginati, Rivista Lasalliana 49 (1982) 152194. 39 Rilevava don A. CAVIGLIA (Opere e scritti editi e inediti di Don Bosco, Torino 1929, I, II, 6ss): «l’intimo e assiduo contatto con la Comunità e le Scuole dei Fratelli, porse a Don Bosco il mezzo di studiarne i metodi pedagogici, la Condotta delle Scuole e quelle che i figli del La Salle chiamano Le dodici virtù del buon Maestro. Ed ebbe a guida in questo studio, che ognuno comprende quanto gli sia tornato profittevole, quel profondo conoscitore della pedagogia lasalliana che fu il Fratello Hervé de la Croix, allora Visitatore Provinciale dei Fratelli per l’Italia Su-


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capitato a Parma (19. 2.1873), ritenne utile visitarli40, quasi a constatare de visu quella esperienza comunitaria di alto profilo. Certo la generosità e la munificenza dei Parmigiani, note fin dai tempi remoti41, si attivava per favorire i Fratelli, ma ad essi venne meno, quasi subito, quella tranquillità di sussistenza che Jean-Baptiste de La Salle (in totale accordo con le tradizioni dei Francescani42 e delle monache di clausura43) voleva fosse sempre garantita ai discepoli,

periore […]». Asserzione da condividersi, perché don Bosco frequentò a lungo le case dei Fratelli, dove incontrava i ragazzi (il b. don Michele Rua, suo primo successore, era tra questi), e perché convalidata dalla lettera con la quale il santo dedicava a frère Hervé la sua Storia Ecclesiastica ad uso delle Scuole (Torino, Tipografia Speirani e Ferrero, 1845). La lettera merita di essere riletta:

«Onoratissimo Signore, la stima e il rispetto che professo a V. S. Onorat.ma m’impegna a dedicarle quest’Operetta, unico omaggio che le possa offerire. So benissimo, che si opporrà la modestia di Lei ed umiltà; ma siccome essa è stata scritta unicamente alla maggior gloria di Dio, ed a vantaggio spirituale principalmente della Gioventù, nel che Ella indefessamente si occupa, così le verrà tolto ogni pretesto di opposizione. Si degni adunque riceverla sotto la potente di Lei protezione; non sia più mia, ma sua, e faccia sì che scorra per le mani di chi vorrà giovarsene; mentre ho l’onore di potermi dire col più profondo ossequio, e colla più alta venerazione, di V. S. onorat.ma umil.mo ed obb.mo servitore sacerdote B.G..», segnalato da S. SCAGLIONE, Nel primo centenario della morte di s.G. Bosco. Don Bosco e i Fratelli delle Scuole Cristiane, Rivista Lasalliana, 55 (1988) 11s. 40

[Don Bosco] «risalì in treno con don Berto alle 7.30 e proseguì per Parma. Quivi scesero e furono ospiti dei Fratelli delle scuole cristiane, nel Borgo delle Colonne, e dormirono là presso in casa di un buon sacerdote, il canonico mons. Giacomo Battei. All’indomani don Bosco celebrò la messa della comunità e fece un sermoncino che piacque tanto per l’ammirabile semplicità», G. B. LEMOYNE e A. AMADEI, Memorie biografiche di s.Giovanni Bosco, S. Benigno Canavese-Torino 1898-1917, vol. X (1871-74), 465. La pubblicazione è pro manuscripto. 41 Una bolla di Alessandro VI elargiva (1493) l’indulgenza plenaria a quanti visitavano la «domum sanctae Mariae virginis de Steccata», facendo offerte pro «pauperibus puellis maritandis»; e nell’Ar-chivio di Stato di Parma c’è una pergamena miniata del 1518, con la quale Leone X concedeva alla confraternita dell’Annunciata la facoltà di raccogliere le offerte per lo stesso scopo. Si avverta, però, che iniziative del genere non erano infrequenti in quel tempo. C. SCHERILLO, nel resoconto di un suo viaggio, interessandosi dei programmi assistenziali in atto nel nord Europa, non dimenticò di ricordare le attenzioni che lì si riservavano alle ragazze povere per facilitarne le nozze (cf. De Republica Norica, Biblioteca Marciana di Venezia, X, 302 [3558] 7rv). - Anche nel secolo seguente l’atten-zione per questo aspetto della carità raccolse molti consensi; e infatti su 73 capitoli di compagnie studiati da M. FUBINI LEUZZI, circa la metà si facevano un obbligo specifico di aiutare le ragazze povere nel crearsi la dote (Protezione del

matrimonio e assistenza femminile: aspetti disciplinanti delle doti di carità in Toscana in età moderna, Archivio Storico Italiano 156 [1998] 485); merita la segnalazione un milanese che,

tra i cospicui lasciti in beneficenza (1407), legò 50 ducati d’oro «usque in perpetuum distribuendos pauperibus puellis nubendis et carceratis et aliis pauperibus» (BALZARINO DA PUSTERLA, Testamento, Archivio Storico Lombardo 14 [1988] 291). - Boffillo Cicinello aveva maritato otto ragazze, e alla sua morte concesse loro anche un lascito, cf. Il convento francescano di s. Lorenzo di Napoli. Regesti dei documenti dei sec XIII-XV (Il), ed. R. Di Meglio, Salerno 2003, n. 34. 42 Innocenzo VIII, infatti, nell’accogliere la richiesta fattagli di erigere un convento per i frati, ritenne doveroso ripetere quali dovevano essere le sue imprescindibili dotazioni (1484): «mandamus quatenus […] domum praedictam, cum ecclesia, campanili humili, campana, cimiterio, claustro, refectorio, dormitorio, hortis, hortalitiis et aliis necessariis officinis […], in huiusmodi


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prima di mandarli stabilmente in un luogo. Si può dire, dunque, che, in non poche circostanze, e per periodi non brevi, i Fratelli vissero quasi di espedienti. In una ideale galleria riservata ai munifici benefattori del La Salle, un posto di riguardo spetta al glorioso Consorzio dei Vivi e dei Morti44 che, soprattutto attraverso il canonico Carlo Merli, subentrato al Battei, e il laico Giovanni Canali, non solo li favorirono in ogni modo, ma entrambi li fecero eredi delle proprie case in Borgo delle Colonne e in Borgo Felino, in quanto i carichi di lavoro dei Fratelli erano ingenti e le entrate così magre, da imprigionarli in una temibile camicia di Nesso45, stando a una carta d’Archivio: «a tale stato sono ridotte le cose dei Fratelli, che veggonsi venir meno il necessario al vitto quotidiano, [sicché] costretti sarebbero a cessare l’opera loro loco congruente et honesto […] construi et aedificari faciendi […] auctoritate nostra licentiam concedatis», Bullarium Franciscanum, Nova series IV, n. 71. 43 I regesti de Il monastero femminile domenicano dei ss. Pietro e Sebastiano di Napoli (ed. A.Ambrosio, Napoli 2003) fanno conoscere le possibilità che nei secoli XIV-XV consentivano alle recluse di vivere; va premesso, pertanto, che 40 era il numero massimo delle ospiti (cui vanno aggiunti i sei Domenicani incaricati della cura monialium» [documento n. 199]), e la dote minima richiesta alle postulanti ammontava a 80 ducati d’oro (399); altre risorse provenivano dai diritti di caccia e pesca (536, 182, 191 e 556), da locazioni (171, 174-175, 267-269, 270, 452-453. 458 ecc.), dalle vendite e permute dei beni immobili, dai diritti di patronato su un gran numero di chiese (riassume le varie fonti di reddito il regesto 199), e dalle cospicue offerte versate da quanti volevano garantirsi la sepoltura (e dunque i suffragi) nella chiesa di s. Domenico Maggiore (520). Se mancavano le risorse, la vita diventava impossibile, come accadde alle Terziarie di Foligno il cui estremo disagio è ben riassunto dall'incolto latino del regesto (1488): «carent decentibus clausura, oratorio, hortis, hortalitiis et aliis necessariis officinis, ex quo ministra et sorores, in communi et ex suo manuali exercitio ac incerta mendicitate viventes, nequeunt sua vota Altissimo cum commoditate persolvere; ideo petunt facultatem [...]», Bullarium Franciscanum, Nova series IV,1323. Situazione analoga, tra l'altro, in loc. cit. , 2437. 44 I documenti del Consorzio custoditi nell’Archivio di Stato in 500 buste, coprono gli anni 1263-1918 (P. FELICIATI e A. BARAZZONI, Synopsis ad invenienda […], Parma 1994, 212); da quelle carte risulta che il gruppo, oltre agli interessi filantropici (gestì, tra l’altro l’ospedale s. Ilario) ebbe a cuore l’arte sacra, allogando affreschi nell’ospedale e nella propria cappella al duomo, dove collocò pure una Visitazione della Vergine (opera di Francesco Monti [1496]) e una Madonna con Bambino in trono (firmata da Cristoforo Casella [1499]). Al fianco del Consorzio furono attive in città, fin dal medio evo, le confraternite nei cui ospizi trovarono accoglienza pellegrini e infermi, M. PELLEGRI, Gli Xenodochi di Parma e provincia dagli inizi al 1471, estratto da Parma nell’Arte 1972-73. – Per un inquadramento generale delle confraternite, si veda il classico lavoro di G. G. MEERSSEMAN, Ordo Fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, Roma 1977. 45 Il pio canonico, in una allarmata petizione al massaro del Consorzio, ne sollecitava l’interessamento per i Fratelli, in virtù della loro estrema indigenza e dell’opera meritevole alla quale attendevano (1890): «la rivoluzione vorrebbe sbandito nelle scuole il catechismo, ma questo è provvedimento riprovevole, perché viene a togliere anche quest’argine all’eresia, all’incredulità irrompente, e lascia aperta la via ad un nuovo genere di straniera invasione, tanto più funesta e perniciosa del-l’antica, quanto più direttamente mira a rapire dal cuore dei giovani il prezioso tesoro della fede e dei frutti che ne derivano». Sempre l’intraprendente Merli, che aveva «l’incarico dalla curia vescovile di raccogliere offerte per questo santo e derelitto istituto» dei Fratelli, li presentava a Maria Teresa d’Asburgo d’Este, moglie di Henri Chambord, (18201883) pretendente al trono di Francia (anzi temporaneamente proclamato re con il nome di Enrico V), sollecitandone la generosità (1883), perché «poveri e bisognosi di tutto, reietti dal governo e dal mondo, aiutati da pochi benefattori, i quali non hanno mezzi sufficienti per vivere».


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senza un pronto soccorso»46. Sic stantibus rebus Felice Cantimorri, roccioso vescovo di Parma per quattordici anni, istituì una commissione per «riuscire a conservare i Fratelli»47. I superiori della congregazione erano al corrente di quei disagi48, non ignoti neppure agli ecclesiastici49 e, soprattutto, al pio presule Guido M. Conforti50 legatissimo ai suoi antichi maestri, sì da ricordarne con gratitudine la formazione ancora a due anni dalla morte51; la vita frugale e i continui risparmi, oltre a rendere i Fratelli molto at46 Certo per essi, stando a tavola, non c’erano in agguato i pericoli che incombevano sugli ospiti di Maria Luigia, i quali, pur limitandosi ad assumere un quarto di quanto veniva posto loro dinanzi, incameravano circa 4300 calorie, stimandole con le tabelle attuali; la composizione centesimale e, quindi, il contenuto calorico di certi alimenti dal 1839 ad oggi è cambiato, pertanto resta difficile calcolarla, M. ZANNONI, A tavola con Maria Luigia. Il servizio di bocca della duchessa di Parma dal 1815 al 1847, Parma 1991, 295. 47 Felice Cantimorri (1811-1870) entrò tra i Cappuccini (1828) e svolse l’apostolato in Romagna, conquistandosi le simpatie di Giovanni Maria Mastai Ferretti, all’epoca arcivescovo di Imola, il quale lo inviò alla sede di Parma (1854), che all’epoca aveva 305 parrocchie poste in insediamenti demici a forte contrasto politico; l’indole rigida del presule, portato allo scontro, lo spinse ad assumere disinvolte posizioni di rottura, al punto che, per non incontrarsi con Vittorio Emanuele in visita a Parma, prese la strada di Roma rimanendovi tra il 1860 e il ’61, né pago sospese a divinis i preti recatisi ad ossequiare il re. Ma i politici lo penalizzarono con ritorsioni economiche e il domicilio coatto, per cui fu bandito a Cuneo per cinque mesi. Si spense sulla strada di Bagnoregio (Viterbo), patria di s. Bonaventura. 48 I superiori generali frères Irlide (1814-1884) e Imier (1855-1927), giunti in città in anni diversi (la carica in quegli anni era a vita), lasciarono sostanziose offerte alla comunità. Il buon fratel Candido, però, ai cui ordini stavano tutti i Fratelli italiani, ignorava (?) lo status quaestionis, e in una lettera al direttore della comunità gli scrisse senza perifrasi, a proposito dei contributi da versare al centro (1921): «abbiamo pensato che Parma, con una buona amministrazione, potrebbe dare 2000 lire invece di 1000 lire. Son certo che lei farà ben volentieri questo sacrificio». 49 L’abate Caronti, per tutto il 1929, mandò gratuitamente un monaco a dire la messa delle 8.30 al La Salle, e senza compenso prestava il servizio anche don Allavena. Emanuele Caronti (1882-1966) abate del s. Giovanni (1919), poi ai vertici della Congregazione Sublacense, fondò la Rivista Liturgica, e fu maestro ascoltato di Celestina Bottego (fondatrice delle Missionarie di Maria, dette Saveriane), Benedetta Carparelli e Scolastica Passante fondatrici delle Oblate benedettine di s. Scolastica. I rapporti di reciproca stima intercorsi tra i Fratelli e i monaci di s. Giovanni erano promossi anche dalla profonda venerazione che Jean-Baptiste de La Salle ebbe per s. Benedetto, cf. R. L. GUIDI, Il silenzio monastico di Jean-Baptiste, in J.-B. de La Salle: un problema storiografico del Grand Siècle, cit., 215-289. 50 E’ sua la disposizione che segue, presa il 18.8.1913: «per sovvenire alla Scuola de La Salle in città, specialmente per la completa gratuità della classe quinta elementare agli alunni poveri, la Curia vescovile di Parma debitamente autorizzata dalla S. Sede, si assume l’obbligo di fare celebrare d’ora in poi dai parroci e nei giorni in cui questi dovrebbero celebrare per il popolo, duemilacinquecento Messe che la Direzione della predetta scuola metterà a disposizione della Curia ogni anno, e delle quali tratterrà l’elemosina». A soli 37 anni Conforti fu fatto arcivescovo di Ravenna (1902), ma a causa di un fisico malato e indocile (era afflitto da epilessia e sonnambulismo) dovette presto rimettere a Leone XIII il mandato; con il tempo migliorò, al punto da succedere a Francesco Magani proprio nella sua Parma (1907), che resse per 25 anni. Fondò l’Istituto per le Missioni estere (Saveriani). Alla sua morte (1931) la schola cantorum del La Salle eseguì la messa di Campodonico a due voci e accompagnamento d’archi. Il pio vescovo fu beatificato insieme a Daniele Comboni nel 1992. 51 Scriveva al Provinciale (1929): «ho appreso che gli ottimi Fratelli delle scuole cristiane celebrano in quest’anno il primo centenario del loro Distretto di Torino. Dio solo può computare il


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tenti nell’amministrarsi, non dovettero preservali da una certa fermezza nell’esigere le proprie spettanze52, e da qualche striatura un po’ asprigna nei modi53; c’erano, però, i debiti da estinguere, i locali che reclamavano le migliorie risentendo degli anni, e il vivo delle spese quotidiane. Ciononostante essi non caddero nell’apatia; inoltre, e forse si stenterà a crederlo, seppero anche essere munifici54, finendo per risultarne ripagati da una città in grado di comprendere e disobbligarsi con gesti di estrema delicatezza55. Un centro polivalente nel cuore della città Solo in modo riduttivo si potrebbe confinare l’operosità dei Fratelli nelle aule, perché tra la scuola e Parma c’è stata una continua interazione con rapporti di reciprocità, quasi che il dissociarsene, o il procedere su assi asimmetriche, dovesse risolversi in

bene da essi compiuto in questo tempo. Io lo argomento dall’esperienza degli anni più belli della mia vita, nei quali ebbi questi eccellenti precettori a guida amorosa e saggia nei primi passi dati nella via della virtù e del sapere. E pensando a quell’età lieta e serena e all’influenza da essi esercitata sulla mia mente e sul mio cuore, sento di doverli proclamare, facendo eco in questo al giudizio di tanti uomini grandi, educatori incomparabili. Auguro a Torino la sorte di vedere ancora per lungo volgere di tempo, l’azione altamente benefica di questi umili e valorosi apostoli della gioventù». 52 L’Archivio del La Salle restituisce l’attrito verificatosi proprio con un principe del foro, il quale sostenne, in coscienza, d’aver soddisfatto il credito delle 450 £ che la scuola si ostinava ancora a richiedergli (1934); se mai, ma per sola longanimità, avrebbe saldato il corrispettivo per i tre mesi di scherma (lezioni che il figlio avrebbe preso di sua iniziativa, senza parlarne a casa); dopo due anni l’esimio l’avvocato non mostrava cenni di cedimento, sì che il direttore ebbe a scrivergli con una certa impazienza: «Le pare Signor Avvocato che i Fratelli delle Scuole Cristiane che insegnano ai giovani l’onestà e la sincerità, cerchino poi di imbrogliare le famiglie che li affidano loro […]? Guardi, Signor Avvocato, io sono disposto a transigere, e cioè a cancellare tutto ciò che si riferisce al dopo scuola: quello è lavoro di noi Fratelli e transeat ! Ma quanto alle lezioni di scherma che questa Direzione ha già pagato al professore […] non possiamo rimetterci». 53 Fratel Ernesto annotava (1936): «la popolazione che verso i Fratelli aveva assunto negli ultimi anni una specie di broncio e aveva fatto sentire per mezzo di lamenti tramandati di bocca in bocca il proprio risentimento per le troppe richieste di denaro, pel modo di richiederlo, per certe maniere poco cortesi nel trattare la gente, e per certe preferenze fatte più ai ricchi che ai poveri, si dimostra ora rasserenata, benevola verso i Fratelli di cui parla bene». 54 Essi, ad esempio, raccolsero 250 £ per contribuire alle solennità per il sesto centenario della morte di Dante da tenersi a Ravenna; iniziative analoghe, e con sistematicità, vennero prese a sostegno dell’Università Cattolica, delle missioni e della Croce Rossa. La scuola, inoltre, organizzava concerti, devolvendone il ricavato ai poveri della parrocchia del Duomo (1938); creò borse di studio per un seminarista e alunni meritevoli; diede in dono un ricco calice d’argento a don Luigi Parenti, in segno di gratitudine per i suoi servizi liturgici domenicali (1430); ma venne in soccorso indistintamente anche degli alunni, come deduco da una carta non datata, che prendo dall’Archivio del Centro La Salle a Torino (faldone 21): «per quelli che lo desiderano si dà una refezione consistente in minestra, pane, pietanza, vino e frutta, mediante tenuissima retta». E a proposito di refezione va notato che i Fratelli ebbero in Lisandro Burgundi un cuoco affezionatissimo, il quale si interessava della istituzione «come se fosse di famiglia», sì da suscitare ampio rimpianto nel licenziarsi (1938) . 55 In piena guerra le mamme donarono paramenti e argenteria sacra alla cappella (1942); in quella circostanza l’istituto volle che a inaugurarli fosse l’abate Carlo de Vincentiis (eletto nel 1937), poi abate fondatore del monastero di s. Pietro di Sorres in Sardegna (1955).


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danno vicendevole: la canonizzazione di Jean-Baptiste (1900) non era un fatto privato, e richiedeva il coinvolgimento della città tutta56; e lo stesso accadde nel 1925, ricorrendo il «secondo centenario dell’istituzione della congregazione»: la comunità stampò quattro pagine in formato atlantico, votate alla glorificazione del fondatore e del suo messaggio. E un analogo intento si ebbe nel 1951 quando, in accordo con i colleghi della Don Gnocchi, i Fratelli concordarono insieme i festeggiamenti per il terzo centenario della nascita di Jean-Baptiste57. La città, insomma, avvolta da una rete vascolare di contatti si compenetrava nella istituzione, interagendovi con scioltezza e professionalità, in uno spaccato di armonica cooperazione58: i canonici, infatti, sponsorizzavano le offerte per la scuola, il vescovo ne condonava debiti, gli abati venivano a tenere panegirici; e converso il La Salle accoglieva i ragazzi curandone l’istruzione e le belle maniere, la schola cantorum si rendeva complice nei festeggiamenti per la beatificazione di Luisa di Marillac (1591-1660) nella chiesa di s. Rocco (1920); ma partecipava anche al congresso eucaristico emiliano, esibendosi con accompagnamento della banda e dell’orchestra (1924)59; il coro, inoltre, non temeva di cimentarsi con il gregoriano durante il pontificale di mons. Bruni (sempre nel 1924), e in qualche circostanza straordinaria, in simbiosi con i Benedettini, cantò la messa Sancti Gervasii et Protasii di Lorenzo Perosi, per voci dispari; la performance piacque non poco, sì da essere ripetuta al cospetto di un pubblico straripante e a ben 25

56 La comunità emise un comunicato in cui i ragazzi tutti, senza limiti di quartiere, credo politico e ruolo sociale dovevano far festa (4.12.1900): «tutta la gioventù di cuor gentile sia unita nell’onorare il genio e la santità del La Salle, e ad essa si affratellino gli antichi alunni delle scuole cristiane e tutt’i buoni che dal risveglio poderoso della fede e dal ritorno all’educazione cristiana della gioventù, si ripromettono età novella di pace e di prosperità». - Fu in questa circostanza che la scuola prese il nome di La Salle. 57 Per l’occasione giunse da Milano fratel Beniamino, e tenne due conferenze nel teatro del Convitto Maria Luigia (Il maestro secondo la concezione lasalliana; Jean-Baptiste celeste patrono degli insegnanti), e furono cooptati presidi e professori di tutte le scuole, che intervennero con alla testa il provveditore. Ma la Gazzetta, altre volte così vicina al La Salle, preferì mettere la sua autorevolezza a servizio della contemporanea vertenza sindacale degli insegnanti. Da Vercelli si fece giungere, inoltre, un predicatore di grido, ovviamente ex alunno (don Cesare Martinelli), che tenne un triduo nella chiesa abbaziale di s. Giovanni Evangelista, privilegiando l’aspetto ascetico del santo. La messa pontificale di chiusura, con canti a voci dispari (coro della scuola e voci oscure dei Mutilatini), la celebrò il vescovo Evasio Colli, che cedette il panegirico a don Carlo Gnocchi il quale illustrò, alla presenza del prefetto dottor Giuseppe Meneghini, le riforme didattiche di Jean-Baptiste non senza avere ringraziato Dio per quanto facevano i Fratelli, posti a servizio dei Mutilatini. Un solenne Te Deum chiuse i festeggiamenti. Su fratel Beniamino, straordinaria figura di maestro, che aiutò per venti anni don Gnocchi a tradurre in una proposta pedagogica il suo sogno caritativo, è da rileggere la biografia redatta da L. A. GOGLIANI (Torino 1987); Virle (Torino), da dove provenivano i suoi, gli ha dedicato il giardino pubblico “Oasi della pace” (2004). 58 Nel 1959 dalle 20,30 alle 22,30 era in funzione la scuola serale per disegnatori meccanici con 50 iscritti e 10 insegnanti (5 lo facevano a titolo di favore); a sostenerla c’erano industriali, banche e benefattori privati, mentre i Fratelli offrivano, oltre ai locali e alla luce, il riscaldamento e cancelleria. 59 Le uscite del La Salle nelle processioni erano solenni: per quella del Corpus Domini gli alunni portavano mazzi di gigli e stendardo; dal 1923 ebbero anche una bandiera, confezionata dalla ditta Ettore Arcesi e benedetta dal vescovo Conforti; in alcune circostanze particolari, inoltre, mettevano in mostra i piccoli paggi, come elemento decorativo delle cerimonie.


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vescovi, con a capo il cardinale di Milano E. Tosi, quando venne traslata a Parma la Madonna di Fontanellato60. Il fatto è che il La Salle stava diventando un polo di associazionismo a sigla ovviamente religiosa61, ma aperto a ogni forma di costruttiva collaborazione con l’esterno. E qui andrebbero ricordate le signore associate nel gruppo dinamico e zelante delle Dame Lasalliane62, mosse da spiccato senso religioso63, e il capillare reticolo di sovrapposizioni che trasformavano la vecchia immagine della scuola in un centro polivalente, interessato a promuovere un’osmosi proficua nell’intera stratigrafia sociale parmense, convocata al La Salle per assistere a un’operetta di Marcello Cagnacci, a una farsa, a una commedia in dialetto64, o a un film65; per far Pasqua insieme66, per venire incontro ai ragazzi delle scuole pubbliche con il doposcuola67, per assistere a una festa di fine anno68; ma nei locali del La Salle facevano anche le loro adunanze i 60

La musica, quale opportunità per rinsaldare vecchi vincoli, si è riproposta anche oggi, in quanto l’inno a quattro voci dispari per il giubileo diocesano, concesso per i 900 anni della cattedrale, è stato chiesto al M° Mario Chiarapini, direttore del La Salle. 61 Dal 1920 era attiva nell’istituto una diramazione dell’Unione del ss. Crocifisso, sullo stampo di quella fondata a Torino dal servo di Dio fratel Teodoreto, in sintonia con il francescano fra’ Leopoldo M. Musso, per promuovere la devozione alle cinque piaghe; come risvolto si ebbe una impennata nella pratica religiosa concretizzatasi in un più sensibile afflusso ai ritiri mensili, e in una più assidua frequenza ai sacramenti, resa possibile dalla stretta collaborazione con i preti del seminario. 62 Esse raccoglievano offerte con canaste di beneficenza e lotterie, per mantenere con borse di studio i giovani in formazione nelle case religiose; negli ambienti già occupati dai figli, si davano convegno, nel tardo pomeriggio, per pianificare volontariato, festa della mamma, conferenze e visite istruttive; ma anche i Fratelli erano loro vicini con corsi sulla Bibbia, sulla spiritualità del La Salle, sul come vivere cristianamente il proprio ruolo in famiglia. Nei loro ricordi restò a lungo quel 14 dicembre del 1961, quando partirono in treno, sotto una violenta nevicata, dirette a Bassano del Grappa, per portare i doni natalizi agli aspiranti dei Fratelli; esse, dice la cronaca, rientrarono alle 0,30 infreddolite, ma così ricche di buonumore da poterlo diffondere dovunque. 63 Le Dame si riconoscevano, stando una dichiarazione redatta a Torino (1995), «come una associazione che mira ad un affinamento spirituale e religioso delle iscritte; affinamento che assume forma ed intenzioni specifiche e intimamente saldate alla vocazione materna […]; anime destinate al servizio di Dio in un ben definito campo di azione: la scuola cattolica», Archivio del Centro La Salle di Torino, faldone 21. 64 I ragazzi davano nel 1939 Ma chi è ? del Cagnacci, le cui operette, già delizia degli oratorii e dei tabarins, ancora seguitano a intrigare scenografi e chansonniers. L’Archivio della scuola ricorda, senza altre precisazioni, che la filodrammatica dette una farsa e una fiaba nel 1945; mentre la commedia in dialetto andò in scena nel 1998. 65 Il cronista tramandava con orgoglio, sulle carte ingiallite del diario, che nel 1939 la comunità sostituiva «la vecchia macchina del cinema muto con quella del sonoro-parlato», e il 26 gennaio (traslazione delle reliquie di s. G. B. de La Salle dal Belgio a Roma) inaugurava le proiezione con Raffles di Sam Wood, con Duley Digger e Olivia De Havilland. 66 Il triduo di preparazione alla Pasqua del 1955 fu predicato da don Ersilio Tonini, in quegli anni parroco a Salsomaggiore, in seguito assunto alla porpora (1994). In altre circostanze, come avvenne nel 1960, l’unione ex-allievi medaglia d’oro Michele Ortalli, si organizzava in modo autonomo, dandone, poi, notizia al provinciale fratel Alfredo. 67 Nel 1923 ebbe inizio il doposcuola, con l’assistenza di due Fratelli, per gli allievi del ginnasio e delle tecniche. 68 Nel 1929, presente il generale Ferdinando Sasso, comandante della Scuola di Applicazioni (1924 -1930), intervenne la banda del presidio militare a far da contrappunto, con il suono generoso degli ottoni, alle spericolate acrobazie dei più piccoli sui tricicli.


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circoli cattolici69 e didattici70, la Confesercenti vi tenne corsi serali per il conferimento dell’abilitazione all’esercizio commerciale71; è piacevole rilevare, comunque, il fatto che i Fratelli ricercarono i sincronismi con la città, collaborando con la Commissione pastorale diocesana, prestandosi per corsi di metodologia catechistica nel seminario, e intervenendo alle riunioni del Consiglio scolastico provinciale72. Insomma il vecchio aforisma dei Latini, non scholae sed vitae discimus, più che essere stancamente ripetuto, qui lo si esprimeva nella concretezza del quotidiano; in que-st’ottica le nozioni equivalevano a un background da cui far emergere stimoli continui, perché i ragazzi potessero sviluppare il senso di appartenenza, le capacità comunicative e dialogiche relazionandosi con i coetanei e i maestri, ma anche le altre in grado di renderli consci della ricchezza esorbitante da cogliersi all’esterno; questo è il senso ultimo di una corposa programmazione volta a organizzare gite73, colonie (al mare e ai monti74), a proporre pellegrinaggi75, a raccogliere le sfide degli altri istituti76, con il supporto di un sapere vario, fascinoso, spoglio delle intimidazioni fiscali comminate dai pedagoghi irritabili77. 69

L’Archivio documenta la notizia a partire dal 1929; ma già nel 1927 fratel Ernesto teneva una lezione sull’ordine sacro alle delegate dell’Azione Cattolica, e L’Eco del Seminario (aprile 1937) ne pubblicò un’ampia sintesi. 70 Fr.Anselmo Balocco, già ispettore ministeriale per l’insegnamento religioso nelle scuole di ogni ordine e grado nell’Italia centrale dal 1958 al 1970, illustrò per tre sabati le caratteristiche dell’inse-gnamento lasalliano (settembre 1986); poi fu la volta di Alda Barella per un corso di aggiornamento sulle direttive del Ministero della pubblica istruzione (1997). 71 I corsi furono tenuti dal 1996 al ’99 e i Fratelli vi fecero assistenza. 72 Sarebbe da aggiungere, e non per ragioni di completezza, che le sinergie con l’organigramma della Chiesa locale furono più capillari, in quanto i Fratelli, tra l’altro, si implicarono nei gruppi oranti e di animazione creati dal sinodo, mantennero i contatti con le associazioni sportive delle parrocchie, si attivarono nelle ricerche sulle virtù dei servi di Dio. 73 Famosa restò quella organizzata a Venezia, a chiusura del tricentenario della nascita del Fondatore dei Fratelli (1951). 74 Per il mare si preferì Marina di Massa; per la montagna ci fu un ventaglio di opzioni più articolato, perché si scelsero Antagnod, la Val Badia (1948), la Marmolada (1950), Cervinia (1950); e quando andarono in Val Pusteria (1954) fecero anche una coraggiosa puntata in Austria sul Grossglokner. 75 Fratelli organizzano un pellegrinaggio, con ragazzi e famiglie, a Torino per l’ostensione della Sindone (1931); in altra circostanza si diressero a Canossa; in occasione del passaggio delle reliquie di Jean-Baptiste provenienti dal Belgio (Lembecq-lez-Hal), con fermata a Milano, la comunità si mosse con una rappresentanza di ex alunni (tra i quali mons. Colli) e, lungi dall’attenderlo nel capoluogo lombardo, si spinsero fino a Chiasso (1937); tre anni dopo un’altra carovana partì per Roma, con meta il santuario del La Salle, a confermargli la propria devozione. 76 Nel 1960-61, nel trentennio di episcopato di Evasio Colli, il gruppo di Azione cattolica conquistò il ‘gagliardetto regionale’ e le due prime medaglie assolute nella gara di cultura religiosa; i premi, ovviamente, li ritirarono a Roma. 77 Nel 1972 le opzioni didattiche fruibili al La Salle annoveravano, oltre i corsi di inglese (con 32 iscritti), recitazione (8), attività tecnico-pratiche (12), judo (32), nuoto (60) e ginnastica correttiva (32); la percentuale degli iscritti risultò assai consistente (208 su 250). Alla città piacque questo dinamismo, al punto che in prima elementare si dovette ricorrere (1975) al numero chiuso (33); la scuola funzionava a tempo pieno, e tuttavia i Fratelli cercavano sempre di eccellere: quello che inizialmente era un corso di inglese fu trasformato in laboratorio linguisticoinformatico (1987), e le ricerche dei ragazzi, a integrazione dei programmi, furono supportate da una biblioteca di 1500 volumi. La scuola era, dunque, un luogo di leale agonismo per pre-


Una città e i suoi maestri

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Un vessillo che non si vorrebbe ammainare Un dispiego così massiccio e senza risparmio di energie bruciava le forze, le quali, infatti, incominciavano a cedere, né i larghi consensi tributati ai Fratelli erano in grado di ringiovanirli, o accrescerli come generosamente si auguravano i genitori78. Il fatto è che le istituzioni, e la stessa cosa accade alle persone, non si sottraggono alle leggi inflessibili del tempo: «omnia nata occidunt et omnia orta senescunt », constatò un giorno amaramente Pio II79, e il fenomeno è così antico che non dovrebbe stupire; tuttavia una più vigile attenzione ai sintomi, prima che il fastidio e l’inquietudine si trasformino in dolore, e finiscano per mettere alle corde anche il fisico meno arrendevole, è sempre raccomandabile. Non direi che sia stata l’età a creare problemi al La Salle, perché la scuola è come un vino di annata straordinaria: il tempo ne impreziosisce i riverberi alla luce, gli dà forza e ne arrotonda il gusto, di conseguenza il sapore, da cui si sprigionano riposte fragranze, gli si fa più profondo, né c’è da temere che gli esperti arretrino per il suo prezzo vertiginoso. La scuola non invecchia, perché non avvizzisce mai il suo compito, e non tramonteranno mai i suoi ideali; sfiorisce, invece il vigore degli insegnanti, e alle frotte di fanciulli, che di continuo si rinnovano nelle aule, fa risconto il numero sempre più sparuto dei nuovi maestri. Così la scuola paritaria, in un breve volgere di stagioni, si è dovuta confrontare con un grumo di intralci sviluppatisi in modo esponenziale e, francamente, non tutti preventivabili: tra di essi non dimenticherei la crescita della concorrenza, la crisi della natalità, l’esodo dai centri urbani, l’invecchiamento inarrestabile degli organici e la funesta mancanza di ricambi negli istituti religiosi dediti all’insegnamento, con la cosiddetta crisi vocazionale; l’esaurirsi delle forze interne, inoltre, ha imposto un continuo ricorso ai laici, accolti con il più caldo senso di stima e propositi di collaborazione80, ma l’inserimento ha fatto cresceparare una durevole affermazione nella vita, di cui lo sport poteva essere una eloquente metafora, ecco il perché dell’Unione Sportiva Lega Calcio, alla quale si iscrissero, con un centinaio di ragazzi, pure 40 adulti. La cosa non dispiacque al patron del Parma, che condusse tutti e 11 gli eroi domenicali del Tardini al La Salle; e quella visita portò bene alla squadra, perché vinse la supercoppa ai danni del Milan, e contese all’Inter un posto nella Champions. 78 Prendo due testimonianze, entrambe del 1955, a firma di due noti professionisti: Francesco Vozza, direttore della Clinica ostetrica, esprimendo la sua «ammirata simpatia» per l’impegno dell’istituto, pregava la «Provvidenza perché esso dilaghi e investa e permei sempre nuovi settori»; Piero Pioli, direttore generale della Banca del Monte, non potendo essere presente alla premiazione di fine d’anno, scriveva: «sarò, però, ugualmente presente in spirito, così partecipo alla gioia dei premiati ed alla legittima soddisfazione dei signori Insegnanti per i felici risultati delle loro fatiche». 79 E. S. PICCOLOMINI, Epist., ed. R. Wolkan, Wien 1909-1918, I, 446. 80 «Il personale docente laico della scuola lasalliana [la fonte è del 1996] raggiunge ormai circa l’80% di cui il 60% maschile e il 40% femminile, ma la percentuale è ancora più alta se si considerano le ore di insegnamento»; date simili premesse «per i collaboratori laici, la scuola lasalliana costituisce un campo di azione ampio e aperto, in cui possono sentirsi come in famiglia […], affermarsi e svilupparsi nella loro migliore umanità e spiritualità»; e a imporlo è la cellula spirituale-pedagogica lasalliana operante «ensemble et par association», per cui gli stessi presidi debbono aprirsi su una dimensione assai più duttile e sfumata di quella tradizionalmente condivisa («il segno distintivo del capo istituto in dialogo è il sapere ascoltare altrettanto bene, o anche meglio, di quanto non sappia parlare, senza pretesa di conquistare o di predominare»), non essendoci più alternative valide, cf. i due calibrati interventi di S. SCAGLIONE, entrambi su Rivista lasalliana: Prima assemblea generale dell’ASSEDIL (63 [1996] 39); L’azione del responsabile dell’istituzione scolastica lasalliana, 57 [1991] 40.


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re le spese, rivelatesi insostenibili perché aggravate dalle altre per la messa a norma degli edifici, il rinnovo degli arredi, l’acquisto delle dotazioni didattiche. Emerge, da ultimo un fattore di disturbo accreditabile al non insolito avvicendamento dei laici sulle cattedre delle scuole paritarie, da cui si allontanano, molte volte senza alcun preavviso (o ad anno scolastico iniziato), per immettersi in quelle statali; questo sbocco incontrollabile condanna i presidi ad assunzioni precipitose, danneggia i ritmi della squadra disertata, suscita sensazione di precarietà e insicurezza nelle famiglie, disunisce e rende inquieti gli alunni. Un giorno il gruppo sanguigno della istituzione era più identificabile, per una più ferma fisionomia dei metodi, la spontanea facilità degli automatismi gestionali, frutto della vita in comune dei Fratelli, e del persistente rifarsi alle norme del fondatore. Quanto oggi sta accadendo il La Salle con la Cooperativa equivale a una coraggiosa sperimentazione, con la quale i Fratelli hanno confermato, se mai ce ne fosse bisogno, l’attac-camento che essi hanno a Parma, pur nella consapevolezza che quanto un giorno piacque all’ex regina di Francia e i vostri avi difesero, al presente rischia di essere messo in forse dall’acuta mancanza di personale: sgradevole realtà che sta portando i Fratelli a una drastica ridefinizione in tutte le loro opere. Su una cosa, comunque, non sembra si debba discutere: dopo 170 anni i Fratelli ve li portate dentro, e se quello che un giorno fece grande la vostra città non li lasciò indifferenti, quanto domani potrebbe succedere alle giovani generazioni li rende trepidi. Nel mezzo di una città ricca e industriosa, essi lavorarono senza risparmio, e vissero di privazioni. E tuttavia, davanti all’opulenza di Parma, scrigno di arte e memorie gloriose, essi non sfigurano, perché eredi di una dedizione incondizionata per quello che gli uomini hanno di più nobile e sacro, i figli, cioè, ai quali essi, ieri come oggi, sono orgogliosi d’aver rivolto l’esistenza, dato il cuore e, Dio non voglia, il rimpianto per averli lasciati ■

Il Sindaco e la Giunta Municipale di Parma in data 13 Gennaio 2009 hanno conferito all’Istituto De La Salle il Premio « S. Ilario » della Città di Parma


LASALLIANA

RivLas 76 (2009) 2, 327-339

La spiritualité de J.-B. de La Salle au 21ème siècle : Dieu présent, l’inoubliable Herman Lombaerts, fsc Introduction J.-B. de La Salle s’est taillé une forte personnalité spirituelle. A lire ses écrits, en examinant ses initiatives réalisées avec ses Frères, en approfondissant les nombreuses études sur sa personnalité et l’apport de son Institut dans le contexte de son époque, on s’interroge sur la vie intérieure qui a pu l’animer. Ses initiatives et sa pédagogie coïncidaient avec ses convictions profondes. Proche des courants innovateurs du 16e-17e siècle, il a mis les bases d’une spiritualité de l’éducateur chrétien1. Quelle en est la portée pour aujourd’hui ? L’intuition profonde, déjà manifeste dès ses premiers engagements dans la vie spirituelle et ecclésiale, s’est solidifié de par sa formation et la lecture attentive des événements et circonstances qui ont décidé de son histoire. Un des traits majeurs, en quelque sorte l’épine dorsale, de sa personnalité spirituelle, c’est bien l’attention portée à la présence de Dieu. Il a dû développer une affinité particulière à ce sujet au point de la constituer comme le nœud vital de la vie des Frères et de sa pédagogie des écoles chrétiennes. Son œuvre, c’était l’œuvre de Dieu. Il s’agissait donc, pour De La Salle, de reconnaître sa présence active, de lire les événements inattendus, les

1

Pour une présentation systématique des courants de la spiritualité chrétienne, cf. M. Goossens et M. Sauvage, Annexe 2, dans M. CAMPOS et M. SAUVAGE, Explication de la méthode d’oraison (de st Jean-Baptiste de La Salle). Présentation du texte de 1739. Cahiers Lasalliens 50, Rome 1989, p. 641-652. Dans l’ Annexe 1, P. PHILIPPE esquisse l’évolution historique de la méditation (l’oraison) dans la vie spirituelle, Ibid., p. 615-640.


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coïncidences et les contingences de sa vie comme l’expression de l’intention de Dieu, et de se soumettre à cette logique divine2. Depuis, l’insertion de son Institut s’est diversifiée en s’adaptant aux nécessités des contextes. Les œuvres ont contribué à ce que l’éducation devienne accessible à tous, aussi aux moins favorisés. Mais, progressivement, cette scolarisation généralisée s’est aussi transformée par l’impact des Lumières, de la Modernité. Et plus récemment, elle a bien dû se mettre au pas des priorités de la société neo-libérale, globalisée. Les Frères et leurs collaborateurs/trices ont été affectés par la spirale d’une vie consumériste, par le pragmatisme, par l’impact d’une communication de masse médiatisée, par la ‘réalité’ virtuelle. Cette culture contemporaine, consciente de son autonomie dans tous les domaines, aussi en ce qui concerne l’aura spirituel que l’homme occidental s’octroie, va-t-elle de pair avec la sensibilité religieuse du 17e-18e siècle, en particulier avec l’attachement au Dieu présent ? Le but de cet article est d’explorer le sens et la place de cette sensibilité pour les jeunes et adultes vivant dans une société franchement sécularisée, se dégageant de la tutelle du christianisme historique telle qu’il a pu façonner le continent Européen. Pour quelles bonnes raisons l’homme contemporain, individualisé, gérant sa vie de façon autonome, inséré dans une société démocratique, serait-il porté à se soumettre à la « présence de Dieu », à donner au Dieu de la vie une place centrale dans son existence? Et quelle place pourrait-elle avoir dans la réalité scolaire actuelle, avec sa population pluraliste, sa professionnalisation, avec sa prédilection pour une gestion rationnelle, managerielle, participative, plutôt qu’un encadrement explicitement religieux reflété dans l’architecture des bâtiments, dans les artefacts et les rites qui ont représenté l’identité de l’école chrétienne pendant au moins trois siècles? Le propos est de renouer avec une intuition fondatrice et créative, en tant que promesse inespérée et inoubliable, issue tant de la réalité contemporaine que d’une relecture de la tradition. L’intérêt porté à une présence à soi, à la pratique de l’attention, de la méditation, à l’expérience du silence constitue une base intéressante pour cultiver une sensibilité au transcendant. Serait-ce suffisant pour percevoir et reconnaître le Dieu de la vie comme proche, intime, comme présence personnelle au sens plein du terme? Et se trouve-t-on alors à la même longueur d’onde que J.-B. de La Salle?

2

Cf. J. GOUSSIN, Une pratique lasallienne : la présence de Dieu, Cahiers Mel 21, Rome 2005.


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1. Première thèse : la ‘présence de Dieu’ chez de La Salle en tant que perception et vécu mystiques 1.1 Mindfulness3 : la pratique de l’attention •

optique

En général on peut décrire Mindfulness comme « un programme de méditation et mouvements, un programme ‘halte-accueil’ dont le but est de familiariser les personnes à la pratique de la méditation guidée et de mouvements en pleine conscience »4. Pour Lise Labrecque, c’est une manière particulière de porter attention à ce qui nous arrive d’un instant à l’autre. Une manière consciente d’être présent à ce que nous faisons, aux circonstances concrètes qui nous conditionnent, et de se rendre compte de l’impact que cela peut avoir sur nous. Il s’agit d’être présent à soi-même, de manière ouverte, réceptive, courageusement, respectueusement, indulgemment, dans la dignité, et de s’arrêter aux comportements automatiques, aux stéréotypies, à l’expé-rience du corps, aux idées, aux sentiments, aux limites éprouvées, aux désirs… Recommandée pour dépasser la fatigue, les tensions, le stress, la douleur, voire la dépression, cette approche réunirait les principes bouddhistes avec la connaissance psychologique occidentale dans une hygiène de vie salutaire. L’investigation scientifique offrirait l’évidence que, en ce qui concerne la dépression, cette façon de la traiter serait de 50pourcent supérieure aux méthodes traditionnelles. Les programmes d’entrainement pratique proposent des séances de deux heures et demie pendant 8 semaines en suivant un itinéraire didactique de plus en plus standardisé, propagé aussi dans de nombreuses publications. L’attitude, visant le calme, le repos, la sérénité, l’harmonie intérieure est fort proche de celle recherchée dans la méditation •

Mindfulness et la méditation chrétienne

Manifestement, bon nombre de personnes se reconnaissent dans ce mouvement et se donnent l’espace et le temps pour intérioriser cette attention et pour pratiquer la présence à soi. Bon nombre de chrétiens y repèrent les qualités propres à la prière et la méditation chrétienne. Ils aspirent à pouvoir vivre une prière authentique, et à être transformé par la méditation style bouddhiste. Certains, et parmi eux des pères jésuites, à l’époque encouragés par leur supérieur général Pedro Arrupe, se sont rendus au Japon ou en Corée du Sud pour rejoindre un maître bouddhiste ou des accompagnateurs expérimentés afin d’intégrer cette sensibilité propre à la culture orientale dans la spiritualité chrétienne occidentale. Bernard Senécal est allé très loin dans l’exploration de la méditation Zen en Corée du Sud. Après une longue initiation, il intègre la méditation Zen dans les Exercices de la spiritualité ignacienne. Son expérience l’a amené à exprimer certaines réserves et à envisager l’intégration des deux traditions avec prudence. Théoriquement, la méta3

http://en.wikipedia.org/wiki/Mindfulness (11.12.08) http://ottawamindfulness.ca/Teachers/LiseLabrecqueOttawaEnglishFran%C3%A7ais/tabid/ 166/Default.aspx (11.12.08); Cf. aussi Edel MAEX, Mindfulness, Zaventem, 2008. 4


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physique bouddhiste (l’expérience d’une unité totale avec un absolu a-personnel et dans un détachement radical par rapport au monde) est irréconciliable avec le Crédo de la tradition chrétienne (l’expérience, en tant que personne humaine, d’une union fondamentale avec un Dieu personnel, dans et par Jésus, le Christ, fils de Dieu et seul médiateur entre l’homme et Dieu). D’autre part, l’idée de l’incarnation et d’un Dieu mort sur la croix est perçue par le bouddhiste comme offensive et totalement inacceptable pour sa tradition. Néanmoins, d’un point de vue pratique, et jusqu’à une certain point, l’initiation intuitive, non-rationnelle dans l’expérience et la pensée bouddhiste, peut porter ses fruits pour le chrétien occidental5. Ce point de vue peut étonner, car d’autres personnes interprètent les deux traditions comme deux voix vers la libération. Etant donné leur origine et la cohérence interne de leurs expériences et convictions, les deux approches s’inspirent d’un dynamisme qui, inévitablement, aboutit à l’expérience mystique, d’une part, le nirvana, d’autre part l’union avec le Dieu trinitaire6. Toutefois, il est important de se rendre compte que leur anthropologie et leur compréhension du monde divergent profondément. 1.2 Mystique bouddhiste et mystique chrétienne La mystique rhéno-flamande (13e-14e siècle), représentée, entre autres, par Hadewych d’Anvers, Maître Eckhart, Jan van Ruusbroec font appel à une anthropologie attribuant à l’homme une aptitude naturelle à l’expérience mystique7. Dans le contexte de notre propos, il semble y avoir une affinité entre la mystique du Brabançon Ruusbroec (1293 ou 1294-1381) et une mystique bouddhiste8. Pour mieux saisir l’enjeu de ce rapprochement, Mommaers et Van Bragt développent une confrontation critique entre les deux traditions9. La pensée occidentale s’exprime dans des catégories anthropocentriques. L’homme occidental veut clarifier l’origine de la vie, sonder le fond des choses, comprendre la réalité profonde de l’être humain. En se confiant à cette logique, il serait possible de penser la vie, de la maîtriser, de vaincre toute menace de chaos. Par contre, le bouddhiste ne veut pas maîtriser. Il espère plutôt à se libérer des expériences physiques et solitaires de fragilité, de décomposition, de mort de par une attention sélective et des spéculations cosmologiques et métaphysiques. L’homme occidental se passionne pour l’explication des choses, de les fonder. La pensée bouddhiste veut se délivrer des choses, des expériences trompeuses, des illusions d’unité et de continui5 B. SENÉCAL, Jésus le Christ à la rencontre de Gautana le Douddha: identité chrétienne et bouddhisme, Paris 1998 ; cf. J. DUPUIS, Jésus-Christ à la rencontre des religions, Paris 1989. 6 P. MAGNIN, Bouddhisme et christianisme, une mise en perspective de deux voix de libération, « Etudes », 393(2000), 219-236 ; 7

Concernant les rapports entre la mystique rhénane (Eckhart) et la mystique de Ruusbroec, cf. l’étude de Benoît BEYER DE RYKE, Maître Eckhart, une mystique du détachement, ch IV http://www.scribd.com/doc/2935315/Maitre-Eckhart-une-mystique-du-detachement. 8 P. MOMMAERS & J. VAN BRAGT, Mysticism Buddhist and Christian: Encounters with Jan van Ruusbroec, New York 1995. 9 Notons en passant qu’au 17e siècle, Pierre de Bérule, Fénelon et Mme Guyon se sont inspirés du mouvement mystique rhéno-flamand pour nourrir leur spiritualité, mouvement dont J.B. de La Salle a été marqué à son tour. Cf. http://www.famvin.org/wiki-fr/B%C3%89RULLE


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té, de l’Etre tout court. Le moine bouddhiste veut éteindre le désir, pour se concentrer sur l’intériorité en vue d’atteindre l’illumination finale. La pensée occidentale conçoit l’être humain en tant que personne. L’individu est un sujet indépendant et autonome. Le croyant s’inspire d’une image d’un ‘moi’ ouvert, dans une relation verticale avec Dieu (comme par exemple chez Augustin). Les bouddhistes font appel à une théorie de l’anatman (chaque chose est sans soi)10 et ils ne connaissent pas la représentation intersubjective. Il va de soi que ces différences anthropologiques constituent une difficulté importante pour le dialogue interreligieux. J. Van Bragt (Nanzan Institute for Religion and Culture, Japon) et P. Mommaers (Anvers, Belgique) se sont fort appliqués à explorer les affinités et les différences entre ces tendances mystiques11. Selon ces deux experts, la mystique de Ruusbroec interpelle la pensée bouddhiste de façon directe, réfléchie et convaincante, en particulier en ce qui concerne son dogme unitaire. Chez les bouddhistes, la pensée philosophique l’emporte sur la sensibilité religieuse. Ils ne connaissent pas la dialectique entre unité et pluralité. Ils adhèrent à une logique du vide comme unité absolue (représentation contestée au sein même du bouddhisme). Pour Ruusbroec, l’unité mystique s’enracine dans la composante religieuse ; son expérience est plus proche de la ‘foi’ religieuse. Dans l’interprétation chrétienne de la création, la diversité des êtres est présentée comme une qualité originaire de la vie. En outre, pour Augustin, et pour Ruusbroec à sa suite, le moi est à la fois autonome et situé dans une relation dynamique, active et vivante avec l’autre. Pour les chrétiens, Dieu est le Dieu de la vie, pas de la mort. Ils veulent dépasser leur autonomie réelle en se perdant dans une relation vivante avec Dieu. On constate donc des différences fondamentales. Surtout, pour les bouddhistes, l’idée d’un soi, d’un sujet autonome et indépendant reste inadmissible; pour eux ; c’est un point de rupture. Tout comme B. Senécal, Mommaers et Van Bragt recommandent une certaine prudence quand on s’intéresse au rapprochement entre christianisme et bouddhisme tel que proposé dans certains courants de la spiritualité contemporaine. 1.3 Une spiritualité mystique dans l’Eglise aux temps modernes Les changements et les ruptures qui se sont produites en Europe, notamment à la suite de la Renaissance, de l’émergence d’une philosophie ‘moderne’ (dissociée de la foi en Dieu) et de la pensée scientifique, ont causé des divergences dans la sensibilité religieuse et dans la façon de vivre et d’expliciter l’existence et la présence de Dieu. La Réforme et la Contre-Réforme ont sans aucun doute cassé pour du bon l’empire chrétien du Moyen-Âge.

10 Anatta (Pali ; sanskrit anâtman) est le concept bouddhique d'impersonnalité, par opposition en la croyance hindouiste en l'âtman. Il n'existe selon cette vue aucune âme, aucune essence à trouver, mais une simple agrégation de phénomènes conditionnés. Cf. http://fr.wikipedia.org/wiki/Non-soi (26.12.08) 11 Concernant le rôle que Van Bragt a pu jouer dans le dialogue interreligieux, cf. James W. HEISIG, The Pontifical Thought of Jan Van Bragt (1928-2007), Bulletin of the Nanzan Institute for Religion and culture, 32 (2008), 9-27. Concernant Jan Ruusbroec, consulter par ex. http://www.universalis.fr/encyclopedie/Q160741/RUUSBROEC_J_van.htm. (26.12.08)


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Michel de Certeau a repéré à quel point une sensibilité mystique au 16e et au 17e siècle a suscité un examen de conscience dans l’Eglise catholique12. Les mouvements mystiques de la fin du Moyen-Age jusqu’au 16e -17e siècle ont introduit une distance par rapport à la norme institutionnelle et se sont positionnés ‘ailleurs’. Le dépaysement établi ainsi concernait la façon stratégique dont l’Eglise ménageait la vie de foi des croyants. Les mystiques (Thérèse d’Avila, Jean de la Croix par exemple) ont introduit des formes alternatives de vivre la foi chrétienne. Ils ont créé un autre langage pour s’exprimer à propos de leur expérience religieuse, plus indépendante par rapport aux normes imposées par la hiérarchie ecclésiale. Ces mouvements ont causé de fortes tensions et des ruptures incontournables. L’enjeu concernait d’abord les principes du système de la spiritualité ecclésiale et leurs implications pour la pratique. Ensuite, il y avait la réforme de la logique des locutions et les relations sociales qui s’y reflétaient. En troisième lieu le corps humain se cherchait une nouvelle place et un autre rôle. Et finalement, il y avait les intentions, les motifs et la rhétorique maligne qui aient pu gérer la relation entre ce qui se montrait du système de la spiritualité ecclésiale et ce qui restait caché. De Certeau argumente que le phénomène de la mystique a joué un rôle important dans l’émergence de la Modernité en Europe. L’intérêt, aujourd’hui, pour identifier des ambigüités analogues - les paradoxes de l’ordre institutionnel - repérées dès le début du 20e siècle, notamment par la psychanalyse, et apparemment inhérentes au fonctionnement humain, partage avec la mystique d’il y a trois siècles l’exigence d’une recherche de véracité et d’authenticité dans la spiritualité. Les mystiques, au 16e-17e siècle, ont réussi à recentrer la spiritualité sur la rencontre bouleversante avec l’Autre, point de départ d’une autre expérience de l’espace et du temps. Leur assiduité à faire reconnaître la différence décisive de ces nouvelles expériences, jusque dans le minuscule, a immobilisé le système de la tradition dogmatique établie. Ils ont en quelque sorte suscité l’implosion de l’ins-titution du sens chrétien, pour autant qu’elle se réduisait à une fonctionnalité stérile et chaotique. Bien que pourchassés, exilés, enfermés à cause de leurs positions troublantes, les mystiques ont été à l’origine d’une expérience et d’une réflexion religieuses radicalement nouvelles13.

2. Deuxième thèse :la ‘présence de Dieu’ chez de La Salle comme expérience de l’ « inespéré » et de l’ « inoubliable » Mais, ce mouvement mystique d’il y a trois siècles a-t-il encore quelque importance par rapport à l’expérience de l’homme contemporain ? La question peut étonner, car l’on constate au 19e et au 20e siècle un intérêt manifeste pour les mystiques rhénoflamands et pour les courants d’il y a trois siècles en tant que lieux de mémoire et objet de recherche. Y aurait-il donc des affinités entre ces courants historiquement et la quête de sens et le souci d’épanouissement personnel de l’homme contemporain ? La nouveauté spirituelle, fruit de la rencontre bouleversante avec l’Autre, attestée dans le passé, peut-elle encore garantir, aujourd’hui, une transformation de la qualité d’une vie de foi? Ou s’agit-il d’un intérêt académique, esthétique, historique? Quelle 12 13

M. de CERTEAU, La fable mystique. XVIe-XVIIe siècle. Paris 1982, p. 15-18. Ibid., p. 19-20, 41-44.


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est l’autorité d’une foi en Dieu, d’une vie avec Dieu dans un monde sécularisé, pluraliste, fier de son autonomie? Quel est donc l’apport des figures influentes du 17e-18e siècle, comme François de Sales, Pierre de Bérulle, J.-B. de La Salle, Vincent de Paul, Nicolas Roland, et tant d’autres, pour notre temps, mis à part leur importance historique et culturelle ou leur cadre de référence symbolique et pédagogique? Qu’ est-ce qui assure la continuité, à travers le temps, de l’enthousiasme issu d’une expérience de foi inaltérable, inconditionnelle? En quoi la réponse à ces questions devientelle un critère pour mieux comprendre le positionnement de J.-B. de La Salle? Ces deux dernières questions concernent tant le fait même que l’objet d’un engagement de foi aujourd’hui: qu’est-ce qui met les personnes en mouvement, et qu’est-ce qui les maintient dans ce mouvement? Pour y répondre, surtout deux qualités uniques du croire seront explorées : d’abord, la (re)découverte d’une promesse inoubliable et engageante; ensuite, la transformation inattendue qui s’effectue dès que l’inespéré et l’inoubliable se présentent.

3. L’inoubliable « L’inoubliable » est un concept peu approfondi dans la philosophie et la spiritualité14. Il peut être utile d’en évoquer quelques interprétations en vue de situer le souci de J.B. de La Salle de « se souvenir » de la présence de Dieu – donc de ne pas l’oublier comme principe de base d’une spiritualité pour ses Frères. Serait-ce possible de l’oublier? Spontanément l’on associe l’inoubliable avec la mémoire. Il est propre à l’homme de se souvenir de ce qui lui arrive, de son histoire personnelle, de ses projets, de ses réflexions… Mais la plupart des événements et de notre vécu quotidien s’oublient. Il faut une importante collection de photos, de ‘mémoires’, de journaux intimes pour en garder la mémoire. Pourtant, et dès la petite enfance, il y a des événements, des moments précis, des rencontres qu’on n’oubliera jamais. Indépendamment de notre intention, ils marquent notre sensibilité, notre identité, notre façon de penser et d’agir, notre style de vie, et cela durant toute une vie. Quel est donc ce contenu qui ne s’oublie pas? S’agit-il d’une donnée du passé, ou dépasse-t-elle le limites du temps et du souvenir? Peut-on contrôler ce dont on se souvient, consciemment ou inconsciemment, ou ce dont on aimerait se débarrasser ? Quelle réflexion suscite l’expérience de vivre avec ce qui s’est perdu avec le temps et ce qui nous accompagne en tant que contenu inoubliable? Et dans quel sens cette faculté psychologique affecte-t-elle l’expérience religieuse? Son contenu évolue-t-il avec l’âge? Qu’est-ce qui s’imposait comme inoubliable dans la philosophie Grecque, dans l’antiquité chrétienne, au Moyen Age, aux Temps Modernes. Y a-t-il une complicité avec ce qui s’impose comme inoubliable aujourd’hui?

Interprétation philosophique - Les Grecs se souvenaient surtout du destin et de sa fa-

talité, de l’épreuve, de la souffrance déchirante et incontrôlable. Dans leur pensée, l’homme ne peut se soustraire au sort, au mal. L’inoubliable s’impose de l’extérieur

14

Cf. l’étude de J.-L. CHRÉTIEN, L’inoubliable et l’inespéré, Paris 1991, p. 105-130.


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plutôt que d’être tributaire de la mémoire en tant que fonction psychologique de l’individu. D’où l’importance de visiter « l’inoubliable » afin de le maîtriser, de l’intérioriser, de se faire purifier. C’est surtout par la muse, par la poésie et le chant que l’homme Grecque essaie de se soustraire à l’influence paralysante des expériences du destin fatal. Ce qui s’impose comme inoubliable dépend, selon Aristote, de son contenu. Les qualités les plus intimes de l’être humain ne peuvent disparaître de la mémoire. C’est là que se situe le secret de l’inoubliable. La bonté ne peut s’oublier, par exemple. La pratique de la vertu et de l’éthique n’est pas affectée par l’oubli.

Interprétation chrétienne - Thomas d’Aquin, commentant les idées d’Aristote, confirme qu’effectivement on ne peut oublier la vertu, mais elle ne peut s’oublier au nom du but de notre existence, moins au nom de l’origine de la vie ou des souvenirs du passé. L’homme est plus concerné par son avenir que par son passé. Il agit surtout au nom de sa destinée : ce qu’il a à faire, ce qu’il est supposé être. Déjà Augustin s’intéressait à « la mémoire de l’avenir ». L’inoubliable est au cœur de notre mémoire et concerne bien sûr le passé, mais plus encore le présent et l’avenir et précisément nous incite à penser, à réfléchir. L’expression de ce qui s’impose comme inoubliable nous lie avec une destinée, avec une promesse, avec un désir d’atteindre une qualité de vie profondément différente de celle du passé15. Pour Augustin, se souvenir de Dieu, les memoria Dei n’a rien à voir avec le souvenir du passé. L’homme ne « se souvient » pas de Dieu, ni du « paradis perdu » par exemple. C’est l’objet de la foi. L’idée de Dieu se base sur l’Ecriture, le seul souvenir possible de ce qui nous est radicalement inaccessible. L’inoubliable ne peut donc être associé avec l’oubli en tant que ‘perte de mémoire’. La « mémoire », au sens chrétien, concerne le but et l’ultime épanouissement auxquels nous aspirons. Elle nous rappelle une promesse venant de Celui que nous aimerions tant rencontrer. C’est la thématique essentielle des mystiques, et leur commentaire du Cantique ne laisse aucun doute à ce sujet. Ils sont presque dévorés par cette concentration et ce désir d’union avec l’aimé. C’est dans ce sens que Dieu est ‘inoubliable’ et ne peut être écarté de ce désir intense. Il nourrit l’espérance de la rencontre imminente et définitive. Dans cette ‘histoire’ de l’inoubliable, Dieu a l’initiative: il touche l’homme au plus profond de son être; il lui marque d’une manière indestructible de la lumière libératrice de son amour immense16. Le croyant se souvient de l’inoubliable en termes d’une promesse qu’il veut atteindre dans la fidélité avec Celui qui s’est fait connaître ainsi. L’inoubliable 15

Il est intéressant de noter que, chez K. Marx, au 19e siècle, l’inspiration et la poésie de la ‘révolution’ lui viennent de l’avenir, et nos pas du passé. Il se distance de cette glorification superstitieuse du passé. Il se réfère à l’Exode des Juifs de l’Egypte : une exode au nom d’une vérité libératrice. Pour une discussion critique de l’idéologie du progrès, d’une eschatologie sécularisée, des religions de la promesse et de l’espérance chrétienne, cf. Jean-Claude MONOD, La promesse, entre religion et politique. Le débat Löwith-Blumenberg, in M. CRÉPON & M. de LAUNAU (dir.), La philosophie au risque de la promesse, Paris 2004, p. 125-148. 16 Les mystiques se créent un langage original et poétique pour indiquer, au nom de leur expérience personnelle, une différence fondamentale dans la perception de Dieu et de converser avec Lui. Ils partent d’une autre destinée intérieure. Ils sont radicalement authentiques. Le langage dogmatique par contre institue des concepts et des normes quant au contenu de la foi afin de garantir l’unité de la pensée et de la pratique : la fidélité à la vérité. Cf. M. de CERTEAU, o.c., p. 243-273.


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s’empare de l’homme d’une façon irrésistible. Dieu lui est proche en ce qu’il nous rejoint et nous comprend totalement, et en même temps Il nous transcende à tout point de vue. Le croyant renonce au souvenir de son passé, au soi de l’émancipation narcissique, bien que il ne puisse s’en débarrasser, matériellement. Le chrétien est en route vers la promesse inoubliable du Christ, le rédempteur. Cette vie nouvelle est une voie sans haltes, dans fin définitive. Le pèlerin chrétien passe, il ne s’établit pas. « Commémorer » le Christ, agir en sa mémoire se vivent au nom de l’avenir de Dieu, et prend distance, oublie, pour se consacrer entièrement à la promesse de l’Autre. Elle dépasse infiniment les aspirations, les ambitions et les efforts personnels. Cette idée constitue sans doute le nœud de « l’inoubliable » chez Paul après sa conversion. Il a pris distance par rapport au Saul, le Pharisien persécuteur. Cette autre vie a perdu toute sa gloire et son importance, et dans ce sens, elle est oubliée. Seule la promesse du Seigneur, qui l’a envahi et mis hors de lui-même, vaut. Le trésor découvert coïncide avec qui il est désormais, avec sa mission concrète, malgré toutes les difficultés. Il n’y a plus aucun doute, aucune dualité, aucune hésitation, même pas d’impatience à cause des épreuves et des échecs. Le croyant ne doute pas parce qu’il « sait » qu’il est inoubliable pour Dieu, plus encore qu’un enfant ne peut être oublié par sa mère (Is. 49,14-16). Pour Augustin, tout expérience concrète de la vie spirituelle éveille la présence inoubliable et inépuisable de l’Autre. La Salle se nourrit profondément de cette affinité avec la promesse et l’avenir annoncés dans l’évangile, tels que explicités par Paul et Augustin. Bien entendu, dans ses écrits, on trouve le mot ‘mémoire’ dans le sens d’une référence au passé, de quelque choses dont il faut se souvenir17. Il se réfère alors au salut de Dieu, à la rédemption, à l’amour de Dieu. L’attente du salut, de la vie éternelle, d’une consécration à la promesse de Dieu dans le Christ ont une place fondamentale dans sa vie et sa pensée. Dieu a fait une promesse. L’œuvre de La Salle y est ancrée. Il vit au nom de cette promesse. Et il encourage les Frères et les élèves à l’intégrer dans leur vie comme motif principal d’un engagement désintéressé et total18.

Le caractère inespéré de l’inoubliable19 - Il ne s’agit pas, pour les chrétiens, d’une

promesse dans le sens banal du terme. Ce qui nous atteint comme promesse dès l’histoire d’Abraham, jusqu’au Christ, est totalement inespéré et dépasse toutes les attentes.

Philosophiquement - Etre envahi par quelqu’un d’autre est souvent vécu comme une

expérience bouleversante, inattendue, inconnue, pour laquelle toute explication raisonnable fait défaut. Déjà dans la mythologie Grecque les dieux sont invoqués pour atteindre des buts hors de portée des humains. Des changements inattendus et le destin inévitables, où l’homme perd tout contrôle, sont associés à l’intervention de quelque divinité. Mais le philosophe s’efforce , par principe, de prendre distance des 17

« Mémoire » dans le Vocabulaire Lasallien, Paris 1986, Vol. IV, M145-M146. Cf. « promesse », « promettre » et « salut » in Ibid., Vol. V, P679-P682 ; Vol. VI, S84-S91. 19 J.-L. CHRÉTIEN, op. cit., p. 131-155. 18


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attentes chaotiques et interminables de la masse. Espérer l’inespéré et vouloir atteindre ce qui est inaccessible est perçu comme une sagesse. Seule l’espérance transcende ce qui, en principe, de fait et par la nature même des choses ne peut être espéré. Cette espérance se concentre sur une autre réalité que celle qui fascine la plupart des êtres humains, et dépasse l’évidence même de la réalité humaine. Quand l’inespéré alors nous surprend, elle est vécue comme une rupture avec le ‘normal’, car non prévu, non planifié d’avance. C’est seulement après coup que les traces annonciateurs sont discernées et interprétées.

Interprétation chrétienne - Mais, les modèles de la philosophie grecque pour se ré-

concilier avec l’inespéré n’abordent pas la promesse concernant l’avenir. Quand le chrétien met son espérance en Dieu et fait confiance en sa promesse, l’inespéré prend une toute autre signification. Espérer contre toute espérance, c’est s’en remettre à Dieu (Rom. 4,18 ;5,8)20. Ce qui est espéré dans la tradition biblique ne peut venir que de Dieu et ne peut donc être atteint par les efforts humains. Qu’une stérilité définitive se transforme en fertilité, qu’une maternité virginale s’annonce… d’un point de vue humain, ce serait vain de l’espérer. Cette ‘grâce’ conduit à une autre façon de comprendre Dieu et son action. Trouver l’inespéré qui ne se cherchait même pas est un don, source de joie, orienté vers l’avenir et la rencontre avec cet Autre. Le fidèle croit à cause du caractère inespéré de ce qui lui a été donné21.

4. L’inespéré inoubliable dans la vie et la spiritualité de La Salle Ce détour d’une relecture de « l’inoubliable » et de « l’inespéré » dans la vie chrétienne permet de mieux saisir l’importance de cette attitude dans la vie et la spiritualité de J.-B. de La Salle. Être saisi par Dieu fait partie de la ‘culture’ de l’Institut des Frères des écoles chrétiennes. Le mot ‘lasallien’ s’y réfère en tout premier lieu. Le dévouement désintéressé au nom d’une promesse inattendue, pour se mettre au service des jeunes à risque, dans la société moderne, avec zèle, dans la gratuité, sans autre ministère, lié à une communauté de vie, a dû représenter une réorientation de la mission de l’Eglise du 17e-18e siècle. La Salle a été amené a discerner l’inattendu inespéré au cœur même de son engagement jamais entrevu au seuil de sa vie d’adulte22. Quand, plus tard, il a repéré le fil rouge de l’histoire de sa vie, il a entrevu à travers la succession des événements et son implication dans des choses qui ne le concernaient pas personnellement et avec lesquelles il ne voulait pas s’identifier, une lente et patiente

20

J.-C. MONOD, op. cit., p. 135ss. Lire les nombreuses contributions de Jürgen MOLTMANN sur l’espérance et la promesse comme fondement de la foi chrétienne : Théologie de l’espérance (1964), Im Ende – der Anfang :eine kleine Hoffningslehre (2003). Toutefois, on ne peut oublier que souvent l’angoisse et la peur pour la damnation éternelle ont déterminé la vie chrétienne, plus que l’espérance et la promesse. Cf. J. LE GOFF, La naissance du purgatoire, Paris 1981 ; G. DUBY & J. LE GOFF, L’an 1000 an 2000 : sur les traces de nos peurs, Paris 1999. 22 M.A.CAMPOS-MARINO, L’itinéraire évangélique de saint Jean-Baptiste de La Salle et le recours à l’Ecriture dans ses Méditations pour le Temps de la Retraite, Cahiers Lasalliens 45, vol. I, p. 91-129 ; Léon de Marie Aroz, Nicolas Roland, Jean-Baptiste de La Salle et les Sœurs de l’Enfant-Jésus de Reims, Cahiers Lasalliens 38, Reims 1972, p. 53-92. 21


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préparation à ce qui constituerait sa mission propre. Il les a discernés comme Dieu agissant avec lui, par amour23. Ce qui frappe, c’est surtout cette attention particulière pour ce qui lui arrivait de manière inattendue, sa préoccupation de garder tous les aspects à leur place, en accord avec ce qu’il percevait comme l’intention de Dieu. Cette attention l’a mis sur la trace d’une autre destinée, de façon inattendue, non-planifiée, et à son grand étonnement, avec d’autres soucis et d’autres responsabilités que ceux prévus au départ. Ce développement perçu comme remarquable, étonnant, l’a rendu perplexe à un point tel que seule l’action de Dieu pouvait en constituer le sens24. Serait-ce donc cette expérience bouleversante de l’inattendu, de l’inespéré qui constitue la texture d’un engagement à la suite de J.-B. de La Salle? Assiste-t-on avant tout, dans les collaborateurs/trices qui se présentent, à l’émergence de personnes marquées, à leur grand étonnement, par la même espérance, au nom de la même promesse? Educateurs mobilisés aujourd’hui à continuer cette aventure dans tous les continents, dans différents contextes culturels, dans des milieux non-chrétiens25 ?

5. Mindfulness et mystique chrétienne dans la spiritualité lasallienne aujourd’hui Reprenant le point de départ de cet article concernant l’attitude de mindfulness (la pratique de l’attention), il semble de J.-B. de La Salle vivait une sensibilité tout à fait extraordinaire par rapport à ce qui lui arrivait. Bien sûr, son « attention » était marquée par son éducation et son insertion dans un milieu socio-culturel et ecclésial aisé. Mais ses antennes spirituelles lui faisaient découvrir le Dieu présent dans les hommes, dans les circonstances déroutantes, étrangères à la culture naturelle propre à sa famille, son origine social et religieux. D’où une reconnaissance de la coïncidence des interprétations quand il s’efforçait à repérer le fil rouge de sa vie. Il a pu constater que d’une part, des circonstances fortuites l’ont amené d’une situation à une autre, d’une initiative à une autre, d’une décision à la suivante. De fil en aiguille, des événements et des personnes l’ont orienté, tout en étant confiant que ses décisions personnelles étaient bien à propos, et qu’en même temps elles offraient la preuve que, spirituellement, il était en accord avec sa vocation. Mais, d’autre part, progressivement il s’est appliqué à lire ce développement comme mené par quelqu’un d’autre, comme si quelqu’un l’avait destiné à évoluer dans cette direction inattendue, sans qu’il s’en était rendu compte ou ne pouvait se l’imaginer. La première lecture – traditionnellement déjà tout orientée vers une fidélité à Dieu – l’a rendu attentif à une deuxième lecture, notamment de l’inattendu, de l’inimaginable, à ce qui le détournait de son projet vocationnel initial, et représentait l’inten23

Cf. la lecture des textes de J.-B. de La Salle à propos de ‘l’application à la présence de Dieu’, par J. GOUSSIN et ses réflexions sur l’ « affection », Cahiers MEL 21, p 37-42. 24 Les biographes de J.-B. de La Salle - Bernard, Maillefer, Blain - se réfèrent au document intitulé Mémoire, qu’il aurait rédigé lui-même, et où il livre ses interprétations personnelles de l’orientation de sa vie au service des écoles et des pauvres. M.A. CAMPOS-MARINO, o.c., p.17s. 25 H. LOMBAERTS, De La Salle au cœur de la société contemporaine multi-culturelle et multireligieuse, Cahiers MEL 29, Rome 2006.


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tion unique que Dieu lui avait réservée de façon tout à fait inespérée. Il en a été marqué à un point tel que ce Dieu présent était devenu l’inoubliable. Inimaginable de s’en écarter. C’est là un aspect fondamental du réalisme mystique qui caractérisait de La Salle (M. Sauvage). Nous remarquons ici une forme tout a fait originale de mindfulness propre à JeanBaptiste et qui marquera toute sa vie et sa spiritualité. Bien entendu, cette attention caractérisait l’Ecole française de Spiritualité du 16e-17 siècle. Il s’est formé à cette sensibilité et à cette manière de penser. La discipline spirituelle de l’époque constituait un courant innovateur de l’Eglise catholique en France, intégrait harmonieusement une visée d’ensemble et la pratique concrète. L’attention pour l’action subtile de Dieu dans sa vie a marqué dès le début sa vocation sacerdotale. C’est justement cette même sensibilité qui l’a tellement lié dans une tendresse étonnante aux enfants pauvres et aux familles en difficulté. L’attention au Dieu présent, l’inoubliable, constitue la charnière de la spiritualité de l’éducateur chrétien. En fait, elle est devenue comme une respiration priante au rythme de la vie quotidienne26. La méthode d’oraison qu’il a développé pour ses Frères en est profondément marqué. A lire ses recommandations, on se croirait proche de la littérature contemporaine sur la méditation bouddhiste ou la pratique de l’attention.

« L’application à la présence de Dieu par une simple attention consiste à être devant Dieu dans une simple vie intérieure de foi qu’il est présent, et à demeurer ainsi quelque temps, soit un demi quart d’heure, soit un quart d’heure, plus ou moins, selon qu’on s’y sentira occupé et attiré intérieurement.27 »

Il va de soi qu’on ne peut reproduire, aujourd’hui, les pratiques concrètes que de La Salle avait proposées pour cadencer le rythme quotidien de ses écoles et le marquer par la culture de la présence divine. Jacques Goussin a ressemblé quelques témoignages d’une actualisation possible dans les contextes contemporains28. Le contexte de la sécularisation et d’une certaine désacralisation de nos institutions scolaires, chrétiennes, surtout en Europe, nous invite à repérer et à resituer cette « attention » dans ses intuitions authentiques. Le risque de vouloir maintenir une tradition est de se mettre en rupture avec des sensibilités pour le sacré et le divin qui émergent dans le contexte socio-culturel d’aujourd’hui. On ne peut faire fi, ni de l’origine historique et contextuelle de la pratique traditionnelle de ‘se souvenir de la présence de Dieu’, ni des changements profonds qui se sont opérés surtout pendant la deuxième moitié du 20e siècle. Et déjà, la première décennie du 21e siècle nous confronte avec des conditions de vie suscitant des prises de consciences nouvelles, différentes29. Une relecture 26

Luke SALM, Une pratique traditionnelle, in Cahiers Mel 21, p. 23-29. J.-B. de LA SALLE, Explication de la méthode d’oraison, Cahiers Lasalliens 50, n.99, p. 39 ; Œuvres Complètes, EM 3,99, p. 142. 28 Une pratique lasallienne: la présence de Dieu, Cahiers Mel 21, p. 7-23. 29 Cf. H. LOMBAERTS, Qu’en est-il de la religion? Du « retour » du religieux à la pertinence de la religion, Rivista lasalliana 74 (2007)3, 269-284 ; Id., L’enseignement de la religion démystifié? Transitions sans retour en Europe occidentale et en Europe de l’Est, Rivista lasalliana 76 (2009) 1, 43-58; Id., The impact of the status of religion in contemporary society upon interreligious learning, in : D. POLLEFEYT (ed.), Interreligious Learning, Leuven 2007, 55-86 27


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attentive de l’émergence historique s’impose; une réinterprétation à la lumière des sensibilités et pratiques de l’attention aujourd’hui est aussi indispensable. Vouloir introduire une tradition de l’extérieur sans affinité manifeste avec des sensibilités analogues chez les jeunes et adultes d’aujourd’hui pourrait bien susciter un rejet. Que J.-B. de La Salle ait si profondément assumé l’intention de l’Autre dans la conduction de sa vie, peut aussi se lire comme le souci existentiel de toute personne humaine. L’aspiration intime et insatiable d’un chacun est bien de se savoir reconnu, respecté, valorisé, aimé inconditionnellement par quelqu’un. Un autre qui offre l’assurance de pouvoir dépasser les contingence, de découvrir une intention qui crée le sens. Un autre qui soit présent auprès de nos espérances les plus secrètes er permet de réussir notre vie dans un épanouissement gratifiant. Nous y reconnaissons les traits essentiels d’une anthropologie universelle30. Dans la quête de cet autre bienveillant, de La Salle a rencontré le Dieu de JésusChrist au point de Lui confier toute sa personne, sa vie et ses projets. Cette foi unie à un engagement gratuit (zèle), comme réalisation de l’intention de l’Autre, présent, mais inaccessible, lui a permis de se situer face aux paradoxes et aux risques de la société qui menaçaient l’avenir des jeunes générations. Il a pu reconnaître dans la promesse divine une réponse, unique et gratifiante pour l’éternité, au mal et au péché. Les risques de la liberté requièrent une confiance véridique. C’est là un des paradoxes de la vie humaine. Face aux échecs et aux menaces de destruction de la vie, le croyant transformé par les promesses inespérées de l’Autre ne peut s’empêcher d’agir. Ce qui paraît important c’est bien de soutenir, dans nos établissements, une culture de l’attention, de développer des stratégies pour aider les professeurs et les jeunes à se rendre sensible à ce qui les ‘affecte’ dans leur vécu personnel, dans leurs relations, dans la société, à en parler, à y réfléchir, à affiner leur intérêt pour ce qui, dans notre société contemporaine, met des jeunes, des adules, des peuples entiers à risque31. Affiner la sensibilité pour tout ce qui concerne l’homme contemporain, qui que ce soit, où que ce soit représente l’alphabet primordial de ce qui constitue le « se souvenir de la présence de Dieu ». C’est dans l’intérêt pour et le service de l’autre que Dieu se fait connaître de façon inattendue, surprenante. En s’engageant dans cette voix, on court le risque d’être transformé de façon bouleversante. En cela, Dieu devient l’inoubliable et ne peut plus disparaître de notre vie.

30

R. SAFRANSKI, Het kwaad of Het drama van de vrijheid, (vert.Mark Wildschut), Amsterdam/ Antwerpen, 1998, ch. 17 (Das Böse oder Das Drama der Freiheit, München/Wien, 1997). 31 H. LOMBAERTS & S. MADDER, Mag het iets meer zijn? Kantlijnnotities bij het leven op school. Groot-Bijgaarden, 2008.



LASALLIANA

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Cronache dal mondo lasalliano

International Lasallian News

Québec / Les manuels scolaires. Une recherche lasallienne La communauté des Frères des écoles chrétiennes, depuis ses origines, s'est donné comme mandat l'éducation de la jeunesse aux valeurs chrétiennes par l'instruction. D'abord confinée à la France, elle se lance dans une politique d'expansion qui en fera, entre 1850 et 1950, la principale multinationale au monde dans le secteur de l'éducation. Pour accomplir la mission qu'elle s'est donnée, non seulement forme-t-elle des dizaines de milliers de frères, mais elle crée des lieux de formation des instituteurs laïcs - les instituts de formation pédagogique sous différentes appellations - et produit à l'intention des uns et des autres des outils pédagogiques, les manuels scolaires, qu'elle exporte souvent d'un pays à un autre. Notre communauté a donc marqué profondément l'enseignement, particulièrement au niveau pré-universitaire, et il m'aparaît urgent que nous tentions d'en dresser un bilan systématique et général. Certes, des travaux ont été faits dans ce domaine, mais cantonnés à un lieu, à un individu, à une institution, à une période définie et plus ou moins courte; il nous manque une vue d'ensemble sur notre apport à la pédagogie mondiale. Je ne prétends pas qu'on peut rapidement combler ce vide mais on devrait commencer à produire les instruments de travail sans lesquels une telle synthèse ne pourra jamais être entreprise. Deux chantiers m'apparaissent primordiaux pour tenter de cerner notre présence dans la pédagogie mondiale: les manuels scolaires et l'enseignement de la pédagogie. Les manuels scolaires en premier lieu. Ils illustrent les disciplines jugées les plus importantes et véhiculent les valeurs qu'on a tenté d'inculquer aux jeunes. Non seulement avons-nous rédigé des manuels mais dans certains pays nous sommes devenus des éditeurs importants; à titre d'exemple, les FEC ont été le principal éditeur de ma-


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nuels scolaires au Québec entre 1900 et 19501 et il se peut qu'on puisse en dire autant de la Belgique quand le traitement des données sera complété. Par la diaspora de l'institut à partir de la France, les manuels ont émigré d'un pays à un autre; le Québec, pour ne citer que ce seul cas, a réimprimé, plus ou moins intégralement, des dizaines de manuels publiés initialement par les confrères de France. D'autres instituts se sont inspirés de nos manuels, comme les Frères de l'instruction chrétienne qui, au XIXe siècle, éditent en Afrique centrale une version des Devoirs du chrétien, les mêmes FIC, tout au moins au Québec, utilisent parfois la formule «Une commission d'instituteurs»... Témoins des pratiques pédagogiques, les manuels les explicitent de façon claire, comme dans les «livres du maître» qui, en plus des réponses aux travaux demandés aux élèves, contiennent souvent des exposés méthodologiques à l'intention des professeurs. La première démarche pour l'étude des manuels consiste dans la compilation du catalogue: on ne peut analyser ce qu'on ne connaît pas! A cet effet, le travail que j'ai entrepris voilà quelques années ouvre des perspectives. Le catalogue en ligne2 offre un premier lot de plus de 7000 titres publiés dans plus de vingt pays, avec prédominance pour la France et le Canada, les deux seuls pays pour lesquels j'ai procédé à une traque systématique; quand j'aurai terminé le traitement des données recueillies en Belgique, le catalogue dépassera largement les 8000 titres. Or les pays hispanophones et l’Italie ne sont, pour l'instant, que sous-représentés dans le catalogue, aussi, peut-on, sans se tromper, anticiper un corpus de plus de 10 000 titres, éditions princeps et réimpressions confondues. Comme masse critique, on peut difficilement souhaiter plus! Cette opération, toute essentielle qu'elle soit, n'a sa raison d'être que si elle débouche, dans un second temps, sur des analyses, soit l'histoire des manuels scolaires. Je note à ce sujet que ce champ de recherche, longtemps délaissé par les historiens, commence à les intéresser. Je pense aux travaux d'Alain Choppin en France, sommité mondiale dans ce domaine; l'exposition sur le manuel scolaire québécois que j'ai montée à la Bibliothèque nationale du Québec (avril 2006 - mai 2007) s'inscrit dans cette même dynamique. Chez les FSC, tout est à faire dans ce domaine si on ne tient pas compte de quelques études très ponctuelles publiées ici et là. En simplifiant, on pourrait dire que la production de manuels relève de la pédagogie pratique. Mais il y faut également faire entrer notre apport aux théories pédagogiques. En plus de nos propres institutions englobées dans le terme générique de scolasticats, nous avons fondé et dirigé des dizaines d'écoles normales destinées aux futurs maîtres non membres de notre institut, que ce soit en Belgique, au Nicaragua ou au Québec, et ailleurs, évidemment. Les professeurs de ces institutions ont publié des travaux résultats de leurs recherches et témoins de leurs cours, ils ont aussi fondé des revues pédagogiques destinées aux professeurs hors de nos murs. Là aussi des travaux ont été réalisés, comme ce mémoire sur L'évolution pédagogique contemporaine et l'Institut des frères des écoles chrétiennes mentionné dans la circulaire no 266 du 6 janvier 1929. Mais il nous faut aller plus loin. Ainsi, une toute simple question: avons-nous une liste des facultés d'éducation - souvent coiffées de titres les des1

Voir P.AUBIN, Per una storia del manuale scolastico. Il caso tipico dei FSC canadesi nell’OttoNovecento, Rivista lasalliana 75 (2008) 3, 435-452.

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http://www.bibl.ulaval.ca/ress/manscol/diaspora.


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servant au premier abord comme l'Institut pédagogique Saint-Georges de Montréal qui, de par le monde, ont véhiculé la pensée pédagogique de l'institut? Là comme pour les manuels s'impose en premier lieu la constitution d'un catalogue de la production écrite. Je veux bien continuer et élargir le travail déjà amorcé avec les manuels, mais il me faut pouvoir compter sur des collaborations locales. A cet effet, le comité des publications de l'institut ne pourrait-il pas être mis à contribution? Les membres de ce comité pourrait servir de tête de pont pour établir des contacts locaux et partant retracer les publications qui nous intéressent. Cueillette de l'information, certes, mais aussi diffusion. Tant que nous en serons à la phase initiale de la recherche soit la compilation des données bibliographiques, je pense que le site internet que j'ai créé et que je continue à alimenter demeure la meilleure solution. Diffusé par le serveur de l'université Laval qui met à mon service son personnel spécialisé et qualifié, il a l'avantage, non négligeable, de ne rien nous coûter... Il faudrait aussi envisager la possibilité de publier les études qui, je l'espère, découleront naturellement de la constitution des banques de données. A titre d'exemple, un étudiant de l'université Laval terminera d'ici peu un mémoire de maîtrise sur notre procure de Montréal qui fut, je le rappelle, la principale maison d'édition de manuels scolaires au Québec pendant la première moitié du XXe siècle; il me mentionnait que le livre de comptes de cette procure au XIXe siècle montre qu'un syllabaire a été imprimé à plus de 500,000 exemplaires! Comme je le disais plus haut, un courant commence à se dessiner chez les historiens vers ce sujet d'études - le colloque sur le manuel scolaire que j'ai organisé à Montréal en avril 2005 a réuni plus de 400 participants d'une vingtaine de pays - et nous pourrions probablement compter sur des collaborations intéressantes et à peu de frais venant des milieux universitaires.

Paul Aubin, fsc paubin@upc.qc.ca

Roma / 1959-2009 : i Cahiers lasalliens compiono 50 anni Il primo volume della serie porta la data del 1959. A cinquant’anni di distanza i volumi usciti - tra Testi in copia anastatica, Studi critici e Documenti annessi - sono già 65, per un totale di oltre ventimila pagine, e altri volumi sono in preparazione al fine di soddisfare gli ambiziosi obiettivi annunciati nel progetto iniziale (CL n.1). Sono il frutto della collaborazione solidale di un manipolo internazionale di ricercatori che si sono succeduti nel tempo, di diversa competenza e provenienti soprattutto dall’area francofona e ispanofona. Ovvia la predominanza della lingua francese, trattandosi in gran parte di studi sugli scritti del Fondatore o sulla sua biografia, ma alcuni degli ultimi Cahiers sono usciti anche in versione inglese e spagnola. Nessun dubbio che - al di là della tradizionale e discutibile agiografia di un tempo - le ricerche storiche, filologiche e biografiche sulla persona del La Salle, sulle sue opere e sulla risonanza del suo pensiero nel mondo dell’educazione e delle spiritualità, abbiano ricevuto un impulso decisivo in quest’ultimo cinquantennio grazie anche agli strumenti di lavoro offerti dai Cahiers lasalliens. Ideatore e anima dell’impresa, com’è ben noto ai cultori, è


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stato il belga frère Maurice-Auguste Hermans (1911-1987), che ammetteva spesso, tra l’altro, di essere grandemente debitore verso gli studi pionieristici di Rivista lasalliana, nata un quarto di secolo in anticipo sui Cahiers. Ci piace ricordarlo con le parole con cui anni fa la prestigiosa Nouvelle Revue Théologique dei gesuiti di Bruxelles presentava il volume n.5 della collana:

Depuis longtemps nos lecteurs apprécient l'intérêt historique des Cahiers lasalliens (CL). Cette série de publications scientifiques fut lancée en 1959 - et jusqu'en 1987 dirigée - par un religieux belge, le Fr. Maurice-Auguste (Alphonse Hermans). Intelligence brillante, travailleur infatigable, pénétré de l'esprit de son Institut et soucieux d'en faire mieux connaître le patrimoine, il donna pendant quarante ans à l'étude de ses origines tout le temps dont il disposait. D'abord professeur de sciences et directeur de scolasticat en Belgique, il avait été appelé à Rome en 1946. Il y remplit des charges importantes dans la formation de ses confrères et le gouvernement de sa congrégation: procureur général, assistant, expert au service de plusieurs chapitres et pour la révision des règles religieuses, ordonnateur des études lasalliennes. Sa thèse de doctorat en Droit canonique porta sur le statut juridique de son Institut [publiée ensuite dans le CL n.11]; elle s'attacha en particulier au Mémoire sur l'Habit, rédigé en 1689-1690 par le saint Fondateur. À ce document primordial il projetait de consacrer une analyse approfondie ; mais il ne put mener à terme cette entreprise de grande portée […].(NRTh, 1992, n.4, p.612).

España / El nuevo Centro Universitario LaSalle El 20 de octubre de 2008 se celebró el acto oficial de apertura del nuevo curso académico en el Centro Universitario LaSalle de Madrid, en el que el doctor Andreu Veá impartió la lección inaugural titulada Todo aquello que ya sabemos de Internet pero que nunca nos hemos atrevido a preguntar. El Acto estuvo presidido por la Directora del Centro Universitario LaSalle por la Universidad Autónoma, Da Mimi Flores, acompañada por el Presidente de LaSalle Campus, Hno. Luis Timón, el Vicepresidente y Decano de Ciencias de la Salud, Hno. Alejandro Pérez-Ochoa, la Decana de Ciencias de la Educación, Da Miguela Domingo, y el Decano de Gestión y Tecnología, D. Jesús Alcoba. El Centro Superior de Estudios Universitarios LaSalle viene desarrollando su labor educativa de formación de maestros y maestras desde el año 1949. En estos momentos está diversificando su oferta educativa aprovechando la experiencia acumulada por su historia y su presencia universitaria en todo el mundo. Desde 1980 el CSEU LaSalle se encuentra oficialmente adscrito a la UAM, Universidad Autónoma de Madrid, por la que otorga títulos homologados y oficiales. A partir del curso 2002-03 pasó de ser Escuela Universitaria a Centro Superior de Estudios Universitarios al incorporar, entre las diferentes titulaciones que ofrece, estudios de Licenciatura. Del mismo modo, tras completar los estudios de grado, los estudiantes lasalianos disponen en el mismo campus de Aravaca de un prestigioso centro de posgrado: La Salle IGS (Internacional Graduate School) LaSalle cuenta con 84 Instituciones de Educación Superior, integradas en la AIUL, Asociación Internacional de Universidades Lasalianas, creada en 1998 (Arlep 2008).


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Holy Land / The Cardinal Martini Leadership Institute The mission of Bethlehem University - run by the Christians Brothers of the Usa since 1975 - “is to provide quality higher education to the people of Palestine and to serve them in its role as a center for the advancement, sharing, and use of knowledge�. As a contemporary and practical expression of that mission, the Cardinal Martini Leadership Institute provides to individuals, groups, and communities information, human resources, and programs that contribute to the development of the leadership capacity of Palestinians. The Institute fosters models of inclusive, democratic, and participatory leadership developed by and appropriate to the people and institutions of Palestine. This is accomplished through research, teaching, and practical experience. The Cardinal Martini Leadership Institute promotes the following values in all its endeavors: recognition of the inherent dignity of all people and of all creation, the collaboration and participation of all in decision-making that affects them, integrity and justice, the common good, freedom of and responsibility in expression, ethical courage, and relationship building. Institute origins - The idea of a leadership institute was conceived at the time Bethlehem University awarded an honorary doctorate to Cardinal Carlo Maria Martini. On 26 June 2005, in recognition of his untiring and solid leadership in the Church, and in recognition of his practical spiritual guidance and concern for all believers and unbelievers, Bethlehem University bestowed on Card. Martini, honoris causa, the degree of Doctor of Humanities. Subsequently, various friends of the University supported this idea and helped to secure funding to develop a leadership institute in the Cardinal's honor. [A think tank comprised of Palestinian and expatriate academics and NGO leaders was formed develop the concept of the Cardinal Martini Leadership Institute consistent with the mission of Bethlehem University and responsive to the needs of the Palestinian people.] Participants - The Cardinal Martini Leadership Institute is for: - youth (e.g., university students and young people involved in youth organizations); - woman (working in- or outside the home who want to enhance their skills for influencing others); - employees in community-based organizations (e.g. NGOs and not-for-profit institutions and agencies - educational, social service, healthcare; - people in positions of civil or religious authority. Activities - Through the academic resources of Bethlehem University and in cooperation with other institutions, the Cardinal Martini Leadership Institute: - will design is requested and with follow-up evaluation multidisciplinary training in leadership development through courses, workshops, seminars and experiential learning; - conducts research to further the understanding of the human dynamics of leadership, particularly in the Palestinian context - international conferences on leadership to broaden the scope of and contribute to the understanding of democratic leadership.


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Institute goals – To provide for the ongoing study and enhancement of the concept of leadership at Bethlehem University and in Palestinian society. - To develop a foundation for ethical leadership across social, cultural, economic, and political practices, relationships and organizations. - To promote the values of democratic leadership in Palestinian society. - To empower Palestinian leaders for the social, cultural, economic and political advancement of their society.

Bethlehem University of the Holy Land - www.bethlehem.edu

Brasile / Nuova rivista «Conhecimento e Diversidade» di Uni-LaSalle E’ uscito a fine 2008 il primo numero di Conhecimento e Diversidade, la nuova pubblicazione periodica progettata da un team di docenti degli Istituti Superiori di insegnamento gestiti dai Lasalliani del Brasile. La rivista è pensata anzitutto come spazio privilegiato per la pubblicazione delle ricerche dei docenti dei suddetti istituti universitari, e avrà quindi un carattere multidisciplinare. Essa uscirà, a scadenza semestrale, in forma di quaderni monografici: un tema centrale verrà articolando in contributi complementari di varia competenza scientifica. Il dossier tematico di questo numeropilota, ruota intorno all’Etica, e raccoglie in particolare una serie di interventi presentati al IV Congresso internazionale lasalliano di Educazione, realizzato dalla UniLaSalle di Rio de Janeiro nell’ottobre 2007, nel quadro delle celebrazioni del 1° centenario della presenza lasalliana in Brasile. Gli articoli affrontano diversi aspetti dell’Etica applicata in campo cognitivo ed educativo: etica e valutazione – etica ed educazione familiare – missione etica del giurista – impegno etico della formazione permanente – dimensione etica della pedagogia lasalliana – etica e giovani nella postmodernità – etica e mondo della comunicazione informatica. Il binomio scelto come titolo programmatico della pubblicazione riflette, in effetti, due dei caratteri emergenti della presente congiuntura culturale a livello mondiale: le dinamiche della cosiddetta “società della conoscenza” e il fenomeno macroscopico della diversità culturale. Scuola e università, educazione e ricerca, sono coinvolte con responsabilità imperative nel gestire il presente e il futuro di questo binomio. “L’analisi della diversità – si legge nel primo editoriale – impone questioni paradigmatiche e concettuali, impone soprattutto vigilanza critica ed etica perché le diversità, per diritto e dovere di cittadinanza, non debbano trasformarsi in disuguaglianze. (…) Al nostro pensare critico e al nostro agire democratico si impone, imprescindibile, il principio esistenziale e socio-politico della uguaglianza nelle differenze”. Il preannunciato programma 2009 e 2010 della rivista prevede numeri monografici su temi come: Diversità e valori – Tecnologie e conoscenza – Politica e società – Società e conoscenza. Revista Conhecimento e Diversidade, A/C Anna Cristina Farias,

Rua Gastão Gonçalves 79, Santa Rosa-Niterói, Rio de Janeiro, Brasil http://www.unilasalle.org/diversidade.php ; rcd@unilasalle.org


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Europa / Paul Griéger, FSC (1916-2009): la passione per lo studio dell’uomo e dei popoli

Nato a Pavlany (Slovacchia) il 3 gennaio 1916 entrò da giovane nel noviziato missionario dei FSC a St.Maurice presso Lione. Dopo gli studi secondari a Moulins conseguì la laurea in lettere all’Università Cattolica di Lione, il diploma in Studi superiori e il dottorato in filosofia alla Sorbona. Professore di filosofia a Beyrout dal 1938 al 1949, è chiamato nel 1950 a far parte della Commissione per l’edizione dei libri per la sezione di filosofia e pedagogia, e nel 1954 è nominato segretario del Bureau international d’Anthropologie différentielle (Paris). Invitato a intervenire a numerosi congressi per queste ricerche, condusse per conto dell’UNESCO una vasta indagine etnologica mondiale durata una decina d’anni, in 52 paesi dei cinque continenti, i cui risultati rifluirono in una delle sue opere più originali e note, La caractérologie ethnique. Approche et compréhension des peuples (Presses Universitaires de France, Paris 1961; trad. spagnola: Barcelona 1966). Dal 1957 fino all’inizio degli anni 90, risiedendo prevalentemente in Roma (Casa Generalizia), fu professore di Psicologia razionale e di Psicologia della religione all’Università Lateranense, tenendo nel contempo corsi di Caratterologia pastorale in vari collegi internazionali a Roma e in decine di congressi scientifici, specialmente in Medio Oriente e in America Latina. Da docente continuò le sue ricerche nei campi preferiti delle scienze umane applicate alla pedagogia scolare e degli adulti, alla animazione culturale dei gruppi e delle comunità, al counseling psicologico e pastorale, pubblicando una considerevole mole di studi che formano una corposa bibliografia: una trentina di volumi, alcuni dei quali tradotti in varie lingue, una sessantina di articoli scientifici e decine di monografie varie, quest’ultime prodotte specialmente come dispense annuali ad uso degli studenti universitari durante un quarantennio di docenza. Sono poi non meno di duecento le tesi di laurea e di dottorato di cui Griéger è stato primo relatore o co-relatore sia presso la Lateranense (facoltà di teologia, Istituto di Pastorale, Istituto Jesus Magister), sia in altri Istituti accademici internazionali romani come il Regina Mundi e il Claretianum.

«Ses ouvrages puisent leur inspiration dans les meilleurs et les plus récents traités de caractérologie publiés en France – scriveva il vescovo di Monaco Gilles Barthe nella prefazione alla III edizione del volume La caractérologie pastorale. Caractère et vocation, éd. J.V., Principauté de Monaco 1965 – Il ne veut en aucune façon céder à la mode de la psychanalyse dont on parait abuser parfois hors de nos frontières. Il se limite à l’observation psychologiques des caractères en partant de la typologie de Heymans-Le Senne dont l’autorité s’impose. Paul Griéger s’est depuis longtemps familiarisé avec ces problèmes, il a lui-même dépouillé quantités de fiches et de tests, en tenant à jour d’une manière scrupuleuse ses connaissances théoriques. Nous sommes en présence d’un instrument de travail aussi sérieusement pensé que clairement présenté. […] Préoccupation constante de Paul Griéger est celle de confronter les remarques suggérées par la science la plus actuelle aux enseignements de la tradition la plus sûre » (p. 11-13).


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Fin dagli anni della sua formazione accademica frère Griéger era stato sedotto in profondità dal pensiero personalista del Mounier e del Blondel, dallo spiritualismo di Louis Lavelle e soprattutto dalle ricerche caratterologiche di René Le Senne (18821954), con il quale sostenne alla Sorbona una brillante tesi di dottorato, L’intelligence et l’éducation intellectuelle, edita da Presses Universitaires de France nel 1950 (tradotta in italiano dal pedagogista salesiano Luigi Calonghi, SEI, Torino 1957, e in spagnolo). E’ lo stesso Le Senne che nella prefazione a Psychologie (tomo I del Cours de Philosophie, Ligel, Paris 1952), riconosce al Griéger il merito di aver saputo sviluppare una originale concezione della persona, incentrata sull’uomo inteso come un’unità risultante dalla relazione tra il suo carattere, la condizione congenita dei tratti della sua natura, e la sua personalità: “C’est cette conception qui, maintenant dans son universalité, dirige l’ouvrage que M.

Griéger nous présente ici. Il en déduit une psychologie et une philosophie à la fois objectives et humaines, réalistes et idéalistes, soucieuses de ne jamais oublier ce que l’homme est par sa nature, serait-ce pour l’en garder, et de ne jamais trahir ce qu’il y a en lui d’esprit et d’exigence de plus d’esprit. En lui l’être se dynamise en devoirêtre : il est libre pour chercher la valeur, et s’y dévouer, élever sa nature en la spiritualisant, mettre les dispositions qui lui ont été données au service de sa propre noblesse, de l’amour des autres, du don de soi à la valeur divine, lumière et feu des âmes » (p. XII). Rivista lasalliana, non solo si è onorata più volte di pubblicare alcuni suoi scritti¹, ma recentemente ha anche offerto un breve saggio bio-bibliografico complessivo a firma dello stesso Griéger². La rivista si ripromette inoltre di pubblicare in uno dei prossimi numeri altre sue pagine finora inedite. Il lettore italiano dispone peraltro di numerosi saggi di pedagogia sociale e di animazione comunitaria in versione divulgativa e pastorale³: si tratta di strumenti di lavoro, spesso usciti in seconda e terza ristampa, che nei tre ultimi decenni hanno riscosso un largo favore tra operatori scolastici, formatori del personale d’impresa, comunità religiose. [fp] ----

¹ Intelligenza e carattere, 22 (1955) 4, 351-357. La caratterologia moderna e i suoi problemi, 23 (1956) 3, 322-333. Caractérologie ethnique et éducation, 24 (1957) 2, 161-168. L’inter-caractérologie au service de la pédagogie, 25 (1958) 3, 196-204. ² Paul Griéger, Souvenirs d’une vie. Œuvres et publications, 72 (2005) 3, 183-195. ³ Presso Ancora editrice, Milano : Comunità di persone. “Essere con…” 1978; Costruzione della persona e vita comunitaria, 1981; Comunità di persone, 1981; Metodologia dell’azione, 1983; La formazione permanente. Pedagogia speciale degli adulti, 1985; Formazione e promozione della persona, 1985; La comunità religiosa comunione di persone. Animazione spirituale, 1987; I giovani oggi e il progetto di vita. La pastorale delle vocazioni, 1988. • Presso le Edizioni Paoline, Alba-Roma: Animazione comunitaria, 1976; Comunicazione e informazione al servizio della comunità, 1977; La creatività strumento di rinnovamento. Applicazioni comunitarie, 1977. • Presso la Società Editrice Internazionale, Torino: L’intelligenza e l’educazione intellettuale, tr. it. di L. Calognhi, 1957; Lo studio pratico del carattere, tr. it. di P. Mengotti sulla III ed. francese, 1968; La caratterologia pastorale, tr. it. di G. Lorenzini, 1969.


BIBLIOTECA

RivLas 76 (2009) 2, 349-368

Pensare ed educare in spirito e verità 1. Michele Federico Sciacca nel centenario della nascita Michele Federico Sciacca (Giarre1908 - Genova1975) vive le vicissitudini di gran parte del Novecento, attraversa le contraddizioni di sistemi di pensiero legati all’idealismo, al positivismo, allo scientismo, alle loro opposizioni, lavora e insegna con passione inestinguibile. L’itinerario intellettuale di Sciacca, intenso e ricco, problematico e non esente da spirito polemico, è magistralmente tracciato dall’argentino Alberto Caturelli in Michele Federico Sciacca, metafísica de la integralidad,1 recentemente tradotto in italiano da Pier Paolo Ottonello dell’Università di Genova, alunno di Sciacca e a lui fedelmente legato nella buona e nella non buona sorte, autore di volumi significativi sul Maestro2. 1. Sciacca sin da giovanissimo si rivela lettore accanito di classici della letteratura e della filosofia. A 14 anni si allontana dalla fede, attratto nelle inquietudini di un mondo che misconosce cattolicesimo e traditio. Al liceo e all’università come studente, e poi nei primi anni di docenza, respira un clima di violenta opposizione al cristianesimo. Attraversa un difficile processo di formazione intellettuale e spirituale. Dalle Linee di uno spiritualismo critico (1936), suo primo lavoro speculativo, alle opere della maturità il suo itinerario comprende tre fasi ben distinte: dall’attualismo allo spiritualismo critico, dallo spiritualismo critico allo spiritualismo cristiano, dallo spiritualismo cristiano alla filosofia dell’integralità. Le prime due fasi si possono cogliere abbastanza agilmente nelle pagine di Dall’Attualismo allo Spiritualismo critico e di Dallo Spiritualismo critico allo Spiritualismo cristiano3. La storia del primo Sciacca è segnata fortemente dall’attualismo di Giovanni Gentile; in seguito è anche segnata fortemente dal suo graduale e sempre più convinto e incisivo distacco dal Gentile. Il rapporto col Gentile, sempre improntato, anche nella fase dello scontro, a rispetto e correttezza, è raccontato dallo stesso Sciacca nelle pagine autobiografiche de La Clessidra (Il mio itinerario a Cristo). Nel 1935 Sciacca riceve da Gentile l’incarico di preparare per la “Collana di letture filosofiche” della Sansoni un’edizione dei Principi della scienza morale e della Storia comparativa e critica dei sistemi intorno al principio della morale di Antonio Rosmini. La lettura attenta delle due opere porta Sciacca a un’interpretazione antikantiana del Rosmini, “opposta a quella del Gentile” (C, 112). 1 Alberto CATURELLI, Michele Federico Sciacca. Metafisica dell’integralità, Ares, Milano 2008. Prefazione e traduzione di P.P. Ottonello. L’opera è pubblicata a Cordova in Argentina nel 1959. Una seconda edizione, accresciuta, esce a Genova nel 1990-91. L’edizione del 2008 comprende in appendice quattro saggi: Senso e mistero della mia opera su Sciacca (1987), La filosofia come agonia (1995), L’ultimo articolo di Sciacca:”Satana tra noi” (2006), Significato e importanza della filosofia di Sciacca (2005). 2 Su Sciacca OTTONELLO pubblica: Sciacca, la rinascita dell’Occidente, Marsilio,Venezia ³1953; Sciacca, l’anticonformismo costruttivo, ivi, 2000; Sciacca, metafisica e interiorità, ivi, 2007, e altro ancora, volumi compresi nella raccolta degli Scritti. E’ appena il caso di ricordare di P. P. Ottonello la preziosa Bibliografia di M.F. Sciacca 1931-1968, Marzorati, Milano 1969, successivamente accresciuta e aggiornata nella Bibliografia degli scritti di e su Michele Federico Sciacca 1931-1995, in due volumi, dedicati rispettivamente a Scritti di Sciacca e Scritti su Sciacca, Olschki, Firenze 1996. Gli aggiornamenti bibliografici continuano regolarmente sulle pagine della rivista “Studi Sciacchiani”, giunta al XXV anno di vita. Tutta l’opera di Ottonello, quella teoretica e quella storica, fa riferimento al magistero di M.F. Sciacca. 3 Sigle delle Opere Complete di Sciacca (40 voll., Marzorati), citate nel testo: C = La Clessidra (Il mio itinerario a Cristo)1963 (¹1944); IR = Interpretazioni Rosminiane,1963 (¹1957); UQS = L’uomo, questo “squilibrato”,1963 (¹1956); MI = Morte e Immortalità,1968 (¹1962); SV = In Spirito e Verità,1969 (¹1952).


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Nel saggio Gentile interprete del Rosmini, pubblicato nel “Giornale critico della filosofia italiana” (1948) e successivamente inserito in Interpretazioni rosminiane, Sciacca riconosce al Gentile “il merito di avere rinnovato e promosso gli studi rosminiani” (IR, 52), approfondisce il problema e chiarisce che “il Rosmini non introduce elementi religiosi o dommatici nella ricerca filosofica confondendo due ordini diversi di verità”, “che l’esigenza religiosa è insita nel suo pensiero come profondo motivo ispiratore”, che egli si propone di costruire una filosofia nello spirito del più rigoroso “processo della ricerca razionale” (IR,55). Il Rosmini di Sciacca “è l’ultimo grande pensatore dell’Occidente”, il difensore “dell’Occidente greco-latino-cattolico, cioè di quella metafisica dell’essere che ne è il fondamento” (C, 113). 2. Filosofia e metafisica raccoglie impegnativi studi e saggi degli anni 1945-1950. Sciacca sostiene e difende la metafisica – la metafisica creazionista -, ne legge lo sviluppo, ne evidenzia gli indirizzi fondamentali, i principi, i valori. La filosofia o è metafisica o non è. Si intitola “Giornale di Metafisica” la rivista che fonda nel 1946 e dirige sino alla morte. Con Filosofia e metafisica siamo nell’area della “filosofia dell’integralità” e di temi su cui Sciacca insiste in tutto il corso della vita: esistenza di Dio e ateismo, ragione ed esperienza, tempo e libertà. Ma la metafisica di Sciacca è metafisica dell’uomo. E’ l’uomo il centro della filosofia dell’integralità, l’uomo nella sua interezza e dignità, nella sua inquieta tensione a Dio. L’uomo, questo “squilibrato” vuole rispondere a domande “terribilmente difficili”: “Chi sono io che sento, penso, conosco e voglio? Chi e che cosa sento penso conosco e voglio? Secondo quale norma? (UQS, 15). Il saggio sulla condizione umana è sostanziato di spirito agostiniano: il cristianesimo “ha svelato alla filosofia nuovi orizzonti e le ha dato chiara e profonda coscienza che il suo vero problema è l’uomo”; la filosofia è antropologia teocentrica; “è vera l’affermazione di Agostino:ubi Deus, ibi homo” (UQS, 176). Scrive Roberto Rossi:“Noi siamo ciò che siamo, soltanto in virtù dell’Altro”4: l’uomo è integro se radicato nell’Essere. 3. Discorso serrato sull’uomo, sul corpo e sullo spirito, sul destino ultimo dell’uomo. La ricerca sul destino ultimo dell’uomo tormenta Sciacca per tutta la vita, come si apprende dalle pagine autobiografiche e dagli studi dedicati al problema sino agli ultimi giorni. Nella premessa alla seconda edizione (30 gennaio 1962) di Morte e immortalità si legge (e si noti il tono polemico e soddisfatto):“In meno di due anni, contro ogni mia previsione, si è esaurita la prima edizione di questo saggio; ciò significa che il tema trattato, se ‘morto’ per gli ‘immortali’ accademici del nostro tempo, è vivo nella coscienza degli uomini che alla filosofia hanno chiesto sempre qualcosa che le Accademie non hanno mai potuto dargli” (MI, 11). Il libro affronta il problema della morte in tutti i suoi risvolti; soprattutto tratta dell’immortalità. Si legge nell’introduzione: “Il fatto che l’uomo, e solo l’uomo, sa di morire, è già indizio della sua immortalità spirituale” (MI, 37). E’ compito della filosofia, della filosofia autentica, studiare la struttura dell’uomo e tentare risposte a domande fondamentali. Lo squilibrio ontologico dell’uomo“è sanato dal colpo mortale della morte” (MI, 163). Ma se l’uomo è abitato dalla “presenza ontologica, costitutiva del suo stesso essere e pur trascendente, dell’infinito e del necessario, consegue che la morte è solo un’inerenza necessaria a quanto in lui è contingente, si addice alla sua vita nel tempo. Come scrive Spinoza, ‘sarebbe contraddittorio che l’uomo non morisse’. Ma è contraddittorio ammettere che l’uomo non muoia tutto?” (MI, 30). Sciacca instaura un dialogo sereno con filosofi, teologi, mistici, poeti… nell’intento di cogliere inquietudini e attese dell’uomo e accompagna il lettore, attraverso pagine ricche di fascino, nel cammino verso la verità. Studioso appassionato di filosofia antica e attento lettore di Platone, ne evidenzia l’impossibilità a “giustificare il concetto di salvezza” e il conseguente approdo al “senso tragico dell’esistenza condannata alla morte” e a “un mondo condannato ad essere eterno”. Lo rileva Carlo Lupi nel saggio 4 Roberto ROSSI, Lo squilibrio ontologico in Michele Federico Sciacca, in Michele Federico Sciacca e la filosofia oggi. Atti del Congresso internazionale nel ventennio della morte del filosofo (Roma 4-8 aprile

1995), Olschki, Firenze 1996, p. 138.


Biblioteca

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L’immortalità dello spirito personale nel pensiero di Sciacca, ove fa riferimento a san Tomma-

so e al concetto di “anima intellettiva”, “forma sussistente spirituale” che richiama non il concetto di generazione, ma quello di creazione5. L’antropologia dello squilibrio (dello squilibrio “tra ciò che l’uomo è e quello che vuole essere, tra la sua situazione di fatto e la tensione verso l’infinito che segna tutta l’esistenza umana”) supera, scrive Battista Mondin, il rapporto tra scienze della natura e scienze dello spirito e sottolinea nell’uomo “quell’ansia del vero che lo conduce fino a Dio”6 e sul terreno del discorso filosofico-teologico della Risurrezione.

4. Sciacca si colloca nel cuore della filosofia occidentale: studia autori e correnti, esamina contesti e opere, discute, accoglie, respinge, valuta. Il suo pensiero è colloquio, meditazione, sondaggio, ripresa, anelito. Le sue pagine di storia della filosofia sono documentate e rigorose, ma sono anche pagine di teoresi, espressione di limpido impegno spirituale. Invitano al dialogo, alla lettura, alla scoperta delle energie di cui è ricco l’uomo, all’avventura che da sempre lo spirito umano percorre e vive. Platone e Agostino, Bonaventura e Tommaso, Pascal e Vico, Rosmini, i filosofi dello spirito, i mistici, i poeti: leggere Sciacca, oggi, significa leggere le fatiche, le cadute, le attese, le gioie di un’umanità sempre alla ricerca della verità. L’amore per l’uomo e per la sua avventura fa di lui un educatore autentico. Vuole aiutare l’uomo a trovare l’uomo. 5. Un educatore? Sciacca aveva in animo di arricchire con un volume di pedagogia il corpus della filosofia dell’integralità. Ma non ebbe l’occasione di scriverlo. Chi scrive su Sciacca pedagogista fa riferimento in genere a Pagine di pedagogia e di didattica; ma fare riferimento solo a tale volume è limitativo. Va detto subito che la passione educativa di Sciacca si coglie in ogni pagina della sua ricca produzione ed è nel cuore dell’intera sua azione di promotore di eventi culturali. Fonda il Centro internazionale di Studi rosminiani di Stresa, con annessa la cattedra Rosmini, dirige collane editoriali, partecipa a incontri internazionali, collabora a quotidiani e periodici con l’intento di contribuire all’educazione di giovani, di uomini, di donne. Ama la scuola: da studente, da professore di liceo, da docente nelle università. Per la scuola – per alunni e docenti – commenta classici del pensiero e scrive manuali di storia della filosofia7. Dialoga coi giovani, anche nel momento della grande contestazione studentesca: e lo fa con animo indipendente, sapendo di rischiare a destra e a sinistra. Tomaso Bugossi traccia un profilo dello spirito “giovanile” di Sciacca in Sciacca e i giovani: e sottolinea le intenzioni con cui Sciacca si accosta ai giovani. Sciacca invita i giovani a non lasciarsi opprimere o trascinare o condizionare da sette, da gruppi, da partiti, da manovre mediatiche, da predicatori roboanti, a essere liberi, a lavorare serenamente, a conquistare il proprio avvenire con l’impegno personale, con lo studio fecondo, con la passione, con l’amore per la verità. Insegna ai giovani la laicità del sapere e della cultura, la libera ricerca, lo spirito di rigore e di coerenza. Li educa all’intelligenza limpida del rapporto tra fede e ragione, tra teologia e filosofia, tra filosofia e scienze, tra umanesimo e progresso scientifico. Scrive Bugossi:”Allora il problema sta nell’educazione: dobbiamo educarci ed educare a formarci interiormente, in quanto sono gli uomini che cambiano le strutture – economiche sociali politiche – e non viceversa. Dobbiamo seguire Cristo, la sola vera rivoluzione, quella della conversione integrale al Bene…”8. L’espressione bugossiana evidenzia le radici del pensiero pedagogico di Sciacca, che è tutt’uno col suo pensiero sociale. Si vuol dire che l’antropologia di Sciacca è la radice della sua opera pe-

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Carlo LUPI, L’immortalità dello spirito personale nel pensiero di Sciacca, in Michele Federico Sciacca e la filosofia oggi, o.c., pp. 180-181. Battista MONDIN, Storia dell’Antropologia Filosofica, ESD, Bologna 2002, pp. 492+493. 7 Manuali di Sciacca per la scuola: Manuale di storia della filosofia, Perrella, Roma 1940; Il problema dell’educazione nella storia della filosofia e della pedagogia, Morano, Napoli 1941; La filosofia e la scienza nel loro sviluppo storico (con M. Sancipriano), Cremonese, Roma 1958. Edizioni e ristampe successive 6

anche con titoli ed editori diversi. Tomaso BUGOSSI, Sciacca e i giovani, in “Studi Sciacchiani”, gennaio-giugno 1988, p.87.

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dagogica. Sciacca occupa un posto di rilievo nel dibattito sociale e nella storia del pensiero sociale contemporaneo. Nella sua filosofia lo spazio assegnato ai temi sociali non è una mera appendice, è ampio, organicamente concepito, coerente con le linee di sviluppo della filosofia dell’integralità. I suoi interventi in tale ambito sono molteplici, esigiti il più delle volte da rigore logico e da spirito di coerenza ai principi che comandano la sua filosofia. Le pagine di L’ora di Cristo, La Chiesa e la civiltà moderna, La Casa del Pane forniscono indicazioni utili ai fini di una intelligenza piena dell’antropologia sociale sciacchiana. Pagine da leggere, secondo le indicazioni fornite dallo stesso Sciacca, con riferimento a La filosofia oggi, dove si tratta di filosofia in senso ristretto e non di pensiero sociale, avendo questo, pur nella sua innegabile “attinenza” con la filosofia, una sua particolare dimensione. L’attinenza è però sostanzialmente avvertita come nesso: e Sciacca procede al recupero di un plesso di problemi che sono sociali e spirituali e conducono sul terreno della riflessione e dell’azione educativa. Il filosofo riflette sull’educazione, e diventa quindi educatore e pedagogista, partendo dai temi della vita, propri del filosofo, e da un contesto socio-culturale spesso complicato. Nasce dunque un’esigenza di chiarezza, che Sciacca soddisfa nel suo discorso tormentato e fecondo sulla perdita dell’essere: leggere i saggi su L’empietà culturale (in L’oscuramento dell’intelligenza) e Cultura e anticultura (in Gli arieti contro la verticale). E di Sciacca filosofo dell’educazione ed educatore si interessano studiosi e docenti di pedagogia: Catalfamo, Corallo, Daròs, Ricci. Si segnala l’attenzione di Sciacca ai programmi scolastici, alle proposte di riforma della scuola e dell’università, alle nuove tecnologie della comunicazione. Ma si segnala soprattutto lo spirito di coerenza con cui Sciacca affronta il dibattito pedagogico. Tale spirito proviene dall’intrinseca ‘pedagogicità’ della filosofia sciacchiana, che Maria Adelaide Raschini sottolinea in tante pagine (cf Pedagogia e antipedagogia, Marsilio, Venezia 2001) Una filosofia dell’uomo integro: pedagogia dell’educazione integrale. Una pedagogia dell’educazione integrale: umanesimo spirituale. Se, seguendo le indicazioni di Sciacca, si ha il coraggio di rinunziare ai vari tecnicismi che hanno invaso il campo dell’educazione vera, se si va al cuore del messaggio di Sciacca, ci si convince, contro la prepotenza delle mode e dei cattivi maestri, che educare è “inclinare l’uomo a leggere dentro di sé; in questo senso tutta la vita è scuola:la gioia e il dolore, il possesso e la mancanza di qualche cosa, una nascita o una morte, un filo d’erba o un cataclisma, se ogni evento della vita è esperienza esistenziale, stimolo o sollecitazione, invito o strattone violento e inaspettato capace di restituire noi a noi stessi…”(SV, 30-31). Educare è atto d’interiorità. Educare non si può se non “in spirito e verità”.

Francesco Pistoia

2. Attualità educativa del Rosmini Libri recenti su Rosmini: una fioritura felice e significativa, segno dell’interesse che il Roveretano suscita negli studiosi e dell’attenzione che la beatificazione ha reso particolarmente viva. 1. Anna Maria Tripodi, autrice di saggi su Rosmini e su eventi rosminiani, traccia un profilo del filosofo-teologo9 con scavi nella storia del pensiero e con riflessioni di stampo metafisico, con riferimenti a Michele Federico Sciacca e collegamenti alla Fides et ratio: un Rosmini nostro contemporaneo, un Rosmini maestro, coraggioso difensore della Verità, via verso la comprensione dell’uomo, della società, del diritto, della politica, dei “problemi emersi nella modernità” (p.177). Una sintesi delle posizioni del Rosmini così dentro la storia e così anticipatrici. 2. Altro importante intervento su Rosmini: quello di Michele Dossi10, che racconta la vita del Roveretano nelle sue linee fondamentali e soprattutto illustra alcune tra le opere più significati9

A.M. TRIPODI, Rosmini. La forza della Verità, ECIG, Genova 2005, pp. 268. M. DOSSI, Il Santo proibito. La vita e il pensiero di Antonio Rosmini, prefazione di Piero Coda, Il Margine, Trento 2007, pp. 190.

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ve e celebri: le Massime di perfezione cristiana,il Nuovo Saggio sull’origine delle idee, le Cinque piaghe della Santa Chiesa. Il Dossi esprime la sua ammirazione (e la comunica felicemente ai lettori) per l’etica rosminiana, “un cantico filosofico delle creature”. Ricorda che i Principi della scienza morale, pubblicati nel 1831, sono stati definiti da Augusto Del Noce (in L’epoca della secolarizzazione, Milano 1970, p.206) “la più grande opera etica di tutti i tempi, o cer-

tamente la più grande dei secoli moderni” (p. 75). 3. Anche Claudio Massimiliano Papa traccia un profilo biografico di Rosmini11, un profilo che riguarda lo studente, il sacerdote, il religioso, lo scrittore (invitato da Pio VIII a scrivere libri per la difesa della verità), il fondatore (dell’Istituto della Carità e delle Suore della Provvidenza, cui si uniscono gli “Ascritti”), il politico. Ma Rosmini: conoscere e credere vuole essere nelle intenzioni del suo autore, e come dichiara il sottotitolo, una “storia della causa”, che è pure storia della “questione” rosminiana. Il Papa precisa, infatti: “Quando, a proposito di Rosmini, si parla di ‘causa’ e ‘questione’ si indicano due realtà distinte tra loro, ma in stretta relazione” (p. 209), la prima vertente sulle virtù del cristiano, la seconda centrata sulle dottrine dello stesso. Un capitolo della storia di Rosmini (e della storia di organismi e realtà ecclesiali), fatto di malintesi, di letture affrettate, di spirito polemico e felicemente conclusosi ai giorni nostri con la Nota sul

valore dei decreti concernenti il pensiero e le opere del rev.do Sacerdote Antonio Rosmini Serbati della Congregazione per la dottrina della fede (1-7-2001) e col riconoscimento ufficiale

della santità (Novara, 18 novembre 2007). La vicenda fa emergere la virtù e l’insegnamento di Rosmini, paziente e obbediente, e suscita ammirazione per i rosminiani che affrontano attacchi e amarezze nel silenzio e con coraggio in piena consonanza con l’insegnamento e la testimonianza del Fondatore. Rosmini non solo con le sue dottrine quanto con la sua opera si rivela educatore e trasmette ai suoi figli spirituali lo spirito della missione educativa. Scuola e cultura sono il luogo privilegiato dell’evangelizzazione, il luogo privilegiato in cui i rosminiani esercitano la vocazione alla carità. Il libro di Papa è attento a Rosmini educatore e teorico dell’educazione, all’opera educativa svolta dal parroco di San Marco in Rovereto,all’autore di tante lettere e conferenze, degli scritti specifici di pedagogia, di metodologia, di didattica, di filosofia dell’educazione. Rosmini istituisce collegi, scuole, centri di ricerca, per promuovere studi severi di sacra scrittura, di teologia, di eloquenza sacra, per agevolare la formazione di maestri, insegnanti, catechisti. Entra in relazione con intellettuali del suo tempo, coi Lasalliani di Torino, con uomini pieni di zelo per il bene comune. Coltiva anche il progetto di un Collegio medico di San Raffaele. La missione educativa non è possibile senza vocazione e la vocazione sempre esige impegno spirituale. 4. Pier Paolo Ottonello pubblica – iniziativa degna d’ogni apprezzamento – l’inedito Della Scuola di Antonio Rosmini, redatto dal rosminiano Francesco Paoli (1808-1891) nel 1887 (aveva quasi 80 anni), opera esemplare – scrive il curatore – “in quanto costituisce la prima organica storia del rosminianesimo” (p.7)12. Opera esemplare per documentazione e impostazione: soprattutto per lo spirito che la ispira, spirito di servizio, di fedeltà, di amicizia, spirito che anima la vita e l’opera del Paoli, seguace del Rosmini e suo attento biografo. Il libro consta di due parti: una dedicata ai rosminiani non appartenenti all’Istituto della Carità, l’altra dedicata alla Scuola rosminiana nell’Istituto della Carità. La prima parte tratta della scuola trentina, lombarda, piemontese, veneta, toscana, napoletana, francese, spagnola, inglese, tedesca. Sono tratteggiate, e nella prima e nella seconda parte, le figure di insigni educatori e filosofi. Una considerazione del Paoli va tenuta presente per una lettura lineare dello stesso:”Uno dei pochi ma potenti ingegni che videro il triste andazzo dei tempi, e che ardirono di chiamar l’attenzione dei loro fratelli innanzi alla sacra Maestà del lume di ragione, e più di tutto a quello della divina rivelazione, onde l’uomo si lega naturalmente e soprannaturalmente con Dio, fu Antonio Rosmini” (p.10). 11 C.M. PAPA, Rosmini: conoscere e credere. Storia della Causa, prefazione di Giuseppe De Rita, Studium, Roma 2007, pp. 344. 12 F. PAOLI, Della Scuola di Antonio Rosmini, a cura di Pier Paolo Ottonello, Ed. Rosminiane Sodalitas, Stresa 2006, pp. 102.


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5. Scrittura snella e leggibile quella di Piero Sapienza13, parroco a Catania, docente, rosminista, attivo nella ricerca e nell’azione sociale, attento ai fermenti del nostro tempo, impegnato a capire la crisi nella quale siamo immersi, preoccupato per il destino delle nuove generazioni e dell’umanità. Ritiene la lettura di Rosmini, delle sue dottrine pedagogiche e antropologiche, utile ad affrontare la sfida educativa. Antefatto: in seguito ai tragici fatti accaduti nello stadio di Catania il 2 febbraio 2007, gli studenti del Liceo Spedalieri in una lettera aperta ai loro professori scrivevano: “Noi abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità”. Risposta del preside e di 28 docenti:”Non possiamo, né vogliamo, darvi delle risposte […]. Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie…” (p.20). Imporre è barbarie, proporre è espressione di dialogo e di civiltà. La scuola “pubblica”, “democratica” e “laica”, se non è dialogo viene meno al suo compito. La società “liquida”, il pensiero “debole”, il relativismo, i cattivi maestri; il bullismo e il cyberbullying (p.6), la violenza, il teppismo, la gioventù annoiata, la droga: occorre reagire e si può reagire partendo da una solida e limpida visione dell’uomo. E’ la posizione di Rosmini ai suoi tempi, come si rileva da uno scritto del 1823, Dell’educazione cristiana. Il discorso di Sapienza, tutto fondato su testi e studi rosminiani e su documenti ecclesiali recenti, nonché su riferimenti a pensatori di ieri e di oggi, è un contributo cospicuo all’intelligenza di quel complesso fenomeno che viene designato come emergenza educativa. E richiama genitori, insegnanti, giornalisti, istituzioni civili e politiche, movimenti e gruppi ecclesiali ad assumersi le proprie responsabilità, a lavorare con coraggio e in prima persona, a promuovere la centralità della persona umana. Benedetto XVI al Convegno di Verona e nella Let-

tera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente della formazione delle nuove generazioni (21 gennaio 2008) ricorda che esiste “un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di

cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita” (p.134). Difendere il valore supremo della vita e della dignità umana, salvare l’uomo: occorrono educatori, suggerisce Rosmini, “che siano in grado di educare già con la loro stessa vita e che educando gli altri migliorino se stessi” (Sull’unità dell’educazione, p.138). Con Eclissi dell’educazione? Piero Sapienza aiuta a leggere il dramma del nostro tempo. E ancora: fa rinascere il desiderio di accostarsi ai grandi maestri del pensiero e della spiritualità.

Francesco Pistoia

Pedro Mª GIL LARRAÑAGA

De los Votos a la Misión El tratado de Lutero sobre los Votos religiosos

Presentación, texto y comentario, Publicaciones Universidad Deusto, Bilbao 2008, pp. 320. 1. En Noviembre de 1521, pocos meses después de haber sido de nuevo excomulgado por la Dieta de Worms (Abril 1521), Martín Lutero (1483-1546), ex-fraile agustino, escribió el tratado De votis monasticis Judicium. La pregunta que puede surgir inmediatamente es: ¿a qué viene, y nos puede interesar un libro escrito hace quinientos años para un público y un momento histórico al parecer tan distinto del nuestro? Si además tenemos en cuenta que dicho libro se difundió por media Europa (y en la otra media no lo hizo porque se lo impidieron) y provocó que se vaciaran los monasterios y conventos, ¿nos faltaba solamente esto en un momento en el que nos quejamos de falta de vocaciones y de crisis más o menos fuerte de la vida

P. SAPIENZA, Eclissi dell’educazione? La sfida educativa nel pensiero di Rosmini, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008, pp. 144.

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religiosa? La respuesta está en que no ha dejado de tener su influjo desde entonces, y en alguna medida ha encontrado una respuesta católica adecuada solamente en el concilio Vaticano II. Así pues, un libro clave para entender lo que pasaba en la vida religiosa de aquel tiempo y que sin duda sirve para aclarar no pocas cosas en la de hoy. Es verdad que acabó causando una enorme crisis de abandonos (su comunidad, de unos cuarenta o cincuenta agustinos, se deshizo en el plazo de cuatro meses), si bien en realidad había comenzado ya mucho antes, debido a que en la vida religiosa se hacían afirmaciones teológicas y había situaciones insostenibles. Lutero quiso aclarar desde el punto de vista bíblico y teológico, y tal como lo entendía él, el significado de este tipo de vida cristiana y facilitar a quienes no debían haber entrado nunca en ella la posibilidad de irse. Una finalidad, por lo tanto, teológico-pastoral. De hecho con sus afirmaciones causó un enorme desbarajuste. Luego, la vida religiosa poco a poco supo también reaccionar, surgieron nuevas formas carismáticas; y la prueba del extremismo de las expresiones luteranas está en que hoy día existen numerosas congregaciones religiosas, muy semejantes a las católicas, en el mundo anglicano, protestante e incluso reformado. El Hermano lasaliano, Pedro María Gil Larrañaga, doctor en teología y fecundo escritor, presta un gran servicio a nuestra vida religiosa con la publicación en español de esta obra. Su tesis es que Lutero hizo que se pasara de considerar la vida religiosa desde los votos a la misión, desde la fuga mundi a la assumptio mundi, desde la relación consagración-votos a consagración-misión (cf. p.11). Prueba de ello es que Vicente de Paul (1576-1660) y Luisa de Marillac (1591-1660) supieron hacer avanzar estas ideas dentro de la Iglesia, mientras que Juana de Chantal (1572-1641) y Mary Ward (1585-1645) desgraciadamente no. La duda y la falta de claridad se anidaron todavía en las innumerables fundaciones apostólicas del s. XIX y buena parte del s. XX. Hoy, finalmente, y sobre todo a partir del Vaticano II y de la nueva legislación canónica, las cosas se ven mucho mejor y nos permiten dar honestamente parte de razón (no toda, evidentemente) a Lutero. Los votos, efectivamente, no pueden ser considerados como una especie de fin, como algo pretendido y abrazado por sí mismos, sino que brotan de la fe, de la vivencia del misterio de Cristo y la entrega –por don de Dios, gracia, carisma- al servicio del Reino. Para ello, Gil, después de una presentación (pp.9-14), introduce de manera breve pero densa el libro de Lutero dando cuatro claves de lectura (pp.15-34). Sigue el texto luterano (pp.35-269), el original latín en la página izquierda, y una traducción de Gil en español en la derecha. Concluye un estudio (“perfectamente discutible”, dice Gil, p.14) sobre el valor y los límites de cuanto escribió Fray Martín (pp. 271-320). Es la primera vez que un texto tan significativo se traduce al castellano, e incluso escasean las ediciones en latín (lengua original) o en otras lenguas (cf. p. 13). El texto latino es el de la segunda edición de Wittenberg (1522), y está garantizado por la edición de las Obras Completas de Lutero, volumen octavo de la publicación Weimar Aufgabe. Para entender el texto, es decisivo tener en cuenta, dice Gil (p.26), que Lutero no estudió el tema de los votos ni mucho menos el de la vida monástica (en este concepto comprende a todas las formas entonces existentes de vida religiosa), sino que quiso aplicar a los votos su visión teológica sobre la fe y la Iglesia (algo más profundo y radical). En realidad trata de soslayo el tema de los votos como de la vida monástica en sentido propio. Lo que sucedió fue que después se le interpretó como un intento de disolución de la vida religiosa, con lo que el resultado fue catastrófico. Luego, su forma de pensar, no muy sistemática, pero sí espontánea, apasionada y hasta verbalmente violenta, absolutizadora, extremadamente unilateral, con sobreabundancia de exabruptos, más sus ideas teológicas y su crisis personal, hicieron el resto. Concretamente, los ejes que regulan su obra, dice Gil (pp.27-34) son cuatro. Dos son puramente teológicos. El primero y fundamental es la relación entre la gracia de Dios y nuestro esfuerzo por alcanzar la salvación. Según Lutero, la salvación es obra únicamente de la gracia de Dios; de ahí que cultivar el esfuerzo humano (en nuestro caso, los votos) es sospechoso y rechazable por principio. En segundo lugar, nadie puede sustraerse al régimen evangélico común de la vida cristiana y pretender entregarse a un área concreta de la vida fuera de dicho régimen, como si la llamada a la perfección no fuera de todos, sino de algunos solamente (los


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monjes). Por eso, rechazará la distinción entre preceptos y consejos evangélicos; y obviamente, si los votos se basan en ello, los negará por instinto. El tercer eje es la interpretación ideológica de la realidad: los votos esconden una comprensión falsa de la vida cristiana. Y cuarto, el sentido de la institución: los Institutos han comenzado queriendo servir al Evangelio y han acabado sirviéndose a sí mismos, preocupados más por perpetuarse que por vivir la Palabra de Dios. Lutero estructura su obra diciendo que son cinco las razones por las que hay que condenar la vida según los votos: porque se oponen a la Palabra de Dios, a la fe, a la libertad evangélica, a los mandamientos de Dios y a la razón monástica. Llegados a este punto, hay que leer el texto directamente. 2. En su interesante comentario final (cf. pp.271-320), Gil se pregunta qué puede decirnos este tratado de Lutero a nosotros hoy; qué nos aporta. Por lo tanto, no trata aquí de hacer una crítica sin más del texto luterano, sino más bien de ver qué quiso decir el autor en su contexto (sin darse cuenta tal vez, más allá de sus polémicas exacerbadas), y qué puede decirnos hoy. Después de su estudio, Gil saca cuatro conclusiones. 1) Lutero rechaza los votos monásticos de su tiempo como cosa no fundada en la Biblia y en la tradición monástica, pero no la vida monástica en sí misma. Baste pensar que del esquema de los tres votos se hablaba desde hacía apenas dos siglos, y además se les tenía por indisolubles; los “consejos” se convertían en “preceptos”: contradicción inaceptable, repetía Lutero; el monaquismo, en cambio, existía desde hacía más de mil años. De ahí que el reformador no discutía el monaquismo en toda su amplitud y aceptaba el ejemplo de algunos santos. 2) El sentido y la fundamentación de la vida monástica (de la vida religiosa, decimos hoy) -dice Gil- está ante todo en la consagración: Dios que llama a una persona, la separa y dedica a Sí mismo, para enviarla al mundo: la misión. Con esto Lutero seguramente hubiera estado de acuerdo. Por otra parte, el monaquismo es una realidad religiosa, originariamente no cristiana, que se encuentra en todas las principales religiones (budismo, hinduismo...); más aún, es una realidad humana que expresa la búsqueda y la esperanza en un sentido de la vida, más allá de las limitaciones creaturales. Algo, por lo tanto, anterior y más fundamental que cualquier estructura, como puede ser la de los tres votos o la distinción entre preceptos y consejos. 3) Es la fe –continúa diciendo Gil- lo que abre el camino hacia Dios y no el esfuerzo o la cantidad de renuncias para acumular méritos (los votos eran vistos como renuncias). Además, es verdad que la única verdadera consagración es la bautismal en la cual no nos consagramos a Dios, sino que Dios nos consagra a Él. También es verdad que en el Evangelio no hay consejos, todo es precepto porque todo es don, gracia de Dios; no hay un estado de perfección y otro de no perfección, dado que todos hemos sido consagrados en el Bautismo y estamos llamados a ser perfectos como el Padre (Mt 5,48). Por eso el contenido fundamental de los llamados “consejos evangélicos”, la total adhesión interior a Cristo, la identificación con Él, es de todos; lo que varía es en todo caso el “cómo” vivirlo. De ahí que no haya espacio para dos tipos de cristianos, dos tipos de perfección. Por otra parte, los llamados “preceptos”, así como el celibato, la pobreza y la obediencia, no son realidades “cristianas”, dado que se encuentran en otras religiones; lo único propiamente cristiano, y por lo mismo obligatorio para todos, es el seguimiento de Cristo. Lo que diferencia a los religiosos es el “modo” cristiano de vivir su función social; pero, en cuanto a la fe, al modo de relacionarse con el Señor, no se distinguen de los demás creyentes. Lutero -he ahí su límite- se paró en una visión sólo bíblico-teológica, y no tuvo suficientemente en cuenta el horizonte antropológico, histórico, cultural e incluso institucional en que todo hombre vive. Por eso, su visión era en parte verdadera, pero parcial, con consecuencias de hecho catastróficas para la vida religiosa de su tiempo. 4) La vida religiosa (la vida monástica, decía Lutero) –concluirá Gilnace en vistas a un “para qué”, con una finalidad, una misión; entendida no como mero trabajo o quehacer, sino como testimonio-vivencia del Evangelio, de la relación con Dios. Si no tiene en cuenta esto, se cierra sobre sí misma estableciendo prácticas en el vacío, los votos se convierten en un fin en sí mismos, en ideología. El religioso no entra en la vida religiosa simplemente para cumplir unos votos, sino para vivir un compromiso vital, una misión. Los votos


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son un medio, jamás un fin; más aún, los contenidos de los votos (castidad, sencillez de vida, obediencia) tienen un significado en vistas al ‘para qué’. Que después el individuo se comprometa a ello con voto, es secundario; y que además pretenda ser algo indisoluble es un sinsentido. El significado de la vida religiosa está en responder a la gracia de una llamada/consagración de Dios, no en el cumplimiento de unos votos. 3. La vida religiosa no es pues una fuga mundi sino una assumptio mundi, una encarnación en el mundo para testimoniar a Cristo y llevarlo a Él. Así se explica que la vida monástica existiera ya desde hacía mil años sin hacer los tres votos, decía Lutero. Por lo tanto, él no pretendía cambiar la Iglesia o la sociedad, sino centrarlas en Dios; que la teología fuera menos aristotélica y más neotestamentaria, y la vida de la Iglesia estuviera más asentada en la fidelidad a Jesús que en el orden social. Fue todo un conjunto de circunstancias eclesiales, sociales y personales, lo que hizo que su persona, culta y explosiva al mismo tiempo, y su doctrina causaran los efectos devastadores que sabemos. Se encendió una mecha, es verdad; pero, fue en un polvorín: de ahí la grande explosión. Lutero insistió en su significado bíblico-teológico, y en esto tenía razón; no tuvo, sin embargo, suficientemente en cuenta que toda institución, su forma, su visibilización, “se rigen, se han de regir, por un conjunto de criterios que están más allá del Evangelio, porque responden a las dinámicas institucionales de todas las formas asociativas” (p. 314); ahí está uno de los grandes límites del escrito luterano. Hoy día podemos distinguir mejor lo que tenía de “profético” y de parcial, limitado (y, en este sentido, inaceptable), el tratado de Lutero. Hoy, que nos encontramos con una realidad tan variada de formas de vida evangélica (congregaciones de votos simples, institutos seculares, sociedades de vida apostólica, formas mixtas ni puramente religiosas ni meramente seglares...), comprendemos mejor que cuenta más el amor que la renuncia, la fidelidad que el esfuerzo, la comunidad que la organización, la fe que nuestros proyectos. Lutero supo hacer crítica, que acabó siendo muy destructora; pero, no supo construir, presentar una alternativa, una nueva síntesis, una propuesta verdadera. He ahí su mérito y su defecto. Un tratado que ciertamente hay que releer hoy día para aprender lo que sucedió entonces y cómo, después de quinientos años, estamos experimentando todavía sus consecuencias. Para entender el presente es necesario conocer el pasado. El escrito de Lutero es un punto importante en el ámbito de la comprensión de la vida religiosa y un aviso para no caer en defectos que de hecho se han ido repitiendo a lo largo de la historia, también después de él. Por eso es de agradecer una vez más al Hno Gil el esfuerzo que ha hecho con la obra que ahora nos ofrece.

José Rovira, cmf Claretianum, Roma

José Antonio VILLALABEITIA, FSC

Una consagración apostólica, una vida integrada Ediciones San Pío X, Madrid 2008, 2 volúmenes, pp. 761 + 706.

La presente tesis doctoral fue defendida brillantemente en el Claretianum de Roma (noviembre 2007). La relación entre la consagración del religioso apóstol y su trabajo concreto de extensión del Reino de Dios, más que un componente interesante de investigación en la teología de la vida religiosa, es un tema al que los religiosos dedicados a las tareas apostólicas debieran prestar atención prioritaria. Juan B. de La Salle, con sabiduría profética, se refería a la unidad de vida del Hermano, para quien santidad personal y labor apostólica deben constituir un único e idéntico afán. Ambas realidades experimentaron un peligroso deslizamiento entre 1800 y 1960. En la vida espiritual de muchos lasalianos apareció la semilla de la dicotomía. Una sensación -falsa- de dedicarse en demasía a lo urgente (niños, escuela, apostolado) en detrimento de lo importante (oración, silencio, penitencia). Para estudiar esta época tan turbulenta como apasionante, el dr. Villalabeitia profundiza en la historia y en cómo el 39º Capítulo General


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(1966-67) supo recuperar el nexo perdido entre consagración religiosa y misión apostólica. Abandonar la teología de los dos fines de la vida consagrada y proclamar la unidad de vida sería el punto de llegada de la Declaración sobre el Hermano en el mundo actual (1967). La propuesta del libro, esbozada desde el principio, permite revivir el cambio cualitativo del Vaticano II para volver a las fuentes y recuperar el núcleo del Evangelio. Tiempo de quitar la pátina de polvo que la historia ha ido depositando sobre tantas realidades eclesiales. Tiempo de abandonar prácticas y estilos de vida que ya no pueden dar más de sí. Su autor ha buceado en la esencia de la vocación del Hermano, a quien Dios invita a una misión y que, tras aceptar, se consagra. La consagración es obra de ambos, pero la iniciativa arranca siempre de Dios. Superar el dualismo consagración religiosa – actividad apostólica ha sido el hito de la investigación. Merced a un riguroso método histórico y a una paciencia benedictina ha conseguido innúmeras conquistas que aportan esa impronta de novedad y progreso que debe caracterizar a toda trabajo científico. La urgencia del Reino integra en la vida del educador cualquier pretendida dicotomía entre cuerpo y espíritu, acción y contemplación, mundo y trasmundo. En el siglo XXI no estamos lejos de las épocas más difíciles de la historia de la Iglesia y de la vida consagrada. Sólo una renovación a la vez muy lúcida y muy profunda, que va a exigir altas dosis de generosidad y valentía, podrá situarse a la altura del desafío. Parece que estamos en un momento de puente y hemos de prepararnos para la realidad que espera en la otra orilla de manera inminente. Aceptar este hoy significa apostar por la intemperie y la inseguridad del arco sostenido en sus laterales y abierto al vacío sobre la aguas tumultuosas de la posmodernidad. El carisma lasaliano se abre a seglares y asociados. Algo nuevo está surgiendo, “¿no lo notáis?”. El planteamiento de la tesis sobre consagración, misión y ministerio será muy fecundo. El ministerio es el concepto clave que articula consagración y misión. Aparece con fuerza reiterativa en las Meditaciones de La Salle. El libro ofrece una panorámica de un tema poco estudiado. Se rotura un camino que debe proseguir. Es un inestimable servicio a la espiritualidad lasaliana.

Lluís Diumenge

Francesco TRISOGLIO

San Gregorio Nazianzeno

Un contemporaneo vissuto sedici secoli fa Studia Taurinensia 26, Editrice Effatà, Torino 2008, pp. 459.

È stato detto che il periodo della patristica è paragonabile al giornale intimo dell’anima che la Chiesa ha scritto quand’essa aveva diciassette anni. Pochi studiosi però sono in grado di farne una lettura ispirata contemporaneamente dalla necessaria delicatezza d’animo e dall’imprescindibile spirito critico. Francesco Trisoglio è uno di loro. Il volume, curato da Remo L. Guidi e Donato Petti, è in effetti una monografia dedicata agli studi patristici del prof. Francesco Trisoglio, conosciuto come Fratel Enrico, della Congregazione dei Fratelli delle scuole cristiane. Per molti lettori di Rivista lasalliana il suo nome rappresenta un firma familiare e per alcuni anche un volto lasalliano di alto livello umano e pedagogico. Dalla sua cospicua produzione, i due curatori hanno scelto di concentrare l’attenzione sugli studi che l’A. ha dedicato a Gregorio di Nazianzo, il quale, viene sottolineato nella Presentazione, tra i Padri Cappadoci “fu il più complesso ed insieme il più moderno per la drammaticità e la lucidità delle sue vivaci esperienze interiori”. L’insigne vescovo del periodo patristico, vissuto tra 330-389/90, fu un illustre oratore, qualità che gli meritò l’impegnativo titolo di “Demostene cristiano”, ma anche “il teologo” per antonomasia, nonché poeta ed asceta. Da qui la motivazione del sottotitolo che bilancia l’opera letteraria e teologica con l’impegno ascetico esemplare. Il volume offre nello stesso tempo l’obiettivo che assilla qualsiasi ricercatore nella fase iniziale di ogni indagine scientifica: la bibliografia di Francesco Trisoglio, divisa per sezioni che esprimono la ricca diversità di interessi dell’A. L’elenco delle opere e degli articoli copre così quattro ambiti in cui Fratel Enrico


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ha voluto condividere con larghezza il frutto delle sue attente ricerche: indagini storicoletterarie, recensioni, collaborazioni alla rivista “Vita Sociale”, e infine, collaborazioni varie. Il contributo specifico del volume è costituito dai saggi che il Trisoglio ha dedicato al Nazianzeno, contestualizzati necessariamente nel clima culturale ed ecclesiale dei Padri Cappadoci ma tenendo sullo sfondo anche le sfide della modernità. Gli studi sono raggruppati di conseguenza attorno ai temi che rappresentano le linee portanti dell’opera del Nazianzeno: la dottrina morale, il male, la conversione, la spiritualità dell’elevazione, la “verità”, alcuni aspetti salienti della preghiera, la Madre di Dio, la politica e la pace, per concludersi con un corollario intitolato “S. Gregorio di Nazianzo: l’uomo attraverso all’oratore”. Negli ambienti di ricerca sulla letteratura patristica si evince la consapevolezza che scrivere oggi sul Nazianzeno non è facile senza chiamare in causa fratel Enrico, soprattutto dopo aver guadagnato la rarissima stima degli studiosi per l’encomiabile lavoro sull’autenticità del Christus patiens di Gregorio. Si deve infatti al prof. Trisoglio se dopo 420 anni la paternità gregoriana di questo scritto veniva dimostrata per la prima volta in modo convincente. Infine, similitudini che si presume siano non casuali si possono poi riscontrare tra l’impegno lasalliano di Trisoglio e la vita del suo amato personaggio patristico, come sottolineato con imparziale affetto nello studio di presentazione dedicato a “Fratel Enrico Trisoglio: un uomo, un maestro”. È sufficiente anche uno sguardo rapido ai titoli delle sue opere per rendersi conto che l’A. non si rassegna al distacco artificioso tra la vita e la scuola. Leggere i suoi scritti non è soltanto fonte di erudizione e soddisfazione intellettuale, ma anche incontro con una persona che sa esprimere con intelligenza la convinzione di tutti i veri maestri dello spirito: non scholae sed vitae discimus.

Adrian Danca

Antonio INDELICATO

Il Sinodo dei Vescovi. La collegialità sospesa 1965-1985 Il Mulino, Bologna 2008, pp. 401. In che misura il Sinodo dei Vescovi riesce a rispondere alle attese dell’uomo e, più ancora, a esprimere la propria identità? È l’interrogativo che muove l’A. alla ricerca delle forme con cui il Sinodo dei Vescovi si è configurato concretamente nella storia. Il saggio dell’A., rielaborazione di una sua tesi di dottorato, riporta così in primo piano l’espressione massima, dopo il concilio, della collegialità episcopale: l’organismo del Sinodo dei Vescovi e la sua missione all’interno del popolo di Dio. In un tempo in cui la Chiesa è chiamata a trovare modalità di dialogo sempre più adeguate alle complesse e continue sfide culturali e antropologiche, il discorso sul Sinodo dei Vescovi può sembrare un richiamo sui meccanismi interni della sua funzionalità organica oppure un cedimento alla tentazione narcisistica riguardante la propria immagine di fronte alla società. E invece, a più di quaranta anni dalla sua istituzione, il Sinodo dei Vescovi non ha smesso di proporsi come lo spazio privilegiato in cui si articola il rapporto della Chiesa, considerata nella sua interezza, con l’umanità contemporanea. Superate le prime difficoltà – alimentate, per un verso, da paure infondate per quanto riguarda il suo rapporto con l’autorità del Vescovo di Roma e, per l’altro, da attese sproporzionate nel fervore culturale degli anni Sessanta – l’istituzione sinodale ha goduto di una grande attenzione nel dibattito teologico nella sua fase iniziale ed è riuscita a darsi un’identità più definita. L’A. osserva poi negli ultimi anni un appiattimento della riflessione sulla natura e il funzionamento del sinodo, sintomo di accettazione di un suo ruolo minimalistico. L’obiettivo dichiarato che l’A. si è prefisso è quello di ricostruire le tappe principali del dibattito sul Sinodo dalla sua istituzione fino agli inizi degli anni Novanta, per rilanciare la discussione sulla necessità di una sua migliore configurazione teologica e giuridica. Per tale fine, l’A. ha saputo evitare con intelligenza le difficoltà di documentazione, essendo indisponibile l’archivio ufficiale del Sinodo, e individuare un’apertura verso il vasto materiale dell’archivio TucciCaprile depositato presso la sede de La Civiltà Cattolica. La ricerca sulla natura del Sinodo dei


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Vescovi mantiene viva in ogni sua pagina l’interrogativo riguardante l’effettiva corrispondenza del Sinodo allo scopo per cui è stato istituito. Il dibattito riscontrato nei momenti di celebrazione dei singoli sinodi, a giudizio dell’A. “non ha prodotto né un reale coinvolgimento dell’episcopato nel governo della chiesa universale né tanto meno ha influito nella vita concreta della più vasta comunità ecclesiale”. La conclusione sottolinea già nel sottotitolo come l’attuazione della collegialità episcopale risulti piuttosto sospesa tra la certezza della sua affermazione teologica e l’incertezza della sua espressione concreta. La chiarezza terminologica del discorso rende accessibile la lettura di questo saggio anche ai “non addetti” ai lavori. Si avverte, in effetti, la preoccupazione dell’A. di non permettere alla passione mostrata per l’argomento di cedere alla lucidità con cui ha portato a maturazione il frutto della sua ricerca. Traspare con altrettanta forza la speranza di rinvigorire una cultura ecclesiale più sensibile ad un nuovo stile di governo della Chiesa, per poter percepire le celebrazioni puntuali del Sinodo dei Vescovi come autentici momenti di crescita per l’intera comunità dei credenti. Il valore aggiunto del saggio è costituito dai testi inediti la cui pubblicazione viene considerata “particolarmente opportuna”dal card. R. Tucci nella Prefazione, in quanto “proiettano una luce più piena su alcuni episodi chiave della storia dei sinodi”. Infine, è da sottolineare l’implicita valenza ecumenica di questo contributo al dibattito sul Sinodo dei Vescovi, essendo la sinodalità espressione costitutiva anche delle chiese ortodosse. L’appello a ripensare l’esercizio del primato del Vescovo di Roma, lanciato da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint, si inserisce a tutti gli effetti nello sforzo continuo di cercare espressioni di collegialità episcopale che siano sempre più aperte agli sviluppi ecumenici.

Adrian Danca

Félix MOSER

Chi osa dirsi cristiano?

“Piccola collana moderna” 125, Claudiana, Torino 2008. Alla chiesa cristiana non è stata fatta alcuna promessa «che un giorno gli esseri umani, o anche soltanto la maggioranza di loro, sarebbero cristiani: nessuna promessa di un mondo cristiano». Parole scritte da Karl Barth 50 anni fa (Die kirchliche Dogmatk, III/ IV, 1957), che possono apparire «destabilizzanti» in un tempo in cui le chiese cristiane sono sfidate dal crescente pluralismo religioso e dall'inarrestabile processo di secolarizzazione. L'orizzonte di un mondo «non cristiano» nel cuore stesso dell'Europa (è veramente una novità?) interroga in profondità le «radici» e i «frutti» del cristianesimo e suscita dibattito e confronto nella nostra cultura a tutti i livelli: storico, sociologico, filosofico, politico, teologico. In Europa viviamo in società postsecolari, come si dice, società aperte e in permanente trasformazione, in cui il «meticciato» è una categoria culturale sempre più in uso per indicare la realtà di una vera e propria «contaminazione culturale» con tutti i suoi risvolti problematici, siano essi considerati in un'ottica positiva o negativa. Il cardinale di Venezia Angelo Scola ha recentemente affermato che la categoria di «meticciato» è sempre più da privilegiare rispetto a quelle di integrazione, identità e dialogo (Dìo al tempo della società meticcia, "la Repubblica", 23 nov.2007). Quale che sia la lettura che si dà di questa affermazione (ci si può chiedere, per esempio, se essa abbia una qualche incidenza nei programmi di iniziazione cristiana in ambito cattolico romano), resta il fatto che questo «meticciato» è all'opera, modifica la prassi di vita delle persone, segna positivamente i percorsi di nuove fraternità e al tempo stesso interroga le rispettive credenze. Come non porsi, in questa situazione in cui vive il cristianesimo occidentale, la domanda: quale catechesi cristiana? Quale chiesa? Come formulare le giuste domande capaci di orientare verso un «senso» della vita, capaci di creare riflessione, processi di autonomia per le nuove generazioni, bombardate da messaggi religiosi contraddittori e autoritari? Quali spazi, quali itinerari di vita cristiana si possono individuare oggi per dare profilo all'identità di una persona che si confessa di religione cristiana? Ha ancora senso dare la priorità all'aggettivazione della propria appartenenza cristiana in un tempo in cui il cristianesimo stesso è alla ricerca di plausibilità e di


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credibilità nel mondo moderno? Questo libro offre delle intelligenti piste di ricerca nell'orizzonte di questi interrogativi. II titolo stesso Chi osa dirsi cristiano? pone apertamente la sfida. Cristiani non si nasce, si diventa, ricordava Tertulliano agli inizi del II secolo: sono parole che possiamo fare nostre oggi, accettando la sfida (Ermanno Genre, dalla Prefazione).

Sergio ANDREOLI

Angela da Foligno, penitente francescana Edizioni Messaggero, Padova 2008, pp. 80. Breve saggio sulla terziaria francescana Angela da Foligno, che viene pubblicato nella ricorrenza del settimo centenario della morte (4 gennaio 1309 - 4 gennaio 2009), e smentisce in modo eloquente il luogo comune dell'impossibilità di parlare di mistica al grande pubblico in maniera comprensibile, ma nello stesso tempo storicamente e dottrinalmente sicura. E’, infatti, il risultato di anni di studio e di approfondimento delle tematiche angelane, affrontate con metodologie diverse e su vari fronti: bibliografico, critico e teologico. E’ storia di una conversione autentica, quella di Angela, che ancora oggi affascina e attrae; una donna viva, sposa, madre e vedova, penitente, mistica e beata. Nello stendere questa breve biografia, l’a. si è attenuto a due precisi criteri: narrare il più semplicemente possibile i fatti fondamentali della vita di Angela, “figlia di Francesco Assisi” e contemporanea di Dante Alighieri e di Giotto di Bondone, ed esporre con chiarezza i suoi insegnamenti più rilevanti. Questo, non in due parti distinte - una biografica, l'altra dottrinale - ma seguendo sostanzialmente la cronologia stabilita da MartinJean Ferré, prima, e poi da Ludger Thier e Abele Calufetti. Anche se in Francia non sono pochi quelli che parlano di sainte Angèle, bisogna ricordare che il processo di canonizzazione è ancora in corso. Che, poi, ci sia qualcuno che auspichi l’attribuzione alla Poverella del titolo di dottore della chiesa, non deve meravigliare, visto che già alcune donne - l’ultima è stata s.Teresa del Bambino Gesù - sono approdate a questo riconoscimento. Intanto per la folignate ci si deve contentare del titolo di beata, presente in vari documenti della chiesa e degli Ordini francescani, ma concesso senza alcuna formalità processuale.

a.s.

Roberto ALESSANDRINI

Immagini

“Parole delle Fedi” 25, Emi, Bologna 2008, pp. 64. Se siete rimasti all’idea che presso gli ebrei vige il divieto delle immagini sacre, è ora di rettificare alquanto le vostre conoscenze sulla tradizione culturale biblica e post-biblica. Se dite che le vignette antimusulmane pubblicate un paio d’anni fa dai giornali danesi erano solo ironiche o satiriche, vi sbagliate, perché a dir il vero erano razziste agli occhi di qualsiasi cittadino e ovviamente anche blasfeme agli occhi dell’islam. Se pensate che i protestanti sono contro le immagini e le statue sacre, notate solo la faccia negativa della medaglia: sono contro il regno della visione perché quello voluto da Lutero è in positivo il Regno dell’ascolto della Parola. Conviene agli insegnanti, e non solo di religione, riprendersi in mano questa micro-summa sull’uso delle immagini nelle tradizioni religiose. Non sarà un esercizio ozioso perché riscopriranno in poche decine di pagine perché e come l’uomo di ieri e di oggi vuole vedere l’invisibile (ed è il nodo antropologico dell’homo religiosus), e come l’immensa produzione iconografica in ambito religioso ricopra un ruolo nella mistica, nella pastorale, nella liturgia, nella devozione popolare (ed è il versante teologico delle diverse fedi), con riverberi di assoluta grandezza nella storia dell’arte (ricaduta estetica). Non poteva mancare un excursus sul problematico rapporto tra immagine religiosa e cultura postmoderna: dove va l’arte sacra oggi? Possono conciliarsi canoni estetici secolarizzati e canoni teologici, intuizioni aniconiche e verità religiose? E che dire dell’invasione ossessiva dell’immagine nell’esperienza religiosa di milioni di credenti che, in rete


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oltre che in carne ed ossa, dalle rive del Gange alla Kaaba della Mecca, dalle tele-celebrazioni mondiali di Piazza san Pietro agli incessanti pellegrinaggi ai santuari delle apparizioni mariane, sfidando il senso del reale per affidarsi appunto all’immagine, tentano di attingere all’Assoluto inenarrabile impigliandosi nel relativo narrato ieri sulle tele e oggi sui monitor telematici ?

Silvana Rita Allais

Maria Teresa MOSCATO

Diventare insegnanti. Verso una teoria pedagogica dell’insegnamento Editrice La Scuola, Brescia 2006, pp. 284. Caratteristiche di quest’opera, che si raccomanda anche per l’esposizione vivace e chiara, sono un impianto teorico ampio e aggiornato, un ricco convincente corredo di sperimentazioni: “sono messi in scena insegnanti reali, osservati al lavoro, intervistati, incontrati in attività di formazione e di tirocinio”. L’obiettivo dichiarato è quello di ipotizzare un modello teorico di insegnamento da cui possa derivare il profilo di competenza professionale generale di ogni insegnamento. Il processo educativo, che si compie per definizione dentro un orizzonte culturale, ha come fine la promozione di un sufficiente grado di autonomia personale, nelle forme previste dalla società e dalla cultura di riferimento. Il confine tra l’età evolutiva e quella adulta è idealmente fissato dal raggiungimento di un’autonomia - cognitiva, emotivo-affettiva, etica-funzionale all’assunzione di una responsabilità diretta, di fatto e, prima di tutto, nei confronti di se stessi. E’insegnamento intenzionale qualsiasi atto umano che intervenga per modificare l’esperienza di un altro essere umano, sia anticipandola, sia controllandola, sia mediandola, sia rendendola consapevole. Il senso del verbo ‘promuovere’, riferito all’insegnare, implica una vera ‘ri-produzione’ e in ultima analisi una ri-generazione della conoscenza nella mente di colui che riceve l’insegnamento. L’insegnante deve aver precostituito, almeno nelle linee essenziali, il percorso di osservazione e riflessione che i suoi allievi compiranno, pilotando discretamente la costruzione di una conoscenza di tipo relazionale. Il vincolo decisivo e strutturale tra pensiero, linguaggio e insegnamento non si colloca prioritariamente nell’espressione verbale, o nel gesto. Risiede piuttosto nelle operazioni mentali di colui che insegna: pensiero paradigmatico (strutturazione ed algoritmi del sapere) e pensiero narrativo (competenza comunicativa) sono alla base e si fondono nella didattica dell’insegnante esperto. Insegnare: un’arte ma non solo. La metodologia più recente costruisce su principi induttivo-attivistici. Il sapere è dichiaratamente in funzione del soggetto che apprende; l’insegnante è il tramite, consapevole che la conoscenza non può essere semplicemente trasmessa, ma rigenerata dalla mente che lo accoglie. Sulla centralità dell’allievo non bisogna equivocare, cedendo a una visione spontaneista dello sviluppo cognitivo: Concretezza in senso didattico significa favorire con gli strumenti più idonei l’esercizio delle capacità logiche. I laboratori nelle loro molteplici forme sono legati alla modalità dell’apprendimento sociale, ma in modo funzionale all’apprendimento personalizzato, perché l’attività si rivolge a piccoli gruppi. La valutazione è intenzionalmente formativa, nel senso che essa viene esercitata nel corso dell’attività stessa ed è orientata all’autovalutazione da parte dell’allievo. Moduli e modularità, caratterizzati da una logica di approfondimento del tema, richiedono non solo una sicura preparazione professionale del singolo insegnante, ma un accordo metodologico, progettuale e programmatico del team di docenti. I progetti rispondono ai due presupposti fondamentali: l’attività del discente e la dimensione sociale dell’apprendimento. Infine, insegnanti o educatori? La scuola esige ed esigerà sempre di più, al proprio interno, la presenza di altre funzioni da affiancare o con le quali ampliare quella dell’insegnante: educatore specializzato, animatore, formatore, consulente d’orientamento, istruttore, mediatore culturale...

Marco Paolantonio


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Roberto PEROTTI

L’università truccata

Gli scandali del malcostume accademico. Le ricette per rilanciare l’università Einaudi, Torino 2008, pp. 178.

Studenti fuori corso, proliferazione di piccole sedi, altissima età media dei docenti (solo un ordinario su mille ha meno di 35 anni), bassissimo numero di professori stranieri, esodo di ricercatori italiani all’estero, concorsi truffaldini, dipartimenti colonizzati da famiglie o partiti politici. Ma anche moltiplicazione dei corsi di laurea (tra il 2000 e il 2007 sono aumentati da 2 mila 444 a 5 mila 517), esami e lauree venduti, scarsa mobilità degli studenti (in Italia solo il 2 per cento alloggia in residenze universitarie contro il 17 per cento in Svezia e il 10 per cento in Germania). Di fronte al quadro desolante dell’università italiana quali soluzioni si possono immaginare? Secondo Roberto Perotti, professore alla Bocconi di Milano dopo un decennio alla Columbia University di New York, saranno “gli incentivi, non le regole” a cambiare i nostri atenei. “Quando gli incentivi funzionano in modo corretto – scrive – gli studenti e le risorse affluiscono agli atenei migliori; e gli atenei migliori sono tali perché hanno più risorse. Essendo più ricchi, gli atenei migliori possono offrire stipendi più alti; e poiché offrono stipendi più alti, attirano ricercatori migliori; tutto ciò crea un ambiente di ricerca più stimolante che beneficia tutti, e alla fine attrae più risorse”. La centralizzazione, gli appelli all’etica e al civismo, il ricorso alla magistratura - da decenni le uniche soluzioni proposte, ma senza grandi risultati - dovrebbero lasciare il posto alla centralità della ricerca (molte risorse si spendono invece per premiare l’anzianità di servizio) e alla creazione di un sistema di incentivi e disincentivi “per cui sia nell’interesse stesso degli individui cercare di fare buona ricerca e buona didattica, ed evitare comportamenti clientelari”. Per ottenere questo risultato anche gli stipendi andrebbero differenziati e liberalizzati adottando il criterio del merito e non dell’an-zianità abolendo così di fatto i concorsi universitari (in Italia il rapporto tra lo stipendio di un ordinario a fine carriera e di un ricercatore in entrata può arrivare a un valore di 4,5 a 1, mentre negli Usa il rapporto tra lo stipendio tipico degli ordinari e degli assistenti è di 1,5 a 1). La prima condizione per premiare la qualità è che le risorse affluiscano agli atenei migliori sulla base di una valutazione centralizzata della performance e di quattro criteri fondamentali: assegnare quote consistenti di fondi, adottare criteri altamente selettivi, allontanare il rischio della manipolazione politica, premiare in modo differenziato i singoli dipartimenti all’interno di uno stesso ateneo. I criteri di valutazione devono essere chiari, condivisi, trasparenti e misurabili in modo ragionevolmente univoco (un sistema con queste caratteristiche è il Research Assessment Exercise britannico). Un secondo metodo per fare affluire risorse agli atenei migliori consiste nell’alzare le rette studentesche, differenziando in modo naturale atenei che privilegiano la ricerca e atenei che privilegiano l’insegnamento. Inoltre vanno fatte pagare le tasse universitarie ai ricchi dando sussidi ai meno abbienti, anche attraverso prestiti d’onore condizionati al reddito dopo la laurea. Per rendere effettivo il diritto allo studio – aggiunge Perotti – bisogna sovvenzionare non solo le tasse universitarie, ma anche le spese di vitto e alloggio. Nei paesi che hanno introdotto un sistema di prestiti condizionati al reddito, per esempio Australia e Nuova Zelanda, è aumentato nelle università il numero degli studenti meno abbienti, mentre l’Irlanda, che ha abolito le tasse universitarie, non ha registrato alcun aumento in questa direzione. Secondo Perotti andrebbe inoltre abolito il valore legale del titolo di studio, baluardo contro la differenziazione fra atenei di serie A e di serie B, difeso dalle professioni (l’abolizione renderebbe più complicati gli esami di stato) e da chi lo considera una garanzia contro l’università di élite (come scriveva il ministro Mussi: “Abolito il valore legale dei titoli, temo che ne resterebbe uno solo, che già oggi ha largo corso: ‘figlio di’”). I rischi di queste proposte? Come riconosce lo stesso Perotti, la mercificazione della cultura, un sistema governato da prezzi e costi e il pericolo che lo stato abdichi al suo ruolo di finanziatore dell’università e della ricerca.

Roberto Alessandrini


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Alessandro DAL LAGO, Serena GIORDANO

Fuori cornice. L’arte oltre l’altare Einaudi, Torino 2008.

Arte votiva, Outsider Art e Street Art sono tre mondi estranei all’arte ufficiale, solitamente etichettati come popolari, ingenui, dilettanteschi, banali, naïf, spie di disagio, forme di bizzarria, espressioni velleitarie e a volte teppistiche. Il libro di Alessandro Dal Lago, docente di Sociologia all’Università di Genova, e dell’artista Serena Giordano, docente di Immagine e comunicazione nello stesso ateneo, rovesciano la prospettiva per perlustrare la complessità degli ex voto, ribadire che artisti marginali talvolta precorrono le avanguardie e che l’arte di strada può essere un laboratorio a cielo aperto. La Street Art, infatti, indica qualunque espressione che utilizzi lo spazio urbano come palcoscenico (azioni, performance, installazioni) o risorsa materiale e concettuale (graffiti, pittura murale, interventi su segni o icone urbane preesistenti). In altri termini, indica l’insieme di pratiche in cui lo spazio urbano diventa un laboratorio artistico, un “libro illustrato” e di cui i graffiti (writing o bombing) rappresentano la vera anima contemporanea. L’Outsider Art designa invece espressioni artistiche estranee all’arte riconosciuta e pertanto è affine a etichette come Art Brut, Raw Art, Raw Vision, Visionary Art, Neue Invention, Folk Art, “arte dei folli”, “arte ingenua”, “arte spontanea”. Un esempio altisonante è rappresentato dalle torri di Sam Rodia a Los Angeles, oggi considerate un simbolo della città. Nel 1921 e per 33 anni, lavorando da solo e usando barre d’acciaio, matasse di fil di ferro, cemento e soprattutto materiale di recupero, Rodia, un emigrato italiano negli Stati Uniti che si manteneva facendo il muratore, costruì alcune torri (la più alta è 30 metri) accanto alla propria abitazione e le decorò con colori vivaci, cocci di piastrelle, frammenti di porcellana, vetri, tazze e bottiglie di bibita. Diffusa in tutto il mondo cattolico, la pratica degli ex- voto - oggetto della prima parte di un libro originale e interessante - è composta da milioni di pezzi il cui repertorio spazia dalle sculture ai dipinti, dalle installazioni ai collage fotografici. Pratica antichissima, documentata tra gli assirobabilonesi, diffusa tra gli etruschi e i greci e descritta in epoca classica, essa consisteva principalmente nel dedicare e offrire un bene alla divinità in un momento di difficoltà o una rappresentazione in legno, cera, pietra, vetro, argento o oro degli organi del corpo guariti come gesto di ringraziamento. Gli ex-voto dipinti si diffondono nel Medioevo (ma i più antichi conservati sono del XVI secolo) e collocano al centro della scena malattie, pericoli, attacchi di pirati saraceni, rovinose cadute, navi che affondano, episodi irraggiati da una luce salvifica che proviene dalla Madonna o dai santi che campeggiano nella parte superiore delle tavole. In epoca manierista e poi barocca si tratta di vere e proprie opere d’arte eseguite da artisti famosi (come nel caso di Gaudenzio Ferrari al Sacro Monte di Varallo) o di artisti regionali e botteghe di una certa rinomanza. Dalla metà del XIX secolo in poi per gli ex voto si delineano tre stili principali: uno oleografico ottocentesco in cui l’evento è rappresentato con dovizia di particolari, uno che risente degli echi della pittura espressionista (primi decenni del XX) e uno che ricorda lo stile delle illustrazioni rese popolari dalle copertine della Domenica del Corriere di Achille Beltrame e poi di Walter Molino. Tre stili che spesso coesistono e talvolta si mescolano. A partire dal primo Novecento gli ex voto adottano anche tecniche non pittoriche: fotografia, pagine di giornale incorniciate con un santino, immagini di auto accartocciate dopo un incidente dal quale il guidatore è uscito incolume, installazioni, esempi di arte concettuale, occhiali incollati ad una cornice di legno, in stile ready-made, come gli oggetti-simbolo della dipendenza (bottiglie, sigarette, banconote, carte da gioco) esposti nel santuario della Madonna della Guardia, dove ricevono una nuova cornice , proprio come il provocatorio orinatoio di Duchamp “ricontestualizzato” nel 1913 in una galleria d’arte di New York. Un’evoluzione, dunque, che prende le mosse dal realismo, raggiunge l’espressionismo e, infine, l’arte non figurativa. A sua volta, l’arte del Novecento ha attinto dagli ex voto e dalla grafica popolare, come nel caso del realismo epico di Rivera, Orozco e Siqueiros, o come nell’opera di Frida Kahlo, influenzata dai retablos (ex voto messicani), fino all’opera votiva realizzata dall’artista Yves Klein (1961), offerta al santuario di s.Rita da Cascia.

Roberto Alessandrini


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Giovanni REALE e Elisabetta SGARBI

Il pianto della statua nelle sculture sacre in terracotta di Niccolò dell’Arca, Guido Mazzoni e Antonio Begarelli Bompiani, Milano 2008, pp.405 con film in dvd. Era detta compianto una composizione poetica medievale che esprimeva il dolore per la morte di una persona, ma il termine ha lo stesso significato anche per la pittura (sono noti i Compianti di Giotto, del Beato Angelico e di Botticelli), per la scultura, come la Pietà di Michelangelo, e per le composizioni in terracotta come quelle realizzate in area padana nella seconda metà del Quattrocento da Niccolò dell’Arca e Guido Mazzoni e nella prima metà del Cinquecento da Antonio Begarelli. I Compianti in terracotta, detti anche Lamentazioni, Sepolcro, Pietà, sono composti da personaggi a dimensione naturale, disposti ad arco attorno al corpo del Cristo secondo una configurazione “teatrale” che inscena in modo corale il dramma della sua morte. A queste sculture sacre in terracotta è dedicato il pregevole e meritorio volume curato dal filosofo Giovanni Reale ed Elisabetta Sgarbi, accompagnato da un dvd di 45 minuti realizzato in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna e presentato al Festival di Locarno nel 2007. In particolare, il Compianto di Nicolò dell’Arca, realizzato nella seconda metà del Quattrocento e conservato nella chiesa bolognese di Santa Maria della Vita, è uno straordinario compendio della gestualità e dell’espressività del dolore. Attorno al corpo sereno del Cristo, il cui capo è adagiato su un cuscino, sei figure disposte a semicerchio interpretano, ognuna in modo diverso, la reazione alla sua morte. Il primo personaggio a sinistra (per chi guarda) potrebbe essere Giuseppe d’Arimatea, ma più probabilmente Nicodemo, raffigurato con un martello in mano e con le tenaglie infilate nella cintura. Il suo viso serio e severo esprime una tristezza composta e contenuta, in contrasto con tutti gli altri condolenti. L’altro personaggio maschile della scena è Giovanni evangelista, che – raccolto in se stesso - con una mano si comprime il mento come per trattenere e soffocare un grido di dolore. Le sue pupille, inclinate a destra, contribuiscono a definire il suo silente, smarrito stato d’animo. Il primo personaggio femminile, alla sinistra di Nicodemo, è Maria Salomè, le cui mani sono attanagliate con rabbia sulle cosce e la cui bocca è aperta in un pianto, in un primo grado di dolore che si accrescerà progressivamente nelle altre figure femminili alla sua sinistra, tutte “sterminatamente piangenti”, per utilizzare un’espressione di Carlo Cesare Malvasia. Accanto a lei, infatti, c’è Maria Vergine, il cui dolore di madre è visibile nelle mani rabbiosamente intrecciate tra loro, nel volto contratto, nella bocca aperta che urla, come se una spada le trafiggesse l’anima, per citare il Vangelo di Luca (2,26-35). Alla sinistra della Madonna c’è Giovanni e, alla sinistra dell’evangelista, Maria di Cleofa. Le sue vesti e le bende attorno al capo si agitano come mosse dal vento, le mani con il palmo aperto sembrano voler respingere la visione della morte del Cristo, il suo urlo è ancora più intenso dei precedenti. Alla sinistra di Maria di Cleofa, chiude la composizione Maria Maddalena, il cui urlo doloroso prorompe e sembra sovrastare l’intera scena. Come colpita dalle forti raffiche di un vento che le spinge all’indietro il velo e le vesti, colei che era stata liberata dai sette spiriti immondi sembra volersi gettare sul corpo morto di colui che l’aveva liberata. Ha scritto Gabriele D’Annunzio a proposito del Compianto bolognese: “Infuriate dal dolore, cementate dal dolore erano le Marie. Una, presso il capezzale, tendeva la mano aperta come per non vedere il volto amato; e il grido e il singulto le contraevano la bocca, le corrugavano la fronte il mento il collo. Ascoltami. Puoi tu immaginare nel mezzo della tragedia cristiana l’irruzione dell’Erinni?” L’antropologo Ernesto De Martino, che bene conosceva il Compianto di Guido Mazzoni, riteneva che in esso si riflettessero “i modi della lamentazione antica”, una rappresentazione rituale di capelli strappati, di ceneri sparse, di mutilazione negli abiti e nel corpo, di prefiche piangenti. E di gesti antichi, come la testa pesante sorretta dalla mano, che dai rilievi egizi trasmigra nell’arte greca (un esempio è il Sarcofago di Sidone, metà del IV secolo a. C.) e poi negli avori dell’arte medievale.

Roberto Alessandrini


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LIBRI PERVENUTI Roberto ALESSANDRINI, Michelina BORSARI (edd.), La sacra mensa. Condotte alimentari e pasti rituali nella definizione dell’identità religiosa, Ed. Fondazione Collegio San Carlo - Banca popolare dell’Emilia Romagna, opera f.c., illustr. a colori, rilegata, Modena 1999, pp. 224.

Stephen B.BEVANS, SVD and Jeffrey GROS, FSC, Evangelization and Religious Freedom. Ad Gentes & Dignitatis Humanae, Paulist Press, New York/Mahwah, NJ, 2008, pp. 272. BX83001962. A45 A57 2008.

Michelina BORSARI, Daniele FRANCESCONI (edd.), Famiglia. La costruzione religiosa del legame sociale, Ed. Fondazione Collegio San Carlo - Banca Popolare dell’Emilia Romagna, opera f.c. illustr. a colori, rilegata, Modena 2008, pp.206.

Julio CABERO ALMENARA (ed.), Las TICs en los contextos de formación universitaria, Ed.La Salle Centro Universitario, Madrid 2008, pp. 240, ISBN 978-84-691-3385-9. CENTRO STUDI ASSOCIAZIONE CULTURALE “Ubi maiores”, Mediterraneo patria comune. Un dialogo tra le due sponde, a cura del, Tip. Gimar, Roma 2008, pp. 142. Salvatore CONSOLI, Carmelo FINOCCHIARO (edd.), Frate Gabriele Maria Allegra. Tra Cina e Sicilia, Bibbia e spiritualità, “Quaderni di Synaxis” 22, ed. Giunti-Studio Teologico S. Paolo, Firenze-Catania 2008, pp. 181. ISBN 88-0906-252-3. Alessandro CORTESI, Marie-Dominique Chenu. Un percorso teologico, “Frontiere dell’anima” 14, Nerbini, Firenze 2007, pp. 214. ISBN 978-88-88625-68-3. Alessandro CORTESI, Aldo TARQUINI (edd.), La laicità e le radici cristiane in Europa. Questioni aperte, “Le frontiere dell’anima” 7, Nerbini, Firenze 2006, pp.190 [ISBN 88-88625-40-9]. Alessandro CORTESI, Aldo TARQUINI (edd.), Teologia dell’incarnazione oggi. Dio dell’umanità, umanità di Dio, “Frontiere dell’anima” 11, Nerbini, Firenze 2007, pp. 436. ISBN 978-8888625-62-1. Pierpaolo DONATI (ed.), Laicità: la ricerca dell’universale nelle differenze, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 418. ISBN 978-88-15-12636-8. Graziella FAVARO, Lorenzo LUATTI (edd.), L’intercultura dalla A alla Z, Franco Angeli, Milano 2004, pp. 425. ISBN 88-464-5379-4. Silvio FERRARI (ed.), Introduzione allo studio comparato delle religioni. Ebraismo, islam e induismo, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 228. ISBN 978-88-15-12607-8. FONDAZIONE ALDO DELLA ROCCA (ed.), La città. Urbs, Civitas, Diversitas, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp.237. ISSN 0009-8191. Philippe FRIOT, L’Institut des Frères de l’Instruction chrétienne au temps du F. Cyprien Chevreau. 1ère partie : 1861-1879, « Etudes Mennaisiennes » 39, Roma (via della Provvidenza, 44), Septembre 2008, pp. 140. ISSN :1149-1086.


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Sadi MARHABA – Karima SALAMA, L’anti-islamismo spiegato agli italiani. Come smontare i principali pregiudizi sull’islàm, Erickson, Gardolo-Trento 2003, pp. 226. ISBN 978-88-7946551-1

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